Verso il primo piano. Attrazioni e racconto nel cinema americano (1908-1909). Il caso Griffith-Biograph 8849111703, 9788849111705

Un'analisi delle origini del linguaggio cinematografico classico nel cinema americano dei primi anni del secolo. Lo

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Verso il primo piano. Attrazioni e racconto nel cinema americano (1908-1909). Il caso Griffith-Biograph
 8849111703, 9788849111705

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Prefazione

Questa pubblicazione riprende sostanzialmente il testo della tesi di dottorato da me discussa nel novembre 1995. Come viene sottolinea­ to nella premessa c nel primo capitolo, quando questo studio è stato avviato c sviluppato, a pane alcuni contributi che vi vengono non solo citati, ma anche discussi e in alcuni casi analizzati in modo ravvicina­ to (è il caso del lavoro di Gunning), il cinema del primo Griffith non era ancora stato sottoposto a verifiche sistematiche in relazione ai nuo­ vi modelli storiografici c teorici che hanno profondamente segnato le ricerche sul cinema muto nell’ultimo decennio. Nell’ottobre del 1997, poi, Le Giornate del Cinema Muto di Pordenone hanno finalmente avviato un programma pluriennale di retrospettiva Griffith, iniziando con la produzione Biograph 1907-1908. Certamente, questa occasio­ ne inciderà sullo stato degli studi griffithiani; e la possibilità di vedere, visionare, analizzare capillarmente e progressivamente l’intera produ­ zione griffìthiana riaprirà il dibattito e rilanccrà la ricerca. In relazione a questa previsione, il mio primo impulso era stato quello di sospen­ dere in qualche modo il “giudizio”, e attendere la fine di questo per­ corso festivaliero per riprendere il mio lavoro e pubblicarlo, alla luce di nuovi risultati. Tuttavia, dopo la prima tappa dell’iniziativa delle Giornate di Pordenone, ho ritenuto che, con tutta la modestia del caso, fosse invece più opportuno offrire un minimo contributo, par­ ziale c limitato alle questioni che ho trattato (quella del primo piano griffìthiano nel biennio 1908-1909), ai lavori in corso, partecipando a una ricerca che deve necessariamente essere plurale c graduale, a fron­ te di una produzione tanto complessa e ampia. In questo senso, il vo­ lume riprende la trattazione presentata in sede di dottorato di ricerca. I contributi bibliografici usciti in occasione della prima tappa Griffith di Pordenone (diversi interventi su Griffith e in particolare su A Cor­ ner in Wheat, sui numeri 59 e 60/61 di «Griffìthiana», rispettivamen­ te di maggio e ottobre 1997, insieme al primo fascicolo 1907-1908

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della filmografìa curata da Paolo Chcrchi Usai, The Griffith Project^ Pordenone 1997) sono certamente di grande interesse, ma non ri­ guardano segnatamente i problemi affrontati nel mio lavoro c sono co­ munque stati approntati prima dell’inizio della grande kermesse grif­ fìthiana. Un’eventuale ripresa di questo studio, c sviluppi probabil­ mente differenti, sono quindi rimandati ad una tappa ulteriore di que­ sto ritorno di interesse per Griffith c questa lodevole c gigantesca ini­ ziativa di Pordenone. Inoltre, vorrei anche precisare che questo studio, più che come una monografìa griffìthiana, si configura come un’indagine sulla transizio­ ne tra “primitivo” c “classico”, tra “sistema delle attrazioni” c “sistema dell’integrazione narrativa” nel cinema americano della fine della pri­ ma decade del secolo. Punto di partenza c terreno di verifica è poi, si, il caso esemplare c paradossale del primo biennio di attività di Griffith alla Biograph. Esemplare, per la crucialità c rappresentatività della pro­ duzione griffìthiana in riferimento ai problemi affrontati c a quella tra­ sformazione complessiva dell’istituzione cinema che inaugura la sta­ gione storicamente definita classica; paradossale, per un’ambiguità in­ tima di questo sistema di rappresentazione e scrittura che non riguar­ da unicamente la contraddittorietà di un momento di passaggio e transizione, ma la qualità di un linguaggio che è riduttivo “leggere” in senso esclusivamente narrativo e protoclassico. Partendo dalle questio­ ni poste dall’uso ancora raro del primo piano nel periodo meno stu­ diato della produzione di Griffith alla Biograph, e analizzando per contro l’importanza di determinati “effetti primo piano” (come uscite e entrate dei personaggi, da e nel campo visivo, accanto od oltre la macchina da presa), il lavoro riscontra non solo la sopravvivenza di un regime attivo di attrazioni, non meramente residuale, ma anche un aspetto “mostrativo” che permette di verificare proprio nel cuore tra­ dizionale della narratività cinematografica una apertura significativa. Quella che tutto un filone di studi teorici sul primo piano ha consi­ derato come l’irriducibilità del linguaggio cinematografico ad una di­ mensione esclusivamente narrativa, da Epstein a Deleuze, cioè la vo­ cazione ad una espressività intensiva, non sintattica o grammaticale. Se tale ipotesi teorica emerge in forma di conclusioni del percorso affrontato, questo è condotto attraverso una sistemazione storica della questione, ricostruendo gli aspetti sociali, economico-produttivi e ideologici della trasformazione del cinema nel biennio indicato, in ri­

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ferimento all’esempio grifFlthiano (la nuova domanda di film narrati­ vi, la strategia di moralizzazione del cinema e l’allargamento del pub­ blico, le modificazioni nell’industria, il ruolo della censura, la nascita della stampa di settore, la risposta linguistica a queste incidenze ecc.). Facendo riferimento ai più recenti contributi storiografici e teoricometodologici sul cinema delle origini, e basandosi sull’csamc diretto di fonti d’epoca (riviste, manuali, cataloghi e bollettini di produzione), il mio lavoro condivide l’impostazione data a questo ambito di proble­ mi da studiosi come Burch, Gunning, Gaudrcault, Bordwcll, Staiger, Thompson, mettendo tuttavia in discussione la prospettiva “totalita­ ria” in cui vi vengono inquadrate le differenze tra “primitivo” e “clas­ sico”, e cui sembrano sfuggire i primi piani griffithiani in questione. La tesi è corredata da un’appendice filmografica, con schedatura di circa un centinaio tra i film realizzati da Griffith alla Biograph, e si è avvalsa della possibilità di visionare su pellicola complessivamente quasi duecento film.

Un sentito ringraziamento va ad Antonio Costa, che mi ha inco­ raggiato e stimolato nel corso di tutto il mio periodo di dottorato pres­ so l’Università di Bologna. Ringrazio anche Gian Piero Brunetta e Francesco Casetti, con cui ho potuto utilmente discutere il mio lavo­ ro. Oltre a tutti coloro che mi hanno aiutato nelle ricerche bibliogra­ fiche in Italia, Francia e Stati Uniti (in particolare Alba Rosso e Mi­ chael Dwass a New York), sono molto riconoscente ad Alba Gandolfo e Massimo Patrone, che mi hanno messo a disposizione la collezione griffithiana della Cineteca Griffith, permettendomi di consultarla ri­ petutamente e senza limiti di tempo e orari, e a Livio Jacob, che mi ha concesso di consultare alcune annate del «Moving Picture World» su

microfilm.

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Premessa

Innanzitutto il titolo, che può non apparire chiaro. «Verso il primo piano» gioca su un doppio senso. Il primo senso possibile è quello più ovvio c istintivo, teleologico c evoluzionistico, di un cinema - quello cui fa riferimento la seconda parte del titolo — che procede verso l’ac­ quisizione di nuovi c più specifici clementi di linguaggio, come il pri­ mo piano. Il secondo senso va colto ad un altro livello, c riguarda in­ vece una caratteristica concreta del linguaggio che quel cinema ha già acquisito: un “effetto primo piano” il quale consiste in una dinamica interna all’immagine che, nella profondità, giunge a conquistare il pri­ mo piano (il movimento dei personaggi — o di altri elementi mobili — che escono di campo appunto verso il primo piano). I due sensi ap­ paiono in contraddizione o, perlomeno, il primo sarebbe destinato a riassorbire il secondo. Che, in effetti, si riferirebbe ad una sorta di sur­ rogato del primo piano c di sopravvivenza di abitudini primitive (come le uscite di campo di uno dei generi più in voga nel periodo pre­ classico, e cioè l’inseguimento), in preparazione e attesa del “vero” pri­ mo piano che si definirà soprattutto in termini di montaggio e di li­ nearizzazione. Questa contraddizione, in effetti, è voluta: l’intenzione è proprio quella di superare l’ottica teleologica che vede il cinema evolvere dalle forme primitive a quelle classiche. Il che, oggi, è ovvio. Tuttavia è for­ se meno ovvio ritenere che il superamento di questa ottica non debba necessariamente passare attraverso una distinzione totalitaria tra il modo di rappresentazione primitivo, definito anche, come è noto, si­ stema delle attrazioni c mostrazioni, c il modo di rappresentazione classico o istituzionale, definito pure dell’integrazione narrativa (e ve­ niamo alla seconda parte del titolo). Tale distinzione, praticata con ri­ gore e ricchezza di approfondimento da tutto un ambito di studi di cui questo lavoro tiene ampiamente conto, ha il merito di riconoscere di­ gnità di sistema e modo di rappresentazione anche a ciò che viene pri­

