Scritti di cinema e di vita
 8878702412, 9788878702417

Citation preview

Elio Petri

Scritti di cinema e di vita a cura di

Jean A. Gili

bulzoni editore

ELIO PETRI

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

a cura di

JEAN A. GILI

BULZONI EDITORE

In copertina: Elio Petri batte il ciak sul set di La classe operaia va in paradiso.

TUTTI I DIRITTI RISERVATI

È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941 ISBN 978-88-7870-241-7

© 2007 by Bulzoni Editore 00185 Roma, via dei Liburni, 14 http://www.bulzoni.it e-mail:[email protected]

Indice

11

Jean A. Gili, Elio Petri artista e intellettuale

31

1. «Città aperta» (1957-1958)

31

I germi dell’odio e della speranza: lettera a Pietro Germi

37

Henri Beyle ringrazia

41

La lezione di Calle Mayor

45

Duecentomila lire

50

Non è un luogo comune

53

Il cinema italiano: un elefante castrato

61

Morte di uno scrittore

65

Elia Kazan: una coscienza “boomerang”

78

Intellettuali di paglia

85

2. Il dibattito sul cinema italiano (1962-1982)

85

Inchiesta: I registi degli anni ’60

90

Gioco di squadra e specialità individuali

93

Crisi o vitalità

97

Elio Petri ha fiducia nel cinema italiano

98

Per chi si scrive, per chi si gira

7

INDICE

104

Ci rimproverate, ma non ci avete mai difeso

110

Indifferente la sinistra verso il nostro cinema

115

3. «Nuova cucina» (1980)

115

Apocalisse Now

119

Ogro: pane e frittata, falce e martello

121

Don Giovanni ovvero il bollito alla Dioniso

130

Ex affamati sazii sulla Terrazza

135

La città delle donne

143

Kramer contro Kramer

149

4. Commenti sui propri film (1976-1979)

149

Brevi considerazioni a proposito di A ciascuno il suo e di Todo modo

157 157 168

Todo modo Intervista di Jean A. Gili Intervista di Simon Mizrahi

175 175 180

Le mani sporche La trama delle tre puntate Brevi note, riflessioni preliminari

201

5. Critica d’arte (1979-1982)

201

E per lui facevamo a botte

204

Ragguaglio del guardante 8

INDICE

211

6. Ultimi messaggi (1982)

211 211 224 234

«Perché non ci vediamo mai?». Tre lettere a Giuseppe De Santis Prima lettera Seconda lettera Terza lettera

235

Risposta di Giuseppe De Santis

237

Filmografia

9

Il curatore ringrazia per il loro aiuto Paola Petri e Orio Caldiron, Franco Giraldi, Aggeo Savioli, nonché il compianto Ugo Casiraghi. Un ringraziamento particolare a Roberto Giangrande.

ELIO PETRI ARTISTA E INTELLETTUALE

Vorrei prima di tutto illustrare la specificità di questa raccolta. Con questo lavoro ho inteso rendere omaggio alla memoria di un uomo che ha contato molto nella mia vita. Elio Petri è stato il solo regista col quale abbia stretto una relazione di profonda amicizia, un rapporto quasi fra­ terno, come nei confronti di un fratello maggiore che aveva molto da inse­ gnare e da trasmettere. Nella raccolta ho riunito dei testi pubblicati in riviste oggi difficilmen­ te reperibili, quali «Città aperta» o «Nuova Cucina». Penso che Elio non avrebbe voluto che questi scritti andassero perduti. All’epoca di «Città aperta» non lo conoscevo ancora, ma quando ha cominciato a scrivere per «Nuova Cucina» mi inviava regolarmente i numeri della rivista, per esse­ re sicuro che qualcuno li apprezzasse e ne prendesse cura e che forse, un giorno, desse loro nuova vita raccogliendoli in un volume. Dell’ultimo articolo mi ha inviato una fotocopia, poiché non aveva potuto farmi avere il numero della rivista. Gli scritti sul cinema italiano sono tratti da diverse pubblicazioni, anch’esse di non facile reperibilità. Per parte mia, ho sollecitato alcuni testi raccolti nel capitolo dedicato agli scritti sui film. Avevo chiesto a Petri di scrivere per la rivista «L’Arc», che stava preparando un fascicolo monografico su Leonardo Sciascia. Conservo ancora il testo originale, battuto a macchina sui fogli gialli che utilizzava per la corrispondenza e per gli scritti, un testo pieno di cancellature e di ripensamenti, giacché ci teneva a formulare il pensiero nel modo più preciso possibile1. Così pure l’intervista su Todo modo - risposta scritta a una serie di domande -, altro documento eccezionale pieno di cancellature e di aggiunte a mano al testo dattiloscritto. Petri aveva una passione per la scrittura, e per la sua dimen­ sione artigianale. Scriveva a macchina sui bei fogli gialli acquistati alla car-

1 Queste pagine sono riprodotte anastaticamente in Jean A. Gili, Elio Petri/Leonardo Sciascia, «Bianco & Nero», Ì-2, gennaio-febbraio 2006, pp. 167-177.

11

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

teleria Zampini di via Angelo Brunetti, poi aggiungeva a mano le corre­ zioni, con pennarelli colorati, per chiarire meglio il proprio pensiero o correggere qualche affermazione. In questo senso, i manoscritti del regi­ sta sono documenti particolarmente commoventi. I testi scritti per i lettori francesi e l’intervista con Simon Mizrahi su Todo modo, della quale possiedo - non ricordo per quale via - una copia dattiloscritta, sono inediti in italiano. Scritto per l’ufficio stampa della Rai, lo straordinario testo sull’adatta­ mento di Le mani sporche di Sartre, del quale mi inviò una copia, mostra la medesima attenzione a mantenere il filo del pensiero. Questo testo importante avrebbe dovuto essere già da tempo pubblicato in un libro o in una rivista. Invece ha rischiato di essere definitivamente dimenticato negli archivi Rai o tra le carte dei giornalisti che l’hanno ricevuto e, forse, non l’hanno neppure conservato. La copertina della cartellina stampa è illustrata da un’acquafòrte di Renzo Vespignani, consigliere artistico per l’adattamento di Petri, un’incisione inquietante che rappresenta due mani, una nodosa e scura in alto, l’altra affilata e chiara in basso, come se la nodosa - la mano sporca - minacciasse la liscia - la mano pulita. Le lettere a Giuseppe De Santis sono anch’esse inedite - salvo alcuni brevi stralci pubblicati sui «Quaderni del Lumière», la rivista della Cineteca del Comune di Bologna. Si tratta di documenti eccezionali for­ niti da Franco Giraldi, che mi ha autorizzato a riprodurli. Questo volume non sarebbe stato possibile senza l’aiuto e la disponi­ bilità di Roberto Giangrande, autore di una tesi di laurea su Elio Petri, che ha assicurato la scansione dei testi, li ha riletti con grande attenzione e ha preparato il manoscritto definitivo.

Elio Petri è conosciuto come regista e artista, ma l’impegno degli anni del dopoguerra, fino all’inizio degli anni Ottanta, ha fatto di lui anche un intellettuale, un uomo che ha riflettuto molto sul suo lavoro, e sul rap­ porto di quest’ultimo con il contesto socio-politico. In un ritratto del regi­ sta realizzato nel 2005 - Elio Petri. Appunti su un autore, di Federico Bacci, Stefano Leone e Nicola Guamieri -, Francesco Maselli definisce Petri un intellettuale unico, «un uomo di cultura, di intelligenza, un appassio­ nato di arti figurative», un uomo disposto a mettere in discussione la poli­ tica culturale del partito comunista: «Era un intellettuale più di tutti noi». Petri partecipa ai dibattiti che agitano il paese utilizzando tutte le risorse dello spettacolo - il grottesco, l’espressionismo, il discorso indi­ 12

ELIO PETRI ARTISTA E INTELLETTUALE

retto. Nel leggere il libro Roma ore 11, pubblicato nel 1956, si percepisce immediatamente che egli non ha cercato semplicemente di raccogliere del materiale per girare un film, ma che ha condotto un’autentica inchiesta sociologica, una sorta di spaccato degli strati popolari della società italia­ na negli anni del dopoguerra. Un’esperienza analoga la ripeterà per la pre­ parazione di Giorni d’amore. Petri ha scritto numerosi testi critici, gli piaceva scrivere sui film degli altri e sui suoi film. Era inoltre appassionato di pittura, come Valerio Zurlini, e ha redatto dei testi sensibili sulle arti figurative. Il suo lavoro sulla forma si ispirava direttamente alla pittura: i tedeschi della corrente espressionista, Otto Dix innanzi tutto, ma anche George Grosz, poi i pit­ tori americani, Robert Rauschenberg, Jasper Johns e il più giovane Jim Dine, che fornì la sua consulenza per la gestualità del pittore di Uw tran­ quillo posto di campagna. D’altra parte non si può dimenticare la stretta amicizia che univa Petri a Renzo Vespignani, un legame che portò il regi­ sta ad intervenire nel dibattito sul realismo. Qui si troverà uno scritto su Picasso e uno su Bonchi; esistono sicuramente altri testi che però non abbiamo ritrovato: pare, ad esempio, che Petri abbia redatto una presen­ tazione per una mostra organizzata dal MoMA di New York. Petri amava l’analisi sottile, argomentata, sviluppata attraverso il con­ fronto con altri intellettuali. Per il suo conversare chiaro e preciso, che uti­ lizzava concetti e osservazioni concrete, riferimenti cinematografici e osservazioni ricavate dalla letteratura, dalla filosofia e dalla psicoanalisi, intervistarlo era un vero piacere. Petri era un grande lettore. Un autodi­ datta che aveva interrotto gli studi prima della maturità. Si era costruito intellettualmente grazie ad intense letture, così come non aveva mai fre­ quentato una scuola di cinema e si era formato vedendo molti film. Nel dopoguerra fece pratica sul campo: «Allora il cinema mi interes­ sava già molto: vedevo anche tre film al giorno; faccio parte della prima generazione veramente cinematografica. In fondo, noi non abbiamo avuto bisogno di scuole tecniche: la grammatica e la sintassi le conoscevamo istintivamente a forza di essere spettatori»2. La stessa cosa vale per la for­ mazione intellettuale, fatta di letture precoci e di un’intelligenza sveglia e pronta a mettere a frutto le conoscenze acquisite e le idee nuove.

2 Intervista, in Jean A. Gili (sous la direction de), Elio Petri, Université de Nice, 1972, p. 22.

13

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

Appassionato di politica, Elio Petri si iscrive al partito comunista dopo la guerra, nel 1946 - a diciassette anni (è nato nel 1929) -, e aderisce alla Federazione giovanile. Si occupa in particolare di cineclub e firma qual­ che articolo per il periodico «Gioventù nuova». Appassionato di cinema, è profondamente segnato da film come Ossessione e Roma città aperta. Scopre il film di Rossellini nel settembre 1945, in occasione del festival organizzato per sottolineare la ripresa dell’attività culturale nella capitale. Partecipa alle proiezioni e ai dibattiti del Circolo romano del cinema fon­ dato da Cesare Zavattini. Nel 1950, fattosi senza dubbio notare per la sua intelligenza, viene chiamato a collaborare a «l’Unità», come vice di Tom­ maso Chiaretti. Le ricerche condotte negli archivi del giornale, seguendo i consigli degli ex collaboratori del quotidiano Ugo Casiraghi e Franco Giraldi, quest’ultimo successore di Petri come assistente di Chiaretti, non hanno permesso di ritrovare i testi del regista, che d’altra parte erano fir­ mati - come d’uso in quell’epoca - con il termine anonimo di «vice».

Roma ore 11

L’attività critica sfocia in una prima esperienza cinematografica: l’in­ chiesta preparatoria per Roma ore 11 di Giuseppe De Santis, che Petri ha conosciuto tramite Gianni Puccini. Ricordiamo rapidamente i fatti. Il lunedì 15 gennaio 1951 ha luogo l’incidente di via Savoia 31: una rampa di scale crolla sotto il peso di un centinaio di giovani donne accorse per un’offerta di lavoro. L’incidente causa numerosi feriti, una delle giovani donne muore per le conseguenze delle lesioni. A quell’epoca Elio Petri è un giovane di ventidue anni che ha una lunga esperienza di operatore culturale per il partito comunista. Come ab­ biamo già ricordato, nel 1950 è il «vice» di Tommaso Chiaretti a «l’Unità» (Franco Giraldi gli succede nel 1951-52). Nella postfazione al libro Roma ore 11 nell’edizione del 2004, Carlo Lizzani ricorda che a Genova, nel 1950, durante le riprese di Achtung! Banditi!, Petri ha il compito di tra­ sportare i fondi: per tre volte il giovane porta da Roma il denaro della Lega delle Cooperative che servirà a condurre a termine le riprese3.

5 Elio Petri, Roma ore 11, Palermo, Sellerio, 2004, p. 187.

14

ELIO PETRI ARTISTA E INTELLETTUALE

Nel maggio 1951, quattro mesi dopo l’incidente di via Savoia, viene affidato a Petri il compito di condurre un’inchiesta per capire meglio i motivi che hanno condotte le giovani donne presenti al momento dell’in­ cidente ad affluire così numerose. È stato Cesare Zavattini a consigliare un’inchiesta, per arricchire il materiale a disposizione degli sceneggiatori. Petri viene scelto nonostante la giovane età: De Santis dice che era «quasi un ragazzo». Petri si mette subito al lavoro e fornisce il materiale man mano. De Santis sottolinea l’importanza dell’inchiesta nella preparazione del film: la sceneggiatura definitiva viene scritta nei mesi successivi e, dati i risultati dell’inchiesta, Petri è invitato a collaborare alla sceneggiatura (ma non viene accreditato nei titoli di testa). Questa collaborazione è decisiva per la successiva carriera del giovane: per alcuni anni Petri collaborerà regolarmente con De Santis. Le riprese di Roma ore 11 hanno luogo nell’autunno 1951: Elio è il secondo assistente alla regia a fianco di Basilio Franchina. Il 27 febbraio 1952 il film esce in sala. Roma ore 11 è attaccato dura­ mente da «Il Tempo». Anche la critica di sinistra fa qualche riserva. Su «Cinema» (15 marzo), Guido Aristarco parla di schematismo. Il successo non arride all’opera. Nonostante il soggetto scottante e il richiamo di numerosi attori noti (Lucia Bosé, Carla Del Poggio, Elena Varzi, Delia Scala, Lea Padovani, Raf Vallone, Massimo Girotti, Paolo Stoppa), il film realizza un incasso modesto: 270 milioni di lire (in autunno esce Tre sto­ rie proibite di Augusto Genina sullo stesso argomento e, benché medio­ cre, il film realizza un incasso di 371 milioni di lire). Roma ore 11 ottiene come unico riconoscimento un nastro d’argento per la musica (Mario Nascimbene) ! Inoltre è escluso per ragioni politiche dalla selezione italia­ na a Cannes. Quell’anno la selezione è di una ricchezza eccezionale: Umberto D. di Vittorio De Sica, Il cappotto di Alberto Lattuada, Guardie e ladri di Steno e Monicelli, Due soldi di speranza di Renato Castellani. Il film di Castellani, che riscuote i maggiori consensi, ottiene la palma d’oro ex-aequo con Otello di Orson Welles. Anche il film di Steno e Monicelli guadagna un riconoscimento con il premio alla sceneggiatura a Piero Teliini. Inoltre l’Italia ottiene una menzione speciale della giuria per la migliore selezione. Qualche anno dopo, Petri rielabora il materiale dell’inchiesta in un libro. Roma ore 11 viene pubblicato nel 1956 nella collezione «Il gallo», collana Omnibus, n° 27, per le Edizioni Avanti! (Milano-Roma). fl volu­ me contiene una prefazione di Giuseppe De Santis e una lettera di Cesare 15

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

Zavattini spedita da Cuba (quest’ultima non compare nella riedizione di Sellerie del 2004). Zavattini sottolinea con vigore l’utilità dell’inchiesta come mezzo conoscitivo della realtà: «Beato te, caro Petri, che a poco più di vent’anni in queste cose ti ci sei calato dentro con tanta naturalezza; io all’inchiesta come esigenza morale numero uno ci sono arrivato molto tardi, verso la cinquantina, quasi da vecchio; perché la mia generazione ha avuto una specie di paura a stabilire questi contatti sentendo che in fondo ci poteva trovare il bisogno di mutare tante cose, forse tutto. La mia gene­ razione aveva paura che la fantasia appesantisse le sue ali con questi dati, con queste cifre, questo stenografare, dattilografare, pedinare, domanda­ re, rispondere; invece proprio le dette indagini che obbligano a un orario diverso della propria giornata, delle proprie abitudini, che spostano la prospettiva anche pratica della nostra giornata, spingono la fantasia per direzioni diverse e non la si chiama più nemmeno fantasia, che cosa importa?, non la si chiama più neanche arte. Viviamo in quest’altro modo e dopo troveremo il nome delle cose che nasceranno»4. Il volume pone alcuni interrogativi ai quali non è facile rispondere: - perché il libro è pubblicato cinque anni dopo l’inchiesta e quattro anni dopo l’uscita del film? - perché è pubblicato dalle Edizioni Avanti! e non da una casa editri­ ce comunista, Editori Riuniti ad esempio, che in quegli anni pubblica il libro di Lizzani sul cinema italiano? L’indipendenza di Petri nel partito è già troppo avvertita? - nell’ottobre 1956 i carri armati russi invadono l’Ungheria, l’evento provoca una serie di reazioni nel partito: si manifestano alcuni dissidenti tra cui Petri, che firma il manifesto dei 101 e partecipa alla creazione, nel 1957, di «Città aperta». Nel 1958, Petri non rinnova la tessera del partito comunista (secondo la testimonianza di Paola Petri, il partito avrebbe vivamente «consigliato» ai contestatari di non riprendere la tessera). - in che misura l’inchiesta viene ri-elaborata per essere presentata in un libro? Si tratta evidentemente di un’opera ben scritta, dove Petri allinea con cura i ritratti degli intervistati e dà loro il più possibile la parola, donde l’uso frequente di espressioni «romanesche» nelle risposte. Si può imma­

4 Cesare Zavattini, Prefazione a Elio Petri, Koma orc 11, Milano-Roma, Edizioni Avanti!, 1956, p. 14.

16

ELIO PETRI ARTISTA E INTELLETTUALE

ginare la diffidenza e la sorpresa nei confronti dell’intervistatore, che, come afferma lo stesso Petri, non si presentava come un assistente alla regia che preparava un film, ma si faceva invece passare per un giornali­ sta o uno scrittore in cerca di materiale per un romanzo. Il vecchio padre di due ragazze intervistate, ad esempio, ha detto incredulo al giovane intervistatore: «Almeno speriamo che un milione lo guadagni il signorino, con tutto ‘sto romanzo che sta facendo su di voi...» Ecco, in quegli anni, Elio era ancora un signorino! Forse lo è rimasto per sempre. Qualche anno dopo, quando Giuseppe De Santis si dedica alla prepa­ razione di Giorni d'amore, affida di nuovo a Petri il compito di condurre un’inchiesta, questa volta a Fondi sul contesto sociologico e culturale della città ciociara. L’inchiesta, di cui si ignorava l’esistenza, è stata ritro­ vata tra le carte di De Santis e oggi compare nel volume dedicato al film5. ^inchiesta di Elio Petri, lunga e dettagliata - una cinquantina di pagine fitte che potrebbero costituire un volume autonomo -, è suddivisa in una serie di ritratti di coppie costrette a fuggire per poter compiere «l’irrepa­ rabile» e sposarsi senza l’obbligo - particolarmente oneroso - di una ceri­ monia in piena regola: Davide e Santina, Fortunato e Ida, Francesco e Teresa, Edmondo e Elvira, Alessandro e Immacolata, Onoratine e Egidia, Giovannino e Carmina, sono bei racconti di vita ottenuti dagli stessi pro­ tagonisti, e forniranno il materiale romanzesco, ricco di osservazioni autentiche, per costruire la storia di Pasquale (Marcello Mastroianni) e Angela (Marina Vlady). Il film è dedicato alle coppie che hanno dovuto affrontare tali difficoltà: «A tutte quelle ragazze e a tutti quei giovani che per realizzare un loro sogno riescono a sposarsi attraverso vicende peno­ se e spesso paradossali». L’analisi dell’inchiesta di Petri mostra che, anche in questo caso, si tratta di un testo molto elaborato, che fornisce un’incredibile quantità di informazioni sulla società rurale italiana degli inizi degli anni Cinquanta e che contiene persino il calcolo dettagliato del denaro necessario per spo­ sarsi con dignità quando si è molto poveri, somme da capogiro poiché bisogna pensare alla dote, al vestito, alla sarta, alla cerimonia religiosa, al pranzo di nozze per almeno centocinquanta persone.

5 Giovanni Spagnoletti, Marco Grossi (a cura di), Giorni d’amore. Un film di Giuseppe De Santis tra impegno e commedia, Torino-Fondi, Lindau-Associazione Giuseppe De Santis, 2004, pp. 103-152.

17

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

«Città aperta» Nel 1957, Elio Petri partecipa alla creazione di una rivista comunista dissidente. La rivista nasce nel contesto dell’occupazione dell’Ungheria dalle forze del patto di Varsavia e del XX Congresso del Partito comuni­ sta dell’Unione sovietica, che segna l’inizio della destalinizzazione. Ricor­ diamo che dopo la rivolta d’Ungheria che comincia il 23 ottobre 1956 e l’intervento dell’esercito sovietico, il 29 ottobre centouno intellettuali comunisti - prova del disaggio di numerosi intellettuali e artisti iscritti al partito - rivolgono un appello al comitato centrale del PCI affinché i par­ titi comunisti si pongano alla testa dei movimenti popolari per il rinnova­ mento; criticano i metodi coercitivi e illiberali dello stalinismo e nei rap­ porti tra Stati e partiti; ritengono calunniosa la definizione di «putsch con­ trorivoluzionario» data da «l’Unità» alla rivolta ungherese. Aderiscono, tra gli altri, Carlo Muscetta, Natalino Sapegno, Delio Cantimori, Mario Socrate, Renzo Vespignani, Dario Puccini, Vezio Crisafuli, Giorgio Can­ deloro, Paolo Spriano, Luciano Cafagna, Lucio Colletti, Renzo De Felice, Elio Petri, Mario Tronti, Alberto Asor Rosa, Alberto Caracciolo, Antonio Meccanico. Si può notare la firma di futuri collaboratori di «Città aperta». Petri collabora regolarmente a «Città aperta» durante i due anni di esi­ stenza della pubblicazione (la sua firma manca in un solo fascicolo). Il direttore è Tommaso Chiaretti e la redazione è composta da Ugo Attardi, Luca Canali, Piero Moroni, Marcello Muccini, Elio Petri, Dario Puccini, Gianzio Sacripante, Mario Socrate, Renzo Vespignani (notiamo la pre­ senza dei pittori Attardi, Muccini, Vespignani, membri del circolo dei pit­ tori «figurativi» e di Dario Puccini, uno dei tre fratelli Puccini). La rivista viene creata in condizioni difficili. Callisto Cosulich annota: «Dopo ripe­ tuti divieti, Mario Alicata, responsabile culturale del partito, diede il per­ messo alla sua uscita con la condizione che, a dirigerlo, fosse Tommaso Chiaretti, allora redattore dell’“Unità” che si occupava soprattutto di cinema. In definitiva, alla chiusura della pubblicazione, Chiaretti sarà radiato, mentre i redattori più coinvolti, Petri, i pittori Ugo Attardi e Renzo Vespignani, i letterati Dario Puccini e Mario Socrate, il filosofo Luca Canali, non rinnoveranno la tessera»6. 6 Callisto Cosulich, Germi, Petri e l’impero del male, in «Bianco & Nero», 1, gennaiomarzo 1998, p. 73. Segue la riproduzione dell’articolo di Petri pubblicato su «Città aper­ ta», / germi dell’odio e della speranza.

18

ELIO PETRI ARTISTA E INTELLETTUALE

La rivista ha molteplici interessi: letteratura, pittura, architettura, cinema, senza contare i numerosi interventi nel dibattito intellettuale sul­ l’ideologia marxista. Le allusioni alla situazione ungherese non sono rare; il periodico si schiera persino dalla parte di alcuni compagni che hanno già abbandonato il partito in segno di protesta: «Si tratta talvolta di uomi­ ni che erano e restano degni della nostra stima» (articolo anonimo nel numero 1). Nell’articolo firmato «Città aperta», e pubblicato sulla prima pagina del primo numero accanto ad un’acquafòrte di Vespignani (che fornisce numerose illustrazioni alla pubblicazione), si legge: «Ci presen­ tiamo, come d’uso. Siamo un gruppo di intellettuali che si ritengono impegnati nel rinnovamento sociale, morale e culturale del nostro Paese, mossi dall’ideale socialista, non inquinato da compromessi riformistici; decisi a combattere l’arretratezza dell’attuale società capitalistica italiana, le nebbie feudali del clericalismo, le varie manifestazioni del conformi­ smo. Vogliamo fare un foglio “di tendenza”. Tendenza è per noi, anzitut­ to la misura ed il limite delle nostre intenzioni e ambizioni. Noi non pre­ tendiamo, cioè, di rappresentare tutta la cultura “engagée”, né una gene­ razione; non pretendiamo di essere un ponte tra vecchi e giovani. Ma “tendenza” significa anche, per noi, un modo particolare di affrontare e discutere i temi e i problemi del nostro tempo. Crediamo di essere inseri­ ti nel moto di rinnovamento morale e culturale del Paese. [...] Vogliamo esercitare una critica costante e militante per la elaborazione e la difesa di una nostra poetica: siamo, cioè, dalla parte del movimento realista nelle arti, nel cinema, nella letteratura, ma cercheremo di contribuire acciocché esso si purifichi di tutte le degenerazioni e le mistificazioni populistiche o folcloristiche. Facciamo nostro l’ideale del progresso civile e tecnico, quello della civiltà industriale, ma ne respingiamo tutte le idolatrie mec­ canicistiche e tutti gli incubi ossessivi». La rivista concepita come «Quindicinale di cultura» esce con cadenza irregolare. Da maggio a luglio 1957 viene pubblicata con continuità, poi la frequenza si dilata fino a diventare bimestrale e la pubblicazione termi­ na nel luglio 1958 (sette numeri in tutto, mentre, tenuto conto della perio­ dicità annunciata, la rivista avrebbe dovuto pubblicare trenta fascicoli). Petri vi pubblica nove testi. Alcuni riguardano un regista (Germi, Bardem, Kazan), ma la maggior parte sono scritti che riflettono sul cinema e sull’impegno politico. C’è anche un testo, Duecentomila lire, che costitui­ sce un racconto (autobiografico?) sulla difficoltà di uno sceneggiatore di farsi pagare dal produttore. Nel fare il bilancio della collaborazione del

19

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

regista a «Città aperta», Roberto Giangrande scrive nella sua tesi di lau­ rea: «Questa esperienza nata in un clima di così forte tensione tra intel­ lettuali e Partito Comunista, rappresenta in maniera esplicita, la volontà di alcuni intellettuali di aprire un libero dibattito, anche non in linea con l’indirizzo togliattiano. Petri vivrà in prima persona questa frattura, ricor­ dandola come una perdita delle illusioni, perdita che gli fece comprende­ re l’importanza e la necessità di un dibattito il più possibile libero e indi­ pendente da schemi ideologici. La rivista non si schiera in opposizione al partito ma ben presto la frattura si fece insostenibile ed Elio, assieme ad altri colleghi, anche a causa dell’opposizione di Alicata, non rinnova la tessera del Partito: è il 1958»7. In quelli anni, Petri, dopo la collaborazione a Roma ore II, sviluppa un’attività regolare di sceneggiatore e di aiuto regista. Lo vediamo sopra­ tutto impegnato con Giuseppe De Santis dal quale diventa un collabora­ tore fisso. Per La strada lunga un anno di De Santis e per 11 gobbo di Carlo Lizzani troviamo alla sceneggiatura anche Mario Socrate, uno dei redat­ tori di «Città aperta». Il direttore della rivista, Tommaso Chiaretti, com­ pare nei titoli di testa di L'impiegato di Gianni Puccini e di Le notti dei teddy boys di Leopoldo Savona. Ovviamente, Petri sviluppa una rete di amicizie nell’ambiente cinematografico: Gianni Puccini, Tonino Guerra, Cesare Zavatttini, Marcello Mastroianni. Sceglierà il fratello dell’attore come montatore per tutti i suoi film.

Il dibattito sul cinema italiano Il 1960 è una data cardine nella carriera di Elio Petri: è l’anno del pas­ saggio alla regia. Dopo essersi esercitato con due cortometraggi, Petri gira il primo lungometraggio, ^assassino, in parte grazie all’aiuto e alla fiducia dell’amico Marcello Mastroianni, diventato star intemazionale con il suc­ cesso di La dolce vita. Parallelamente all’attività di regista, che ormai lo occuperà per la mag­ gior parte del tempo, Petri interviene spesso nell’eterno dibattito sulla situazione del cinema italiano. I testi e le risposte alle inchieste mostrano

7 Roberto Giangrande, Il cinema politico di Elio Petri, tesi di laurea, relatore Orio Caldiron, Università di Roma “La Sapienza”, 2002, p. 105.

