Al di qua del logos. Logica delle idee estetiche tra Baumgarten e Kant 8857595072, 9788857595078

L’idea che l’opera d’arte sia dotata di una specifica pregnanza – di un surplus di senso rispetto a quanto si possa logi

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Al di qua del logos. Logica delle idee estetiche tra Baumgarten e Kant
 8857595072, 9788857595078

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Alessandro Nannini è ricercatore presso l’Università di Bucarest. Addottorato in Estetica e Teoria delle arti presso l’Università degli Studi di Palermo (2015), si occupa principalmente di estetica e storia intellettuale del Settecento tedesco. Ha curato con Salvatore Tedesco la nuova edizione italiana dell’Estetica di Baumgarten (2020) e sta curando con Élisabeth Décultot il volume Schriften zu Psychologie und Ästhetik delle Gesammelte Schriften di J.G. Sulzer (2023).

22,00 euro

ALESSANDRO NANNINI AL DI QUA DEL LOGOS

LOGICA DELLE IDEE ESTETICHE TRA BAUMGARTEN E KANT

MIMESIS

ISBN 978-88-5759-507-8 Mimesis Edizioni Filosofie www.mimesisedizioni.it

ALESSANDRO NANNINI AL DI QUA DEL LOGOS

L’idea che l’opera d’arte sia dotata di una specifica pregnanza – di un surplus di senso rispetto a quanto si possa logicamente esprimere a parole – è uno dei cardini della concezione estetica moderna e contemporanea. Da dove deriva questa tesi? Quando si è imposta nel dibattito filosofico? Il presente studio ricostruisce la genealogia di tale concetto, focalizzandosi su due autori cruciali nel dibattito illuministico, Alexander Gottlieb Baumgarten (1714-1762), l’inventore della parola “estetica”, e Immanuel Kant (1724-1804), tra i massimi pensatori di tutti i tempi. Attraverso un percorso dalla retorica antica alla logica moderna, dall’ermeneutica biblica alla psicologia, il volume tesse una fitta rete concettuale che aiuta a decifrare l’origine e la rilevanza storica di un’idea che ancora oggi modella la nostra concezione dell’arte.

MIMESIS / FILOSOFIE

MIMESIS / FILOSOFIE N. 824 Collana diretta da Pierre Dalla Vigna (Università “Insubria”, Varese) comitato scientifico

Paolo Bellini (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como), Claudio Bonvecchio (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como), Mauro Carbone (Université Jean-Moulin, Lyon 3), Antonio De Simone (Università degli Studi di Urbino Carlo Bo), Giuseppe Di Giacomo (Università di Roma La Sapienza), Morris L. Ghezzi (†, Università degli Studi di Milano), Gabriele Giacomini (Università degli Studi di Udine), Giovanni Invitto (Università degli Studi di Lecce), Micaela Latini (Università degli Studi di Ferrara), Enrica LiscianiPetrini (Università degli Studi di Salerno), Luca Marchetti (Università Sapienza di Roma), Antonio Panaino (Università degli Studi di Bologna, sede di Ravenna), Paolo Perticari (†, Università degli Studi di Bergamo), Susan Petrilli (Università degli Studi di Bari), Augusto Ponzio (Università degli Studi di Bari), Riccardo Roni (Università di Urbino), Viviana Segreto (Università degli Studi di Palermo), Valentina Tirloni (Université Nice Sophia Antipolis), Tommaso Tuppini (Università degli Studi di Verona), Antonio Valentini (Università di Roma La Sapienza), Jean-Jacques Wunenburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)

Alessandro Nannini

AL DI QUA DEL LOGOS Logica delle idee estetiche tra Baumgarten e Kant

MIMESIS

MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Collana: Filosofie, n. 824 Isbn: 9788857595078 © 2022 – MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383

INDICE

Introduzione a. Il corno di Amaltea b. Logica delle idee c. La “pregnanza” tra estetica e illuminismo d. Sinossi

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1. I lumi dell’anima a. Chiarezza e confusione b. Chiarezza e intuizione c. Chiarezza e estensione

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2. Pregnanza ed enfasi retorica

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3. Pregnanza ed ermeneutica 

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4. La genesi della pregnanza estetica a. Fecondità b. Pregnanza c. Complessità

75 75 79 85

5. Kant e le idee estetiche: gioco, vivificazione e interesse a. Le idee estetiche in contesto b. Il gioco e la vita c. La levatrice dei pensieri d. Abitare il presente e. Interessante bellezza f. Vivificazione e desiderio

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Bibliografia Ringraziamenti Indice dei nomi

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Et paour ne ayez que le vin faille, comme feist ès nopces de Cana en Galilée. Autant que vous en tireray par la dille, autant en entonneray par le bondon. Ainsi demeurera le tonneau inexpuisible. Il a source vive et veine perpétuelle. F. Rabelais

INTRODUZIONE

a. Il corno di Amaltea La mitologia narra che la capra Amaltea allattò Zeus bambino in una grotta del monte Ida a Creta, al riparo dal padre Crono. Nel giocare con la propria nutrice, l’esuberante Zeus, non ancora del tutto padrone della propria forza, le ruppe una delle corna; per riconoscenza, Zeus diede al corno un potere straordinario: a chiunque lo avesse posseduto, esso avrebbe dispensato ogni sorta di cibo e frutto della natura (cfr. ad es. Pseudo-Apollodoro, Biblioteca, 2, 7.5; Diodoro Siculo, Biblioteca storica, 4, 35.4; 5, 70.2-3). Il cornus copiae, il corno dell’abbondanza, che diverrà un attributo tipico della dea Fortuna, venne a incarnare in ambito cristiano quella dimensione di zampillante pienezza che richiama ad un tempo i doni inesauribili della condizione paradisiaca e la stessa produttività della creazione divina (cfr. Niehle 2018, pp. 9-10). Una tale opulenza non riguarda solo i frutti della natura – le cose – ma anche le parole e i segni impiegati per designarle, come evidente nell’umanista Niccolò Perotti (1430-1480), che alla Cornucopia intitolerà un commentario lessicografico (1489, postumo). In effetti, già nell’ambito dell’antica retorica la “copia” costituiva una virtus oratoria cardinale, con cui si poteva amplificare un certo tema grazie agli strumenti dell’ornato (il kosmos greco). Il punto cruciale è l’equilibrio tra res e verba, tra la materia che l’oratore è in grado di trovare (inventio) e i mezzi stilistici con cui la espone (elocutio), in modo da dire tutto e solo il necessario, evitando il duplice difetto dell’obscuritas e della loquacitas (Eggs 2005). È proprio a un tale equilibrio che Erasmo da Rotterdam (1466/91536) cerca di pervenire nel suo De copia (1512), il trattato più famoso dedicato all’argomento. Se è vero che parole e cose devono essere abbondanti per risultare efficaci, scrive Erasmo, è necessario evitare un’eccessiva prolissità stilistica, che rischia di nascon-

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dere il senso del discorso dietro a una cortina di inutili digressioni e artifici retorici: la soluzione migliore è piuttosto esprimere ogni “res”, ogni cosa, con parole tali per cui si “intende più di quanto è effettivamente udito, e una cosa può essere inferita dall’altra” (Erasmo 1545, p. 271). Ma che cosa sono le “cose” in questo contesto? Secondo l’uso del termine nella tradizione retorica latina, le “cose” non devono essere intese tanto come realtà extramentali, bensì piuttosto come idee (Margolin, Merger 1994), le quali scaturiscono dal discorso anche al di là di quanto è verbalmente comunicato. Nelle parole dell’oratore è infatti presente un residuo non esplicitato che lo stesso ascoltatore deve poter dedurre in maniera tacita. Un simile intreccio di copia e brevitas gode di ampio successo nelle forme brachilogiche della prima modernità, dall’epitaffio all’emblema, dall’adagio al motto (cfr. Cave 1979; Scodel 1991; Jansen 1995). In tali generi, la brevità sentenziosa del messaggio rende possibile condensare il molto nel poco, invitando il lettore a prendere il tempo necessario per riflettere sull’intrico di significati silenziosamente veicolati dalle parole. In questo senso, è chiaro che la “copia” non riguarda solo la dinamica della produzione oratoria o letteraria, ma ha anche un importante riflesso a livello della ricezione. Proprio il passaggio della copia dalla produzione alla ricezione segna la svolta più significativa del concetto in epoca medievale. Con la diffusione degli scriptoria, il copista, colui che produce la “copia”, è innanzitutto colui che trascrive le opere dell’antichità. La copia, declinata al plurale, viene in tal modo a indicare l’insieme di repliche di un originale. Mentre nell’antichità la copia è associata alla dinamicità del discorso orale, dunque, a partire dal Medioevo il concetto di “copia” subisce un’estensione, ma anche un irrigidimento. La dimensione fluida e performativa della copia dicendi si cristallizza nella ripetitività di una scrittura virtualmente sempre uguale a sé stessa. A fronte di questa sclerotizzazione del concetto, la “copia” conserva tuttavia un legame con la dilatazione del pensiero. Le opere dell’antichità, in particolare nel Rinascimento, sono spesso indicate come thesauri o cornucopie di conoscenza e di stile. L’edizione rinascimentale dell’epica omerica, pubblicata da Adriaen de Jonghe (1511-1575) e con i commentari di Eustazio di Tessalonica (1115-1198), si intitola non a caso Copiae cornu sive Oceanus enarrationum homericarum (1558).

Introduzione11

Di fronte alla ricchezza di materiale offerta dai capolavori degli antichi, non si tratta dunque solo di “copiare” nel senso moderno, ma di emulare, di attingere da essi una copiosità di idee non ancora esaurita. Proprio il tentativo di pervenire alle idee ancora latenti o non completamente sviluppate produce un notevole sforzo in ambito ermeneutico negli autori della prima modernità. Più ancora delle opere greche e latine, è in particolare la Scrittura a essere l’oggetto privilegiato di questa indagine. Posto che per i protestanti il senso di ogni passo della Scrittura deve essere chiaro e unico, come aveva stabilito lo stesso Martin Lutero (1483-1546), l’onniscienza divina porta tuttavia a riconoscere nella Scrittura una moltitudine di sensi parziali che arricchiscono il senso primario, incrementandone così la peculiare fecondità. L’interprete dovrà allora districare le inesauribili potenzialità semantiche dei vari brani scritturali, senza la pretesa di poter verbalizzare in modo esaustivo tutte le idee che vi sono contenute. Le idee sembrano qui surclassare le parole usate per esprimerle, chiamando a un compito infinito di pensiero. b. Logica delle idee In un influente articolo del 1955, John Yolton esamina l’importanza crescente delle idee per la teoria della conoscenza nel corso del Seicento. Di contro a impostazioni di stampo aristotelico e realista, autori come Pierre Gassendi (1592-1655) da un lato, Antoine Arnauld (1612-1694) e Pierre Nicole (1625-1695) dall’altro, ricorrono alla nozione di “idea” per indicare il medium della nostra conoscenza. Nonostante la differenza nelle fonti da cui traggono il concetto – la canonica di Epicuro per Gassendi, Descartes per i portorealisti – la “logica delle idee” si impone in modo sempre più capillare nell’Europa della prima età moderna (Yolton 1955). Alla fine del Seicento, il termine “idea” sarà così pervasivo che John Locke (1632-1704) si sentirà in dovere di giustificarne l’onnipresenza ai lettori del suo Essay Concerning Human Understanding (1689): Questo è il termine che serve meglio, credo, per rappresentare qualunque cosa che è l’oggetto dell’intelletto quando un uomo pensa; l’ho quindi usato per esprimere tutto ciò che può essere inteso per imma-

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gine, nozione, specie o tutto ciò intorno a cui lo spirito può essere adoperato nel pensare; e non avrei potuto evitare di servirmene spesso. (Locke 1971, pp. 64-65)

L’affermarsi di una “logica delle idee”, d’altra parte, non costituisce solo un mutamento capitale nell’inquadramento del rapporto tra oggetto conosciuto e soggetto conoscente, con il progressivo imporsi di approcci indiretti e rappresentazionalisti, ma segna anche un ripensamento della stessa concezione della logica (Michael 1997; Schuurman 2004)1. In estrema sintesi, la visione medievale della logica come scientia sermocinalis, già propria di Pietro Abelardo (1079-1142), si focalizzava sulle relazioni inferenziali tra proposizioni; la logica mirava dunque a stabilire regole e tecniche per verificare ciò che consegue e ciò che non consegue da una proposizione data. Con l’avvento dell’umanesimo, si afferma una visione della logica dove l’accento è posto sulla sua utilità per la pratica dell’argomentazione (logica come ars piuttosto che come scienza), privilegiando dunque gli aspetti più informali del pensiero. Il punto è giungere alla verità mediante il discorso, e poiché la base del discorso è il ragionamento, la logica viene spesso vista come una “ars bene ratiocinandi”. Quando con Gassendi le idee iniziano a essere considerate indispensabili per pensare, definire e nominare qualcosa, queste assurgono a fondamento di ogni ragionamento, e dunque della logica stessa come via veritatis (Michael 1997). La logica deve di conseguenza iniziare il proprio percorso da una discussione sulle idee, sul modo di acquisirle e di determinarne la correttezza, per poi considerare le facoltà dell’anima e il loro buon utilizzo2. Se dunque la teoria della conoscenza vira progressivamente verso il modello delle idee, la logica sposta il proprio baricentro dal linguaggio alla teoria della conoscenza, dalla forma del ragionamento al contenuto epistemico. È alla convergenza di tale duplice trasformazione che si colloca la 1 2

Auroux 1993 utilizza l’espressione “logica delle idee” in senso più tecnico, in relazione alla presenza di elementi formali nella logica di Port-Royal. È in preparazione una pubblicazione in cui intendo rileggere la nascita dell’estetica a partire proprio da tale dimensione “facoltativa”. Per quanto strettamente legata alla cosiddetta “logica delle idee”, infatti, la “logica delle facoltà” enfatizza la dimensione pratica piuttosto che quella epistemologica, e merita dunque una trattazione a parte.

Introduzione13

“logica delle idee”. Quando, tra il 1739 e il 1740, il filosofo tedesco Alexander Gottlieb Baumgarten (1714-1762) presenterà le varie parti della filosofia nel suo corso di enciclopedia filosofica, logica e “gnoseologia”3 potranno ormai essere equiparate senza necessità di giustificazione (SC §§ 7; 25). In questa prospettiva, la densità di pensieri cui ho accennato nel primo paragrafo trova un nuovo fondamento. Nel modello logico di Gottfried Wilhelm von Leibniz (1647-1716), la ricchezza nel dominio delle idee appartiene alle idee distinte: le idee distinte, infatti, sono dotate di tratti sufficienti per discernere una cosa da tutte le altre apparentemente simili; tali tratti, peraltro, non dovranno solo essere riconosciuti dal soggetto inquirente, ma dovranno poter essere elencati ed enunciati anche ad altri (Leibniz 1999a, pp. 585-592). La ricchezza di tratti, tuttavia, può essere considerata anche da un diverso punto di vista, che è già ben presente nello stesso Leibniz. Nei Principes de la Nature et de la Grace, fondés en raison (1714), ad esempio, Leibniz afferma che ogni percezione distinta dell’anima comprende in sé infinite altre percezioni confuse che “involvono” (enveloppent) l’intero universo: l’anima umana conosce dunque l’infinito, ma in modo confuso, alla stessa stregua di quando, passeggiando in riva al mare, udiamo indistintamente i rumori delle singole onde (Leibniz 1885, p. 604). Su questa linea, Christian Wolff (1679-1754) riconosce una specifica ricchezza alle idee sensibili o sensuali (ideae sensuales) e ai fantasmi dell’immaginazione, dove i tratti sono confusi tra loro. Le idee sensibili, scrive Wolff4, “involvono” in modo oscuro tutti gli stati del mondo passati, presenti e futuri. Per questo è evidente che alle nostre idee sensibili “ineriscono infinite cose” (Wolff 1734, §§ 184-7), che resteranno al di qua della distinzione razionale. In questo caso la ricchezza di tratti sembra essere alla base non della loro enunciabilità, ma proprio dell’impossibilità di enunciare in modo esaustivo il contenuto di pensiero. Il problema della densità delle idee proveniente dalla retorica e dall’ermeneutica viene qui posto su basi più strettamente epi3 4

Proprio come “estetica”, anche “gnoseologia” è un neologismo di Baumgarten. Già Leibniz scriveva che “le present est gros de l’avenir, le futur se pouvoit lire dans le passé” (Leibniz 1885, p. 604). L’espressione ritorna in diversi altri luoghi dell’opera di Leibniz.

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stemiche. Come rendere conto della peculiarità di pensieri così copiosi da racchiudere in sé stessi un’infinità di altri pensieri? Un tale compito spetterebbe alla disciplina che si occupa delle idee, dunque alla logica. La situazione della logica nel primo Settecento tedesco non sembra però molto favorevole al pensiero sensibile. È questa l’amara constatazione del giovane Baumgarten nelle sue Meditationes philosophicae de nonnullis ad poema pertinentibus (1735). La logica, che dovrebbe essere deputata alla retta guida di tutte le facoltà conoscitive dell’anima, dunque anche delle facoltà inferiori con cui conosciamo in modo indistinto e sensibile i nessi di cose5, non è all’altezza del compito assegnato (Baumgarten 1999, § 115). La logica, infatti, tende a concentrarsi sulla sola facoltà conoscitiva superiore, e quindi sulle rappresentazioni distinte. Se la logica non compie il suo dovere, sarà allora necessario istituire una nuova disciplina che tratti delle facoltà inferiori e della conoscenza sensibile – insomma, una “gnoseologia inferiore” (AE § 1). Tale logica dell’aisthesis altro non è che l’estetica, la scienza della conoscenza sensibile (AE § 1), che Baumgarten introduce come disciplina filosofica proprio nel finale delle Meditationes (Baumgarten 1999, § 116). Sarà dunque innanzitutto l’estetica a doversi occupare di quei pensieri così densi e copiosi da restare indistinti all’intelletto umano. Per definire una simile densità, Baumgarten ricorrerà alla nozione di pregnanza (M § 517). c. La “pregnanza” tra estetica e illuminismo La metafora della pregnanza, che dal punto di vista etimologico fa riferimento al fatto di contenere qualcosa prima della sua nascita (prae-gnans), esprime l’inerenza e l’implicazione di elementi che sono in un certo senso latenti o non completamente enunciabili (Adler 1990, pp. 92-93; Adler 1998; Waltenberger 2019). 5 In Baumgarten, l’ambito del “sensitivum”, del sensibile, comprende non solo le rappresentazioni ricavate dai sensi, a cui viene riservato il termine “sensuale”, ma anche le rappresentazioni di tutte le facoltà conoscitive inferiori, e dunque anche l’immaginazione, la perspicacia, la memoria, la facoltà poetica, il gusto, la facoltà di prevedere e di presagire, la facoltà caratteristica. Sulla differenza tra sensuale e sensitivum in Baumgarten, cfr. Nakazawa 2009, pp. 226 e ss.

Introduzione15

Nella sua capacità di abbracciare un massimo di significato in un minimo di significante, la pregnanza era originariamente riferita al senso di uno scritto, qualora esso contenga più pensieri di quelli espressi verbalmente. Tucidide fungeva da esempio classico al riguardo, per l’abilità di stipare più idee di quelle esplicitamente veicolate dalle parole; nell’ermeneutica luterana, ad ogni modo, il senso pregnante verrà attribuito in particolare alla Scrittura, la cui origine divina, come accennato sopra, garantisce un’impareggiabile ricchezza semantica. Quando Baumgarten si troverà ad affrontare il problema della densità di pensieri a partire dal retroterra leibniziano e wolffiano della “involutio idearum”, questi adotterà il medesimo concetto in uso in ambito ermeneutico. Transitando dall’ermeneutica alla gnoseologia, tuttavia, la pregnanza non si riferirà più alla questione del senso dei testi, ma alla questione del sensibile, o meglio alla dimensione di senso dischiusa dal sensibile stesso. Se l’estetica nasce anche come una specifica logica delle idee, le idee dell’estetica troveranno proprio nella pregnanza il loro carattere più peculiare. È questa l’ipotesi che intendo sviluppare nella presente ricerca in relazione tanto alle “idee chiare e confuse” di Baumgarten quanto allo “idee estetiche” di Kant. Non si tratta solo di verificare i rapporti tra l’ermeneutica della prima modernità e la nascita dell’estetica, rapporti peraltro ancora poco noti alla ricerca; si tratta anche di comprendere il modo con cui l’estetico si appropria di quella pienezza di senso secondo la sua particolare pronuncia. Proprio l’intreccio tra la matrice originariamente ermeneutica e la nuova configurazione estetica porterà la pregnanza, assieme alle sue filiazioni concettuali della “significanza” (Bedeutsamkeit) e della “plurivocità” (Vieldeutigkeit), a essere riconosciuta come un tratto cruciale delle opere letterarie e infine delle opere d’arte tout court non solo nel tardo illuminismo6, ma anche nella fase romantico-idealistica (Brunemeier 1983; Scholtz 1991; Gabriel 2008; Rodi 2015; Niehle 2018). 6

Si ricordi la fortuna del “momento fecondo” o “pregnante” di cui parla Lessing nel Laocoonte (1766), sul quale mi soffermerò in Nannini 2023a, o la pregnanza dell’oscuro in Herder (Adler 1990). Per altri esempi, cfr. infra, cap. 5.

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Mediante la nozione di “simbolo”7 in Goethe (1749-1832), la pregnanza arriva al Novecento, tanto alla psicologia della Gestalt quanto al pensiero di Ernst Cassirer (1874-1945), che parlerà di “pregnanza simbolica” per indicare il modo in cui ogni vissuto di percezione racchiude in sé e porta a concreta e immediata espressione un determinato senso non intuitivo, rimarcando così il fondamento aistetico del pensiero (Cassirer 1954, p. 235; cfr. Gross 2001; Spree 2003). Nell’Essay on Man (1944), la pregnanza verrà a caratterizzare la stessa esperienza estetica, che trova espressione nel processo di concrezione proprio dell’arte: “L’esperienza estetica è incomparabilmente più ricca [della mera esperienza sensoriale]. È gravida di (pregnant with) infinite possibilità che nella comune esperienza sensoriale restano latenti; soltanto nell’opera dell’artista esse vengono in atto” (Cassirer 2004, p. 254, trad. modificata). Se l’arte esibisce una vicinanza all’enigma, come suggerirà Theodor W. Adorno (1903-1969) nella Teoria estetica (1970, post.) e in generale un carattere di indeterminatezza (Iser 1970), proprio il ricorso alla nozione di pregnanza sembra poterne garantire una dimensione cognitiva al di là del dominio della conoscenza proposizionale (Bromand, Kreis 2010; Gabriel 2019). La discussione sulla pregnanza, peraltro, non rimane prerogativa della filosofia continentale, giungendo a mostrare i propri riflessi anche in autori più vicini all’ambito analitico, come Monroe Beardsley (1915-1985), in cui il “principio di pienezza” della poesia richiama da vicino la nozione di “pregnanza”8, e soprattutto Nelson Goodman (1906-1998). Interrogando in termini semiotici il potenziale cognitivo di quegli ambiti di esperienza che vengono abitualmente designati come estetici, Goodman individua notoriamente una serie di sintomi dell’estetico (densità sintattica; densità semantica; saturazione sintattica relativa; esemplificazione; riferimento multiplo e complesso). Pur nelle loro differenze tecniche, i 7

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La dimensione simbolica “trasforma il fenomeno in idea, l’idea in immagine, in tal modo che l’immagine rimane sempre infinitamente efficace e inaccessibile e, anche se pronunciata in tutte le lingue, resta tuttavia inesprimibile”, cfr. Goethe 1983, massima 1113. Della vasta letteratura sul simbolo in Goethe, cfr. almeno Fricke 2001. “All the connotations that can be found to fit are to be attributed to the poem: it means all it can mean, so to speak”, cfr. Beardsley 1958, p. 144.

Introduzione17

suddetti indizi suggeriscono la comune idea di una specifica densità nella prensione del senso dei fatti estetici, fornendo gli strumenti analitici per ripensare il dominio problematico della pregnanza alla stregua di strutture sintattiche e semantiche di sistemi simbolici non notazionali (Goodman 1968, ed. it. 2001; cfr. Ortland 1999; Gabriel 2000; Peres 2000). La genesi della pregnanza estetica nell’età dell’illuminismo, d’altra parte, non è solo cruciale per la successiva riflessione sull’estetico, ma consente anche di osservare in filigrana lo stesso “illuminismo” in cui viene teorizzata. La pregnanza, infatti, è pensata non solo in termini di spazio, come densità o concentrazione di tratti, ma anche in termini temporali: la pregnanza estetica è in tal senso il momento della luce incipiente, quando la visibilità non è ancora sufficiente per distinguere i singoli tratti delle cose9. Ora, il portare alla luce, e dunque alla coscienza, ciò che è oscuro rappresenta la radice originaria del concetto di illuminismo nella sua pronuncia tedesca di Aufklärung (Hinske 1990, pp. 413-414; Fulda 2022, pp. 37-42)10. Nell’Acroasis logica, pubblicata nel 1761, ma elaborata a partire dalla fine degli anni Trenta, Baumgarten utilizza proprio il termine tedesco “Aufklärung” per designare “l’azione per mezzo della quale si ottiene il grado della chiarezza nel concetto” (Baumgarten 1761, § 119). L’Aufklärung ha dunque a che fare qui con la chiarificazione dell’oscuro, e non già immediatamente con l’acquisizione della distinzione, che prevede la risoluzione dei concetti nelle loro componenti più semplici; Aufklärung è dunque propriamente “declaratio”, transizione dall’oscurità alla chiarezza, piuttosto che analisi o anatomia concettuale. Una tale transizione, che reca in sé il marchio del continuismo leibniziano, coglie il momento liminale dell’illuminazione, in cui la notte dell’anima inizia a dissiparsi: “Prima del pieno sorgere del sole viene l’oscurità, il crepuscolo e 9

Un tale aspetto emergerà con evidenza nel sollevamento del fondo dell’anima alla base dell’impeto estetico, cfr. infra, cap. 4, dove dirò anche della dimensione più “notturna” della pregnanza. 10 Fulda ha argomentato con dovizia di dettagli che l’immagine metereologica del sole che penetra le nuvole è alla base del campo semantico dell’aufklären nel primo Settecento tedesco; a sua volta, tale immagine sarà poi spesso usata in senso metaforico per illustrare il nuovo significato cognitivo dell’Aufklärung.

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l’aurora” (Köhler 1740, pp. 458-459), scriveva Heinrich Köhler (1685-1737), maestro di Baumgarten all’università di Jena. Già in Wolff, peraltro, era evidente che l’oscurità non può essere del tutto eliminata dall’anima (Wolff 1720a, § 285); la ragione umana, scrive il filosofo e teologo luterano Israel Gottlieb Canz, è solo un “fioco barlume” (exigua lucula), che non potrà mai misurare o illustrare l’immensa distesa di tenebre che la circonda11 (Canz 1737, p. 95). Il rischiaramento, l’Aufklärung, non indica dunque soltanto la successione di due periodi distinti, l’oscurità e la chiarezza, ma anche la fase della loro massima interferenza, sospesa tra la notte precosciente e la distinzione razionale. Su quel bagliore antelucano, nella sua pregnante compresenza di luce e oscurità, l’estetica reclama i suoi diritti. Non è un caso che Baumgarten riprenda l’immagine del rischiaramento di Köhler nel famoso motto “Ex nocte per auroram meridies”12 (AE § 7) per difendere la legittimità dell’estetica come scienza dello stadio aurorale della conoscenza. Il dominio della pregnanza estetica e il dominio dell’illuminismo sembrano in tal senso sovrapporsi. Se l’estetica si pone come logica delle idee pregnanti, essa sarà dunque anche un’epistemologia dell’illuminismo. Da questo punto di vista, l’estetica è un’epistemologia dell’illuminismo non solo perché è nell’epoca dei Lumi che essa si configura per la prima volta come una specifica teoria della conoscenza (genitivo soggettivo), ma anche perché l’estetica si incarica di tematizzare la dinamica del rischiaramento in cui consiste la stessa Aufklärung (genitivo oggettivo). Se la riflessione successiva identificherà il proprium dell’Aufklärung nella progressione della chiarezza verso gradi sempre più alti di luminosità, come già evidente nel maestro di Kant Martin Knutzen (1713-1751) (Knutzen 1747, §§ 365-6), l’estetica si riserva come suo dominio peculiare quella fase di chiarezza incipiente, che può certo evolvere nella luce zenitale del meriggio, ma che può anche trovare una propria perfezione nella stessa dimensione dell’auroralità. È nel chiarore incerto del crepuscolo mattutino che l’estetica fa il suo esordio come disciplina filosofica. 11

Per un commento sul ruolo di Canz nella mediazione tra Wolff e Baumgarten, cfr. Nannini 2021a, pp. 59 e ss. 12 Cfr. su questo Schwaiger 2011, p. 27, nota 35. Per i legami tra crepuscolo e luce estetica, cfr. Berndt 2020, pp. 102-109.

Introduzione19

d. Sinossi Proprio dalla discussione della chiarezza prende le mosse questo volume. Nel primo capitolo, esaminerò dunque la chiarezza confusa, dove la compresenza tra luce e oscurità è più manifesta: si tratterà di ricostruire la linea genetica di questo problema tra Leibniz e Wolff, con aperture sia alla tradizione scotista, che aveva già discusso il valore epistemico della confusione, sia al dibattito più prossimo a Baumgarten, con particolare riferimento a uno dei suoi maestri, Johann Peter Reusch (1691-1758). Particolare attenzione sarà dedicata alla nozione di “chiarezza estensiva”, che rappresenta la novità concettuale più importante nell’approccio di Baumgarten e il punto di partenza del suo stesso progetto estetico. Nel secondo capitolo, mi concentro più direttamente sulla questione della pregnanza. Se la chiarezza estensiva è una modalità della pregnanza in cui la chiarezza prevale sull’oscurità, l’idea di pregnanza non esclude la possibile prevalenza dell’oscuro. A questo scopo, l’esame inizia dalla tradizione retorica dell’enfasi, che aveva valorizzato l’elemento implicito del pensiero a scopo persuasivo. Il punto è quello di mostrare come una tale nozione, spesso ignorata nella letteratura su Baumgarten, fornisca una chiave essenziale per comprendere la genesi della pregnanza estetica. Nel terzo capitolo, affronto il problema della pregnanza nella riflessione ermeneutica della prima modernità, in particolare nell’ambito protestante (Flacio Illirico; Glassius; Clauberg; Coccejus; Joachim Lange; Siegmund J. Baumgarten). Sulla base di questo contesto, intendo mostrare nel quarto capitolo la strategia con cui Baumgarten, nel configurare la dottrina della pregnanza del sensibile, associ originalmente elementi della metafisica leibniziana con idee provenienti dall’interpretazione scritturale. In tal modo sarà possibile estendere il focus della ricerca sulla pregnanza, che si è concentrata finora sulla fine del Settecento e la Goethezeit, alla fase in cui il concetto migra dall’ambito ermeneutico all’ambito estetico. Nel quinto capitolo, analizzo la nozione di “idea estetica” in Kant, mettendo in luce il modo in cui il filosofo di Königsberg si appropria della questione della pregnanza nel suo rapporto con la bellezza. Se una serie di studiosi sin dal primo Novecento hanno sottolineato l’influenza della “perceptio praegnans” di Baumgarten

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sull’idea estetica di Kant, il problema della pregnanza delle idee estetiche presenta ancora diverse zone d’ombra; tra queste, il nesso con la vivificazione dell’animo – un tema centrale già per Baumgarten – e con l’interesse estetico, che una lunga tradizione storiografica ha posto ai margini della ricerca sull’estetica kantiana a favore del più noto “disinteresse”. Proprio articolando questi elementi alla luce del retroterra filosofico con cui Kant si confronta, sarà possibile apprezzare meglio l’originalità della sua proposta teorica nel delineare la pregnanza dell’estetico.

1. I LUMI DELL’ANIMA

Tendono alla chiarità le cose oscure. E. Montale

a. Chiarezza e confusione Nella Psychologia empirica (1732), Christian Wolff chiama “lume dell’anima”1 la chiarezza delle percezioni; l’anima è dunque illuminata nella misura in cui percepisce chiaramente, così da essere cosciente di ciò che percepisce (PE § 35). Al contrario, l’oscurità delle percezioni costituisce le “tenebrae in anima” (PE § 36). Beninteso, si affretta a precisare Wolff, luce e illuminazione devono essere qui intese non in un senso teologico, ma in un senso squisitamente filosofico, che si ottiene estendendo il significato materiale dei termini al linguaggio psicologico: come l’occhio non può vedere nulla senza luce, così la mente non può essere cosciente di ciò che percepisce senza la chiarezza delle percezioni (PE § 35, scolio). Ma cosa dobbiamo intendere con “chiarezza”? Come noto, la questione della chiarezza riveste un’importanza centrale nella filosofia moderna. Già a partire da René Descartes (1596-1650) la chiarezza rappresenta un criterio fondamentale di verità. In tutta brevità, per Descartes è chiara una percezione che non passa inosservata ad uno spirito attento, mentre è distinta una percezione che non può essere fraintesa da chi la considera come si deve (AT IX/2, pp. 44-45). A partire dalla formulazione cartesiana e dal dibattito sulla natura delle idee tra Arnauld e Malebranche (1683-1685)2, Leibniz 1 2

Sulla questione del “lumen animae” nella prima età moderna, cfr. Jolley 1990. Il fondamento della discussione sta in una duplicità nel dettato cartesiano riguardo alla natura delle idee: da un punto di vista materiale, afferma Des-

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riconoscerà una serie di gradi della conoscenza umana nelle Meditationes de Cognitione, Veritate et Ideis (1684): “La conoscenza è oscura o chiara, quella chiara confusa o distinta, e quella distinta inadeguata o adeguata, e ancora o simbolica o intuitiva: qualora sia insieme adeguata e intuitiva, essa è perfettissima” (Leibniz 1999a, pp. 585-586). La chiarezza di un’idea, in particolare, coincide con la possibilità di riconoscere l’oggetto rappresentato (Leibniz 1999a, p. 586). Superiore, dunque, alla conoscenza oscura, incapace di garantire una qualche forma di riconoscimento, la chiarezza include tanto il livello della confusione quanto il livello della distinzione. Nella chiarezza confusa il riconoscimento avviene per semplice testimonianza dei sensi (simplici sensuum testimonio): è questo il caso degli odori o dei colori, in cui non possiamo enumerare ed enunciare ad altri le note sufficienti per distinguerli, ma è anche il caso dei pittori e di altri artisti, i quali spesso non possono rendere ragione dei propri giudizi, rinviando a un non meglio specificato “non so che”3. Nella chiarezza distinta, al contrario, è possibile indicare – alla stregua degli scienziati nel caso dell’oro – i tratti caratteristici (le notae) che differenziano una cosa da ogni altra cosa apparentemente analoga (Leibniz 1999a, pp. 586-587). Una tale classificazione della conoscenza è cruciale per l’epistemologia di tutto l’illuminismo tedesco, a partire da Christian Wolff. Nonostante la continuità dei termini e l’iniziale adesione entusiastica alla proposta leibniziana (Wolff 1713, “Vorrede”, s.p.), Wolff introduce una serie di importanti modifiche rispetto a quest’ultima4. Per i nostri scopi, è sufficiente soffermarci su alcuni elementi della posizione wolffiana, a partire dall’ambito di applicazione della dottrina dei gradi percettivi. L’interesse di Leibniz nelle Meditationes era di natura logica, legato quindi alla formulazione di definizioni,

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cartes, l’idea è un’operazione dell’intelletto; da un punto di vista oggettivo, l’idea è la cosa rappresentata da quella operazione mentale (AT VII, p. 8). Per Malebranche, l’atto percettivo, di per sé non rappresentazionale, ha come oggetto un’entità rappresentazionale, l’idea, che sta nella mente di Dio; per Arnauld, l’atto percettivo è di per sé rappresentazionale, senza dover introdurre un tertium tra pensante e mondo, cfr. Wahl 1988. Per la rilevanza estetica di questa nozione, cfr. D’Angelo, S. Velotti 1997. Per una trattazione completa delle differenze, cfr. l’eccellente excursus di Schwaiger 1995, pp. 139-153.

I lumi dell’anima23

come lo era per Scoto, a cui questa classificazione è improntata5: avere una conoscenza chiara e distinta di qualcosa significa essere in grado di fornirne la definizione nominale, mentre averne un concetto adeguato significa poterne dare la definizione reale, e quindi risolvere il concetto nei suoi elementi semplici (Couturat 1961, p. 198). Rispetto a questo inquadramento, Wolff opera un significativo ampliamento. Wolff, infatti, estende in modo sistematico l’applicazione della dottrina dall’ambito logico dei concetti all’ambito psicologico, e dunque metafisico, delle percezioni6, nella misura in cui entrambi questi ambiti si fondano su un medesimo presupposto mutuato dall’ottica7. È infatti l’atto del vedere a costituire per Wolff il modello di ogni percezione e ogni concetto8: La visione è una specie di sensazione, dunque deve avere elementi in comune con le altre specie all’interno del medesimo genere […]. Del pari, la sensazione è una specie di percezione […], e dunque, di nuovo, deve avere elementi comuni con le altre percezioni […]. Allo stesso modo, è evidente che ci devono essere elementi comuni anche tra concetti e percezioni. (PE § 76, scolio)9

Quando vediamo un albero, afferma Wolff, vediamo insieme i rami, le foglie, il tronco, ecc., così come, ad es. il fatto che le foglie sono verdi. Su questa base, possiamo ritenere che la percezione 5

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Cfr. Scotus 2004, p. 616: “Distincte concipitur quod secundum hoc concipitur, secundum quod ab aliis distinguitur. Confuse concipitur quod indistincte”; Scotus 1954, vol. 3, dist. 3, q. 2, n. 72: “[C]onfuse aliquid dicitur concipi quando concipitur sicut exprimitur per nomen, distincte, quando concipitur sicut exprimitur per definitionem”. Già Croce aveva sottolineato che “la cognitio confusa di Duns Scoto operò nel leibnizianismo e attraverso esso produsse l’Aesthetica del Baumgarten”, cfr. Croce 1991, p. 94. Per maggiori dettagli, cfr. Rentsch 2011, pp. 364-370. Goldenbaum ha sottolineato l’importanza del confronto giovanile di Leibniz con il Tractatus theologico-politicus di Spinoza per l’elaborazione del termine tecnico “idea clara et confusa”, cfr. Goldenbaum 2011. Sulla differenza già in Leibniz tra percezioni distinte e idee distinte (che richiedono la presenza della ragione), cfr. Brandom 1981, pp. 455-459. “[…] non alia vero est perceptionum differentia, quam notionum in Logicis explicata”, PE § 30, scolio. Cfr. anche § 50. Sul modello ottico in Wolff, cfr. Schwaiger 1995, pp. 147-153; Pimpinella 2005, pp. 47-56. Per Leibniz, la confusione o la distinzione concettuale aveva un legame solo analogico con la confusione o la distinzione oculare, cfr. McRae 1978, p. 128.

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composita è costituita da un insieme di percezioni particolari, che comprendono le percezioni delle sue parti e delle sue determinazioni (PE § 40, e scolio)10. In tal senso, le percezioni particolari corrispondono alle note, e dunque ai tratti che consentono di riconoscere una cosa e distinguerla dalle altre11. Se messe assieme in modo simultaneo, le percezioni parziali costituiscono una percezione totale, che rappresenta un primo livello di sintesi della conoscenza (PE § 43; su questo tema cfr. Mei 2007). L’adozione di un modello ottico della conoscenza porta a mettere l’accento su alcuni elementi che spostano il baricentro del problema rispetto alle Meditationes di Leibniz. Nella percezione di un albero, ad esempio, noi registriamo anche una serie di note che non servono a formare una definizione12. La presenza di percezioni parziali nella percezione composita dipende infatti dalla dimensione ontologica dell’oggetto piuttosto che dal nostro sforzo epistemico verso una maggiore distinzione. Ciò sarà vero in particolare quando ci rappresentiamo degli enti singolari che sono completamente determinati, e dunque dispongono in generale di determinazioni più numerose rispetto agli universali (Wolff 1730, §§ 225-30)13. Tale ricchezza ontologica non può essere colta distintamente da un ente finito come l’uomo. Se l’intelletto umano è limitato sia per il nu10 Nella Psychologia empirica Wolff afferma che in senso tecnico la “rappresentazione” in quanto riferita alla cosa che rappresenta è “idea”; la rappresentazione intesa come atto mentale è percezione; da ciò si distingue ancora l’appercezione, che è l’atto con cui la mente è consapevole della rappresentazione (PE § 48). In generale, comunque, idee e percezioni valgono come sinonimi (§ 43, scolio). L’idea è inoltre distinta dalla notio (nozione o concetto) (§ 50 scolio): se quest’ultima è rappresentazione dell’universale (§ 49), e richiede un processo astrattivo, l’idea è immagine di cose singolari (§ 52, scolio). La conoscenza, infine, è l’atto con cui l’anima acquisisce l’idea o la nozione di una cosa (§ 52). Questi e altri termini del vocabolario epistemologico wolffiano latino e tedesco sono ampiamente illustrati in Rumore 2007, cap. 2. 11 “Notas appello rebus intrinseca, unde agnoscuntur & a se invicem discernuntur”, cfr. Wolff 1728, § 79. Come giustamente rileva Rumore, la corrispondenza logico-ontologica tra note e proprietà della cosa adottata da Wolff è strettamente legata al modo di intendere la rappresentazione dell’anima come “rappresentazione del composto nel semplice”, e dunque come immagine immateriale diversa da tutte le immagini materiali del mondo fisico, cfr. Rumore 2007, pp. 52-54 e 114-115, nota 119. 12 Cfr. Schwaiger 1995, p. 148. 13 Cfr. Andersen 1983, cap. 1.2.

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mero di cose che può conoscere sia per il grado di chiarezza che può raggiungere, come lo stesso Wolff non manca di rimarcare (PE § 279), la conseguenza è che molte determinazioni di questi enti saranno bensì percepite, ma solo in modo indistinto. Nell’indistinzione sembra quindi albergare una maggiore densità di note rispetto alle stesse percezioni distinte. Quella che dal punto di vista logico è una carenza di caratteri distintivi potrebbe allora non essere dovuta alla loro effettiva assenza, ma alla loro concentrazione troppo elevata per consentire una rappresentazione distinta della cosa al nostro intelletto limitato. Il presupposto necessario per questo sviluppo teorico consiste nella nuova importanza del tema delle note già a livello della chiarezza anziché solo a livello della distinzione come era per Leibniz. Nella Logica latina (1728), Wolff afferma che un concetto (notio) è considerato chiaro se esibisce le note sufficienti alla sua riconoscibilità; se le note esibite sono insufficienti, il concetto è oscuro (Wolff 1728, § 80). In questo modo, la chiarezza non sarà qualcosa di presente o assente in un concetto, ma ammetterà una serie di gradi in base alla quantità di note conosciute14, e potrà, a seconda dei casi, sfumare in distinzione (Wolff 1720a, § 211)15 o in oscurità (Wolff 1713, cap. 1, § 9)16. Un tale aspetto sarà ulteriormente sviluppato in ambito psicologico, dove la chiarezza è considerata in relazione alle percezioni piuttosto che ai concetti17. Nella Psychologia empirica (1732), Wolff afferma che la maggiore o minore chiarezza di una percezione composita dipende dalla maggiore o minore chiarezza delle sue percezioni particolari ovvero delle sue note. Se le percezio14 Brandom sottolinea che è sbagliato a rigore parlare di dottrina dei gradi di chiarezza per Leibniz, cfr. Brandom 1981, p. 453. Sull’estensione della gradualità alla chiarezza e all’oscurità in Wolff, cfr. Schwaiger 1995, pp. 143-144. 15 “Es erhellet hieraus zugleich, daß die Klarheit immer einen Grad tiefer herunter kommet als die Deutlichkeit. Der erste Grad der Klarheit hat keine Deutlichkeit […]; mit dem andern Grade der Klarheit fänget sich der erste Grad der Deutlichkeit an”. 16 “Es hat aber diese Dunckelheit verschiedene Grade”. 17 In base al ruolo paradigmatico della visione nel processo di conoscenza, la chiarezza di una percezione sarà relativa alla riconoscibilità di una cosa rispetto alle cose più prossime nell’ambiente circostante anziché alla riconoscibilità di una cosa rispetto a cose simili, cfr. Schwaiger 1995, p. 149.

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ni particolari sono chiare, e dunque enunciabili separatamente, la percezione composita è distinta (PE § 41). In una percezione chiara e confusa, al contrario, non è possibile distinguervi degli elementi enunciabili separatamente (PE § 39). Come è evidente, un simile approccio sposta l’accento della distinzione dalla distinguibilità di una cosa dall’altra sulla base della conoscenza delle note, come ancora per Leibniz, alla distinguibilità delle note tra loro in seno a una medesima percezione. In tal modo, Wolff mette in primo piano la strutturazione interna della percezione, in cui il grado di chiarezza dipende dal grado di chiarezza delle sue percezioni particolari18. Con un’impostazione come questa, la non distinguibilità dei singoli elementi, e dunque la confusione di una percezione, sarà equiparata alla con-fusione di tali elementi. Una tale dimensione non era ignota a Leibniz che le attribuiva un importante valore epistemico. Proprio in quanto la confusione non permette l’enumerazione delle singole note presenti nella cosa, essa consente di cogliere il senso di un tutto, come un colore o una melodia, ma anche il senso del tutto, dell’intero universo, la cui rappresentazione è confusamente presente nelle pieghe di ciascuna monade19. L’aspetto olistico della confusione, che aveva tracce già in Scoto, è spiegato da Leibniz al proprio ex segretario privato Rudolph Christian Wagner (1671-1741) con l’esempio dei colori. Per quanto la sensazione di un colore si presenti come semplice, argomenta Leibniz, ciò è vero solo in apparenza: non potremmo infatti percepire il colore verde senza aver percepito insensibilmente il giallo e il blu. Forse solo usando un microscopio – aggiunge Leibniz – le singole componenti cromatiche potrebbero giungere a visibilità (Leibniz 1890, p. 529). È evidente che alla base dell’esempio vi sia la teoria delle “piccole percezioni”, di cui diventiamo coscienti solo quando aggregate assieme in numero notevole20. L’esempio, ad ogni modo, è interessante anche per quello che suggerisce sulla ma18 Cfr. Schwaiger 1995, pp. 146-149, anche per la differenza tra distinzione della percezione e distinzione del concetto. Cfr. inoltre La Rocca 2006, p. 28. 19 Cfr. su tali aspetti Barnouw 1995, pp. 30-33. 20 Su questo, oltre a Barnouw, cfr. Nakamura 2008; Otabe 2010; Beiser 2010, pp. 38-39.

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niera di tale aggregazione. Il caso dei colori fa pensare ai pulviscoli preparati dai pittori per creare nuovi composti cromatici. Anche Wolff parlerà della mescolanza dei pigmenti a scopo illustrativo – nel suo caso, per indicare il modo con cui le diverse percezioni parziali degli oggetti a noi esterni (tronchi, rami, ecc.) si “confondono” in un’unica idea sensuale (albero) (PR § 97)21. Wolff, però, distingue con attenzione la commixtio dalla mixtio in sede cosmologica: mentre nella commistione, come quella dei pigmenti, le parti originarie sono semplicemente giustapposte e tangenti le une alle altre, nella miscela, come quella di due fluidi, gli ingredienti formano un prodotto che è qualitativamente diverso dalle componenti di partenza (Wolff 1731a, §§ 252-3). Alla luce di tale distinzione, Wolff ritiene che l’immagine più adeguata per riferirsi alle percezioni e ai concetti confusi in generale sia la mixtio e non la commixtio (“[…] apparet notiones confusas & perceptiones confusas instar mixti alicujus concipi posse”, PE § 524, scolio). La con-fusione che dà origine alle percezioni confuse è dunque per Wolff più simile a una miscela che non a una commistione. Una tale questione viene ulteriormente elaborata nella Metaphysica (1739; 1757, IV ed.) di Baumgarten. Anche in Baumgarten la mancata distinzione delle note porta a una sorta di miscela di percezioni dotate di diversi gradi di chiarezza: Chi pensa a qualcosa in modo confuso non distingue le sue note, sebbene le rappresenti o le percepisca. Infatti, se uno distinguesse le note di qualcosa confusamente rappresentato, allora penserebbe distintamente ciò che rappresenta confusamente. Se uno non percepisse per nulla le note di qualcosa confusamente rappresentato, allora non 21 “Si plures sensationes confusae diversae confunduntur in unam; idea sensualis, quae inde resultat, diversa apparet ab iis, quae confunduntur. […] Patet idem a posteriori. Etenim si colores siccos contritos commisceas; nudo oculo qui apparet color, diversus ab utroque colore, quem habent particulae pulverum commixtorum”. Cfr. Mei 2007, p. 101. Nel caso della commistione dei pigmenti, la confusione è dovuta dunque alla limitatezza dell’occhio più che a un mutamento qualitativo dei corpuscoli (anche per Wolff i pulviscoli di colore osservati al microscopio appaiono distinti). La metafora della commistione si rivela in questo caso adeguata dal momento che per Wolff le idee sensuali possono essere distinte, e dunque devono consentire la separazione delle percezioni parziali (PR § 158).