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ma del cosiddetto linguaggio cinematografico (classico), oltre che quello di mettere a fuoco aspetti, questioni, problemi che riguardano il cinema come istituzione complessiva e plurale (industria, spettaco­ lo, ricezione ccc.), e non solo come fatto appunto di linguaggio in sen­ so stretto. Tuttavia, il carattere totalitario di cui sopra, ovvero l’ecces­ siva definizione e teorizzazione di questa distinzione, sembra compor­ tare due conseguenze principali: da un lato un gusto (molto intellet­ tuale) dei primitivi, dall’altro, del tutto coerentemente, una “classicizzazione del classico”, per cui, da un certo momento in poi, il linguag­ gio cinematografico coinciderebbe con il linguaggio del cinema (ame­ ricano) classico (ad eccezione, naturalmente, delle pratiche consapevo­ li di rottura, come le nouvellts vagues o le varie avanguardie). Ma se il “gusto dei primitivi” è per certi versi innocuo e confinato ad ambien­ ti delimitati e luoghi deputati (invero un po’ settari: i festival del cine­ ma muto, le cineteche ecc.), l’idea che da Griffith in poi (per dirla in breve) il cinema narrativo classico sia leggibile in termini di sistema in cui tutto è reciprocamente funzionale e in cui i mezzi di rappresenta­ zione si mobilitano ad esclusivo uso della narrazione, è un’idea ampia­ mente diffusa, implicitamente o esplicitamente accettata e, quindi, meno innocua. Non si tratta certamente di prendere le distanze dal ci­ nema classico, che per chi scrive non presenta nulla di disdicevole né ideologicamente né culturalmente, anzi; quanto piuttosto di ricono­ scere che una tale idea di questo cinema ha comportato anche un con­ dizionamento teorico, e in particolare l’egemonia di modelli di analisi e descrizione di impostazione narratologica (in un’ampia accezione del termine), con una sostanziale rimozione di tutto un lato “mostrativo”, visivo e non-classico che sopravvive anche quando il principale scopo del cinema è diventato quello di raccontare storie. Perché allora, se il problema è questo, affrontare una questione così specifica come il primo piano? Proprio perché il primo piano appare un po’ come il luogo geometrico, il terreno di verifica esemplare, di di­ versi possibili approcci al linguaggio del cinema: primo piano come mezzo squisitamente e specificamente narrativo (si pensi all’idea di Mitry secondo cui anche attraverso il primo piano, divenuto segno e simbolo, registi come Griffith e Ince liberano il cinema dalla teatralità per imboccare la strada maestra della narratività); primo piano come emergenza drammatica, lirica, mentale “in presa diretta”, al di fuori della servitù narrativa, in tutta una riflessione teorica che può acco­ munare autori come Epstein (ma anche Baldzs) e Deleuze, e che sem-

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bra contrapporre alla centralità della narrazione una centralità della vi­ sione e della mostrazione. Se poi si parla di primo piano a proposito di Griffith, la scommes­ sa diventa più avvincente, perché si affronta non solo chi, leggenda­ riamente, tradizionalmente, almeno fino agli anni Sessanta, è stato considerato l’“invcntorc ufficiale” del primo piano classico (con l’ov­ via “smentita” e rclativizzazionc degli ultimi vent’anni), ma soprattut­ to si affronta un cinema che si è identificato, secondo un mito duro a morire, come il cuore della narratività cinematografica. Non è intenzione o ambizione di questo lavoro stabilire chi abbia “inventato” il primo piano, né dimostrare che cosa rappresenti Griffith per il cinema e, infine, decidere “che cosa sia il cinema” stesso. L’in­ tenzione è piuttosto quella di ripercorrere i problemi affrontati nel­ l’ultimo ventennio a proposito delle origini del linguaggio cinemato­ grafico e della storia dei modi di rappresentazione (primitivi, classici ccc.), a partire da questioni e situazioni esemplari. In questo senso è sembrato tale il problema (o meglio il paradosso, come si dirà nel cor­ so del lavoro) del primo piano nel primo Griffith; vale a dire il primo piano in riferimento ad una produzione unica e, appunto, esemplare al tempo stesso. Una produzione riconoscibile, con caraneri di siste­ maticità e coerenza, fondati a vari livelli (per esempio di organizzazio­ ne e ritmo di lavoro, per non cedere subito al peccato dell’autorialità), e realizzata in un momento storicamente importante per il cinema americano, quale è il biennio 1908-1909. Un periodo che può sem­ brare breve e che tunavia vede sorgere organismi e istituzioni come la Motion Picture Patent Company da un lato e il National Board of Censorship dall’altro, nel tentativo di rispondere, appunto a livello istituzionale, all’aumento inusitato della domanda di film seguito al boom dei nickelodeon, e alla parallela richiesta di una legittimazione del nuovo medium di comunicazione di massa. Una serie di contin­ genze e convergenze reciproche che motivano o perlomeno inquadra­ no (’emergere di un nuovo discorso del cinema, di cui forse è possibi­ le cogliere anche aspetti diversi da quelli tradizionalmente definiti in termini di sintassi e racconto. Non perché, ripeto, non si riconosca a questo discorso la volontà di raccontare e narrare come scopo princi­ pale, ma perché è forse possibile pensare che la peculiare forma narra­ tiva del cinema può raccontare anche mostrando, in senso proprio e non strumentale, e al di fuori della logica dei raccordi e del sistema della continuità, la cui importanza è indubbia, ma limitata.

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Può sembrare ambizioso o presuntuoso porsi in questa ottica di discussione. In effètti, se il punto di partenza è tale, Pimento è tutta­ via molto più modesto. E riguarda il tentativo di abbozzare questa di­ scussione, in riferimento a un elemento di linguaggio colto in un mo­ mento in cui la sua definizione classica non è ancora del tutto possibi­ le, offrendo quindi aperture che non necessariamente si riferiscono solo ai residui dell’eredità primitiva e alle contraddizioni di un mo­ mento di transizione. In questo senso, scoprire che i primi piani rea­ lizzati da Griffith all’inizio della sua attività, prima di quelli “istituzio­ nali” o “classici” che lo celebreranno tradizionalmente come ^inven­ tore del primo piano” non solo soltanto embrioni da cogliere retro­ spettivamente o, all’opposto, sopravvivenze primitive, può fornire qualche spunto di riflessione.

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Capitolo I

La nozione di linguaggio cinematografico e il problema delle origini

// cinema è già un motore del progresso umano troppo grande e potente per essere soggetto a lungo o in misura rilevante a regolatori, nemici o soste­ nitori. Continuerà ad avanzare con le sue forze. [...] È un nuovo linguaggio universale. Frank E. Woods Comments, «New York Dramatic Mirror», 1° maggio 1909

L’idea che il “linguaggio” cinematografico abbia non solo un’origine, ma anche che a questa origine segua un percorso o un processo di svi­ luppo, evoluzione o progressiva sistemazione fino ad un’epoca di ma­ turità o classicità (con l’individuazione di pratiche di rottura post-classichc o di una zona alternativa, a margine, identificabile genericamen­ te con la pratica avanguardistica), ha costituito a lungo un presuppo­ sto esplicito o implicito della tradizione storiografica e teorica main­ stream almeno fino agli anni Settanta1. È noto, del resto, come questo luogo comune sia stato ampiamen­ te posto in discussione parallelamente a una nuova considerazione, sia storica che teorica, del cosiddetto cinema delle origini fino all’inizio del secondo decennio del nostro secolo, vale a dire fino a quel mo­ mento di cesura («transizione», «trasformazione», «modificazione», a seconda delle prospettive teoriche c metodologiche adottate) a partire dal quale si tende a parlare di formazione di un linguaggio “classico” o “istituzionale”, le cui coordinate vengono contestualmente sottoposte a nuovo esame e descritte in quanto sistema o modo di rappresenta­ zione, in opposizione alle pratiche che definiscono il cinema prece­ dente2. La svolta storiografica e teorica sembra trovare (almeno simbolica­

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mente) un punto di avvio cronologico in particolare dal Convegno della F.I.A.F. tenutosi a Brighton nel 1978, dedicato all’analisi della produzione cinematografica internazionale tra il 1900 e il 1906, dis­ ponibile negli archivi internazionali del film3. Una svolta legata in­ nanzitutto ai problemi filologici e storici posti dalla consapevolezza della frammentarietà e quindi della parzialità della produzione conser­ vata rispetto a quella originale (del periodo considerato sono archivia­ ti 1500 film circa, tra cui soltanto 690 sono i film di finzione dispo­ nibili negli Stati Uniti)4. Tale consapevolezza ha evidentemente con­ tribuito da un lato a sensibilizzare sia la comunità scientifica che le isti­ tuzioni preposte alla conservazione dei beni culturali su questioni di archiviazione, filologia e restauro non universalmente acquisite; dal­ l’altro a frenare il mai del tutto sopito desiderio di ricercare la "prima volta” (la prima carrellata, il primo primo piano, la prima soggettiva ecc.) e ad affermare l’esigenza di una relativizzazione dei metodi, degli obicttivi e, infine, dei risultati della ricerca, insieme alla conseguente necessità di allargare il campo dallo studio del frammento-film agli al­ tri frammenti del contesto in cui il film si fa c si dà (in breve, produ­ zione, ricezione, intertestualità ecc.), come si vedrà nelle pagine che se­ guono. Ma l’appuntamento di Brighton ha soprattutto evidenziato l’ina­ deguatezza di approcci e metodi elaborati in funzione del modello classico per descrivere, c prima ancora comprendere, i film in esame, e la necessità di resistere ad un istintivo darwinismo alla ricerca del li­ vello neanderthaliano del film "primitivo”, a partire da un’evoluzione già tracciata c quindi retrospettivamente vincolante. Un darwinismo che l’affaire porteriano legato alle due versioni di The Life of an Ame­ rican Fireman ha messo fortemente ed esemplarmente in crisi, con la proposta della ricostruzione del montaggio originale del film sulla base del paper print conservato alla Library of Congress di Washington, con sovrapposizione temporale delle inquadrature, in luogo dell’archeolo­ gico montaggio alternato suggerito dalla copia del Museum of Mo­ dero Art di New York, individuando più in generale la sovrapposizio­ ne temporale come un tratto caratteristico della tecnica narrativa di Porter, e quindi con la conseguente “scoperta” di una diversità, una vera e propria "alterità” di parametri, piuttosto che di un abbozzo o embrione, rispetto all’idea classica di linearità e continuità5. Tra gli studiosi che più hanno sostenuto e rilanciato la svolta sto­ riografica post-Brighton, è stato Tom Gunning a sintetizzare in un rc-

