Il cinema underground americano 8883216784, 9788883216787

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Il cinema underground americano
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Tangenti proposte e verifiche culturali

Il cinema underground americano di

Raffaele Milani

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Tangenti proposte e verifiche culturali

Collezione diretta da Claudio De Boni

Il cinema underground americano di

Raffaele Milani con i confronti antologici da

M. Doren, J. Mckas, G. Markopoulos, S. Brakhage, A. Warhol, M. Snow

Casa editrice G. D'Anna * Messina Firenze

Prima edizione: novembre 1978

Proprietà letteraria riservata Consulenza editoriale: Angelo Gianni STIAV, Firenze

Premessa

Il cinema underground americano ha ottenuto in Italia vasti consensi di critica e di pubblico. GII studi ad esso dedicati sono numerosi e abbastanza conosciuti, ma non soddisfano l'interesse e la curiosità Intellettuale che sono scaturiti in questi ultimi anni. Molti avver­ tono la necessità di giudizi a posteriori, dall’esterno. Il saggio qui presentato desidera, in parte, colmare que­ sto vuoto, osservando tali opere con distacco storico. Nello stesso tempo però è mia intenzione far quasi rivi­ vere quei momenti dall'interno, attraverso le idee, I me­ todi, le tecniche visuali dei filmmakers protagonisti. SI ripercorre quindi un viaggio a ritroso alla ricerca delle origini, delle prime fondamentali espressioni d'arte per­ sonali, che avviarono il sorgere di questa complessa forma cinematografica. Infatti soltanto ora, conside­ rando ormai concluso II genere sotterraneo perché sosti­ tuito dai prodotti dei nuovi registi hollywoodiani o Indi­ pendenti che sono riusciti ad integrare o a manipolare quel materiale, innovandolo o semplicemente riesponen­ dolo con sembianze più persuasive, più commerciali, possiamo esaminare attentamente il fenomeno; e ciò è reso possibile grazie ai recenti illuminanti scritti di Paul Adams Sitney ai quali questo saggio si riferisce esplici­ tamente anche In relazione alla suddivisione per capitoli. Il cinema sotterraneo è qui considerato in dipendenza dell'avanguardia europea (per il tentativo di esprimere sia la sfera inconscia che quella del pensiero) e delle prime, originali esperienze americane. Praticamente so­ no state individuate due tendenze, una realistica e l'al­ tra onirica. Tuttavia tra le due non esiste una netta con­ trapposizione poiché, nonostante che da un lato si av­ verta una precisa coscienza delle possibilità semantiche del mezzo, una perfetta costruzione ludica, una inconfu­ tabile volontà di autoirrisione derivata dai meccanismi rivelatori della finzione, e dall’altro una visione che rin­ via alla surrealtà e al caligarlsmo, una funzione metafì­ sica della camera, un atteggiamento estatico e mitopoie-

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tico. ad entrambe riconosciamo caratteri comuni come l'uso del rituale e del pensiero orientale. Nasce cosi un realismo di tipo misticheggiante, lesivo di ogni didat­ tica del reale. Le opere cinematografiche underground annullano i codici costrittivi della forma (artistica) fino ad oggi co­ munemente accettati e mirano a costruire, in consonan­ za con la novità della non-arte contemporanea, un’opera totale che comprenda le varie espressioni (danza, pittu­ ra, musica ecc.). Tali opere possono essere ricondotte ad un ambito di pensiero nel quale ritroviamo uniti il progetto marcusiano dell'immaginazione liberata, l'ana­ lisi della fruizione estetica dei media compiuta da McLuhan e la critica puntualmente distruttiva di Susan Sontag. Al di là dell’ostentazione romantica e della provoca­ zione piu palese scopriamo infine un fondo razionale e ironico che appare sempre più chiaramente come il nucleo di un'energia eversiva, il principio di un'estetica non disciplinata.

Capitolo primo

Il trance film

Il cinema underground americano risale agli anni quaranta, a quel periodo che vide la nascita di tante nuove esperienze in campo artistico. Prende Forma, negli USA, un’originale espressione in grado di aprire vie nuove nell’ambito cinematografico. Al­ cuni indicano genericamente tali opere col vago ter­ mine di « cinema sperimentale », altri le definisco­ no piu precisamente, ma non accortamente, pro­ dotti di una « seconda avanguardia ». Maya Deren, che Fu tra i primi creatori di questo nuovo gusto cinematografico, chiamerà tale tendenza « cinema deh l'angoscia e dell’esperienza ». ’ La voce « underground » nacque col tempo. Dap­ prima essa indicava i masculin adventure films a busso costo degli anni trenta e quaranta. In seguito; alla fine degli anni cinquanta, essa cominciò ad essere messa in relazione, da Lewis Jacobs, ai film d’arte personali, e Stan Vanderbeek l’assumerà specificamente per indicare le proprie ricerche cinematografi­ che. Ad opera di Maya Deren inizia cosi un « genere » Ispirato, da un lato, al precedente sperimentalismo americano e dall’altro, alla più famosa avanguardia europea. Regista, saggista, esperta organizzatrice, la Deren verrà ricordata non soltanto come il primo grande filmmaker underground ma anche come la Fondatrice di un nuovo movimento cinematografico. Jonas Mekas alcuni anni piu tardi ne raccoglierà l’eredliìl costituendo la Cooperativa degli autori indi­ pendenti. (xunune a tutto il cinema underground, compresa questa sua prima fase, è il carattere antinarrativo, ani (naturalistico, antirappresentativo, a cui bisogna

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aggiungere un « accento esistenziale » più o meno evidente a seconda dei filmmakers. Questo ultimo elemento potrà essere maggiormente individuato nelle opere di Andy Warhol o in quelle di Michael Snow, ma non è neppure estraneo alla corrente onirica (a quest’ultimo genere appartengono i film di Maya Deren, Curtis Harrington, Gregory Markopoulos, Kenneth Anger, che ne sono i principali esempi), avendo essa quale precipua caratteristica la difesa di una trascrizione filmica del materiale psichico, la espressione di uno sfogo autobiografico inteso come liberazione di uno stato allucinatorio o paranoico. fLa nascita di una nuova forma d’arte rinvia sem­ pre ad esperienze precedenti che l’hanno potuta co­ stituire^ Negli anni che intercorsero tra il primo ed il secondo conflitto mondiale si assistette alla fioritu­ ra e alla diffusione delle prime opere sperimentali secondo tre indirizzi: il primo, ispirato a Vertov, vin­ colato ad una forma realistica e oggettiva, ha un suo iter particolare che porterà al free cinema; il secondo, creazione onirica legata alla surrealtà del caligarismo, ispirerà lo sperimentalismo degli anni quaranta; il terzo, rappresentato dalle prime ricerche grafiche di Hans Richter e Marcel Duchamp, si amplierà ad ope­ ra di Oskar Fischinger fino a raggiungere gli esperi­ menti dei fratelli Whitney. Al genere realistico ap­ partengono Manhatta di Paul Strand e Charles Sheeler, Twenty four Dollar Island, Autumn Fire e City simphony di Herman G. Weinberg, A Bronx Morning di Jay Leyda e Footnote to Fact di Lewis Jacobs; a quello onirico, definito da uno « slancio interiore », fanno riferimento The Life and Death of 9413: a Hollywood Extra, Loves of Zero di Ro­ bert Florey, The Last Moment di Paul Fejos (che, in un certo senso può appartenere anche all’area ogget­ tiva), The Tell-Tale Heart di Charles Klein, The Fall of the House of Usher e Lot in Sodom di Watson e Webber; al film astratto infine, oltre agli autori cita­

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ti, si debbono ricondurre le ricerche di Len Lye e Mary Ellen Bute. (Il cinema iniziato da Maya Deren procede con inec­ cepibile originalità1 da una esperienza onirica parti­ colarissima, nonostante riconoscibili analogie con il metodo usato da Bunuel-Dalf in Un chien andalou. L’autrice americana, cercando di dar vita ad una for­ ma articolata, definisce il film una compiuta opera poetica, tutta personale e interiore, caratterizzata da un’atmosfera ipnagogica * da uno stato di torpore e ossessione, in modo da costruire un’immagine tota­ lizzante ed utopica di un universo conquistato alla « pratica visionaria ». Il fatto che i film, oltre agli aspetti descritti, si mostrino inclini ad una preminente ricerca sessuale, allo sforzo autobiografico, alla produ­ zione di « immagini sentite » cioè di immagini stret­ tamente legate alle sensazioni, esprimano un chiaro rifiuto della dimensione teatrale, letteraria, e del na­ turalismo della camera, determina il modello di un operare introiettivo che P. Adams Sitney chiama « trance film »1 2*. Con tale termine il critico ameri­ cano mira a definire quello stile che, avviato con Meshes of the Afternoon (1943) e in particolare con At Land (1944) di Maya Deren, accomuna quasi tut­ ta la prima fase del cinema underground (si esclude soltanto la componente grafica o meramente reali­ sta). Il trance film si riassume praticamente nello impiego di uno spazio fluido-lineare, nello stato oni­ rico, nell’uso di un solo protagonista (sovente l’au­ tore stesso), nella creazione di un moto rituale, nella tendenza ad apprestare uno « psicodramma da came­ ra » \ L’attore sonnambulo, isolato-dissociato dagli oggetti in uno spazio senza peso, condiziona il corso 1 C'fr. L. Jacobs, L’avventurosa storia del cinema americano, Einmidi, Torino, 1961, pag. 626. 2 Ilo preferito mantenere in lingua originale tale espressio­ ne perché ha un senso piu ampio di quello che potrebbe assu­ mere con la traduzione. 1 C'fr. P. Adams Sitney, Visionary Film, Oxford University* l’rrsj, New York, 1974, pag. 21.

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dell’avvenimento rappresentato piegandolo ad una esperienza visionaria, impalpabile e intraducibile. L’intreccio si dissolve e l’azione viene chiusa, attra­ verso il sogno, in uno stato mentale soggettivo al fine di annientare l’ostile permanenza della realtà. Una vaga sensazione di « tempo alla deriva » coglie lo spettatore attento a quel sorprendente rallentamento del ritmo psichico che è il risultato della visualizza­ zione dell’esperienza onirica. La dimensione « tran­ ce » si mostra quindi quale elemento differenziante del film d’avanguardia americano nei confronti di quello europeo^ Molto vicino alla visione di Sitney è Parker Tyler che già alcuni anni prima, nel suo li­ bro The Three Faces of the Film, teorizzava un « ci­ nema puro nella tradizione di Méliès » di cui Le Sang d’un Poète poteva essere il più alto risultato *. Anche Jonas Mekas interviene a sua volta e oppone, su que­ sta base, il cinema puro a quello impuro hollywoo­ diano, e ancora la visione di Tyler a quella di Kracauer. Sitney e Tyler individuano poi le origini del trance film in The Cabinet of Dr Caligari di Wiene4 5 (considerato il vero archetipo di questo genere) e in Le Sang d’un Poète di Jean Cocteau. L’eliminazione di un ruolo direttivo (cadono le barriere tra regista e attore), la libera espressione del­ la sessualità come esplorazione di una vasta imagerie erotica, l’impiego della camera volta ad imitare l’attività mentale, gli impulsi, le allucinazioni, la crea­ zione di uno stato magico, il netto rifiuto di ogni in­ dagine scientificamente psicoanalitica sono i carat4 Tali considerazioni sono contenute in Parker Tyler, The Three Faces of the film, Barnes Yoseloff, New York, 1967. Bisogna inoltre ricordare che Parker Tyler confronta lo sperimentalismo di questi giovani autori non solo con il cinema di Jean Cocteau ma anche con quello di Orson Welles. Si veda a questo pro­ posito lo scritto Orson Welles and the big experimental film cult in P. Adams Sitney, Film Culture Reader, Seeker & Warburg, Londra, 1971. 5 Cfr. P. Adams Sitney, Visionary Film, dt., pag. 21.

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teri del trance film. Tra i suoi principali risultati bi­ sogna ricordare, oltre alle due opere già citate, Cho­ reography for Camera (1945) di Maya Deren, Frag­ ment of Seeking (1946) di Curtis Harrington, Fire­ works (1947) di Kenneth Anger, Swain (1950) di Gregory Markopoulos. Poiché attinenti all’area oniri­ ca, bisogna ancora segnalare A Potter Psalm ( 1946) di James Broughton e Sidney Peterson, Mother's Day ( 1948) di James Broughton, The Way to Shadow Gar­ den (1955), Reflections on Flack (1955) e Flesh of Morning (1956) di Stan Brakhage. (Il trance film non è comunque limitato esclusivamente a queste opere e circoscritto meccanicamente al periodo indicato. Esso infatti non si annulla nei diversi caratteri che gli succedono (il contatto con altre esperienze non lo distrugge) ma si dissolve len­ tamente in un rapporto di integrazione-conversione. A volte, anche a distanza di molti anni, possiamo ri­ conoscere, come rileva Sitney, in alcuni film parti­ colari come Blonde Cobra ( 1959*62) di Ken Jacobs, The Old House Passing di Larry Jordan, The Great Biondino (1967) di Robert Nelson, Dream wood (1971) di James Broughton, chiare tracce di queste esperienze. ) (Le opere legate al genere trance, a questa singo­ lare forma psicodrammatica, muovono da un uni­ verso poetico privo di barriere tra conscio ed incon­ scio, esterno ed interno, campo di libero sfogo per­ sonale, esperienza estatica. Per apprendere all’ori­ gine i caratteri di questi film, è tuttavia necessario ricordare gli interventi succedutisi al simposio che si tenne nell’ottobre del 1953, al quale parteciparo­ no Maya Deren, Parker Tyler, Dylan Thomas, Ar­ thur Miller. In questo incontro, si delinearono al­ cuni principi estetici del cinema poetico. Si distinse tra film nei quali è prevalente l’immagine e film nei quali si tende all’integrazione di elementi uditivi e visivi. Esempi del primo tipo sono Un chien andalou, Le Sang d’un Poète e Lot in Sodom (quest’ultimo fu

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diretto da Watson e Webber) che rappresentano in tutto il mondo le origini dell’avanguardia. Discen­ dono da qui quelle opere sperimentali americane co­ nosciute anche sotto il nome di cinema puro. Tra gli esempi del secondo si possono annoverare, La Belle et la Bète, UEternel Retour, Orphée di Jean Coc­ teau, i film di Jean Vigo, Sidney Peterson, Willard Maas, Jan Hugo 6. L’intervento di Maya Deren fu ri­ volto a sostenere la necessità di un approfondimento del concetto di poesia nel film. Poesia non più intesa nell’assonanza, ritmo o rima, ma in un particolare in­ contro con l’esperienza. Poesia è costruzione, struttu­ ra, in quanto esito di una « esplorazione verticale » le­ gata a situazioni che non appaiono più come ciò che semplicemente accade, ma come qualcosa che lascia trasparire l’invisibile ed il metafisico. A questo pro­ cedere (poetico) si oppone il dramma che è visto svolgersi in senso « orizzontale », da sentimento a sentimento. La trasposizione al campo cinemato­ grafico dell’idea di verticalità e orizzontalità permet­ te inoltre all’autrice americana, di cogliere nelle se­ quenze oniriche, quel processo di intensificazione, creato non tanto in base all’azione quanto in base alla « esposizione » di un certo momento, che con­ traddistingue un movimento « ascendente ». I brevi film onirici sono allora paragonabili alle poesie li­ riche; la loro brevità infatti è indizio di grande in­ tensificazione, sinonimo di verticalità. Tuttavia si pre­ vede pure la possibilità di ottenere una splendida combinazione dei due procedimenti qualora il film si formi secondo un « costrutto drammatico » aper­ to ad interventi verticali. È il caso di Image in the Snow (1943) e Geography of the Body (1943-1948) di Willard Maas dove l’intreccio viene illuminato dal commento poetico. In tali film la simultaneità delle due azioni, il rapporto tra elemento visivo e uditivo, 6 Cfr. AA. vV.. Poetry and the Film: a Symposium, « Film

Culture » n. 29, 1963, pag. 172.

