Venuti a galla. Scritti di metodo, di polemica, di critica
 9788881037995

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Leonardo Sciascia

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I MURI BIANCHI

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Coordinamento editoriale Fabio Di Benedetto Redazione Anna Bartoli Leandro del Giudice Progetto grafico e copertina Bosio.Associati, Savigliano (CN) In copertina Lojze Spacal, Notte lunare sul Carso,1956 (particolare) ISBN 978-88-8103-799-5

© 2014 Edizioni Diabasis Diaroads srl - vicolo del Vescovado, 12 - 43121 Parma Italia telefono 0039.0521.207547iv - e-mail: [email protected] www.diabasis.it www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Boris Pahor

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Scritti di metodo, di polemica, di critica A cura di Elvio Guagnini

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Boris Pahor

Venuti a galla

Scritti di metodo, di polemica, di critica A cura di Elvio Guagnini

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Prefazione, Elvio Guagnini

3 Questioni di metodo. Piccoli popoli, culture minoritarie, identità, comunità etnico-linguistiche, verso l'Europa

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Riflessioni sulla letteratura di un piccolo popolo o di una parte di essa separata dalla frontiera Slovenia mediterranea

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Il disinteresse degli intellettuali verso le identità misconosciute Le identità sono prioritarie. Mitteleuropa: una metafora e la sua traduzione Il pregio delle culture minoritarie

41

Dalla comunità etnico-linguistica alla Federazione europea

17 25

53 Sloveni, Cultura, Trieste 55

Vita culturale degli Sloveni a Trieste

63

Il secondo periodo postbellico

69

Kosovel e Trieste

73

I non incontri con l’amico Zoran

79

Il destino della mia città

89

Il “misterioso” mondo sloveno

93

Due amici idealisti dichiarati: Srečko Kosovel e Carlo Curcio

99

117

Manlio Cecovini Il mare come metafora in due poeti del Litorale. Dragotin Kette e Srečko Kosovel Per Igo Gruden

121

Un mondo semiocculto e schivo (dicendo del Carso)

103

127 Note di polemica e riflessioni diverse 129

Il Carso di Kosovel, Slataper e Spacal

133

Ambivalenza dei valori

139

A proposito delle due simmetrie. La voce saggia e pacata di Paolo Rumiz

143

L’invisibile con la “i” minuscola

147

Su Alojz Rebula. Del tutto divergenti eppure decisamente insieme

155

Una decisione di profonda coscienza umanitaria

157

Svevo: non è tra i miei autori vii

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159 Tra autobiografia e racconto 161

La Bengasi della Primavera araba

165

I voli interrotti

171

Dal diario

177

La sosta sul Ponte Vecchio. Due pagine di diario

181

A proposito di una laurea

185

A Primo Levi

189

Un chien blessé ovvero Cani in Europa

199

La novella scritta con lo stesso stile di Elio Vittorini

203

Prima viene il corpo

207 Nota ai testi 209 Indice dei nomi, dei luoghi e dei periodici 211

Indice dei nomi

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Indice dei luoghi

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Indice dei periodici

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Prefazione

In un articolo di rilievo notevole nel quadro della sua saggistica (L’avvenire nazionale e politico di Trieste), pubblicato sulla rivista fiorentina «La Voce» nel 1912 (30 maggio-6 giugno), un anno cruciale nel percorso breve e intenso del suo pensiero politico, Scipio Slataper sottolineava – riecheggiando Angelo Vivante, citato anche in nota – l’importanza, per Trieste, del suo rapporto con l’Hinterland austriaco e proponeva alcune riflessioni sul rapporto tra italiani e «slavi» (in nota il riferimento, più preciso, era agli «sloveni»). Slataper ricordava che questa parte della popolazione «lotta per i più elementari diritti d’equiparazione, e non di sopraffazione. Perché non bisogna credere – scriveva ancora Slataper – che gli slavi aumentino, ma essi vengono a galla; e anche la vera immigrazione slava nei grandi centri (urbanesimo) tende ad affievolirsi con lo industrializzarsi delle regioni d’origine. Bisogna dunque accettare la vera tradizione triestina, che è, nel pensiero politico e nazionale, quella di Valussi e Tommaseo; ottenere l’equiparazione delle due stirpi, ed essere i propagatori della cultura orientale (slava, greca, albanese) nella coltura occidentale» (Scipio Slataper, Scritti politici, raccolti da Giani Stuparich, Alberto Stock, Roma 1925, p. 100). Ho voluto citare estesamente il passo slataperiano, di non poca importanza per la valutazione del pensiero politico di Slataper, perché esso viene citato da Pahor in alcuni momenti centrali delle sue riflessioni di carattere metodologico: quelle che sono alla base di buona parte degli scritti di questo libro. Un libro diverso dagli altri di Boris Pahor perché raccoglie molti testi apparsi originariamente in italiano, scritti da Pahor in italiano (eccetto alcune pagine di cui si indicano i dati relativi alla traduzione), e anche perché si tratta di interventi, in gran ix

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parte, che valgono a illuminare i princìpi di metodo, le istanze e i capisaldi del suo pensiero intorno ad alcuni temi dai quali sono scaturite anche molte pagine narrative: quelle con le quali Pahor si è meritatamente conquistato una fama internazionale; e con cui ha contribuito – in maniera incisiva – a far conoscere, su un piano di diffusione molto ampio, alcune tematiche urgenti e alcune istanze e dati di fatto che sono alla base di tutte le discussioni e polemiche dello scrittore. Venuti a galla: ragionando sul titolo scelto per questo libro, Boris Pahor mi diceva – scherzando – come esso sembrasse appropriato non solo a indicare una situazione (come quella segnalata da Slataper, relativa agli sloveni a Trieste, e in Italia). Situazione che – anche se rimossa o tacitata – torna periodicamente a ripresentarsi come un problema che configura paradigmaticamente una questione più vasta, proprio perché di natura “civile”: una questione che tocca un nodo cruciale della democrazia moderna, quello delle minoranze (un termine che forse sarebbe meglio sostituire – come voleva Roland Dumas – con quello di comunità nazionali). Con evidente autoironia, Pahor aggiungeva che lo stesso titolo appariva quanto mai appropriato in riferimento a un autore, come era lui stesso, che – dopo una lunga attività svolta a Trieste e nel suo territorio – era venuto in primo piano solo dopo molti anni, quasi “di rimbalzo”, dopo che egli aveva già conquistato, però, una fama internazionale (in Francia, ogni suo libro, suscitava – già prima che da noi – echi e attenzioni non comuni). La notorietà più ampia di Nekropola (e quella di Necropoli, la traduzione italiana) e di altri suoi libri tradotti più recentemente in italiano hanno avuto la conseguenza di renderlo dovunque, in poco tempo, uno degli autori di riferimento della cultura triestina del Novecento. Sicché, a nominarlo anche fuori Trieste, in Italia e in altri Paesi, alcuni suoi libri non solo sono largamente conosciuti ma vengono sùbito associati a quelli di altri grandi autori dell’area triestina. Dunque, Venuti a galla può essere un buon indice di lettura di un libro che – se assume come punto di partenza (anche autobiografico) il problema degli sloveni a Trieste e nel territorio, la loro storia politica e culturale, il loro rapporto con le altre etnie e componenti linguistiche del territorio – non si x

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ferma poi alla trattazione di questa problematica ma si allarga progressivamente. La questione degli sloveni a Trieste e degli sloveni in Italia propone una discussione che appare di grande attualità proprio in considerazione del fatto che si tratta di un problema che, in forme diverse, si ripropone continuamente anche in altri territori, in altri contesti, talvolta con i caratteri dell’urgenza di fronte a minacce di assimilazione e di estinzione di culture che si trovano in posizioni minoritarie. Da ciò il rilievo dato da Pahor a testimonianze, ricordate in esergo, come quelle di Kafka, che richiama alla responsabilità individuale di ogni membro di un «piccolo popolo» di tutelare la conservazione e la memoria della propria letteratura, e di Gide, che solleva la questione del ruolo delle «piccole Nazioni» e dei popoli dei «piccoli numeri» nella conservazione di valori contrapposti alle pericolose conseguenze della massificazione e della globalizzazione. E, poi, il ruolo particolare – sottolineato da Pahor – che la letteratura ha non solo per i piccoli popoli ma soprattutto per le minoranze linguistiche, che vivono in Paesi diversi dalla loro matrice, collegandosi in ogni caso al sistema culturale di questi piccoli popoli. Dunque, un ruolo di grande rilievo, quello della letteratura, per una loro proiezione verso il futuro, verso la stessa possibilità di una loro esistenza e sviluppo. Il discorso di Pahor appare di grande interesse e attualità sia a proposito delle seduzioni dell’assimilazione (per il fascino che i popoli di più diffusa – o di più lunga – tradizione esercitano) sia a proposito della difesa della propria identità da parte delle piccole nazioni e dei gruppi minoritari. Un discorso complesso, proprio perché Pahor non intende proporre l’immagine di una letteratura “missionaria” o “pedagogica”, ma vuole che ci si affidi a testi dalla comunicabilità «artisticamente spontanea». E, inoltre, non intende considerare la promozione della cultura dei piccoli Paesi o delle comunità minoritarie come un’attività di chiusura a fini di difesa. Tutt’altro. Perché questa promozione, se è – come vuole Pahor – sana, deve guardare a un’identità che deve essere, al tempo stesso, fedeltà a se stessi e necessità di proiettarsi in una cultura pluralistica, ricordando il monito di Lévi-Strauss relativo alla necessità di fuggire dal pericolo «della monodia e dell’uniformità». xi

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Del resto, in alcuni saggi, Pahor tende giustamente all’inserimento del mondo sloveno in contesti più ampi che ne accompagnano lo sviluppo: il contesto mitteleuropeo, che sembra il più ovvio e appropriato, ma anche quello mediterraneo, con un richiamo alla vocazione che era già indicata nell’importante previsione del vescovo di Trieste, e diplomatico, Pietro Bonomo, secondo cui «Civitas tergestina potest dici verum emporium Carsiae, Carniolae, Stiriae et Austriae» (1518). Un destino, commenta Pahor, che si sarebbe realizzato appena a partire dal xviii secolo. Con accenti polemici verso la sottovalutazione del problema da parte di molti intellettuali, Pahor sottolinea positivamente l’attenzione rivolta oggi, nuovamente, alla questione delle nazionalità, tanto importante quanto l’economia per spiegare la storia. Ciò che, del resto, sembrerebbe confermato ora da molti eventi recenti della storia di Paesi già dell’Unione sovietica e di territori della stessa Europa. Al disinteresse di molti intellettuali delle grandi nazioni verso i problemi dei piccoli popoli, andrebbe opposta – ricorda Pahor – l’idea che «il nostro mondo di domani non può essere che un mosaico intelligentemente costituito da coscienti entità nazionali, etniche, linguistiche». Dove le identità «particolari» vanno considerate nella proiezione verso una federazione europea «in cui ogni comunità confermerà la propria qualità come soggetto autonomo», nella proiezione verso una «nuova società umanista» alla cui realizzazione potrebbero validamente cooperare gli scrittori che «non hanno né difficoltà né problemi» nel «valorizzare la propria entità nazionale». Ed è anche un fatto che – nel passato, ma anche oggi – le culture «minoritarie», quelle «cenerentole» (aggiunge Pahor ironicamente, sulla scorta di Leopold Kohr), hanno prodotto artisti e pensatori di grandissimo rilievo. E che – talvolta rimosse, o ignorate – possono essere scoperte, aprire orizzonti nuovi anche per il contenuto della loro identità. A proposito della quale, una nota in positivo è costituita, secondo Pahor, dall’accrescimento dell’interesse nei loro confronti: un interesse – per queste culture e per le loro lingue – che è pari a quello che gli ecologisti hanno nei confronti delle specie minacciate nell’ambiente naturale. xii

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Un interesse verso i valori etnico-nazionali che, in ogni caso, non ha nulla da spartire con lo spirito nazionalistico. Si tratta di un’attenzione nuova per le «comunità di origine», per una «matrice comunitaria» che si manifesta in contrapposizione a una civiltà «di massa», «cosmica» o «globale». Un’attenzione che si inquadra nella prospettiva di una «unione federale» considerata come «garanzia di giustizia non più sopraffazione e colonialismo interno». Una prospettiva verso la «società pluralistica originale» di cui parla Denis de Rougemont a proposito di una «Europa di autonomie regionali, unite in una grande federazione europea»: verso – precisa Pahor – «una federazione di entità etniche, una federazione regionale pluralistica». Quasi a sottolineare il valore di “scoperta” di questi contenuti, Pahor propone – nella seconda sezione del libro (Sloveni, cultura, Trieste) – una ricca sintesi dell’attività letteraria slovena a Trieste dal Cinquecento di Primož Trubar ad anni recenti. Una sinossi utile che si conclude con una nota di polemica sulla non ancora realizzata paritarietà di rapporti e necessità di un riconoscimento ufficiale della lingua slovena che potrebbe rendere più fecondo il rapporto tra le due comunità e più distesa un’attività e una pratica di relazioni con la speranza che diventi «attiva la simbiosi di due culture». Le pagine di questa seconda sezione appaiono di grande utilità, per il lettore, non solo per il disegno di una periodizzazione della storia culturale slovena a Trieste e nel territorio ma anche per i riferimenti a giornali, riviste, case editrici, istituzioni culturali, narratori, poeti, autori drammatici, e pure ad autori viventi e operanti al di là del confine ma in stretto rapporto con la vita culturale del Litorale. E appare utile anche per una serie di articoli che trattano di figure specifiche come quella del poeta Srečko Kosovel – legato all’esperienza dell’avanguardia costruttivista (al quale Pahor ha dedicato un importante volume monografico nel 1993) – qui considerato nei suoi rapporti specifici con Trieste; o quella del pittore Zoran Mušič che, come Pahor, ha vissuto e testimoniato con la sua opera l’orrore dei Lager nazisti; o trattano di tematiche come quella del grado di conoscenza reciproca delle comunità nazionali a Trieste, con la sconfortante conclusione relativa xiii

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all’ignoranza, da parte di molti italiani, della storia e cultura della comunità slovena («in ciò Goethe non sbaglia – commenta Pahor – quando dice che l’odio nazionalista è tanto più feroce laddove regna il più basso livello culturale») ma anche con la valutazione positiva di un progressivo intensificarsi, oggi, dell’attenzione e della conoscenza. In altri scritti, vengono trattati momenti di positività dei rapporti stessi: come nel caso dell’amicizia tra Kosovel e Carlo Curcio; o in quello di Manlio Cecovini che riconosceva come bisogno «primario», anche per la componente italiana della città, quella dell’eliminazione del «solco» che sembra dividerla dalla componente slovena. Altre pagine – per esempio sulla tematica del mare nella letteratura slovena del Litorale e sul poeta Igo Gruden – valgono ad approfondire la conoscenza di aspetti di questa realtà culturale tanto interessanti quanto poco noti alla maggior parte dei lettori italiani. Per ribadire le proprie tesi (e per invitare i lettori a non considerare le questioni anche più scottanti isolatamente ma nel «complesso storico» in cui si collocano), il discorso di Boris Pahor – generalmente sereno e pacato, con molti richiami a riflessioni ragionevoli e razionali e a dati di fatto, talvolta con qualche punta di ironia – assume toni polemici, sempre rispettosi ma fermi, come quando respinge accuse (di nazionalismo) che gli appaiono semplicemente come distorsioni interpretative di alcune sue affermazioni circa la necessità di una difesa dell’ambiente e delle tradizioni del Carso; e oppone, alle posizioni e alle illazioni di chi lo critica, un richiamo a proprie prese di posizione che andrebbero in direzione del tutto contraria. A smentire tali posizioni sarebbero, del resto, secondo Pahor, gli stessi dati di fatto: come la dichiarazione congiunta della Commissione storico culturale italo-slovena sulle relazioni delle due nazioni dal 1880 al 1965, ancora poco nota e diffusa, o come l’elenco di alcune tra le tante traduzioni in sloveno di classici italiani. Dati di fatto che dovrebbero essere diffusi e resi noti come «fondamento di un’amichevole formazione di un’Europa unita di domani». Perché solo una conoscenza totale dei fatti avvenuti (anche di quelli criminosi, dall’una e dall’altra parte) può promuovere una rimozione di ostacoli per una piena intesa tra le popolazioni. xiv

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Dunque, una conoscenza piena sia dei crimini commessi dal comunismo del regime di Tito (e Pahor – con l’amico Alojz Rebula, anch’egli scrittore sloveno triestino – ha contribuito a una maggiore conoscenza del tema, e quindi ha l’autorità e l’autorevolezza per avanzare questa ferma richiesta), sia di quelli commessi dalla dittatura fascista contro la popolazione slovena della Venezia Giulia durante il ventennio e dopo l’occupazione italiana di parte della Slovenia e l’annessione della provincia di Lubiana nel 1941. Nella quarta sezione del libro, quella conclusiva (Tra autobiografia e racconto), vengono presentati alcuni scritti di carattere narrativo che riguardano momenti diversi della vita di Pahor: il periodo di guerra – vissuto da militare – in Africa; l’internamento nei Lager nazisti e la resistenza interna con azioni di sabotaggio; la vita familiare e il rapporto amorevole affettuoso sentimentale e autocritico con la moglie, compagna di vita e di viaggi; i rapporti con istituzioni e figure della cultura italiana; la sua tesi di laurea all’Università di Padova, al ritorno dalla guerra e dai Lager. Pagine di taglio, certo, diverso. Pagine di rievocazione, racconti di frammenti di vita che riemergono alla memoria, frammenti di diario. Con riflessioni di impressionante incisività come quella riguardante il problema del «crocifisso nelle aule»: «Un redattore del “Gazzettino” mi chiese (ci incontriamo in autobus) che ne pensavo. Dissi che non sapevo se l’autorità europea avesse il diritto, il potere di imporre checchessia in materia. Per ciò che mi riguarda, se dipendesse da me, invece del crocifisso metterei dei bei quadri di Gesù a colloquio con i suoi discepoli sulle rive del lago, mentre a scuola farei raccontare la sua dottrina sull’amore e sulla sorte dei ricchi. Perché presentare Gesù sempre come uno sconfitto?». E, ancora, pagine di narrativa di grande delicatezza come quella sullo “Chien blessé” ovvero Cani in Europa che, in modi da favola di Esopo o di Fedro o di Orazio (è il dialogo tra due cani, uno «signorile» e uno di campagna), affronta il tema della tolleranza e quello dei diritti all’identità. Anche rievocazione, infine, di figure e personaggi della vita familiare o delicate pagine di omaggio alla moglie, scomparsa anni prima, che sono pure occasione per ribadire l’esigenza «della conservazione corretta del fisico», xv

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del movimento, necessario – come l’allenamento intellettuale – per impedire «di percepire il senso di noia». Ma anche per riaffermare dei princìpi che gli sono cari: che «i libri che amo» sono «quelli scritti a rischio della vita, per amore della vita, che oggi come ieri deve essere preservata»; e che non intende smettere «mai di combattere attraverso la penna e la voce», chiamando – prima – «una voce come per lenire la solitudine». Una saldatura tra i propri affetti profondi e il compito “civile” della scrittura. Una conclusione del tutto omogenea di queste pagine, di questo autoritratto (un Boris Pahor par lui-même) attraverso pagine di metodo, di critica, di polemica, di narrativa autobiografica: una ricostruzione – tra anni Sessanta e oggi – delle linee guida del suo pensiero e della sua testimonianza attraverso la scrittura. Elvio Guagnini

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Venuti a galla Scritti di metodo, di polemica, di critica

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In memoria dell’amico Ferruccio Fölkel

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Questioni di metodo. Piccoli popoli, culture minoritarie, identità, comunità etnico-linguistiche, verso l'Europa

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Riflessioni sulla letteratura di un piccolo popolo o di una parte di essa separata dalla frontiera Ciascun membro di un piccolo popolo deve accettare la parte a lui spettante di letteratura.

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Kafka

«La memoria di un piccolo popolo − dice Kafka − non è minore di quella di uno grande, perciò il primo si occupa più intensamente del materiale che gli si offre. E a ciò sono dediti meno gli storici della letteratura e la letteratura stessa è meno che una questione letteraria; è più, invece, una questione di tutto il popolo. Perché nell’ambito di un piccolo popolo gli obblighi che esige dai singoli la coscienza nazionale impongono ai singoli di essere sempre disposti ad accettare la parte a loro spettante di letteratura, di vivere per essa, di difenderla a ogni passo, anche se essi non la creano e forse non la conoscono nemmeno». Credo che lo scrittore abbia, in questo passo, toccato alcune verità che meriterebbero un discorso più ampio. In questo mio breve intervento vorrei sottolinearne almeno due. Innanzitutto è di basilare importanza il riconoscimento che, per i piccoli popoli, la letteratura è più questione del popolo in generale che dei suoi singoli storici letterari. Non si dice, infatti, che gli storici non siano importanti, questi anzi ci devono essere, ma è di capitale importanza che la comunità senta che la letteratura la rappresenta, che nella letteratura essa è realizzata. Sicuro, è ben possibile che una siffatta letteratura sia meno pura, come osserva Kafka, ma proprio perché in essa l’identità del popolo si eleva sopra la realtà quotidiana, è in essa proiettata e a un tempo sublimata – tale opera letteraria è preziosa per la comunità stessa. Ma se ciò è vero per un piccolo popolo, lo stesso vale ancor di più per la comunità che è separata da una frontiera dalla sua matrice. E non c’è alcun dubbio che là dove simili comunità hanno conservata la propria identità e non si sono ridotte a essere solo dei fenomeni folcloristici è stata proprio la letteratura uno dei principali fattori della loro coscienza etnica o nazionale.

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La seconda constatazione di Kafka è pure straordinaria. «Nell’ambito di un piccolo popolo − egli dice − gli obblighi, che esige dai singoli la coscienza nazionale, impongono ai singoli di essere sempre disposti ad accettare la parte a loro spettante di letteratura». Con ciò le condizioni di sopravvivenza di una piccola comunità sono ancor meglio precisate. A una piccola comunità, infatti, non può bastare che essa si ritrovi nella sua letteratura, che si confermi in essa; ciò è certamente valido ma in questo caso ci si limiterebbe a un dovere accettato in qualche modo per principio, fatto che però risulterebbe insufficiente. Perciò si pretende che il singolo comprenda che dipende anche da lui in che modo e quanto la comunità alla quale appartiene potrà salvarsi. E poiché gli elementi essenziali della sua gente sono riuniti e glorificati nella letteratura della sua comunità è necessario che ciascuno se ne appropri nella misura che crede di poter realizzare nel suo curriculum. E in ciò non è tanto di primaria importanza l’intensità con la quale egli realizzerà il suo compito; assolutamente impellente è, però, che ciascuno prenda la parte a lui spettante di letteratura, cioè di quella coscienza, di quella fede nel valore e nel perdurare della comunità che la personalità creatrice ha concretizzato nell’opera letteraria confermando così l’identità comunitaria. È palese che in questo momento queste considerazioni le sto facendo non tanto quale appartenente a una piccola nazione ma nella qualità di membro di quella parte di essa ch’è in Italia sottoposta a un processo di assimilazione al quale cerca di opporsi. Posso dire che la popolazione slovena, nel suo insieme, si comporta in modo positivo riguardo alla propria letteratura. Meno confortante è invece la constatazione riguardante i singoli: essi non sentono sempre come loro obbligo di realizzare ciò che da loro chiede la letteratura della comunità. E qui non mi riferisco tanto a quella disposizione d’animo che diremmo tiepida o passiva di fronte al destino della collettività ma, più, a quella deficienza a proposito dell’essenziale che Kafka sottolinea con quest’altra affermazione: «Ciò che nella letteratura delle grandi nazioni accade di sotto e fa parte immancabile delle fondamenta, accade qui (nella letteratura di una piccola nazione) alla luce del sole; ciò che là si accetta come cosa che avviene in

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quel momento, porta qui nientemeno che alla decisione di vita o di morte di tutti». Di primaria importanza è, quindi, più che lo stabilire delle solide basi – ma nessuno afferma che queste non siano necessarie – l’evolversi delle cose in piena luce, ciò che significa tanto la costante attenzione alle possibili imboscate quanto ancor di più il continuo cercare la conferma della propria valenza e della legittimità di essere. Le grandi comunità, infatti, non sono in pericolo, perciò l’attaccamento alla loro letteratura può essere anche fiacca e rilassata; ma per un popolo piccolo invece – e tanto più nella sua parte separata – avviene che proprio nella sua letteratura si manifesti la preoccupazione per il destino futuro. Ecco perché in questo caso la letteratura si trova di fronte al decisivo aut-aut: o essa esprime un’identità originale, capace di vita autonoma, oppure no. In questo secondo caso, dice Kafka, invece di un discorso di vita si tratterà di un non-discorso di morte riguardante tutta la comunità. Questa necessaria fedeltà al proprio essere, che è l’unica garanzia di durata, è presente già nel periodo pre-letterario, cioè nei canti popolari dove s’impone, per mezzo di archetipi in cui si esprime la comunità non ancora del tutto cosciente, archetipi che diverranno pian piano elementi costitutivi della maturità, e infine motivi simbolici delle opere letterarie vere e proprie. E, per ciò che riguarda i canti popolari, mi sia permesso di soffermarmi – sempre in merito alla diagnosi di Kafka – alcuni istanti sul canto popolare sloveno della Lepa Vida (Bella Vida). Questa, una giovane donna, viveva vicino al mare, in qualche parte tra Barcola e Duino, con il marito anziano e il piccolo figlioletto, ma un giorno un barcaiolo straniero la indusse a entrare nella sua imbarcazione promettendole che l’avrebbe portata alla corte spagnola dove essa avrebbe allattato il principino. E là, lontana da casa, dall’anziano marito e dal padre, la Bella Vida è infelice. E piange la perdita del luogo natìo, del figlio, del marito e del padre. Questo il fatto. Ma il canto, che in linea di massima dovrebbe simboleggiare l’umano desiderio di evasione e di sconosciute lontananze, è piuttosto un ammonimento che la comunità ha bisogno di tener sempre presente giacché essa comprende bene che per la collettività sarebbe la fine se le

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Vide, continuatrici della stirpe, abbandonassero il suolo natìo. Suolo che nel canto è simboleggiato dai due anziani, il marito e il padre, i due che affannosamente, ma invano, cercano Vida lungo la costa. Credo di non far torto al canto popolare se mi servo del suo motivo (come già ho fatto in un mio lavoro) anche per illustrare il caso in cui una piccola comunità vive sotto l’influenza di una grande che, in un modo o in un altro, la minaccia. In questo caso, infatti, non è necessario che il canto popolare s’inventi l’arrivo del battelliere straniero che porterà Vida alla corte spagnola, giacché basta il prestigio di una grande nazione che con la sua storia, la sua economia, la sua cultura è una tentazione ben maggiore per la figlia o il figlio di una piccola comunità. E così il motivo della Bella Vida cessa di essere poetico e diventa invece un elemento del complesso d’inferiorità, complesso che è tanto più forte quando una parte di un piccolo popolo vive nell’ambito di un altro Stato. In questo caso, infatti, ogni singolo membro della comunità ha l’occasione prossima di oltrepassare la frontiera interna, cioè di abbandonare la propria collettività etnica – i due anziani del canto popolare – e di unirsi alla comunità maggioritaria, la quale potrà anche parlare spagnolo, in ogni caso, però una lingua che non sarà quella d’origine dell’emigrato linguistico. La sola cosa che cambia in questa mutazione è che – mentre nel canto popolare della Bella Vida essa piange per la perdita del suo essere primario, soffre per essersi rinnegata e di aver tradito le proprie origini – nel caso del cambio della lingua e della comunità, le reazioni non sono affatto appariscenti. Prima di tutto la transfuga, o il transfuga, non parte per l’ignoto ma resta a casa e quindi non soffre di nostalgia; in più ha guadagnato dal punto di vista del prestigio, dal momento che è passato/a dalla parte della comunità più stimata. Certo, i caratteri più sensibili da principio non si sentono a loro agio, sono imbarazzati e un po’ anche si vergognano ma, pian piano, tutto ciò viene represso e passa nel subcosciente. In certi casi, poi, da ciò che è stato represso scaturisce l’odio per la gente dalla quale ci si è allontanati; spesso, anzi, il subcosciente in questione produce i nemici più giurati della comunità tradita.

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Ma questo è un capitolo a parte. Qui importa sottolineare ancora che la letteratura di un piccolo popolo – o quella di una sua parte – può offrire ai suoi membri gli elementi necessari per sopravvivere come pure può mostrare loro il modo di non correre pericoli imprevisti. Così arriviamo nuovamente alla constatazione di cui si diceva prima e cioè che la letteratura di una piccola nazione non solo parla a ogni singolo appartenente alla comunità ma gli impone anche di fare sua una parte dei doveri comunitari. Bisogna fare attenzione che con ciò non si intende affatto che la letteratura diventi missionaria o pedagogica ecc. Il canto popolare della Bella Vida, infatti, non contiene massima alcuna, la sua comunicabilità è artisticamente spontanea. Queste constatazioni hanno però, per noi che, come comunità, viviamo in simbiosi con un altro popolo, un significato tutto particolare perché il discorso che riguarda la fedeltà a se stessi è a un tempo anche il migliore maestro di pluralismo, il metodo migliore per fuggire il pericolo «della monodia e dell’uniformità» da cui ci mette in guardia Lévi-Strauss. A un tempo queste considerazioni possono essere, per gli appartenenti a una grande comunità – specialmente per gli scrittori e i poeti – un incentivo per rifiutare nei loro paesi tutto ciò che potrebbe spingere i membri di una comunità minore a tradire se stessi. Le occasioni di tali metamorfosi sono già di per se stesse abbastanza numerose, perciò l’esistenza di atmosfere di rifiuto nei confronti di quello che è diverso non sarebbe degna di nazioni che sono fiere della loro cultura e che aspirano al primato come fattori di civiltà. Sarebbe oltremodo bello se scrittori e poeti di grandi popoli qualche volta si soffermassero davanti all’affermazione di Kafka che cioè, nella letteratura di una piccola nazione, «si tratta né più né meno che di vita o di morte» dei componenti di quel popolo. 1995

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Slovenia mediterranea

Mi rendo conto che può sembrare strano voler parlare della Slovenia come entità mediterranea dal momento che, già di per se stessa territorialmente modesta, la sua parte affacciata sull’Adriatico è necessariamente più modesta ancora. Ma il fatto che − tanto dal punto di vista geografico che antropologico, economico e politico − la Slovenia è il retroterra naturale di Trieste, ci autorizza a fare alcune considerazioni molto attinenti alle profonde ragioni che sono state l’incentivo per questo importante nostro incontro. Mi piace ricordare, quantunque l’abbia già fatto altre volte, che fu il molto quotato diplomatico e poi vescovo di Trieste Pietro Bonomo a prevedere che Civitas tergestina potest dici verum emporium Carsiae, Carniolae, Stiriae et Austriae. Ciò nel 1518. E sebbene il futuro di Trieste preconizzato dal Bonomo si comincerà a realizzare appena due secoli più tardi, lo sviluppo di Trieste quale emporio della Mitteleuropa fu poi uno dei fattori più importanti del traffico straordinario che, nei secoli xviii e xix e all’inizio del xx secolo, si sviluppa nel Mediterraneo e oltre facendo capo a Trieste. Ma, per procedere con ordine, bisogna accennare che le regioni citate da Bonomo, la Carsia, la Carniola, la Stiria e una parte dell’Austria, sono regioni con maggioranza di popolazione slovena. E di queste regioni per il nostro discorso la più importante è in primo luogo la Carsia. Come parte più occidentale del litorale sloveno, il Carso infatti vive in stretta simbiosi con i villaggi costieri. Così, solo per dare un esempio, Kontovel-Contovello e Križ-Santa Croce, benché siano paesi dell’altipiano, si annoverano tra le comunità che danno un buon numero di pescatori, i quali, insieme a quelli di Barkovlje

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(Barcola) e Devin (Duino), formeranno una consistente flotta nostrana fino al secondo conflitto mondiale. Con l’accenno a questi “lavoratori del mare” perveniamo così a interessarci della zona più specifica che, se non è del tutto mediterranea, ne è certo la congiunzione diretta. La gente che pesca − che manovra con la čupa, con lo zoppolo, imbarcazione monossile di antichissima provenienza mediterranea − è al tempo stesso quella che coltiva l’ulivo e fa fruttare la terra rubata alla pietraia, mentre all’arsura estiva profumano le erbe aromatiche che, in territorio algerino, inebriano Camus e gli fanno nascere le meravigliose pagine che diremmo cartoline, azzardando una trasposizione un po’ ardita. Non è il caso invece di elencare la flora di rito, la quercia nera, per esempio, ma forse basterà menzionare che il naturalista francese Balthazar Hacquet, autore di un compendio sulla flora in Slovenia, trovò nel 1782 sulle falde occidentali del Triglav (Tricorno) esemplari della Cephalarialeucantha, tipica pianta mediterranea che battezzò Scabiosa trenta. Ciò che più importa è notare che la popolazione lungo la costa ama la sua terra, la dialettica della landa e del mare, ma a un tempo è cosciente dei sacrifici ai quali deve sobbarcarsi per vivere. Ed è così che nella poesia popolare slovena si crea l’illusione della partenza o, meglio, della fuga. Invece della Elena rapita, la Bella Vida slovena si lascia essa stessa convincere dal barcaiolo di colore a partire per la Spagna dove si prenderà cura del principino mentre piangerà la patria perduta. La tradizione letteraria ha voluto vedere nella Bella Vida simboleggiata l’umana aspirazione all’ignoto e la squalifica finale a un tempo del tentativo. Ma forse più che cercare significati speciali sarebbe opportuno interpretare il canto come rivolta infruttuosa alla vita grama di pescatori-contadini in lotta con le intemperie del mare e con la terra avara. Ciò è tanto vero che, alla fine del secolo scorso e ancora all’inizio di questo nostro ventesimo, un gran numero di donne slovene s’imbarcava per l’Egitto ad allattare figli di ricchi e di diplomatici per apportare il loro contributo al budget della famiglia bisognosa. Pare che la colonia di donne slovene in Egitto all’inizio del secolo fosse formata da 3.000 ragazze e donne.

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Questa popolazione contadina che compatta raggiungeva i sobborghi della città di Trieste, a un tempo da secoli s’inurbava dando gli scaricatori del porto, i muratori, le domestiche, le cuoche e le balie, ma anche artigiani proprietari di case nel centro storico; man mano poi che il traffico cresceva e la città aumentava i suoi abitanti, questa componente autonoma slovena si faceva pure valere nel mondo degli affari riguardanti il commercio, la navigazione, le banche e il mondo culturale. È così che, alla fine del secolo scorso e all’inizio del nostro, si arriva all’affermazione anche politica di una città con due anime o con una duplice anima, come bene viene definita da Slataper e nel libro di Ara-Magris Trieste. Un’identità di frontiera. Una verità, questa, di cui nel parlare di Trieste emporiale e di «crogiuolo di stirpi e culture diverse» di solito volutamente a lungo non si tenne conto. Così, per esempio, ancora nel 1985 perfino nell’organizzare l’esposizione Trouver Trieste a Parigi, il Comune della città sistematicamente ignorò il fattore sloveno e fu per iniziativa tutta personale del fotografo cieco Evgen Bavčar, sloveno naturalizzato francese, che fu allestito nel Centre Pompidou uno stand suppletivo della cultura slovena triestina. Questa chiusura alla realtà slovena, che ha inizio coll’irredentismo nel secolo scorso, ha, come tendenza correlata, il progetto di dare all’Italia unita per confine il cerchio delle Alpi Giulie. È ciò che avviene alla fine della prima guerra mondiale. Confine, questo, che significa l’inclusione nel Regno d’Italia del territorio sloveno del Litorale e cioè praticamente quella parte della Slovenia che è la più mediterranea, il retroterra, come si disse all’inizio, naturale delle civitas tergestina. Non è qui il caso di esporre il destino toccato alla popolazione slovena nel periodo tra le due guerre. Certo è che, già nel lontano 1866 nelle pubblicazioni del Regno d’Italia si ammetteva che certi «residui etnici» non dovevano impedire lo sviluppo della grande nazione. E il Fascismo poi si adoprò con le sue leggi, le prigioni e le condanne a morte, di eliminare i cosiddetti “residui etnici” valendosi anche di uno stratagemma tutto unico, riducendo cioè i nomi e i cognomi degli sloveni – e dei croati in Istria – in forma italiana.

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Alla fine del secondo conflitto mondiale la maggior parte del Litorale sloveno, in seguito alla lotta di liberazione, viene riunito alla matrice slovena, mentre dei comuni più mediterranei sloveni verranno a far parte della Repubblica Italiana formando il corridoio che l’unisce a Trieste. Ma in questo periodo avvengono molti altri fatti estremamente gravi. Nel maggiogiugno 1945 si hanno le infauste azioni rivoluzionarie della polizia politica comunista di cui sono vittime dei democratici sloveni ma, in grado molto maggiore, quelli italiani. L’atmosfera è incandescente per le vicissitudini riguardanti Trieste, l’esodo della popolazione italiana dall’Istria, in fine per la spartizione del Territorio libero e la conseguente valorizzazione del porto di Capodistria nell’ambito della Repubblica di Slovenia. Questi dati di fatto − cui si aggiunge l’esistenza di una comunità slovena (non mi va il termine minoranza) nel Friuli Venezia Giulia e della comunità italiana in Slovenia − influirono in modi diversi nel lungo periodo postbellico, senza una prospettiva positiva di riuscita. Soltanto negli anni a noi più vicini, per merito della nuova autorità comunale e per il profilarsi dell’entrata della Slovenia nell’Unione Europea, si intravedono soluzioni più favorevoli. La ragione del titolo del mio intervento trova perciò la sua spiegazione nel fatto che penso sia necessario che la partecipazione dell’elemento sloveno alla vita della città nel passato sia confermata ora anche da un’adesione slovena ufficiale. La tradizione mitteleuropea della Slovenia, secondo me, dovrebbe infatti essere in parte sostituita dai nuovi compiti mediterranei e ciò non solo nell’ambito statale sloveno ma anche nel senso in cui il destino di Trieste era visto da Pietro Bonomo. Certo, a un tempo anche una nuova visione triestina avrebbe il suo necessario compito, e mi pare molto appropriata in merito la considerazione di Paolo Segatti in «Limes» (1° febbraio 1993) dove l'autore si rammarica che «da parte di alcune forze a Trieste si tenda a trascurare le potenzialità produttive offerte dalla Slovenia e dalla Croazia per il permanere di una diffidenza di fondo nei loro confronti». Sono persuaso che con un piano comune e ben ponderato – ciò che si intende con il termine dialogo – può essere risolto in

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modo ottimale tanto ciò che riguarda le vie di comunicazione, quanto gli interessi portuali e i fattori attinenti. Inoltre, a questa lungimirante divisione di ruoli parteciperebbero, con le loro attività generali e con quelle culturali in particolare, le due comunità autoctone ma di origine diversa che in questa zona mediterranea da secoli convivono. Per ciò che riguarda la comunità slovena purtroppo bisogna fare la dolorosa constatazione che, da un cinquantennio, essa attende di essere riconosciuta da una legge chiamata “di tutela”, legge che ora è in gestazione ma che è a un tempo restrittiva riguardo all’ammissione della cittadinanza della lingua slovena in città (lo stesso vale per Gorizia) mentre, come affermava Umberto Eco in una delle sue bustine, nell’Europa di domani lo sloveno entrerà a pari diritto nel Parlamento d’Europa. Ma senza aspettare gli sviluppi futuri, che certo toccheranno la città di Bonomo, mi piace constatare che i più importanti rappresentanti della cultura triestina, che si richiamano a Saba e Svevo, mostrino una sincera apertura alla cultura slovena della città. Qualcuno pensa che la svolta vada attribuita al fatto che, negli ultimi anni, diversi libri di autori sloveni triestini si siano trovati esposti nelle rispettive traduzioni sui banchi delle librerie estere; ma sono piuttosto propenso a credere che i nomi più qualificati della cultura triestina si siano resi conto che Trieste può essere in casa propria molto più profondamente mediterranea di ciò che ha potuto esserlo nel passato in nome del traffico e del commercio. Il suo nuovo ruolo così potrebbe significare un’ampia e tutta particolare irradiazione culturale cui parteciperebbe, come si disse, in modo costitutivo la componente mediterranea slovena. 1999

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Il disinteresse degli intellettuali verso le identità misconosciute

Il problema del misconoscimento delle identità linguistiche, etniche e nazionali è apparso sulla ribalta del mondo europeo in tutta la sua gravità in questi ultimi anni con lo sfasciarsi dell’Unione Sovietica. L’opinione pubblica occidentale e gli intellettuali in generale, gli scrittori in particolare, furono colti di sorpresa dall’inaspettato rinascimento della coscienza della propria identità nazionale di un non piccolo numero di popoli. E la reazione prima, del mondo occidentale, fu la meraviglia, lo smarrimento e, soprattutto, il timore di fronte all’imporsi del “nazionalismo”. Senza dubbio, si può dire che in certi casi l’apprensione era – ed è – giustificata, là in primo luogo dove un popolo per decenni conculcato cerca di liberarsi con la forza, poi nel caso specifico della ex Jugoslavia dove l’élite serba e le sue forze armate non solo si sono opposte al desiderio di una nuova forma di convivenza delle nazioni componenti la federazione, una confederazione, ma con la distruzione sistematica e con una politica genocida di “pulizia etnica” cercano di allargare il proprio dominio. E sono questi casi di sviluppi inauditi della situazione che hanno spinto, per esempio, il Carrefour des littératures européennes de Strasbourg a chiamare a raccolta gli scrittori nel novembre scorso sul tema “Partout en Europe des foyers de violence et de fanatisme se déclarent dans les lieux ou des ethnies, des langues, des religions différentes avaient appris à vivre ensemble et dialoguer1”. Quel partout en Europe, evidentemente si riferiva all’Europa dell’Est, all’Europa Centrale e alla ex Jugoslavia, dimenticando o facendo finta di dimenticare che problemi irrisolti di identità ce ne sono, e non pochi, anche

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nei Paesi dell’Europa Occidentale. Ma di ciò nella seconda parte di questo breve saggio. Per quanto riguarda invece la rinascita del problema nazionale nel mondo fino a ieri dominato dai dirigenti comunisti bisogna, per avere un quadro chiaro dello svolgimento dei fatti, rifarsi all’inizio, cioè a Lenin, il quale è esplicito quando afferma: «Bisogna attuare la uguaglianza giuridica delle nazioni: bisogna proclamare, formulare e realizzare gli uguali diritti di tutte le nazioni… senza il quale [diritto] non si può progredire verso la completa e libera unità e fusione delle nazioni » (V. I. Lenin, Opere scelte, vol. ii, Roma-Mosca s. d., p. 591, citato da Sergio Salvi in Patria e Matria,Vallecchi, Firenze 1978). La sottolineatura è mia, perché l’accento del progetto va posto sul fine ultimo di tutte le realizzazioni giuridiche delle identità nazionali: la loro fusione, che avverrà − dice altrove Lenin − senza costrizione ma per mezzo degli scambi, dei trasferimenti, l’amalgamarsi delle popolazioni ecc. Stalin però fu, come sappiamo, molto più spiccio, e “aiutò” in diverse maniere la fusione ossia la russificazione del Paese. Non è questa l’occasione per presentare una pagella dimostrativa della condizione in cui vennero a trovarsi le diverse comunità nazionali dell’Unione Sovietica. Basterà tener conto della proporzione dell’elemento russo nei Paesi baltici per farsene un’idea. Ma per ciò che riguarda, per esempio, la situazione in Ucraina, presso le Edizioni Samonà e Savelli (Roma 1971) Ivan Djuba nel libro L’oppressione delle nazionalità in Urss spiegava con quale sistematica cura dei governanti la lingua russa e le edizioni russe spodestavano le altre. Ciò che in Djuba, che non ebbe una vita facile, era ingenuo, era il suo richiamarsi a Lenin, non prendendo in considerazione che, se Lenin certamente dissentiva dai metodi di Stalin, era d’accordo su ciò che riguardava il fine. E, per accostarci un po’ a un territorio a noi più vicino, è da segnalare che lo sloveno Edvard Kardelj, ideologo in capo della Federazione jugoslava, nel 1957 – ristampando il suo testo riguardante Lo sviluppo del problema nazionale sloveno (Razvoj slovenskega narodnega vprašanja, Dzs, Ljubljana 1957) – riprendeva la tesi di Lenin di una pacifica fusione dei popoli,

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mentre la nazione è destinata a sparire dalla storia. Tesi insana nel suo idealismo che si rivelerebbe, se accettata, tutta a scapito dei piccoli popoli perché evidentemente nessuno dei grandi è tanto generoso da ammettere una fusione a suo danno! Di ciò, in fondo, si avvide anche lo stesso Kardelj che, nel 1974, riscrive la costituzione rivalutando, sebbene sempre su base ideologica, le singole repubbliche. È quindi normale che, alla prima apertura democratica di Gorbaciov, si affermi la coscienza delle singole comunità nazionali, coscienza già conculcata e bollata come antisociale e antisocialista. Fu preso alla sprovvista anche lo stesso Gorbaciov, che pensava alla ristrutturazione dell’economia trascurando il problema fondamentale della identità delle differenti entità. E fu un errore grande, perché già Saharov aveva visto la necessità di rifare l’Unione su base confederativa. A questo proposito merita qui riferire la constatazione di Camus: «La lutte des nationalités s’est révelé au moins aussi importante pour expliquer l’histoire par l’economie; le système l’a donc ignorée 2» (L’homme revolté, Paris 1951, pag. 264). La stessa disposizione riguardo il problema nazionale prevale anche tra gli intellettuali, per la maggioranza di loro, del mondo occidentale. Per quelli di sinistra o comunque simpatizzanti per l’Urss, il problema nazionale era stato saggiamente risolto e quindi non attuale. Per i democratici tradizionali, l’assenza di democrazia in Urss voleva dire partito unico, censura, socializzazione dell’economia, ateismo. Il destino dei singoli popoli esulava dall’interesse dei clercs, perciò da una parte è comprensibile che ora si meraviglino della piega che prende lo sviluppo dell’ex Unione Sovietica, ma nondimeno è penoso il constatare la loro noncuranza per il destino degli altri. Ecco quindi la necessità di correre ai ripari, che però non si esplica in un approfondito esame dei dati di fatto, in una spiegazione storica, antropologica, sociologica degli avvenimenti, ma in raccomandazioni che sanno di consigli evangelici post factum. Non si cerca, cioè, di dipanare il perché degli scontri tra popoli «qui avaient appris à vivre ensemble et dialoguer3», ma ci si ferma a condannare gli scontri, a un rimpiangere nostalgico

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del passato e, qua e là anche se non esplicitamente dichiarato, un rammarico della mano forte che teneva unite le parti e che, soprattutto, teneva a bada tutta quella gente inquieta, indefinita, quelle tribù − come le si definì in un incontro a Parigi − che adesso vengono a rompere le scatole a chi ama l’ordine e la pace. Due argomenti un po’ più seri si sono fatti strada in primo luogo durante l’affermarsi della volontà unanime del popolo sloveno – e poi di quello croato – di vivere in uno Stato sovrano. Si rinfacciò, allora, agli Sloveni e ai Croati, di voler ritornare al secolo xix; accusa che, tralasciando di constatare i casi in cui in questo secolo dei popoli si sono affermati come entità statali, è di per se stessa illogica, dal momento che non c’è – e non ci può essere – alcuna norma che definisca l’Ottocento come secolo esclusivo per la conferma delle identità nazionali. Un’argomentazione che spesso si è fatta strada qui da noi, fu quella degli oppositori delle particolarità, sostenuta specialmente da Claudio Magris, che in tal senso si distinse anche in diversi incontri internazionali. Ma già nel testo che con Ara pubblicò anni fa, Trieste. Un’identità di frontiera, avversò «le intemperanze viscerali», e poi in altre occasioni l’affermazione «viscerale», secondo lui, della propria identità, la «visceralità idolatra». Addebito di cui sono fatti segno in modo esplicito degli scrittori sloveni e (nel Danubio) quegli slovacchi. Ora mi sembra che Magris − come ho già detto altrove − sia, senza volerlo e anche se lo nega, influenzato dalla convivenza tra le diverse nazionalità nella ex Austria-Ungheria, non tenendo conto che quel conglomerato si sfasciò proprio perché Vienna non volle – nemmeno nel 1917 – riconoscere le identità nazionali slave. E per gli Sloveni, oltretutto, allora sarebbe stata la soluzione migliore il restare, come entità riconosciuta, nel complesso austro-ungarico, dal momento che – dopo il conflitto – una gran parte del territorio passò all’Italia e all’Austria. Non si è trattato quindi allora (e non si tratta ora) di un attaccamento viscerale alla propria identità, almeno se non dichiariamo nella medesima accezione viscerali Slataper e Stuparich, per esempio, che sono degli indubitabili rappresentati di particolarismo nel volersi staccare da Vienna. Certo, nella ex Jugoslavia, gli Sloveni e i Croati avevano le loro repubbliche, ma

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come si sentivano riguardo alla propria identità nelle dipendenze da Belgrado, solo loro possono definirlo e, con l’avvento della democrazia, democraticamente decidere riguardo al loro futuro. Ed è ciò che hanno fatto dopo che tanto Belgrado quanto gli Usa e l’Europa hanno rifiutato di prendere in considerazione una confederazione di Stati sovrani. Gli intellettuali occidentali, come si disse, o erano contrari allo sviluppo o non sapevano, del tutto sprovveduti, che pesci pigliare. La loro lamentela intorno al fatto che dei popoli si distaccavano, ora che l’Europa stava unendosi, era fuori posto – e lo sapevano – perché né Sloveni né Croati né Slovacchi ecc. volevano la sovranità per vivere soli, ma per unirsi all’Europa, di cui hanno sempre fatto parte, direttamente, senza cioè passare per Belgrado o Praga. È, quindi, da sperare che l’Europa di Maastricht sia una realizzazione, su una scala più grande, di quella che era un tempo l’impero austro-ungarico «l’esempio piuttosto soddisfacente della unione possibile d’unità diverse», come lo definisce Magris. Se però la futura Europa non saprà, nella nuova unità, valorizzare come autonome le singole identità nazionali, etniche, linguistiche, di veramente nuovo non ci sarà che l’economia unita, l’Ecu, l’eliminazione dei confini. Molto, certo. Ma troppo poco per cantar gloria, perché in quel caso si avrebbe a livello europeo quella che − giudicando dal modo come si è comportata nei riguardi degli avvenimenti jugoslavi − il filosofo André Glucksmann, parafrasando Platone, definì una cité des cochons. II. Sta di fatto che gli intellettuali in generale, e gli scrittori in particolare, si sono disinteressati della condizione dei diversi popoli nel mosaico sovietico anche perché non si sono mai presi cura della situazione delle diverse comunità nazionali, etniche o solamente linguistiche nel così detto “Occidente”. Secondo la mia esperienza personale quale membro dell'Associazione internazionale per la difesa delle lingue e delle culture minacciate, sono rari gli uomini di cultura cui stanno a

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cuore la salvaguardia e lo sviluppo del patrimonio linguistico delle così dette “minoranze”. Anche i migliori, voglio dire quelli che spiccano per le loro disposizioni umanistiche, vengono meno quando si tratta di opporsi alla teoria e alla pratica della concezione dello Stato come nazione, État-nation. Se, infatti, ammettiamo che la Spagna post franchista abbia risolto non ottimamente ma in ogni modo saggiamente il problema delle identità, e che il Belgio stia andando verso una forma federativa di convivenza, restano soprattutto la Francia e l’Italia a dover trovare una forma onesta di applicazione dei diritti delle comunità minoritarie. L’esempio del Tirolo del Sud o Alto Adige non conta perché non lo si può comparare con gli altri casi e le altre situazioni. Questo nell’area mediterranea; al Nord invece c’è la Gran Bretagna coi suoi problemi. Ma, tralasciando la cernita dei singoli casi, di cui anni fa scrisse Sergio Salvi nel volume Le nazioni proibite, Vallecchi, Firenze 1973, e riguardo all’Italia, Le lingue tagliate, Rizzoli, Milano 1975, ciò che ci interessa sottolineare è che – anche nei casi in cui l’opinione pubblica è favorevole o almeno indifferente – sono i rappresentanti della cultura, che trovano il modo di osteggiare decisioni in favore delle lingue minoritarie o, come ora si preferisce denominarle, “lingue meno diffuse” – la Commissione della Cee sovvenziona infatti un organismo che difende le lingue “meno diffuse”. Così è avvenuto in Francia, così la proposta di legge per la salvaguardia delle lingue minoritarie – art. 6 della Costituzione della Repubblica Italiana – è stata avversata tra gli altri anche da due premi Nobel e dal Presidente del Senato. Potrei aggiungere che l’autore di questo intervento è scrittore appartenente alla comunità slovena del Friuli Venezia Giulia e che quindi parla anche per esperienza diretta. Non dico del passato, quando il regime fascista incendiava le case di cultura slovene e la lingua slovena era proibita in pubblico. Ora le scuole slovene ci sono e c’è il teatro sloveno e ci sono le case editrici ecc., eppure dal trattato di Londra del 1954 e dal trattato di Osimo del 1975 fino a oggi la comunità slovena giuridicamente ancora attende di essere riconosciuta, mentre il comune di Trieste, nel suo statuto, ignora la presenza dell’identità slovena…

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Ora io credo che, se è vero, come scrisse Jacques Monod, che non ci sono lingue primitive, e se è vero, secondo Claude Lévi-Strauss, che non ci sono popoli bambini, la disposizione dell’intellettuale verso una lingua minacciata dovrebbe essere quella naturale di volerla difendere. Per lo scrittore la lingua è cosa sacra, però non solo la sua, qualunque lingua che è in pericolo di venir tagliata, secondo la diagnosi drastica ma realistica, nel mondo della psicologia, di Salvi. Il quale parla di genocidio «non fisico, certo, ma linguistico, culturale, sociale, ma comunque genocidio». Per fortuna, molte delle comunità linguistiche che sembravano già afone si stanno riprendendo; il rifiuto dell’omogeneizzazione e del planetarismo, vantato dal razionalismo e dalla tecnica, sta pian piano equilibrando le coscienze, sostenute con efficacia dagli ecologisti, giacché se si ha a cuore l’atmosfera, le acque, gli animali, tanto più bisogna preoccuparsi di salvare una lingua, che è un valore creato dall’uomo. E, qua e là, c’è anche qualche scrittore che, con il suo nome, s’impegna ad andare contro corrente. Così lo scrittore Gore Vidal, in un articolo apparso su «Le Figaro» del 30 luglio di quest’anno, si compiace di ironizzare un po’ sullo Stato francese che si avvale, egli dice, della forza centripeta, mentre sarebbe giusto essere per quella centrifuga. Poi aggiunge: «Io sono convinto che i Baschi, i Curdi, i Bosniaci, gli Scozzesi hanno diritto di staccarsi… e nel momento stesso in cui io scrivo più di un Bretone del Finistère sogna gli stessi sogni». E ancora: «Dal momento che gli Scozzesi non vogliono aver Londra per capitale, che li si lasci liberi. Al momento giusto, essi accetteranno Bruxelles o Strasburgo come centro economico e commerciale…». Un ottimo ragionamento, e per di più pubblicato sul più importante quotidiano di Parigi; ma il punto interrogativo bisogna metterlo dopo, cioè, dopo la domanda: quanti scrittori francesi, quanti rappresentanti della cultura francese saprebbero essere europei al livello di Gore Vidal? E nella Repubblica Italiana? E a Trieste, dove le due comunità principali vivono in simbiosi da più di dieci secoli, quanti uomini di cultura hanno a cuore l’identità minoritaria?