20

ELIO PETRI ARTISTA E INTELLETTUALE

l’attività del regista in difesa di una certa idea di cinema. Nel 1962, rispon­ de a un questionario pubblicato nel libro annuale curato da Vittorio Spinazzola Film 1962 e, nel 1964, commenta lo sviluppo del cinema ita­ liano sulle pagine di «Cinema 60». Trattenuto dalle riprese di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, nel 1968 Petri non va Venezia. E l’anno della violenta contesta­ zione dei registi italiani contro la Mostra, contestazione portata avanti da Pier Paolo Pasolini - che tentò di opporsi alla proiezione di Teorema - e da Zavattini, che animava i dibattiti e fu espulso manu militari dal palaz­ zo del cinema. Dopo aver tentato di temporeggiare, Luigi Chiarini rende le armi. A Roma si riunisce Un’Assemblea del cinema italiano alla quale aderiscono numerosi sindacati. Il Centro Sperimentale di Cinematografia è occupato. La stampa titola: Occupazione «politica» del Centro Sperimen­ tale di Cinematografia. In una grande aula della scuola si tengono discus­ sioni infiammate: tra i partecipanti notiamo la presenza di Pasolini ma anche di Petri - in un documento dell’istituto Luce lo si vede intervenire con foga -, di Bernardo Bertolucci, di Marco Bellocchio, degli sceneggia­ tori Sergio Amidei e Ugo Pirro. Nel 1971, Petri presenta La classe operaia va in paradiso al festival «Il Cinema Libero» di Porretta Terme. Dopo la proiezione, alla serata di chiusura, vi è una discussione burrascosa con i giovani contestatori che rimproverano a Petri di adottare una posizione riformista e rinunciataria e propongono di bruciare le pizze del film. Pio Baldelli - uno dei rari cri­ tici che fa sentire la propria voce - lo considera un film reazionario e fasci­ sta, un film controrivoluzionario che bisognerebbe distruggere immedia­ tamente. In Francia, «Les Cahiers de la Cinémathèque» fanno eco agli scontri. Vi si legge l’intervento di un militante di Lotta Continua: «Vorrei citare due fatti concreti per dare un punto di vista globale sull’aspetto rea­ zionario del film. Negli stabilimenti Pirelli, Fiat..., nel ’68-’69 sono nate delle avanguardie. Queste avanguardie (ed è su questo precisamente che critico il film) non si sono sviluppate in seguito alla crisi di un individuo in particolare, ma sono state prodotte dalle contraddizioni interne all’in­ dustria, fomentate da persone organizzate autonomamente. Il film nega fino in fondo tutto quel che è successo nelle fabbriche, e che ha rivelato le potenzialità della classe operaia. In Europa, in Francia, in Inghilterra e in Germania, ci considerano all’avanguardia. Il film dovrebbe esprimere questo e, fatti salvi gli ultimi 20 minuti, ci riesce. Avrei voluto che gli ulti­ mi 20 minuti esprimessero la polemica interna oggi esistente tra le avan­

21

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

guardie operaie e il sindacato che recupera completamente la sinistra. Ecco quello che manca al film. Per questo è profondamente reazionario. [...] Il film è il prodotto di una politica riformista e, quel che è più grave, produce un’ideologia fascista»8. Petri rimprovera ai critici presenti di non averlo difeso e di averlo lasciato da solo ad affrontare un pubblico ancorato a un approccio sba­ gliato al film e accecato dai pregiudizi politici che contraddistinguono l’e­ strema sinistra di quegli anni. Torniamo al festival di Venezia: nel 1969 e 1970 si svolge, sotto la dire­ zione di Ernesto G. Laura, una mostra in tono minore. Ma la contesta­ zione è solo sopita: nel 1972, in opposizione alla manifestazione ufficiale, diretta dal 1971 da Gian Luigi Rondi, nascono, per iniziativa delle asso­ ciazioni d’autori (Anac, Aaci), le «Giornate del cinema italiano» che si svolgono non al Lido ma a Venezia, a campo Santa Margherita e in varie sale della città. In quest’occasione vengono presentati Nel nome del padre di Marco Bellocchio, La cagna di Marco Ferreri, Corpo d'amore di Fabio Carpi, Trevico-Torino di Ettore Scola. Nel 1973, la manifestazione acqui­ sta maggior rilievo poiché, data l’adozione tardiva del nuovo statuto della Biennale, la mostra è annullata (riprenderà nel 1974 diretta da Giacomo Gambetti). La sera, il pubblico affolla le proiezioni all’aperto di campo Santa Margherita. Le sale della città sono troppo piccole per accogliere tutti i potenziali spettatori. Tra i numerosi film presentati (un centinaio di varie nazionalità) vi sono: Una breve vacanza di Vittorio De Sica, Il delit­ to Matteotti di Florestano Vancini, La villeggiatura di Marco Leto, San Michele aveva un gallo dei fratelli Taviani, Qmicron di Ugo Gregoretti, La città del sole di Gianni Amelio, La vita in gioco di Gianfranco Mingozzi, une scelta di “giornalieri” delle Mille e una notte di Pier Paolo Pasolini, La proprietà non è più un furto di Elio Petri. Il film di Petri non è ben accolto dalla stampa. Una recensione molto sfavorevole, pubblicata prima della proiezione del film da un giornalista che lo aveva visto qualche mese prima a Berlino, provoca un autentico incidente: «Francesco Savio - precisa Petri - era all’origine della polemi­ ca al festival di Berlino. Vedendo La proprietà non è più un furto, ha detto “Spero che non sarà mai proiettato in Italia”. Capisce? “Spero che questo film disastroso non sarà mai presentato al pubblico italiano”. E pazzo -

8 «Les Cahiers de la Cinematheque», 5, inverno 1972, pp. 65-66.

22

ELIO PETRI ARPISTA E INTELLETTUALE

per altro è una brava persona, un borghese illuminato -, ma è anche un monomaniaco, uno snob. Io, al contrario, credo nello spettacolo popola­ re. Il mio film deve essere visto in mezzo a gente che ride, che piange, che discute del film»9. Di fatto, a Venezia, una discussione infiammata segue la presentazione del film al pubblico: «Durante le discussioni - nota Andrée Tournès - si trattava sempre di escludere, condannare, o di stabi­ lire “un’inquisizione” come proponeva un’anima buona a proposito di un film di Tinto Brass. Il settarismo non era morto, la parola liberata serviva prima di tutto a giudicare e a condannare»1011 . Sconcertato dalle reazioni di un pubblico aggressivo, Petri commenta a caldo e giustifica le sue scelte estetiche: «Forse è giunto il momento di rinunciare semplicemente a fare cinema. Per qualcuno come me, che fa film per il grande pubblico, la struttura drammatica tradizionale è la formula più semplice e forse anche la più facile. Concessioni al pubblico? Francamente non credo, mi sento io stesso parte di questo pubblico. [...] A me piace lo spettacolo. Ho letto Guy Debord e La società dello spettacolo. Ma se si imbocca questa strada, bisogna distruggere tutto quello che ci circonda. Tutto è spettacolo: una vetrina, un’andatura, una maniera di guardare, di vestirsi. L’uomo, è l’uo­ mo che ama lo spettacolo. Accettare lo spettacolo significa accettare la propria condizione»11. Petri esprime il suo punto di vista in un’aggressiva intervista a Lietta Tomabuoni. Qualche settimana dopo, a Ferrara, un congresso tra critici e registi non permette di superare l’aspra polemica. Questi eventi porte­ ranno Petri ad aver rapporti quasi sempre conflittuali con la critica italia­ na, egli non si è mai sentito capito e difeso da coloro che avrebbero dovu­ to comprendere il senso del suo lavoro. Qualche anno più tardi, nel feb­ braio 1976, durante le riprese di Todo modo, rifiuta in anticipo di presen­ tare il film alla critica: «Il modo in cui è stato accolto La proprietà non è più un furto mi ha indignato. Ma in fondo, non sono il solo in questa situa­ zione. Ogni tanto leggo la critica sui quotidiani o sulle riviste specializza­ te, e vedo che a volte i critici prendono delle cantonate spaventose. Sviluppano idee sterili. Difendono posizioni aristocratiche e ne risulta uno sfasamento continuo. L’accoglienza riservata a Salò di Pasolini mi ha 9 Intervista, in Jean A. Gili, Elio Petri et le cinema italien, Annecy, Rencontres du cinéma italien, 1996, p. 15. 10 «Jeune Cinema», 74, novembre 1973, p. 8. 11 Ivi, p. 22.

23

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

convinto che la critica italiana aveva fatto il suo tempo. Quando Pasolini è morto i critici sono corsi immediatamente a vedere il film, qualche ora dopo la morte. Già questo indica il carattere giornalistico di certe posi­ zioni. Quindi si sono affrettati a scrivere. E hanno fatto contemporanea­ mente la vivisezione del film e dell’uomo Pasolini. Hanno confuso la vita di Pasolini con il film, un’operazione ignobile, veramente ignobile [...]. Salò è un film magnifico che nessuno ha capito. Hanno fatto di tutto per non capirlo. Perché chiaramente non volevano accettare un film così puro nella sua provocazione, e così poco provocatorio nella sua purezza. Pasolini pensava di fare un film provocatorio ma in realtà ha fatto un film estremamente poetico; che è provocatorio solo perché poetico. Non pote­ va essere capito da persone così bassamente moraliste, moralizzatrici, così legate alla posizioni della morale piccolo-borghese»12. Ricordiamo che nel febbraio 1975 Petri è invitato a Perpignan per pre­ sentare una retrospettiva dei sui film all’istituto Jean Vigo - in effetti, il regista è stato spesso capito meglio in Francia che in Italia. Nel libro d’oro scrive due brevi testi per Marcel Oms, direttore dell’istituto, due testi che mostrano tutta la sua sensibilità, la modestia e l’attenzione ai rapporti umani: «La tua Perpignano ha un solo grande difetto: vi si parla troppo di me. Non mi sento a mio agio quando si parla di me. E venire da Roma, fin qui, nella tua Perpignano, per sentire parlare di me, è un po’ ango­ scioso, rivela ancora una volta a me stesso le mie debolezze, ma anche una forte debolezza (se così posso dire) del mestiere del cinema, di chi lo fa, e, più in generale, di coloro che s’occupano di idee, di immagini, di ideeimmagini; si diventa un poco dei commessi viaggiatori di se stessi, delle proprie idee, delle proprie immagini. Questo sentirsi qualcuno che fa - in qualche modo - pubblicità a se stesso ed a quanto si ha di più geloso gene­ ra certamente imbarazzo, amarezza. Per quanto io abbia fatto e faccia, aiutato, per di più, dalla tua amicizia, dalla tua intelligenza, dal tuo calo­ re, io non riesco a sottrarmi e questa sensazione di strumentalizzare per­ fino il tuo valore per scopi miei personali. Riusciremo mai, noi, a liberare il cinema e i rapporti umani da questo ricatto, da quest’ombra fredda? Grazie per come sei e per quello che fai» (9 febbraio 1975). «Non mi resta, ormai, da aggiungere il ringraziamento di avermi dato l’occasione di conoscere Perpignano. Questo nome viene dal fondo soffi­

12 Jean A. Gili, Elio Petri et le cinema itaken, eie.» pp. 13-14.

24

ELIO PETRI ARTISTA E INTELLETHJALE

ce, dalla penombra delle memorie infantili, ed è sinonimo di: tappe. Perpignano è una “tappa” importante del “tour de France”, prima di abbordare i Pirenei. Poi è una tappa sulle strade di Spagna. Era una tappa dei volontari delle Brigate Intemazionali. Fu anche la prima tappa della sicurezza di coloro che fuggivano il terrore fascista. Ho come la sensazio­ ne che sarà una tappa anche per me. Già il riesame, assieme a voi, dei miei vecchi film ha un gran valore nella mia storia di questi anni e del mio futu­ ro. Grazie, dunque. Spero, dopo questa calda sosta nella “tua” Perpigna­ no, di migliorare» (10 febbraio 1975).

«Nuova Cucina»

Nel 1980, Ugo Tognazzi riprende la rivista culinaria «Nuova Cucina». L’attore chiede all’amico Petri (che lo ha diretto in La proprietà non è più un furto, nel 1973) di occuparsi della rubrica di critica cinematografica, inizialmente intitolata «Cinefagia» poi «Il cinema nel piatto». Petri si è chiaramente divertito - nei suoi articoli allude spesso al “direttore” della rivista - a scrivere delle recensioni nelle quali l’analisi dei film si sviluppa in chiave culinaria. Ne ha firmate sei, da febbraio a luglio 1980, sul cine­ ma italiano {Ogro di Gillo Pontecorvo, La terrazza di Ettore Scola, La città delle donne di Federico Fellini) e sul cinema internazionale {Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, Don Giovanni di Joseph Losey, Kramer contro Kramer di Robert Benton). Un riquadro umoristico accanto alla prima recensione, quella su Apocalisse Now, riporta i simboli esplicativi che esemplificano le valutazioni: «non gastronomico» (piatto capovolto), «indigesto» (piatto rotto), «insipido» (un piatto), «gradevole» (due piat­ ti), «buono» (tre piatti), «squisito» (tre piatti sormontati da una cuffia da cuoco). Apocalisse Now è dichiarato «non gastronomico», Ogro «grade­ vole», Don Giovanni «non gastronomico», poi le valutazioni scompaiono. Per quanto riguarda Don Giovanni, un testo della redazione puntua­ lizza: «Un grande avvenimento cinematografico, come il connubio tra l’arte lirica del Don Giovanni di Mozart e l’abilità dell’interpretazione sce­ nica di un regista come Losey, non poteva essere trascurato da un attento osservatore delle cose del cinema come Elio Petri. Ma come si addice alla nostra “Nuova Cucina”, Petri nella sua intelligente analisi del film man­ tiene una visione prettamente gastronomica, in linea con l’originale pro­ spettiva che contraddistingue la sua rubrica sul cinema».

25

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

Petri, Sciascia, Sartre Nel lavoro di sceneggiatura, Petri ha talvolta avuto a che fare con l’o­ pera di scrittori: Lucio Mastronardi per II maestro di Vigevano, Robert Sheckley per La decima vittima, e soprattutto Leonardo Sciascia per>l cia­ scuno il suo e Todo modo, senza dimenticare Jean-Paul Sartre per l’adatta­ mento di Le mani sporche. Su Sciascia e Sartre abbiamo dei testi approfonditi. La questione del rapporto con lo scrittore siciliano passa relativamente inosservata all’epo­ ca di A ciascuno il suo, Todo modo invece scatena una valanga di reazioni. Inizialmente il film rischia di essere bloccato poiché si è in periodo di campagna elettorale, quindi esce il 30 aprile 1976. I democristiani sono furibondi. Il deputato Bartolo Ciccardini, pur avendo visto solo un brano del film in televisione, tuona furioso: «Petri è Goebbels, il film è come Suss l'ebreo. Questo film ha un solo precedente, quello dei nazisti contro gli ebrei. È una deformazione incolta e faziosa della DC, è un’istigazione alla guerra civile. Parliamoci chiaro, tra noi ci possono anche essere dieci ladri, ed è anche giusto, nel gioco democratico, mandare la DC all’oppo­ sizione, ma quest’odio, questa falsificazione, la logica di questo film è ter­ ribile. In base a questa logica, si arriva ai lager, si renda conto, questo film porta al ghetto» («la Repubblica», 8 maggio 1976). Persino Sciascia interviene nel dibattito per calmare gli spiriti: «Due anni fa, col libro, io ho scherzato (dicendo, si capisce, cose tremenda­ mente serie). Petri non scherza. E nemmeno Rosi ha scherzato cavando dal Contesto il film Cadaveri eccellenti. Perché? La domanda apre una quantità di risposte, di diversa natura. Alcune riguardano il momento che stiamo vivendo. Le lasciamo ai lettori, agli spettatori» («Paese sera», 9 maggio 1976). Nel 1979, in seguito alla richiesta di Jacques Bonnet, incaricato di coordinare un numero della rivista «L’Arc» dedicato a Leonardo Sciascia, ho domandato a Francesco Rosi ed Elio Petri di partecipare alla sezione «Sciascia e il cinema», per la quale ho redatto un ampio testo introdutti­ vo. Ho chiesto ai due registi di esprimersi sul loro rapporto con l’opera dello scrittore siciliano. Se il testo di Rosi su Cadaveri eccellenti è relativa­ mente breve, Petri, al contrario, per parlare di A ciascuno il suo e Todo modo, si concede il tempo di scrivere uno studio approfondito, che inti­ tola ironicamente Brevi con siderazioni. Il testo è maturato a lungo duran­ te un soggiorno in Sardegna. Dopo avermi spedito il saggio - numerose

26

ELIO PETRI ARTISTA E INTELLETTUALE

pagine dattiloscritte piene di cancellature e correzioni -, qualche giorno più tardi mi invia una lista di nuove correzioni, non meno di diciotto ripensamenti e aggiunte, prova, se ce ne fosse bisogno, dello scrupolo quasi nevrotico con cui precisava il proprio pensiero. Per quanto riguarda Le mani sporche, Petri segue la preparazione della cartellina dell’ufficio stampa Rai. Scrive un riassunto della pièce per permet­ tere al lettore di conoscere l’essenziale dell’opera e propone una lunga anali­ si del pensiero politico di Sartre cui aggiunge delle annotazioni suggerite dalla situazione italiana. U testo, con il titolo sempre ironico di Brevi note, riflessio­ ni preliminari, contiene diciasette punti ampiamente sviluppati. Ci si può stu­ pire che questo documento eccezionale sia rimasto un opuscolo destinato alla stampa in occasione della diffusione del film sui canali televisivi.

I testi sulla pittura La pittura era molto importante per Elio Petri. Maselli dice che era un «patito di pittura». L’amicizia di lunga data con Renzo Vespignani lo dimostra: il regista si rivolse a lui per le scenografie de Lassassino, ne uti­ lizzò le acqueforti per i titoli di testa de 1 giorni contati e i dipinti su carta per i titoli di La proprietà non è più un furto (le figure sono state poi uti­ lizzate per il manifesto del film), infine Petri si rivolse a Vespignani per la parte figurativa di Le mani sporche: il pittore appare nei titoli in qualità di consigliere artistico. È Vespignani ancora che illustra la sceneggiatura di un film mai girato, Chi illumina la grande notte, pubblicata dalla Biennale di Venezia in un quaderno del 1983. Nella prefazione, Vespignani scrive: «La nostra non è una misteriosa sintonia: siamo cresciuti insieme, nelle stesse passioni e nelle stesse angosce; insieme abbiamo respirato la spe­ ranza, come ozono sottile, nell’aria afosa del dopoguerra romano, e il tanfo di ciò che moriva, anno per anno, accanto e dentro di noi. Perché illustrare la tua notte, se è la stessa dei miei personaggi? Certo un quadro non è un’inquadratura: e ne abbiamo parlato infinite volte, ridendo del cinema ricalcato sulla pittura, e della pittura ricalcata sul cinema. Eppure, leggendo le tue sceneggiature, sempre le ho “viste” già fotografate e com­ poste, già “dipinte”: vedendo i tuoi colori perché erano i miei. I nostri». Petri fu collezionista raffinato e arredò il suo appartamento con opere scelte in modo ammirevole. Ricordo ad esempio un quadro di Ugo Attardi, Piazza Navona. Seguiva da vicino la produzione americana, in 27

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

particolare la pop art, la cui influenza culmina nella composizione visiva di La decima vittima, film nel quale, con l’aiuto del direttore della fotografia Gianni Di Venanzo, altrettanto a suo agio in quest’occasione che nei suoi capolavori in bianco e nero, Petri propone un utilizzo inventivo del colore. Come ha dimostrato Lucia Cardone in un saggio su La decima vittima, le scenografie di Piero Poletto rivelano l’influenza di Andy Warhol, di Joe Tilson, di George Segai, di Jasper Johns, di Richard Smith, di Claes Oldenburg, dei fumetti di Roy Lichtenstein, e alcuni costumi di Giulio Coltellacci esprimono l’influenza dei modelli «spaziali» di Courreges. Lucia Cardone, nell’importante saggio dedicato al film, scrive: «Il panorama della pittura americana di quegli anni è piuttosto complesso e Petri ne dimostra una conoscenza tutt’altro che superficiale o approssimativa. Addentro al dibattito italiano, forse proprio per l’inclinazione randagia che lo porta a “sprovincializzarsi”, il regista romano è ben consapevole degli sviluppi del­ l’arte americana e si mostra aggiornato sul pop e sulle tendenze dell’avan­ guardia, in particolare sulle ricerche visuali, quasi in tempo reale»1*. Avendo conosciuto Jim Dine, il regista decide di utilizzare il pittore americano (che aveva esposto alla Biennale di Venezia nel 1964 insieme a Rauschenberg, Johns e Oldenburg) come modello per Un tranquillo posto di campagna: Petri si reca a Londra per incontrare l’artista e lo invita a Cinecittà per dipingere una quindicina di grandi tele - sono le tele che si vedono nel film. Jim Dine è filmato mentre lavora, così i suoi gesti potran­ no essere riprodotti durante le riprese del film: la gestualità di Franco Nero si ispira direttamente al lavoro di Jim Dine durante il soggiorno romano. Petri avrebbe voluto che Dine rimanesse in Italia durante le riprese per poter dare consigli all’attore e, forse, per intervenire su alcuni elementi figurativi del film, ma il pittore, richiamato da altri impegni, dovette ripartire per Londra. Infine, l’iconografia del macellaio in La pro­ prietà non è più un furto si ispira esplicitamente alle incisioni di Otto Dix.

Le riflessioni di un uomo in agonia Qualche settimana prima di morire, Elio Petri, gravemente ammalato, invia tre messaggi a Giuseppe De Santis, lettere parlate, dettate al regi-

H Lucia Cardone, Elio Petri, impolitico. La deama vittima (1965), Pisa, ETS, 2005, p. 49,

28

ELIO PETRI ARTISTA E INTELLETTUALE

stratore, più che lettere scritte, che la mano indebolita non avrebbe potu­ to redigere. La trascrizione è talvolta esitante, ma questi documenti sono una sorta di testamento intellettuale nel quale si mescolano ricordi di gio­ vinezza, commenti politici, considerazioni esistenziali. La risposta di Peppe a queste lettere ha qualcosa di insostenibile, una confessione di impotenza di fronte alla morte che è venuta a bussare. Ascoltare la voce di Elio Petri in questi testi permette di immergersi nell’animo di un uomo costantemente all’erta, uno spirito curioso di tutto, un osservatore lucido, le cui illusioni sono progressivamente svanite nella disperazione e nella malinconia. Vero è che l’angoscia della morte, prova­ ta sin dall’infanzia, ha perseguitato il regista durante tutta la sua esisten­ za. L’imminenza del trapasso e la lucidità critica nei confronti di una rivo­ luzione sempre sognata ma mai accessibile, sfociano nell’angoscia di un artista giunto al termine della vita. Vorrei terminare questa introduzione con una postilla personale. Non dimenticherò mai le passeggiate con Elio la domenica mattina negli anni Settanta per le strade di Roma. Passeggiavamo per le piccole vie del centro storico in compagnia dei nostri cani, Snoopy e Magoo, il cocker che si intravede in CJw tranquillo posto di campagna e il fox-terrier, prima di andare a prendere il caffè al bar S. Eustachio, sulla piazzetta con la chiesa di fronte. Queste passeggiate domenicali fatte di lunghe chiac­ chierate sono legate ad un ricordo doloroso. Il 2 novembre 1975 stava­ mo tornando verso la casa di Elio. Dopo aver attraversato il Tevere abbiamo incontrato Dante Ferretti, amico e collaboratore di Petti per La classe operaia va in paradiso e che, qualche mese dopo, avrebbe rea­ lizzato le straordinarie scenografie dell’hotel sotterraneo di Todo modo. Insieme siamo andati da Ruschena, Lungotevere dei Mellini. A un certo punto Ferretti si è allontanato dal bancone per fare una telefonata. Era l’epoca in cui non esistevano i cellulari. Nei bar c’erano dei telefoni rosso-arancio che funzionavano inserendo un gettone nella fessura sopra l’apparecchio. Ferretti è tornato velocemente verso di noi. Era livido: aveva appreso la notizia della morte di Pasolini. Ci siamo separa­ ti rapidamente, ognuno è tornato a casa sua per saperne di più. Credo che Petri e Ferretti avessero l’intenzione di andare all’obitorio dove era stata deposta la salma del poeta assassinato. Quando ho appreso la morte di Elio Petri, nel novembre 1982, ero alla Cineteca di Lussemburgo, dove presentavo con Vittorio Cottafavi Maria 29

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

Zef in una sala affollata di friulani: uno spettatore aveva ascoltato la noti­ zia alla radio. Mi ha informato del decesso alla fine della proiezione. Il ricordo di Petri e di Pasolini non mi abbandona mai.

Jean A. Gili (traduzione Francesca Leonardi)

30

1. «CITTÀ APERTA» (1957-1958)

I GERMI DELL’ODIO E DELLA SPERANZA: LETTERA A PIETRO GERMI

Caro Germi, noi abbiamo avuto tempo fa, nella sede di una casa di produzione cinematografica, un’accesa discussione politica. Si trattò, più che di una vera discussione, d’una specie di esplosione, in cui lei era la bomba ed io l’incauta scintilla. Mi disse che io avrei insieme con quelli come me, cinquantamila morti sulla coscienza (i caduti della rivolta d’Ungheria); che io avrei, come molti comunisti, il complesso dei preti che non si decidono a gettare la tonaca alle ortiche, che Togliatti è un anticristo travestito da Cristo; che i comu­ nisti sono dei gesuiti e pur di fare una speculazione politica sarebbero capaci di inneggiare al papa sulle colonne dell’«Unità»; che essi tengono immobilizzata la coscienza socialista e democratica di dieci milioni di Italiani. È proprio questo, mi domandavo durante quella discussione, l’uomo che ha fatto 11 ferroviere? Mi parve di no. Nelle sue parole v’era un odio, quasi patologico, che non aveva nulla a che fare, a prima vista, con la uma­ nità del suo film. Ho riflettuto meglio, dopo, ed ho capito che l’uomo che m’aveva par­ lato in quel modo era proprio il regista del Ferroviere; non solo: ma che, in definitiva, lei ed il suo personaggio hanno tanto in comune da confon­ dersi quasi, da non poter dire facilmente qui finisce Germi e qui comin­ cia Andrea e viceversa. Non è determinato, questo, solo dall’essere Germi ed Andrea come due gemelli (avendo lei prestato addirittura la sua pre­ senza fisica a quel personaggio), ma dall’avere essi in comune le medesi­ me contraddizioni; dal trovarsi entrambi aggrappati al mondo sentimen­ tale, al senso comune, ai pregiudizi degli uomini all’«antica», pure essen­ do affascinati da quell’ammasso intricato di problemi morali e sociali che caratterizza la vita moderna; dall’aspirare l’uomo ed il personaggio ad uno 31

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

stato di quiete individualista, piccolo borghese, pur tendendo con­ temporaneamente verso la adesione alle leggi della solidarietà collettiva: primi e basilari elementi di formazione di una vera coscienza socialista. Si potrebbe dire che 11 ferroviere rappresenta una specie di sua autobiogra­ fia “poetica”. Non a caso, dunque, esso è il ritratto di un importante per­ sonaggio del nostro tempo, d’un operaio socialdemocratico. L’astio delle sue parole me apparso come il prodotto di queste contraddizioni, (come il timbro della sua particolare umanità, la punta di sgradevole e di agro che lo stesso Andrea porta con sé sullo schermo). D’altra parte, in quel discorso si poteva rinvenire una traccia seria del male che logora la società italiana da più d’un trentennio: l’anticomuni­ smo. (Questo è un atteggiamento umano ed intellettuale prima di tutto scostante per quel tanto di religioso e di irrazionale che esso contiene, mentre vorrebbe combattere nel comuniSmo il religioso o l’irrazionale). E un male, l’anticomunismo, che assume forme, comunque, assai con­ traddittorie e lei, Germi, lo dimostra ampiamente, essendone più immu­ ne, come artista, di quanto non appaia dalla sua condotta. Anche in uomi­ ni come lei - però - esso può fare dei guasti, se è vero che lei non ha volu­ to dirigere un film tratto dalla vita dei fratelli Cervi per non fare il giuoco dei comunisti: facendo, in definitiva, solo il giuoco di coloro che Zavattini chiama i «nemici del cinema italiano» e perdendo forse, una delle più belle occasioni della sua vita d’artista. Mi chiedo se possiamo andare avanti così, se verrà mai il momento di sgombrare, da tutte le parti, il terreno dalle incrostazioni della faziosità per venire ai fatti che ci stanno a cuore. Davanti al cinema italiano si sono chiusi molti orizzonti. Siamo ad un punto cruciale del suo sviluppo, sia artistico, sia industriale. Tutte le que­ stioni che dieci confusi anni di cinema hanno aperto sono ormai sul tap­ peto: il malcostume politico, la presunzione degli artisti, il provincialismo e il malsano spirito d’avventura dei produttori e degli artisti, l’egoismo di categoria, una critica cinematografica distaccata dai problemi reali del cinema (non esclusi quelli estetici). Questa l’eredità di un decennio, appe­ santita da un bilancio fallimentare in sede economica, divenuta ancora più drammatica in seguito all’incipiente decadere dell’interesse popolare per lo spettacolo cinematografico. Dieci anni di divisione politica, di mediocre diffidenza degli uni versi gli altri, di frazionamento in cricche che raramente hanno veduto al di là

32

«CITTÀ APERTA» (1957-1958)

del proprio contingente interesse di cricca, di gelosie e di odi personali, hanno reso, d’altra parte, estremamente difficile la soluzione del proble­ ma della libertà di espressione, da cui deriva la possibilità, per il nostro cinema ed il realismo, di sopravvivere tenendosi al passo con la vita. Va compreso, prima di tutto, che il problema della libertà d’espressio­ ne riguarda tutti coloro che si pongono davanti alla realtà in un atteggia­ mento non conformistico. Esso non è un motivo della agitazione politica delle sinistre, dietro cui le sinistre maschererebbero altri interessi; e se vi sono dei comunisti e dei socialisti i quali concepiscono ancora la questio­ ne in tali termini, tanto peggio per loro, essi si mettono al livello dei cen­ sori di Via Veneto. Scambiare il problema della libertà d’espressione - da qualunque parte venga un tale interessato equivoco, ma finora esso è venuto solo da un lato bene individuato degli schieramenti politici, quel­ lo governativo - come questione puramente o essenzialmente politica equivale a soggiacere a quella concezione strumentalistica della cultura e del cinema che ci andiamo rinfacciando l’un l’altro con sempre maggiore acredine (mentre la libertà di cui disponevano va sempre maggiormente scemando). La libertà d’espressione va difesa per quello che essa fonda­ mentalmente rappresenta: il diritto degli artisti di esprimersi e di indaga­ re criticamente sul corpo della realtà in cui vivono, qualunque sia la società in cui vivano. Nelle diverse situazioni, poi, ciascuno tragga le pro­ prie conseguenze politiche e le proprie scelte di classe. So che lei mi rimanderà alla esperienza sovietica ed alle restrizioni in cui gli uomini di cultura e gli artisti sovietici si son trovati a lavorare. Io credo che l’apporto dato dal pensiero, dalla letteratura, dal cinema sovie­ tici alla storia della cultura e dell’arte moderne non possa essere messo in discussione, ed i suoi migliori film, caro Germi, ne sono una testimonian­ za certa. Ciò posto, che il problema della libertà d’espressione esista anche in forma drammatica - con un contenuto di classe socialista - per gli artisti sovietici, non v’è dubbio e non sono io tra coloro che lo negano. Ma spetta alla cultura sovietica dare ad esso la sua originale soluzione e gli artisti e gli scrittori d’avanguardia di quel paese, i Nekrasov, i Tendriakov, i Dudinzev e gli altri non hanno certo aspettato noi per ingaggiare la loro lotta contro l’ottusità e il conformismo. Noi possiamo collaborate in un solo modo: affermando il diritto degli uomini di cultura e degli artisti d’e­ sprimersi liberamente qua in Italia, poiché la storia della cultura non pro­ cede a compartimenti stagni e le conquiste dell’arte avanzata in Italia avranno certo un valore anche per quella sovietica, come quella dell’arte 33