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sarebbe in grado di distinguere per loro mezzo la cosa percepita confusamente dalle altre. Dunque, chi pensa confusamente qualcosa rappresenta alcune cose oscuramente. (M § 510)

Con tale affermazione, Baumgarten mette a frutto le innovazioni wolffiane ai propri scopi: nel suo gradualismo percettivo, Wolff aveva ammesso che anche nelle rappresentazioni distinte di un ente finito come l’uomo permane sempre molta indistinzione e oscurità22; inoltre, come appena visto, il filosofo di Breslavia aveva inteso la confusione percettiva come una sorta di “miscela”. Ora Baumgarten intreccia tali assunti in una nuova sintesi. In primo luogo, Baumgarten rende esplicito che gli elementi della miscela sono le note della percezione. In questo senso, la differenza tra confusione, distinzione e oscurità di una percezione dipenderà dalla quantità delle note a diversi gradi di chiarezza presenti in tale percezione, e dunque dal “dosaggio” dei “miscibilia”: Rappresento a me stesso delle cose tali per cui alcune delle loro note sono chiare, e altre sono oscure. Una tale percezione è distinta in relazione alle note chiare, ed è sensibile in relazione alle note oscure. Dunque è distinta una percezione alla quale è mescolato (admixtum) qualcosa della confusione e dell’oscurità, ed è sensibile una percezione a cui inerisce qualcosa della distinzione. (M § 522)23

Come emerge da questo passaggio, ad ogni modo, lo stesso concetto di miscela è problematico. Baumgarten, in effetti, non parla di “mixtio” (e neppure di “commixtio”), ma di “admixtio”. L’immagine veicolata non è quella di un composto omogeneo prodotto da un amalgama di componenti eterogenee, ma l’aggiunta di una componente minoritaria a una base omogenea; fuor di metafora, Baumgarten suggerisce che in un dato insieme percettivo vi è un 22 Wolff scriveva che “bei der Deutlichkeit beständig noch viel Undeutlichkeit und Dunckelheit übrig bleibet”, cfr. Wolff 1720a, § 285. Cfr. su questo Tedesco 2008, p. 226. Come scrive La Rocca, in Wolff la componente oscura è qualcosa che non c’è più o che avrebbe potuto essere presente, e dunque esprime l’incapacità di avere una rappresentazione adeguata dell’oggetto percepito, cfr. La Rocca 2006, p. 27, nota 28. 23 Nel paragrafo precedente Baumgarten aveva stabilito che una “rappresentazione sensibile” (repraesentatio sensitiva) è una “rappresentazione non distinta” (M § 521).

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certo numero di percezioni con il medesimo livello di chiarezza, a cui si associano altre percezioni con un grado di chiarezza diverso (cfr. anche M §§ 544; 692; 695; 720). Proprio il passaggio inappariscente da “mixtio” a “admixtio” consente di estendere la portata di applicazione della metafora. Se infatti la “mixtio” caratterizzava per Wolff solo la conoscenza confusa, l’admixtio caratterizza in Baumgarten tutte le percezioni che vanno dall’oscurità lumeggiata appena da qualche elemento di chiarezza fino alla massima distinzione accessibile all’uomo. La con-fusione come admixtio assurge così a fondamento essenziale della stessa dinamica percettiva nel suo insieme. Da questo punto di vista, la miscela di note chiare e note oscure (“Mischung vom Klaren und Dunkeln”, K § 80) che caratterizza specificamente le percezioni confuse non è l’unica forma possibile di coalescenza percettiva, ma dovrà più esattamente essere intesa come quella mescolanza in cui qualche elemento di distinzione inerisce a percezioni per altro verso oscure. Proprio la natura del nesso percettivo sotteso all’admixtio merita attenzione. Più che un mutamento qualitativo come quello evocato dall’immagine della miscela in Wolff, Baumgarten sembra suggerire ora un rapporto di “adesione” di un insieme di note a un altro insieme prevalente all’interno di una data percezione. Come vedremo nel cap. 4, tale dimensione sarà alla base della nozione di “complessità”, dove l’immagine implicita dell’intreccio, del “cum-plexus”, e della granulosità (das Körnichte), prenderà il sopravvento su quella della miscela. Proprio approfondendo l’analisi della struttura interna della percezione avviata da Wolff, Baumgarten troverà il perno su cui far leva per individuare il proprium delle idee di cui si occupa l’estetica. b. Chiarezza e intuizione Soffermiamoci al momento sulla dimensione della chiarezza. Già nelle Meditationes philosophicae de nonnullis ad poema pertinentibus del 1735, lo stesso Baumgarten introduce una riforma cruciale a questo concetto. Baumgarten, infatti, individua una forma di chiarezza legata alla quantità di tratti contenuti in una rappresentazione confusa, la cosiddetta “chiarezza estensiva”, che

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deve essere distinta dalla “chiarezza intensiva”, relativa alla chiarezza delle singole note. Scrive Baumgarten: “Se nella rappresentazione A si rappresenta di più che in B, C, D e così via, e però sono tutte confuse, A sarà detta estensivamente più chiara delle altre” (Baumgarten 1999, § 16). E nello scolio, applicando alla claritas intensiva l’idea di profondità, che Wolff definiva come incremento del grado di distinzione (Wolff 1720a, § 209): “Si deve aggiungere la restrizione al fine di distinguere questi gradi di chiarezza da quelli sufficientemente noti, che in virtù della distinzione dei tratti caratteristici raggiungono la profondità della conoscenza e rendono una rappresentazione intensivamente più chiara di un’altra” (Baumgarten 1999, § 16). La formulazione di Baumgarten ha sollecitato gli studiosi a considerare a più riprese questa categoria24, e, in misura minore, le sue possibili derivazioni25. Accanto agli antenati retorici della copia rerum26, dell’auxesis o amplificatio27, e dell’enargeia o evidentia28, la chiarezza estensiva è legata al quadro più propriamente filosofico del primo illuminismo tedesco29, nel quale la rielaborazione dell’implicito retroterra retorico aveva iniziato a fornire alcuni strumenti metodologici per pensare alle peculiarità del sensibile. 24 Tra i numerosissimi contributi sull’argomento, cfr. Baeumler 1967, pp. 199 e ss.; Bender 1980, p. 497; Paetzold 1983, pp. 13 e ss.; Piselli 1989, pp. 96 e ss.; Pimpinella 1996, pp. 492 e ss.; Adler 1990, pp. 42 e ss.; Tedesco 2000, pp. 19 e ss.; Bahr 2004, p. 99; Strube 2004, p. 17; Nakazawa 2009, pp. 238239. Cfr. anche Aso et al. 1989, p. 51. 25 Piselli, ad esempio, ha suggerito la vicinanza della “chiarezza estensiva” di Baumgarten alle riflessioni sull’immaginazione di Wolff, il quale distingueva un’immaginazione “estesa” da un’immaginazione “intensa”, che riesce a rendere distinte le note del singolo fantasma (PE § 198; PR § 213). Cfr. Piselli 1989, p. 57. 26 Su questo aspetto, si vedano le osservazioni di Meuthen 1994, pp. 97-98. 27 In tal senso, cfr. Bender 1980, pp. 496-498; Paetzold 1995, p. 14; più in generale Campe 2005, pp. 23 e ss. È stato Salvatore Tedesco a riconoscere con maggiore cogenza il significato dell’amplificatio per la nascente estetica moderna, mettendo in luce la sua influenza sulla nozione di “circostanze” (Umstände) impiegata da Breitinger nella sua Critische Dichtkunst (1740), cfr. Tedesco 1997, pp. 66 e ss.; cfr. anche Buchenau 2008, pp. 163-166. 28 Cfr. Torra-Mattenklott 2002, pp. 172 e ss. 29 Sul ruolo essenziale giocato da Reusch, su cui ritorneremo nel prosieguo, cfr. Schwaiger 2011, pp. 162-163. Tali indicazioni sono state ulteriormente sviluppate dai lavori di Stefanie Buchenau, cfr. Buchenau 2004, pp. 143; 267; 281, nota 86; Buchenau 2009, p. 78; Buchenau 2013, p. 121 e ss.

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Baumgarten presenta la suddetta distinzione nelle sue riflessioni sulla poesia, a testimonianza dell’importanza della chiarezza estensiva per l’ambito poetico. La chiarezza della rappresentazione di una rosa, infatti, non è veicolata solo dal fatto di sapere, ad esempio, che la rosa ha i fiori disposti in racemi o che il ricettacolo fioriale è fatto a orciolo e porta al margine superiore cinque sepali (chiarezza intensiva)30, ma anche da una formulazione ricca di dettagli concreti come quella messa in bocca a Venere da Giambattista Marino nell’Adone (1623): “Quasi in bel trono imperatrice altera / siedi colà su la nativa sponda; / Turba d’aure vezzosa e lusinghiera / ti corteggia d’intorno e ti seconda; / e di guardie pungenti armata schiera / ti difende per tutto e ti circonda. / E tu fastosa del tuo regio vanto, / porti d’or la corona e d’ostro il manto” (Adone, III, 157). Le due direttrici, quella della chiarezza estensiva e quella della chiarezza intensiva, sono entrambe legittime nella conoscenza della verità, a seconda del contesto e degli obiettivi: ogni volta che siamo interessati a conoscere un ente singolare nella molteplicità dei suoi tratti, come in poesia, sarà la chiarezza estensiva a dover prevalere; se invece siamo interessati a conoscere i tratti comuni a più individui, come nelle scienze naturali, la chiarezza intensiva rivestirà un’importanza maggiore. In entrambe le tipologie di chiarezza assistiamo a un incremento delle note: in una rappresentazione intensivamente chiara, le note saranno “anatomizzate” nelle note di cui a loro volta si compongono, al fine di incrementare la chiarezza delle prime; tali note, non sono più considerate in relazione alla cosa stessa nel suo insieme, e dunque non sono più immediate, bensì mediate e acquisite in un processo sequenziale (M § 523)31. In questo modo, la cosa scomparirà dall’occhio della sensibilità e apparirà solo all’occhio dell’intelletto, determinando una “rarefazione” della rappresentazione di partenza. Nel caso della chiarezza estensiva, invece, ad aumentare saranno in particolare le note percepibili simultaneamente all’occhio della sensibilità – le note percepibili all’interno dell’orizzonte estetico (AE § 127). Non tutto ciò che è percepibile in modo chiaro alla sensibilità, infatti, è chiaro all’intelletto. Come Baumgarten afferma nell’Aesthetica, esiste un’oscurità logica e un’oscurità estetica (AE 30 Cfr. la presentazione di Leonardo Amoroso in K. 31 Su questo aspetto, cfr. Pimpinella 2005, p. 67.

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§§ 631-2)32. La ragione, insomma, non è l’unico metro per misurare i livelli di chiarezza, perché l’oscurità intellettuale non coincide più con l’oscurità tout court. Nel caso della rappresentazione estensivamente chiara, dunque, vi saranno alcune note intensivamente più chiare e altre più oscure alla ragione; nel suo complesso, ad ogni modo, una tale rappresentazione non raggiungerà mai il grado della distinzione o dell’oscurità razionale33. Nella chiarezza estensiva della rappresentazione la cosa può così essere intuita nella sua dimensione sensibile34. È proprio la fondamentale convergenza di chiarezza confusa e intuizione sul terreno della sensibilità ad avviare il percorso che conduce poi alla concettualizzazione di una peculiare claritas extensiva. Una tale convergenza aveva le sue basi nella visio Dei attribuita ai beati in un contesto escatologico, come nel XXII libro del De civitate Dei di Agostino35, e che già il pellegrino Dante, volgendo lo sguardo alla pericoresi trinitaria nell’ultimo canto del Paradiso (vv. 127-41), contribuisce a insediare nell’immanenza. In un autore come Duns Scoto (1265/6-1308), proprio la visio beatifica, in quanto quietatio totalis et ultima, arresta l’azione discriminante del conoscente alla base della cognitio distincta, e lo pone in una situazione contemplativa votata alla cognitio confusa, dove ciò che si mostra è colto simultaneamente nella pienezza dei suoi tratti36. 32 Cfr. su questo Mehtonen 2003, pp. 173-183; Schwarz 2022, pp. 145-146. 33 Cfr. La Rocca 2006, pp. 28-33. La rappresentazione estensivamente più chiara avrà un numero comparativamente maggiore di note chiare rispetto a una rappresentazione genericamente confusa. 34 Come noto, Baumgarten legherà la conoscenza intuitiva (cfr. M § 620) alla maggiore attenzione prestata al designato piuttosto che al segno: “Si signum et signatum percipiendo coniungitur, vel magis attendo ad signum, et cognitio talis symbolica dicitur, vel magis ad signatum, et cognitio erit intuitiva (intuitus)”. Cfr. in particolare Schwaiger 2011, pp. 71-77. Cfr. anche Otabe 1988 e Malinowski-Charles 2005. Il proficuo rapporto tra la conoscenza intuitiva e la chiarezza estensiva è evidente sin dal § 41 delle stesse Meditationes: “intensiva claritas cognitioni per voces symbolicae concessa prae intuitiva nihil facit ad extensivam claritatem, quae sola poetica”. Nell’Aesthetica, Baumgarten afferma esplicitamente che la conoscenza intuitiva è necessaria alla bellezza (AE § 37). 35 Cfr. in particolare Scholz 1911, pp. 197-235. 36 Non a caso De Bruyne riteneva che Scoto considerasse la visio beatifica in un senso estetico come già prima di lui Tommaso da Vercelli, cfr. De Bruyne 1998, pp. 357-370. Cfr. anche l’interpretazione di Rentsch 2011, pp. 364-

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Quando la dottrina della cognitio confusa viene recepita da Leibniz, non ultimo grazie alla prima edizione completa delle opere di Scoto nel 1639 a cura di Luke Wadding (1588-1657), la dimensione sensibile dell’intuizione sembra essere scomparsa. Nelle Meditationes de Cognitione, Veritate et Ideis (1684) di Leibniz, la conoscenza intuitiva viene infatti considerata come una specificazione della conoscenza distinta (Leibniz 1999a, p. 586), in cui sono pensati insieme tutti gli “ingredientes” di una medesima nozione (Leibniz 1999a, p. 588). Per Leibniz, dunque, la conoscenza intuitiva costituisce una prerogativa esclusivamente intellettuale. Eppure, già nel Discours de métaphysique (1686), tale contemplazione simultanea trova una sorta di corrispettivo a livello di conoscenza confusa, proprio grazie alla nozione di chiarezza: “Non è dunque che quando la nostra conoscenza è chiara nelle nozioni confuse, o quando essa è intuitiva in quelle distinte, che noi ne vediamo l’idea intera” (Leibniz 1999b, p. 1569). Anche alla “conoscenza chiara”, quindi, è riconosciuta la capacità di un’apprensione integrale e diretta dell’idea, che però non può ancora dirsi intuitiva, per il fatto di non giungere all’analisi delle componenti ultime della rappresentazione. Quando, tuttavia, con Wolff, il presupposto dell’intuizione37 cesserà di identificarsi con la distinzione della conoscenza per coincidere infine con la chiarezza in quanto tale38, la cognitio intuitiva 370. Il ruolo della conoscenza confusa come ricettacolo di ciò che si può conoscere senza però essere risolubile ed esprimibile in caratteri razionali è evidente anche nella difesa dei misteri cristiani operata dal giovane Leibniz di contro al Tractatus theologico-politicus di Spinoza. Se Spinoza afferma che i misteri cristiani costringono i fedeli alla semplice ripetizione passiva di vuote formule come pappagalli, Leibniz replica che, per quanto i misteri siano effettivamente incomprensibili, noi abbiamo comunque una qualche conoscenza in relazione ad essi, sebbene soltanto confusa, che ci permette di dire e pensare più di quello che farebbe un pappagallo, cfr. Goldenbaum 2011, pp. 266-271. 37 Oltre a Favaretti Camposampiero 2009, pp. 229 e ss., cfr. Pimpinella 2001, pp. 265-294; Schwaiger 1995, pp. 126-131 (dove viene sottolineata la differenza rispetto alla concezione di Leibniz e il fatto che Wolff liberi la dimensione intuitiva dalla necessità della conoscenza intellettuale, pur non escludendola). 38 Cfr. PE §§ 287-8, in cui Wolff argomenta che le conoscenze intuitive possono essere tanto chiare e confuse, qualora l’attenzione si volga all’idea nella sua interezza, quanto chiare e distinte, qualora l’attenzione si diriga in successione alle sue singole parti.

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non verrà più modellata sull’idea leibniziana di contemplazione intellettuale, bensì sulla sua controparte sensibile, quella che – come abbiamo appena visto – Leibniz chiamava “conoscenza chiara nelle nozioni confuse”39. Chiarezza e intuizione, dunque, non solo non saranno più caratteri opposti benché paralleli, ma giungeranno sostanzialmente a sovrapporsi, grazie al denominatore comune fornito dai concetti di “presenza” (Wolff 1739, § 253) e “immediatezza” (PR § 196). Non è un caso che la conoscenza intuitiva di Wolff sia legata innanzitutto alle Empfindungen40, a ciò che percepiamo “in ideis sensualibus et phantasmatis”41 (Wolff 1750, § 189). Come Wolff espliciterà nella sua Theologia naturalis, “la conoscenza intuitiva si limita ai sensi e alla facoltà immaginativa, che dipende dal senso” (Wolff 1736, § 1058). Conoscere intuitivamente qualcosa, dunque, significa per Wolff nient’altro che essere consapevoli dell’idea di una certa cosa, afferrandola con i sensi (nel caso di un albero presente) oppure con l’immaginazione (nel caso della rappresentazione di un triangolo) (PE §§ 286 e ss.). Conoscere simbolicamente qualcosa, al contrario, implica un’operazione di riflessione sulle percezioni confuse, in cui ad essere messe in rilievo sono quelle note tra loro simili in 39 Su questo, cfr. Favaretti Camposampiero 2009, p. 187. 40 Nella Deutsche Metaphysik, Wolff forniva la prima definizione della coppia “conoscenza intuitiva” e “conoscenza simbolica”, affermando: “Denn wir stellen uns die Sachen entweder selbst vor, oder durch Wörter oder andere Zeichen. Die erste Erkäntnis wird die anschauende Erkäntnis genennet: die andere ist die Figürliche Erkäntnis”. Wolff aggiunge subito che la conoscenza simbolica avrà come compito precipuo quello di giungere alla distinzione di quei tratti che nelle cose rappresentate in sé stesse erano confusi, poiché “unsere Empfindungen grösten Theils undeutlich und dunckel sind”, cfr. Wolff 1720a, §§ 316-319. Anche quando – nella Psychologia empirica – si parlerà di una conoscenza intuitiva distinta, la distinzione apparterrà alla successione ordinata delle parti su cui l’attenzione si volge, mentre la sua intuibilità segnalerà il contatto immediato con l’individuo singolare esibito ai sensi e all’immaginazione. In questa prospettiva, mi sembra del tutto corretta l’affermazione per cui Wolff trasformerebbe “l’intuizione in una prestazione delle facoltà inferiori”, cfr. Favaretti Camposampiero 2009, p. 187. Sulla presenza in Wolff di qualcosa come un intelletto intuitivo, cfr. École 1986; Favaretti Camposampiero 2009, p. 242. Come ricordato, a discriminare conoscenza intuitiva e simbolica per Baumgarten non sarà la presenza dei segni, ma la maggiore o minore attenzione sul segno o sul designato. Ritornerò su questo tema, che qui non posso sviluppare, in Nannini 2023a. 41 Sulle ideae sensuales in Wolff, cfr. Mei 2007; e, in modo più ampio, Mei 2011.

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diversi individui, che in un secondo momento verranno poi separate dall’immagine mentale di supporto, divenendo maneggiabili al pensiero unicamente per mezzo della loro enunciabilità linguistica (PE §§ 289 e ss.). La conoscenza simbolica necessiterà quindi di una qualche mediazione razionale, che elabori il materiale vergine della percezione in modo da accrescerne la distinzione, mentre la conoscenza intuitiva, come accade negli esempi, conserverà un rapporto privilegiato con la parte inferiore dell’anima: [P]oiché gli esempi ci portano ad una conoscenza intuitiva, mentre la ragione solo ad una conoscenza simbolica, e poiché la conoscenza intuitiva produce in molti un’impressione maggiore rispetto alla ragione, specialmente se, accanto ad affetti violenti, ne derivano piacere e dispiacere, è qui più frequente ottenere di più con gli esempi che con molte rappresentazioni esaustive, per quanto siano razionali. (Wolff 1720b, § 167)

L’importanza degli esempi è data proprio dalla loro capacità di fornire nel caso singolare un’esibizione chiara – intuitiva – di una proprietà o di un principio universale preventivamente approvati dalla ragione (Wolff 1739, § 250)42. In questo senso, gli esempi43 (reali o fittizi) diventano portatori di una peculiare chiarezza, irriducibile alla distinzione della conoscenza razionale, che affonda le proprie radici nell’implicito retroterra retorico dell’enargeia44 – la capacità di mettere sotto gli occhi un oggetto assente – qui sottoposta ad una forte torsione gnoseologica, dove a importare è solo la presenza alla coscienza di un’idea nella sua saturazione sensibile. Di fatto, già nell’Ontologia Wolff riconosce agli esempi la particolare virtù di “chiarificare” l’astrattezza delle nozioni, operando una sorta di reductio ad sensum communem: “Le nozioni ci riescono più chiare mentre percepiamo l’astratto contenuto in esse all’interno di esempi immediati” (Wolff 1730, § 125). Ma 42 Gli esempi, infatti, possono avere anche carattere morale, cfr. ad esempio Wolff 1739, §§ 250 e ss. Torra-Mattenklott ha convincentemente sostenuto che anche gli esempi morali in Wolff sono modellati su quelli geometrici, cfr. Torra-Mattenklott 2005. Cfr. anche Weber 1998. 43 Si veda a questo proposito Wolff 1720b, §§ 373-4; Wolff 1739, §§ 250 e ss.; Wolff 1750, §§ 239 e ss. 44 Sulle questioni retoriche, cfr. in particolare Harth 1978, pp. 55-56; Schrader 1991, pp. 21 e ss.

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in che modo la concretezza degli esempi arricchirebbe la chiarezza delle nozioni astratte? Se, come accennato, queste ultime rappresentano un portato della ragione, in cui le determinazioni sono pensate distintamente grazie alla mediazione simbolica, la spiegazione di Wolff sembra cadere nell’assurdo per cui le conoscenze chiare e distinte dovrebbero in realtà “mutuare” la loro claritas dall’intuibilità del senso e dell’immaginazione: “La conoscenza intuitiva è di per sé chiara: la conoscenza simbolica riceve la sua chiarezza da quella intuitiva, sia in quanto è congiunta con quella intuitiva, sia in quanto ne conserviamo una qualche memoria” (Wolff 1739, § 253)45. Per Leibniz un paradosso simile non avrebbe avuto alcun senso, dal momento che la chiarezza rappresenta il presupposto della distinzione: “La conoscenza è dunque o oscura o chiara, e quella chiara o confusa o distinta”. In Wolff, al contrario, esiste effettivamente una tensione tra conoscenza chiara e conoscenza distinta, che diventa patente non solo nel caso del microscopio, capace di rendere percepibile una quantità enorme di dettagli altrimenti invisibili, perdendo però la chiarezza dell’insieme46, ma anche all’interno del contesto semiotico. Come suggerisce Favaretti Camposampiero47, infatti, in un atto di cognitio symbolica48 l’unica cosa chiara e distinta è l’idea dei segni e la loro sequela sintagmatica, mentre il “Begriff der Sache” scivola nel cono d’ombra del pensiero incosciente, al di fuori della limpidezza del lumen animae. Ecco allora l’importanza dell’esempio, capace di raccordare la proprietà universale in questione con l’esperienza singolare del destinatario, il quale sarà chiamato a verificare di persona – a seguito di un esame autoptico (Wolff 1739, § 255) o dell’attivazione della vis imaginandi (Wolff 1739, § 256) 45 Tale “reductio ad intuitum” non riguarda dunque le conoscenze distinte in quanto distinte, ma solo in quanto mediate simbolicamente. Come accennato, comunque, anche nelle percezioni intuitive distinte la distinzione non toglie la chiarezza “semantica” garantita dall’apprensione sensibile, ma la ordina secondo la chiarezza “sintattica” del pensiero. Cfr. Favaretti Camposampiero 2009, p. 233. 46 Cfr. Schwaiger 1995, pp. 149-151. 47 Cfr. Favaretti Camposampiero 2009, pp. 230 e ss. 48 Sulla conoscenza simbolica in Wolff, oltre al testo di Favaretti Camposampiero, cfr. almeno Ungeheuer 1986; Schwaiger 2011, cap. 3; Pimpinella 2007.

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– la sua istanziazione nella situazione presente – la rossezza in un oggetto rosso o l’onestà in un modello virtuoso. Non stupisce che per discutere la teoria della chiarezza estensiva, Baumgarten prenda le mosse proprio dalle considerazioni sugli esempi49: “Le rappresentazioni confuse degli esempi sono rappresentazioni estensivamente più chiare di quelle per la cui chiarificazione essi sono addotti, perciò più poetiche, e tra gli esempi quelli particolari sono certamente i migliori” (Baumgarten 1999, § 22). Se già in Wolff l’obiettivo della claritas era quello di recuperare alla sintassi del pensiero la concreta “sostanza” del mondo, Baumgarten porterà questa tesi alle sue estreme conseguenze, facendo della chiarezza estensiva il contrassegno della stessa conoscenza estetica, con cui la realtà, sottratta alla iactura dell’astrazione (AE § 560)50, potrà essere colta in tutta la ricchezza delle sue determinazioni51. c. Chiarezza e estensione La claritas degli esempi trovava in Wolff il proprio fondamento nelle tesi della Psychologia rationalis (1734). In un tale contesto, la chiarezza dell’idea sensuale corrisponde alla rapidità con cui gli oggetti sensibili imprimono ai nervi sensori un moto – la cosiddetta “species impressa” – che si propaga poi fino al cervello (PR § 125)52, suscitando la rispettiva “idea materialis” (PR § 113). Affinché sia 49 Secondo quanto ha messo in luce Tedesco, Baumgarten non intende l’esempio da un punto di vista meramente pedagogico, come nella tradizione del primo illuminismo, ma gli assegna un fondamentale ruolo gnoseologico, nella misura in cui esso è capace di “chiarire” il meno determinato con il più determinato, cfr. Tedesco 2000, pp. 53-54. Sull’importanza degli esempi in Baumgarten, cfr. già Baeumler 1967, pp. 207 e ss. Cfr. anche Morel 2007; Güsken 2020. 50 “Quid enim est abstractio, si iactura non est?”. Cfr. Pimpinella 2008, p. 59. 51 Per questo la conoscenza intuitiva sarà poi vista da Baumgarten come la base della conoscenza viva, che suscita emozioni e spinge ad agire, come Baumgarten afferma nella Metaphysica con la celebre sentenza “sola intuitiva movens” (M § 669). Ho trattato la questione della “conoscenza viva” in Nannini 2014 e Nannini 2023c. 52 Massima sarà dunque la chiarezza della percezione dei sensi, minore quella dei phantasmata dell’immaginazione, cfr. PE § 96; PR § 126.

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possibile tornare a intuire l’idea della cosa designata dai segni, si dovrà dunque ricondurre la conoscenza simbolica alla pienezza di tratti che caratterizza la chiarezza dell’idea sensuale, facendo leva sul suo corrispettivo materiale. Le “ideae sensuales” dell’anima (PR § 118)53 hanno infatti una precisa simmetria con le idee materiali del corpo, benché non siano davvero “causate” da queste ultime, data l’ipotesi dell’armonia prestabilita nel commercium animae et corporis (Wolff 1720a, §§ 765 e ss.)54, ma dipendano piuttosto dall’evoluzione delle idee oscure da cui derivano (PR § 187). A queste riflessioni si rifarà il wolffiano Johann Peter Reusch, il cui contributo marca un’essenziale tappa di avvicinamento alla teoria baumgarteniana della chiarezza estensiva. Semplificando il discorso di Wolff, Reusch afferma nel Systema logicum (1734) che tanto le sensazioni quanto i phantasmata si trovano in un rapporto biunivoco con “aliquid in cerebro”, laddove quell’aliquid dovrà essere inteso nel senso dei “moti delle fibrille nervose e del fluido in esse fluttuante” (Reusch 1734, § 136). Tali moti altro non sono che le “ideae materiales”, e avranno una proporzionalità diretta con la chiarezza o, come viene ora specificato, con la “vividezza” dell’idea mentale: “Un moto più forte dell’idea materiale porta con sé un’idea mentale più chiara e più vivida” (Reusch 1734, § 136; Reusch 1735, § 341). Un ottimo medium per incrementare l’attenzione55 sarà dunque quello di allegare al segno o al simbolo delle idee astratte le stesse idee materiali, “perché nelle percezioni dei sensi e dell’immaginazione, l’attenzione e la riflessione sono più facili che nelle nozioni astratte” (Reusch 1734, § 138)56. Anzi, “[q]uanto a lungo è conservata l’idea materiale degli oggetti, tanto a lungo persiste la loro rap53 Cfr. su questo Pimpinella 2005, pp. 41-68, a cui rinviamo per maggiori dettagli. 54 Più in generale, cfr. PR §§ 530 e ss. 55 L’attenzione consisteva già per Wolff nella facoltà di appercepire in maniera più chiara una certa percezione parziale rispetto alle altre (PE §§ 234 e ss.), grazie al moto più celere in cui consiste la sua idea materiale (PR §§ 357 e ss.). Per una trattazione dell’attenzione in Wolff, cfr. Favaretti Camposampiero 2021. 56 Baumgarten imposterà la questione dal punto di vista semiotico piuttosto che dal punto di vista fisiologico. Allo scopo di incrementare la vividezza di una rappresentazione, il riferimento costante all’idea materiale si tramuterà infatti nell’esigenza di una preponderanza del designato sul segno – condizione capace di per sé di garantire l’intuibilità della conoscenza, cfr. M § 620. Lo stesso Reusch, d’altra parte, pensava che la virtù più grande di un termine

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presentazione mentale, e dunque la fissazione dell’attenzione sugli oggetti” (Reusch 1734, § 138). Quando Baumgarten predicherà la poeticità delle idee sensuali e dei phantasmata, il suo discorso si porrà in evidente continuità con queste considerazioni, ormai epurate dal contesto fisiologico in cui erano imbricate, a favore della loro valenza estetica (Baumgarten 1999, § 24). Una valenza, che, ad ogni modo, non era estranea neppure allo stesso Reusch. Discutendo dell’uso della conoscenza simbolica, quest’ultimo riconosce nella perspicuità il valore essenziale di un termine (Reusch 1734, § 249). Poiché due sono le tipologie di chiarezza in rapporto alle idee – una “claritas intellectualis”, relativa alla loro distinzione, e una “claritas sensualis”, relativa alla loro vividezza – duplice sarà anche la possibile chiarezza dei termini, laddove alla vividezza sul piano rappresentativo corrisponde la “retoricità” delle parole sul piano espositivo: Il fondamento vivido delle idee può essere chiamato “chiarezza sensuale”, così come la distinzione riscontrata in esse è convenientemente detta “chiarezza intellettuale”. I termini possono essere dunque perspicui in un duplice rispetto: uno sensuale, l’altro intellettuale. La perspicuità sensuale necessita di termini ornati per mezzo di tropi retorici, soprattutto metafore, e altre eleganze. In questo modo, infatti, molte cose, benché aliene dai caratteri propri dell’oggetto, possono essere inserite con diletto nell’oggetto da rappresentare per mezzo dei sensi e dell’immaginazione. (Reusch 1734, § 250)

La centralità del discorso retorico, peraltro, era già emersa in una dissertazione del 1724, difesa dall’allievo di Reusch Wilhelm Levin Sever (Reusch 1724), precoce testimonianza di una riflessione filosofica sulla bellezza impostata su basi wolffiane. In questo libello, strutturato sul modello formale della Commentatio theologica de eo, quod in theologia pulchrum est di Johann Franz Buddeus (1667-1729) (Buddeus 1715), le notae per mezzo delle quali formiamo con la mente le immagini delle cose sono considerate principali o accessorie57, tanto in rapporto fosse quella di condurre in modo chiaro e celere a ciò che doveva significare, cfr. Reusch 1734, § 249. 57 La fonte di Reusch è qui Arnauld, Nicole 1662, pp. 111 e ss.; cfr. anche Reusch 1728, § 96.

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alla cosa stessa (alla sua essenza) quanto in rapporto al pensante. Per ciò che riguarda in particolare quest’ultimo aspetto, Reusch sostiene che, mentre le principales notae sono congiunte al fine e al proposito del parlante, le notae accessoriae sono il prodotto dell’immaginazione, dell’ingegno e dello “iudicii conatus”, contribuendo in maniera determinante alla plenitudo del senso del discorso, relativamente alle intenzioni di chi lo pronuncia (Reusch 1724, p. 11). È per questa ragione che l’oratore dovrà prestarvi la massima attenzione, in modo da consentire l’accesso alle idee principali da un punto di vista “domestico”, ossia a partire dallo stato mentale dell’ascoltatore, oppure aggiungendo pensieri esterni. Esemplificando, se la serie principale di pensieri riguarda la proposizione “l’uomo è mortale”, tale affermazione potrà essere arricchita suscitando sia l’idea del dolore, propria di chiunque ne comprenda il significato, sia un’idea indipendente, come la caducità della rosa, che si raccorda con la principale per via immaginativa (Reusch 1724, p. 11). Certo, le idee o le note accessorie non hanno alcun valore in sé, ma ricevono dignità dalla conformità con la “ratio perfectionis” (Reusch 1724, pp. 5-6), che genera quel “consensus in varietate” – memore tanto di Wolff (1710, p. 273)58 quanto di Jean-Pierre de Crousaz (1663-1750)59 – da cui poi scaturisce un’“oratio perfecta”, e dunque “pulchra”60. Benché non si faccia parola in questa sede di una qualche claritas sensualis – compito precipuo dell’oratore è anzi quello di ricercare il consenso dei pensieri con la perfezione della mente, mediante l’impiego delle rappresentazioni più adeguate possibili (Reusch 1724, p. 9) – la questione delle percezioni accessorie, connesse alla principale mediante diversi rispetti topici, ne preannuncia certamente lo sviluppo, alludendo ad una perfezione della conoscenza eccentrica rispetto a criteri esclusivamente razionali. 58 Per l’evoluzione del concetto di “bellezza” in Wolff e per il suo legame con la perfezione, cfr. Krueger 1980, pp. 52-64; Schwaiger 1995, pp. 113 e ss.; Beiser 2010, cap. 2. 59 Il Traité du Beau di Jean-Pierre de Crousaz era fondamentale già per la succitata dissertazione di Buddeus, che ne declinava l’insegnamento in senso schiettamente teologico. Cfr. Crousaz 1715, pp. 12-6; Buddeus 1715, pp. 9 e ss. 60 La bellezza viene qui definita “sive vera sive adparens perfectio, quatenus a nobis percipitur”, cfr. Buddeus 1715, p. 5.

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Come sarà poi evidente nella Via ad perfectiones intellectus compendiaria e nel Systema logicum, anche la varietas e la plenitudo degli oggetti possono contribuire ad una “perfectio facultatis cognoscitivae” – una perfectio che però non mira ad un approfondimento progressivo delle cose apprese, bensì piuttosto alla loro amplitudo. Secondo quanto sosteneva già Galileo Galilei (1564-1642), infatti, esistono due modi in cui si può considerare “l’intender umano” (Galilei 1842, p. 116): dal punto di vista estensivo, esso riguarda la “quantità” della materia (la “moltitudine degl’intelligibili”); dal punto di vista intensivo, la perfezione della conoscenza, ovvero, in senso wolffiano, la chiarezza delle note. La medesima duplicità era riconosciuta dallo stesso Wolff. Wolff individuava un grado oggettivo dell’intelletto, relativo alla quantità di cose che esso può rappresentarsi in modo distinto, e un grado formale, relativo al numero di elementi che può rappresentarsi nel medesimo oggetto: quanto maggiori sono questi gradi, tanto maggiore sarà l’intelletto (PE §§ 276-7)61. Su queste basi, Reusch delinea due strategie di incremento della conoscenza: La facoltà conoscitiva diviene più perfetta per mezzo dell’incremento della conoscenza vera. Si può dunque incrementare la conoscenza 1) per mezzo dei diversi oggetti che vengono rappresentati, ovvero materialmente, cioè nella materia della conoscenza, e allo stesso modo estensivamente, cioè estendendola a più oggetti; 2) per mezzo dei gradi di chiarezza in un oggetto, ovvero formalmente, cioè nel modo di rappresentare, e allo stesso modo intensivamente, al fine di distinguere più cose all’interno di un unico oggetto […]. Esiste dunque una duplice perfezione della facoltà conoscitiva: una materiale e estensiva, che si può dire anche ampiezza e vastità della conoscenza; l’altra formale e intensiva, che si può chiamare anche chiarezza della conoscenza […]. (Reusch 1734, § 102) 61 Cfr. anche Wolff 1720a, §§ 829; 848. Già Wolff, come sopra accennato, ricorda ad ogni modo che il nostro intelletto è limitato per quanto riguarda tanto gli oggetti conosciuti quanto il modo di rappresentarli (PE § 279). Sviluppando questo pensiero, Baumgarten affermerà nell’Aesthetica la proporzionalità inversa tra il grado delle due dimensioni della perfezione delle rappresentazioni in un ente finito come l’uomo: quanto più conosciamo distintamente, tanti meno oggetti (o note di un oggetto) possiamo conoscere (AE §§ 555-65). Per questo è cruciale il compito dell’estetica, che perfeziona la conoscenza sensibile, curando la dimensione formale senza andare a detrimento di quella materiale, cfr. Nannini 2020, pp. 497-498; sulla distinzione tra perfezione formale e materiale, cfr. ivi, pp. 488-493.

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Che la concezione reuschiana di una duplice perfezione della conoscenza non fosse affatto ignota a Baumgarten lo si evince già dal § 51 dell’Acroasis logica, in cui Reusch, benché non menzionato, viene citato quasi testualmente (Baumgarten 1761, § 51)62. Non va dimenticato, inoltre, che Wolff aveva giustificato la differenza tra estensione e intensione in riferimento alla teoria del continuo (Wolff 1730, § 554), associando l’estensione alla “pienezza” di quest’ultimo (Wolff 1730, § 548) e l’intensione alla nozione di grado63, ovvero alla misura della “quantitas qualitatum” (Wolff 1730, § 747), di cui non è difficile vedere il legame sul piano gnoseologico con il problema della profondità, e dunque dell’incremento “graduale” della distinzione. La possibile influenza di termini matematici certo non sorprenderebbe in un autore come Baumgarten, il quale si proponeva di fondare filosoficamente la mathesis intensorum64; allo stesso modo appare del tutto conseguente l’influenza di Reusch, di cui il giovane studente della Fridericiana aveva ascoltato le lezioni a Jena, rimanendone grandemente impressionato (Meier 1763, p. 12)65. Assimilate queste suggestioni, a Baumgarten non resterà che saldare la perfezione intensiva della conoscenza alla claritas intellectualis e la perfezione estensiva alla claritas sensualis, valorizzando in tal modo la peculiare “estensione” della “chiarezza sensuale”, coincidente con quel “continuum” di note che ne sostanzia la plenitudo, e dunque – per un ente finito come l’uomo – la maggiore adesione alla verità materiale o metafisica (AE §§ 557 e ss.)66. 62 Baumgarten stesso, in nota, rendeva in tedesco l’espressione “extensio cognitionis” con i seguenti termini, che traducono l’amplitudo e la vastitas a cui faceva riferimento Reusch: “die Erweiterung, Verbreitung, Ausdehnung, der Reichtum der Erkentniss”. 63 Cfr. Wolff 1730, § 746, in cui il gradus è definito come “discrimen internum qualitatum earundem”. 64 A partire dalla terza edizione della Metaphysica (1750), Baumgarten intitolerà la sezione comprensiva dei §§ 165-90: “Prima matheseos intensorum principia”. Sulla grandezza estensiva e intensiva da Leibniz a Kant, cfr. Moretto 1995. Sulla mathesis intensorum, cfr. Nannini 2020, pp. 499-500, nota 159. 65 Baumgarten ricorda nella prefazione all’Acroasis logica l’importanza rivestita dalle tesi di Reusch nella stesura di questo manuale. Cfr. su questo anche Buchenau 2013, p. 124. 66 Come ha affermato Goldenbaum, un tale tentativo è irriducibile al progetto wolffiano di una “filosofia dell’intelletto”, e più prossimo a certi influssi della

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La quantità di oggetti conosciuti che rappresentava il grado oggettivo dell’intelletto (Wolff) ovvero la perfezione materiale o estensiva della facoltà conoscitiva (Reusch) sarà così riferita alla stessa quantità di note di un singolo oggetto. Con questa mossa, l’incremento della materia conosciuta – delle note – contribuisce alla chiarezza della percezione piuttosto che al numero degli oggetti conosciuti in generale, e dunque contribuisce alla perfezione formale della facoltà conoscitiva. In tal modo, il perfezionamento del modum cognoscendi dell’anima e l’incremento della distinzione delle percezioni non valgono più come sinonimi, secondo quanto avevano invece suggerito Leibniz67 e Wolff68. La chiarezza estensiva, infatti, è perfezione della chiarezza, ma di una chiarezza tipicamente sensibile, e dunque indistinta69. Il pensiero viene ulteriormente precisato nel § 531 della prima edizione della Metaphysica (1739): Prendi due pensieri chiari, tutti e due di tre note, che però in uno sono chiare, nell’altro oscure: il primo sarà più chiaro. Dunque la chiarezza della percezione è incrementata dalla chiarezza delle note per distinzione, adeguazione, ecc. Prendi due pensieri chiari aventi note egualmente chiare, tre nell’uno e sei nell’altro: quest’ultimo sarà più chiaro. Dunque la chiarezza è incrementata dalla moltitudine di note. La chiarezza può essere definita intensivamente maggiore per la chiarezza delle note ed estensivamente maggiore per la moltitudine delle note. La percezione estensivamente più chiara è vivida. (M § 531)70

Avevamo già discusso in sede di psicologia razionale il ruolo assegnato da Reusch alla vividezza quale tratto fondamentale della chiarezza sensuale. Ora possiamo constatare la centralità conferitale anche da Baumgarten, il quale – dopo averne accennato al § 112 scolastica protestante, cfr. Goldenbaum 2011, pp. 271-277. Cfr. anche Amoroso 2000, pp. 70-72; Pimpinella 2008; Emmel 2014. 67 “[L’âme] a de la perfection, à mesure de ses perceptions distinctes”, cfr. Leibniz 1885, p. 604. 68 Cfr. PE § 277 che reca come titoletto “Gradus intellectus formalis”: “Quo plura quis in eodem subjecto distinguit; eo major est intellectus”. 69 Per Baumgarten, una rappresentazione sensibile è una rappresentazione non distinta, M § 521. Cfr. anche Baumgarten 1999, § 2. 70 Baumgarten parlerà anche di una percezione estensivamente distinta – una percezione che, rispetto alle altre percezioni distinte, avrà delle note più numerose e vivide, cfr. M § 634.

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delle Meditationes71 – ci ritornerà, tra l’altro, nel passo appena citato della Metaphysica, per farne poi il cardine della lux aesthetica, in cui l’estensività della chiarezza diventa ormai tutt’uno con la sua esteticità (AE § 631). La fedeltà alle determinazioni dell’oggetto si esprime così mediante una luminosità specifica della rappresentazione, diversa dalla luce intellettuale, in cui la cosa può mostrarsi nella sua dimensione sensibile. In tal modo, la vividezza della chiarezza estensiva sarà costituita dallo splendore che nasce non dall’intensità della luce, ma dalla quantità e dalla varietà delle fonti luminose, dove le fonti luminose stanno ovviamente per le notae della cogitatio (AE § 619). L’importanza di Reusch per l’elaborazione di questa nozione è fuori discussione. Già nella seconda edizione della Metaphysica del 1743, Baumgarten aggiunge al § 531 la seguente puntualizzazione, che rende ancora più palese il debito contratto con il proprio maestro di Jena: “La chiarezza è in entrambi i casi perspicuità. Tale perspicuità o è vivida o è intellettuale o entrambe” (M § 531). Il passaggio verrà ripreso nella seconda parte dell’Aesthetica (1758), in cui si ribadirà che “[…] lux autem et claritas vel sensitiva, vel intellectualis” (AE §§ 631; 618). E tuttavia, nel mutamento apparentemente insignificante apportato al dettato di Reusch – la sostituzione della claritas sensualis con una claritas specificamente sensitiva – si rivela la grande originalità di Baumgarten, per il quale l’estensività della chiarezza non è più appannaggio esclusivo dei sensi o dell’immaginazione, ma dell’integralità dell’analogon rationis (M § 640), di cui l’aesthetica è per l’appunto l’ars (AE § 1). Da parte sua, Reusch aveva approfondito la questione della vividitas nel tentativo di distinguere la definizione di un oggetto da una mera descrizione. In particolare, il filosofo jenese respingerà come fallaci quelle definizioni che mischiano indebitamente i modi accidentali della cosa con le sue proprietà costitutive, ad esempio quando si definisce l’assenzio un’erba amara di colore verde pallido, dalle piccole foglie, che cresce in certi luoghi piuttosto che in altri, ecc. (Reusch 1734, § 321). Proprio mentre viene espunta dall’ambito logico, però, una tale descriptio sensualis si vedrà riconosciuta una valenza cruciale all’interno di un diver71 Baumgarten 1999, § 112: “Chiamiamo vivido ciò in cui è dato di cogliere molti e vari aspetti sia simultanei sia successivi”. Cfr. Schwaiger 2011, p. 103.

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so territorio, che ancora doveva trovare una precisa collocazione sistematica, ma che già ammiccava in direzione dell’estetica: “Perciò [la descrizione sensuale] apporta un’utilità maggiore della definizione laddove ci si deve basare più sul giudizio dei sensi che sull’intellezione e sulla conoscenza distinta. Per tale motivo, tanto gli oratori quanto i poeti traggono moltissimo diletto da queste cose” (Reusch 1734, § 321). La possibilità – tacitamente ammessa dallo stesso Wolff – di una chiarezza che aumenta non in virtù della sua Aufhebung nella razionalità astratta, ma grazie all’incremento delle determinazioni che la compongono nella sua opacità sensibile, riceve qui uno straordinario sviluppo, venendo associata non solo a uno specifico ambito di applicazione – quello della poesia e della retorica – ma anche e soprattutto a una specifica modalità di giudizio fondata sulla sensibilità – il sensuum iudicium – da cui Baumgarten può aver tratto un’importante suggestione per il proprio approccio al problema del gusto (Nannini 2021c). Pur non alludendo esplicitamente alla possibilità di un “organon” delle facoltà inferiori come nel caso di Georg Bernhard Bilfinger (1693-1750) (Bilfinger 1725, § 268) né tanto meno ad una vera e propria “logica della sensibilità”, Reusch denuncia con fermezza il monopolio di una logica della chiarezza (intensiva)72, fornendo così un significativo puntello alle note rivendicazioni delle Meditationes baumgarteniane – redatte appena un anno dopo la pubblicazione del Systema logicum. La chiarezza estensiva diverrà con ciò il carattere primario delle rappresentazioni della nuova scienza estetica – un carattere in cui, già a partire dalla Metaphysica del 1739, Baumgarten riconoscerà una modalità della pregnanza.

72 Cfr. Reusch 1734, § 103: “Logica esse debet scientia perfectionum facultatis cognoscitivae, sed est scientia tantum claritatis”. Sul legame tra claritas e perfectio intensiva, cfr. già Reusch 1728, § 36.