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ccntc intervento in che cosa questa svolta è consistita e quali direzioni di ricerca ha inaugurato o stimolato, proprio a partire dalla questione porteriana: Ciò che Life ofan American Fireman ci dimostrò, dunque, era che non solo esistevano alternative ai modi classici di continuità lineare, ma che tali modi potevano essere compresi in se stessi, come risposte a una concezione dei film diversa da quelle cui eravamo abituati. Ma se ... le inquadrature conclusive del film di Porter fornirono un punto di partenza, fu l’opportunità di vedere un gran numero di film delle origini che confermò a molti di noi l’impressione di trovarci di fronte alla scoperta di un campo nuovo e fecondo. (...) Il convegno ... di Brighton ... confermò le no­ stre intuizioni. [...] Moltissimi esempi di sovrapposizione temporale erano in opera nelle centinaia di film visionati per quell’occasione, dimostrandoci che si trattava di qualcosa di più di uno stile individuale, che il cinema delle origi­ ni affontava le relazioni temporali e spaziali in modo diverso rispetto al modello classico. Rimasi altrettanto colpito dall’enorme numero di film a inquadratu­ ra singola, la cui ragione d'essere sembrava non tanto quella di raccontare una storia quanto semplicemente di mostrare cose (paesaggi, azioni acrobatiche, mo­ menti di esibizione erotica), senza che ciò si potesse spiegare con una sempli­ ce passione documentaria. Il cinema delle origini, mi pareva, aveva spesso fi­ nalità diverse da quelle narrative e la tendenza ad attrazioni discrete e iperboli­ che appariva come un motivo ricorrente nei film visionati. Cioè, queste situazioni inaspettate nei film delle origini non potevano più es­ sere considerate esclusivamente come esempi isolati di una sona di primitiva spensieratezza (o anche di una tecnica deliziosamente anarchica), ma piutto­ sto come testimonianze di una diversa concezione del cinema. Questi film do­ vrebbero semplicemente essere compresi in modo diverso, e l’incontro con mo­ menti non familiari come questi compona che gli storici siano costretti a pen­ sare a che cosa significa comprendere qualsiasi film. Se l’eccitazione nei con­ fronti di un nuovo enigma spinse molti di noi a studiare il cinema delle ori­ gini, ci rendemmo conto molto presto che non ci si poteva fermare al gusto dell’insolito. In ultima analisi questi film chiedevano di essere compresi, ma in un modo che fidava la nostra concezione della forma della storia del cinema, del­ la struttura del racconto, dei modi di rivolgersi al pubblico, nonché del rapporto tra i film e l’industria che li produceva e li vendeva, degli uomini di spettacolo che li proiettavano, e degli spettatori che li recepivano 6.

La lunga citazione offre un preciso inquadramento c un’agile in­ troduzione alle questioni, ai presupposti c agli obicttivi messi in cam­ po in quasi un ventennio di ricerca sul cinema delle origini. I punti nodali indicati da Gunning sono in effetti quelli su cui tutta una gc-

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ncrazionc di storici del cinema (c in primis Gunning stesso) ha fonda­ to il tentativo di mettere in discussione la solida impalcatura di una storia del cinema intesa come sviluppo di un linguaggio coerente c perfettibile, nella direzione naturale della narratività, considerata a partire da un modello forte c già acquisito come il modello, quello hollywoodiano classico. Vediamo dunque quali sono gli clementi evi­

denziati da Gunning. Innanzitutto, lo studio del cinema delle origini ha condotto alla “scoperta” che esistono «alternative ai modi classici di continuità li­ neare», il che presuppone non solo un aggiustamento storico, la corre­ zione di un cvcnualc errore quantitativo, ma una «concezione diversa dei film», vale a dire una differenza qualitativa essenziale. E questa dif­ ferenza è quindi «qualcosa di più di uno stile individuale», non si trat­ ta cioè dell’eccezione che conferma la regola (quella classica); anzi è questa stessa regola a venire scossa nella sua dimensione linguistica più intima: «il cinema delle origini affrontava le relazioni temporali c spa­ ziali in modo diverso rispetto al modello classico». Ciò parallelamente ad un’altra (del tutto coerente c consequenziale) radicale alterità: la sua «ragione d’essere sembrava non tanto quclla di raccontare una storia quanto semplicemente di mostrare cose». Su questo piano si pone la definitiva rottura con il modello classico: la vocazione narrativa non è più quella determinante. E le «finalità diverse da quelle narrative» di questo cinema vengono quindi definite come «tendenza ad attrazioni discrete e iperboliche». Dunque si giunge a riconoscere (e teorizzare) un diverso modo di essere cinema, con un’Montologia” e uno scopo dif­ ferenti rispetto al cinema (e all’idea di cinema) comune, fruito, inte­ riorizzato e compreso a partire dal cinema hollywoodiano classico, come modello dominante il sistema cinematografico narrativo occi­ dentale (a significativa eccezione delle avanguardie e delle pratiche con­ sapevoli di rottura, come le nouvelles vagues ccc.). Questa rottura appare quindi come la rottura — lo si è detto — nei confronti di un’idea di cinema, ma anche di un intero apparato con­ cettuale c teorico: una rottura nella storia del cinema, nel modo di fare storia del cinema e di pensare il cinema: «gli storici sono costretti a pensare a che cosa significa comprendere qualsiasi film». Ed ecco che, infine, «questi film chiedevano di essere compresi, ma in un modo che sfidava la nostra concezione della forma della storia del cinema, della struttura del racconto, dei modi di rivolgersi al pubblico, nonché del rapporto tra i film e l’industria che li produceva e li vendeva, degli uo­

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mini di spettacolo che li proiettavano, e degli spettatori che li recepi­ vano». Il che significa innanzitutto contrapporre alla storiografìa clas­ sica (tendenzialmente lineare c narrativa come il cinema che descrive), una forma di storia sociale in accezione ampia che concerna tre livelli: 1) chi fa i film e perché (registi, operatori, industria, ccc.); 2) chi guar­ da i film, come c perché (lo spettatore c il pubblico); 3) come veniva­ no visti e perché (le condizioni di ricezione)7. Ma significa anche in­ dicare l’esigenza di una revisione teorica globale, a partire innanzitut­ to dall’idea di «struttura del racconto» delle discipline di analisi lin­ guistica e testuale (modellate a partire dall’idea di cinema dominante), che hanno messo fuori campo proprio le forze sociali economiche c produttive che definiscono il cinema, assolutizzando la chiusura te­ stuale del film c implicitando uno spettatore che è altra cosa dal pub­

blico. È chiaro allora che il proliferare di studi sul cinema delle origini, da Brighton in poi, appare realmente come una “sfida” alla storia del ci­ nema, nei termini indicati da Gunning c sostenuti per esempio anche da André Gaudreault, che postulano preliminarmente la necessità del legame storia/teoria, con un sovvertimento complementare delle due tendenze implicite ai due orizzonti: l’esigenza di una storia più sincro­ nica e di una teoria più diacronica, cioè storicizzata, in una relazione dinamica tra testi e contesti nella direzione sopra indicata8. Se tale istanza non si esplicita chiaramente in tutti i contributi che marcano questa svolta (in una parola, metodologica), una significativa riduzione della tensione storia/teoria c la reciprocità di questi termini definisce ampiamente il panorama post-Brighton, nelle due principa­ li direzioni di ricerca: da un lato l’analisi del linguaggio e dei testi, del­ la narratività, dall’altro la storia del cinema, come storia delle pratiche del cinema (industria, il film come prodotto ecc.); direzioni di ricerca il più delle volte intrecciate tra loro o poste come complementari9. In questo modo, sul versante più strettamente c capillarmente legato al­ l’analisi tecnica del linguaggio, è indicativo che, come è per esempio il caso di Barry Salt, venga proposta un’idea di “forma” cinematografica che presuppone un’attenzione “pragmatica” ai parametri linguistici in uso in momenti, tendenze, generi ben determinati del cinema delle origini. E, al di là del gusto per una sorta di rilevazione quantitativa e statistica (in parte discutibile) delle figure di linguaggio prese in esa­ me, è apprezzabile il tentativo di considerare le fluttuazioni, appunto storiche, nelle funzioni e nel significato delle forme10. Parallelamente,