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

avanzata sovietica hanno costituito delle tappe fondamentali per la nostra esperienza. Lei mi risponderà, ancora, che la libertà d’espressione si consolida e si vivifica con le opere. Quando, però, il problema è quello di difenderla, l’unica strada che si presenta davanti agli artisti ed agli uomini di cultura è quella dell’unità e della solidarietà (parole che l’usura politica non dovrebbe aver reso completamente inservibili). E questo il punto a cui volevo portare il discorso. La soluzione delle nostre questioni fondamentali richiede prima di tutto la unità profonda dei registi e degli scrittori, vecchi e giovani, che hanno contribuito alla affermazione del realismo come metodo e come clima nel cinema italiano. Senza una tale unità la crisi morale e artistica che travaglia il nostro cinema non potrà mai più essere risolta. E questo non significa che lei, od altri, non possa fare dei buoni film, o anche dei capolavori, ma che non vi sarà più il clima necessario per fare un buon cinema, impegnato con tutte le sue forze e non soltanto nelle sue punte avanzate. I buoni film, e i cinque anni trascorsi lo dimostrano, non fanno un cinema. Se gli artisti continueranno a starsene chiusi nel loro guscio sia pure per produrre opere degne come 11 ferroviere - diventerà impossi­ bile, in Italia, produrre anche opere come 11 ferroviere, e non vi potranno più essere nemmeno franchi tiratori. Una atmosfera inquinata dalla con­ fusione ideale e dalla disgregazione morale pesa in modo ed in misura inquietanti sul lavoro di ciascuno; lo spegnersi di un impegno collettivo può influire fatalmente anche sul lavoro di un solo isolato artista. Si può dire che queste siano solo questioni del costume. Ma arriva un momento in cui costume e morale e cultura formano un unico nodo: come quello in cui si dibatte il cinema italiano. Vi sono registi e scrittori di cinema in Italia, che non godono nemme­ no della scarsa libertà di cui dispongono altri loro colleghi (e qualcuno di questi è sicuramente pronto a negarlo): nessuno, per questo, si è mai fatto un caso di coscienza ed ha manifestato, in una forma qualunque, un mini­ mo di solidarietà. Vi sono, in Italia, dei registi che vedono manomesse le loro opere; c’è chi si sottomette in gran silenzio perché la cosa non si risappia e chi preferisce rivolgersi alla protezione d’un cardinale, piutto­ sto che chiedere solidarietà ai propri colleghi, ai registi, agli scrittori, agli uomini di cultura del proprio paese. (C’è anche da chiedersi, di contro, quanta solidarietà avrebbe incontrato questo regista non andando dal vec­ chio prelato). 34

«CITTÀ APERTA» (1957-1958)

V’è, al fondo, una profonda diseducazione di cui tutti portano la loro parte di responsabilità; uomini, governo e quelle fonti di opinione che hanno lasciato andare le cose per il brutto verso. Così si presenta, in ogni modo, la situazione. Ed è in questa prospettiva che va posto anche lo sviluppo di quella gio­ vane generazione che sta diventando, ormai, “generazione di mezzo” ed alla quale io appartengo. I giovani potranno continuare e proseguire de­ gnamente il discorso di coloro che li hanno preceduti solo se avranno la possibilità di portare avanti i temi che più li riguardano, in un clima più sereno: il ripensamento della esperienza fascista, i problemi morali nati dal dopoguerra, le contraddizioni sociali in mezzo a cui hanno compiuto le prime significative esperienze umane, gli squilibri del costume, dram­ matici e scottanti, che caratterizzano questa epoca. Sensibili, per educa­ zione, alla tematica del realismo, i giovani hanno cominciato a lavorare in una fase già discendente e sono stati i primi a risentire della incrinatura che si andava maturando; ora rischiano di non sapere o potere trovare una loro strada e solo una spinta di tutti gli uomini di cinema al rinnovamento può essere decisiva. Sentono gli artisti come Germi, e della sua generazione, la responsabi­ lità di questo sviluppo arrestato, di avere dietro di sé molti giovani cinea­ sti a posto, forse, con la grammatica, ma storti, esangui, privi di idee? Come tra gli operai che Germi - e questo nessuno può negarlo che non abbia un cervello distorto da schemi in ferro battuto - ama così sin­ ceramente, anche tra gli intellettuali si creano problemi di solidarietà e di responsabilità collettive. E questa lezione degli operai che gli uomini di cultura, in Italia, non hanno saputo apprendere in questi dieci anni, a tutto svantaggio della propria opera. Ho voluto porle alcune questioni con franchezza, caro Germi perché, dopo la discussione che ricordavo all’inizio, ho capito d’essermi trovato davanti ad un uomo «col cuore in mano». Deve sapere che io, in un certo senso, sono stato educato a diffidare di coloro che ci parlano «col cuore in mano». Ora diffido di quelli che trattano con saccenteria e sprezzo da superuomini le reazioni cosiddette sentimentali, come se il sentimento non facesse parte del nostro modo di essere. Le parole «unità» e «solida­ rietà» non possono aver perduto il loro vero significato, per uno come lei. E credo che su di esse verremo presto al dunque. (Dovremo smettere gli uni di vedere in ogni comunista un Beria e gli altri di vedere anche in uomini come lei l’ombra di Guy Mollet, se vogliamo che la democrazia ed

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

il socialismo trionfino nel nostro paese: ma questo non riguarda tutti gli uomini di cinema, almeno per adesso. Lei, sì). «Città aperta», 1,25 maggio 1957; il testo è stato ripubblicato in «Bianco & Nero», 1, gennaio-marzo 1998.

36

HENRI BEYLE RINGRAZIA

Il Bilancio del disgelo tracciato da Erenburg sulla «Literaturnaia Gazeta» (n. 18 e 19) - e di cui un ampio stralcio ha pubblicato «Il contemporaneo» del 2 marzo - risponde solo in minima parte alle innu­ merevoli domande che ciascuno di noi si rivolge davanti ad un documen­ to di questo genere, firmato da uno di coloro che sono stati i protagonisti della vita culturale sovietica. V’è da rilevare, in questo tentativo - forse prematuro -, di “bilancio”, un certo semplicismo dell’atteggiamento di Erenburg rispetto alla crisi di vasti gruppi di intellettuali “di sinistra” di Occidente. Non è possibile non procedere ad una distinzione netta tra le posizioni di un Sartre - che intende agire criticamente dall’interno delle forze schierate col socialismo -, tra la rivolta di un Fast - coerente con una ininterrotta, visione democra­ tica dei problemi culturali e politici -, ed il turbamento confuso che ha portato un gruppo di intellettuali italiani a riconsegnare la tessera di un partito. Virare su un unico colore le “crisi” di gruppi tanto numerosi di intel­ lettuali progressisti d’Occidente, può far ricadere le analisi in visione ristrette ed ambigue, in isolanti generalizzazioni. Scrive Erenburg: «Eppure, alcuni letterati occidentali che oggi met­ tono in dubbio tutti gli indiscutibili successi della cultura sovietica, cin­ que anni fa ammiravano tutto ciò che veniva dal nostro paese, compresi romanzi e i film più mediocri, per cui oggi somigliano ad adolescenti delu­ si nell’oggetto del loro amore. La cultura sovietica ha dato al mondo molte opere magnifiche. Ma quando leggevo un articolo pieno di entusiastici elogi su un romanzo dozzinale, sulle tele gigantesche di un mediocre pit­ tore o sul film La caduta di Berlino, più volte mi chiedevo con stupore come possono uomini che amano l’arte e la comprendono, ammirare opere simili?». Non è difficile scorgere il pericolo di una posizione di questo genere: la discussione, così, rischia di impantanarsi nel giuoco, ormai noioso, delle lamentele e delle flagellazioni e dei rimbrotti. La discussione può, e deve, essere molto più proficua. E per dare un contributo più originale ad essa Erenburg dovrebbe rivolgersi anche a coloro che, lungi dal mettere tutto in dubbio, non intendono nemmeno 37

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

pietrificare i meriti della cultura sovietica, monumentalizzarli, mum­ mificarli, esigendo, al contrario, che essa si rinnovi che metta continuamente a confronto i suoi «indiscutibili successi» con gli altri, non meno indiscutibili, della cultura occidentale. Non tutti quelli che in Italia si occupano di cinema da posizioni di sinistra sono disposti facilmente ad ammettere che La caduta di Berlino che Erenburg sembra sbrigativamente liquidare - sia un film orribile, tutto sbagliato, tutto da buttar via. Siamo in molti, invece, a pensare che nella sua rozzezza il film di Cauteli resti un’opera importante. Dietro il nostro entusiasmo per film come La caduta di Berlino si nascondevano riflessioni di ordine politico derivanti dalla necessità in cui si trovavano le forze socialiste nei paesi occidentali, di propagandare i risultati raggiunti dalla cultura e dall’arte in Urss. Quell’atteggiamento oltranzista di difesa della cultura sovietica derivava da una ristretta concezione del rapporto politica-cultura e da un amore sincero, non rinnegato, semmai approfon­ dito, per l’Urss. Ma non va sottovalutato, nel rivedere i giudizi di allora, il peso che ha avuto nella formazione degli artisti e dei critici occidentali “di sinistra” e no, il cinema sovietico del grande decennio; per cui, oggi pos­ siamo dire che bisogna guardarsi dal mito degli uomini, ma anche dal mito di una cultura fenomeno, questo che si sta ripetendo con il “neorea­ lismo” italiano. Per molti di noi, dunque, il problema non è tanto quello di rivedere il giudizio critico sulla Caduta di Berlino perché una parte di esso è dedica­ ta alla mitizzazione mistificatrice della persona di Stalin: quanto quello di capire quale sia la dimensione di cui sentiamo mutilo il cinema sovietico e di individuare le ragioni per cui esso non ha degnamente espresso tutta la vita sovietica, o, almeno, gli aspetti peculiari di essa. E questo «ripen­ samento» ci sarà senz’altro utile per il nostro lavoro. Noi sentiamo che la responsabilità fondamentale di film come La caduta di Berlino, oltre a quella specifica di aver contribuito alla deifica­ zione di Stalin - ma, sono aspetti del medesimo problema -, consiste nell’aver proposto davanti alla coscienza degli artisti sovietici il compito di ispirarsi ad un modello di vita ancora di là da venire, e non alla vita degli uomini sovietici com’era; di avere incanalato la ricerca degli artisti verso compiti declamatori ed encomiastici, come se la società sovietica fosse perfetta, e l’uomo sovietico una specie di eroe astratto, fuori della moder­ nità, non condizionato dalle naturali contraddizioni di tutti gli uomini che vivono nella società capitalistica. Ma non possono, d’altra parte essere di 38

«CITTÀ APERTA» (1957-1958)

natura totalmente diversa, poiché l’uomo e le epoche, malgrado i diversi ordini sociali, non si spezzano, ed un ordine sociale non fa pianeta. E una concezione critica del mondo e dell’uomo che manca al cine­ ma sovietico degli ultimi quindici anni e che troviamo in rare opere, come nella struggente malinconia di II ritorno di Vassili Bortnikov, film in cui l’uomo sovietico ci appare non solo come “compagno”, ma come “fratello”. Per queste ragioni risultano vecchie anche quelle riflessioni che Ehrenburg fa, nel corso del suo «bilancio», sulla ideologia borghese. Cos’è, dunque, un tale mostro, se Hemingway può essere tradotto in Urss solo adesso, e sembra una grande conquista, e i giovani sovietici della nostra generazione debbono avere visto, dei film prodotti ad Hollywood, solo i Tarzan, (di cui Erenburg lamenta la presenza in Urss perché «nulla avevano a che vedere con l’arte ed influenzavano negativamente i nostri bambini e i nostri adolescenti»)? Per molti sovietici deve essere un vero e proprio mostro, crediamo, se nel suo articolo Erenburg deve dichiarare con aria quasi di sfida che «per quanto riguarda Shakespeare o Rembrandt o Stendhal, possiamo pure inchinarci profondamente dinanzi a loro: questo inchino non potrà umiliare nessuno». (Ci pare di udire il commosso «Grazie» di Arrigo Beyle). Come vuò essere messa in dubbio una cosa del genere? Noi non possiamo capire bene. Scrive Erenburg: «Quale che sia l’atteggiamento di un Caldwell, di un Mauriac o di un Moravia verso il comuniSmo, nessuno di loro, poiché si tratta di veri scrittori, esalta il mondo capitalista, ma anzi ne mostra le pia­ ghe in tutto il loro errore...». Erenburg avrebbe potuto portare esempi forse meno paradossali, ma più pregnanti. Comunque, a noi sembra che in questa definizione vi sia ancora del vecchio. La critica che molti “veri” scrittori occidentali rivol­ gono al mondo capitalistico non è così diretta come Erenburg sembra cre­ dere - e come finiranno col credere molti lettori di «Literaturnaia Gazeta», - ma è mediata attraverso un loro modo di essere, attraverso ad un loro modo totalmente critico rispetto all’uomo, mediato attraverso quel farsi portatori dei problemi del loro tempo, e delle contraddizioni che è stato dei “veri” scrittori di tutti i tempi. Ecco: è questa dimensione che l’arte ed il cinema sovietico non hanno ancora trovato e che i loro esponenti migliori stanno ricercando, è il modo coscientemente critico di vivere in mezzo alla loro società socialista, imperfetta come ogni creazione dell’uomo fino ad oggi, che gli artisti 39

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

sovietici non hanno ancora conquistato, che gli artisti più geniali, da Pudovkin a Solochov, non hanno mai abbandonato. Così che anche da un punto di vista di una funzionalità sociale dell’arte nei confronti degli uomini del proprio tempo - di stimolo di guida, di illuminazione -, anche da questo punto di vista, certamente più ristretto, gli artisti non hanno, nella misura in cui potevano, contribuito a far progredire la loro società. Occorre andare avanti coscienti del fatto che questo non è un anno zero. Ma allora va detta la verità. Lo stato d’animo da “adolescenti delu­ si” è un freno. Lo è egualmente, d’altra parte, quello da “amanti tradite”. «Città aperta», 1,25 maggio 1957.

40

LA LEZIONE DI CALLE MAYOR

È stato recentemente proiettato a Roma ai soci del Circolo romano del cinema prima della programmazione nelle pubbliche sale, il film spagno­ lo Calle Mayor, del regista Juan Antonio Bardem. Molti sono rimasti vivamente impressionati dal fatto che un film così coraggioso abbia potuto essere prodotto e distribuito nella Spagna falan­ gista. Certo, questo può apparire sensazionale a chi, oggi, è ridotto ad aver paura di proporre al produttore un film, poniamo, sull’adulterio; sensa­ zionale il constatare che in Calle Mayor fossero contenute idee e immagi­ ni le quali a fatica avrebbero potuto avere in Italia possibilità di rappre­ sentazione. Film come Calle Mayor, in effetti, pongono in chiaro quanto decisiva sia l’iniziativa ed il coraggio degli artisti nel modificare le obbiettive con­ dizioni di arretramento politico in cui sono costretti a lavorare. Non vi è possibilità di dubbio: senza l’iniziativa ed il coraggio di Bardem non vi sarebbe Calle Mayor, senza l’iniziava ed il coraggio di Michael Wilson e di Herbert Biberman non vi sarebbe, oggi, Il sale della terra-, senza l’ini­ ziativa ed il coraggio di Visconti, di De Santis, di Gianni Puccini, di Mario Alicata, non vi sarebbe stato, nel 1942, Ossessione. Che sia questa la lezione di Calle Mayor è detto chiaramente, in fondo, dallo stesso Bardem: non è il tema dell’impegno morale al centro del suo film? Non è un problema di coraggio quello che Bardem ha posto dialetti­ camente davanti alla coscienza del personaggio centrale di Calle Mayor? Non è, lo stesso, un problema di scelta quello che il giovane scrittore madri­ leno - il personaggio “ideologico” del film - getta in faccia allo scrittore arrivato, venuto a ritirarsi in provincia per curare la sua opera omnia, cro­ giolandosi nello agnosticismo d’una vita estranea ai conflitti del mondo? C’è un dilemma davanti al giovane protagonista di Calle Mayor, dire la verità ad una ragazza da lui atrocemente ingannata per uno stupido scher­ zo paesano, o continuare e aggravare il suo stato di compromesso umano. C’è un dilemma davanti al personaggio del vecchio scrittore: tornare a dire la verità alla gente, nei libri, o considerarsi definitivamente fuori causa. Fin da Venezia, dove il film di Bardem ottenne un premio, non si è data grande importanza a questi suoi lati. Una parte dei critici è subito partita alla 41

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

ricerca delle parentele di Calle Mayor. Gli hanno presto attribuito una pater­ nità: Fellini. Quattro calci tirati ad un barattolo da quattro giovinetti insod­ disfatti - una immagine tra tante altre, nel film - non sono sufficienti a sta­ bilire un così stretto legame di parentela. Basta a differenziare Calle Mayor dai Vitelloni, il lucido impegno che lo anima e che ne fa un’opera moderna, tesa coscientemente oltre ai confini d’una soffocante e oscura provincia cul­ turale. Il primo ed essenziale limite del film di Fellini risiede proprio, d’altra parte, nella assenza totale di un qualsiasi impegno che non sia puntato tutto sulla pagina, sullo schizzo: e nessuno può negare, oggi, che non siano deter­ minanti sul valore artistico, anche di un film, oltre all’ispirazione ed al talen­ to, il pensiero e la spinta ideale, il mondo filosofico e morale. Per allargare il discorso dai calci ai barattoli a qualche cosa di più significativo, si può dire che se Calle Mayor ricorda qualche film, la memoria va ad alcuni film americani di questi ultimi anni, come II grande coltello di Robert Aldrich, ad esempio. Non si tratta, qui, di stabilire delle parentele stilistiche. Bardem e Aldrich hanno stili opposti. Il primo pro­ cede per illuminazioni liriche, tutte sulla linea di un discorso logico ela­ borato e sottile, di derivazione squisitamente letteraria ed europea. Il secondo procede con una tecnica narrativa rabbiosa, più moderna - per certi aspetti -, puntando su un clima angoscioso teso al massimo grado, derivante da certe particolari esperienze teatrali americane. Essi portano nelle loro opere, non a caso, le tracce tipiche della tradizione artistica dei rispettivi paesi di origine. I due registi arrivano quindi, a conclusioni di linguaggio addirittura contrapposte. Non si tratta di stabilire, allora, se essi appartengano ad una stessa scuola, se abbiano comuni interessi poe­ tici, Bardem e Aldrich (quando dirige II grande coltello e Attack!) hanno in comune il loro scavare in una coscienza moderna, da essi scelta ti­ picamente, posta davanti ad un problema di decisione morale. L’attore del Grande coltello doveva scegliere: o firmare un nuovo con­ tratto che per molti anni lo avrebbe tenuto ancora legato alla corruzione, al mestierantismo, al denaro, allontanandolo dalle sue aspirazioni di arti­ sta, o tornare a fare la fame nei teatri di provincia. Il ragazzo di Calle Mayor deve scegliere: tra il divenire uomo, il com­ piersi moralmente, il trovare la forza di assumersi la responsabilità di un errore, ed il restare quello che è, uno squallido amante di puttane, un ran­ cido giuocatore di biliardo. Non sappiamo se in questi film vi sia poesia o arte. Non sappiamo se essi resteranno nella storia del cinema; non sono, di sicuro, nulla di indi­

42

«CITTÀ APERTA» (1957-1958)

menticabile. Essi prospettano certamente, però, una loro amara strada, rigorosa; realistica perché si introduce tra la gente, non tanto perché la macchina da presa viene piazzata in mezzo alla strada o punti sui visi veri, quanto perché va tra la coscienza degli uomini; e non si abbevera tanto di verosimiglianze, quanto di verità; e non coglie la poesia nell’intento artifi­ cioso di cogliere soltanto la poesia, ma se la coglie, vi arriva per il cammi­ no più difficile. Le scelte morali sono il centro psicologico da cui si dipartono le azioni quotidiane dei miliardi di individui che costituiscono l’umanità moderna. L’esistenza - ed è stato così sempre, forse - non è che un accelerato succedersi di scelte, sempre meno casuali, tra la verità e la non verità. La chiave di tanti personaggi tipici del nostro tempo è costituita dai termini delle alternative che essi quotidianamente affrontano: e dal modo in cui ciascuno di essi decide. Durante la guerra, per ogni individuo, le decisioni furono totali e drammatiche. Dopo, a mano a mano che si ristabiliva un clima di pace e di ordine borghese - una pace falsa, un ordine fittizio -, le scelte diven­ nero più sottili, più penetranti, non meno drammatiche. Si trattò di sce­ gliere una classe per gli operai e per i borghesi - e non fu necessariamente la propria - una morale, in un tempo il cui scorrere è scandito dallo scop­ pio delle bombe atomiche. Scelte morali: davanti ai padroni, davanti ai governi, davanti all’amo­ re, davanti a se stessi; dell’operaio che vota per il sindacato padronale per stare più tranquillo; del professore che per la prima volta nella sua vita decide di fare uno sciopero; dell’uomo politico che deve riconoscere i suoi errori; dell’uomo politico che tradisce il suo programma pur di stare a galla; del giornalista che sa di scriver menzogne; del prete il quale deve difendere gli interessi di una classe; di un calciatore che può vendere o no la sua partita; della moglie che può o no tradire suo marito; dello scien­ ziato che collabora per la fabbricazioni di armi dalle quali dipende il desti­ no dell’umanità; dell’uomo di governo che può far scoppiare la guerra; dell’industriale che licenzia una parte dei suoi operai per far aumentare i profitti; dell’avvocato che sa di difendere un criminale; del plotone di ese­ cuzione che sa di fucilare un innocente. Tanti uomini, tante scelte. Non è un caso che i registi più sensibili - in specie quelli della genera­ zione “matura” americana, da Aldrich, a Brooks, a Robson, a Wise - siano orientati, quando essi stessi non cedono al compromesso, verso la preci­ sazione di una tematica che si richiama a questi problemi. 43

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

Ci pare che il cinema italiano, in questo senso, sia uno dei meno impe­ gnati del mondo. Esso ha praticamente ignorato - a parte pochi esempi questi conflitti drammatici che sorgono nella società moderna, tra gli indi­ vidui e la loro coscienza. Registi e scrittori del nostro cinema, adesso, sono tutti tesi verso la ricerca di temi diversi da quelli ai quali si sono fin qui ispirati, più aderenti al clima ed alle problematiche della vita di oggi. Non diciamo che basta guardarsi intorno per trovare le grandi idee: questa è la vecchia parola d’ordine neo-realistica, che tanta aria nuova ha portato nella cultura italiana, ma tanti equivoci ha generato. Le grandi idee sono grandi idee: non si trovano all’angolo della strada. Occorre andare in fondo alle coscienze degli uomini, per trovarle, e non fermarsi a leggerle nello sguardo d’un bambino. Sta al coraggio degli artisti di creare intorno al loro lavoro le condizio­ ni necessarie perché la ricerca si effettui con la massima spregiudicatezza e libertà. Si troveranno davanti a un problema di scelta anche loro: scelgano: sarebbe ora. «Città aperta», 2, 10 giugno 1957.

44

DUECENTOMILA LIRE

Nelle anticamere dei produttori Mario non si era mai sentito a proprio agio. Veniva preso da un senso acuto come di mendicità. Quel mattino, ad attendere Corbucci c’era soltanto un vecchio dal viso vagamente familiare. Seduto com­ posto su un divano, leggeva una rivista, dal di sopra delle lenti a pince-nez. Mario sedette, prese anch’egli una rivista e di sottecchi si mise ad osservare il vecchio per ricordarsi chi fosse. Poteva avere intorno ai sessant’anni. Dalle ossa della mascella agli zigomi due fosse scure gli traver­ savano la faccia, come trapezi, e gli davano una espressione affamata. D’un tratto Mario lo riconobbe. Il vecchio sbuffò, gettando la rivista sul divano. «Sembra l’anticamera del papa», disse rivolgendo a Mario un sorriso. «Lo aspetto da un’ora e tre quarti». «Bisogna rassegnarsi», disse Mario. «lo sono nato rassegnato, ma la stanchezza viene», disse, mitigando quella grave sentenza con un altro sorriso. Scosse il capo. «La gente si dimentica di voi, giovanotto». «Io vi ricordo benissimo», disse Mario. Il vecchio si tolse gli occhiali e lo fissò più attentamente. «Siete troppo giovane». «Non siete poi così vecchio che io non possa ricordarvi», fece Mario in tono complimentoso. «Siete stato con Eduardo, con Taranto. Avete anche fatto compagnia da solo. Io vi venivo a vedere al Principe», Il vecchio lo guardava sconcertato. Si passò una mano sul mento. «Dovevate essere un bambino». «Erano belli i varietà nel dopoguerra». «E decaduto forte il varietà». «Fosse solo il varietà». «Senza considerare il fatto che ero più giovane, quegli anni furono belli», disse il vecchio. «Non fu allora che faceste Roma città aperta?», gli chiese Mario. «Con quel film mi sono rovinato», fece il vecchio. «Mi hanno fatto fare la guardia per tutta la vita. Dicono: è napoletano, in Roma città aperta lo faceva bene, facciamogli fare la guardia. E nemmeno mi passarono di grado. Al massimo ho fatto il brigadiere. Mi son fermato lì»1. 1 II testo allude all’attore napoletano Eduardo Passarelli.

45

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

Mario rise. «Oh, Rossellini è un uomo simpatico. Un po’ matto», con­ tinuò il vecchio. «Chi se lo sarebbe sognato che sarebbe uscito fuori quel capolavoro? Lavoravamo alla svelta, senza orari e non ci davano mai una lira. Mi ricordo che un giorno che c’erano di scena i tedeschi, certe com­ parse uscirono per andare a mangiare con tutta la divisa e a momenti li arrestano. Era un film alla buona. Giravamo in quel teatrino che adesso non c’è più, in via degli Avignonesi, quasi davanti al casino». L’usciere si affacciò: «Il signor Zecchi». Mario si alzò e si chinò sul vecchio stringendogli la mano. «Mi dispia­ ce, ci stavate prima voi». «Che volete. Che volete», mormorò il vecchio, poi lo tirò verso di lui per la manica e gli disse sottovoce: «So che stanno preparando un film di ambiente napoletano. Se potete metteteci una buona parola voi». Corbucci era acquattato dietro l’enorme scrivania di mogano, sulla quale erano posti libri intonsi e sceneggiature rilegate in marocchino rosso. «Vuoi i soldi no?», disse non appena Mario fu introdotto nella stanza. «Non mi farebbero male», rispose Mario e non riuscì a dire altro seb­ bene avesse sulla punta della lingua un altro discorso, una protesta, un discorso forte. «Siete avidi come le puttane», disse il produttore. «Centomila». «Me ne deve quattro». «Senti, non ho una lira. Te ne do centomila». Tirò fuori il libretto degli assegni. «Io ho finito da dieci giorni. Sono in regola», disse Mario. «Ma perché dovete sempre rompere le scatole?». Mario osservò quell’uomo gioviale, appoggiato col torace sul piano della scrivania, con la penna pronta a scrivere sul libretto degli assegni e lo odiò profondamente. «Lei non sovvenzioni il Mis e si metta da parte i soldi per gli sceneg­ giatori», riuscì a dire volgendo la cosa allo scherzo. «Non c’entro più col Mis. Sono una massa di stronzi», disse Corbucci e stava per scrivere la cifra sull’assegno, ma squillò il telefono. «Corbucci», disse il produttore nervosamente. «Ah, sì. Quel motivo fa schifo, maestro. Ne voglio uno più orecchiabile, più commovente. Ma non ha capito che lo devono fischiare tutti per la strada, dopo che il film è uscito?». Mario non perdeva di vista i suoi gesti, lo sguardo rissoso, la bocca enorme, il mento tondo cadente. Ogni volta che lo fissava a lungo gli veni­

46

«CITTÀ APERTA» (1957-1958)

va naturale di immaginarselo in divisa fascista. Erano pochi a conoscere la provenienza della sua fortuna e Mario era tra questi. Corbucci finì di telefonare. Gettò il cornetto sulla forcella, sbuffando. «Non capite niente. Intellettuali del cavolo. Dovreste ringraziarci perché vi facciamo lavorare». «Dovreste ringraziarci voi», disse Mario, ma era uno scherzo servile. «Poi storcete la bocca e andate da Rosati a parlare male di noi». «Questo sì», rispose Mario sorridendo falsamente. «I soldi, però, li volete». «Da come parla lei sembra che il lavoro non lo facciamo». «Il vero comunista, tra tutti, sono io», disse Corbucci e sollevò il rice­ vitore del telefono che aveva ripreso a squillare. «Sì, sono io», disse, quasi gridando. «No, no, io voglio quella rossa. Se non è quella rossa non vi do una lira, non c’è niente da fare». Dopo 1’8 settembre era passato coi fascisti repubblicani. Sotto un bom­ bardamento, a Livorno, sorprese un ufficiale della PAI a rubare tra le mace­ rie, con un sacco pieno d’oro. Lo fece fucilare. L’oro scomparve. L’ufficiale della PAI credeva che fosse tutto uno scherzo e gridava: «Camerati, adesso basta» e rideva isterico, ma fu fucilato e l’oro non si trovò più. «Hai visto?», fece Corbucci posando il ricevitore. «Perfino la macchi­ na rossa mi faccio. Più comunista di così?». Prese rapidamente un appunto, poi disse: «Su, quanto vuoi?» «Almeno la metà», rispose Mario. «Cento». «Duecento, almeno, e il resto tra quindici giorni». Corbucci cedette tutto insieme. Scrisse la cifra sull’assegno e lo asciugò agitandolo. Poi lo tese a Mario che lo prese, lo guardò e continuò ad agitarlo. «Che amici», disse Corbucci. «Guarda qui come mi trattate. Vi do da mangiare tutto l’anno e non sapete aspettare due giorni». C’era una nota di sincerità nella sua voce. «Con che pago il fornaio?», disse Mario mettendo l’assegno nel por­ tafogli. «Non rompete i coglioni col fornaio. Ce l’hanno tutti col fornaio. Dite piuttosto come pago il garage, non il fornaio. Questo lo può dire un mura­ tore». Il produttore prese un copione e lo mostrò a Mario: «Sai quanto mi costa, questo qui? Quattro milioni. Ci fanno pure la smorfia. E per scri­

47

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

vere un libro non prendono una lira. Tutto per un nome. Un nome che conoscono trentamila persone al massimo. Vai dagli scrittori famosi, vai. Scrivono delle tali porcherie che io, che sono mezzo analfabeta, mi ver­ gogno per loro». Mario s’era quasi rappacificato con l’omaccione che gli stava di fronte e si sentiva disposto a condividere qualche sua opinione. La breve striscia di carta che aveva riposto nel portafogli gli dava maggiore sicurezza. Corbucci agitava il copione. «Qui ci sono quattro milioni. E non c’è una sola battuta che vada bene. E il dialogo dovrebbe essere il loro forte. Scrivono i grandi romanzi che nessuno legge, tranne qualche capoccione come te, e al cinema gli danno la merda». «Questo è un vero e proprio problema culturale», disse Mario. «I rap­ porti tra il cinema e la letteratura». «Chi se ne frega dei rapporti tra il cinema e la letteratura», rispose Corbucci. «II problema è che con questi mattoni nessuno va più al cine­ ma e i finanziatori non ti sganciano più le lire». Corbucci scuoteva la grande testa rosea e bionda. La mascella gli ricadde e la bocca restò semiaperta, mentre s’era chinato sulla scrivania a stendere un appunto sul suo blocco. In alcuni momenti somigliava a Mussolini, pensò Mario. Come produttore cinematografico di quel gene­ re, in fondo, Mussolini sarebbe stato perfetto. Aveva sbagliato mestiere, Mussolini. Se il cinema fosse già esistito su un piano industriale, nel 1905, forse Mussolini sarebbe stato attirato più dal cinema che dal giornalismo e l’Italia avrebbe avuto qualche Cabiria di più e si sarebbe risparmiata il fascismo. «Beh, adesso vattene», fece Corbucci sollevando il capo dagli appunti. «Vado», disse Mario alzandosi. «Ricordati quello che ti dico», disse Corbucci. «In questo paese il cine­ ma non si può fare e tra un anno è finito tutto e andiamo tutti per cicoria». «E quello che dico anch’io». «Fatti vedere. Torna tra una quindicina di giorni. Forse ci sarà un lavo­ retto». «Non ne dubiti, devo tornare per le altre duecentomila». «Va via», disse Corbucci. «Se no ti tiro questo calamaio sulla testa». Nell’anticamera, accanto al vecchio attore, erano sedute una donna sulla quarantina, molto colorata, e una giovanetta dalle forme mostruosa­ mente mature per la sua età. Mario se ne andò in punta di piedi per non farsi vedere dal vecchio.