2. PREGNANZA ED ENFASI RETORICA

Das Klare aber ermüdet bald. I. Kant

Baumgarten introduce la questione della pregnanza all’interno della Metaphysica (1739; 1757, IV ed.) nel modo seguente: Quante più note contiene la percezione, tanto più essa è forte. Perciò, la percezione oscura che comprende più note di quella chiara è più forte di quest’ultima; quella confusa che comprende più note di quella distinta è più forte di quest’ultima. Le percezioni che contengono in sé più [note] sono dette pregnanti. Dunque, le percezioni pregnanti sono più forti. Perciò, le idee hanno un grande vigore (robur). I termini dal significato pregnante sono enfatici (enfasi). La loro scienza è l’enfasiologia. Non poca è la forza (vis) dei nomi propri. (M § 517)

Come evidente, le percezioni pregnanti si distinguono per il considerevole numero di note che determinano la loro peculiare forza. Ciò le rende non del tutto assimilabili alle percezioni estensivamente chiare: le percezioni pregnanti, infatti, possiedono una grande quantità di note a prescindere dall’eventuale chiarezza della percezione; perciò – a differenza delle rappresentazioni estensivamente chiare – le percezioni pregnanti possono essere anche prevalentemente oscure1. In questo senso, le percezioni estensivamente chiare costituiscono una specifica modalità del pregnante, ma non ne esauriscono l’intero spettro semantico. Più precisamente, le percezioni estensivamente chiare sono la manifestazione della pregnanza a livello della chiarezza, e coincidono, come visto, con la vividezza. Ciò giustifica l’avvicinamento all’ipotiposi (AE § 733), così come la ripresa del tema nel trattato sulla luce estetica dell’Aesthetica: 1

Cfr. su questo Torra-Mattenklott 2002, p. 215.

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Le percezioni pregnanti e complesse, a parità di condizioni, splendono di più di quelle meno complesse, e possono divenire argomenti illustranti della totalità della riflessione di cui vengono a far parte. Esse dunque vengono preferite alle percezioni meno pregnanti e complesse, specialmente se le percezioni ad esse collegate forniscono un elemento di prova o suscitano un’emozione. (AE § 732)

L’incontro della pregnanza con la questione dell’ἐνάργεια non è certo un’invenzione di Baumgarten2, ma rimonta alla stessa tradizione retorica dell’enfasi, che Baumgarten, come visto nel passo menzionato, sembra voler sistematizzare in una disciplina specifica, l’enfasiologia (cfr. anche SC § 14)3. Uno studioso come Rutherford ha fatto addirittura dell’ἐνάργεια uno degli elementi fondamentali dell’antico significato di ἔμφασις4, dato il loro impiego talvolta accoppiato, ad esempio in Demetrio (1999, § 212) e in Filodemo (1923, col. 27)5, mentre Asmis ne ha evidenziato non solo la reciproca complementarità, grazie alla costitutiva intersezione dell’esplicito con l’allusivo, ma anche il vicendevole rafforzamento, sempre in bilico tra visione e suggestione, denotazione e connotazione (Asmis 1992, p. 405). La connessione tra le due nozioni non scompare neppure con la modernità, ma anzi verrà sistematicamente ripresa dalla retorica sacra luterana. Così Mattia Flacio Illirico (1520-1575) potrà nominare d’un fiato la dote dell’illustratio e l’enfasi dello stile scritturale (Flacius Illyricus 1567, vol. 2, p. 343), mentre Johann Jakob Rambach (1693-1735) ricondurrà l’enfasi alla repraesentatio, capace di “rem vividius exprimere” e dunque di rendere più attento il letto2

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A tal proposito mette conto riportare anche una definizione di poesia fornita in Baumgarten 1741b, p. 31: “Poëma = carmen congruens s. oratio tam vividis repraesentationibus praegnans, ut congruentia stili metrum in eadem requirat”. In questo passaggio, la dimensione della pregnanza indica però solo la grande quantità di rappresentazioni vivide che richiede un accordo con la dimensione fonetica delle parole piuttosto che il genere prossimo della vividezza stessa. Nonostante gli sforzi storiografici sulle basi retoriche dell’estetica di Baumgarten, la questione dell’enfasi è stata finora ampiamente trascurata, cfr. ad es. Linn 1967; Bender 1980. Cfr. Rutherford 1988. Per il legame tra enfasi e ἐνάργεια, cfr. anche Kustas 1973, pp. 172 e ss.; Asmis 1992, pp. 402-403. Su questo, cfr. Gaines 1982, pp. 71 e ss. Per questa posizione, cfr. anche la nota 532 (p. 174) dell’edizione a cura di G. Lombardo dello Stile di Demetrio.

Pregnanza ed enfasi retorica49

re (Rambach 1723, p. 318). La parziale sovrapposizione delle idee pregnanti con la vividezza in Baumgarten non può essere compresa al di fuori di queste coordinate teoriche. Eppure la pregnanza – lo testimonia ancora una volta il § 517 della Metaphysica – non riguarda solo il pensiero, ma anche le parole6. Già Quintiliano distingueva a tal proposito l’enfasi come “exornatio verborum” dall’enfasi come “figura sententiarum” (Quintiliano, Institutio oratoria, VIII, 3, 83; IX, 2, 64). Baumgarten, da parte sua, utilizzerà le due nozioni sinonimiche di “pregnante” e “enfatico”, raccordando la prima alle sole percezioni o idee ricche di note, e la seconda alle parole cariche di significato. I termini enfatici saranno dunque opachi non già a causa dell’intransitività del segno, come nella conoscenza simbolica, bensì a causa della sua inadeguatezza a esaurire la ricchezza di caratteri del designato, o, nel caso-limite della vividezza, a eguagliarne la quantità. La trasparenza del medium richiesta dalla vividitas non coincide dunque con l’annichilimento del segno, ma con una particolarissima manifestazione della sua opacità (cfr. Nannini 2023a). A emergere nel testo di Baumgarten, tuttavia, non è solo l’accezione enargetica della pregnanza, ma anche gli altri due significati che, secondo Rutherford, appartenevano all’antica enfasi – la presenza di un senso nascosto e il riferimento alla δεινότης, alla forza (cfr. Voit 1934). Di fatto, nella sua radice etimologica, l’ἔμφασις7 non indica tanto l’evidenza quanto piuttosto il lasciar trapelare qualcosa di non immediatamente espresso dalle parole pronunciate8, in ciò simile alla ratiocinatio9: un’apparenza elusiva di sogno o di riflesso nell’acqua, per dirla con Bakola (2010, p. 200). 6 7

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La precisazione sulla questione dell’enfasi e dei nomi propri è stata inserita da Baumgarten a partire dalla seconda edizione della Metaphysica (1743). Cfr. in generale Kustas 1973, pp. 159-199; Schirren 1994, coll. 1121-3; Jansen 1995, vol. 1, pp. 221-223; cfr. anche Bakola 2010, pp. 198-203. Illuminanti anche le osservazioni di Lombardo in Demetrio 1999, le quali contengono ulteriore bibliografia, cfr. nota 22, p. 93; nota 319, p. 148; nota 532, p. 174. Come sottolinea Kustas, il prefisso ἐμ- implica inerenza, mentre il tema -φάσις (da φαίνω) indica una manifestazione esteriore, che contribuisce alla paradossalità del concetto, cfr. Kustas 1973, p. 163. Cfr. anche Hillgruber 2000. In latino, il termine ratiocinatio non indica semplicemente il ragionamento, bensì piuttosto, in senso tecnico, l’entimema, che tacendo una premessa o addirittura la conclusione, invita l’ascoltatore a esplicitare autonomamente

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Traducendo ἔμφασις con significatio, l’autore della Rhetorica ad Herennium, in ciò concorde con Cicerone (De Oratore, III, 202)10, la definisce come “una cosa che implica più di quanto non dice nel discorso” (Rhetorica ad Herennium, IV, 67)11. Quintiliano ribadirà: Simile alla già menzionata brevitas, ma mezzo virtuoso di più ampia portata è l’ἔμφασις, che offre una comprensione più vasta di quello che le parole non offrono di per sé. Ve ne sono due specie; l’una che manifesta più di quello che dice, l’altra che fa comprendere anche ciò che non dice. (Quintiliano, Institutio oratoria, VIII, 3, 83)

Sia nel primo caso (cfr. Lausberg 1969, § 208) che nel secondo12, l’enfasi non mette apertamente in luce, ma esprime in maniera obliqua e contratta l’intenzione dissimulata dell’autore. Nell’adombrare un pensiero sotteso13, la ὑπόνοια o suspicio, l’enfasi si configura come uno strumento dell’αὔξεσις14, un’αὔξεσις consistente in Baumgarten nell’accrescimento del numero di note che possono contribuire a chiarificare estensivamente ciò che si mostra. Pur appropriandosi della dottrina retorica, Baumgarten ne muterà dunque il senso alla luce dei nuovi presupposti metafisici: enfatizzare significherà allora ispessire la trama percettiva della rappresentazione, a volte diradando l’oscurità a favore della vividezza, a volte, per l’eccessiva brevitas, infittendola, in cambio però di un incremento esponenziale della forza. Grazie all’impareggiabile concentrazione di note delle rappresentazioni oscure, Baumgarten potrà così riprendere quasi testualmente il dettato di Demetrio per cui “il molto che si intravede

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quanto può essere agevolmente inferibile. Non a caso la ratiocinatio è considerata, ad es. in Quintiliano, come una modalità dell’amplificatio strettamente legata all’enfasi, anche se su un piano esclusivamente concettuale. Cfr. Quintiliano, Institutio oratoria, VIII, 4, 25. “[P]lus ad intelligendum, quam dixeris, significatio”. Cfr. anche Orator, 139: “[S]ignificatio saepe erit maior quam oratio”. “Significatio est, quae plus in suspicione relinquit, quam positum est in oratione”. Cfr. anche IV, 53-4; IV, 68. Sul topos della muta eloquentia, cfr. la nota 600 di G. Lombardo in Demetrio 1999, in particolare p. 185; cfr. anche Lombardo 1989. Cfr. l’introduzione di Lombardo a Demetrio 1999, pp. 18-19. Cfr. anche Ahl 1984, p. 192. Cfr. ad es. Quintiliano, Institutio oratoria, IX, 2, 3; cfr. Ahl 1984, pp. 176179; Kustas 1973.

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(ἐμφαινόμενον) nel poco è più potente e più impetuoso” (Demetrio 1999, § 7, trad. modificata), a causa della maggiore potenza dell’oscurità (Demetrio 1999, § 254)15, trasferendolo dalla retorica alla psicologia: “Quante più note contiene la percezione, tanto più essa è forte. Perciò, la percezione oscura che comprende più note di quella chiara è più forte della stessa” (M § 517)16. In questo senso, beninteso, la ὑπόνοια non sarà più una semplice allusione veicolata dal parlante, ma si farà tacita testimone dei legami segreti che ci connettono al mondo, e di cui rechiamo inconsapevole traccia nella ricchezza carsica delle rappresentazioni oscure che costituiscono il “fondo dell’anima” (M § 511; cfr. Nannini 2021a). Non sorprende la forza tributata al nome proprio, con il quale si dice in maniera massimamente involuta l’intera storia individuale di un soggetto17. Il nesso tra enfasi e forza non era comunque nuovo nella modernità se già Vossius metteva i due concetti sullo stesso piano: “L’enfasi o efficacia si ha quando il termine usato possiede una forza singolare” (Vossius 1643, IV ed., vol. 2, pp. 233-234). Il riferimento alla δεινότης, presente nemmeno troppo implicitamente in Baumgarten, sembra dunque raccordare la questione della pregnanza alla dinamica degli affetti. In questa direzione muove anche la proposta di Ursula Franke, che identifica le percezioni pregnanti con le percezioni moventi proprio in virtù della vis e del

15 Sull’oscurità nella retorica classica, cfr. Fuhrmann 1966; Kustas 1973, pp. 63-100. Cfr. più in generale Lachin, Zambon 2004; Mehtonen 2003. 16 Per una tale accezione dell’enfasi nell’antichità, cfr. anche lo pseudo-Aristide in Aristidis 1926, coll. 119 e ss. 17 Baumgarten 1999, § 89: “I nomi propri stanno a significare individui e poiché questi sono sommamente poetici, anche i nomi propri sono poetici”; sui nomi propri in Baumgarten e Meier, cfr. Ioku 2021. Baumgarten non è il primo a indicare la “pregnanza” dei nomi propri, che anzi era diventata un topos ermeneutico anche a prescindere dai presupposti leibniziani, cfr. ad es. Bibliophilus 1709, pp. 72 e ss.: “Saepius etiam deprehenditur Ubertas sensuum in plurimis sacris Nominibus tam propriis, quam appellativis”. È significativo che il relatore di laurea di Baumgarten, il filologo Christian Benedikt Michaelis (1680-1764), abbia presieduto una dissertazione sui nomina propria sacra, in cui, non da ultimo, si faceva riferimento alla loro enfasi, nella misura in cui essi alludono al destino della persona, come nel caso di Eva, che significa “madre di tutti i viventi” (Gn 3:20), cfr. Michaelis (praeses), Zur Linden (auctor) 1729, pp. 3-4.

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robur che vengono loro riconosciuti (Franke 1972, pp. 48-50). E tuttavia le cose sembrano più complesse. L’ambito della pregnanza, in cui è compresa anche la vividezza, può certamente favorire la vita estetica di una conoscenza – il grado più alto di bellezza secondo Baumgarten – e dunque il desiderio, l’emozione e lo stimolo ad agire (M §§ 669 e 671)18, ma non coincide ipso facto con essa. Tanto è vero che le percezioni pregnanti – come sopra ricordato – vengono menzionate in riferimento agli argomenti illustranti, e non a quelli moventi, la cui sezione all’interno dell’Aesthetica, tra l’altro, non venne mai scritta da Baumgarten. Lo stesso Johann Jakob Breitinger (1701-1776) distingue nettamente lo stile enfatico da quello movente nel secondo volume della Critische Dichtkunst (1740): Nella sezione precedente ho accuratamente evitato di parlare di un particolare genere di stile, avendo allora creduto che meritasse un trattato specifico: intendo lo stile patetico, movente o commovente. È vero che questo è imparentato da vicino con quello enfatico in relazione all’effetto, ed esso spesso non può raggiungere il suo scopo senza l’aiuto di quest’ultimo, il quale consiste nel colpire il cuore dei lettori per mezzo dell’accensione della fantasia, e nell’impadronirsene; eppure essi sono diversi per il fatto che il primo mira soprattutto ad accendere l’immaginazione; l’altro, invece, non si accontenta di questo, ma giunge immediatamente alla commozione del cuore. (Breitinger 1740, vol. 2, pp. 352-353)

Se guardiamo a quanto dice Baumgarten nella Metaphysica, la forza deve essere intesa non direttamente come una dimensione movente, ma come la conseguenza di una prestazione di sintesi percettiva. In particolare, la forza indica la capacità di una percezione di fungere da ratio perfectionis determinans (M § 197) di altre percezioni (cfr. Tedesco 2000, pp. 21-22). Se è vero che in base al principio del razionato ogni possibile è in qualche modo ratio di qualcos’altro (M § 23), a una tale inerenza viene attribuita una particolare forza (energia, activitas, efficacia) (M § 197). Ciò vale non solo sul piano ontologico, ma anche sul piano epistemico: 18 Sul mutamento di contesto della nozione di “conoscenza viva” dalla teologia alla filosofia, cfr. Nannini 2014; sul legame della conoscenza viva con la “forza viva” della fisica, cfr. Nannini 2023c.

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La conoscenza e le sue rappresentazioni nella mia anima sono o minori o maggiori19; ad esse, in quanto sono rationes, vengono attribuite forza ed efficacia. Nessuna conoscenza è del tutto sterile, ma la conoscenza di maggiore efficacia o vigore è più forte, quella di minore efficacia, la fiacchezza, è più debole (fiacca, inerte). Le percezioni più deboli mutano di meno lo stato dell’anima, quelle più forti di più. (M § 515)20

Poiché nella percezione pregnante vi sono molte percezioni che aderiscono alla principale, la forza delle percezioni, e dunque la capacità di modificare lo stato dell’anima, sarà maggiore che in altre percezioni. Ciò però – è bene ripeterlo – non implica ancora la presenza della vita della conoscenza, e dunque dell’emozione, dal momento che la forza non è qui qualcosa di diverso o di aggiuntivo rispetto alla prestazione di sintesi della conoscenza sensibile21. Già al § 515 della seconda edizione della Metaphysica (1743), peraltro, Baumgarten aveva indicato l’esistenza di diverse forze oltre a quella movente: la forza probante; la forza esplicante; la forza illustrante o risolvente; la forza convincente22. Affinché una percezione arrivi a commuoverci non è sufficiente l’intervento di tali vis, ma occorrerà la presenza di elementi capaci di suscitare un’emozione (vita sensibile). Alla luce di questo esame, l’antico concetto di enfasi sembra costituire un presupposto fondamentale del concetto baumgarteniano di pregnanza, e consente di spiegare la duplicità di vividezza e latenza del senso che la pregnanza percettiva porta con sé. Il senso latente, la ὑπόνοια, è inteso però ora nel senso psicologico delle rappresentazioni oscure del fondo dell’anima che proprio nel 19 Il loro essere maggiori o minori dipende dalla capacità di attuare i propri accidenti, M § 214. 20 Cfr. Matsuo 1992. 21 Non a caso, a partire dalla quarta edizione della Metaphysica (1757), Baumgarten specificherà le rationes del § 515 come “argumenta latius dicta”, mettendo a frutto le conclusioni del § 26 dell’Aesthetica: “La percezione, in quanto è ragione, si chiama argomento. Dunque ci sono argomenti che arricchiscono, che nobilitano, che provano, che illustrano, che persuadono, che commuovono e l’estetica non solo richiede che essi abbiano forza ed efficacia, ma anche eleganza”. 22 Tali tipologie della forza sono basate sulle altre perfezioni epistemiche menzionate da Baumgarten, cfr. Nannini 2020. Tutto ciò mostra l’intimo legame tra retorica e epistemologia, cfr. Mirbach 2014.

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loro sollevamento a un livello di minore oscurità portano a un incremento della vividezza del pensiero (K § 80, cfr. infra, capp. 4 e 5). Sarà proprio grazie al concetto del fundus animae che vividezza, latenza del senso e forza – i tre cardini dell’antica enfasi – potranno infine ritrovare in Baumgarten un fondamento comune, volto a riproporre su nuove basi quella duplicità di σαφήνεια e ἀσάφεια, di chiarezza e oscurità, propria dell’enfasi già a partire dalla tradizione retorica.

3. PREGNANZA ED ERMENEUTICA

Tanto in greco quanto in latino l’enfasi è legata a parole che appartengono al campo semantico della chiarezza come δῆλος o δείκνυμι, significare o declarare1. Eppure – lo si è visto – si tratta di una chiarezza indiretta, che non abbandona i legami con l’oscurità della ὑπόνοια, in questo più vicina alla suggestione che non all’enfatizzazione in senso moderno. D’altra parte, che l’enfasi non potesse essere ricondotta a una semplice chiarificazione del discorso nei termini di una mera apparizione del designato per mezzo di un medium diafano, lo aveva ben capito già Quintiliano: Può sembrare che le parole che significano di più di quello che dicono devono essere messe in relazione alla perspicuità, giacché aiutano la comprensione: io, tuttavia, sarei portato a porre più volentieri l’enfasi vicino all’abbellimento del discorso, poiché fa in modo non che si capisca, ma che si capisca di più. (Quintiliano, Institutio oratoria, VIII, 2, 11)

Tale conclusione è confermata dagli stessi maestri di retorica greci, come Filodemo, il quale giungerà addirittura a rimproverare coloro che identificano l’ἔμφασις con la σαφήνεια (Philodemi 1892, p. 177), mentre Demetrio, lo abbiamo visto, aveva unito la potenza dell’enfasi all’oscurità dello ὑπονοoύμενον. Nel mondo bizantino, la connessione tra enfasi e oscurità veniva attribuita in particolare al Περὶ ἰδεῶν di Ermogene (cfr. Kustas 1973, p. 164), il quale aveva visto nell’enfasi uno strumento privilegiato per realizzare la gravitas – la σεμνότης – tramite l’allusione a qualcosa di solenne, come accade nelle cerimonie di iniziazione e nelle religioni misteriche (Hermogenes 1987, p. 21). Proprio un tale raccordo tra l’allusione opaca e il risvolto mistico aveva portato a 1

A questo proposito, cfr. Schenkeveld 1964, pp. 129-131.

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un vasto impiego dell’enfasi nella letteratura cristiana antica, come testimonia già il prologo del Vangelo di Giovanni2. Così, ad esempio, in Fozio, nel nono secolo, l’enfasi diventa un modo per rivelare le verità nascoste del cristianesimo, mentre nell’anonimo autore del Περὶὶ σχημάτων l’enfasi si estende dal piano retorico agli atti simbolici di adorazione religiosa3. In questo senso, la ὑπόνοια diventa indizio del divino nella sua sempre parziale attingibilità, facendo dell’enfasi che la veicola il luogo in cui la trascendenza può manifestarsi indirettamente alla finitezza dell’uomo (il contrario di ἔμφασις, ἀπέμφασις, che abitualmente significa contraddizione o incongruità, viene ad assumere nello Pseudo-Dionigi e in Fozio il significato di “non connesso al divino”, cfr. Pseudo-Dionigi 1857, p. 137B; Fozio 1860, p. 656D). Enfatico, allora, non sarà più solo il λόγος dell’eloquenza o della filosofia, ma anche e soprattutto quello ἱερὸς λόγος dal quale, peraltro, non è mai disgiunta la componente patemica già propria dell’enfasiologia oratoria. Non è un caso che l’indagine delle enfasi e degli affetti nella Sacra Scrittura diventi il cuore stesso dell’interpretazione teologica nella sua specificità rispetto a un’interpretazione meramente filologica4. La particolare “pregnanza” di significato con cui ci si inizia a rivolgere all’Antico Testamento alla luce del Nuovo5, d’altra parte, non tarderà a porre il problema dei piani di lettura del testo biblico. Senza entrare nel merito della questione, è noto che la molteplicità dei sensi della Scrittura era già stata affrontata nella letteratura patristica6, almeno a partire da Origene, il quale distingueva tre livelli di senso nelle Sacre Scritture, corrispondenti alla tripartizione dell’uomo in corpo, anima e spirito7, e da Cassiano, probabile ispiratore della dottrina dei quattro sensi8, poi ripresa, tra gli altri, da Agostino9. 2

Cfr. Kennedy 1984, pp. 26; 52 e 109. Sull’interpretazione retorica del Nuovo Testamento, cfr. anche Classen 2000. 3 Per i riferimenti e la contestualizzazione, rinviamo a Kustas 1973, pp. 164-166. 4 Cfr. Bordoli 2004, p. 122. 5 Cfr. Vegge 2008, pp. 131-2. 6 Cfr. ad es. Meyer 1992; Greisch 1993, pp. 92 e ss.; oltre al classico De Lubac 2006. 7 Cfr. Origene, Peri archon (De principiis), IV, 2.4. Su questo, cfr. ad es. Redepenning 1841, vol. 1, pp. 300 e ss. 8 Cfr. De Lubac 2006, vol. 1, pp. 198-209. 9 Cfr. ad es. Agostino, De utilitate credendi, 5, 9: “Omnis igitur scriptura, quae testamentum vetus vocatur, diligenter eam nosse cupientibus quadrifariam

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La tradizione protestante, tuttavia, imposterà differentemente l’argomento, in ragione della suprema perspicuità della Parola di Dio10. Già Lutero affermava a questo proposito che “il testo [della Scrittura] deve essere univoco e semplice e avere un unico senso certo”11. Allo stesso modo, Melantone (1497-1560) intitolerà bensì un capitolo dei suoi Elementa rhetorices (1531) De quatuor sensibus sacrarum literarum, ma con lo scopo di mostrarne la totale perversione12. Affermare che la Scrittura può essere interpretata secondo quattro diversi sensi – quello letterale, quello tropologico, quello allegorico e quello anagogico – appare così del tutto vitiosum, provocando un’intollerabile ambiguità nel discorso sacro: “[I]l discorso che non ha un unico e semplice pensiero non insegna nulla di certo” (Melanchthon 1564, p. 236). A tale accusa reagisce Erasmo da Rotterdam (1466/9-1536), il quale, nel suo Ecclesiastae (1535), cerca di dissociare l’equiparazione tra incertezza e molteplicità del senso. Chi sostiene la necessità di distinguere una serie di piani semantici nell’interpretazione, infatti, non perora la causa dell’ambiguità, bensì della fecondità, della Scrittura (Erasmo 1535, p. 372)13. Toccherà a Giovanni Calvino (1509-1564) tentare una possibile conciliazione tra le due rivendicazioni – una conciliazione che, senza nulla concedere alle impennate allegoriche di certa esegesi, non rinunci però all’imprescindibile valore della foecunditas scripturae. Prendendo spunto da Gal 4:22-24, anche Calvino attacca direttamente gli interpreti che, alla stregua di Origene, hanno distorto il sensus genuinus delle Scritture a favore di un presunto senso allegorico14:

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traditur: secundum historiam, secundum aetiologiam, secundum analogiam, secundum allegoriam”. Cfr. Danneberg 2009, pp. 296-320. Sulla questione dell’unità del senso nel luteranesimo, cfr. Bühler 1996, pp. 445-451. WA 26, 262. Cfr. anche WA 1, 507; 6, 509 e 562; 7, 533; 42, 367-8. In generale, cfr. Knape 1993, pp. 145-146. “Neq; enim est abbreviata manus domini. Nec absurdum est quoq; voluisse spiritum sanctum, ut scriptura nonnunquam varios gignat sensus, pro cuiusq; affectu. Sicuti manna cuiq; sapiebat quod volebat. Nec haec est scripturarum incertitudo, sed foecunditas”. Cfr. Barrett 1996, pp. 542-543. Cfr. Danneberg 2009, pp. 324 e ss.; Ward Holder 2006, pp. 128-129; Ganoczy, Scheld 1983, p. 115.

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Origene e molti altri con lui hanno colto questa occasione di portare in molti modi la Scrittura lontano dal senso genuino. Essi hanno infatti concluso che il senso letterale è troppo umile e abietto e che sotto la corteccia della lettera ci sono misteri più profondi che non possono essere estratti se non sfornando allegorie. (Calvinus 1667, p. 306)

Eppure – continua Calvino – non manca chi ricuserà questa conclusione, appellandosi alla ricchezza indicibile della Parola di Dio: “La Scrittura, dicono, è feconda (foecunda) e dunque contiene molteplici sensi”. La risposta di Calvino a questa obiezione farà scuola anche in ambito luterano: “Riconosco che la Scrittura è la fonte più ricca (uberrima) e inesauribile di ogni saggezza; ma nego che la sua fecondità consista nei diversi sensi che ognuno può foggiare a suo piacimento” (Calvinus 1667, p. 306). Come si può affermare la fecondità della Scrittura senza dare adito a un’arbitraria molteplicità di sensi? Cruciale a questo riguardo è l’analisi della peculiare densità della Scrittura. Nella sua Clavis Scripturae Sacrae (1567) Mattia Flacio Illirico propone il seguente metodo: Per prima cosa indaghiamo le cause per cui le sacre lettere sono così colme di pensieri e di cose, ovvero ciò da cui sorge una tale abbondanza, e come confluisce in un unico accumulo o insieme, dato che in altri scrittori e in altre materie non è solito accadere allo stesso modo. (Flacius Illyricus 1567, Altera pars, p. 311)

Il punto fondamentale è ancora una volta l’ineguagliabile ricchezza della materia scritturale. Un trattato di matematica, ad esempio, potrà ben esporre i propri argomenti “simplicissimo sermone”, dal momento che i fatti descritti sono universali, come quando si conclude che la somma degli angoli interni di un triangolo è uguale a 180 gradi. Più composita è la trattazione filosofica, la quale ricusa comunque la narrazione delle circostanze dei luoghi e dei tempi. Ancora più ricchi saranno gli scritti che discutono le vicende di persone concrete, come le orazioni forensi o le epistole. Ma anche in questo caso – in ragione della quotidianità degli argomenti – non sarà presente una fecondità semantica paragonabile a quella della Scrittura, la quale deve rendere evidenti le cose più sublimi con la massima forza (Flacius Illyricus 1567, Altera pars, p. 312).

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L’appello ad un’incomparabile copia rerum consente così di aggirare la condanna pendente sul quadruplice senso di cattolica memoria, senza per questo sottoscrivere la totale linearità dei passi analizzati, dal momento che dietro all’unico senso espresso dalle parole della Bibbia se ne possono rifrangere infiniti altri: Anche Svetonio e Valerio Massimo [oltre a Tucidide] sono soliti esprimere molte cose con poche parole. Ma la Scrittura supera facilmente, per quanto riguarda questa virtus dicendi, tutti gli altri scrittori; non è raro che le sue parole contengano pensieri singoli, o anche molteplici. Anzi le singole parole contengono non di rado più sensi o cose. (Flacius Illyricus 1567, Altera pars, p. 371)

Si prenda ad esempio, l’incipit della Genesi: “In principium creavit Deus coelum & terram”. Il termine “principio” – ci dice Flacio – non indica solo l’inizio del tempo e delle cose, ma anche il fatto che Dio non è costretto da alcun principio o mezzo: per chi è eterno, mille anni sono come un giorno. Al contempo, il verbo “creò” non significa solo “fece”, ma anche “fece dal nulla”; il sostantivo “Dio” comprende tanto un’unica essenza quanto le tre persone e le relative proprietà. E così via. È chiaro che in una situazione come questa, lo scopo dell’analisi non sarà tanto quello di mettere in luce un eventuale senso allegorico sovrapposto a quello letterale, né tanto meno un senso morale o anagogico, quanto piuttosto quello di mostrare la fecondità sottesa all’enfaticità delle singole parole. Proprio nella brevitas verborum, in cui convergono in un punto l’ubertas rerum e la densitas sententiarum, potrà essere individuato infine il carattere sincopato e disadorno, ma al contempo potente ed espressivo dello stile biblico. Il termine ubertas, d’altra parte, compariva esplicitamente in un’altra opera fondamentale della tradizione luterana, la Philologia sacra (1623-1636) di Salomon Glassius (1593-1656). Anche Glassius si rivela del tutto ortodosso nel negare la molteplicità dei sensi, giustificandone il rifiuto in tre punti: in primo luogo, una tale dottrina appare contraria all’unicità della verità (“unum et verum convertuntur”); in secondo luogo, non è conciliabile con la claritas della Scrittura; e da ultimo, mette a repentaglio la sua stessa certezza (Glassius 1705, coll. 375-6). A chi oppone a questa argomentazione la fecondità della Bibbia, derivata in parte dall’onnipotenza

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di Dio e in parte dall’eterogeneità degli interpreti che la discutono, Glassius risponde che la vera foecunditas e la vera ubertas dei testi sacri risiedono nei frutti che essi sono in grado di suscitare in noi (Glassius 1705, coll. 355-6)15. Analizzando lo stile scritturale16, tuttavia, anche Glassius non si periterà di metterne in luce la suprema pienezza: “E ciò che Cicerone disse di Tucidide [De oratore, II, 13], che era così serrato e colmo di cose che il numero di pensieri quasi eguagliava il numero di parole, si può affermare con molta più ragione dello stile della Sacra Scrittura” (Glassius 1705, coll. 292 e ss.). Se la pienezza, la μεστότης di cui parlava Ermogene, testimonia dell’onnipotenza di Dio, l’univocità del senso depone a favore della sua saggezza – un’univocità che già secondo Johann Conrad Dannhauer (1603-1666) dovrà essere estesa anche agli autori dei testi umani, divenendo una regola ermeneutica generale (Dannhauer 1630, p. 57). Il senso scritturale sarà dunque al contempo denso e univoco, perché la fecondità dell’intelletto di Dio non può andare contro la sua saggezza e bontà (Dannhauer 1630, p. 61). La tensione tra le due istanze, ad ogni modo, non appare insolubile. Nella Logica vetus et nova (1654; 1658, II ed.), il filosofo e teologo cartesiano Johannes Clauberg (1622-1655) avverte che spesso il significato delle parole deve essere inteso in maniera dilatata o contratta, a seconda dell’intenzione dell’autore (Clauberg 1658, p. 285). Così, quando Dio dice ad Adamo che non è bene che l’uomo sia solo, il termine “uomo” deve essere esteso anche a tutti i successori di Adamo. Per questo, occorre distinguere attentamente tra il senso stretto e il senso lato delle parole: il termine “caccia” può infatti essere inteso a volte anche per la pesca e l’uccellagione: “Aggiungi questa cautela: di non restringere a cuor leggero le parole di un qualche discorso se la profonda saggezza dell’autore consente un significato più ampio, senza rinnegare altre leggi dell’interpretazione” (Clauberg 1658, p. 285). Una tale equità ermeneutica varrà tanto più per i testi sacri: Una norma del genere ha luogo principalmente nella spiegazione dei discorsi di Dio: tanto le parole quanto le opere maestose di quest’ul15 Ciò peraltro non esclude la possibilità di un senso mistico, così come la distinzione di un senso proprio e un senso figurato. 16 La lista di virtutes individuate da Glassius nello stile biblico comprende: certitudo ac claritas; simplicitas; efficacia; evidentia; plenitudo; brevitas; cohaerentia; verecundia et castitas; proprietas.

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timo, in quanto sommamente saggio e sommamente buono e potente, devono essere pensate nell’animo in senso ampio piuttosto che in senso angusto e limitato. (Clauberg 1658, pp. 285-286)

L’argomento di Clauberg veniva ulteriormente arricchito nella Differentia inter Cartesianam et in scholis vulgo usitatam Philosophiam (1651), dove Clauberg poneva in relazione il modo di procedere dell’ermeneutica biblica con la filosofia cartesiana. Se l’allargamento dei confini cosmologici nel cartesianesimo impone di ripensare l’onnipotenza di Dio in maniera più comprensiva, in modo da renderla adeguata alla creazione di un universo infinito (Clauberg 1691, vol. 2, p. 1227)17, lo stesso deve valere per l’interpretazione della Scrittura, dove il non espresso – lo spazio iponoetico – alluderà alla stessa presenza inesauribile di Dio nelle parole della Sacra Scrittura. Poiché l’Oratore divino ha enfatizzato il senso del discorso con un’amplificatio retorica dilatata indefinitamente dalla potenza dello Spirito Santo, dunque, l’interprete umano dovrà ora tentare di “decomprimere” con l’ampliatio18 le infinite ramificazioni di senso celate nella massima brevitas verbale. A dare forma teologica a questo principio sarà il riformato Johannes Coccejus (1603-1669)19, il quale, nella sua Epistolae ad Hebraeos explicatio (1659), afferma che ciò che un vocabolo, un termine, un’espressione, una proposizione può significare in maniera conveniente a partire dall’intenzione del parlante, dall’analogia dello stile della Scrittura, dalla cosa stessa e dall’intero mistero, senza dubbio lo significa anche, qualora nessuna cosa o ragione vi si opponga. (Coccejus 1659, p. 480)

Insomma, se un termine della Scrittura può voler dire qualcosa, allora lo vuole effettivamente dire, stante l’immediato passaggio dal posse all’esse garantito dalla divina origine del testo sacro. La regola ermeneutica viene meglio delineata nel sesto capitolo della Summa theologiae (1662; 1665, II ed.), dove la possibile pluralità 17 Cfr. su questo Danneberg 2009, pp. 327-328. 18 Si tratta di una tecnica ermeneutica utilizzata già nella logica medievale per estendere il significato della parola in relazione ad esempio al contesto e al tempo del verbo che la regge, cfr. Maierù 1972, p. 147. 19 Per il suo ruolo in rapporto a Clauberg, cfr. De Angelis 2010, pp. 328 e ss.

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dei sensi si inserisce perfettamente nella professione ortodossa per cui “se ci sono altri sensi che conseguono da quello primario, questi non costituiscono un senso particolare, ma fanno parte dell’unico senso nella sua interezza” (Coccejus 1665, p. 83)20. La sintesi della dottrina sarà affidata a un motto, successivamente attribuito a Coccejus più per lo spirito che non per la lettera: “Verba scripturae tantum significant ubique, quantum significare possunt” (Rambach 1723, p. 57). Una tale massima – secondo quanto ci attesta il figlio Johannes Henricus Coccejus in un’apologia del padre (Coccejus 1689, vol. 1, [p. 24]) – diverrà il bersaglio di numerosi avversari, i quali vi vedranno un’indebita trasposizione dell’ermeneutica rabbinica21, che dava potenzialmente asilo a qualunque volo interpretativo. Ne è un esempio la critica di Samuel Werenfels (1657-1740), che, rifacendosi implicitamente al detto ebraico per cui “non c’è nella legge neppure una singola lettera dalla quale non dipendano dei grandi monti [di senso]” (Rambach 1723, p. 356), scriverà nel De scopo interpretis: Da ciò deriva il fatto che molti interpreti combattono a favore di quei sensi latissimi della Scrittura e di quei grandi monti che, come dicono i Rabbini, dipendono da ogni tratto della Scrittura: fino al punto di accusare di annacquare e di svilire la Scrittura coloro i quali non scorgono dovunque tutti i segreti, tutte le meraviglie e le meteore che a loro sembra di vedere. (Werenfels 1739, vol. 1, p. 348)

A sostegno dell’amplificazione del senso, in effetti, veniva spesso addotta una pratica enfasiologica sconsiderata, che riconosceva dietro ogni parola un labirinto di sottintesi immaginari, come nel caso del Promptuarium emphasium biblicarum (1706) di Johann Georg Wille, il quale si rifaceva esplicitamente alle tecniche interpretative ebraiche (Wille 1706, p. 2). È contro una tale ipertrofia “iponoetica” che reagiscono diversi teologi del primo Settecento, da Andreas Julius Dornmeyer (1713, pp. 64 e ss.) a Johann Lorenz von Mosheim (1733, pp. 203 e ss.), da Christoph Matthäus Pfaff (1721, pp. 48-49) a Rambach (1723, § 17), senza dimenticare Siegmund J. Baumgarten (1769, p. 448) e lo stesso Wolff (1735a, p. 21), i quali inviteranno gli esegeti a maggiore prudenza ed equilibrio nel 20 Cfr. Van Asselt 2001, pp. 110 e ss. 21 Sui rapporti con tale tradizione, cfr. Yoffie 2004.

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trattare la fecondità scritturale, evitando di prendere per enfasi ogni singolo idiotismo della lingua. Nonostante gli attacchi e i fraintendimenti, ad ogni modo, il principium Cocceji godrà di una vasta fortuna tra la fine del Seicento e il primo Settecento, come dimostra ad esempio Frans Burmann (1628-1679), il quale, trattando dell’interpretationis scripturae latitudo nella sua Synopsis theologiae (1671), ne riprenderà quasi alla lettera il dettato, per poi commentare: “È evidente che le parole dello Spirito Santo debbano essere assunte in tutta la loro ampiezza e potenza” (Burmann 1678, p. 82). Solo la piena δύναμις verborum permette infatti di pensare in concreto la grandezza (magnitudo) e la maestosità (maiestas) della Parola di Dio, la cui saturazione non diventa mai ambiguità. Come chiarisce Martin Hundius (1624-1666) nel De Potestate Verborum & Phrasium Sacrae Scripturae (1665): [Q]uesta copulazione di più sensi parziali, che lo Spirito Santo non attua una volta soltanto nelle Scritture, anzi sembra averne spesso fatto uso, non deve essere definita ambiguità e non rende il senso della Scrittura più incerto, ἀμφιδέξιον, o ἀμφίλοξον, ma più fecondo e più pieno. Lo Spirito Santo ha voluto evidentemente celare e mostrarci sotto uno stesso involucro di parole più perle, anzi un tesoro, affinché non ci venisse a noia indagare spesso queste cose, svilupparle senza sosta ed esaminarle. (Hundius 1665, p. 122; cfr. anche pp. 132 e 135-136)

Certo, la fecondità del senso – sottolinea Christianus Bibliophilus alias Johann Georg Unkauff all’inizio di un opuscolo intitolato non a caso De Foecunditate Sensus in S. Scriptura (1709) – non deve essere intesa come una sommatoria delle accezioni dei vari lemmi: Vi sono non pochi passi che hanno un senso composito e ricco, non perché le parole di tali passi contengano all’interno della costruzione tanti e tali sensi quanti e quali a essi sono attribuiti dal dizionario al di fuori di tale costruzione (così, infatti, si manderebbe all’aria tutta la certezza della Scrittura), ma per il fatto che sono passi le cui parole, per intenzione divina, significano in questa loro costruzione […] più di un’unica cosa, di certo più di un unico stato di un’unica cosa […], cosicché non avremo il loro senso pieno e completo finché pensiamo solo a un’unica cosa, o solo a un unico stato di cose significato per loro mezzo. (Bibliophilus 1709, p. 4)

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Allo stesso modo in una dissertazione di Gottfried N. Frenckel del 1716 si ribadisce che l’unicità del senso non implica necessariamente la sua semplicità: il senso, infatti, può essere uno, benché massimamente composito. Nel caso di Gn 31:24, in cui Dio chiede a Labano di non dire nulla a Giacobbe – argomenta Frenckel – è chiaro che non ci si riferisce solo a Giacobbe, ma anche a tutta la sua famiglia e ai suoi servi: e allora, “perché non dovrebbe essere lecito definire in questo caso il senso letterale pieno o composito?” (Muhlius, Frenckel 1716, p. 50). In realtà – continua l’autore parafrasando Hundius – lo Spirito Santo ha voluto offrirci più doni sotto un’unica coltre di parole, a maggior gloria del loro autore, “per il quale è di estrema facilità comprendere il molto nel poco” (Muhlius, Frenckel 1716, p. 51). Ancora una volta vale il passaggio a posse ad esse, con in più una preziosa specificazione sul meccanismo di sintesi tra le diverse porzioni del senso: non solo, infatti, “qualunque cosa possano significare le parole, diciamo subito che la significano”, ma le diverse cose che tali parole significano hanno tra loro un accordo tale che, sotto a quella comune ragione a cui soggiacciono, […] possono essere esposte e significate adeguatamente dalle medesime parole nello stesso luogo e testo, come a fare la cosa completamente presente. (Muhlius, Frenckel 1716, p. 52)

Benché il senso di quel locus consista in una “copulatio & quasi concentratio” che “involve” in sé molti sensi, dunque, il significato vero resta sempre e soltanto uno. È quanto sostiene, tra gli altri22, anche Johann Jakob Rambach, tra i più importanti teorici luterani dell’ermeneutica del primo Settecento. Nell’ambito pietista in cui si muoveva Rambach, la comprensione delle enfasi sacre non richiedeva solo una conoscenza teorica dei testi biblici, ma anche una determinata condizione soggettiva, la cognitio spiritualis – una conoscenza, dunque, affettivamente orientata e soprannaturale – la quale soltanto poteva garantire l’accesso al vero senso della Scrittura. Nel suo primo importante scritto ermeneutico, la Manuductio ad lectionem scripturae sacrae (1693), il capostipite del Pietismo 22 Cfr. Hulsius 1688, pp. 16 e ss. e 194 e ss.; Krato 1702, pp. 149 e ss.; Franz 1619, p. 18; Pfaff 1720, pp. 84-85.

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di Halle August Hermann Francke (1663-1727) tracciava una netta distinzione tra il sensus literae e il sensus literalis, corrispondente alla contrapposizione tra guscio (cortex, Schale) e nocciolo (nucleus, Kern): mentre il primo si riferisce esclusivamente al senso storico-grammaticale delle parole, esplicabile mediante gli strumenti propri della filologia, il secondo fa riferimento a ciò che indicano le parole sotto la diretta ispirazione dello Spirito Santo, e può essere rettamente inteso solo mediante la lectio exegetica (cfr. Francke 1693). Nelle più mature Praelectiones hermeneuticae (1717), Francke aggiunge a questa bipartizione la presenza di un senso mistico, mutuato da Glassius, il quale viene designato non dalle parole, ma dal loro oggetto di riferimento (per rem), e corrisponde sostanzialmente al senso allegorico tradizionale (Francke 1717, p. 21). Parallelamente, Francke introduce una distinzione tra cognitio literalis e cognitio spiritualis. La cognitio literalis – avverte Francke – non corrisponde affatto al sensus literalis, così come la cognitio spiritualis non corrisponde al sensus mysticus; tanto la cognitio literalis quanto la cognitio spiritualis possono riguardare tutti e tre i sensi; ma mentre la cognitio literalis è propria dei non rigenerati che conoscono la Scrittura solo teoricamente, e dunque non sperimentano alcun coinvolgimento della volontà, la cognitio spiritualis altro non è che la conoscenza viva, mediante la quale ci è accordato un accesso soprannaturale ai testi sacri grazie a un totale mutamento negli affetti (Francke 1717, p. 57)23. La Scrittura, allora, non sarà più semplicemente un’opera da analizzare con le regole esegetiche impiegate per i documenti del passato, ma un discorso vivo e attuale, che – azzerando la distanza ermeneutica dall’autore – ci pone nella stessa situazione spirituale di chi ha materialmente redatto quei libri. Solo provando i medesimi affetti, infatti, potremo infine decrittare correttamente le enfasi con cui lo Spirito Santo ha caricato le parole della Bibbia (cfr. Nannini 2021d)24. Partendo da tale retroterra nelle Institutiones hermaneuticae sacrae (1723; 1725, II ed.; 1729, III ed.), Rambach assume la triparti23 A rilevare con particolare cogenza questo aspetto è Matthias 2011, pp. 199 e ss. 24 Al problema dell’enfasi è consacrata anche la dissertazione di un allievo di Francke, Johannes Tribbechow (Francke, Tribbechow 1698), in cui l’enfasi è definita in riferimento alla vis e al pondus delle parole (§§ 3 e ss.).

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zione dei sensi di Francke, discutendola esplicitamente in relazione al principio di Coccejus. Rambach definisce in particolare il senso di un discorso come l’insieme dei “concetti delle cose che vengono suscitati per mezzo delle parole dello scrivente nell’animo del lettore o dell’ascoltatore” (Rambach 1723, p. 54). Nel caso della Scrittura, ovviamente, a scrivere (o a dettare) è lo Spirito Santo stesso. Chiariti questi presupposti, Rambach ribadisce l’unicità del senso di un testo, regola aurea alla quale – continua il teologo – si sarebbero sottratti molti interpreti, chi per difetto, come coloro che negano l’esistenza di un senso mistico, chi per eccesso, come i “Cocceii sectatores”, che invece cadono nella tentazione della sovrainterpretazione (Rambach 1723, pp. 55 e ss.; 356). Pensare come i papisti e i cocceiani, qui accomunati senza troppe sottigliezze, che occorra ammettere una pluralità di sensi (letterali) presenti al contempo in ogni passo a causa dell’ispirazione divina della Scrittura, minerebbe alle fondamenta la perspicuità biblica. Una simile conclusione, infatti, andrebbe a detrimento della saggezza divina, la quale in questo caso non avrebbe tenuto conto della debolezza dell’intelletto umano, capace di focalizzarsi su un solo oggetto per volta (Rambach 1723, p. 64). E tuttavia, Rambach aggiunge una puntualizzazione che lo riavvicina al dettato di Coccejus: Concediamo […] che quell’unico senso talvolta sia composto di più parti, reciprocamente subordinate tra loro, che potresti definire come senso pieno, […] ma unico è il senso pieno e composito, che si deve estendere nell’intelletto degli ascoltatori in due specie di rami o parti. (Rambach 1723, p. 66)

Ciò che dunque alla nostra limitata comprensione ci appare come una serie virtualmente infinita di significati trova in realtà una più profonda unità nell’intenzione divina, che ne ha associato le varie parti in modo tale che “scaturisca una foecunditas sensus, o che il relativo senso comprenda in sé più modos della cosa”, cosicché “spesso la cosa espressa tramite una parola è di una tale amplitudo da essere composta di più idee subordinate” (Rambach 1738, vol. 1, p. 255)25. 25 Proprio questa versione della dottrina della foecunditas giungerà alla voce Verstand der Heiligen Schrift del Lexicon di Zedler, che contribuirà non poco a renderla popolare: “A questa unicità [del senso] non è però opposta la foe-

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La sistematica connessione tra la molteplicità delle perle e l’unità del tesoro, tra la plenitudo dei pensieri e la brevitas delle parole, porterà a declinare la dottrina della foecunditas Scripturae mediante la nozione di pregnanza, un concetto proveniente dalla discussione filologica sullo stile biblico26. Già Johann Andreas Quenstedt (1617-1688) aveva definito come praegnans il locus in cui erano compresi più sensi mediati (Quenstedt 1702, vol. 1, p. 136). Lo stesso aveva ribadito Unkauff nella prefazione dell’opuscolo sopra citato (Bibliophilus 1709, “Praefatio”, s.p.). Su queste basi, Rambach sentirà l’esigenza, a partire dalla terza edizione (1729) delle sue Institutiones hermeneuticae sacrae, di affiancare alla dizione di “sensus plenus & compositus” e di “sensus foecundus” anche quella di “sensus praegnans” (Rambach 1729, pp. 65-66)27. cunditas, poiché l’unico senso (unicus sensus) spesso contiene in sé plures respectus, plures res modos vel status sibi subordinatos, che insieme esprimono plenam Dei loquendis intentionem, la piena intenzione del discorso di Dio”, cfr. Zedler 1746, col. 1973. 26 Flacio Illirico nella sua Clavis Sacrae Scripturae aveva dichiarato: “At sacrae literae sunt adeo praegnantes optimis rebus, ut sint quasi perpetuae quaedam sententiae, vel propalam tali forma propositae; vel quae, licet sint circumstantiis convestitae, & quasi ad individua applicatae, facile tamen ad generale dogma perduci queant”, cfr. Flacius Illyricus 1567, vol. 2, pp. 233-234. L’espressione è ripresa anche nella Philologia sacra di Glassius 1705, col. 2057. Cfr. anche p. 268 del II vol. della Clavis di Flacius, in cui si parla di “quasi praegnantes voces”. Per la filologia hallense su questo tema, cfr. ad esempio Michaelis, Michaelis 1720, pp. 341; 444; 601; 1364. L’ascendenza filologica del “senso pregnante” è evidente nell’Hermeneutica sacra di un allievo e collaboratore di Siegmund Jacob Baumgarten, l’orientalista Johann Ludwig Schulze (1734-1799), in cui si afferma esplicitamente che la “foecunditas formalis” di un testo coincide con la “constructio praegnans” o “sylleptica” dei filologi. Il passo citato è lo scolio al § 7. 27 L’espressione è presente in generale nella Erläuterung del 1738, dove si discute il tutto con maggiore ampiezza, cfr. pp. 242-263. L’Onomasticon philosophicum (Aso et al. 1989, p. 286) riporta come prime accezioni del termine “pregnante” quelle di Baumgarten e Meier, senza nulla dire degli antecedenti ermeneutici. Il “senso pregnante”, come evidente nella lista di espressioni fornita da Rambach, è strettamente legato alla dizione di “senso composito”, nella misura in cui entrambi fanno riferimento diretto alle diverse articolazioni latenti, e dunque “enfatiche”, del senso. Da teorico della retorica, Lausberg (1969, § 210) affermerà esplicitamente che la pregnanza è la forma moderna dell’enfasi.