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alcuni tra i più rilevanti contributi del versante storiografico esplicita­ no fin dal titolo la distanza rispetto all’iinpostazione acquisita e il ten­ tativo di modificare qualitativamente l'approccio alla storia del cinema delle origini: è il caso dei volumi di Charles Musser e Eileen Bowser, che affrontano, rispettivamente, il cinema americano fino al 1907, e tra il 1908 e il 1915’ *. Al di là di alcune differenze metodologiche e di una diversa economia interna, dovuta proprio anche alla diversità dei periodi trattati12, colpiscono la coerenza e la complementarietà, non­ ché l’intento sottinteso, della definizione data appunto ai due periodi in questione: The Emergence of Cinema (piuttosto che la “nascita” o l’“ invenzione”), e The Transformation of Cinema (piuttosto che devo­ luzione”); vale a dire, nessuna idea di sviluppo biologico o teleologico. E inoltre, i termini scelti presuppongono un approccio plurale a un ci­ nema plurale, soggetto e oggetto di agenti e determinazioni multiple (il sottotitolo nel caso di Musser è significativamente: The American Screen to ..., coerentemente con l’istanza di considerare il cinema al­ l’interno di tutte quelle «tradizioni in cui degli uomini di spettacolo proiettano immagini su uno schermo»1*; così come il percorso della Bowser colloca la «trasformazione» del cinema sul versante esterno del­ le strutture e della situazione dell’industria, e su quello interno della forma filmica). Ora, al di là delle dichiarazioni di intenti espresse già nell’adozione di una specifica terminologia, e anzi prendendo spunto da ciò per pro­ seguire, si noti come la questione delle origini del linguaggio (altro ter­ mine che parallelamente viene via via messo in discussione) abbia a che fare innanzitutto con una necessità di pcriodizzazione. La «tra­ sformazione» del cinema (e quindi la costituzione di una differenza ri­ spetto a modi precedenti) si colloca a partire dal 1907 e si caratterizza effettivamente attraverso una spinta alla narratività, inquadrata come risposta ad una serie di pressioni contestuali (in breve, in relazione al­ l’esigenza da parte dell’industria di un ampliamento sociale del pub­ blico), e certamente non come processo di maturazione verso il “vero” cinema. Una «trasformazione» che è quindi altra cosa rispetto alle epo­ che proposte per la storia del cinema americano per esempio da Lewis Jacobs («fondamenta», «sviluppo», «transizione», «intensificazione», «maturità» ecc.)14. La pcriodizzazione proposta dalla Bowser si basa su una cesura cro­ nologica (estesa dal 1907 al 1908-1909) su cui si appoggiano tutti i tentativi post-brightoniani di definizione della “differenza” tra il cinc-

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ma delle origini e quello classico, sia nella prospettiva sociologizzante di Noel Burch, che in quella incentrata sulle pratiche di produzione come momento forte della formazione del “paradigma classico”, soste­ nuta dal gruppo David Bordwcll, Janet Staiger, Kristin Thompson, ol­ tre che nei lavori dei già citati Gunning e Gaudrcault. Per affrontare questa pcriodizzazione e iniziare a considerare i ter­ mini su cui si costruisce la distinzione tra il cinema delle origini e quel­ lo successivo, vale la pena di soffermarsi sulla ricerca di Burch1*, con­ dotta fra l’altro su un contesto allargato alle diverse cinematografie na­ zionali nel tentativo di mettere a fuoco le forze molteplici e diversifi­ cate (sociali e culturali, soprattutto) che spiegano il passaggio dal ci­ nema primitivo a quello classico. La riflessione di Burch ha preso il via da scelte metodologiche e da obicttivi dichiaratamente parziali che, pur recentemente “criticati” dal­ lo stesso autore16, hanno sostanziato a fondo la sua prospettiva teorica. Ritornando al noto dibattito sui rapporti tra tecnica e ideologia che ha segnato la riflessione teorica sul cinema tra gli anni Sessanta e Settan­ ta17, Burch postula innanzitutto la non-neutralità del linguaggio cine­ matografico, nella convinzione che il modo di rappresentazione cui è le­ gato produca senso in rapporto con «il luogo e il tempo nei quali il modo di rappresentazione si è sviluppato: [’Occidente capitalista e im­ perialista del primo quarto del ventesimo secolo»18. E lo stesso interes­ se per il cinema delle origini si chiarisce in questi termini: Si trattava di mostrare che il “linguaggio cinematografico” non è affano un linguaggio naturale, a maggior ragione che non è eterno, che ha una storia e che è un prodono della Storia. Occorreva quindi tornare indietro, ad un pe­ riodo nel quale questo “linguaggio” non esisteva ancora veramente, nel quale soprattuno non esisteva ancora quell’istituzione cinematografica a cui noi tutti, spenatori e registi, appaneniamo 19.

Coerentemente con questo obicnivo, quindi, Burch ha definito il linguaggio del cinema di cui si è occupato come «modo di rappresen­ tazione», appunto, prendendo in considerazione, oltre ai sistemi sim­ bolici e semiotici che lo caratterizzano (e le loro ascendenze culturali), le condizioni di base che lo rendono possibile. La tesi sostenuta è che tra il 1895 e il 1929 avvenga la costituzione di quel Modo di Rappre­ sentazione Istituzionale su cui si fonda il cinema classico e in generale l’Istituzione-cinema come noi la conosciamo oggi, parallelamente alla progressiva scomparsa dei tratti e delle forme di un Modo di Rappre-

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sensazione Primitivo egemone fino ai primi anni del *900. Prendendo le distanze dalle implicazioni più rigide del dibattito tccnica/idcologia cui pure si richiama, e rifiutandone il «determinismo tecnologico», Burch combatte una visione meramente teleologica del progressivo formarsi di un linguaggio istituzionale, ne concepisce il modo di rap­ presentazione istituzionale come un «cattivo oggetto», cui contrappor­ re il paradiso perduto del modo di rappresentazione primitivo, scon­ fitto dalla narratività di cui Porter e Griffith sarebbero stati i portato­ ri. Anzi, proprio l’approfondimento delle condizioni sociali e econo­ miche che stanno alia base di questo processo, e che nei vari paesi e nelle diverse cinematografìe nazionali comportano specificità e diffe­ renze peculiari, ne permette un inquadramento complesso, al di fuori di ogni rigido determinismo (anche se un certo «gusto del primitivo» e una concezione “avanguardistica” del cinema delle origini, come pra­ tica alternativa, antinarrativa e antinaturalistica, permea tutto il lavo­ ro di Burch)20. Più precisamente, secondo Burch, dunque, ai tratti e alle forme che caratterizzano il modo di rappresentazione primitivo (come la frontalità, (’“autarchia” dei singoli quadri, la prevalente im­ mobilità e orizzontalità della macchina da presa, l’“csteriorità” del rac­ conto, con la presenza di un testo supplementare sostenuto dalla di­ dascalia e dal commentatore ecc.), si contrappone, in modo evidente a partire dal 1908-1910, un altro modo di rappresentazione fondato invece sulla “linearizzazione” (vale a dire, sul concatenamento narrati­ vo dei quadri, con il sistema dei raccordi di montaggio, con la mobi­ lità della macchina da presa, con la variazione nell’angolazione e l’al­ ternanza dei piani ravvicinati con quelli di insieme ecc), che ha come effetto e risultato necessario quello dell’“assorbimento diegetico” dello spettatore, cioè del suo trasporto all’interno dello spazio diegetico vi­ sivo - e poi sonoro. Ora, le condizioni di questo “viaggio immobile”, che sempre meglio definirà l’esperienza della rappresentazione istitu­ zionale (perfezionandosi negli anni Trenta, con la conquista del sono­ ro) corrispondono, in questa prospettiva, a quella ricerca di illusione di realtà, a quella «sindrome di Frankenstein» che è, secondo Burch, il vero fantasma della cultura borghese da più di un secolo, vale a dire la necessità di un trionfo sulla morte anche attraverso l’illusoria riprodu­ zione della vita; una sindrome che l’apparizione della fotografìa ha contribuito a incrementare, avviando un processo di dissoluzione e re­ visione dei precedenti sistemi di rappresentazione. A questo punto è l’esame delle specificità e delle differenze cronologiche nell’evoluzione

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dei modi di rappresentazione all’interno delle tre principali cinemato­ grafie (francese, inglese, americana) che rende conto della complessità del processo c del progressivo emergere della produzione nordameri­ cana, con cui la costituzione del modo di rappresentazione istituzio­ nale conoscerà un’accelerazione e uno sviluppo particolari. Sottoposta ad analisi è in particolare la situazione socio-economica dello spetta­ colo in Francia, Gran Bretagna c Stati Uniti, con un’attenzione mar­ cata all’incidenza del pubblico, individuato, nelle sue specifiche carat­ teristiche di classe c di cultura, come agente storico fondamentale. Un cenno ai diversi inquadramenti nazionali permette di comprendere a fondo la nozione di «modo di rappresentazione» proposta da Burch (e di anticipare c sfruttare riferimenti che riguardano le questioni affron­ tate nei prossimi capitoli). In effetti, è indicativo che, per esempio, il ritardo che la cinematografia francese accumulerà negli anni Dicci, c il declino che conoscerà a partire dal 1915, di fronte alla modernità, alla diffusione c al successo del cinema americano, vengano spiegati da Burch in relazione al perdurare di un atteggiamento populista tipico del cinema primitivo, rivolto a un pubblico che in gran parte coinci­ de con una classe operaia ancora influenzata dall’anarco-sindacalismo, c quindi tenuta in qualche modo a bada da una produzione apparen­ temente complice c ammiccante. Una produzione che, insieme ad al­ tre ragioni legate al contesto dell’esibizione (come il buio della sala, la paura degli incendi, il tremolio delle immagini considerato nocivo ecc.), non riesce a conquistare quel pubblico borghese cui si rivolge­ ranno poi i Films d’Art e che, in realtà, sarà l’ondata dei film america­ ni giunti negli anni Dieci a coinvolgere davvero. Per la Gran Bretagna, invece, Burch sottolinea come la borghesia organizzi, intorno allo spettacolo di lanterna magica prima c cinematografico poi, un vero c proprio dispositivo di controllo dei piaceri popolari, con un preciso programma di «distrazione razionale» del popolo, legato a campagne come quella contro l’alcolismo, di cui gli stessi soggetti sono un’eco. Inoltre, sottolinea come la volontà di creare spettacoli c divertimenti di massa per riassorbire i conflitti di classe si accompagni anche alla di­ retta partecipazione degli strati sociali superiori ai piaceri popolari; ciò, insieme alla massiccia partecipazione degli artigiani delle classi medie, spiegherebbe dunque la rapida deproletarizzazione della produzione cinematografica (almeno dal 1906 in poi). Così come, sul versante delle ascendenze culturali, a Burch preme ricordare come la formazio­ ne di molti dei cineasti inglesi nell’ambito degli spettacoli di lanterna