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si riassume in un complesso rapporto di orizzontalità c verticalità che la Deren indica come una grande fa­ coltà inventiva atta a manipolare la poesia ed il film, e la poesia nel film1 Arthur Miller ritiene che la differenza tra cinema e film poetico sia simile a quella esistente tra teatro naturalistico e dramma poetico. Inoltre, sebbene in parte conquistato all’idea espressa da Maas, del­ l’unione di immagine e commento poetico, egli di­ chiara che il film non sarà più vuoto e superficiale quando riuscirà a liberarsi dell’effetto e organizzar­ si strutturalmente come una mente che ordina la sua esperienza secondo coerenza e compattezza. So­ lo in questo caso potrà nascere il film poetico Tut­ tavia Miller è ancora vincolato alla purezza del film muto, al legame di esso con la struttura del sogno, c non è portato a condividere totalmente la sintesi di letteratura e contesto visivo. Maya Deren invece definisce film poetico quell’opera capace di creare im­ magini piene di significato, evitando di limitare alla sola parola la « struttura poetica ». La poesia è vista come un nucleo che attira a sé gli elementi piu dispa­ rati; è contemporaneamente logica dell’emozione e del significato mentre lo sviluppo drammatico le si contrappone esplicitandosi in una serie ordinata di azioni successive. Il film allora diventa medium poe­ tico soltanto quando si manifesta prodotto dell’elabo­ razione del montaggio e quando al tempo stesso le parole abbandonano la funzione teatrale imposta. Le parole non debbono spiegare, ma essere parte di un’u­ nica immagine che racchiuda sia il mondo visivo che quello uditivo. Immagini e parole debbono essere quindi indipendenti come quando si guarda un’azione c si ascoltano voci lontane non attinenti al fenomeno che stiamo osservando. L’espressione cinematografica è cosi vista affermarsi in un’esperienza totale e unica.1 1 Ibidem, pagg. 173-175. • Ibidem, pagg. 176-177.

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A tale riguardo Willard Maas ricorda che Le Sang d’un Poète è la perfetta combinazione dei due mo­ menti e che Cocteau compare, nella storia del cinema, come l’iniziatore del film poetico ’. Già in The Idea of Morphology (scritto tra il ’71 e il ’72) Sitney mise in evidenza, in anticipo sul­ le teorie espresse nel suo Visionary Film (libro di grande complessità nel quale tutto il cinema d’avan­ guardia americano viene sottoposto ad una rigorosa analisi sistematica, ad una severa esposizione storico­ critica, alla prima risoluta « trattazione teorica »), la necessità di sospendere ogni giudizio particolare sul singolo film e di cogliere, sotto forme generali, l’esplosione di una cinematografia che tende a di­ sperdersi in mille segni originali e unici. Si pone quindi il compito di ordinare quel materiale caotico e disporlo secondo una precisa morfologia; di esami­ nare comparazioni e analogie con schemi estetici am­ piamente comprensivi. Sulla base di rilievi formali (tratti dalla scuola russa), il critico americano affron­ ta l’arduo compito analitico e, attraverso lo studio del raggruppamento, dell’associazione, della riorganiz­ zazione di elementi precedenti in elementi seguenti, osserva la molteplice trasformazione del film ameri­ cano d’avanguardia ,0. Il primo ed esemplare confronto è quello che viene posto tra Meshes of the Afternoon di Maya Deren e Alexander Hammid e Un chien andatoti di BunuelDalì. Le somiglianze si possono riassumere in una atmosfera onirica, legata al tema freudiano dell’in­ conscio, e nell’uso ellittico dello spazio e del tempo. Le differenze vengono invece colte nell’opporre uno stato di delirio, di furore, di libera irruzione dell’in­ conscio (riflesso in Un chien andalou, nell’accosta­ mento di immagini non attinenti perché sottoposte ad 9 Ibidem, pag. 184. 10 Cfr. P. Adams Sitney, The Idea of Morphology, «Film Culture » n. 53-54-55, 1972, pagg. 1-4.

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un continuo cambiamento casuale) ad una ricerca complicata e paradossale dell’io che si ordina secondo una precisa logica, secondo una prestabilita con­ nessione tra sei situazioni ripetute e alternate11 prodotte da un movimento reciproco di realtà e im­ maginazione. Si giunge cosi con il film della Deren, a quella forma psicodrammatica che rappresenta il passaggio tra l’avanguardia degli anni venti e la sua rielaborazione americana negli anni quaranta. Meshes of the Afternoon è legato alle esperienze interiori di un individuo, riproduce il modo in cui il subconscio interpreta ed elabora un incidente ap­ parentemente semplice e casuale in un’esperienza emozionale critica11 12 con tale procedimento si vuole mostrare la diversità dei primi film della Deren dal metodo prettamente cocteauiano, al quale però, come si è detto, va riconosciuto il merito di esserne l’innegabile ispirazione, Maya Deren propone un abbandono « logico » all’iniziativa delle immagini, al flusso della visione, giudicando l’immagine piu poetica e filosofica della ragione, e aspira, ponendo l’accento sulla non letterarietà cinematografica, alla realizzazione di un film che sia « pura forma » e che si fondi sulla libera associazione. Su questa base si inaugura, attraverso l’analisi dell’inconscio, un lento processo di smaterializzazione; in questo modo il cinema psichico da lei iniziato si consuma in una scomposizione-decomposizione di oggetti e avveni­ menti, mentre l’immagine annega in una luce men­ tale ambigua. Ne risulta il grande progetto di un « idealismo fìlmico » che, avvalendosi di un ela­ borato uso del montaggio (con le sue sorprendenti interruzioni-reiterazioni in grado di creare una scan­ sione ritmica della dinamica visiva), tende ad un allargamento delle facoltà mentali, ad un’espressio­ 11 Ibidem, paga. 5-6. 12 M. Deren, Aleshes of the Afternoon, in « Film Culture » n. 59, 1965.

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ne policentrica della visione del film inteso come pensiero. I film della Deren offrono lo spunto ad Arnheim per operare un recupero della discussione sulla ma­ terialità della fotografìa. Lo studioso tedesco di­ stingue a tale riguardo, due aspetti: il primo dona alla immagine la fissità del ricordo, il secondo, piu magico, presuppone la trasformazione della realtà; da un lato si persegue un obiettivo di resa materia­ listica, dall’altro si insegue l’ideale della smaterializzazione. Le opere della Deren appartengono a que­ sta seconda tendenza ma senza ricorrere ad evocazio­ ni di forme propriamente surrealiste o espressioniste; si opera una sospensione non una distruzione della superficie fisica 13. Questa qualità magica della fotografìa vuol mostrare, dice ancora Arnheim, come il corpo, nel suo essere fisico, diventi fluttuante, aereo, senza peso, creando nuove connessioni visive, e come, nello stesso tempo, questo fenomeno sia l’espressione di una perfetta costruzione logica. Per la Deren si tratta, in particolare, di estendere al film, tramite procedimenti simbolici, quell’integra­ zione di gesto umano e spazio fìsico che ella trovò attuata ad Haiti Avversando poi il divismo hollywoodiano e l’in­ terpretazione teatrale dell’attore imitativo, la cinea­ sta americana pone sullo stesso piano (il piano della mente) il ruolo degli attori e quello degli oggetti tentando di creare una forma cinematografica libera attraverso la rivalutazione dell’entusiasmo creativo del film-maker « dilettante » contrapposto all’attivi­ tà piatta e di mestiere del « professionista ». Il film è un’intricata relazione di occhio-mente-camerarealtà, tendente ad un’espansione-espressione del­ 13 R. ^rnheim, Rudolf Arnheim lo Maya Deren, « Film Cul­ ture » n. 24, 1962. H M. Deren, I cavalieri divini del Vudu, Il Saggiatore, Mi­ lano, 1959.

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l’autore che assume le funzioni di scrittore, regista, fotografo, montatore, attore. Maya Deren gira nel 1943, con Alexander Hammid, Meshes of the Afternoon, di cui venne fatta un’edizione sonora, con musiche di Teji Ito, nel 1959. Per la Deren si trattava di un primo incontro col mezzo cinematografico mentre per Hammid le ripre­ se di Meshes... rappresentavano l’ulteriore approfon­ dimento di un linguaggio già sperimentato. Si ha inoltre motivo di ritenere che la cineasta americana fosse stata influenzata, anche nei film futuri, dalla tecnica di Hammid; un bellissimo film sulla danza di Martha Graham (Viaggio di notte) che egli diresse in quegli anni può rafforzare tale opinione. Questa opera rientra infatti in un’evidente area trance e mitopoietica presentando, con una particolare illumi­ nazione e con un elaborato montaggio, il rapporto tra Edipo e Giocasta. Qui ritroviamo temi familiari come l’assenza di gravità, lo stato onirico, l’aura in­ contaminata e il gusto « kitsch ». Meshes of the Afternoon è una trasgressione nei confronti del film inteso come semplice registrazione di un evento, dimostra un’aperta ostilità nei con­ fronti delle pratiche realiste. Qui e in At Land lo spazio è lineare contrariamente a quello cubico di Un chien andalou, formato da coordinate procedenti nelle quattro direzioni,5. Ciò che la Deren chiama incidente apparentemente semplice e causale inizia dal percorso che fa una ragazza (la Deren) andando verso casa. Durante il tragitto la protagonista si fer­ ma per raccogliere un fiore; giunta nei pressi della casa, scorge una figura che scompare dietro la curva della strada, tenta poi di aprire la porta ma la chiave le cade di mano. Dopo averla recuperata entra nel­ l’appartamento e attraversa le stanze mentre la ca­ mera fotografa gli oggetti circostanti che mostrano i segni di una presenza; il fonografo gira ancora, il 15 Cfr. P. Adams Sitney, Visionary film, cit. pag. 15.

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ricevitore è staccato dal telefono e ogni cosa rive­ la che qualcuno era li pochi istanti prima. La ra­ gazza si siede e aspetta. Durante questa attesa si ad­ dormenta e sogna le esperienze che ha appena vis­ suto, ma tutto appare modificato, soggetto ad uno spostamento. Una donna in nero, alta e con il viso coperto da uno specchio, scompare dietro la curva di una strada e porta con sé il fiore trovato prima sul lastricato. La ragazza tenta di raggiungerla ma tutti i suoi sforzi si dimostrano vani. Gli oggetti prima notati nella stanza ora cambiano di posto e la scena raggiunge il suo culmine, che si conclude nel finale con un suicidio simbolico, quando la pro­ tagonista vede entrare se stessa per tre volte nella stanza. L’evento che originariamente era così sem­ plice diventa via via sempre piu complesso e carico di emozioni. Ciò che è immaginato diventa reale ma sia il piano del sogno che quello della « verità ma­ teriale » vengono assorbiti, nonostante la trasforma­ zione dell’esperienza eventica in esperienza interiore e il fenomeno della moltiplicazione dell’io, nella co­ scienza critica del messaggio filmico. Meshes... offre, attraverso la reciprocità di so­ gno e realtà, una visione della ambivalenza di ciò che è stabile e convenuto e di ciò che possiamo chia­ mare l’immediata esposizione della violenza dell’in­ conscio. Il motore di tutto ciò è una struttura anagrammatica dove il gioco combinatorio di oggetti (simboli) ed avvenimenti (linee narrative), attraver­ so l’uso dei primi piani e del montaggio rapido, appare come la produzione della mente creatrice. In questo senso il ritmo del film vive della mutuata alternanza di procedimento sineddochico e di visione soggettiva. L’attività onirica e la realtà fìlmica s’identificano nell’idea creativa in movimento che trae ispirazione dal continuo rapporto di spezzature tese a cogliere particolari di oggetti e figure, mescolandoli e sospen­ dendoli drammaticamente (mano-fiore-ombra inquie­

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tante all’angolo del viale-piede-chiave-porta-coltellotende al vento-grammofono-poltrona). Il sogno è principio di sdoppiamento, di una serie di sdoppia­ menti, con una tecnica di frammentazione e ripresa simile ai ricordi dei sogni che pensiamo in brani o tratteniamo nella nostra mente sul filo logico della ragione, o al progredire fantastico del « sogno ad oc­ chi aperti ». Maya Deren chiamerà, in futuro, que­ sto suo procedimento consistente nella variazione-ro­ vesciamento di reale e immaginatiti nel mutamento costante del rapporto tra la figura ed il quadro at­ traverso il montaggio, « operazione rituale ». Le parole della Deren chiariscono questa tecnica: « Nel mio primo film, Meshes of the Afternoon, una ragazza si alza de una sedia ed inizia un movimen­ to in avanti, camminando. Ciò è seguito immedia­ tamente da una serie di primi piani dei suoi piedi (prontamente riconoscibili dai calzoni e dai san­ dali, che sono stati accuratamente stabiliti come suo abito). Il primo passo atterra sulla sabbia (con il mare sullo sfondo); il secondo sull’erba; il terzo sul pavi­ mento, il quarto su un tappeto; e la sequenza finale è conclusa da un campo medio nel quale la ragazza arriva all’altro lato della stanza » ,6. L’interruzione della continuità, logico-visiva della scena attraverso immagini inaspettate produce nello spettatore un effetto di stordimento e dà alla sequen­ za un’impronta di forte tensione. Meshes... è abba­ stanza lontano dal clima chiuso e cerebrale del film cocteauiano, e nel suo estendersi dall’evento mate­ riale all’esperienza immaginaria crea il movimento di due ordini inversamente proporzionali: la dema­ terializzazione della fotografia e la materializzazione di pensieri ed emozioni. In Meshes... la tecnica, basata sulla introiezione vi16 M. Deren, Film medium as muse and means, in « Film Culture» n. 39, 1965, pag. 41.

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siva, procede inoltre su piani fra loro contrapposti: dall’omogeneo all’eterogeneo se afferriamo la realtà fìsica come un dato prestabilito, che il film amplia e complica o il passaggio contrario se iniziamo il movi­ mento da elementi materiali sparsi. In questo allargarsi solo apparentemente casuale nascono altre contrapposizioni che, innestandosi in un meccanismo combinatorio, creano quella altera­ zione del senso che attribuisce a Meshes... l’atmo­ sfera magica di una radicale sospensione del reale, il clima dell’ « incantamento ». Adams Sitney vede concentrarsi in Un chien an­ datoti e in Meshes..., partendo dall’osservazione e dal confronto di Pierre Batcheff e Maya Deren posti ac­ canto alla finestra nelle rispettive opere, la differen­ za tra cinema surrealista e cinema psicodrammatico. Nel primo caso assistiamo al potere di evocare un certo voyeurismo, nel secondo avvertiamo la capacità del medium di creare una esperienza riflessiva, un fondato dialogo tra erotismo e coscienza. La sessua­ lità di Un chien andalou è comica ed esuberante (si pensi appunto al tema dell’aggressione maschile sul­ la femmina) mentre quella di Meshes..., come quel­ la degli altri film trance, è priva di comicità, tenta di liberarsi dalle ossessioni attraverso un gesto rivelatorio. Rispetto alla tematica surrealista che pone un humour composto di irrazionalità, ilarità, virilità, il trance film costruisce il rapporto uomo-donna al­ l’interno di una tendenza suicida dove l’irrazionale viene ricondotto entro schemi di comprensione ra­ zionale n. Dopo aver abbandonato l’idea di realizzare The Witch’s Cradle, che avrebbe dovuto mettere in re­ lazione, attraverso la cabala, gli antichi spiriti del male ed i moderni impulsi inconsci, rendendo mani­ festa la sfida lanciata dai maghi e dalle streghe me17 Cfr. P. Adams Sitney, The Idea of Morphology, cit., pagg.