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Una simile precisazione, che eleva a livello ermeneutico un concetto proprio della filologia sacra, porta allo scoperto i legami impliciti instauratisi su questo punto tra i due ambiti. Nella misura in cui l’ortodossia luterana ammetteva un unico, ancorché fecondissimo, senso letterale della Scrittura per motivi dogmatico-ermeneutici (la chiarezza della Scrittura e la fecondità dell’intelletto divino), tale senso non poteva che incarnarsi a livello stilistico in una “pregnanza” come plenitudo in brevitate su cui, abbiamo visto, insistevano le opere filologiche di Flacio e di Glassius. Se la fecondità fornisce le coordinate dottrinali per comprendere le peculiarità linguistiche dei testi biblici, dunque, la pregnanza enfatica delle parole offre un puntello stilistico che rende tangibile la dimensione della fecondità28. Tale alleanza emerge con chiarezza nella trattazione rambachiana dell’enfasi (Nachdruck) sacra, intesa come il veicolo di un “significantior sensus” in base a una precisa intenzione dello Spirito Santo: Il fondamento delle enfasi sacre – scrive Rambach – è posto nel fatto che non solo le cose comprese nelle sacre pagine, ma anche le parole stesse sono state ispirate dal sapientissimo Spirito e suggerite agli scrittori santi; per questo privilegio, alle voci sono assegnati tanta ampiezza di significato e tanto peso quanto possono sostenere per la natura della cosa soggiacente. (Rambach 1723, p. 319)

La questione sarà ancora più evidente nell’Hermeneutica sacra (1733) di Joachim Lange, il quale dedicherà all’analisi delle enfasi sacre l’intera seconda sezione della parte generale dell’opera, intitolata sintomaticamente De emphaseologia, seu de sensu vocum emphatico eruendo. L’incipit è quanto mai chiaro: Per enfasi si intende quella fecondità e pienezza di senso che in parte la cosa stessa, in parte lo scopo e l’affetto di chi parla o di chi scrive applicano alle parole e alle locuzioni […]. E così il fondamento dell’enfasiologia sta nella solennità (gravitas), nella ricchezza e nella fecondità delle cose divine. In base a tale proprietà, queste sono come dei pozzi, che non possono essere facilmente esauriti, e come un giacimento di metallo, che mostra di continuo ai minatori nuove vene di metallo più prezioso. (Lange 1733a, p. 64) 28 Pur nella specificità della sua provenienza filologica, ad ogni modo, “senso pregnante” viene utilizzato in genere come sinonimo di “senso fecondo”.

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Proprio una simile fecondità (o extensio), che nella Oeconomia salutis aveva ribadito essere del tutto conciliabile con l’unicità del senso (Lange 1733b, p. 35), è il carattere eminente della divinità della Scrittura: E infatti la Sacra Scrittura non è solo parola, o discorso, che ha in comune qualsivoglia proprietà grammaticale, logica o retorica con qualsivoglia scritto umano ben ordinato; ma è Parola di Dio stesso, e dunque fecondissima di virtù divina: per questo è paragonata a un seme vivo, che possiede una forza intrinseca, Pt 1:23. (Lange 1733a, p. 12)

L’esercizio di una tale forza corrisponderà – come sappiamo – all’innesco degli affetti sacri. Nelle storie “plane singulares & extraordinarias” della Sacra Scrittura, tali affetti saranno particolarmente impetuosi proprio quando non verrà esplicitamente citato lo stato interiore degli uomini coinvolti, ad esempio nell’assassinio di Abele da parte di Caino o nell’immolazione di Isacco – episodi in cui possiamo dedurre la pietà o l’empietà dei protagonisti solo mediante le loro parole e le loro azioni (Lange 1733a, p. 68). Se nell’enfasi rientrano in Lange le strategie ermeneutiche dell’ampliatio, come la derivazione del conseguente dall’antecedente e viceversa, delle circostanze concomitanti dal verbo o dal sostantivo che le regge, ecc., è solo l’experientia spiritualis, come già in Francke, ad aprire le porte alla vera comprensione del surplus di senso della Scrittura in base agli affetti sacri suscitati in noi: Come vedremo in seguito nel luogo appropriato, il dovere precipuo del valente interprete deve consistere nel ben considerare l’enfasiologia di qualsiasi testo, ovvero la sua enfasi in base ai pesi specifici di essa. Una simile considerazione è in massima parte superflua senza una propria esperienza delle cose divine, apportata dalla prassi e dalla coltivazione del rinnovamento. Anzi, a chi è privo di [tale esperienza], praticamente ogni locus apparirà del tutto arido, cosicché verrà ignorato ciò che andava indagato conformemente alla sua deinosei, e non di rado verranno addotte cose che sono del tutto estranee a esso. (Lange 1733a, p. 8; cfr. Lange 1709, pp. 6 e 31)

Anche in Rambach il richiamo allo stato dell’esegeta rappresenta il presupposto soggettivo per comprendere la fecondità della Scrittura in base al comune radicamento nello Spirito Santo. E tuttavia, l’efficacia

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dell’enfasi verrà spiegata in questo caso con una sempre maggiore attenzione per la forza del nesso psicologico fra le idee che la suscitano: L’enfasi di una parola consiste propriamente in quelle idee accessorie che sono connesse con l’idea primaria di una parola. […] La parola “amare” esprime l’idea di un tale moto dell’animo, poiché si cerca di unirsi con una cosa, la parola “odiare” [esprime] l’idea di un tale moto dell’animo, poiché si cerca di allontanarsi da una cosa. Si chiamano dunque ideae principales & primariae, quelle [cose] che sono connesse con queste parole. Oltre a queste ideae principales, che contengono in sé il significato proprio di una parola, alcune parole ricevono anche un’idea accessoria, attraverso la quale esprimiamo il nostro affetto, o il nostro giudizio su una cosa. Per es. quando dico: si è innamorato di questa persona, ciò è più enfatico di quando dico: ama questa persona. Perché è più enfatico? Risposta: Perché nel verbo “innamorarsi” all’idea principale è connessa un’idea accessoria, in cui si esprime il suo giudizio sull’excessus di questo amore. (Rambach 1738, vol. 2, p. 130)

La necessità di una tale articolazione tra le diverse idee non è difficile da comprendere nel quadro luterano che stiamo tratteggiando. Se infatti l’obiettivo è quello di predicare la fecondità di un senso che rimane nondimeno unico, la possibilità di connettere la rappresentazione principale alle rappresentazioni secondarie, che ne modulano più riccamente il contenuto in relazione a noi, consentirà di incrementare la portata semantica dell’idea primaria, evitando al contempo la proliferazione indiscriminata dei significati. Peraltro, come ormai evidente, l’unitarietà del senso non deriverà più da motivi prioritariamente teologici – l’appello alla chiarezza della Scrittura è solo l’ultimo dei motivi addotti – quanto piuttosto da una ragione sostanzialmente antropologica (Rambach 1723, p. 64). L’incipiente transizione verso un’accezione più laica dell’enfasi teologica emerge in particolare dalle probabili fonti impiegate da Rambach per puntellare le sue affermazioni: da un lato, Samuel Pufendorf (1632-1694), che nel De iure naturae et gentium (1672) menzionava, dal punto di vista giuridico, il legame tra l’obbligazione principale e le varie obbligazioni accessorie (Pufendorf 1672, liber 4, cap. 1, § 6); dall’altro, e soprattutto, la Logique di Port-Royal (1662), in cui stava scritto: [L]e parole significano spesso più di quanto sembra, e […] quando se ne vuole spiegare il significato, non ci si rappresenta tutta l’impres-

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sione che esse fanno sulla mente. […] Ora, accade spesso che una parola, oltre all’idea principale che si considera come il significato proprio di questa parola, susciti numerosi altri sensi che si possono chiamare accessori, ai quali non si presta attenzione, per quanto la mente ne riceva l’impressione. (Arnauld, Nicole 1662, pp. 111 e ss.)29

La filosofizzazione dell’amplitudo sensus Scripturae, già sottoposta a più rigidi criteri di coerenza razionale da Wolff30, troverà il proprio culmine nell’Unterricht von Auslegung der heiligen Schrift (1742; 1759, III ed.) del teologo Siegmund Jacob Baumgarten (1706-1757), fratello maggiore di Alexander, il quale aveva iniziato a tenere lezioni di ermeneutica proprio sul testo di Rambach. Già in quest’ultimo, il problema della fecondità e il problema dell’enfasi, benché strettamente connessi, venivano trattati in due luoghi separati, il primo, riguardante la dimensione del senso, nei fondamenti dell’ermeneutica, mentre il secondo, che ne rappresenta l’esempio più vistoso e tangibile, nei “media domestica”. Una distinzione simile sarà seguita dallo stesso Baumgarten, che affronterà la questione della fecondità nei primi paragrafi del suo compendio (Baumgarten 1759, § 12)31, dedicando all’enfasi un capitolo successivo (Baumgarten 1759, §§ 117 e ss.). In Baumgarten, tuttavia, la fondazione psicologica della dottrina viene affermata in termini ancora più chiari, nella misura in cui questi si riferirà al problema del significato mediante la nozione “teologicamente neutra” (Barth 2000, p. 83) di rappresentazione (Vorstellung)32. È vero che la suprema fecondità è ancora legata al divino fine dell’autore, per il quale vale, alla stregua di Coccejus, il passaggio a posse ad esse; e tuttavia, ad essere determinante sarà ora la capacità della rappresentazione principale di fungere da ratio per altre rappresentazioni: 29 La ricezione di tale opera da parte di Baumgarten può essere stata mediata anche da Reusch 1728, § 96; Reusch 1724, p. 11. Cfr. anche Bouhours 1687, pp. 382 e ss. Sui significati accessori delle parole nella Logica di Port-Royal e in Lamy, cfr. Morel 1984. 30 Wolff 1735a, p. 19: “Nemo non interpretum scripturae sacrae fatetur, sensui verborum ejusdem tribuendam esse omnem amplitudinem, quam habere possunt. Enimvero amplitudo non interpretis arbitratu, sed per principia definienda”. 31 La dottrina della fecondità del senso era affrontata in sede dogmatica nel capitolo sulla forma interna (ovvero il senso) della Sacra Scrittura, Baumgarten 1760, pp. 83-86. 32 Per l’influenza dell’ermeneutica wolffiana sull’ermeneutica di Siegmund J. Baumgarten e per i presupposti generali di quest’ultima, cfr. Nannini 2013, pp. 68-70, e Nannini 2021d, pp. 177-183, con i relativi riferimenti bibliografici.

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Le rappresentazioni suscitate mediante un discorso possono contenere il fondamento per altre rappresentazioni; anche le cose rappresentate [possono] fornire a loro volta segni per suscitare nuove rappresentazioni di altre cose così designate. Di conseguenza, l’unico senso di un discorso può contenere molteplici rappresentazioni fondate l’una nell’altra, se il loro autore ha voluto suscitarle ad altri al contempo; in ciò consiste la fecondità del senso. (Baumgarten 1759, § 12)33

Il caso delle rappresentazioni che contengono il fondamento di altre rappresentazioni sarà esemplificato dall’entimema, che, lasciando all’ascoltatore il compito di completare il ragionamento, manifesterà concretamente la possibilità da parte di certe parole o proposizioni di contenere il Grund per altre rappresentazioni (Baumgarten 1769, p. 41)34. Il secondo caso è quello delle parabole, in cui le rappresentazioni suscitate dal racconto del padrone di casa, del seminatore o del contadino diventano a loro volta segni per indicare verità spirituali ulteriori. In entrambe le situazioni, ad ogni modo, condizione necessaria per la fecondità del senso è l’esplicita intenzione dell’autore di innescare nel lettore quello specifico nexus rappresentativo (Baumgarten 1769, pp. 41-42)35. Tutto ciò si applica in maniera precipua alla Sacra Scrittura: Ora, poiché l’autore della Sacra Scrittura non solo può conoscere al contempo tutte le possibili rappresentazioni e i loro nessi, ma ha anche le più ampie intenzioni nella loro realizzazione e nella loro organizzazione, alla Sacra Scrittura deve essere attribuita la massima fecondità possibile. (Baumgarten 1759, § 12)

L’interprete non potrà che agire di conseguenza: “[U]n interprete non è solo giustificato, ma è anche tenuto a intendere il senso della Sacra Scrittura nel modo più fecondo possibile” (Baumgarten 1769, 33 Su questo, cfr. Danneberg 1994, pp. 135 e ss. 34 “Wenn man z. E. ein enthymema einem andern vorsagt, dabey ein und anderer Vordersatz ausgelassen und dessen Ergänzung dem Zuhörer selbst überlassen wird, so enthalten die gebrauchten Worte und Sätze der Rede einen Grund zu andern Vorstellungen”. 35 Cfr. Danneberg 1994, p. 134. Danneberg individuerà nella teoria dell’unità del senso scritturale verso la metà del Settecento una declinazione più orientata all’autore, come quella di Peter Ahlwardt, e una più orientata al lettore come quella dello stesso Baumgarten, cfr. ivi, p. 127 e ss; cfr. anche Bühler 1996, pp. 448-449.

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p. 42). Sintetizzando la dottrina in un aforisma, Baumgarten affermerà: “Vela sensus non sunt contrahenda ab interprete”. Una simile fecondità, ovviamente, non deve essere scambiata con un’indebita moltiplicazione del senso (Baumgarten 1769, pp. 42-43). A determinare il discrimine tra Fruchtbatkeit e Vervielfältigung è il nesso di subordinazione tra le rappresentazioni: Di conseguenza, per la censura di una simile moltiplicazione del senso non è neppure richiesto che simili interpretazioni si contraddicano l’una con l’altra e che non possano aver luogo e venire intese tutte insieme; semplicemente, quando tali interpretazioni non si fondano una sull’altra e non sono subordinate l’una all’altra, esse non possono essere ascritte alla fecondità del senso. (Baumgarten 1769, p. 43)

Se la moltiplicazione del senso deriva da un legame tipicamente paratattico tra le rappresentazioni, dunque, la sua fecondità sarà incardinata nella stessa sintassi del pensiero. Quando, tra il 1752 e il 1755, Siegmund J. Baumgarten solleciterà alcuni allievi a redigere la loro dissertazione di laurea ciascuno su un esiguo numero di paragrafi tra i primi venti del proprio manuale, Gottfried H.L. Gedicke, a cui tocca la sezione sulla fecondità, affermerà che “il senso fecondo o pregnante sarà quello che per mezzo di rappresentazioni prossime ne determina e dichiara altre, suscitate dai termini del discorso” (Baumgarten, Gedicke 1753, p. L)36. Insomma, se l’αὔξεσις alla base della fecondità di ogni oratio dipende dalla ricchezza del nesso rappresentativo significato dalle parole che la compongono, una tale amplificatio giungerà al proprio culmine nella Scrittura, dal momento che Dio conosce tutte le copulationes di cose, di pensieri e di simboli nell’universo. Per questo, al testo sacro compete una fecondità suprema (Baumgarten 1769, pp. 410-411)37. Come affermerà Georg Peter Zenckel nei suoi Elementa hermeneuticae sacrae (1752), che a Rambach e a Siegmund J. Baumgarten esplicitamente si ispira: 36 In nota si ribadisce che l’amplitudo non deve essere tacciata di multitudo, perché il nesso di argomenti riconduce il molteplice all’unità del senso, per quanto possa aumentare il numero di “involvata et implicata”. 37 “Er ist der föcundeste, der nur stattfinden oder erweislich seyn kan. D. i. die Worte der heiligen Schrift müssen alles bedeuten, was sie bedeuten können; nemlich der Absicht ihres Urhebers gemäß, denn was man zufällig dabey denken könte, kan zu den Bedeutungen nicht gerechnet werden”.

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In una cosa possono esserne comprese molteplici e varie. Le cose principali portano con sé quelle accessorie. […] E in un atto, in un’unica intenzione, accade non di rado che siano esibite e mostrate due o più cose insieme. Perciò, l’unico senso della Scrittura può essere nondimeno fecondo. Fecondo o pregnante si dice nell’uso comune ciò che da sé genera molte cose utili, ovvero molti vantaggi; o ciò da cui derivano molteplici frutti. Perciò, la fecondità ermeneutica sorge dalla moltitudine dei diversi concetti sussunti sotto un unico concetto. E si dice “senso fecondo o pregnante (ampio)” quello in cui vi sono concetti che traboccano di altri nuovi concetti; ovvero il senso nel quale sono implicati più concetti da parte dello Spirito Santo di quanto non appaia di primo acchito. (Zenckel 1752, pp. 50-51)

È su tale pienezza che si innestano anche per Siegmund J. Baumgarten le enfasi sacre: [A]l senso della Sacra Scrittura spetta la massima fecondità possibile, che non ha luogo senza la conoscenza delle rappresentazioni secondarie che vengono suscitate conformemente al fine del Creatore, e costituiscono la relativa enfasi. (Baumgarten 1759, § 117)

Mentre però ancora in Rambach la potenza dell’enfasi era un segno della presenza di Dio nella Scrittura (Rambach 1738, vol. 2, p. 133), ora essa – abbiamo visto – sembra derivare innanzitutto dal legame tra le varie rappresentazioni: [S]e l’esposizione di un discorso, oltre alle rappresentazioni principali vere e proprie che devono essere in tal modo suscitate, provoca ancora alcune rappresentazioni secondarie che sono coerenti con il fine del parlante, ciò si chiama enfasi, perché in tal modo si accresce il peso e l’effetto delle rappresentazioni principali. (Baumgarten 1759, § 118)

L’enfasi viene così a dipendere esplicitamente da quel nugolo di rappresentazioni secondarie che trovano letteralmente il proprio Grund, il proprio fondamento, nella rappresentazione principale a cui aderiscono.

4. LA GENESI DELLA PREGNANZA ESTETICA

a. Fecondità Sarà per l’appunto una tale prestazione di sintesi a essere posta dal fratello Alexander al cuore del nuovo progetto estetologico, in un intreccio quanto mai suggestivo di sollecitazioni ermeneutiche e presupposti leibniziano-wolffiani. Proprio nel tentativo di riorganizzare tali indizi all’interno di un disegno teorico coerente, però, la filosofia di Alexander G. Baumgarten fungerà da prisma capace di diffrangere una serie di nozioni come quelle di fecondità, pregnanza e complessità, che erano state precedentemente pensate come manifestazioni di un unico fenomeno. Il concetto di fecondità era stato ripreso già da Wolff, il quale aveva dedicato un piccolo trattato ai concetti fecondi (Wolff 1731b)1. Accogliendo una sollecitazione che gli era stata rivolta, Wolff intende chiarire in cosa consiste la fecondità di una nozione; allo scopo, Wolff si propone di gettare luce sul significato metaforico dell’espressione, che paragona il concetto al seme grazie al medium della fecondità. Ora, la fecondità del seme fa riferimento alla potentia germinandi: nel seme c’è qualcosa che consente il germogliare di una pianta se posto nel giusto terreno; la pianta è qualcosa di diverso dal seme, ma appartiene allo stesso genere (vegetali). I concetti fecondi sono allora quei concetti che contengono determinazioni di una cosa da cui è possibile trarre altre determinazioni che appartengono alla cosa stessa, e sono cruciali nel processo di inventio della conoscenza. Per quanto Wolff metta l’accento sull’importanza delle nozioni feconde per le definizioni (sia reali che nominali), è implicito che la fecondità possa avere a che fare anche con la conoscenza indistinta, come suggerito dalla 1

See Buchenau 2015, pp. 294-295.

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fecondità del discorso figurato, che Wolff utilizza per spiegare la stessa definizione nominale della “notio foecunda”2. Se Wolff pone la questione della fecondità su basi logiche, Baumgarten ne estende ulteriormente il campo semantico in direzione della metafisica, e in particolare dell’ontologia3. In primo luogo, la metafora della fecondità in Baumgarten mette in luce il notevole numero di conseguenze che discendono da un certo fondamento: “La grandezza di una ragione [ratio, nel senso di fondamento, AN] che deriva dal numero di conseguenze è fecondità” (M § 166)4. In questo modo, analogamente al fratello Siegmund nel contesto dell’ermeneutica sacra, Baumgarten connette l’idea di fecondità al nesso di subordinazione tra ratio e rationata. A livello metafisico il problema della ratio fa riferimento innanzitutto alla sostanza, a cui gli accidenti possono inerire, determinandone la forza (M § 197)5. È la portata degli effetti a definire in tal senso la fecondità. Con le parole dell’allievo Georg Friedrich Meier (1718-1777) nell’Abbildung eines Kunstrichters (1745): Se si considera la grandezza di una cosa in relazione alle sue conseguenze, tutto dipende dalla grandezza e dalla quantità di questi effetti. Se una cosa è una fonte inesauribile di molte conseguenze, se i suoi effetti si estendono all’infinito e assomigliano a una fiumana di cui non si può prevedere la fine, allora essa è feconda. (Meier 1745, p. 49)6

Dal momento che la conoscenza stessa è trattata alla stregua della sostanza7, la fecondità come la forza appartiene a ogni conoscenza, nella misura in cui fornisce la base per il nesso con un’altra conoscen2 Nella spiegazione della somiglianza tra il seme e il concetto fecondo, Wolff polemizza tra l’altro con quegli esegeti biblici che perdono di vista i limiti della somiglianza tra due elementi nell’interpretazione del discorso figurato, esagerando proprio nell’impiego del concetto di fecondità concettuale. Cfr. supra, cap. 3. 3 Sulle occorrenze della nozione, cfr. Aso et al. 1989, p. 143; pp. 519-520. 4 Per questo motivo, “la ragion sufficiente è la ragione più feconda”. 5 “Se gli accidenti ineriscono a una sostanza, allora c’è una qualche ragione dell’inerenza, o forza”. 6 Sul ruolo di Meier nella fondazione dell’estetica come disciplina, cfr. Nannini 2021b. 7 Cfr. Matsuo 1992, p. 23. Matsuo sottolinea inoltre che la forza di una percezione consiste nella capacità di attrarre l’attenzione, oscurando le percezioni più deboli, cfr. ivi, p. 19.

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za8. Sulla base di questo nesso, Baumgarten può guardare alle percezioni come argomenti (“la percezione in quanto ratio è argomento”); la loro fecondità è dunque incrementata da tutti e sei i tipi di argomento registrati da Baumgarten (arricchenti, nobilitanti, esplicanti, illuminanti, persuadenti, e moventi) (AE § 26)9. Feconde saranno allora tutte le percezioni capaci di connettere le percezioni secondarie alla percezione principale mediante le diverse tipologie di nessi enunciate dai sei criteri di perfezione della conoscenza10. In questo quadro generale, la pregnanza sarà solo una delle possibili manifestazioni della fecondità – quella che riguarda nello specifico la ricchezza della rappresentazione ed eventualmente la sua vividezza. Come ricordato, una percezione è pregnante se abbraccia simultaneamente numerosi caratteri, tratti o note11, per i quali quella percezione funge da ratio, o, con termine retorico, da argomento. Tali note non sempre saranno prevalentemente chiare come nella chiarezza estensiva. In effetti, le percezioni oscure hanno abitualmente una quantità di tratti maggiore delle percezioni chiare e confuse e delle percezioni distinte12. Dal punto di vista del processo cognitivo, ciò non sorprende. Le percezioni distinte, infatti, sorgono dalle percezioni oscure per mezzo di una progressiva evoluzione dei loro elementi13. Se le percezioni distinte derivano dallo sviluppo 8

In questo senso, nessuna conoscenza può essere considerata come totalmente sterile, perché la conoscenza ha sempre almeno qualche effetto, cfr. M § 515 a partire dalla seconda edizione (1743). Cfr. anche Baumgarten, Spalding 1741, §§ 16-8; e Baumgarten 1741b, p. 22. Su questo aspetto, cfr. Schwaiger 2016, p. 268. 9 Al § 540 dell’Aesthetica, Baumgarten scrive che “argomento” è “ogni materia destinata a essere scritta: quindi anche ogni percezione che sia materia di pensiero, causa a sua volta di un’altra percezione”; in tal modo, Baumgarten rilegge in senso epistemico la definizione di Quintiliano registrata nella medesima sezione. Cfr. anche M § 515. Per il legame tra percezione e argomentazione in Baumgarten, cfr. Tedesco 2000, pp. 84-87. 10 Una tale fecondità può essere riscontrata anche nella dottrina di Breitinger, tramite quegli Umstände con maggiore evidenza fantastica con cui viene modulata sensibilmente la rappresentazione poetica. Cfr. su questo Tedesco 1997, pp. 71 e ss. 11 Una percezione pregnante è dunque anche feconda, ma non tutte le percezioni feconde sono anche pregnanti. 12 Cfr. Pimpinella 1996, pp. 492-493. 13 Per una contestualizzazione di questa dottrina in Wolff, Baumgarten e Meier, con particolare riguardo al legame con il preformismo, cfr. Borchers 2011, pp. 66-68; 157; 173.

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di quelle oscure (M § 559), le percezioni oscure devono includere un numero più elevato di caratteri impliciti (M § 517). In questo senso, come accennato al cap. 1, l’imperspicuità delle percezioni oscure non sarà dovuta a una scarsità, ma a una stipata abbondanza di tratti, che poggia in ultima analisi sulla natura rappresentativa dell’anima-monade come “mondo abbreviato”, un microcosmo che rispecchia il macrocosmo (M § 400)14. Una tale evoluzione o rischiaramento (cfr. Introduzione) è spiegata da Wolff in analogia con il processo preformista della generazione15, per cui vige una sorta di parallelismo tra la successione delle generazioni già preformate nel seme delle precedenti e lo sviluppo delle rappresentazioni dall’oscurità alla distinzione: […] l’evoluzione delle idee dipende dall’involuzione. Peraltro, un esempio di involuzione ricorre nella dottrina della generazione, dove, tra i diversi sistemi architettati dai filosofi, ricorre anche il sistema dell’involuzione. Se capita il discorso sulla preesistenza dei corpuscoli organici, a cui viene comunemente dato il nome di rudimenti, si dice senz’altro che in Adamo sarebbero preesistiti tutti i suoi posteri. Adamo conteneva in sé tutti i rudimenti dei suoi figli, nei cui rudimenti erano contenuti già in atto i rudimenti dei figli che da lui dovevano nascere, ovvero i nipoti di Adamo. E lo stesso si afferma dei pronipoti, dei figli dei pronipoti e così via.I rudimenti della generazione immediatamente successiva sono dunque contenuti nei rudimenti di quella precedente, ma ad un diverso grado di preformazione. […] La nozione di involuzione, così come la assumiamo nella spiegazione della natura profonda delle nostre percezioni, non è dunque sconosciuta in ambito filosofico. (PR § 187)

Nel seme di Adamo, in cui esiste in nuce l’intera umanità, convergono così in un’unica immagine la massima brevitas e la massima fecondità, ma anche la massima oscurità. Come i posteri di Adamo erano tutti presenti in maniera latente nel seme del progenitore, allo stesso modo anche tutte le idee di cui abbiamo 14 Cfr. Oberhausen 2002, pp. 128-130; La Rocca 2006, pp. 41-45; sulla monadologia in Baumgarten, cfr. Mirbach 2009. 15 Per il contesto, cfr. Borchers 2011, pp. 68 e ss. Nella Deutsche Physik, Wolff sostiene una sorta di ovo-vermismo, dove gli animaluncoli presenti nel seme trovano nell’ovulo femminile protezione e nutrimento per la propria crescita. Sebbene facciano la loro comparsa in momenti successivi, le parti dell’animaluncolo sono presenti miniaturizzate sin dall’inizio, Wolff 1723, § 446.

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coscienza sono contenute in forma involuta nelle idee oscure, ovvero, per dirla con Baumgarten, nel fondo dell’anima (M § 511). Vista in questa luce, la potentia germinandi di cui parla Wolff in rapporto ai concetti fecondi sembra appartenere in modo eminente alle rappresentazioni oscure, dove sono presenti i “semi” di ogni nostra conoscenza. Il passo decisivo in tale direzione è compiuto da Baumgarten, per il quale l’evolutio idearum va di pari passo con la tesi che le idee oscure sono percettivamente più dense delle idee chiare16. La fecondità delle idee oscure a questo punto è evidente, nella misura in cui le idee oscure sono in qualche misura “gravide” di ogni altra idea17. b. Pregnanza Una volta che la densità è ammessa non solo a livello della chiarezza, ma anche dell’oscurità, ad ogni modo, Baumgarten deve ricorrere a un concetto più capiente della “chiarezza estensiva” per designare questo elemento. La nozione di “fecondità”, abbiamo però visto, era già stata usata da Baumgarten con un significato tecnico preciso. Baumgarten introdurrà allora, come anticipato, la nozione di “pregnanza” nella sezione sulla psicologia empirica della Metaphysica (§ 517). Baumgarten presenta innanzitutto la nozione più inclusiva di “percezione associata”, un concetto già presente nel vocabolario wolffiano18. Secondo Baumgarten, le percezioni associate sono in generale “parte dello stesso insieme percettivo” (M § 516), laddove la percezione più forte, quella a cui prestiamo maggiore attenzione, domina sulle altre19. Rispetto a questa definizione, il concetto di pregnanza intende sottolineare in particolare il gran 16 Sul retroterra a cui attinge Baumgarten, cfr. Nannini 2021a. 17 Adler usa la felice immagine del “terreno di coltura” (Nährboden) in riferimento alle idee oscure del fundus animae, senza però riferimento ai legami con le teorie preformiste, cfr. Adler 1988, p. 208. 18 Cfr. PE § 174. Per un commento, cfr. Favaretti Camposampiero 2009, p. 176, nota 60. 19 Quando le percezioni oscure predominano, lo stato dell’anima è definito come “regno delle tenebre”; quando predominano le percezioni chiare, lo stato dell’anima è definito come “regno della luce”, cfr. M § 518.

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numero di implicazioni racchiuse in una data percezione, a prescindere dalla prevalenza della chiarezza o dell’oscurità delle note20. Dal momento che Wolff non tratta delle percezioni pregnanti21, appare del tutto plausibile che Baumgarten abbia potuto trovare supporto per la sua innovazione nella tradizione ermeneutica, che a sua volta aveva le proprie radici nella retorica dell’enfasi (cfr. supra)22. Se il senso pregnante è il senso che contiene molti sensi parziali senza moltiplicarsi o diventare ambiguo, le percezioni pregnanti sono da parte loro quelle percezioni che comprendono molte percezioni parziali come un unico intero composto di diverse parti. In tal senso, la pregnanza rinnoverà la stretta alleanza con la dimensione enfatica del pensiero, come abbiamo già iniziato a vedere nei capitoli precedenti. Se Baumgarten traduce “perceptiones praegnantes” con “vielsagende Vorstellungen” nella quarta edizione della Metaphysica (1757), Meier renderà ancora più evidente l’intreccio dei due concetti, traducendo “conceptus praegnantes” con l’espressione “nachdrückliche Begriffe” (Meier 1748, § 126). In tal modo, Meier porta in primo piano il termine “Nachdruck” che sin dall’Erläuterung di Rambach e ancora nello stesso Meier serviva per rendere la nozione di ἔμφασις 23. In realtà, alla categoria di Nachdruck, Meier, sulla scorta dello stesso Baumgarten (cfr. K § 295), affiancherà anche la nozione più spiccatamente tedesca di Körnige o Körnichte, che, raccordando la metaforica del (Saamen)Korn, del seme di grano, alla 20 La chiarezza o l’oscurità di una idea pregnante dipende dal numero dei tratti involuti (quanti più sono, tanto più è probabile che l’idea sia oscura), cfr. Torra-Mattenklott 2002, p. 215. 21 Cfr. Schwaiger 2011, p. 103. 22 Ciò tanto più che Baumgarten trae altri significativi spunti per la sua estetica dall’ambito teologico, cfr. ad es. Grote 2017 e Nannini 2021c. 23 Particolarmente interessante in questa proliferazione concettuale è l’operazione del teologo Johann Gottlieb Töllner (1724-1774), che cercherà di indicare l’inesauribile ricchezza semantica della Scrittura mediante la distinzione di tre diverse modalità di connessione tra le rappresentazioni. Dalla connessione basata sul nesso interno di più rappresentazioni imbricate l’una nell’altra scaturirà il senso fecondo; dal semplice legame di somiglianza scaturirà un senso segreto; dalle rappresentazioni pregnanti (vielsagende) deriverà infine un senso enfatico (nachdrückliche), Töllner 1765, §§ 11-2. Cfr. anche Danneberg 2003, pp. 698-701. Non posso seguire qui la terminologia della pregnanza nell’importante ermeneutica di Meier.

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metaforica del Kern, del nocciolo opposto alla corteccia (Schale), nominava implicitamente due fondamentali fonti di tale categoria: quella legata alla problematica del preformismo e quella teologica del Kern, che rinviava alla distinzione tra sensus literae e sensus literalis propria dell’ermeneutica biblica di Francke (cfr. supra, cap. 3). Se il seme di grano è pregno delle future generazioni della pianta e se il senso letterale può ospitare l’inesauribile potenza semantica dello Spirito Santo, così il Körnige coglierà la stessa pregnanza del pensiero24: “Simili concetti [i conceptus praegnantes], che sono per così dire gravidi (trächtig), causano la granulosità (Körnichte) dei nostri pensieri. Ogni volta che si riflette su di essi, si scopre qualcosa di nuovo in essi, che prima non si era ancora percepito […]. Nel rappresentarci molto al contempo, essi ci danno una prospettiva ampia” (Meier 1748, § 126; il termine è presente anche in Baumgarten, cfr. K § 295). Del “Körnichte” già aveva parlato Johann Christoph Gottsched (1700-1760). Nel nono capitolo del Versuch einer critischen Dichtkunst (1730; 1737, II ed.), Gottsched criticava i poeti che non utilizzano il periodo come espediente stilistico, proseguendo per intere pagine senza interruzione: Una tale maniera di scrivere è riprovevole nel discorso non legato, e ancor meno si conviene a un buon poeta, che deve scrivere in modo ancora più pregnante (körnichter), più enfatico (nachdrücklicher), e più potente (kräftiger) di un oratore. (Gottsched 1737a, p. 270)

L’assenza di un periodare regolare, benché in grado di accumulare una quantità notevole di pensieri, espone il poeta al rischio dell’ipertrofia verbale, e quindi anche dell’oscurità. Occorre dunque una körnigte Simplicität, a cui – come evidenzierà Ramler nella sua traduzione del Cours de belles-lettres di Batteux (1752; 1763, II ed.) – appartiene una “geziemende Ausdehnung des Gedankens” (Batteux 24 Oltre a queste matrici, il Körnige risente di due altre tradizioni concettuali, quella del Gewürzkorn, riferito al “sale” della lingua, e quella della moneta con la scritta “Nach dem alten Schrot und Korn”, che doveva garantire il perfetto accordo tra peso (Schrot) e valore (Korn). Su questi aspetti, cfr. Küntzel 1969, pp. 160 e ss.; cfr. anche Bahr 2004, pp. 98-101; Berndt 2020, pp. 106-108.

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1763, p. 307), una confacente estensione del pensiero25, che mette in luce la ricchezza e la chiarezza, non a caso proprie anche della claritas extensiva di Baumgarten. Il Körnigte come ideale di densa brevità delle parole resterà in questo senso un tratto stilistico cruciale per l’affermazione di una prosa tedesca moderna, citato da Lessing a Mendelssohn, da Goethe a Herder26 – un tratto che non dimentica, però, lo stampo della lingua antica, in accordo con il Leibniz degli Unvorgreiffliche Gedancken (1696-97, pubbl. post. 1717), il quale raccomandava di ricercare “unsern innern Kern des alten ehrlichen Deutschen” (Leibniz 1995, § 28), dal momento che “il fondo e il terreno di una lingua, per così dire, sono le parole su cui crescono i modi di dire quasi come frutti” (Leibniz 1995, § 32). Proprio nel tentativo di difendere la fecondità della lingua tedesca di fronte alle accuse di sacrificare materia e pensieri all’ornamento lezioso, Gottsched, per una volta d’accordo con Breitinger (1740, vol. 2, pp. 69 e ss.), non si periterà di prendere come esempio la capacità di tradurre il Körnigte del Paradise Lost (1667) di John Milton (1608-1674) da parte di Johann Jakob Bodmer (1698-1783) (Bodmer 1732), a testimonianza della plenitudo di pensieri che il tedesco è in grado di veicolare: Quest’ultima cosa l’ha già dimostrata il signor professor Bodmer quando ha tradotto in tedesco il Paradiso perduto di Milton, e al contempo ha dimostrato il quarto punto, che, cioè, si possono rappresentare pensieri enfatici, contenenti molto in sé in maniera tanto breve quanto è sempre possibile in inglese. Di certo tutti i conoscitori di Milton sono rimasti stupiti quando hanno letto questa sua traduzione. Infatti, chi si sarebbe mai immaginato che questa poesia così gravida di pensieri, la cui espressione è così pregnante (körnigt), ricca di senso e profonda, sarebbe stata tradotta in maniera così enfatica e completa anche in tedesco? Eppure il signor Bodmer lo ha fatto. Chi vuole ancora chiamare la nostra lingua fiacca, piatta e ciarliera, merita davvero di essere deriso. (Gottsched 1737b, pp. 428 e ss.)27 25 L’originale di Batteux suonava “simplicité moëleuse”, cfr. Batteux 1753, p. 264. 26 Per i riferimenti, cfr. Küntzel 1969, pp. 160-8. 27 Sull’importanza della ricezione di Milton nell’affinamento del vocabolario della pregnanza in Germania, cfr. Budick 2010, cap. 2. Nel De versione librorum (1731), un trattatello sulla traduzione, Wolff discute dell’enfasi in relazione alla vaghezza semantica dei termini in cui non è chiaro quale

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Sempre sviluppando il discorso di Leibniz, anche Breitinger approfondirà la questione dal suo punto di vista in un capitolo della Critische Dichtkunst dedicato alle parole piene di potenza, o appunto enfatiche (nachdrückliche Wörter): Le parole che connettono insieme in maniera stringente molti concetti articolati, dando così molto da pensare, rendono un discorso vigoroso, e occupano l’animo del lettore con molte riflessioni; al contrario, un discorso composto solo di spiegazioni e perifrasi deve necessariamente risultare opaco e privo di forza. (Breitinger 1740, vol. 2, p. 58)28

È evidente ad ogni modo che tale densità di pensiero potrà essere valorizzata solo da chi è attrezzato per coglierla. Benché l’inquadramento della pregnanza e dell’enfasi in ambito psicologico porti a non affermare più l’esigenza di rigenerazione spirituale per cogliere il senso pregnante come nell’ermeneutica sacra di Lange, resta tuttavia la necessità da parte del fruitore di una notevole estensione di pensiero, in modo da poter corrispondere all’abbondanza di note con cui la cosa è presentata. Scriverà Meier: Se si vuole conseguire la ricchezza dei pensieri si devono pensare di un oggetto moltissime e molteplici cose in modo bello. Di conseguenza l’oggetto non deve solo essere fatto in modo tale che molte cose di esso possano essere pensate in maniera bella, ma la persona che lo osserva deve anche possedere la capacità e l’abilità di pensare molto su una cosa (viel bey einem Dinge zu denken). Le due [dimensioni] sono tra loro legate da un nesso inscindibile. Si pongano sotto gli occhi di una mente arida delle cose che contengono in sé una moltitudine infinita alla stregua di un tesoro nascosto, ed egli non vedrà quasi niente. (Meier 1748, § 42) sia l’idea principale e quali le idee secondarie. Come evidente, una traduzione fedele di questi termini diventa quasi impossibile, perché è raro che una parola in un’altra lingua possa evocare la stessa concatenazione di idee, cfr. Wolff 1735b, p. 256. Per un inquadramento, cfr. Favaretti Camposampiero 2015. Da parte sua, Baumgarten afferma che i termini che implicano (subindicant) concetti aderenti sono come una moneta, di cui è difficile trovare un corrispettivo dello stesso valore presso un altro popolo (Baumgarten 1761, § 490 scolio). Sull’enfasi in Baumgarten, cfr. anche Nannini 2023b. 28 Cfr. anche ivi, p. 50. Per la traduzione del passo, cfr. Tedesco 1997, p. 155.

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Nella misura in cui il pregnante diventa un elemento cruciale della produzione letteraria ed estetica più in generale29, l’atto della ricezione non potrà essere concepito come qualcosa di passivo o meramente contemplativo, ma esigerà una prestazione attiva da parte del fruitore, a cui è richiesto di percorrere le articolazioni delle idee che ci vengono proposte in un compito virtualmente infinito30. Dote fondamentale dell’aestheticus felix, tanto del fruitore quanto dell’artista, sarà dunque la fecondità dell’ingegno: La fecondità dello spirito estetico consiste nella facoltà di pensare moltissimo di una cosa. Una facoltà conoscitiva, nella misura in cui può pensare molto, è una facoltà estesa e vasta (facultas conoscitiva extensive maior). Di conseguenza, la fecondità dello spirito estetico consiste nell’estensione della forza conoscitiva sensibile. (Meier 1748, § 59)

È evidente in questo contesto che la pregnanza non dipende più dall’ispirazione divina dello Spirito Santo che pervade i testi sacri, ma dall’ispirazione del bel esprit31, che è in grado di comprimere una moltitudine di concetti in uno spazio minimo, esibendo, per così dire, una scena infinita in un unico punto (Meier 1744, § 134)32. Se nell’ambito dell’ermeneutica biblica luterana la fecondità apparteneva all’intelletto divino come fonte della pregnanza scritturale, dunque, ora la fecondità viene attribuita all’aestheticus felix come rappresentante esemplare dell’arte del bel pensare33, che non tar-

29 Ciò presuppone la necessità di segni capaci di veicolare tale pregnanza di pensieri, su cui qui non posso entrare; cfr. comunque Nannini 2023a; cfr. anche Franke 2018, capp. 3-6. 30 Sviluppo tale aspetto in relazione all’ermeneutica estetica di Baumgarten in Nannini 2023b. 31 Sull’ispirazione del bel esprit, cfr. K §§ 78-80. 32 Su questi aspetti, cfr. Torra-Mattenklott 2002, pp. 213-225, in particolare pp. 216-218. 33 Secondo Meier, la fecondità del bello spirito consiste nella capacità di pensare molto attorno a un soggetto, cfr. Meier 1748, §§ 58-9. Cfr. anche AE §§ 149-57, in cui Baumgarten parla di “ricchezza soggettiva” o “ricchezza dell’ingegno” per riferirsi a tale tratto. Sulla secolarizzazione della “fecondità” e la sua applicazione all’ermeneutica dei testi letterari, cfr. Beetz 1981, p. 611. Tuttavia, Beetz non considera il ruolo delle percezioni pre-

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derà a diventare – ad esempio in Mendelssohn (1762) e in Kant (cfr. infra, cap. 5) – un tratto fondamentale del genio. c. Complessità Oltre alla pregnanza e alla fecondità, c’è un altro concetto che Baumgarten utilizza per indicare la densità del pensiero. Si tratta della nozione di complessità34. Baumgarten afferma nelle Meditationes del 1735: “Il concetto A, il quale indipendentemente dai tratti caratteristici del concetto B è rappresentato insieme con questo, aderisce allo stesso e, insieme all’altro cui aderisce, si dice Concetto Complesso, opposto al semplice, al quale non aderisce concetto alcuno” (Baumgarten 1999, § 23). I concetti aderenti sono dunque una sorta di “corona” di percezioni secondarie che circondano il concetto primario, il quale, in virtù di questo nesso, è definito “complesso”35. Il problema della complessità è delineato meglio nella Metaphysica, nella sezione della psicologia empirica dedicata alla facoltà conoscitiva inferiore: Una percezione che, oltre alle note a cui sono più attento, contiene altre note meno chiare, è una percezione complessa (complexa, gehæufte). Il complesso di note a cui sono più attento in un pensiero complesso è chiamato percezione primaria, mentre il complesso di note meno chiare è chiamato percezione aderente (secondaria) (perceptio adherens; Neben-Vorstellung). Dunque, una percezione complessa è l’insieme della percezione primaria e della percezione aderente. (M § 530)

Secondo tale definizione, la complessità presuppone una maggiore attenzione a certe note della percezione e un’attenzione mignanti di Baumgarten in questo processo. Cfr. anche Henn 1974, pp. 223224; Kurz 2004, pp. 38-39. 34 Come lamenta Schwaiger, una tale nozione ha ricevuto scarsa attenzione da parte dei commentatori, cfr. Schwaiger 2011, p. 103; Schwaiger menziona come rara eccezione Franke 1972, p. 47. 35 Il ricorso ai concetti complessi rende possibile incrementare il numero di percezioni che riguardano un certo tema. In questo senso, Baumgarten può menzionare gli epiteti come un caso esemplare che “fornisce una rappresentazione complessa di un sostantivo”, cfr. Baumgarten 1999, § 86; AE § 732.

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nore, per quanto non assente, ad altre note, che dunque risulteranno meno chiare. La complessità, suggerirà Meier (1748, § 126)36, è quindi una specificazione della pregnanza, che mette in primo piano l’articolazione interna tra diverse percezioni tra loro coalescenti37. Come evidente, nella nozione di percezione complessa Baumgarten non si limita a indicare la mera unione tra diverse percezioni semplici38, ma sottolinea il nesso di subordinazione tra la percezione dominante o primaria e la percezione secondaria, proprio come accadeva con l’enfasi nell’ermeneutica sacra e con i significati accessori delle parole nella logica di Port-Royal39. Tanto più ricco sarà il complesso di note della percezione secondaria, tanto più pregnante sarà la percezione complessa. La percezione complessa fa dunque leva sul carattere di admixtio delle percezioni, per cui, come visto sopra, un insieme di percezioni di un certo grado di chiarezza si unisce a un altro insieme, formando un unico plesso percettivo. Poiché ogni percezione umana è 36 “Tutti i concetti che contengono molto in sé, e dunque che possono essere considerati come un intero che consiste di molte parti, si chiamano concetti pregnanti (conceptus praegnantes) e ad essi appartengono anche quelli che sono composti da un concetto principale e da concetti secondari (conceptus complexi)”. 37 Come evidente, le nozioni di fecondità, pregnanza e complessità sono strettamente legate in ambito psicologico, ma comunque distinte. La fecondità indica il momento generativo e dinamico di una percezione che funge da ratio rispetto ad altre percezioni, che si configurano come effetti; la pregnanza si riferisce alla densità di tratti in un unico plesso percettivo; la complessità si riferisce al nesso, all’interno di un unico plesso percettivo, tra una percezione principale, a cui siamo più attenti ed è dunque più chiara, e una serie di percezioni meno chiare che si accompagnano ad essa. La complessità, come la fecondità, mette in luce l’articolazione percettiva, e, come la pregnanza, fa riferimento a un plesso percettivo considerato come un insieme singolare. 38 L’espressione “percezione complessa” era comune nell’epoca di Baumgarten. Oltre al retaggio di Locke, cfr. ad es. Thümmig 1725, § 72, il quale però ne tratta all’interno del capitolo sulla parte superiore della facoltà conoscitiva, mentre Baumgarten ne discute nella sezione sulla facoltà conoscitiva inferiore. 39 Cfr. supra, cap. 3. Sul ruolo di questi composti percettivi per la costruzione di finzioni in Baumgarten, cfr. Berndt 2017. L’importanza della “complessità” e della “opacità” nel pensiero di Baumgarten è ulteriormente discussa in Berndt 2020, pp. 55-75. Le finzioni e i mondi eterocosmici in generale contribuiscono a loro volta alla “venusta plenitudo” (AE § 585) che sarà cruciale anche per la poesia di Klopstock, cfr. Jacob 2011, pp. 47-50. Cfr. anche Pimpinella 2008, pp. 51 e ss.