48

«CITTÀ APERTA» (1957-1958)

Nella strada tirò fuori dal portafogli la striscetta di carta su cui era scritto «duecentomila». Quelle erano duecentomila lire. Altri due mesi di vita. Un altro poco di fiato. Nei polmoni gli rimaneva come aria velenosa tutta la volgarità respirata in quella mezz’ora. Cosa poteva pretendere, del resto? Non erano i soldi quello che lui voleva, dietro il suo gran parlare di idee e altro che con i soldi non avevano niente a che fare? Ecco i soldi. Po­ chi, riflette amaramente. Andò da De Santis in Corso Umberto e acquistò due quartetti di Beethoven, gli unici due che non avesse ancora. Si sentiva come un cane che andava nei prati a frugare col muso tra i rifiuti e rosicchiava una scar­ pa sfondata. «Città aperta», 3, 25 giugno 1957.

49

NON È UN LUOGO COMUNE

Accusare di tatticismo ogni invito all’unità, mi pare che corrisponda ad una forma ossessiva di tatticismo; oppure, si è perduto perfino il senso di un concetto tanto semplice. Gli uomini del cinema italiano hanno in comune alcuni nemici bene individuati (oltre se stessi e le loro intossica­ zioni personalistiche): cos e più naturale di un richiamo all’unità? Anche Filippo M. De Sanctis riconosce che l’unità, in questi anni, è andata perduta, tra gli uomini del cinema. Io non sostengo che essa vada “ricostruita” come fosse una specie di CLN. Non è più il tempo delle alleanze generiche e precostituite. L’unità nasce caso per caso. L’occasione dei tagli richiesti dalla censura a 11 grido di Antonioni era un caso concre­ to attorno al quale si poteva trovare la unità e la solidarietà dei registi e degli scrittori del cinema italiano. La acredine personalistica e lo spirito di clan hanno portato tali guasti che oggi è difficile perfino trovare un minimo di unità attorno ad un pro­ blema di principio tanto elementare come quello di difendere l’opera di un collega, e di difenderla dalla censura. Né si può dire che aiuti a dissipare l’atmosfera la diffidenza con cui, appunto, ogni invito all’unità viene accolto, da tutte le parti, perfino da alcuni intellettuali comunisti. E vero: «La crisi di questi anni è anche di sfiducia». Tali stati d’animo, però, vanno vinti anche attraverso ad atti di volontà, contro il proprio istinto, (che in Italia è sempre quello di dare addosso a tutti). Unità e solidarietà: caliamo questi concetti in una visione più moder­ na del lavoro degli uomini di un’arte così moderna come il cinema. Venti registi, oggi, od anche due (l’esempio di Bardem e di Berlanga che si sono riuniti a Madrid in una stessa società è un insegnamento), non possono continuare a lavorare ignorando pertinacemente le istanze che differen­ ziano le proprie opere; soprattutto quando si vive in un momento in cui la crisi di ciascuno viene dalla stessa matrice. Si tratta dunque, di trovare, dialetticamente, una unità culturale, e non corporativa in cui le tendenze poetiche, al posto di escludersi aprioristi­ camente, si completino e ricompongano un quadro armonioso del nostro cinema. L’ostacolo maggiore incontrato, in questi anni, sulla strada del­ l’unità è quello dell’anticomunismo, che produce irrigidimenti da tutte le 50

«CITTÀ APERTA» (1957-1958)

parti, serve da «camouflage» ad atti servili verso il Governo e getta man­ ciate di sospetto su tutti. Un lato singolare dell’atteggiamento di molti intellettuali radicali o socialdemocratici, consiste nel lor cocciuto chiedere un “esame di co­ scienza” ai comunisti. Manca sempre, nei loro ragionamenti, un qualsiasi accenno ad un personale “esame di coscienza”. E inutile - e sarebbe una posizione confessionale pretenderlo - che l’“esame di coscienza” venga solo da una parte. Cadrò ancora, per Filippo M. De Sanctis, nel luogo comune, ma non vedo, oggi, luogo comune più logoro dell’anticomunismo, e nulla di più dannoso per un intellettuale che voglia mettersi davanti alla realtà italiana nella posizione più autonoma. E nella lettera a Germi io mi riferivo ad un genere di anticomunismo corrente di cui egli, secondo me, soffre, e non a «dissensi» pure profondi che ognuno ha il diritto di avere coi comunisti. Non scambierò Calaman­ drei per Saragat, né Gide, o Sartre, per Panfilo Gentile (e non scambierò, rovesciando il ragionamento, Lukàcs per Rakosi). Ma l’anticomunismo “abituale” toglie ad un intellettuale “impegnato”, la possibilità di capire, come è successo a Pietro Germi, che i fratelli Cervi, prima di essere comunisti, erano sette contadini italiani. E molto raro trovare un genere di anticomunismo che non fosse “di maniera”; perfino nell’atteggiamento di alcuni di coloro che hanno abbandonato il partito in seguito alle drammatiche perplessità suscitate in molti di noi, dopo il ventesimo congresso e i fatti di Ungheria. «Città aperta» rappresenta il nostro personale “atto di volontà” e ci giudichino pure dei velleitari: è preferibile il velleitarismo alle varie forme della stagnazione mentale e del conformismo. Il dibattito ideale, in Italia, da anni, pare un dialogo tra sordi. Le varie posizioni sembrano impermeabili ad ogni esigenza di novità. Ciascuno deve liberarsi delle proprie rèmore. «Città aperta» è nato autonomo perché noi ci siamo voluti liberare dalle nostre personali rémore, e non di quelle, se esi­ stono, della nostra direzione politica e di quelle degli intellettuali del «Con­ temporaneo»: semmai, questi ultimi, hanno svolto una azione culturale che ha sempre cercato di muoversi liberamente, nei limiti del loro terreno di ricerca, fuori da schemi e da dogmi: basterebbe rileggere la collezione del «Contemporaneo» e seguirne la nuova serie per rendersene conto. «Città aperta» è nato spontaneamente quindi autonomamente. Le altre interpretazioni, vengano da Cassola o da certi nostri compagni di partito, non sono obbiettive.

51

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

Noi abbiamo rivolto e continuiamo a rivolgere alla direzione «cultura­ le» del nostro partito, e quindi a noi stessi, molte critiche. Ma non sono certo i comunisti, con tutti i loro errori e schematismi, a portare il peso maggiore della situazione di crisi in cui si trova, come tanti altri settori della vita nazionale, il cinema italiano: è paradossale affermarlo. Per non essere «di maniera» l’anticomunismo ha una sola strada: ces­ sare di essere anticomunismo. Lo stesso De Sanctis deve parlare di acomunismo; si tratta, evidentemente, dì una posizione tollerante e perciò del tutto diversa da quella che rimproveravo a uomini come Germi. «Città aperta», 3,25 giugno 1957.

52

IL CINEMA ITALIANO: UN ELEFANTE CASTRATO

Nell’autunno del 1945 veniva proiettato per la prima volta in un festi­ val internazionale del cinema, al teatro Quirino di Roma, Roma città aper­ ta. Fu, per quelli della nostra generazione che finirono - prima o poi - per occuparsi di cinema, una data importante. Accanto a Roma città aperta furono proiettati da Les Enfants da paradis dà*Alessandro Nevski, da Les Visiteurs du soir e Arcobaleno a Enrico V, i film migliori della produzione europea tra il ’43 ed il ’45. Il confronto diretto di quelle opere fu sensazionale ed il risalto con cui spiccava Roma città aperta tale da indicare drammaticamente le due gran­ di vie che stavano - e stanno ancora - davanti al cinema in tutto il mondo: quella di un cinema profondamente impegnato davanti ai moti reali degli uomini e l’altra, d’un profondo e coltissimo vaneggiamento culturalistico (un critico comunista teorizzò di una «terza fase» del cinema, ma non per indicare quella aperta da Roma città aperta; quanto quella di Les Enfants du paradis e di Enrico V). A distanza di dodici anni, poi, lo squarcio prodotto dal film di Rossel­ lini (con le delusioni, le amarezze e le sconfìtte che abbiamo sulle spalle) negli interessi, nelle poetiche, nelle formule, anche produzionali, ci appa­ re in tutto il suo vigore rivoluzionario. Roma città aperta, nato casualmente se volete, - e ci sarebbe molto da discutere su questo luogo comune che da molti si va ripetendo; illegitti­ mamente da un astratto punto di vista di “linguaggio”, e di questo anco­ ra di più dovremmo discutere - portava con sé il respiro profondo ed inquietante della rivoluzione italiana. Non scorderemo più quel confronto autunnale, che ci commosse fino alle lacrime e ci entusiasmò. In quegli stessi giorni i distributori avevano ritentato la sorte con Ossessione - bloccato dalla censura fascista con lo zampino di quella cattolica - facendolo circolare nelle seconde visioni, senza un briciolo di pubblicità, già fin d’allora primi nel discreditare il cinema nazionale per ignoranza e per un errore di calcolo che risulterà poi fatale al nostro cinema. Molti di noi videro Ossessione poco prima o poco dopo aver veduto Roma città aperta e si resero conto delle due facce appassionate che il cine­ ma italiano avrebbe potuto avere: quella della ricerca nella grande massa 53

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

dei fatti sociali e della denuncia, e l’altra, del rigoroso romanzo di costu­ me, sulla morale, sui sottomondi aperti ad ogni crisi. Da quelle basi bisognava partire: da Roma città aperta e da Ossessione. Ma il cinema italiano seguì la sorte di tutta la società nazionale. Ebbe solo cinque anni di vita vera e ricca di fermenti. Il tempo appe­ na di conquistare il pubblico nazionale, “storicamente” avverso alla pro­ duzione italiana - avversione che la meschina produzione fascista aveva aggravato (e di questo non si tiene mai conto quando si parla o si scrive della tradizionale «ostilità» degli italiani di tutti i ceti verso il film del loro paese). Cinque soli anni: dal ’46 al ’51, e fu stenta vita già negli ultimi due anni di questo quinquennio. Il nucleo più conservatore delle classi dirigenti, che veniva a mano a mano sempre più saldamente impadronendosi del potere, cominciò imme­ diatamente a tirare le redini sulla groppa del puledro. La censura si mise in moto fin dai primi anni. Il sole sorge ancora - che più di tutti apparve sulla linea di Roma città aperta, e non solo perché anch’esso affrontava un tema della resistenza - corse il rischio di non uscire ed eravamo appena nel ’46. Paisà, dello stesso Rossellini, pur mantenendo una presa umana formidabi­ le, già portava impresso il marchio del PWB. Dalle basi “ideali” di Roma città aperta e di Ossessione si partì per arre­ trare e non per avanzare. La storia del nostro cinema in questi dodici anni, è una storia di vittorie parziali, di ritirate strategiche e no, coscienti e no, che hanno condotto poi alla attuale, amara, situazione ai sconfitta, artisti­ ca ed industriale. Ogni film realistico prodotto in questi ultimi dodici anni può consi­ derarsi una vittoria vera e propria, nella lotta quotidiana degli artisti con­ tro il filisteismo e il conservatorismo delle autorità e dei produttori - in gran parte e bene organicamente schierati dalla parte del governo; può considerarsi il risultato di una lotta generalmente sconosciuta alla gente, anche agli intellettuali. Ora che tutti danno addosso al realismo ed ai suoi uomini, e molte volte partendo da posizioni critiche giuste, da noi condivise, non è superfluo accennare a questa lotta che fu condotta film per film, dal Sole sorge ancora, a Caccia tragica, alla Terra trema (che Vi­ sconti finì per pagare col proprio danaro), fino a quelli prodotti dalle società ufficiali, che furono più tollerati che protetti, e che riuscirono a sgusciare tra le maglie della censura governativa solo per la autorità internazionale ormai acquisita dal cinema italiano e dai suoi uomini migliori.

54

«CITTÀ APERTA» (1957-1958)

Di questi dodici anni si parla solo apologeticamente, o scandalistica­ mente, o per dare la croce addosso ai comunisti e ai cripto. Non si va mai a frugare nelle pieghe della realtà apparente, per trovare quella vera nascosta. Anche i liberali più liberali, anche le terze forze che mostrano, e, spesso non solo a parole, di essere indipendenti nella ricerca e nel giu­ dizio critico (come Moravia, ad esempio, il quale - tra l’altro - è l’autore di sceneggiature assai scadenti e con la cessione dei diritti di Racconti romani ha fatto un grosso affare, ma non si può dire che abbia contribui­ to alla difesa non diciamo del “neorealismo”, ma di un comune buon cine­ ma), anche gli uomini più agguerriti nella battaglia per la sprovincializza­ zione del nostro paese, sfuggono al vero problema del cinema italiano: il problema sostanziale, quello da cui nasce tutto e che fu aperto con l’ope­ razione prima di elefantimento delle strutture industriali e poi di castra­ zione ideale concepita e attuata da Giulio Andreotti: il quale non poteva ignorare che la castrazione dà la sterilità, l’invecchiamento, la morte. Non a caso la sostanza del problema viene per lo più ignorata: poiché la tendenza a considerare il cinema come fenomeno artistico o tutt’al più industriale è ancora quella che trascina dietro di sé la maggioranza dei cri­ tici e degli uomini di cultura. Mentre il cinema è, nella realtà, un grosso fenomeno - oltre che artistico - anche politico e pubblico, che tocca inte­ ressi politici e finanziarii enormi, perfino sproporzionati a quelle che dovrebbero essere te sue dimensioni ideali, in una società - anche capita­ listica - più progredita. Il potere politico - talvolta anche quello detenuto dalle forze del pro­ gresso - non ama alcun genere di rinnovamento sovrastrutturale tale che possa direttamente - ma anche molto indirettamente - incidere su uno spostamento di valori di massa. (E sintomatica, a questo proposito, l’assenza in Italia di un cinema “problematico” e specificamente cattolico. In un paese cattolico per anto­ nomasia e governato da forze politiche che si richiamano al cattolicesimo, una tale assenza sarebbe inspiegabile, se non si tenesse conto della rigorosa diffidenza di chi governa verso ogni forma di “problematicità”, anche misti­ ca, anche tesa a portare avanti idee che con il marxismo - o addirittura l’i­ dealismo - avrebbero poco a spartire: è il caso dell’ultimo film di Fellini). Alla costante e sempre più esplicita azione di soffocamento del cinema nazionale da parte di coloro che hanno governato in Italia nei dodici anni passati si è accompagnato il ripiegamento degli artisti più qualificati, dovuto, essenzialmente, a fenomeni, da considerare transitori, di costume:

55

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

la fama, il danaro, l’incensamento della critica internazionale, i grandi suc­ cessi dei film - e il successo porta generalmente chi ne è il protagonista alla presunzione -, tutti fattori che hanno allontanato, a prescindere anche dalla pressione del governo, gli artisti, e sempre più, dalle loro natu­ rali fonti di ispirazione. La teorizzazione delle “poetiche”, il tentativo - non riuscito - di farle as­ surgere al rango di vere e proprie concezioni dell’arte, è il sintomo più evidente di questa decadenza; il neorealismo è questo, si fa così e così: atto­ ri non professionisti, storie “vere”, macchina da presa in mezzo alla strada ecc. ecc. La teorizzazione astratta conduce ad una visione acritica dei risul­ tati già acquisiti - e questo, crediamo, non solo nel cinema -, li cristallizza, impedisce che da quei risultati ci si possa muovere per andare avanti, pro­ duce una stagnazione nella ricerca, nella stessa invenzione artistica: ed un esempio di ciò risiede proprio ne 11 tetto, film che al momento della sua usci­ ta già appariva invecchiato di otto anni, poiché, se corrispondeva pienamen­ te ai modelli classici ed ai “canoni” teorici del “neorealismo” zavattiniano, non rispondeva più a tutte le esigenze sorte in noi dal contatto con le nuove realtà del paese ed anche dalle nostre più recenti esperienze culturali. La realtà, il più delle volte procede più speditamente di teorie che vengano creandosi sulla base di ricerche pratiche tanto legate alla crona­ ca, come quelle compiute dagli artisti neorealisti, al costume - e che solo nella prospettiva possono diventare storia, se hanno la forza e la profon­ dità di diventarlo, e quindi teoria. Il tetto, a questo proposito, ci ha chia­ rito molte questioni. Il “neorealismo” se non è inteso come vasta esigen­ za di ricerca e di indagine, ma come vera e propria tendenza poetica, non ci interessa più: e non perché, come si è teorizzato da più parti, il proble­ ma, per noi, sia quello di compiere il solito “salto di qualità” (dal “neo” al “realismo”, dalla impressione alla riflessione, dal “frammento” al “ro­ manzo”): questo è solo un aspetto dell’impasse neorealistica, ed è com­ preso nel problema più generale delle tematiche, dell’atteggiamento idea­ le del “neorealismo”, della scelta dei “contenuti”. La torbida Italia nata dai compromessi del dopoguerra non può essere più affrontata col can­ dore implicitamente cristiano del “neorealismo”: urgono storie ed imma­ gini più pertinenti alle lacerazioni morali che la restaurazione capitalistica - compiuta su basi nuove per il paese - ha compiuto nelle coscienze. Oc­ corre fare i conti con i miti moderni, con le incoerenze, con la corruzio­ ne, con gli esempi splendidi di eroismi inutili, con i sussulti della morale: occorre sapere e potere rappresentare tutto ciò. 56

«CITTÀ APERTA» (1957-1958)

Considerando la storia del nostro cinema in questi dodici anni, risulta evidente, poi, l’egemonia che ha esercitato su di esso - egemonia pura­ mente culturale -, lo schieramento delle forze progressiste italiane che si richiamano ai principi del marxismo. La battaglia per i nuovi contenuti è stata al centro dell’attività della critica cinematografica di tendenza marxi­ sta: il giusto centro, l’unico asse intorno al quale potesse muoversi il cine­ ma per rinnovarsi. Ma l’obbiettivo - o, come si abusa dire, la parola d’ordine - «nuovi contenuti» si è andato a mano a mano anch’esso cristallizzando, restrin­ gendo attorno a tematiche che scaturivano solo da una visione parziale della realtà nazionale. «Nuovi contenuti» diventò uno schema, per gli arti­ sti e i critici marxisti anche più qualificati, e diventò, quindi, per molti di noi, anche per i più giovani di noi, uno schema anche il neorealismo: ispi­ rarsi ai fatti della realtà significò vedere della realtà solo i fenomeni più direttamente collegati con la lotta di classe, quelli più scoperti; solo i fatti che scaturivano direttamente dalle grandi lotte politiche e sindacali delle classi lavoratrici, come se la lotta di classe, nelle sue forme politiche e sin­ dacali, non operasse di continuo mutamenti qualitativi, sotterranei e no, nelle coscienze degli uomini e da questi mutamenti non scaturissero altri fatti, altri personaggi, altri sentimenti, altri problemi di vita, di morale, di rapporti tra gli uomini. Noi vedevamo, critici ed artisti di tendenza marxi­ sta, se così si può dire, solo lo sciopero e non dopo lo sciopero. E tutto questo fu aggravato dalla lotta provinciale contro il cosiddetto “cosmopolitismo”, che ci impedì di capire appieno il valore di molte espe­ rienze straniere, e fece compiere inutili “riscoperte” a ciascuno di noi, come una accettazione passiva della tradizione italiana. La “lotta” contro il “naturalismo” ha esasperato certe grettezze, portò molti a concezioni “ottimistiche” dell’esistenza, “collettivistiche”, non permise il supera­ mento della angustia “filosofica” della esperienza realistica, che la aprisse al contatto con i problemi dell’umanità moderna nel suo complesso. Questo legame troppo meccanico con gli aspetti più evidenti della lotta delle classi fu ben rappresentato da una tendenza molto diffusa tra i pittori e i cineasti comunisti: quella di orientarsi, nelle loro ricerche, verso il mezzogiorno d’Italia, con punte accese di folklorismo, attraverso all’e­ quivoco, mai chiarito, di un’arte nazionale-popolare che nella concezione gramsciana poco aveva a che fare con atteggiamenti folkloristici: Gramsci parlava di un’arte che esprimesse l’unità nazionale, e questo era al centro, secondo lui, di una politica culturale dell’avanguardia della classe operaia. 57

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

Con Gramsci possiamo dire: «La vita dei contadini occupa un maggior spazio nella letteratura, ma anche qui non come lavoro e fatica» - e quest’ultima frase, evidentemente, non calza col nostro discorso - «ma dei contadini come “folklore”, come pittoreschi rappresentanti di costumi e sentimenti curiosi e bizzarri.» Molti artisti comunisti, quindi, anche se si preoccupavano dei conta­ dini «come lavoro e fatica», recavano nelle loro attività una tara propria dei letterati di cui parla Gramsci. Nessuno si curò di correggere questo orientamento, nessuno si curò sulla base di una lotta di principio, per far acquisire agli artisti una coscienza dei problemi culturali dell’unità nazionale, e una coscienza dei problemi della classe operaia - di porgere davanti al lavoro degli artisti comunisti i temi nuovi che scaturivano dalla vita della classe operaia, dal fatto di essere la classe operaia una classe di governo, dalla profonda crisi morale e di costume che la caduta del fascismo, la liberazione, la resisten­ za, la rivoluzione avevano in mezzo a tutti gli strati della popolazione ita­ liana, nel corpo della umanità italiana. L’obbiettivo della direzione culturale attraverso alla quale si esercita l’egemonia delle forze progressiste italiane nel campo del cinema, fu giu­ sto, e da quello occorre partire ancora: «nuovi contenuti», ma schematica e ristretta fu la forma in cui una tale direzione si sviluppò. Sempre con Gramsci possiamo riconoscere che: «Non si può certo imporre a una o a più generazioni di scrittori di aver simpatia, per uno o altro aspetto della vita, ma che una o più generazioni di scrittori abbiano certi interessi intellettuali e morali e non altri, ha pure un significato, indi­ ca che un certo indirizzo culturale predomina fra gli intellettuali». L’indirizzo predominante degli artisti comunisti non si può certo imporre: ma un gruppo che intende rivoluzionare la società, costruire una società e una civiltà nuove, deve sviluppare problematicamente una lotta di principi, da cui far scaturire una “direzione culturale”. In molti momenti anche gravi mancò, secondo noi, una “direzione cul­ turale” vera e propria, ed essa si manifestò troppe volte attraverso esigen­ ze puramente opportunistiche. Mentre si poteva notare un apparente rigore teorico, schematico ed astratto, in concreto non si sviluppava alcu­ na lotta di principio per un cinema, ed un’arte, impegnati e realistici. Vi fu, per dirla con un linguaggio caro ai funzionari di partito, «opportuni­ smo nella pratica». 58

«CITTÀ APERTA» (1957-1958)

Non v’è dubbio che la maggioranza delle deficienze della direzione culturale del partito comunista, ad esempio, furono un prodotto di esi­ genze meramente politiche, e nemmeno di respiro molto largo. Qualche volta fu addirittura timore di “inimicarsi” gli uomini più rappresentativi del cinema italiano che andavano assumendo, nel paese e nel mondo intiero, posizioni molto popolari. Ci si limitò al fair-play'y inve­ ce di vedere più in là del rapporto amichevole -?- e di indole diplomati­ ca - talvolta addirittura personale -, più in là, cioè ai lineamenti di un’ar­ te nazionale e unitaria, che esprimesse nel suo seno, con le opere, le esi­ genze più vaste, le ricerche anche più audaci e rivoluzionarie. Ad un regista comunista messo quasi al bando per aver diretto un film socialmente molto impegnato - forse il migliore della sua ancora breve carriera - uno dei maggiori dirigenti del PCI disse che più di quello non «poteva fare» e che sarebbe stato bene per lui e per la classe operaia un ripiegamento su temi meno brucianti di quello della disoccupazione. Perché quel dirigente - e si era ormai alla vigilia del 1953, alla vigilia di una delle più grandi sconfitte dei conservatori italiani - non assicurò il suo appoggio, e l’appoggio del partito comunista, perché si potessero creare condizioni politiche, nel cinema, tali da favorire un progresso e non un ripiegamento? E, infatti, il non aver compreso che la difesa della libertà d’espressio­ ne - per tutti gli intellettuali - significa difesa dei principi costituzionali, della democrazia, è un sintomo di cecità abbastanza grave, che ha com­ promesso le sorti del cinema italiano, ed è una delle responsabilità che le forze progressiste italiane portano sulle spalle. I problemi del cinema italiano si sono terribilmente acutizzati oggi: soprattutto per l’agonia in cui si sta dibattendo l’industria cinematografi­ ca nazionale. Alla base della crisi stanno le note modificazioni delle abi­ tudini collettive recate dal progresso tecnico, dalla crescente diffusione della televisione, dallo straordinario aumento dei trasporti privati. Ma un fenomeno di tal genere, in un campo di attività squisitamente culturale, non può avere alle sue radici solo cause di carattere quantitativo. Oggi il pubblico cinematografico, con tutte le sue contraddizioni, consciamente o no, - questo dipende dal livello dei suoi strati - riveste il cinema di una funzione diversa da quella di semplice e cieco svago. Il “nickelodeon” moderno, oggi, è rappresentato dalla televisione. Nella prospettiva stori­ ca dello spettacolo il cinema viene ad assumere un posto nuovo, in cui prevalgono i suoi caratteri nobili, di grande arte moderna. II successo di 59

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

film come La strada, per quanto se ne possano discutere tutte le altre cause, conferma questa convinzione. Gli artisti del cinema non possono restare fermi, nelle nuove prospettive che si aprono al cinema come stru­ mento creativo. E per essere fedeli al loro mezzo di espressione dovranno essere più coraggiosi e coerenti di quanto, fino ad oggi, siano stati. Non si può attendere che una nuova rivoluzione - della forza di quel­ la che sospinse sulle sue onde i film del neorealismo - venga a indicare strade nuove. Ricominciare da Roma città aperta e da Ossessione non è possibile. Malgrado tutto, malgrado le sopraffazioni, gli strangolamenti e tutto il resto, il cinema italiano si è arricchito di voci e di esperienze nuove, di umori e di personalità ben precise: da questi risultati e dalle ultime espe­ rienze del cinema mondiale (dai film giapponesi a Limelight, da 11 ritorno di Vassili Bortnikov al Fronte del porto) bisogna partire. La condizione essenziale per una ricerca coraggiosa e coerente è costi­ tuita dalla più larga libertà possibile per gli artisti: è questa l’esigenza che ci fa ancora parlare di “unità”, a costo di sembrare fuori moda e “tatticisti”. «Città aperta», 4-5, 25 luglio 1957.