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dievali al concetto di tempo e di spazio, la Deren con­ tinua sull’esempio del suo primo film. At Land, infat­ ti, si può considerare il primo/puro trance film e l’opera attesta di un’accresciuta creatività per l’in­ tervento di un notevole approfondimento tecnico e per l’ampliamento del concetto di cinema totale che, già attuato in Meshes..., sta a significare l’uso creativo della m.d.p. capace di interpretare cose e persone in termini esclusivamente visivi. La camera, secondo la concezione del film totale, non deve tanto mostrare un fatto, una cognizione, quanto uno stato mentale e come tale essa deve anche divenire prolungamento dei sensi del filmmaker. E ciò tramite uno stile oggettivo che, per effetto di ri­ baltamento, possa descrivere un conflitto soggettivo. At Land inizia su una spiaggia deserta dove il movi­ mento rovesciato delle onde deposita una ragazza addormentata. La ragazza si sveglia, si inerpica sul tronco di un albero fino a trovarsi in un locale do­ ve si sta svolgendo un party; qui, strisciando so­ pra la tavola, passa ignorata dagli astanti. Scorge poi una scacchiera e afferra la regina che cade in una stretta cavità; ella la segue nel suo precipitare fino ad una zona rocciosa. E qui la regina viene travolta e trascinata via dalle onde. Maya Deren considerava questo film un incontro con un universo fluido e in­ coerente, un viaggio mitologico nel XX secolo Anche in At Land appare, perfezionandosi, la com­ plessa tecnica che consiste nell’iniziare un movimen­ to in un luogo e terminarlo in un altro. Tale processo tende a unificare tempo e spazio, a creare connes­ sioni tra cose, persone e luoghi lontani, per raggiun­ gere, abolito ogni effettismo della camera, una totale visualizzazione di uno stato mentale puro. Frutto di una collaborazione tra James Broughton e Sidney Peterson appare nel 1945 The Potted ,H Cit. in L. Jacobs, L'avventurosa storia del cinema ameribino, Einaudi, Torino, pag. 621.

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Psalm che può considerarsi legata all’area onirica creata dalla Deren Tuttavia se Peterson, nelle opere seguenti, sceglierà un indirizzo picaresco, Broughton si dibatterà invece tra comicità e « poe­ sia » (poesia nel senso delle esperienze cinemato­ grafiche finora descritte). È ancora a Cocteau che quest’ultimo si riferisce esplicitamente; riconosce di essere stato affascinato da La Belle et le Bete e di essersi ispirato in generale ai suoi procedimenti (ol­ tre ad essersi richiamato a quelli di Maya Deren e dei surrealisti). Probabilmente egli ha derivato dal surrealismo quel complesso humour che caratterizza i suoi film piu famosi, non riducendosi mai ai modi della commedia e del divertimento ma tentando di\ giungere all’unione di tragedia e comicità19 20. Anche per Broughton, come per gli altri filmmakers di questo periodo, si ribadisce il carattere onirico e poetico. In The Necessity of Living poetically in an Electronic Age egli affronta il problema della poesia nel film e nella vita. L’universo non appare ordinato e sano come spiega la scienza, ma alquan­ to confuso e incoerente; il compito del poeta allora è quello di studiare le forme dell’invisibile che sor­ ge dietro quella presenza magmatica. I poeti deb­ bono essere illogici e fermi in questa scelta, opporsi alla critica e all’estetica, impadronirsi di quegli atti che rendono la loro arte un’espressione rituale, una funzione sacerdotale, un’illuminazione intima e per­ sonale, afferrare il rapporto poesia-visione secondo il pensiero di Nietzsche e Blake. Da queste considera­ zioni generali il cinema, mezzo tecnologico per ec­ cellenza, diventa un’operazione totale, una comples­ sa organizzazione di materiali e procedimenti. Per Broughton allora, diversamente da Dreyer che lo concepisce architettura, da Bergman che lo associa 19 Per la sua atmosfera cupa, chiusa e delirante The Potted Psalm si avvicina molto alle esperienze descritte. 20 Cfr. l’intervista a James Broughton in « Film Culture » n. 61, 1975-76.

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alla musica, dalla Deren che lo assimila alla danza, il cinema è come un mosaico dove le immagini risul­ tano essere tanti piccoli tasselli ordinati dal montag­ gio, forma e stile del film. Inoltre il fatto che le im­ magini riflettano la relazione tra realtà e sogno por­ ta a considerare la successione dei fotogrammi una estensione della poesia, una mirabile avventura, non un problema letterario. La creazione del film poe­ tico è ricerca di liberazione, atto d’amore, legame tra personale, impersonale, transpersonale, connes­ sione tra presente, passato e futuro, reciprocità di senso e non-senso2I. La stretta correlazióne di es­ senza ed esperienza, lo studio sul come sentiamo, sogniamo, visualizziamo, conduce alla comprensione della molteplicità visionaria della camera che ha libe­ rato l’arte dai vincoli della rappresentazione. Il ci­ nema è un microcosmo privo di confini ed il suo schermo è magico e ipnotizzante, è un modo di co­ gliere ogni cosa, di visualizzare il suono e ascoltare il movimento, di esistere soltanto nella continuità, di occupare nel pensiero e nel sentimento una inestin­ guibile durata, di affermare quindi, mediante l’ap­ porto di Lumière e Freud, l’Arte come Assoluto22. Il primo film interamente girato da Broughton fu Mother’s Day (1948). Opera che rientra indub­ biamente nella corrente onirica, anche se non si può definire propriamente trance, tale primo film è una strana mescolanza di feticci, enigmi, rituali segreti pri­ vi di senso che ha come punto di riferimento un al­ bum di famiglia. £ un film molto controllato che si avvale di un singolare ritualismo nella relazione tra attori e oggetti. In sostanza è una satira del culto della madre e descrive il ricordo dell’infanzia in una

21 Cfr. J. Broughton, The Necessity of Living poetically in an electronic Age, «Film Culture» n. 61, 1975-76, pag* 26. 22 Si veda per ampliamenti J. Broughton, What magic in the lantern?, in «Film Culture» n. 61, 1975-76.

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persona che vive quest’esperienza non come un bam­ bino ma come un adulto che torna al passato senza modificare alcun tratto della sua personalità o della sua età. Il film è diviso in sei parti ed i passaggi dall’una all’altra mettono in luce una deliberata strut­ tura comica per la rapida successione di metafore e sorprese visuali. L’inventività di Mother's Day non ha esercitato alcuna influenza sull’avanguardia suc­ cessiva, di conseguenza non ha imitatori. Curtis Harrington ha portato a termine nel 1946 Fragment of Seeking che può definirsi pienamente un trance film. Ritroviamo qui i caratteri di omoses­ sualità e narcisismo che solitamente definiscono tali opere. Questi aspetti poi creano quell’atmosfera par­ ticolare che rinvia ad un’esperienza vissuta trauma­ ticamente. Il simbolismo impiegato ad esprimerli si manifesta con toni cupi e ossessivi che corrispondono ad una precisa connotazione psicologica. Le riprese in interni (o quelle in esterni nelle quali però tutto è funzionale ai chiusi segni mentali) accentuano que­ gli elementi e si dissolvono in un clima da incubo. Il protagonista prova contemporaneamente attrazio­ ne e repulsione per una misteriosa ragazza che egli cerca di raggiungere con un lungo inseguimento per oscuri corridoi e rimane deluso dalla impossibilità di incontrarla; si distende quindi sul letto dove, di li a poco, la persona tanto desiderata viene inaspetta­ tamente a sedersi. All’atto di abbracciarla la prota­ gonista si trasforma in uno scheletro ghignante e il giovane fugge atterrito. Perseguitato dalla visione egli giunge infine davanti ad uno specchio che gli rivelerà la sua vera natura. Molto giustamente Lewis Jacobs osserva come l’unità e la totalità d’effetto pongano questo film sul piano di Certe novelle di Edgard Allan Poe23. Tale legame mostra inoltre la sua appartenenza ad un cli­ 23 L. Jacobs, op. cit, pag. 626.

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ma misto di angoscia e psichismo che è possibile rintracciare in Watson e Webber (che abbiamo già ricordato tra i primi autori dell’avanguardia ameri­ cana). Curtis Harrington continuerà ad approfondi­ re, negli anni seguenti, questo tenebroso gioco psi­ chico, ma uscirà dall’ambito ristretto e marginale dello sperimentalismo per affrontare il circuito com­ merciale. Sempre in clima di ossessioni bisogna ricordare Fireworks di Kenneth Anger, carico di sogno e imagerie erotica; un’opera altamente personale che, come ritiene Sitney, ha l’intensità di una poe­ sia di Rimbaud. Anger elabora questa « fallica apocalisse » all’età di diciassette anni, dopo aver girato altri film di cui il più importante, Escape Epi­ sode, anticipa i tratti distintivi della sùa operazione cinematografica. Qui infatti appare il tema della ma­ gia e l’uso dei travestimenti introduce l’espressione della nevrosi omosessuale. Fireworks, prodotto nel 1947, tratta di un in­ cubo notturno o, meglio ancora, di un terribile so­ gno ad occhi aperti. Un giovane si alza in piena notte e dopo aver errato in posti oscuri e tetri (si ricordi che in questo genere di film si perde il significato realistico e referenzialistico delle scene in esterni) che danno alle immagini un particolare senso di paura scaturente dal delirio del sonno, viene aggredito e violentato da alcuni marinai. Momenti estremamente simbolici accompagnano questa agghiacciante visione. In uno di questi assistiamo allo squarciamento del petto e alla scoperta di un cuore pulsante entro il\ quale scorgiamo un cronometro. In un’altra le na­ rici, messe in evidenza con un primo piano, vengono sottoposte alla pressione di due forti dita che fanno schizzare da esse un liquido latteo. Il film termina con l’esame di alcuni oggetti e foto-ricordo di fami­ glia; è pure verso la fine che si svolge la scena (no­ tissima) del pene che s’incendia.

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Appassionato di cabala e magia nera, Anger, dopo una breve parentesi durante la quale gira Eaux d’ar­ tifice y elegante ed elaborata visione delle terrazze e fontane di Villa d’Este a Tivoli alla ricerca di una graziosa fìguretta androgina, dedica molti anni alla preparazione di Inauguration of The Pleasure Dome per manifestare qui la sua conoscenza dell’occultismo secondo la dottrina di Alasteir Crowley. Il tema dell’uranismo e dell’ermafroditismo si af-\ ferma anche in Swain di Gregory Markopoulos che possiamo considerare un altro importante esito del trance film. Appare già in quest’opera la lucida sen­ sibilità dell’autore per i temi estetizzanti che con­ traddistingueranno il suo stile. Il film è tratto da Fanshawe di Hawthorne. In esso si esprime piena­ mente l’idea markopoulosiana sull’arte e sulla fun­ zione dell’artista e Hawthorne si mostra quale splen­ dido ispiratore. Si esalta l’immagine dell’io, l’ansia di ritrovare la propria identità spirituale. Da que­ sta appassionata indagine interiore affiora la cura di un’espressione totalizzante, sacra, intoccabile, diafa­ na. L’uomo e la sua superiore connotazione si strin­ gono in un’unità indistruttibile che il film racchiude in un principio di elevazione, in un assoluto atteg­ giamento contemplativo. Il mito allora darà un si­ gnificato a questa tensione verso il sublime e il pro­ tagonista avrà le sembianze di Giacinto, eroe roman­ tico e narciso in perpetua disarmonia con le norme sociali. Swain vuole essere anche un messaggio profetico; vuole invitare l’umanità a conquistare il regno della bellezza. La scelta è univoca. Scrive infatti Marko­ poulos: « Mi domando quanti di noi autori di film si rendano conto che ciò che stiamo creando è il fu­ turo linguaggio di una fantastica era. Le nostre me­ schine preoccupazioni per la bomba atomica e per i problemi sociali diventano al confronto ridicoli. Quan­ ti filmmakers comprendono oggi di lavorare alla crea­

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zione di un nuovo linguaggio del genere umano, e cioè ad una nuova religione? » 24. Il motivo principale della poetica markopoulosiana induce a considerare l’arte un’accezione mistica e a ritenere che essa s’esprima in linguaggio universale. Immediato è il riferimento al decadentismo francese e più in particolare all’estetismo inglese, alle teorie di Walter Peter25 poiché in esse (teorie) è racchiusa l’opi­ nione che tutte le arti tendano alla musica. Siamo in­ fatti colpiti dall’elaboratissimo Ritmo, che non ri­ vela soltanto il prodotto di un’abilità tecnica nel mon­ taggio ma il risultato di una complessa operazione cinematografica al cui centro sta un’alta forma poe­ tica. Il Ritmo si svolge secondo l’immaginazione, la Bellezza, l’Associazione, cui corrispondono praticamente il film, la finzione, il montaggio; la compren­ sione di questo procedere spirituale è racchiusa nel­ l’idea del Temenos, tempio di perfezione nel quale gli spettatori eletti, separati dalla quotidianità del vivere, potranno giungere alla meta di una visione estatica. Il film allora diventa un atto di progressiva dema­ terializzazione, un evidente rifiuto degli aspetti fi­ sici, solitamente connessi alle immagini trasportate dal movimento, allo scopo di definire un’arte che non sia conoscenza ma comprensione-contemplazione, sintesi delle arti, luce inestinguibile che si può tra­ passare ma non distruggere. Swain, come tutti i film di Markopoulos, è ricco di pregnanti simboli che danno all’intera opera l’im­ pressione di una vaga estensione ad infinitum di ri­ chiami ed analogie. All’inizio appare il simbolo della luna che l’autore, secondo l’interpretazione Ji Mir­ cea Eliade, riporta alla corrispondenza, di ordine mistico, esistente tra i vari livelli della realtà cosmica 24 Cit. in A. Leonardi, Occhio mio dio, Feltrinelli, Milano, 1971. 25 Gregory Markopoulos rifiuta tuttavia ogni riferimento .il decadentismo o all’estetismo inglese.

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e talune modalità della esistenza umanaAltri sim­ boli sono il pesce in stato di putrefazione che vedia­ mo nella scena in cui il protagonista s’appresta ad avere rapporti spirituali con la propria ombra e il verme sull’ala dell’uccello morto, descritto da Eliade, come simbolo dell’Essere. Il pesce, l’uccello ed i fiori sono stati trovati casualmente e immediatamente utilizzati ma altre volte l’autore impiega intenzional­ mente certi oggetti comuni assunti simbolicamente come la calza da donna che dapprima vediamo va­ gare leggera nell’aria davanti alla macchina da presa, e poi scopriamo galleggiare sull’acqua quando il pro­ tagonista passeggia sulla spiaggia. Sempre nell’am­ bito simbolico bisogna infine ricordare la presenza sconvolgente dell’ariete e dei coccodrilli (alla quale Markopoulos attribuisce un significato demoniaco) che si muovono nell’istante in cui il protagonista si inerpica lungo un difficile pendio, alla ricerca dispe­ rata di una liberazione dalla società n. Donald Weistein, che l’autore indica come il solo che abbia scritto un articolo penetrante sulla sua opera, considera Swain il prodotto di un rifiuto nei confronti dello stereotipato ruolo maschile che la società e le donne tendono ad ogni costo a conser­ vare. Tale rifiuto diventa una fuga, un rapimento fantastico, e durante questa fase avviene il passag­ gio da una sessualità rozza e repulsiva ad una pu­ rezza tipica dell’attività creativa, della natura e della personalità individuale rimasta inviolata26 28. Dunque 27 l’artista è ancora una volta androgino. Il film quale film, vale a dire il film quale elaborata espressione artistica, diventa un mezzo teso alla purificazione, uno strumento capace di inalzare all’ « aria forte delle cime », un progetto di liberazione dai vincoli costrit­ 26 Cfr. G. Markopoulos, Da « Fanshawe» a « Swain », in Caos Phaos, Feltrinelli, Milano, 1976, pag. 46. 27 Queste indicazioni sono state tratte dallo scritto Da « Fans­ hawe » a « Swain », cit., pag. 47. 28 Ibidem.