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sempre una admixtio di percezioni a diversi gradi di chiarezza40, la complessità coglie la cifra della stessa dinamica percettiva dell’uomo nella sua finitezza. Nella complessità diventa tangibile, per così dire, la plissettatura dell’anima, dove ogni percezione involve sempre in sé altre percezioni, ed è dunque in certa misura ricca di pieghe non ancora dispiegate o evolute41. Tutte le percezioni umane sono perciò in qualche modo pregnanti e complesse, perché in tutte ci rappresentiamo più o meno oscuramente l’intero universo dal nostro punto di vista. Per rendere più evidente tale aspetto, Baumgarten sceglie di portare alle estreme conseguenze il concetto di “percezione totale” di Wolff. Se per Wolff la percezione totale comprende tutte le percezioni che abbiamo in un dato momento, come dimostra l’esempio dei diversi elementi di un paesaggio percepiti con un solo sguardo, assieme ai possibili ricordi ad esso associati, Baumgarten puntualizzerà che la percezione totale a rigore consiste nella totalità delle percezioni nell’anima (“totum repraesentationum in anima perceptio totalis est”, M § 514)42. In tal senso, l’insieme delle percezioni parziali oscure costituisce il “campo dell’oscurità (delle tenebre)”, mentre l’insieme delle percezioni parziali chiare costituisce il “campo della chiarezza (della luce)” (che include il campo della confusione, il campo della distinzione, il campo dell’adeguatezza, ecc.). In ogni dato istante, dunque, il campo della chiarezza e il campo dell’oscurità si intrecciano in modo diverso; ne consegue che la stessa percezione totale è per Baumgarten una percezione complessa, così come ogni percezione con cui ci rappresentiamo l’universo. Per quanto questo sia vero in generale, esistono comunque alcune percezioni che sono, per così dire, complesse in modo eminente. Se infatti il concetto di “percezione complessa” prevede la presenza di una percezione primaria più chiara e di una serie di percezioni meno chiare, esso si applicherà in modo particolare al caso in cui la “corona” di percezioni aderenti che ineriscono alla percezione 40 Con l’eccezione del totalmente oscuro che però non si può neppure esemplificare, come scriverà poi Meier 1752, § 156. D’altra parte, anche in Wolff la percezione oscura aveva un carattere indeterminato piuttosto che totalmente inconscio, cfr. La Rocca 2006, p. 41. 41 L’importanza della piega nella cultura barocca, e in Leibniz in particolare, è stata come noto studiata in Deleuze 2004. 42 Cfr. Pimpinella 2005, p. 65.

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primaria ha un grado di oscurità minore; in questo modo, infatti, le note aderenti consentono di pensare all’oggetto principale della nostra attenzione con una maggiore ricchezza di dettagli. Tale aspetto, proprio delle percezioni estensivamente chiare, diventa tangibile nell’impeto estetico, il momento in cui il bello spirito attualizza la bellezza dei pensieri grazie all’improvvisa vivificazione delle sue facoltà conoscitive, che Baumgarten paragona alle forze vive della fisica nella loro capacità di produrre effetto43. Abbiamo visto che la densità percettiva ha la sua sede originaria nel complesso delle percezioni oscure, ossia in quello che Baumgarten definisce “fondo dell’anima”44. Come Baumgarten afferma nelle lezioni di estetica (1749), raccolte dall’allievo Johann Samuel Patzke (1727-1787) e poi trascritte da Friedrich Nicolai (1733-1811)45, un simile “fondo”, nel corso dell’entusiasmo estetico, si solleva a un livello di minore oscurità, cosicché un intero nugolo di idee oscure aderisce al regno della chiarezza46. Grazie a tale adesione, le percezioni chiare con cui un bello spirito pensa sensibilmente una certa materia aumentano vertiginosamente il numero delle loro note (K § 80), dando così origine a composti percettivi pregnanti e comples43 Sull’impeto estetico, cfr. in particolare AE §§ 78-80. Per il rapporto dell’impeto estetico con le forze vive, cfr. Nannini 2023c; con la conoscenza viva, cfr. Nannini 2014; con l’emersione del fondo dell’anima, cfr. Nannini 2021a; con la dimensione somatica, cfr. Nannini 2022a. 44 Cfr. Adler 1988; Otabe 2012; Nannini 2021a. 45 Il manoscritto pubblicato da Poppe nel 1907 e poi andato perduto dopo la seconda guerra mondiale (Schochow 2003, pp. 160-165) aveva la seguente collocazione nella Biblioteca Reale di Berlino: MS NIC 249 (cfr. K, p. 21); dunque, esso faceva parte della collezione di Friedrich Nicolai. Se ancora Peres (2016) affermava l’anonimato dell’estensore di tali appunti, è possibile con queste informazioni giungere all’identità dello scrivente. Nella sua autobiografia Nicolai rivela di aver chiesto gli appunti delle lezioni di estetica di Baumgarten al suo amico Patzke (assieme agli appunti sulle lezioni baumgarteniane di logica e metafisica). Nicolai dichiara anche di averne trascritto una gran parte, cfr. Nicolai 1799, pp. 26-28. Si tratta con tutta probabilità del corso del semestre estivo del 1749, quando Baumgarten teneva le lezioni di estetica dalle 7 alle 8 del mattino (!), cfr. la lettera di Louis de Beausobre (26 agosto 1749) trascritta in Fontius 2006, pp. 571-572. 46 In quanto “gnoseologia inferior” (AE § 1), l’estetica dovrebbe occuparsi anche della pregnanza delle percezioni oscure, su cui poggiano gli istinti inesplicabili, cfr. Schwaiger 2011, cap. 7. Il bello spirito, però, non può lavorare direttamente con questo materiale e deve attendere il momento in cui l’impeto estetico lo rende più accessibile (e dunque meno oscuro).

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si. Non solo queste percezioni non diventano mai rigorosamente distinte, puntualizza Baumgarten, ma non lo devono neppure diventare (K § 80). Evidentemente, lo scopo di tale sviluppo parziale non è quello di acquisire rigore intellettuale, ma di promuovere la complessa densità delle percezioni chiare e confuse che alimenta il sorgere stesso della bellezza. Non stupisce a questo punto che la questione della pregnanza percettiva compaia in tutte e sei le tipologie di bellezza che Baumgarten menziona nella sua Aesthetica (ricchezza, grandezza, verità, luce, persuasione e vita)47. La pregnanza sarà dunque fondamentale non solo per la ricchezza (ubertas) estetica, in quanto incrementa il numero di percezioni su una certa materia in base a una “brevis, sed eleganter plena rotunditas” (AE § 565)48, ma anche per la grandezza estetica, a causa dell’enfatica brevità richiesta dai pensieri sublimi, come il “fiat lux” della Genesi lodato anche dallo Pseudo-Longino o il “τετέλεσται” di Cristo sulla croce49. In modo ancor più significativo, la pregnanza getta le fondamenta per la verità estetica, nella misura in cui permette alle rappresentazioni di restare fedeli alla verità materiale che la logica sacrifica sull’altare della conoscenza distinta50. Nell’aderire all’ideale di una “venusta plenitudo” (AE § 585), le percezioni pregnanti contribuiscono anche alla produzione della luce estetica. Come Baumgarten afferma nella sezione dell’A47 Su tali categorie, cfr. Nannini 2020. 48 Cfr. in generale AE §§ 115-76. Niehle (2018) ricostruisce la progressiva interiorizzazione del significato di pienezza nel corso del Settecento. Una tale transizione consente alla Fülle di divenire una nozione particolarmente appetibile per la teoria estetica, dal momento che viene a caratterizzare lo stesso momento generativo del poetare, la “camera del tesoro” da cui scaturiscono le potenzialità dell’immaginazione. 49 “Bei dem Erhabenen muß ich nachdrücklich (körnicht) denken, das ist, es muß in meinen ganz kurzen Worten so viel liegen, daß, wann ich darüber denken will, ich davon fast eine ganze Rede machen kann”, cfr. K § 295. Per gli esempi biblici, su cui non possiamo qui entrare, cfr. K § 300 (per il dibattito sul “fiat lux”, cfr. Till 2006). Mentre Baumgarten utilizza il termine “vielsagend” per la traduzione tedesca di “praegnans” nella quarta edizione della Metaphysica (1757), qui ricorre ai termini “nachdrücklich” e “körnicht”. 50 Nella mente di un ente finito come l’uomo, l’incremento di distinzione porta con sé una notevole perdita di tratti caratteristici, cfr. AE §§ 555-65; per questa ragione, le determinazioni di un individuo che è “omnimode determinatum” possono essere conosciute solo confusamente.

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esthetica dedicata a questo tema, “le percezioni pregnanti e complesse, a parità di altre condizioni, brillano di più di quelle meno complesse” (AE § 732). Una tale superiore vividezza è poi alla base dell’evidenza sensibile che riproduce l’oggetto di fronte agli occhi della mente (AE §§ 847-54)51, portando alla persuasione e preparando la strada per l’emozione (vita aesthetica) (K § 80; cfr. anche Meier 1744, §§ 70 e 134). Il ruolo della pregnanza nell’estetica di Baumgarten è senz’altro centrale. La pregnanza (e la complessità che ne specifica l’articolazione interna) coglie una dimensione che era propria della fecondità nell’ermeneutica protestante, dove la dottrina dell’unicità del senso rendeva necessaria l’ammissione di una copulazione di molteplici sensi parziali tra loro subordinati in un senso composito. Come mostrato nel capitolo precedente, quando tale presupposto ermeneutico verrà rifondato in senso psicologico con Rambach e Siegmund Jakob Baumgarten, l’accordo tra i sensi parziali e l’unico senso letterale sarà incardinato nel nesso tra rappresentazione primaria e rappresentazioni ancillari. Riprendendo questi temi nella sua Metaphysica, Alexander Baumgarten ne riconfigura il significato in un contesto più generale: se in ambito ermeneutico il problema a cui la fecondità è chiamata a rispondere consiste nella conciliabilità tra un numero potenzialmente infinito di sensi parziali e l’unicità del senso letterale, in ambito metafisico la questione della pregnanza intende cogliere la ricchezza inesauribile delle pieghe dell’anima-monade, capace di rappresentare in ogni istante l’intero universo dal proprio punto di vista senza venir meno alla sua semplicità. Alla luce di questa più ampia cornice, la pregnanza estenderà la sua portata dal contesto specifico dell’interpretazione biblica alle dinamiche stesse della conoscenza in quanto tale, e dunque all’epistemologia. Posto che l’epistemologia, o meglio la “gnoseologia” (SC §§ 7 e 25), include per Baumgarten tanto la logica in senso stretto, votata alle conoscenze distinte e intellettuali, quanto l’estetica, “gnoseologia inferior” (AE § 1), votata alle percezioni indistinte e sensibili, la pregnanza non potrà che ricadere nell’ambito di quest’ultima. Spostando il nocciolo problematico della pregnanza dal senso al 51 Sul legame tra pregnanza e evidenza in Baumgarten, cfr. Fromm 2006, pp. 133-146. Cfr. anche Ostermann 2002, pp. 71-88.

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sensibile, Baumgarten può così ricollocarne il dominio dall’ambito dell’ermeneutica all’ambito dell’estetica. Grazie all’intreccio tra gli assunti leibniziani e le categorie ermeneutiche, Baumgarten cattura in tal modo la fitta trama delle idee di cui l’estetica si propone come logica specifica52. Se l’estetica valorizza la prestazione conoscitiva della pregnanza nella sua auroralità, senza traguardarla in vista di un’evoluzione percettiva verso la distinzione, la pregnanza, come appena visto, viene a giocare a sua volta un ruolo cruciale nel realizzare il fine stesso dell’estetica, che è la bellezza (AE § 14). L’estetica, infatti, non si limita solo a studiare le concrezioni percettive che non possono essere espresse per mezzo di concetti distinti, ma cerca di portarle a perfezione, almeno per quanto è possibile fare all’interno della conoscenza sensibile53. La bellezza come fine dell’estetica, in questo senso, altro non sarà che l’esito di tale lavoro di politura, in cui l’equilibrio tra la massima pregnanza e la massima perfezione del pensiero trova la sintesi più compiuta.

52 Adler (1998, p. 24) parla di “logica della pregnanza” in riferimento all’estetica. Alla base di tale caratterizzazione risuona la “logica dell’individualità” evocata da Baeumler (1967), dal momento che la densità percettiva di tratti sottesa alla pregnanza è inestricabilmente legata alla ricchezza di note dell’ente individuale. 53 L’estetica in tal senso si propone di insegnare il modo con cui affinare le percezioni pregnanti, rinunciando al minor numero possibile di tratti che tale affinamento consente (AE §§ 555-65; cfr. su questo Nannini 2020, pp. 497498). Come scrive Baumgarten in un celebre passaggio (AE § 560): “Che cosa è infatti l’astrazione se non una perdita? Allo stesso modo non trarrai da un blocco irregolare di marmo una sfera, se non con una perdita almeno pari a quanto ne richiederà il maggior valore della rotondità”.

5. KANT E LE IDEE ESTETICHE: GIOCO, VIVIFICAZIONE E INTERESSE

a. Le idee estetiche in contesto La relazione tra pregnanza e bellezza, che Baumgarten sancisce in modo così netto, si dimostra un’acquisizione duratura del pensiero estetico. Come dichiarerà risolutamente Johann Gottfried Herder (1744-1803) nella quarta Selva Critica (1769): “[…] Troverai che la ricca pienezza dei concetti […] è la base di ogni bellezza” (Herder 1878, p. 157). In ragione di tale pienezza, la bellezza sembra restare al di qua della soglia che delimita il dominio della ragione verbalizzante. Se di fronte ai concetti pregnanti siamo portati a fare un ampio commentario (weitläuftigen Commentarium) per cercare di districare la matassa di pensieri, come già scriveva Meier (1748, § 126), è ora evidente che tale commentario potrebbe non avere mai fine. La ragione è illustrata con lucidità da Karl Philipp Moritz (1756-1793) nella Segnatura del bello (1788), dove la bellezza è ormai riferita direttamente alle opere d’arte: Le autentiche opere poetiche sono perciò anche le uniche vere descrizioni verbali del bello nelle opere dell’arte figurativa, perché il bello può essere descritto a parole sempre solo indirettamente. Le parole spesso debbono percorrere un giro molto lungo, e talvolta comprendere in sé un intero mondo di rapporti, prima di portare a compimento nel fondo del nostro essere quella stessa immagine che si presenta in un colpo davanti ai nostri occhi. (Moritz 1990, p. 100)

È l’afflusso di concetti nell’anima quando ci troviamo al cospetto dell’opera, affermerà Friedrich Schiller (1759-1805) nel 1795, che impedisce di renderne ragione (Schiller 1836, p. 174). Per questo occorre esporsi sempre di nuovo alla provocazione cognitiva che le opere portano con sé: “Le opere d’arte di primo

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rango – scrive Goethe da Roma al granduca Carl August (3 febbraio 1787) – dovrebbero essere riviste di tanto in tanto, in esse vi è un abisso sterminato” (Goethe 1863, p. 67). Di fronte a tale abisso, la reazione appropriata sarà allora il silenzio dell’aposiopesi1 oppure il commentario infinito. Proprio in quanto indicibile nella sua interezza, infatti, la pregnanza di senso di cui si fa portatrice l’opera d’arte sarà infinitamente dicibile nella sua parzialità2. In questo contesto teorico si colloca la nozione di “idea estetica”, che Immanuel Kant (1724-1804) sviluppa nella Critica della capacità di giudizio (1790; d’ora in poi KrU). L’idea estetica, che trova espressione nella bellezza artistica e naturale, “dà luogo a pensare in un concetto molte cose inesprimibili (viel Unnennbares), il cui sentimento vivifica le facoltà conoscitive” (KrU § 49). L’ineffabilità dell’idea estetica che porta allo scacco del logos enunciativo si accompagna qui a un sentimento di vivificazione. È proprio il nesso tra pregnanza e vita in relazione all’idea estetica ciò su cui intendo concentrarmi nel prosieguo. La questione della vita era cruciale già in Baumgarten; nel suscitare il desiderio e l’emozione, la bellezza viva o la vita estetica della conoscenza costituiva per Baumgarten l’ultima e suprema forma di bellezza a cui il bello spirito doveva mirare. In Baumgarten, ad ogni modo, la pregnanza (almeno nella sua dimensione chiara) era immediatamente legata alla vividezza piuttosto che alla vita. Come Baumgarten non si stanca di rimarcare, la vividezza (vividitas; Lebhaftigkeit) non coincide con la vita (vita; Leben)3, nella misura in cui la vividezza è legata alla chiarezza estensiva, e si colloca nella tradizione dell’enargeia, mentre la vita riesce a muovere 1

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3

Anche in questo caso è sintomatico quanto scrive Moritz: “Und von sterblichen Lippen, läßt sich kein erhabneres Wort vom Schönen sagen als: es ist!”, cfr. Moritz 1993, p. 578. Sulla questione dell’inesprimibile, con particolare riferimento a Herder, cfr. Godel 2014. In tal senso, non ha tutti i torti Baeumler quando vede nella comunicabilità di ciò che non può essere comunicato mediante il concetto il compito dell’arte a partire da Baumgarten, cfr. Baeumler 1967, p. 210. Da qui parte il discorso sull’ermeneutica dell’opera d’arte nel romanticismo e nella tarda Goethezeit su cui non posso entrare, cfr. Brunemeier 1983; Bode 1988; Scholtz 1991; Rodi 2015; cfr. anche Nannini 2023b per un inquadramento dell’ermeneutica estetica in Baumgarten. Cfr. Baumgarten 1741a, pp. 28-29; Baumgarten, Spalding 1741, p. 14; AE § 620.

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l’emozione, e dunque è più prossima all’energeia4. Se la vividezza resta ancora nella dimensione speculativa della conoscenza, quindi, la vita introduce alla dimensione pratica. La percezione vivida non è dunque di per sé viva, per quanto i legami non siano assenti: come abbiamo visto sopra, la vivificazione dell’animo e quindi l’impeto estetico provocato dal sollevamento delle rappresentazioni oscure del fondo dell’anima al livello di minore oscurità porta ad incrementare a dismisura il numero di rappresentazioni vivide e complesse (K § 80). A sua volta, le percezioni vivide contribuiscono a muovere e alimentare l’emozione, cosicché pensare una certa materia con un maggior numero di note al contempo “suscita le lacrime” (K § 80). Di fronte alla dottrina della vita di Baumgarten, come vedremo, Kant assume un atteggiamento ambivalente: da un lato, respinge la dimensione della vita come perfezione della conoscenza in ambito logico; dall’altro, riprende la questione della vita in ambito estetico, facendone un elemento cruciale per delineare la stessa “idea estetica”. Il significato di una tale ripresa e il rapporto con il retroterra baumgarteniano meritano dunque un approfondimento. Non sarà ovviamente possibile affrontare qui simili concetti in tutta la loro complessità all’interno del pensiero kantiano. Mi limiterò ad alcune riflessioni esplorative, assumendo come focus una serie di elementi di un unico paragrafo – il § 49 – della Kritik der Urteilskraft, intitolato “Von den Vermögen des Gemüths, welche das Genie ausmachen” (“Delle facoltà dell’animo, che costituiscono il genio”)5. 4

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Sul rapporto di tali categorie con il pensiero moderno e l’origine dell’estetica, cfr. Meuthen 1994, pp. 79-114; Mortara Garavelli 2004; Plett 2012; cfr. anche Campe 2001; Berndt 2020, pp. 75-86. Riguardo a tale rapporto, sto preparando un lavoro dal titolo L’estetica della vita, che vedrà la luce prossimamente. Devono dunque essere lasciate da parte le relazioni tra la dimensione della vita e il sublime, benché molte cose che diremo possano essere applicate, mutatis mutandis, anche a questo tema. Del pari, dovremo limitare al minimo i riferimenti che riguardano più direttamente la seconda parte dell’opera. L’edizione italiana della Kritik der Urteilskraft che ho utilizzato è Kant 2002; l’edizione italiana dell’Anthropologie in pragmatischer Hinsicht è Kant 2010. In entrambi i casi, resta inteso che ci si discosterà dalle scelte traduttive ogniqualvolta lo si riterrà opportuno. Per le altre opere, ove non diversamente indicato, le traduzioni sono da considerarsi mie.

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Prima di entrare nel merito, è opportuno ricordare la grande fortuna goduta dal § 49 della Kritik der Urteilskraft tra gli studiosi di Kant, grazie soprattutto alla nozione di “idea estetica”. Sin dall’inizio del Novecento, le analisi di Schlapp (1901, p. 60), di Vogt (1906, pp. 51-56) e di Bergmann (1911, pp. 163-165) avevano giustamente ricondotto la genesi di questo concetto alle percezioni pregnanti di Baumgarten e Meier, come poi confermeranno numerose altre ricerche più recenti6. Maggiore reticenza è stata mostrata invece in relazione al problema della “vita”7, in particolare nel suo rapporto con il piacere estetico, sebbene già Cassirer ne avesse indicato con chiarezza l’importanza per l’intera terza Critica (Cassirer 2001, p. 305 e ss.; cfr. anche Makkreel 1990, p. 89). Tra i contributi recenti che hanno tentato di porre rimedio a questa lacuna è da segnalare il lavoro di Caygill (2000), il quale si sofferma sulla transizione non sempre lineare da un modello rappresentativo di coscienza, tipico della prima Critica, al modello di coscienza più dinamico e corporeo della terza Critica, su cui riflettono anche Wilson (2007, cap. 4) e Calori (2008). Altri, come Fugate (2008)8 e Höwing (2013, cap. 1), hanno insistito sul rapporto tra vita e filosofia pratica, mentre Menninghaus ha esaminato il côté più genuinamente estetico della questione – l’arte come promozione della vita (2008) e la riformulazione kantiana del topos della “lebhafte Vorstellung” (2009)9. Su queste basi, non stupisce la proposta di 6

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Sulla questione dell’idea estetica, cfr. ad es. Meckauer 1918, che ha però intenti teorici più che storiografici; Mazzantini 1961; Scheer 1971; Lüthe 1984; Bartuschat 1987; Kong 1995, in particolare p. 187; Aichele 2005. Sull’importanza di non esagerare la prossimità tra percezioni pregnanti e idee estetiche, cfr. Franke 1972, p. 49, nota 66; Solms 1986, p. 41. Per la questione della vita in generale, cfr. almeno Löw 1980, in particolare pp. 153 e ss. Fugate contesta la scissione tra uso estetico e uso pratico del problema della vita fatto da Makkreel 1990, pp. 90 e ss. Cfr. anche Makkreel 1985. Menninghaus ha rintracciato le origini del problema della Lebendigkeit di Kant in Baumgarten, soffermandosi però sul modello della rappresentazione vivida, e dunque rischiando di lasciare da parte la stessa dimensione della “vita estetica” distinta dalla vividitas, cfr. Menninghaus 2009, pp. 77-78. McQuillan sottolinea giustamente l’importanza della vita come perfezione estetica nella tradizione baumgarteniana, con particolare riguardo a Meier (dal momento che Baumgarten non riuscirà a scrivere la parte dell’Aesthetica sulla vita estetica), cfr. McQuillan 2023. In quanto segue, metterò in

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rintracciare una vera e propria “estetica della vita” a partire da Kant – si vedano i tentativi di Recki (2002, pp. 212-217) e di Völker (2011) – allo scopo di indagare tanto il rapporto con altri autori del periodo (e non solo) quanto la portata della questione all’interno della filosofia kantiana. Il volume miscellaneo, annunciato per il 2023, Kant and the Feeling of Life: Beauty and Nature in the Critique of Judgment, a cura di Jennifer Mensch, potrebbe fornire un contributo essenziale per una migliore comprensione dei diversi aspetti del problema. A restare alquanto trascurata in letteratura, tuttavia, è proprio l’intima connessione tra il tema della vivificazione e quello della pregnanza delle idee estetiche, e il modo con cui tali ambiti si intrecciano ad altri nuclei del pensiero kantiano – in primis, il problema del gioco – e dell’estetica del Settecento tedesco più in generale – dall’impeto estetico di baumgarteniana memoria al problema dell’interesse in Garve. Per comprendere meglio tali snodi concettuali, sarà necessario innanzitutto rammentare brevemente i capisaldi dell’approccio kantiano alla bellezza che sono più pertinenti in merito. b. Il gioco e la vita Per dire se una cosa è bella o no, scrive Kant nel primo paragrafo della Kritik der Urteilskraft, occorre riferirne la rappresentazione al soggetto, a cui è preposto il giudizio di gusto. Di ciò, l’animo ha coscienza nel sentimento del suo proprio stato, che può essere di piacere o dispiacere. Bello sarà dunque ciò che provoca piacere mediante il riferimento della sua rappresentazione alla facoltà rappresentativa nella sua totalità: rilievo in particolare l’influenza della vita per come è trattata da Baumgarten nell’ambito dell’impeto estetico (AE § 80, cfr. supra). In tal senso, la fonte di Kant potrebbe essere direttamente Baumgarten, che vedeva nell’impeto estetico la condizione stessa per il sorgere della bellezza in tutte le sue forme (non solo della vita estetica della conoscenza), cfr. infra. Cfr. anche Höwing 2013, p. 36, nota 61, sull’importanza del concetto baumgarteniano di spontaneitas. Altri autori hanno visto una vicinanza di Kant a Crusius per il concetto di vita nella terza Critica, cfr. Fugate 2008, § 3, il quale giunge ad affermare: “Crusius is the single most important influence on this aspect of Kant’s work”.

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Il rappresentarsi con la facoltà conoscitiva (in una rappresentazione distinta o confusa) un edificio regolare e appropriato al suo scopo, è una cosa del tutto diversa dall’esser cosciente di questa rappresentazione con il sentimento di piacere. In quest’ultimo caso la rappresentazione è riferita interamente al soggetto, e precisamente al suo senso vitale, sotto il nome di piacere o dispiacere. (KrU § 1)

Ma in che cosa consiste il piacere che discende dal giudizio di gusto? Il piacere – afferma Kant in generale – è una promozione della vita (AA 15, 244; AA 25, 786), di cui il piacere del bello costituisce una specie particolare10. La bellezza apporta dunque un’intensificazione del sentimento soggettivo della propria esistenza. In tal senso, è chiara la differenza istituita da Kant rispetto al retaggio leibniziano ancora operante in Johann Georg Sulzer (1720-1779), il quale aveva certamente posto una differenza tra la dimensione della conoscenza – anche della conoscenza sensibile – e la questione del sentimento dovuto all’affezione soggettiva, senza tuttavia giungere a una vera e propria separazione11, come intende fare Kant con l’individuazione di tre facoltà autonome dell’animo umano12: la facoltà di conoscere, la facoltà di desiderare e il sentimento di piacere e dispiacere13. Grazie a questa tricotomia, la vivificazione non sarà più dovuta a una conoscenza che innesca il desiderio, ma allo stato d’animo che deriva dal rapporto di quella rappresentazione con la mia conoscenza in genere, ovvero con le condizioni che caratterizzano ogni conoscenza. Le condizioni che una rappresentazione deve esibire perché ne possa sorgere in generale una conoscenza sono la partecipazione dell’immaginazione, per l’unione del molteplice dell’intuizione, e quella dell’intelletto, per l’unità del concetto con cui unifica le rappresentazioni (KrU § 9). Poiché l’universalità non deriva da un concetto, ma da un fondamento soggettivo – e cioè, dalla possibilità di comunicare universalmente lo stato d’animo relativo alla rappresentazione data che sta alla base del giudizio di gusto – il rapporto 10 Non possiamo entrare qui nel merito della classificazione. Per un inquadramento della questione anche in rapporto alla dimensione del dolore, cfr. Calori 2008. 11 Ho insistito su questo aspetto e discusso la relativa letteratura nel commentario a Sulzer 2023. 12 Tra i diversi contributi sul tema, cfr. in particolare Terras 1978. 13 Cfr. il § 3 dell’Einleitung alla KrU.

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tra le facoltà conoscitive non sarà costretto da una regola di conoscenza, ma sarà caratterizzato piuttosto da un accordo che prende la forma di un libero gioco (KrU § 9)14: Un rapporto oggettivo può essere soltanto pensato; ma in quanto esso, secondo le sue condizioni, è soggettivo, può anche essere sentito nel suo effetto sull’animo: e di un rapporto che non abbia a fondamento alcun concetto (come quello delle facoltà rappresentative con una facoltà di conoscere in generale) non vi è altra coscienza che la sensazione dell’effetto che consiste nel gioco reso agevole delle due facoltà dell’animo (immaginazione e intelletto) vivificate da un accordo reciproco. (KrU § 9)

Proprio in quanto fondato sulle condizioni di una conoscenza in genere, lo stato d’animo che accompagna il libero gioco delle facoltà sarà qualcosa che possiamo legittimamente esigere a priori da ciascun uomo (KrU §§ 18 e ss.). In tal senso, il piacere del bello non è dato da un qualche interesse, perché è indipendente dalla materia che ci fa bramare l’esistenza dell’oggetto (KrU § 2), bensì dalla forma della finalità, e cioè dalla causalità interna costituita dalla freie Zusammenstimmung delle facoltà: La coscienza della finalità puramente formale nel gioco delle facoltà conoscitive del soggetto, rispetto a una rappresentazione con cui un oggetto è dato, è il piacere stesso, perché essa implica un fondamento della determinazione dell’attività del soggetto, diretto a vivificare le sue facoltà conoscitive, e quindi una causalità interna (che è finalistica) rispetto alla conoscenza in genere, senza però essere limitata a una determinata conoscenza. (KrU § 12)

Se la vivificazione che procura il giudizio di gusto non è fondata su un interesse, dunque, essa non dipenderà dalla reiterazione delle attrattive dell’oggetto, ma si conserverà da sé, donde il nostro indugiare nel bello: 14 “Le facoltà conoscitive, messe in gioco da questa rappresentazione, son qui in un gioco libero, perché nessun concetto determinato le costringe a una particolare regola di conoscenza. Sicché lo stato d’animo in questa rappresentazione deve essere quello che è costituito dal sentimento del libero gioco delle facoltà rappresentative in una rappresentazione data, rispetto a una conoscenza in genere”.

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[Questo piacere] ha una causalità in sé stesso, che consiste nel conservare, senza uno scopo ulteriore, lo stato della rappresentazione stessa e l’occupazione (Beschäftigung) delle facoltà conoscitive. Noi indugiamo nella contemplazione del bello, perché essa si rinforza e si riproduce da sé: e questo indugio è analogo (ma non identico) a quello che si ha, quando qualche attrattiva nella rappresentazione dell’oggetto eccita ripetutamente l’attenzione, mentre l’animo resta passivo. (KrU § 12)

Ma in che modo una rappresentazione può davvero promuovere tale finalità soggettiva senza essere essa stessa lo scopo del piacere? All’inizio del § 49, Kant cerca di formulare una risposta: Si dice di certi prodotti da cui ci si aspetta che si mostrino almeno in parte come arte bella: sono senza spirito, ancorché non si trovi in essi, per quanto concerne il gusto, nulla da biasimare. Una poesia può essere molto graziosa ed elegante, ma senza spirito. Una storia è precisa e ordinata, ma senza spirito. Un discorso solenne è al contempo ornato, ma senza spirito. Diverse conversazioni non mancano d’intrattenere, e ciononostante sono senza spirito; persino di una donna si può ben dire che è carina, affabile e garbata, ma senza spirito. Che cos’è dunque che qui si intende con “spirito”? (KrU § 49)

Alla base della contemplazione della bellezza che rifugge la semplice attrazione sensoriale sembra stare dunque una dimensione che Kant chiama “spirito” (Geist), e che a tutta prima si presenta come una sorta di je ne sais quoi non meglio definibile. L’interrogazione sulla natura dello spirito, in particolare in ambito poetico, era già stata posta con chiarezza da Denis Diderot (1713-1784) nella Lettre sur les sourds et muets (1751), dove il filosofo francese riconduceva la presenza dell’esprit alla nozione di geroglifico poetico: Passa allora nelle parole del poeta uno spirito che ne muove e vivifica tutte le sillabe. Che cos’è questo spirito? Ne ho talvolta sentito la presenza, ma tutto quello che so è che è lui a far sì che le cose siano dette e rappresentate simultaneamente; che nello stesso momento in cui l’intelletto le coglie, l’anima ne è commossa, l’immaginazione le vede, e l’orecchio le sente; e che il discorso non è più soltanto un concatenamento di termini energici che espongono il pensiero con forza e nobiltà, ma che è anche un tessuto di geroglifici ammassati gli uni sugli altri, che lo raffigurano. (Diderot 1984, p. 32)

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Per Diderot, quindi, lo spirito è legato alla dimensione pregnante del linguaggio del poeta, che vivifica le sillabe del singolo componimento15. Anche Kant mette in connessione lo spirito e la dimensione vitale: Si dice spirito in senso estetico il principio vivificante nell’animo. Ma ciò con cui questo principio vivifica l’anima, la materia di cui si serve, è ciò che pone finalisticamente le facoltà dell’animo in uno slancio, ovvero in un gioco che si conserva da sé e fortifica le facoltà stesse da cui risulta. (KrU § 49)

Lo slancio della vivificazione dello spirito viene identificato da Kant con un “gioco che si conserva da sé”. Ma che cosa si intende con una tale espressione? A parlare di gioco dell’immaginazione e di gioco delle sensazioni erano stati rispettivamente Gotthold Ephraim Lessing16 (1729-1781) e Moses Mendelssohn17 (1729-1786), a cui di solito ci si rifà per indicare i possibili precursori della dottrina kantiana del libero gioco delle facoltà18. In Kant, però, la questione del gioco non si limita alla sola accezione figurata, incarnando piuttosto una modalità antropologica fondamentale che si oppone al lavoro. È forse in tale compagine più ampia, dunque, che si possono individuare ulteriori fonti di suggestioni o di convergenze. Sebbene, infatti, la dicotomia tra gioco e lavoro ricalchi certamente l’antica coppia negotium-otium19, essa potrebbe essere giunta al filosofo di Königsberg da un autore a lui più prossimo, Christian Garve (1742-1798); si tratta di un pensatore noto negli studi kantiani soprattutto per la querelle seguita alla sua recensione alla Kritik der reinen Vernunft20, ma di cui, per quanto ne so, non è mai stata studiata la possibile influenza su Kant dal punto di vista estetico. 15 Cfr. Quintili 2001, pp. 243-245. Sulla questione del geroglifico, così importante anche per Wolff, mi soffermo in Nannini 2023a. 16 Cfr. ad es. Kulenkampff 1994, pp. 126-127; Pieper 2001, p. 138. 17 Cfr. Schlapp 1901, p. 132. 18 Sulla questione del gioco delle facoltà, la bibliografia è molto vasta. Per alcune recenti riletture critiche, cfr. Stolzenberg 2000; Guyer 2006; Hamm 2013. 19 Cfr. in particolare Trebels 1967; Heidemann 1968, pp. 125-216; Wachter 2006. 20 Sul piano morale, cfr. ad es. De Pascale 1999; sull’estetica di Garve, cfr. Nannini 2018 [ma 2020]. Per un recente inquadramento del pensiero di Garve, cfr. Roth, Stiening 2021.

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Commentando un passo della traduzione tedesca dei principi di morale di Adam Ferguson (Grundsätze der Moralphilosophie, 1772), Garve si soffermava a delineare la questione del passatempo e del gioco nella loro distanza dallo studio e dal lavoro: “Ma cosa sono poi questi passatempi? Sono quelle occupazioni (Beschäftigungen) che danno qualcosa da fare, da pensare, da perseguire – qualcosa senza uno scopo finale considerevole (ohne beträchtlichen Endzweck)” (Ferguson 1772, p. 407). Garve prosegue: Qual è dunque la differenza tra il lavoro dello spirito nel gioco e nello studio? Non ne vedo altre che queste: 1) Nello studio dobbiamo risvegliare in noi le idee stesse; nel gioco queste ci vengono offerte; nel primo caso dobbiamo, per così dire, produrre l’oggetto nella nostra anima; nel secondo, gli oggetti vengono prodotti per mezzo dei nessi contingenti (zufällig) del gioco. Vedere è facile; ricercare qualcosa è difficile. In tutti i casi in cui variano in noi i concetti mediante la variazione delle cose stesse fuori di noi, la nostra forza viene risparmiata; dove i concetti devono variare in noi mediante lo spostamento della nostra propria attenzione, la nostra forza viene sforzata (angestrengt). 2) Nel lavoro (Arbeit) deve essere perseguita una serie uniforme di idee, deve essere considerato un unico oggetto senza legami con altro; nel gioco vi è una serie perennemente mutata; sempre nuove entrate in scena. 3) Nel lavoro, di solito, o l’uniformità è troppo grande o la varietà troppo intricata; nel gioco, in particolare nel gioco di carte, le regole, una volta conosciute, danno uniformità; la mutevolezza dei casi a cui si applicano [dà] varietà. 4) Nel lavoro lo scopo è distante, e il successo a lungo incerto; nel gioco, lo scopo è prossimo e il successo viene presto deciso. (Ferguson 1772, p. 407)

Anche Kant perviene a esiti simili nelle riflessioni sull’antropologia degli anni Settanta, in cui le occupazioni dell’uomo sono suddivise in due categorie21: “Gioco e negozio (Geschäft). L’occupazione (Beschaftigung22) che non ha alcuno scopo non è negozio, ma gioco; quella che esiste in vista di uno scopo è lavoro” (R 810; Kant 2013, p. 50). Di primo acchito, la mancanza di scopo stabilita da Kant sembra essere un requisito più categorico rispetto all’assenza di uno scopo rilevante avanzata da Garve. Ma si tratta di un’impres21 Cfr. ad es. AA 15, 360. Alle occupazioni si oppone la quiete, che però non permette di sentire la nostra vita. 22 Conserviamo qui la grafia dell’appunto di Kant senza Umlaut sulla “a”.

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sione fuorviante. La permanenza di una qualche finalità (il fatto, cioè, che lo scopo non sia distante) non implica, infatti, in Garve la persistenza di un obiettivo da raggiungere per mezzo del gioco, ma solo un obiettivo da raggiungere nel gioco stesso. Un tale obiettivo – è facile concludere – non coinciderà tanto con un beneficio legato all’eventuale vittoria (Ferguson 1772, p. 408), quanto piuttosto con la stessa attività dell’anima innescata dall’occupazione nel senso dell’impegno23 (Beschäftigung). Il che peraltro non esclude la presenza delle regole – regole intese, però, come strumento di libertà del gioco stesso, e non come prontuario da seguire per conseguire uno scopo predeterminato. Le regole, insomma, inquadrano una varietà potenzialmente infinita di casi, senza per questo risolvere il gioco in una sequela di indicazioni universali e necessarie che annullerebbero la contingenza dei suoi nessi interni. Con le parole di Kant, anche qui non distante dal filosofo di Breslavia: “Il gioco ha le proprie regole, lo scopo leggi. Il gioco libero (un gioco coatto è una contraddizione)” (R 807; Kant 2013, p. 50). E ancora più esplicitamente, parlando della libertà del talento: Nella poesis soprattutto, dove l’occupazione è solo un gioco e un intrattenimento, perché le regole non rendono possibile l’esercizio. Comunque delle regole devono sempre stare a fondamento e servire da guida, ma non per creare il prodotto, bensì per rendere armoniche le azioni. (R 922; Kant 2013, pp. 57-58)

Alla stessa stregua di Garve, dunque, Kant insiste sul fatto che il gioco deve offrire una continua mutevolezza di idee, ancorché temperata da regole, senza che tale mutevolezza possa essere riconducibile alla nostra volontà: “L’occupazione in riposo è intrattenimento. L’intrattenimento è mediante un mutamento o intenzionale o non intenzionale (unvorsetzlich) dei pensieri; il primo è sforzo, lavoro, il secondo gioco” (AA 15, 360). La pienezza di senso di cui il gioco si fa portatore dipenderà insomma, tanto per Garve quanto per Kant, dall’esistenza di una finalità interna che si oppone alla dimensione teleologica del lavoro e dello studio: 23 Si tratta di quello che Garve aveva indicato come il qualche cosa da fare, da pensare, da perseguire, dove l’accento cade sul fare, sul pensare, sul perseguire. Come evidente, non è l’azione a essere finalizzata alla cosa da fare, ma la cosa da fare a essere finalizzata all’azione.

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Nel lavoro – scriverà il filosofo di Königsberg nelle lezioni di pedagogia – l’occupazione non è in sé stessa piacevole, ma la si intraprende a causa di un’altra intenzione. L’occupazione nel gioco è invece piacevole di per sé, senza mirare con ciò a nessun altro scopo. Quando andiamo a passeggiare, il passeggiare stesso è l’intenzione; quanto più lungo è il giro, dunque, tanto più è piacevole. (Kant 1803, p. 74)

Se nel gioco la durata dell’attività è un amabile intrattenimento che “risparmia” (Garve) o “rinfranca” (Kant) le nostre forze24, nella misura in cui è goduta per sé stessa, il lavoro comporterà per entrambi i pensatori uno sforzo proporzionale alla distanza dal conseguimento dello scopo: [I]l lavoro (lo sforzo) – afferma Kant – dispiace finché dura e piace solo per la [sua] fine, cioè per lo scopo. Il gioco piace finché dura ed è un’occupazione senza scopo; perciò alla fine non soddisfa, ma, finché dura, intrattiene. (AA 15, 360; Kant 2013, p. 50)

È per questa ragione sostanzialmente dietetica che gioco e lavoro dovranno essere alternati nella vita dell’uomo: Negozi e gioco si devono alternare come lavoro e riposo. I primi richiedono una qualche costrizione (Zwang) alle nostre forze, in quanto le indirizzano a uno scopo determinato, il secondo le porta in un libero movimento per mezzo del quale esse vengono occupate (beschaftigt) in maniera proporzionata (in ihrer proportion) e vivificate (belebt), e sono intrattenimenti, mentre i negozi sono scopi. (AA 15, 360)

L’impegno senza scopo suscitato dal gioco comporta dunque per Kant la vivificazione delle nostre forze. L’elemento sembra particolarmente importante ai nostri fini. La ragione di tale vivificazione può essere rintracciata nella tesi della Erläuterung durch Beispiele posposta al § 60 dell’Anthropologie in pragmatischer Hinsicht (1798). In tale delucidazione si afferma: Perché il gioco (specialmente quello a soldi) è così attraente e, quando non è troppo interessato all’utile, costituisce la migliore di24 AA 15, 390: “L’animo non si riposa nella quiete, eccetto che nel sonno (ma chissà se non gioca anche nel sonno?), ma nell’occupazione, però libera. Da ciò la propensione al gioco”.

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strazione e il miglior modo di riposarsi dopo un lungo affaticamento dei pensieri – mentre stando senza far nulla ci si riprende solo lentamente? Il motivo è che esso consiste in un alternarsi incessante di timore e speranza. Dopo il gioco, la cena si gradisce di più ed è anche migliore. – Per quale ragione gli spettacoli (siano essi tragedie oppure commedie)25 sono così attraenti? Perché in tutte queste rappresentazioni si fanno avanti certe difficoltà – angoscia e imbarazzo, fra speranza e gioia – e così il gioco di emozioni fra loro opposte, alla fine della pièce teatrale, è per lo spettatore motivo di incremento vitale, dal momento che lo spettacolo gli ha suscitato un moto interiore. (AA 7, 232)

Non siamo qui molto distanti dalla teoria del gioco di Garve, in cui il gioco consisteva, tra l’altro, in “una serie di piccoli eventi contingenti, i quali ci pongono in attesa prima di accadere e ci danno qualche meraviglia quando sono accaduti” (Ferguson 1772, p. 408). La cosa, d’altra parte, non sorprende, tenuto conto del ruolo che l’attesa assumeva in Garve nell’innescare uno stato di veglia completa26. Anche in Kant, un simile tratto acquisisce il carattere dell’incremento vitale. Il tema ritorna nella Kritik der Urteilskraft in riferimento alle arti piacevoli: le arti, cioè, che possono essere definite estetiche così come le arti belle, dal momento che hanno come scopo il sentimento immediato di piacere, ma che devono esserne distinte per il fatto che il piacere in tal caso accompagna le rappresentazioni in quanto semplici sensazioni e non in quanto modi di conoscenza (KrU § 44). Tra le arti piacevoli, Kant include le attrattive di una riunione conviviale, e dunque la conversazione, il racconto, il motto di spirito, ma anche il modo di allestire tavola e la musica di accompagnamento al banchetto: “A queste arti – conclude Kant – appartengono anche tutti quei giochi i quali non offrono altro interesse oltre a 25 Qui Kant è aiutato dal fatto che in tedesco “spettacolo” si dice Schauspiel e che la matrice Spiel resta anche nei termini “commedia” (Lustspiel) e “tragedia” (Trauerspiel). 26 Cfr. Garve 1974, p. 222: “Lo stato di un uomo che è interessato da qualcosa è una veglia più perfetta (vollkommneres Wachen), un più alto grado di vita. In tale stato, sentiamo noi stessi in maniera più vivace (lebhafter), abbiamo più desideri e aspettative del solito”. Ritorneremo più avanti sul legame con l’interesse.

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quello di far passare il tempo senza accorgersene” (KrU § 44). Di tali arti, il filosofo di Königsberg si occupa diffusamente al § 54, in cui riemerge l’importanza della dimensione vitale: Tra ciò che piace semplicemente nel giudizio, e ciò che diletta (piace nella sensazione), vi è, come abbiamo mostrato spesso, una differenza essenziale. In quest’ultimo caso non si può, come nel primo, esigere il piacere da ognuno. Il diletto (anche quando la sua causa stia nelle idee) pare che consista sempre in un sentimento dello svolgimento più facile di tutta la vita dell’uomo, e quindi anche del benessere corporeo, cioè della salute. (KrU § 54)

Se i giochi hanno il potere di dilettarci, dunque, essi avranno insieme il potere di vivificarci. Kant distingue tre diversi generi di giochi, in quanto tali almeno parzialmente disinteressati, che promuovono un simile sentimento vitale: Ogni gioco variato e libero delle sensazioni (che non abbiano a fondamento uno scopo) diletta perché favorisce il sentimento della salute, vi sia o no nel nostro giudizio razionale un piacere per l’oggetto e il diletto stesso; e tale diletto può elevarsi fino a diventare un affetto, sebbene non abbiamo alcun interesse per l’oggetto, o almeno nessun interesse proporzionato al grado dell’affetto. Questi giochi possiamo dividerli in gioco di fortuna, gioco musicale e gioco di pensieri. Il primo esige un interesse, sia della vanità, sia dell’utilità, il quale però non è tanto grande quanto l’interesse per il modo in cui cerchiamo di procurarcelo, il secondo non suppone che la variazione delle sensazioni, ciascuna delle quali si riferisce a un affetto, senza avere il grado dell’affetto, e suscita delle idee estetiche; il terzo nasce semplicemente dal variare delle rappresentazioni nella facoltà di giudizio, con il che, è vero, non viene prodotto alcun pensiero che implichi qualche interesse, ma l’animo resta vivificato. (KrU § 54)

Nel paragrafo citato, Kant si limita a parlare del diletto. Ma la vivificazione, sappiamo, è comune anche al piacere del bello. Nonostante le classificazioni dei tipi di piacere proposte in vari luoghi27, Kant non smentisce mai il fatto che “[i]n generale, il piacere è il sentimento della promozione della vita”28 (R 988; Kant 27 Cfr. ad es. KrU § 5 e, sempre nella terza Critica, l’Allgemeine Anmerkung zur Exposition der ästhetischen reflectirenden Urtheile; l’Einleitung alla Metaphysik der Sitten; AA 28, 248 e ss. 28 Cfr. Guyer 1979, pp. 102-105.