60

MORTE DI UNO SCRITTORE Appunti per un film in economia

Cercano idee per film in economia? Eccone una: un solo “ambiente”, una clinica romana; tre protagonisti: un moribondo, un prete, un comu­ nista. La storia dovrebbe avere un arco breve, teso, bloccato tra il terzul­ timo e l’ultimo giorno di vita del moribondo. Si apre una porta ed entra un prete gesuita con la veste nera svolazzante che lo fa somigliare ad un corvo e che spicca macabra nel biancore accecante della stanza: c’è un uomo a letto, esangue. Il prete si avvicina al letto, punta l’indice contro il malato e dice: «Tu non lo sai, ma hai il cancro: pensa a metterti in regola con la tua coscienza». Questo è l’inizio del film che proponiamo. Il malato è uno scrittore intelligente, raffinato, molto mondano, che ha sempre amato épater, ha preferito sempre i gesti bizzarri, innocuamente immaginosi, con il senso tutto italiano dell’opposizione “protetta” e tollerata, di sentirsi in “prima linea”, in una prima linea tutta sua, da cui sparare con­ tro tutto e tutti (ma in realtà il “nemico” è in una tribuna laterale a vedere arri­ vare le palle infuocate contro bersagli di cartone, e gode un mondo di quell’orgoglioso solitario combattente, e fa perfino pagare il biglietto). Il malato, è, insomma, un enfant terrible: fascista e antifascista, poeta del dittatore e con­ finato; anticomunista, ma ha scritto sul quotidiano comunista, subito dopo la liberazione di Roma, dei preziosi servizi dal fronte firmati con uno splendido pseudonimo toscano. Lo scrittore, via, è un uomo di mondo (ed io nutro per questo personaggio una grande simpatia, perché ho ancora il gusto, anche questo, del resto tutto italiano, dell’ammirazione per i grandi avventurieri, su­ bisco ancora il fascino di Cagliostro e di Al Capone). Davanti alla morte lo scrittore teme di avere sbagliato tutta la sua vita: sente, forse, il peso del suo cinismo; avverte la crudeltà e la inutilità delle sue azioni; è veramente solo, come aveva sempre, per comodità, procla­ mato di essere. È solo, completamente, assolutamente, irreparabilmente solo; non ha figli o una donna o qualcuno che veramente lo ami. Lo perseguitano mille rimorsi, e io credo che siano veri, profondi: non voglio che questo personaggio debba concepire prima di morire l’ultimo colpo di scena, inventare l’ultima trovata giornalistica che possa far dura­ re l’eco della sua morte più di un giorno. (Anche questo sarebbe un per­ sonaggio realistico, ma allora lo stile del film dovrebbe cambiare: do­ 61

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

vrebbe essere grottesco, satirico; non dico nemmeno che anche questa strada non sia legittima, tutt’altro: insomma, è una cosa da discutere). Il moribondo piange spesso, ha paura di morire, è un uomo ancora giovane; la sua è sempre stata una filosofìa vitalistica, mai decadente; ed il suo corpo nemmeno, può essere preparato a morire, per il fatto di essere ancora forte, vivo, giovane. L’ossessione dello scrittore è che preso da un momento di terrore, in un attimo di suprema debolezza, egli accetti di confessarsi e di comuni­ carsi prima di morire. Non è un vero e proprio ateo: ma non è credente, non è cattolico, non ha mai avuto crisi papinesche, malgrado le molte affi­ nità con il suo conterraneo. È forse l’unica profonda coerenza della sua vita. Egli non ha più fiducia nelle sue forze, ed allora chiede che davanti alla porta della sua coscienza qualcuno monti la sentinella. Ma chi? se non ha più amici? se non ne ha mai avuti? Nella clinica sostano in permanenza uomini politici di tutte le correnti, perfino uomini di governo, perché è grande la popolarità dello scrittore. A chi rivolgersi? a questa folla anonima di estranei? Ha bisogno di gente fidata, di persone che con i preti non abbiano alcun interesse comu­ ne: come fidarsi, al esempio di quel deputato repubblicano di sinistra, o di quel giornalista liberale, sapendo che trafficano coi preti e coi demo­ cristiani dalla mattina alla sera? Si rivolge ai comunisti, ai vecchi “nemi­ ci”, al “leale” avversario. «State attenti», dice. «In un momento di debo­ lezza potrei cedere alle pressioni morali dei preti ed io non voglio». Lo scrittore si conosce: sa che la sua coscienza non è nuova a questi pentimenti, a queste improvvise ed illuminanti conversioni. Così viene organizzata una specie di cortina di difesa attorno a quel corpo martoriato, a quelle carni rinsecchite e ingiallite, che il cancro cor­ rode internamente, dilacerandole pezzo a pezzo, divorandole tessuto a tessuto, cellula a cellula. Il viavai dei preti viene a poco a poco controllato, arginato. Al tra­ monto del secondo giorno sembra addirittura che essi abbiano deciso di dare una tregua al moribondo, o forse stanno meditando sul da farsi. Essi non prevedevano l’ostacolo costituito dai comunisti: forse essi temono di lanciare i loro scongiuri, di tracciare i loro primitivi anatemi alla presenza di testimoni. Lo scrittore ed i comunisti, intanto, imparano a conoscersi meglio, divengono amici. (A dire il vero egli ha sempre mostrato un patetico pen­ chant per il partito comunista, sebbene il fondatore del partito abbia 62

«CITTÀ APERTA» (1957-1958)

lasciato nei quaderni del carcere un giudizio su di lui tale da incenerir­ lo). Non si rimproverano nemmeno i gesti di inimicizia, se li rammen­ tano quasi con nostalgia. Il moribondo confessa con le lagrime agli occhi che il suo più grande tormento, in questi ultimi attimi della vita, è quel­ lo di sapere che la sua figura passerà alla storia come quella di un uomo nemico del progresso, di un letterato compromesso coi tiranni e coi potenti. Nella mente attenta di uno dei comunisti più assidui nell’assistere lo scrittore si fa febbrilmente strada un’idea. Perché non proporre, spregiu­ dicatamente, al moribondo una conversione al comuniSmo? Perché non aiutarlo a placare il suo tormento ideale? Una firma, un sì, e le sue soffe­ renze morali saranno almeno quelle alleviate. (Dimentica di essere il rap­ presentante di centinaia di migliaia di contadini: preme solo per il piace­ re di avere avuto un’idea). Egli comunica ai compagni la sua idea. C’è chi la respinge indignato: «Ma quello è stato fascista, ha cambiato mille bandiere, non è possibile». Un altro calcola il valore politico del gesto e conclude che sarebbe con­ troproducente. I più ingenui restano affascinati dal fatto di poter racco­ gliere le ultime volontà di un uomo così celebre, di un borghese così importante e considerato. Si procede ad un cauto sondaggio del malato. Egli ha delle deboli obbiezioni. Ormai, non ha che un filo di voce. Si esprime con poche paro­ le, più con i grandi occhi neri intelligenti, resi ancora più profondi ed umani da quegli ultimi giorni di sofferenza atroce. Lo scrittore, dopo un po’ accetta. Si corre a prendere una tessera, clandestinamente, in modo che i preti non se ne accorgano, né gli altri uomini politici presenti, né i giornalisti. Nel pomeriggio del terzo giorno, proprio mentre si profila l’ultima crisi del male, viene consegnata allo scrittore con poche semplici parole la tessera di iscrizione al partito. Subito dopo il suo corpo si abbandona completamente al male e nel punto più alto della crisi i preti tornano alla carica. Prepotentemente fanno da parte i comunisti, li scansano, li fanno alzare dalle sedie e si impadroniscono dello scrittore, il quale, vedendoli, scoppia a piangere disperatamente, poiché nella loro presenza vede firmata la condanna a morte. Lo prende la paura dell’aldilà ed i preti non lo aiutano, non gli rivolgono nemmeno la parola: si inginocchiano attorno al letto e pregano sottovoce, fitto. 63

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

Il moribondo si mette a urlare e chiede di confessarsi. Viene lasciato solo con un prete, si confessa, poi si comunica, già in preda all’agonia. Ha finito. Tutti possono rientrare. È calmo, sereno. Fa cenno ai comunisti di venirgli accanto. Chiede loro coi gesti di tenergli la mano. Dall’altra parte del capezzale va un prete ed anche a lui fa cenno di tenergli la mano. E muore. Voleva essere coerente, per una volta nella vita, ma è stato sopraf­ fatto della sua natura, dal suo temperamento, dalla lunga consuetudine con il compromesso. Non sarebbe difficile scegliere i nomi degli sceneggiatori, o del regista o degli attori, per un film come questo: da Jean-Paul Sartre a Budd Schulberg, da Elia Kazan a Fredric March. Sarebbe difficile da trovare un produttore, soprattutto perché in nes­ sun paese del mondo esiste un governo pronto a tollerare la produzione di un film cosi. Tra qualche secolo, forse. Ma il cinema non ci sarà più. «Città aperta», 4-5, 25 luglio 1957.

64

ELIA KAZAN: UNA COSCIENZA “BOOMERANG”

Quante coscienze abbia la guerra fredda costretto, corrotto, accecato in tutto il mondo e negli opposti campi, non si può ancora dire. Gli anni tra il ’48 e il ’56 abbracciano un oscuro periodo nel cui brevis­ simo volgere, sotto la frusta della paura, la gente è corsa a rifugiarsi nell’i­ sola della propria indifferenza. Ha agito, sotto forma di severa e repugnan­ te intolleranza, una specie di barbarie moderna - ben lontana ancora dall’essere sconfitta - difficilmente definibile, tecnicamente e ideologica­ mente assai progredita. Questa barbarie - se si respinge il principio per cui «il fine giustifica i mezzi» che è tra i luoghi comuni suoi più usati - ha acco­ munato conservatori e progressisti, retrivi e rivoluzionari; se servita del­ l’autorità - qualunque fosse il sistema sociale di cui ora al servizio - e di taluni miti bene ideati per ottenere da tutti il più alto punto di acquiescenza. La gente, la piccola o la “grande” gente - gli intellettuali, gli artisti ha avuto paura, paura di tutto, a occidente, come ad oriente; di imminen­ ti e definitive catastrofi, dell’affamamento, della particolare persecuzione, della spietata ritorsione, della rappresaglia. Negli Stati Uniti questa barbarie trovò un terreno fertile nel puritane­ simo e nell’americanismo. Puritanesimo e American Legion si allearono, confortati dalla grande industria, e seguiti dalle preghiere dei cattolici. Si munirono dello Smith Act e nel nome della guerra fredda lanciarono la loro crociata. Agli occhi di tutti i democratici si presentò, da un giorno all’altro, un’America istericamente retriva, diversa dall’immagine liberta­ ria e ottimistica che essi amavano. Troppo importante è il cinema come mezzo per comunicare con la gente, perché potesse essere perdonato ad Hollywood il suo passato liberale. «Negli ultimi mesi del 1947», scrive uno dei Dieci di Hollywood, Adrian Scott, «la Commissione per le attività non-americane inviò a Hollywood le sue prime spie». «Sotto il pretesto di denunciare un pugno di pretesi rossi, l’obbiettivo della Commissione era d’avvilire la politica liberale e il suo patrimonio culturale per condurla ad unirsi nel perseguimento della guerra fredda». «Alla fine del 1947», continua Adrian Scott, «l’offensiva reazionaria faceva ad Hollywood il suo cammino e la Lista Nera, necessario strumen­ to dell’offensiva, era stabilita». 65

SCRITTI DI CINEMA E DI VI TA

«Un insieme di condizioni estremamente rigide fu studiato per appli­ carla. Una Camera ardente esiste in ogni studio. Qui, il liberale è invitato a firmare degli affidavit e a spiegarsi sulle sue posizioni passate, incompa­ tibili con la nuova lealtà». La Lista Nera comprende 214 nomi: 106 scrittori, 36 attori, 3 danza­ tori, 11 registi, 4 produttori, 6 musicisti, 4 cartoonist, 44 tecnici diversi. Hollywood è percorsa da un’isterica febbre della paura. Davanti alla commissione molti cedono. Il gruppo di punta del cinema americano si sfascia: chi va in galera, chi ripara all’estero, chi, nelle Camere ardenti, perde il rispetto di se stesso. Maltz, dopo il carcere, va in Messico. Nel ’50 per sfuggire alla persecuzione, Dassin, John Berry, Losey e Barzman rag­ giungono l’Europa. Dmytryk dopo avere realizzato Cristo fra i muratori in Gran Bretagna, inspiegabilmente torna in California e confessa di essere stato iscritto al Partito Comunista Americano, denunciando i nomi di alcuni suoi compagni. Alcuni tiepidi non conformisti come Huston, si rinchiudono nel “mestiere”, e vengono assorbiti dalle grandi produzioni e raramente rie­ scono ad affermare il proprio talento. Qualcuno come Brooks, riesce a mantenere una coerente linea di condotta, compiendo prodigi di acroba­ zia. Altri si trascinano sfrontatamente il peso angoscioso del loro gesto di resa, ma non riescono a nascondere il marchio impresso sulle loro coscienze dalle veglie nelle Camere ardenti e dalle sedute della Commissione per le attività non-americane.

Dal teatro al cinema In questo clima avvelenato sì sviluppa il fenomeno Kazan. Kazan giunse ad Hollywood come l’enfant terrible di Broadway dopo essere divenuto uno dei più importanti registi del Group Theatre. Si affermò immediatamente imponendo una tematica scottante e mo­ derna: il razzismo, l’intolleranza, il fanatismo. Tra il ’45 e il ’49 dirige: Un albero cresce a Brooklyn, Boomerang, Barriera invisibile e Pinky, la negra bianca, senza considerare la parentesi commerciale di Un mare d'erba. II suo linguaggio è ancora grezzo, elementare, ma chiaro. Anche le sue idee sono elementari, ma appassionate. Boomerang e Barriera invisibile erano due pamphlets veementi. Un albero cresce a Brooklyn - il primo film realizzato a Hollywood dopo una breve esperienza documentaristica 66

«CITTÀ APERTA» (1957-1958)

newyorkese - lasciava trasparire una nostalgica tendenza alla memoria, era un commosso saggio sugli affetti familiari e dell’infanzia, un viaggio sentimentale in quella vecchia Brooklyn che nel lontano 1913 aveva ac­ colto gli emigranti armeni della famiglia Kazanjoglous. Pinky fu un film convenzionale, in cui la tesi anti-razzista non riusciva a nascondere il fondamentale conformismo delTambientazione e delle psicologie. In Bandiera gialla, apparve un Kazan rinnovato: più ambiguo che tor­ bido, malgrado l’affermata nuova vocazione al torbido, isterico senza necessità. Padrone ormai di un magistrale mestiere, formalmente legato ai canoni del neorealismo italiano (l’ultima moda), Kazan era vuoto di idee, sembrò tutto teso sul ritmo del thrilling: un pesante girare a vuoto, in defi­ nitiva, uno spettacolo da grand-guignol di lusso. Bandiera gialla è del 1950. Dal ’45 al ’50 Kazan ha lanciato a Broadway Erano tutti miei figli, e Morte di un commesso viaggiatore, di Arthur Miller, poi Un tram chiamato desiderio, di Tennessee Williams. Nel ’51 Kazan realizza per la 20th Century Fox Un tram chiamato desi­ derio. La sua nuova vocazione si esprime compiutamente: il film è real­ mente torbido. Un Sud madido e schizofrenico agisce tra bacinelle di ferro smaltato e letti d’ottone. Le psicologie dei personaggi kazaniani prima tagliate a colpi di ascia - si fanno tortuose e pazzoidi. Il sudato tor­ pore di cui languono Stanley Kowalski e le sue donne viene scosso dalla violenza animalesca degli istinti sessuali. La grande maturità artistica del regista si manifesta attraverso ai mezzi di un perfetto e quasi nauseante naturalismo. Ma oltre l’inquieto agitarsi di personaggi chiusi dentro la gabbia di una psiche malata, c’è nel film una tesi tipicamente decadente, in cui si mescolano sociologismo e freudismo. Dalla loro decozione si espande il clima estetico e morale del film. Il senso dell’esistenza è tutto racchiuso nella sociologica naturalezza del peccato e nella fatale necessità di peccare che urge dentro animi abbrutiti di miserabili esseri umani. Un’America di falliti e di impotenti réfoulés ossessionata da totem ses­ suali, unica biologica spinta creatrice: questa è la nuova america di Kazan. Ma l’assedio della Camera ardente della 20th Century Fox si fa oppri­ mente, tormentoso. La sinistra potenza di MacCarthy è al culmine. La Li­ sta Nera è pronta ad inghiottire anche gli innocui obbiettori di coscienza. Nel 1952 Kazan realizza Viva Zapata! scritto in collaborazione con John Steinbeck. Questo film parte da premesse storiche facilmente rico­ noscibili come false. In gran parte vi è travisata la figura di Zapata; sono 67

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

falsati i momenti storici che formano i cardini del meccanismo drammati­ co. Se - diciamo se - Viva Zapata! fosse stato concepito come grande western, sia pure impegnativo, come saggio letterario, sia pure allegorico, sulla rivoluzione contadina, allora la discussione avrebbe potuto essere un’altra: come non riconoscere, in quel caso, l’attaccamento che Kazan mostra di nutrire per i senza terra messicani - anche se compiaciuto d’un certo facile pittoricismo - e come non subire, la acre suggestione delle atmosfere della guerra civile e non apprezzare l’intelligenza della rico­ struzione costumistica? Nemmeno si sarebbe potuto negare - in quel caso - un fascino ed una legittimità alla tesi che sembra perseguitare Kazan (non meno decadente e antica di quella che suggeriva in \dn tram chiama­ to desiderio). Il regista distorce psicologie, piega eventi storici realmente verificatisi per dimostrare che il potere corrompe i capi, ne esaurisce il vigore rivoluzionario, li distacca dalle masse, li consegna alla storia come conservatori del proprio pensiero e della propria azione. Viva Zapata!, però, non è soltanto un western sia pure molto impe­ gnativo (sebbene, malgrado le intenzioni di Kazan, non possa essere defi­ nito altrimenti): vuole essere un film sulla storia del Messico, per esplici­ ta dichiarazione dei suoi autori e come tale obbliga a un discorso di ordi­ ne nettamente politico. La paura del maccartismo - che su altri ha agito semplicemente come neutralizzante - spinge Kazan allo zelo, lo mette contro il suo istinto e la sua educazione realistica, ne distorce, quindi, il talento operando nella sua coscienza una profonda lacerazione. Kazan vuole febbrilmente esibire prova del suo “nuovo” lealismo, in vista del momento in cui dovrà com­ parire davanti alla Commissione per le attività anti-americane. Quale migliore prova di un film? Lui e John Steinbeck inventano un personag­ gio-coro da affiancare a Zapata quasi per limitare il potere emblematico del protagonista - un capo rivoluzionario, anche falsato, è sempre peri­ coloso -, la figura di un intellettuale rivoluzionario di professione che, come scrisse Kazan, «impersona coloro che si valgono delle giuste riven­ dicazioni del popolo... e son disposti a tradire tutto pur di impadronirsi del potere e tenerlo». Questo personaggio, tanto amato dal regista, è sol­ tanto un ingenuo grottesco manichino, la caricatura di un paranoico avul­ sa completamente dal tessuto narrativo o dal clima di Viva Zapata!', senza dubbio esso dà una immagine dei fantasmi che dovevano in quei giorni agitare le notti di Elia Kazan, stella della 20th Century Fox, prossimo ad essere inquisito dai segugi di Mac Carthy: come se Kazan avesse voluto 68

«CITTÀ APERTA» (1957-1958)

trasferire sul personaggio del rivoluzionario professionale para-comunista il disprezzo per se stesso, per il gesto che stava per compiere.

Il Processo Aprile 1952: Kazan viene chiamato a deporre davanti alla Commissio­ ne per le attività anti-americane. Immaginiamo l’atmosfera: i lunghi abboccamenti con gli esponenti della 20th Century Fox, le interminabili discussioni con gli avvocati, i ricatti, gli scrupoli dell’ultimo momento. Intorno a Kazan c’è il deserto. Su Hollywood sventola la bandiera gialla dell’intolleranza. Chi ha resistito e stato schiantato. Ha perduto il salario, la libertà. E rimasto isolato dagli amici che non vogliono compromettersi. Immaginiamo le corse in potenti automobili verso enormi case lussuose un mondo diverso da quello che accolse nel 1913 il piccolo Elia Kazanjoglous - per insinceri contatti con gelidi magnati, o le telefonato nervose e i consigli non richiesti o supplicati. Un cupo avvenire avrà pesato sul talento e sulla ipersensibilità di Kazan - è una caratteristica psicologica, la ipersensibilità, che gli va concessa. Egli avrà chiesto l’appoggio e la soli­ darietà di produttori, di uomini politici: gli unici, in America ed in altri paesi, che non usano offrire mai né appoggio né solidarietà. Negli occhi dei suoi collaboratori e degli operai della 20th Century Fox avrà letto la commiserazione, il compianto. La sera prima della seduta avrà guardato i grandi teatri di posa, le per­ fette macchine da presa, gli strumenti docili del suo lavoro come per un’ultima volta. Gli saranno tornati alla mente i giorni difficili della giovi­ nezza («ero un direttore di scena e attore secondario di ventiquattr’anni, e quando lavoravo guadagnavo quaranta dollari alla settimana... Quasi tutti noi, a quel tempo, ci sentivamo minacciati da due cose: la depressio­ ne e la potenza sempre crescente di Hitler. Le strade erano piene di disoc­ cupati e di gente impaurita»). Forse ha avuto paura della miseria, di ritor­ nare nell’ombra. O forse già qualche astuto avvocato di Washington - specialista di inquisizioni mac-carthyste - aveva scritto la sua parte, stilato il dialogo dell’imputalo Kazan, del red Kazan, dell’emigrato sovversivo armeno ino­ pinatamente arrivato al culmine della scala sociale, dell’orgoglio della famiglia Kazanjoglous sull’orlo dell’abisso. Forse Kazan, prima della seduta, avrà dovuto impararsela la sua parte davanti allo specchio, come

69

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

uno dei suoi allievi delTZc/or Studio. Chi può dire che oltre il ricatto politi­ co non abbia funzionato anche l’oscura macchina gangsteristica di qualche “cimice” Siegei, o d’un detective di quelli che al noto processo di «Con­ fidential» gridarono: «Tutti, a Hollywood, sono pederasti o comunisti»? «Kazan ha giurato che sia lui sia Clifford Odets sono stati iscritti al Partito Comunista... ha aggiunto che mister Odets gli ha assicurato di aver fatto anche lui la stessa cosa (uscire dal PC), aH’incirca nella stessa epoca» («New York Times», 12 aprile 1952). «Mister Kazan, tuttavia, si era rifiutato di dare i nomi dei compagni di partito. Poi si è ricreduto, - Sono giunto alla conclusione, egli ha dichia­ rato ieri, che ho fatto male a non dare prima questi nomi, perché la segre­ tezza aiuta i comunisti ed è proprio questo che vogliono» (ib.). «Gli iscritti della cellula comunista cui era stato assegnato, ha detto mister Kazan, erano tutti legati al Group Theatre» (ib.). Kazan fa i nomi di Lewis Leverett, J. Edward Bromberg, Phoebe Brand, Morris Carnowski, Tony Kraber, Paula Miller. «Due funzionari di partito - egli ha detto - avevano il compito di for­ nire la linea di partito alla cellula. Mister Kazan ha detto trattarsi di VJ. Jerome... e Andrew Overgaard» (ib.). Nell’affidavit che consegnò alla Commissione per discolparsi, si legge, a proposito di Viva Zapata!: «Questo è un film anticomunista. Vi prego di prendere visione del mio articolo sugli aspetti politici di esso nella “Satur­ day Review” del 5 aprile, che ho già inoltrato al vostro membro inquiren­ te, mister Nixon». Nella dichiarazione scritta dopo la seduta si legge: «Ero anche tratte­ nuto da un tipico ragionamento specioso che ha fatto tacere tanti liberali. Suona così: - Potrai odiare i comunisti, ma non devi combatterli o espor­ ti, perché se cosi fai tu combatti il diritto di avere opinioni non popolari e ti unisci a coloro che combattono le libertà civili -. Ho pensato a questo con serietà. E, semplicemente, una menzogna. La segretezza aiuta i comu­ nisti... I liberali devono parlare senza riserve (Liberals must speak out)». Dapprima, dunque, Kazan si «trattenne». A distanza di poche ore egli decide di «parlare senza riserve». Chi ci può dire che non sia stata previ­ sta, dall’abile avvocato di Washington, anche la sua titubanza? Per tenta­ re di salvargli la faccia e, al tempo stesso, per rendere più sensazionale il suo gesto? «L’ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso», dichiarò Kazan, «è stata quando mi hanno invitato a sottopormi alla tipica scena comunista

70

«CITTÀ APERTA» (1957-1958)

di contorcimenti e scuse e di ammettere i miei errori. Avevo avuto un assaggio della vita in uno stato di polizia, e non mi piaceva...». Si può anche non dubitare che la «tipica scena comunista» ci sia stata effettivamente, durante il breve periodo in cui Kazan fu iscritto al Partito Comunista Americano. Ma come definire, allora, il cerimoniale maccarthysta cui egli dette lustro e nuovo vigore? Kazan tornò a Broadway. Si racconta di un suo drammaticissimo col­ loquio con Arthur Miller. Pare che Miller abbandonasse la casa di Kazan, dove s’era recato per una spiegazione col suo amico, dicendo di non poter restare nella casa di un delatore. Kazan lo rincorse in auto per tutta New York, fin sotto la sua abitazione, chiamandolo durante le soste davanti ai semafori, supplicandone la comprensione. Comprensione che Miller non gli dette né allora, né dopo, quando scrisse, in polemica, sembra, con lui, Uno sguardo dal ponte. In quel momento l’importanza di guadagnare quattromila dollari alla settimana gli sarà parsa trascurabile. Arthur Miller rappresentava l’America che egli aveva prima amato e poi tradito forse non smettendo di amarla. Ad un senso di liberazione per essersi sgravato da un peso tanto opprimente, sarà succeduta l’angoscia della solitudine. Né erano finite le sue mansioni. Lo Smith Act esigeva nuove prove, nuove testimonianze. Kazan accettò di realizzare uno scadente film anti­ comunista, Salto mortale, nel quale il grande attore Fredrich March, il grande interprete dei Migliori anni della nostra vita, aveva un pericoloso passato da farsi perdonare: era stato membro della Hollywood Anti-Nazi League e del Comitato d’Aiuto per i Rifugiati Spagnoli, aveva prestato la sua voce al documentario 400 Millions, del comunista Joris Ivens, sulla guerra in Cina, era stato uno dei più attivi propagandisti contro là Germania, suo paese natale durante la guerra e si dice che i nazisti lo aves­ sero condannato a morte in contumacia: tipico soggetto, quindi, da Commissione per le attività anti-americane.

Dove corri, Kazan?

Per colmo di debolezza, Elia Kazan avrebbe potuto ritrattare li suo gesto. Ne affrontò invece, tutte le conseguenze. Scrisse ai giornali per difendere il contenuto anticomunista di Viva Zapata!, rilasciò dichiarazio­ ni invitando «molti buoni liberali» che «hanno visto minacciato il proprio 71

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

lavoro» a seguire il suo esempio. Tentò di essere coerente. Eppure, nel 1954, mostra di non sopportare certe accuse, dal momento che smentisce pubblicamente d’aver realizzato Fronte del porto dietro il suggerimento o l’ordine? - dei maccarthysti. Lawson scrisse in un notissimo articolo contro il film: «la smentita equivale a una confessione. Kazan o Schulberg, e Lee J. Cobb che sostiene la parte di Friendly, hanno ufficialmente pro­ messo di non affrontare impresa artistica, che non sia conforme alle idee dei membri più reazionari del Congresso». Kazan girò Fronte del porto alla fine del 1953. Fu il primo film in cui si servì d’una sceneggiatura scritta da Budd Schulberg - stando almeno alla sua filmografia ufficiale. Anche Budd Schulberg aveva partecipato vivamente del clima demo­ cratico della Hollywood ante-guerra. Ne sono prova i romanzi di quel periodo: Dove corri Sammy? e 11 palazzo d'argento. Il primo è il ritratto di un arrivista, di un fattorino di giornale che diviene un grande produttore cinematografico, facendosi largo con gomi­ ti di ferro, calpestando chi riesce a calpestare, corrompendo, truffando, tradendo chi può tradire. Il suo “antagonista” è uno sceneggiatore, di tendenza radicale, che segue con oggettivo disgusto l’ascesa di Sammy al potere, annotandone le fasi come per un interesse professionale. Il palazzo d'argento (letterariamente più interessante), scaturì da una esperienza autobiografica di Schulberg. Negli ultimi anni della sua vita, Francis Scott Fitzgerald tornò ad Hollywood a cercare lavoro. Negli anni del successo egli s’era allontanato dal cinema con disgusto; (il disprezzo di Scott Fitzgerald per il cinema era divenuto “classico”, dai brevi spunti polemici di Beautiful and Damned al Grande produttore). Nel 1937, alco­ lizzato, diabetico, dopo quasi un decennio di oscurità, carico di debiti, Scott Fitzgerald fu costretto ad accettare l’elemosina di Hollywood. Gli offrirono di sceneggiare un mediocre film commerciale. La produzione gli mise accanto come assistente Budd Schulberg, appena ventitreenne, entu­ siasta del cinema e intriso di idee radicali e marxisteggianti. Il palazzo d'ar­ gento racconta degli ultimi mesi di vita di Francis Scott Fitzgerald e della nascita d’una polemica amicizia tra il giovane figlio dei tempi democrati­ ci e il disincantato letterato perduto dietro la rievocazione del suo falli­ mento umano. Tra questi romanzi, Waterfront è senza dubbio il più scadente. Water­ front è verboso e declamatorio, malgrado il suo manierato realismo (che scaturisce soltanto da abusati schemi formali farrelliani. La situazione

72

«CITTÀ APERTA» (1957-1958)

descritta dal romanzo è staccata di netto dalla più generale cornice della vita americana: come se i lavoratori del porto di Bohegan siano i più infe­ lici tra i lavoratori americani, anzi, senza confronto i più infelici, anzi, gli unici ad essere infelici). Anche Budd Schulberg, poco tempo prima, aveva ritenuto opportuno «parlare senza riserve».