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tivi della società. Il protagonista di Swain risulta dalla sintesi del personaggio dello Straniero, cosi come viene descritto nel libro di Hawthorne, e della figura del giovane Fanshawe. Il film, con il suo si­ gnificativo linguaggio, offre un intenso effetto di spaesamento che ricorda in un certo senso quella tec­ nica, avviata già dalla Deren, di iniziare un movi­ mento in un luogo e continuarlo in un altro. L’ope­ razione della Deren aveva il significato di una com­ plessa e coerente metafora totalizzante in grado di creare un nesso tra cose lontane e diverse. La esclusione improvvisa di una immagine e la rottura psicologica e logica conseguente è funzionale al pro­ cesso in atto. È il caso della scena dei coccodrilli con la successiva e di quelle relative alla funzione visiva attribuita alla calza da donna. Appare inoltre la costante poetica del mito che, già impiegato nei film precedenti, diverrà oggetto di precipua esplo­ razione. L’inizio di Swain riassume simbolicamente l’intero significato del film: il protagonista osserva allo spec­ chio il suo doppio (a questo proposito si può dire che tale film prende l’avvio dal finale di Fragment of Seeking} e ripercorre a ritroso in un certo senso la sto­ ria dell’opera di Harrington. Dalla scena successiva, che ci mostra alcune statuette di giada fatte a pezzi e calpestate (forse rappresentavano l’immagine di Budda), prende l’avvio una corsa inframezzata da varie immagini tra cui quella di una donna accanto ad un uccello (esplicito richiamo al mito di Leda e il cigno), ed altre già ricordate. Il ritmo della fuga si sospende per un attimo quando il protagonista indugia ad osservare il ri­ lievo di un nudo classico per poi riprendere fino a quando egli non si distenderà sul letto. In quest’ultitima scena una ragazza vestita di bianco gli si avvi­ cina e tenta di baciarlo, ma il giovane sfugge a quel contatto e riprende la corsa. Dopo aver attraversato un lungo corridoio egli si ferma per levare le mani ver­

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so raggi di luce che filtrano dalla finestra, evidente omaggio alla divinità solare, dice Alfredo Leonardi, identificandosi l’autore in Giacinto, amante del So­ le a. Si succedono inoltre varie situazioni tra le quali ricordiamo il tentativo di liberare un fiore dal muschio che lo sta soffocando. Il finale, un’inqua­ dratura (dall’esterno) di un edificio dalle fine­ stre sbarrate, definisce il tema dell’esclusione pre­ cedentemente trattato in termini poetici. Gli avveni­ menti che compongono il film, sorpresi nel loro at­ teggiamento di fuga, carichi di suggestivo simboli­ smo costruito su un razionalissimo lavoro di con­ giunzione tra le parti, ci danno l’impressione di un incessante sfondamento di luoghi che s’aprono l’uno di seguito all’altro nel tentativo di circoscrivere un mondo interamente immaginario. Prima di Swain Markopoulos aveva già prodotto tre pregevoli film, Psyche, Lysis, Charmides, riuniti sotto un unico titolo: Du Sang, de la Volupté et de la Mori (1947-48). Avvertiamo già in queste prime opere l’uso molteplice del linguaggio, con i suoi pia­ ni rigorosamente contrapposti, e il movimento re­ ciproco di sogno e realtà. Si ha qui il primo esempio di un Eros raffinatissimo che ci riporta alla generale concezione dell’arte in Markopoulos. « Colore — egli dice — è Eros ed Eros il primo Dio uscito dalla not­ te del Caos primordiale, quello da cui sarebbero de­ rivate tutte le cose viventi. Ed era Ermafrodito ». L’evidente legame con il cinema di Cocteau, partico­ larmente in alcune scene di Psyche, rafforza l’opi­ nione che considera Du Sang, de la Volupté et de la Mori molto vicino all’esperienza trance. Un altro regista, che in questi anni riflette tale genere di film d’arte personale, raggiungendo cosi una definita atmosfera onirica, è Stan Brakhage. Le sue prime opere comunque si allontanano dal trance film. In Reflections on Black (1955), The Way to 29 Cfr. A. Leonardi, op. cit., pag. 46.

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Shadow Garden (1955) e Flesh of Morning (1956) infatti si pone il rapporto tra Eros e coscienza, ma la diversità che li contraddistingue rispetto al genere finora trattato è che tale rapporto si svolge in ter­ mini eterosessuali. Anche qui assistiamo ad un’agonia sessuale, ma essa non ha gli stessi caratteri di Fire­ works e Swain. Comune tuttavia è la ricerca di un’area fantastica determinata dal rapporto tra espe­ rienza estetica, tecnica, ed esplorazione della co­ scienza. Reflections on Black pone le basi per la ten­ denza visionaria che culminerà in Dog Star Man e svolge un incontro-integrazione tra fantasia, imma­ ginazione e vistaw. Infatti il film tratta delle « vi­ sioni » di un cieco anticipando cosi quanto dirà Brakhage sul vedere ad occhi chiusi. In The Way to Shadow Garden si assiste all’an­ goscia spirituale e sessuale di un giovane che, segre­ gato in una casa squallida e opprimente, è portato ad accecarsi. Il passaggio della pellicola al negativo mostra, nella scena dell’accecamento, la trasforma­ zione del volto insanguinato del protagonista in un volto nero segnato da rivoli bianchi; nella successiva scena assistiamo al mutamento del giardino (dove erra il protagonista ormai cieco) che diventa una pre­ senza scura, indefinita. Questa alternanza di positivo e negativo è un’eco di ciò che avviene nella poesia moderna quando essa si rende consapevole che le parole sono i suoi materiali e che il poeta è poeta delle parole fisiche, non dell’illusione30 31. Se in questi ultimi anni, con gli studi di Parker Tyler e P. Adams Sitney, si è potuto comprendere il fenomeno underground nella sua interezza, in pe­ riodi ormai lontani ci fu invece molta ostilità per la produzione sperimentale. Lo stesso Jonas Mekas, principale sostenitore del cinema indipendente e marginale, guida di un’intera generazione di registi 30 Cfr. P. Adams Sitney, The Idea of Morphology, cit., pagg. 9 IO. 31 Ibidem, pagg. 10-11.

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underground, si pronunciò in un primo momento con­ tro il carattere adolescènte del « poem film ». Nel saggio The Experimental Film in America, ap­ parso nel 1955, egli avversa il « lirismo personale » di questi autori, dissente sull’uso delle frustrazioni adolescenziali, deplora le perversioni sessuali alle quali i film sembrano costantemente riferiti. Il rifiuto veniva giustificato in base all’assenza (vantata in tali opere) di un ampio significato mo­ rale, di uno scopo più elevato ed umano che porti a superare la manifesta imitazione di modelli poetici derivanti da James Joyce. Cosi — diceva Mekas — se da un lato il protagonista (l’attore) non appare che nelle sembianze di un moderno zombie, la fi­ gura femminile viene per lo più connessa a funzioni soprannaturali, ad una presenza magica che sostitui­ sce la personalità concreta e vivente. Ma l’attacco forse più duro egli lo rivolge alla omosessualità che gli pare assumere un aspetto cospirativo. Si rimpro­ verano questi autori di superficialità, creazione mec­ canica priva di contenuto sociale, assenza di disci­ plina artistica, abbandono di un fine morale che avrebbero spinto la loro esplorazione verso mete « altamente spirituali » 32. In una nota del 1970 Mekas dichiarerà che molti critici sono ancora oggi tenacemente fedeli a quello schema idealistico e moraleggiante (per ulteriori chia­ rimenti sulla critica americana basti ricordare la po­ lemica suscitata contro di esso da Susan Sontag) che ha cosi infaustamente servito « giudizi » sull’arte. Il trance film, prima fase del cinema underground, ci appare ora chiaramente come un tentativo di rag­ giungere spazi interiori non indagati, come un’aspira­ zione a rivelare angosce personali ritenute social­ mente degenerate. In tal modo, mediante Fatten * 32 Cfr. J. Mekas, The Experimental film in America, in Film Culture Reader, Seaker & Warburg, Londra, 1971, pagg. 21-26.

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zione feticistica verso oggetti d’affezione, l’uso di travestimenti, il tema adolescente dell’omosessualità e del narcisismo, la vasta patologia di sentimenti, prende forma, in una completa affermazione del filmmaker quale poeta, un genere di film evocativo che ha il suo centro in un’estasi totalizzante.

Capitolo secondo



L'opera mitopoietica

II trance film comincia a evolversi in una forma complessa e matura a metà degli anni cinquanta. Se in Swain era possibile riconoscere una matrice caligaresca in quanto l’intera costruzione risultava dalle allucinazioni mentali del protagonista *, nelle opere, che chiameremo mitopoietiche, scompare la presen­ za di una cupa oppressione interiore per aprire spazi « romantici » nei quali le ossessioni e le angosce as­ sumono un carattere più esterno, più chiaro, senza traumi o digressioni masochistiche. La omosessualità, il narcisismo, la tematica onirica e il potere dell’in­ conscio continuano a manifestarsi anche in questo nuovo genere, ma tutte le componenti rinviano ad un linguaggio specifico e quindi ad una molteplicità di forme che si costituisce secondo un universo mitico. II mito può essere ripristinato ed in questo caso si tratta per lo più dell’antico mito greco; oppure può essere interamente ricreato e riguardare prodotti o effetti di ordinari modi di comunicazione umana. Il nuovo orizzonte visionario cosi costituito vie­ ne caratterizzato dalla grande tradizione mitica, tanto splendidamente e « scientificamente » descritta da Robert Graves, scrittore particolarmente amato da­ gli autori sotterranei, o trova espressione in quello sfogo iconografico della contemporaneità su cui Ro­ land Barthes ha profondamente riflettuto. Da un lato possiamo elencare Twice a man, IIliac Passion di 1 Anche Sitney pone la relazione tra Swain e il Caligari di Wiene. Si veda P. Adams Sitney, Visionary film, cit., pagg. 144-145.

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Gregory Markopoulos e Dog Star Man, The Art of Vision di Stan Brakhage, dall’altro Scorpio Rising di Kenneth Anger e Flaming Creatures di Jack Smith. Il momento di massima espansione di tale forma cinematografica si ebbe nei primi anni sessanta; a quell’epoca risalgono i film citati. È in quel periodo che il cinema sotterraneo ebbe il primo importante riconoscimento, oltre a mostrare la sua autentica, esu­ berante creatività. Il film mitopoietico prende l’avvio da Ritual in Transfigured Time di Maya Deren e termina approssitivamente con Dreamwood di James Broughton. £ interessante notare come in ambedue i film, indicati quali limiti del nuovo genere, si possano fa­ cilmente scoprire residui della precedente forma tran­ ce. Essi mostrano un continuo processo di manipola­ zione e interrelazione fra tutti i loro aspetti, senza esprimere con ciò la volontà di catalogare, dividendo e denominando il fenomeno underground. In Ritual in Transfigured Time le immagini non sono tanto simboliche quanto archetipiche. Il loro valore nasce dalla funzione di tramite per una mitopoiesi cinematografica poiché, oltre alla pre­ senza di miti, si tenta di costruire un rituale secondo il linguaggio esclusivo delle immagini. In Dreamwood, concepito inizialmente come una variazione del mito di Teseo, vengono utilizzati, allo scopo di un arricchimento tematico, altre figure come quella di Ippolito, Apollo, Sisifo e Narciso. Il film narra di un bosco sacro, regno di poteri femminili, nel quale sono riposti misteri mai svelati. Sarà l’eroe-poeta ad inoltrarsi in questo « labirinto » e a strappare il grande segreto. La forma mitica appare in Inauguration of Pleasu­ re Dome (1954) di Kenneth Anger, si manifesta anco­ ra in The Very Eye of Night (1959) di Maya Deren, Narcissus (1956) di Willard Maas, The Magic Fea­ ture di Harry Smith, e giunge alla maturità espressi­ va nei primi anni sessanta. Il passaggio a questa

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forma è determinato dal mutamento corrispondente al decadere degli aspetti freudiani e all’emergere di quelli junghiani. Il film di conseguenza si affermerà come una trasfigurazione del Mito. In campo cinematografico il principale riferimen­ to è ancora Le Sang d’un Poète di Jean Cocteau, per i suoi frequenti richiami alla mitologia greca; ma non si deve trascurare una tradizione letteraria che fa capo a Poe, Melville, Emerson, Withman e Dick­ inson. La dipendenza da tali autori, oltre ad una nuova tematica mitica, è connessa alle particolari pratiche narrative. Anche i film di Ron Rice e di Jack Smith, che stanno tra realismo e allegoria, si aprono a nuovi miti, quelli legati alla liberazione sessuale e al viag­ gio allucinatorio. Essi rappresentano una libera irru­ zione del desiderio e del perverso. Flaming Creatures e The Queen of Sheba meets the Atom Man vengono vissuti come un atto di gioiosa evasione. Bisogna inoltre ricordare Ed Emshwiller che, dopo Thanatopsis, caratterizzato da una forte impronta personale e da una notevole carica psichica, porta a termine Relativity, insolita combinazione di elemen­ ti oggettivi e soggettivi, e principalmente Harry Smith con il suo Heaven and Heart Magic (195060) che possiamo definire complessa animazione epi­ ca. Harry Smith, dedito agli studi di occultismo e alchimia fin da tenera età, cerca in tale opera di col­ legare la sua passione esoterica al cinema d’anima­ zione. La complessa fusione del vario materiale tec­ nico offre allo spettatore un’esilarante ricerca grafica. Il ritmo frenetico dello scomporsi e del ricompor­ si di forme elementari come il quadrato, il rettan­ golo, il cerchio, crea l’atmosfera tipica dei suoi film. The Magic Feature (altro titolo di Heaven and...) s’accentra sulla figura del dio Siva; è un ampio studio della cosmologia indiana, un’infinita ed eterna ripro­ duzione e trasformazione di tutta la realtà. Il lin­ guaggio cinematografico segue quasi il progetto di una

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totale sostituzione del reale mediante simboli grafici, i caratteri di un immenso sforzo metafisico. Nel cinema d’avanguardia il film mitopoietico se­ gna il passaggio da una forma lineare (quella tran­ ce), che implicava tensioni ed enigmi, ad una forma sferica dove l’unione dei vari elementi rimanda ad un movimento ritmico circolare, ad ima specie di opera sinfonica. Si procede da un cinema di con­ giunzione ancora letterario, ad un cinema metafo­ rico2. Già Parker Tyler, alla fine degli anni cinquan­ ta, scrivendo del cinema sperimentale, individuava precisi legami tra poesia e rituale, tra film e danza; probabilmente fu indotto a tali considerazioni da Ritual... e da Choreography... di Maya Deren. Egli comprese come questi giovani registi, indagando sia il comportamento comune, semplice, quotidiano, sia la tematica sessuale dell’adolescente, abbiano rive­ lato i rapporti esistenti tra rituale e mito/L’esame dei momenti antecedenti il film mitopoietico con­ dotto da Tyler permette di comprendere il passag­ gio al nuovo genere. Infatti egli vede nelle opere di Peterson, Maas, Brakhage, Deren, Harrington e An­ ger, un approfondimento dell’emozione in chiave vi­ suale; intuisce una sorta di Rito di Iniziazione che si era conservato soltanto nella poesia e nella danza^. Questi film tenderebbero quindi a scoprire nel com­ portamento ordinario le prime origini del rituale e del mito in cui l’umanità s’immerge misticamente. La creazione di visioni inconsuete deriva dalla tra­ sformazione del quotidiano in onirico, del conscio in inconscio, e ciò in un vagare tra sorprendenti me­ tamorfosi nel tempo e nello spazio, come se questa « magia » fosse giornaliera e concreta quanto la realtà dalla quale abbiamo iniziato l’operazione di ro2 Cfr. P. Adams Sitney, The Idea of Morphology cit., pagg. 17-18.