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2013, p. 61; cfr. anche AA 7, 231), dal momento che – secondo la tesi esposta nella Kritik der praktischen Vernunft – il sentimento di piacere non può che influenzare “la medesima forza vitale che si manifesta nella facoltà di desiderare” (AA 5, 23. Cfr. anche R 1488; Kant 2013, p. 71). Come una simile posizione si possa accordare con il divorzio tra il sentimento di piacere e la facoltà di desiderare professata nella Kritik der Urteilskraft sarà una crux interpretativa a cui accenneremo più avanti. Per il momento è più importante sottolineare in che modo il piacere della bellezza sia in grado di vivificare. Abbiamo appena detto della capacità dei giochi di favorire la nostra forza vitale. Alla luce di tale potere, il gioco potrà essere assunto anche per sostanziare la vivificazione innescata dalla bellezza stessa. Ma in tale passaggio, esso non sarà più visto come un’attività di cui siamo attori in prima persona, bensì come qualcosa che riguarda primariamente le nostre facoltà conoscitive nel loro rapporto reciproco. È in quanto metafora dell’effetto della bellezza sulle forze dell’animo che il gioco non sarà più considerato semplicemente come un’arte estetica a sé stante, ma come la base stessa dell’arte bella. All’interiorizzazione del gioco corrisponderà un’interiorizzazione della stessa vivificazione. Se Diderot aveva affermato, dal canto suo, che lo spirito “muove e vivifica tutte le sillabe” di una poesia, qui lo spirito, pur essendo mediato dalla materia, riferisce la vivificazione direttamente all’animo. Rileggiamo la formulazione di Kant: Si dice spirito in senso estetico il principio vivificante nell’animo. Ma ciò con cui questo principio vivifica l’anima, la materia di cui si serve, è ciò che pone finalisticamente le facoltà dell’animo in uno slancio, ovvero in un gioco che si conserva da sé e fortifica le facoltà stesse da cui risulta. (KrU § 49)29

In tale passaggio emergono tre termini con un significato apparentemente simile, ma che Kant non utilizza come sinonimi: spirito (Geist); animo (Gemüth) e anima (Seele)30. Per quanto riguarda il 29 Ora è chiaro che la fortificazione è un carattere proprio del gioco, di contro allo sforzo associato al lavoro. 30 Sulla differenza tra animo e anima, cfr. in generale Nemeth 1969. Sull’anima in confronto all’animo e allo spirito, cfr. Teruel 2013, pp. 512-513. Cfr. anche Vignola 1976.

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termine “animo”31, Kant vi ricorre in particolare per indicare l’insieme (il prefisso ge- ha di per sé una sfumatura collettivizzante32) di tutte e tre le facoltà del soggetto33, la cui unità “è condizione di possibilità della sintesi empirica in un unico e stesso soggetto trascendentale” (Teruel 2013, pp. 509-510). È alla luce di tale capacità di sintesi che Kant può definire l’animo come vita nel senso di mera coscienza della propria esistenza (KrU, Allgemeine Anmerkung zur Exposition der ästhetischen reflectirenden Urtheile). E tuttavia, come evidenziato in un pensiero dell’Opus postumum, “le creature organiche non hanno solamente una vita, ma anche un sentimento della vita” (AA 22, 495). La vita di per sé è insensibile: “La vita stessa non la sentiamo, ma [sentiamo] la promozione o l’impedimento della stessa” (AA 15, 244). Dunque, ciò che consente il sentimento della vita dipende dalla percezione di una variazione di intensità nella vita stessa. Ma per percepire tale variazione – promozione o intralcio che sia – l’animo non basta: occorre il corpo. È la presenza del corpo, in fondo, che consente alle creature organiche di avere il sentimento della vita. Kant scriverà: [L]a vita, senza il sentimento dell’organismo corporeo, è la semplice coscienza dell’esistenza, ma non sentimento di benessere e di malessere, vale a dire dell’esercizio facile o intralciato delle forze vitali; l’animo per sé solo è tutto vita (il principio stesso della vita), e gli ostacoli o le facilitazioni devono essere cercati fuori di esso, ma sempre nell’uomo, e quindi nel legame dell’animo con il corpo. (KrU, Allgemeine Anmerkung zur Exposition der ästhetischen reflectirenden Urtheile)

Senza poter entrare nella complessa evoluzione della questione vitale in Kant34, è chiaro che la vivificazione nella Kritik der Urteilskraft comporti una valorizzazione della dimensione somatica, lad31 Cfr. Teruel 2013. 32 Cfr. Turró 1994, pp. 34-36, nota 28. 33 Con le parole della Erste Einleitung alla Kritik der Urteilskraft: “Possiamo ricondurre tutte le facoltà dell’animo umano senza eccezione alle seguenti tre: la facoltà conoscitiva, il sentimento di piacere e dispiacere e la facoltà desiderativa” (AA 20, 205-6; cfr. anche AA 20, 245-6; AA 5, 198; AA 7, 399; AA 28, 1058). 34 Per la complessa evoluzione di questo tema, così come per l’evoluzione della concezione di vita, cfr. in particolare Makkreel 1990, pp. 88-107; Caygill 2000; Wilson 2007, cap. 4.

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dove il corpo è legato non tanto alla vita qua talis, quanto al sentimento della stessa, e dunque alla vivificazione35. Il piacere e il dolore, allora, dovranno essere considerati come due diversi modi in cui la vita si rende avvertibile per mezzo del corpo in base al suo differenziale positivo o negativo. Nel caso della bellezza, il differenziale di vita è ovviamente positivo e procura piacere. Procurando piacere, la bellezza aiuta dunque a conservare e a rafforzare la vita. In tal modo, la bellezza promuove la “vita organica”, nel senso dell’autoconservazione degli esseri viventi messa in luce nella seconda parte della Kritik der Urteilskraft36, ma promuove anche la “vita sentita”, nel senso del sentimento di piacere scaturito dal più agevole esercizio delle forze vitali37, e coincidente con il sentimento della salute38. Nella sua dimensione vivificante, la bellezza in Kant sembra così farsi portatrice di una più ampia valenza dietetica, che, come già in Baumgarten, si rivela centrale per la nascita dell’estetica filosofica39. c. La levatrice dei pensieri In questa sede, è cruciale mettere in evidenza la radice di una tale vivificazione. Nel caso del bello, il principio della vivificazione non 35 Se il libero gioco delle facoltà deriva dalla vivificazione dell’animo, e dunque anche dalla vivificazione delle sue facoltà, e se tale vivificazione si riverbera sul corpo, possiamo pensare che la vivificazione propria della bellezza abbia un importante ruolo nel coinvolgimento dell’integralità dell’uomo, cfr. Wilson 2007, cap. 4. L’importanza del corpo nella variazione dell’attività interna dell’anima era già cruciale in Sulzer, cfr. Nannini 2022b. 36 KrU §§ 64 e ss. su cui non possiamo soffermarci. 37 La differenza coincide con la distinzione tra vita e vitalità, laddove la vitalità costituisce il proprium del piacere. Il piacere, dunque, non è vita, perché questa di per sé resta insensibile, né sentimento della vita, perché può essere sentito anche il dolore, ma solo sentimento di promozione della vita, cfr. AA 25, 786. 38 Le due cose, peraltro, non sempre convergono, come afferma lo stesso Kant in R 1488, ad esempio se la promozione del sentimento della vita viene spinta al parossismo, provocando lo sfinimento della forza vitale (R 1488; Kant 2013, p. 71). 39 Sulla possibile rilevanza di una somatologia estetica in Baumgarten, cfr. Nannini 2022a; 2022c. Sul rapporto tra bellezza viva, piacere e dietetica in Baumgarten, cfr. Nannini 2023d. Nel periodo tra Baumgarten e Herder, l’importanza del corpo nella discussione del sentimento piacevole viene trattata in particolare da Sulzer e Mendelssohn, cfr. Lattanzi 2008.

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consiste né nel corpo né tanto meno nell’anima, che è invece ciò che viene vivificato, ma nello spirito (Geist). È tale spirito a innescare lo “slancio” (Schwung) ovvero il gioco (Spiel) tra le facoltà dell’animo. L’equiparazione, come accennato sopra, merita attenzione. Prima, però, occorre soffermarsi sulla stessa nozione di “spirito”40. Abbiamo notato che l’animo era stato definito alla stregua di un principio vitale (Lebensprincip), allorché lo spirito è qui considerato come un principio vivificante (das belebende Princip)41. A questo punto la differenza dovrebbe essere chiara: l’animo è vita insensibile, finché non interviene un incremento o un decremento che ce la renda avvertibile42; lo spirito è il responsabile del differenziale positivo della vita, ed è dunque inteso come vivificante, ovvero come “il principium della vivificazione (das principium der Belebung)” (AA 15, 418)43. Che lo spirito non si limiti a vivificare come l’ingegno44, ma sia propriamente il principium della vivificazione in senso estetico non è indifferente, perché implica la capacità di conservare nel tempo una tale vivificazione, lasciandoci indugiare nel bello di contro alla transitorietà del piacevole45. Una tale capacità affio40 Ci limiteremo a un breve schizzo, ad ogni modo successivo al 1770; cfr. in particolare Tonelli 1966, qui p. 114, nota 36. 41 Sullo spirito in Kant, oltre agli altri testi citati nel corso del capitolo, cfr. Zammito 1992, cap. 15; Dreyer 1908, pp. 3-38; Biemel 1959, pp. 74 e ss.; Sánchez Rodríguez 2010, pp. 163-179. 42 Qualcosa del genere era presente anche in Sulzer, in cui l’attività dell’anima doveva essere “interessata” da qualcosa che veniva da fuori per uscire dall’inerzia originaria, cfr. Nannini 2022b. Nel caso di Kant, a vivificare non sarà più un elemento esterno, ma qualcosa di interno come lo spirito, sebbene occasionato dalla rappresentazione di un oggetto. 43 Il che poi significa che lo spirito può vivificare l’animo solo se l’animo è in rapporto con il corpo. Senza il corpo, infatti, è impossibile avvertire in noi qualsiasi vivificazione: se è lo spirito a vivificare, dunque, è solo nel sentimento della agevolazione della nostra forza vitale che tale vivificazione diventa esperibile. Cfr. su questo Gerhardt 2012, pp. 102-103. Cfr. anche Wilson 2007, cap. 4. 44 Su tale differenza, cfr. AA 15, 365, laddove il gioco è qui da intendersi nel senso dello Spaßen di R 943, in opposizione alla serietà vivificante dello spirito. Tonelli (1966) fa notare che tale distinzione può essere connessa alla differenza tra vivificazione e principio vivificante, cfr. AA 15, 418: “Es kan uns etwas zur Belebung Anlass geben, ohne ein belebend principium zu seyn, z. E. bloße Bilder, welche die Imagination in Zug bringen”. 45 Cfr. ad es. AA 15, 375: “Sensazione e ingegno sono un gioco passeggero. Per lo spirito è necessario un movimento dell’animo che duri. Esso possiede un

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rava, seppur in altro contesto, già nello scritto d’esordio di Kant, i Gedanken von der wahren Schätzung der lebendigen Kräfte (1747), come proprietà della forza viva46: Abbiamo dimostrato che quando un corpo ha fondato in sé stesso la causa del suo movimento in maniera sufficiente e completa […], esso ha una forza viva; se invece non fonda affatto in sé la sua forza, ma dipende dall’esterno, esso ha solo una forza morta che è infinitamente più piccola di quella. (AA 1, 145)

In questo caso, la vivificazione si configurava come quel processo che congiungeva tramite infiniti gradi la condizione della forza morta e la condizione della forza viva, una condizione, quest’ultima, in cui il corpo è in grado di conservare da sé quella forza: “Quello stato in cui la forza del corpo non è ancora viva, ma procede verso tale stato, lo chiamo vivificazione (Lebendigwerdung oder Vivification) della stessa” (AA 1, 146). È tale vivificazione a fungere da canovaccio per lo slancio delle facoltà conoscitive, uno slancio capace di persistere da sé nella forma del libero gioco. Se lo spirito vivifica l’animo, dunque, è perché trasmette la propria vis viva alle relative facoltà47, come conferma lo stesso Kant in un corso di lezioni di Menschen- und Weltkenntnis del semestre invernale 1790-91, dove il filosofo di Königsberg dichiara esplicitamente: “Non vi è alcuno spirito (Geist) nell’uomo che non derivi dallo slancio, il quale si chiama anche forza viva (lebendige Kraft)” (Kant 1831, pp. 31-32). Alla luce della tradizione precedente, una tale conclusione non potrà certo apparire casuale. La metafora della forza viva era infatti il carattere determinante dell’impeto dell’aestheticus felix di Baumgarten – il presupposto della stessa vita estetica della conoscenza (Nannini 2023c). È vero che in Kant la vivificazione dipende dall’azione dello spirito, allorché Baumgarten ne riconduceva l’innesco al sollevamento del fondo dell’anima; ma se si tiene conto del fatto principium interno dell’attività”. Tale slancio ha dunque il potere della forza viva: non si limita, cioè, a vivificare, ma è il principio vitale, e dunque è in grado di conservare la vivificazione. 46 Cfr. Menninghaus 2009, p. 89; Portera 2010, pp. 52-53. 47 Ciò significa che lo slancio dell’animo innescato dallo spirito deve essere interpretato come una vera e propria forza viva.

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che lo spirito è definito nelle riflessioni private di Kant come “il fondo generativo delle idee (der Erzeugungsgrund der Ideen)” (AA 15, 414), allora non è azzardato ricondurre uno dei modelli su cui è fondato il Geist in senso estetico di Kant al fundus animae di Baumgarten, e lo slancio che deriva dal primo al sollevamento improvviso del secondo. Il passaggio dal principio di vivificazione allo slancio effettivo non è tuttavia automatico. Non basta, cioè, che vi sia nell’animo un principio di vivificazione per spiegare in quali occasioni esso mostri i suoi effetti. Occorre anche un innesco concreto, strettamente legato alla materia (Stoff) di cui il principio si serve per occasionare la vivificazione. Rileggendo i primi due capoversi del § 49 della Kritik der Urteilskraft, in effetti, si nota una certa scollatura48. Nel primo si elenca una serie di prodotti dotati di “spirito” – serie suggellata dalla domanda finale: “Che cos’è che si intende qui con ‘spirito’?” Nel secondo capoverso si risponde che lo spirito è il principio vivificante nell’animo, e cioè – nella formulazione di R 934 – “il principio interno {c ravvivante} del ravvivamento dei pensieri {c delle facoltà della mente}” (Kant 2013, p. 58). Lo spirito a cui si riferisce tale risposta, però, è un principio interno all’animo dell’uomo, non all’opera d’arte o a un altro prodotto in generale. Perché la risposta di Kant appaia comunque pertinente, è necessario presupporre che lo spirito interno sia attivato dalla presenza dello spirito nell’opera. La prima mossa di Kant in questo senso è quella di assimilare il principio di vivificazione alla facoltà di esibizione delle idee estetiche: Ora io sostengo che questo principio non è altro che la facoltà di esibizione delle idee estetiche; dove per idee estetiche intendo quelle rappresentazioni dell’immaginazione che danno occasione di pensare molto, senza che però un qualunque pensiero o concetto possa essere loro adeguato, e, per conseguenza, nessuna lingua possa perfettamente esprimerle e farle comprensibili. Si vede facilmente che esse sono il corrispettivo (pendant) delle idee della ragione, le quali sono invece concetti cui nessuna intuizione (rappresentazione dell’immaginazione) può essere adeguata. (KrU § 49) 48 Kohler parla a questo proposito di un uso paronimico del termine Geist, cfr. Kohler 1980, p. 229, nota 55.

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La seconda mossa individua gli elementi fondanti delle idee estetiche del fruitore negli attributi estetici della rappresentazione suscitata dalle opere d’arte: Quelle forme, che non costituiscono da sé l’esibizione di un concetto dato, ma, in quanto rappresentazioni secondarie dell’immaginazione, esprimono soltanto le conseguenze che vi si legano e l’affinità di quel concetto con altri concetti, sono chiamate attributi (estetici) di un oggetto, il cui concetto, in quanto idea della ragione, non può essere esibito adeguatamente. (KrU § 49)

La terza mossa, infine, consiste nel vedere in tali attributi la base dello spirito delle opere: Essi non rappresentano, come gli attributi logici, ciò che è nei nostri concetti della sublimità e maestà della creazione, ma qualcos’altro; il che dà occasione all’immaginazione di estendersi su di una quantità di rappresentazioni affini, le quali danno più da pensare di quanto si possa esprimere in un concetto determinato per via di parole; e danno una idea estetica, la quale serve a quella idea della ragione in vece di un’esibizione logica, propriamente, però, per vivificare l’animo, aprendogli una vista su di un campo smisurato di rappresentazioni affini. Ma le belle arti non procedono in tal modo soltanto nella pittura e nella scultura (per cui si usa comunemente il termine di attributi); anche la poesia e l’eloquenza traggono lo spirito che vivifica le loro opere unicamente dagli attributi estetici degli oggetti, i quali accompagnano gli attributi logici, e danno uno slancio all’immaginazione, fornendo più da pensare (sebbene in maniera non sviluppata) di quanto si può racchiudere in un concetto, e quindi in una determinata espressione verbale. (KrU § 49)

Ora, la capacità di vivificare le opere per mezzo degli attributi estetici è una prerogativa del genio, non del gusto. Ecco perché il gusto non trova nulla da ridire nei prodotti che mancano di spirito. È il genio, infatti, a possedere lo spirito: È probabilmente per questo che la parola genio è stata derivata da genius, che significa lo spirito proprio di un uomo, quello che gli è stato dato con la nascita, lo protegge, lo dirige, e dalla cui ispirazione provengono quelle idee originali. (KrU § 46)49 49 L’afflato religioso dello spirito sembra essere confermato anche in AA 15, 413: “Con lo spirito proprio non intendiamo l’anima stessa, ma lo spirito che,

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Lo spirito del genio “ravviva tutti i talenti” (Kant 2013, p. 58) come l’impeto estetico rendeva vive le forze morte dell’aestheticus felix (AE § 78). Solo mediante lo slancio dell’ispirazione (KrU § 48), in cui l’idea vivifica la sensibilità (e non il contrario per non sfociare nell’esaltazione) (AA 15, 414), il genio può insufflare lo spirito in un’opera grazie all’esibizione di una rappresentazione a cui aderisce una miriade di attributi estetici, ovvero una miriade di rappresentazioni secondarie50. È a partire da tale densità di pensiero che si è riconosciuta un’influenza delle percezioni pregnanti teorizzate da Baumgarten51. Quello che è rimasto più in ombra è che la pregnanza non costituisce un’influenza isolata; le percezioni pregnanti influenzano le idee estetiche perché la fonte da cui provengono e il modo in cui ne provengono è adottato, pur in un’applicazione tutt’affatto peculiare, dal modello baumgarteniano. È perché lo spirito assume diversi tratti riconducibili al fondo dell’anima e, del pari, perché lo slancio delle facoltà dell’animo si basa sulla sua improvvisa emersione, che anche l’esito di quella emersione – le percezioni pregnanti – possono fungere da fondamento per le idee estetiche. Come sappiamo, per l’autore dell’Aesthetica le percezioni pregnanti hanno la loro origine nel fundus animae. A causa del loro rapido sollevamento, tuttavia, una massa di rappresentazioni oscure giungono di colpo a una maggiore chiarezza, senza peraltro diradare del tutto l’oscurità che continua a prevalere in alcune di esse. Attraverso lo slancio con cui tali percezioni emergono, tutte le forze cognitive dell’anima vengono vivificate (AE § 78). per così dire, assiste le nostre forze, e mediante la cui ispirazione possiamo fare qualcosa per cui non sarebbero state d’aiuto né la diligenza né l’imitazione. È il principium della vivificazione delle nostre facoltà dell’animo. Questo spirito proprio non lo si conosce neppure e il suo movimento non è in nostro potere”. A tale passo fa eco l’Anthropologie (AA 7, 224): “La causa per cui l’originalità esemplare del talento viene chiamata con questo nome mistico (‘genio’) sta nel fatto che colui che lo possiede non sa spiegarsene le manifestazioni prorompenti, o anche non è in grado di concepire come sia pervenuto a un’arte che non ha potuto apprendere. Infatti l’invisibilità (della causa di un simile effetto) è un concetto implicitamente correlato a quello di spirito (di un genius, cioè, che accompagnava l’individuo talentuoso fin dalla sua nascita), del quale egli quasi non fa che seguire l’ispirazione”. 50 Sugli attributi estetici, cfr. ad esempio Mazzantini 1961, pp. 55 e ss. 51 Cfr. supra.

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Il fondo dell’anima in Baumgarten è dunque ad un tempo fonte feconda di vita, nella sua eruzione, e di pregnanza, nel contenuto delle rappresentazioni offerte. Ma tale doppia caratteristica è proprio la peculiarità dello spirito in senso estetico di Kant52, che è insieme “il fondo generativo delle idee”53 e “la segreta fonte della vita (der geheime Qvell des Lebens)” (AA 15, 371), ovvero “la peculiare proprietà di vivificare, di dare tutt’a un tratto un nuovo impulso” (AA 25, 557). Una simile subitaneità dell’impulso si traduce in Kant nell’innesco di una nuova serie di pensieri, come accade ad ogni affioramento del fondo dell’anima: “Lo spirito ravviva tutti i talenti. Esso dà inizio, a partire da sé, a una nuova serie di pensieri. Donde le idee” (Kant 2013, p. 58). Se in Baumgarten una tale emersione portava all’incremento delle note proprio della chiarezza estensiva, in Kant la chiarificazione delle idee oscure che sono pregne (praegnant) di quelle chiare funge da “levatrice (Hebamme) dei pensieri” (AA 15, 65). Tali pensieri saranno il fondamento delle idee estetiche. Se la bellezza è nient’altro che l’espressione delle idee estetiche (KrU § 51), anche la bellezza recherà traccia di questa genealogia54. Ciò è particolarmente evidente in R 177, dove l’indicibilità della bellezza è accostata all’improvviso rischiaramento di una riflessione oscura: “Che spesso ci rechi diletto (Vergnügen) abbandonare qualcosa alla riflessione oscura, che si rischiara improvvisamente. Stile. Che la bellezza debba essere impronunciabile. Ciò che pensiamo, non sempre lo possiamo dire” (AA 15, 66). La bellezza esibisce dunque un’affinità elettiva con la dimensione della pregnanza55. Come in Baumgarten, la pregnanza è data dalla presenza 52 Menninghaus parla al proposito di una dimensione autopoietica dell’anima, senza metterla in connessione con il sollevamento del fondo dell’anima, cfr. Menninghaus 2009, pp. 88 e ss. 53 Da notare in questo caso anche l’immagine della fecondità, che richiama il reticolo metaforico attorno al sollevamento del fondo dell’anima. 54 Cfr. su questo Juchem 1970; cfr. anche Rentsch 2011, pp. 370 e ss. Sull’evoluzione del concetto di bellezza, cfr. Parret 1992. 55 È importante quanto si afferma già nelle lezioni del semestre invernale 1772-73, in cui la pregnanza viene riconosciuta come un tratto tipico della dimensione estetica, AA 25, 28. Cfr. anche il passo di Eberhard 1786, § 46, che commenta le percezioni pregnanti di Baumgarten, attribuendo loro non solo la forza di illuminare e persuadere, ma anche la forza di vivificare.

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di numerose rappresentazioni secondarie che si uniscono a quella principale56, laddove le rappresentazioni secondarie saranno ora gli attributi alla base delle idee estetiche. Nelle idee estetiche e nei relativi attributi risuona così la tradizione retorica dell’enfasi e quella logico-ermeneutica delle idee accessorie e della fecondità di cui avevamo parlato nei capitoli precedenti57. 56 Cfr. ad es. AA 15, 64-5. Cfr. anche AA 7, 135-7. Sulla questione dell’oscurità in Kant, cfr. tra gli altri Satura 1971, pp. 55-64; La Rocca 2006; 2007; Giordanetti 2008; e i saggi contenuti in Giordanetti, Pozzo, Sgarbi 2012. Sul legame genetico tra la chiarezza estensiva di Baumgarten e le idee estetiche di Kant, cfr. anche Kong 1995, pp. 201 e ss.; Matsuo 1985, il quale però si sofferma, in riferimento alla KrU, sul rapporto tra la chiarezza estensiva e la nozione kantiana di forma, senza citare la questione dell’idea estetica. Al di là della diversa concezione e funzione della sensibilità in Kant su cui non si può qui entrare, sembra evidente che Kant riprenda quella che era la caratteristica più manifesta della sensibilità in Baumgarten, la confusione come pregnanza e complessità di tratti, per inserirla, opportunamente rielaborata, all’interno della propria riflessione sulla bellezza. 57 La questione degli attributi in riferimento al problema della fecondità era stata sollevata da Wolff nel trattatello sui concetti fecondi. Per Wolff gli attributi potevano talvolta prendere il posto delle determinazioni essenziali nelle definizioni, dal momento che gli uni potevano essere tratti dalle altre e viceversa; in tal senso, dovevano essere considerate feconde tanto le definizioni essenziali quanto quelle accidentali (Wolff 1731b, p. 157). Kant parla qui di attributi estetici come di quelle rappresentazioni secondarie dell’immaginazione che “esprimono soltanto le conseguenze che si legano [a un concetto] e l’affinità di quel concetto con altri concetti”; il termine utilizzato, Nebenvorstellungen, è lo stesso termine che Baumgarten utilizzava per le perceptiones adhaerentes, e contribuisce a mostrare la vicinanza con le rappresentazioni secondarie alla base della complessità percettiva in Baumgarten, a sua volta influenzata dalla subordinazione dei sensi parziali nell’ermeneutica protestante e dalle idee accessorie della logica portorealista. Gli attributi estetici, come può essere l’aquila di Giove con la folgore tra gli artigli, non rappresentano il contenuto dei nostri concetti (in questo caso il concetto di sublimità e maestà della creazione), per cui non sono logicamente deducibili dalle determinazioni essenziali dei concetti; e tuttavia, essi possono ben essere considerati come il frutto della specifica “fecondità” dell’idea estetica, capace di aprire all’animo la vista su una miriade di rappresentazioni affini che nessun concetto determinato e nessuna espressione verbale può esaustivamente catturare. Lo stesso Wolff sembrava ammettere una forma di “fecondità estetica” nel caso delle allegorie e del discorso figurato di poeti e oratori (posto che non si ecceda nel reperimento di affinità tra concetti diversi, affidandosi a somiglianze troppo vaghe rispetto al tertium comparationis che regge il paragone tra due concetti), cfr. Wolff 1731b, § 2. I “concetti fecondi” di Wolff potreb-

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Tali aspetti emergono anche nel § 49 della Kritik der Urteilskraft, dove gli attributi estetici sono caratterizzati da un modo di pensare definito “non sviluppato” (unentwickelt), termine che corrisponde perfettamente a quell’involutus che in R 176 veniva riferito alle rappresentazioni oscure del fundus mentis (AA 15, 65)58. È proprio quel modo di pensare “non sviluppato”, e dunque “iponoetico” o “enfatico”, a fondare lo slancio vivificante dell’immaginazione, legata alla dimensione dell’oscuro59, dove si pensano molte cose senza poter trovare un concetto adeguato per poterle esprimere. Il che è implicito anche in un passo dell’Anthropologie: Che il campo delle nostre intuizioni sensibili e delle sensazioni di cui non siamo coscienti, benché possiamo concludere senza alcun dubbio di avere, cioè [il campo] delle rappresentazioni oscure nell’essere umano (e così pure negli animali), sia immenso, di contro a quelle chiare che contengono solo un numero infinitamente ridotto di punti aperti alla coscienza; che, per così dire, sulla grande cartina del nostro animo solo pochi luoghi siano illuminati, può instillarci meraviglia sul nostro proprio essere; se una potenza superiore potesse dire: “Sia la luce!”, senza la minima aggiunta (ad es. se prendiamo un letterato con tutto ciò che ha nella sua memobero dunque ben rappresentare un interessante e, per quanto ne so, ancora ignorato, retroterra delle idee estetiche di Kant. 58 Sulla mens come corrispettivo latino di Gemüt in Kant, cfr. Hohenegger 2007. 59 Per un confronto tra l’immaginazione in Baumgarten e l’immaginazione in Kant, cfr. Wunsch 2007. La Rocca (2006, pp. 48-62) fornisce un’ottima lettura del legame tra immaginazione e oscuro in Kant, con particolare riguardo alle lezioni di antropologia e al loro rapporto con la terza Critica. Per quanto il processo creativo non sia diretto dalla dimensione involontaria dell’immaginazione, denominata talvolta “Phantasie”, resta il fatto che l’immaginazione offre in modo spesso inconscio la materia da formare esteticamente (“Die EinbildungsKraft ist stets geschäftig und mehrentheils unwillkührlich”, AA 25, 1283). Nell’immaginazione, come nel gioco secondo Garve, le idee ci sono così propriamente offerte senza una nostra intenzione (“Wenn wir worauf dencken und etwas schreiben wollen, so müßen sich viele Dinge in unsere Seele offeriren”). Ciò che è lasciato all’arbitrio è la direzione dei pensieri e il focus sulla rappresentazione principale, e dunque, nei termini di Baumgarten, sulla percezione primaria della percezione complessa, a cui si confederano una quantità di altri pensieri che non possiamo determinare “[…] wir haben hiebey weiter nichts zu thun, als daß wir die Haupt-Vorstellung nicht aus dem Gesichte laßen, denn die Bilder lauffen immer fort, nach dem sie im Gehirn vergesellschaftet sind” (AA 25, 311-2).

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ria), apparirebbe di fronte agli occhi di questo letterato, per così dire, un mezzo mondo. (AA 7, 135)60

In base alla radice oscura delle idee estetiche, non sarà troppo azzardato identificare quella potenza superiore con lo spirito vivificante di cui Kant parla nella Kritik der Urteilskraft. Certo, resta una differenza fondamentale rispetto a Baumgarten, perché in Kant le rappresentazioni oscure e non sviluppate dell’immaginazione, proprie dell’idea estetica, non danno una conoscenza, per quanto minima, bensì solo e soltanto un effetto sull’animo – un sentimento – il che peraltro conferma la maggiore forza di cui è dotata la “pregnanza” anche in ottica kantiana: Solo che l’immaginazione, quando serve alla conoscenza, è sottoposta alla costrizione dell’intelletto e alla limitazione d’essere adeguata al concetto, mentre dal punto di vista estetico, essa è libera, e oltre ad accordarsi con il concetto, fornisce spontaneamente all’intelletto una materia ricca e non definita, che esso conteneva nel concetto, che però adopera, non oggettivamente in vista della conoscenza, ma soggettivamente per la vivificazione delle facoltà conoscitive, e quindi indirettamente anche a vantaggio di conoscenze. (KrU § 49)

È un sentimento simile a essere comunicato in relazione all’idea estetica; e dal momento che, come ricordato sopra, esso presuppone un libero gioco delle facoltà conoscitive che sono la base per una conoscenza in genere, è legittimo esigere l’universalità di un tale sentimento. La vivificazione, quindi, si trasmetterà ora in base alla pregnanza della rappresentazione dell’oggetto bello, la cui espressione è appannaggio del genio: [I]l genio consiste propriamente in quella felice disposizione – che nessuna scienza può insegnare e nessun esercizio può raggiungere – per la quale si trovano idee per un concetto dato, e d’altra parte si trova per esse l’espressione giusta con cui si può comunicare agli altri lo stato d’animo che ne risulta, in quanto accompagnamento del concetto medesimo. È a quest’ultimo talento che si dà propriamente il nome di spirito. (KrU § 49)

60 Anche Baumgarten ricorda che un tale repentino sviluppo è stato tradizionalmente attribuito all’intervento di una divinità (AE § 80).

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Lo spirito del genio, dunque, si trasfonderà nell’opera grazie all’espressione delle idee estetiche, giungendo infine al fruitore. L’idea estetica, come l’enfasi sacra dell’ermeneutica pietista, si presenta come il medium vivificante che consente la trasmissione del sentimento, unendo “lo spirito alla lingua come alla mera lettera” (KrU § 49)61. 61 L’idea estetica “[lässt] zu einem Begriffe viel Unnennbares hinzudenken, dessen Gefühl die Erkenntnisvermögen belebt und mit der Sprache, als bloßem Buchstaben, Geist verbindet”. Un tale riferimento allo “spirito” in rapporto alla lettera fa pensare non solo alla tradizione pagana del genius che insufflava idee originali nella persona, ma anche a un contesto cristiano, e in particolare paolino, per cui “la lettera uccide, lo Spirito dà vita”, 2 Cor 3:6 (per un ulteriore retroterra del Geist in Kant, legato all’anima del mondo, cfr. AA 15, 416, su cui Zammito 1992, pp. 303-305 e Hohenegger 2007, pp. 366 e ss.). I commentatori, tuttavia, non sono unanimi nella valutazione di questo passo. Kablitz esprime una certa sorpresa nel vedere l’impiego di questa dicotomia paolina per indicare la vivificazione della lingua, dato il significato antitetico di spirito e lettera assunto in Paolo, cfr. Kablitz 2008, p. 169. Cfr. anche Göttert 2002, il quale mette in dubbio che la polemica contro la mera lettera derivi da 2 Cor 3:6. Bader riconduce l’unione dello spirito e della lettera a un parlare dello spirito per mezzo della lettera, diversificato per le varie belle arti, cfr. Bader 2013, pp. 144-145. Per comprendere le coordinate del passo kantiano è importante fare riferimento alla tradizione teologica protestante, e in particolare pietista, in cui lo Spirito e la lettera erano tutt’altro che elementi irriducibili. Secondo questa prospettiva, la lettera possiede un valore negativo solo se resta “mera lettera”, e cioè se non viene vivificata dallo Spirito. D’altra parte, lo Spirito stesso non può agire se non per mezzo della lettera, pena la caduta nello spiritualismo. Come sottolineava già Philipp Jacob Spener (1635-1705), il fondatore del Pietismo, la vera dicotomia sarà dunque quella tra conoscenza viva e conoscenza letterale della Scrittura, dove la lettera è alla base di entrambi i tipi di conoscenza. Con le parole di Spener: “[La differenza tra conoscenza letterale e conoscenza viva] non consiste nel fatto che quella letterale derivi dalla Scrittura, quella viva, invece, dall’immediata illuminazione dello Spirito Santo: entrambe, infatti, derivano anche dalla Scrittura e dalla sua lettera, ma quella letterale viene esclusivamente dalla lettera per mezzo delle forze naturali dell’intelletto; quella viva viene dallo Spirito Santo, che attraverso la lettera e a partire dalla lettera ci dà a conoscere la verità. Perciò la differenza deriva dall’origine di entrambe, dal momento che la causa fondamentale dell’una è lo Spirito Santo, e dell’altra è l’intelletto umano” (Spener 1692, pp. 428-451, qui p. 437; cfr. Gremels 2002, in particolare pp. 107-112). Per il Pietismo di Halle ciò significherà che la conoscenza viva, soprannaturale e affettivamente orientata, viene dallo Spirito Santo attraverso la lettera, e sarà capace di farci penetrare la dimensione enfatica e pregnante del testo sacro, e dunque la ricchezza di senso che la lettera della Scrittura schiude al fedele guidato dallo Spirito da cui anch’essa è irrorata (cfr. supra, cap. 3 per alcuni elementi dell’ermeneutica

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d. Abitare il presente Il legame tra la vivificazione e il sollevamento del fondo dell’anima, come detto, era cruciale per Baumgarten. Se in Baumgarten tale sollevamento portava a una vivificazione e a un dispiegamento proporzionato di tutte le forze conoscitive che compongono l’aestheticus felix, dell’ingegno in senso lato (AE §§ 78-80), lo spirito in Kant porterà a un analogo “risveglio” di tutte le facoltà dell’animo che costituiscono il genio, intelletto e immaginazione: “Spirito consiste nel risveglio delle forze dell’animo per un uso più ampio; è qualcosa di diverso dalla conoscenza arida” (AA 16, 147). Cruciale è in questo senso un passo di Mendelssohn, il quale aveva impiegato l’immagine dell’innalzamento del fundus animae in relazione ai piaceri dei sensi: Ai movimenti armonici negli organi dei sensi corrispondono armonici sentimenti nell’anima, e poiché in un piacere fisico provato dai sensi l’intero sistema nervoso si dispone in armonico movimento, tutto il fondo dell’anima, l’intero sistema dei suoi sentimenti e delle sue oscure sensazioni, deve muoversi in maniera analoga, e disporsi in un gioco armonico. È così che ogni capacità della conoscenza sensibile, ogni facoltà del desiderio sensibile vengono impiegate nella maniera più vantaggiosa e mantenute in esercizio, e così anche l’anima assume una condizione migliore. (Mendelssohn 2004, pp. 112-113)62 dei pietisti Francke e Joachim Lange). In tal senso, lo Spirito Santo consente la comunicazione dello stato d’animo degli autori materiali di ciascun brano scritturale ai lettori rigenerati al di là delle contingenze storiche e culturali di questi ultimi, perché unico è lo Spirito che detta e che interpreta. Al netto del contesto non teologico in cui il termine ricorre, anche in Kant lo “spirito” consente la comunicazione dello stato d’animo al di là di una conoscenza meramente intellettuale (a cui restava ancorata la cognitio literalis di Francke, che si fermava all’interpretazione teorica della lettera) per mezzo dell’esibizione vivificante di idee estetiche. La “comunicazione nello spirito” sembra dunque alla base della stessa comunicazione estetica. Non è affatto improbabile che Kant, educato al Pietismo, conoscesse tale retroterra teologico, a cui va aggiunta la mediazione di Baumgarten, per il quale la conoscenza intuitiva, e dunque anche la conoscenza movente e viva in senso filosofico (M § 669), passa sempre per mezzo del segno, della “lettera”, senza essere per questo simbolica (M § 620; cfr. Nannini 2023a). Sulla prosecuzione del dibattito attorno allo “spirito” che vivifica in Schiller e Fichte, cfr. Franke 2018, cap. 5.4. 62 Trad. leggermente modificata. In particolare, ho tradotto l’espressione “Grund der Seele” non come “dominio dell’anima”, bensì come “fondo dell’anima”.

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Nel brano della Rhapsodie, lo slancio del fondo dell’anima assume le sembianze di un gioco armonico di sentimenti e sensazioni, capaci di tenere impegnata tutta la regione inferiore dell’anima. È probabile che Kant abbia tratto ispirazione da qui per il legame tra slancio e gioco, Schwung e Spiel, adattandolo poi ai propri presupposti63. L’impeto dell’animo attivato (e conservato) senza la nostra volontà di fronte a un oggetto che giudichiamo bello riproduce infatti l’impegno proposto dal gioco, dove – come affermava in R 618 – “l’azione non ha alcuno scopo, ma è essa stessa il movente” (Kant 2013, p. 30). Solo l’armonia propria del gioco, allora, consente una vera vivificazione: “Le facoltà dell’animo devono essere poste con ciò [con l’azione dello spirito] armonicamente in movimento per mezzo dell’immaginazione, perché altrimenti non si vivificano reciprocamente, ma si disturbano” (AA 7, 225). A prima vista, una simile conclusione sembrerebbe minare la pertinenza del riferimento a Garve sopra menzionato. Per Garve, ricordiamo, “nello studio dobbiamo risvegliare in noi le idee stesse; nel gioco queste ci vengono offerte”. L’interiorizzazione della metafora del gioco, e dunque l’implicazione per cui gli oggetti – in questo caso, le rappresentazioni – non ci sono propriamente offerti dall’esterno, pare precludere la possibilità di un parallelo tra i due autori. Proprio la persistenza della dimensione dell’oscuro nelle idee estetiche di Kant sembra fornire ad ogni modo una possibile soluzione. Le idee, infatti, continuano a esserci offerte, non più, però, dall’esterno – dalla natura – bensì dall’interno – dal fondo della mente, e quindi dalla dimensione involontaria dell’immaginazione. L’oscuro costituisce dunque il medium che consente di fare del gioco una dimensione dell’animo, senza rinunciare a procurare – con le parole di Garve – “una serie perennemente mutevole [di idee], sempre nuove entrate in scena”. Di fatto, è proprio tale carattere a riemergere nelle idee estetiche, le quali “aprono la vista su un campo sterminato di rappresentazioni imparentate 63 AA 7, 136, in cui si afferma che il mero gioco delle sensazioni proprio del campo delle rappresentazioni oscure deve essere demandato all’antropologia fisiologica. Ciò non toglie che la matrice metaforica possa essere importata in territorio critico.

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(ein unabsehliches Feld verwandter Vorstellungen)”, opponendosi così al proprium del lavoro, corrispondente secondo Garve alla considerazione di “un unico oggetto senza legami (ein einziger unverwandter Gegenstand)”64. Nel lavoro, insomma, non c’è una vera ricchezza, perché la ricchezza viene perduta già per il fatto di fissare l’attenzione su un unico punto, cosa che permette di seguire soltanto una serie lineare di idee. Se la pregnanza è lo strumento teorico che consente di alimentare una finalità senza scopo grazie all’inesauribilità del suo materiale, mentre la concentrazione è indizio di un atteggiamento teleologico, e dunque lavorativo, non sorprende che la ricchezza e la varietà possano essere considerate da entrambi gli autori come un tratto precipuo del gioco. La conclusione è tanto più significativa per il fatto che anche Garve aveva utilizzato il gioco in senso metaforico, e precisamente per designare l’atteggiamento con cui si realizzano determinati prodotti spirituali. All’inizio della Betrachtung einiger Verschiedenheiten in den Werken der ältesten und neuern Schriftsteller, insbesondere der Dichter (1770), Garve impiegava la differenza tra gioco e lavoro per descrivere il diverso approccio con cui bambini e adulti affrontano un compito: Allo spirito dei bambini, dice Quintiliano, una serie di lavori variabili risulta meno pesante, perché li compiono con una minore coscienza, e con meno sforzo volontario; proprio come il loro corpo si stanca meno nel movimento, perché mettono in movimento un più piccolo carico con una violenza minore e senza sentire sé stessi. Inoltre, aggiunge questi, essi non soppesano mai nei loro pensieri quanto hanno già fatto; mentre invece nell’adulto l’affaticamento sorge quasi più spesso dalla riflessione e dal ricordo del lavoro che dalla sensazione di spossatezza. (Garve 1770, p. 1)

Una tale differenza tra bambini e adulti fungeva a sua volta da modello per indicare due diversi atteggiamenti degli adulti in rapporto ai lavori dello spirito: 64 L’opposizione tra quest’ultima espressione tratta da Garve e la caratterizzazione delle idee estetiche è ancora più significativa alla luce dell’opposizione baumgarteniana tra il concetto semplice, privo di legami, e il concetto complesso (Baumgarten 1999, § 23), cfr. supra.

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L’esperienza che è espressa in questa osservazione si accorda perfettamente con un’altra che l’uomo adulto può fare in sé stesso, e proprio per questo forse con maggiore affidabilità. Quali lavori dello spirito riescono in un modo o nell’altro meglio di quelli in cui non ci si dà la minima pena di realizzarli in maniera eccellente? Quali tra le nostre idee sono le più ricche, le più vivide, le più feconde nel loro sviluppo? Quelle che una riflessione arbitraria sull’oggetto elabora progressivamente dalle idee note, o quelle che spesso solo un rapido sguardo casuale alla cosa ha colto dalla serie di rappresentazioni che si stavano offrendo? (Garve 1770, pp. 1-2)

Se è vero che gli artisti che realizzano un’opera come se fosse un lavoro non hanno alcuna vivacità di ingegno, sarà solo chi è capace di far tesoro delle rappresentazioni che si mostrano da sé a maturare le idee “più ricche, più vivide, più feconde”. Tali idee, infatti, non sono frutto dell’applicazione, ma ci si presentano, proprio come nel gioco, a prescindere dalla nostra volontà. Non è allora un caso che sia un “gioco”, per quanto metaforico, a essere alla base in Kant della pregnanza antifinalistica delle idee estetiche – idee che esibiscono quei medesimi caratteri di ricchezza, vividezza e fecondità. Ma l’analisi di Garve non si ferma qui. I due diversi atteggiamenti nella produzione delle opere dello spirito, infatti, dimostrano una pertinenza storico-sistematica che li fa assurgere a discrimine tra il modus agendi degli Antichi e quello dei Moderni: Lo scrittore antico è il bambino che corre avanti e indietro tutto il giorno senza fine e non sente quanto è stanco, perché a ogni passo non si ricorda di quello che ha già fatto né vede in anticipo quello che intende ancora fare. Lo scrittore moderno è un viandante che ha sempre di mira il luogo in cui vuole andare, che conta i suoi passi nel desiderio di arrivare, e che si sfinisce di sua volontà considerando il cammino percorso e quello ancora da compiere. (Garve 1770, pp. 3-4)

Per gli scrittori moderni sarà dunque impossibile creare un’opera d’arte a partire da un atteggiamento ludico – com’era per gli Antichi il contatto con la natura, al contempo senza scopo e ricchissimo di sollecitazioni – perché ogni conoscenza deriva ormai dall’interesse e dallo studio volontario, e quindi da uno sforzo. Afferma Garve: Nelle opere dei primi [degli Antichi] vediamo una forza che si sente spinta ad agire dalla sua mera energia e dagli oggetti, e dunque

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non è disturbata da nulla nella sua attività naturale; nelle opere dei secondi [dei Moderni] [vediamo] una forza che può essere stimolata solo da un determinato interesse (Interesse), che agisce allo scopo e con la speranza di un certo successo, e che proprio per questo si limita nelle sue manifestazioni e viene distolto dalla sua direzione naturale. (Garve 1770, p. 3)

Anche se Kant non fa questa distinzione, l’attitudine ludica degli Antichi nei confronti della natura potrebbe emergere su un altro livello. A incarnare tale condizione, abbiamo visto, saranno in particolare le capacità conoscitive nel dinamismo del loro libero accordo. Sotto questo punto di vista, l’“antichità” incarnata da tale accordo sarà qualcosa di diverso da un’epoca irrimediabilmente trascorsa, sebbene continui a precederci da sempre. E continua a precederci da sempre, perché essa anticipa propriamente la stessa legislazione del soggetto alla base delle conoscenze determinate, svincolandosi dalla dimensione storico-sistematica per incardinarsi sul piano trascendentale. L’antichità, potremmo affermare, non è in Kant l’emblema di una scomparsa corrispondenza con il mondo, ma ciò che consente di presentire quella corrispondenza nell’hic et nunc. E tale possibilità è innescata dalla bellezza. È per tale ragione che la sua “precedenza” non coincide tanto con l’irrecuperabilità del passato quanto piuttosto con l’auroralità del presente. Un’auroralità dove gli oggetti non sono ancora disciplinati per mezzo delle nostre categorie, ma solo avvertiti nella contingenza del loro avvento. La bellezza, da questo punto di vista, non fa altro che dilatare quel darsi originario delle cose fino a renderlo esperibile nel sentimento, donde l’indugiare nel bello, che non ha nulla della staticità o della passività e neppure dello sforzo, ma che anzi rimanda allo slancio autopoietico delle facoltà dell’animo. Se il lavoro dipende dalla tensione arbitraria verso il futuro, che configura la temporalità come un’attesa inesausta dell’obiettivo, la fatica che lo accompagna potrà essere superata solo rinunciando al dominio sul tempo, per godere piuttosto dell’attività stessa in cui l’occupazione consiste. A differenza del lavoro, infatti, lo scopo del gioco non è quello di porre termine all’attività che ne prepara affannosamente la realizzazione, ma quello di prolungare indefinitamente l’attività stessa che lo alimenta, dal momento che è quest’ultima, e non un fine ulteriore che ci proponiamo di conseguire per suo

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mezzo, ciò da cui traiamo propriamente piacere. Non si tratta di una coazione a ripetere né di una sospensione estatica del flusso cronologico, ma di una sempre rinnovata disponibilità alla moltitudine di sollecitazioni offerte dalle idee estetiche nella loro transitorietà mai del tutto esprimibile a parole. Sgravato dal carico delle nostre aspettative, il tempo del gioco, incluso il gioco delle facoltà, non smetterà mai di essere coniugato al presente. Contemplare la bellezza significa allora essere abitatori del presente, nel senso in cui lo erano gli Antichi, sebbene a correre avanti e indietro – per usare la metafora di Garve – non siamo più noi in prima persona, ma le nostre facoltà nel loro impeto vitale. Grazie al concetto di gioco, Kant può dunque unire il retaggio ermeneutico mediato da Baumgarten con i principi della filosofia trascendentale, dove l’inesauribilità della pregnanza sarà giustificata in base alla libertà dell’accordo tra le facoltà conoscitive in occasione dell’esibizione di un’idea estetica. e. Interessante bellezza È per conservare tale accordo dinamico – abbiamo visto – che l’interesse viene bandito dal giudizio di gusto. L’interesse, infatti, condurrebbe a incanalare i pensieri verso un unico scopo, attivando in una direzione precisa la facoltà di desiderare di cui l’oggetto in questione fornisce il movente. Guidati dall’interesse, qualunque ne sia la natura, non indugeremo nelle rappresentazioni che emergono nello slancio dell’immaginazione, ma ci concentreremo unicamente sul raggiungimento del nostro obiettivo particolare. Senza l’indipendenza dai vincoli delle nostre circostanze determinate, però, non potremo neppure considerare tale piacere come fondato su una qualche necessità, ancorché soggettiva. Il disinteresse è dunque la coscienza della libertà dell’accordo tra le nostre facoltà in relazione alla rappresentazione dell’oggetto, da cui discende la legittimità della pretesa all’universalità per il nostro giudizio di gusto. Una lunga tradizione storiografica ha fatto del disinteresse l’elemento più caratterizzante dell’impianto estetico kantiano65. È vero 65 Il riconoscimento di un’estetica del disinteresse di cui Kant e Schopenhauer rappresenterebbero i cardini è ormai un topos storiografico; cfr. Stolnitz

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che all’interno dell’architettura della Kritik der Urteilskraft il disinteresse è funzionale all’interesse intellettuale della ragione66, ma ciò non inficia in nulla – anzi, semmai conferma – la dimensione disinteressata del giudizio di gusto. Ferma restando la validità di questi capisaldi critici, il nostro obiettivo nel prosieguo sarà quello di dimostrare che proprio nel giudizio di gusto ci può essere spazio per un interesse estetico. E ci può essere non in antitesi, bensì in sinergia con la tesi del disinteresse. Alla luce di tale analisi si potranno rileggere in maniera più precisa le considerazioni fin qui emerse sulla vivificazione estetica, tenendo sempre come punto focale dell’indagine la prima parte del § 49 della Kritik der Urteilskraft. Come mostrato altrove (Nannini 2018 [ma 2020]), nel corso del secondo Settecento tedesco i caratteri della vita estetica nel senso di Baumgarten si congiungono sempre più alla tradizione dell’“interessante”. In Kant una simile questione sembra squalificata con l’adozione di una tripartizione delle facoltà che separa nettamente il sentimento di piacere tanto dalla dimensione gnoseologica quanto da quella desiderativa. Abbiamo visto, tuttavia, che, nonostante la diversità del contesto, sopravvivono nel filosofo di Königsberg importanti suggestioni della dottrina baumgarteniana della cognitio viva. In base alla connessione appena ricordata tra i due problemi, sarebbe quindi lecito attendersi un’equiparazione tra vivificazione e interessamento. Effettivamente, lo spirito ammette due definizioni nel § 49 della terza Critica. Ma se la prima identifica lo spirito con il principio vivificante dell’animo, la seconda non fa riferimento all’interesse, bensì alla facoltà di esibire idee estetiche, “dove per idee estetiche – ripetiamo con Kant – intendo quelle rappresentazioni dell’immaginazione che danno occasione di pensare molto, senza che però un qualunque pensiero o un concetto possa essere loro adeguato, e, per conseguenza, nessuna lingua possa perfettamente esprimerle e farle comprensibili”. Il legame stabilito è dunque quello tra la vivificazione e l’esibizione delle rappresentazioni dell’immaginazione che danno molto 1961; cfr. anche White 1973; Abrams 1981; Townsend 1987; Henckmann 1971, pp. 323 e ss. Troppo lungo sarebbe fornire un elenco anche solo parziale di tutti gli interventi sul disinteresse in Kant. Per una recente ripresa della questione, cfr. Oliveira da Silva 2008. Per la storia dell’idea, cfr. Strube 1979. 66 Cfr. in generale Hutter 2003, in particolare pp. 167 e ss.; Guyer 1978b; Moledo 2008; Fan 2018.