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E, per concludere, parlando dei diritti delle minoranze della Bosnia, il ministro degli esteri francese Roland Dumas precisa: «Io preferisco chiamarle comunità nazionali». Ed è giustissimo. Ma i Bretoni, allora? Anche se loro non possono essere una comunità nazionale ma soltanto dei cittadini francesi che usano una lingua “regionale”, a quando uno statuto per la lingua e la cultura bretone? Eppure, alla fine di luglio, su 580 comuni della Bassa-Bretagna, 518 si sono dichiarati a favore della loro lingua materna! La conclusione, quindi, è molto semplice: se gli intellettuali, e soprattutto gli scrittori, si interessassero della sorte delle identità che sono differenti dalle loro, non ci sarebbe ora la confusione riguardo ai diversi “nazionalismi” dei popoli che così “bene” avevano vissuto insieme. E dall’altro canto, una visione come quella di Gore Vidal potrebbe premunire gli intellettuali di diversi paesi d’Europa a non trovarsi domani in situazioni non molto differenti da quelle che sono, purtroppo, sul tappeto oggi. Trieste, il 30 agosto 1992

Note 1. «In tutta l'Europa i focolai di violenza e fanatismo hanno imparato a convivere e interagire in luoghi o etnie, lingue e religioni diverse». 2. «La lotta delle nazionalità si è rivelata almeno altrettanto importante per spiegare la storia con l'economia; e il sistema è stato quindi ignorato». 3. «che avevano imparato a convivere e dialogare».

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Le identità sono prioritarie (Mitteleuropa: una metafora e la sua traduzione)

Non c’è alcun dubbio che se, oggi, la Mitteleuropa è la metafora di un’unione, la quale, nonostante le differenze delle sue componenti, era un universo unitario, la città di Trieste, porto di quell’universo, ne era la copia in miniatura. Ciò fino al 1918, quando finisce l’impero viennese e cambia anche il destino di Trieste, che viene tagliata dal suo retroterra al quale doveva il suo straordinario sviluppo. Se è vero, però, che l’emporio triestino era stato il luogo di convivenza di persone di diversa nazionalità, in verità vi predominavano due etnie, l’italiana e la slovena. Così attraverso i secoli e così oggi. La prima si è accresciuta considerevolmente dopo la prima guerra mondiale, la seconda è, invece, anche se meno numerosa a causa di diversi avvenimenti storici, sempre presente perché dai sobborghi della città inizia il mondo sloveno. È innanzitutto alla sorte di questo mondo sloveno che sono dedicate le considerazioni di queste poche cartelle. In primo luogo bisogna sottolineare che alla gente slovena non fu dato di poter raggiungere l’unità, che, in base al principio etnico-linguistico, aveva chiesto nel 1848. Fino al 1918, gli Sloveni furono infatti divisi in marche e contee, la loro proposta di far parte di un’unione federale fu respinta da Vienna, che non prese mai, come sottolinea Robert A. Kann, «fino al 1918 in considerazione una soluzione giuridica unitaria del problema nazionale sloveno»1. Si tratta di cose note, come è noto che la realizzazione della unità nazionale slovena non sarebbe stata accettata dalla Germania, perché ne avrebbe ostacolato la discesa verso l’Adriatico. Ciò a cui di solito si dà poco rilievo è il fatto che alla prassi miope dell’Austria, riguardo all’entità slovena,

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seguì, poi, l’inaccettabile alternativa italiana. Infatti, dopo la conclusione della prima carneficina mondiale, lo stato italiano non ebbe soltanto Trieste ma una piccola parte dello spazio mitteleuropeo, cioè del territorio sloveno e croato. E questo fu l’inizio degli avvenimenti, che conosciamo: l’appoggio italiano alla piccola Austria, l’inclusione di questa nel Reich, l’annessione da parte di Mussolini della così detta “Provincia di Lubiana”, l’insediamento del potere tedesco, nel ’43, a Trieste, potere che, in caso di vittoria, sarebbe stato definitivo. Il significato di questo breve riassunto? In primo luogo questo: rendere ben evidente la ragione per cui il pensiero politico sloveno si rivolse al meridione slavo sia dopo il primo conflitto mondiale, cercando protezione nel regno jugoslavo, sia dopo la seconda guerra mondiale, quando, salvatisi dalle mire di conquista tedesca e italiana, gli Sloveni euforicamente accettarono la visione di una nuova meravigliosa fratellanza. La paura di scomparire, quindi, spinse l’entità slovena a scambiare il suo naturale cardine mitteleuropeo con l’unica alternativa che le si offriva. E sebbene questo palliativo in fondo le fosse stato utile, era in verità rischioso, ciò che risulta specialmente manifesto in questo secondo periodo post-bellico che vide, dopo la scomparsa dell’universalismo tedesco, la marcia trionfale di quello marxista che contava di eliminare una volta per tutte il principio nazionale. Ma di fronte a tutto ciò mi interessa soprattutto constatare quale fu il ruolo della cultura delle grandi nazioni in questo rivolgimento. Non c’è dubbio, infatti, che presso i grandi prevale il sentimento della propria superiorità, in modo speciale, poi, nei confronti dei cosiddetti “popoli senza storia”; pensiamo, a questo proposito, che Marx e Engels posero l’accento sulla definitiva soppressione, avvenuta con la forza spirituale e fisica tedesca, anche delle tisiche etnie carinziana e dalmata. E in ciò non erano molto lontani dai nazisti. Certo, quando il discorso verte sugli importanti autori austriaci, si sottolinea soprattutto il loro universalismo, in modo speciale se si tratta di scrittori ebrei, o il loro nichilismo, il loro scetticismo, e ciò significa che sono stati postmodernisti ante litteram e perciò sono oggi, forse esageratamente, in auge.

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Nonostante ciò, dal momento che li conosco relativamente poco, mi fiderei di Egon Schwartz, che constata come in nessuno dei detti autori si può notare un accenno ad un’eventuale uscita di sicurezza. Per ciò che mi riguarda, dirò che sono stato molto sorpreso scoprendo che Roth, parlando degli Sloveni, accenna ai minareti e ai fedeli inginocchiati sui tappeti; rimasi infatti sorpreso, perché egli, così facendo, allontanava la comunità slovena dal territorio che avrebbe avuto, con il fronte carsico-isontino, un ruolo di primo piano nel conflitto che si preannunciava. E se con questo accenno mi avvicino a Trieste, punto nevralgico tanto del primo che del secondo conflitto mondiale, penso che non si possa dire, come afferma Matvejević in un suo scritto2, che gli scrittori triestini italiani abbiano parecchio «contribuito alla cultura sopra-nazionale dell’Europa centrale». Saba, per esempio, accenna sì alla convivenza di diversi popoli nella città di Trieste, ma, riguardo all’identità slovena, non è che si possa trovare in lui alcunché di stimolante. Anzi, alcuni punti di riferimento rivelano una disposizione tutt’altro che favorevole. Con Svevo è peggio, non solo gli sloveni non li conosce, sebbene viva in mezzo a loro, ma, secondo ciò che ci riferisce sua figlia Letizia, «non dissimulò la simpatia per il socialismo ma non s’iscrisse a questo partito che allora era considerato pro-slavo o pro-austriaco. Egli si sentiva troppo italiano per aderire ad un partito che si dichiarava internazionalista»3. Un po’ differente è lo sviluppo spirituale di Slataper, ma in ogni modo la sua primaria disposizione verso l’elemento sloveno, che si manifesta nel libro Il mio Carso, evolve poi in chiave irredentista, cioè in una programmata conquista di territorio sloveno e croato e con ciò in una penetrazione in zona mitteleuropea. Si tratta in sostanza della continuazione di quella disposizione nella letteratura italiana che ispirò al Pascoli il plauso per l’avventura libica, che fece di D’Annunzio il poeta-soldato, che persuase Papini che la lupa romana non era una belva bensì una nutrice che allattava i popoli4. Secondo me possiamo constatare una deficienza, quasi una trahison des clercs, degli scrittori delle grandi nazioni che non hanno sentito i problemi dei piccoli popoli e, con il loro nichilismo e la loro coscienza di superiorità, si sono disinteressati

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di quell’importante problema ch’è il desiderio di una comunità di realizzarsi come un’entità indipendente. Certo, non avrebbe alcun senso parlare del passato senza cercare di collegarlo con il presente, che è, per fortuna, meno indifferente, ma ancora sempre non abbastanza interessato alle questioni che, in fondo, non sono solo slovene. E resto sempre nell’ambito della cultura; a questa, però, oggi, nonostante tutto, non è ancora manifesto che senza l’attuazione di una struttura statale slovena (e, certo, di quella croata) non ci può essere un coerente ordinamento dello spazio mittleuropeo e di quello europeo tout court. Con ciò non è detto che si debba addivenire a una forma di indipendenza completa, ma certo tale che renda possibile uno sviluppo politico-economico-socialeculturale autonomo. E ciò può essere realizzato con un’unione confederativa. Purtroppo, però, le personalità della cultura dei popoli vicini prendono in considerazione il problema jugoslavo nel suo insieme, si preoccupano della totalità, come se questo potesse essere saldo anche quando le sue parti sono difettose. La realtà ci dimostra, invece, che è vero proprio il contrario. In relazione a ciò vorrei, senza pensare di rivelare alcunché di nuovo, far presente ai colleghi scrittori che la visione totalizzante del mondo ha fatto il suo tempo. Il filosofo italiano Gianni Vattimo nel libro uscito ultimamente dice: «… molteplici popoli e culture hanno preso la parola sulla scena del mondo, ed è divenuto impossibile credere che la storia sia un processo unitario, con una linea continua verso un telos»5. E ancora: «Caduta l’idea di una razionalità centrale della storia, il mondo della comunicazione generalizzata esplode come una molteplicità di razionalità ‘locali’ – minoranze etniche, sessuali, religiose, culturali o estetiche prendono la parola…» (p. 7). E se questo è vero, e credo che nessuno dubiti che non lo sia, allora il nostro mondo di domani non può essere che un mosaico intelligentemente costituito da coscienti entità nazionali, etniche, linguistiche. E qui può sembrare ch’io mi ripeta. Ma in verità non è così, vorrei soltanto cercare di sciogliere il malinteso che involontariamente sorge tra diversi uomini di cultura, del resto molto aperti, e i difensori delle testé menzionate e non ancora realizzate o minacciate entità.

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Me ne offre l’occasione l’intervista con Claudio Magris, apparsa nel primo numero della pubblicazione «IsonzoSoča» che ha come sottotitolo «Giornale di frontiera»7. Ma già prima, nel mio contributo a Vilenica ‘87, obiettavo brevemente all’opinione di Magris che il nostro perseverare nell’affermazione nella propria identità fosse esagerato. Là si trattava della sua osservazione riguardante Rebula e me 8, ma allora Magris giudicava in egual maniera anche degli Slovacchi, nel suo libro Danubio. Ora, nel giornale citato, egli è decisamente contrario al sottotitolo, perché, dice, se parliamo della gente di frontiera – delle comunità italiana, friulana, slovena – dimentichiamo il mondo. Così, dice, «si finisce per sottolineare le differenze, essere ossessionati di se stessi e perdere il mondo». Si parla di Gorizia, ma lo stesso vale anche per Trieste. Come già dissi due anni fa, mi rendo conto molto bene di ciò che Magris desidera, e credo che sarebbe molto bello se potessimo trasportarci nell’atmosfera pura dove poter “trascenderci”, come egli propone. Ma mi sia permesso di osservare che Magris propugna quel superamento delle identità, che fu la ragione principale del crollo dell’universalismo mitteleuropeo austriaco. Senza rendersene conto, Magris sta offrendo come medicina ciò che in verità medicina non è. La particolarità, dice, citando una frase di Matvejević, non è ancora un valore, «lo diventa quando è trascesa in una cosa più alta». Ciò Matvejević lo afferma in relazione ai problemi jugoslavi – e così questa seconda parte delle mie riflessioni si congiunge con la prima parte, quella slovena. Certo, né Magris né Matvejević rinnegano le diverse identità particolari, ma le «trascendono», ciò che è, però, oggi, anacronistico, come abbiamo visto. Ed è interessante, a questo proposito, che Magris stesso, parlando del tentativo austriaco di una soluzione totalizzante, ne spiega l’insuccesso in un brillante studio pubblicato da «Lettera internazionale» n. 17, p. 10710. Non solo, al direttore del giornale goriziano rimprovera il sottotitolo «giornale di frontiera», mentre il libro, di contenuto storico-letterario, scritto da Magris insieme ad Angelo Ara, ha come titolo Trieste. Un’identità di frontiera. In un certo modo, quindi, Magris si contraddice, ovvero, vorrebbe egli stesso “trascendere” la verità equamente constatata.

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Penso che Magris nella sua nobile visione non sia nel giusto, perché non giudica dalla posizione delle comunità minacciate. Quando, per esempio, egli rimprovera gli Slovacchi di pensare alla difesa anche quando non è necessario, egli dimentica che essi non solo difesero la propria identità ma ancora la stanno difendendo. Lo stesso vale per la Slovenia, quantunque formalmente essa sia una repubblica. Così egli è ingiusto sostenendo che lo stile degli scrittori che si interessano della sorte dell’identità, manchi di signorilità dato che è naturale che non si può pensare all’eleganza, quando ci si difende dal genocidio culturale o solamente dall’assimilazione. Perciò la visione di Magris sarà giusta, quando Parigi sarà meno giacobina con le comunità non-francesi, quando Roma riconoscerà le identità non italiane, quando Ceausescu finirà col genocidio dei paesi ungheresi ecc. Perciò la traduzione della metafora mitteleuropea può essere solo un’Europa, che non sarà né occidentale né mitteleuropea né orientale, ma una convivenza federativa di tutte le identità del nostro continente. E ciò vuol dire che, se il mondo mitteleuropeo era nel passato un mondo di qualità senza gli uomini, del mondo di domani bisogna cercare di farne una federazione in cui ogni comunità confermerà le proprie qualità come soggetto autonomo. E in questa evoluzione verso una nuova società umanista noi scrittori possiamo avere un ruolo valido, soprattutto, e lo accentuo, ancora, quelli di noi che, nel valorizzare la propria entità nazionale, non hanno né difficoltà né problemi. Vilenica 1989

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Note 1. Robert A. Kann, The multinational Empire, New York 1964. 2. Predrag Matvejević, Srednja Europa in slovansjki svet. La traduzione francese in «Nouvelle Alternative», n. 8, dicembre 1978. 3. «… il ne dissimula pas sa simpatie pour le socialisme mais il ne s’inscrivit pas à ce parti qui était alors considéré comme proslave ou proautrichien. Il se sentait trop italien pour adhérer à un parti qui se déclarait internazionaliste». Jean Clausel, Rencontre avec Letizia Svevo, in Italo Svevo et Trieste. Cahier pour un temps, Centre Georges Pompidou, Paris 1987. 4. Giovanni Pascoli, La grande proletaria si è mossa. Gabriele D’Annunzio, Beffa di Buccari ecc. Giovanni Papini, Italia mia. 5. Gianni Vattimo, La società trasparente, Garzanti, Milano 1989, p. 57. 6. Ivi, p. 17. 7. «Isonzo-Soča», Giornale di frontiera, Gorizia. 8. Angelo Ara, Claudio Magris, Trieste, un’identità di frontiera, Einaudi, Torino 1987; Boris Pahor, Podnebje in njegova skrivnost (Il clima e il suo mistero), «Zaliv», 1987, pp. 1-4. 9. «Isonzo-Soča», pp. 10-12. 10. Claudio Magris, Mitteleuropea: il fascino di una parola, pp. 11-20. In «Lettera internazionale», 17, pp. 11-20.

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Il pregio delle culture minoritarie

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Credo al valore delle piccole Nazioni. Credo nel valore dei piccoli numeri. L’umanità sarà salvata da pochi. André Gide

La citazione di Gide, l’autore di questa relazione l’aveva fatta propria già alcuni decenni fa, quando si era affrettato a servirsene per confermare, con l’aiuto di una personalità indiscussa, qual era lo scrittore francese, il convincimento che le entità dette minoritarie prima o poi avrebbero affermato la loro identità. Si trattava di un modo di pensare che andava contro corrente, dal momento che lo sviluppo della tecnica del xx secolo faceva pensare a un’uniformità di ampiezza planetaria. E la persuasione che i «piccoli» avrebbero avvalorato il proprio essere, da una parte si fondava su un’esigenza sostenuta dal diritto, che non avrebbe dovuto essere alla discrezione del più forte o del più grande; dall’altra era sostenuta dalla convinzione che alla massificazione sarebbe seguita un’azione antitetica che avrebbe, contro l’omogeneizzazione, propugnato la priorità delle singole individualità. È oltremodo positivo il constatare che a una constatazione simile si arrivi anche per vie diverse, come è quella, per esempio di Leopold Kohr, professore all’Università di Puerto Rico, che – con la sua “teoria delle dimensioni” – constata che la miseria sociale dipende dalla grandezza degli Stati. La sua opera, edita a Londra col titolo The Breakdown of Nations e pubblicata nelle Edizioni di Comunità col titolo Il crollo delle nazioni, merita di essere menzionata proprio per l’esame sistematico e multilaterale della differenza tra le condizioni di vita nei macrostati e quelle delle entità quantitativamente contenute. E, in primo luogo, il suo interesse è rivolto alla situazione economico-sociale. Ciò non toglie però che ciò che riguarda le condizioni di vita non valga anche per la cultura.

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Ed è appunto in base alla ricchezza della vita culturale negli Stati di piccole dimensioni territoriali che l’autore dimostra la giustezza della sua teoria. La filosofia e l’arte nelle città-stato greche, la letteratura, la pittura, l’architettura durante l’epoca dei Principati italiani, la poesia, la musica, i valori architettonici nei piccoli Stati della Germania di un tempo – sono là a dimostrare come lo spazio ridotto di un’entità statale viene compensata da una straordinaria creatività artistica. Non solo, ma l’autore dimostra anche che pure i danni dei fatti negativi vengono contenuti se si sviluppano nell’ambito di un ambiente circoscritto: una dittatura, per esempio, sarebbe necessariamente limitata e, oltre a ciò, arginata dalla impermeabilità degli Stati vicini. Il «crollo delle nazioni» perciò riguarda gli Stati che sono divenuti territorialmente grandi col ricorso alla forza, non le nazioni in generale. E l’autore non ha nessuna difficoltà a enumerare le diverse «piccole» nazioni, che sono state il materiale per formare l’Inghilterra, la Francia, la Germania, giacché, egli dice, «Non una sola regione di questi grandi Stati accettò spontaneamente di unirsi alle altre. Tutte vi furono costrette con la forza e si riuscì a mantenerle insieme soltanto adottando il sistema di suddivisione in contee, in distretti (gaue), in dipartimenti» (p. 367). Come si disse, Kohr si interessa principalmente della miseria e la sua dissertazione tende a dimostrare che una federazione di entità di piccole dimensioni risolverebbe i maggiori problemi economici del nostro pianeta. Certo, non sta a noi dilungarci su questo problema, che non rientra nel tema prefisso per questo incontro; non c’è alcun dubbio però che l’impostazione dello studioso calza a pennello con la questione che ci sta a cuore. E intanto bisogna innanzitutto chiarire il fatto che, parlando delle culture “minoritarie”, questo termine non si riferisce, come dovrebbe essere chiaro, al loro valore intrinseco, ma alla loro posizione specifica. O sono cioè culture di vere comunità etniche o nazionali finora non confermate in Stati a sé stanti, o sono culture di comunità viventi in Stati in cui sono definite “minoranze”, anche se in molti casi dette “minoranze”, si calcolano a milioni o addirittura a decine di milioni, come i Curdi,

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per esempio. È logico che in questo caso la “minoranza” è una nazione divisa tra diversi Stati e quindi dobbiamo includerla nel novero delle comunità etniche e nazionali non riconosciute. E non sono poche. E di ciò in questa sede si ebbe occasione di parlare l’anno scorso, durante l’incontro dedicato al problema. E si ebbe anche l’occasione di lamentarsi che, in generale, gli intellettuali, soprattutto gli scrittori, si disinteressano della situazione delle lingue e delle comunità misconosciute delle quali si accorgono, se se ne accorgono, soltanto quando si trovano davanti a conflitti in atto. E anche allora, invece di cercare le ragioni prime degli scontri, invece di immedesimarsi in quelle che sono le reazioni intime, ci si scandalizza sull’impulsività del rifiuto o della rivolta. Ma siccome ci si è prefissi di dire dei pregi delle culture cenerentole, chiamiamole così, ci riferiremo ancora una volta a quello che dice Kohr. La sua affermazione è questa: Firenze, Venezia, Ferrara ecc., questi piccoli Stati ci diedero Dante, Michelangelo, Raffaello, Tiziano, ecc. Così Stati come la Baviera, il Baden, Francoforte ecc. ci diedero Goethe, Heine, Kant, Dürer, Beethoven ecc. Ma se questo è vero, come è vero anche per Tucidide, Eraclito, Parmenide ecc., allora è possibile che altre piccole comunità, equiparate per consistenza numerica di abitanti a delle cittàstato di una volta, abbiano dato anche loro delle opere di cultura di un certo valore. È possibile, anzi è quasi certo, soltanto che lo si ignora, eccetto nei casi eccezionali, come quando Gide crede nel valore delle piccole nazioni. Si tratta di possibilità che però nel passato, come abbiamo visto, sono state confermate da casi molto convincenti. Ma anche più vicino, nel tempo, a noi. Se prendiamo in considerazione, per esempio, l’Irlanda, constateremo che ancora all’inizio di questo secolo la nazione irlandese era “minoritaria” e constateremo pure che, come tale, ha dato alla cultura europea autori quali Shaw, Joyce, Yeats e Wilde, come giustamente nota Kohr. Il primo pregio delle culture, che la storia e la politica hanno rimosse, sta perciò nella loro disponibilità a poter essere scoperte. Un pregio per certi lati ancora negativo, se si vuole, ma che in un domani più o meno lontano, o vicino, verrà, come ogni scoperta,

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ad aprire orizzonti nuovi. Ma più che il ritrovamento di questi “piccoli” continenti tanto a lungo mascherati, sarà importante il contenuto delle loro identità. E parlando di contenuti, si apre tutta una serie di pregi che le “piccole” culture possono offrire al patrimonio culturale dell’umanità. (Qui ci sia concesso di aprire una parentesi che forse apparirà superflua, ma è giusto che ci sia. Mettendo l’aggettivo “piccole” tra virgolette non solo, come è evidente, non si vuole sottolineare l’improprietà di esso, ma si vuole sottolineare proprio il contrario. Si sta infatti trattando di culture “minoritarie” nei casi in cui, ponendo il problema in termini differenti, si parlerebbe di quelle entità che Sergio Salvi nel suo testo del 1973 definì le «nazioni proibite» e, nel sottotitolo, «dieci colonie interne dell’Europa occidentale»). In questo senso la prima rivelazione di ogni nuova voce che uscirebbe dall’anonimato, non potrebbe non essere che la partecipazione, l’offerta del proprio essere, della sua unione col territorio nativo, della visione del mondo che ne è seguita e ne segue, delle sue aspirazioni e delle sue contrarietà, del lungo percorso sofferto prima di vedere riconosciuta la propria identità. Senza errare troppo, si potrebbe dire che l’apporto maggiore di ogni singola comunità “minoritaria” così rivelata sarebbe dato dalla spiegazione come, nonostante tutte le vicissitudini, la fedeltà al proprio essere non si è lasciata sommergere. Tutto il complesso di problemi psicologici conseguenti ai fattori storici e politici verrebbe alla luce proponendo del materiale di studio al quale nemmeno gli specialisti sinora si sono molto interessati. Come già è stato constatato, è difficile trovare nei volumi di psicologia dei capitoli dove si tratti dei traumi di bimbi e fanciulli, di scolari per esempio, costretti a rinnegare la lingua loro propria e, usandola, venire castigati senza sapere la ragione della loro “colpa”. Così è difficile trovare la descrizione del carattere di coloro che hanno accettato di essere dei rinnegati del proprio essere intimo. La psicologia del profondo, del subcosciente, si è occupata poco di queste forme traumatiche. Forse si dirà che il sintagma di pregio è inadatto nei casi in cui di fatto si tratta per lo più di constatazioni negative. E può essere vero.

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Ma dal nostro punto di vista, dal punto di vista, in fondo, etico, la fedeltà a se stessi non può che essere un pregio, come è stata sempre considerata un dovere la lotta per la libertà e quindi rispettato e citato come esempio da seguire colui che per la libertà si è battuto o si è per essa anche sacrificato. In ogni modo, all’infuori di questi tempi complessi, la cultura tenuta, per così dire, in ombra, è ricca di opere che esaltano l’importanza delle tradizioni, la bellezza del paesaggio, la qualità delle opere letterarie e artistiche. Questa profusione di creatività la si può ammirare negli ultimi anni, per esempio, in Catalogna, che, dopo la fine del franchismo, esalta la propria autonomia con un fervore creativo meraviglioso. Così il ii Congresso della lingua catalana non è stato solo una riunione di linguisti, letterati e pedagoghi ma festa nazionale celebrata sulle piazze della città e dei paesi ballando la sardana o cantando, come a Barcellona, in 60.000 presso la Sagrada Familia di Gaudì, che è, d’ora in poi, architetto catalano e non spagnolo come affermano le enciclopedie. E lo stesso si dica Pablo Casals. Ciò che significa, per ciò che riguarda i “minoritari”, che prima o poi bisognerà rivedere anche le enciclopedie. A parte bisogna dire invece di quelle comunità che sono in qualche maniera ancora di più “minoritarie”, quantunque oramai questo vocabolo lo si sostituisca con altri meglio confacenti: comunità etniche, linguistiche, gruppi che parlano lingue meno usate, lingue e culture minacciate ecc. Dette comunità si distinguono a loro volta in quelle che sono un’estensione oltre il confine di territori della vicina nazione-madre, diciamo così. E i casi sono molteplici: baschi e catalani in Francia, provenzali, tirolesi, sloveni in Italia, italiani in Slovenia e Croazia, sloveni e croati in Austria ecc. Queste culture, minoritarie in confronto con la popolazione in cui vivono, vedono valorizzata la loro cultura nelle rispettive loro patrie. Ciò che nella maggior parte dei casi invece è difettoso è la conoscenza del valore di dette culture da parte della cultura maggioritaria. I governi e in primo luogo i ministri dell’istruzione dei paesi con comunità alloglotte – il termine è usato per gli sloveni del Friuli Venezia Giulia, sicché la Radio che trasmette in sloveno è la Radio Trieste A – non si curano affatto che nelle

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scuole maggioritarie sia conosciuta la cultura di quelli che sono differenti, dato che i governanti preferiscono che i parlanti “lingue meno conosciute” continuino a restare in ombra fino al completo assorbimento. Così l’articolo 6 della Costituzione italiana, che vuole la tutela delle minoranze linguistiche, attende una legge al riguardo “soltanto” da ventisei anni: 1948-1974. Invece proprio la conoscenza dell’“altro” sarebbe il migliore antidoto sia contro l’incomprensione e, spesso, la sopraffazione, sia, dall’altra parte, il mezzo più adatto per eliminare il marchio di inferiorità con cui di solito si cerca di bollare i “differenti”. Giudizi ingiusti, certo, ma tale è il corso “normale”, nonostante il fatto che la cultura di questi “minori” spesso ha dei pregi innegabili. E lo dimostrano in primo luogo le loro opere letterarie che si sono imposte a livello europeo e anche internazionale. Vita ben più difficile è quella delle comunità che sono degli isolotti etnico-linguistici in mezzo alla popolazione maggioritaria: i croati del Molise, gli albanesi e i greci dell’Italia meridionale, per citare alcuni esempi. La cultura di queste diaspore non è senza valore, data l’originalità delle loro tradizioni, dei canti popolari e dei racconti, e spesso non mancano anche opere di autori contemporanei di qualità – ma anche in questo caso chi dovrebbe salvaguardare delle ricchezze culturali attende invece che i “differenti” vengano sommersi dall’alta marea in modo che detti isolotti cessino di vivere di vita propria. Una nota ottimista inoltre ce la offre la constatazione che negli ultimi anni l’interesse per le culture minacciate si è notevolmente accresciuto, così che si sono mossi il Consiglio e il Parlamento europei, dopo che le differenti organizzazioni hanno avvertito l’opinione pubblica un po’ dappertutto e che testi importanti hanno illustrato la situazione. Così da dover citare, per esempio, l’opera di Guy Héraud L’Europe des ethnies che, nella sua terza edizione, è un compendio conciso, essenziale ma efficace per conoscere le situazioni dove i pregi delle diverse culture dovrebbero essere salvati e apprezzati, ovvero apprezzati per essere salvati. È stata una sessantina di professori universitari scandinavi che, per prima, si è rivolta all’Unesco chiedendo che – insieme alla fauna e alla flora in pericolo – si salvassero le lingue, che

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sono creatrici e trasmettitrici di cultura. Cercando di tutelare le lingue portatrici di pregi nascosti, si è quindi – oggi – degli ecologisti di una qualità tutta particolare. Un compito nobile quanto mai: per dedicarvisi non è necessario imbarcarsi sulla Greenpeace e partire per paesi lontani, come avviene quando si tratta di opporsi allo sterminio di certi animali; spesso possiamo prendere l’iniziativa nella nostra regione, nella nostra provincia, nella nostra città e, forse, addirittura nello stabile in cui abitiamo.

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1977 Testi consultati: Denis de Rougemont, L’avenir est notre affaire, Editions Stock, Paris 1977. Sergio Salvi, Le lingue tagliate, Rizzoli, Milano 1975. Sergio Salvi, Le nazioni proibite, Vallecchi, Firenze 1973. Guy Héraud, L’Europe des ethnies, Presses d’Europe, Paris 1963. Denis de Rougemont, Lettre ouverte aux Européens, Albin Michel, Paris 1970. Leopold Kohr, Il crollo delle nazioni, Edizioni di Comunità, Milano 1960. Sergio Salvi, Patria e Matria, Vallecchi, Firenze 1978. Ulderico Bernardi, Le mille culture, Coines Edizioni, Roma 1976.

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Dalla comunità etnico-linguistica alla Federazione europea

Credo sia opportuno che, già come preambolo, io precisi come queste mie note non sono indirizzate ai convertiti, diciamo così, alla valorizzazione del problema etnico, etnico-linguistico o nazionale. Allo stuolo di studiosi, di attivisti, di veri apostoli che in questi ultimi anni hanno dedicato il meglio di se stessi per riportare alla luce ciò che fa parte del “minus valore” come bene ebbe a definirlo Barbiellini Amidei. A tutti costoro io certamente non avrei da offrire delle rivelazioni inaspettate. Vorrei riuscire, invece, a esporre qualche verità che serva a convertire gli increduli o almeno a confermare gli indecisi. E, dato che il problema, precipuamente economico o sociale, è tuttavia necessariamente psicologico, forse non sarà male rifarsi alle tesi dell’Alighieri che hanno un’anzianità di quasi sette secoli, giacché il Convivio è del 1307 e cade proprio in quest’anno il 670° anniversario della sua composizione. Nell’enumerare i fattori caratteriali che inducono le persone a preferire un’altra lingua al posto di quella materna, Dante mette al primo posto la «cecità di discrezione» o, diremmo oggi, la capacità di discernimento: la gente, egli dice, ha altro da fare e non è preparata a discutere di cose astratte. Continuando, Dante, trova che molti preferiscono il provenzale all’italiano semplicemente perché dichiarano il primo migliore del secondo. Seguono a questi coloro che vogliono far bella mostra adoperando una lingua che non è la loro, e poi quelli che accusano il proprio parlare di essere brutto mentre sono loro che lo parlano male. Infine Dante riunisce tutte queste categorie in quella quinta, cioè dei vili che rappresentano il sottofondo anche delle altre. E qui Dante esce in quella apostrofe che conoscete: «E tutti questi cotali sono li abominevoli cattivi d’Italia che hanno a vile questo prezioso volgare, lo quale, s’è vile in alcuna

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cosa, non è se non in quanto elli suona ne la bocca meretrice di questi adulteri» (Convivio, Trattato i, cap. xi). Questo passo di cui nel periodo liceale forse non ci siamo accorti come sarebbe stato opportuno, ci suona oggi, coscienti come siamo delle leggi economiche che ci attanagliano, e di quelle traversie storiche che dovemmo subire, questo passo, dico, ci sembrerà un po’ troppo crudele. Eppure tantissime volte torniamo quasi senz’accorgerci a ripeterlo in tutti quei casi in cui siamo convinti che soltanto per “viltà d’animo” si possa tradire la propria origine. Traversie storiche, ho detto. E Dante stesso avrebbe mitigato il suo giudizio se avesse potuto prevedere il futuro della lingua provenzale che egli stima sì da mostrare in Arnaut Daniel il «miglior fabbro del parlar materno» e sì da comporre in provenzale le note terzine del Canto xxvi del Purgatorio. E avrebbe mitigato il suo severo giudizio se avesse potuto constatare come il «prezioso» provenzale sarebbe stato ridotto nei secoli a venire. E se avesse potuto presentire che Federico Mistral, ben più preoccupato per la sorte del volgare provenzale di quanto non fosse preoccupato Dante per il volgare italiano, avrebbe scritto la grande massima «che un popolo anche se cade schiavo, il volto prostrato a terra, se conserva la sua lingua, ha in mano la chiave che lo libererà delle sue catene». Perché, non ostanti i casi specifici in cui un popolo conserva la sua coscienza etnica anche dopo aver perduta la propria lingua, resta pur sempre proprio la lingua la qualità precipua che definisce una comunità etnico-nazionale. Nel constatare ciò, non penso certo di ridurre il problema etnico a una dimensione linguistico-culturale, desidero soltanto sottolineare come la moderna linguistica per sue vie proprie sia qui venuta a confermare la grande verità che i difensori delle lingue emarginate hanno sempre presentito e sentito. Che ogni lingua, cioè, come afferma Georges Mounin, «conosce la realtà a suo modo, così da coglierne il lato che un’altra lingua tralascia… e ciò che vale per i mondi linguistici vale altrettanto per le civiltà» (Les problèmes théoriques de la traduction, «nrf», Gallimard, Paris 1963). Il celebre linguista Whorf esprime lo stesso concetto dichiarando che «il pensiero cerca di estrinsecarsi attraverso una sua lingua…

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che è organizzata in modo da indirizzarci sistematicamente verso dati aspetti della realtà in modo da tralasciare quelli che un’altra lingua invece annota… noi non ci accorgiamo di questa sua organizzazione e siamo del tutto prigionieri di questi indissolubili legami» (Whorf, Language, mind and reality, «Rewiew of general semantics», n. 3, pp. 167-168). Avuta questa conferma post festum la dimensione linguistica ha oggi molte più possibilità di salvarsi dall’oceano universalistico in cui si vorrebbe annegarla. Non solo, ma con la realtà lingua si riscopre la realtà tradizione, così che Konrad Lorenz senz’altro afferma che «il cervello umano potrebbe vuotarsi se non fosse alimentato dalla tradizione» e ancora: «… la perdita della tradizione crea degli esseri anormali, i criminali sono di anno in anno più giovani…» (Intervista all’«Espresso»). Se invece cerchiamo di illuminare il lato positivo della fedeltà alla tradizione potremo constatare, con l’amico Ulderico Bernardi, che «Solo chi ha bene sviluppate le proprie radici culturali è in grado di partecipare pienamente – cioè in termini di dialettica reale – a culture di più ampio respiro, senza risentirne in termini traumatici…» (Ulderico Bernardi, Le mille culture, Coines, Roma, p. 38). Con altre parole l’autore croato Antun Soljan dirà che «più uno scrittore è fedele alla sua tradizione nazionale più saprà essere cosmopolita…» («Kamov», anno ii, nn. 10/11). Si potrebbe continuare nelle citazioni constatando ad un tempo che, in quest’ultimo decennio, c’è stato un vero rinascimento di quelli che, arrivati a questo punto, possiamo ormai definire valori etnico-nazionali. E qui, per scansare in anticipo tutti gli equivoci, voglio ribadire che il termine nazionale non equivale in alcun modo a nazionalistico, definendo con il primo una qualità legittima e normale, mentre con il secondo si intende la crescita ipertrofica, l’espressione perfino parossistica della prima. Così, se coscienza nazionale equivale a fedeltà alla lingua, alle tradizioni, alla specificità della propria cultura, spirito nazionalistico sarà invece esagerata e narcisistica esaltazione con – di solito – dichiarata superiorità in confronto di altre nazioni, superiorità che si esprime in termini di ostilità, preludio di conquiste, estensione cioè non solo culturale ma antecipata da una realistica affermazione territoriale. Ho voluto

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fare questa distinzione netta tra i due termini perché oggi dalle sinistre spesso si bolla come nazionalista o nazionalistico ciò che altro non è se non sana coscienza nazionale. Ma stavo dicendo che negli ultimi anni siamo stati testimoni di una presa di coscienza di quella che è la ricchezza degli elementi etnico-nazionali. Direi che, per contrapposizione dialettica a quella che tende a essere sempre più una civiltà cosmica, gli uomini cerchino di salvarsi dalla dispersione ritrovando un contenuto nella comunità di origine. Forse, si potrebbe dire, avviene nella sfera spirituale ciò che accade in quella della natura: il problema del salvataggio dell’ambiente non è in fondo che la ricerca del mantenimento di quella molteplicità, di flora e fauna ecc., che nella dimensione umana è rappresentata dalle diversità linguistico-etniche. Certamente non possiamo soffermarci di più su questa lotta senza quartiere tra la civiltà di massa, la civiltà industriale o come già si vuole chiamarla, e i valori primari, quelli offerti da una matrice comunitaria. Basterà sottolineare che quelli che sembravano autori solitari e che erano veramente i pionieri della rinascita di cui sto dicendo (Héraud, Lafont, Binatti ecc.) ora hanno trovato dei continuatori – ricorderò altri amici, Salvi, per esempio, il citato Bernardi – che rendono di pubblico dominio delle scoperte che or sono dieci anni credevamo una ricchezza destinata a restare di dominio di un gruppo d’illusi che, donchisciottescamente, si sarebbero accaniti con i mostri della civiltà atomica. Ma ciò che, poi, è stata una rivelazione straordinaria, fu il constatare che diversi movimenti di sinistra stavano scoprendo nella dimensione etnica uno dei più validi appoggi per un’efficace attività nel senso del risveglio della coscienza di classe. Certo, nessuno dubitò che, a monte del nuovo entusiasmo per le etnie frustrate, per i dialetti condannati, non ci fosse quella volontà strumentalizzatrice che data dal catechismo di Nečajev. Ciò nondimeno questo indirizzo rivoluzionario valorizzava l’etnia e bisognava prenderne atto senza dall’altro canto dimenticare che l’etnia è anteriore alle classi e che perciò il problema etniconazionale non poteva mai essere catalogato come sovrastruttura, anzi che, per la sua essenza stessa, è la più infrastruttura delle infrastrutture! Perdonatemi il bisticcio.