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magica, che in Gran Bretagna hanno conosciuto uno sviluppo straor­ dinario e un arricchimento linguistico notevole (con l’introduzione dei life models^ per esempio), motivi la vitalità tecnica e espressiva del­ la produzione inglese di inizio secolo, ricca di prefigurazioni di ciò che sarà il MRI (nei cambiamenti di dimensione dcH’immaginc, nell’uso di primi piani intercalati, nei cambiamenti di angolazione, in alcuni abbozzi di sintagmi di contiguità, ccc.). Ma sarà poi il carattere arti­ gianale di questa produzione a segnare dal 1906 circa il declino del ci­ nema inglese, parallelamente alla rapida evoluzione di quello statuni­ tense, riflesso di un capitalismo rampante, che sa trasformare (’artigia­

nato in industria. Negli Stati Uniti, infine, sul versante del pubblico il divario tra gli strati popolari anglofoni e i nuovi immigrati porta que­ sti ultimi a riempire i nickelodeon, piuttosto che le sale dei vaudevil­ le, almeno fino al 1907. E Burch, in accordo con un’impostazione per molti aspetti condivisa dalia maggioranza degli storici della generazio­ ne post-Brighton (che, come abbiamo visto, comprende la Bowser) in­ siste su come, presto, le strategie imprenditoriali rivolgano i loro sfor­ zi verso l’allargamento del pubblico (anche di quello femminile), nel­ la direzione di un vero e proprio pubblico di massa cui si offriranno soggetti “educativi” e “moralizzatori” (come saranno i melodrammi di Griffith), per i quali le novità di contenuto marceranno di pari passo con quelle di linguaggio (e, intorno e lungo gli anni Dieci, con quelle di formato, di lunghezza del film). Se pure accetta che sia Griffith a polarizzare questo processo, Burch approfondisce capillarmente la pro­ duzione statunitense e ricostruisce la svolta inaudita che il cinema co­ nosce in America, in pochi anni, intorno ad un momento forte tra il 1907 e il 1909 e oltre, nella direzione di quell’impulso frankensteiniano il quale, oltre che nella fotografia, ha avuto un antecedente nel tea­ tro borghese e nel romanzo naturalista, per trionfare poi nel cinema hollywoodiano classico degli anni Trenta. Questo processo (che per quanto riguarda il caso americano sarà affrontato in dettaglio nelle pa­ gine che seguono) viene ripercorso attraverso tappe e momenti signi­ ficativi (per fare solo un esempio, in riferimento al ruolo svolto dai film a inseguimento e dalle Passioni, per quanto riguarda la “lineariz­ zazione” ccc.). Ora, al di là della passione ideologica che si intrawede nella con­ trapposizione tra un orizzonte primitivo in sé compiuto (definito da pratiche di produzione artigianali e da una fruizione “popolare” e in una certa misura “spontanea” ccc.), e un orizzonte istituzionale (in re-

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(azione a pratiche di produzione industriali, a una fruizione strategica­ mente organizzata — a livello sia testuale che sociale — ecc.), il lavoro di Burch ha il grande pregio di rispondere con particolare generosità al­ l’esigenza di evitare una storia esclusivamente lineare del cinema, e di affrontare il cinema primitivo e poi classico da una prospettiva ampia­ mente sociale, senza rinunciare al tentativo di descrivere l’oggetto ci­ nema anche nella sua dimensione “linguistica”. “Esterno” (industria, società, tradizioni culturali) e “interno” (il film) sono in dialettica co­ stante. Una mancanza di sistematicità e una certa disinvoltura storio­ grafica (ncll’utilizzo di dati e fonti in parte già acquisite, insieme a ri­ ferimenti originali ecc.) caratterizzano, più che limitano, la ricerca di Burch. Non si tratta tanto di procedere per ricostruzioni o analisi mo­ numentali dei diversi agenti e aspetti chiamati in causa, ma del tenta­ tivo di afferrarli nelle reciproche relazioni in un inquadramento che ha poi una precisa dimensione e ricaduta teorica. Da questo punto di vi­ sta, la sostituzione del termine «linguaggio» con «modo di rappresen­ tazione» non ha nulla del neologismo trasformistico, ma acquista sen­ so pieno, anche per la maggiore apertura e ampiezza suggerita dalla de­ finizione. E sono proprio le aperture che rendono ricca la proposta di Burch, per esempio a proposito dell’idea di spettatore, sempre consi­ derato sia in quanto soggetto esplicito (pubblico) che soggetto impli­ cito (fino a quel soggetto ubiquitario e centrato, viaggiatore immobi­ le, diegetizzato, dell’istituzione), al di là dell’assolutizzazione di un modello spettatoriale unico21. La grande sistematicità caratterizza invece il lavoro di BordwcllStaiger-Thompson, teso alla definizione del “paradigma” dello “stile” classico, a partire da una rigorosa indagine sugli aspetti produttivi, tec­ nici, economici e linguistici del cinema hollywoodiano dalle origini agli anni Sessanta22. Il presupposto è che lo stesso discorso hollywoo­ diano stabilisca norme di produzione che conducono ad una precisa concezione di forma e tecnica cinematografica: quella che, in senso baziniano, definiamo appunto classica. In questa prospettiva, lo stile hollywoodiano funziona storicamente come serie di “norme”, dalle re­ lazioni complesse e instabili, in modo che ogni film non “sia” il siste­ ma classico, ma incarni un equilibrio instabile di norme classiche in interazione dinamica. Lo stile hollywoodiano è quindi analizzato come «stile di gruppo» che fonda un proprio paradigma, nel senso di serie di clementi intercambiabili in base a regole, o creazione di equivalenti funzionali. Ne deriva che ogni regista o film possa attuare delle scelte

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all’interno della tradizione, senza incidere sull’unità dello stile, essen­ do le alternative offerte dal paradigma limitate. Collocare in una di­ mensione storica lo stile classico, significa, da questo punto di vista, se­ guire l’evoluzione delle alternative interne al sistema, il mutamento delle equivalenze funzionali, a partire dal momento in cui lo stile clas­ sico si pone come modello dominante, intorno al 1917, quando i modi di produzione degli studios diventano organizzati e si impongo­ no sistemi narrativi, temporali e spaziali definiti, in un’assoluta sin­ cronia e sintonia tra industria e stile23. Ciò che qui interessa è che la definizione dello stile classico si dà anche in questa prospettiva in re­ lazione all’opposizione tra questo modello e quello che caratterizza il cinema primitivo, nella convinzione che la formulazione del modo classico inizi intorno al 1909-1911, parallelamente alla progressiva scomparsa degli schemi stilistici primitivi, per arrivare a un completa­ mento del sistema, nelle sue premesse narrative e stilistiche, appunto nel 1917. La spinta al classico coincide con la spinta alla narrazione:

Non tutti i molti esperimenti attuati nei primi anni Dieci divennero parte del paradigma hollywoodiano. Solo quelle soluzioni che promettevano di servire ad uno specifico tipo di struttura narrativa attecchirono e divennero di am­ pio uso. Il predominio della struttura narrativa sui sistemi di spazio e tempo nel cinema classico può quindi essere visto come un risultato dei primi ten­ tativi di utilizzare il tempo e lo spazio cinematografico in funzione narrativa24. Il venir meno dello schema primitivo risulta collegato all’apparire di istituzioni in grado di controllare le idee e le innovazioni, di inse­ rirle nel modello esistente e trasformarle in principi normativi. In que­ sta ottica, si relativizza la portata delle innovazioni e dei ruoli indivi­ duali (come quello del mito Griffith). È chiaro inoltre che il passaggio

primitivo/dassico non riguarda un crescente grado di sofisticatczza o di complessità, e neppure la scoperta di una “grammatica” naturale del mezzo. Non vi è diretta derivazione da un modello all’altro, ma si trat­ ta di due sistemi sostanzialmente diversi, che postulano una diversa concezione del rapporto spettatore-film e della forma o stile del film stesso, in presenza di modificazioni determinanti dei modi di produ­ zione. E, parallelamente ad un’analisi capillare dei modi di produzio­ ne (a partire dal passaggio dal cameraman system, in uso fino al 1907, al director system, dominante tra 1907 e 1909)25, l’ascesa del modello classico viene individuata in relazione ad un mutamento di influenze da parte delle altre arti rispetto al cinema. Il rapporto iniziale con il

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vaudeville lascia il posto ad una maggiore incidenza dei modelli narra­ tivi tradizionali (racconto, romanzo, teatro). La maggiore lunghezza dei film e la necessità di accostarsi alla psicologia dei personaggi e ga­ rantire la chiarezza narrativa spingono così a sperimentare regole e convenzioni che evidenzino il rapporto spazio-temporale e le dinami­ che causali tra le inquadrature, creando un effetto di continuità (anche logica) del racconto. È proprio il «sistema di continuità» a costituire il tratto maggiore del modello classico, in termini di specificità propria, esigenza insita nel sistema stesso, piuttosto che evoluzione delle tecni­

che primitive: Le regole di continuità elaborate dai registi non erano conseguenze naturali della segmentazione operata dal montaggio, ma mezzi per attenuarla e unifi­ carla. In un certo senso, ciò che il carattere psicologico fu per l’unificazione della narrazione più lunga, le regole di continuità lo furono per l’unificazio­ ne di tempo e spazio26.