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da pensare. Già negli appunti di antropologia del 1776-1778, Kant aveva sottolineato quest’ultimo aspetto dello spirito: “Spirito è ciò che dà molto da pensare (Geist ist das, was viel zu denken giebt)” (Kant 2013, p. 59). Il punto è che proprio la capacità di dare molto da pensare rappresentava per la filosofia coeva il fondamento estetico dell’interessante. Ancora una volta, ritroviamo una significativa testimonianza in Christian Garve. Nel saggio sull’Interessirende (1771-1779), il filosofo di Breslavia riteneva che ogni interesse derivasse da ciò che suscita i nostri pensieri oppure da ciò che risveglia le nostre inclinazioni. Con le parole di Garve: “Chi ci vuole interessare, ci deve dare molto da pensare oppure deve portarci all’emozione” (Garve 1974, pp. 167-168). Saldando l’affermazione di Garve e quella di Kant, si potrebbe dunque concludere che chi ci vuole interessare deve creare opere dotate di spirito, poiché lo spirito, evidentemente, è ciò che interessa. L’opera in cui il gusto non trova nulla da biasimare, pur sembrandoci senza spirito, dunque, sarebbe l’opera non interessante. È vero che Garve inserisce tale principio all’interno di una teoria di stampo lockiano, per cui a dare molto da pensare sono innanzitutto i pensieri che completano una serie di idee trascorse, suscitando così delle piccole passioni che ci spingono verso il futuro. E tuttavia, qui importa meno il contesto generale rispetto al problema specifico che rilegge la pregnanza nel senso dell’interesse. Un altro esempio di questa accezione lo ritroviamo nella Philosophie der schönen Künste (1784) di Johann Christoph König, il quale sviluppa il pensiero di Garve. Per König, qualcosa è interessante quando ci dà molto da pensare (wenn uns Etwas viel zu denken gibt). Posto un oggetto in sé di scarsa varietà, se desta improvvisamente una grande quantità di idee secondarie (Nebenideen) dal loro torpore (Schlummer), esso diventa per noi interessante. Infatti, lo consideriamo come causa efficiente della quantità di idee prodotta in noi senza sforzo, a prescindere dal fatto che sia in realtà solo la causa occasionale. (König 1784, pp. 447-448)

È qui evidente che la massa di idee secondarie nello stato di torpore costituisce un riferimento implicito alla teoria psicologica del fondo dell’anima e alle idee complesse. Come prevedeva la tesi

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baumgarteniana, le rappresentazioni dormienti nel fundus animae potevano d’improvviso sollevarsi67, ponendo l’anima in una condizione di slancio dinamico. La metafora è quella del risveglio, una metafora utilizzata non solo da Garve nel designare l’effetto supremo dell’Interessirende come una veglia completa (Garve 1974, p. 222), ma anche da Kant, il quale vi ricorre in un appunto di logica già considerato, per modulare diversamente la vivificazione dello spirito: “Spirito consiste nel risveglio (Erweckung) delle forze dell’animo verso un uso più ampio; è qualcosa di diverso dalla conoscenza arida” (AA 16, 147). Un simile risveglio non comporta – aggiunge König – alcuno sforzo (Anstrengung), dal momento che non si tratta di un’imposizione volontaria. Se era chiaro il retaggio dell’impeto estetico di Baumgarten, altrettanto palese è qui la mediazione di Garve. In quanto non comporta sforzo (Anstrengung), infatti, lo slancio assume il carattere discriminante del gioco, anticipando così la loro equiparazione da parte di Kant (KrU § 49). Ma il punto decisivo è un altro. In effetti, l’impegno (Beschäftigung) che non è negozio (Geschäft) non è per Garve solo la base teorica del gioco, ma anche il fondamento della nozione di “interessante”. All’inizio del saggio sull’Interessierende, il filosofo di Breslavia affermava: Tutti gli oggetti o i modi di rappresentarseli, i quali, senza il nostro sforzo volontario, in virtù del piacere che suscitano in noi, si impadroniscono della nostra attenzione e la rendono stabile, sono questi – crediamo – che la parola “interessante” (interessant) contraddistingue rispetto alle altre specie di oggetti. (Garve 1974, p. 163)

È possibile, dunque, che anche il modo in cui il libero “gioco” impegna e fortifica le nostre facoltà grazie all’azione dello spirito venga descritto come una forma di interesse estetico? Un indizio a 67 È significativo notare la sottolineatura di König sulla differenza tra causa efficiente e causa occasionale, una differenza che ritorna anche in Kant. Come visto in R 958, è lo spirito ad essere alla base delle idee estetiche, e non la rappresentazione dell’oggetto, che si limita solo a innescare (veranlassen) la moltitudine di pensieri, e dunque la vivificazione. Lo stesso valeva già per König, nel quale, beninteso, lo spirito dovrà essere implicitamente interpretato come il fondo dell’anima da cui vengono ridestate senza fatica, e dunque spontaneamente, le idee secondarie aderenti alla principale, in occasione della percezione di un determinato oggetto.

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favore è certamente il fatto che i due tratti che caratterizzano lo spirito in Kant, la vivificazione (il risveglio) e la pregnanza, rappresentavano le due anime dell’interesse nelle discussioni estetiche coeve. Il termine “interesse” sembra però scomparire in questa accezione nel Kant della terza Critica. Cosa che, d’altra parte, non sorprende, visto l’utilizzo specifico della nozione sia in termini negativi, come disinteresse, sia in termini positivi, come interesse intellettuale della ragione. L’esigenza di un simile interesse estetico, tuttavia, riaffiora a più riprese nel dibattito sollevato dalla Kritik der Urteilskraft nel corso dell’ultimo decennio del Settecento. A porre il problema in termini espliciti sarà Herder nella Kalligone (1800). Il fatto è – argomenta Herder – che il termine “interesse” ha assunto un significato deteriore a partire da Helvétius, diventando sinonimo di vantaggio personale. Questo non significa, però, che in ambito estetico l’espressione venga impiegata in una tale accezione. Chiunque pensasse seriamente una simile eresia si renderebbe semplicemente ridicolo: […] al concetto della bellezza non appartiene assolutamente il termine “tornaconto” (Eigennutz). Chi sente l’eccellenza di un’opera d’arte non domanderà: quanto vale?, bensì esclamerà: è inestimabile! Ma anche se qualcuno avesse un amore così grande per l’opera d’arte da rubarla (poniamo il caso estremo); anche se qualcuno fosse così irretito dalla bellezza di una donna da rapirla, il suo sentimento della bellezza percorrerebbe una strada e la sua follia o il suo crimine un’altra. Nel primo caso a sentenziare è il giudice della bellezza, nel secondo il giudice penale. Tra loro non vi è nulla in comune. (Herder 1800, p. 194)

Quando dunque si afferma che la bellezza ha un interesse – Herder continua (Herder 1800, p. 195) – non lo si sta dicendo nel senso del tornaconto. Piuttosto, si sta indicando la capacità di un’opera di attirare e fissare l’anima su sé stessa68: “Datele interesse, e la fiaba di Mamma Oca piacerà di più di una noiosa eroide” (Herder 1800, pp. 195-196). Eliminare questo interesse dall’insieme delle belle arti sarebbe un nonsenso. L’obiettivo polemico di Herder è dunque 68 Una tale capacità non è molto diversa dalla dolce trazione (sanfter Zug) di cui parla Garve, ma anche dall’effetto della presenza dello spirito in un’opera per Kant, che determina sul fruitore un’adesione involontaria.

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chiaro: si può essere interessati a un’opera d’arte senza avere uno scopo ulteriore; anzi, tale interesse è proprio la condizione di possibilità del mio giudizio di gusto. La possibilità di una compresenza tra l’assoluto disinteresse dal punto di vista materiale con la necessità di un interesse estetico, d’altra parte, emergeva già in Friedrich Justus Riedel (17421785), da cui si ritiene che Kant abbia tratto ispirazione per la connessione tra bellezza e piacere disinteressato (Terras 1978, p. 10)69. Riedel affermava nella sua Theorie der schönen Künste und Wissenschaften (1767): “Il buono deve essere accuratamente separato dal bello, l’impulso dell’interesse dall’impulso del piacere. Quello vuole possedere; questo è soddisfatto con il semplice guardare e con i piacevoli moti che il sentimento produce” (Riedel 1767, pp. 15-16). Un simile piacere, però, è possibile solo a determinate condizioni: Se una bellezza mi piace, per me è naturale voler godere di questo diletto (Vergnügen) più a lungo, e se credo che ciò non sia possibile senza il possesso dell’oggetto, dal mero piacere (Wohlgefallen) nasce allora anche un desiderio interessato (ein intereßirtes Verlangen). Solo sotto due condizioni può sussistere il piacere soltanto; in prima istanza, se riteniamo impossibile l’acquisizione dell’oggetto, e in secondo luogo se godiamo sempre dell’oggetto e possiamo sempre sentirlo senza possederlo. A nessuno verrà in mente di reputare un palazzo, un bel panorama, il cielo stellato come meno belli, perché non possiamo possedere queste cose come nostre. (Riedel 1767, p. 16)

Ne consegue la definizione generale: “Bello è dunque ciò che piace sensibilmente senza alcuna intenzione interessata, e che quindi può piacere anche se non lo possediamo” (Riedel 1767, p. 17). 69 Prima di Kant, la tesi era stata variamente discussa da Sulzer (2011, p. 101: “Si dice bello ciò che, senza riferimento a una qualche altra proprietà, si presenta alla nostra facoltà rappresentativa in un modo piacevole […]. Il bello non piace, dunque, perché l’intelletto lo trova perfetto o perché il sentimento morale lo trova buono, ma perché blandisce la nostra immaginazione, perché si mostra in una foggia gradevole e piacevole”) e da Abel (Abel 1777, nella serie di proposizioni sotto il titolo di Von dem Geschmack überhaupt. Cfr. in particolare § 1: “Der Geschmack, im weitesten Verstand, beschäftiget sich nur mit Gegenständen, die Vergnügen und Misvergnügen durch ihre blosse Vorstellung, ohne eigenthumliche Beziehung der Gegenstände auf uns, zeugen”). Sull’estetica di Riedel, cfr. Till 2012.

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Non possiamo qui seguire gli sviluppi che Riedel ottiene da tale definizione né soppesare appieno la polisemia del concetto di interesse. Il fatto, però, che Riedel dedichi un intero capitolo della sua opera alla questione dell’interesse come partecipazione simpatetica e alla sua importanza nelle belle arti dimostra che interesse e disinteresse non sono necessariamente inconciliabili70. La possibile compresenza sembra comunque sparire con Kant, se è vero – come afferma ironicamente Herder – che il dettato kantiano è ancorato esclusivamente al piacere disinteressato: “‘Bello sarebbe l’oggetto di un piacere senza alcun interesse […]’. Con quest[o] getton[e] in Germania si paga dal 1790” (Herder 1800, p. 192). Forse però Herder è troppo tranchant. Un indizio dell’eccessiva sommarietà del giudizio di Herder lo ritroviamo in un divulgatore di Kant come Christian Wilhelm Snell (1755-1834), il quale comporrà un Lehrbuch der Kritik des Geschmacks (1795) sulla scorta della terza Critica kantiana71. Snell esamina analiticamente la questione dell’interesse e del disinteresse. Nel § 11, intitolato programmaticamente Vom interessirten Wohlgefallen, Snell parte da un assioma generale: “Ogni piacere, al di fuori del piacere del bello, è connesso con l’interesse e si dice dunque piacere interessato” (Snell 1795, p. 27). Il termine “interesse” può avere però molteplici significati. Con “interesse” si intende innanzitutto e in senso stretto il proprio tornaconto e la prospettiva di un vantaggio con il relativo desiderio; in senso più ampio, conformemente con l’ortodossia kantiana, il piacere connesso con la rappresentazione dell’esistenza di un oggetto, accanto al desiderio che esso sia davvero presente al di fuori della rappresentazione: “Interessato diciamo dunque ogni piacere 70 D’altra parte, la distinzione netta tra il piacere della bellezza e la dimensione del buono legata al desiderio non deve far pensare necessariamente alla loro opposizione, ma solo al riconoscimento di due domini autonomi, ancorché spesso sovrapposti. Di fatto, Riedel affermerà a chiare lettere che la loro unione rende più forte il piacere: “Frattanto è necessario ammettere che il moto diventa più violento e il piacere più grande se entrambi gli impulsi agiscono insieme. Una mera raffigurazione diletta meno di un’azione a cui prende parte anche il cuore; diventiamo più caldi e più vivaci se non guardiamo soltanto, ma se vogliamo anche possedere”, cfr. Riedel 1767, p. 16. 71 La famiglia Snell conta diversi volgarizzatori di Kant, cfr. Grillenzoni 2005, pp. 18-19 e 29, nota 33.

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che è connesso con l’augurio e il desiderio che il suo oggetto esista o perduri” (Snell 1795, pp. 27-28). Tale desiderio può derivare dal giudizio che l’oggetto è piacevole per la nostra sensibilità interna o esterna; dal giudizio che l’oggetto è un mezzo per procurare diletto e benessere, o che comunque è utile per il conseguimento di un certo fine della nostra natura sensibile; dal giudizio che l’oggetto è in sé buono, nobile ed eccellente, e dunque suscettibile dell’avallo della ragione; e da ultimo, dal giudizio che qualcosa è mezzo dell’in sé buono – della moralità delle intenzioni e dell’agire nel mondo: “Il piacere del piacevole e dell’utile, così come quello del buono senz’altro e di ciò che è mezzo a tal fine è dunque necessariamente connesso con l’interesse ovvero è interessato” (Snell 1795, p. 29)72. Di contro al piacere interessato si pone il piacere del bello, il quale – come recita il § 12 – è disinteressato (uninteressirt): Il bello, infatti, non consiste in impressioni piacevoli, che l’oggetto esercita in virtù della sua materia sugli organi di senso, ma consiste soltanto nella forma e intrattiene per mezzo della mera intuizione, in quanto produce uno stato rappresentativo di cui siamo consapevoli con immediato piacere solo per sé stesso, senza qualsivoglia riguardo per un vantaggio, per uno scopo e simili. (Snell 1795, p. 31)

Un tale disinteresse escluderà quanto escluso anche da Riedel e Herder: “Bei dipinti, giardini e simili non piacciono perché li si ritiene utili: li si può dunque apprezzare molto senza per questo desiderare di possederli” (Snell 1795, p. 31). In questo caso, il piacere del bello sarà uninteressirt nel senso di uneigennützig, di non egoistico. Ma ovviamente il kantiano Snell estende il significato in senso convergente con la Kritik der Urteilskraft: Posto che l’intrattenimento (Belustigung) che sorge immediatamente dalla rappresentazione di oggetti belli si può godere tutte le 72 Snell (ivi, pp. 29-30) aggiunge in nota che il piacere del piacevole e dell’utile è propriamente “interessato”, mentre il piacere per il buono in sé è “interessante” (interessirend), seguendo così la nota di Kant al secondo paragrafo della Kritik der Urteilskraft, in cui si sostiene la possibilità che un giudizio sia disinteressato e al contempo molto interessante. Snell conclude che nel primo caso si tratta di interesse in senso proprio; nel secondo, di interesse in senso improprio.

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volte e per tutto il tempo che si vuole, si è anche ben soddisfatti che alle belle rappresentazioni non corrispondano o non stiano a fondamento oggetti reali, ma che esse esistano solo nel nostro animo o siano solo una vacua illusione della fantasia e una vuota parvenza. In questo senso, si può sostenere che ci sia indifferente persino l’esistenza degli oggetti ben formati, o che il piacere per essi non sia necessariamente connesso al desiderio che esistano, e che di conseguenza esso sia disinteressato nel senso più ampio del termine. (Snell 1795, pp. 31-32)

Snell procede poi a determinare una serie di interessi che si possono unire in maniera contingente con il piacere disinteressato: innanzitutto, l’interesse intellettuale per le bellezze naturali, che segue il § 42 della Kritik der Urteilskraft; inoltre, “un interesse dell’arte per le bellezze dell’arte, che non vorremmo che mancassero nel computo delle cose esistenti come dimostrazione degna di ammirazione delle capacità spirituali dell’uomo” (Snell 1795, p. 34); infine, un interesse della socialità ricalcato sull’interesse empirico per il bello di Kant (KrU § 41)73. Snell conclude: Queste e simili specie di interesse si associano solo in maniera contingente all’intrattenimento del gusto e lo innalzano se l’oggetto bello ha già prodotto effettivamente un piacere disinteressato: esse appartengono di conseguenza non all’essenza dello stesso; non sorgono dal giudizio di gusto stesso, ma da altre cause. (Snell 1795, p. 35)

E tuttavia Snell aggiunge in nota una specificazione assai significativa ai nostri scopi: L’espressione interessante significa spesso anche ciò che intrattiene, attrae, diverte: in questo senso può anche ben essere usata per gli oggetti belli, i quali piacciono immediatamente o attraggono l’animo non per un vantaggio che ci si attende da essi, bensì soltanto per mezzo del modo in cui impegnano le nostre facoltà rappresentative. (Snell 1795, pp. 35-36)

In questo passaggio, Snell sembra affermare che gli oggetti belli rientrino nel gruppo degli oggetti interessanti. Ma in tal modo l’interesse viene a cogliere un carattere cruciale dell’oggetto bello. 73 Su questo, come sull’interesse della ragione, non è possibile qui entrare.

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Cosa che emergeva anche in una nota precedente, in cui Snell si soffermava a esemplificare il disinteresse del piacere per il bello. Seguiamo il ragionamento di Snell: Un lussuoso edificio, un arco di trionfo, un mausoleo che non possono essere usati altrimenti che per essere guardati, sono per me del tutto indifferenti (gleichgültig) in rapporto alla loro materia e persino alla loro esistenza, nella misura in cui ci è concesso di godere della loro visione. […] E a chi non sarebbe del tutto indifferente se una bella musica che si crede di udire in una stanza vicina sia una mera illusione dell’immaginazione o sia realmente eseguita da musicisti? (Snell 1795, pp. 32-33)

Dopo aver fornito una serie di esempi di disinteresse, Snell conclude sibillino: In questi e simili casi il piacere non è dunque necessariamente connesso con il desiderio che il suo oggetto sia qualcosa di reale, ed è di conseguenza disinteressato: noi ci interessiamo in realtà non per lo stesso oggetto bello, bensì solo per il modo in cui esso affetta le nostre facoltà dell’animo impegnate con la sua rappresentazione e per l’intrattenimento che la sua intuizione ci garantisce in sé e per sé. (Snell 1795, p. 33)

Benché detto con una certa noncuranza, il punto è di estrema importanza. Qui si comprende infatti che il bello necessita del disinteresse come indifferenza alla materia dell’oggetto, e dunque alla sua esistenza, ma non come indifferenza tout court. Proprio perché il disinteresse non collassa in un’indifferenza generalizzata si crea lo scarto in cui si inserisce la possibilità dell’interesse estetico: un interesse diretto non all’oggetto, ma alla sua rappresentazione. In tal senso, l’interesse sembra addirittura essere l’effetto della bellezza nel suo disinteresse74. Se il bello interessato squalificherebbe l’universalizzabilità del giudizio, il bello non interessante renderebbe impossibile qualunque affezione dell’animo, perdendo gli stessi caratteri che lo connotano come bello, e cioè lo slancio dell’animo come gioco delle facoltà che si autoconserva. 74 Che il bello nel suo disinteresse possa avere un effetto (Wirkung) era già chiaro in Kant, nel senso di un sentimento del libero gioco delle facoltà conoscitive, cfr. KrU § 9.

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L’obiezione di Herder sembra così prevenuta. Il bello interessa, anzi deve necessariamente interessare, ma non per la materia, bensì per la forma. Se questo fosse vero, però, occorrerebbe identificare la sorgente dell’interesse proprio in quello spirito che, dando molto da pensare, vivifica l’animo. Benché Snell non ci dica nulla a riguardo, le sue considerazioni sono ad ogni modo indicative per il fatto che esse, a differenza di quelle di Herder, fanno valere l’esigenza dell’interesse estetico non contro Kant, ma all’interno della stessa ottica kantiana. Il problema in ogni caso sarà discusso anche da altri autori. Un esempio particolarmente rilevante a questo proposito è quello di Johann Gebhard Ehrenreich Maaß (1766-1823)75. Nel suo Versuch über die Einbildungskraft (1792), Maaß si interroga sul significato delle idee estetiche sulla scorta del dettato kantiano: Qui ci imbattiamo in un effetto della fantasia su cui poggia uno dei più importanti strumenti magici delle belle arti. Un’idea estetica, cioè, deve essere un’intuizione (un’immagine della fantasia), che è troppo grande per un determinato concetto: un’immagine che suscita molte rappresentazioni (anche solo oscure), che però non si lasciano sussumere sotto nessun pensiero determinato: in breve, un’immagine che risveglia nell’anima un sentimento indicibile che non può essere indicato in maniera determinata mediante parole. (Maaß 1792, p. 182)

L’indicibilità del sentimento deriva dall’indicibilità delle rappresentazioni secondarie, di cui Maaß rende ancora più evidente la dipendenza dall’orizzonte baumgarteniano delle idee complesse, così come la prestazione di sintesi che le associa a una rappresentazione principale che giunge a chiarezza (Maaß 1792, p. 183)76. È in un 75 Dopo un primo periodo di avversione al kantismo, Maaß ne diventa un fervente divulgatore, cfr. Meyer 2002, p. 261. 76 “Secondo l’opinione del filosofo di Königsberg le idee estetiche devono essere un analogo delle idee della ragione, ovvero devono costituire quel concetto a cui nessuna intuizione può essere adeguata. Frattanto, le prime possono essere paragonate alle altre solo in certa misura. Ciò che rappresentano le cosiddette idee della ragione, in quanto indeterminato, non può essere intuito dalla sensibilità in nessun modo, per quanto possa essere distinta (deutlich) l’idea. L’oggetto di un’idea estetica, però, non viene pensato mediante concetti determinati, per il fatto che molte determinazioni dello stesso rimangono del tutto oscure, e dunque non possono essere sussunte sotto alcun pensiero determinato. Solo l’immagine data, che costituisce la rappresentazione prin-

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tale contesto che Maaß individua proprio nell’esibizione delle idee estetiche lo strumento cruciale per rendere interessante l’opera: “Lo stimolo di idee estetiche è uno degli elementi che rendono eccezionalmente interessante una bella opera d’arte, che le insufflano spirito e vita” (Maaß 1792, p. 183). Se Kant aveva affermato che le idee estetiche offrono molto da pensare, mentre per Garve a dare molto da pensare era l’interesse, ora Maaß sembra congiungere le due posizioni: l’opera che suscita idee estetiche sarà anche supremamente interessante. E lo sarà – questo è l’ulteriore punto decisivo – proprio in riferimento alle categorie che erano alla base della posizione kantiana. Rendere interessante un’opera significa infatti insufflare (einhauchen) in essa spirito e vita. A incaricarsi di tale ispirazione sarà l’artista, il cui spirito è chiamato a pervadere la “lettera” – la materia (Stoff) – dell’opera nello stesso modo in cui lo Spirito Santo pervadeva la lettera della Scrittura (cfr. supra, nota 61, per tale influsso teologico). Come lo Spirito Santo anche l’artista, se è un vero genio, sarà chiamato a massimizzare la fecondità della sua opera in modo da vivificare l’animo del fruitore: Nel destare un’idea estetica ciò che importa è esibire un’immagine (o dare occasione alla fantasia di produrla) con la quale se ne associano facilmente molte altre. Si deve dunque afferrare il punto più fecondo, il lato dell’oggetto per mezzo del quale viene stimolato il gioco più ricco della fantasia. Naturalmente solo pochi oggetti sono adatti allo scopo. Scoprirli e illuminarli dal lato giusto, questo è il compito del genio estetico, che dunque anche da questo punto di vista ha assoluto bisogno delle ali dell’immaginazione. (Maaß 1792, p. 184)

Che l’interesse venga a rivestire una funzione importante nella prima ricezione della Kritik der Urteilskraft senza dar luogo ad alcuna contraddizione con la dimensione disinteressata del piacere lo dimostra anche Christian Friedrich Michaelis (1770-1834), autore di un compendio alla Kritik der Urteilskraft, il quale applicherà le cipale dell’idea estetica, è sempre chiara; le restanti rappresentazioni che vi si associano, e che possono essere definite come le rappresentazioni secondarie (Nebenvorstellungen) dell’idea estetica, rimangono talvolta totalmente oscure. Perciò esse non si lasciano neppure esprimere con parole determinate, e dunque sussumere sotto alcun concetto distinto, così come lo stato d’animo che da esse dipende”.

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conclusioni estetiche di Kant al caso specifico della musica nel suo Ueber den Geist der Tonkunst (1795). Interrogandosi sull’essenza della musica, e dopo aver individuato anch’egli nell’assenza di interesse l’elemento caratterizzante del piacere suscitato dalle belle arti77, Michaelis argomenta a partire dalle idee estetiche di Kant: Un pezzo di musica è vivificato dallo spirito delle idee estetiche quando l’energia e ciò che è caratteristico nell’armonia e nella melodia suscitano in noi rappresentazioni dell’immaginazione e, per così dire, ci sollevano verso una sfera ultraterrena. (Michaelis 1795, p. 12)

A operare tale sollevamento saranno i gesti espressivi degli artisti (“un’unica espressione nella lingua del poeta, un unico tratto del viso nel dipinto o nella statua, un unico suono nella musica”), i quali “possono risvegliare una quantità incalcolabile delle più interessanti rappresentazioni” (Michaelis 1795, p. 12). Un tale risveglio richiama da vicino l’innalzamento del fondo dell’anima, ribadendo così la propria connessione con la pregnanza delle idee estetiche di Kant78, nonostante la rilettura di entrambi i temi in direzione della tradizione dell’interesse estetico. Una tradizione, questa, che si connette con il libero slancio dell’anima anche in Die Spatziergänge, oder die Kunst spatzieren zu gehen (1802) di Karl Gottlob Schelle (1777-?). Nel tentativo di valorizzare la dimensione estetica della passeggiata, Schelle collega la necessità dell’interesse estetico del passeggiatore con l’accordo delle sue facoltà: “In realtà, l’interesse del passeggiatore per la natura dovrebbe essere quello estetico. Solo con uno sguardo estetico sulla natura ha luogo un libero gioco delle facoltà dell’animo” (Schelle 1802, p. 52). Mentre lo sguardo estetico riesce a mediare un interesse morale, nel caso in cui fosse quest’ultimo ad avere la priorità, l’“attività dello spirito” passerebbe “dal libero gioco delle facoltà dell’animo, così necessario per lo scopo del passeggiatore, a un affare serio” (Schelle 1802, pp. 52-53): “[M]erita [infatti] di 77 Michaelis 1795, p. 9: “Aesthetisch im engern Sinn heißen die Künste als schöne Künste, welche ein uninteressirtes Wohlgefallen an der Darstellung vermittelst der Anschauung bewirken”. 78 “Dalla scelta felice delle immagini, delle espressioni e dei suoni che innescano un’indicibile pienezza di pensieri (Gedankenfülle), in breve dalla riuscita esibizione delle idee estetiche, si riconosce il genio”.

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essere chiamata estetica ogni libera occupazione (Beschäftigung) delle forze dell’animo, dove l’intera attività poggia su un dilettevole gioco di idee” (Schelle 1802, p. 53). In tal modo, l’interesse non sembra solo un carattere delle rappresentazioni affioranti – delle idee estetiche – ma anche e soprattutto l’energia cinetica dello stesso gioco delle facoltà che consente la conservazione del loro accordo dinamico. Qualcosa di simile giungeva a dire anche lo stesso Herder nella Kalligone: Senza il minimo ritorno su di me sono riempito dall’idea, che mi solleva sopra me stesso, che occupa (beschäftigt) tutte le mie forze; al contrario, ogni cosa non interessante (jedes Uninteressante) mi lascia vuoto, e se lascio che accada, mi uccide dalla noia. Nessuna bella opera dell’arte o della natura deve essere dunque senza interesse; nel senso puro, cioè, in cui tutte le nazioni civilizzate impiegano la parola, che poi esclude del tutto ogni nozione accessoria di tornaconto, guadagno, ecc. (Herder 1800, p. 196)

La noia (lange Weile) è qui presentata come un vuoto che può essere occupato o colmato solo con l’attività, di cui reca traccia il termine Beschäftigung. E proprio la vivificazione innescata dalla pienezza di pensieri (Gedankenfülle) che costituisce la pregnanza dell’idea estetica sembra essere il miglior antidoto a quel vuoto79. In questo caso, infatti, il fine dell’attività delle facoltà conoscitive non è il raggiungimento della stasi concomitante con il conseguimento di uno scopo ad essa esterno, ma solo e soltanto la conservazione dell’attività stessa. È in tale attività eminentemente “ludica” che consiste propriamente l’interesse del bello. Non, dunque, un interesse come contrario del disinteresse né un interesse che si accompagna dall’esterno al piacere del bello, ma un interesse che è il lato propositivo di ciò che il disinteresse presenta come negazione80. Una simile possibi79 Sull’assimilazione di pregnanza e Gedankenfülle, cfr. AA 15, 673: “praegnant. Gedankenfülle – voll Inhalt oder von viel Gehalt wie Münzen”. Poco prima, Kant assimilava praegnant a “sinnvoll” di contro a “sinnleer”, manifestando così la vicinanza tra il concetto di pregnanza e la pienezza di pensieri come pienezza di senso che caratterizzava la matrice ermeneutica della questione. 80 Sugli stretti intrecci tra interesse estetico e disinteresse nel Settecento, cfr. Mazzocut-Mis 2009, in particolare il cap. 1: Disinteresse o interesse estetico?, pp. 1-47.

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lità non è solo vagliata, ma è anche accolta all’interno dei dibattiti degli anni Novanta sulla Kritik der Urteilskraft. Si tratta ora di capire se una simile lettura possa essere in qualche modo avallata dallo stesso Kant. Certo, la temperie che si respirava non doveva essere ignota neppure al filosofo di Königsberg. Non sorprende allora che nelle riflessioni della fine degli anni Settanta troviamo un’esplicita definizione dell’interesse estetico: “Interesse (interesse) in senso estetico significa partecipazione dell’animo” (AA 15, 426). La definizione non differisce da quelle più diffuse nel periodo, in particolare da quella di Garve, che individuava proprio nell’accezione di “partecipazione” uno scarto rispetto alla vulgata che riduceva l’interesse a mero tornaconto: Non abbiamo una parola per interesse (Intereße). Non è vantaggio (Vortheil), poiché questo indica solo l’oggetto che suscita interesse; non tornaconto (Eigennutz), poiché questa è la tendenza dell’anima ad essere sempre diretta dal proprio interesse. Che cos’è allora? È la partecipazione a ogni cosa in quanto ha un’influenza sulla nostra persona e su essa soltanto. (Ferguson 1772, p. 332)

Nonostante la presa di distanza dal finalismo, la definizione di Garve, con il riferimento alla mia persona, sembra comportare ancora una dimensione “patologica” difficilmente conciliabile con la prospettiva universalistica di Kant. In un altro appunto, tuttavia, Kant appare incline a descrivere anche il rapporto al bello come una sorta di interesse-partecipazione, specificando così meglio la dimensione del Gemüthsantheil: Sentimento nasce da interesse (Antheil) che prendiamo per qualcosa. Se questo interesse nasce dalla sensazione, esso non ha validità universale; se, però, è connesso immediatamente con l’intuizione, esso è il giudizio di tutti, e il piacere per questa ragione lo fa diventare bellezza. (AA 15, 366-7)81

Anche a un oggetto bello possiamo dunque “partecipare”. In questo senso, l’interesse consisterà nel modo con cui ci colpisce lo spirito dell’opera, e sarà dunque connesso con lo slancio in quanto 81 Cfr. anche AA 15, 426, dove si parla di una einnehmende Schönheit che prevede la partecipazione dell’animo.

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gioco. Che simili suggestioni non siano delle semplici ipotesi valide solo nelle riflessioni sincopate e non sempre sorvegliate del periodo pre-critico lo corrobora un passaggio dell’Anthropologie, dove Kant fornisce una sorta di variante ai primi capoversi del § 49 della Kritik der Urteilskraft: Spirito è il principio vivificante nell’essere umano. Nella lingua francese spirito e ingegno portano lo stesso nome, Esprit. In tedesco le cose stanno diversamente. Si dice: un discorso, uno scritto, una dama della società, ecc. sono belli, ma senza spirito. La riserva di ingegno qui non è sufficiente; infatti questa può anche venire a nausea, dato che il suo effetto non lascia nulla di permanente. Perché tutte le suddette cose e persone meritino di venir dette ricche di spirito, esse devono suscitare un interesse, e invero per mezzo di idee82. Ciò infatti mette in moto l’immaginazione, che per simili concetti vede davanti a sé un ampio spazio di manovra. (A 7, 225)

Proprio ciò che piace senza interesse, dunque, deve suscitare un interesse. E si badi: non l’interesse intellettuale della ragione, ma un interesse innescato mediante le idee estetiche, e dunque a maggior ragione un interesse estetico83. Non si tratta, infatti, di un piacere legato all’esistenza dell’oggetto, cosa che esclude non solo l’interesse intellettuale, ma anche l’interesse patologico. Tale conclusione potrebbe lasciare a tutta prima perplessi, dal momento che in realtà essa sembra collocarsi al di fuori dell’interesse qua talis, almeno secondo la formulazione del § 2 della Kritik der Urteilskrasft: “È detto interesse il piacere che congiungiamo con la rappresentazione dell’esistenza di un oggetto” (KrU § 2). Che cosa continua a qualificare come tale l’interesse di cui parla Kant nell’Anthropologie? Se seguiamo il passo di Kant, l’interesse è procurato tramite le idee (estetiche), dunque tramite ciò che ci dà molto da pensare e che, in tal modo, ci vivifica l’animo. Ma questa era la risposta fornita da Garve: “Chi ci vuole interessare, ci deve dare molto da pensare”. Certo, permane un’importante differenza nella misura in cui Garve rinviava a conoscenze che muovevano 82 Il che significa che l’interesse è strettamente connesso, o forse addirittura coincidente con la vivificazione; da notare che Kant in R 933 sottolineava che lo spirito procede a vivificare dapprima le idee e poi la dimensione sensibile, pena ricadere nell’esaltazione fanatica. 83 O meglio: un interesse estetico del bello, non del piacevole.

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piccole passioni, mentre in Kant la possibilità di pensare molto è data dal libero – e dunque disinteressato – gioco delle facoltà. Ma è proprio tale gioco che ci procura quell’impegno che coincide con l’interesse. Scrive Kant in una riflessione sulla logica datata da Adickes tra gli anni Ottanta e Novanta: Poiché il bello per sé stesso non porta in sé alcun interesse, ovvero poiché la sua esistenza ci è indifferente, benché vi si trovi un piacere, esso deve consistere nel risveglio del sentimento di ciò per cui prendiamo un interesse, cioè l’armonia dell’intelletto e della sensibilità in vista di una conoscenza in genere. (AA 16, 160)

Ma cosa significa che il piacere consiste in un sentimento di qualcosa che ci interessa e che questo qualcosa coincide con l’armonia delle facoltà? Il sentimento dell’armonia delle facoltà è il sentimento di slancio, dunque la vivificazione da cui deriva il piacere. Fin qui niente di nuovo. Il fatto è che tale vivificazione è intesa ora come interesse84. È evidente, però, che non siamo interessati all’armonia delle facoltà allo stesso modo in cui possiamo essere interessati a un oggetto. Prendiamo interesse per l’armonia, perché l’armonia è gioco e il gioco occupa l’animo in quanto lo impegna (beschäftigt). Ma non lo impegna come lo impegna un lavoro che tende a uno scopo esterno, bensì solo in virtù della finalità interna che presiede alla sua prosecuzione. Prendere interesse nel gioco, allora, non è un gesto intenzionale, ma indica piuttosto l’attivazione delle facoltà conoscitive nel corso del gioco stesso, un’attivazione che coincide con la loro partecipazione dinamica. In mancanza del lato passivo dettato dalla materia, l’interesse provocato sull’animo dal gioco delle facoltà sarà dunque solo la forma dell’attivazione che si autoconserva. Tale carat84 A ciò va aggiunto l’interesse come sinonimo della chiarezza estensiva presente nelle riflessioni kantiane (AA 15, 69; AA 16, 334; 336-7), a testimonianza della convergenza nella nozione di interesse estetico della duplice matrice della vividezza e della vita, grazie alla comune sorgente nel modello del sollevamento del fondo dell’anima. Qui ci occupiamo solo del secondo versante; sul primo cfr. Matsuo 1985, pp. 56 e ss. Meno accettabile è la conclusione di Matsuo per cui la scomparsa dell’interesse estetico nella Kritik der Urteilskraft sia dovuta alla rimozione della dimensione dell’effetto a cui era connessa. Sulla persistenza della questione dell’effetto e del desiderio nella terza Critica, cfr. infra.

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tere, come ormai noto, coincide con l’impegno fornito dal gioco secondo Garve: un impegno sostenuto da una finalità senza scopo notevole, ovvero da una finalità interna al gioco stesso. E tuttavia, sappiamo, tale impegno per Garve non sta alla base soltanto del gioco, ma anche dell’Interessirende, il quale, nel modo in cui attira la nostra attenzione, viene posto in antitesi all’imposizione interna o esterna dell’Arbeit o dello Zwang. Non stupisce allora che Kant, nel riprendere il legame con il gioco, sia portato a introdurre anche la possibilità di un interesse legittimo nel piacere del bello, laddove l’impegno dell’animo sarà garantito dalla mera finalità senza scopo del gioco delle facoltà di contro alla costrizione (Zwang) dello schematismo85. Ma se l’attivazione dipende dalla forma della finalità, l’interesse che corrisponderà ad essa sarà meramente formale – un interesse come mero slancio delle facoltà, che grazie all’indeterminatezza del suo oggetto, e dunque all’indipendenza dalla materia del piacere, potrà essere preservato nella sua attività senza essere diretto alla quiete di uno scopo: “Dunque non il bello ci piace, ma l’armonia delle facoltà conoscitive”. Il che significa che il giudizio sul bello, innescando il libero gioco delle facoltà conoscitive, ci piace in quanto ci dà da fare; e poiché il gioco ha sede nell’animo, il fare si tradurrà in un “molto da pensare”. Nella misura in cui piace, dunque, il bello interessa. Ma l’interesse, è bene ribadire, non è per l’esistenza dell’oggetto, ma solo per la condizione soggettiva di attivazione86. Per quanto Kant ne abolisca l’impiego in questo senso nella Kritik der Urteilskraft, forse per evitare confusioni terminologiche, una tale accezione resterà ben visibile negli elementi della pregnanza e della vivificazione che ne rappresentavano i pilastri all’interno della tradizione precedente. 85 Cfr. ad es. KrU § 49: “[…] im Gebrauch der Einbildungskraft zum Erkenntnisse [ist] die Einbildungskraft unter dem Zwange des Verstandes und der Beschränkung unterworfen, dem Begriffe desselben angemessen zu sein; in ästhetischer Absicht aber [ist] die Einbildungskraft frei, um noch über jene Einstimmung zum Begriffe, doch ungesucht reichhaltigen unentwickelten Stoff für den Verstand, worauf dieser in seinem Begriffe nicht Rücksicht nahm, zu liefern […]”. Lo schematismo si dimostra così una sorta di “rapporto di lavoro” tra le due facoltà conoscitive, di contro a ciò che accade dal punto di vista estetico, in cui la libertà dell’accordo richiama la semantica del gioco. 86 Andrà forse in questa direzione Snell, quando opporrà un interesse per la rappresentazione a un interesse per l’esistenza dell’oggetto, cfr. supra.

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f. Vivificazione e desiderio Resta però un dubbio che aleggia sull’effettiva coerenza dell’interesse del bello in Kant. Nella definizione del § 2 della Kritik der Urteilskraft, infatti, l’interesse non è solo legato alla rappresentazione dell’esistenza dell’oggetto, ma anche alla facoltà di desiderare: È detto interesse il piacere che congiungiamo con la rappresentazione dell’esistenza di un oggetto. Questo piacere, perciò, ha sempre relazione con la facoltà di desiderare, o in quanto movente di essa, o in quanto necessariamente connesso con il movente stesso. (KrU § 2)

Se si può parlare di interesse anche per il piacere del bello, occorre rendere conto di entrambe le definizioni. Grazie al significato formale dell’interesse, è possibile evitare ogni riferimento all’esistenza dell’oggetto87; più difficile è legittimare un interesse che non abbia rapporto con la facoltà di desiderare (KrU § 4). La facoltà di desiderare, infatti, non è estranea alla dimensione della vita che è l’interesse in senso formale. Come afferma Kant in R 1034: “La vita non è altro che la facoltà di desiderare nel suo più infimo esercizio” (AA 15, 465). L’incremento della vita nella vivificazione sembra dunque incrementare l’esercizio della facoltà di desiderare88. Kant, però, esclude ogni partecipazione della volontà dal giudizio puro di gusto: [I]l piacevole e il buono si accordano in ciò, che entrambi sono legati sempre con un interesse per il loro oggetto: non solo il piacevole e il buono mediato (l’utile), che piace come mezzo per ottenere il piacevole; ma anche ciò che è buono assolutamente e sotto ogni riguardo, il buono morale, che include il più alto interesse. Giacché il buono è l’oggetto della volontà (vale a dire di una facoltà di desiderare determinata dalla ragione). Ma volere qualche cosa ed avere piacere per la sua esistenza, cioè prendervi interesse, sono la stessa cosa. (KrU § 4) 87 In tal senso, l’interesse del bello non è classificato tra le specie di interesse, perché non è propriamente un interesse (KrU § 2), ma la forma dell’interesse, che di quest’ultimo conserva solo il carattere attivo o attivante. 88 Il che è analogo al passaggio dalla solicitatio della forza morta all’impetus della forza viva vera e propria, come accadeva in Baumgarten (M §§ 669; 671), cfr. Nannini 2023c.

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Come risolvere l’apparente paradosso? L’analisi descritta ci consente di trovare una possibile via d’uscita. Il legame tra vita e facoltà di desiderare è sancito nel modo più chiaro nella prefazione della Kritik der praktischen Vernunft (1788): La vita è la facoltà di un essere di agire in accordo alle leggi della facoltà di desiderare. La facoltà di desiderare è la facoltà di un essere di essere per mezzo delle sue rappresentazioni la causa della realtà degli oggetti di queste rappresentazioni. (AA 5, 9)

La rielaborazione di tale definizione in termini del tutto simili nella Metaphysik der Sitten (1797) è indice del fatto che le posizioni della Kritik der Urteilskraft non hanno segnato alcuna netta cesura in proposito: La facoltà di desiderare è la facoltà di essere, per mezzo delle proprie rappresentazioni, la causa dell’oggetto di queste rappresentazioni. La facoltà di un essere di agire in accordo con le sue rappresentazioni è detta vita. (AA 6, 211)

Rispetto alla Kritik der praktischen Vernunft, a cadere è qui solo il riferimento alle leggi della facoltà di desiderare: l’elemento cruciale della vita, dunque, sarà l’agire in base a rappresentazioni89. Per comprendere appieno il significato di tale dimensione vitale, occorre esaminare un passo, apparentemente distante, delle lezioni di logica. In R 1892, datata 1776-1778, Kant scrive che “in logica non si prende in considerazione la perfezione pratica” (AA 16, 150). Lo stesso viene ripetuto nella Logik Pölitz, dove si legge che “la perfezione pratica non appartiene alla logica, dal momento che essa tratta della facoltà conoscitiva, non della volontà” (AA 24, 516). Simili avvertimenti hanno senso se consideriamo che Kant spiegava la logica in base all’Auszug aus der Vernunftlehre (1752) di Meier, il quale, come Baumgarten, faceva culminare le perfezioni della conoscenza nella dimensione della vita cognitionis, e dunque nella dimensione pratica della conoscenza. Kant intende dunque sganciarsi da questa concezione, come dimostra anche la riduzione delle perfezioni della conoscenza da sei 89 Cfr. Wilson 2007, p. 114.