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E ci è stato di grande soddisfazione incontrare su questo nostro cammino non facile uno scrittore-filosofo autorevole quale Sartre che, nell’introduzione al volume di Gisèle Salimi Le procès de Burgos, evidenziava come la sinistra basca non poteva battersi per un essere internazionale amorfo bensì doveva cercare di rifarsi appunto una nuova coscienza nazionale basca. Un altro movimento che, seppure per altra via, ritrovò l’etnia (soprattutto quella emarginata) fu il movimento esperantista. L’offerta di una lingua comune, differente dalle lingue dominanti, è una questione che, certo, deve essere lasciata alla discrezione personale; bisogna però dare atto agli esperantisti che non pochi meriti hanno sinora raccolto per la loro opera svolta a pro delle comunità etnico-linguistiche in pericolo. Arrivati a questo punto, ci troviamo davanti ai due passaggi obbligati o, direi meglio, a due vere Scilla e Cariddi che mettono a repentaglio la vita – spirituale e morale – delle piccole etnie, di quelle poi non piccole ma condannate dalla storia a un lungo letargo, e infine di quelle comunità che potrebbero, in un clima favorevole, elevarsi ad etnie e poi a nazioni. I due mostri, chiamiamoli così non per desiderio di figure romantiche ma per volontà di giustizia, sono lo Stato-nazione e i confini che gli sono stati concessi. Lo Stato-nazione in cui vive veramente una sola nazione in questo nostro discorso non ci interessa; la calamità dal punto di vista etnico è invece uno Stato che si dichiara nazione mentre racchiude più nazioni o etnie che potrebbero divenire nazioni e che sono quelle che Salvi chiama «le nazioni proibite». La Francia per esempio, i Baschi, i Catalani, i Bretoni, i Tedeschi dell’Alsazia, i Fiamminghi. E ho citato apposta questo Statonazione perché questo esempio vale benissimo a un tempo anche per quella sciagura che sono per certe etnie-nazioni i confini. Così i Baschi sono tagliati in due dal confine franco-spagnolo; lo stesso si dica dei Catalani, degli Occitani. Il discorso che qui perciò si vorrebbe fare è quindi come rendere possibile la vita piena alle etnie conculcate, come dare la possibilità di salvarsi a quelle che ancora possono essere salvate. Perché, ripetendo il concetto già espresso prima, se l’ecologia oggi si cura della atmosfera che deve restare sana e anche salubre, noi vogliamo essere gli ecologi che ci preoccupiamo

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della responsabilità dell’ambiente umano in cui l’etnia basca, quella sarda o quella friulana possano liberarsi dalla frustrazione e sviluppare la loro personalità – parlo di personalità etnica, etnico-nazionale o nazionale tout court. Per ottenere ciò lo Stato-nazione deve risolversi in quelle che sono le sue componenti, cioè le nazioni base, o le nazioni primarie, come le definisce Robert Lafont. La nazione secondaria, la dominante, dovrà, e qui non c’è via di scampo, trovare il suo posto equivalente accanto alle altre, unita a loro in un complesso federale che dia modo alle componenti di poter vivere di vita propria tanto nel campo economico quanto in quello sociale quanto in quello culturale. Logicamente ognuna dovrà cedere una parte della sua sovranità a quella che sarà l’unione federale; ma questa nuova unità sarà garanzia di giustizia non più sopraffazione e colonialismo interno. È logico, nessuno si illude che ciò possa avvenire in un periodo breve e che ciò avvenga senza difficoltà. Lo Stato-nazione – nei casi in cui le guerre, la diplomazia, i trattati gli abbiano incluso altre nazioni o brandelli più o meno consistenti di nazioni nel suo territorio – non lascerà la preda tanto facilmente. Ci vorrà del tempo per preparare l’opinione pubblica a un ordinamento di giustizia su base etnica. Ma, come già dissi, il tempo lavora per noi e l’Europa, che un domani dovrà pur nascere come una unità comunitaria, non potrà evolvere senza aver risolto i problemi imposti appunto dalla dimensione etnica. In merito a questa bisogna soffermarsi brevemente su quelle che sono le posizioni – in linea generale – dei partiti di sinistra negli Stati in cui le comunità etniche sono tendenzialmente autonome senza con ciò essere separatistiche. Purtroppo dobbiamo constatare che i partiti comunisti delle nazioni dominanti o maggioritarie che dir si voglia sono per lo più restii a trattare le questioni etniche in maniera soddisfacente. La loro presa di posizione, da quella giacobina e centralista in Francia a quella più sfumata ma in sostanza amorfa in Italia, resta radicata alla nota tesi che cioè una volta risolta la lotta di classe con la vittoria della classe operaia il problema etnico-nazionale si risolverà sé. Tesi del tutto errata che certi teoretici tra i comunisti stessi hanno

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di già confutato dimostrando che, con l’avvento al potere del proletariato, l’entità nazionale si rafforza invece di affievolirsi, e si sviluppa e si rafforza appunto perché può avvalersi di tutte le attività popolari che prima languivano in sordina. È di questi giorni un articolo sulla rivista romena «Viitorul social» nel quale si afferma che, nel socialismo, la nazione trova il modo di fiorire veramente e che quindi è errato pensare che il suo significato nel socialismo possa diminuire. Certo, queste affermazioni così decise e – diciamolo subito – giuste sono la risposta alle tesi internazionaliste sovietiche; ciò nondimeno vengono a confermare la verità a cui non abbiamo mai rinunciato, della priorità del fattore etnico-nazionale. Ma, tornando ai partiti comunisti dell’Occidente, dobbiamo dire che, se ora parlano di colori nazionali, come per esempio in Francia, questi sono i colori del tricolore francese non quelli della Ikurriña, bandiera basca e catalana e bretone ecc. Un po’ meglio va in Francia col partito socialista, peggio altrove, in Italia per esempio dove per le «lingue tagliate» c’è molta demagogia in periodo elettorale ma poco spirito europeo. Tornando così all’Europa, a quella di domani, ci spostiamo su un terreno che è in parte visione proiettata nel futuro ma in parte già anche, diciamo così, realtà in fieri. Sto dicendo di quell’Europa delle regioni che ha trovato dei teoretici validi da Gravier a Philipponeau, da Lafont a Morvan Lebesque a Denis de Rougemont. Forse mi fermerei a quest’ultimo che, col suo libro Lettre ouverte aux Européens, ci dà un simpatico vademecum per tutti coloro che propugnano sia un decentramento di potere sia un decentramento demografico cioè la risoluzione di quel bubbone pestifero ch’è la macrometropoli industrializzata moderna. Denis de Rougemont parte dal presupposto – che mi sembra accettabile – che per l’Europa non vale la tesi di Spengler della fine della sua cultura corrispondente alla fine di un organismo vegetale o animale. Così de Rougemont si oppone, per la stessa ragione, a Hegel e a Toynbee, a Valéry e io aggiungerei al Vico che il de Rougemont peraltro non cita. La prima ragione, che credo valevole, addottata dal Rougemont in favore della continuazione della cultura europea, è la constatazione che la fine di un egemonia politica non ha come conseguenza necessaria la

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decadenza della vitalità di una civiltà. Non è detto poi, egli dice, che si possa comparare la nostra complessa civiltà con le civiltà antiche che sono tramontate. Anche perché, e qui veniamo al punto principale, la nostra civiltà è pluralistica e profana, mentre le precedenti erano omogenee, uniformi, monolitiche e basate su un principio di sacralità. Credo che Denis de Rougemont in queste sue ottime pagine tocchi i punti cruciali riguardanti il nostro futuro. E, sottolineando che anche il marxismo fa parte della cultura europea, egli riporta anche quella che potrebbe eventualmente essere l’alternativa socialista alla dimensione europea che forse in questi ultimi anni sta prendendo un avvio prima inatteso. Ma restando al fulcro del discorso di de Rougemont mi sembra di somma importanza la sua proposta di un futuro europeo che si realizzi con l’unione della diversità. Ciò che, secondo lui, potrà farsi trovando gli anticorpi ai due veleni, ai due virus principali che sono il nazionalismo e il materialismo. E l’autore è sicuro che siamo proprio noi, Europei, a poter arrivare a trovare degli antidoti perché siamo stati noi stessi già vaccinati contro i mali a venire col fascismo e col nazismo che abbiamo appunto combattuto e vinto. Forse si potrà discutere con de Rougemont sulla durata dell’efficacia del vaccino o vaccini in questione; resta pur sempre vero che, nel futuro, dovremmo saper evitare una nuova prova del malanno nazionalista. Per ciò che riguarda l’avvio verso una soluzione socialista, scartate che avremo le formule totalitarie che ci si offrono dal 1917 in poi, dovremmo – basandoci sulla nostra tradizione complessa e multiforme (Rougemont) – saper organizzare una società pluralistica originale. Sarebbe, questa, una possibilità nuova, il vero terzo mondo tra l’internazionale del capitale e l’internazionale classista. Il de Rougemont vede la soluzione del problema, come già altri prima di lui, in un’Europa di autonomie regionali, unite in una grande federazione europea. Sarebbe un discorso troppo lungo il voler esaminare quali potrebbero essere le regioni che, come dei tasselli di un mosaico, formerebbero il complesso federale. Basterà accennare che, secondo il de Rougemont, regione potrebbe essere un complesso geografico-economico comprendente da uno a cinque milioni di abitanti. La Baviera per esempio. O la Regione Friuli Venezia

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Giulia, aggiungeremmo noi. Ma quantunque ammetta che inizialmente le regioni dovrebbero essere a dimensione etnica, il de Rougemont è convinto che poi queste unità col tempo si trasformerebbero. Non sono certamente uno studioso che sappia decidersi in base a specializzazione e ricerche in materia per l’una o l’altra forma di regione. Direi però che, come scrittore che a lungo si è interessato e si interessa alla soluzione del problema etniconazionale, stimerei necessaria una ricerca in favore dell’Europa etnica di Héraud. Certo, ci troviamo di fronte a dei problemi gravissimi, le etnie emarginate sono quasi sempre l’elemento umano in regioni economicamente frustrate. Basterà portare come esempio l’arco alpino dalle vallate provenzali in Piemonte ai Ladini delle Dolomiti, ai Friulani, agli Sloveni della Resia e delle Valli del Natisone, per non parlare della sorte disumana dei Greci in Calabria o dell’economia sarda. Ecco quindi che in una futura regione della Federazione europea – se non prende una dimensione etnica – difficilmente l’«etnia che vi abita troverà modo di salvaguardare la propria identità linguistico-nazionale». Dice a proposito di questo Guy Héraud in Popoli e lingue d’Europa (p. 119; pp. 130-131): «Il fatto etnico è un fatto globale: non lo si può ridurre alla sua dimensione culturale. La difesa dell’etnia – ivi compresa la sua cultura – implica l’indipendenza politica» […] «L’esigenza di sovranità sembra decisamente inammissibile e la sostituiremo con l’indipendenza nella federazione. Si può discutere anche l’estremo rigore delle prescrizioni economiche: ciò non impedisce che l’indipendenza politica e l’indipendenza economica – suo complemento e sua garanzia – siano condizioni rigorosamente indispensabili di una vera disalienazione». In questi due capoversi mi sembra concentrata la sostanza, l’essenza della questione. La sovranità completa essendo evidentemente cosa difficile a essere realizzata, Héraud si decide per un’indipendenza politica dell’etnia nell’ambito della federazione, vuole però che tale autonomia politica sia reale, cioè garantita dall’indipendenza economica. Indipendenza, è logico, compatibile con l’ordinamento federale. Si verrebbe così ad un nuovo esperimento – e forse molto più che un esperimento – di convivenza di popoli, convivenza che, nelle repubbliche

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socialiste plurinazionali, è ottenuta a scapito dell’indipendenza o anche solo autonomia politica e spesso anche di quella economica. Infatti l’autorità del partito unico e la conseguente esclusione di ogni pluralismo, anche solo nel senso di pluralità di partiti comunisti nazionali, elimina in partenza ogni possibilità di valorizzazione nazionale, mettendo le etnie numericamente o economicamente minoritarie alla mercé di quella dominante. Tornando al progetto europeo, io per parte mia non solo voterei per un Europa delle etnie ma proporrei anche una internazionale etnica che tra le due internazionali – quella del capitale e quella di classe – forse sarebbe quella più a dimensione veramente umana. Se n’è parlato quasi dieci anni fa, quando ad Andorra si ebbe un congresso dell’Aidlcm, col segretario generale Pierre Naert, linguista insigne e uno dei pionieri della rivoluzione etnica, chiamandola così. Lo so, sono progetti che un dì parevano fantastici, ma oggi che i popoli d’Europa fanno i primi passi – con il Parlamento europeo – verso un modo di convivenza nuovo, forse non sarà tacciato di romantico colui che ammetterà di credere ancora in valori tradizionali. All’or ora citato Héraud, perché difensore della specificità delle singole etnie, è stato rinfacciato un attaccamento a valori culturali che appaiono forse cose grette e anticaglie, come dice Andrea Chiti Batelli in Comuni d’Europa. Ma lo stesso Batelli poi afferma che la «intransigente unilateralità [di Héraud]… ci sembra destinata a svolgere una funzione pedagogica particolarmente opportuna». Mi associo, certo, nel definire opera di pedagogia l’attività che Héraud e tanti altri e noi stessi qui oggi consacriamo alla rivalutazione delle comunità etniche, ma sono fermamente convinto che ciò che oggi forse appare come esaltazione estremistica della tradizione, domani risulterà dato quotidiano, realtà non solo da tutti accettata ma da tutti considerata lapalissiana. Perché, arrivata all’esasperazione con il suo inseguimento del superfluo e con la sua febbre del benessere materiale, la società ritornerà alla ricerca di quelle che sono le radici con le quali l’essere umano è legato alla sua terra, terra sulla quale la comunità etnica ha cercato di dare una sua risposta particolare alle incognite dell’esistenza. A questo proposito, in forma succinta, Ulderico Bernardi riassume i diritti che gli

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uomini con la società industriale hanno perduto «il diritto a vivere con i propri vivi e i propri morti nella terra dove si è nati, il diritto di alimentarsi alle proprie fonti culturali e a vedere riconosciuta la dignità di questa formazione, il realizzarsi in una lingua propria, il sottrarsi a un destino deificante di “fattori di produzione” o di forza-lavoro» (Le mille culture, p. 108). Questa visione di un possibile futuro in cui i valori qualitativi prendano il posto di quelli quantitativi non è tanto utopica come si potrebbe credere. Tanto degli autori marxisti come degli autori cristiani stanno infatti già esaminando i lineamenti di quella che si prevede una società postindustriale. E non pochi sono coloro che credono di scoprire in quelli che sono i movimenti di rifiuto di tanta gioventù odierna la ricerca di una arcaicità che, sebbene abbastanza anarchica e quindi indefinita, potrebbe nondimeno essere il preludio di un ritrovamento di quella semplicità di cui potrà benissimo essere una delle garanti la comunità etnica. Mi piace a questo proposito leggere il brano conclusivo del Bernardi nello studio introduttivo al volume Le mille culture che raccomando a tutti coloro che hanno a cuore la rinascita delle culture emarginate. Accanto alle Lingue tagliate del Salvi, questo testo è difatti il secondo che è nato dal nostro movimento comunitario. Dice dunque il Bernardi: «Spetta alle organizzazioni che calano nella quotidianità il loro riferirsi all’una o all’altra visione del mondo (quella marxista e quella cristiana), fare piazza pulita degli stereotipi e dei vecchi anatemi connessi a falsi tabù. Per aiutare la persona umana, di cui entrambe privilegiano la dignità, a chiudere un’era e ad aprirne una nuova, chiamiamola pure “postindustriale”, dove una volta approdati s’ha da fare un inventario del ciarpame e delle cose essenziali. Buttando nel mucchio dei detriti della storia tante merci-feticcio, arrestando le generazioni di oggetti che aggrediscono l’uomo fino a farne una creatura instabile e cupida, piano piano imparando nuovamente a contare e a valutare tutto ciò che si vede e anche ciò che non è dato vedere, ciò che si può ridurre in cifre… o ciò che non offre tale possibilità ma conta, per un marxista quanto per un cristiano, in una misura assoluta e irrinunciabile» (op. cit., p. 111; l’espressione «merci-feticcio» è tolta dal volume G. Barbiellini Amidei, B. Bandinu, Il re è un feticcio).

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Riprendendo, per concludere, il discorso sull’Europa di domani, possiamo ben dire di accettare che essa abbia inizio con un Parlamento europeo, sottolineando però che non ci sarà una vera svolta storica finché le nazioni rappresentate saranno ancora l’Inghilterra, la Francia, l’Italia, o domani la Spagna – e non invece le regioni di Catalogna, l’Euscadi, l’Occitania e la Ladinia e il Friuli ecc. Giacché, secondo me, o l’Europa di domani sarà una federazione di entità etniche e nazionali, una federazione regionale pluralistica o non ci sarà affatto. La scelta davanti alla quale ci troviamo è cioè di divenire o un campo di prova per una delle due egemonie che competono per la supremazia sulle nostre anime, oppure sapremo darci un ordinamento in cui potremo continuare la nostra missione storica e che – tenendo conto degli errori e delle colpe del passato – potrà forse dare un contributo rivelatore all’umanità di domani. Forse giova riportare il giudizio del filosofo tedesco Eduard Spranger che trovo in uno studio di Guiu Sobiela-Caanitz: «Lo studio sistematico dell’ambiente suppone la coscienza chiara del fatto che l’essere umano si trova legato all’angolo della terra particolare dove egli vive in modo durevole con tutte le fibre vitali fisiche e mentali… Le scienze più diverse si trovano d’accordo su ciò: … la geologia, la geografia, la meteorologia; la biologia ne diviene una specie di biografia naturale che mette in rapporto i fenomeni vitali delle piante, degli animali e dell’uomo con le particolarità locali… uno squarcio di storia culturale, di storia etnica, di geografia dell’abitato, di economia, di sociologia, di politologia, di storia dell’arte…» (Eduard Spranger, Der Bildungswert der Heimatkunde, sesta edizione, Stuttgart 1964). E valgano, in una forma più concisa, quasi aforistica, le parole dello scrittore Paul Sérant: «Io non vedo in che modo l’uomo contemporaneo possa salvarsi altrimenti che trovando il modo di riconciliarsi con la terra» (Paul Sérant, Lettre à Louis Pauwels sur les gens inquiets, Paris 1972. Dello stesso autore: Des choses à dire, Paris 1973). (1977)

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Sloveni, Cultura, Trieste

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Vita culturale degli sloveni a Trieste

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Una breve panoramica introduttiva Per fare della vita culturale slovena a Trieste un quadro che riesca il più possibile chiaro al lettore italiano devo necessariamente cominciare con una breve panoramica introduttiva. L’attività letteraria slovena a Trieste dobbiamo farla risalire al lontano Cinquecento allorché l’autore del primo libro sloveno, Primož Trubar, è, qui a Trieste, scolaro e poi segretario del vescovo Bonomo. Ed è il Bonomo che ai suoi chierici commenta Virgilio e Erasmo in italiano, tedesco e sloveno. Trubar, poi, nella piccola Trieste di allora predica ai fedeli nella lingua in cui nel 1550 a Tübingen, quale protestante fuggiasco, stamperà il primo abbecedario e il primo catechismo per gli sloveni. Su consiglio del vescovo di Capodistria Pier Paolo Vergerio, che incontra in Germania, il Trubar adotta nelle sue ulteriori traduzioni delle Sacre scritture i caratteri latini in sostituzione dei caratteri gotici che aveva usato all’inizio. La controriforma slovena è misera in confronto alla messe letteraria protestante; eppure è proprio la parlata della gente slovena del litorale in quel di Devin (Duino) che entra a far parte del Vocabolario Italiano e Schiavo compilato dal monaco servita Alasia da Sommaripa, nato a Sommariva del Bosco in Piemonte. Verso la fine del Seicento è a Trieste priore del convento dei cappuccini Janez Svetokriški (Joannes a Sancta Cruce Vipacensi), autore di cinque volumi di omelie (quasi tremila pagine). I primi due volumi dell’opera escono a Venezia. Nel Settecento è vescovo di Trieste Jurij Japelj, giansenista, traduttore in sloveno del Nuovo Testamento. A Trieste nasce da padre italiano Žiga Zois, proprietario di ferriere, che in Slovenia diventa mecenate della cultura slovena e raccoglie intorno a sé

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i migliori spiriti del tempo. Nell’Ottocento è vescovo di Trieste Matevž Ravnikar, giansenista, traduttore in sloveno delle opere di Schmid. Ma è soprattutto dal 1848 in poi che, insieme al resto della Slovenia, anche Trieste trova l’atmosfera propizia per un insolito sviluppo culturale. La nascita di giornali quali il «Slavljanski Rodoljub» (1849) e il «Jadranski Slavljan» (1850), più tardi del quotidiano «Edinost», la fondazione di numerosi circoli, di biblioteche popolari, la nascita dei primi nuclei teatrali, fanno dell’ambiente triestino uno dei principali centri di cultura sloveni. Ne è testimone l’intima unione dei maggiori scrittori sloveni di allora con la vita letteraria e artistica della città. Da Jovan Vesel, poeta non grande ma solenne annunciatore della rinascita, che a Trieste è alto funzionario della finanza, a Franz Levstik, poeta, scrittore ed eminente critico letterario, che a Trieste è segretario della società di cultura; da Franc Cegnar, poeta e traduttore, al grande poeta Anton Aškerc, che viene sulla costa triestina per raccogliere le sue Gemme dell’Adriatico. Siamo arrivati così quasi sulla soglia della prima guerra mondiale, periodo nel quale lo sviluppo mondiale, periodo nel quale lo sviluppo della vita culturale slovena a Trieste raggiunge un livello inaspettato. Con mezzi propri gli sloveni elevano nel centro della città il teatro di cui sono fieri, mentre tutti i rioni hanno già le proprie case di cultura con biblioteca e palcoscenico. Il quotidiano «Edinost» raduna attorno a sé lettori di differenti idee politiche, tre istituti di credito sono alla base di un costante progresso economico. È allora che Trieste ospita a più riprese il maggiore scrittore sloveno Ivan Cankar, conferenziere profondo e brillante nel circolo di cultura socialdemocratico. L’amico di Cankar, il giovane poeta Dragotin Kette, ha già concluso i suoi giorni, ma in Cankar che passeggia sul lungomare sono sempre vive le liriche Na molu San Carlo (Sul molo San Carlo) e Adrija (Adria) che il Kette portò con sé da Trieste, dove era soldato di leva, insieme alla malattia che lo condurrà alla tomba. Un discorso più lungo ci porterebbe a prendere in considerazione molti altri scrittori sloveni che in quel tempo o vivono a Trieste o hanno contatti intimi con la vita culturale della città. Così per esempio la scrittrice Zofka Kvedrova, Lojz

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Kraigher, Jože Pahor, Andrej Budal, Josip Ribičič. Componente sostanziale della vita spirituale degli sloveni triestini sono poi le opere dei numerosi poeti e scrittori del goriziano che qui devo purtroppo nominare soltanto per inciso: lo schietto lirico Simon Gregorčič, il robusto e originalissimo romanziere espressionista Ivan Pregelj, il maggiore poeta sloveno vivente Alojz Gradnik, il romanziere France Bevk. (Chi volesse sapere di più sugli autori nominati veda: prof. Bruno Meriggi, Storia della letteratura slovena, Accademia editrice).

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Il periodo del fascismo L’occupazione italiana del ’18 ostacolò seriamente la vita culturale slovena; il terrore nero la distruggerà. Così bruciano i circoli di cultura, bruciano i palcoscenici rionali, brucia nell’estate del ’20 il bel teatro. Le scuole slovene devono chiudere, sono proibite le riviste, i giornali. La lingua slovena è idioma proibito in pubblico, si ribattezzano i nomi e cognomi sloveni, si radono i nomi sloveni dalle lapidi tombali. Nonostante ciò, la vita culturale slovena non sparisce ma passa nella illegalità. Gli studenti hanno lezioni clandestine di sloveno, durante le vacanze estive si radunano sulle montagne per seguire corsi di lingua, letteratura, storia ecc. Si pubblicano riviste che sono soltanto ciclostilate ma perciò tanto più preziose e care. Nominerò «Brinjevke», «Malajda», «Domača kaplja», «Plamen». Lo scrittore più in vista che allora ha contatti con Trieste è France Bevk; vive più tardi a Trieste il giovane poeta Stanko Vuk. Io allora sono appena alle prime armi. Ma nel 1926 muore ventiquattrenne Srečko Kosovel, che è nativo di Sežana, a quindici chilometri da Trieste, e che a Trieste ha la sua formazione spirituale. Il mare, la vita brulicante della nostra città, i rossastri lampi d’incendio che si levavano dai roghi in cui erano trasformati i nostri teatri, ispirano le più forti e angosciose liriche del Kosovel che diventa, per la gente del Litorale, il simbolo della disperazione e della catastrofe (del Kosovel vedi la raccolta di liriche curata da Marc Alyn nella serie Poètes d’aujourd’hui, Seghers, Parigi 1965).

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La liberazione e il dopoguerra Durante il movimento di liberazione nazionale insieme alla lotta armata rinasce anche la vita letteraria, rivivono le scuole, con insegnanti alle volte improvvisati, si stampano dopo un quarto di secolo di stasi le raccolte di liriche di autori classici sloveni, risuscita la vita teatrale. Ma è dopo la fine della guerra che la vita culturale riprende pienamente. Al nuovo quotidiano «Primorski dnevnik» (Il quotidiano del Litorale) si aggiungono altri giornali, nasce una casa editrice, nasce la Biblioteca nazionale e degli studi. Si aprono le elementari slovene, le medie inferiori e superiori (Istituto magistrale, Istituto tecnico commerciale, Liceo classico e scientifico) statali. Rinascono in tutti i rioni della città le case di cultura, lo stesso vale per quasi ogni singolo paese del circondario. Il Teatro nazionale sloveno è in opera già al momento della liberazione e sebbene non abbia una sua sede stabile, vive di vita intensissima, sostenuto com’è da un auditorio letterario letteralmente affamato di cultura. Il coronamento della sua attività si ha nel 1964, quando la compagnia finalmente appare sul palcoscenico dello splendido teatro costruito con i mezzi raccolti tra gli sloveni del litorale e della Slovenia mentre il Governo italiano ha concorso alle spese in riparazione parziale per la distruzione del teatro incendiato nel 1920. Nasce la rivista «Razgledi» (Panorami), diretta da France Bevk, Andrej Budal, Bogomir Magajna, Jože Pahor, Vladimir Bartol, Danilo Lokar, e quelli delle nuove leve. Ma alla vita movimentata della città fa riscontro una pari instancabile azione letteraria. Così alle ricche annate di «Razgledi» segue un periodo di crisi, che viene risolta per breve tempo e volta per volta dalle riviste «Sidro» (L’àncora), «Stvarnost» (La realtà) «Stvarnost in svoboda» (Realtà e libertà), «Tokovi» (Correnti). In qualche modo si arriva nel periodo più recente alla normalizzazione con la pubblicazione della rivista di tendenze cristiano-sociali «Most» (Il ponte) alla quale fa riscontro «Zaliv» (Il Golfo) tendenzialmente di sinistra ma aperta alla più larga possibilità di dialogo. Ciò che del resto vale anche per «Most».

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La casa editrice che stampa il quotidiano pubblica sporadicamente anche opere letterarie; così dirò della raccolta di poesie dialettali triestine slovene di Marija Mijot, della raccolta di scritti di mons. Ivan Trinko, poeta e scrittore della Slavia Friulana; della raccolta di liriche di Filibert Benedetič, Razpoke (Squarci). Per i piccolissimi escono «Galeb» (Il gabbiano), «Pastirček» (Il pastorello); gli studenti delle medie pubblicano le loro primizie nella rivista «Literarne vaje» (Esercizi letterari). Il gruppo cattolico dirige la rivista per famiglie «Mladika» (Il virgulto). Tutte le riviste sono tenute in vita dai sostenitori e dai lettori; i redattori non hanno ricompense di sorta ma dedicano alla vita delle singole pubblicazioni il loro tempo libero. Poeti e romanzieri Questo quadro molto approssimativo deve essere completato con alcuni nominativi di autori. Comincerò con Alojz Rebula che iniziò come poeta, ben presto però la sua natura inquieta e dialettica trovò veicolo più conforme alla propria ricca complessità nella prosa dialogata e pensosa. Nativo dei dintorni di Trieste, di un paese che guarda al mare dal silenzioso regno di pini e ginepri, Alojz Rebula si immedesima nel destino scabroso della sua gente e cerca il senso dell’umano esistere. L’opera più importante in questa direzione è la raccolta di novelle Vinograd rimske cesarice (La vigna dell’imperatrice romana). Di respiro molto più largo e di composizione moderna, intellettualisticamente arricchita, è il romanzo Senčni ples (Il ballo delle ombre). Di me forse merita accennare che, ritornato vivo dai campi di sterminio nazisti, cercai di concentrare nella mia opera tutta la felicità di aver ritrovato la terra degli uomini, i tramonti sul mare. Perciò le mie prime cose sono sature di lirismo sorgivo mentre nella forma sono imparentate con il Vittorini di Conversazione in Sicilia, di cui mi innamorai a prima vista, e con Saroyan. Sbolliti i primi entusiasmi, la mia opera è frutto di un minuzioso lavoro retrospettivo, così riguardo all’epoca giovanile come al periodo

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vissuto nell’universo concentrazionario. Menzionerò due cose mie che i critici dicono siano riuscite. Mesto v zalivu (La città nel golfo) e Onkraj pekla so ljudje (Al di là dell’inferno). Nel gruppo di intellettuali che dalla Slovenia sono emigrati a Trieste alla fine della guerra spicca Vinko Beličič, poeta e autore di novelle e racconti di raffinata fattura e di meditativa e religiosa liricità. (Volumetto di racconti: Doklerje Dan, Prima che il giorno muoia). Del gruppo raccolto attorno a «Most» fa parte − oltre al Rebula − Lev Detela, autore di opere abbastanza eclettiche, mentre molto più schietta è la vena lirica della poetessa Milena Merlak Detela. Sulle pagine di «Zaliv», oltre a me stesso e a Milan Lipovec, autore del libro Ljudje ob cesti (Ai due lati della strada) appaiono invece autori giovani quali Miroslav Košuta, Irena Zerjal, Marko Kravos, Igor Tuta. Il cenacolo di «Mladika» ha fruttato la delicata e fine poetessa Bruna Pertot. Ragionevoli speranze per il futuro Lo spezzettamento in diversi partiti e partitini impedisce agli sloveni di Trieste di avere una casa editrice unica. La molteplicità di cenacoli è perciò ricchezza e debolezza a un tempo. Ma l’impedimento maggiore per uno sviluppo pieno della nostra cultura è la lentezza con cui progredisce il sistema democratico nei nostri riguardi. Benché si abbiano, come ho già accennato, istituti scolastici statali con lingua di insegnamento slovena, la stazione radio con programma sloveno, consiglieri comunali, provinciali e regionali sloveni, la lingua slovena non ha ancora il crisma ufficiale in alcun ufficio pubblico. Per ora è paritaria soltanto in chiesa e i cattolici sloveni hanno avuto, grazie al Concilio Vaticano ii, un proprio vicario all’Episcopio. Ingiusto sarebbe disconoscere il cambiamento del clima umano nella nostra regione ma resta pur sempre vero che in pratica non è ancora abolito il principio secondo cui la nostra città nel suo aspetto esterno deve restare una metropoli unilingue. Impossibile quindi per ora immaginare che alcune

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vie della città possano avere il nome da scrittori o poeti sloveni, sebbene non si possa comprendere in quale modo ciò lederebbe i concittadini che lo sloveno non parlano. Noi sloveni apparteniamo a una nazione piccolissima (due milioni di anime) e non pensiamo di tradire il nostro essere intimo parlando, a Trieste, la lingua di Dante che amiamo, leggiamo e studiamo a scuola. Non comprendiamo, perciò, come potrebbe il riconoscimento ufficiale dello sloveno inquinare le limpide acque nazionali dei concittadini italiani che non solo sono in maggioranza ma appartengono a una nazione che conta cinquanta milioni di anime. Questa situazione, oltre a darci un senso continuo di squilibrio, ci porta logicamente sempre più su posizioni difensive e perciò non veramente creative. Infine ci toglie la possibilità di dedicarci alle novità della vita letteraria italiana con lo slancio che vorremmo. Soltanto il teatro ha potuto, data la sua attività specifica, arricchire il proprio repertorio attingendo abbondantemente dagli autori drammatici italiani, da Goldoni a Pirandello, da Ruzzante a Betti. Ma la saggezza di uomini nuovi forse farà sì che tramonti del tutto la teoria dell’assimilazione dolce, dell’eutanasia mite, e divenga invece attiva la simbiosi di due culture. Situazioni che sono mali cronici, ma di certo non inguaribili, potranno allora divenire fonti di ricchezza umana. 1967

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Il secondo periodo postbellico

La vita culturale degli sloveni del Litorale, messa al bando dal regime mussoliniano, si svolse per lo più nell’ambito familiare, negli incontri clandestini in montagna dove, con corsi settimanali estivi ad alto livello, si cercava di valorizzare la lingua proibita. E questo espediente, del raduno cioè in luoghi appartati, fu messo in opera su vasta scala durante il periodo bellico dalle formazioni del Fronte di liberazione nazionale che – in seguito – organizzarono delle scuole elementari, clandestine e anche no, un po’ dappertutto. Tipografie di fortuna cercavano ad un tempo di sopperire, con pubblicazioni di poesie e di canti, alla mancanza assoluta di testi. La vera rinascita, quindi, la si ha dal 1945 in poi, quando sotto il governo militare alleato, che ha in mano le sorti del Territorio Libero di Trieste fino al 1954, si aprono asili d’infanzia, scuole elementari e medie slovene, funzionano le trasmissioni radio in sloveno, mentre si stampa il quotidiano «Primorski dnevnik» nato durante il periodo partigiano. Con la pubblicazione di diversi settimanali, l’apertura di biblioteche, di librerie a Trieste e Gorizia, con la costruzione di un nuovo teatro con l’aiuto della Slovenia e con il concorso del Governo italiano come riparazione parziale per la distruzione del palazzo dato alle fiamme nel 1920, la ripresa di una normale vita culturale procede con un ritmo accelerato. E ciò vale anche per la così detta Slavia Veneta o Slavia Friulana, dove la gente si trova ancor più a mal partito perché dal 1866, quando la regione fa parte del Regno d’Italia, comincia l’assimilazione che gli altri sloveni subiranno appena negli anni Venti di questo secolo. Nonostante il grande scompenso, due settimanali, «Dom» (La casa), religioso, e «Novi Matajur» (Il Nuovo Matajur), laico, escono sul posto.

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Non è qui il caso di dare informazioni più ampie, ma, dato che la vita letteraria è strettamente unita all’editoria, bisogna menzionare le due case editrici più importanti. La cattolica Mohorjeve družba (Società Sant’Ermacora) di Gorizia che ogni anno procura delle opere di largo consumo unite a un almanacco in cui si passano in rivista tutti i fatti rilevanti dell’annata. Da notare che l’Editrice quest’anno ha finito, con la pubblicazione del diciottesimo fascicolo, la compilazione del Primorski slovenski biografski leksikon (Enciclopedia biografica slovena del Litorale), opera indispensabile a ogni studioso della materia. Il laico Založništvo tržaškega tiska (Editoriale stampa triestina), oltre il suo almanacco e i libri strenna, si è qualificato con una lunga serie di opere letterarie e di altro genere. Un ruolo tutto speciale l’hanno avuto e l’hanno le riviste. Già nel 1946 France Bevk dirige la rivista «Razgledi» (Orizzonti), che si estingue nel 1954, ma è seguita da «Sidro» (L’Ancora), «Tokovi» (Correnti), «Stvarnost» (Realtà), «Stvarnost in svoboda» (Realtà e libertà), più tardi da «Most» (Il Ponte), «Dan» (Il Giorno), «Zaliv» (Il Golfo), «Mladika» (Il Virgulto) per citarne le principali. Per i piccini: «Pastirček» (Il Pastorello), cattolico, «Galeb» (Il Gabbiano), laico. Esce ora a Gorizia il primo numero della rivista «Pretoki» (Travasi). In quest’atmosfera, che è tanto più pregna di élan vital quanto per un quarto di secolo sembrava estinta, si fa valere uno stuolo ben nutrito di autori. Oltre ai già citati Bevk e Bartol, che può ritornare a Trieste alla fine del conflitto, collabora intensamente alla rinascita della cultura lo scrittore Andrej Budal (1889-1972) che, oltre a dar alle stampe diversi libri di racconti e novelle, ha al suo attivo la traduzione del Decamerone e dei Promessi sposi. Ma già nella prima annata della rivista «Razgledi», oltre alla prosa firmata dal sottoscritto, c’è quella di Alojz Rebula. Nato a Šempolaj (San Pelagio) nel 1924, Rebula è autore di diversi romanzi di valore, così Senčni ples (Il ballo delle ombre), V Sibilinem vetru (Nel vento della Sibilla), Zeleno izgnanstvo (L’ostracismo verde). Da segnalare anche delle raccolte di novelle, come Vinograd rimske cesarice (La vigna dell’imperatrice romana) e Snegovi Edena (Le nevi dell’Eden). Ma sono notevoli pure i saggi, i racconti di viaggi, le biografie, come quella di Jakob

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Ukmar, edita dalla Studio Tesi, i testi di argomento religioso, come il diario riguardante il Sinodo dei vescovi europei cui Rebula prese parte, diario cui diede il titolo Koraki apostolskih sandal (I passi dei sandali degli apostoli). Di Rebula è uscito nel 1993 in italiano il romanzo Nel vento della Sibilla. Per ciò che riguarda la prosa, è da menzionare in primo luogo lo scrittore Milan Lipovec, nato a Trieste nel 1912, e autore piuttosto parco quanto al numero delle opere, ma autentico tanto nello stile quanto all’originalità del racconto. Da segnalare i due romanzi Ljudje ob cesti (Gli abitanti dei due lati della strada) e Leseno jadro (La vela di legno). La prima generazione postbellica ha dato Irena Žerjal (1940) con il romanzo Tragedijica na Grobljah (La tragedietta di Groblje); Boris Pangerc (1952) con le novelle Beg pred Daglo (La fuga di Dagla); di Zora Tavčar sono i bozzetti Veter v laseh (La chioma al vento), mentre si è imposta con uno stile tutto particolare Ivanka Hergold (1943) di cui da segnalare specialmente le novelle Nož in jabolko (Il coltello e la mela). Tra le ultime leve da annoverare Miran Košuta, Duško Jelinčič, Sergij Verč, Saša Martelanc. Nei racconti fantastici si è invece cimentato Franc Jeza (1916-1984) di cui resta anche una singolare testimonianza su Dachau. Nella memorialistica sul periodo fascista: Dorče Sardoč, Lavo Čermelj, Vekoslav Španger, Avgust Sfiligoj, Radoslava Premrl. Altrettanto ricca la messe nel mondo della poesia, così che anche qui ne consegue più una rassegna che un giudizio sulla qualità. Alla goriziana Ljubka Šorli-Bratuž (1910-1991) di cui si menzionerà il Venec spominčic možu na grob (Serto di nontiscordardimé sulla tomba del marito), si aggiungono Vinko Beličič (1913-1999) con diverse raccolte di liriche ma anche di prosa, la poetessa dialettale Marija Mijot (1903-1994) con Souze in smjeh (Lacrime e riso); seguono i più giovani. Di Miroslav Košuta (1936) tra le diverse raccolte vanno segnalate Morje brez obale (Un mare senza sponde) e Tržaške pesmi (Canti triestini). Bruna Pertot si impone con Moja pomlad (La mia primavera) e Bodi pesem (Un canto sia). Ma la Pertot si avvale anche di delicati racconti. Così pure la già nominata Irena Žerjal, più che nella prosa, si qualifica come autrice lirica in Goreče Olike (Ulivi in fiamme), Pobegla zvezda (La stella fuggitiva).

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Marko Kravos (1943) ha al suo attivo pure lui diverse raccolte di carmi: tra esse Pesem (Canto), Trikotno jadro (Vela triangolare), Tretje oko (Il terzo occhio). Aleksij Pregarc (1936) alterna la lirica, per esempio Pesem (Canto), all’opera drammatica, ciò che vale anche per Filibert Benedetič (1935) con l’opera in versi Razpoke (Spaccature). Mentre avvicenda prosa e poesia Boris Pangerc (1952), già citato, di cui Anfora Časa (L’anfora del tempo). Tra i più giovani ancora Ace Mermolja (1951) con Nova Pesmarica (Il nuovo canzoniere) e Med kaktsusi kuham kavo (Mi preparo il caffè tra i cactus); Marij Čuk (1952) di cui Šumenje modrega prahu (Lo stormir della polvere azzurra); Alenka Rebula (1953) con Mavrični ščit (Lo scudo iridescente). Nella Slavia Veneta Renato Quaglia con Baside (Parole) e Silvana Paletti. Anche gli autori drammatici sono numerosi, dall’inizio del secolo ad oggi da registrare: Jaka Štoka, Rudolf Golouh, Francé Bevk, Lojz Krajgher, Jože Pahor, Rade Pregarc, Alojzij Remec oltre ai già menzionati. Più spiccata tra le opere del dopoguerra è quella di Josip Tavčar (1920-1989) che vide tutti i suoi drammi rappresentati dal Teatro stabile sloveno a Trieste e Gorizia ma anche in Slovenia e altrove. Da citare Prihodnjo nedeljo (Domenica prossima), Pekel je vendar pekel (L’inferno resta l’inferno), Mrtvi kanarček (Il canarino morto). Ma anche altri autori sono da annoverare a questo proposito, così Ivanka Hergold, Alojz Rebula, Sergij Verč. Sarebbe invece ingiusto tralasciare in questo pur succinto catalogo gli scrittori del Litorale, almeno i più importanti, quelli viventi al di là del confine segnato nel 1947. In primo luogo Ciril Kosmač (1910-1980), scrittore di prima qualità, di cui da notare le novelle Sreča in Kruh (Fortuna e pane), Pomladni dan (Una giornata primaverile), Tantadruj. Di Danilo Lokar (1892-1991), scrittore rivelatosi in pieno appena nel periodo postbellico tra le molte opere si segnala Sodni dan na vasi (Il Giudizio universale nel villaggio), Dva obraza dneva (Le due facce del giorno). Oltre a Nada Kraigher (1911), autrice di opere di prosa, e Saša Vuga (1930), scrittore, da citare i poeti Ciril Zlobec (1925), Tomaž Šalamun (1941), Aleksander Persolja (1944) e una folta schiera di giovanissimi. Si tralasciano quelli meno in contatto con il Litorale.

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Per essere, almeno nelle grandi linee, completi trattando di opere letterarie, è d’uopo sottolineare che non pochi dei maggiori critici letterari, linguisti e storici della letteratura slovena, li ha dati proprio la regione chiamata Litorale. Così Karel Štrekelj (1859-1912), compilatore di quattro volumi di canti popolari; gli slavisti: Avgust Žigon (1877-1941), Avgust Pirjevec (1887-1944), Mirko Rupel (1901-1963), Anton Ocvirk (1907-1980), Lino Legiša (1908-1980), Milko Matičetov (1919), Boris Merhar (1907), Dušan Pirjevec (1921-1977), Pavle Merkù (1927), Marija Pirjevec (1941).

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(1993)

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Bibliografia utile per il lettore italiano: Giovanni Maver, Letteratura slovena, in Storia delle letterature moderne d’Europa e d’America, Vallardi, Milano 1960. Luigi Salvini, Sempreverde e rosmarino, Ed. Carlo Colombo, Roma 1951. Bruno Meriggi, Storia della letteratura slovena, Nuova Accademia Editrice, Milano 1961 e Le letterature della Jugoslavia, SansoniAccademia, Milano 1970. Angelo Ara, Claudio Magris, Trieste. Un’identità di frontiera, Einaudi, Torino 19872. Evgen Bavčar, Écrire slovène à Trieste, in Italo Svevo et Trieste, Centre Pompidou, Paris 1987. Jože Pirjevec, Introduzione alla storia culturale e politica slovena nel ’900, Provincia di Trieste, Trieste 1983. Jodok Žabkar, Das politische Triest in der italienischen und slovenischen Triester literatur der 19. und 20. Jahrhunderts in «Südostforschungen», Band xlv, München 1986. Diversi autori in «Le livre slovène», n. 3-4, 1973. Marija Pirjevec, Srečko Kosovel, aspetti del suo pensiero e della sua lirica, Trieste, Ed. Stampa Triestina, Trieste 1974. Marija Pirjevec, Kosovel tra tradizione e avanguardia in Trubar, Kosovel, Kocbek e altri saggi sulla letteratura slovena, Ed. Stampa Triestina, Trieste 1989. Arnaldo Bressan, Le avventure della parola. Saggi sloveni e triestini, Il Saggiatore, Milano 1986. Gino Brazzoduro, Tra il nulla e l’infinito, Ed. Stampa Triestina, Trieste 1989. Alojz Rebula, Srečko Kosovel “Minatore del mistero” in Trieste tra umanesimo e religiosità, a cura di Pietro Zovatto, Centro Studi StoricoReligiosi del Friuli Venezia Giulia, Trieste 1986. Fedora Ferluga Petronio, Dragotin Kette e Trieste, Momenti religiosi nella sua lirica, nel libro Trieste tra umanesimo e religiosità, Trieste 1986. Boris Pahor, Srečko Kosovel, Studio Tesi, Pordenone 1993. Boris Pahor, Il mare come simbolo in due dei Poeti del Litorale, Dragotin Kette e Srečko Kosovel, in «Letterature di Frontiera», Bulzoni Editore, Roma 1991. Su Kosovel vedi anche lo studio introduttivo di Marc Alyn in Kosovel, Seghers, Parigi 1965, collana Poètes d’aujourd’hui.

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Kosovel e Trieste

Due noticine per soffermarmi su cose che non sono state sottolineate. Nel Settanta mi sono interessato a pubblicare un libriccino con il quale ho cercato di portare Kosovel dal Carso a Trieste. Mi sono valso allora in primo luogo delle testimonianze del fratello Stano e delle sorelle prof. Anica e Antonja. Volevo allora documentare la presenza fisica del poeta in città. Così passai in rivista tutto il curriculum da quando egli bambino voleva il gelato nel caffè del Narodni dom in piazza Caserma (ora Oberdan) fino alle visite ai parenti, al mare, poi, già studente, alla rappresentazione degli Spettri di Ibsen al Rossetti, alle visite all’amico Martelanc a San Giovanni, alle gite a Devin (Duino) alla visita di leva a San Giusto ecc. Poco allora si sapeva dei suoi scritti, riguardanti la città. Sì, una prosa breve già la conoscevo, intitolata Trieste cominciava così: «Come è bella Trieste se la guardi con occhio riposato e sereno, con un silenzio intatto nell’anima, con un anima che non sia ferita». Questo voglio dire: non c’era alcun dubbio che Kosovel era di casa anche qui da noi. E il volumetto lo pubblicai perché mi sembrava fuori posto il tradizionale legalismo sloveno che, in questo caso, voleva Kosovel soltanto poeta del Carso, dimenticando il resto, i suoi versi che parlano del mare, quelli in cui ci sono le bettole di città vecchia. Ma quando si ebbe l’opera completa, soprattutto gli Integrali, ma anche le lettere, gli appunti dei suoi notes, la figura di Kosovel si completò. E ciò in due sensi. Prima di tutto le sue preoccupazioni le avvicinai a quelle di Dante del Canto vi del Purgatorio, del Petrarca nell’Italia

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mia ma soprattutto a quelle del Leopardi nella lirica Sopra il monumento di Dante. Sarebbe oltremodo interessante esaminare questi punti di contatto. Qualcuno forse lo farà. Ma qualcuno forse, lo so, mi obietterà che è meglio avvicinare Kosovel al Leopardi che egli stesso cita dicendo che «il Leopardi saluta la morte come una dea che trasforma la disperazione in amore, l’odio in speranza, l’eterna inquietudine in silenziosa quiete». E sono d’accordo. Ma resta però il fatto che, nella ricerca dell’uomo nuovo, che Kosovel voleva ricreato anzitutto nel suo mondo spirituale, egli la soluzione planetaria o addirittura cosmica la concepisce partendo dal microcosmo sloveno. A questo proposito gli Integrali sono un documento crudo oltre che sofferto. E se Alighieri dice della sua terra ch’è ridotta a bordello, l’albero genealogico proposto da Kosovel è composto da Schiavo i, ii, iii, iv. Il popolo sloveno poi lo definisce pecorume. Quindi: la visione tragica del Kosovel, del Kosovel poeta europeo, s’innesta in ciò che egli trova nella comunità cui appartiene. La fine dell’Europa che poi troverà in Spengler l’aveva già provata intorno a sé. In un abbozzo di lettera che doveva mandare a Lubiana datata 20 novembre 1925, sei mesi prima della fine quindi, egli parla della Polonia e dice che, nonostante il suo smembramento nel xix secolo, la nazione polacca ha avuto Mickiévicz e Chopin. Noi sloveni, dice, finora non avevamo un soggetto adatto per poter scrivere una tragedia; la divisione della nostra terra in tre parti ora ce lo offre: un soggetto reale e triste abbastanza, da poter riconoscerci e distinguerci in esso. L’apocalittica Tragedia sull’Oceano è quindi, prima di essere planetaria, esistenziale, e Marc Alyn nella prefazione-saggio al Kosovel apparso da Seghers nella collana Poètes d’aujourd’hui giustamente lo sottolinea. Come Prešeren dunque anche Kosovel cerca la conferma della identità slovena e progetta perfino una pubblicazione in francese sulla vita contemporanea e ci mette subito in primo luogo La question slovène. Ma nello stesso tempo rifiuta ogni sciovinismo e lo dice a chiare lettere. E distingue bene cultura italiana e regime, così da dire in un appunto al prefetto e alle

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autorità: «Non avete fatto nulla per la cultura di cui vi gloriate. Se la faceste voi la cultura non avremmo né Petrarca né Dante né Michelangelo né Leonardo. La vostra cultura consiste solo in questo: distruggere la cultura». Detto questo, torno al punto di partenza: cioè ancora due righe su Trieste. Kosovel dice al riguardo:

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Il cuore-Trieste è malato. Perciò Trieste è bella. Il dolore fiorisce in bellezza.

In uno dei suoi quaderni, siamo nel 1925, aveva annotato: «Oggi Trieste mi si è rivelata con un aspetto nuovo. Una grande sofferenza essa porta nel suo cuore. Perciò è bella». E ancora in un’altra osservazione per la terza volta: «il cuore di Trieste è malato». Mi sembra quindi, e concludo, che Kosovel è sì poeta del Carso, ma è a un tempo anche poeta nostro concittadino. È, perciò, ed è a pieno diritto fautore e a un tempo partecipe di ciò che comprendiamo col termine di triestinità.