La normativizzazionc di queste regole, elaborate in sostanza in fun­ zione della massima comprensibilità del film, è legata anche allo svi­ luppo e al ruolo della stampa di settore che la sostiene; ed è anzi si­ gnificativo che “continuità’’ era sinonimo di narrazione fluida, con la sua tecnica costantemente al servizio della concatenazione causale, anche se sempre impercettibi­ le. In seguito “continuità” giunse a riferirsi specificamente a una serie di di­ rettive per l’unione delle inquadrature in fase di montaggio, ma le implica­ zioni originarie del termine continuarono a sussistere27.

Correttamente, la Thompson, in particolare, insiste sulla necessità di incrociare lo studio dei film con quello dei testi coevi (la stampa di settore, appunto, i manuali tecnici ecc.) per verificare il grado di con­ sapevolezza delle pratiche filmiche in uso. In questo senso, l’istituzio­ ne cinema viene considerata come istituzione discorsiva a più livelli, e questo aspetto della ricerca fornisce un elemento in più ad un lavoro complessivamente di grande importanza c interesse. Ciò che suscita qualche perplessità è però il fitto che, nonostante la ricchezza delle an­ golazioni adottate e la serietà dell’indagine storica, a ben vedere, anche qui si cede alla tentazione di vedere in Hollywood un oggetto statico e uniforme, da smontare e osservare pezzo per pezzo, nella certezza che ogni singola compo­ nente, da un certo momento in poi, si concatena perfettamente alle altre28.

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In qualche modo, se pure si distìngue come “altro’' il cinema pri­ mitivo, un’idea teleologica non è del tutto assente; o perlomeno l’otti­ ca è assolutamente retrospettiva, a partire dal modello classico. Ed è an­ che vero che se si sottolinea che la formulazione dello stile classico «co­ mincia molto presto, nel periodo intorno al 1909-1910» c che nel 1917, come già abbiamo detto, le sue premesse erano compiute, per raggiungere una «relativa stabilità alla metà degli anni Venti»29, non siamo poi così lontani dall’idea della «maturità» di cui parlava Lewis Jacobs30. Detto questo, i risultati raggiunti nell’analisi dei singoli modi c tratti delle pratiche filmiche primitive e classiche sono irrinunciabili. Inoltre, al di là delle differenze metodologiche (c “ideologiche”) evi­ denti tra le due prospettive, è significativo notare come vi siano, nelle lince generali, aspetti e punti in comune con Burch. Intanto la distin­ zione tra Ì due modi, primitivo c classico, viene a sovrapporsi anche cronologicamente, nella corrispondenza della pcriodizzazionc propo­ sta in entrambe le ricerche. Sc per Burch la storia del cinema tra il 1895 e il 1929 coincide con l’affermazione del modo di rappresenta­ zione istituzionale, questo stesso periodo è quello in cui il sistema clas­ sico di Bordwcll, Staiger, Thompson giunge a «relativa stabilità». Il passaggio da un modo all’altro avviene intorno alla stessa cesura cro­ nologica, e concordando in fondo su alcune concause, come per esem­ pio l’incidenza di determinate influenze culturali (che per Burch si identificano con l’aspirazione della cultura borghese al rilievo e all’il­ lusione di realtà, e per il gruppo dello stile classico con l’eredità delle narrative tardo-ottocentesche, assunta dal cinema in una sintesi nuova e specifica), nella messa a punto di un sistema di “linearizzazione” o di “continuità” ecc., con modificazioni sostanziali nel ruolo dello spetta­

tore. Questo assunto, almeno in essenza, non sembra divergere del resto dalla sistemazione che, della questione, hanno fornito in diversi con­ tributi, comuni e individuali, i due studiosi che forse più hanno ap­ profondito il problema, cioè Gunning c Gaudreault31, proponendo tuttavia una diversa terminologia che arricchisce in effetti il quadro, specie per quanto riguarda il cinema primitivo (con l’idea di una di­ mensione di “mostrazionc” piuttosto che della tradizionale idea di “teatralità” -contrapposta alla successiva narratività— nei termini ere­ ditati da Mitry). Come si è visto in precedenza, partendo dalla necessità di una di­

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versa strumentazione metodologica e di una storia capace di far teoria e viceversa, nell’affrontare l’“altcrità” del cinema primitivo i due auto­ ri sottolineano innanzitutto che: 1) il cinema delle origini presenta for­ me discorsive diverse dal cinema istituzionalizzato dal 1915, e i suoi valori sono da mettere in relazione con il programma che si prefigge­ va il cinema dell’epoca; 2) le norme che daranno vita a ciò che è stato definito “linguaggio cinematografico” non coincidono con il non plus ultra dell’espressione filmica, ma rappresentano unicamente una «de­ terminata epoca di codice», non riguardano cioè in alcun modo la spe­ cificità dell’espressione filmica. Quindi, all’interno del periodo che va dal 1895 al 1915, vengono distinti due momenti, due epoche; la prima, fino al 1908, caratteriz­ zata da un «sistema di attrazioni mostrativc», e la seconda, fino al 1914 circa, caratterizzata da un «sistema di integrazioni narrative», il primo sistema conosce solo debolmente il regime della narrazione filmica, dominandovi piuttosto un regime di «mostrazionc», la cui unità è l’in­ quadratura autonoma (nel caso di film a più inquadrature queste si presentano come un aggregato di piani distinti). Oltre che dalla mo­ strazionc, inoltre, questo cinema è caratterizzato dalla presenza di mo­ menti di “attrazione”, sia in senso cjzenstejniano che in quello del vo­ cabolario delle fiere (il cinema stesso, innanzitutto, è attrazione, ma lo è un trucco, un primo piano ecc.). Il secondo sistema è quello che ri­ assume il processo integrato di narrativizzazione del cinema. Nel pe­ riodo successivo al 1908, il discorso fìlmico si pone al servizio della storia da raccontare, vale a dire che i diversi elementi dell’espressione filmica vengono mobilitati a fini narrativi. Il cinema dell’integrazione narrativa riveste quindi una sorta di ruolo tampone tra il cinema mostrativo prima di Griffith c il cinema che si sarebbe definito classico, per cui la narrativizzazione è del tutto dominante. In questo sistema, inoltre, le marche di enunciazione non sono ancora nascoste, come sarà nel cinema della trasparenza classica, c per esempio, film come quelli realizzati da Griffith alla Biograph mettono a nudo i procedi­ menti di narrativizzazione (di qui il loro estremo interesse, per coglie­ re il senso della modificazione e trasformazione del discorso filmico)52. Ancora, la caratteristica principale del l’integrazione narrativa è quella di eleggere un elemento specifico della significazione filmica al quale si dà un ruolo integratore: la storia da raccontare. Ed è in questo regi­ me che inizia ad emergere il ruolo del narratore. Ruolo che si defini­ sce nella scelta dei diversi clementi del discorso organizzato in fìinzio-

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ne della storia, così come, in funzione della storia, lo spettatore viene spinto a interpretare le figure messe in discorso. Ne consegue, infine, che la “sutura” tra il narratore fìlmico e lo spettatore viene garantita dalla coerenza del processo di narrati vizzazione. Inoltre, a partire dalla distinzione così posta tra i due sistemi dì pra­ tica filmica, per quanto riguarda il problema delle origini delle forme linguistiche, viene sottolineato quanto segue:

il sistema di attrazioni mostrative sarà dunque considerato come un pezzo di storia del cinema nel corso del quale i diversi praticanti avranno ... “scoper­ to” la maggior parte degli elementi che andranno presto a formare il cosid­ detto “linguaggio cinematografico”: primo piano, carrellata, montaggio. Ma per fare la storia del primo piano, della carrellata o di questa o quella figura di montaggio, non bisogna mai dimenticare che questi elementi, passando da un sistema “totalizzante” ad un altro, possono aver cambiato funzione. Il pri­ mo piano utilizzato nel sistema delle attrazioni mostrative non ha spesso la stessa funzione di un primo piano al servizio dell’integrazione narrativa33.

Si rimarca quindi ulteriormente la necessità di evitare ogni “archeologismo”, sottolineando che la funzionalità di ciascuna figura di linguaggio si modifica a seconda della logica del sistema “totalizzante” di rappresentazione in cui vive. A questo proposito, inoltre, Gunning per primo ha precisato a più riprese che, ferma restando la progressio­ ne non lineare della storia del cinema, questa, per quanto riguarda il periodo delle origini, non va pensata neppure in senso “monolitico”. 11 cinema delle origini c a tutti gli effetti frammentario, plurale, e non solo nel senso di una sua interna periodizzazìone (che vede momenti e fasi diverse nel periodo che precede il 1907, come inizio di una «trans­ izione» che arriva fino al 1913)34. Il percorso che inizia con il cinema delle origini, non solo non coincide con le magnifiche sorti e progres­ sive del cinema tout court, ma si dà come una serie di discontinuità, di trasformazioni nella pratica fìlmica, di successione di stili. Lo stile del­ l’integrazione narrativa è uno di questi (che Gunning motiva ampia­ mente in senso sociale e ideologico, per il caso americano e in parti­ colare griffirhiano di cui si è occupato più a lungo, come si vedrà nel corso di questo lavoro). In questo senso, uno dei primi compiti dello storico del film deve riguardare la costruzione di una successione storica degli stili35,

di cui si chiarisce immediatamente l’impostazione e la metodologia:

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La comprensione del film in relazione alla storia sociale e ideologica può es­ sere vista come un movimento dal discorso filmico di un singolo testo al di­ scorso economico o ideologico che lo penetra36.