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a quattro90, con la conseguente eliminazione della vita della conoscenza. Causa della sua abolizione dalla logica è la sua appartenenza alla dimensione pratica: “Il nostro autore [Meier] parla in generale in questa intera sezione del modo in cui la conoscenza si rapporta alla libera volontà […], ma ciò appartiene alla morale” (AA 24, 250-1)91. Ovviamente non possiamo seguire gli sviluppi nell’ambito morale, certo confortati dall’ampio utilizzo della cognitio viva nella filosofia pratica degli anni Sessanta e Settanta, in particolare in Sulzer e Mendelssohn92. In ogni caso, tanto nella Kritik der praktischen Vernunft quanto nella Metaphysik der Sitten si parla di vita nella misura in cui le concrete rappresentazioni forniscono un movente per agire in base ad esse, in probabile connessione con una tale tradizione di pensiero93. La rappresentazione determinata dagli appetiti o dalla ragione indirizza insomma la facoltà di desiderare, e ciò provoca l’interesse per l’oggetto94. Nell’interesse del bello, tuttavia, sappiamo che l’interesse non è per l’oggetto, ma costituisce piuttosto la stessa condizione di slancio dell’animo. Il che non significa, come spesso ritenuto, che non sia coinvolta la facoltà di desiderare, ma che a dirigere tale facoltà sarà un’idea estetica, in cui molto resta indeterminato, lasciando indeterminato anche il desiderio stesso95. 90 Si tratta ovviamente delle quattro categorie tipiche di Kant: la quantità, a cui corrispondono ricchezza e dignità; la relazione, a cui corrisponde la verità; la qualità, a cui corrisponde la perspicuità e la certezza, a cui corrisponde la modalità; cfr. Nannini 2020. 91 Cfr. Capozzi 2002, vol. 1, pp. 381-382; 705 e ss. 92 Cfr. Nannini 2014, pp. 401-2. 93 È significativa a questo proposito una nota nella Einleitung della Kritik der Urteilskraft, aggiunta alla seconda edizione, dove Kant risponde a un’obiezione sulla sua definizione della facoltà di desiderare fornita nella seconda Critica. Il rimprovero è quello di non tenere in debito conto il problema delle “velleità” (Wünsche) che sono anche “desideri” (Begehrungen) e che nondimeno non possono realizzare il loro oggetto. Senza entrare nell’articolata risposta di Kant, che ricomprende il caso particolare nella formulazione generale, è evidente che il problema sollevato qui è quello della legittimità di una cognitio movens, ovvero di quella conoscenza viva in senso lato di cui parlava Baumgarten al § 669 della Metaphysica, e che, per quanto sia sollecitazione, non necessariamente si traduce in azione. 94 “La determinazione della rappresentazione per l’attuazione dell’oggetto è il desiderio”, cfr. AA 15, 465. 95 Nell’idea estetica è presente solo la forma della finalità, perché essa ci dà molto da pensare senza che alcun concetto le sia adeguato. Il fatto di essere

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Non c’è dunque alcun bisogno di legittimare la presenza di un interesse del bello che non abbia rapporto con la facoltà di desiderare né di pensare a un mutamento rispetto alla concezione della vita della seconda Critica, perché la vita della terza Critica non è affatto una “vita senza desiderio” (Wilson 2007, pp. 117 e ss.)96, bensì piuttosto una vita senza movente (conoscibile). Beninteso, si potrebbe affermare che il desiderio è tale solo se è presente un movente; che lo si chiami desiderio o meno, comunque, si tratta pur sempre di un’attivazione della facoltà di desiderare. Un’attivazione senza dubbio peculiare, dal momento che nel giudizio di gusto non è determinato il desiderio, bensì solamente il sentimento, ovvero il surplus di vita. Ma proprio per la determinazione del sentimento, la partecipazione delle altre capacità dell’animo risulta cruciale. Poiché l’animo è principio di vita, il sentimento come vivificazione è in un certo senso misura dell’incremento dell’animo; ma l’animo comprende un insieme di facoltà; nella vivificazione, quindi, l’animo viene incrementato in quanto sono incrementate le facoltà di cui si compone. Poiché nel sentimento sentiamo solo noi stessi e non un oggetto, l’incremento si manifesterà per mezzo dell’attivazione delle facoltà conoscitive e della facoltà desiderativa. Come sappiamo, nel giudizio di gusto tale attivazione prende la forma del gioco. Il sentimento di piacere proprio del giudizio di gusto si configura non a caso come un sentimento del libero gioco delle facoltà dell’animo. Se il ragionamento è corretto, sarebbe lecito attendersi a questo punto l’esplicita ammissione che il gioco attivi anche la facoltà desiderativa, ma non è così. Al contrario, il gioco sembra intervenire solo tra le facoltà conoscitive, l’immaginazione e l’intelletto; e tuttavia, non va dimenticato che il gioco, nella misura in cui è capace di conservarsi da sé, è equiparato a uno slancio. Ora, lo slancio era il modo con cui si metteva in movimento l’ingegno in senso lato di Baumgarten nell’impeto estetico. Anche in questo caso non si attivati senza scopo preciso (KrU § 9), tuttavia, è il probabile indizio della presenza di uno scopo che ci resta inconoscibile, ma che potrebbe afferire a un piano soprasensibile (KrU § 58). 96 “Life without desire” è il titolo di un sottoparagrafo del testo di Wilson. Cfr. anche Calori 2008, che lascia indeterminata la questione. Lehman giunge a riconoscere in Kant un senso diverso di desiderio rispetto a quello suscitato dal piacevole e dal buono, battezzato “desiderio estetico”, Lehman 2018.

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nominavano esplicitamente le facoltà desiderative (AE § 78), ma è chiaro dalla Metaphysica che la dimensione della forza viva è legata alla sollecitazione del desiderio, senza la quale le capacità dell’estetico dotato resterebbero delle mere potenzialità. Lo stesso potrebbe valere per Kant, in cui sarebbe difficile spiegare la possibilità di un accordo dinamico escludendo a priori ogni legame con la facoltà desiderativa. In Baumgarten, tuttavia, l’innalzamento del fundus animae portava lo spirito bello a vedere nel futuro grazie all’attrattiva rappresentata da un mihi bonum (M § 660). Se vuole che il pubblico si emozioni, insomma, il bello spirito, in particolare il poeta, deve far presagire ai lettori e agli spettatori un qualche elemento desiderabile (o temibile) nel futuro della storia che sta raccontando: “È comunque certo che uno spirito bello deve vedere nel futuro: deve parlare la lingua del cuore, cioè commuovere, ma se deve commuovere gli altri, deve prima essere commosso lui stesso. Non può commuovere se non suscita appetizioni e non può suscitare appetizioni se l’oggetto di esse non è futuro” (K § 36). La pregnanza in tal senso servirà ad alimentare lo slancio verso tale oggetto del desiderio futuro: “Ci si immaginano ad esempio, dapprima, solo dieci note caratteristiche di una materia e poi nella miscela di chiaro e oscuro si pensa forse la materia secondo centocinquanta note caratteristiche. E mentre con la prima rappresentazione non ci si era commossi, ora la massa di rappresentazioni suscita le lacrime” (K § 80). L’estetica di Baumgarten, culminante nella vita della conoscenza sensibile, contribuisce in tal senso a una estetica della suspense che si imporrà in Germania nel secondo Settecento97. Di contro a una tale “estetica del futuro”, Kant afferma che non solo non ci può essere alcuna attrattiva alla base del piacere del bello, ma lo slancio stesso si dispiega nel presente intrascendibile del gioco. In che modo, dunque, la quieta contemplazione della bellezza potrebbe essere una forma di impeto estetico? La domanda non è così paradossale come appare a prima vista, se si tiene conto del fatto che il presente non consiste qui nella puntualità dell’istante, bensì piuttosto nella perenne sorgività con cui l’idea estetica continua ad attivarci. Se il giudizio di gusto esclude ogni commistione con il 97 Sul legame di tale elemento con la poetica dell’interessante, cfr. Nannini 2018 [ma 2020], pp. 54-59.

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desiderio dell’oggetto, allora, non è perché la facoltà di desiderare non ha nulla a che vedere con il sentimento del libero impegno delle nostre facoltà, ma perché il piacere è qui la forma stessa del desiderio nella sua inoggettualità. In tal modo, il piacere del bello è in grado di sfuggire ai due poli oppositivi della “noia” (lange Weile) e del divertimento (Kurzweil) – che Kant contrappone nell’Anthropologie con un gioco di parole difficilmente traducibile – perché la bellezza non provoca una dilatazione del lasso temporale (Weile) che “è come il presentimento di una lunga morte” (AA 7, 233)98, né la sua compressione in una perenne rincorsa del futuro, “in cui [ci si sente] continuamente spinti a uscire dalla condizione presente” (AA 7, 233)99. La bellezza consente di percorrere piuttosto una terza via, che è equidistante dalle altre due100, e che prende la forma dell’indugio (Verweilung) (KrU § 12)101, per il quale la Weile, il lasso di tempo, non è più percepita come una prigione da cui non si può fuggire o, alternativamente, come una prigione da evadere costantemente, ma come un orizzonte da abitare nella sua mobilità102. Se 98 La noia non fa che aumentare a dismisura la percezione di una tale durata per l’assenza di percezioni: “Il vuoto di sensazioni, avvertito entro di sé, suscita un orrore (horror vacui) e come il presentimento di una lunga morte, che viene ritenuta più penosa di quando il destino recide d’un tratto il filo della vita”. 99 Kant aggiunge: “Così si spiega anche perché si ritiene che le cose che abbreviano il passare del tempo siano identificate con il godimento; infatti quanto più rapido è per noi l’andarsene del tempo, tanto più ci sentiamo rinfrancati”. 100 Cfr. Menninghaus 2009, pp. 86 e ss. 101 Condivido qui la tesi di Fabrizio Desideri, che vede nell’estetica di Kant un’estetica dell’indugio piuttosto che un’estetica della contemplazione, cfr. Desideri 2003, p. 85, in nota. Cfr. anche Lehman 2018. 102 Se il desiderio non porta a una fuga verso il futuro, ma dischiude sempre di nuovo l’orizzonte del presente, è perché il desiderio non è qui distinto dalla sua soddisfazione, dal momento che non tende verso un oggetto esterno, e quindi verso il futuro, ma coincide con l’attivazione stessa. Come sopra ricordato, nel gioco l’assenza di scopo è conciliabile con la possibilità di un impegno per il fatto che il movente è rappresentato dall’azione medesima. Nel caso specifico del gioco delle facoltà, ciò significa che esiste una causalità interna al gioco stesso, alimentata dalla pregnanza dell’idea estetica, che consente a quest’ultimo di perseverare nel tempo (KrU § 12). È la coscienza di tale causalità a costituire il piacere, in quanto fondamento di determinazione dell’attività del soggetto nel sentimento; ma la causalità di un concetto rispetto al suo oggetto è la finalità (KrU § 10); e la rappresentazione di una finalità è ciò che attiva la facoltà di desiderare. La coscienza di tale causalità costituisce dunque la

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abitare tale orizzonte richiede uno slancio continuato dell’animo alimentato dalla pregnanza inesauribile delle idee estetiche103, il coscienza del desiderio. In quanto, però, la causalità è interna – la finalità è formale – non si tratterà di un desiderio eterodiretto, bensì di un desiderio che procurerà soddisfazione già per ciò che esso è qua desiderio piuttosto che per ciò che si raggiunge per suo mezzo. Il piacere del bello, come sentimento del libero gioco delle facoltà conoscitive, sarà dunque la coscienza del desiderio in quanto pura attivazione dell’animo, un’attivazione in cui l’animo tende a persistere senza mai abbandonare la sfera del presente. Si può così risolvere la crux interpretativa rappresentata da un passo dell’introduzione alla Metaphysik der Sitten che ha condotto a non poche difficoltà nella comprensione del piacere del giudizio di gusto di Kant. Citiamo il passo (AA 6, 212): “Man kann die Lust, welche mit dem Begehren (des Gegenstandes, dessen Vorstellung das Gefühl so afficirt) notwendig verbunden ist, praktische Lust nennen: sie mag nun Ursache oder Wirkung vom Begehren sein. Dagegen würde man die Lust, die mit dem Begehren des Gegenstandes nicht notwendig verbunden ist, die also im Grunde nicht eine Lust an der Existenz des Objects der Vorstellung ist, sondern blos an der Vorstellung allein haftet, blos contemplative Lust oder unthätiges Wohlgefallen nennen können. Das Gefühl der letztern Art von Lust nennen wir Geschmack. […] Was aber die praktische Lust betrifft, so wird die Bestimmung des Begehrungsvermögens, von welcher diese Lust als Ursache nothwendig vorhergehen muß, im engen Verstande Begierde […] heißen […]”. A destare perplessità (ad es. Calori 2008, p. 175) è il fatto che il piacere del giudizio puro di gusto viene qui definito come “inattivo” (unthätig), e dunque come indipendente dalla facoltà di desiderare: cosa che sembrerebbe in aperta contraddizione con il fatto che il piacere in quanto tale è sempre definito come intensificazione di una forza vitale fondata sulla facoltà di desiderare. Il piacere del bello sarebbe dunque un paradosso in sé stesso, insieme attivo e inattivo. E tuttavia, il fatto che “unthätig” sia posto sullo stesso piano dell’aggettivo “contemplativ” lascia pensare che esso non sia l’opposto di ogni attività, ma solo dell’attività che si oppone per eccellenza alla contemplazione, e cioè l’azione. A essere esclusa dal piacere di gusto non è dunque tanto la facoltà di desiderare qua talis, bensì il suo uso determinato, ovvero il desiderio in quanto desiderio “di” qualcosa: il desiderio finalizzato. Alla luce di questi elementi, le due apparenti antitesi possono trovare una conciliazione nella nozione di indugio, che costituisce certamente una forma di piacere inattivo rispetto al piacere pratico, perché non vi è alcuna determinazione della facoltà di desiderare, ma costituisce altrettanto certamente una forma di piacere attivo, e cioè di piacere tout court. Semplicemente, l’attività della facoltà di desiderare non sarà vincolata a un oggetto, ma sarà attività senz’altro. Indugiare, d’altronde, significa persistere a desiderare senza determinare l’appetito in vista di uno scopo che ne strumentalizzi l’attivazione. L’estetica dell’indugio, in questo senso (e solo in questo senso), potrebbe essere definita come un’estetica del desiderio. 103 Se davvero si espungesse del tutto la facoltà desiderativa, lo stato di coloro che contemplano la bellezza non sarebbe molto diverso da quello in cui si trova il caraibico descritto in una nota dell’Anthropologie (AA 7, 233, nota;

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desiderio che lo sostiene non sarà una tensione soggettiva che abbandona l’hic et nunc per il futuro del desideratum104, ma la stessa dinamicità dell’accordo delle facoltà conoscitive che ci colloca sempre di nuovo nell’apertura del presente. Nel riconciliare le diverse componenti dell’animo nel medium del gioco, l’integrazione vivificante delle diverse facoltà dell’animo105 ci riconcilia così con l’umanità di cui ci scopriamo portavoce106, fino a farsi traccia di una più profonda risonanza con il mondo. Il piacere della bellezza non deriva, infatti, dall’accelerazione temporale che denota una perenne insoddisfazione nella nostra condizione, ma da un agio continuativo nel presente, che è di per sé indice del nostro adattamento. Proprio in quanto la contemplazione della bellezza ci pone di continuo nell’apertura del presente, il piacere che ne deriva sarà sintomo dell’ospitalità che il mondo cfr. anche Sulzer 2011, pp. 223-224), con l’unica differenza che il caraibico, a causa dell’innata inerzia che lo contraddistingue secondo Kant, non proverebbe quell’insopportabile angoscia che invece colpisce i primi: “L’innata inerzia libera il caraibico da questa pena [la noia]. Egli può restare per ore e ore con la sua canna in mano, senza far nulla; l’assenza di pensieri è una mancanza di stimolo all’attività e produce sempre un dolore, ma il caraibico ne è esente”. È vero che esternamente l’atteggiamento di entrambi potrebbe sembrare alquanto simile: ma l’inazione di chi contempla la bellezza non è data dall’assenza di pensieri, bensì piuttosto dalla loro pregnanza. 104 Nel caso del piacevole, il desideratum sarà l’insieme di oggetti simili a quello che giudichiamo nella sensazione (KrU § 3). Che l’estetica di Kant possa giustificare un qualche desiderio per l’esistenza dell’oggetto già nell’esperienza estetica in quanto tale, ad ogni modo, non è cosa inaudita, cfr. Guyer 1978a. Non è possibile entrare nel merito di tale argomento. In ogni caso, la tesi segue un percorso alquanto diverso da quello che propongo. 105 Il legame tra integralità psicologica e conoscenza viva era ben presente in Meier (1748, § 35): “La conoscenza viva impegna [insieme con la facoltà conoscitiva] anche la facoltà desiderativa, l’altra metà dell’anima, e ricolma dunque l’intero animo”. 106 Proprio l’attivazione integrale e libera che solo la bellezza consente esige una risposta che ci chiama in causa come uomini tout court e non in quanto uomini particolari. Nel presente del gioco, in cui le cose si donano al soggetto, sarà allora legittimo pretendere che gli uomini sentano tutti allo stesso modo, perché è la loro umanità a essere coinvolta piuttosto che il futuro dei loro interessi. In tal senso, ha ragione Kong quando afferma che “in relazione alla totale rivelazione delle forze dell’anima dell’uomo nell’intuizione dell’oggetto bello, Kant ha portato avanti l’approccio della conoscenza sensibile perfetta di Baumgarten in direzione dell’idea di umanità”, cfr. Kong 1995, p. 207.

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ci offre già prima di ogni oggettivazione. Se la bellezza è in grado di vivificare, dunque, ciò non dipenderà dall’attrazione esercitata da un qualche oggetto, ma dal fatto che in essa possiamo fare esperienza della sensatezza della nostra esistenza107. Una simile prospettiva era stata abbozzata da Kant già in un appunto a matita su una lettera di Markus Herz (1747-1803) del 1771, in cui si affermava: “Le cose belle indicano che l’uomo è adatto al mondo […]” (AA 16, 127). Per quanto la tesi non venga smentita neppure nel periodo critico, l’“adattamento” non potrà più essere considerato come un oggetto di conoscenza. Poiché il principio determinante alla base del nostro giudizio di gusto (cfr. KrU § 57), e dunque della nostra attivazione, sembra rinviare a una finalità che trascende i concetti con cui ordiniamo la molteplicità empirica, l’unico modo per corrispondervi non sarà quello di estorcere da ciò che giudichiamo bello una confessione teleologica sul piano intellettuale, bensì quello di indugiarvi attivamente sul piano sentimentale. Da questo punto di vista, l’esperienza dischiusa dalla bellezza non sarà un’attesa sempre di nuovo prorogata, ma una promessa già da sempre mantenuta108. La logica delle idee estetiche che sembrava configurarsi come una specifica sezione della gnoseologia – come una gnoseologia inferiore – mostra ormai una portata più generale di una mera logica epistemica. Sia nella forma delle idee chiare e confuse sia nella forma delle “idee estetiche” kantiane, la pregnanza che anima la bellezza rende infatti esperibile la sorgività da cui discende ogni episteme, senza esaurirsi essa stessa in una conoscenza determinata. Come in Baumgarten, ancorché in un diverso quadro teorico, la questione della pregnanza lascia emergere anche in Kant l’incipienza aurorale di un senso non ancora coagulato in un logos, e dunque colto nella gratuità del suo avvento, di cui proprio l’estetico è chiamato a farsi custode e annunciatore. 107 Sulla costituzione della sensatezza dell’esperienza nel Kant della terza Critica, restano cruciali i contributi di Garroni, cfr. almeno Garroni 1986, pp. 207-233; 1992, pp. 102-47; 195-230. 108 Sulla “promessa della bellezza”, cfr. Menninghaus 2013. Sulla bellezza come promessa di felicità, cfr. Recki 1994; Zangwill 2013. Sulla questione dell’adattamento rivelato dalla bellezza, cfr. Cozzoli 1996, in particolare cap. 1; Recki 2001, pp. 135 e ss.; Müller 2007; Fricke 2009; cfr. anche Menninghaus 2013, pp. 187 e ss. che ne valorizza il significato in chiave evoluzionistica.

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RINGRAZIAMENTI

La prima sollecitazione per questo studio è venuta dal lavoro compiuto durante il Dottorato in Scienze filosofiche, curriculum in Estetica e Teoria delle Arti, presso l’Università di Palermo (2015), sotto la guida del compianto Prof. Luigi Russo e del Prof. Salvatore Tedesco, che ringrazio di cuore per l’assiduo e generoso sostegno che ha continuato a mostrarmi lungo tutto il mio percorso di ricerca. Un ringraziamento particolare va al Prof. Fernando Bollino, che mi ha guidato nei primi passi della ricerca in estetica e storia delle idee, e che non mi ha mai fatto mancare il suo appoggio. Ho avuto la fortuna di confrontarmi su temi filosofici, germanistici ed estetici con molti amici, a cui va la mia gratitudine: il Dr. Stefan Borchers, il Prof. Simon Grote, la Dr. Yoko Ioku e il Prof. Colin McQuillan, compagni di pensiero illuministico ed estetico; la Prof. Elena Agazzi, che ha sempre incoraggiato e supportato la mia ricerca; la Prof. Stefanie Buchenau, che mi ha accolto a Parigi nel gruppo di ricerca sull’illuminismo tedesco “Sapere aude”; la Prof. Sorana Corneanu, che ha stimolato la mia riflessione sulla logica delle idee; il Dr. Petr Pavlas, con cui ho avuto fecondi scambi sul pensiero della prima modernità; il Prof. Clemens Schwaiger, un limpido modello negli studi baumgarteniani e kantiani, che ha generosamente discusso con me diverse parti della mia ricerca nel corso degli anni. Un ringraziamento speciale va alla Dr. Tinca Prunea-Bretonnet, con cui ho intensivamente collaborato all’Università di Bucarest su un vasto spettro di tematiche relative all’illuminismo tedesco. Il suo sostegno indefesso e la sua amicizia mi hanno enormemente aiutato nel mio percorso di vita e di pensiero. Ringrazio inoltre le istituzioni che mi hanno mostrato concretamente il loro sostegno nella fase più recente della mia ricerca: il Centro interdisciplinare di studi sull’illuminismo europeo di Halle, uno straordinario luogo di scambio accademico e umano che ha

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più volte finanziato i miei progetti; ringrazio in particolare la Prof. Elisabeth Décultot, con cui ho avuto l’onore di collaborare, e la Dr. Andrea Thiele, per tutto il suo supporto. Ringrazio poi il Centro interdisciplinare di ricerca sul Pietismo, sempre a Halle, nella persona del Prof. Christian Soboth, con cui ho intrattenuto un fruttuoso dialogo; la August Herzog Bibliothek di Wolfenbüttel, un paradiso per lo studio della prima modernità, nella persona della coordinatrice del programma di ricerca, Dr. Elizabeth Harding; il New Europe College, una meravigliosa oasi di ricerca nel centro di Bucarest; il Centre for Advanced Study di Sofia, che mi ha offerto un ambiente accogliente di soggiorno e di lavoro durante i difficili mesi della pandemia; l’Archivio Segreto di Stato di Berlino, nella persona del Dr. Uwe Folwarczny; e l’Institute for Research in the Humanities dell’Università di Bucarest, diretto dalla Prof. Dana Jalobeanu; è stata questa la mia “casa” accademica negli ultimi anni, dove ho avuto modo di conoscere molti valenti colleghi e amici. Un grazie di cuore al Dr. Domenico Spinosa e al Prof. Márcio Suzuki, che mi hanno recentemente invitato a discutere la mia ricerca in fecondi seminari rispettivamente all’Università dell’Aquila e all’Università di San Paolo. Ringrazio infine la mia famiglia per l’appoggio durante la febbrile stesura di questo lavoro lontano dall’Italia, Ionuţ, Valentina e Veronica per l’amicizia, Anca per tutto il resto. Il presente lavoro si inquadra nel progetto finanziato dal Ministero rumeno della Ricerca, dell’Innovazione e della Digitalizzazione CNCS/ CCCDI – UEFISCDI, PCE 105/2021, all’interno del PNCDI III. I paragrafi 1.b e 1.c ampliano e rielaborano l’articolo L’idea estetica di “chiarezza estensiva” e la sua genesi nella filosofia wolffiana, in “Rivista di storia della filosofia”, 69, 2014, pp. 421-442. Nel cap. 3 e nel cap. 4 si riprendono in forma più estesa e riveduta alcuni elementi presenti nell’articolo From the Density of Sense to the Density of the Sensible. The Emergence of Aesthetic Pregnancy from the Spirit of Hermeneutics, in “Archiv für Begriffsgeschichte”, 60/61, 2018/2019, pp. 163-186. Quando non diversamente indicato le traduzioni sono da considerarsi mie.

INDICE DEI NOMI

Abel, J.F. 130n, 153 Abelardo, P. 12 Abrams, M.H. 125n, 162 Adler, H. 14, 15n, 30n, 79n, 88n, 90n, 162 Agostino d’Ippona 32, 56 Ahl, F. 50n, 162 Aichele, A. 96n, 162 Alighieri, D. 32 Amoroso, L. 31n, 43n, 153, 162 Andersen, S. 24n, 162 Aristide 51n, 153 Arnauld, A. 11, 21, 22n, 39n, 71, 153 Asmis, E. 48, 163 Aso, K. 30n, 67n, 76n, 163 Auroux, S. 12n, 163 Bader, G. 119n, 163 Baeumler, A. 30n, 37n, 91n, 94n, 163 Bahr, P. 30n, 81n, 163 Bakola, E. 49, 163 Barnouw, J. 26n, 163 Barrett, M.-J. 57n, 163 Barth, U. 71, 163 Bartuschat, W. 96n, 163 Batteux, C. 81, 153 Baumgarten, A.G. 13-15, 17-20, 23n, 27-32, 34n, 37-39, 41-45, 47-54, 67n, 71n, 75-91, 93-97, 109, 111112, 114-118, 120, 122n, 125-128, 135, 143-147, 150n, 151, 153, 154, 158, 162-165, 167-169, 171, 173-179, 181-182, 185 Baumgarten, S.J. 19, 62, 67n, 71-74, 90, 154, 166, 177 Beardsley, M. 16, 164 Beausobre, L. 88n, 168

Beetz, M. 84n, 164 Beiser, F.C. 26n, 40n, 164 Bender, W. 30n, 48n, 164 Bergmann, E. 96, 164 Berndt, F. 18n, 81n, 86n, 95n, 164 Beumer, J. 164 Biemel, W. 110n, 164 Bilfinger, G.B. 45, 154 Bode, C. 94n, 164 Bodmer, J.J. 82, 154 Borchers, S. 77n, 78n, 164 Bordoli, R. 56n, 164 Bouhours, D. 71n, 154 Brandom, R. 23n, 25n, 164 Breitinger, J.J. 30n, 52, 77n, 82-83, 154, 182. Bromand, J. 16, 165 Brunemeier, B. 15, 94n, 165 Buchenau, S. 30n, 42n, 75n, 165 Buddeus, J.F. 39, 40n, 155 Budick, S. 82n, 165 Bühler, A. 57n, 72n, 165 Burmann, F. 63, 155 Calori, F. 96, 98n, 146n, 149n, 165 Calvino, G. 57-58, 155, 169, 184 Campe, R. 30n, 95n, 165 Canz, I.G. 18, 155 Capozzi, M. 145n, 165 Carl August von Sachsen-WeimarEisenach 93 Cassirer, E. 16, 96, 166, 180, 182 Cave, T. 10, 166 Caygill, H. 96, 108n, 166 Cicerone 50, 60 Classen, C.J. 56n, 166 Clauberg, J. 19, 60-61, 155, 157

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Coccejus, J. 19, 61-63, 66, 72, 155, 183, 185 Coccejus, J.H. 62, 155 Couturat, L. 23, 166 Cozzoli, L. 151, 166 Croce, B. 23n, 166 Crousaz, J.-P. 40, 155 Crusius, C.A. 97n D’Angelo, P. 22n, 157, 159, 166 Danneberg, L. 57n, 61n, 72n, 80n, 166 Dannhauer, J.C. 60, 155 De Angelis, S. 61n, 167 De Bruyne, E. 32n, 167 De Jonghe, A. 10 De Lubac, H. 56n, 167 De Pascale, C. 101n, 167 Deleuze, G. 87n, 167 Demetrio 48-51, 55, 155 Descartes, R. 11, 21, 153, 172, 184 Desideri, F. 148n, 167 Diderot, D. 100-101, 107, 155, 180 Diodoro Siculo 9 Dornmeyer, A.J. 62, 155 Dreyer, H. 110n, 167 Eberhard, J.A. 115n, 155 École, J. 34n, 167 Eggs, E. 9, 167 Emmel, A. 43n, 167 Epicuro 11 Erasmo da Rotterdam 9-10, 57, 156, 163 Ermogene 55, 60, 157 Eustazio di Tessalonica 10 Fan, D. 126n, 167 Favaretti Camposampiero, M. 33n, 34n, 36, 38n, 79n, 83n, 167-168 Ferguson, A. 102-103, 105, 139, 156 Ferraris, M. 168 Fichte, J.G. 120n Filodemo 48, 55, 159, 169 Flacius Illyricus, M. 19, 48, 58-59, 67n, 68, 156 Fontius, M. 88n, 168 Fozio 56, 156 Frackowiak, U. 168

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Francke, A.H. 65-66, 69, 81, 119n, 120n, 156, 174 Franke, U. 51-52, 84n, 85n, 96n, 120n, 168 Franz, W. 64n, 156 Frenckel, G.N. 64, 159 Fricke, C. 151n, 168 Fricke, H. 16n, 168 Fromm, W. 89n, 168 Fugate, C.D. 96, 97n, 168 Fuhrmann, M. 51n, 168 Fulda, D. 17, 169 Gabriel, G. 15-17, 169 Gaines, R. 48n, 169 Galilei, G. 41, 156 Ganoczy, A. 57n, 169 Garroni, E. 151n, 169 Garve, C. 97, 101-105, 117n, 121125, 127-129, 136, 139-140, 142, 156, 167, 177, 180 Gassendi, P. 11-12, 176 Gedicke, G.H.L. 73, 154 Gerhardt, V. 110n, 169 Giordanetti, P. 116n, 169 Glassius, S. 19, 59-60, 65, 67n, 68, 156 Godel, R. 94n, 169 Goethe, J.W. 16, 82, 93-94, 156, 168, 180 Goldenbaum, U. 23n, 33n, 43n, 169 Goodman, N. 16-17, 169-170, 178179 Göttert, K.-H. 119n, 170 Gottsched, J.C. 81-82, 157, 182 Greisch, J. 56n, 170 Gremels, G. 119n, 170 Grillenzoni, P. 131n, 170 Gross, S. 16, 170 Grote, S. 80n, 170 Güsken, J. 37n, 170 Guyer, P. 101n, 106n, 126n, 150n, 170 Hamm, C. 101n, 171 Harth, D. 35n, 171 Heidemann, I. 101n, 171 Helvétius, C.A. 129

Indice dei nomi191

Henckmann, W. 125n, 171 Henn, C. 84n, 171 Herder, J.G. 15n, 82, 93, 94n, 109n, 129, 131-132, 135, 138, 157, 162163, 169, 176, 182-183 Herz, M. 151 Hillgruber, M. 49n, 171 Hinske, N. 17, 171 Hohenegger, H. 117n, 119n, 171 Höwing, T. 96, 97n, 171 Hulsius, H. 64n, 157 Hundius, M. 63-64, 157 Hutter, A. 126n, 171 Ioku, Y. 51n, 171 Iser, W. 16, 172 Jacob, J. 86n, 172 Jansen, J. 10, 49n, 172 Jolley, N. 21n, 172 Juchem, H.-G. 115n, 172 Kablitz, A. 119n, 172 Kant, I. 15, 18-20, 42n, 47, 84, 93151, 153, 157, 159, 162-185 Kennedy, G.A. 56n, 172 Knape, J. 57n, 172 Knutzen, M. 18, 157 Kohler, G. 112n, 172 Köhler, H. 17-18, 157 Kong, B.-H. 96n, 116n, 150n, 172 König, J.C. 127-128, 157 Kraft, J.M. 64, 157 Kreis, G. 16, 165 Krueger, J. 40n, 172 Kulenkampff, J. 101n, 172 Küntzel, H. 81n, 82n, 173 Kurz, G. 84, 173 Kustas, G. 48n, 49n, 50n, 51n, 55, 56n, 173 La Rocca, C. 26n, 28n, 32n, 78n, 86n, 116n, 117n, 173 Lachin, G. 51, 173 Lamy, B. 71, 176 Lange, J. 19, 68-69, 83, 119n, 158 Lattanzi, L. 109n, 173 Lausberg, H. 50, 67n, 173 Lehman, R. 146n, 148n, 173 Leibniz, G.W. 13, 19, 21-26, 33-34,

36, 42n, 43, 82-83, 87n, 158, 163164, 166-167, 169-170, 172, 175179, 182 Lessing, G.E. 15n, 82, 101, 164, 177, 183-184 Linn, M.-L. 48n, 173 Locke, J. 11-12, 86n, 158, 185 Lombardo, G. 48n, 49n, 50n, 155, 173 Löw, R. 96n, 174 Lutero, M. 11, 57, 153, 177 Lüthe, R. 96n, 174 Maaß, J.G.E. 135-136, 158 Maierù, A. 61n, 174 Makkreel, R.A. 96, 108n, 174 Malebranche, N. 21, 22n, 172, 184 Malinowski-Charles, S. 32n, 174 Margolin, J.C. 10, 174 Marino, G. 31 Matsuo, H. 53n, 76n, 116n, 141n, 174 Matthias, M. 65n, 174 Mazzantini, C. 96n, 114n, 174 Mazzocut-Mis, M. 138n, 174 McQuillan, C. 96n, 174-175 McRae, R. 23n, 175 Meckauer, W. 96n, 175 Mehtonen, P. 32n, 51n, 175 Mei, M. 24, 27n, 34n, 175 Meier, G.F. 42, 51n, 67n, 76, 77n, 80-81, 83-86, 90, 93, 96, 144-145, 150n, 158, 164-165, 171, 174, 177 Melantone, F. 57, 158, 172 Mendelssohn, M. 82, 84, 101, 109n, 120, 145, 158, 169 Menninghaus, W. 96, 111n, 115n, 148n, 151n, 175 Mensch, J. 97, 175 Merger, A. 10, 174 Meuthen, E. 30n, 95n, 175 Meyer, H. 56n, 175 Meyer, R. 135n, 175 Michael, F.S. 12, 176 Michaelis, C.B. 51n, 67n, 159 Michaelis, C.F. 136-137, 159 Michaelis, J.H. 67n, 159 Milton, J. 82, 154, 165

192

Mirbach, D. 53n, 78n, 176 Moledo, F. 126n, 176 Montale, E. 21 Morel, C. 37n, 176 Morel, M.-A. 71n, 176 Moretto, A. 42n, 176 Moritz, K.P. 93, 94n, 159 Mortara Garavelli, B. 95n, 176 Mosheim, J.L. 62, 159 Muhlius, H. 64, 159 Müller, O. 151n, 176 Nakamura, T. 26n, 177 Nakazawa, T. 14n, 30n, 177 Nannini, A. 15n, 18n, 34n, 37n, 41n, 42n, 45, 49, 51, 52n, 53n, 65, 71n, 76n, 79n, 80n, 83n, 84n, 88n, 89n, 91n, 94n, 101n, 109n, 110n, 111, 120n, 126, 143n, 145n, 147n, 153, 161, 177-178 Nemeth, J. 107n, 178 Nicolai, F. 88, 153, 159 Nicole, P. 11, 39n, 71, 153 Niehle, V. 9, 15, 89n, 178 Oberhausen, M. 78n, 178 Oliveira da Silva, M.A. 126n, 178 Ortland, E. 17, 178 Ostermann, E. 89n, 178 Otabe, T. 26n, 32n, 88n, 178 Paetzold, H. 30n, 178 Paolo di Tarso 119n Parret, H. 115n, 179 Patzke, J.S. 88, 153 Peres, C. 17, 88n, 179 Perotti, N. 9 Pfaff, C.M. 62, 64n, 159 Pieper, H.-J. 101n, 179 Pimpinella, P. 23n, 30n, 31n, 33n, 36n, 37n, 38n, 43n, 77n, 86n, 87n, 154, 179 Piselli, F. 30n, 179 Plett, H.F. 95n, 179 Poppe, B. 88n, 153 Portera, M. 111n, 179 Pozzo, R. 116n, 169 Preus, R. 179 Pseudo-Apollodoro 9

Al di qua del logos

Pseudo-Dionigi 56, 159, Pseudo-Longino 89 Pufendorf, S. 70, 159 Quenstedt, J.A. 67, 160 Quintili, P. 101n, 180 Quintiliano 49-50, 55, 77n, 122 Rabelais, F. 7 Rambach, J.J. 48-49, 62, 64-71, 74, 80, 90, 160 Ramler, K.W. 81, 154 Recki, B. 97, 151n, 180 Redepenning, E.R. 56n, 180 Rentsch, T. 23n, 32n, 115n, 180 Resewitz, F.G. 158 Reusch, J.P. 19, 30n, 38-45, 71n, 160 Riedel, F.J. 130-132, 160, 183 Rodi, F. 15, 94n, 180 Roth, U. 101n, 180 Rumore, P. 24n, 180 Rutherford, I. 48-49, 180 Sánchez Rodríguez, M. 110n, 180 Satura, V. 116n, 180 Scheer, B. 96n, 181 Scheld, S. 57n, 169 Schelle, K.G. 137-138, 160 Schenkeveld, D.M. 55n, 181 Schiller, F. 93, 120n, 160, 169 Schirren, T. 49n, 181 Schlapp, O. 96, 101n, 181 Schochow, W. 88n, 181 Scholtz, G. 15, 94n, 181 Scholz, H. 32n, 181 Schrader, M. 35n, 181 Schulze, J.L. 67n, 160 Schuurman, P. 12, 181 Schwaiger, C. 18n, 22n, 23n, 24n, 25n, 26n, 30n, 32n, 33n, 36n, 40n, 44n, 77n, 80n, 85n, 88n, 181 Schwarz, O.K. 32n, 182 Scodel, J. 10, 182 Scotus, D. 23, 26, 32-33, 160 Sdzuj, R.B. 182 Sever, W.L. 39, 160 Sgarbi, M. 116n, 169 Snell, C.W. 131-135, 142n, 160 Solms, F.W. 96n, 182

Indice dei nomi193

Spalding, S.W. 77n, 94n, 154 Spener, P.J. 119n, 160, 170 Spinoza, B. 23n, 33n Spree, A. 16, 182 Stiening, G. 101n, 180 Stolnitz, J. 125n, 182 Stolzenberg, J. 101n, 182 Strube, W. 30n, 126n, 182 Sulzer, J.G. 98, 109n, 110n, 130n, 145, 150n, 161, 169, 177 Svetonio 59 Tedesco, S. 28n, 30n, 37n, 52, 77n, 83n, 153-154, 175, 182 Terras, R. 98n, 130, 183 Teruel, P.J. 107n, 108, 183 Thümmig, L.P. 86n, 161 Till, D. 89n, 130n, 183 Töllner, J.G. 80n, 161 Tommaso da Vercelli 32n Tonelli, G. 110n, 183 Torra-Mattenklott, C. 30n, 35n, 47n, 80n, 84n, 183 Townsend, D. 125n, 183 Trebels, A.H. 101n, 183 Tribbechow, J. 65n, 156 Tucidide 15, 59-60 Turró, S. 108n, 183 Ungeheuer, G. 36n, 183 Unkauff, J.G. 51n, 63, 67, 154 Valerio Massimo 59 Van Asselt, W.J. 62n, 183 Vegge, I. 56n, 184

Velotti, S. 22n, 166 Vignola P.-E. 107n, 184 Vogt, W. 96, 184 Voit, L. 49, 184 Völker, J. 97, 184 Vossius, G.J. 51, 161 Wachter, A. 101n, 184 Wadding, L. 33 Wagner, R.C. 26 Wahl, R. 22n, 184 Waltenberger, M. 14, 184 Ward Holder, R. 57n, 184 Weber, C. 35n, 184 Werenfels, S. 62, 161 White, D.A. 125n, 184 Wille, J.G. 62, 161 Wilson, R. 96, 108n, 109n, 110n, 144n, 146, 184 Wolff, C. 13, 18-19, 21-30, 33-38, 40-43, 45, 62, 71n, 75-80, 82n, 83n, 86n, 87, 101n, 116n, 153, 161-162, 167-168, 172, 175, 179, 182-183, 185 Wunsch, M. 117n, 185 Yoffie, A.M. 62n, 185 Yolton, J.W. 11, 185 Zambon, F. 51n, 173 Zammito, J.H. 110n, 119n, 185 Zangwill, N. 151n, 185 Zedler, J.H. 66n, 67n, 162 Zenckel, G.P. 73-74, 162 Zur Linden, J.G. 51n, 159

FILOSOFIE Collana diretta da Pierre Dalla Vigna

750. Giuseppe Fornari, Alle origini dell’Occidente. Preistoria, antica Grecia, modernità 751. Mario Alai, Filosofia analitica del linguaggio. Autori e problemi del Novecento 752. Antonio De Simone, Amor vitae. Stili e forme dell’arte nell’estetica di Georg Simmel 753. Federica Porcheddu, Ripensare il terzo a partire da Levinas. Trascendenza e reciprocità 754. Floriana Ferro, Amore e bellezza. Da Platone a Freud 755. Nicla Vassallo, Stefano Leardi, Fatti non foste a viver come bruti. Brevi e imprecisi itinerari per la filosofia della conoscenza 756. Giorgio Palumbo, Vincoli di gratuità. Rispondere delle grazia di esistere 757. Roland Barthes, Il Neutro. Corso al Collège de France (1977-1978). Testo stabilito, annotato e presentato da Thomas Clerc. Introduzione all’edizione italiana, traduzione e cura di Augusto Ponzio 758. Milosh F. Fascetti, Il laboratorio segreto dell’anima 759. Andrea Bizzozero, Antonino Clemenza, Carlos Alberto Gutiérrez Velasco (a cura di), Crisi dell’Umano oggi? Tra immanenza e trascendenza 760. Enrico Giorgio, Prolegomeni a una teoria della ragione, vol. 1 761. George Ivan, Tempo sacro e tempo profano. Per una filosofia della storia di Mircea Eliade 762. Simona Langella, Maria Silvia Vaccarezza e Michel Croce (a cura di), Virtù, legge e fioritura umana. Saggi in onore di Angelo Campodonico 763. Jean Soldini, Il cuore dell’essere, la grazia delle attrazioni. Tentativi di postantropocentrismo 764. Stefano marino (a cura di), Estetica, tecnica, politica: immagini critiche del contemporaneo 765. Francesco de Stefano, Dialogo sopra i massimi sistemi quantistici. Il dibattito sull’epistemologia della meccanica quantistica, Prefazione di Franco Fabbro 766. Roberto Bertoldo, Sistema transitorio. Dialogo sui sistemi di pensiero 767. Andrea Amato, L’uomo: storia di una separazione. Il compito e il destino dell’uomo 768. Riccardo Pugliese, Il sentimento paralizzante del possibile. La vertigine della libertà in Kierkegaard e Sartre 769. Paolo Vidali, Storia dell’idea di natura. Dal pensiero greco alla coscienza dell’Antropocene 770. Stefano Bevacqua, Il cerchio mai chiuso. Mente, cervello, corpo, ambiente: dalla relazione all’individualità 771. Enrico Cerasi, Filippo Moretti, Tradire Dante. Riflessioni sull’enigma del male a partire dalla “commedia” dantesca

772. Emiliano Alessandroni (a cura di), La Rivoluzione d’Ottobre e il pensiero di Hegel, Con un saggio di Domenico Losurdo, Prefazione di Giovanni Sgro’, Postfazione di Stefano G. Azzarà 773. Fabio Treppiedi, L’intollerabile. Aristotele dopo Deleuze 774. Vincenzo Frungillo, Il rischio e la perdita. Su identità e linguaggio in Martin Heidegger 775. John Ellis McTaggart, Commentario alla Logica di Hegel, a cura di Mauro Cascio 776. Gabriele Pulli, Inconscio del pensiero, inconscio del linguaggio 777. Fabio Vergine, Oltre l’umano. La concezione trascendentale della temporalità nel pensiero di Gilles Deleuze 778. Aldo Marrone, E.M. Cioran, lo stilista senza colonna 779. Paolo Landi, Coscienza e realtà nella storia del cinema 780. Giuseppe Polistena, Politica, questa sconosciuta. Genesi e identità del comportamento politico, prefazione di Giorgio Galli 781. Francesco Massobrio, Scienza e fede a confronto. Ripensare il paradigma a partire dall’uomo 782. Davide Fazio, Antonio Ledda, Michele Pra Baldi, Percorsi di logica 783. Pellegrino Favuzzi, Il pensiero politico di Ernst Cassirer. Filosofia della cultura tra democrazia e mito 784. Antonella Mancusi, Il riscatto dello sguardo. Il sentimento della crisi, l’Atene oggi 785. Igor Pelgreffi, Figure dell’automatismo. Apprendimento, tecnica, corpo 786. Francesca Iannelli, Federico Vercellone e Klaus Vieweg (a cura di), Approssimazioni: echi del Bel Paese nel sistema hegeliano. Wirkungsgeschichte della filosofia di Hegel in Italia 787. Davide Perrotta, Eliahu Alexander Meloni, Natura e cultura nella genesi della coscienza collettiva 788. Giuliano Campioni, Nietzsche e lo spirito latino 789. Graziano Pettinari, La fenomenologia contro se stessa. Lévinas, Ricoeur, Derrida 790. Michel Serres, Il parassita 791. Ambrogio Cazzaniga, Lo stile filosofico del pensare Storia e teoria 792. Thomas Hobbes, Vita di Thomas Hobbes di Malmesbury. Le due autobiografie latine, traduzione e cura di Luca Tenneriello 793. Antonio Rainone, La sartoria di Lacan. Sulle geometrie del desiderio e l’etica del godimento 794. Giovanni Formichella, Il fuoco della filosofia 795. Antonio De Simone, Metropoli e fotografia 796. Augusto Ponzio, Quadrilogia. La differenza non indifferente; Elogio dell’infunzionale; Fuori luogo; In altre parole 797. Marco Christian Santonocito, Il tempo tra Oriente e Occidente 798. Paolo Musso, Silvia Milone, Loredana Parolisi, Covid, la lezione del pacifico. Come i paesi avanzati di Asia e Oceania hanno contenuto il virus e perché noi non li abbiamo imitati 799. Cintia Faraco, L’agire politico tra poesia e potere. Solone 800. Enrico Cipriani, Il fantastico mondo del linguaggio 801. Giacomo Cozzi, Daedala tellus. La Natura nel Quattrocento

802. Paolo Del Debbio, L’oikonomia aristotelica nell’insegnamento universitario tra Due e Trecento 803. Marco Favaro, La maschera dell’antieroe. Mitologia e filosofia del supereroe dalla Dark Age a oggi 804. Rossella Bonito Oliva, Etica in figure, a cura di V. Carofalo e D. Salottolo 805. Alberto Postigliola, Filosofia e politica nel secolo dei Lumi. Studi su Montesquieu e Rousseau, a cura di Mariassunta Picardi 806. Luciano Arcella, L’uomo: un accidente culturale 807. Lucrezia Fava, Heidegger e la gnosi 808. Giacomo Pezzano, 4 minuti. Filosofia per i tempi che corrono 809. Lorenzo Manera, Elementi per un’estetica del digitale. Media interattivi e nuove forme di educazione estetica 810. Sergio A. Dagradi, Nel vuoto. Tra filosofia e senso dell’esistenza umana 811. Claudio Crivellari, Educazione e formazione. Spunti di riflessione tra filosofia e pedagogia 812. Marco de Paoli, Campanella. La città del sole. La percezione magica del mondo e l’utopia 813. Georges Noël, La Logica di Hegel, a cura di Mauro Cascio 814. Piergiorgio Della Pelle, Croce e Pareto. Sulla scienza sociale (1891-1897) 815. Giacomo Marramao, Pasolini inattuale. Corpo, potere, tempo 816. Antonio De Simone, Il destino del presente. Storia, tempo e vita. Simmel e noi 817. Lorena Grigoletto, Lógoi. Sul sentiero “Orfico-pitagorico” di María Zambrano 818. Marco di Feo, Fondamenti di olologia. Ontologia del mondo della vita nella prospettiva dell’intero 819. Antonio Lizzadri, Dal realismo scientifico al realismo interno. Putnam verso il pragmatismo 820. Michel Henry, Filosofia e fenomenologia del corpo. Saggio sull’ontologia biraniana, traduzione, postafazione e cura di Gaetano Iaia 821. Claudia Caneva, I diversi modi di dire persona, Africa, Cina, Europa e India in dialogo 822. Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Sistema dell’intera filosofia e della filosofia della natura in particolare, a cura di Andrea Dezi 823. Mikel Dufrenne, Per una filosofia non teologica, a cura di Roberto Revello

Finito di stampare nel mese di dicembre 2022 da Puntoweb S.r.l. – Ariccia (RM)