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I non incontri con l’amico Zoran

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Prefazione Siamo ambedue nativi del medesimo territorio, lui dalla parte goriziana, io da quella triestina, che dopo la prima guerra mondiale divenne la Venezia Giulia. Sloveni, nati con quattro anni di distacco come cittadini austro-ungarici, una double nationalité spiegò Zoran ai francesi che non fanno differenza tra cittadinanza e nazionalità. In ogni modo, iniziata la guerra nel 1915, l’intelligente famiglia Mušič previde la bolgia in cui si sarebbe ridotta la regione e divenne esule. Né vi si ristabilì nel dopoguerra, poiché il periodo oscuro che con il fascismo annientò con le leggi e col terrore tutta la fiorente cultura e vita sociale slovena durò fino all’inizio del secondo conflitto. L’esordio del male lo si ebbe a Trieste, dove già nel 1920 fu data alle fiamme nel centro della città la Casa della cultura slovena. Ed è proprio in quei paraggi che con Zoran ci incontrammo negli anni postbellici, quando le due tradizionali culture della città facevano i primi approcci a quella che è oggi un’amichevole e ricca cooperazione. L’incontro fu nella Galleria «Scorpione», di fronte alla chiesa serba sulla sponda del Canale. Una piccola galleria ma importante anche per gli incontri di artisti della Jugoslavia e soprattutto della Slovenia. Zoran si trattenne specialmente con due pittori sloveni di Trieste, Avgust Černigoj e Lojze Spacal, che si erano già fatti notare; io facevo parte del gruppo letterario con i poeti Cergoly e Dario de Tuoni. Rimarcai che Zoran era piuttosto serio e taciturno di fronte alla spigliatezza dei triestini, in modo speciale del Černigoj.

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Da soli parlammo a Lubiana, ci fermammo davanti a una banca e discutemmo d’arte, credo a mia iniziativa, perché era l’epoca in cui dominava l’École de Paris e io non ero, come non lo sono tuttora, per l’arte informale. Non è che non l’apprezzi ma non mi soddisfa, mentre Zoran la accettava. Devo dire che, sebbene sapessi di Dachau, non sapevo dei suoi disegni. Lui controbatté alla mia affermazione che ciò che è importante è il corpo umano, adducendo il compito della fotografia, dato lo sviluppo di quella a colori. Là mi impuntai, trovando il ragionamento troppo semplicistico e pensando a un tempo che egli se ne serviva perché riteneva che il mio rifiuto decisivo della pittura informale dipendesse dalla mia pedissequa fedeltà al realismo. Ma credo di aver aggiunto che ero rimasto a Chagall e ci trovammo d’accordo che in fondo la cosa principale non è l’école ma la qualità dell’opera. Fu un non-incontro, perché non accennammo né lui né io a Dachau, sebbene fossimo rimasti segnati tutti e due e io ci fossi stato, a Dachau, perfino due volte. Succede spesso, quando si incontrano due ex deportati, di parlare di tutto all’infuori del Lager; è stato così anche durante l’incontro con Stéphane Hessel: in un’ora di dialogo non abbiamo detto nulla del Campo di Dora che abbiamo ricordato solo con un abbraccio e col darci del tu. Sì, Zoran poi l’ho seguito quando ce n’era l’occasione, l’ho ammirato alle mostre, scoprii i disegni di Dachau con immensa soddisfazione: un prezioso documento salvato e presentato da un grande artista. E poi quella era una testimonianza dei Campi per politici, dai “triangoli rossi”, Campi con più di tre milioni di morti. E fui contento di non aver accennato a Dachau durante l’incontro sul marciapiede di Lubiana; Zoran infatti aveva preso in considerazione i corpi, anzi i corpi distrutti, ridotti a carcasse, a covoni, a mucchi di carcasse, quindi avrebbe potuto dirmi che era normale che mi dedicassi a motivi meno esigenti. Tanto più che confessava come l’esperienza del Campo era valsa a modificare radicalmente il modo di considerare l’esistenza e l’essenza della vita. Fatto sta che da parte mia ci ho messo del tempo per poter descrivere in maniera appropriata e degna il mio passaggio nell’universo concentrazionario, e solo nel 1967 riuscii a

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testimoniarlo in un testo che intitolai Nekropola, in sloveno, e che in un racconto unisce il Campo di Dachau con quello di Natzweiler-Struthof sui Vosgi, di nuovo Dachau, DoraHarzungen, Bergen Belsen. Si tratta di Campi ai quali ho già accennato, che insieme a Buchenwald, Mauthausen, e loro dipendenze, sono stati destinati ai politici ai quali ho già accennato, agli antinazisti, ciò che di solito non si fa notare, purtroppo. Ecco che con Nous ne sommes pas les derniers Zoran Mušič rivede la verità storica, proprio sottolineando che non si è affatto sicuri che i Campi non si ripetano. E questo è il valore maggiore della nuova serie di opere, che sicuramente si presenta con un valore artistico supremo. Questo per telefono glielo dissi, quando si parlò di un suo disegno per la copertina dell’edizione americana del mio libro a New York, ciò che non si realizzò poiché l’editore aveva un progetto suo, ma non ebbi l’occasione di parlare più a lungo appunto del suo ritorno ai motivi dei Campi. E fu certamente una perdita. Anche perché a Zoran avrei detto sinceramente che, per conto mio, le opere datate “Dachau 1945” meritavano di avere il titolo che avevano le nuove richiamate dalla memoria, e nate da un lavoro di concentrazione che le arricchiva riguardo all’arte ma ne toglieva l’immediatezza testimoniale. Certo, si sarebbe opposto tanto di più perché i disegni di Dachau li riteneva come dei documenti e sbagliava, perché erano sì documenti, ma di un disegnatore che era il Goya del xx secolo. Speravo di poter dire della mia impressione da deportato che per un anno era stato con i morenti e i morti del Revier, all’inaugurazione della mostra al Grand Palais, ma ho potuto solo stringergli la mano, affermare il grande valore della sua opera in generale e della serie Noi non siamo gli ultimi, un valore in particolare per la coscienza europea, offerto per merito di un eminente rappresentante della cultura slovena. Non ne ebbi il tempo: un gruppo se lo accaparrò, seguito poi dal presidente Mitterand. Un altro scacco lo ebbi quando conobbi l’ingegnere Ivo Gregori, che vive a Ginevra e fu amico intimo di Zoran fino all’ultimo periodo della sua esistenza. Vissero insieme a Dachau

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e insieme si arrangiavano per poter sopravvivere. Così Ivo convinse Zoran a cercare di aiutarsi come disegnatore per avere qualche supplemento contro la fame persistente. Fu così che, a un primo ritratto di un ss, questi entusiasta portò la fotografia della moglie, che non fu l’ultima moglie rimessa a nuovo da Zoran. Sì, era un modo di salvataggio di cui si valse nel Campo di Struthof-Natzweiler il pittore Gayot. Insieme con Zoran Ivo fu presente quando in un magazzino sloveno si sollevò il coperchio di una cassa oblunga e ne uscì un corpo nudo magrissimo che, senza curarsi dei presenti, se ne andò cercando di togliersi dal pollice e dal piede la targhetta. Era probabilmente non un Lazzaro redivivo ma un uomo malmesso creduto morto mandato da uno dei Campi dipendenti per essere cremato a Dachau, oppure poteva trattarsi di un accordo molto arrischiato di salvataggio in un Campo dove la probabilità di morire era molto maggiore che a Dachau. Queste azioni con i morti, di scambio di vivo con un morto (il caso di Hessel), erano rarissime e potevano costare la vita. Ecco un’altra pagina del Campo di Zoran che ho, e mi dispiace, di seconda mano da Ivo. Ma c’è n’è una terza, purtroppo. Triestina. E ne rimasi male, molto male, quando invitato a testimoniare sulle celle della Gestapo davanti alla commissione riguardante la beatificazione del minore Cortese, ossia padre Placido, scoprii che nella cella accanto a quella in cui era con le membra rotte il povero padre, era rinchiuso Zoran Mušič. Due rivelazioni in un tempo, l’eroico francescano che nel convento a Padova aveva organizzato il modo di salvare i piloti inglesi e Zoran accusato di aver per un certo tempo ospitato una valigia contenente una radiotrasmittente dell’organizzazione clandestina. Sì, rimasi male, perché mi si rivelava che Zoran era finito proprio là in una di quelle quattro celle di cemento nel sotterraneo del palazzo di piazza Oberdan in cui fui rinchiuso nel gennaio del 1944 prima di essere inviato a Dachau. Con la mia involontaria astensione dal parlare di Dachau avevo perduto il valore di quella vicinanza, di quella comunità di intenti, di una prova che era il saper resistere al tormento senza

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rivelare fatti e nomi. Così rimasi e rimango con il sentimento di essermi privato di un pregio, di una confidenza, di una solidarietà unica, di una fraternità nella città natale che soltanto un grande spirito saprebbe degnamente rivelare. Così alla scoperta di Zoran nella cella di piazza Oberdan rimasi e rimango con il sentimento di essere privato di una solidarietà, di una fraternità unica nella mia città.

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1990

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Il destino della mia città

Dai testi non risulta affatto che gli Homines Tergestinae civitatis – raccogliendo, nel 1202, sul documento di fedeltà al doge Dandolo 370 firme – si siano preoccupati di fare delle distinzioni riguardo al circa un terzo di firmatari con nomi e cognomi sloveni. E si trattava di firmatari che nella città non erano degli uomini meno in vista. E, come nel Duecento, anche nel Trecento e nel Quattrocento non mancano nominativi di proprietari sloveni riportatici da Attilio Tamaro, da Jacopo Cavalli e da altri. Quindi non ci meraviglia affatto che agli inizi del Cinquecento il vescovo di Trieste Pietro Bonomo, eccelso umanista e già segretario dell’imperatore Massimiliano i, legga Virgilio ed Erasmo ai suoi chierici spiegando i testi non solo in italiano e tedesco ma anche in sloveno. Ne dà testimonianza Primož Trubar, prima chierico, poi sacerdote e più tardi «famigliar del Vescovo». Primož Trubar che, nel 1550, protestante fuggiasco, a Tubinga pubblicherà il primo libro sloveno. E a Trieste Trubar predica anche in sloveno, nella chiesa della Madonna del Mare, e, pare, anche a San Giusto. È merito, quindi, di Bonomo di aver dato il via alla prospettiva di un’affermazione slovena nel Litorale; di Bonomo, ch’era convinto, già nel 1518, che Trieste «potest dici verum emporium Carsiae, Carniolae, Stiriae et Austriae». Il fattore sloveno è dunque una delle componenti naturali del luogo; e anche Pier Paolo Vergerio, già vescovo di Capodistria, divenuto protestante anche lui, in Germania si picca di conoscere sufficientemente lo sloveno sì da voler pubblicare, insieme a Trubar, le traduzioni da inviare in patria. Ma il fatto che a personalità, quali il Bonomo e il Vergerio, la lingua slovena non fosse un idioma ostico ma anzi essi se ne servissero nelle loro qualità di vescovi, studiosi e diplomatici,

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trova un’ulteriore conferma dalla corrispondenza slovena della baronessa Maria Isabella Marenzi; mentre nello stesso Seicento il figlio del conte Raimondo vi della casata Della TorreValsassina coopera, in quel di Duino (Devin), col servita fra Gregorio alla compilazione del Vocabolario italiano-schiavo (1607). Ed è ancora nel Seicento che troviamo il cappuccino e scrittore sloveno barocco Svetokriški quale predicatore a Trieste, Svetokriški che pubblicherà due delle sue raccolte di sermoni a Venezia. Citazioni simili si potrebbero fare per il Settecento, mentre l’Ottocento vede un’espansione decisa della cultura slovena nel Litorale e specialmente a Trieste. Ora, è certo che, divenuta la città il porto pronosticato dal Bonomo due secoli prima, la popolazione delle campagne slovene – che fanno già parte dei sobborghi triestini – s’inurba a ritmo accelerato e si assimila anche, dato che la lingua franca della città è l’italiano. Ma se Trieste è, infatti, crogiolo per le diverse stirpi e lingue, quella slovena, che domina il retroterra nonostante la perdita degli assimilati, resiste e, dal 1848 in poi, afferma la propria identità in maniera inderogabile. Ed è appunto questa nuova coscienza slovena che comincia a dare fastidio alla borghesia italiana, che dapprima era stata favorevole alla affermazione dei popoli slavi, tanto che, nel 1848, la fondazione dello Slavjansko društvo (Società slava) nel Tergesteo con l’allocuzione di Jovan VeselKosenski non suscitò quella reazione che un fatto simile avrebbe suscitato in seguito se fosse potuto avvenire. Divenuto quindi il ceto medio sloveno, definito dal Gayda coltivato, assennato e disciplinato, il fautore di un’affermazione economico-sociale slovena rilevante, la borghesia italiana inizia la sua lotta contro quelli che si tendono a considerare degli estranei mentre lo Slataper si affannava a spiegare che gli sloveni dopo dodici secoli di anonimato stavano semplicemente “venendo a galla”. Sì, la popolazione slovena stava vivendo nella città una rinascita che con l’uscita, nel 1876, del quotidiano «Edinost», con l’organizzazione di circoli culturali e di società di ogni genere, vede lo sviluppo della cultura slovena in tutti i campi. Questa esplosione di attività, che va di pari passo a quella finanziaria e commerciale, è coronata − all’inizio del Novecento − dalla costruzione di una Casa di cultura polivalente nel centro

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della città. Sarà il Narodni dom, edificio disegnato dal Fabiani, che nel 1920, dopo che Trieste e una cospicua parte del territorio sloveno erano passati all’Italia, è il più importante e simbolico caposaldo culturale sloveno dato alle fiamme dai drappelli fascisti.

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II. Fu questo il periodo in cui la mia generazione ebbe a dover confrontare la propria infanzia e giovinezza con il genocidio culturale – e non solo culturale – cui la gente slovena delle nostre terre sarà condannata per quasi un quarto di secolo. Infatti, negli anni in cui le nostre case di cultura venivano trasformate in roghi, ero scolaro delle prime classi elementari. E quando si dice genocidio non si allude precipuamente alla liquidazione degli istituti bancari, delle cooperative, delle molteplici società culturali, sportive e altre; nemmeno si dice in primo luogo dell’interdizione dell’insegnamento della lingua slovena e delle pubblicazioni slovene ma si pensa soprattutto al bando dell’uso dello sloveno in pubblico; alla riduzione obbligatoria dei nomi e cognomi sloveni in forma italiana; al rifacimento dei nominativi sulle stesse iscrizioni tombali. Così da poter ripetere, anche se con un accento ancor più significativo, col Foscolo: «Anche la Speme, ultima Dea, fugge i sepolcri». Non solo si volle l’assimilazione richiesta da nazionalisti e mitigata da Slataper con la proposta di un’indolore eutanasia, ma l’eliminazione della autenticità slovena anche con azioni retroattive sugli antenati, silenziosi testimoni nei cimiteri cittadini di Trieste, Gorizia e Cividale come pure dei territori annessi che su queste città convergono. Fatti, questi, di cui l’Europa non si interessò, quantunque allora la popolazione slovena fornisse alle carceri italiane dalle Alpi al Sud una massa considerevole di condannati, colpevoli di voler rimanere fedeli alle proprie origini, e di combattenti per la libertà e la democrazia messi poi al muro. Certo, durante il secondo conflitto mondiale la morìa si estende a una parte della Slovenia, ma ad un tempo ha luogo

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un’inversione di tendenza: la popolazione slovena del Litorale ritrova la sua unione storica con il retroterra nell’organizzazione capillare contro la sopraffazione italiana e tedesca. Ed è in questo frangente che l’elemento cittadino italiano, seppure numericamente maggioritario, si avvede della sua condizione vulnerabile e del suo destino incerto. Incertezza che arriva al suo punto culminante nel maggio del ’45 quando Trieste è in mano delle Forze Armate jugoslave. In questa sede non è possibile rendere conto di tutte le vicissitudini poi toccate ai nostri territori dal momento del ritorno della maggior parte delle terre slovene alla matrice slovena (1947) fino alla soluzione del problema di Trieste e allo status riconosciuto alla comunità nazionale slovena nell’ex Zona A e a quello della comunità italiana nell’ex Zona B (1954). Ciò che necessita sottolineare è che noi sloveni del Friuli Venezia Giulia siamo in una posizione ambigua perché non esiste una legiferazione nei nostri riguardi. Non solo, ma gli sloveni della provincia di Udine, cittadini italiani dal 1866, non sono considerati alla stessa stregua degli altri (province di Trieste e Gorizia) e ciò nonostante la testimonianza di Carlo Podrecca, ex garibaldino, che nella sua Slavia italiana, afferma, nel 1884, che «non v’ha soluzione di continuità geografica et etnologica fra la Slavia italiana e le altre propaggini slave». Ciò che in tutto questo è soprattutto disarmante è la constatazione che i partiti italiani al governo nel periodo postbellico sarebbero probabilmente addivenuti a un’assennata sistemazione dei problemi riguardanti la popolazione slovena se i nuclei di centro-destra locali non avessero fomentato un superato nazionalismo antisloveno storpiando la storia, servendosi di cavilli, passando ad atti di vandalismo, imbrattando scritte e monumenti con simboli fascisti e nazisti, seminando all’occorrente dei chiodi, come avvenne nelle Valli del Natisone, per impedire l’afflusso dei veicoli a delle solennità slovene all’aperto.

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III. Malgrado ciò siamo riusciti a ricostruire buona parte del nostro patrimonio economico-sociale e culturale dell’inizio del secolo. Abbiamo affermato la nostra identità con il teatro stabile sloveno, con una pleiade di scrittori e poeti, con delle strutture scolastiche riguardevoli, con delle organizzazioni sportive di prim’ordine ecc. Nulla quindi dovrebbe impedire una feconda simbiosi italo-slovena se non ci fossero, a mio avviso, tre fattori principali di scompenso. La precedenza assoluta bisogna darla senz’altro all’ignoranza e in ciò Goethe non sbaglia quando dice che «l’odio nazionalista è tanto più feroce laddove regna il più basso livello culturale». Ne è la prova la mediocre preparazione storica della “Trieste bene”, la quale, dato che la popolazione slovena popola la campagna, considera noi sloveni una stirpe inferiore – come se gli altri popoli non avessero la propria classe contadina! Per la borghesia di lingua italiana la storia si è fermata al tempo in cui le domestiche delle migliori famiglie triestine erano ragazze e donne slovene. Ma è acqua passata, e poi, commenta Roberto Bazlen, quelle domestiche erano, per lo più, più intelligenti delle stesse loro padrone. Acqua passata, perché la cultura slovena a Trieste è alla pari di quella della Slovenia e perciò va di pari passo con la cultura europea del nostro tempo. Detta mancanza d’istruzione del ceto medio italiano diviene poi calcolo nel momento in cui viene presa in considerazione la possibilità che alla lingua slovena sia riconosciuto il diritto di cittadinanza nell’amministrazione: allora spunta il pericolo che coloro che non hanno padronanza della lingua slovena non possano concorrere a delle cariche pubbliche. Ignoranza quindi anche interessata. Poi c’è la paura. E qui si potrebbe anche ammettere che una ragione valevole ci sia, dato che il territorio a monte di Trieste è sloveno o comunque slavo. Ma se questo dato di fatto fosse stato preso in considerazione con lo spirito risorgimentale non ci sarebbe stato motivo d’apprensione. Purtroppo a un certo punto lo stesso Mazzini si è lasciato fuorviare mostrando Postojna (in sloveno nel testo) quale località che avrebbe dovuto segnare il futuro

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confine italiano in terra slovena. Frontiera che sarà poi disegnata con cura da Slataper e che nel ’18 il Trattato di pace confermerà, dando così inizio all’opera che Mussolini compirà annettendosi senza colpo ferire la cosiddetta Provincia di Lubiana. La posizione dell’Italia unita di fronte al mondo sloveno non era quindi animata dallo spirito ottocentesco propugnante il diritto dei popoli alla loro identità. Il popolo sloveno, considerato “senza storia” perché non aveva ancora ben definita la propria struttura nazionale, doveva quindi essere preda di conquiste da parte del più evoluto e più forte. Ma è stato un grosso errore, perché la Slovenia degli Asburgo aveva fruito dello sviluppo culturale della Mitteleuropa ed erano perciò fuori luogo le mire colonizzatrici nei suoi riguardi. Un esempio di miopia fatale. Ma i politici e i militari in ciò furono preceduti da uomini di lettere tra quali anche Chateaubriand che affermava come, al di là di Trieste, aveva inizio la barbarie. In questo secondo periodo postbellico le cose, almeno nelle loro linee generali, sono state sistemate in modo, tutto sommato, vivibile. E l’Italia a Trieste si interessa di realizzare quella convivenza con la Slovenia che la geografia, la storia, l’etnologia, l’economia suggeriscono. Lo spauracchio del retroterra sloveno (o slavo, come di solito si usa dire) viene proposto ad arte dai fedeli alla tradizionale ostilità verso la nostra comunità. E il fantasma di una duratura minaccia si cerca di concretizzarlo con una periodica riproposta dell’eccidio perpetrato a danno dei cittadini italiani nel ’45 quando la città fu per quranta giorni presidiata dall’esercito jugoslavo. Si tratta di un avvenimento tragico e, sebbene da parte degli accusatori italiani si trascurino tutti gli orrori commessi nell’epoca fascista e in quella bellica a danno della popolazione e degli abitati sloveni, l’indiscriminata eliminazione del ’45 è da deplorare e da condannare. E ciò più volte è stato fatto da uomini di cultura sloveni, dal sottoscritto in particolare. Nello stesso tempo, però, è giusto precisare che alla gente slovena di queste terre non può essere addebitata una vendetta così abominevole. Già nel settembre del ’43, infatti, le famiglie slovene si adoperarono a vestire i soldati italiani con abiti civili dei loro mariti e dei figli assenti, i soldati italiani che fuggivano i tedeschi ma che spesso non si erano comportanti

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in modo irreprensibile nelle città e nei villaggi sloveni. Perciò nel ’45 la popolazione slovena avrebbe chiesto che fosse fatta giustizia, certo, ma mai una rivalsa che era e che è contraria alla sua disposizione d’animo. I fatti del ’45 sono, quindi, da ascriversi all’ideologia rivoluzionaria che, ebbra della vittoria riportata, si scatenò nel peggiore dei modi; e di questo furore rivoluzionario, in quell’anno stesso, furono vittime in Slovenia migliaia di sloveni, e, anche a Trieste e nel Litorale, chi tra gli sloveni non era considerato leale veniva dichiarato traditore e con ciò insicuro del proprio destino. Non di una dimostrazione della crudeltà slovena si trattò, dunque, ma di una conclusione simile a quelle che conoscono tutti movimenti rivoluzionari; perciò l’allusione a una incombente minaccia slovena è uno stratagemma a fini evidenti, che devono servire a intorbidire l’atmosfera impedendo così l’affermarsi di un proficuo dualismo umano e culturale nella città. Oltre alla impreparazione e al timore del “pericolo slavo” bisogna accennare ancora al fattore che è stato menzionato prima solo di sfuggita. La preoccupazione riguardante i voti degli elettori tiene in iscacco i partiti italiani (eccettuati i comunisti) che potrebbero portare a termine una politica europea nei nostri riguardi. Roma si è mossa, e l’ho detto, ha concluso il Trattato di Osimo, nel 1975, ma non sa trovare la volontà politica per addivenire a una svolta veramente storica in questo ambiente di frontiera. Non può o non sa influire sull’opinione pubblica in modo di portarla a una trasformazione radicale delle disposizioni create in essa dalle diverse propagande passate. E, per non menzionare di nuovo la legge di tutela ancora in gestazione, direi perciò che il primo passo dovrebbe essere fatto dando atto alla presenza della cultura slovena nelle medie superiori italiane. Il secondo mutamento di direzione dovrebbe effettuarsi con l’impostazione di un’effettiva apertura alla simbiosi italo-slovena da parte del quotidiano italiano a Trieste. Fino a che il giornale dei triestini si curerà di riproporre sempre gli stessi elementi di attrito non c’è speranza che la città ritrovi il ruolo che la storia le ha destinato1.

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IV. Alla classe borghese italiana traumatizzata dai suoi complessi di superiorità e di ansia che poi trasmette al popolino in gran parte composto da antichi o nuovi assimilati, fa riscontro il complesso di inferiorità della parte più anziana della popolazione slovena. Complesso che è, certo, molto meno marcato che un tempo, ma che ancora incide nelle diverse occasioni in cui, in modo più o meno palese, bisogna affermare la propria diversità. Ma nel suo insieme la comunità slovena tiene bene malgrado il fatto che i suoi dirigenti più influenti per troppo tempo dalla fine della guerra si siano votati a un monismo ideologico di sinistra tutto a scapito di uno sviluppo armonico della collettività slovena. Nonostante ciò, la nostra vita economico-sociale e così anche quella culturale sono riuscite a raggiungere un livello riguardevole, come già dissi. Così si dà il caso da noi di due “vite parallele”, quella italiana e la nostra, che è autonoma, per ciò che ci riguarda, ma è ad un tempo anche duplice perché partecipiamo in tutto e per tutto agli avvenimenti culturali italiani. Certo, se non avessimo avuto da ricostruire tutto da capo avremmo potuto dire di noi molto di più di ciò che siamo riusciti a fare, tradurre i nostri testi per far conoscere la nostra storia e i nostri autori. Ma chi s’interessa a sopravvivere difficilmente troverà il modo di aprirsi all’altro. È ciò tanto meno se l’altro ostentatamente se ne disinteressa o, peggio, lo denigra. O, sicuro, ci sono dei casi lodevoli di spiriti con vedute larghe che, da parte italiana, cercano di superare l’assurdo diniego di una realtà di fatto; ma questi casi eccezionali non riescono a influire su quello che è il modus sentiendi acquisito di una buona parte della città, così il loro influsso si esaurisce in cerchie ristrette, in cenacoli di simpatizzanti. Da parte nostra spesso ci risentiamo di questo stato di mezzi esclusi, in fondo però la cosa non la prendiamo dal lato tragico. In sostanza, siamo, per ciò che riguarda la nostra cultura, autosufficienti. Non dico dal lato materiale. Ma moralmente sì. Anzitutto per i valori intrinseci delle opere letterarie dei nostri classici. Poi per la coscienza del prezzo che ci è costata la fedeltà ai loro princìpi. E infine per la riprova costante di essere nel giusto. Basti pensare che, dal primo scolaro sloveno a Trieste –

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Primož Trubar – agli scolari e studenti sloveni di oggi nella nostra città, sono trascorsi quattro secoli, un periodo quindi abbastanza lungo per convincerci che la stoffa per resistere ce l’abbiamo. E poi, quando, per esempio, durante il fascismo dovevamo conoscere Dante e Leopardi e Mazzini e Garibaldi, mentre la nostra lingua e i nostri autori erano interdetti – ammiravamo i classici italiani e amavamo i nostri che leggevamo di nascosto dopo esserceli procurati clandestinamente. Così ci arricchivamo due volte attendendo il momento di mettere in pratica, da sloveni, gli insegnamenti del Risorgimento. Ora i nostri figli leggono ancora Dante e Leopardi ma li leggono insieme a Prešeren, Cankar e Kosovel. E sono di nuovo ricchi due volte, senza però essere clandestini come lo fummo noi con la storia della letteratura slovena che veniva trasportata clandestinamente oltre la frontiera. Ecco qual è la nostra autosufficienza, che è, ad un tempo, la nostra ricchezza. La nostra lingua in quest’epoca di cristalli liquidi non deve entrare negli uffici della nostra città? Ce ne duole. Ed è un grande errore. Ma oltre che a scapito nostro ciò è a scapito della città stessa. Girolamo Meister, che era di Stoccarda, nel 1592 pubblicò un Dictionarium quattuor linguarum, e una di queste quattro lingue, oltre il latino, il tedesco e l’italiano, era lo sloveno. Quindi non siamo di ieri. E nemmeno siamo retrogradi come si vorrebbe farci credere. Retrograda è piuttosto quella Trieste che tenta di rinnegarci, senza però riuscirci. A Parigi infatti proprio in questi giorni – aprile 1987 – in un bellissimo testo, dedicato a Svevo, Saba e a Trieste in generale, un capitolo di Evgen Bavčar ha per titolo Écrire slovène à Trieste e dice della nostra letteratura da Trubar ai nostri giorni. Coloro che sono «infatuati di superiorità», per dirla col Bazlen, vorrebbero con la loro mentalità anacronistica estraniarci dalla vita della città, ma questa, se vorrà essere fedele al suo destino, non dovrà far caso di posizioni superate e in contrasto con i dati geografici e storici. 1987

Note 1. L’auspicio di allora appare ottimamente realizzato nell’ultimo decennio (nota del 2014).

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Il “misterioso” mondo sloveno

È merito dell’accordo di Osimo – che è, se si esclude l’inconsulta ubicazione della zona franca, di importanza storica per una nuova collaborazione italo-jugoslava – se la comunità slovena della Regione Friuli Venezia Giulia sta uscendo dall’anonimato cui finora era condannata. Veramente in sede nazionale già nei due libri di Salvi e Bernardi erano state tracciate le premesse per una schematica conoscenza della materia (Sergio Salvi, Le lingue tagliate; Ulderico Bernardi, Le mille culture). Soltanto ultimamente però si denota una volontà di approfondimento di quella che è una convivenza plurisecolare e che ora si sta riscoprendo anche in chiave culturale. È un bene, certo, che si stia riparando a questa carenza, che il Vivante riscontrava già all’inizio del secolo, carenza che, mi sia permesso di rilevare, rende piuttosto fosca la visione del problema che, in sede politica, è in fase risolutiva; infatti sul piano legislativo, appunto in seguito agli impegni di Osimo, si sta per definire l’identità slovena nella nostra Regione. Mi pare perciò utile, tralasciando i documenti di data anteriore, riferire certi dati risalendo solamente al xvi secolo. Così il fatto, per esempio, che il traduttore delle Sacre scritture in sloveno, Primož Trubar, nei primi decenni del Cinquecento fu a Trieste chierico e poi segretario del vescovo Bonomo. Ed è Bonomo, prelato umanista, che allora commenta ai chierici Virgilio ed Erasmo in italiano e tedesco ma pure in sloveno, come afferma lo stesso Trubar, che dice pure di essere stato allora predicatore sloveno a Trieste. Esule in terra tedesca, il Trubar più tardi, già protestante, si incontra con Pier Paolo Vergerio ed è su consiglio di quest’ultimo che, nelle sue traduzioni, adotta i caratteri latini al posto di quelli gotici.

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All’inizio del Seicento il monaco servita Gregorio, al secolo Alasia da Sommariva del Bosco (Piemonte), pubblica il Vocabolario italiano e schiavo dopo avere appreso lo sloveno dal figlio del conte Raimondo della Torre a Duino (Devin). Nello stesso Seicento è guardiano del convento dei cappuccini a Trieste Janez Svetokriški, al secolo Tobia Lionelli, che dà alle stampe una serie di cinque volumi di sermoni in sloveno; i primi di questi volumi sono pubblicati a Venezia. Dalla corrispondenza della baronessa Maria Isabella Marenzi, ritrovata alcuni anni fa, abbiamo la conferma che in questo secolo pure tra i nobili lo sloveno a Trieste era usato piuttosto correntemente. Per ciò che riguarda il Settecento sarebbe da notare che è allora vescovo a Trieste Jurij Japelj, traduttore in sloveno del Nuovo Testamento. A Trieste nasce da padre italiano (ma gli avi sono retoromani svizzeri) Žiga Zois, allievo dell’Accademia di Reggio Emilia, poi proprietario di ferriere in Slovenia, dove fonda l’Academia Operosorum, cenacolo importantissimo per lo sviluppo delle lettere slovene. Ma è nell’Ottocento che la vita culturale slovena a Trieste si arricchisce in modo veramente straordinario. Non è il caso di elencare giornali, filodrammatiche, circoli ecc.: basterà ch’io accenni che da Jovan Vesel, versificatore più che poeta, ai veri scrittori, quali il Levstik e l’Aškerc, non c’è nome importante della letteratura slovena che con la sua opera non sia in un modo od in un altro legato al mondo triestino. L’Aškerc, poeta epico di sicura tempra, annota lungo il litorale triestino le antiche fiabe e leggende slovene che poi battezzerà Jadranski biseri (Le gemme dell’Adriatico). Il poeta Kette a Trieste è soldato di leva e qui compone alcune delle più importanti liriche del decadentismo sloveno. Cankar (pron. Tzànkar) – scrittore importantissimo fatto conoscere al pubblico italiano con la rappresentazione dell’Idealista da parte del Teatro stabile del Friuli Venezia Giulia – a Trieste è sovente conferenziere applauditissimo al circolo socialista di cultura Ljudski oder (Teatro popolare). Sarebbe cosa troppo prolissa il volere, in questa sede, passare in rassegna gli autori sloveni che nel Novecento sono nati o vissuti a Trieste, a Gorizia, nelle Valli del Natisone. Mi limiterò a citarne alcuni: Marica Nadlišek, Josip Ribičič, Andrej Budal

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(traduttore del Promessi sposi), Bogomir Magajna, Ivan Rob, Vladimir Bartol, Jože Pahor, France Bevk, Igo Gruden, Ivan Trinko. Ma soprattutto Srečko Kosovel che a Parigi l’editore Seghers ha incluso nella nota raccolta dei Poètes d’aujourd’hui. La stessa ricca presenza di autori vale per il periodo che segue il secondo conflitto mondiale; una fioritura di opere letterarie che ci ricompensa della tragica quaresima del periodo tra le due guerre. (cfr. il mio scritto su La vita culturale degli sloveni). Una carrellata molto rapida, questa mia, ma forse sufficiente per mostrare come la comunità slovena nella Regione, e principalmente a Trieste, visse quasi in un compartimento stagno. Un’invisibile linea di demarcazione, che era segnata dalla condizione emarginata della popolazione slovena, teneva separati due mondi che si compenetravano, a tutto scapito, è logico, dei contadini inurbati, dei lavoratori manuali, delle domestiche e lavandaie che rappresentavano la stragrande maggioranza dell’elemento sloveno. Con l’affermazione di una borghesia slovena, il fenomeno della cronica assimilazione arriva a una svolta decisiva. Dal 1848 in poi, gli sloveni a Trieste e a Gorizia affermano sempre più decisamente la loro specifica identità, così che negli anni antecedenti alla prima guerra mondiale Scipio Slataper è impegnato a cercare, sebbene ancora su un binario sbagliato, un modus vivendi col mondo sloveno che fosse una saggia alternativa al programma irredentista. Sono occorsi due conflitti e una radicale trasformazione dell’hinterland adriatico perché si possa ora finalmente addivenire a un reciproco arricchimento in queste nostre terre così varie di storia e di destini umani. Ma acché il mondo sloveno non continui ad essere una incognita bisognerebbe risalire la corrente, rivedere la storia, continuare il cammino indicato da Vivante e Cusin. Poiché purtroppo non sono molti gli autori italiani che si sono curati della realtà che li circondava. Anche poeti eminenti come il Saba appaiono piuttosto astigmatici quando hanno occasione di venire a contatto con i concittadini “alloglotti” (vedi nelle Scorciatoie e raccontini l’episodio della studentessa slovena che chiede a Saba un giudizio su Cankar). Un lavoro di recupero, quindi, una operazione retroattiva che corregga le prospettive, in modo da chiarire agli impreparati che

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la simbiosi italiana e slovena nel Friuli Venezia Giulia non è una conseguenza di spinte slovene avvenute durante l’ultimo periodo bellico, ma invece secolare convivenza, secolare coabitazione, che, sebbene spesso repressa e stagnante nell’inconscio, è tutt’altro che misteriosa.

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Due amici, idealisti dichiarati: Srečko Kosovel e Carlo Curcio

Mi piace, in quest’atmosfera di celebrazione della nascita di Kosovel che anticipa l’allargamento dell’Unione Europea, ricordare la fraterna amicizia di due europeisti, Kosovel e Curcio. Il poeta, lo dichiara quando spera e quando è travolto da visioni funeste; lo storico Curcio nel 1950 scriverà un testo con il titolo Nazione Europa Umanità. Nato nel 1898 a Napoli, Curcio, laureatosi in giurisprudenza, è collaboratore di diversi giornali importanti e, quando incontra Kosovel nel 1922, è già autore di pubblicazioni interessanti come L’ideale della vita, L’estetica italiana contemporanea e L’idea liberale. Più tardi, come professore di storia in diverse università, pubblicherà diverse opere sul Cinquecento, la Riforma, il Risorgimento. I due futuri amici si conoscono per merito delle due sorelle di Srečko, Karmela e Anica (pron. Anitza). Si è nel 1918 e l’Esercito italiano ha un presidio a Dutovlje (Duttogliano) dove è di servizio il tenente Carlo Curcio. Le due studentesse vi si recano per ottenere il lasciapassare per continuare gli studi a Lubiana. E il tenente non solo promette ma le rincorre saltando i muretti e diventa amico della famiglia. Ascolta Beethoven e Chopin, innamorato senza speranze di Karmela, è con le ragazze a Opčine (Opicina) e Barkovlje (Barcola), alla partenza nel 1919 lascia loro due volumi della Storia della letteratura italiana di De Sanctis. Ma, nel 1922, Curcio si propone di visitare le capitali delle nuove identità nazionali: Lubiana, Zagabria, Praga, Budapest, Vienna.

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E così per tre giorni Kosovel gli fa da cicerone culturale, mentre – inzuppati da una pioggia ottobrina – si fanno le prime confidenze. Secondo il redattore dell’opera completa di Kosovel sarebbe rimasta una sola lettera di Curcio, ma il caso volle che, in visita a Tomaj, insieme alla signora Karmela trovammo tre lettere e una cartolina illustrata firmate da Curcio rivelatrici dell’incontro intimo dei due amici. Curcio scrive a Kosovel appena arrivato a Zagabria una lettera di cui è importante l’inizio: Mio caro amico! Eccomi a Zagreb. Il cielo è latino come quello del mio paese, la città è piacevole per tutto il comfort che la rende piacevole; ma nel mio cuore sono rimaste certe lacrime che ho visto brillare nei suoi occhi, ieri sera, la nostra ultima sera. Lubiana dunque comincia a essermi essa stessa malinconicamente nostalgica. E con il suo dente malato come va? Anch’io, ora, sento un certo male: un po’ di mal di gola… Ma, dov’è la mia più grande malattia? Alla gola o nel cuore?

Per chiusa c’è un abbraccio. Un mese dopo Curcio si fa vivo da Napoli su carta intestata «Giornale della Sera», 26 novembre 1922: Mio caro amico, confratello Srečko! Avevo appena finito di leggere le tre lettere delle sue sorelle e la cartolina da Lubiana – quando la sua lettera, che sapeva di sincerità – d’amicizia – di tenerezza – è venuta a riempirmi di gioia e a diffondere nel mio cuore un chiarore desiderato… Ah, un chiarore – io non so ancora se esso sia già nella mia anima oppure al di là della mia vita, di quella del tutto invisibile – la vita interiore: adesso so soltanto che lo desidero e che in qualche istante lo vedo – leggendo la sua lettera – e che, poi, le tenebre coprono la mia speranza. Lo spirito è sempre senza riposo. Ahimè! Ecco che sto facendo della cattiva filosofia! L’ho lasciata, ora, la filosofia: essa è – per me – una cavità tenebrosa e vuota. Voglio dimenticarla. Ma, dunque, Lubiana – lei diceva – si ricorda ancora – qualche volta della mia persona? Gi studi stanno per finire? Gli amici della Stella e dell’Union – le parlano qualche volta di me? Scriverò, forse, la prossima settimana, ancora un articolo sui pittori sloveni; e poi ancora, vorrei scrivere delle piccole memorie di viaggio dopo la mia partenza da Napoli.

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Di tutto ciò – che cosa farò? Lo ignoro – io stesso lo ignoro. Adesso sono del tutto soffocato da un lavoro brutale e stupido: il giornale. Voglio uccidere le mie passioni, nel rumore dei grandi macchinari – nella folla di futilità della vita quotidiana – nelle righe tipografiche, piombo colato nel giogo maledetto – nello spirito tormentato di questo povero viaggiatore dell’ideale! Ma – perdinci! Ancora della filosofia? La lascio: e le do il secondo bacio d’amicizia. Carlo.

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Kosovel gli risponde subito con una lunga lettera che devo tralasciare per citare almeno quella, del 16 febbraio 1923, almeno in parte: Mio caro amico! Non l’ho dimenticato. Mi creda che avevo cominciato molte volte a scriverle: ma non so, o non sono più capace di scrivere in francese o sono troppo stanco. Penso comunque molto a lei, e qualche volta vorrei essere con lei non per parlare, ma solamente per essere con lei; perché mi pare che lei sia la prima persona ch’io ami per il suo alto idealismo, per il suo profondo sentimento e anche perché – non lo so esprimere bene – sento che mi trovo delle volte sul suo cammino. Noi c’incontriamo sulla strada bianca e ci comprendiamo, senza sapere che lei è il signor Curcio e io sono Srečko. Qualche volta penso che noi due si potrebbe fare molte cose insieme per quanto riguarda la filosofia idealistica. Sebbene oggi non lo conosca ancora, penso all’idealismo di Gesù Cristo. Avevo letto Renan e, per dirle la verità, questo libro (Le vie de Jésus) lo considero un gran salmo. Un salmo della sofferenza di un uomo che con la sua vita si batte per la vittoria dell’idea. L’idea della bellezza. Ma a proposito di ciò desidererei conoscere il suo pensiero. Non so se l’ho già ringraziato per i suoi libri e per i suoi giornali. Ma io le sono tanto riconoscente, insieme con tutto il popolo sloveno, che ci sia una persona che voglia dire la verità, che voglia essere vicino a noi deboli… Ma la più grande riconoscenza lei la troverà in se stesso: lei ha voluto e fatto del bene a qualcuno che aveva bisogno di aiuto.

Curcio, oberato dal lavoro al giornale, risponderà tardi, questa volta dichiarandosi disgraziato anche lui come l’amico:

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Mio disgraziato, mio carissimo Srečko, disgraziato me! Quanto tempo è passato, da quando non le scrivo? Ma, io posso ben assicurarle: dodici, tredici ore al giorno sono – o ero – occupato con il lavoro più brutto: il giornale; e soltanto alcuni giorni fa ho ritrovato, la sera, un po’ di tempo per riprendere i miei studi e le mie occupazioni abituali: ed ecco, le scrivo. Sebbene io l’abbia sempre pensato; lei, compagno di studi, di ideale, mio cicerone a Lubiana, in una parola: amico mio, amico dei miei amici. E adesso la prego di darmi insieme il perdono e l’amicizia, che desidero; e io sono suo Carlo Curcio.

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E Kosovel di rimando: Vivo in un’atmosfera molto pesante, una vita che striscia verso la morte. La pace eterna e la libertà – non mi meraviglio affatto di sentire Heine parlarne con un riso cinico. Sì, anche la Germania ha pagato la sua menzogna, anche la Russia. Non le sembra che abbiano sofferto per il mondo intero – per tutti coloro che soffrono? Lei conosce Marianni? Ho letto il suo Povero Cristo. Bello, anche se influenzato da Nietzsche. Ci vuole un’idea libera nella verità! Salve!

Vorrei aggiungere a questo scorcio di tormentate missive una constatazione di Curcio, in uno scritto inviato al compilatore dell’opera di Kosovel: Mai, mi pare, lo vidi sorridere. La sua era una tristezza, se mi è lecito dire, metafisica, attingeva le sue radici da una problematicità più che filosofica lirica della esistenza e del divenire del mondo.

Curcio rimase amico della famiglia e visitò i Kosovel nel 1938, ma forse è bello qui citare un brano del suo congedo, quando deve abbandonare il Carso nel 1919. Napoli, 17 febbraio 1919: Addio mesto e accorato, come non v’ò detto sulla strada per Trieste, mentre il tram di Barcola guizzava in mezzo il nostro saluto! Addio non di memoria. Un giorno, canuto il crine, al ricordo mi sentirò felice, passando un alito di spiritualità.

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Per dire di Curcio, invece di Kosovel, per concludere riferirei le parole di Karmela, che da Steinach (in Austria) inviandomi alcune fotocopie delle lettere scrittele da Curcio concludeva:

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Curcio fu una delle anime artistiche più pure, e il nostro incontro causale con lui una di quelle preziosissime esperienze che non si ripetono.

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Manlio Cecovini

Mi ha fatto molto piacere il desiderio di Manlio che fossi tra quelli che alla presentazione della sua autobiografia “ne diranno qualche parola”. Quantunque infatti, tra i rappresentanti della cultura slovena della Regione, sia lo scrittore cattolico Alojz Rebula che più a fondo si è intrattenuto con Manlio Cecovini, cosicché insieme hanno dato vita a un ricco carteggio, anche noi due siamo accomunanati da fattori rilevanti. Direi “qualche parola” a proposito di due di questi. La prima comunanza che è, diciamo così, di prerogativa personale, riguarda la concezione del mondo. Già seguendo le risposte che egli dava alle questioni di Rebula nell’intervista pubblicata dalla rivista slovena di Klagenfurt-Celovec, in Carinzia, mi trovai d’accordo con Manlio Cecovini tanto riguardo alla dichiarata Weltanschauung quanto al modo insolitamente nitido con cui l’esprimeva. Una concordanza che poi si arricchirà leggendo le sue opere e amichevolmente discutendone nei nostri incontri. L’altro fatto, che ci accomuna, in parte corollario del primo, è un particolare senso realistico. E fu Cecovini il primo a sottolinearlo dovendo prestarsi all’assurdo di leggere due miei libri tradotti in francese. Mi dispiaceva immensamente ma non ci potevo far nulla, dal momento che, nemmeno dopo essere uscito in francese e in inglese, il mio racconto sui Campi nazisti trovò l’accoglienza di un editore italiano. Infine se ne interessò un’associazione, il Consorzio Culturale del Monfalconese pubblicandone una traduzione italiana. E fu proprio Manlio Cecovini che, compiendo quasi un atto di compensazione, presentò il libro nella sala della Libreria Minerva. Atto veramente eletto che stupì non poco, e in maniera diversa, le due comunità.

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Mi si voglia scusare l’accenno a un mio libro, ma il fatto è pertinente a ciò che desidero mettere in rilievo. Nel 1997 uscì dalle Edizioni Lint una bellissima Antologia degli Scrittori triestini del Novecento. In quest’opera di grande valore Manlio Cecovini pubblica un’introduzione dal titolo Una grande cultura di frontiera, nella quale, dopo aver presentato un accurato panorama della cultura di ceppo latino, si attarda in un bel numero di pagine a parlare della letteratura triestina slovena, sebbene egli la conosca soltanto di riflesso. Certo, Cecovini non è il primo, c’è il testo di Ara e Magris, ci sono Guagnini e il da poco scomparso Ferruccio Fölkel; ma Cecovini si differenzia appunto per la sua realistica presa di posizione. Nell’introduzione citata egli scrive senza mezzi termini: «Siamo noi, intellettuali giuliani, in modo particolare noi intellettuali triestini, che ci vantiamo di essere “italiani speciali”, a dover dare un segno di nuova attenzione, di stima, di considerazione… È un problema della cultura, non della politica pasticciona, che non ha mai risolto alcun problema, che anzi giustifica la propria esistenza con la lunga vita dei problemi. La graduale eliminazione del solco (che ci divide) dev’essere sentita dalla componente italiana, nella sua responsabilità di componente di maggioranza, come un proprio bisogno “primario”». Una dichiarazione che direi di importanza fondamentale di cui bisogna dare atto al Cecovini giurista e scrittore ad un tempo. Ma fatto fondamentale anche perché nella stessa antologia, in un corsivo riguardante «la struttura e ragioni dell’opera», quasi a confermare Cecovini, i Curatori specificano anche che «gli scrittori sloveni o di lingua slovena non trovano collocazione nel presente libro… dati il loro numero e il loro livello artistico sono ben degni di essere inclusi in un’opera similare, che si auspica possa essere, prima o poi, pubblicata, anche in omaggio al pluralismo culturale della città adriatica». E ne parlammo di questo progetto con Manlio, che si proponeva di patrocinarlo, disposto anche a cercare i fondi per realizzarlo. Si era così come due savi anziani (c’è solo un anno di distacco tra Manlio e me) che tentano di preparare il terreno per una nuova coesistenza delle generazioni future. A questo proposito, di anzianità infatti, desidero – per concludere – accennare a un fatto molto antico. È cosa nota che

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nel Cinquecento Bonomo, vescovo di Trieste, che prevede il futuro della città, ha tra i chierici, ai quali spiega le opere letterarie oltre che in italiano e tedesco anche in sloveno, Primož Trubar, che, divenuto protestante ed esule in Germania, pubblicherà a Tubinga il primo libro sloveno. E Trubar riconoscente dichiara: «Tergesti ab episcopo Petro Bonomo, docto et viro piissimo, sum a teneris annis educatus» (1557). Ma per il nostro caso specifico è altrettanto importante l’opera del vescovo di Capodistria Pier Paolo Vergerio. Anche lui, a un certo punto, diventa protestante e si trova con Trubar in Germania, anzi diventa suo collaboratore nella preparazione delle pubblicazioni slovene e, da diplomatico esperto, batte cassa presso i nobili tedeschi in favore di libri che, nascosti in botti, vengono trasportati clandestinamente a Lubiana… Fatti trattati per esteso dagli storici, ma poco menzionati, e che qui mi piace riportare perché mi sembra di poter un po’ accostare al protestante Vergerio del Cinquecento Manlio Cecovini, che nel 2002 è propenso a darmi una mano nel cercare i fondi per un’antologia della letteratura slovena triestina. E poi, chissà, forse a proposito del testo che ho citato e che poi egli, ampliato, ha pubblicato in Francia, qualcuno lo riterrà protestante anche lui, qui da noi non si sa mai. Ma, protestante o no, grazie, caro Manlio, di questa tua partecipazione alla nostrana «République des lettres» e un augurio per la testimonianza del tuo curriculum che ci stai offrendo. 2002

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Il mare come metafora in due poeti del Litorale. Dragotin Kette e Srečko Kosovel

Forse sarà utile preporre al tema, che mi sono proposto di trattare brevemente, una molto succinta premessa riguardante il motivo del mare nella letteratura slovena in generale e in quella del Litorale in particolare. Di quest’ultima bisogna dire innanzitutto che ha arricchito il patrimonio poetico sloveno anche con l’apporto di un notevole contributo da parte dell’epica popolare. Così va segnalata in primo luogo la canzone della Lepa Vida (La bella Vida) che, riscritta da Prešeren, sarà uno dei motivi più frequenti su cui si sono soffermati poeti e scrittori tanto nel passato quanto anche negli ultimi decenni. Trattasi, infatti, di un simbolo dell’aspirazione inappagata, anzi frustrata: la giovane donna infatti abbandona il lido nativo per un miraggio fallace e consuma i suoi giorni vinta dalla nostalgia e confermando col pianto disperato il fallimento della sua illusione. Ma quantunque l’esito del destino di questa giovane e bella esule sia tutt’altro che felice, il messaggio della lirica viene di solito recepito come simbolo della insoddisfazione, della ricerca dell’ignoto e del misterioso. In ogni modo, del tutto caratteristico è il fatto che, ad abbandonare la riva natìa, non sia un uomo ma una donna, che di solito la si immaginerebbe Penelope fedele, legata alla casa e ai campi. Certo, oltre a questo motivo, diciamo così, classico, la poesia popolare offre una ragguardevole quantità di altre composizioni in cui la gente dei villaggi costieri si è sbizzarrita la fantasia prendendo come spunto avvenimenti naturali, burrasche e naufragi, oppure elementi della costa, quali gli scogli, e le immancabili sirene. Ed è usando tutta questa abbondanza di poetica popolare che il poeta Anton Aškerc nel 1907, comporrà le sue romanze e ballate che chiamerà appunto Jadranski biseri (Le gemme dell’Adriatico).