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vesciamento3. Sitney sottopose ad un’analisi molto particolare alcune opere direttamente mitopoietiche, o che di tale genere sono la prima, in qualche modo incompleta, apparizione. Si tratta di Hand Written di Charles Boultenhouse, Eaux d'Artifice di Kenneth Anger, Choreography for Camera di Maya Deren e Dog Star Man di Stan Brakhage. Egli volle appli­ care ad un più vasto ambito dell’avanguardia il con­ cetto di Imagismo che Brakhage aveva usato per de­ finire la struttura dei suoi film. L’immagine, per Ezra Pound (Gaudier-Brzeska), non è propriamente un’idea ma un vortice dal quale, attraverso il quale, nel quale, le idee sono continuamente mosse; essa non è quindi una semplice decorazione ma la possibilità di divenire il fulcro di un’intera poesia. Sitney trasporta l’idea di centralità dell’immagine alle singole opere citate e rievoca il salto attraverso lo spazio di Cho­ reography for Camera o la mutazione della donna in fontana in Eaux d‘Artifice come esempi di tale co­ struzione poetica. Mentre nel primo film la macchina da presa è intenta a seguire il danzatore che, ad ogni salto, attraversa luoghi sempre diversi e la cui testa rotante viene dal critico americano confrontata con quella di Bodhisattva, nel secondo assistiamo ad un altro tipo di danza riguardante il montaggio, il co­ lore, i movimenti della camera e l’accompagnamento musicale. I quattro film ricordati, pur nella loro diversità, hanno in comune una precisa attitudine plastica. Essa è la visualizzazione di uno stato mentale, psi­ cologico, creativo, naturale. Inoltre queste opere pos­ siedono un’atmosfera rituale, una dimensione univer­ sale, che, nel caso di Brakhage, può essere ricolle­ gata al Noh giapponese. Lo stesso Brakhage defini­ sce la prima parte di Dog Star Man « un dramma 3 Cfr. Parker Tyler, A preface to the problems of the Expe­ rimental Film, in P. A. Sitney Film culture Reader, Seeker and Warburg, Londra, 1971, pagg. 50-51.

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Noh in lento movimento » e coordina l’intero film sull’interazione di elementi fìsici e metafìsici in una prospettiva macro- e microcosmica. La mitopoiesi apre un orizzonte romantico che soltanto l’opera di Andy Warhol romperà. Sorge una particolare visione dell’oggettivo: l’affermazione del­ l’io e dell’immaginazione includente il tema, comu­ ne a questi registi, della reintegrazione di un’esisten­ za divisa e di una coscienza frantumata, il progetto di una liberazione totale (comprendente anche l’ac­ cezione orgiastica) in una versione glorificante della creatività, ritorna a consolidarsi in un’area recupe­ rata al « principio del piacere ». Lo stato di anomia in cui versa l’umanità, avvi­ lita e degradata dalla società tecnologica, priva della propria « autonomia spirituale », esorta al recupero di una coscienza che passa attraverso la fusione di erotico ed estetico. Brakhage ricava la sua veste ro­ mantica attingendo all’espressionismo astratto, al vii sionarismo di Blake, cercando di raggiungere, me-1 diante il cinema come visione, l’essenza dei feno­ meni naturali che si esprime nel ritmo incessante del fluire cosmico (al quale corrisponde il continuo mu­ tare delle immagini sullo schermo). Il suo Dog Star Man è la descrizione della nascita della coscienza at­ traverso la lotta dell’uomo con la natura, visione universale. Markopoulos rifugge dalla realtà per chiudersi in un clima estetizzante dal quale lanciare l’offensiva alla mediocrità dell’esistenza umana. Lo strumento per il superamento della civiltà in decomposizione è un tempio spirituale, il Temenos, luogo di contempla­ zione e annullamento, e custode della Bellezza. Il film si erge cosi nell’oggettivazione del pensiero sublime. Maya Deren fa confluire tutti i suoi sforzi in ciò che ella definisce « rituale »; da esperta antropoioga sa dare un senso molto preciso a questo termine e attribuire ad esso una specifica connessione tra mon­ do mentale e mondo apparente. Interpreta comples­

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samente questa relazione sulla base di miti e filosofie orientali allo scopo di distruggere la convenzione di Tempo e Spazio con un lento processo di trasfi­ gurazione. Anger infine aderisce a questa tendenza per il collegamento da lui operato tra sapere magico e processo filmico. Gli studi sull’esoterismo rien­ trano in quest’area visionaria ed ogni immagine as­ sume un preciso significato simbolico; le sue opere si debbono intendere in una complessa pregnanza animistica. La camera diviene in questo caso magico strumento di rivelazione dell’ignoto. Un attento esame delle opere della Deren succes­ sive a At Land presenta ancora materiali sufficienti a giustificare un coerente accostamento a Le Sang d’un Poète. Infatti da un lato il film dell’autore fran­ cese ci riporta ai temi comuni del trance film, alla deambulazione sonnambolica, alla mente priva di orientamento, dall’altro esso mostra i caratteri del mito e del rituale. Sitney scopre una relazione di somiglianza tra Le Sang d’un Poète e Ritual in Transfigured Time individuando nel mito di Pigmalione, nella pratica illusionistica della camera, elementi non fortuiti di associazione. Dopo le considerazioni sullo stato ipno­ tico e sulla spiccata proprietà narcisistica, il con­ fronto si estende alla fusione delle varie arti (poesia e film per Cocteau, danza e film per la Deren), sog­ getto di un rituale trasfigurato e trasfigurante. L’innamoramento della statua (elemento di chia­ ra derivazione cocteauiana) è il motivo ispiratore di alcuni film della « seconda avanguardia » e rappre­ senta il tentativo di creare un’arte ermafrodita, ca­ ratteristica di quell’atmosfera torbida e ipnotica che pervade il trance film. A tale motivo si deve unire, per comprendere l’opera mitopoietica, l’idea del film come sorpresa di una condizione poetica (que­ sta componente esisteva anche precedentemente ma ora si sviluppa in termini meno vaghi) e l’esplo­ razione di un’esperienza mitologica interiore. Maya

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Deren tuttavia non rimane chiusa nella dimensione « alla deriva » creata da Cocteau. Cogliamo la diver­ sità nell’uso di un aspetto costruttivo, « classico », « scientifico », del tema magico e rituale. È infatti con estremo rigore che la regista americana applica il suo metodo cinematografico operando un’inver­ sione nei confronti di molta parte dell’avanguardia tesa esclusivamente a richiami dionisiaci. I suoi film evitano quella lacerazione, che Sitney indica col termine greco « sparagmos » *, alla quale invece sono sottoposte altre opere. Estranei a tale pro­ cesso di smembramento, i film della Deren èsulano dal progressivo e totale annullamento per ritrovare l’equilibrio nella conformità di una logica compo­ sitiva. Mentre in Le Sang d’un Poète il ritmo si svolge se­ condo un’andatura sonnambolica, come se vivesse in un’aria malata, e secondo un uso magico del mon­ taggio scandito da un progredire per stanze-episodi, nei film della Deren l’accostamento di brani alquanto ridotti di inquadrature successive e analogiche crea un dinamismo capace di far scaturire, sulla base di uno stato eventico materiale, un linguaggio artico­ lato e simbolico. La regista americana giunge invero ad una forma particolare di sonnambulismo cinema­ tografico procedendo dall’esterno verso l’interno, in­ teriorizzando la materialità degli oggetti, rendendo scenografica la realtà, non la mente. Ella si impegnò a teorizzare un « film totale » dalla complessa forma ritualistica. Il primo stadio di questa indagine si basa sull’idea di « coreografia visuale », che può essere chiarita con un esempio tratto dagli scritti della stessa Deren5. Dal chiari­ mento di questa forma coreografica della visione si comprende il carattere totale dell’opera che deriva * Cfr. P. Adams Sitney, Visionary film, cit., pag. 81. S'M. Deren, Planning by eye. Notes on «individuai» and « industriai » film, in « Film Culture » n. 39, 1965, pag. 37.

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da un’operazione coinvolgente il linguaggio. L’atto creativo non deve infatti essere inteso come un’atti­ vità mistica ed esoterica ma come un principio in­ terno al processo stesso del significare nel medium 6. In base a queste considerazioni l’arte ci appare nella sua specifica qualità formale78 che la regista ameri­ cana costruisce secondo un ampio intervento rituale. La complessa « forma ritualistica » cosi costituita opera con un intento di spersonalizzazione, di libe­ razione dai compiti ristretti dell’individualità e si caratterizza principalmente nell’esercizio assoluto del­ la coscienza ’. Uno spiccato attributo « razionale » è quindi la prima componente del metodo dereniano che riesce a rendere reciproci idee ed elementi visivi, ad imporre la corrispondenza di movimento della vi­ sione e di movimento della mente creatrice. In que­ sto senso le infinite « combinazioni » di sensazioni, desideri, ansie, sono riunite in un’attività di pen­ siero che mentre elabora immagini applica contempo­ raneamente le sue variazioni intellettuali. Il cinema in tal modo riflette su di sé l’elaborazione teorica. Con Choreography for Camera inizia l’esperimen­ to di danza filmica, il « corecinema ». Questo metodo si esplica mediante l’analisi non naturalistica dei ge­ sti e movimenti del danzatore ed allo stesso tempo come l’adeguamento del mezzo. Si tratta in defini­ tiva dell’interpretazione filmica del gesto, del suo as­ sorbimento, non della sua semplice riproduzione fo­ tografica. Il film comincia con una lenta panoramica (su una foresta di betulle), che descrive un percorso 6 M. Deren, film Medium as muse and means, in « Film Culture » n. 39, 1965, pag. 40. 7 « Un artista sarebbe il primo ad insistere che ciò che im­ porta in un quadro di Cezanne non è che rappresenti una mela o una pera, ma la forma nella quale sono state concepite e rappresentate, e, che questa forma è la distinzione tra una na­ tura morta di Cezanne ed una con frutti simili» (M. Deren, / cavalieri divini del vudu, Il Saggiatore, Milano, 1959, pag. 18). 8 Cfr. M. Deren, An anagram of ideas on art, form and film, in « Film Culture » n. 39, 1965, pag. 17.

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circolare. Appare in distanza un danzatore che, gua­ dagnando le distanze in successive fasi di sposta­ mento, entra ed esce ripetutamente dal campo visivo fino ad arrivare in primo piano. Da qui poi si allon­ tana piroettando, ma il movimento del balzo s’inter­ rompe e si conclude mostrando, nell’inquadratura successiva, il danzatore che atterra nella Egyptian Hall del Metropolitan Museum. Un altro balzo, un altro stacco, un’altra inquadratura e vediamo il dan­ zatore giungere in una stanza d’appartamento. An­ cora un altro balzo e un altro stacco e ci troviamo su un’alta scogliera sovrastante un fiume. Il salto suc­ cessivo avviene in primo piano e il movimento del danzatore assume l’aspetto di un volo grazie all’im­ piego della tecnica di rallentamento. Il movimento del danzatore attraverso luoghi cosi diversi tra loro ha il significato di uno sfondamento del muro spazio-temporale. Si riconferma la conce­ zione cinematografica della Deren secondo la quale essa è libera espansione dell’idea creativa senza li­ miti o codici, tesa ad un’espressione globale impli­ cante la corrispondenza tra film e danza. Questo pro­ getto elaborato e applicato in Choreography... parte dalla considerazione che la danza sia idea e forma del film, per concludersi nel movimento di immagini non quotidiane. Lo spettatore può inconsapevolmente ricordare al­ lora l’atmosfera di Meshes of the Afternoon (dove il personaggio si muoveva in un universo privo di leggi materiali e geografiche) ma ogni relazione o si­ militudine svanisce se consideriamo che il ruolo del­ l’attore, per influenza della danza stessa, diviene ora più formalizzato, più stilizzato, mentre nel primo ì'tlm esso obbediva ancora ad una funzione naturali­ stica. L’infrangersi delle regole fisiche dinanzi al (lusso filmico di Choreography... è la prima afferma­ zione di un intervento mentale che si fonda su un assorbimento « metafisico » della realtà.

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A metà degli anni quaranta Maya Deren intra prese quegli studi di antropologia e filosofia orien­ tale ai quali si sarebbe in seguito quasi esclusi­ vamente dedicata. Ritual in Transfigured Time rap­ presenta la loro piena realizzazione filmica. Vi si esperimenta il « processo di idealizzazione cinema­ tografica ». Il film infatti, volendo esaminare il tema dell’espressione non rappresentativa, affronta una scena realistica in chiave antinaturalistica. Ritual... è costruito sulle riprese di un party in­ terpretato dalla camera in modo molto singolare: i movimenti degli invitati sono riprodotti secondo un codice di convenzioni che li rendono elementi di una varia coreografia. Durante il party, concepito come un incessante fluire e rifluire di questi gesti e comportamenti, un giovane cerca di raggiungere, attraverso la folla, una ragazza che, presumiamo, vorrebbe iniziare a corteg­ giare. Si tratta invece di un semplice incontro senza alcuno sviluppo. Il film giunge al suo culmine quan­ do il danzatore-stregone atterrisce la ballerina-vedova (queste due figure sono definite in senso metafori­ co) trasformandosi in statua. La donna fugge; la sta­ tua riprende sembianze umane e la insegue. A que­ sto punto il passaggio della pellicola al negativo « tra­ sforma la vedova vestita di nero in una sposa dal­ l’abito bianco ». Ritual... termina con questa meta­ morfosi nella quale il colore definisce il significato del soggetto. Tale cambiamento è il risultato del­ l’aspirazione teorica e tecnica dell’autrice, che fa­ ceva dipendere quest’opera da un’interna « metamor­ fosi critica », dalla trasformazione di una vedova in sposa9. Il motivo della statua, evidente richiamo al mito di Pigmalione, e l’inserimento di un’esperienza mitologica su uno psicodramma intimo (elementi mitici si uniscono a turbamenti psichici), possono ri­ 9 Sul concetto di « metamorfosi critica » consulta L. Jacobs, L'avventurosa storia del cinema americano, cit., pag. 623.

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cordare nuovamente Le Sang d’un Poète, anche se, come già si è detto, l’uso di un montaggio rapido e l’impiego del rituale divergono profondamente dal cinema onirico di Cocteau. Il rituale in questo caso diventa coscienza del linguaggio cinematografico, tec­ nica ciclico-ripetitiva, annullamento di tutti gli ele­ menti individuali nello spazio mentale della visione i0. In Ritual... si unificano, in un’operazione ideale della camera, i due processi « danza nel film » e « film nella danza » cogliendo, in una situazione de­ terminata, i nessi anche piu lontani tra ^cose e per­ sone e svolgendo tali processi secondo una pratica che esclude la concretezza. Continua qui, infatti, quel procedimento, distinto già in Meshes..., consistente nello spezzare una sequenza che inizia, procede e si conclude in luoghi sempre diversi. Maya Deren, che rifiuta l’appellativo di cinemato­ grafia surrealista attribuito ai suoi film accettando invece quello di cinematografia sperimentale, chiama Ritual... un’opera « classicista ». Con tale denomina­ zione ella vuole indicare non una definizione degli elementi reali, immaginari, psicologici, astratti, del contenuto ma un concetto di metodo che svilupperà o trascenderà gli elementi stessi del contenuto. Dopo il progetto di Film in Progress, che avrebbe dovuto affrontare il rapporto tra rituale e gioco in­ fantile, la Deren si orienta, con Meditation on Vio­ lence, verso un cambiamento in termini cinemato­ grafici dei principi metafisici che la boxe cinese sot­ tende. Si distingue tra un « boxare interiore » (wutang), basato sul flusso dinamico e costante dei movi­ menti che hanno la proprietà di convertire sull’av­ versario l’aggressività da lui stesso espressa, ed un « boxare esteriore » {shao-lin} fondato sull’esplosione di una violenza priva di limiti. Il soggetto della boxe, come viene sviluppato in Meditation on Violence, as­ 10 L’uso del rituale nel film viene affrontato particolarmente ip M. Deren, Ritual in Transfigured Time, « Film Culture » n. 39, 1965, pag. 6.