Aggrappato ad uno schema Che nel porto di New York il sindacato dei portuali fosse dominato dai gangster è un fatto. Che il ricatto e il crimine come metodo esigessero misure amministrative, extrasindacali, da parte delle autorità, è un altro fatto. Ma, fa notare Lawson nell’articolo già citato, lo scopo delle inchie­ ste governative non fu di risanare una situazione sindacale intollerabile nella quale i diritti del lavoro venivano totalmente ignorati: fu, invece, quello di «introdurre, un diretto controllo politico sul Fronte del porto di New York: primo passo verso la supervisione e il controllo su scala nazio­ nale dei sindacati». Nessuna meraviglia, quindi, se Fronte del porto sarà stato suggerito alla 20th Century Fox direttamente da Wall Street - che controlla praticamente tutte le grandi società cinematografiche americane - o dalle autorità governative. Qualunque fosse, però, la ragione per cui Fronte del porto venne pro­ dotto, non è azzardato supporre che Kazan si sia messo nell’impresa per l’ostinata volontà di stabilire una sua coerenza ideale con il gesto com­ piuto nell’aprile del 1952, e per sfogare d’altra parte il suo animoso com­ plesso d’inferiorità verso progressisti e comunisti. Nella «Dichiarazione» rilasciata ai maccartisti egli aveva detto: «Non dobbiamo lasciar passare ai comunisti la pretesa di difendere e volere quelle cose stesse che essi ucci­ dono nei loro paesi. Parlo della libertà di parola, della libertà di stampa, dei diritti della proprietà, dei diritti del lavoro, dell’eguaglianza e, soprat­ tutto, dei diritti dell’individuo... I film che ho fatto o le commedie che ho scelto per la mia regia rappresentano le mie convinzioni». Kazan si aggrappa, di conseguenza, allo schema sociale di Schulberg, cerca di scuoterlo dall’interno dei personaggi, riempiendoli delle sue inquietudini, innervosendo il racconto con la scelta d’uno stile adatto alla denuncia sociale, pur conservando - anzi peggiorando in qualche caso il conformismo della storia di Schulberg. Così il film appare come un 73

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

grumo non solubile di opposizioni, anche stilistiche: alla limpida de­ licatezza della storia d’amore tra Terry Malloy e Katie Doyle, si sovrappo­ ne l’affettato grand-guignolismo delle scene gangsters; sulla secca denun­ cia della intollerabile condizione umana dei lavoratori del porto, cam­ peggia la convenzionale figura di padre Barry (e la polemica contro le gerarchie ecclesiastiche che il personaggio di Schulberg originariamente conteneva nel film è taciuta). Veleni decadenti e sentimenti edificanti, in­ tenzioni realistiche e vaghezze mistiche non fondono, tra di loro, restano elementi esteticamente inerti e risultano contraddittori anche sul terreno della mera propaganda. Su un altro piano, per un altro tema, nel Fronte del porto si riscontrano le medesime incongruenze ideologiche di Viva Zapata!. La coscienza di Kazan - non una astratta coscienza sospesa in un vuoto destoricizzato -, la coscienza, vale a dire, d un artista di talento che s’è formata in un concreto periodo storico, nell’ambito di una cultura tra le più moderno e illuminate, mostra nuovamente la sua deturpazione. Kazan si dichiara contro il ricatto gangsteristico, contro il bestiale sfruttamento dei lavoratori, ma l’unica forma di autodecisione che egli prevede nell’ordine naturale delle cose è quella di andare a denunciare i gangsters all’autorità. Un crimine è un crimine, come tale va denunciato e il porto di New York è dominato dai criminali: ma è la semplice scelta di questa breve strada, dal porto al palazzo dell’inchiesta, che può mutare i rapporti umani tra i lavoratori del porto e la loro concezione della solida­ rietà? Che può condurli ad assumere altre e più profonde responsabilità individuali - temi, questi, che Kazan sembra considerare al centro del suo film? Crediamo di no. Senza considerare le probabili origini politiche del film, che non pos­ sono essere escluse, pensiamo che a Kazan interessasse, soprattutto, rac­ contare di quel gesto di Terry Malloy, della sua delazione, del suo stato d’animo prima e dopo, del suo trovarsi solo in mezzo a gente che non comprende lo scopo della sua azione. Un uomo va a denunciare gli assas­ sini di suo fratello: si tratta di un’azione semplice. Malloy-Kazan, invece, compie il suo gesto nella assoluta consapevolezza d’essere più un delato­ re che un uomo nel suo pieno diritto. Compiuta che ha la sua scelta ogget­ tivamente coraggiosa, egli se ne resta con lo sguardo angosciato, nella soli­ tudine che i suoi compagni gli creano intorno con il disprezzo. Ciò mal­ grado, la sua solitudine è più interiore che sociale: non perché la moralità del personaggio Malloy-Kazan, educata all’omertà, si rivolti - non soltan­ to per questo -, ma perché il regista Kazan-Malloy è sostanzialmente d’ac­

74

«CITTÀ APERTA» (1957-1958)

cordo con coloro che lo hanno isolato nel disprezzo, come se l’inconscio del regista abbia appannato la sua lucidità rappresentativa. Se, infatti, rappresentando la «presa di coscienza» di Terry Malloy, Kazan ha voluto ancora una volta invitare la gente a «parlare senza riser­ ve», per il senso che le immagini danno dei fatti, inconsciamente egli ha reso la coraggiosa azione del protagonista del tutto simile alla propria, avvolgendola di nebbiose suggestioni reiettive. Non c’è dubbio, a conti fatti, che Kazan e Schulberg - qualunque fossero le loro intenzioni hanno dato con Fronte del porto una testimonianza della loro volontà di lavorare al livello d’una problematica moderna e impegnata. La loro inca­ pacità di andare oltre l’analisi d’una realtà parziale meriterebbe un ulte­ riore approfondimento del nostro discorso. Fatto sta che in Frante del porto sembra esaurirsi l’interesse «sociale» di Kazan, come se il personaggio di Teny Malloy lo avesse appagato, aiu­ tandolo a sgravarsi delle sue inibizioni. Nel ’55 e nel ’56 - anni in cui il maccarthysmo cominciava ad accusa­ re la sua decadenza - Kazan realizzò due film molto dissimili tra loro: La valle dell'eden e Baby Doli, - tornando a lavorare con John Steinbeck e con Tennessee Williams. Il primo film è imperniato sulla inquietudine di un ragazzo del Sud eh e avverte la falsità dei rapporti familiari, impostati sull’ipocrisia patriarcale e religiosa, manifestando confusamente la sua tensione verso la verità. In Baby Doli una ragazza è ridotta alla nevrosi per il contatto con un marito impotente; un altro uomo, per motivi di interesse la riconduce all’e­ quilibrio dei rapporti affettivi. Letterariamente, secondo Moravia, Baby Doli è una storia boccaccesca, ma filtrata, attraverso alla sensibilità di due moderni decadenti americani, incapaci di un vero scherzo immoralistico. Nei due film domina ancora il Sud: con la irrazionalità delle sue remo­ re morali nel primo e con il corrompimento del suo tessuto psicologico e sociale in Baby Doli. Pur essendo stilisticamente diversi - come diversissi­ me erano le impostazioni commerciali date loro dalla 20th Century Fox e le stesse personalità degli scrittori di cui s’è servito Kazan - l’ambientazione sociale è fortemente sottolineata in entrambi, da far quasi supporre che dall’originario commercio intellettuale di Kazan coi marxisti america­ ni egli abbia ereditato uno spiccato senso sociologico (il quale, in Baby Doli, fa tutt’uno con il disegno dello psicologo). E soltanto nel ’57, con Un volto tra la folla, che Kazan torna ad affron­ tare i più espliciti problemi del suo paese. Nei quattro anni trascorsi tra 75

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

Fronte del porto e il suo ultimo film, molte cose sono avvenute nel mondo. Il maccarthysmo è stato svuotato del suo contenuto dagli improvvisi mu­ tamenti della situazione internazionale. La guerra fredda ha dato luogo ad una glaciale distensione. Il clima politico di Hollywood, per ragioni anche commerciali, per non perdere, cioè a dire, i contatti con il pubblico mon­ diale, si è alleggerito. Fermenti nuovi traspaiono dalla produzione ufficia­ le più qualificata. Nuovi uomini appaiono sulla scena, meno cerebrali e meno abili, ma più coraggiosi: da Aldrich a Ray, a Delbert Mann. Odets scrive per Aldrich un violento film anti-hollywoodiano e, indirettamente, anti-maccarthysta, The Big Knife, quasi un’autocritica. Poi scrive per la Hetch-Lancaster un film sul costume della stampa gialla, Piombo rovente. In questi anni Zinnemann ha realizzato Da qui all'eternità', Brooks, meto­ dico e modesto, ha continuato la sua battaglia contro l’intolleranza. Nel biennio ’55-’56, nel folto gruppo di film problematici che Hollywood produce, Baby Doli sembra venire da un altro mondo. Un volto tra la folla, invece, si rifa al nuovo clima. E non è un caso che il nuovo film engagé di Kazan dopo il momento più alto del maccarthy­ smo, sia un film contro le alienazioni delle abitudini di massa e la mitomane crudeltà degli americani. Come per Robson aveva scritto un acceso pamphlet sull’ambiente della boxe, Il colosso d'argilla, Budd Schulberg scrive per Kazan un non meno infuocato pamphlet contro la televisione. Qua e là vi riaffiorano i temi classici kazaniani: una visione morbosa del sesso, il tradimento di se stesso, e di colo­ ro che credono in lui. Da parte di chiunque detenga un potere qualsiasi (anche una rubrica televisiva e, quindi, la direzione di un film). Ma Un volto tra la folla è tutto teso a dimostrare l’impotenza dell’America davanti alle sue colossali mistificazioni. Lo stile è ruvido, le psicologie dei personaggi tornano ad essere quelle, elementari, dei primi film, ma esprimono, tutte, un amaro e coraggioso pessimismo. La linea narrativa è quella tradizionale di Schulberg: un ambiente malato (Hollywood in Dove corri Sammy?, la boxe nel Colosso d’argilla, la televisione in Un volto tra la folla), un personaggio negativo che lo rappresenti (Sammy, l’organizzatore di incontri pugilistici, Lonesome Rhodes), un personaggio positivo in imponente lotta per resistere alla corru­ zione (uno sceneggiatore, un giornalista sportivo, uno scrittore): una tecnica narrativa che sa molto di schemi dialettici e marxisti e ricorda da vicino determinate teorizzazioni di John Howard Lawson. Nel film traspare la vec­ chia passione radicale di Schulberg e di Kazan. Può darsi che il boomerang della loro coscienza abbia terminato la sua parabola di ritorno. L’amore per la

76

«CITTÀ APERTA» (1957-1958)

vecchia America anti-trust di Roosevelt si trasforma in disprezzo verso le parossistiche forme di alienazione dell’America dopo MacCarthy: il loro sem­ bra il disprezzo per una situazione che li ha costretti ad agire contro coscien­ za, a ripudiare se stessi. Non è, a ben riflettere, il protagonista di Un volto tra la folla una vittima del suo sciocco pubblico, assetato di miti e di menzogne? Per soddisfare l’inclinazione dei suoi ammiratori - e internamente pressato dall’egocentrismo - Lonesome Rhodes trasforma il suo provinciale personag­ gio in quello demagogico di un americanista: accortosi che Rhodes gli menti­ sce, il pubblico ne frantuma il mito, aiutato da quei potenti per i quali, ormai, il mito è inservibile. Come nel Colosso d’argilla, anche nel film di Kazan la figura dell’intel­ lettuale costituisce il termine di confronto con il personaggio negativo e con l’ambiente, ed ha scritto o è in procinto di scrivere un libro in cui dice la verità. L’intellettuale, dunque, per Schulberg e Kazan, è l’unico, il tra­ dizionale custode della dignità e della civiltà. Ed è questo l’unico elemen­ to equivoco dell’ultimo film di Kazan. Non è la polemica contro l’inerzia e la credulità delle grandi masse che può trovarci discordi, poiché credia­ mo che, per scuotere la gente, non una, ma molte azioni di choc, col cinema, con la letteratura, con la politica, con ogni mezzo a disposizione, vadano coraggiosamente compiute, a costo della impopolarità. E proprio sulla base del loro film che è lecito domandare a Kazan ed a Schulberg in quale misura essi abbiano contribuito a portare gli ameri­ cani al punto in cui essi li descrivono. «Conservare quel modo di vita li­ bero, aperto, sano che ci da il rispetto di noi stessi», ha scritto Kazan a proposito del sistema di vita americano e nessuno, nemmeno lui, può dimenticare quelle parole. Un’epoca dura, la nostra, per chi voglia realmente conservare il rispet­ to di se stesso. Noi vorremmo - e supponiamo che anche Kazan lo voglia - che le condizioni di lavoro degli artisti e degli intellettuali fossero diver­ se da quelle che sono, che gli scrittori, nel futuro, possano scrivere i loro libri senza essere poi costretti a riscriverli per l’intervento dei politici, che autori e registi siano liberi di rappresentare i propri drammi e di nutrire le proprie opinioni senza doverne rendere conto al FBI. Se l’uso che l’in­ tolleranza fa del potere politico è abominevole o criminoso, tanto più sono colpevoli coloro che cedono alla sua oppressione, poiché allontanano da noi il momento in cui alla gente sarà possibile non avere più paura. «Città aperta», 7-8, aprile-maggio 1958.

77

INTELLETTUALI DI PAGLIA

Caro Lucentini, arrivato alla lettera “p” nell’inchiesta per ordine alfa­ betico che ti proponevi di condurre tra coloro che hanno aderito alle Questioni per un programma poste da «Città aperta», non rimarresti delu­ so: io risponderei sinceramente «Non sono cristiano», come, del resto, farebbero - senza alcun dubbio - le altre “p” dell’elenco. Potremmo estendere l’inchiesta fuori del piccolo elenco dei nostri ventisei poco riveriti nomi ed avresti ancora considerevoli soddisfazioni, poi­ ché molti ti darebbero la stessa risposta. Ma tu stesso, implicitamente, nel tuo breve intervento, ammetti che fermarsi al riscontro di questa dichiarazione, sia pure importante, non sarebbe di grande utilità se non allo scopo, come scrivi, di «rendere più precisa... quella cifra di 475 milioni di cristiani che l’atlantino De Agostini va spacciando per esistenti in Europa». Comincerebbe a questo punto la parte più importante del lavoro: quella di stabilire l’intimo valore che ognuno dà al suo dichiarare «Non sono cristiano», ed a quale quotidiana pratica corrisponda questa netta, semplice ed affascinante negazione. Scopriremmo che in molti essa scaturisce più da una aspirazione a non essere cristiani, pure profonda, che da un vero reale non esserlo. Vedo in molti - e in me stesso - una continua lotta per espellere dalle proprie coscienze i sedimenti tediosi della educazione cristiana alla quale la maggior parte di noi non s’è potuta sottrarre (non avendo l’età della ragione). I luoghi comuni evangelici premono energici. E come languidamente sospirava André Gide: «Vangelo! Vangelo! Quanta pace promettevi al mondo...», così risultano troppo numerosi gli “intellettua­ li di sinistra” - i quali credono ancora - magari trascinandosi dietro queste opinioni allo stato di pigri pregiudizii - in una socialità del cri­ stianesimo. Vittorini, che ha sempre un suo drammatico modo di mostrare agli altri le proprie contraddizioni - e per questo è tanto più amabile - scrive­ va nel numero 7 del «Politecnico» {Lettera a Carlo Bo, in Diario in pub­ blico, 1957, p. 193): «Nella mia infanzia ho creduto anch’io alla Sua divi­ nità. Andavo a messa, mi confessavo, mi comunicavo. Avevo già vent’an­ 78

«CITTÀ APERTA» (1957-1958)

ni l’ultima volta che mi sono confessato e comunicato. Poi ho smesso di credere alla Sua divinità, ma per cominciare a credere nella Sua umanità. Ora credo che l’Uomo più grande esistito finora sulla terra sia Lui, e che nulla di quanto gli uomini hanno pur detto di più nuovo e concreto, o anche di più utile, dopo di Lui, sia stato ancora detto in contrasto con Lui». È certamente apprezzabile in un uomo di cultura una simile onesta pro­ fessione di sfiducia nella Divinità Cristiana. Ma una simile posizione viene senza dubbio svirilizzata quando vi si insinui - come vi si insinua - un oscu­ ro misticismo delle maiuscole, e quando vi permangano affermazioni cosi apodittiche sulla statura dell’uomo, tali da farne di nuovo un dio. Le più perniciose sopravvivenze cristiane che si possano rinvenire nelle coscienze dei non cristiani sono, comunque, di ordine morale. L’ho sentito e l’ho visto quando molti miei amici - per lo più comuni­ sti e “atei” - si sono trovati a scegliere, in momenti cruciali delle loro esi­ stenze, tra una morale cristiana (quella automatica che si sono trovati bella e pronta come la tetta materna) e una morale non cristiana da costruirsi per sé e per gli altri all’interno della propria coscienza, riflessione su rifles­ sione, rinuncia su rinuncia, scelta su scelta: battezzare i propri figli in chie­ sa o no, per proprio conto attuare il divorzio (ove si rendeva necessario come unico mezzo per risanare situazioni familiari irrimediabilmente compromesse) o non attuarlo, per proprio conto rigenerare la troppo sta­ tica concezione italiana della famiglia, o arrendervisi. Attimo per attimo, lungo tutta la propria esistenza e nella solitudine, i non cristiani si trovano nella necessità di costruire per se stessi una mora­ le diversa dalla corrente morale cristiana, non essendo sufficiente per vivere negare quest’ultima. E sarà troppo corta l’esistenza di ognuno per­ ché, sul letto di morte, gli ultimi guizzi delle nostre coscienze potranno dirsi non cristiani: troppe le rèmore e troppo determinante il nostro ata­ vismo. Il freddissimo e paganeggiante professor Bergeret di Anatole France, dopo che ebbe veduta giacere sul canapè insieme col suo migliore allievo la propria consorte, provò dapprima l’impulso di «un uomo semplice e violento e di un animale feroce». Poi «cessò di essere puramente istintivo, primitivo e distruttore, senza tuttavia cessare di essere geloso e irritato»; ed in questo secondo stadio «il suo pensiero da rudimentale che era diventava sociale; vi si accavallavano confusamente rimasugli di vecchie teologie, frammenti del decalogo, brandelli di etica, massime greche, 79

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

scozzesi, germaniche, francesi, frantumi di legislazione morale che gli martellavano il cervello come pietre focaie e lo incendiavano». L’influsso del nostro atavismo è talmente simile a quello del professor Bergeret - a parte le sue casuali e deprecabili disgrazie familiari - che davanti ad ogni più piccolo episodio “etico” della nostra vita (giudicare di un pur secondario avvenimento privato, fare l’elemosina, dare la mancia, guardare o no la donna d’un altro, e poi desiderarla o no, e poi sedurla o no), in ogni momento dell’esistenza in cui ci troviamo a dover scegliere (vale a dire continuamente) tra varie alternative morali, si agita dentro di noi torbidamente il fondo religioso della nostra “morale”, sospinto da istinti ancora più remoti e retrogradi. (Basta pensare alla tremenda carica individualistica, talora irragionevole, che molti mettono nelle proprie ambizioni ed al miserevole quadro delle relazioni che generalmente inter­ corrono tra coloro che compongono il milieu culturale del nostro paese: freddamente analizzata, la vita culturale ed artistica può somigliare più ad un’affannosa corsa verso il traguardo del successo, che ad una serena competizione di idee, e non sono, per lo più, le idee - come sarebbe natu­ rale - a creare disparità ed avversioni, ma, quasi sempre, la irrazionale emulazione individualistica). Sono un po’ come Iduomo di paglia, certi intellettuali di sinistra, anche comunisti militanti, per il modo, in cui affrontano determinati problemi della loro vita morale. (Non consistono i limiti di quest’ultimo film di Germi tutti nella confusione morale del suo protagonista, nel suo non sapere e non volere chiaramente analizzare i termini della sua questione morale? Avrebbe potuto risiedere nella incoerenza del personaggio la ragione poetica del film, se l’atteggiamento del suo autore non fosse stato a sua volta confuso e contraddittorio, esprimendo perfino una posizione conclusiva di tipo religioso: ed anche questo elemento finale avrebbe potuto essere, se non uno spunto poetico, almeno un nuovo dato psicolo­ gico e sociale, nel ritratto del protagonista, se avesse contenuto in sé un fondamento critico, o un qualche riconoscimento di impotenza, e se la stessa ispirazione dell’autore non fosse scaduta - anche per tutte queste ragioni contenutistiche - ad un livello espressivo da feuilleton). Molti intellettuali (uomini di paglia) non cristiani, si sposano in chie­ sa, lasciano che le loro donne sottobanco battezzino i figli: essi lo fanno mi chiedo - per evitare “penose” discussioni - giustificazioni a perché inconsciamente essi temono di compiere con determinazione un atto fuori della chiesa dominante? 80

«CITTÀ APERTA» (1957-1958)

Siamo portati a giustificare molte cose, in questo campo. Un moder­ no spirito di tolleranza vuole per tutto trovare una ragione. La giustifi­ cabile paura del fanatismo tramuta la indignazione in tacita compren­ sione. Si passano sotto silenzio certe debolezze dei nostri amici poiché rientrano nella sfera dei privati sentimenti. E difficile giudicare gli altH, criticarli, accusarli, quando si tratta di affari cosi intimi. Un amico vier»e da te, Lucentini: vuole bene a una ragazza da molto tempo; ora sonu giunti alle inevitabili discussioni finali; lei, magari soltanto per ncrn “rompere” - così si dice - con la sua famiglia, pone come condizione ultimativa il matrimonio religioso. Il tuo amico ritiene che trattandosi di una pura formalità, tanto lui non ci “crede”, non gli costi molto asse­ condarla. È un intellettuale, un raffinato, legge Baudelaire e Valery, o magari è un fisico nucleare: ma è invaghito di quella ragazza ed il solo pensiero di perderla lo fa impazzire. Cosa fai, Lucentini? Ti metti a spiegargli cbe quel modo medesimo di amare è già irrazionale, che l’amore non è un sen­ timento in sé eterno? La rimandi a Seneca e a Lucrezio? Gli ricordi la immensa infinita vastità dell’universo stellare e gli sputnik che ci corrono attorno come pargoli impazziti? Cosa fai, Lucentini? Dimmelo. Qua­ lunque cosa tu gli dica quello non ti capirà: per sposare la sua ragazza l*ui va in chiesa e se c’è bisogno si confessa, si comunica, ci ritorna due, t^e volte; si dispone a farsi paternamente battere la mano sulla spalla dal par­ roco e ad ascoltare i suoi pretenziosi e vuoti discorsi. Tanto, pensa, “nc>n vi crede”. (E tu stesso riflettendo, pensando alla infinità vastità dell’uni­ verso, a Seneca e agli sputnik, vedendo come tutto sarà breve e vano, forse, forse non saprai dargli torto). Ed è anche attraverso a queste migliaia di atti di debolezza che il rito cristiano si riproduce e sopravvive ai ritmi del tempo moderno. Dal guazzabuglio e dal lasciar andare nelle questioni “morali”, da tutti considerate di ordine secondario, si può passare alla osservazione di ve?e e proprie storture politiche ed ideologiche. Guarda, caro Lucentini, certi titoli de «l’Unità», come quello citato cda Chiaretti nello scorso editoriale di «Città aperta», in cui si lamentava cine il papa non avesse appoggiato le iniziative antinucleari sovietiche. (E potrei citarti quel significativo notiziario dello stesso giornale n*el cui titolo s’annunciava trionfalmente che in Polonia, da quando i comu­ nisti sono al potere, è aumentato il numero dei fedeli; da cui bisogma

81

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

dedurre: a) che ideologia marxista-leninista, con i supporti dello stalini­ smo, spinge verso il cristianesimo; b) che sotto la direzione dei comunisti la gente corre a rifugiarsi nelle chiese). Ultimamente, circa la questione del pronunciamento dei settanta vescovi contro la Costituzione repubblicana, un noto giornalista comuni­ sta, peraltro degno della massima stima, sempre sull’«Unità», sottolinea­ va sopratutto l’indirizzo dei vescovi ribelli, trascurandone la completa, assoluta, proterva illegittimità. Solo tardivamente interveniva Togliatti e puntualizzava la questione. Egli, suggerendo come si risponde ai vescovi, chiariva come prima di tutto dovesse «prendersi in considerazione la ille­ gittimità dell’atto compiuto, poi la sostanza politica che i vescovi sfaccia­ tamente hanno fatto propria». Se i vescovi avessero appoggiato la politica opposta a quella della democrazia cristiana - ciò che sembrava auspicare segretamente il giornalista dell’«Unità» - non sarebbe stato meno anti­ costituzionale il loro operato. Il giornalista aveva scritto: «Né c’è da sperare di vedere cardinali e vescovi mobilitarsi in Conferenza... per pronunciarsi per la pace». Proprio un giornalista comunista deve ridursi a sperare che vescovi e cardinali si interessino di politica? (poiché non solo al problema della pace, ma anche a quello cosiddetto della “questione sociale” si riferiva l’articolista nel suo scritto). Nella vita attuale i preti hanno già il loro posto di psicoanalisti, di medici personali e segreti e dalla stessa maggioranza dei “fedeli” la reli­ gione è considerata un fatto completamente privato; per quale ragione si dovrebbe tornare indietro? Nella illusione di fare la rivoluzione socialista coi sacerdoti cattolici? Compromessi politici e storture ideologiche permettono a certi marxi­ sti di giudicare “progressivo” il movimento dei preti operai. Essi confon­ dono la sete di conoscenza degli uomini che spinse il pastore Vincent Van Gogh tra i minatori del Borinage - ed era discutibile anche quella febbre vangoghiana - con il mistico impulso missionario che porta esangui preti intellettuali a recare il verbo di Dio all’infedele proletario, certamente non per rimuovere le cause della sua miseria, ma per catechizzarle, o per ripe­ tere su se stessi, metafisicamente, sulle loro carni il sacrificio di Cristo, per una folle egotistica presunzione. (Ed a questo proposito sarebbe tempo di rivedere certi giudizi - salvo quelli espressi a proposito delle sue vicende giudiziarie - sulle idee di Danilo Dolci, il cui ritardato protestantesimo sociale può fornire, come ha già fatto, vaste e suggestive documentazioni 82

«CITTÀ APERTA» (1957-19.58)

sociologiche, ma non certo una qualunque moderna illuminazione ideale. Che le correnti del pensiero marxista cerchino un dialogo con il cristia­ nesimo sociale ed ignorino premeditatamente l’esistenzialismo è per lo meno sconcertante). Non siamo cristiani, dunque: insieme con te e con me possono dirlo da Attardi giù fino a Vespignani, Vittoria, Zigaina. Ma basta dirlo? Come ai cristiani si richiede una maggiore coerenza coi principi della loro religione, cosi ai non cristiani occorrerà domandare una più salda congruenza con le loro coscienze e che comincino proprio dai piccoli atti (grandi atti). Una richiesta di fanatismo? No, soltanto d’un’attenzione maggiore a questi delicati e fondamentali problemi. Sapendo fin d’ora che non sare­ mo noi a uccidere l’irrazionalità, nemmeno completamente dentro di noi. Tra duecento anni, un altro professor Bergeret, dopo che avrà veduta gia­ cere sul canapè la propria moglie con il migliore dei suoi robot, sentirà accavallarsi nel suo pensiero brani di vangelo, di sacre scritture, fram­ menti di encicliche pontificie, oscure voci mai sentite prima d’allora. Ed avrà un bel dire che non è cristiano, se non saprà come comportarsi con la consorte, con il suo robot prediletto e con se medesimo. Quando ci rapporti con quelli che tu chiami i «compagni di strada» cristiani, penso che una netta chiarificazione non possa essere altro che salutare. Vorrei soltanto che non finissimo noi per diventare i loro “com­ pagni di strada non cristiani”. Vorrei anche che qualcun altro voglia inter­ venire su questo argomento senza saltare di palo in frasca come ho fatto io, e con maggiore pertinenza. «Città aperta», 9-10, giugno-luglio 1958.

83

2. IL DIBATTITO SUL CINEMA ITALIANO (1962-1982)

INCHIESTA: I REGISTI DEGLI ANNI ’60

Abbiamo dedicato il presente questionario ai registi “nuovi,” italiani e stranieri. Molti di coloro ai quali ci siamo rivolti hanno sinora diretto un solo film, o due; tutti, indipendentemente dalla loro più o meno giovane età, si sono rivelati e imposti al nostro pubblico nel corso delle più recen­ ti stagioni. Non tutte le risposte che attendevamo ci sono pervenute: tut­ tavia, ci sembra che la nostra “campionatura” offra una testimonianza assai significativa delle intenzioni e propositi dei registi che impronteran­ no di sé il cinema degli anni ’60.

Risposte di Elio Petri

In che cosa vi sentite diversi dai registi della generazione precedente la vostra?

Non nascondo che alcuni di essi, per me, sono ancora dei miti; la rivo­ luzione che essi hanno portato nel cinema italiano e mondiale è di una portata che ancora oggi possiamo difficilmente valutare. Ossessione, forse, può ricordare Toni, ma è attraverso Ossessione che molti capirono quello che andava fatto. A dieci anni dallo loro comparsa Roma città aperta e Paisà generavano direttamente la Nouvelle Vague. Se in Italia non si può parlare di una attuale Nouvelle Vague è perché la loro fu già più che una Nouvelle Vague, e non una rivolta linguistica, o cerebrale, ma una rivolta contro il fascismo, contro il provincialismo della cultura italiana, contro l’assetto stesso della società italiana: e molti di loro sono ancora freschi di idee e di vista. Se si pensa al contributo che la cultura artistica del dopo­ guerra (fino ad oggi) ha dato alla formazione di una autocoscienza degli 85

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

italiani, i loro nomi vengono in mente tra i primi: vengono poi rari scrittori e pochi pittori. Altri, tra quei registi, non hanno potuto o saputo adattarsi al fenomeno della “restaurazione”: le loro opere sarebbero state diverse da quel­ le che sono se la loro libertà d’espressione non fosse stata implacabilmente ostacolata dal potere politico: questa chiave può essere usata per rivedere le filmografie di parecchi registi. Le differenze? Quelle fondamentali concerno­ no il talento: io mi sento dieci volte meno dotato di loro. Vi sono poi diffe­ renze di interessi, ma il discorso, allora, va portato sui diversi backgrounds, sulle differenze dei periodi nei quali, loro e noi, ci siamo trovati a muovere i primi passi - che sono, poi, quelli fondamentali. Alla rivoluzione succedette una restaurazione, ed il clima delle controriforme è sempre soffocante, oscu­ rantista; i temi che si presentano alla nostra attenzione, di conseguenza, sono tutti “interni”; l’operaio di Ladri di biciclette deve fare i conti, oggi, non più soltanto con la società in cui vive, ma anche con la propria coscienza.

A quali tradizioni culturali e di pensiero, oltre che specificamente cinemato­ grafiche, intendete riallacciarvi con la vostra opera?

Per chi vuole, come me, raccontare le storie degli individui - e dei con­ dizionamenti assoluti che essi trovano dentro di sé - senza mai perdere di vista i fenomeni sociali e storici e la loro direzione classista - come condi­ zionamento esterno, ma non deterministico, - una lezione necessaria è quel­ la di Sartre; il suo continuo sforzo di riportare l’esistenzialismo sulla terra, la sua attenzione - direi tensione - verso la ricerca marxista, la spregiudicatez­ za con la quale sa cogliere il vivo e il moderno in tecniche da altri pigramente respinte (penso al suo interesse per la psicoanalisi), hanno fornito un mate­ riale di studio molto importante. Per quello che riguarda il cinema in sé, credo che la tradizione neorealista sia ancora preziosa, come finestra aperta sulla gente, sui sentimenti, sulla realtà; l’indagine neorealista va assorbita per lo spirito che la animava e non più per i problemi che andava rivelando.

Quali elementi del racconto cinematografico attraggono maggiormente il vostro interesse?

Nel suo carattere essenzialmente oggettivo consiste la magia che su di me esercita il racconto cinematografico. La psicologia e le sembianze degli 86

IL DIBATTITO SUL CINEMA ITALIANO (1962-1982)

attori, la concretezza degli oggetti e delle scenografie, la materialità della luce, il potere di una atmosfera reale, il tema, il testo: queste forze hanno ognuna una presenza oggettiva autonoma e unite tra loro, sotto la spinta della energia d’un regista, producono un vero avvenimento umano, irri­ petibile nella sua apparenza ed anche nella sua sostanza. Scatenare queste forze è di per sé un grande divertimento e nel dominarle consiste la diffi­ coltà. L’impresa è tutta nel trasferire il proprio dato soggettivo dentro quelle forze oggettive, non automaticamente.

Quali aspetti della società in cui vivete e del mondo contemporaneo solleci­ tano più vivamente - in modo diretto o indiretto - la vostra attenzione?

Alcune potenti forze - e non è detto che esse si presentino sempre sotto l’etichetta conservatrice - tendono ad alienare all’uomo se stesso, a disseccare in lui ogni fonte di pensiero, ad intorbidire la sua coscienza. La vita ci può schiacciare sotto il cumulo dei rapporti sociali concepiti fuori di una scelta responsabile, e può ridursi alla monotona ricerca di una sem­ plice sopravvivenza, ad uno scatto ossessivo di ore fisse, roteanti tutte attorno ai centri fisiologici. Esiste un legame, apparentemente contrad­ dittorio, tra l’incertezza nella quale si vive oggi - che teoricamente dovrebbe spingere verso un continuo rinnovamento - ed il ristagno delle coscienze, la paura di pensare, di vivere: dallo scioglimento di questo nodo dipendono molte cose. Tutto quello che è umano è affascinante, ma nulla è più prezioso, per noi uomini, della nostra coscienza di noi e della nostra integrità. Il massimo atto di superbia che il cinema possa compie­ re è quello di penetrare nelle coscienze degli uomini, e che si inventi una macchina da presa speciale; le immagini, sulle parole, hanno l’estremo vantaggio di essere oggettive. Il fondamento di un’arte moderna è tutto nel voler testardamente conservare o restituire l’uomo a se stesso, anche al suo dolore, nel voler essere un testimonio non muto degli avvenimenti, cosciente e non asservito alle forze alienatrici; avere in testa un discorso, poi, è altro dal rappresentarlo compiutamente; qui incomincia, infatti, il mio caso personale.

87

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

Oltre alle censure ufficiali, quale genere di pregiudizi, incomprensioni, osta­ coli avete incontrato nello sviluppare la vostra attività?