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Il discorso sui singoli autori che nelle loro opere si soffermano più o meno intensamente sulle particolarità, la vita, la sorte della gente del Litorale, non può dilungarsi in questo accenno introduttivo. Basterà perciò riferire che la tematica in questione diverrà molto intensa soprattutto nel primo periodo postbellico quando il genocidio culturale imposto dal terrore fascista metterà in forse non solo la cultura ma la lingua stessa della popolazione slovena. È normale, quindi, che l’apprensione dell’uomo comune si rifletta nella lirica dei maggiori poeti della regione: Igo Gruden, Alojz Gradnik, Srečko Kosovel, Dragotin Kette, per citarne solo i più noti. Dall’altro canto anche gli scrittori includono il panorama e la vita dell’abitato litoraneo nelle loro opere, così già il romanziere Josip Jurčič nel secolo scorso, France Bevk nel nostro, insieme a Bogomir Magajna, Ciril Kosmač e fino agli autori – di versi e di prosa – che nel secondo dopoguerra hanno contribuito con un abbastanza ragguardevole numero di opere ad arricchire gli scaffali delle nostre biblioteche. In questa pleiade di nomi ne ho scelti due poiché il motivo del mare ha trovato nei loro carmi un significato tutto particolare e ciò non solo per il valore intrinseco, estetico, delle poesie, ma anche per la loro posizione esistenziale. In più vorrei sottolineare che, oltre alla loro appartenenza al retroterra del Litorale, tutti e due i poeti sono a Trieste in periodi importanti della loro vita, tutti e due muoiono poco più che ventenni affermandosi nondimeno tra i grandi della lirica slovena. Ad un tempo, però, differiscono tanto per carattere e aspirazioni quanto per il divario dei due periodi storici in cui si muovono: Kette si spegne al tramonto del secolo scorso, Kosovel fa in tempo a essere spettatore della dilagante barbarie fascista. II. Figlio di un maestro, che è anche organista, il dodicenne Kette suonerà col padre il piano e con lui canterà le melodie della lirica popolare, ma, più importante ancora: dal genitore erediterà anche il carattere gioviale e comunicativo. Questi fattori faranno sì che il giovane poeta si differenzierà per la carica di vitalità

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dagli altri tre componenti il quadrifoglio della Moderna slovena, come si definiscono i rappresentanti della cosiddetta decadenza. Mentre infatti Župančič, Cankar e Murn sono piuttosto schivi e controllati, Kette è espansivo e brioso; e la diversità si accentua anche in campo letterario; mentre infatti gli amici si avvalgono della svolta della lirica avvenuta con Verlaine, Rimbaud e Mallarmé, Kette, già per inclinazione naturale e poi per decisa presa di posizione, si dichiara tradizionalista. Sembrerà strano, ma è proprio per questo suo carattere schietto e soprattutto energico, virile, che Kette è molto meno presente nella coscienza culturale slovena di quanto meriterebbe. Non è che sia misconosciuto, anzi, ma è in qualche modo tenuto in disparte, perché l’animo sloveno preferisce le tinte smorzate o, se no, la realtà sublimata – atteggiamento del resto giustificato dai travagli storici della comunità nazionale. Kette no, i suoi accenti sono particolarmente luminosi e freschi, ed è tutt’altro che strano notare che è un chiosatore italiano, Luigi Salvini, a sottolinearlo nella sua bella antologia slovena Sempreverde e rosmarino: «Ricambiano − dice Salvini − il sorriso di Kette il mare e le belle donne, gli amici e la natura e i bimbi; i bimbi che godono delle tavolette e delle canzoncine che Kette scrive per loro, gremite di galluzzo, api, ragni, asinelli e di birichini dal visetto imbrattato. Dopo una tristezza – è quasi un secolo che la Musa slovena veste gramaglie e piange sulle sventure dei poeti e della patria – essa, al comparire di Kette, del bel Kette biondo e luminoso, finalmente sorride». Ma sebbene si distingua dagli altri, che seguono i decadenti, spesso mediati da Vienna, Kette non resterà nell’atmosfera tradizionalista, il suo interesse è aperto alla lirica russa, a Goethe, ai classici; oltre alle altre lingue, studia l’italiano, dal momento che prediligerà il sonetto e, dopo il Prešeren, egli diverrà il maestro del sonetto nella lirica slovena – e con una serie di cicli di sonetti chiuderà il suo breve curriculum umano e poetico. Poeta esuberante, abbiamo detto, e perciò soprattutto poeta dell’amore che è ad un tempo offerta di dedizione ed esigenza di riscontro; esaltazione della bellezza fisica colta nei tratti delicati e sensuali, ma insieme unione spirituale che annulli la solitudine e valga come fonte d’ispirazione duratura.

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È, proprio considerate in questo contesto, che le liriche, chiamiamole così, “marinare”, fanno in certo qual modo parte per se stesse dell’opera di Kette. Che a Trieste deve fare il servizio di leva. Un incontro con la città tutt’altro che favorevole se si pensa alle grigie pareti della caserma di Roiano, alle marce che sfiancano le reclute. Ma il giovane che già da ragazzo e poi da studente deve affrontare le avversità del destino – a quattro anni perde la madre, ne ha quindici alla morte del padre così che riesce a concludere gli studi liceali con grande difficoltà – ora si appresta, con ottimismo e baldanza, a superare le difficoltà anche nella speranza di vedere ridotta la ferma e passare così a Vienna agli studi universitari. Purtroppo le cose si volgono al peggio; trasferito dalla caserma all’ospedale militare, il tanto desiderato congedo invece che attestato di libertà sarà una conferma della fine imminente. Nulla però di questo travaglio trapela nei due cicli che risalgono al periodo triestino di Kette, né nel ciclo di otto sonetti intitolati Adrija (Adria) né nel ciclo di otto canti cui il poeta ha dato il titolo Na molu San Carlo (Sul molo San Carlo), frutto della più intima simbiosi con l’ambiente e gli abitanti, cioè principalmente con la loro componente femminile. Giacché, coerente con la sua disposizione erotica, il poeta potenzia in questo senso la sua ricerca. Ed è così che proietta in un’abbondanza in metafore e simboli il proprio stato d’animo di fronte al fulgore del sole e all’argentea distesa marina. Ora questa si trasforma in sposa inghirlandata su cui nel giorno delle nozze sono fissi gli occhi incantati dello sposo, ora è il cuore stesso del poeta ad aprirsi come un vasto mare, il cuore che prima era immerso nell’ombra mentre adesso è pronto a salpare con la fanciulla che, viva e amante, sostituisce quella invano esaltata e cantata. Non credo di riuscirci, ma voglio tentare di riprendere questi due momenti con le mie parole. Il primo incontro con lo splendore del mare: O Adria, come può abbracciarti, come può baciarti il mio sguardo!

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Tu somigli alla sposa che graziosa il serto si toglie il dì delle nozze. E come allo sposo si accende lo sguardo quando tenera ti ha davanti a sé, così, Adria, tu hai soffuso su di me tutta la tua magnificenza.

La strofa del secondo sonetto potrebbe essere esplicata all’incirca così:

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Sì, o cuore mio, tu sei il vasto mare! Come fosti tenebroso un tempo! Ma poi che fiorì per te un primaverile amore, tu sei flutto che un’agile barca fende.

Ciò che è precipuo, però, in Kette è che, dopo queste trasposizioni della propria aspirazione e della nuova rilevazione della natura, egli si ripiega su se stesso, cerca di scoprire l’ultimo mistero della femminilità e, sebbene per un momento cerchi ancora di eludere la risposta e di perdersi nella pienezza della luce, poco dopo ritorna al dubbio. Il mare, simbolo della vita, gli offre un amore inaspettato, festoso, ma ciò nonostante, resta viva l’alternativa dell’amore primiero, quello sognato. E si è così di fronte a un vero conflitto tra le tenebre e la luce, conflitto in cui la vittoria spetta al partito della trascendenza. E il mare, ora senza essere nominato, diventa il simbolo della vita stessa che è eterna e quindi non conosce più morte alcuna: E la morte non esiste… Io non vedo che vita, vedo la vita eterna tutt’intorno.

Un finale, certo, inaspettato se si pensi ai sonetti introduttivi, ma del tutto coerente, invece, se si prende in considerazione la disposizione programmatica del poeta che si era proposto di cercare l’armonia, la perfezione nell’armonia. Del resto, questo desiderio di un’atmosfera trascendente lo ritroveremo nel ciclo Moj Bog (Il mio Dio) che fa appunto parte della ricca messe sonettistica dell’ultimo Kette. Ciclo in cui si sente l’influsso di Maeterlinck, che il poeta cita con un motto, e anche di Spinoza, sicché la religiosità di Kette si rivela tutta panteistica, in ogni

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modo anticonfessionale e antidogmatica, riportata alla verità degli occhi innocenti di un bimbo – mentre il mare si apre ancora con la sua vastità al vascello di ciascuno dei nostri destini particolari. Di tutt’altro tenore sono invece i canti che compongono il ciclo Sul molo San Carlo, che fa parte con i Nuovi accordi delle liriche in cui Kette si riprometteva di cambiare rotta, di lasciare la tradizione classica senza però avvicinarsi troppo alla “decadenza”. Ma la Parca ingenerosa annullò, già in sul nascere, i suoi progetti. È da notare, a proposito del titolo di questo ciclo, che anche Kette, come dopo di lui Kosovel, Magajna e altri, sia affascinato dalla folla sul molo che dalle rive si protende nel golfo e, specialmente la sera e nei giorni festivi, si trasforma in luogo di passeggio per la gente, soprattutto per i giovani, che, arrivando dal Corso, attraversata la piazza e un pezzo di lungomare, s’incamminano per il lungo selciato di pietra carsica come su un bianco ponte gettato su un’immensa distesa azzurra. E Kette non sarebbe il poeta dell’eros incandescente se non fosse non solo incantato dalla bellezza del luogo, dalla presenza femminile, ma se non fosse anche soggiogato da un’esperienza tutta sua e vissuta intensamente anche se a tratti l’andante con brio deve cedere il passo a ombre passeggere. Ma la priorità va senz’altro al panorama che il poeta trasfigura in una visione di intima comunione tra l’astro celeste e la distesa marina prodiga di sommesse e appassionate confessioni. La natura è così il potenziamento simbolico della verità interiore, e in questo, all’inizio, il canto del molo, ricorda i primi sonetti di Adria. Inoltre, un parallelismo è evidente pure nella lirica in cui il poeta dubita di poter leggere nel cuore della donna, mentre immagina che il sole riesca con i suoi raggi a penetrare nelle profondità marine – ma poi lo svolgimento si differenzia completamente perchè la dialettica non contrappone più l’amore sublime a quello effimero, ma il presente, che è sfavillante, al passato dalle tinte oscure. E la coreografia in cui si muove è ora chiamata giardino aprico – sì da far pensare a Charles Nodier che, all’inizio dell’Ottocento,

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paragonava Trieste a un canestro di fiori tra il mare e l’altopiano – e questa fantasmagoria di colori e di riflessi inonda l’anima del poeta che a sua volta, grazie alla rivelazione del sentimento nuovo, partecipa allo sfolgorìo dell’acqua sconfinata. Ci sono, è vero, dei passaggi, due precisamente, in cui affiora il rammarico del tempo perduto, quello bellissimo soprattutto nel quale il poeta confessa di aver vissuto quasi come un morto. Ma voglio tentare di rendere quelle strofe invece di citare il Salvini che in alcuni punti non coglie l’idea del poeta: Io ero morto. Pensa, mia cara: i miei occhi sbarrati non videro il sole in cielo, né il mio orecchio udì dolci melodie. Mai l’arco di Eros scoccò nel mio cuore la sua freccia acuta, né per me ci furono rosee guancie né seno vergine mai al mio petto si accostò. Impietrito mi stesi ad adorare l’idolo di marmo sull’altare implorando il volto bello e freddo, implorando perfino la pietra di quel trono.

Ma il racconto, che è una sincera e amara confidenza, è anche in un certo modo una rivincita che il poeta si prende per il rifiuto della orgogliosa ragazza lontana. E la confessione non è ripagata solo da una affettuosa comprensione, come ci si attenderebbe, ma da due occhi sorridenti e scherzosi che annientano in un baleno tutto il passato. Così il poeta scopre che tutt’intorno gioiscono il mare, lo zeffiro, le stelle. Ma in primo luogo domina il mare, immagine della liberazione, che si offre splendente alla barca in procinto di salpare col vento della speranza in poppa. E questo duplice rito, cioè dell’immagine dell’idolo altero e della rivelazione della Venere triestina, come la chiamerà in una lettera, si rinnoverà nell’ultima lirica del ciclo. Là, in fondo al mare infinito, al poeta si presenterà una città sommersa con la sua magnifica cattedrale in cui lo sposo, tutto preso dalla grazia della sposa, a un tratto verrà colpito da uno sguardo adirato della

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statua marmorea. Ma senza indugio anche l’incubo di questa visione viene fugato dalla dolce amica che finalmente diverrà per il poeta, così egli spera, la brezza che eliminerà le nebbie oscure ed aiuterà la sua barca a ritornare in porto. Un classico quindi, Kette, che va studiato nel contesto della sua epoca, certo, ma che merita di essere conosciuto anche per le liriche che qui non sono state prese in considerazione. E in primo luogo bisogna riconoscergli la maestria con cui è riuscito a creare nell’arte quella sintesi e quell’armonia che nella vita non gli sono state affatto propizie.

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III. Ben altra notorietà ebbe Srečko Kosovel, già tra la generazione che si trovò a subire il primo dopoguerra, in modo particolare, poi, dopo il secondo conflitto mondiale perché in lui si vide – e si vede – il giovane e a un tempo singolare vate che pronosticò lo sfascio dell’Europa. Così il nome di Kosovel varcò presto i confini della piccola Slovenia affermandosi in una dozzina di lingue e di belle antologie, da quella francese a quella catalana e alla recente italiana curata dal poeta Gino Brazzoduro. Non è qui il caso di soffermarsi sulle diverse dimensioni della lirica di Kosovel, basterà constatare che, nonostante la prematura scomparsa – nato nel 1904 muore nel 1926 – Kosovel è riuscito a condensare nella sua opera le rivelazioni di una vita intensa, ciò soprattutto nell’ultimo scorcio di tempo quando sente incalzare il presagio di una fine precoce. Ma, per ciò che riguarda il mare – il nostro tema quindi – Kosovel differisce da Kette innanzitutto perché egli è di casa nell’ambiente triestino dove ha parenti, amici, dove ci sono le redazioni nelle quali si presenta con le sue cartelle, dove c’è il teatro sloveno progettato dal Fabiani, e quello italiano in cui con le sorelle ammira Moissi nel ruolo di Oswald negli Spettri di Ibsen. Vive con la città, gli è a cuore la sorte della popolazione slovena, quella dei lavoratori del porto, del porto stesso. Non c’è quindi più lo sfavillìo captato da Kette ma un imporsi della realtà che induce Kosovel a constatare che «Il cuore di Trieste è malato».

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E questa rivelazione la ripete ancora: «Oggi Trieste mi si rivelò in una maniera nuova. Un grande dolore racchiude in sé. Perciò è bella». Ma poi ci sono le bettole della città vecchia con l’odore del pesce fritto, i fischi dei piroscafi che partono con a bordo gli emigranti, le considerazioni sui problemi sociali che lo portano a dire: «Il mare è noioso. I tedeschi lo guardano con il cannocchiale, gli italiani non lo capiscono e così s’infrange inutilmente sulla costa triestina. I turisti credono che il mare esista perché essi possano fare il bagno. Io invece mi preoccupo d’altro. Il pane a Trieste sta rincarando. La gente litiga, il mare ondeggia… Chissà se si sveglierà?». Ma c’è, seppure quasi di sfuggita, anche quella nota vivace che si riferisce al molo, di cui già si disse a proposito di Kette. Dopo la visita medica per la chiamata di leva, c’è la passeggiata sul molo con Bogo Magajna che diventerà anche lui scrittore singolare oltre che psichiatra. E Kosovel annota: «… come è bella Trieste. Sul molo una quantità di ragazze, belle, in forma, dagli occhi neri, spensierate, snelle, dalle guancie belle, slanciate come canne. Una meraviglia». Questi accenni, che sono senz’altro di ordine secondario, ho voluto riferirli per confermare come Kosovel sia intimamente nostro concittadino anche se di solito passa in primo luogo per poeta del Carso – ciò che certamente è, a condizione che tale giudizio non valga da stereotipo riduttivo. Nostro concittadino, anche se per ragioni di studio molto del suo tempo lo passa a Lubiana, dove peraltro si sente a disagio, lontano dall’intimo paesaggio carsico che lo attende al di là del confine. E non sarà solo il confine come tale ma la sorte toccata alla popolazione slovena del Litorale che influenzerà le due liriche più importanti di Kosovel in cui il mare ha una parte preponderante, cioè Ekstaza Smrti (Estasi di morte) e Tragedja na oceanu (Tragedia sull’oceano). Certo, il mare è presente come silenzioso testimone anche nel ciclo Jetniki (I prigionieri) con gli arrestati nel castello di Duino, ciclo che al commentatore dell’antologia francese di Kosovel, Marc Alyn, fa pensare a Kafka, mentre in verità

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Kosovel non si trova di fronte a una incognita ma vive la realtà di amici imprigionati dal regime fascista. In ogni modo le tinte smorzate dei Prigionieri si fanno cupe, anzi oltremodo tenebrose nell’Estasi di morte in cui il poeta vede la fine dell’Europa che, come una regina ammantata d’oro, si corica nella bara preparata da secoli concludendo così la sua triste storia. Durante una conferenza tenuta nel ’26, Kosovel cercherà di mitigare un po’ la sua visione spiegando che il tracollo si riferiva principalmente al mondo capitalistico e accennava anche al libro di Oswald Spengler Der Untergang des Abendlandes (Il tramonto dell’Occidente). Ma se in parte comprensibile, questo suo desiderio di smorzare i toni della lirica, resta il fatto del valore intrinseco della stessa. La dittatura nera infatti si stava affermando suggerendo pronostici infausti in generale, in particolare, poi, per la parte orientale dell’Adriatico. Non solo, ma per ciò che riguarda la fattura estetica del canto, vi prevale il rosso che è di sicuro quello del tramonto ma anche quello degli incendi di cui Kosovel era stato testimone oculare o indirettamente informato da famigliari e amici. E in primo luogo è rosso il cielo durante il rogo in cui è trasformato il palazzo col teatro sloveno nel centro stesso della città. E durante quel tramonto estivo è rosso anche il mare, quel mare che per il poeta si trasforma in una distesa di sangue, mentre è introvabile l’acqua con cui lavare le colpe, lavarsi il cuore, placare la sete. E il mare di sangue, simbolo di distruzione, finisce per allagare anche le verdi e rugiadose pianure, disastro che rappresenta per il poeta il massimo dell’angoscia. Ma sentiamo questa chiusa come ce la offre Luigi Salvini: Un mare inonda le campagne verdi, un mare vespertino, di sangue ardente come lava. Non c’è salvezza, più non c’è salvezza. Finché non cadremo io e te, finché non cadremo io e tutti sotto il peso del sangue. Con raggi d’oro splenderà il sole Su noi, i morti dell’Europa.

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Una visione potente di cui la metafora è anche simbolo della fine di ogni illusione, un de profundis della speranza tanto più doloroso perché in una non piccola parte dell’opera di Kosovel s’impone la sicurezza di una rivincita degli umiliati e degli offesi. Ecco quindi il perché di quel tentativo – non riuscito del resto – di ridimensionare la rivelazione lirica. Basterebbe infatti questo pronostico dell’Estasi di morte per togliere a Kosovel quell’alone rivoluzionario con cui l’estrema sinistra ha cercato di presentarlo. Ancor più catastrofico e originale nella sua fattura consistente di molteplici elementi costitutivi, è la Tragedia sull’oceano, poema scritto a matita e trovato tra le carte del poeta quasi come testamento e insieme suo ultimo messaggio. Il pelago dell’Estasi, già simbolo dell’annientamento, ora si allarga nella vastità dell’oceano, mentre il colore, prima rosso, si fa nero: così è nero il nocchiero del canto v, nera è la barca, soprattutto però è nero l’oceano stesso. Ciò che bisogna dire dei nove componimenti, dai diversi argomenti e dalle diverse intonazioni, è che Kosovel vi ha concentrato reminiscenze disparate, usate in modo conciso ma ben calibrate. Così il testé nominato nocchiero deriva dal Caronte dantesco, che però non ha gli «occhi di bragia» ma appare nella notte con un lume rosso, in ogni modo anche qui si aiuta col remo per squarciare il capo ad un affogato. Nello stesso modo il poeta si serve delle immagini offerte dalla poesia popolare Mornar (Il marinaio) in cui i due amanti trovano la fine in una barca colma di fiori, senonché Kosovel ad un tempo si avvale anche del racconto in versi che sulla storia ha intessuto il poeta Lavrenčič. Infine non mancano nemmeno le note cupe dell’Apocalisse. Partecipazioni tutte di elementi esterni, abbiamo detto, ma che potenziano in modo determinante l’oceano di perdizione tra infernale e apocalittico. A lungo potremmo soffermarci sulle immagini e sulle associazioni che esse ci offrono, ma forse in questa breve relazione basterà indicare che in alcuni canti il poeta s’immedesima in quella che sarà l’atmosfera post-diluviana, ci sia permesso di

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chiamarla così. Pensa cioè a se stesso, quando giacerà come una pianta tra gli strati della terra. Forse ti sentirai soffocato quando maggio rischiarerà la terra, e sopra di te tutto riverdirà, rifiorirà e sarà vita.

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(traduzione di Gino Brazzoduro)

Nonostante cioè la sconsolata nostalgia al pensiero che la vita dopo la catastrofe riprenderà il suo corso, questa speranza di una ripresa c’è, e come in questo canto iii c’è anche nel vii dove l’oceano, che per noi è morte, dice il poeta, per coloro che verranno sarà vita: Questo oceano nella sua spaventosa maestà, vita per i nostri discendenti, per noi morte cimento, slancio e passione, tremenda disfatta per la nuova crescita. (traduzione di Gino Brazzoduro)

Sì, questi intermezzi sono un po’ come una triste consolazione, specialmente se pensiamo al geologo che invano cercherà di riconoscere l’oceano, dato che tutto gli apparirà come un deserto dove non ci sarà segno alcuno di lotta. Intermezzi, che però non allontanano lo sfacelo totale, cosmico, che noi potremmo anche chiamare “post atomico”. Il poeta infatti non demorde, l’Europa che cerca un salvatore trova in sua vece una belva, gli uomini hanno occhiaie senza occhi, è la notte che domina. E nella tenebra, poi, ecco i quattro cavalieri dell’Apocalisse si tramutano in quattro rematori che ora cantano furiosamente, ora sbraitano invano. E questo è il canto ix, quello finale mediato così da Gino Brazzoduro: Quattro rematori vanno nella notte intonano un canto orrendo nella notte e battono coi remi l’onda tetra gridando: Vieni, vieni, re!

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Quattro rematori attraversano la notte: Vieni lo invocano, soccorrici, salvaci in questa Europa, se no affogaci nell’orrore! Ma non ci sono stelle per la loro salvezza, nelle loro occhiaie non ci sono più occhi, nelle loro occhiaie solo un fuoco ancora arde, uccide e spinge gli uomini alla morte.

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Quattro rematori vanno nella notte, vanno nella notte, intonano un canto orrendo e battono coi remi, invano lo invocano. È silenzioso l’oceano sopra i morti.

Ecco, questo il mio intervento riguardante due fasi specifiche nella lirica dei due importanti poeti, fasi che meriterebbero delle analisi molto più esaurienti di quelle che ho potuto presentare io in questo contesto, se si pensi che alla traduzione francese di Kosovel il poeta Marc Alyn ha premesso uno studio di un centinaio di pagine. Ma, a questo proposito, mi sembra opportuno aggiungere un’altra considerazione. In un testo apparso l’anno scorso in cui si cerca di definire i lineamenti di Trieste è detto che «le componenti tedesche e slave non danno testimonianze sufficienti a farle considerare parte integrante del patrimonio culturale cittadino» (Nora Franca Poliaghi in Trieste, Lineamenti di una città, Lint, Trieste 1989, p. 137). L’apoditticità di detta affermazione è stata già indirettamente smentita dai lavori di eminenti autori italiani, per esempio da Magris e Fölkel; in parte ha cercato di contribuirvi anche questa mia breve relazione. 1991

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Testi non sloveni sui due autori trattati:

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Su Kette: Luigi Salvini, Sempreverde e rosmarino, Carlo Colombo editore, Roma 1951. Bruno Meriggi, Storia della letteratura slovena, Nuova Accademia Editrice, Milano 1961. Poi in Letteratura jugoslava, stessa casa editrice. Fedora Ferluga Petronio, Dragotin Kette e Trieste, Momenti religiosi nella sua lirica, in Trieste tra umanesimo e religiosità, a cura di Pietro Zovatto, Centro studi storico-religiosi del Friuli Venezia, Trieste 1986. Su Kosovel: Luigi Salvini, come sopra. Bruno Meriggi, come sopra. Marc Alyn, Kosovel, Seghers, Collection Poètes d’aujourd’hui, Paris 1965. Ferruccio Fölkel, Trieste, Provincia Imperiale, Bompiani, Milano 1983. Ferruccio Fölkel, Racconto del 5744, Studio Tesi Edizioni, Pordenone 1987. Angelo Ara e Claudio Magris, Trieste. Un’identità di frontiera, Einaudi, Torino 1987. Pavle Merkù, in Srečko Kosovel, Poesie di velluto e Integrali, L’asterisco editore, Trieste 1972. Arnaldo Bressan, Le avventure della parola. Saggi sloveni e triestini, Mondadori, Milano 1985. Alojz Rebula, Minatore del mistero, in Trieste tra umanesimo e religiosità, cit. Gino Brazzoduro, Srečko Kosovel, Fra il nulla e l’infinito, Raccolta di liriche scelte e tradotte da Gino Brazzoduro, Estlibris, Trieste 1989 (coll’aggiunta di uno studio su L’uomo e il poeta).

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Per Igo Gruden

Mi sento onorato in modo del tutto speciale di poter, in occasione dell’inaugurazione della Grudnova hiša (Casa di Gruden, detta “Casa della Pietra”) Igo Gruden, prendere la parola su questo importante personaggio di Nabrežina, che è, insieme a Srečko Kosovel, il più peculiare rappresentante lirico del mondo carsico. Bisogna però subito sottolineare, nonostante questa intima parentela, la differenza che c’è tra il ricco mondo spirituale e espressionista kosoveliano e l’opus lirico di Gruden che è legato alla realtà e al corso degli eventi. E per chiarire meglio questo divario, mi soffermerei su due argomenti che sono collegati col nostro recente passato, e, purtroppo, anche con i fatti d’oggi non lontano da noi. Quando Kosovel è testimone dei pogrom di cui sono oggetto le Case di cultura slovene, dei falò dei libri e delle altre esplosioni del fanatismo squadrista, predice la fine dell’Europa con le due grandi liriche Estasi di morte e La tragedia sull’oceano. E così, durante la visita a Duino, Kosovel non si chiede con Rilke se nelle sfere celesti qualcuno sentirà la sua voce ma, davanti ai resti del vecchio castello, pensa ai prigionieri del passato ma ad un tempo agli amici in carcere e a quelli da venire. Gruden, invece, non è profeta, non ha bisogno di esserlo, perché è lui il prigioniero. Prima a Sežana, poi a Visco, a Chiesanuova e infine a Rab (Arbe) il più malfamato centro di sterminio nel periodo dell’annessione di una parte della Slovenia. E il poeta della realtà offre allora i suoi versi agli affamati che raspano negli immondezzai, ai bimbi che si stanno spegnendo accanto alle loro madri, così che egli stesso si confessa: Sollevai un neonato dalla paglia appena morto là tra di noi,

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sulla spalla lo portai nudo ad inumarlo mentre nel percorso le fredde manine urtavano la mia guancia sudata e i piedini mi battevano il dorso.

Versi semplici ma intensi e con elementi che sono simili a quelli dei testi dei superstiti del mondo concentrazionaro tedesco dove gli sguardi si fissano sul pane del compagno morente o, come dice Gruden:

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Ti derubammo prima che fossi morto, poi, morto, ti nascondemmo nella paglia per aver la tua razione di pane.

E anche la chiusa è in armonia con tale destino: I morti ci davano da mangiare, seppellivamo i bimbi deceduti, rimanendo cadaveri viventi.

Mi rendo conto che qualcuno mi rimprovererà che, in un’occasione così solenne, adduca delle verità così tristi anche se potrei difendermi dicendo che, pure a parlare di Baudelaire o di Leopardi, per esempio, si avrebbe una certa difficoltà a offrire delle immagini serene. Il fatto è che Gruden fa parte di quella, abbastanza numerosa, schiera di poeti sloveni che dovettero attraversare l’esecrando periodo storico in cui si cercava di realizzare il progetto d’eliminazione della loro – della nostra – identità. Certo, potremmo cambiare argomento e occuparci della lirica dedicata al paesaggio carsico, ai pescatori, al lungomare, potremmo soffermarci sul carme Nabrežinski kamnolomi (Le cave di Aurisina), dal momento che stiamo inaugurando la Grudnova hiša ma purtroppo anche trattando questi temi, l’idillio paesano o la specifica sorte della pietra nostrana, dei monumenti che la resero famosa dal ponte di Salcano al lontano Cairo, anche rinnovando la lunga storia, dico, dal tempo in cui i blocchi venivano trasportati a Trieste tirati dai buoi, il poeta non tralascia un momento di considerare la condizione di non-libertà del suo popolo, prigioniero com’è dell’angoscia di fronte alla incognita del domani, preoccupato se varrà ancora

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la sentenza homo homini lupus o invece diverrà fratello di suo fratello. E qui bisogna sottolineare che Gruden trascende sempre la cornice contingente e si concentra sull’essenza stessa di problemi. Così se per esempio nel 1936 davanti al Vojaško pokopališče (Cimitero militare) della prima guerra mondiale sotto Nabrežina (Aurisina), dove sono seppelliti dei soldati di diverse nazioni, egli è così scosso d’aver l’impressione che il mondo si stia sfasciando nei suoi cardini – dopo la fine del secondo conflitto mondiale sente che per l’uomo tutto è perduto, nulla ha più senso, né la natura né la moglie né i figli, è sommerso cioè nel nichilismo più completo, ciò che corrisponde in sostanza alla persuasione degli scampati che nei forni crematori si sia estinto anche il valore del bello e del sublime. Per fortuna non è così, anche se presto si dimentica e poi si ricomincia, esempio recente: il destino della Bosnia. Ma anche Igo Gruden, il poeta non combattivo, l’avvocato sempre pronto a impegnarsi per la giustizia e la libertà, che, provato dai Campi, se ne deve andare appena cinquantatreenne, oltre ad esserci vicino per il suo sofferto ideale umanistico, ci tocca con la lirica d’amore, che è ad un tempo intimità personale e partecipazione di largo respiro. Dopo aver lasciato dietro di sé il periodo narcisista, egli infatti trova nella donna l’approdo per la sua sorte di naufrago, gli occhi di lei, dice, mi ridanno la fede nel mio prossimo, così da affermare: Attraverso te batto all’unisono con ogni uomo, e so che ognuno merita l’amore dell’altro, soprattutto chi tra noi è più miserando perché il destino ogni casa gli sfascia.

Credo che questo suo messaggio riguardante l’amore, nonostante il suo carattere tradizionale, sia il più prezioso per i tempi che corrono. È questione in primo luogo di una ricchezza interiore che, ove manchi, non ci sono surrogati che contino; ma si tratta anche di valorizzare il corpo per il quale c’è chi prepara la clonazione e chi pensa invece al ritmo folle dei nuclei

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atomici. Penso perciò che forse potremmo in questa occasione festiva ripetere la massima che Gruden prese a prestito dalla remota Antigone: «Per sua natura l’uomo ama e non uccide». E potremmo anche immaginare di scolpire questa speranza nella casa del poeta, nella pietra pregiata, cioè, che è ad un tempo realtà e simbolo di creatività e di durata.

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Un mondo semiocculto e schivo (dicendo del Carso) Un grido terribile, impietrito Scipio Slataper

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Il sole incandescente sulla pietra nuda Marija Mijot

Non c’è alcun dubbio, sul Carso il discorso potrebbe essere molto vario, seguendo non pochi lavori di diverse discipline, ma queste poche impressioni vorrebbero soltanto attirare l’attenzione sul mondo carsico di colui che con la landa pietrosa non ha molta familiarità. Un invito quindi a considerare solo ciò ch’egli può vedere. Intanto, dato l’accento che oggigiorno si dà alla tesi dell’indirizzo multiculturale, è forse giusto notare che Carso in tedesco è Karst, in sloveno Kras e come segnala il Larousse e in francese è Karst; noi ci aggiungeremmo ancora, data la vicinanza, Krš in croato, per indicare località dove prevale un suolo calcareo e quindi, data la permeabilità del terreno, mancanza di corsi d’acqua in superficie. Ecco perciò che, soprattutto durante la calura estiva, il paesaggio in molte zone è brullo, l’erba è secca, ha il colore della paglia, mentre le pietre mostrano l’ossatura del sottosuolo. Slataper lo raffigurava in modo icastico a lui proprio: «Il carso è un paese di calcari e ginepri. Un grido terribile, impietrito. Macigni grigi di piova e di licheni, scontorti, fendenti, aguzzi. Ginepri aridi». Ma l’atmosfera più intensa della regione calcarea esposta ai raggi impietosi la dà Marija Mijot, poetessa in dialetto sloveno di Vrdela (Guardiella), rione triestino che si eleva alle prime pendici dell’altipiano: quassù sulla pietrosa Griža è estate, mezzodì, il sole ardente. Tutto tace, non c’è né animale né uomo. Il cielo incandescente sulla pietra nuda, l’acqua bollirebbe in una pignatta

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e anche i pini quasi si faran da parte acché il sole bruci il teschio nudo. I caldi raggi son qui i più vicini, tra i sassi il calcagno tocca l’erba secca. Trieste estiva è in fondo ad un paiolo, in una foschia argentea luccica il mare.

Certo, ci sarebbero altri esempi di questa condanna a essere privi d’acqua. A proposito di Kontovel (Contovello) Saba dirà:

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quel ritaglio di terra grigia, ingombra di sterpi, a fiore del sasso.

Ma il tono è già più smorzato che nel riflesso nella poesia lirica del Carso classico; il rimboscamento e l’alterazione della vita dei campi, specialmente la riduzione del gregge e quindi del pascolo hanno col tempo mitigato un po’ il carattere specifico del Carso storico-letterario. Tuttavia resta però che, se durante la stagione invernale il panorama s’incupisce perché imperversa la bora e cinicamente punisce i campi ingiustamente arsi, ci sono due stagioni in cui l’universo carsico si rifà dei castighi patiti. Primavera lo ammanta di narcisi dal profumo penetrante, di ciclamini nei tratti boschivi. Ma è anche un rivivere delle doline, della giovane erba nei campi recintati dai tipici bassi muretti, confini formati da pietre, da cui fu liberato il terreno per creare un campo o poter falciare l’erba. L’autunno, poi, ecco che rende il Carso fauvista indiscusso col giallo del granoturco, il bordò delle vigne del terrano, i cespugli di sommacco ardenti di carminio. Ma il colore rosso opaco è anche l’atmosfera nelle cave al «ribollir dei tini» e anche il viticoltore carsico ha così il suo intermezzo dionisiaco, fiero del prodotto della terra rossa, vino cupo, agro, perché carico di tannino e di ferro, ma perciò salutare come un cordiale per anemici e sfibrati. Il fiammeggiare cardinalesco del terrano e il bianco della pietra, ecco i due colori vitali del Carso. La pietra prima in senso negativo, ma la pietra anche elemento di costruzione, di solidità, in primo luogo delle case dei paesi, dei cortili con le entrate su due colonne legate da un arco a tutto sesto. Pietra quindi delle

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diverse cave, in testa quella di Nabrežina (Aurisina) – al tempo di Carducci «Nabresina lungo/ la ferrugigna costa», poi tramutata in Aurisina. Miniera bianca, da cui sono stati tratti blocchi per palazzi in Europa e al di là degli oceani già nel passato, quando i grandi quadri viaggiavano su carri tirati da buoi. E ne cantò le fatiche, di uomini e animali, Igo Gruden, nativo del paese, ora a disposizione in volume bilingue Ballata dei nostri giorni, Nabrežina/Aurisina 1999. Sì, di un carattere sui generis la popolazione slovena del Carso, tenace nella fatica, introversa ma generosa nella propria riserva scontrosa. Oltre alla costante tenacia di progettare campi in mezzo al calcare, ha dovuto subire due guerre, di cui la prima sventrò case e mescolò quasi inseparabili pietraie e ferro, schegge di obici e granate; la seconda vide villaggi in fiamme e Coroneo e Risiera zeppi di prigionieri senza ritorno. E alle donne fu riservata una buona parte di questo destino infausto, cuoche, domestiche e balie in città per sopperire ai disastri della siccità nelle campagne si videro strappare dalle case mariti e figli, i nomi dei quali fan parte degli elenchi sulle lapidi di quasi tutti i paesi carsici, di qua e di là della frontiera. Gente provata quindi, ma non barbara, come la vedeva Slataper, che benché dopo Vivante il più lucido nell’esaminare i fatti, non si accorge che il Carso non ha analfabeti, non sa che Marica Nadlišek, maestra sul Carso, ha già pubblicato novelle e un romanzo a Lubiana, che le famiglie sono abbandonate a pubblicazioni annuali, che Ivan Nabergoj di Prosek (Prosecco) rappresenta i suoi a Vienna ecc. E il caso di una cultura differente, lo dimostra anche il folclore, che ogni anno ora si rivela alle Nozze carsiche, che si svolgono nella Kraška hiša (Casa carsica) a Repen (Rupingrande). Una cultura, al tempo di Slataper, senza grandi nomi ma con diffusa partecipazione popolare tanto cattolica che laica, tradizione, che è mantenuta anche oggi, nonostante lo sviluppo di realizzazioni specifiche e l’affermazione di figli del Carso quali Kosovel e Spacal, per citarne solo due. Kosovel. Egli ha la disgrazia di vivere i suoi brevi anni di poeta come testimone delle Case di cultura date alle fiamme, delle spedizioni punitive delle squadre fasciste, perciò sul suo Carso incombe un’ombra di perdizione, così che nel Notturno esclama:

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Sto spaccando il mio bianco Carso, con pena lo sto spaccando e penso ai lineamenti di Beethoven. Sono un pianista dalle mani di ferro. Il Carso si fende, la terra sanguina, ma il giorno non si sveglia.

Una creazione drammatica quindi, che culmina nella Tragedia sull’oceano, anche se ad un tempo il poeta desidera di poter «essere una foglia verde sull’eterno albero dell’umanità»; ma, invece di poter «nidificare con gli uccelli» è quasi sotto il continuo influsso dei paurosi antri senza fondo del sottosuolo carsico. Sì, un misterioso mondo oscuro, addirittura un universo di grotte, che squarciano i diversi strati inabissandosi senza fine, creando labirinti, in cui rimbombano alle volte scrosci di acque minacciose. Certo, di grotte ce n’è anche di quelle più alla mano, che gli archeologi hanno esaminato scoprendo i segni di vite passate; quelle che si sono imposte, al di là delle ricerche scientifiche e alle discese ardite degli speleologi, sono infatti quelle adatte alla visita degli amanti dei fenomeni naturali. La visione più immediata del mondo sotterraneo la si ha a dodici chilometri da Trieste, nel villaggio di Briščiki (Borgo Grotta Gigante). E titanica è la cavità, che accoglierebbe senza difficoltà nel suo interno la basilica di San Pietro. Il vuoto immenso, frutto di movimenti tellurici, suscita un certo sgomento, poi attenuato dal luccichio di formazioni cristalline e dalle stalagmiti dai riflessi rossastri. Ma per valorizzare il fenomeno del sottosuolo c’è vicino all’ingresso della grotta, una palazzina, che è sede di un museo speleologico piuttosto raro nel complesso delle sue sezioni: geologica, paleontologica, raccolta di stalagmiti e stalattiti, esemplari di fauna sotterranea con, perfino, un proteo vivente, come nelle grotte di Postojna (Postumia), proteo che è cieco e che in sloveno è chiamato Človeška ribica (Pesciolino umano), una rarità esclusiva. Di fatto, oltre il confine, che presto con l’entrata della Slovenia nell’Europa Unita perderà valore, le grotte non mancano neppure. A due passi dalla frontiera, vicino a Lipica (Lipizza),

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celebre allevamento dei superbi cavalli bianchi, Vilenica, la grotta delle fate, ospita nel suo fondo l’annuale incontro internazionale, organizzato dal Pen Club sloveno, che premia autori di prosa e poesia. Ma la grotta che si impone per il suo carattere cupo e selvaggio si trova a Škocjan (San Canziano). Con le sue voragini e i meandri oscuri, in fondo ai quali rimbombano le acque del Timavo, ha meritato la supposizione che fu là che da Dante si fosse ispirato per le bolge dell’inferno. E gli stretti camminamenti lungo le pareti degli abissi, le passerelle che fiancheggiano i baratri inducono il turista a trattenere il respiro, cosciente del proprio essere indifeso e ad un tempo ammirato della magnificenza dei misteriosi abissi. Ed è anche perciò che l’Unesco ha messo la grotta nell’elenco delle opere di pregio. Senz’altro le grotte di Postojna (Postumia) sono una meraviglia di altari splendenti di stalattiti e stalagmiti, un folgore di sculture create da secolari maestri di Murano, ammirate dai visitatori, che passano col trenino; ma le voragini di Škocjan sono la natura allo stato puro, primordiale e indomita. In ogni modo poi si prova un certo sollievo «a riveder le stelle», come fa il Timavo, che, abbandonati gli abissi di Škocjan, continua la sua corsa sotterranea sino a non lontano da Devin (Duino), così che in pratica ha due sorgenti, la prima, la genuina, sotto lo Snežnik (Monte Nevoso), la seconda qualche chilometro dal mare. Strano fiume, che gli Sloveni chiamano appunto solo Rijeka (Fiume) perché unico, insolito e che per di più sprofonda nella grotta lasciando in secca la regione sovrastante. Ma alla luce del sole questo mondo di pini, ginepri, e di doline recintate da muretti in pietre vive, ci affascina sempre, così che ci viene naturale di esclamare con Slataper: «Il mio Carso è duro e buono. Ogni filo d’erba ha spaccato la roccia per spuntare, ogni nuovo fiore ha bevuto l’arsura per aprirsi. Per questo il suo latte è sano e il suo miele odoroso». Per questo anche ogni volta, quando dopo prove che avrebbero potuto essere fatali, ritornammo a casa, ci avvenne, già all’apparire delle prime roccie al di là del finestrino del treno, ciò che accadde a Ulisse quando ritrovò «la sua petrosa Itaca». (2007)

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Note di polemica e riflessioni diverse

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Il Carso di Kosovel, Slataper e Spacal

Mi rincresce che, causa molteplici assenze, molta corrispondenza e molta stampa restino in attesa e, specialmente quest’ultima, senza commento, quando è necessario. Così è il caso dell’intervento uscito su questo giornale il 24 aprile firmato da Giuseppe Ieraci del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Trieste. Purtroppo già all’inizio l’autore estirpa da un mio scritto riguardante le foibe una frase: «il male cominciò un quarto di secolo prima», una frase che non era solitaria ma unita alla chiara esigenza che, per parlare di foibe, bisogna dire di tutto il complesso storico. Di ciò scrissi su «Il Piccolo» il 17 aprile scorso commentando un molto appropriato articolo di Pietro Spirito. Quindi dal signor Giuseppe Ieraci si ebbe una indiretta esposizione di come era stata completata la mia frase che lui toglieva dal contesto e – ciò che è ancora peggio – faceva seguire da supposizioni tutte sue. Diceva, per esempio, che la mia frase si poteva interpretare che le foibe erano state la vendetta per i crimini fascisti, «vendetta comunque comprensibile e scusabile». Non solo rifiuto in modo assoluto le sue considerazioni ma mi meraviglio che si possa lealmente fare delle disquisizioni sulla legge dell’ “occhio per occhio” e dare lezione di etica su un’affermazione decontestualizzata. Affermazione la mia, che per altro non è per niente una “regressione ad infinitum” ma la richiesta di una documentazione storica totale, quale è stata già la proposta dei due governi, italiano e sloveno, con la costituzione della Commissione storico culturale italo-slovena che doveva esaminare le relazioni delle due nazioni dal 1880 al 1965. I lavori, che erano oltremodo difficili, sono durati più di sei anni, da molti anni però la dichiarazione congiunta esiste – ma è rimasta a Roma nel cassetto. Perché 1?