In altre parole, una storia del cinema coinè successione storica de­ gli stili deve lavorare sul contesto in cui i film si collocano: quello in­ dustriale, che li ha prodotti, distribuiti, mostrati; c quello delle più ampie forze sociali cui i modi e le logiche di produzione rinviano. Da questo punto di vista, il lavoro condotto da Gunning su Griffith è esemplare. Affrontando con Griffith quel cinema dell’integrazione narrativa che riorienta il discorso fìlmico in una direzione diversa dal regime mostrativo precedente, lo studioso intende dimostrare che lo stile di Griffith non è semplicemente il risultato di un genio ispirato, ma piuttosto la risposta ad una serie di pressioni esercitate dall’industria del ci­ nema e del suo ruolo crescente nella società americana37. Senza approfondire ora una questione che costituirà l’oggetto prin­ cipale di questa ricerca e che si analizzerà in modo diretto, è chiaro che una simile prospettiva appare assai signfìcativa proprio a partire da Griffith, l’“inventore” ufficiale della grammatica del cinema, celebrato come tale da tutta una storia del cinema. Nella “nuova” storia del ci­ nema quale viene proposta da Gunning, ma anche dagli altri autori che si sono considerati, Griffith, o meglio il cinema di Griffith, diven­ ta un momento esemplare di convergenze, in cui si assiste a una tra­ sformazione, un riorientamento del discorso cinematografico. Una trasformazione, un mutamento di stile che riguarda l’industria, la so­ cietà, il pubblico, la forma fìlmica, lo spettatore. Oltre agli approcci che, in una prospettiva di storia degli stili, ab­ bracciano in modo plurale i problemi che questa implica, parallela­ mente sono emersi studi a carattere più monografico, con l’obiettivo di approfondire specificamente un aspetto suscettibile di mettere a fuoco la questione del passaggio dal primitivo al classico. Fra questi, il versante interessato ai problemi della ricezione. Da questo punto di vi­ sta, contributi come quelli di Miriam Hansen e Janet Staiger, tra al­ tri38, hanno preso avvio proprio dalla necessità di considerare la fun­ zione del pubblico per comprendere le condizioni storiche che carat­ terizzano il primo cinema. Ciò, prendendo posizione contro la teoria dello spettatore come osservatore/lettore creatore del significato del te­ sto, sottolineando l’importanza delle condizioni di ricezione e presen­ tazione dei film come contesto. La Hansen, in questo senso, distingue

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il cinema primitivo da quello classico proprio nella considerazione del­ la sfera inerente il pubblico come categoria di trasformazione storica. In questa prospettiva, è il carattere di performance del primo cinema (commentatore, suoni, compresenza di teatro ecc.) a segnare la diver­ sità rispetto al cinema dell’assorbiincnto spettatoriale (il cinema delle inquadrature ravvicinate, della composizione centrale, della luce dire­ zionata, del montaggio in continuità ecc.). Ed è pure da questo punto di vista che si afferma una volta di più che

l’emergere del sistema classico non può essere descritto come un’evoluzione lineare di tecniche, né come un graduale perfezionamento di un “linguaggio cinematografico” naturale. Al contrario, la transizione implica uno sposta­ mento paradigmatico da un tipo di cinema ad un altro, uno spostamento, so­ prattutto, nella concezione delle relazioni tra il film e lo spettatore39. Ad un confronto essenziale, dunque, i diversi contributi che deli­ ncano lo stato degli studi post-brightoniani sul primo cinema e, di conseguenza, sulla questione delle origini del linguaggio cinematogra­ fico, rivelano una serie di convergenze, di nozioni e acquisizioni co­ muni. La svolta storico-teorica annunciata di fronte alla difficoltà di analizzare il cinema primitivo con la lente classica, si è concretizzata quindi su una serie di spostamenti di ottica, rispetto alla storiografia tradizionale, a partire innanzitutto dal rifiuto della prospettiva teleo­ logica o evoluzionistica. Questo grazie alla messa in campo di stru­ menti c metodologie tese ad ampliare, in modi differenti, l’orizzonte autori-film-innovazioni tecniche, con un orizzonte allargato dai testi al contesto, via via inteso come sociale, economico ecc., in cui diversi soggetti (compreso il pubblico-spettatore) definiscono l’istituzione ci­ nema nel suo complesso, in senso dinamico, relazionale, concausale (con accentazioni disuguali nei diversi contributi considerati). In que­ sto modo, se il periodo della storia del cinema che arriva fino alla fine degli anni Venti è quello che conoscerà l’affermazione del linguaggio classico, si distinguono al suo interno due diverse tendenze, due modi di rappresentazione (o sistemi, o pratiche fìlmiche o stili, a seconda delle terminologie utilizzate), definiti l’uno come cinema “primitivo”, “mostrativo” o delle “attrazioni”, e l’altro come classico o istituzionale, a partire da una transizione o preparazione che ha luogo da una cesu­ ra cronologica precisa, quella del 1907-1908 (in presenza di forti mo­ dificazioni nell’industria e nei modi di produzione, nella sfera pubbli­ ca ecc.), caratterizzata da un sistema di integrazioni narrative o da una

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sorta di protoclassicità. Ciascuno dei due modi ha specifiche caratteri­ stiche linguistiche (dell'uno si tende ad enfatizzare il regime mostrativo e l’autarchia del quadro, dell’altro il regime narrativo e la lineariz­ zazione o la continuità ecc.), che vengono analizzate e studiate con at­ tenzione40. In sostanza, la tendenza storico-teorica attuale ha un volto ricono­ scibile, a dispetto di alcune divergenze interne (che verranno even­ tualmente messe in evidenza affrontando gli specifici problemi su cui si attualizzano). Sembrerebbe, in conclusione, che la questione delle origini del linguaggio cinematografico sia una questione mal posta o addirittura illegittima: non esiste un linguaggio cinematografico che si sia evoluto in senso lineare, o perlomeno, se esiste (c per qualcuno esi­ ste con certezza, in modo dichiarato, come per il gruppo bordwclliano), questo è il linguaggio classico, individuabile come tale dal 1917 in poi, ma in avvio dalla fine del primo decennio del secolo. Ora, al di là delle perplessità o delle questioni già sollevate per esempio proprio nei confronti della sistemazione del gruppo bordwclliano (con il so­ spetto che il vizio teleologico respinto dalla porta rientri in parte dal­ la finestra), ciò che può suscitarne di ulteriori è forse proprio parados­ salmente l’eccesso opposto, vale a dire l’enfasi posta sulla alterità reci­ proca dei due modi di rappresentazione o, perché no, "linguaggi”: il primitivo e il classico. In effetti, se in tutti i contributi che si sono ci­ tati e gli studi cui si è fatto riferimento, non solo si individua, tra i pe­ riodi in questione, una zona di transizione, di stile ibrido, o misto, ma anche si afferma che il sistema classico utilizza forme e figure del siste­ ma precedente modificandone funzioni e senso, si dà comunque per scontato che una volta che lo stile classico si è definito e stabilito, il ci­ nema primitivo non rimanga che una «determinata epoca di codice» già trascorsa. Tale atteggiamento, a mio avviso, ha come conseguenza una ulteriore spinta nella direzione di una considerazione a senso uni­ co del linguaggio o stile classico. Rimosso il problema delle origini, e restituita al cinema primitivo tutta la ricchezza, l’autosufficienza e, vorremmo dire, la dignità di oggetto di studio in sé, si conferma paral­ lelamente al cinema successivo esattamente tutto ciò che tradizional­ mente lo ha definito: una dimensione assolutamente narrativa, basata su un linguaggio che vede nella linearizzazione (e quindi soprattutto nel montaggio) la sua principale specificità, e un "asservimento” gene­ rale di altri mezzi c figure allo scopo precipuo di una narrazione coe­ rente e conchiusa per uno spettatore iscritto come ruolo nel testo stes­

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so. E non solo la dimensione visiva in toto assume una fondamentale qualità narrativa, ma anche l'introduzione del suono, con la nuova di­ mensione audio-visiva, non fa che confermare la vocazione «frankensteiniana» descritta da Burch c quindi l’idea di una crescente pienezza narrativa. Un classico ulteriormente “classicizzato” (“buono” o “catti­ vo oggetto” che sia), un sistema sempre più coerente, dunque, cui pos­ sono contrapporsi, oltre che la diversità del cinema primitivo, solo di­ versità consapevoli o programmatiche (“autori”, avanguardie in gene­ rale, manierismi, deformazioni metalinguistiche ecc.), o “esotiche” (non è un caso che sia Burch che Bordwcll, per esempio, si siano oc­ cupati, al di fuori della contrapposizione primitivo/classico, di cinema giapponese41). Un sistema che non sembra avere fessure, discontinuità al suo interno, al di fuori di quel margine di instabilità concesso dal paradigma. Tutti i mezzi in uso sembrano coerentemente dispiegati ad un solo scopo e con una funzionalità di tipo complementare (come suggeriscono termini come linearizzazione, continuità ecc.). In realtà, di eventuali sopravvivenze del regime mostrativo o delle attrazioni del primo cinema in quello successivo, non sembra occuparsene nessuno, se non con riferimenti occasionali oppure, non a caso, rimandando a zone di confine o delimitate, o a territori extracinematografici (per esempio, le attrazioni sopravviverebbero nel cinema dei pubblicitari, o alcuni clementi del regime prcsentazionalc del cinema primitivo si ri­ troverebbero nella pratica televisiva e così via). In questo senso, inoltre, è significativo che per esempio Gunning e Gaudrcault ricordino che per analizzare una figura di linguaggio in una prospettiva storica è necessario tenere conto del mutamento di funzioni che può marcare il passaggio da un sistema all'altro. Ciò è na­ turalmente condivisibile (e condiviso), ma enfatizzare questa cautela può significare correre un pericolo opposto a quello da cui si scampa. Se è evidentemente necessario relativizzare (nel senso di porre in rela­ zione) rispetto al contesto di appartenenza ogni elemento di discorso preso in esame, c non considerarlo in assoluto, la distinzione tra i si­ stemi di rappresentazione tende poi ad assolutizzarc le differenze c a evidenziarne l’aspetto «totalizzante», nei termini dei due studiosi c, in effetti, totalitario. In questo modo, ecco che pcr esempio il primo pia­ no (di cui ci si occuperà, sebbene in modo parziale, in questo lavoro), viene ad essere considerato da un lato come “primo piano primitivo” (e cioè facial expression, trucco, “grossa testa” meliesiana, immagine emblema ecc.), radicalmente altro dal primo piano istituzionale o nar-