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sume una chiara connotazione metafisica se si con­ sidera che la regista americana aveva preso come pun­ ti di riferimento il Book of Change di Confucio e The Way of Life di Lao Tze. Il boxare interiore di­ venta una pulsazione continua della camera che adatta h sua mobilità al ritmo del respiro, all’alter­ nanza di inspirazione ed espirazione. La boxe può cosi essere un’attività mentale, una meditazione di­ latata. Dopo alcuni anni di assenza appare inaspettato, nel 1959, The Very Eye of Night (sonorizzato da Teji Ito) che la regista definisce un sistema metafi­ sico in senso poetico e non in senso cristiano. Si trat­ ta di un’esplorazione sia interiore che esteriore del­ l’universo. Riappare il tema del mito: si rappresen­ tano varie divinità. Il film è la registrazione, soltanto con riprese in interni, di un balletto dove i danza­ tori sono visti orbitare in un cielo di carta. Inoltre l’opera è totalmente in negativo cosi da creare l’im­ pressione di una danza notturna. I movimenti degli attori sono seguiti da panoramiche diagonali la cui alternanza e direzione creano precisi percorsi geo­ metrici. Nell’operazione cinematografica della Deren vedia­ mo confluire da un lato un tentativo di organizzare razionalmente tutto il materiale, dall’altro quello di prefigurare un’assoluta metafisica del mezzo. In real­ tà si assiste a ciò che possiamo chiamare « atteggia­ mento trascendentale ». Se il film deve legarsi stret­ tamente all’esperienza, poiché esso inizia e finisce a metà di un movimento cosi da divenire un periodo di visione della vita che continua prima e dopo all’in­ finito 11, deve pure allo stesso tempo precostituire la condizione dell’intervento delle immagini. In defini­ tiva lo studio, la coscienza delle forme a priori dell’esperienza filmica deve necessariamente rappor41 Cfr. Meditation on Violence, in « Film Culture » n. 39, 1965, pag. 18.

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tarsi al fluire delle cose riprodotte dal mezzo. In que­ sto senso la cinematografia di Maya Deren è « ci­ nematografia critica », volta alla ricerca dell’origine delle nostre conoscenze e del processo che le defini­ sce in relazione agli oggetti rappresentati.

Il fascino esercitato da Kenneth Anger è dovuto principalmente alla sua capacity di costruire uno sti­ le originale, barocco, fantastico, oscuro, sede di una molteplice fusione di magia, simbolismo, mito e mi­ stero. Invocation of my Demon Brother, presentato nel 1969, ultimo risultato di questo eteroclito in­ contro, sembra scatenare, attraverso le immagini, i movimenti, i simboli, le situazioni, tremende forze nascoste. La danza del Mago, la svastica nel suo si­ gnificato solare, le invocazioni ad Horus creano un febbrile rituale satanico. Un cinema cosi costruito pone un rapporto di similitudine tra i fotogrammi che compongono il film e i segni che formano il les­ sico magico; il processo di significazione non pro­ viene tanto da una referenzialità naturalistica quan­ to da un’iconografia di simboli precostituiti. Si ot­ tiene un linguaggio di pure immagini, non di cose. Una lettura legata a questa considerazione non è li­ mitata a Invocation of my Demon Brother ma coin­ volge tutti gli altri film con la sola esclusione di Fire­ works. Si tratta di una lettura non fondata sul si­ gnificato letterale in quanto non è necessario per lo spettatore comprendere la complessa morfologia del­ l’occulto. Jonas Mekas sostiene che il significato let­ terale, il confronto sui dettagli, sia automaticamente connesso ad una visione d’insieme che definisce, già in partenza, un giudizio non modificabile (a maggior sostegno della sua tesi, egli cita le osservazioni di Baudelaire sul metodo di « comprensione » delle opere di Delacroix). È con tale adeguato sistema di osservazione che possiamo affrontare le opere di An­ ger. Soltanto in questo modo ci è dato cogliere di esse la forma, il movimento, il colore. Il rifiuto di

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Mekas per un piano di comprensione letteraria con­ cernente i significati e le idee è connesso alla costru­ zione di un’estetica orientata « romanticamente », piu disponibile ad un sentimento di ineffabilità. En­ tro tale ambito viene compresa tutta l’opera di An­ ger esploratore cosmico u. La personalità di Anger, osservata attraverso i suoi film, sembra essere il risultato di varie figure come quelle di Flash Gordon, Lautréamont, William; Beckford, George Méliès, Alfred Kinsey,. Aleister Crowley. Da questa bizzarra mescolanza nasce una specifica operazione rituale piuttosto che una inda­ gine sotterranea dei desideri. Ogni sua opera, dice Richard Whitehall, si presenta nella forma di un cerimoniale, pagano e mitico, più precristiano che anti­ cristiano 12 1314 , costruito attorno ad una complicata imagene esoterica. Per il suo satanismo il critico americano ha inol­ tre confrontato invocation... e Rosemary's baby, ri­ levando le differenze sulla base del solo climax ses­ suale. Il primo, nonostante impieghi un certo espli­ cito erotismo del corpo, manifesterebbe una minore sessualità di Rosemary's baby (egli si riferisce in par­ ticolare alla scena durante la quale la protagonista viene posseduta dal demonio). L’erotismo di Invo­ cation... infatti sarebbe più propriamente determina­ to ad un accostamento tra i colori, dal blu all’oro, dal nero al cremisi”, si definirebbe più astrattamente. Il secondo si aprirebbe ad un eros più scoperto, più riconoscibile, privo di allusioni riposte. Adams Sitney si sofferma ad esaminare l’aspetto dionisiaco dell’opera di Anger. In Inauguration of Pleasure Dome (1954-60) secondo il critico ameri­ 12 Le osservazioni di Jonas Mekas sono contenute in un bre­ ve scritto sul cinema di Kenneth Anger, apparso in « Film Cul­ ture » n. 48-49, 1970, pagg. 1 e 2. 12 Si veda anche l’intervento di Richard Whitehall in « Film Culture » n. 48-49, 1970, pagg. 3 e 4. 14 Ibidem.

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cano si assiste ad una specie di lento avvelenamento a livello narcotico, esotico, diabolico; in Scorpio Ris­ ing (1963) il regista illustra il mito del motocicli­ sta americano con riferimenti a Hitler, Cristo e Bran-' do. Anche l’uso creativo/della droga viene utilizzato e ricondotto al potere bacchico (il secondo titolo di Inauguration... è Lord Shiva’s Dreams, cioè L.S.D.),s. Il tema della stregoneria si manifesta particolar­ mente in Invocation..., composto da un diluvio di immagini che unisce il tema del rituale tradizionale alla frenesia della cultura contemporanea. Al fumo dell’hashish, al simbolo della svastica, al gioioso par­ ty cui partecipano uomini nudi, s’alternano brani di documentario. Un’inquadratura ricorrente di soldati che scendono da un elicottero militare viene da Sitney piu o meno ricollegata metaforicamente alla espres­ sione politica dell’aumento per contrasto dell’ener­ gia dionisiaca. Inauguration of... e Scorpio Rising comunque non trascurano la mitopoiesi cinemato­ grafica. Il primo celebra ravvicinarsi dell’Era del­ l’Acquario, periodo di grandi trasformazioni, che mette fine all’epoca millenaria dei pesci, dominata dal cristianesimo e dalla repressione degli istinti umani più vitali. È una festa sfrenata dove il Mago, travestito da dio Shiva, e la Donna Scarlatta, nelle ve­ sti della dea Kali, attorniati da vari personaggi mito­ logici, invocano Horus, il dio supremo dell’Era del­ l’Acquario. Anger, tornato in America dopo un lungo periodo di permanenza in Europa, intravide nelle bande dei giovani motociclisti gli ultimi resti del mito del cow­ hoy. Scorpio Rising si apre con la vestizione del mo­ tociclista; l’andatura lenta di rituale scandisce il tempo di ripresa mentre una motocicletta di grandi dimensioni viene fatta risaltare dalla camera in tutta la lucentezza delle sue cromature. Si ricordi poi la 15 Si veda il breve intervento di P. A. Sitney in « Film Cui iure » n. 48-49, 1970. pagp- 4 e 5

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scena orgiastica della consacrazione del protagoni­ sta nella quale si sparge di senape il sedere dell’ini­ ziato e lo svilupparsi del film lungo i miti già citati. Scorpio Rising si chiude con la distruzione della mo­ tocicletta uscita di strada; il lampeggiare della luce rossa di un’autoambulanza giunta per il soccorso è l’ultima immagine che afferriamo prima della fine. Dall’esame delle sue principali opere Anger pare un regista temibile perché creatore di storie satani­ che ma nello stesso tempo, dietro quei culti miste­ riosi e quegli strani personaggi, ci accorgiamo della finzione teatrale, della ironia celata, della profonda manipolazione del mezzo che l’autore impiega con molta abilità e accortezza. Soltanto seguendo questa considerazione è possibile afferrare il legame esisten­ te tra la metafora del Male, l’aspirazione visionaria e la povertà del mezzo. Dalla consapevolezza di ciò deriverà un’osservazione attenta non alla trama di simboli occulti ma al complesso intersecarsi di segni che rifiuta la mera deformazione rappresentativa. Ed è mediante tale comprensione che ci apparirà per­ spicuamente l’intera struttura dell’opera di Anger, in cui la figura dell’artista svanisce in quella del Mago (illusionista) e l’espressione cinematografica si risolve in un agognato disordine di pulsazioni luminose. Un esame della produzione di Brakhage impone all’osservatore un’attenzione analitica atta ad ope­ rare precise scelte nei confronti dei molti aspetti ori­ ginali mostrati. L’immensità del materiale giustifica e rende necessario un procedimento critico che raggruppi le varie forme altrimenti disperse. Tre sono le componenti del cinema di Brakhage: la prima, de­ finita trance, si limita alle esperienze iniziali, la se­ conda, denominata lyrical occupa per lo piu il perio­ do che va da Anticipation of the Night (1958) i Thight Line Lyre Triangular (1961), la terza, caratt terizzata da aspetti mitopoietici, riguarda in partico­ lare Dog Star Man e The Art of Vision. Nelle opere trance lo spazio soggettivo è ancora vincolato a

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modi letterari, mentre in quelle lyrical esso appare in tutta la sua novità dilatandosi nell’espressione pu­ ramente visuale, nella creazione di immagini dipen­ denti da un’attività gestuale che ha nell’espressioni­ smo astratto la sua più coerente formazione. Nel film lyrical annoveriamo, oltre ad Anticipation of the Night, che può ritenersi la prima completa espressione di tale genere, Window Water Baby Moving (1959), Cat's Cradle (1959), Sirius Re­ membered (1959), The Dead (1960), Thight Line Lyre Triangular (1961), Mothlight (1963), Vein (1964), Fire of Water (1965) (gli ultimi quattro vennero girati durante il periodo epico). Questo ge­ nere di film non è iniziato con Brakhage; ha i suoi precedenti in Notebook di Marie Menken, opera composta da brani girati negli anni quaranta, e in Bells of Atlantis (1955) di Jan Hugo, splendida elaborazione di una poesia di Anais Nin tó. Il film lirico è sostanzialmente definibile dall’uso della ca­ mera libera, dalla metafora di essa come occhio che non ha misteri, che non guarda ma rivela, dal po­ stulato poetico dell’io in prima persona. Da Reflection on Black a Thight Line Lyre Triangu­ lar avviene il passaggio, sostiene Sitney, dal trance film al lyrical film e quest’ultima tendenza precostiluisce la complessa forma mitopoietica di Dog Star Man. Già in Anticipation of the Night assistevamo al grande tentativo di fondare l’intera opera sulla natura dell’esperienza visiva, ad un primo contatto con l’aspirazione visionaria. In seguito s’accresce l’idea del film come visione ed emerge la concezione del filmmaker e della camera come strumenti che permettono l’avvento di un libero flusso di imma­ gini. Brakhage giunge qui a condividere la teoria ili Platone che in Ione considera l’artista semplice collegamento tra la Musa e gli spettatori. Col tempo 16 Per tali considerazioni si veda P. Adams Sitney, Tbe Idea of Morphology, cit., pag. 12.

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aumenta pure la possibilità di difesa nei confronti dell’allusione, elemento cinematografico preminen­ te, che non deve interferire con il processo relativo alla « vera » visione. Anticipation of the Night non segna soltanto l’ini­ zio di un nuovo genere cinematografico ma è anche un preciso momento di rottura nei confronti del mito dell’artista omosessuale. Infatti durante le ripre­ se Brakhage si sposa, distruggendo quella convinzio­ ne tanto radicata da poter essere ritrovata ad esem­ pio in Orphée di Jean Cocteau quando compren­ diamo che il protagonista, consegnato nelle braccia di Euridice, è ormai privo della poesia. In Antici­ pation of... tuttavia confluisce un desiderio suicida. Considerando che è necessario fondere la vita pri­ vata e la ricerca visiva allo scopo di giungere alla comprensione dell’opera cinematografica, il gesto di Brakhage, come di molti altri filmmakers (ci si riferi­ sce alla scena finale del suicidio), appare significati­ va. La catarsi che scaccia ed equilibra le paure e le ansie celate è una componente fondamentale del metodo di Brakhage; si ricordi che lo stesso autore, nei suoi scritti, collega l’asma, da cui è affetto da nu­ merosi anni, con i processi psichici e con i processi relativi alla visione. L’estinzione del corpo, i rap­ porti sessuali, il parto, i momenti di vita quotidiana, si costruiscono all’interno di un film sull’interazione arte-vita. 'Wedlock House: an Intercourse prende l’avvio da una lite tra Brakhage e la moglie per ter­ minare in una scena di coito. Window Water Baby Moving è la registrazione del parto di Jane. Non1 avrebbe dovuto avere però la forma di un « film! fatto in casa » né di un film scientifico; era necessario invece che considerasse il corpo e gli evenj tuali desideri inconsci di morte. Sirius Remembered si compone nelle riprese della progressiva putrefa» zione del cane morto di Brakhage, in modo da svi­ luppare concretamente l’impressione della cessazio­ ne della vita. In quest’ultimo film la moglie Jane

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riconobbe nei movimenti circolari compiuti dall’au­ tore nel riprendere il cadavere, un comportamento simile a quello dei cani che si strusciano attorno ad un qualsiasi animale in decomposizione cospargen­ dosi il collo con il fetore della putredine. Ella com­ prese che Brakhage stava lentamente riportando in vita quell’animale facendo assorbire dalla macchina da presa ogni sua trasformazione. L’autore dichiara di essere stato influenzato, nella costruzione di Sirius Remembered, dalla prosa di Gertrude Stein, in quanto essa comprende la fun­ zione ripetitiva; come ogni parola ripetuta diviene nuova, cosi ogni immagine ripetuta assume nuova pregnanza. Durante il montaggio di Sirius Remembe­ red Brakhage soffrì di allucinazioni e senti spesso delle voci, segni di quell’incubo di morte che lo as­ saliva spesso. Il cinema con Brakhage si fa sempre piu interiore mediante l’esplorazione di tutti i sensi,7. In questo periodo l’autore americano considera l’arte una forma chiusa che non coinvolge gli spettatori. L’assenza di coinvolgimento è un principio dal quale sorge una intera concezione dell’universo rappresentato dalla contrapposizione di yin e yang e il film nasce entro un processo di necessità vitali che lo rendono espe­ rienza immediata e non « forma totale coinvol­ gente » “. Sirius Remembered è l’anticipazione di Dog Star Man; in quest’ultimo il cane risorgerà a nuova vita. Nel Preludio a tale opera l’idea principale era quella di unire simbolicamente l’azione di un uomo che sale su un monte, abbatte un albero e ne ridiscende, in un arco di tempo formato dall’articolarsi delle stagioni e dell’intero corso del giorno. Si pensava di procedere dall’inverno e dall’alba attraversando la 17 Cit. in A. Leonardi, Occhio mio dio, dt., peg. 68. 18 Per il rapporto tra natura e creazione artistica si veda S. Brakhage, Metafore della visione, Feltrinelli, Milano, 1970, pag. 39.