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Ecco la “regressio ad infinitum”, signor Ieraci. Ma, nonostante tutto, egli s’immagina una «comunità di destino» che, per conto mio, già esiste e ci sono già famiglie italiane che «condividono esperienze e problemi quotidiani comuni», ma invece no perché Pahor «ha recentemente attaccato polemicamente gli italiani che si stabiliscono in Slovenia, acquistando immobili, e parlato a tal riguardo di un “colonialismo economico”. Ci ha accusato inoltre di essere responsabili dell’aumento dei prezzi delle case nella vicina Slovenia». Come già constatato, anche qui Ieraci cita a modo suo. Nella autobiografia compilata con la giornalista del quotidiano «Il Sole 24 Ore», dott. Cristina Battocletti, io affermo, non polemicamente ma realisticamente, che siamo un po’ più di due milioni accanto a colossi come la Germania e l’Italia, che quando vogliono possono impadronirsi della nostra economia slovena, ciò che da parte italiana già avviene con l’economia, il commercio, acquistando case e terreni. Quindi non c’è attacco di sorta ma una constatazione della Slovenia esposta a una possibile colonizzazione interna. Perciò, quando la Slovenia faceva le pratiche per entrare nell’Unione Europea, ero con coloro che sostenevano di agire come aveva fatto la Danimarca, di ottenere cioè una condizione speciale per garantire la propria identità. Non se ne fece niente, nemmeno quando, cadute le frontiere, il popolo carsico si organizzò chiedendo a Lubiana di presentare a Bruxelles il problema dell’identità specifica del Carso. Il Comitato non fu ascoltato e si rivolse a Bruxelles per conto proprio. Allora mi si invitò a partecipare e in quell’occasione dissi che era una mozione gretta, egoistica, protestare adducendo il prezzo del terreno accresciuto con la vendita agli acquirenti italiani. Bisognava invece salvare il Carso come territorio originale, il Carso del grande lirico Kosovel, quello dei quadri di Spacal, quello di Slataper che riconosceva al “bifolco sloveno” il merito di aver trasformato il regno del calcare in territorio delle vigne e dei campi di granturco nelle doline, parola questa di uso internazionale! Sostenni che bisognava salvare l’architettura carsica, perciò chi comperava terreno poteva costruire per uso proprio ma senza intaccare ostentatamente la tradizione, come avviene con la costruzione di case a schiera, che purtroppo già ci sono a deturpare l’ambiente per incompetenza o calcolo dei sindaci e anche dello Stato che, prima lascia il potere al sindaco, dopo

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le proteste della gente decide che avrebbe preso in mano la questione e si sarebbe interessato al già esistente progetto di un parco. Ma cade il governo e quindi si deve ricominciare tutto da capo. Non mi sono, quindi, interessato di prezzi né di case né di terreni come tali, ma della regione, e se ho usato il termine colonialismo è stato anche perché pensavo, e in questo ero sì polemico, solo che nell’autobiografia non volevo dilungarmi, pensavo alla dichiarazione che il vicesindaco di Trieste Paris Lippi fece al quotidiano sloveno «Primorski Dnevnik» il 14 gennaio 2005 riguardo alle terre cedute alla Jugoslavia: «Noi pensiamo sempre che quella terra è nostra, e ancora sempre pensiamo che sarebbe giusto che dovremmo chiederla alla Slovenia e alla Croazia. Il mondo si evolve, ma siamo coscienti di non poter ottenere tutto ciò che vogliamo. Quantunque per questo combattiamo». Detto in plurale, quel combattiamo, mi fa perciò pensare alla forma, la più adatta, che è l’economia. L’articolo si chiude comunque ancora con il Carso. Che non è né sloveno né italiano, dice Ieraci, e sono contento, perché una volta noi sloveni non avremmo dovuto essere cittadini ma restare solo sul Carso, là è il vostro posto, dicevano molti anche di quelli che, nonostante tutto, accettavano la nostra esistenza; poi, per dare un domicilio agli esuli, il Carso è stato nobilitato, come meritava, bene. Ma se io cerco di difendere il Carso tradizionale, che per fortuna ancora esiste, per Ieraci cerco di «attribuirgli identità fittizia» e sono perciò malato del «morbo che si chiama nazionalismo» e «stupisce che avendo in passato sofferto le azioni del nazionalismo fascista, Boris Pahor oggi proponga contro gli italiani nel “Carso sloveno” soluzioni analoghe». Siccome di soluzioni analoghe non si possono trovare né nei miei scritti né nelle mie dichiarazioni pubbliche, l’intervento di Giuseppe Ieraci, in toto accuratamente prolisso, è stato concepito per tentare, senza peraltro riuscirci, di intaccare la mia persona. 2012 Note 1. Una delle risposte si potrebbe trovarla nell’articolo dell’«Avvenire» del 10 novembre 1989, che ha come titolo Criminali di guerra italiani impuniti per ragioni politiche.

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Ambivalenza dei valori

Anche riviste come «Temps modernes», «Esprit», «Preuves» pubblicano panoramiche su questioni poco o male note. Anche «Il Ponte» l’ha fatto. Con criterio però. Ma il sig. Botteri con le sue «liste nere»? (Rivista «Trieste», luglio-agosto 1960) Perché così? O siamo serie di lampadine, di bulloni? Sì, ancora un poco di vigore ed elencava pure i negozi che tengono Radenska, l’acqua da tavola slovena. Con rispettivo indirizzo. Possibilmente uno schizzo topografico a lato. II. No, non credo sia illecito dire di Guttuso, ch’è comunista. (Botteri, «Trieste», n. 39, 1960) Anzi. Ma dalle opere sue io valorizzo il suo essere comunista. Così come Picasso dalle sue. O Éluard. O Aragon. Ma se lo si dice di uno sconosciuto? Peggio ancora: perché mettermi un’etichetta offerta da chi nella recente storia d’Europa era dalla parte della notte? (Nacht und Nebel). Giacché basta essere stati contro la notte per essere definiti comunisti. Ma sì, è di me che si parla. Di tendenze comuniste sono. Mi domando: perchè non invece socialiste? Adesso che ci penso, non ho tessere (e non ne ho mai avute) in tasca, quindi perché non scegliere come meglio mi aggrada? Ebbene, finora non ho trovato nulla di meglio sul socialismo di ciò che ne scrisse Einstein. E vorrei essere, almeno in questo, il suo infimo scolaro. Sebbene sia innamorato dell’acutezza di Gramsci. E sarei lieto della familiarità, per esempio, di Franco Fortini.

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Ingiusto, poi, il sig. Botteri, quando per letterati, sloveni sì, ma triestini postbellici, abbonda d’informazioni, mentre per Alojz Rebula e il sottoscritto: vocabolario telegrafico. Ma è la qualità dell’opera quella che decide, o l’appartenenza a una più o meno definita “tendenza”?

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III. Cercherebbero l’autosegregazione, gli sloveni. («Trieste», n. 39). Ma come? Il sig. Botteri ci mette in fila, in camicia, con la targhetta al collo; e poi, come alle sedute spiritiche: «Spirito, se ci sei batti tre colpi». Autoantintegrazione? No, in nessun caso. Ovvero, sì, in uno sì, quando si vorrebbe far credere che la parola slovena contaminerebbe il tribunale o infetterebbe l’aria ai piccioni della città natìa.

IV. Reciproca conoscenza? E perché no. Benedetta sia. Ma allora non parliamo di bianchi, rossi o viola. Io parlo di uomini. Uomini e no. Questo è il punto. Essere con l’uomo. Parteggiare con Vercors per l’uomo. Così il mio professore d’italiano, il chiarissimo prof. comm. Ettore Gregoretti, non molto tempo fa ci diceva di aver sempre considerato la religione innanzi tutto dal punto di vista umano. Ma l’essere uomini con gli sloveni costa. E, anzi, bisogna pagarlo di persona. O andarsene da soli come mons. Bartolomasi, o essere cacciato come mons. Fogàr. A che gli è valsa la sua fedeltà al Vangelo, la sua dirittura apostolica? Arcivescovo di Patrasso in un’abitazione romana! E che c’entra, dirà qualcuno. C’entra invece. Perchè bisogna andare alle radici. Ma larghezza di vedute, qui da noi, costa cara. Già l’essere propensi ad accettarci. Non dico, poi, l’esserci amici.

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V.

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Andare alle radici. Il sig. Botteri invece non sembra incline a proporre questa piattaforma umana. Giacché pare scegliere quelli che potrebbero essere con lui lealisti, mentre gli altri sono ormai in bocca al lupo. Così prende sotto la sua personale protezione i “democratici”. Molto bene, ma per farne che cosa? Aspettare Godot. Lealtà. Sicuro, giustissimo. Ma in che cosa consisterebbe, oltre a ciò cui gli sloveni incorporati nello Stato italiano non ottemperino già? Fedeltà alla Costituzione repubblicana, il servizio militare, il passaporto, le tasse ecc. Nemmeno un’incrinatura. Società segrete, movimenti irredentistici? Nemmeno l’ombra, né qui né (ancora meno) al di là dei cippi di confine. Quindi? Leale e disciplinata è la gente slovena. Non per nulla s’è formata al fianco dei tedeschi. Ama l’ordine, sì da essere sclerotica, alle volte. E poi, tenera. Basta un alito di carezza per far fondere il cuore sloveno come una cassata. E se gli è stato affibbiato l’insulto di duro, allo sloveno, non è certo perché sia incapace di familiarizzarsi con trigonometria o con il passato remoto dei verbi irregolari, ma perché duro nel voler capire di dover amalgamarsi e con ciò accettare il non essere. VI. Non si comprende perché i cosidetti “democratici” potrebbero essere più amici degli altri. Giacché degli sloveni comunisti (quelli di Vidali) nessuno può mettere in dubbio la lealtà. Quelli attaccati alla vicina Repubblica slovena? Ma se là è la sede della loro cultura, del loro essere intimo. Prešeren, Cankar, Župančič. La sostanza stessa per cui siamo quello che siamo, cioè sloveni. No, no. Tutto dipende dal climat. Maurois lo dice per l’amore, ma è verissimo anche per le altre corrispondenze spirituali. Il clima. E questa bonaccia ha invece tutta l’aria di

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essere dolciastra, sorniona. Dietro le quinte, poi, sempre in agguato il temporale nero.

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VII. Perciò sembra un altro respiro, quello di Biagio Marin («Trieste», n. 41, 1961). Fa ricordare «l’odor de menta» della sua La Vampaora. Il gusto dell’umano. E sono parole che paiono non aleggiare su di una scacchiera politica. Verissimo, quindi, ciò che riguarda la tradizione, l’animo piuttosto estroverso degli italiani, che si terrebbero su «una posizione autoritaria che non deflette della pretesa del proprio primato» (al quale, tra parentesi, nessuno si sogna di togliere una scheggia, per diminuirlo). C’è un punto, però. Una contraddizione, direi. Biagio Marin dice: «Colpevoli noi quando abbiamo tradito l’ideale nazionale, non accettandone l’universalità…». Poi invece: «Ma a vincere la nostra diffidenza dopo la tremenda bruciatura, nessuno può contribuire quanto i nostri concittadini slavi, con una leale e coerente aspirazione a quella universalità di valori, che sola può fare da ponte tra noi». E dirò subito che condivido la sua pacata e profonda tristezza, e ciò tanto più perché da bambino vissi l’esodo dei miei fratelli. Sono traumi che nessuno meglio di uno scrittore può cogliere in tutta la loro tragicità ed esserne quindi compartecipe nel più profondo del suo essere. Ma non mi sembra coerente il chiedere ai concittadini slavi onestà nell’universalità, quasi con questa richiesta supponendo che non la possiedano ancora. Perché sono i paria quelli che sono i più universali. E gli sloveni in questa nostra comune città per un quarto di secolo non hanno fatto altro che aspirare all’universale. E lo facevano trascrivendo mentalmente, giorno per giorno, Le mie prigioni.

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VIII. Un elenco tra le glosse. A proposito della traduzione in sloveno dell’Inferno di Dante, cui ha accennato il Rebula, Biagio Marin dice che trattasi di «strada di ascesi». È giustissimo. Perciò vorrei riportare a caso alcune traduzioni in sloveno di questi ultimi anni. Alcune sono, certo, ancora da annoverarsi nell’«ascesi», altre molto meno: Dante: Vita Nuova; Petrarca: Poesie scelte; Boccaccio: Decamerone; Foscolo: I sepolcri; Verga: I Malavoglia; Goldoni: La locandiera; Bacchelli: Il mulino del Po; Vittorini: Conversazione in Sicilia, Uomini e no; Silone: Fontamara, Pane e vino, Il segreto di Luca, Una manciata di more; Moravia: La Romana, Il disprezzo; Quasimodo: Poesie scelte; Pratolini: Un eroe del nostro tempo, Le ragazze di Sanfrediano, Cronache di poveri amanti; Jovine: Le terre del Sacramento; Tomasi di Lampedusa: Il Gattopardo. In corso di traduzione: Svevo: La coscienza di Zeno; Bettiza: Il fantasma di Trieste. IX. Per concludere. Non condivido l’immagine di Trieste città kafkiana (Alojz Rebula). E non ci sono «abissi» tra le due popolazioni (Biagio Marin). Tutto sta a definire l’equivalenza dei valori umani. Ventesimo secolo. Una città nel cuore d’Europa. È quindi assurdo che qualcuno senta una stilettata al ventre quando spiego, diciamo, a un crocevia, alla figlioletta il significato del semaforo rosso. Dimenticavo: spiego in sloveno. Ma ripeto, non ci sono abissi da colmare ma leggi da promulgare. Kafka, se proprio si vuole farlo entrare, va relegato al passato. Perché i giovani sono senza ricordi e senza complessi. La marea di servette slovene, rubiconde e sgobbone, s’è definitivamente prosciugata, la gente delle campagne s’è più o meno inurbata, così che anche se si può far gridare “A morte” a dei giovani, questi, in fondo, non capiscono perché bisognerebbe far fuori

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dei concittadini che sono bianchi come loro e la cui pelle non odora di selvatico. Coi giovani, dico, si può creare un ambiente nuovo. Mare, sole e universalità. È questo il vocabolo. Bivalenza. Che significa maturità e ricchezza. E modernità. E, se vogliamo, innesto a quello che sarà il domani umano. E sono il primo a salutare in anticipo la fioritura di questa ambivalenza di valori, quasi come il prodigioso avverarsi di un sogno lontanissimo nel tempo ma indelebile per la sua intensità.

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A proposito delle due simmetrie. La voce saggia e pacata di Paolo Rumiz

Tardi purtroppo, causa le molteplici assenze, prendo in considerazione la savia meditazione che Paolo Rumiz su «Il Piccolo» settimane fa ci ha presentato sulla Necessità di fare chiarezza per chiudere i conti con il passato. E bisogna riconoscere che il suo non è soltanto l’esame di cui si aveva bisogno ma ad un tempo la proposta di un’alternativa allo stato presente senza l’attualizzazione della quale non si potrà creare una convivenza basata sulla decenza e l’onestà. A questi sintagmi dell’autore, io ne aggiungerei ancora uno: l’onore. Per ciò che riguarda l’onestà, Rumiz, come sempre, è schietto: «Il risultato è − dice − che oggi l’Italia accetta di celebrare le foibe evocando solo la barbarie slava e ignorando quella italiana. Onestà vorrebbe che nel gioco delle scuse incrociate si sostituisse la falsa simmetria con una simmetria autentica. Solo così il dopoguerra, a mio avviso, potrà dirsi finito sulla frontiera. Senza onestà la memoria resta zoppa e il giorno del ricordo potrà creare tensioni ancora a lungo. A meno che non sia proprio questo ciò che si vuole». La simmetria autentica credo bisognerebbe cercarla verso la fine dell’Ottocento, quando già le pubblicazioni di diffusione popolare, come per esempio l’Almanacco Istriano nel 1851, parla di «una legge provvidenziale indefettibile secondo la quale colui, il quale è dotato di un maggior grado di civiltà sovrasta a chi per questo verso è inferiore». Quel “sovrastare” si applicherà con il denigrare la popolazione dei “brutti s’ciavi” o dei “s’ciavi duri” durante il periodo dell’irredentismo, si esplicherà con il voler, poi, conquistare la regione abitata da «pochi residui etnici», con il dare alle fiamme a Trieste tre case della cultura inferiore e con i libri della lingua inferiore bruciati davanti al monumento a

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Verdi, rappresentante della cultura superiore. Questo il razzismo del fascismo squadrista. Il fascismo al potere procede vivace con le leggi adatte a elevare almeno visibilmente genti arretrate alla civiltà superiore facendo sparire i loro cognomi e i nomi di battesimo, operazione unica di pulizia etnica, operazione razzista, che nemmeno alla popolazione ebraica viene imposta. Ed è così reso normale non solo l’annientamento di una comunità senza analfabeti e che durante il periodo di dipendenza da Vienna aveva maturato il suo sviluppo culturale e letterario a livello europeo. È stata quindi naturale la rivolta a questa nuova forma di schiavitù o di «genocidio culturale», come lo definì uno storico. Una rivolta prima giovanile e quindi avventata per rendere edotta l’opinione pubblica europea dei diritti umani conculcati, poi invece clandestina e capillare tendente soprattutto alla conservazione dell’identità dalla lingua. Rivolta saldata con mezzo migliaio di carcerati, nove fucilati, ottantamila esuli. La simmetria si accresce con l’annessione in aprile del 1941 della cosiddetta Provincia di Lubiana. La città stessa è circondata dal filo spinato mentre dalla “Provincia” su 335.000 persone sono deportate 33.500 nei Campi di concentramento fascisti quali Rab (Arbe), Gonars, Visco, Chiesanuova, Monigo, Grumello, e molti altri con un numero complessivo di circa 7.000 morti. Ai quali vanno aggiunti 5.000 fucilati come ostaggi o rastrellati, 900 partigiani catturati, 200 bruciati o massacrati in modi diversi sicché la somma riportata è di 13.000 morti. Per quanto riguarda i beni materiali, viene riferita la distruzione completa di 12.773 case e i danneggiamenti ad altri 8.850 edifici, comprendenti scuole, ospedali e biblioteche. Di più, i responsabili degli eccidi e delle devastazioni, i gerarchi fascisti e i generali, quali Roatta, Robotti, Gambara e altri, sono stati deferiti all’Onu come criminali di guerra. Ma non sono stati né processati né giudicati nel 1946 i criminali nazisti, per non dover in seguito processare quelli italiani (vedere, tra gli altri testi, «L’Espresso» del 2 agosto 2001 e del 27 marzo 2003; «L’Avvenire» del 10 novembre 1989). Ad ogni modo, delle azioni di questi criminali di guerra e del loro insabbiamento, come pure del ventennio fascista antislavo, la popolazione italiana non è al corrente, e giustamente Paolo Rumiz constata: «Siamo l’unica

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nazione europea che ha ben due giorni dedicati alla Memoria. E siamo anche gli unici a servircene non tanto per chiedere scusa quanto per esigere scuse da altri». Ciò che trovo ancor più inaccettabile in questa simmetria è che, nel momento in cui si tralascia o si cerca di occultare una parte della storia, non solo si presentano con insistenza i misfatti patiti ma li si amplificano a dismisura in modo sleale senza curarsi dei dati accettati dagli storici competenti. I quali, per esempio, affermano che la soppressione delle persone sparite nel 1945 non può essere qualificata come pulizia etnica ma «irrazionale e crudele risposta alla persecuzione e alla repressione violenta e sistematica» cui furono sottoposte le popolazioni slovene e croate (Giovanni Miccoli). E che così pure si dovrebbe ridimensionare a 4.000-5.000 gli spariti (Raoul Pupo) e ad alcune centinaia le vittime delle grotte carsiche secondo la Relazione della Commissione storico-culturale italo-slovena che esamina esaurientemente anche l’abbandono dell’Istria. Essendo stata finora messa in rilievo solo la seconda delle due simmetrie, di modo che la popolazione della prima praticamente non è affatto ufficialmente al corrente o solo, in parte, dagli scritti e dalle documentazioni di storici e pubblicisti, si attende un aggiustamento ufficiale e onesto (Paolo Rumiz) per ciò che riguarda la sorte dell’Altra anima di Trieste (libro edito da Mladika, 2008). Un atto di onorevole giustizia storica quindi ma, aggiungerei, anche fondamento di un’amichevole formazione di un’Europa unita di domani. Le migliaia di allievi e di studenti infatti che ogni anno in febbraio vengono condotti qui da noi avrebbero una più ampia conoscenza degli avvenimenti della prima metà del xx secolo e non coverebbero nel loro animo solo un’avversione verso le malefatte altrui. Basterebbe prendere dal cassetto la Relazione degli storici italiani e sloveni già citata. Così è già avvenuto in Francia e in Germania dove i relativi resoconti sono stati inclusi nelle lezioni di storia dei rispettivi istituti scolastici. 2008 * I dati riferiti, là dove non ne è stata citata la fonte, sono stati presi dal n. 10 dei «Quaderni della Resistenza», 1943-1945, Comitato Regionale dell’Anpi del Friuli Venezia Giulia: Foibe e deportazione/Per ristabilire la verità storica a cura di Alberto Buvoli, 19982.

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L’invisibile con la “i” minuscola

Quando mi è stato proposto di dire dell’invisibile, il tema lo trovai importante ma ci tenni a specificare che vorrei interessarmi dell’invisibile con la “i” minuscola, ciò perché parlando dell’Invisibile con la “I” maiuscola il più delle volte si intende la trascendenza, il recondito Al di là, di cui veramente all’infuori di alcune congetture poco potrei affermare. Certo, si potrebbe rimproverarmi di ridurre l’Invisibile con la I maiuscola solo al mondo sconosciuto dell’Oltretomba mentre l’anima è anche invisibile, come ente spirituale, quindi necessariamente partecipe anche della trascendenza. Come, allora, penso di escluderla? Non ci penso affatto. Anzi, come partecipante alla vita degli esseri umani, della società umana mi interesso delle idee, delle azioni dei suoi componenti, composti a loro volta da corpo e anima. Almeno così pare. Perché prendendo, ad esempio, in esame il titolo del libro del deportato francese Robert Antelme L’espèce humaine e quello del libro di Primo Levi Se questo è un uomo, la parte spirituale dell’essere umano è di dubbia consistenza e difficilmente accettabile come tale. Purtroppo di questo invisibile devo trattare anche senza essere preparato per la parte che compete alla psicologia, alla psicanalisi e alle altre discipline specifiche. Come punto di partenza riferirei ciò che nel mio racconto, conosciuto con il titolo di Necropoli (nelle traduzioni francese, inglese ed esperanto con il titolo corrispondente a Pellegrino tra le ombre) mi domandavo, a vent’anni dalla fine del secondo conflitto mondiale: le popolazioni europee come reagiranno alla catastrofe vissuta, dato che l’atmosfera in cui vivono è pregna del male assoluto, dell’obbrobrio della distruzione di milioni di esseri umani, arsi

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per ragioni di razza da una parte, per ragioni di lotta antifascista e antinazista dall’altra. Quel finimondo che poi fu completato con l’inaudita capacità di distruzione della potenza atomica ha certo, come un’invisibile energia maligna, invaso gli animi. Come faranno, inconsci come sono di questa loro infezione interna, in qualche maniera, a metabolizzarla? Ad ogni modo ci vorrà del tempo, se, e qui sta il problema principale, non saranno senza saperlo succubi, non solo dell’influenza perniciosa depositata nell’inconscio, ma dei raggiri di cui saranno vittime. Per quanto mi riguarda, già allora constatavo che i popoli dell’Europa non avevano reagito come le tremende prove vissute richiedevano; invece di uno scontro radicale di fronte al vissuto annullamento della normale etica, è prevalsa la tendenza a un accomodamento e, poi, a un inserimento più o meno attivo nello scontro tra il mondo occidentale e l’oriente comunista. Purtroppo ci troviamo su un campo vasto e arduo che ora oltre agli storici stanno studiando i sociologi e gli psicologi, come già anticipatamente ho accennato. Ciò che da parte mia posso constatare personalmente è la disposizione confusa degli animi di fronte alla tendenza a non rendere visibile una parte della storia. Così, ad esempio, da noi non si fa conoscere la realtà della dittatura fascista tra le due guerre a scapito della popolazione slovena nella Venezia Giulia, la distruzione delle case di cultura, le imposizioni di nomi e cognomi italiani, i macroprocessi, le centinaia di incarcerazioni, le condanne a morte, i centomila esuli. Un’altra propensione riguardo all’invisibile per partito preso ce lo dà l’occultamento delle nefandezze fasciste durante la guerra, perché – esponendole pubblicamente – si metterebbero in troppo cattiva luce le forze armate ligie alla volontà del Duce. Così nel 1946 era già tutto preparato per un processo contro i comandanti tedeschi criminali di guerra, una Norimberga italiana, ma non se ne fece niente, perché «l’Italia, che in un primo momento aveva visto con favore la seconda Norimberga, non aveva però nessuna intenzione di consegnare i nostri generali, a partire da Roatta, a loro volta sotto accusa per crimini di guerra commessi come alleati dell’Asse»1. Non giudicati e non puniti i criminali, restano così invisibili all’opinione pubblica italiana i misfatti nella parte della Slovenia

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occupata nel 1941 e annessa come Provincia di Lubiana. Da un resoconto dell’Anpi2 risultano 13.100 morti tra ostaggi, partigiani uccisi e deportati deceduti nei campi di Rab (Arbe), Gonars, Monigo, Chiesanuova, Grumello, Visco e in altri. Inoltre 12.773 case distrutte e 8.850 danneggiate. Certo, da una posizione generale da cui sono partito, ora ho preso brevemente in esame solo la maniera unilaterale di prendere in considerazione dei fatti particolari, ma lo sto facendo perché direttamente interessato, come lo sono per l’esperienza del nazismo. Il quesito si pone infatti per il fatto che, da parte tedesca, il male procurato dai nazisti non solo è stato riconosciuto ma ne è anche stata chiesta scusa. Ciò che la guida della Repubblica democratica italiana finora non ha trovato necessario di fare. Solo qualche raro personaggio, come per esempio, Paolo Milano, che durante l’incontro del Pen Club internazionale a Bled in Slovenia nel 1965 dopo una mia esposizione della barbarie fascista subìta durante un quarto di secolo, mi chiese privatamente perdono in nome della cultura italiana. Non so come le relazioni di amicizia tra i rappresentanti del popolo italiano e di quello sloveno si evolveranno in fatto di realtà visibili e invisibili, ma sono molto preoccupato, quando leggo di migliaia e migliaia di scolari e studenti che ogni anno in febbraio vengono da noi per la Giornata del Ricordo senza essere messi al corrente di tutta la storia, di tutte le responsabilità, di tutte le memorie, di tutti i ricordi. Sì, mi domando in quale spirito di comune creatività per una amichevole convivenza si possa sperare. E penso che, forse, un primo passo potrebbe farlo l’autorità competente facendo visibile pubblicandola e facendo soprattutto conoscere durante le lezioni di storia delle classi superiori, la Relazione della Commissione storico-culturale italoslovena che, un tempo istituita dai governi italiano e sloveno, è finora rimasta nel cassetto tanto durante un governo di destra come durante quello di sinistra. (2008)

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Note

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1. Norimberga d’Italia, in «l’Espresso», 27 marzo 2003. / Criminali di guerra italiani impuniti per motivi politici, in «Avvenire», 10.novembre.1989 / Di Sante Costantino, Italiani senza onore, Ed. Ombre corte / Gianni Oliva, Si ammazza troppo poco, Milano, Mondadori 2006. 2. Foibe e deportazione, in «Quaderni della Resistenza», n. 10. Comitato Regionale dell’Anpi del Friuli Venezia Giulia.

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Su Alojz Rebula. Del tutto divergenti eppure decisamente insieme

Diversi, differenti sia per carattere che per la concezione del mondo e spesso anche nel valutare gli avvenimenti politici, abbiamo però saputo in passato presentarci uniti da uno stretto legame. Restavamo disgiunti, lui con l’esigenza della trascendenza e vincolato al principio dell’unum est necessarium, io incline a una panteistica spiritualità; sapemmo però saggiamente unire le nostre capacità quando fu necessario un intervento a favore della dignità umana e dei diritti della nostra comunità. È per questo motivo che mi riesce gradito ripresentare, in questa occasione, nelle linee generali, almeno alcune peculiarità della nostra collaborazione volta a un fine comune. Al punto d’avvio ci fu, a ogni modo, la parola che, forgiata in linee di piombo, venne alla luce impressa, ciò che era, dopo un mortifero quarto di secolo, una meravigliosa resurrezione per la vista e una beatitudine per il cuore. E fu allora che sulla rivista «Razgledi» (Panorami), fondata dallo scrittore Bevk già l’anno seguente alla liberazione per continuare la tradizione letteraria del Litorale di Gradnik, Kosovel, Alojz Remec, dei fratelli Širok, si presentò Alojz Rebula, autore di una magistrale scrittura. Il presentarsi assieme, io col mio realisticamente fedele rivivere le calamità vissute e lui con il suo tono solenne e con la nobiltà del suo lessico, fu un festevole inizio del livello che la nostra creazione artistica avrebbe poi raggiunto. L’amicizia così sorta si evolse nell’ambito della rivista «Razgledi», mentre andavamo vagliando per conto proprio tutto ciò che veniva pubblicato e che testimoniava l’indigenza della letteratura sorta seguendo le tendenze dell’ufficiale

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realismo sociale. Nel corso dei nostri incontri, ora a casa mia nel Quartiere Teresiano ora da Rebula a Šempolaj (San Pelagio) o a Opčine, stavamo ponendo, senza un vero progetto ma di fatto, le fondamenta della nostra rinascita. Poco dopo si unì a noi Pavle Merkù con la sua originale concezione della musica e ci sentimmo così un trio già tanto sicuro di sé da pubblicare autonomamente due numeri della rivista «Sidro» (L’Ancora), confermando il rifiuto alle normative ideologico-politiche in quel che riguarda la creatività artistica. Rebula ebbe in ciò già allora l’occasione di sperimentare il suo fioretto prendendo a bersaglio Vidmar. Ma, soprattutto, egli cominciò allora a progettare il suo Devinski sholar (Lo scolaro di Duino) che sarà il suo primo libro di cui nella rivista «Sidro» dicevo: «la scrittura di Rebula è ciò che di meglio oggi si trova in sloveno». Quando l’istituzione dalla quale dipendeva la nostra vita culturale soppresse la rivista «Razgledi», ci fu una nuova fase di collaborazione. Rebula, infatti, lasciato il «Most» (il Ponte) optò per «Zaliv» (Il Golfo), la rivista indipendente il cui direttore responsabile era Milan Lipovec mentre io espletavo tutte le esigenze principali di una normale redazione. Poiché era nata dal bisogno di pluralismo, dalla necessità di confermare la salvaguardia dell’identità slovena e di un’affermazione politica autonoma, la rivista era esposta a una continua ripulsa da parte dell’autorità di Lubiana e, prima ancora, dalla sua rappresentanza politica nostrana. Ma, ad un tempo, il suo prestigio morale, che già era alto, – giacché si aveva dalla nostra parte uno dei primi antifascisti, Vekoslav Španger condannato a trent’anni di reclusione dal Tribunale speciale per la salvezza dello Stato, l’illustre compositore Ubald Vrabec, il sostegno dell’Associazione internazionale per la difesa delle lingue e delle culture minacciate di cui ero uno dei vicepresidenti –, con l’adesione di Rebula crebbe assai. Così il periodico che, fedele alla tradizione antifascista, si batteva per un ordinamento democratico dell’identità slovena, ebbe allora il periodo migliore della sua esistenza. E ciò solo con l’aiuto di sponsor amici e con la nostra prestazione senza

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compenso alcuno, a cominciare dal direttore fino al più eminente autore nostrano o straniero. In ogni modo, bisogna notare che il più ragguardevole sostegno (e spesso anche elogio) lo si ebbe da quella insigne, eminente personalità che era Edvard Kocbek, recensore attento di quasi ogni numero della rivista. Concerneva appunto Kocbek la nostra, di Rebula e mia, impresa comune. Devo dire a mo’ di premessa: all’inizio del 1970, quando con mia moglie Rada visitammo Kocbek che si trovava a Opatija (Abbazia) per cure, gli consigliai di esprimersi pubblicamente riguardo all’eccidio dei diecimila domobranci1 che come collaborazionisti si erano rifugiati in Austria e che gli Inglesi avevano rimandato in Jugoslavia. La tua dichiarazione, quale supremo rappresentante dei cristiano-sociali nella Of (Fronte di liberazione nazionale) avrebbe un significato straordinario, gli dissi. Kocbek era d’accordo, ma poiché tendeva a procrastinare, decidemmo insieme che avrebbe risposto in un’intervista e, alla fine del 1970, gli proposi la lista delle domande. Sì, quella lista era piuttosto lunga, poiché, per facilitare l’amico a trattare in un contesto più lato un problema così scabroso, mi sono avvalso di una simpatica forma di intervista in cui l’intervistato, rispondendo, descrive il proprio curriculum culturale. Così, per esempio, era uscito in Francia un libretto dal titolo Sartre par lui-même. Ma non la quantità delle domande che avevo posto bensì la scabrosità del tema e la labile posizione di Kocbek stesso furono la ragione per cui Kocbek temporeggiò ancora. Si arrivò così al 1974, anno in cui egli avrebbe festeggiato il settantesimo compleanno. Era l’occasione propizia per festeggiare il grande poeta e scrittore che il Partito comunista aveva osteggiato in modo inqualificabile, perciò proposi all’amico Lojze Rebula l’edizione di un volumetto in onore di Kocbek, volumetto in cui, oltre ai nostri testi, sarebbe uscita l’intervista promessa. Rebula fu entusiasta del progetto, tanto più perché in tal modo Kocbek, come cristiano e con il grande prestigio di cui godeva nel mondo sloveno, si sarebbe pronunciato con chiarezza sulla sorte dei domobranci. Per quanto riguardava noi due, sul contenuto della pubblicazione si decise senza indugio: Rebula avrebbe pubblicato

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il suo saggio-commento della Listina (Il documento), io invece la mia recensione della raccolta di novelle Strah in pogum (Paura e coraggio) nonché la difesa di quella recensione che, essendo indesiderato, avevo dovuto pubblicare per mio conto, più due articoli occasionali. La difficoltà maggiore consisteva nel dover trovare il denaro necessario per il linotipista e per la tipografia, giacché come per la rivista «Zaliv» c’era bisogno di sostenitori di cui pubblicavamo i nomi. Ma comunque questi non sarebbero mancati dato che si onorava collegialmente il festeggiato e la sua importante collaborazione. A questo proposito va detto che commettemmo un errore sottolineando, mentre si raccoglievano i contributi, l’importanza dell’intervento di Kocbek. Lojze era proprio infervorato nell’accentuare l’importanza storica della dichiarazione. Siamo stati davvero imprevidenti, e ce ne accorgemmo tardi, ad aver anticipato senza alcun bisogno le ragioni degli attacchi a Kocbek che sarebbero seguiti. Siccome Kocbek ancora non si decideva, trascorse il 27 settembre, il giorno di festa del compleanno cioè in cui la pubblicazione a lui dedicata avrebbe dovuto fargli onore. Si ricordò di lui però il «Delo» con un breve articolo di France Novšak, articolo che era stato, come venimmo a sapere più tardi, ritoccato d’ufficio con affermazioni non veritiere. A sfigurare la personalità di Kocbek si mise poi d’impegno Jože Javoršek prendendo di mira anche tutti i collaboratori della rivista «Prostro in Čas» (Spazio e Tempo) considerata piuttosto kocbekiana. Come si vede, un’atmosfera tutt’altro che propizia per un regolamento di conti di Kocbek con il passato. I testi dunque, di Rebula e i miei, erano stampati mentre noi due ci sentivamo a disagio, incerti se far uscire il volumetto – aveva il formato tascabile di «Zaliv» – senza l’intervista di Kocbek oppure attendere ancora. In più non ci andava proprio che la rivista «Most» uscisse con dei saggi dedicati a Kocbek prima di noi. Si era già all’inizio del gennaio 1975, Kocbek era a Parigi da dove mi scrisse pieno di dubbi sull’opportunità dell’intervista. Fino a quel frangente io non avevo fatto pressione alcuna, ma quello era il momento di

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decidere in tipografia, così andai a Lubiana e gli dissi chiaro e netto che il nostro volumetto sarebbe uscito senza di lui, perché volevamo precedere «Most». Egli allora si decise dandomi appuntamento tra otto giorni. Fu fedele alla parola data, Rebula e io eravamo felici poiché il contenuto dell’intervista era veramente un documento storico. Felici, era questo il vocabolo appropriato, felici anzitutto perché il nostro eminente amico condannava la sorte toccata ai domobranci dichiarando ad un tempo che si trattava di una grave colpa. Ma in parte eravamo anche soddisfatti che Kocbek si fosse in quell’occasione deciso per l’intervento perché stava dalla nostra parte e della rivista «Zaliv», il volumetto usciva autonomo, ma comunque non si voleva che «Most» avesse la precedenza. A ogni modo, con la decisione di dare uno scritto di tale importanza a una rivista di Trieste, Kocbek confermava la tesi dell’unità culturale slovena, tesi che di solito aveva soltanto il valore di una frase. Con la sua decisione, poi, che avrebbe preparato lo scritto in otto giorni, Kocbek lasciò da parte la serie delle mie domande e si concentrò solo su quelle essenziali stabilite. Intanto noi due raccoglievamo le offerte, ci riunivamo a progettare con un’attitudine quasi di clandestinità in maniera che il nostro fervore allarmò gli emissari dell’autorità d’oltre confine, i quali si procurarono le fotocopie del testo di Kocbek. Ciò accadde perché il nostro linotipista Pegan si avvaleva allora dell’aiuto di un linotipista italiano che, Pegan assente, non fu affatto difficile corrompere. Quelle fotocopie fecero purtroppo tribolare Kocbek che però si oppose al tentativo di fargli cambiare idea riguardo alla pubblicazione. E per San Giuseppe, il 19 marzo 1975, il volumetto fu a disposizione in libreria. Nel formato dello «Zaliv» e con il titolo Edvard Kocbek, pričevalec našega Časa (Edvard Kocbek, testimone del nostro tempo) il volumetto provocò subito un vero ciclone. Tanto qui da noi che in Slovenia. Tosto anche in tutta l’area jugoslava. E fuori, in Austria, a Francoforte dove Kocbek aveva l’amico premio Nobel Heinrich Böll, a Parigi il direttore della rivista «Esprit», che intervennero…

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Non è il caso di raccontare qui, seppur in breve, tutto ciò che seguì alla contestazione, da parte del Partito comunista, dell’accusa di Kocbek riguardo la sorte della milizia disarmata. Ci fu una campagna in pretto spirito stalinista con la partecipazione di scrittori, in primo luogo del presidente dell’Accademia Josip Vidmar, e di altri enti. Certo, eravamo presi di mira anche noi due, come compilatori del volumetto. Kocbek e noi due eravamo un trio malfamato che aveva subìto l’influsso dei fuoriusciti, oltre a ciò eravamo oggetto di imputazioni diverse propinate soprattutto dall’ex amico di Kocbek Jože Javoršek che, prima della “conversione” politica, si chiama Jože Brejc, il quale malauguratamente si avvaleva del suo eminente stile per insudiciare la figura di Kocbek. Noi due, solidali, resistevamo, sebbene fossimo oggetto di critica anche tra i benpensanti che ci biasimavano tanto per la scelta del luogo quanto per quella del tempo della nostra azione. Anche la rivista «Most», che difendeva una sua etica democratica, rinfacciò a Kocbek di non aver scelto il modo giusto per trattare «il problema delle mani pulite e di quelle sudice − unendosi a delle persone che desiderano elevarsi al di sopra della storia, così da restare al di qua dei movimenti sociali attuali perdendo di vista il retroscena sociale del mondo odierno». Così tentarono di degradarci delle persone propense a Kocbek usando il metodo di quel sistema di cui si servivano i dirigenti «dei movimenti sociali attuali». C’è da chiedersi, infatti, contro quale «sistema sociale attuale» Rebula e io avessimo agito. In tal modo la rivista «Most» scrisse in ottobre. Ma nei mesi precedenti provammo altre delusioni; le più patenti erano certo le sconfessioni delle persone che avevano contribuito finanziariamente alla pubblicazione. Con diverse macchinazioni e oscure minacce si ottenne purtroppo che la metà dei quaranta firmatari ritirasse la propria adesione, tra loro i tre pittori Spacal, Černigoj e Saksida che avevano offerto solo il loro nome per onorare l’esimio poeta e scrittore ma che purtroppo non seppero difendere questo loro omaggio. Noi due restammo uniti, convinti di avere, a nostro modo, contribuito a delucidare uno dei capitoli più critici della storia slovena del ventesimo secolo.

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Ciò che più ci pesava, nella situazione in cui ci trovavamo, era il dover assecondare il desiderio di Kocbek di non aumentare con alcunché la già abbastanza incandescente atmosfera. Ci tenevamo in disparte, il che non era passività ma un modo saggio di lasciare che la tempesta si scatenasse convinti che ormai, per Kocbek, tutto si sarebbe risolto dopo l’intervento di Parigi, di Böll e di tanta stampa democratica. Una rivalsa ce la prendemmo alla fine dell’anno, quando la furia delle acque si era quietata. Allora decidemmo che nel numero 50-51 di «Zaliv» avremmo sottolineato alcune constatazioni sotto il titolo Po nevihti (Dopo l’uragano). E cioè: della sorte toccata ai domobranci aveva già scritto l’autore del romanzo Ukana (L’inganno) senza essere condannato come lo fu invece Kocbek, autore di Tovarišija e di Listina, opere di tale valore che, se non esistessero, il racconto del periodo bellico sloveno resterebbe al livello di un’apologia. Non abbiamo suscitato noi due l’eco europeo, apprezziamo ad un tempo l’intervento di Böll. Non abbiamo nulla a che fare con l’emigrazione. La pubblicazione in onore di Kocbek sarebbe uscita anche senza la sua intervista. Abbiamo agito in conformità alla dichiarazione dell’Onu e del Pen club, di cui siamo soci, perciò non ci giustifichiamo. Accusiamo le pratiche amministrative contro le persone che hanno sostenuto la pubblicazione. Quali figli della «Primorska» (il Litorale) rifiutiamo ogni lezione riguardo al sentimento nazionale e alla nostra relazione con la Slovenia, soprattutto quando queste provengono da coloro che, con la loro azione politica, ci espongono all’assimilazione, da coloro cioè che sostenevano e sostengono l’inclusione nei partiti nazionali di sinistra. Decidemmo che il testo lo stendesse Rebula, così come era stata sua, di comune accordo sui punti principali, anche la prefazione al volumetto. Il tono e il vocabolario del suo stile si confacevano meglio alla solennità dell’impegno che il mio periodare freddo e realistico. In ogni modo, Kocbek fu contento della nostra disquisizione, noi due soddisfatti che gli andasse bene un testo in cui non c’era un’affermazione che non fosse avvalorata. Con le nostre

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inconfutabili affermazioni, Rebula come cattolico d’élite, io come socialdemocratico, insieme confermavamo l’esigenza per il popolo sloveno del diritto d’opinione e di libera pubblicazione. Infatti, per ciò che riguarda la democrazia, avemmo subito l’occasione d’intervenire ancora quando nel mese di maggio 1976 l’autorità di Lubiana, in seguito alla fallimentare campagna contro Kocbek, si vendicò imprigionando due dei suoi amici, il giudice Franc Miklavčič e il saggista Viktor Blažič. Ad un tempo, mentre si stava preparando un incontro internazionale a Belgrado, l’autorità si accingeva a pubblicare di Kocbek le Zbrane pesmi (l’Opera poetica completa) e ciò per dimostrare la democraticità del regime… Noi due ci si rallegrava dell’uscita dell’opera completa di Kocbek ma ci attendevamo ch’egli la rifiutasse fintanto che Miklavčič e Blažič erano in carcere, ci sentivamo a disagio intuendo come Kocbek desiderasse avere in mano, dopo tutto ciò che aveva provato dal 1951 in poi, la preziosa conferma del suo genio creativo e come ad un tempo si sentisse incluso nell’assurdo dell’imprigionamento dei due amici. Ma ciò, come dissi, non ci trattenne: la liberazione dei due carcerati, Miklavčič era perfino tra i delinquenti di Dob, aveva in ogni modo la precedenza anche sulla pur giustificata soddisfazione del caro eminente amico. 2009 Note 1. “Difensori della Patria”. Milizia slovena collaborazionista dichiarata in nome della religione e dell’anticomunismo.

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Una decisione di profonda coscienza umanitaria

Non posso che compiacermi della pregiata decisione della Sovrintendenza del blocco delle costruzioni dove, dal febbraio 1943, funzionò il campo di concentramento di Visco. La notizia, comunicatami dal prof. Ferruccio Tassin, il meritevole iniziatore della tutela dell’importante cimelio, mi trova in procinto di recarmi in Germania, invitato alla commemorazione della liberazione del Campo di Dora-Mittelbau, dove si costruivano i missili V2. Ed è stato infatti citando le visite ai memoriali dei Campi in Germania che io risposi ad una lettera del prof. Tassin affermando che sarei lieto se potessi un giorno inchinarmi davanti un Memoriale a Visco, qualora l’autorità competente avesse curato i luoghi di detenzione e di morte alla stregua delle autorità comunali, regionali e statali tedesche. Questo mio accenno, devo precisarlo, si riferiva al grandissimo numero di Campi dove i deportati erano costretti al lavoro, deportati che erano appartenenti alla Resistenza o recuperati da retate di lavoratori e contadini russi, polacchi e anche soldati italiani che praticamente venivano trattati da nemici politici. Si tratta di Campi come Dachau, Buchenwald, Dora, NatzweilerStruthof, Mauthausen e tutte le centinaia di arcipelaghi di Campi minori che dipendevano dai centri forniti di forni crematori. In ogni modo, alla fine della guerra si calcolò sui quattro milioni le vittime morte di lavoro, fame e malattie conseguenti. Certamente, i Campi fascisti di Rab (Arbe), Gonars, Treviso, Chiesanuova, Renicci, Visco e altri si differenziano per il fatto che non sono Campi di lavoro forzato, ma sono anch’essi frutto di retate. Basti dire che la così detta Provincia italiana di Lubiana, annessa nel 1941 al Regno d’Italia con una popolazione di 350.000 abitanti, ha dato 30.000 deportati con a capo Lubiana,

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città-Lager, perché circondata dal filo spinato, così che si poteva entrare e uscirne solo con il lasciapassare. Altre due differenze da rilevare. Innanzitutto che in questi campi si moriva “solamente” di fame e di conseguenti malattie. Poi, in alcuni Campi, come in quello di Rab (Arbe), vi finiva la popolazione di paesi interi, quindi anche anziani, donne e bambini; quando poi si constatò che i morti erano esageratamente troppi, si cominciò a inviare le donne e i bambini a Gonars e a Treviso, gli uomini a Chiesanuova e Renicci. In seguito delle famiglie intere arrivarono a Visco. Visco pertanto doveva inizialmente accogliere gli scampati da Rab (Arbe) già inviati a Gonars e Treviso con poi, come già detto, altre intere famiglie, ma in seguito arrivarono dal Lubianese, con inclusione di importanti rappresentanti del mondo culturale, dalla Croazia, dalla Bosnia e Erzegovina e altri in maniera che si arrivò a circa 4.000 deportati. Data la lodevole decisione della Sovrintendenza, si offre ora l’occasione di proporre un progetto utilizzando lo spazio a disposizione. Per ciò che mi riguarda, giacché a Visco ci furono e ci morirono anche i rifugiati da Rab, si potrebbe tenerne conto. Fatto sta che – come alcune volte il fatto è stato ricordato, deplorandolo, anche dal «Corriere della Sera» –, siccome purtroppo nessun rappresentante italiano è stato ad Arbe a ricordare e deplorare le migliaia di vittime fasciste, esse potrebbero essere commemorate degnamente a Visco insieme agli altri diversi deportati in quel campo. (2011)

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Svevo: non è tra i miei autori

Non è un mio autore, non nel senso che mi tratterrei nel consentire ai grandi meriti che si attribuiscono alla sua opera, ma per le posizioni che io ritengo negative. E la prima la definirei prendendo in prestito Giorgio Voghera: di Svevo infatti disse che pensava in tedesco e scriveva in italiano. Intendiamoci, aveva il diritto di farlo come aveva diritto di farsi chiamare Italo Svevo invece che Hector Schmitz, ma questo sdoppiamento al quale si arriva con una decisione presa per essere ben accettato dalla maggioranza ovvero dal potere, non fa nascere in me un’inclinazione simpatica verso il personaggio. Si dirà che sono influenzato dal fatto che la mia generazione è stata costretta a cambiare il nome e il cognome in forma italiana e ha dovuto non solo pensare in sloveno e scrivere in italiano, ma, se uno studente sloveno voleva avere la promozione, doveva pure pensare in italiano quando scriveva di Dante, Mazzini e Garibaldi. Ma anche tolta questa influenza vissuta, credo che uno sdoppiamento che non avesse vere radici profonde non mi andrebbe, sempre lasciando da parte il grande valore dell’opera. Nella bella antologia Italo Svevo et Trieste edita dai «Cahiers pour un temps» del Centre Georges Pompidou nel 1987, ho trovato nell’intervista concessa da Letizia Svevo a Jean Clausel questa affermazione riguardante suo padre: «Pourtant toute sa vie, il ne dissimula pas sa sympathie pour le socialisme mais il ne s’inscrivit pas à ce parti qui était alors considéré pro slave ou pro autrichien»1. Ma si iscrive invece da patriota al Partito nazionale liberale, come afferma Letizia nella stessa pagina. Una posizione ambigua, come la stessa Letizia constata nella pagina seguente. Il punto che mi tocca è quel distanziarsi dal socialismo perché difende i diritti della popolazione slovena, diritti conculcati

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ostinatamente dal Comune. Mi spiace per Svevo e per il suo ideale socialista che prende in considerazione il mondo ma tralascia le ingiustizie nostrane. Ma dopo queste due ragioni di dissenso devo dire del movente principale per cui Svevo non fa parte degli autori preferiti. E qui devo premettere una spiegazione. Quando, costretto a pensare ed a scrivere in una lingua non mia, mi sono trovato in una situazione psicologica ed esistenziale ardua, un avvenimento fortuito mi fece trovare i libri di Dostoevskij. Certo, i grandi romanzi, ma i due che mi aiutarono nello stato in cui mi trovavo furono i Ricordi del sottosuolo e Umiliati e offesi. Del primo preferirei dire altrove, ma nel secondo mi sentivo già incluso nel titolo stesso, essere figlio di un popolo diseredato dalla sua lingua nel xx secolo era più tragico che essere senza lavoro. Sicuro, poi le offese furono tante altre; uno dei miei scrittori preferiti, Albert Camus, lo disse in modo stringato ed efficace: «Sono cresciuto come gli uomini della mia età coi tamburi della prima guerra, e poi la nostra storia non finì di essere omicidio, ingiustizia e violenza». Sì, allora, ancora studente, decisi che se scriverò sarà degli umiliati ed offesi. Credo di essere stato fedele a quel lontano proposito. Così, prima di rileggere La coscienza di Zeno, prenderei, per esempio, I promessi sposi e, in sloveno, Hlapec Jernej in njegova pravica (Il servo Bortolo e i suoi diritti). 2011 Note 1. «Eppure per tutta la sua vita, non ha nascosto la sua simpatia per il socialismo ma non si è mai iscritto a un partito che allora era considerato pro slavo o pro austriaco».