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nativo, vale a dire da quello che, dall’altro lato, Burch per esempio de­ finisce primo piano “intercalato”, ravvisabile quindi dal momento in

cui esiste linearizzazione o continuità, e la cui finizione viene perlopiù ricondotta a fini squisitamente narrativi. Si delinca quindi una schizo­ frenia, uno scollamento che ha per effetto quello di forzare entrambe le identità divise in una direzione esclusiva. Così, per esempio, quan­ do Gunning affronta il cinema di Griffith dei primi anni Biograph, occupandosi dell'cmcrgcrc di un sistema narratoriale, analizza quasi esclusivamente le funzioni di montaggio. Sul primo piano in partico­ lare, la questione viene rimandata. I (veri) primi piani di Griffith sa­ rebbero quindi solo quelli già “istituzionali”, rimuovendo totalmente sia una serie di “effetti primo piano” (colti fra l’altro come tali dai commentatori dell’epoca) che non hanno forse solo un significato di transizione, ma anche un lato, un aspetto, un’anima o meglio proprio un’identità del cinema che sopravvive, oltre ciò che le discipline posi­ tivistiche e narratologiche riescono a vedere. Un aspetto appunto mo­ strativi), attrattivo, che forse coincide con ciò che tutto un versante di riflessione teorica sul cinema, da Epstein a Deleuze, ha cercato di in­ dicare al nostro sguardo più che alla nostra lettura del cinema. In sin­ tesi, per quanto riguarda il primo piano, un effetto di deterritorializzazione dell’immagine che rende secondario il problema della lineariz­ zazione o della continuità, e che forse, almeno da un certo punto di vi­ sta, rende meno distanti il cinema primitivo e quello classico.

Note 1 Se è superfluo, almeno per il momento, indicare precisi riferimenti (che occor­ rerà invece mettere in campo affrontando le specifiche questioni storiche e teoriche che interessano questo lavoro, e in particolare il ruolo di Griffith), basti ricordare per esempio come l’idea della costituzione graduale di un lessico, di una sintassi, di una grammatica del cinema, rintracciabile nella storiografia tradizionale fin dagli anni Venti (vedi, per quanto riguarda quel cinema americano su cui in sostanza Questa idea si modella, Terry Ramsay, e poi Jacobs e i classici Sadoul e Mi try), sia in realtà in ope­ ra anche nel progetto semiologico metziano, con il presupposto che la «grande sin­ tagmatica del film narrativo» si costituisca su una svolta alla narratività descritta nei

termini cari a Mitry, vale a dire quelli di una progressiva competenza linguistica fina­ lizzata appunto in senso narrativo. 2 Nei termini, adottati qui provvisoriamente, dei noti lavori di David Bordwcll, Kristin Thompson, Janet Staiger da un lato, c di Noel Burch dall’altro, per cui cfr. al­ meno D. Bordwcll - K. Thompson - J. Staiger, The Classical Hollywood Cinema. Film

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Style and Mode of Production to 1960, Routledge & Kogan Paul, London-Henley 1985» e N. Burch, Life To Those Shadows, B.F.l. and University of California Press, London-Berkeley 1990 (trad. it. Il lucernario delPinfinito. Nascita del linguaggio cine­ matografico, Pratiche, Parma 1994). 3 Per gli atti del convegno, eft. R. Holman (cd.), Cinema 1900-1906. An Analiti­ ca I Study by the National Film Archives (London) and die International Federation of Film Archives, voli. l-II, FIAF, Bruxelles 1982. 4 Per questi dati cfr. B. Salt, The Evolution ofFilm Form Up To 1906, in R. Hol­ man (cd.). Cinema 1900-1906, cit., c E. Bowser, Introduction au projet Brighton, *Cahiers de la Cinémathèquc», n. 29 (hiver 1979). 5 Cfr. A. Gaudreault, Detours in Film Narrative. The Development ofCross Cutting, «Cinema Journal», XIX, 1 (Fall 1979), anche in Th. Elsacsscr (cd.), Early Cinema. Space, Frame and Narrative, BF1, London 1990; Ch. Musser, The Early Cinema ofEd­ win Porter, «Cinema Journal», XIX, 1 (Fall 1979); N. Burch, Porter or Ambivalence, «Screen», n. 19 (Winter 1978-9). anche in R. Bel lour (sous la direction de), Le àni­ ma amlricain. Analyses de films, vol. 1, Flammarion, Paris 1980. 6 T. Gunning, Enigmas, Understanding and Further Questions. Early Cinema Re­ search in Its Second Decade Since Brighton, «Persistence of Vision», n. 9 (1991), p. 5 (corsivo mio). 7 Sui diversi modelli di storia del cinema cfr. R. C. Allen - D. Gomery, Film Hi­ story. Theory and Practice, Knopf, New York 1985. * Al di là dei numerosi saggi c contributi dei due studiosi che si avrà occasione di citare oltre, cfr., per una sona di sintesi programmatica di questa impostazione» A. Gaudreault - T. Gunning, Le ànima des premiers temps, un dlfì à Thistoire du animai, in J. Aumont - A. Gaudreault - M. Marie (sous la direction de), Histoire du ànima. Nouvelles approches. Publications de la Sorbonne, Paris 1989. 9 Oltre che dal volume degli atti del convegno di Brighton (R. Holman [ed.], Ci­ nema 1900-1906, cit.) e dal numero speciale Le ànima des premiers temps, «Cahiers de la Cinémathèque», n. 29 (hivcr 1979), un primo significativo inquadramento dello stato degli studi post-Brighton è proposto da alcune pubblicazioni antologiche che, ri­ unendo contributi già editi insieme a interventi originali, offrono un ampia prospet­ tiva: cfr. J. Fell (ed.), Film Before Griffith, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1983; A. Gaudreault (sous la direction de), Ce queje vois de mon ànl, Klincksicck, Paris 1988; Th. Elsacsscr (cd.), Early Cinema, cit. 10 Tra i numerosi interventi di Salt (alcuni dei quali compresi nelle antologie già ci­ tate), cfr. The Evolution ofFilm Form Up To 1906, in R. Holman (od.), Cinema 19001906, cit., c Film Style and Technology History and Analysis, Starword, London 1983. 11 Cfr. Ch. Musser, History ofAmerican Cinema, vol. I: Tire Emergence of Cinema. The American Screen to 1907, c E. Bowser, History ofAmerican Cinema, voi. Il: The Transformation of Cinema. 1908-1915* Scribner, New York 1990. 12 Per una ricca recensione ai due volumi cfr. Ch. Kcil, Primitive No More. Early Cinemas Academic Coming ofAge, «Persistence of Vision», n. 9 (1991). 15 Ch. Musser, The Emergence ofCinema, cit., p. 15 14 L Jacobs, The Rise ofthe American Film. A Critical History, Harcourt, Brace fic Co, New York 1961 (trad. it. ^avventurosa storia del cinema americano, Torino, Ei­ naudi 1961).

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15 Oltre a Life To Tifose Shadows, de., che riunisce e riclabora anche cesti precedenti di Burch, cfr. l’intervista a cura di A. Boschi e A. Cosca, Il cinema in quanto tale non è più al centro della mia riflessione - Conversazione con Noel Burch, «Cinema & Cine­ ma», n. 68 (settembre-dicembre 1993), che, nonostante una dichiarata presa di di­ stanza da alcuni aspetti metodologici e ideologici della ricerca culminata in Life to Those Shadows, ne ribadisce alcuni dei presupposti sostanziali. 16 Cfr. ibidem. 17 II riferimento di Burch va precisamente al dibattito condono tra il *65 e il 70 in Francia su riviste come «Cinéthiquc», «Tel Quel» ecc. 11 N. Burch, Il lucernario delPinfinito, cit., pp. 9-10. 19 Ibidem, p. 8. 20 Questo aspetto è discusso in A. Boschi e A. Costa (a cura di) Il cinema in quan­ to tale... Conversatone con Noel Burch, dt. 21 Per una discussione sulla legittimità di postulare un modello speccatoriale cfr. (’intervista sopra citata. 22 D. Bordwell - K. Thompson - J. Staiger, Tire Classical Hollywood Cinema, cit. 25 Cfr. in particolare l’introduzione di Bordwell, The Classical Hollywood Style 1917-1960, ibidem, pp. 1-84. 24 Nello stesso volume, cfr. la sezione della Thompson, The Formulation of the Classical Style 1909-28, p. 157. 25 Cfr. ibidem la sezione della Staiger, TAe Hollywood Mode ofProduction to 1930, pp. 85-127. 26 K. Thompson, The Formulation ofthe Classical Style, cit., p. 162. 27 Ibidem, pp. 194-195. 21 L. Gandini, Il "classico”americano, «Cinema & Cinema», n. 68 (settembre-di­ cembre 1993), p. 18. 29 K. Thompson, The Formulation ofthe Classical Style, cit., pp. 157 e 231. 10 Lo nota L. Gandini, Il "classico”americano, cit., p. 19. 31 Oltre ai contributi già citati, cfr., almeno, di T. Gunning, Le style non-continu du cinéma des premiers temps, «Lcs Cahiers de la Cinémathèque», n. 29 (hiver 1979); Non-continuity, Continuity, Discontinuity. A Theory ofGenres in Early Film,