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primavera e il mattino per raggiungere la mezza esta­ te e il mezzogiorno nel quale sarebbe stato abbat­ tuto l’albero. Qui il progetto si fa nebuloso e si in­ terrompe ma l’autore aspirava a comporre in termini di immagini la storia dell’Uomo. La necessità di un preludio derivava da un rapporto stabilito con l’at­ tività notturna del sogno il cui materiale, raccolto nei giorni precedenti, informa i successivi. In que­ sto ambito, il clima psicodrammatico, cosi recupe­ rato, assume un valore assai diverso da quello avuto nel trance film. « Volevo — dice Brakhage — che Prelude fosse un sogno costruito per l’opera che do­ veva seguirlo piuttosto che una cosa surrealista ispi­ rata dal sogno; mi attenni ad usi pratici del mate­ riale onirico... » Proprio per questo suo carattere il preludio do­ veva preannunciare i temi e i punti fondamentali che si sarebbero sviluppati nelle parti seguenti. Di­ versamente da Preud Film, opera mai portata a ter­ mine, che avrebbe dovuto illustrare il processo di evoluzione onirico collegando ciò che non ricor­ diamo a ciò che distintamente è impresso nella no­ stra mente, Prelude svolge il tema della trasforma­ zione di immagini inaccettabili in immagini accet­ tabili. Praticamente Brakhage si trovò nella condi­ zione di elaborare materiali incomprensibili e di procedere con molta cautela; a ciò s’adegua il mon­ taggio che cerca di abbinare apprensioni surrealiste a interventi casuali ispirati a John Cage, ristruttu­ rando tutte le parti girate secondo brani complemen­ tari. Prelude infatti è composto da due rulli di cui il primo è quello del caos ed il secondo quello del sogno trasformato. In essi tuttavia non si può rin­ tracciare espressamente né casualità né surrealismo.! Tale film, basandosi su immagini risalenti ai sogni,1 include il concetto di « visione ad occhi chiusi », ina­ spettata esplosione di immagini che ci sorprende 19

Ibidem, pag. 46.

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quando, durante il giorno, chiudiamo gli occhi e osserviamo il passaggio di forme e contorni attraver­ so lo sfondo rosso della palpebra. Brakhage, affrontando Dog Star Man, si comporta da un lato come Bunuel e Dall rispetto a Un chien andatoti, lasciando cioè che le cose si sviluppino da sole, che si costituisca un materiale caotico e incom­ prensibile; pone dall’altro come termine di riferi­ mento una complessa simbologia legata al mito del­ la creazione qual è rappresentata in antiche monete cretesi. Per Fautore americano infatti molte culture conservano miti di creazione assai simili rappresen­ tanti, in varie forme particolari, elementi come l’al­ bero, l’uomo, il serpente e cosi via, che avvertiamo essere il tema centrale di Dog Star Man. Queste im­ magini sono collegabili ai disturbi idiotossici. Vale a dire che si vuol cogliere, in un solo momento, sia patologicamente sia intellettualmente, la storia del sin­ golo uomo come storia dell’intera umanità, lo stato in­ dividuale della malattia come stato universale delle possibilità della mente. Dog Star Man, inizialmente fissato a quattro ore e mezzo, venne ridotto ad ottanta minuti, ma il suc­ cessivo The Art of Vision, che ne compone in esten­ sione tutto il materiale costitutivo, avrà la durata prevista. Dog Star Man è formato da quattro parti che dovrebbero scandire la salita del boscaiolo sul * monte l’abbattimento dell’albero e la successiva di­ scesa sullo sfondo delle stagioni in mutamento. La pri­ ma parte è caratterizzata da ima lenta trattazione, una specie di « Noh al rallentatore » che ha per cen­ tro l’uomo in una dimensione macro e microcosmica. La seconda si svolge attorno al tema del bambino quale simbolo di vitalità non mortificata da consue­ tudini sociali ed ha un ritmo veloce simile a quello con cui le impressioni colpiscono la mente e i sensi di un fanciullo. La terza ha come soggetto l’amore nella sua espressione sessuale; le riprese, mediante l’uso di lenti deformanti, creano però un effetto di

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scarsa riconoscibilità. Qui si sovrappongono le im­ magini del corpo di Brakhage, appositamente alte­ rato in modo da assumere sembianze piu o meno femminili, con quello del corpo della moglie asso­ ciato a caratteri maschili, ai quali infine s’aggiunge la visione di organi interni come il cuore, il fegato, ecc. La quarta alterna alle inquadrature di Brakhage ad­ dormentato lampi di oggetti che introducono il tema distruttivo del protagonista alle prese con l’albero abbattuto. La scena dell’ascia che ripetutamente col­ pisce la pianta inerte rappresenta il culmine di una crisi liberatoria che celebra le forze distruttive ce­ late nel « vandalico » boscaiolo (ricordo che questa immagine, come già si è avvertito, è legata da un lato ai miti di alcune antiche culture, dall’altro ai sogni ricorrenti dell’autore causati da disturbi asmatici). Dopo aver terminato Dog Star Man Brakhage si dedicò alla realizzazione di The Art of Vision che deve considerarsi il logico proseguimento di quella ricerca visuale. The Art of Vision impiega, secondo ogni possibile combinazione, tutto il materiale del film precedente, in modo da creare un’osservazione distaccata dell’intero processo visivo con le sue alte­ razioni semantiche ed i suoi progressivi accoppia­ menti di immagine. « Strutturalmente The Art of Vision si sviluppa col seguente ordine: Preludio rullo A. (primo strato), Preludio rullo B (secondo strato), Preludio rulli A e B insieme, così come ap­ pare in Dog Star Man; prima parte di Dog Star Man, che è composta da un solo strato; seconda parte, co­ me appare nel film originale, e cioè con due strati A e B, poi rullo A e rullo B separatamente e successi­ vamente; rullo A della terza parte (che è formata di tre strati), rullo B, rullo C, rulli A e B insieme, rulli A e C insieme, rulli B C accoppiati, e finalmente tutti e tre i rulli ABC insieme così come li si vede in Dog Star Man; parte quarta del film, formata da quattro strati ABCD, poi rulli ABC, ABD, ACD,

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BCD, AB, AD, AC, BC, BD, CD, A, B, C, D. Il film dura quattro ore e un quarto20 ». Durante l’arduo lavoro di Dog Star Man e The Art of Vision che si protrae per circa quattro anni, Brakhage continua ad esprimersi nella sua vena poe­ tica più autentica producendo brevi film. Bisogna ricordare tra questi Mothlight e il gruppo dei Songs. Mothlight è stato realizzato incollando sulla coda trasparente di una pellicola 16mm ali e frammenti di falene, petali di piccoli fiori, minuscole foglie, e ricoprendo il tutto con un’altra striscia di celluloide pure trasparente. Questa specie di sandwich venne fatta passare nella stampatrice ottica per ricavare un originale da cui trarre le vere e proprie copie. I Songs invece furono prodotti ad 8mm in condi­ zioni economiche molto precarie e descrivono sem­ plici brani di vita quotidiana; sono lieder poetici che filtrano attraverso spazi di tenera luce, un im­ menso universo interiore ed esteriore. Tra i Songs, My Mountain and Rivers è forse il più interessante ed il più nuovo perché presenta legami alquanto evidenti con le opere di Andy Warhol. Meno riu­ scito a questo proposito è Love Making (1968-69) la cui scena di rapporti omosessuali è, rispetto a quelle dell’ex pittore pop americano, meno rile­ vante. Dopo Scenes from Underchildhood, dove i bam­ bini, visti come strumenti per rievocare l’infanzia dell’autore, si trasformano, con l’uso di lenti defor­ manti, in esseri mostruosi, Brakhage esula dall’am­ bito visionario fino a quel momento indagato per af­ frontare argomenti e tematiche diverse. Nel 1970 viene infatti girato Eyes che pare quasi un esempio di cinema diretto. Si tratta di una registrazione del lavoro compiuto da alcuni agenti di polizia in un piccolo paese, di un esame dei rapporti interpersonali che tale mestière cela. I poliziotti non si vedono né w A. Leonardi, op. cit., pag. 81.

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in volto né a figura intera, ma solo attraverso primi piani, dal particolare dell’abito a quello della nuca, dal dettaglio della scarpa alla sezione di un braccio. Ad una superficiale osservazione l’impiego della tec­ nica di reportage invita a credere che si tratti di un esempio di cinema vérité\ ma, come sostiene Jerome Hill, sono evidenti i riferimenti alle opere prece­ denti come l’uso del dettaglio e del montaggio agile ed elaborato21. In Sexual Meditation * I: Motel si ha la stessa impressione di riprese realistiche poiché cogliamo nel suo sviluppo la lenta esplorazione di una stanza d’al­ bergo dove la macchina da presa si sofferma su cose e particolari, per evidenziare lo squallore che vi re­ gna. Tale film non si riduce sempre all’aspetto docu­ mentaristico bensì si distingue da esso per lo studio della luce e del colore e per le penetranti analisi della percezione visiva22. Possiamo comunque, nonostante gli ultimi risul­ tati, pensare alle opere di Brakhage solo nei termini della grande visione (mi riferisco in particolare a Dog Star Man e a The Art of Vision), dell’espressio­ ne degli impulsi naturali, dell’io centro concreto dell’universo come emanazione di innumerevoli raggi. In questo senso il film assume l’aspetto di una to­ tale liberazione di energie individuali che conflui­ scono in una visione totale, cosmologica, avvolgente. E qui, tra rivelazione e transitorietà, si afferma il Mito della Creazione e il principio della superio­ rità dell’arte. Lo schermo si definisce in questo pro­ gressivo avvicinamento di arte e vita come filtro di un’interazione tra interno-esterno, immaginazionerealtà, visione-natura. 21 J. Hill, Brakbage's « Eyes », in « Film Culture » n. 52 1971, pagg. 43-47. 22 Per ulteriori informazioni a proposito di questo film si ve­ da F. Camper, Sexual Meditation * 1: Motel, a film by Stati Brakhage, in « Film Culture » n. 53-54-55, 1972.

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Swain si chiude con la ricapitolazione di alcuni fo­ togrammi secondo un ritmo molto rapido che vedeva la figura del protagonista seguita o preceduta da in­ quadrature di edifici e ornamenti. Tale concitato rias­ sunto introduce il rapporto, di tipo musicale e ma­ tematico, esistente tra fotogrammi singoli o nuclei di fotogrammi che l’autore porterà alla più alta rea­ lizzazione in Twice a man e in The llliac Passion. Questa complessa ed elaboratissima operazione ci permette di comprendere l’intera trama estetica che avvolge i film di Markopoulos. Sulla base di questo processo si può infatti, da un lato, esporre la tecnica che è a fondamento dell’opera markopoulosiana, dal­ l’altro presentare l’ambito di pensiero, di poetica, al­ l’interno del quale viene definita, senza distinguere più tra tecnica e teoria, l’idea di un cinema che sia mosaico di immagini-concetti. Appare inoltre il tema, altrove citato, dell’artista ermafrodito. H filmmaker deve fondere le sembian­ ze dell’uomo, della donna, del fanciullo, nel tenta­ tivo di porsi accanto alla materia primordiale a, deve prorompere in una individualità caratterizzante, deve lasciarsi invadere da quel fuoco divino e da quella fi­ ducia che gli antichi greci chiamavano « thrasos » M. Tale figura di filmmaker possiede, all’interno del New American Cinema, centinaia di immagini ine­ brianti, gli ardori che rinviano agli scrittori di inni latini di cui tratta splendidamente Pater23 25. Il suo 24 scopo principale non è di inseguire la realtà o la fan­ tasia, ma di « accostarsi alla propria anima » abor­ rendo le implicazioni psicologiche, sociologiche, po­ litiche e contrastando gli abili intellettuali o i critici, nell’intento di far rivivere lo spirito più puramente creativo. Il filmmaker dunque avrà il più alto esito artistico quando potrà raggiungere la bellezza ideale 23 Cfr. G. Markopoulos, Chaos Phaos, Feltrinelli 1976, pag. 12. 24 Ibidem, pag. 117. 25 Ibidem, pag. 156.

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(non l’ideale di bellezza) attraverso il film come ri­ velazione divina. Lo schermo vivrebbe nel tempo del­ l’immobilità e dell’Eternità (in esso si unisce pre­ sente, passato, futuro). Questa particolare idea del­ l’immagine cinematografica abbraccia l’intero uni­ verso (non concerne comunque la conoscenza per­ ché l’arte non può dirsi conoscenza) tende a riuni­ re l’essenza delle varie arti. Tale processo sintetico è mosso dall’operare dell’autore creativo costretto a vivere in estrema solitudine. Rifugiarsi in una torre d’avorio non è quindi una scelta quanto un’esplicita costrizione, una condanna26. Il filmmaker del New American Cinema avversa il cinema commerciale, Hollywood, le fondazioni, gli stessi registi indipendenti che riproducono i difetti delle grandi case di produzione ponendosi l’obiet­ tivo esclusivo del profitto; il suo dissenso non è di tipo sociale quanto spirituale. Egli infatti è medico di immagini che trasportano lo spettatore oltre la sfera mondana, verso un genere superiore di esisten­ za. A questo proposito Markopoulos rivaluta il « ci­ nema d’amatore » come alternativa a quello di gran­ de consumo2728e questa difesa dell’autore libero da vincoli commerciali ci ricorda le teorie espresse dal­ la Deren sulla libertà del « dilettante » e sulle inca­ pacità e incoerenze creative del « professionista ». Il rifiuto di ogni compromesso ha il significato, per Markopoulos, di un disporsi a forma di croce che costituisce l’anima del filmmaker che deve pro­ teggersi da una società legata al denaro e alla guerra. Da qui la necessità di un rifugio, di un luogo ideale che separi l’artista da quell’orrendo fenomeno. Il « film in quanto film » è lo strumento della rir vincita spirituale poiché il suo « realismo » deve es­ sere inteso ai vari gradi dellTmmaginazione, second 26 Ibidem, pag. 101. 27 Si veda lo scritto Feste innocenti in G. Markopoulos op. cit., pagg. 124-154. 28 Cfr. G. Markopoulos, op. cit., pag. 11.

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do la Luce, il Colore, il Modo d’Essere, e la cui Con­ sapevolezza nasce dal processo che vede la stessa realtà scaturire dalle possibilità fantastiche29. Esso allora, negando Passetto letterario, si prospetta come un montaggio implicante Tatto, Forma, Gusto e Odo­ rato, per tendere alla massima Irrealtà, per divenire un’arte sacra che, per lo spettatore ideale, ha il si­ gnificato di una ricerca dell’invisibile. Il cinema di Markopoulos è oggettivazione del pensiero. La realtà del film non ha contatti con la realtà fisica; la pellicola contiene lo scorrere delle cose-idee come rappresentazione dell’attività della mente ed appare come il corso d’acqua nel quale l’autore può specchiarsi nelle sembianze di Narciso per far rivivere ricordi e mitologie. Pur conservando uno stato fenomenico l’opera è allo stesso tempo vita del passato che si nasconde in noi, forza della creazione che si esprime in molteplici forme, ener­ gia in mutamento. Nella riproduzione delle idee in immagini l’atto contemplativo appare quale presup­ posto per un mondo ideale. I film di Markopoulos sono sapientemente co­ struiti dall’incontro di influenze culturali piu dispa­ rate: dalla pittura alla letteratura, dal cinema stesso (rivisitato) alla poesia, che trovano nello spazio dello schermo, colpito dal pensiero in esso rifratto, un ac­ costamento coerente e sofisticato. La dimensione cosi creata è un originale eclettismo, una suggestiva rac­ colta dei più diversi segni. L’artista allora deve staccarsi dal mondo bor­ ghese, isolarsi nella concezione adamantina del­ l’or/ pour l'art, dove la vita è materiale per l’arte, stringersi in una solitudine di principe e despota. Egli ripete il motivo ispiratore di un godimento sensuale risalente a Baudelaire, alla sua vampirica perversione ma nello stesso tempo lo trasporta in un’atmosfera impalpabile, idealizzata; il colore, il 29 ibidem,

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gesto, la mitologia, il suono, servono a sublimare nel­ la ideale bellezza quel contenuto. Markopoulos ten­ de alla creazione di un’aura medicata, rarefatta, en­ tro cui far vivere un raffinato edonismo ed un porta­ mento fragile, androgino, dei personaggi. Una sen­ sazione di male indefinibile traspare inoltre da quel velo di narcisismo vantato come principio creativo. Il montaggio, supremo ordine della mente creativa, aderisce a questi principi ed opera con frammenti di immagini o con la tecnica delle dissolvenze che « in dipendenza della lunghezza e della durata e in dipendenza della loro posizione nella costruzione del film, producono un effetto di contrapposizione ana­ logo ai Dialoghi di Platone » * L’opera markopoulosiana per giungere alla sfera spirituale inizia dall’impressione di cose che agisco­ no sui sensi per poi modificarsi, smaterializzarsi e divenire forma eterea. Le immagini ripetono la mol­ teplicità del ricordo definito dalla labilità del tem­ po ed espressa da una coscienza dilatata. Il pro­ cesso filmico assume i caratteri di un’esplorazio­ ne emotiva e Markopoulos, alla ricerca di un ri­ sultato subliminale, indica un sistema di riferimenti e reiterazioni che ha per oggetto il sonno nel suo libero vagare di significati. L’arte è al di là della me­ moria, fa appello all’unità di segno materiale (dap­ prima il film presenta legami materialistici) e senso interamente spirituale in un tempo eterno (in un se­ condo momento il film inizia il suo distacco metafi­ sico e svanisce negli ampi cerchi di un vortice di pensiero puro). La struttura del mondo visivo markopoulosiano è composta da gruppi di fotogrammi che, riuniti in un processo ripetitivo, agiscono con effetto di sospensione. Il gusto carico e capzioso, ag­ giunto alle pulsazioni di immagini che appaiono e scompaiono dietro improvvisi oscuramenti concepiti quali segni della grammatica visiva (lo spazio nero 30 G. Markopoulos, Una pausa solennet in « NAC » n. 12, 1971.