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Tra autobiografia e racconto

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La Bengasi della Primavera araba

Lo so, potrà sembrare un po’ strano l’attaccamento a una città conosciuta in piena guerra, da militare, con bombardamenti diurni e serali, le cui strade si vuotavano già di pomeriggio perché una buona parte degli abitanti si trasferiva in provincia per passarvi la notte. Alle sette in punto di sera infatti cominciava lo scoppio delle bombe e il fragore della contraerea leggera e pesante. Chi restava in città era in balia dell’ansia e della paura, che fu certamente causa dell’insorgere di una crisi di itterizia e che mi procurò un inaspettato, quanto benedetto, ricovero all’ospedale. I bombardamenti provocavano un pandemonio notturno che sembrava infinito, ma quando i raggi del sole tingevano di rosa gli orli dei tetti e la vita umana riprendeva il suo ritmo, si cominciava di nuovo a sperare, anche se qua e là c’era qualche palma con il tronco tagliato di netto, non lontano da qualche fossa provocata dallo scoppio. Non so, forse era il mio carattere strambo, ma quel rinascere della città con il porto e il lungomare, che mi faceva ricordare la costa triestina, mi consolava e mi faceva dimenticare anche la malandata uniforme di tela grigia che indossavo assieme ai gambali da artigliere. Scordavo di essere lontano dal mio reggimento, lasciato sull’altipiano carsico a monte di Derna e di essere venuto con l’autostop nell’antica Berenice per sostenere l’esame di maturità classica. Era un riconoscimento che avevo già ottenuto con onore in seminario, ma che dovevo ripetere perché il diploma che avevo in tasca per lo Stato non valeva per accedere all’università. Il mio soggiorno in Libia durò dal marzo del 1940 al febbraio del 1941 e durante questo periodo conducevo una vita sdoppiata: in tutti i momenti liberi ripetevo la letteratura italiana, quella latina e quella greca

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passando per l’Edipo re di Sofocle e poi Bacone e Bergson per la filosofia. Di tanto in tanto scrivevo le mie impressioni su un quaderno scolastico di venti fogli con una speciale copertina su cui erano dipinti dei militari che sbarcavano da una nave. Sopra al disegno campeggiava la scritta: «Là dove il dovere ti chiama», e sul retro vi era l’immagine di un libro e di un moschetto ornato dal fez fascista. Qui fissavo soprattutto immagini ed emozioni: i datteri che compravo per strada e gustavo camminando, mentre mi sovvenivano le impressioni di un bellissimo racconto di Ivan Cankar, il maggiore scrittore sloveno; la fanciulla nera che scioglieva le trecce e si lavava il capo con il palmo della mano; la facciata veneziana con commistioni arabe del municipio; l’aula scolastica con la lavagna sul muro, trasformata in camera per i degenti. Le impressioni sull’esame superato nel liceo Giosuè Carducci con il litigio tra professori divisi tra coloro che volevano essere indulgenti con i combattenti e quelli che non volevano cedere, perché la maturità classica doveva essere uguale per tutti. L’ebbero vinta questi ultimi e così finirono male tutti gli ufficiali che avevano fatto le magistrali ed erano del tutto sprovvisti delle basi di lingua e letteratura greca. Ma il quadernetto si arricchì di nuove annotazioni quando l’itterizia mi fece guadagnare quindici giorni di convalescenza presso la caserma abbandonata di el-Abiar, a sessanta chilometri da Bengasi, trasformata in ospedale. Qui venivano smistati i casi sospetti di amebiasi che, se positivi, venivano inviati in Italia. Il capitano medico mi trattenne perché aveva bisogno di qualcuno che gli tenesse in ordine le cartelle cliniche. Fu per me una vera e propria oasi, tanto più perché il caso mi offrì la compagnia di due soldati triestini, uno di famiglia italiana, l’altro slovena, che mi fecero da “padrini” quando compilai la domanda per iscrivermi alla facoltà di Lettere di Padova. Fu il primo avvento positivo e costruttivo per me dopo gli anni che il fascismo mi aveva fatto perdere. Quei mesi da scrivano furono pieni di emozioni, anche perché il capitano, quando andava a fare la spesa a Bengasi, mi prendeva con sé nell’ambulanza. La città mi divenne così ancora più cara, perché ebbi modo di visitare la parte araba, il Suk el Giuma, la moschea, la biblioteca

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(nella parte italiana), che consultavo spessissimo e che tanto mi aveva aiutato per passare gli esami, la marina che mi rammentava la mia Barcola (Barkovlje) e Duino (Devin). Queste esplorazioni mi furono possibili fino a che gli alleati non circondarono tutta la zona, per lasciare il campo al nemico. Fui testimone di questo capitolo di resa dal tetto dell’ospedale, dove i feriti e gli ammalati aspettavano una nave che venisse a prelevarli per portarli in Patria. Vidi allora la popolazione araba svaligiare i magazzini che l’esercito aveva abbandonato. Quantunque comprendessi la soddisfazione della gente che si sentiva libera, ero a disagio in quel contesto. Approvavo e mi sentivo distante nello stesso tempo da quel moto di sollevazione, che Manzoni descrisse ad arte nei Promessi sposi nell’assalto al forno. Rabbrividii vedendo una donna araba con un bambino in braccio che trascinava via portandola in testa, una tavola strappata con i chiodi, che nelle oscillazioni si avvicinavano pericolosamente alla testa del bimbo… Ecco, ho pensato a questi episodi quando sentii la notizia della morte dell’ambasciatore americano Chris Stevens, ucciso a Bengasi l’11 settembre scorso. Il mio pensiero è corso subito agli arabi che hanno sempre vissuto in miseria e che si sono sentiti finalmente liberi. Ho rivisto il dodicenne Ahmed Ben Lalum, che a Garian mi aveva predetto un futuro governo del Paese da parte degli esuli libici. Pensai alla delusione che probabilmente aveva vissuto sotto Gheddafi e al suo sicuro dispiacere nei confronti di quell’azione contro l’ambasciata statunitense, se ha potuto assistervi. Io credo che la Primavera araba si sarebbe dovuta sviluppare con un’azione politica, creando un cordone amicale attorno agli Stati insorti, organizzando congressi culturali, restando sì fedeli alla propria identità religiosa, che non è la vera ragione di scontro, che è invece la volontà di dominio. Fedeli alla propria identità, ma col rifiuto netto di azioni distruttrici. Ecco, così direi ai giovani della Primavera araba, ai figli e ai nipoti dell’amico dodicenne di Garian, che, nonostante la divisa italiana, comprese che appartenevo a un altro popolo: avevo le acca aspirate come lui. 2012

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I voli interrotti

La conversazione si svolse al buio poiché, per l’arrivo degli aerei alleati, la corrente era stata interrotta. Nell’ambulatorio del campo di sterminio Dora. Una baracca in cima a un’altura limacciosa, su uno spiazzo di fanghiglia dove stavano pure altre baracche, destinate agli ammalati. Ciò accadde un poco prima che i camion s’avvicendassero a trasportare, scaricati dai treni e cosparsi di calce, i corpi scheletriti che poi i nostri giovani portavano in cima al colle dove ardeva, ininterrotto, un rogo. Fu un mese prima che accadde. Io invece ero stato portato lì da Harzungen, perché colpito da emottisi. Vi rimasi alcuni giorni soltanto. E la sera mi recai dagli infermieri giunti con me da Dachau dove, con un corso accelerato, il dott. Arko ci aveva addestrati a quell’inusuale attività infermieristica. Bendavano i piedi feriti finché da qualche parte, nel profondo, non giunse l’urlo della sirena e la corrente venne a mancare. Ci mettemmo allora a sedere sugli sgabelli sui quali, prima, quegli sventurati poggiavano, a fatica, le piante dei piedi. Stavo con loro, infermiere dai polmoni intaccati, ma in quegli istanti, unito a loro da un vincolo cameratesco tutto particolare: a unirci, oltre all’essere sloveni, v’era infatti pure la nostra professione umanitaria. Miran raccontava del lavoro nelle gallerie adibite al montaggio dei missili V2. Diceva del lavoro dell’infermiere nel ventre della montagna, del continuo bendare nella baracca, di quell’atmosfera sotterranea in cui i deportati davano il loro apporto alla composizione di quei mortiferi cilindri volanti. A volte, ovviamente, riuscivano a mettere in atto, prudentemente architettato, un sabotaggio che bloccava persino il lancio dei

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razzi. Una rotta troncata attraverso la Manica. Ne seguiva però una mostruosa dimostrazione di vendetta. Fu così non molto tempo addietro, allorquando su una rotaia sollevata di sghembo venne impiccato un gruppo di giovani russi. Costoro, com’era abituale, seguivano con un sorriso sprezzante quel lugubre rito. «Ma hanno sorriso davvero?», chiese Stane soffregando con la suola legnosa della sua scarpa di tela il pavimento. «Fu con beffarda sufficienza che stavano osservando le sentinelle tedesche», disse Miran. Stava ritto in piedi e noi, nel buio, intuimmo la sua figura slanciata, poiché la sua voce ci giungeva dall’alto. «Per un aguzzino, questa è una sconfitta irrimediabile, un siffatto sorriso della vittima, prima di morire», dissi. Fu allora che Miran si sciolse e prese a parlare. «Già, prova l’inutilità della bestiale ferocia del boia. Fu per questo motivo che, assai più che in altre occasioni, ci fu, nella galleria, il rimbombare di un urlare disumano, soprattutto quando, al cospetto dei giovani sospesi su quella diagonale di ferro, le loro impiegate diedero in urla strepitose. Pure i propri addetti avevano infatti ammassato, insieme a noi, perché tutti vedessimo il modo in cui le azioni di sabotaggio venivano ripagate. E ci trovammo così, un’accozzaglia di esseri zebrati e di persone in borghese, intorno a quegli impiccati, nella fioca luce delle lampadine e nello scintillio delle mitragliatrici, orizzontalmente posizionate e puntate contro le nostre schiene». «Le donne tedesche, dici, diedero in urla strepitose?», chiese Niko. «Se urlavano in quel modo vuol dire che erano rimaste donne», dissi quasi tra me. Miran si mosse e i suoi passi furono l’unica voce nel silenzio dei nostri pensieri e delle nostre parole. Fermatosi, parve stesse ancora porgendo l’orecchio ad un’eco interiore e all’afflato, sussurrato, della notte. Eravamo, noi quattro, come un drappello di aiutanti licenziati, stremati dopo aver affrontato la mostruosa voracità della morte. Miran trattenne il passo di nuovo. poi disse: «Anche lì sotto l’infermiere dispone di una propria baracca perché vi vengano i feriti e gli ammalati. Questo lo sapete. Un giorno, poco dopo quelle impiccagioni, mi trovavo solo nella

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baracca quando la porta s’aprì d’improvviso ed entrò, concitata, una giovane. Sostò un attimo sulla soglia quasi che il continuo assordante frastuono di quel luogo le fosse inaspettatamente venuto meno. Si diresse poi verso il mio tavolo e vi posò un pezzo di pane. Fu allora che mi ribellai. “Non lo voglio!” esclamai. E seguendola: “Non lo voglio!”». Tacque. E poi quasi gridando: «Glielo resi». «Poverina», mormorò Stane con nella voce un tono paterno. Era così con noi, paziente e comprensivo, come si addiceva ai suoi capelli rasati e canuti. E aggiunse: «Chissà quanto a lungo ha combattuto la paura per decidersi alfine di osar portare un pezzo di pane a un deportato». «È l’elemosina che ho rifiutato», ribattè, irritato e ribelle, Miran. «Peccato − dissi − Non era per nulla un’elemosina». «Sarebbe troppo semplice», disse Miran deciso e c’era, nella sua voce, una speranza profondamente delusa e al contempo il tono del giovane non ancora sfiorato, nonostante tutto, dalle sudice dita della vita. E si avvertì, nell’oscurità, il volgersi della sua figura slanciata, perché a ribellarsi c’era, insieme al pensiero, pure il corpo. «Non essere così puerile», borbottò Stane. Ed era, ora, un padre vivace e vigoroso i cui capelli si erano anzitempo tinti di neve. «È indubbio che dovranno adoperarsi assai, per il bene dell’umanità, se un giorno vorranno riscattarsi. Ma ciò non può mutare il fatto che sei puerile se te la prendi con lei». «Saresti stato tu a farle l’elemosina, se avessi accettato il suo pane − dissi − E te ne sarebbe stata grata». Stane chiese pure: «Ma ti rendi conto il rischio che ha corso nel venire da te?». «Lo so», mormorò Miran. «E fu dopo l’orrore al cospetto di quegli impiccati che prese quella decisione». Fu Niko a dirlo, quasi fosse riuscito, dopo un lungo riflettere, a trovare una soluzione logica. «Lo so, sì − asserì Miran di nuovo − Ma è da un anno e mezzo che viviamo in questo orrore. Quel pezzo di pane mi parve uno scherno imperdonabile».

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Seguì un silenzio che ci trovò però assorti in una nuova unione. Miran aveva enucleato il proprio dubbio e palesato la propria inquietudine, ma poiché eravamo invisibili l’uno all’altro i nostri pensieri costituivano ora, in quelle tenebre, una tacita e al contempo tesa verità comune, nei pressi di quelle gallerie. Ci trovavamo, a notte fonda, su quella terra di morte, né sapevamo se mai, da qualche parte, per noi si sarebbe schiusa l’atmosfera del futuro; eppure al cospetto di quel pezzo di pane e della ribellione di Miran noi tutti stavano tentando di metterci in salvo sulla zattera invisibile che la notte aveva tacitamente sospinto sotto i nostri piedi. «E ti ha capito, sai», decise alfine Stane. «Pensi di sì?» «Ti ha capito prima ancora di averti portato quel pane», dissi. Miran però, sovrastandoci poiché stavamo seduti, andava rievocando ad alta voce: «Se ne andò docile e distrutta. Uscita, non si volse per nulla, né a destra né a sinistra, incurante del poter essere notata da qualche ss». Noi allora ce ne stemmo silenziosi quasi potessimo, con la nostra immobilità, attenuare il pericolo che sapevamo quanto poteva riuscirle fatale.

P. S. Ottobre 2008. Fu nell’ottobre del 1944 che ciò accadde, la mia annotazione postbellica è invece di due decenni posteriore. Beh, in tutti questi anni trascorsi da allora ebbi assai rare occasioni di leggere sul campo di sterminio Dora. Il motivo sta nel fatto che Wernher von Braun, colui che in quel campo di sterminio usava i nostri deportati come forza lavoratrice, veniva osannato e glorificato negli Stati Uniti allorquando il progresso della tecnica consentì all’uomo di riuscire a mettere piede sulla luna. Ne parla, a dovere, il drammaturgo francese Jean-Pierre Thiercelin nella sua opera Dall’inferno alla luna. Mi permetto di aggiungere che sarebbe giusto che, nell’era spaziale, l’Unione Europea onorasse

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il ricordo di quegli uomini eroici che troncarono spesso, a prezzo della vita, la rotta dei missili mortiferi. 18 novembre 2008 (Traduzione di Marija Kacin)

Nota

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Per iniziativa dell’Observatoire de l’Espace du Cnes, vale a dire del Centre National d’Études Spaciales (Centro nazionale degli Studi spaziali) 29 scrittori (27 i Paesi dell’Unione Europea più la Norvegia e la Svizzera) scrissero una novella incentrata sul tema spaziale, liberamente interpretato. L’intervento collettivo dei vari autori si sarebbe concretizzato con la pubblicazione dei vari scritti, nell’originale e nella traduzione francese. La scelta degli autori venne affidata alla rivista «Lettres Européennes», che curò pure i contatti con i traduttori o le traduttrici: ne risultò così, di fatto, un legame culturale, del tutto singolare, tra le letterature europee. Venne pubblicata un’elegante antologia plurilingue (424 le pagine, 2.000 copie la tiratura) contemporaneamente a un’antologia di tutti gli scritti nella sola traduzione inglese (232 pagine). Ambedue le opere vennero pubblicate dal già citato Observatoire du Cnes, intitolate Fictions européennes, Littérature et création, unite in una custodia. La solenne presentazione ebbe luogo il 23 ottobre nel Museo d’arte moderna di Strasburgo. Ai vari dibattiti scientifici fece seguito la lettura dello scritto di Boris Pahor. L’autore lesse le tre pagine in sloveno mentre la sala poté seguire sul video la traduzione francese. Dopo la pausa, seguì la lettura di altri dieci autori, nell’originale e nella traduzione.

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Dal diario

Oggi dopo due settimane posso continuare il diario interrotto dalle partenze per le città dove sono stato invitato a parlare. Soprattutto dai presidi dei licei. Il diario che mi sono messo a comporre il marzo scorso quando con tre successive ospitalizzazioni il cuore di Rada tentava di differire l’immediato congedo. Stavo da lei in sanatorio la mattinata e il tardo pomeriggio, il tempo che mi restava dopo il solitario pasto e la breve passeggiata, c’era la solita abitudine di fedeltà alla macchina da scrivere. Ma quel diario era una novità, quasi il seguito del dialogo con Rada, anche se qua e là, c’entravano importanti fatti del giorno. Era un modo di parlare di lei con la consapevolezza che la stavo perdendo ma ad un tempo cercavo di avere l’impressione che quel mio distacco pomeridiano da lei fosse la continuazione di quello di tutti i giorni che durava fino alla prime ore serali. Un diario, un metodo a cui non sono mai stato capace di sottomettermi. Prima ci fu il mio curriculum che non l’ammetteva, dopo ho dovuto da autodidatta pensare alla mia formazione nella cultura storia e letteraria slovena. II. Ieri sono stato a Lubiana alla presentazione del libro della prof.ssa Marta Verginella Il confine degli altri. La questione giuliana e la minoranza slovena pubblicato dall’editore Donzelli di Roma e tradotto in sloveno. Un importante volumetto sul fascismo e l’antifascismo nella Venezia Giulia scritto in stile moderno con citazioni di personaggi e di opere letterarie in modo

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da dare rilievo all’accadere storico. Partecipavo come testimone del fascismo subìto di cui si cerca di mitigare o addirittura di insabbiare le malefatte.

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III. A proposito del fascismo uno studente di Roma mi chiese come commentavo la Giornata del Ricordo. Risposi che risponderò come avevo scritto per il quotidiano «Il Piccolo» di Trieste e per «Il Sole 24 Ore». È giusto ricordarsi dell’esilio istriano e delle foibe ma è ingiusto il non raccontare prima il genocidio culturale degli sloveni e dei croati della Venezia Giulia, dire dei 120.000 esuli, del mezzo milione di carcerati, del Tribunale speciale e dei 9 fucilati, dei generali criminali di guerra nella cosiddetta Provincia di Lubiana, annessa al Regno d’Italia, dei 30.000 deportati nei Campi di concentramento fascisti di Rab (Arbe), Gonars, Chiesanuova, Monigo, Grumello, Visco, Renicci ed altri, di 13.000 morti, di cui 7.000 in Campi di concentramento, delle 12.773 case distrutte ecc. Direi anche che una commissione storico-culturale italoslovena istituita dai due governi ha esaminato per sette anni i Rapporti italo-sloveni dal 1880 al 1956 compilando una relazione in italiano e in sloveno, che dovrebbe avere valore ufficiale ma è finita in un cassetto. La legge del ricordo risulta quindi nella sua essenza antieuropea perché i giovani che si recano in pellegrinaggio alla foiba sanno solo dei “sanguinari slavi”, come si lesse nel comunicato del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, mentre non sono al corrente dei sanguinari fascisti che hanno preceduto di una quindicina d’anni quelli slavi. Non si crea quindi una relazione di equità e di amicizia tra vicini. IV. Rada era molto bella, se n’è andata a ottantasette anni senza una ruga al viso. E glielo dissi alcuni giorni prima del commiato, perché mai abbiamo accennato al distacco. Era una donna

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fiera, molto, tanto che bisognava trovare il tempo e il modo per vezzeggiarla. All’amica trevisana Ligi confessò che data la mia sovente assenza si sentiva un passero solitario e che le spiaceva di non saper trovare l’occasione per suscitare le desiderate carezze. Era fiera come suo fratello, l’eroe del movimento di liberazione nazionale su cui era stata posta la taglia di 50.000 lire. Di lui, dopo infinite mie insistenze, scrisse la biografia sulla rivista «Zaliv» che mi aiutava a pubblicare dal 1966 al 1990. Non voleva rivivere l’incendio della casa, la prigione a Gorizia, l’internamento della famiglia in Piemonte, a Omegna, l’uccisione della sorella da parte di un cetnico in fuga alla fine dell’aprile 1945. Non si dava pace, il tipo ce l’aveva con lei, sua sorella era uscita in vece sua, perché si voleva la maestra e maestre erano tutt’e due. Infine si decise a permettere la traduzione del suo libro in italiano e in sanatorio la pregai di firmarmi l’autorizzazione scritta in modo da farle sentire che lasciava di sé un testamento di valore culturale e storico. V. Riguardo al crocifisso nelle aule. Un redattore del «Gazzettino» mi chiese (ci incontriamo in autobus) che ne pensavo. Dissi che non sapevo se l’autorità europea avesse il diritto, il potere di imporre checchessia in materia. Per ciò che mi riguarda, se dipendesse da me, invece del crocefisso metterei dei bei quadri con Gesù a colloquio con i suoi discepoli sulle rive del lago, mentre a scuola farei raccontare la sua dottrina sull’amore e sulla sorte dei ricchi. Perché presentare Gesù sempre come uno sconfitto? VI. In un canto di Rimbaud che riguarda la guerra c’è anche questo verso: O millions de Christs aux yeux sombres et doux (O milioni di Cristi dagli occhi scuri e dolci). Verso che ho messo come motto a uno scritto sui Campi dei deportati politici. Tutti,

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anche loro, quegli appartenenti ai diversi paesi d’Europa, figli di Dio, che hanno dato la vita dopo aver combattuto per la libertà senz’armi, Cristi, di cui non sono rimaste nemmeno le ceneri. Quasi quattro milioni, sconfitti anche loro? Voglio sperare di no. Vicino al Campo di concentramento di Natzweiler-Struthof nei Vosgi a 800 metri d’altezza la Francia ha infatti costruito una palazzina alla quale ha dato il nome di Centre Européen du résistant déporté (Centro europeo del resistente deportato). Una valutazione della rivolta. Sta a noi quindi essere gelosi della libertà conquistata a così alto prezzo. VII. Anni fa a Parigi lessi un saggio di Umberto Eco tradotto in cui il fascismo veniva definito come un regime fuzzy, cioè contraddittorio, incoerente. Ne rimasi male e mi ripromisi di trovare l’originale. Che invece ha il titolo Fascismo eterno. E non ho nulla da ridire sulle diverse attitudini che portano al fascismo se non che il fascismo nella Venezia Giulia non fu affatto fuzzy, ma totalitario e razzista in tutti i sensi riguardo alle due comunità, la slovena e la croata. Mi sarei quindi aspettato, vista la qualità dell’eccezione, un accenno, ciò tanto più che lo stesso Umberto Eco nel suo saggio dice che non bisogna reprimere il passato perché la repressione provoca la nevrosi. Non lo so, forse Eco tratta il problema in qualche altro suo scritto, in questo caso sarebbe in ogni modo molto utile se venisse citato, perché nella vita dell’Unione Europea il sorgere di una nevrosi politica sarebbe saggio fosse evitato. VIII. È morto l’amico Robert Lafont, professore universitario, grande scrittore e uomo politico occitanico che si unì alla nostra Associazione internazionale per la difesa delle lingue e delle culture minacciate e collaborò tradotto anche nella rivista

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«Zaliv» (Trieste, 1966-1990) con un articolo sui provenzali e Mistral. Una borsa di studio del Pen club sloveno mi consentì di conoscere sul posto, con l’aiuto di Robert, la difficile situazione di ciò che ancora è occitanico nel meridione della Francia. Con quelli del Piemonte sono in relazione dal 1966 soprattutto dopo che Sergio Salvi pubblicò Le lingue tagliate e anche Le nazioni proibite.

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IX. Mi si comunica che il presidente dell’Austria Hans Fischer mi ha concesso la Grande croce d’onore per le scienze e l’arte. Credo che l’abbia meritato per il mio libro Piazza Oberdan, presentazione letteraria della dittatura fascista a Trieste tra le due guerre e libro pubblicato in traduzione a Klagenfurt/ Celovec, recensito su una pagina intera del giornale «Die Zeit» dallo scrittore Karl Marcus Gauss e scelto come miglior libro pubblicato nel febbraio 2008 dalla Bestenliste in Germania. X. Da quando Rada non c’è e l’abitazione senza di lei è ostentamente vuota, mi trovo spesso a rimproverarmi il bisogno di solitudine e di libertà che contraddistingue il decorso della mia vita postconcentrazionaria. È del 1950 nello scritto di Jean Cayrol Lazare parmi nous (Lazzaro tra noi) la presentazione psicologica del reduce dai Campi. Egli scopre, dice Cayrol, la meravigliosa libertà che gli ha lasciato la morte, l’indipendenza di fronte alla sua fine. A questa libertà si aggiunge il bisogno impellente di solitudine. Questi due stati li avevo provati già nel sanatorio francese, quando comunicavo per iscritto con i familiari ma non sentivo il desiderio di tornare a casa. Uno stato d’animo che poi giustificavo con la rivelazione dell’amore. Quando con Rada decidemmo di vivere insieme, le proposi come un dato di fatto i due traumi. La solitudine consisteva nell’appartarsi costantemente con la fedele Remington, ciò che era anche una

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terapia. E Rada, seppur ciò le toglieva molte occasioni di dialogo, lo accettò. Ma non fu certamente facile accettare il periodo in cui nonostante la vita in comune prevalse l’impulso di libertà. Era disillusa. E me lo dichiarò. Ma per fortuna aspettò che la mia libertà divenisse più rispettosa. E le ero infinitamente grato. E lo scrissi. Rada era in gamba, tutta d’un pezzo, mentre in me, dall’infanzia in poi, si sono sovrapposti nel mio mondo interiore le impronte degli stadi successivi che era difficile armonizzare.

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La sosta sul Ponte Vecchio. Due pagine di diario

Un’altra partenza. Questa volta per Firenze, quindi più sentita delle altre. Per Dante e il Trecento. Per il Ponte Vecchio. Per quella sosta sul Ponte. Con Rada alla mostra di Raffaello. Ma questa volta per turismo. Su invito del Circolo Vie nuove, col patrocinio del Comune e della Provincia per la presentazione di Piazza Oberdan. Andata e ritorno in macchina. Ma con pernottamento. Di solito incontri così non mi entusiasmano, preferisco non saltare il pasto o prenderlo in anticipo, come questa volta. Ma Firenze è Firenze, l’estate scorsa ci sono stato a parlare a diecimila studenti dei licei della Toscana. E poi il viaggio con il signor Massimiliano non è solo un tragitto in taxi, spesso nomina i suoi ospiti eccellenti, come la Hack, Magris e Pressburger, si interessa di storia… come l’anno scorso anche quest’anno si vestirà da Francesco Giuseppe, ma con un’altra divisa… A ogni modo, durante i diversi “viaggi” si è creata un’atmosfera di simpatica relazione, soprattutto da quando, portandomi al sanatorio triestino dove Rada era degente, Massimiliano mi chiese di poter venire con me un momento soltanto per salutare Rada. Arrivammo puntuali alle 17.00 all’Holiday Inn, dove mi aspettavano le fotocopie degli annunci sulle pagine fiorentine di sei giornali, tra cui «Repubblica» e «Il Corriere della Sera», con l’essenziale ed esteso articolo di Clara Dino che dovrò ringraziare perché si attiene ai fatti storici come Marisa Fumagalli e Cristina Battocletti del «Sole 24 Ore». Questo testimoniare delle verità storiche da parte delle firme femminili fa onore ai due giornali. Alle Oblate una lieta sorpresa. Sergio Salvi, l’amico che dal 1970 in poi ci aiutò quando con l’Associazione internazionale per la difesa delle lingue e delle culture minacciate sostenemmo

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il morale delle comunità linguistiche anche quelle in Italia, guidati dal segretario per l’Italia Gustavo Buratti (Tavo Burat), poeta piemontese purtroppo scomparso l’anno scorso. Sergio allora scrisse per noi il bel testo Le lingue tagliate pubblicato da Vallecchi e poi Le nazioni proibite e Patria e Matria. Una sorpresa ancora maggiore lì a Firenze: Sergio che espone, cominciando dall’epoca di Carlo Magno, l’insediamento degli sloveni sulle sponde dell’Adriatico. Una estesa lezione da professore universitario che ho commentato dicendo che sarebbe molto utile se fosse offerta al Parlamento, anche quello Europeo, perché Salvi incluse anche il periodo fascista di cui né l’opinione pubblica italiana né quella europea sono al corrente. Molto fedeli alla vera storia anche Giovanni Di Fede, Leonardo Bucciardini e Alessandro Michelucci. Ci sono state due contestazioni: un signore ci dichiarò tutti faziosi, uno accusò gli organizzatori di non aver invitato un rappresentante degli esuli istriani. Purtroppo il mattino seguente il giornale locale della Toscana è uscito con il titolo in prima pagina e su una una locandina Pahor offende Napolitano. Nell’interno mi fa dire che Napolitano è razzista, facendo mia una dichiarazione del presidente croato Mesić, poi tira in ballo (l’articolista si firma Michele Morandini) addirittura Pirano e mi dice xenofobo seguendo la sinistra lubianese che mi ha giudicato razzista lasciando da parte la mia esplicita dichiarazione: che non mi disturbava affatto il colore della pelle del nuovo sindaco di Pirano. Come si vede, alla proposta di discussione sulla storia si risponde con nuove falsificazioni, forse credendo di onorare così i morti e gli esuli. Nonostante ciò, per fortuna la mattinata del giorno seguente è stata bella. Avevo deciso di andare in memoria di Rada sul Ponte Vecchio, Massimiliano mi consigliò di andarci con un taxi della città, data la distanza e la difficoltà di trovare un parcheggio. Sì, è stato per rinnovare la giornata con Rada di tanti anni fa. Quel nostro tragitto in rapido da Trieste accompagnati da una specie di fantasma che, sentendoci parlare in sloveno, durante tutto il viaggio ci girò attorno, mentre io tra me gli dicevo che ormai era anacronistico prendersela così. Badi, gli stavo dicendo, dapprima siamo stati disgraziati noi sloveni nell’epoca fascista, poi è toccato a voi, nel ’45, adesso è l’ora di un’agape d’amicizia.

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Nel racconto poi così scrissi. C’era una folla quel giorno di Raffaello sul Ponte Vecchio, ma io con Rada accanto pensavo a Dante ripetendo mentalmente i suoi versi «Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia…», ma mi ricordai anche della classe di maturandi delle magistrali slovene con me sul Ponte, quella classe che doveva sapere le pagine del Convivio dove Dante si scaglia contro coloro che preferiscono un’altra lingua alla propria, della quale dice, se è brutta in alcuna cosa, lo è «nella bocca meretrice di questi adulteri». Frase che pronunciai a voce alta sorprendendo Rada che conosceva quelle pagine del Convivio, ma non si attendeva che le recitassi. La frase la ripetei l’altro giorno tra me mentre Massimiliano scoprì che ci voleva una foto e se n’era andato a comperare una macchina fotografica usa e getta. Davanti al monumento al Cellini, orafo fiorentino, e ad una coppia di studenti che probabilmente stavano marinando la scuola, pensavo al racconto che ha per titolo appunto Una sosta sul Ponte Vecchio e fa parte della raccolta di novelle che di solito hanno il titolo Il rogo nel porto. L’editore francese lo giudicò poco adatto per presentare il libro e preferì il titolo fiorentino. Non mi andava, obbiettai, ma in fondo anche la visita con Rada a Firenze finì per essere in relazione con il rogo. E quindi anche con la Piazza che avevo presentato alle Oblate. Mi dispiaceva che Rada non fosse con me per dirle della soddisfazione che provavo di essere lì alla presenza dell’Arno e con la rabbia di Dante contro chi tradiva la propria lingua o chi, direi, per decreto – cosa inaudita – costringesse altri a tradirla. E mentre il solerte Massimiliano si esibiva a far da fotografo improvvisato, gioivo al pensiero che Arrêt sur le Ponte Vecchio, con le novelle sui tempi bui non solo a Parigi fu bene accolto ma ebbe, poi, un’edizione tascabile nella serie 10/18 con sulla quarta di copertina le menzione della mala sorte toccata agli sloveni sotto il dominio delle chemises noires. E per dire il caso, infatti, due giorni prima della partenza per Firenze mi telefonò l’amico Guy Fontaine, presidente delle Littératures Européennes, per avere l’assicurazione che in marzo sarei stato di sicuro ospite nel suo collège. E tra le altre informazioni mi disse:

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«Sai che il tuo Arrêt sur le Ponte Vecchio è sempre in circolazione?» «Guy, una notizia che è come un regalo!» «Del libro se vuoi parleremo con gli studenti in marzo, quando vieni, d’accordo?» «Molto bene, Guy, ma intanto dopodomani sarò appunto a Firenze!».

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A proposito di una laurea

Si tratta del testo di una tesi di laurea edito dalla Padova University Press. Della mia, del 1947. Un elegante libro (Boris Pahor, La lirica di Edvard Kocbek, con un ricordo di Boris Pahor, prefazione di Paolo Rumiz, illustrazioni di Lojze Spacal, Padova, 2010) con inclusi parecchi particolari delle grafiche di Spacal. Con un’introduzione del Rettore Giuseppe Zaccaria, una prefazione di Paolo Rumiz. Una meravigliosa sorpresa. E quindi un pensiero di gratitudine per il Signor Rettore e l’équipe dei realizzatori e delle realizzatrici. Ma sfogliando l’opera creata da fine senso estetico ad un tempo penso a Edvard Kocbek. Di una raccolta dei suoi poemi infatti si occupa la tesi, di lui, poeta già allora straordinario che mi era amico prima che ci fossimo incontrati. Una delle sue lettere mi raggiunse sotto la tenda di un accampamento ai bordi del deserto libico. Sì, tenendo in mano il dono della mia Università, mi spiace che Kocbek non ci sia più e vivamente mi immagino con quali elette parole l’avrebbe apprezzato se, consultando la tesi battuta a macchina e dalla misera rilegatura, esultava constatando che i versi tradotti risultavano molto più efficaci degli originali. Era così d’animo nobile e complesso ma anche di spirito genuinamente francescano. Ma tra le molteplici associazioni che la sua figura mi offre, mi si è fatta viva quella in cui l’esimio poeta e scrittore è assiduo lettore della rivista «Zaliv», che con l’aiuto di mia moglie riuscivo a pubblicare. È proprio riferendosi a uno dei primi numeri, verso il 1970, che mi fa: «Ma io vorrei anche leggere uno scritto in cui non ci fosse come tema la storia o la politica ma la vita stessa tra voi

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cittadini triestini, italiani e sloveni, della vostra coabitazione, con voi, sloveni, praticamente anfibii per ciò che riguarda la lingua». Mi aveva messo in difficoltà e glielo confessai. Veramente non avevo vissuto fino ad allora una vita a tu per tu con la popolazione. Certo, da ragazzo quando si andava al bagno insieme al Cedas e non c’era ancora il problema di dover dimenticare la mia lingua e diventare un altro. Poi ci sono gli anni del seminario, della teologia, della guerra, del campo di concentramento, del sanatorio: era in quell’anno della laurea che stavo diventando un cittadino regolare. A trentaquattro anni. E in primo luogo per ciò che riguardava la cultura. E mi ricordo sempre come avrei desiderato conoscere Saba, abitavamo in via San Nicolò, nella stessa via della sua libreria, ma come facevo a presentarmi senza qualcosa di mio tradotto… Così i primi incontri ci sono stati con Cergoly e i redattori del «Corriere di Trieste». Da Forst. Ci veniva anche Fabio Cusin, anche Dario de Tuoni. Spesso si faceva circolo culturale anche nella Galleria «Scorpione» in via San Spiridione con artisti delle due comunità, Mušič, Perizi, Černigoj, Spacal, Cesar, Grom e altri. Purtroppo il simpatico inizio si spense e bisognò attendere la rivista «Trieste», i contatti con Crise, con Biagio Marin, le pubblicazioni dell’Editore Studio Tesi di Pordenone con diverse traduzioni dallo sloveno, la rivista «La Bora» che anche apriva alle traduzioni. A ogni modo l’opera che prenderà in considerazione la vita delle due letterature sarà Trieste un’identità di frontiera di Angelo Ara e Claudio Magris che, più completa nella seconda edizione, meriterà diverse traduzioni. Per ciò che mi riguarda da vicino, il Consorzio culturale del Monfalconese pubblica Necropoli per la quale invano per vent’anni avevo cercato un editore. Il tipografo Claudio Nicolodi di Rovereto (Trento) si decide di far conoscere Il rogo nel porto e La villa sul lago. Ha così inizio il felice contatto diretto con il pubblico, ci sono degli incontri, delle nuove amicizie. Quella di Manlio Cecovini, che presenterà Necropoli nella libreria Minerva. Dove con uno studio profondo Elvio Guagnini recensirà Primavera difficile nella traduzione francese anticipando la traduzione italiana! Ancora c’è l’amicizia di Ferruccio Fölkel che inserirà il mio nome, insieme a quello di Alojz Rebula e di

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Pavle Merkù nelle sue liriche. Io, da parte mia, lo farò conoscere, pubblicando, nella rivista «Zaliv», diverse cose sue. Ma c’è tutta un’atmosfera nuova che sta nascendo: Magris, Guagnini, Cecovini, Fölkel. La scoperta di Rumiz. La ricca pubblicistica (Walter Chiereghin, per esempio), le recensioni nelle riviste, l’apertura delle pagine culturali de «Il Piccolo» che fa conoscere autori sloveni e le loro opere. Il ruolo di Alessandro Mezzena Lona. Non li elencherò perché meriterebbero un saggio a parte. Non posso esimermi però dal menzionare l’uscita a Roma di Necropoli per merito di Alessandro Mezzena Lona, che persuade l’Editore Fazi. Un fatto che non solo fa conoscere la mia opera a livello nazionale ma ravviva l’interesse che già si notava più vivo dopo l’accoglimento della Slovenia nell’Unione Europea. Ecco che, presi in considerazione questi e diversi altri elementi, ora potrei accingermi a raccontare della nostra simbiosi intima alla quale pensava Kocbek. Siamo infatti a buon punto nel progredire senza l’influsso di imposizioni statali e politiche da una parte, senza bisogno di rivolta dall’altra. Certo, non siamo ancora del tutto esenti da stati d’animo dubbiosi e opachi, ma siamo in procinto di chiarificazioni anche sul passato con dialoghi amichevoli e rispettosi riconoscimenti. Ce ne accorgiamo constatando le nuove edizioni di vocabolari italo-sloveni; io, poi, nell’inaspettate conferme da parte di gentili passanti nelle vie della città. Non mi resta che ringraziare ancora l’Università di Padova per avermi dato con la stampa della mia laurea la possibilità di far un po’ conoscere il poeta Kocbek, il Mounier sloveno, che convinto personalista cristiano-sociale, intellettuale europeo, improntò di profondo significato etico il Movimento di liberazione nazionale sloveno e, rifiutato dopo la liberazione, ebbe la forza morale di condannare l’eccidio di 12.000 collaborazionisti fuggiti in Austria e dall’autorità militare inglese rimandati in Jugoslavia. La sua dichiarazione in forma di intervista data a me mentre la Jugoslavia godeva di grande considerazione come paese non allineato, uscì in un volumetto dedicato a Kocbek che pubblicai insieme allo scrittore Alojz Rebula nell’edizione della rivista «Zaliv» nell’aprile del 1975. (2011)

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A Primo Levi

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Caro Levi, e La prego di volermi scusare questo “caro” che ho cercato invano di sostituire ma non ci sono riuscito. Sono infatti anch’io uno dei “salvati” che anni addietro mi sono ritrovato nel Suo Se questo è un uomo e ora mi ritrovo in molte pagine del Suo nuovo libro. E mi congratulo sinceramente e cordialmente con Lei per questo Suo breviario necessario a noi, i sopravvissuti, ma soprattutto alla società che non sembra sentire il bisogno di un vero esame di coscienza e meno che meno di una catarsi. Ma mi permetta di presentarmi. Sono nato a Trieste (1913) dove vivo; appartengo alla comunità slovena del Friuli Venezia Giulia; sono stato professore all’Istituto magistrale sloveno qui a Trieste. Come scrittore ho un nome in Slovenia dove sono anche membro del Pen club sloveno. Ho all’attivo diversi libri, uno di questi è Necropoli, uscito nel 1967 e tradotto in italiano dall’amico prof. Ezio Martin una quindicina d’anni fa. È appunto in questo lavoro che ho cercato di rivivere la mia (la nostra) “saison en Enfer”. Mi hanno, infatti, condotto a Dachau circa gli stessi giorni in cui fu trasportato Lei, la fine di febbraio 1944. Ho avuto la fortuna (mia sorella dice siano state le preghiere di mia madre) di non restare “sommerso” perché una volta mi salvò un giovane medico francese, Jean Lareyberette, un’altra l’organizzazione politica slovena a Dachau, che mi procurò l’occupazione come Pfleger.

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Così ho fatto Dachau, Natzweiler-Struthof, di nuovo Dachau, poi Dora, Harzungen, Bergen-Belsen. La mia “tregua” fu un sanatorio francese per tbc che avevo contratto coi “miei” malati. Vede, e la traduzione di Necropoli, in cui, rivisitando Natzweiler dopo la guerra, rivedo il passato, tante volte avevo pensato di mandarLa a Lei pregandola di dirmi che ne pensa. Ma ogni volta sono stato restio nel decidermi perché non accettavo l’idea che il mio gesto supponesse un desiderio di interessamento da parte Sua per la sorte del testo. Preferivo pensare che forse un giorno il mio libro sarebbe apparso presso un editore e allora avrei mandato una copia in omaggio all’autore di Se questo è un uomo. Sono stato un ingenuo, un illuso. Beh, in ogni modo un po’ alla volta mi sono messo l’animo in pace. Ma in questi giorni, alla lettura delle Sue considerazioni riguardo alle diverse opere che trattano dei Campi, spontaneamente m’è sorto il desiderio di sentire il Suo commento sul mio libro, sulla mia testimonianza. Un po’ sono preoccupato, lo riconosco, perché ho scelto un modo insolito di scrittura che Lei, forse, giudicherà letterario, anche se tale non ha voluto essere. Siccome, infatti, nei Campi sono stato un testimone, un accompagnatore, un “curatore” (Pfleger) della morte, e la morte era come una fiumana (Lei dice mare) infinita, mi è sembrato giusto riportarla visualmente sulla pagina come un continuare ininterrotto. Una cosa mi consola, che Necropoli, scritta come l’ho scritta, è stata bene accettata dai giovani che altri miei libri li hanno considerati scritti in maniera troppo “tradizionale”. Spero mi scuserà se Le invio senza domandarLe il permesso una copia di Necropoli. Ubbidisco a un impulso istintivo e temo che, se ci ripenso, ridivento schivo. Non so, ma ogni tanto ritrovo in me tratti del carattere dei rescapés di cui dice Cayrol nel suo Lazar parmi nous.

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Sarò molto lieto se Lei troverà il tempo di leggere Necropoli e di farmi partecipe del Suo pensiero; ma ancor più se potremo dirci di più di quanto non possa contenere una pagina e mezza di carta da macchina. Augurandole che il Suo libro susciti l’eco che merita cordialmente La saluto.

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Trieste, 1 ottobre 1986

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Un chien blessé ovvero Cani in Europa

Flyp, un cagnolino signorile dalla barbetta ben acconciata e dai ciuffi rifiniti alle caviglie, si fermò e annusò l’aria mentre se ne stava con le zampette divaricate graziosamente come si addice ad animaletti così nobili. E tutto faceva credere che, in quella mattinata estiva, gli piacesse l’odore della landa carsica perché continuava ad alzare il musetto e a vagliare con delicatezza e ad un tempo con cura la fragranza che veniva dal mare e si univa agli aromi del timo, dell’assenzio e dell’achillea. Poi balzò a piè pari e saltellò lungo la strada asfaltata come un capretto. Ma dopo un po’ si calmò e si mise a passeggiare spensierato finché non ebbe attirata la sua attenzione un palo di ferro piantato sul margine della strada. Il sole stava già rischiarandone la parte superiore. Flyp gli si avvicinò con premura, lo irrorò appena un po’, e proseguì il suo cammino. Soltanto alcuni passi dopo però egli si arrestò sorpreso. Là, dove c’era la svolta dalla quale si poteva scorgere la prima casa con la volta ad arco pieno che immetteva nell’aia, nell’erba arsa dal sole e color paglia giaceva sul fianco un cane forte e bruno. Le sue muscolose zampe erano protese in avanti mentre la testa era riversata supina tra i fili d’erba che la avviluppavano e quasi la nascondevano. Flyp si avvicinò con cautela e scrutò il corpo giacente con uno sguardo dubbioso e a un tempo assorto, poi si decise e avvicinò il musetto. Allora le sue narici vibrarono, così che a un tratto egli si scosse, come se si fosse punto su un ago nascosto, e balzò indietro in modo che le sottili zampe si piantarono in terra simili alla zampe di un cavallino di legno abbandonato nel cortile dai bimbi.

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Un momento dopo però il suo turbamento si calmò ed egli si avvicinò di nuovo, ma questa volta si fermò vicino alla testa del compagno. «Ti fa male?», chiese. La testa nell’erba non si mosse, soltanto le palpebre si agitarono per un attimo, davanti a loro erano tesi dei gialli fili e conficcati come delle setole di una spazzola disfatta nel pelo intorno agli occhi e al naso. «Chi ti ha ridotto così?». Gli occhi tra gli steli si fissarono su di lui, ma il ferito taceva. «È stato il tuo padrone?». Allora fu come se gli occhi nell’erba avessero d’un tratto vinta la riluttanza, e il ferito con voce profonda e stanca domandò: «Ma tu da dove vieni?». Il cagnolino si voltò con tutto il corpo in modo da poter mostrare la direzione con una mossa della testa. «La nostra auto je là», disse mentre i raggi del sole stavano argentando la sua bianca barbetta ritagliata a forma di rettangolo. «Da dove?», chiese la voce nell’erba in tono alquanto aspro. Ora Flyp, così ben tosato a festa, si rigirò di scatto come se si accingesse a saltellare, ma era soltanto perché desiderava confermare la sua amichevole presenza. «Sul retro della nostra vettura c’è la lettera F», disse gioioso. Poi dimenò lo zampino davanti a sé in modo che la secca e arsa erba frusciò. «Sai bene che cosa indica la lettera F», aggiunse gentile. Il cane color bronzo taceva, solo la pella della coscia della zampa anteriore sinistra un momento fremette. Flyp guardava incerto. «Come sei malfidente», disse. Gli occhi del ferito allora si volsero con un movimento vivo di modo che per un momento apparì il loro biancore. «Credevo che tu fossi della città», dopo un po’ disse. «Venne dunque da lì colui che ti percosse?» «In tre, erano» «E sono venuti dalla città?» «Hgm». «Ti sei lanciato davanti alla loro auto?»