Una incomprensione fondamentale è quella per la quale si scambia ancora oggi il cinema per semplice svago, e viene da più parti, anche da importanti zone delle classi cosiddette colte. (Non dico che alcuni film o molti film non possano essere da nickel-odeon: come spettatore sarei ben triste se mi togliessero i film d’avventure, o i film di Totò; non vorrei, sem­ plicemente, che tutto si riducesse al loro livello). Quello del pubblico è un grande ostacolo nello sviluppo di un cinema di idee o, quanto meno, di problemi, il cinema essendo uno spettacolo - e questo nessuno di noi può negarlo, nemmeno il più calvinista - ha come naturale destinazione il pub­ blico; se questo rapporto non viene inteso dialetticamente, il cinema, in luogo di esercitare una funzione culturale attiva, si mette alla coda degli strati più arretrati degli spettatori; pungolare, vivificare, provocare lo spi­ rito critico degli spettatori, chiarire davanti alle loro coscienze (o contri­ buire a chiarire) i problemi della nostra epoca è tra i doveri del cinema (dopo essersi specchiato in loro stessi): questo costringe spesso il cinema ad andare controcorrente e ad isolarsi dal pubblico, come è già avvenuto (Stroheim, Visconti, Antonioni); ciò non piace ai produttori, anche se è dimostrato che i film controcorrente penetrano a poco a poco nella co­ scienza del pubblico fino a diventare a loro volta “affare” (e citerei i medesimi nomi); i film controcorrente, insomma, costituiscono una spe­ cie di investimento che pochi hanno il coraggio di fare. Il cinema, si sa, è un’industria (nemmeno questo può essere negato), anche al livello del film da trenta milioni: come tale rispetta determinate leggi di mercato, così che la produzione civetta volentieri con la apatia e la tendenza all’e­ vasione del pubblico (si spiega con la legge della domanda e dell’offerta la presenza così massiccia, in Italia, del cinema farsesco ed anche la ten­ denza all’erotismo più pinuppista). I produttori abdicano facilmente alla possibilità, come industriali, di influire sul pubblico in modo da dirigerne i gusti e da imporre film nuovi. Un impedimento grave nella ideazione del film è rappresentato certamente dal loro costo presumibile, ma per sor­ montare questo ostacolo si può aguzzare l’ingegno. Per quanto ci si sfor­ zi, invece, la censura politica resta un ostacolo quasi insormontabile, poi­ ché raggiunge gli uomini di cinema giù nel subconscio. Un estremo esem­ pio di incertezza-ristagno-paura viene dai fenomeni della nostra vita poli­ tica: io tenterei volentieri il ritratto di un giovane uomo politico (di Mario 88

IL DIBATTITO SUL CINEMA ITALIANO (1962-1982)

Alicata, per esempio, o di Giulio Andreotti, o di tutti e due in un medesi­ mo film); un film in cui le sedi e le insegne della vita politica siano quelle reali: esiste un produttore, in Italia, disposto ad affrontare una impresa simile? La politica, che tanta parte occupa nella vita degli italiani, anche nelle coscienze di quelli che credono di sfuggire alle sue scelte, non ha diritto di cittadinanza nel nostro cinema (l’unico esempio resta quello del bellissimo Salvatore Giuliano di Francesco Rosi, ma merita un discorso a parte); il contributo che il cinema ha dato alla edificazione di una vera democrazia nel nostro paese è stato solo in minima parte diretto: avrebbe potuto essere assai più importante. Non hanno voluto così. Pochi, nel nostro paese, amano veramente la democrazia. Film 1962, a cura di Vittorio Spinazzola, Milano, Feltrinelli, 1962. Gli altri registi

intervistati sono Giuseppe Bennati, Peter Brook, Henri Colpi, Damiano Damiani, Vittorio De Seta, Nicolò Ferrari, Edgar Morin, Ermanno Olmi, Gillo Pontecorvo, Lionel Rogosin, Franco Rossi, Jiri Weiss.

89

GIOCO DI SQUADRA E SPECIALITÀ INDIVIDUALI

L’arte e la cultura hanno sempre avuto la funzione di guardare l’uomo da se stesso. La disumanizzazione dei rapporti sociali, la reificazione dell’uomo, l’a­ lienazione sono fenomeni antichi che hanno assunto di volta in volta forme diverse, trovando sempre nell’arte un testimone d’accusa volonta­ rio o involontario. Nella società moderna, per la prima volta, l’arte ha preso coscienza piena del valore conoscitivo della sua testimonianza con­ quistando, prima di tutto, una libertà espressiva tendente all’assoluto, e si è avventurata nel cuore della condizione umana: nello stesso momento in cui si è cercato - e si cerca - di trasformare le sue opere in merci di scam­ bio. Il cinema ha partecipato immediatamente di questa mercificazione: prima ancora di accertare se fosse arte, è stato stabilito che esso è in­ dustria, e lo è, mezzo di persuasione, e lo è, favola per analfabeti, gigan­ tesco clown, e lo è stato e continua ad esserlo. Si è fissato tra il pubblico ed i film un rapporto da vittima a carnefice, in cui a turno si scambiano i due ruoli. A mano a mano che lo spettatore medio si annichilisce nei suoi rapporti di produzione, aumenta la sua esi­ genza di vedere tutto allo stesso livello della sua esistenza privata: è abi­ tuato a guardare in basso e si rifiuta di sollevare lo sguardo. In Italia è fortemente aumentata nello spettatore medio, dal borghese all’operaio, la richiesta di volgarità, a dimostrare quasi una inconscia esi­ genza di incanaglirsi, un masochistico desiderio di rivedersi sullo schermo ma sbeffeggiati. Così il rapporto tra spettatore e cinema è fisso su una dinamica che comincia ad avere una ossessiva tendenza all’infinito: causa ed effetto, l’effetto diventa causa, e viceversa, il pubblico chiede volgarità, il cinema gliene dà in misura doppia rispetto al richiesto, il pubblico tri­ plica la sua richiesta di volgarità, il cinema lo soddisfa in misura otto volte maggiore. Il pubblico viene additato agli autori come un bambino capriccioso, che va adulato nella direzione dei suoi difetti, come una massa ignorante che aspetta soltanto di essere sollecitata nei suoi istinti peggiori. Io non credo che l’uomo di cinema debba lavorare soltanto per se stes­ so. Credo, cioè, nel cinema come spettacolo, come mezzo di comunica­

si

IL DIBATTITO SUL CINEMA ITALIANO (1962-1982)

zione di idee generali. Credo che senza il suo naturale ed unico interlocu­ tore - che è il pubblico a lui contemporaneo - il cinema si svuoti di una grande parte della sua vitalità. Partendo da questo principio, mi pare che le prospettive del cinema libero - o, per meglio dire, le prospettive di una liberazione del cinema - siano connesse con quelle della nascita di un pubblico libero - con quelle cioè della liberazione del pubblico dai suoi condizionamenti. La storia del cinema libero in Italia è la storia stessa del cinema italia­ no migliore. Se in Italia vi fu una Nouvelle Vague essa non ha rappresen­ tato una rivolta generazionale, o linguistica. Essa nacque sotto la spinta di una rivoluzione, fu il risultato di un moto critico e totalmente rinnovato­ re. Dalle nuove ondate della Nouvelle Vague scaturì un metodo che è ser­ vito nella fase della restaurazione per rappresentarne gli effetti. Ma pos­ siamo dire che da Roma città aperta ai film di De Sica e Zavattini, a quel­ li di Visconti fino all’ultimo film di Fellini, tutto è stato fatto quasi all’in­ saputa dei produttori, contro le regole della domanda e dell’offerta, con­ tro le tendenze stesse del pubblico medio, servendosi dell’anarchia e dello spirito d’avventura esistente nella produzione. Oggi la situazione è diver­ sa. La crisi strutturale del cinema ha provocato la sparizione del piccolo produttore e porta alla formazione di un mercato monopolistico, nel quale non ci sarà posto per la produzione di film diversi da quelli che incassano già sulla carta. Probabilmente per un lungo periodo il cinema di idee dovrà farsi largo, fuori delle strutture industriali, senza servirsi di esse. Un film di idee può oggi contare sul pubblico di un romanzo di suc­ cesso: è già qualcosa; è a questo pubblico che bisogna rivolgersi e partire da questo dato economico. In altri Paesi d’Europa, questo genere di pub­ blico ha già superato la fase prenatale: ed è infatti alla formazione di un mercato internazionale del cinema di idee che bisognerebbe mirare. Vi sono forze in Italia, che possono essere interessate a limitare il potere alie­ nante del cinema: ad esse dovremo rivolgerci. Ma credo che, prima di tutto, l’iniziativa spetti agli autori. Tra le lezioni che possiamo apprende­ re dalla Nouvelle Vague francese, dal Free Cinema inglese, dai corrispon­ denti gruppi americani, ve n’è una di carattere morale e culturale e riguar­ da la ricerca compiuta dagli autori, per trovare una base ideale ed econo­ mica comune. Essi hanno subito guardato ad interessi più vasti, sacrifi­ cando i piccoli interessi personali. Hanno giocato in squadra fin dal primo momento. Qui si preferiscono le specialità veloci ed individuali. Potrà 91

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

ancora avvenire che per la tenacia e la intelligenza di un solo autore pos­ sano essere fatti buoni film di idee. Se il cinema di idee riuscirà a soprav­ vivere in Italia per l’iniziativa di gruppi di autori, questo io non so dirlo. «Cinema 60», 44, agosto 1964.

92

CRISI O VITALITÀ?

«Crisi o vitalità?». Noi che ci occupiamo di cinema da ventanni, ormai, e siamo stati testimoni di tante sconfìtte, abbiamo la cocciutaggine di continuare ad occuparcene e il non addetto ai lavori può avere perfino l’impressione che la nostra sia una monomania, una forma di regressione. Noi sappiamo, invece, che occuparci di cinema vuol dire, per noi, occu­ parci dei problemi della società, il nostro sforzo è stato sempre - anche in momenti di confusione e di panico ideologico - quello di ricondurre il discorso sui film ad un discorso sulla società. Se mi permetterete un inci­ so, dirò che uno dei pochi risultati concreti della attività dei marxisti in Italia risiede nell’aver imposto ai propri avversari alcuni elementi del pro­ prio metodo di analisi: così che molti critici cinematografici cattolici, og­ gi, parlano inconsciamente en marxiste. Non è da escludere - e non soltanto per amore del paradosso - che i migliori economisti marxisti, oggi, siano negli uffici studi della Confindustria. Se voi dite: «Crisi o vitalità?», voi volete intendere, noi vogliamo intendere, crisi o vitalità della società italiana, poiché sappiamo che i film - la crisi e la vitalità di chi li fa - sono, consci o inconsci, testimoni di lar­ ghi fenomeni, che non coinvolgono soltanto il gusto, ma anche mutamen­ ti di ordine qualitativo nel sentire, nel pensare della gente. I testimoni sono anche reticenti: e nella attuale reticenza del cinema italiano, infatti, si può leggere tutta la storia della società italiana degli ulti­ mi vent’anni, fatta di frustrazioni e repressioni dei migliori istinti cultura­ li, del trionfo del razionalismo piccolo-borghese e della grande operazio­ ne di ufficializzazione - da parte della borghesia - di ogni novità, sia al rango della ricerca intellettuale, sia al rango della mera trovata, riducendo spesso la prima al rango della seconda. Il grande respiro morale del cinema italiano del dopoguerra - che chiameremo per comodità neorealismo - permise - tra l’altro - la spro­ vincializzazione del nostro cinema e, dietro di esso, d’una parte impor­ tante della nostra cultura. Dopo vent’anni assistiamo al fenomeno inver­ so: il ritorno al più gretto dei provincialismi, quello che, parlando il dia­ letto o la lingua della televisione, tende all’incanaglimento privato nella più futile delle evasioni.

93

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

Ha vinto, infatti, nella società italiana la più gretta delle spinte che si sono da millenni formate nell’inconscio dell’uomo, quella dell’egoismo cieco e animalesco. La potenza di questo istinto consiste nel lasciare sem­ pre la speranza allo sfruttato di poter prima o poi assumere la funzione opposta, quella dello sfruttatore, e riesce a sublimare in esso la figura dello sfruttatore come modello di vita. Le gioie dello sfruttatore diventa­ no gioie dello sfruttato. Che Agnelli viaggi in un panfilo di non so quante tonnellate, riempie di soddisfazione il cuore del suo operaio. In questi venti anni è cambiato il concetto stesso di classe, mi pare. Ora io non so dirvi i termini scientifici di questo problema, ma intuisco che basterebbe ricercarli coraggiosamente e sarebbero presto individuati. Certamente la borghesia non ha più una classe antagonista che le contesti tutto il suo modo di vivere, che contesti tutta la sua morale. Gli obbietti­ vi di un operaio e di un borghese, e non a caso parlo di individui, nella loro esistenza, sono i medesimi e sono di esclusiva natura materiale e riguardano solo e marciamente sé stessi. C’è una frase di Marx, citata da Engels nell’Origine della famiglia, che aderisce perfettamente alla situa­ zione che noi viviamo da venti anni: «Innata casistica dell’uomo, quella di cambiare le cose mutandone i nomi! E di trovare un sotterfugio per infrangere la tradizione rimanendo nella tradizione, laddove un interesse diretto abbia dato la spinta sufficiente». Così che noi abbiamo pitture astratte nel salotto buono, socialisti che sottoscrivono il patto Adantico, presidenti sovietici dal papa, la psicoanali­ si nelle ricerche di mercato e vi risparmio la lunga infinita «casistica del­ l’uomo», che dall’epoca di Marx non si può dire certamente sia migliorata. La borghesia ha trovato il modo d’infrangere la tradizione - costretta dalla storia - rimanendo nella tradizione. Ha addormentato il suo avver­ sario più diretto, rifornendolo di simboli del benessere che gli riempiono la casa e gli svuotano l’anima e la mente. Non si è ancora trovato l’accor­ do sulla valutazione salariale da dare alla collaborazione di classe. Ma, come vedete, la querelle è di ordine economicistico. Un’Europa addormentata e l’Italia, in questa Europa, è stata la “più facilmente addormentabile”, in un certo senso, poiché il basso livello di cultura, la miseria atavica, l’impero della Chiesa rendono tutto facilmente corrompibile, rendono facile il dominio dei simboli del benessere. Una società retta da vecchi princìpi mai applicati o malamente appli­ cati, che non ha più nemmeno quelli e forse il vantaggio è nel fatto che ci stiamo avvicinando al momento in cui non ci sarà nessun principio.

94

IL DIBATTITO SUL CINEMA ITALIANO (1962-1982)

Gli intellettuali in questa situazione hanno trovato che gli unici stru­ menti di organizzazione della cultura erano nelle mani del “dominio” ed ognuno di essi ha trovato il «sotterfugio» di cui parla Marx. Il fiorire di premi, consulenze, centri studi, festival, rassegne è andato di pari passo con la motorizzazione e l’introduzione della lavatrice automatica. Oggi l’intellettuale è pronto ad ogni prefazione, presentazione, convegno, tavo­ la rotonda, disponibile per ogni questionario, sondaggio, giuria, sia l’apo­ calittico, sia l’integrato, ed il primo ha il complesso di non essere integra­ to e l’altro quello di non essere apocalittico. Si è resa disponibile per l’in­ tellettuale anche la televisione, per cui Montale appare sul teleschermo subito dopo Bobby Solo e perfino il mistero di certe esistenze tutto rac­ colto in pochi versi - offerto nel giornaliero olocausto televisivo - ritorna nel minimo comune denominatore piccolo-borghese. Oggi si potrebbe perfino aver paura di sottoscrivere un manifesto contro la guerra in VietNam, poiché nella confusione, tutto assume il carattere sinistro della pub­ blicità. Una società eterica dunque, che nel cinema ha trovato, appunto, un testimone fortemente attendibile (nella storica eterìa che del cinema, fin dalla nascita, è stato un carattere preminente, come nelle opere più calviniste). La contestazione - nei primi anni, nel dopoguerra, fortemente com­ battuta al livello dei governi, cioè con l’intervento diretto, brutale di uomini politici (ricordate le battaglie di Andreotti contro Umberto D.?) è oggi addirittura protetta dai contestati. Di più: il primo film di Bellocchio - che è un tentativo estremo di rivolta - può non essere pia­ ciuto a certi vecchi comunisti, e magari avrà trovato l’appoggio entusia­ stico del critico de «Il Popolo»: per dire come la confusione sia diventata imbarazzante perfino da un lato - diciamo - puramente umano. Molte parole per arrivare a suggerirvi qualche tema nella discussione, e soprattutto questo: cerchiamo di spiegarci come sia potuto accadere che il film di idee - anche quello più chiaramente impegnato in una battaglia di rinnovamento - non possa trovare altro, in Italia, che l’appoggio dello spettatore borghese contro cui in teoria è schierato: mancandogli in modo assoluto la simpatia del pubblico popolare. In che cosa hanno mancato gli autori di quei film? Vi è stata una guida orientatrice, in Italia, che abbia operato per l’educazione di un pubblico cosciente? Ed in quali anni? e fino a che anno? E per quali ragioni si è creato un vuoto di guida, anzi, una sfiducia nella guida? E come rimonta­ 95

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

re la situazione? È rimontabile la situazione? Le contraddizioni sono tante ed evidenti: una è questa: alcuni dei film più coraggiosi apparsi negli ulti­ mi anni in Italia, in Francia, in Gran Bretagna sono stati prodotti con capitali americani: per giunta, se hanno avuto successo, lo devono ai pub­ blici borghesi europei ed americani. E lo stesso fenomeno dell’industriale collezionista di Guttuso - dico per semplificare - o queste contraddizioni vogliono dire qualcosa d’altro, che ci sfugge, ma che, individuato, possa aiutarci a capire di più quello che si deve fare? «Cinema 60», 62-63, aprile-giugno 1967.

96

ELIO PETRI HA FIDUCIA NEL CINEMA ITALIANO

Esiste un gruppo di autori in grado di produrre ogni anno lavori inte­ ressanti, originali, che rivelano vivacità, carattere, felicità di intuizioni ed è un gruppo non esiguo. Con questo non intendo affermare che la realtà del cinema sia sgombra di preoccupazioni, di incertezze, di disagi. Il cine­ ma ha oggi un nemico pericolosissimo in certa industria che tende a commercializzarlo, svuotarlo di interesse, a togliergli vigore e carattere. Il pubblico sta al cinema, per molti produttori, in un rapporto sempli­ cistico di causa ed effetto: invece di preoccuparsi di migliorare la qualità del pubblico fornendogli film evoluti, accostandolo gradualmente a forme di spettacolo più ambiziose, gli si propongono prodotti scadenti, ingenui che sono spesso al di sotto del suo livello e che contribuiscono a mortifi­ care l’intelligenza e la fantasia. La rottura esistente fra avanguardie è stata esasperata; il cinema di avanguardia propone mezzi espressivi più ricer­ cati mentre il pubblico è portato a preferire per pigrizia, per indolenza, per mancanza di curiosità, un linguaggio amorfo, convenzionale senza sorprese. Per questo l’industria sfrutta le mode: ieri James Bond e i suoi derivati, oggi i western, domani i fumetti neri: Diabolik, Satanik, Batman. Il nemico più grande però è interno alla coscienza degli autori e con­ siste nella loro paura di non avere successo e quindi nel cedimento alle richieste, anche le più degradanti della produzione corrente. Ho notato infatti che nel mondo in cui il gruppo di testa degli autori italiani è vivo e combattivo anche il cinema cosidetto commerciale tende a lavorare ad un livello più elevato. «Cinefonim», 62, febbraio 1967.

97

PER CHI SI SCRIVE, PER CHI SI GIRA Inchiesta della rivista «Bianco e Nero»

Con un’impostazione velatamente provocatoria, il problema si potreb­ be porre anche in un altro modo. Più di vent’anni £a, concludendo una sua intervista, Cesare Pavese diceva: «il maggior narratore con temporaneo è [...], tra gli italiani, Vittorio De Sica». L’affermazione fu intesa per lo più, allora (al di là dello stesso contesto pavesiano) come l’implicita indicazione di un ideale nar­ rativo - e di un destinatario - “nazionale-popolare”, comune a romanzo e film; ma un ideale e un destinatario che solo il cinema dell’immediato dopoguerra aveva alla fine realizzato e raggiunto. Oggi molti sono inclini a considerare anche quella, come una genero­ sa illusione neorealistica germogliata nel clima “unitario” dello storicismo; contrapponendovi magari con nero sarcasmo il successo di Love Story romanzo, film e scatola di cioccolatini - come concreta realtà di un rap­ porto finalmente realizzato tra un ideale narrativo e un vasto “pubblico”, nel clima “unitario” del consumismo. Ebbene - tra le aspirazioni degli anni quaranta e un tale approdo invo­ lutivo, assunti come estremi di uno schema polemico - sono possibili oggi delle valide alternative, che non si esauriscano nell’ambito di una élite? E possibile, cioè, ipotizzare un qualsiasi (analogo o diverso o addirittura opposto rispetto ad allora) rapporto autentico, non mistificato, tra un ideale comune di romanzo e di film, e un suo destinatario collettivo? E come si colloca in questo quadro il problema dell’«originale» o dello «sce­ neggiato» televisivo? Se poi si ritiene inattuale o del tutto improponibile l’ipotesi di un idea­ le comune, come si pongono oggi queste diverse forme di comunicazione, ciascuna rispetto a un loro possibile destinatario di massa? E come hanno agito - se hanno agito - le trasformazioni socioeconomiche di questi ulti­ mi vent’anni, e l’industria (prima ancora che l’industria culturale) in par­ ticolare, nel processo di differenziazione tra romanzo e film: a livello tec­ nico-strutturale (all’interno, cioè, delle stesse strutture del linguaggio), 98

IL DIBATTITO SUL CINEMA ITALIANO (1962-1982)

comunicativo (le diverse forme di fruizione), e dei meccanismi psico-fisi­ ci di percezione e di conoscenza l’immagine e la parola)? Su di un piano generale, poi, si può parlare oggi dell’esistenza di un destinatario collettivo, di una vasta categoria di lettori o spettatori (con­ fluenti o diffluenti tra loro) relativamente omogenea, da un punto di vista sociologico, ideologico, culturale? In caso affermativo, quale fun­ zione ha esso: puramente recettiva, passiva, consumistica, o consapevol­ mente attiva e critica; resta un momento di conservazione e immobili­ smo, o riesce a diventare un interlocutore reale? In caso negativo, se cioè il “pubblico” è soltanto un equivoco: per chi si scrive o si fa un film, allora?

Risposta di Elio Petri Per poter affrontare i temi che emergono in ogni frase del questiona­ rio, occorrerebbero analisi comparate da condurre sul “pubblico” del romanzo e sul “pubblico” di un film. In mancanza di uno studio analiti­ co di questa particolare situazione sociologica, non ci resterebbe che elen­ care una serie di interrogativi, e forse, molto approssimativamente, avremmo il piano di una ricerca da farsi. Che valore ha, per chi la vive, ma anche per l’insieme sociale, l’occasione umana di acquistare un romanzo e di appartarsi nella sua casa, o in treno, o in una sala d’attesa, o al gabi­ netto, o prima d’addormentarsi, per consumarne la lettura? Vi sono romanzi adatti ad ogni genere di situazione? Proust può essere letto in treno? Un libro giallo può essere letto a tavolino? Vi è un’età in cui Proust può essere letto comunque e dovunque, ed altre età in cui leggerlo com­ porti un rituale? E un rituale leggere Proust? È un rituale leggere Dumas? L’educazione sentimentale si divora. Guerra e pace si divora, può dirsi la stessa cosa per Beckett? È un rituale l’atto stesso di legge­ re? E quali strati sociali, se è un rituale, sono coinvolti dal contenuto meramente sociale del rituale? E promozione sociale il poter leggere? E promozione sociale il leggere? È promozione sociale il poter scrivere? E promozione sociale lo scrivere e il pubblicare? E la molla della promo­ zione sociale, in che misura agisce su queste due scelte? E, tornando daccapo, cos’è un “lettore”, cos’è uno “scrittore” di romanzi? Oltre alla

99

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

scelta meramente sociale, vi sono ragioni che portano a leggere, o a scri­ vere, che riguardino rigorosamente la sfera della comunicazione, il desi­ derio rigoroso di comunicare con-l’altro? L’isolamento di chi legge, o di chi scrive, è una fuga-da-sé? E, se è una-fuga-da-sé, s’arresta ad essere un fenomeno di fuga-da-sé, o vuole ricongiungersi agli “altri” nel com­ piersi del leggere e dello scrivere? Si potrebbe volgere in termini cinematografici la serie delle domande, e le altre centinaia o migliaia che vengono da fare sull’argomento. Che valore ha, per chi la vive, ma anche per l’insieme sociale, l’occa­ sione umana di appartarsi dalle sue questioni esplicite di lavoro, di vita, per entrare in una sala cinematografica, sedere al buio, assistere alla proie­ zione di un film? Vi sono film adatti ad ogni genere di situazione? Bergman, può essere “visto” tra un treno e l’altro? Ci si può, sensata­ mente, spostare di casa la sera, d’inverno, da soli, o in compagnia, per “andare” a “vedere” un film d’evasione? Vi è un’età in cui Bergman può essere “visto” comunque e dovunque, e un’età in cui il “vederlo” com­ porti un rituale? È un rituale vedere Bergman? È un rituale “vedere” Lotta di classe in Italia? E un rituale “vedere” Ombre rosse? Tempi moderni si divora, Scarface si divora, può dirsi la stessa cosa di Persona o di Lotta di classe in Italia? È un rituale l’atto stesso di andare-a-vedere? E quali stra­ ti sociali, se è un rituale, sono coinvolti dal contenuto meramente sociale dell’andare-a-vedere? E promozione sociale il poter andare-a-vedere, l’a­ vere, cioè, il tempo e il danaro per andare-a-vedere? È promozione socia­ le lo stesso mero atto di andare-a-vedere? E promozione sociale il fare un film? E la molla della promozione sociale in che misura agisce su queste due scelte? E, tornando daccapo, cos’è uno spettatore, cos’è un autore di film? Oltre alla scelta meramente sociale, vi sono ragioni che portano ad andare-a-vedere, o fare un film, che riguardino rigorosamente la sfera della comunicazione, il desiderio rigoroso di comunicare con l’altro? E da considerare fatto comunicativo anche il puro ritrovarsi in una sala pub­ blica, insieme con altre diecine di “altri”? Entrare in una sala di pubblico spettacolo, immergersi nell’oscurità, accanto a una massa di “altri” sco­ nosciuti, equivale ad isolarsi? Girare un film utilizzando l’apporto creati­ vo di diecine di tecnici, di attori, di operai equivale ad una fuga-da-sé? Ma questo rendere pubblico il proprio “vedere” di spettatore, e questo “lavo­ rare” in tanti, non vuole, forse, dire che nel film viene privilegiato il momento della “immedesimazione” rispetto a quello della “meditazione” 100

IL DIBATTITO SUL CINEMA ITALIANO (1962-1982)

che è alla base dello appartarsi di un “lettore” e di uno “scrittore”? Non vuole, forse, significare che la spinta alla comunicazione diretta è più forte, anzi, tende a fornire la struttura stessa del film? Un’altra serie di domande potrebbe unificare la ricerca, nel tentativo di stabilire quali siano, pur restando su un terreno puramente sociologi­ co, i dati comuni all’esperienza di un lettore e di uno spettatore, all’espe­ rienza di uno scrittore e di un autore di film. “Leggere” un libro equivale a “vedere” uno spettacolo? Che genere d’impegno percezionale richiede il “leggere” e che genere d’impegno percezionale richiede il “vedere”? Nella sua mediazione, lo scrittore pensa al “lettore” come ad un “altro” intento nell’atto di leggere, quindi pensa ai sensi che il lettore impiega nell’atto di leggere? Tien conto del fatto che una lettura può tradizionalmente implicare degli arresti, dei ritorni indie­ tro e, addirittura, un rinvio a momenti oggettivi o a stati d’animo più pro­ pizi? Un autore di film, nella sua mediazione, pensa allo spettatore come ad un “altro” seduto nell’oscurità, immerso nell’atto di “guardare”, quin­ di pensa ai sensi che lo spettatore impiega nell’atto di “guardare”? Tien conto del fatto che l’atto di proiettare un film, tradizionalmente, è irre­ versibile e che la comunicazione, spesso, si affida più alla memoria suc­ cessiva che lo spettatore terrà del film che alla percezione momentanea? Il rapporto tra “sensi” e “coscienza” nel lettore di un romanzo e nello spetta­ tore di un film si fonda sulla stessa struttura? Un lettore di romanzi gialli può al tempo stesso, leggere anche Proust? Un lettore di Proust può andare-a-vedere un film di Franchi e Ingrassia? Uno spettatore di Franchi e Ingrassia può leggere Proust? E uno spettatore di Franchi e Ingrassia può, al tempo stesso, andare-a-vedere Bergman? Ma Proust pensava al proprio “lettore” come ad un possibile spettatore di De Funès? O, in altri termini, pensava che un possibile spettatore di grand-guignol potesse trarre godi­ mento “spirituale” dal suo libro? Vedeva il suo “lettore”, nell’atto venti­ cinquennale del suo scrivere - o scriversi -, sempre nello stesso modo con lo stesso viso, lo stesso costume? E Bergman, che impiega cinque settimane a “fare” il suo film, cosa “vede” nell’altro, in quello spettatore che si muo­ vere da casa per andare-a-vedere il suo film? Come lo vede, che faccia ha, che costume indossa, che lingua parla? Lo scrittore pensa anche alla poste­ rità? Ed a che tipo di posterità? Lo stesso può dirsi dell’autore di film? Perché, insomma, la “narrativa”? Io credo che una ricerca di tipo sociologico sia ancora da farsi, sull’ar­ gomento che il Questionario, più che sviluppare, indica. Credo, tuttavia,

101

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

che si ritornerebbe, alla fine del piano di ricerca, e dopo aver raggiunto ri­ sultati ragguardevoli, di nuovo al punto di partenza. Il punto di vista so­ ciologico, infatti, dispone la materia per la discussione, la descrive, la cir­ conscrive, ma è l’analisi socio-politica che darà le risposte fondamentali. Il “leggere” e il “vedere”, infatti, rispecchiano chiaramente una situa­ zione di classe, poiché, nella società in cui viviamo, “leggere” o “vedere” sono un privilegio, esattamente come lo “scrivere” un romanzo o girare un film. In queste operazioni, che si integrano dialetticamente, son coin­ volti come protagonisti soprattutto gli strati della piccola borghesia intel­ lettuale, in un processo auto-gratifìcante che si racchiude in veri e propri rituali. I romanzi ed i film sono gratificanti sia per gli autori, sia per i let­ tori o gli spettatori, ai loro rispettivi livelli culturali. Nello schema verticalistìco che divide l’alta, dalla media e dalla bassa cultura si riproduce la verticalità della struttura sociale. E, come la struttura sociale si basa sul sistema dell’esclusione dal possesso dei mezzi di produzione e del potere, degli strati immensi degli operai e dei contadini, così il sistema della comunicazione cultura si danno, nella cosciente esclusione della comuni­ cazione della stragrande maggioranza dei contemporanei. Ma all’interno stesso dello strato alto-culturale, si opera per esclusioni, poiché l’altezza di un prodotto esclude dallo scambio lo strato immediatamente inferiore culturalmente e socialmente (pur nella sua accezione di strato alto-cultu­ rale). Finché, di vertice in vertice, si giunge alla produzione di uno staff quasi-divino che “illumina”, pur nell’esclusione di tutti gli altri staff, il “secolo”, o la fase storica: e, nello stesso secolo, l’uno sull’altro s’ammuc­ chiano i “secoli” di ogni staff, di ogni strato, coesistendo tra loro, ma ignorandosi, in una fissità temporale che finisce per gettare tutto il pro­ cesso all’indietro, verso il passato. Così la cultura si fa in ghetti verticali e si alimenta di non-comunicazioni, in un incessante processo di disuma­ nizzazione. La discriminazione delle classi lavoratrici dal “farsi” della cultura (che taglia fuori dai processi della creatività cariche d’energia e d’intelligenza umane non commensurabili), si opera già nella scuola, e poi dappertutto, con la complicità della piccola borghesia intellettuale, alla quale è deman­ data la gestione dell’intiero meccanismo discriminante. Lo “scrivere” ed il “girare” per il “terzo” strato, nello schema che divide la cultura in “alta”, e “bassa”, non è altrettanto non comunicativo che lo “scrivere” e il “girare” per gli altri due strati? E il sistema della comunicazione, e, quin­ di, la struttura sociale verticale in esso rispecchiata, ed anche il contenuto 102

li. DIBATTITO SUL CINEMA ITALIANO (1962-1982)

psichico di entrambi, che vanno sottratti alla discriminazione classista e rivoluzionati. Davanti alla enorme massa dei problemi inevasi, o inesplosi, o implo­ si che ci chiude la visuale, il rapporto tra un “mio” film ed il “suo” pub­ blico non ha alcuna rilevanza, se non è assunto come sintomo, sia pure microscopico, di uno squilibrio e di una irrazionalità universali. Niente pubblico, allora, niente film? No, poiché i film si continuano a fare, ed un pubblico indecifrabile continua ad aversi. Non mi resta, dunque, che rispondere direttamente alla vostra doman­ da, dal momento che anch’io continuo a fare film, pur nella coscienza di essere complice di una mastodontica discriminazione. Per chi faccio i film? Per gli “amici”, alti, medi o bassi che siano. “Amici” sono coloro che nutrono le vostre stesse opinioni e desiderano gli stessi mutamenti da voi desiderati, con i quali è giusto e necessario avere uno scambio reale ed uno scontro “efficace”, nei limiti ghettosi dell’irra­ zionalità del sistema. Essi, gli “amici”, se non altro, nell’oscurità delle sale cinematografiche, che tendono a trasfigurare, o ad annullare, le presenze umane, sono un vero punto di riferimento. Possono essere anche diecine di migliala: ciò dipende dalle vostre opinioni e dalle vostre speranze. Il “per chi” del vostro Questionario, nella prospettiva di una sempre più programmata disumanizzazione dei rapporti sociali, andrebbe forse compreso in un’altra domanda, ancor più semplice e tremenda: “perché”, oggi, scrivere un libro, fare un film? «Bianco e Nero», 5-6, maggio-giugno 1972.