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equivale piu o meno alla punteggiatura della scrit­ tura)» quali modi di un impatto percettivo determi­ nante un’unione di senso e intelletto, conferisce la sensazione di un notevole spaesamento. Il montaggio ha il significato di una radiosa sinte­ si poetica di suono e di immagine e propone « una nuova forma narrativa attraverso la fusione della classica tecnica di montaggio con un sistema più astratto che ritiene brevi sequenze evocanti immagi­ ni-idee. Ogni sequenza è composta in immagini-idee simili alle cellule armoniche delle composizioni mu­ sicali. Le sequenze stabiliscono ulteriori relazioni tra di loro: nel montaggio classico vi è una certa relazione con la continuità della ripresa, nel mio sistema astrat­ to vi è un complesso di fotogrammi diversi ripetu­ ti »31. Ad esso (sistema astratto) è intimamente col­ legato l’uso del simbolo che possiamo intendere « pluralità di sensi ». Secondo una riconosciuta di­ versità fra contenuto ed espressione il simbolo markopoulosiano si allontana dal rapporto materiale, dal­ la semplice ricognizione, per divenire strumento di una « rivelazione divina », di un messaggio celeste. Nei suoi film i simboli si presentano in un mondo di luce e colore nel quale l’estasi è intesa come il pia­ cere che trasmuta da materiale a immateriale nella sacra gradualità dell’Accesso all’Arte come Contem­ plazione. Si ricordino i simboli ricorrenti del grano, della mela, della luna crescente, della Musa in so­ vrimpressione con la figura di Eros, in The Illiac Passion; essi valgono come esempio di un palese ri­ fiuto della concezione materialistica del film. Il « film in quanto film » è composto da tutti questi caratteri che s’integrano complessamente. La venera­ zione va ai film di Joseph von Sternberg32 del quale sono evidenti la raffinatezza, la sensualità, ed una 31 G. Markopoulos, Verso una nuova forma narrativa nel ftbn, in < Filmcritica » n. 169-170, 1966, pag. 415. 32 Cfr. G. Markopoulos, Il ritmo conduttore, in Chaos Phaos, cit., pag. 37.

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certa dose di pittoricismo, la stima è per le opere di Erich von Stroheim, alla sua narratività realistica/ lo sguardo affascinato si volge all’opera di Jean Coc­ teau che, per lo spirito rivelativo, l’aspetto mitolo­ gico e trance, l’abbandono orfeico, si rivela come sua principale fonte di ispirazione. In molti film (so­ prattutto i primi) è inoltre presente ima componente di attesa prolungata, quasi di suspense involonta­ ria; l’uso particolare dei colori e alcune sequenze che impiegano un certo numero di primi piani raf­ forzano lo stato psicologico latente che ora siamo indotti a collegare all’atmosfera del cinema di Al­ fred Hitchcock. Quest’ultima relazione tuttavia non è soltanto casuale. Infatti Markopoulos è indubbia­ mente molto interessato ad esplorare quella zona intermedia, tra realtà fisica e realtà mentale, nella quale sorge la dimensione psicologica privilegiata da Hitchcock. Nei primi anni sessanta Markopoulos affronta la realizzazione di Twice a Man (1962-63), una delle opere più importanti assieme a Galaxie e a The IIliac Passion. Twice a Man è ispirato alla leggenda di Ippolito, al rapporto incestuoso tra il protagonis sta e la madre Fedra, al quale l’autore americano ag­ giunge il legame tra il protagonista ed il suo men­ tore. Qui l’autore underground fa prevalere la con­ cezione dualistica che egli legge dapprima in se stes­ so come opposizione della nauta maschile e femmi­ nile e poi estende a Ippolito, alla madre, al mentore e alle immagini stesse. Il film si svolge quindi se­ condo il principio di sdoppiamento e di contrasto tra. ombra e luce, chiaro e scuro, vita e morte. A maggio­ re sostegno dell’impronta dualistica, il film è rac­ chiuso tra una coda nera iniziale ed una coda bianca finale. In Twice a Man il protagonista (che impersoni Ippolito) si reca nella casa materna dove, vagando per le stanze, ricorda fatti che hanno recentemente addolorato la madre: si tratta dell’amicizia di Paul

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con il suo più attempato compagno e mentore. L’ope­ ra è interamente fondata sull’intreccio di memorie e pensieri di ognuno dei tre personaggi; un persistente susseguirsi di immagini ritmiche definisce cinemato­ graficamente tale intreccio. Il procedimento altera completamente l’ordine cronologico dei fatti e la consueta relazione di causa ed effetto; è un vero e proprio smarrimento della narrazione. Durante il film, Paul infatti muore due volte e quando egli giunge alla casa materna, i congiunti siedono pian­ gendo la sua morte. Il disordine cronologico è avver­ tito da Ken Kelman che cosi si pronuncia: « Il tem­ po della bobina, il nostro tempo reale, non è la mi­ sura di Twice a Man. È piuttosto il tempo sogget­ tivo, il tempo ricordato, tempo in cui l’immagine non è legata all’azione e l’azione esiste non come tra­ ma ma come ricordo ripetuto ogni qualvolta sia rie­ vocato » Il tempo è alogico, in quanto la struttura della memoria è priva di schemi cronologici e la mente, che s’identifica con il processo creativo del film, spazia in una visione armoniosa, in un tutto ri­ solto evocativamente. Dice ancora Ken Kelman: « la nostra percezione dell’armonia del tutto è sempre chiara nella squisita armonia dei colori e nel perfetto equilibrio della composizione che non lascia il mini­ mo sospetto di dissonanza in tale universo. La gran­ de chiave simbolica di ciò sta nella copia di riprese dei personaggi attraverso il loro riflesso in specchi, marmo, acqua » Anche il sonoro viene ricondotto alla formazione di un complesso montaggio astratto che si costruisce attraverso una rigorosa base grammaticale e sintat­ tica per cui il film viene chiuso da un linguaggio ar­ ticolato e composto come la poesia dal ritmo o il quadro dalla prospettiva. « Che bisogno c’è — afJJ K. Kelman, Twice a man, in < Filmcritica » n. 169-170, 1966. » Ibidem.

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ferma Markopoulos — degli attori, col nuovo mon­ taggio astratto il filmmaker diventa attore... è alla moviola che nasce il miracolo. Le inquadrature di­ ventano parole, e piu grandi delle parole »3S36 . Le va­ rie colonne sonore impiegate in Twice a Man rispec­ chiano il principio centrale del film. Si crea una spe­ cie di musica fonetica simile a quella delle immagini con possibilità di infinite variazioni. Vengono con­ giunte abilmente le parole della madre, quelle del tiglio o quelle dell’amico; a questo parato frammen­ tario s’unisce poi il fragore del tuono, il rumore del­ la pioggia, brevi fraseggi musicali. Dopo aver girato Galaxie, una splendida serie di ritratti delle principali personalità del mondo arti­ stico sotterraneo, ripresi singolarmente o a coppie (i fratelli Kuchar, Ginsberg e Orlowsky), nella quale un suono di campanello indiano enumera la succes­ sione dei volti che passano sullo schermo mentre l’impiego della dissolvenza li racchiude in una magica presenza di luce Markopoulos affronta nuova­ mente la mitopoiesi in The IIliac Passion. Il motivo ispiratore del film è il Prometeo Incatenato nella versione di Thoreau. Anche qui avvertiamo una forte componente letteraria, ma ancora una volta essa si limita ad una presenza totalmente traducibile in immagini. Prometeo, Poseidone (interpretato da An­ dy Warhol) e Io (mitica figura mutata in giovenca da Era, moglie di Giove, a causa della sua gelosia) sono i tre personaggi principali; a questi inoltre l’au^ tore aggiunge altri miti come quelli di Eco e Narci­ so, Dedalo e Icaro, Giacinto e Apollo, Venere e Adone, Orfeo e Euridice, Giove e Ganimede. La prima sequenza del film allude al narcisismo qua­ le fondamento della creazione artistica. L’apparizio­ 35 Cit. in A. Leonardi, op, cit.. pag. 53. 36 Oltre a Galaxie bisogna ricordare Eros, o Basileus. Questo ultimo però rivela una certa debolezza nella costruzione: non si raggiungono gli splendidi risultati di Swain, Twice a Man, The IIliac Passion.

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ne di questo tema non rimane isolata nel contesto del film, ma si svolge lentamente sotto il controllo del pensiero ricreatore nel suo viaggio mitologico. In questo errare fra ricordi e mitologie Markopou­ los si identifica in Orfeo cantore o in Prometeo sal­ vatore dell’umanità; l’artista è portatore di nuova vita e dalla visione di un universo salvato dall’arte emerge la superiorità dell’arte stessa sulle cose. Una forte componente pittorica, fusione di clas­ sicismo e della pop art, spazia nel film producendo immagini che mostrano stravaganti combinazioni kitsch-, il colore, come Eros ”, compie il magico la­ voro di plasmare una materia caotica in raffinati ac­ costamenti. L’autore s’adopera tuttavia a formare, partendo dalle varie misture alchemiche di luce, co­ lore/montaggio, simbolo, una misura stilistica dav­ vero insolita, una compostezza classica decisamente imprevedibile. Anche il sonoro, che viene usato non sincronizzato, appartiene a questo processo compo­ sitivo poiché la lettura del testo eschileo per voce di Markopoulos s’alterna, con le sue pause e ripetizioni, a brani musicali o a suoni particolarmente suggesti­ vi Il risultato è un sottile e straordinario gioco di risonanze tra immagini e parole. Il cinema di Markopoulos non è soltanto una svol­ ta decisiva del gusto nella tecnica o l’idealizzazione della figura dell’artista che si oppone al cinema in­ dustriale. Nella sua piu sincera ispirazione è traspo­ sizione dell’immagine poetica della mente in imma­ gine filmica, ansia di descrivere i mutamenti piu in37 « Colore è Eros — dice Markopoulos — ed Eros il pri­ mo Dio uscito dalla notte del Caos primordiale, quello da cui sarebbero derivate tutte le cose viventi. Ed era Ermafrodito ». frase citata in Occhio mio dio di A. Leonardi, pag. 42. 38 II carteggio Markopoulos-Brakhage chiarisce inoltre la di­ versa opinione che ebbero i due filmmakers nei riguardi del­ l’uso del sonoro. Per il primo può c deve essere impiegato per­ che crea uno stato di magica e assoluta completezza, per il se­ condo esso è, in un certo senso, la negazione del cinema creativo.

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timi utilizzando l’opera cinematografica come vei­ colo di poesia e come creazione di un linguaggio universale, ed infine nuova religione che, combatten­ do l’usura dello spirito creativo, tende a costruire un Tempio per la Visione e la Contemplazione.

Capitolo terzo

L’esplosione del cinema sotterraneo

Accanto alle ricerche visive fin qui esaminate, si sviluppano altre forme di esperienza artistica utili a comprendere il fermento cinematografico degli anni sessanta. Da un lato si precisa un genere realistico interamente rappresentato dal cinema indipendente; dall’altro, si definisce un’area espressiva sulla base di elaborazioni di forme astratte. Entrambi i carat­ teri sorgono e si arricchiscono progressivamente a partire dalla seconda metà degli anni quaranta con la nascita dei primi gruppi di registi liberi da vin­ coli commerciali (è il caso di « Cinema 16 Group » del 1949-50) e l’apertura delle prime sale di proie­ zione alternativa a New York e San Francisco. Il film astratto, diversamente da quello realistico, è diret­ tamente legato al cinema d’avanguardia, agli esperi­ menti di Oskar Fischinger e a quelli iniziali di Hans Richter. In questo senso esso è parte del cinema un­ derground, di quella espressione marginale che ap­ parirà negli anni sessanta come magma èsplosivo. I fratelli Whitney, Harry Smith, Jordan Belson, Hy Hirsh, Robert Breer, sono i registi più rappre­ sentativi di questa tendenza. La corrente dei registi indipendenti ha le sue ori­ gini in The Quiet One (1950), The Little Fugitive (1953) di Morris Engel e in On the Bowery di Lio­ nel Rogosin e confluirà in seguito nella cosiddetta « Scuola di New York », inaugurata da Shadows di John Cassavetes nel 1958 e composta, oltre ai registi ricordati, da Shirley Clark che nel 1960 porta sullo schermo The Connection e Jonas Mekas che ter­ mina nel 1962 Guns of the Trees. Parallelamente si

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svolge il « cinema diretto » di Richard Leacock, Ro­ bert Drew, Arthur e David Maisies, Don Alan Pennebaker che in pratica opera soltanto nell’ambito del reportage (ricordo che anche Morris Engel, dopo i film già menzionati, impiegò la tecnica del repor­ tage improvvisato). Opere come quelle di Cassave-j tes, Clark, Mekas sfuggono però all’insidia della riconoscibilità naturalistica per l’immediatezza del’ mezzo cinematografico. Esse infatti si aprono all’im­ provvisazione, alogicità, incoerenza, unendo il do­ cumentario al film a soggetto. La ricerca espressiva che caratterizza tali film rientra nell’area di libertà creata dalla beat generation-, si costituisce sul rifiuto della morale borghese, dei codici formali dell’arte, dell’intreccio narrativo. In particolare l’elevazione del gesto sulla norma, del comportamento sullo sti­ le, dell’azione sull’ « arte », vengono sperimentate nel film Pull My Daisy (1958) di Alfred Leslie e Robert Frank, libero ed estemporaneo intervento sulla piece di Jack Kerouac, « una specie di trance poetico simile alle visioni di un intossicato ». Inoltre la rinuncia ad una piano prefissato e la carenza di at­ trezzature, caratteri predominanti del film indipen­ dente e underground, inducono l’osservatore a pen­ sare rapporti di connessione tra la letteratura beat e questa nuova cinematografia. Nel cinema indipen­ dente troviamo il tema della « deambulazione », quel girovagare senza meta che è oggetto di tanti scritti beat (si ricordi, per citare un solo esempio, On the Road di Jack Kerouac): Something Wild (1961) di Jack Garfein registra il vagabondare di una ra­ gazza in Central Park, Across the River di Stephen Scharff narra delle peregrinazioni di un clochard per le vie di New York. Nel cinema underground alcuni autori accentuano questo carattere con l’uso di dro­ ghe particolari. Ma l’aspetto che forse contraddistin­ gue maggiormente sia la letteratura beat che il nuovo cinema americano (indipendente o underground) è il processo col quale il film si costruisce su di sé, il

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linguaggio avvolgente» estenuante del « work in pro­ gress ». Ambedue le forme sono l’espressióne di un perdurante impeto che, mentre ripiega sulla propria materia, esplode incessantemente ih migliaia di fram­ menti luminosi. Il film viene creato durante il film, ^personaggi si definiscono nel corso delle riprese. La durata dell’opera si confonde con la durata della vita. In Shadows gli attori recitano se stessi otte­ nendo un generale effetto di superamento della fin­ zione e la realtà affiorante si rivela insolita e più ef­ ficace di quella prodotta da una scena meramente riproduttiva. In The Connection si illustra il modo in