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«No» «Perché allora te ne hanno date?» «Causa l’insegna» «L’insegna?». In quel momento Flyp di sicuro intuì che non doveva più stare così baldanzoso di fronte al compagno riverso nell’erba, perciò piegò le zampette e gli si accucciò vicino. «L’insegna è lassù, su quel palo», lentamente disse l’invalido. «Poco fa mi sono intrattenuto là», disse Flyp come se stesse assicurandogli che il suo dovere l’aveva eseguito per benino. La testa tra gli steli tremò leggermente, poi anche la pelle del fianco vibrò come sfiorata da una scintilla. «Hai la febbre», disse Flyp. La pelle sotto il pelo liscio fremette nuovamente ma questa volta in modo molto più visibile. «Dai, levami via l’arista che mi si vuol conficcare nell’occhio», pregò il malato. Flyp si alzò, con lo zampino spostò l’erba e poi ripetutamente pestò il suolo in modo da schiacciare gli steli. Quando s’ebbe accucciato di nuovo chiese: «Ma che cos’è questa storia dell’insegna?». «Non si tratta di una sola, ce ne sono molte». Flyp taceva e paziente aspettava. «Ci sono i nomi dei paesi sulle insegne», disse la voce nell’erba. «Come dappertutto», disse Flyp saputello. «No», disse il ferito e cercò di sollevare il capo ma subito si ricrebbe. Flyp intanto fece un fruscío con la zampetta come per mostrargli che gli spiaceva di non poterlo aiutare. «Adesso ci sono sulle insegne anche i nostri nomi dei villaggi», disse la voce che ora somigliava quasi a un brontolío. «Non comprendo», disse Flyp. «Non hanno un nome solo, i villaggi qui da voi?». «Li avevano, lo puoi ben dire, ma poi li hanno ribattezzati». «Chi li ha ribattezzati?» «Quelli che sono venuti dopo». «E perché i vostri li hanno lasciati venire?» «Si sono opposti», disse la voce che si trasformò in un sordo ringhio nell’erba. «Siamo oggetto di mercanteggio, noi».

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«Scusami», disse Flyp con garbo. «Ma di questi problemi non me ne intendo». «Di certo che no, tu sai solo stiracchiarti su qualche divano o leccarti dei dolciumi». Flyp abbassò il musetto e non seppe che dire. «Io invece tendo l’orecchio a ciò che stanno dicendo i miei», disse quasi con severità il ferito. «Anch’io», disse Flyp. «Ma non parlano di cose simili». «Eppure è stato anche il tuo paese a confermare quel mercanteggio», disse la voce nell’erba. Flyp taceva, solo il musetto egli lo volse verso i cespugli come se stesse attendendo un aiuto da parte del merlo nascosto che aveva cominciato a frugare tra la sterpaglia. «Non ero ancora nato quando avvennero quelle ingiustizie», disse e con la zampetta si grattò dietro l’orecchio per nascondere l’imbarazzo. «Nemmeno io», disse il ferito. «Ma le ingiustizie sono all’ordine del giorno anche adesso». Flyp taceva. «Ti basti come esempio il caso mio». Flyp tacque ancora un po’, dopo, perché non voleva contraddirlo, gentilmente disse: «Ma prima avevi detto che ora ci sono sulle insegne i nomi giusti dei villaggi!». «Certo. E i nostri per loro combatterono da valorosi». «Per le insegne». «Per la libertà. Quindi anche per le insegne». «E che si sono battuti, dici?» «Perché? Non si sono forse?», disse il ferito e si raschiò la gola come se gli fosse andato di traverso. «La durata di tre delle nostre vite si sono battuti per la libertà». Flyp si accorse che il calore lo stava invadendo e con uno sguardo di rimprovero si volse verso il sole. «E poi si batterono durante tutto il secondo conflitto», disse la voce dal suolo. Flyp pensò che forse era il caso di raschiare l’erba con la zampetta, ma cambiò idea. «Il nostro villaggio allora fu dato alle fiamme», disse ancora la voce nell’erba.

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«Di ciò intesi qualcosa», disse con sollievo Flyp e sospirò. «La mia defunta nonna ne era al corrente». «Nemmeno io lo vissi di persona», bofonchiò l’invalido. «Non sono così anziano». Flyp guardava fisso davanti a sé. «È ben strana, questa vostra regione», disse dopo. «Dì piuttosto che è disgraziata». «Dici bene, disgraziata, se anche i cani sono implicati nella questione delle insegne». Il cane bruno non disse nulla, sembrava placato alla constatazione di aver trovato un amico. E forse fu questa la ragione per cui fiducioso disse: «Deh, cerca di cacciarmi via questa mosca dalla palpebra». Flyp si levò con un balzo come se fosse stato in attesa di quell’invito: dopo aver fugata la mosca si accucciò di nuovo ma in maniera da avere il musetto molto vicino alla testa riversata nell’erba. «Ma io lo stesso non capisco in che relazione tu sia con l’insegna», disse un po’ più deciso dal momento che ora stava difendendo i suoi occhi dalle mosche. «Gli stranieri rifiutano i nostri nomi», disse il ferito, mentre lungo la pelle che ora veniva dorata dai raggi del sole corse uno spasmo a guisa di serpente. «Nonostante la lotta dei vostri?» «E non c’è villaggio che non abbia un monumento ai caduti», disse la voce dalla landa. Flyp con una zampetta aggredì una mosca e nello stesso tempo la seguì col musetto serrando, poi, di scatto le fauci in modo che la dentatura schioccò secca. «Così adesso vengono e insudiciano i nostri nomi sulle insegne», disse il ferito. «Una vera barbarie», disse Flyp con voce soffocata. Ad un tempo però levò il musetto come se improvvisamente le sue narici fossero state punte da un odore acre. «Ora mi è chiaro!», esclamò. «Tu facevi la guardia all’insegna!». Il ferito taceva come ogni volta quando constatava che l’ospite gli era una presenza amica. «È stato il tuo padrone a metterti a custode dell’insegna?»

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«No, non è stato lui». Poi aggiunse: «L’insegna non fa mica parte del nostro podere». «Allora facevi la guardia per conto tuo?». L’altro tacque di nuovo. «Sei coraggioso», disse Flyp. «Ma non avrebbero insudiciato il nome del villaggio se non m’avessero attaccato in tre», brontolò tra sé il ferito. «Ma come sono, questi tuoi paesani», domandò Flyp. «Che cosa hanno di speciale?» «Perché? Non li hai visti forse?», disse in un tono che Flyp ne fu imbarazzato. «Non mi sembrano differenti dell’altra gente», disse. «Allora perché mi fai simili domande?». Flyp abbassò il musetto come se stesse in procinto di starnutire ma era soltanto per via dell’imbarazzo. «Perché allora quegli estranei se la prendono tanto se la vostra gente è come tutte le altre?». Qualcosa ora si mosse negli intestini dell’invalido e fu come se una corrente invisibile stesse salendo verso la coscia anteriore e su fino al capo. Il ferito tentò di alzare la testa ma riuscì soltanto a tendere le vene del collo. Poi ristette fermo e senza forze. «Ti fa male?», chiese Flyp. Il ferito invece disse: «Non sopportano la lingua della nostra gente». «Perché che lingua è?» «Come vuoi che sia. Come tutte le lingue umane» «E allora perchè s’infastidiscono?» «Probabilmente vorrebbero restar soli» «Ma non ha detto che sono venuti qui dopo che i vostri già vi abitavano?». Il ferito taceva. Poi la voce nell’erba disse: «Il mio cervello non può gareggiare con quello umano» «Vuoi dire, i nostri cervelli», disse Flyp bonario perché s’era accorto che il suo interlocutore era disposto all’ironia. «Ma quando vedono i nostri nomi sono capaci d’infuriarsi come dei posseduti dal demonio».

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Flyp mosse la testa sicché la sua aristocratica barbetta approvò con saggezza. «Come uno dei nostri quando si prende l’idrofobía?» «Solo che loro non mordono. Ma ti vengono sopra con verghe di ferro e con catene». «Incredibile», disse Flyp. Guardò il ferito e gli parve di vedere sul suo fianco le impronte che avevano lasciato gli anelli della catena. E sentì che da un momento all’altro un brivido stava per corrergli lungo la colonna vertebrale. Perciò subito pensò che non sapeva nemmeno come il ferito si chiamasse. «Che nome hai?», chiese per non pensare ai colpi della catena sulle vertebre della colonna vertrebale. «Io mi chiamo Perùn» «Che nome è?» «Pare sia stato un dio» «E tu che c’entri?» «Era pagano, dio del tuono» «Ma tu non sembri tanto terribile» «Quando si tratta di insegne lo divento» «Ed è giusto, dal momento che non vi lasciano vivere come vi pare in casa vostra» «E attaccano da vigliacchi. Insudiciano le insegne di notte quando la gente dorme» «Dei veri eroi, con c’è che dire». E di scatto levò la zampetta per scacciare una mosca che stava per avvicinarsi alla testa tra i fili d’erba. Perùn allora chiese: «E a te che nome ti hanno dato?» «Flyp» «E che significa?» «Forse niente. Forse me l’hanno dato perché saltello da un posto all’altro». Perùn taceva. Poi dopo un po’ disse: «Il mio padrone afferma che in Svizzera ci sono insegne bilingui e che nessuno pensa a danneggiarle». Flyp guardava diritto davanti a sé ma era come se non sapesse dove dirigere lo sguardo. «Abbiamo certamente attraversato anche la Svizzera», disse.

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«Ma io per lo più mi interessavo dei pali». Tacque, poi disse: «Lo sai bene». E voltò il musetto verso di lui per vedere cosa pensasse, ma Perùn non disse niente. «Durante le vacanze si gira per l’Europa», disse Flyp. «La prossima volta che passeremo per la Svizzera guarderò in su e esaminerò le insegne». A Perùn vibrò un muscolo delle fauci, allora egli con la lingua lentamente si insalivò il labbro inferiore. «Potessi avere un goccio d’acqua», disse. «E d’ora in poi il sole scalderà sempre di più», disse Flyp assorto. Poi di colpo sollevò il capo. «Adesso comincerò ad abbaiare», disse e s’alzò di scatto. «E non cesserò finché non verrà gente!» «Che tu possa riuscire», disse Perùn. «Sto giacendo tutta la notte sul fianco destro e darei non so che cosa se qualcuno mi mettesse su quello sinistro». «Ora farò certamente venire qualcuno», disse Flyp e abbaiò. «Ma tu guarda di rimetterti in sesto». «Mi rimetterò senz’altro», disse Perùn. «La prossima volta non l’avranno più vinta anche se saranno di nuovo in tre!» «Se non avessi a dover partire», disse Flyp e di nuovo abbaiò, «ti darei una mano». «Non sei il tipo adatto». «In due avremmo ragione di loro». «Tu sei troppo signorile». «Ma azzannerei loro i pantaloni mentre tu li metteresti a posto». «Non ti si addice affatto», disse calmo Perùn. «Ma grazie lo stesso del pensiero gentile». Flyp abbaiò, poi disse: «Ma in Svizzera le esaminerò di sicuro quelle insegue bilingui!». Allora si fece sentire una voce che chiamava: «Flyp, viens ici, Flyp!» «Non v’è più speranza che tu trovi dell’acqua», disse rassegnato Perùn e sospirò.

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«Questa è la figlia», disse Flyp accovacciandosi di nuovo vicino a Perùn. «È mia alleata». La fanciulla che era venuta a cercarlo aveva i capelli neri legati sulla nuca a coda di cavallo, in mano teneva la racchetta per il volano. Flyp la salutò abbaiando con ira: e quando essa volle avvicinarglisi non solo non si chetò ma s’infuriò ancora di più. Così la ragazza fuggì via. «Maman», essa chiamò mentre correva. «Viens voir, il y a un chien blessé ici!». Allora Flyp saltò in piedi in modo che di nuovo somigliava a un cavallino di legno. «Adesso verranno», con convinzione disse. Poi si pose davanti a Perùn e si dette ad abbaiare furiosamente. Flyp, viens – Flyp, vieni. Maman, viens voir, il y a un chien blessé ici! – Mamma, vieni a vedere, c’è qui un cane ferito. (1975)

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Boris Pahor e la novella scritta con lo stesso stile dell’amato Vittorini

Ieri, prima di quella visita, non avevo in mente Vittorini. Stavo sfogliando le pagine di un quotidiano sloveno: da quando una casa editrice mi offrì una quindicina di giorni di convalescenza in un bellissimo centro termale di cura, prima di tornare a casa dopo il gran taglio subìto nel reparto chirurgico del nosocomio in capo alla collina carsica, la mattina seguo in diretta le peripezie della ricerca di un nuovo governo sloveno. Appunto la visita. In parte annunciata. Alessandro Mezzena Lona, redattore culturale, ma presente soprattutto in veste di amico (e ho l’occasione di dirlo in modo tutto speciale perché è merito suo di aver convinto l’editore romano Fazi a pubblicare Necropoli nel 2008). Con tutto ciò che ne è seguito. Strana la sorte di questo mio libro, rimasto, tradotto in italiano, per due decenni senza trovare un editore. Evgen Bavčar, non vedente laureato alla Sorbona, sloveno rappresentante non ufficiale della cultura slovena a Parigi, porta quella traduzione italiana battuta a macchina in lettura alle Éditions de La Table Ronde. Nasce così la prima traduzione di Necropoli. Una cosa simile avviene con il professore universitarioThomas Poiss di Berlino che porta la traduzione in tedesco alla signora Merkù della Berlin Verlag … Amici ante litteram. Strana, ma oltremodo piacevole, questa inclinazione per un’opera al di là delle recensioni. Alessandro non è solo. L’accompagna una gentile giovane signora. È proprio Veronika Brecelj, la nota, eccellente traduttrice, che non ho avuto l’occasione di incontrare prima, data la mia scarsa vita di società a Trieste negli ultimi anni.

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Ma è lei che, con una semplice e inattesa informazione rivolta ad Alessandro che fui il suo professore di Letteratura italiana alle magistrali in lingua slovena. Una rivelazione anche questa piacevole, data la promozione culturale della studentessa di una volta. E poi l’elogio che non mi aspettavo di avere fatto leggere allora agli studenti sloveni autori come Sciascia, Gramsci, Pavese e altri. «Mi piaceva il realismo post bellico» dissi «ero poi innamorato del modo di scrivere di Vittorini, la sua Conversazione in Sicilia soprattutto. Anzi, scrissi una novella così ligia al suo modo di dialogare che poi dovetti riprenderla per moderarne le battute». Veronica Brecelj passò a parlare di Necropoli che aveva letto di recente, e mi diede modo di ammirare la finezza delle sue osservazioni, rilievi che raramente si trovano in recensioni anche curate. Si, anche dopo, da solo, ci ripensai a quel periodo scolastico in cui ci tenevo che gli studenti leggessero libri di cui non si arrivava a parlare in esteso in classe. Avevo fatto comperare per la biblioteca scolastica un bel numero di volumi e incitavo i ragazzi a leggerli, da Moravia a Pavese, da Vittorini a Pasolini. Ma ciò che era importante era che ciò che consigliavo agli studenti faceva, in qualche modo, anche parte di me stesso. Perché mi trovavo in uno stato di rinascenza, dopo le esperienze passate. Nonostante la differenza d’età mi sentivo quasi in apprendistato. E dire che non avevo argomenti lieti da trattare, anzi, eppure ci stavo a tentare di esporre gli avvenimenti cupi, in maniera discorsiva in modo di toglierli, quasi, da un aspetto formale intenso e, così, alleggerirli in apparenza, mentre ottenevo proprio in questo modo di rendere più impressivo il racconto. Il fatto che volevo raccontare si riferiva al mio cugino Ciril, ventenne, che accusato di avere sottratto della farina nella panetteria dove lavorava, aveva acquistato una rivoltella e si era ucciso con un colpo alla testa sulle scale a chiocciola dove abitavano i suoi genitori in via Rossini 10, in una soffitta. Mi avevano mostrato il buco dell’intonaco dove si era conficcata la pallottola, mi dissero che la pistola l’aveva acquistata nel negozio in via san Nicolò, proprio nello stabile, dove

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abitavamo noi al quarto piano. Dove bene rimbombavano i colpi che nel cortile interno ogni tanto risuonavano, probabilmente per le prove di un’arma appena acquistata. Fatto sta che io, perché qui si trattava proprio di me, non potevo accettare la semplice conclusione che mio cugino si fosse sparato perché accusato come ladro. Questa parola, infatti, nessuno dei miei l’aveva usata. Dunque? E fu così che, prima di scrivere delle mie ansie riguardo alla sorte di mio cugino, decisi di interrogare mia madre. E lo feci mentre puliva il pavimento della camera – in legno clorato bordeaux scuro – china a terra con le ginocchia su un cuscinetto. E fu, devo dirlo, un dialogo lungo, una specie di inchiesta cordiale in cui scoprii che il cugino Ciril era un ragazzo ingenuo al quale colui che faceva il pane chiedeva di portargli farina dal magazzino anche quando non ne aveva bisogno per la cottura. Scoperto il furto, Ciril appariva come corresponsabile. E non lo era, ma mio padre, che era suo zio, e mio nonno, allora ancora vivo, gli avevano fatto, infuriati, una ramanzina sull’onestà dei Pahor che mai si erano macchiati, eccetera eccetera. «Sono loro che l’hanno ucciso» esclamai allora. E mia madre: «Ma chi poteva immaginare che avrebbe reagito a quel modo?». Ecco, questo pressappoco il mio scritto che, quando lessi, mi accorsi che c’era tutta l’atmosfera di Vittorini, ciò che non mi dispiaceva affatto, ma non di meno ripresi lo scritto e cercai di mitigare l’evidente consonanza. Poi, il problema di Vittorini ritornò ancora un’altra volta in un dialogo simpatico con lo storico Fabio Cusin nel suo studio (come racconto nel romanzo Dentro il labirinto). A un certo punto, tra gli autori italiani che preferivo, citai anche Vittorini. E Cusin: «Errori di gioventù, segua invece Kafka». Non so, avrei potuto parlare di Ciril anche in modo diverso, ma va bene così. E nella raccolta delle mie novelle uscita a Parigi, l’editore si soffermò soprattutto su questa novella, ammirandone l’efficacia della descrizione. E così oggi mi piace constatare che nelle vesti di un’importante traduttrice ho scoperto l’allieva di un tempo, la quale a sua volta m’ha fatto rinnovellare tutto un intreccio di cose passate. E ringrazio l’amico Alessandro di avermela presentata. 2012

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Prima viene il corpo

Sono stato a innaffiare le ortensie. Sono cresciute quasi interamente all’ombra di un bell’alberello e il sole non ha trovato modo di colpirle direttamente anche se il calore è riuscito a smorzare l’azzurro dolce dei suoi fiori. Mi spiace perché li curo per mia moglie Rada, con l’illusione che possa accorgersi di come bagno abbondantemente non solo il terreno ma spruzzo con attenzione anche i fiori, perché così sempre mi raccomandava lei. Purtroppo è un desiderio nato morto, perché è già la terza estate che sono solo e la pianta in qualche modo fa le veci della persona viva e mi fa male che le corolle stiano per sbiadire. In questi giorni ho finito di leggere la traduzione dallo sloveno all’italiano del libro che Rada ha scritto sulla storia di suo fratello Janko Vojko, morto giovanissimo da eroe partigiano. Rada sarebbe contenta dell’accurata traduzione che ne ha fatto Martina Clerici. Mia moglie firmò la liberatoria in cui mi autorizzava in vece sua a proporre il libro all’editore proprio negli ultimi giorni all’ospedale. Ci scherzò su, come sempre usava, poi chiese gli occhiali e là, un po’ scomoda, seduta sul letto, firmò. Oggi mi accorgo che invece delle ortensie, che presto diventeranno sbiadite e anemiche, mi resta il testo che, sebbene sia un lascito doloroso, è rinato e vivo per merito di Martina. Proprio in questi giorni estivi è avvenuto in me un cambiamento. Ho cessato di essere infedele alla televisione per votarmi alle olimpiadi: l’atletica leggera, il nuoto, il salto in alto, quello in lungo, il canottaggio. Il corpo umano in movimento! È una tensione, quasi un bisogno quotidiano da quando sono tornato intero, almeno fisicamente, dall’universo concentrazionario. Sono convinto, l’ho scritto e lo ripeto tutte le

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volte che incontro i giovani, che bisogna cominciare a rispettare il corpo umano. E, prima di rispettarlo, considerarne il valore. Probabilmente questa mia idea fissa del movimento, della conservazione corretta del fisico, proviene dalla malaugurata personale esperienza concentrazionaria che mi ha costretto a vedere un’infinità di cadaveri e di scheletri. Umberto Eco nel carteggio con il cardinal Martini, quando quest’ultimo era ancora arcivescovo di Milano, sostiene che sopra a tutto bisogna rispettare il corpo altrui. Ho conservato la pagina di “Domenica” («Il Sole 24 Ore», 4 marzo, p. 29) in cui campeggia il titolo Rispettare la dignità del corpo. Lo afferma lo scrittore Wole Soyinka. «La reazione di orrore che accompagna la violazione del corpo umano, in qualsiasi forma essa avvenga – scrive il Premio Nobel –, si basa sul riconoscimento del fatto che il corpo costituisce il denominatore fondamentale della realtà umana. Il corpo è la casa materiale della mente», conclude l’intellettuale nigeriano e scrive come la violenza sia mascherata dalla religione o dall’ideologia, ma in verità sia sempre potere, dominio. Io aggiungerei anche il dominio della sfera dell’amore, dove il corpo amato forse non è oggetto di vero possesso, ma ciascuno avverte in modo chiaro come nei turbini della passione il corpo non sia «casa della mente». Wole Soyinka lo spiega molto bene, seguendo certamente i dettami di Spinoza. Mi ha accompagnato in queste riflessioni estive il volumetto che l’amico Stéphane Hessel ha scritto con Edgar Morin: Il cammino della speranza. Hessel, come me, è uno dei reduci del campo di sterminio di Dora, considerato uno dei più terribili nell’universo concentrazionario. È un volume prezioso, che si articola in una serie di proposte sagge per raddrizzare la società in nome della solidarietà. Propone, ad esempio, la creazione di un “Consiglio di Stato etico”, ma resta il problema a quale individuo autorevole affidare il controllo di questo ente. Anche oggi, che compio 99 anni, l’esercizio fisico e l’allenamento intellettuale mi impediscono di percepire il senso di noia. Adesso tengo tra le mani un libro di Vercors, che ho ricevuto in regalo e che racconta come, dopo la pubblicazione del Silenzio del mare, funzionava la casa editrice Éditions de Minuit. Vercors assieme a Camus è per me un maestro, che ho

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avuto la fortuna di conoscere personalmente. Gli feci visita per portargli una copia di Pèlerin parmi les ombres (Pellegrino tra le ombre), titolo dell’edizione francese della mia Necropoli, in cui avevo inserito una sua citazione come motto. Il suo Silenzio del mare, inno contro l’occupazione nazista, fu pubblicato clandestinamente e il generale Charles de Gaulle decise di farlo stampare e paracadutare ai soldati in Inghilterra perché servisse da incitamento ai soldati. Sono questi i libri che amo, quelli scritti a rischio della vita, per amore di libertà, che oggi come ieri deve essere preservata. Non smetto mai di combattere attraverso la penna e la voce, ma prima, in questi giorni di agosto, voglio chiamare una voce cara per lenire la solitudine... 2012

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Nota ai testi

I testi compresi in questo volume sono stati redatti dall’Autore in italiano, salvo il caso di un articolo di cui – in calce – si indica l’autrice della traduzione. Si tratta di relazioni a convegni e incontri diversi, interventi per occasioni pubbliche, scritti apparsi in giornali e riviste, pagine di diario. In qualche caso, si tratta di pagine per interventi radiofonici (anche come sintesi o riduzioni di interventi più ampi scritti per altre destinazioni) o di appunti per interventi rimasti tra le carte dello scrittore senza esito di pubblicazione. Quando è stato possibile, si è indicata la data della stesura o della pubblicazione. I primi scritti risalgono agli anni Sessanta; altri – per la datazione – sono più recenti e arrivano ai nostri giorni. In calce ai singoli testi – riveduti da Boris Pahor – si sono riprodotte, se presenti, le date apposte dall’Autore alla fine o all’inizio dei singoli interventi. In altri casi, le date sono riprodotte tra parentesi, quando risultino dalla testimonianza dell’Autore o da dati interni al testo stesso. Ambivalenza dei valori, in «Trieste», marzo-aprile 1961; Vita culturale degli sloveni a Trieste, in «Uomini e libri», febbraio 1967; Il destino della mia città, in «Celovski zvon», giugno 1987; Il mare come simbolo in due poeti del Litorale: Dragotin Kette e Srečko Kosovel, in «Letterature di frontiera/ Littératures frontalières», gennaio-giugno 1991; Il disinteresse degli intellettuali verso le identità misconosciute, in L’integrazione culturale nella nuova realtà europea. Atti del Congresso Internazionale Università di Trieste. 24-27 settembre 1992, a cura di Giovanna Trisolini, vol. ii, Bulzoni, Roma 1993; Slovenia mediterranea, in Il Mediterraneo: approdo per un nuovo millennio. Atti del congresso internazionale - Trieste, 28-31 dicembre 1999, Edizioni Università di Trieste,

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Trieste 2000; Il secondo dopoguerra è una versione breve dell’articolo (con antologia) apparso in Letteratura slovena del Litorale, Mladika, Trieste 2004 (e, prima, in «Trieste & Oltre», 1993-1994); Su Alojz Rebula in Alojz Rebula, Biografia per immagini, a cura di Alice Zen, Trieste 2009; L’espace coupé, in Fictions européennes. Littérature et création, Observatoire de l’Espace-Centre National d’Études Spatiales, Paris 2008; A proposito delle Giornate della Memoria e della necessità di chiudere i conti col passato. Senza simmetria non c’è giustizia storica, in «Il Piccolo», 23 marzo 2009; I non incontri con l’amico Zoran, in Zoran Music: Se questo è un uomo, a cura di Flavio Arensi, con una prefazione di Boris Pahor, Umberto Allemandi & C.,Torino 2011; E io sul Ponte Vecchio presi a recitare Dante che difendeva la lingua, in «Il Piccolo», 23 febbraio 2011; Boris Pahor e la novella scritta con lo stesso stile dell’amato Elio Vittorini, in «Il Piccolo», 31 gennaio 2012; Il Carso di Kosovel, Slataper e Spacal, con il titolo Il mio Carso da salvare: con lo spirito di Spacal, Slataper e Kosovel, «Il Piccolo», 26 giugno 2012; La Bengasi della Primavera araba, in «Domenica-Il Sole 24 ore», 21 ottobre 2012; Prima viene il corpo, in «Domenica-Il Sole 24 ore», 26 agosto 2012.

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e dei periodici

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Indice dei nomi, dei luoghi

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Indice dei nomi

Antelme, Robert, 143 Alasia da Sommaripa, Gregorio, 55, 90 Alighieri, Dante, 35, 41, 61, 69-71, 87, 125, 137, 157, 177, 179 Alyn, Marc, 57, 68n, 70, 111, 115, 116n Ara, Angelo, 13, 20, 29, 31n, 68, 100, 116, 182 Aragon, Louis, 133 Arensi, Flavio, 208 Arko, Venceslav, 165 Arnaut, Daniel, 42 Aškerc, Anton, 56, 90, 103 Bacchelli, Riccardo, 137 Bacone, Francesco (Francis Bacon), 162 Bandinu, Bachisio, 52 Barbiellini Amidei, Gaspare, 41, 52 Bartol, Vladimir, 58, 64,91 Bartolomasi, Angelo, 134 Battocletti, Cristina, 130, 177 Bavčar, Evgen, 13, 87 e n. Beethoven, Ludwig van, 35, 93, 124 Beličič, Vinko, 60, 65 Ben Lalum, Ahmed, 163 Benedetič, Filibert, 59, 66 Bergson, Henri, 162 Bernardi, Ulderico, 39, 43, 44, 51, 89 Betti, Ugo, 61 Bettiza, Enzo, 137 Bevk, France, 57, 58, 64, 66, 91, 104, 147 Blažič, Viktor, 154 Böll, Heinrich, 151, 153 Bonomo, Pietro, xii, 11, 14, 15, 55, 79, 80, 89, 101

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Botteri, Guido, 133-135 Braun, Wernher von, 168 Brazzoduro, Gino, 68n, 110, 114, 116n Brecelj, Veronika, 199, 200 Brejc, Jože, 152 Bressan, Arnaldo, 68n, 116n Broz, Josip (Tito), xv Bucciardini, Leonardo, 178 Budal, Andrej, 57, 58, 64, 90 Buratti, Gustavo, 178 Buvoli, Alberto, 141n Camus, Albert, 12, 19, 158, 204 Cankar, Ivan, 56, 87, 90, 91, 105, 135, 162 Carducci, Giosuè, 123, 162 Carlo Magno, 178 Casals, Pablo, 37 Cavalli, Jacopo, 79 Cayrol, Jean, 175, 186 Cecovini, Manlio, xiv, 99-101, 182 Cegnar, Franc, 56 Cellini, Benvenuto, 179 Cergoly, Carolus L., 73, 182 Čermelj, Lavo, 65 Cernigoj, August, 73, 152 Cesar, Jože, 182 Chiereghin, Walter, 183 Chiti Batelli, Andrea, 50 Chagall, Marc, 74 Chopin, Fryderyk, 70, 93 Clausel, Jean, 31n, 157 Clerici, Martina, 203

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Cortese, (padre Placido), 76 Costantino, Sante, 146n Crise, Stelio, 182 Čuk, Marij, 66 Curcio, Carlo, xiv, 93-97 Cusin, Fabio, 91, 182, 201 D’Annunzio, Gabriele, 27, 31n Dandolo, Enrico, 79 De Gaulle, Charles, 205 de Rougemont, Denis, xiii, 39n, 47-49 De Sanctis, Francesco, 93 de Tuoni, Dario, 73, 182 Detela, Lev, 60 Detela, Milena Merlak, 60 Di Fede, Giovanni, 178 Dino, Carla, 177 Djuba, Ivan, 18 Dostoevskij, Fëdor, 158 Dumas, Roland, x, 24 Dürer, Albrecht, 35 Eco, Umberto, 15, 174, 204 Éluard, Paul, 133 Engels, Friedrich, 26 Eraclito, 35 Erasmo da Rotterdam, 55, 79, 89 Esopo, xv Fabiani, Max, 81, 110 Fedro, Gaio Giulio, xv Ferluga Petronio, Fedora, 68n, 116n Fischer, Hans, 175 Fogàr, Luigi, 134 Fölkel, Ferruccio, 1, 100, 115, 116n, 182, 183 Fontaine, Guy, 179 Fortini, Franco, 133 Foscolo, Ugo, 81, 137 Fumagalli, Marisa, 177 Gambara, Gastone, 140 Garibaldi, Giuseppe, 87, 157

Gaudì, Antoni, 37 Gauss, Karl Marcus, 175 Gayda, Virginio, 80 Gayot, Rene, 76 Gheddafi, Mu'ammar, 163 Gide, André, xi, 33, 35 Glucksmann, André, 21 Goethe, J. Wolfgang, xiv, 35, 83, 105 Goldoni, Carlo, 61, 137 Golouh, Rudolf, 66 Gorbaciov, Michail Sergeevič, 19 Goya, Francisco, 75 Gradnik, Alojz, 57, 104, 147 Gramsci, Antonio, 133, 200 Gravier, Charles, 47 Gregorčič, Simon, 57 Gregoretti, Ettore, 134 Gregori, Ivo, 75, 80, 90 Grom, Federico, 182 Gruden, Igo, xiv, 91, 104, 117-120, 123 Guagnini, Elvio, xvi, 100, 182, 183 Guttuso, Renato, 133 Hack, Margherita, 177 Hacquet, Balthazar, 12 Hegel, G. W. Friedrich, 47 Heine, Heinrich, 35, 96 Héraud, Guy, 38, 39n, 44, 49, 50 Hergold, Ivanka, 65, 66 Hessel, Stéphane, 74, 76, 204 Ibsen, Henrik, 69, 110 Ieraci, Giuseppe, 129-131 Japelj, Jurij, 55, 90 Javoršek, Jože, 150, 152 Jelinčič, Duško, 65 Jeza, Franc, 65 Jovine, Francesco, 137 Joyce, James, 35 Jurčič, Josip, 104 Kacin, Marija, 169

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Kafka, Franz, xi, 5-7, 9, 111, 137, 201 Kann, Robert A., 25, 31n Kant, Immanuel, 35 Kardelj, Edvard, 18, 19 Kette, Dragotin, 56, 68n, 90, 103-108, 110, 111, 116n Kohr, Leopold, xii, 33-35, 39n Kosmač, Ciril, 66, 104 Kosovel, Anica, 93 Kosovel, Karmela, 93, 94, 97 Kosovel, Kette, 68n, 108, 110 Kosovel, Srečko, xiii, xiv, 57, 68n, 91, 93, 94-96, 103, 104, 110, 116n, 117 Košuta, Miran, 65, 165-167, 168 Košuta, Miroslav, 60, 65 Kraigher, Loiz, 57 Kraigher, Nada, 66n Kravos, Marko, 60, 66 Kveder (Kvedrova), Zofka, 54 Lafont, Robert, 44, 46, 47, 174 Lareyberette, Jean, 185 Lavrenčič, Aleš, 113 Lebesque, Morvan, 47 Legiša, Lino, 67 Lenin, Il'ič Ul'janov, 18 Leonardo, da Vinci, 71 Leopardi, Giacomo, 70, 87, 118 Levi, Primo, 143, 185 Lévi-Strauss, Claude, xi, 9, 23 Levstik, Franz, 56, 90 Lipovec, Milan, 60, 65, 148 Lippi, Paris, 131 Lokar, Danilo, 58, 66 Lorenz, Konrad, 43 Maeterlinck, Maurice, 107 Magajna, Bogomir, 58, 91, 104, 111 Magris, Claudio, 13, 20, 21, 29, 30, 31n, 68n, 100, 115, 116n, 177, 182, 183 Mallarmé, Stéphane, 105 Manzoni, Alessandro, 163 Marin, Biagio, 136, 137, 182

Martelanc, Saša, 65, 69 Marenzi, Maria Isabella, 80, 90 Martin, Ezio, 185 Marx, Karl, 26 Massimiliano i d'Asburgo, 79 Matičetov, Milko, 67 Matvejević, Predrag, 27, 29, 31n Maurois, André, 135 Maver, Giovanni, 68n Mazzini, Giuseppe, 83, 87, 157 Mehar, Boris, 67 Meister, Girolamo, 87 Meriggi, Bruno, 57, 68n, 116n Merkù, Pavle, 67, 116n, 148n, 183 Mermolja, Ace, 66 Mesić, Stjepan, 178 Mezzena Lona, Alessandro, 183, 199 Mickiévicz, Adam, 70 Miccoli, Giovanni, 141 Michelangelo, Buonarroti, 35, 71 Michelucci, Alessandro, 178 Mijot, Marija, 59, 121 Miklavčič, Franc, 154 Milano, Paolo, 145 Mistral, Frédéric, 42, 175 Mitterand, François, 75 Moissi, Alessandro, 110 Monod, Jacques, 23 Morandini, Michele, 178 Moravia, Alberto, 137, 200 Morin, Edgar, 204 Mounier, Emmanuel, 183 Mounin, Georges, 42 Murn Aleksandrov, Josip, 105 Mušič, Zoran, xiii, 182 Mussolini, Benito, 26, 84 Nabergoj, Ivan, 123 Nadlišek, Marica, 90, 123 Naert, Pierre, 50 Napolitano, Giorgio, 172, 178 Nečajev-Mal’cov, Jurij, 44 Nicolodi, Claudio, 182

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Nietzsche, Friedrich, 96 Nodier, Charles, 108 Novšak, France, 150

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Ocvirk, Anton, 67 Oliva, Gianni, 146n Orazio, Quinto Flacco, xv Pangerc, Boris, 65, 66 Pahor, Boris, ix-xvi, 81, 199, 207, 208 Pahor, Ciril, 200, 201 Pahor, Jože, 57, 66, 74, 91 Paletti, Silvana, 66 Papini, Giovanni, 27, 31n Parmenide, 35 Pascoli, Giovanni, 27, 31n Pasolini, Pier Paolo, 200 Pavese, Cesare, 200 Perizi, Nino 182 Persolja, Aleksander, 66 Pertot, Bruna, 60, 65 Petrarca, Francesco, 69, 71, 137 Philipponeau, Jacques, 47 Picasso, Pablo, 133 Pirandello, Luigi, 61 Pirjevec, Avgust, 67 Pirjevec, Dušan, 67 Pirjevec, Jože, 68n Pirjevec, Marija, 67, 68n Platone, 21 Podrecca, Carlo, 82 Poliaghi, Nora Franca, 115 Pratolini, Vasco, 137 Pregarc, Aleksij, 82 Pregarc, Rade, 82 Pregelj, Ivan, 57 Premrl, Radoslava, 65 Prešeren, France, 70, 87, 103, 105, 135 Pressburger, Giorgio, 177 Pupo, Raoul, 141 Quaglia, Renato, 66 Quasimodo, Salvatore, 137

Raffaello Sanzio, 35, 177, 179 Raimondo vi della Torre Valsassina, 80 Ravnikar, Matevž, 56 Rebula, Alenka, 66 Rebula, Alojz, xv, 29, 59, 60, 64, 65, 68n, 69, 99, 116, 134, 137, 147-149, 150-152, 154, 182, 183 Remec, Alojzij, 66, 147 Renan, Ernest, 95 Ribičič, Josip, 57, 90 Rilke, Rainer Maria, 117 Rimbaud, Arthur, 105, 173 Roatta, Mario, 140, 144 Rob, Ivan, 99 Robotti, Mario, 140 Roth, Joseph, 27 Rumiz, Paolo, 139, 141, 181, 183 Rupel, Mirko, 67 Ruzzante, Angelo Beolco, 61 Saba, Umberto, 15, 27, 87, 91, 122, 182 Saharov, Andrej Dmitrievič, 19 Šalamun, Tomaž, 66 Salimi, Gisèle, 45 Salvi, Sergio, 18, 22, 23, 36, 39n, 44, 45, 51, 89, 175, 177, 78 Salvini, Luigi, 68n, 105, 109, 112, 116n Sardoč, Dorče, 65 Saroyan, William, 59 Sartre, Jean-Paul, 45, 149 Saksida, Rudolf, 152 Schmid, Christian, 56 Schmitz, Hector (Italo Svevo), 157 Schwartz, Egon, 27 Sciascia, Leonardo, 200 Segatti, Paolo, 14 Sérant, Paul, 52 Sfiligoj, Avgust, 65 Shaw, George Bernard, 35 Silone, Ignazio, 137 Širok, Albert e Karlo, 147 Slataper, Scipio, ix, x, 13, 20, 27, 80, 91, 121, 122, 125, 129, 130 Sobiela-Caanitz, Guiu, 52

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Soyinka, Wole, 204 Soljan, Antun, 43 Šorli-Bratuž, Ljubka, 65 Spacal, Lojze, 73, 123, 129, 130, 152, 181, 182 Španger, Vekoslav, 65, 148 Spengler, Oswald, 47, 70, 112 Spinoza, Baruch, 107, 204 Spirito, Pietro, 129 Spranger, Eduard, 52 Stalin, Iosif Džugašvili, 18 Stevens, Chris, 163 Štoka, Jaka, 66 Štrekelj, Karel, 67 Stuparich, Giani, ix, 20 Svetokriški, Janez, 55, 80, 90 Svevo, Italo (Hector o Ettore Schmitz), 15, 27, 31n, 68, 87, 137, 157, 158 Svevo, Letizia, 27, 31n, 157 Tamaro, Attilio,79 Tassin, Ferruccio, 155 Tavčar, Josip, 66 Tavčar, Zora, 65 Thiercelin, Jean-Pierre, 168 Tito (Josip Broz), xv Tiziano, Vecellio, 35 Tomasi di Lampedusa, Giuseppe, 137 Tommaseo, Niccolò, ix Toynbee, Arnold, 47 Trinko, Ivan, 59, 91 Trisolini, Giovanna, 207 Trubar, Primož, xiii, 55, 68n, 79, 87, 89, 101 Tucidide, 35 Tuta, Igor, 60

Verč, Sergij, 65, 66 Verga, Giovanni, 137 Vergerio, Pier Paolo, 55, 78, 89, 101 Verginella, Marta, 171 Verlaine, Paul, 105 Vesel, Jovan, 56, 80, 90 Vico, Giambattista, 47 Vidal, Gore, 23, 24 Vidali, Vittorio, 135 Vidmar, Josip, 148, 152 Virgilio, Publio Marone, 55, 79, 89 Vittorini, Elio, 59, 137, 199-201 Vivante, Angelo, ix, 89, 91, 123 Vojko, Janko, 203 Voghera, Giorgio, 157 Vrabec, Ubald, 148 Vuga, Saša, 66 Vuk, Stanko, 57 Whorf, Benjamin Lee, 42, 43 Wilde, Oscar, 35 Yeats, William Butler, 35 Žabkar, Jodok, 68n Zaccaria, Giuseppe, 181 Zen, Alice, 208 Žerjal, Irena, 60, 65 Žigon, Avgust, 67 Zlobec, Ciril, 66 Zois, Žiga, 55, 90 Zovatto, Pietro, 68, 116 Župančič, Oton, 135

Ukmar, Jakob, 65 Vattimo, Gianni, 28, 31n Valéry, Paul, 47 Valussi, Pacifico, ix Vercors (Jean Marcel Adolphe Bruller), 134, 204

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Indice dei luoghi

Abbazia (Opatija), 149 Arbe (Rab), 117, 140, 155, 156, 172 Aurisina (Nabrežina), 118, 119, 123

Firenze, 18, 22, 35, 39n, 177-180 Fiume (Rijeka), 125 Francoforte, 35, 151

Barcellona, 37 Barcola (Barkovlje), 7, 12, 93, 96, 163 Belgrado, 21, 154 Bengasi, 161-163 Bergen-Belsen, 75, 186 Berenice, 161 Bled, 145 Borgo Grotta Gigante (Briščiki),124 Bruxelles, 23, 130 Buchenwald, 75, 155 Budapest, 93

Garian, 163 Ginevra, 75 Gonars, 140, 145, 155, 156, 172 Gorizia (Gorica), 15, 29, 31n, 63, 64, 66, 81, 82, 90, 91, 173 Grumello, 140, 145, 172 Guardiella (Vrdela), 121

Capodistria, 14, 55, 79, 101 Carniola, 11, 79 Celovec (Klagenfurt), 99, 175 Chiesanuova, 140, 145, 155, 156, 172 Cividale, 81 Contovello (Kontovel), 11, 122 Coroneo, 123 Dachau, 65, 74-76, 155, 185, 186 Derna, 161 Dob, 154 Dora-Mittelbau, 155, 204 Duino (Devin), 7, 12, 55, 69, 80, 90, 111, 117, 125, 148, 163 Dutovlje (Duttogliano), 93

Harzungen, 75, 185, 186 Klagenfurt (Celovec), 99, 175 Kontovel (Contovello), 11, 122 Križ (Santa Croce), 11 Lipizza (Lipica), 125 Londra, 22, 23, 33 Lubiana, xv, 26, 70, 74, 84, 93, 94, 96, 101, 111, 123, 130, 140, 145, 148, 151, 154, 155, 171, 172 Maastricht, 21 Mauthausen, 75, 155 Monigo, 140, 145, 172 Monte Nevoso (Snežnik), 125 Murano, 125

el-Abiar, 162

Nabrežina (Aurisina), 118, 119, 123 Napoli, 93-95, 96 Natzweiler-Struthof, 75, 155, 174, 186

Ferrara, 35

Omegna, 173

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Opatija (Abbazia), 149 Opicina (Opčine), 93 Osimo, 22, 85, 89

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Padova, 162, 181, 183 Parigi, 13, 20, 23, 30, 57, 68n, 81, 91, 150, 151, 153, 174, 179, 199, 201, 207 Patrasso, 134 Pirano (Piran), 178 Postojna (Postumia), 83, 124, 125 Praga, 21, 93 Prosek (Prosecco), 123 Puerto Rico, 33 Rab (Arbe), 117, 140, 155, 156, 172 Renicci, 155, 156, 172 Repen (Rupingrande), 123 Rijeka (Fiume), 125 Risiera, 123 Roiano (Rojàn), 106 Roma, 18, 30, 39, 43, 68n, 85, 116n, 130, 171, 172, 183, 207 Rovereto, 182 Rupingrande (Repen), 123

Trieste, ix-xiii, 11, 13-15, 23-27, 29, 55, 56, 59-61, 63-66, 68, 69, 71, 73, 79, 80-85, 87, 89-91, 96, 101, 104, 106, 109, 110, 111, 115, 116, 118, 122, 124, 129, 131, 137, 139, 151, 172, 175, 178, 185, 187, 199, 207 Tübingen (Tubinga), 55, 79, 101 Udine, 82 Venezia, 35, 55, 80, 90 Vienna, 20, 25, 93, 105, 106, 123, 140 Vilenica, 30, 125 Visco, 117, 140, 145, 155, 156, 172 Vrdela (Guardiella), 121 Zagabria (Zagreb), 93, 94

Salcano, 118 San Canziano (Škocjan), 125 San Pelagio (Šempolaj), 64, 148 Santa Croce (Križ), 11 Šempolaj (San Pelagio), 64, 148 Sežana, 57, 117 Škocjan (San Canziano), 125 Snežnik (Monte Nevoso), 125 Sommariva del Bosco, 55 Steinach, 97 Stoccarda, 87 Strasburgo, 23, 169 Suk el Giuma, 162 Tomaj (Tomadio), 94 Trento, 182 Treviso, 155, 156

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Indice dei periodici

«Le livre slovène», 68 «Le Figaro», 21, 23n «Lettera internazionale», 29, 31n «Letterature di frontiera», 207 «Lettres Européennes», 169 «Limes», 14 «Literarne vaje», 59

«Avvenire», 132n, 140, 146n

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«Brinjevke», 57 «Celovski zvon», 207 «Corriere della Sera», 156, 177 «Corriere di Trieste», 182

«Malajda», 57 «Mladika», 59, 60, 64 «Most», 58, 60, 64, 148, 150-152

«Dan», 64 «Delo», 57 «Dom», 63 «Domača kaplja», 57

«Novi Matajur», 63

«Edinost», 56, 80 «Esprit», 133, 151 «Galeb», 59, 64 «il Gazzettino», xv, 173 «il Giornale della Sera», 94 «Il Piccolo», 129, 139, 172, 183, 208 «Il Ponte», 58, 64, 133, 148 «Il Sole 24 Ore», 130, 172, 204, 208 «Isonzo-Soča», 29, 31n

«Pastirček», 59, 64 «Plamen», 57 «Pretoki», 64 «Preuves», 133 «Primorska», 153 «Primorski dnevnik», 58, 63, 131 «Prostor in Čas», 150 «Quaderni della Resistenza», 141n, 146n «Razgledi», 58, 64, 147, 148 «République des lettres», 101

«Jadranski Slavljan», 56 «Kamov», 43

«Sidro», 58, 64, 148 «Slavljanski Rodoljub», 56 «Stvarnost», 58, 64 «Stvarnost in svoboda», 58, 64 «Südostforschungen», 68

«l’Espresso», 140, 146n «la Bora», 182 «la Repubblica», 177 «La Voce», ix

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«Temps modernes», 133 «Tokovi», 58, 64 «Trieste», 133, 134, 136, 182, 207 «Trieste & Oltre», 208 «Uomini e libri», 207 «Viitorul social», 47

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«Zaliv», 31n, 60, 64, 148, 150, 151, 153, 173, 175, 181, 183

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Collana «I muri bianchi»:

P. Diana, C. Marra, Adolescenti e percorsi di socializzazione alla legalità, 2011.

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M. Carrattieri, A. Morlini, La Cisl a Reggio Emilia. Una storia con lo sguardo rivolto al futuro, 2011. Ethos repubblicano e pensiero meridiano, a cura di F. Frediani, F. Gallo, 2011. S. Biancu, G. Tognon, Autorità. Una questione aperta, 2010. V. De Lucia, Le mie città. Mezzo secolo di urbanistica in Italia, prefazione di A. A. Rosa, 2010. A. Berrini, Nella morsa della crisi. Appunti per un nuovo New Deal, 2010. G. Pasquino, Quasi sindaco. Politica e società a Bologna, 20082010, 2010. M. Aden Sheikh, La Somalia non è un’isola dei Caraibi. Memorie di un pastore somalo in Italia, a cura di G. Boselli, saggi di L. Pedrazzi, P. Pombeni, L. Giorgi, 2009. Libro bianco su Bologna. Giuseppe Dossetti e le elezioni amministrative del 1956, a cura di G. Boselli, saggi di L. Pedrazzi, P. Pombeni, L. Giorgi, 2009. Creare soggetti. In dialogo con Bepi Tomai, a cura di M. Campedelli, 2009. R. Orfei, Il gioco dell’oca. Rapporto sul movimento cattolico italiano, 2009.

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Scritti di metodo polemica politica critica autobiografia narrativa di Boris Pahor testimone e interprete della comunità nazionale slovena di Trieste plurale e fiera emersa all’attenzione internazionale raccolti in questo libro stampato nel carattere Simoncini Garamond a cura di Pde Promozione srl presso lo stabilimento di Legodigit srl - Lavis (TN) per conto di Diabasis nel maggio dell’anno duemila quattordici

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