103

CI RIMPROVERATE, MA NON CI AVETE MAI DIFESO Intervista di Umberto Rossi

Grazie allo Stabile di Genova hai potuto cimentarti nella regia teatrale, precisamente ne L’orologio americano di Arthur Miller. Perché questa scelta dopo molti anni dedicati esclusivamente al lavoro con la macchina da presa?

Nei film che ho diretto negli ultimi anni ad iniziare da La proprietà non è più un furto ce una sorta di desiderio di fare del teatro. Per esempio, i critici mi hanno rimproverato l’uso dei monologhi in La proprietà non è più un furto. Ebbene, ancor oggi difendo quella scelta anche se muove in direzione teatrale. Allo stesso modo, Lodo modo rappresenta una sorta di “mistero” politico e teatrale. In questo film c’è un preciso ri­ spetto di ciò che è alla base dello spettacolo teatrale: una certa concezione dello spazio e del tempo, un certo modo di utilizzare gli attori. Inoltre, sono convinto che stiamo attraversando una fase di sviluppo del lavoro creativo in cui le esperienze di un regista non possono che essere circolari, interdi­ sciplinari in senso lato. Si veda il caso di Luca Ronconi, che lavora in teatro ed in televisione e che prima o poi dirigerà anche un film. Sono convinto che sia utile mescolare le diverse esperienze e che, per esempio, un regista di cinema rovesci sugli attori teatrali ciò che sa e insegni loro l’immediatezza, facilitando il recupero delle capacità di fare spettacolo “con le proprie mani” anziché affidarsi a formule costruite a tavolino.

E la televisione?

La televisione è la possibilità di trasmettere a milioni di persone un evento nel momento stesso in cui si verifica. Purtroppo questa possibilità viene sfruttata solo marginalmente, mentre si preferisce fare “spettacolo” sulle orme delle consuetudini più collaudate. La televisione non dovreb­ be fornire pretesti per fare pseudo-film, pseudo-commedie o pseudo­ spettacoli sportivi. E per questo che il teatro mi interessa più della televisione. Sono anzi convinto che per fare teatro oggi sia necessario avere molte idee, molte di più di quante se ne richiedano ad un regista cinematografico. 104

IL DIBATTITO SUL CINEMA ITALIANO (1962-1982)

La tua esperienza televisiva di Le mani sporche da Sartre è anch’essa «pseudo»? Tutt’altro. Se ci pensi bene, ti accorgi che non ho cercato di fare né uno pseudo-film, né uno pseudo-spettacolo teatrale, ma un lavoro televi­ sivo vero e proprio. Per raggiungere quest’obiettivo ho pensato ogni sequenza in funzione delle dimensioni dello schermo televisivo. Di qui un uso insistito del primo piano e di determinati movimenti della telecamera. Mi hai chiesto perché ho scelto Miller. Ti rispondo che l’ho fatto in quan­ to si tratta di un testo contemporaneo. Non mi sento attratto dalle opere classiche, dai lavori ormai consacrati dalla storia della cultura e dalle cro­ nache del palcoscenico. Eorologio americano è un testo che avremmo dovuto scrivere anche in Italia, un’opera di grande attualità. Dirigerla è stato come fare un film.

Ritorniamo alla tua attività cinematografica e, in particolare a Todo modo. Quando il film uscì ci furono molte polemiche; sei stato accusato di aver dileggiato la Democrazia Cristiana, mostrandola sotto le spoglie di una sorta di mostro che si autodivora. Ad anni di distanza, dopo l’esplosione del ter­ rorismo e l’assassinio di Aldo Moro, ritieni valido quel giudizio?

Ne sono convinto più che mai. Credo che regga sia da un punto di vista politico, sia estetico. Ovviamente, mi riferisco al lungo periodo. Chi non vede, oggi, che Forlani assomiglia sempre più a Facta, il ministro che, con la sua ingnavia, spianò la via a Mussolini? Speriamo che il paragone non giunga alle estreme conseguenze, ma tutto, sino ad oggi, lascia inten­ dere che sia valido. Del resto, non è forse vero che la Democrazia Cristiana si sta autodistruggendo? Pensa ad Andreotti, il suo uomo più intelligente, di spicco. Ebbene, è un personaggio che ci si vergognerebbe di presentare in società. Eppure, lo ripeto, è l’unico uomo di statura veramente internazionale, di cui disponga la DC e, aggiungo, è anche l’u­ nico possibile interlocutore delle sinistre e questo proprio per il suo luci­ do cinismo. Quella che stiamo vivendo è una vera e propria tragedia, una tragedia della quale Todo modo è stato una precisa metafora. Sereno Freato, prima di uscire dalla sala in cui si tengono le udienze della com­ missione parlamentare che indaga sulla morte di Aldo Moro, sembra abbia dichiarato: «Guardate che Mino Pecorelli non lo abbiamo ucciso 105

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

noi!». Non ti pare che questa necessità di “mettere le mani avanti”, sia ancora più grottesca della raffigurazione che io ho fatto della DC? In poche parole, il clima che hanno creato nel paese è quello della faida, quindi continuo a pensare che Todo modo sia stato impostato in modo politicamente corretto. Anche durante il caso D’Urso ove i vertici del Paese, Pettini escluso, avessero manifestato un maggior senso dello Stato, lo stesso prigioniero si sarebbe comportato diversamente con i suoi seque­ stratori.

Non sei troppo pessimista? Troppo pessimista? Ma se siamo al punto che il comandante dei cara­ binieri dimostra di avere maggior senso politico del Presidente del Consiglio dei ministri!

Negli anni dell'immediato dopoguerra le cose non erano meno difficili, eppure allora il cinema italiano “tallonava da vicino” la realtà, se ne faceva interprete, affrontava coraggiosamente i nodi sociali più gravi. Oggi non è così, basta pensare al fenomeno del terrorismo e alla scarsa attenzione che gli ha riservato il cinema italiano, per rendersi conto che molte cose sono mutate. Senza dubbio c’è stato un deterioramento della coscienza politica dei cineasti, ma c’è stato anche un accentuarsi della complessità del quadro politico. Negli anni del dopoguerra, la lotta di classe si presentava con connotati abbastanza netti. Poi c’è stata quella vera e propria mutazione antropologica che Pasolini ha denunciato per primo; le contraddizioni si sono aggravate e complicate, tutto è diventato più difficile e meno chiaro. Inoltre, per quanto riguarda il cinema, ci sono state sia la scomparsa di alcuni grandi registi - Visconti, De Sica, lo stesso Pasolini - sia l’esplode­ re di molte «contraddizioni all’interno del popolo». I registi, che si sono occupati più direttamente e con maggior costanza di cinema politico, sono stati aggrediti più severamente dalla critica, sono stati censurati dai partiti, guardati con sospetto da tutti: da «Lotta continua» ai giornali conservatori. I film, li abbiamo realizzati solo perché ci credevamo, senza l’aiuto di nessuno. Né ci è stato dato atto di questa nostra correttezza inte­

106

IL DIBATTITO SUL CINEMA ITALIANO ( 1962-1982)

riore: siamo stati attaccati da tutte le parti. Ci sono stati autori, miei coe­ tanei, che nel 1971 davanti al pubblico del Festival di Porretta Terme hanno reclamato il rogo per le pizze di La classe operaia va in paradiso. Hai capito? Quel film doveva essere bruciato! ! ! E - tu lo ricorderai perché eri presente - nessuno si è alzato per dire che quel signore era matto. Come fate oggi a rammaricarvi della scarsa sensibilità politica dei cineasti italia­ ni quando non avete fatto nulla per combatterla, per difendere gli autori che cercavano, fra mille difficoltà, di continuare a parlare di politica? Se la sinistra abdica ad ogni forma di ricerca e di sperimentazione politica, anzi, se guarda con fastidio a qualsiasi voce indipendente che voglia ope­ rare all’interno del movimento operaio, poi non ci si può dolere della «spoliticizzazione» degli autori. Io sono stato iscritto al partito comunista (non alla sua direzione! ) sin dalla più tenera età: a quindici anni, nel 1944, sono entrato nel movimento giovanile; due anni dopo mi sono iscritto al partito e vi sono rimasto sino ai fatti d’Ungheria. Sono uscito dal PCI nel 1956 dopo aver diretto una rivista che si chiamava «Città aperta». Da allo­ ra sono rimasto sempre legato al PCI, alle problematiche del marxismo e del leninismo, ma sempre da indipendente, rivendicando una autonomia di giudizio e d’azione rispetto a qualsiasi apparato.

Il tuo soggiorno a Genova, la città che ha dato alla lotta contro il terrorismo Guido Rossa, ti ha suggerito qualche idea per il tuo lavoro futuro? Alcuni grandi film italiani sono nati sull’onda di grandi movimenti popolari, tipico il caso della Resistenza e del neorealismo. Anche alcuni dei film politici che io ed altri registi abbiamo girato fra il 1972 e il 1974 sono stati concepiti sulla scia dei grandi movimenti operai e studenteschi di quegli anni. Dopo, la società italiana ha subito uno sfascio e il cinema, che come strumento di creazione e comunicazione è strettamente legato alla realtà sociale, ha subito i contraccolpi di questo sfascio. Oggi, l’opera di ricostruzione può avvenire solo attraverso un movimento pluralista e ricco di dialettica, senza tentativi di egemonizzazione (un vecchio vizio dei comunisti!) e rispettando veramente coloro che sono diversi, quelli che la pensano in modo difforme dal tuo. Si tratta di mettere in moto un pro­ cesso di crescita culturale e critica; un processo che, sinora, neppure il Pei ha voluto con la necessaria forza. Voglio raccontarti un aneddoto che ritengo significativo. Quando ero “aiuto” di Giuseppe De Santis andai

107

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

con lui a Napoli in casa di Mario Alicata e lì incontrammo Giorgio Amen­ dola. Quest’ultimo, che era già una fra le figure più prestigiose della vita politica italiana, apostrofò De Santis in modo abbastanza duro, dicendogli «Perché non fai un bel film di corsari?». Il povero Peppe non ebbe neppu­ re il coraggio di replicare che quel film non poteva farlo in quanto erano tre anni che cercava senza riuscirci di metterne su uno sulle occupazioni delle terre. Se oggi mi rivolgessero lo stesso rimprovero, risponderei: «Non lo faccio perché tu ed io, assieme, non siamo ancora riusciti a fare in modo che i registi facciano i film che veramente amano e non quelli che sono imposti loro da chi manovra il potere economico e politico». In poche parole, io non sono contro l’“impegno sociale” e i giudizi politici, sono contro la censura...

A proposito di censura, che cosa pensi della cosiddetta «giovane critica», quella che è solita elevare peana deliranti a John Wayne e getta nell’im­ mondizia ogni cosa che abbia anche lontanamente il sapore dell’opera poli­ ticamente schierata?

La mia generazione ha molto amato il cinema americano, ma non quei film in cui la propaganda militarista la faceva da padrona. Il John Wayne, che ho amato e amo tutt’ora, è quello dei film di John Ford: non quello che si fa paladino delle peggiori sparate belliciste. Anche sul militarismo, poi, bisogna intendersi; in Ford il militarismo è solo una piccola compo­ nente di un discorso che lo supera per approdare ad un “americanismo”, che è uno dei dati caratteristici della “prima generazione” americana. Anche se il nazionalismo dei nostri giorni ha legami con quel primo momento - ma sono legami spesso esili e quasi sempre deviati - l’ameri­ canismo di Ford è il cemento che unifica uomini venuti da esperienze, cul­ ture, vicende diverse e che affrontano uno stesso compito.

E le suggestioni di Genova?

Lavorando per qualche mese a Genova ho avuto modo, fra l’altro, di pensare anche ad un possibile lavoro sul dramma di Guido Rossa, meglio sul “caso” di Rossa e Berardi. Due vittime di modi opposti di concepire la lotta e la milizia politica. Certamente, un’iniziativa di questo tipo non

108

IL DIBATTITO SUL CINEMA ITALIANO (1962-1982)

può nascere unicamente dalla testa di un regista, ha bisogno del conforto e della verifica di un’intera città, dell’appoggio delle forze politiche e sociali che vi operano, del confronto con gli uomini e le donne che qui abitano. Se dovessi essere fra i promotori di quest’iniziativa, mi batterei perché essa giungesse ad una ricerca dei fatti veri che stanno dietro que­ ste due tragedie, fatti di cui oggi conosciamo solo le versioni, lacunose e parziali, di fonte giornalistica. Il primo impegno mi pare dovrebbe essere quello di capire come sono andate le cose per poi rappresentarle e questo senza pregiudizi di sorta nei confronti di nessuno: né di Rossa, né di Berardi. «Cinema 60», 144, marzo-aprile 1982. Accanto al testo di Elio Petri, il direttore della rivista, Mino Argentieri, interviene con una Postilla. Petri reagisce mandando una let­ tera aperta ad Argentieri, Indifferente la sinistra verso il nostro cinema.

109

INDIFFERENTE LA SINISTRA VERSO IL NOSTRO CINEMA

Un pizzico di diffidenza, è inutile negarlo, rimane sempre, sia pure in forma di limaccio, nel rapporto che s’è stabilito fra chi il cinema lo fa e chi deve sostenere il ruolo di coscienza dell’intiero fenomeno filmico. Questo rapporto è interdisciplinare, sì, ma, al tempo stesso, per come si son messe le cose a grado a grado, è anche rapporto intercorporativo, e, al di là dei suoi forti contenuti ideologici, culturali, politici, lascia scorgere anche notevoli cariche psicologiche, per non dire umorali. Mi chiedo a quale strato di tale rapporto appartenga una frase della “postilla” con la quale tu hai voluto gentilmente accompagnare una mia intervista apparsa sul numero di marzo-aprile di «Cinema 60» (Ci rim­ proverate, ma non ci avete mai difeso), e da me rilasciata un anno prima ad Umberto Rossi, davanti alla telecamera d’una antenna privata genovese. Dice la tua frase, in risposta ad alcune mie affermazioni sulla politica cine­ matografica della sinistra italiana: «Ci dispiacerebbe, però, se Petri allu­ desse a certe valutazioni fatte da critici, che non sempre sono state lauda­ tive nei confronti dei suoi film». Ora, caro Argentieri, io non arrivo certo al paradosso di Monsieur Teste («On ose me louer!»), ma non ho mai nemmeno preteso lodi a buon mercato, o sciocche complicità, da parte di nessuno e per nessuna ragione, e tu, questo, dovresti saperlo. Da che derivi, allora, la tua induzione? Forse, - se non ho capito male - dal tono, come si suol dire, “risentito”, o “polemico”, di certi miei inter­ venti. Vedi, io non escludo affatto che alcune brucianti frustate, o altre sommarie punizioni, anche qualche azzoppatura, impartitemi ora con sor­ ridente frivolità, ora con saccente accademismo, ora con l’irresponsabilità tipica del terrorismo critico, possano, in me, aver lasciato il segno. Ma ti domando: perché non avrebbero dovuto lasciarlo? Potrebbe anche darsi, tuttavia, il caso, che ti prego di prendere in seria considerazione, d’un’altra origine, più generale e complessa, di quel tal mio “risentimento” posto che risentimento sia, e non qualcosa di più penoso, e doloroso. Io penso, ad esempio, che l’indifferenza manifestata da tutta la sinistra ita­ liana, politica, sindacale, ed intellettuale, di fronte alla degradazione cul­ turale ed umana del nostro cinema, ch’è sintomo d’una più generale, e ita­ liana, rinuncia al rispetto di sé, faccia ormai parte integrante della nostra realtà, e ne sia, anzi, condizione essenziale. Penso, in secondo luogo, che 110

IL DIBATTITO SUL CINEMA ITALIANO (1962-1982)

la critica cinematografica, fatte le dovute eccezioni, fra le quali la tua, si sia resa complice dell’accaduto, limitandosi, apparentemente, a svolgere il suo compito professionale, ma arrendendosi, in sostanza, alla intercam­ biabilità dei princìpi, al trasformismo delle mode imposte dalle esigenze mercantili dell’industria editoriale, e cedendo alle tentazioni, già costate tanto care agli autori, del protagonismo. Dal canto mio, in mezzo a tutti questi azzeramenti, e azzoppamenti, nel considerare la funzione della critica, ho cercato, se vuoi ingenuamen­ te, d’attenermi alla etimologia. La critica apre una crisi nell’opera, e nel suo linguaggio, e nella storia delle opere, e del linguaggio, perché si apra una crisi nella coscienza del lettore-spettatore, e degli autori. Deve, tutta­ via, per non essere fine a se stesso, o non deve, il processo critico, mirare ad un risultato, per cosi dire, vitale, sia pure nella prospettiva di innu­ merevoli altre crisi, sempre più in profondità, e, dunque, sempre più vita­ li? Io credo di sì, credo lo debba. E guardo al lavoro del critico come ad un lavoro sterile, non creativo, s’egli non fa sua l’esigenza di indagare e vivere dal di dentro la crisi dell’opera, e del linguaggio, già vivendo one­ stamente la crisi dei propri strumenti scientifici, dei propri criterii, e del proprio “status”. Poiché, mi sembra evidente, tutte quante le crisi di que­ sti soggetti si dipartono, per riconfluirvi, dalla crisi generale e permanente della cultura e della società: ed è questa crisi che non bisogna mai perde­ re di vista, per ottenere, col nostro lavoro di critici e di autori, risultati vitali per tutti gli uomini. Solo in questo modo, mi pare, l’etimologia “crisi-criterio-critica” può essere vissuta anche nel suo versante positivo, e non soltanto in quello negativo e persecutorio. In quest’ultima accezione del processo critico si giunge semplicemente a distruggere, per il cinema, ogni possibilità di riscatto. Sulla strada della distruzione, siamo tutti concordi nel constatare che s’è fatto, in Italia, un gran cammino. Se ci si guarda attorno, comunque, in mezzo alle molte macerie, si vedranno ancora in piedi, ben salde fra le poche altre superstiti, le strutture materiali della critica, ch’è anche cor­ porazione e luogo di potere. D’altra parte, se è vero che la critica non è indispensabile all’esistenza materiale del cinema, è pur vero che, per sopravvivere, essa non ha bisogno di film: può seguitare ad esaltare la pro­ pria funzione anche svolgendo un lavoro puramente autoptico. E c’è sem­ pre, poi, l’uscita di sicurezza della critica del gusto, edonistica e fine a se stessa. Tu mi dirai: - E gli autori, non hanno nessuna responsabilità, gli

111

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

autori? - Io ti risponderò che gli autori sono, per antonomasia, i massimi responsabili del destino del cinema. Non lo vedi? Quanto più la situazio­ ne si fa difficile, e le condizioni di lavoro sottoculturali, tanto più gli auto­ ri appaiono concentrati nel proprio «particulare», ossia nei propri affari, nel proprio film, come se un film, anche poetico, anche bello, anche bel­ lissimo, faccia il cinema. Se si eccettua il periodo di lotte compreso fra l’i­ nizio degli anni Sessanta e quello del decennio successivo, subito sfociato in violente dispute politico-corporative, rientra nella tradizione dei cinea­ sti italiani il rifiuto del cinema come grande esperienza collettiva e conte­ stuale. Da ciò deriva lo stato di perenne inòpia culturale nel quale versa la grande maggioranza degli autori italiani, che sembra sappiano esprimere le loro idee soltanto con il tramite delle interviste, come gli atleti, - fatto acutamente analizzato, per i registi e gli atleti suoi coevi, già da Musil nel suo romanzo. Nel loro lasciarsi consumare come oggetti rituali, tipici di questa società, quasi tutti gli autori italiani hanno occultato, prima di tutto a se stessi, la natura intellettuale e teorica della loro attività, nella accetta­ zione d’una divisione del lavoro che crea innumerevoli differenze e sepa­ razioni, fra le quali, forse la più importante, la separazione del lavoro teo­ rico da quello pratico. Ci muoviamo tutti come entro le linee dell’organi­ gramma-ombra d’una grande società anonima multinazionale, per non dir di peggio. E gli autori italiani, come gruppo sociale, in quest’organigram­ ma ci stanno benissimo, i più giovani ancor meglio degli altri. Lo prova il fatto che tutti si sono sempre astenuti dall’operare sistematicamente per favorire condizioni di lavoro esterne establishement. E nella logica delle cose anche il loro attuale, lungo, ed angoscioso silenzio. Un ultimo, e, forse definitivo, loro atto di accettazione delle grandi strategie indu­ striali e politiche, nel dominio di quel che viene chiamato “audiovisivo”? Una ammissione della consapevolezza del proprio stato di obsolescenza? L’espressione muta e sconsolata del senso di inferiorità e di impotenza che prende chi vede la propria vita minacciata da forze oggettivamente trop­ po grandi per lui? Non un gesto di resistenza, nulla. Un silenzio, a dir vero, tanto profondo da sembrare colpevole. Il mio “risentimento”, quindi, se proprio così lo si vuol chiamare, non riguarda qualche infruttuosa spigolatura di lodi. Potrei dire che esso è fondamentalmente rivolto verso me stesso, poiché, di questa situazione, io mi sento non meno responsabile di altri: e direi il vero. Non posso, però, fare a meno di rivolgerlo anche verso quelle persone, e quelle forze poli­ tiche che, in passato, avevano mostrato profondo interesse per tutti i pro­ 112

IL DIBATTITO SUL CINEMA ITALIANO (1962-1982)

blemi del cinema. Alla luce dei fatti di adesso, l’interesse e la solidarietà di allora appaiono strumentali e propagandistici. Questo è certo. In ultimo, caro Argentieri, vorrei tornare all’intervista che mi ha spin­ to a scriverti, per rettificare almeno due delle imprecisioni che vi sono contenute. Umberto Rossi mi fa dire che io sono stato direttore di «Città aperta». Non è vero. Il direttore di «Città aperta» fu Tommaso Chiaretti, come tutti sanno. Scrive anche, Rossi, che Volonté, in Todo modo, per la sua interpretazione «si è ispirato alla figura dello statista barese», cioè a Moro. No. Volonté si “ispirò” al mio copione ed al personaggio di M., compreso nel copione, che io avevo lungamente studiato sulla falsariga dei comportamenti e dei discorsi politici di Moro. Lo so, fanno parte del “particulare” anche queste tristi precisazioni. La cronaca ha, tuttavia, i suoi doveri. «Cinema 60», 146, luglio-agosto 1982. L’intervento suscita una serie di risposte, pub­ blicate dalla rivista nei numeri successivi. Intervengono Francesco Maselli, Sergio Prosali, Francesco Bolzoni, Ettore Scola, Giampiero Dell’Acqua, Giuseppe De Santis.

113

3. «NUOVA CUCINA» (1980)

Apocalisse now

Apocalypse Now, ovvero «Adesso l’apocalisse», incomincia da dove finirebbe un pranzo. Nella prima scena del film, ambientato durante la guerra in Viet-Nam, si vede, infatti, una immensa distesa di palme divam­ pare sotto un bombardamento al napalm. Palme uguale banani. Come dire, se le palme bruciano, bananes flatnbées, e, quindi, un piatto da des­ sert, da fine del pranzo. Dessert vuoi dire sparecchiare: «disservire». Dopo le bananes flatnbées si sparecchia. E non è la fine del pranzo una sorta di piccola apocalisse? Quest’immagine è incorporata nel delirio di Willard, un giovane capi­ tano dei marines, che di professione fa l’assassino per conto dello stato maggiore americano. Vediamo Willard a Saigon, chiuso in una stanza, in preda a furore etilico, in una scena dal vago sapore masturbatorio. Il gio­ vane capitano si autopunisce, ferendosi le mani con schegge di vetro, e si agita, nudo e narciso, semi-incosciente, con movenze quasi femminee, in una sorta di orgia solitaria. Dai banani flatnbés la macchina da presa passa lentamente, con ritmo pubblicitario, a descrivere una bottiglia di Martell: l’unica cosa di cui si nutrirà Willard nel corso di tutto il film. Cognac: altro segno che il pran­ zo è finito. Invece incomincia il film. Willard viene portato di peso a cospetto d’un generale. Finalmente egli ha una nuova missione da compiere. Deve andare ad uccidere Kurtz, alto ufficiale americano che ha stabilito, in un terrain vague situato tra la Cambogia e il Viet-Nam, un suo potere per­ sonale, che si innalza al di sopra dell’autorità dello stato maggiore. Kurtz commina e fa eseguire perfino condanne capitali. Deve morire a sua volta, perché la sua ribellione perda qualunque ascendente sugli altri ufficiali. 115

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

Per parlare dell’omicidio di Kurtz il generale invita Willard a pranzo. Una colazione di lavoro, all’americana. Menu semplicissimo: roast-beef gamberoni lessi, thè freddo, pane all’europea e varie verdure imprecisate. Circa le verdure il film è reticente. Ci è parso di intravedere, come con­ torno dei gamberoni, sfocate, delle olive, ma grandi come fichi, e, forse, spicchi di ananas. La precisione gastronomica è stata sacrificata da Coppola alla bellezza, da fotografìa pubblicitaria, delle immagini. U ge­ nerale dirà che i gamberoni sono mezzi marci. Ma li serve lo stesso. Co­ munque, durante il pranzo, nessuno mangerà: né il generale, né Willard, né l’altro ufficiale presente, né un misterioso sud-vietnamita, l’unico, a dire il vero, che di tanto in tanto, accenni timidamente al gesto di tagliare la carne. Forse nessuno mangia perché si stanno già mangiando Kurtz? Willard deve risalire il delta in una barca e raggiungere Kurtz nel suo piccolo super-stato. La situazione è materialmente simile a quella descrit­ ta da Conrad in Cuore di tenebra, cui Coppola pare essersi ispirato. L’equipaggio della barca è composto da quattro marinai: due neri e due bianchi. Per prima cosa, Willard e i suoi accompagnatori si imbatto­ no nella cavalleria dell’aria, ossia in uno squadrone di elicotteri pilotati da soldati della cavalleria. I cavalieri dell’aria sono specializzati nella distru­ zione, col napalm, di villaggi vietcong. Lo squadrone è comandato dal­ l’attore Duvall, come sempre straordinario. Duvall calza un cappellone del «Settimo», fa il surf durante i bombardamenti al napalm, e la sera, all’aperto, cuoce personalmente alla Tognazzi, su un enorme braciere, montagne di bistecche. Ma, perfino in questa pantagruelica scena di bar­ becue, nessuno osa mangiare, nemmeno le comparse, in genere affamate. Tutti si limitano a bere birra in scatola, d’una marca illeggibile. Il mistero della marca di questa birra ci inseguirà per tutto il film, poiché dappertut­ to si vedranno sparsi i suoi contenitori, mute testimonianze di miserande diete alcoliche. Lasciato alle spalle Duvall, la barca risale il delta, nel più deliberato ed inspiegabile dei digiuni. I marinai massacrano ragazze vietnamite, fumano marijuana, prendono l’LSD, bevono birra; ma basta, non mangiano. Nemmeno corned-beef. Ed a mano a mano che s’inoltrano nei canali cre­ sce il loro isterismo certamente fomentato dalla dieta dissennata che si sono imposti. Inaspettatamente, dopo la parentesi felliniana delle strip-teaseuses che scendono dal cielo per eccitare migliaia di soldati imbestialiti, arriviamo alla pagina gastronomicamente più toccante della parte navigatoria del

116

«NUOVA CUCINA» (1980)

film. Uno dei due marinai bianchi si chiama Chef, perché ha frequentato a New Orleans, sua città d’origine, un corso di sauciers. Chef, d’un tratto, viene preso dal desiderio di cucinare un budino alla crème de mangue, e scende a terra. Invece dei manghi l’ex-cuoco trova una tigre. Il terrore della tigre scatena in Chef una tremenda crisi di nervi. Tra singhiozzi lace­ ranti e urla disumane, Chef, ch’è anche lievemente omosessuale, a giudi­ care dalle sospette attenzioni di cui circonda il più giovane dei neri, con­ fesserà tutta la sua nostalgia per la grande cucina creola di New Orleans e il suo orrore per le bistecche lesse del rancio dei marines. La vista dello spreco gastronomico in atto nella marina yankee lo ha traumatizzato per tutto il resto della sua vita. Ma sarà breve l’infelice vita di Chef. Dei quattro marinai sarà il terzo a morire. Verrà decapitato dagli uomini di Kurtz. La sua testa verrà depo­ sta ai piedi di Willard, come le teste di maiale nelle vetrine gastronomiche natalizie bolognesi, ma anche come un avvertimento mafioso: segno della crudele origine italiana di Coppola. Già nel Padrino Coppola infilava la testa d’un cavallo dentro il letto di uno dei suoi personaggi. Dei quattro marinai si salverà soltanto un giovane bianco, ma insabbiato in una demenza da giovanetta, ofelica, se così si può dire. Nonostante tutto, Willard riesce a raggiungere il regno di Kurtz. Egli viene smascherato per il sicario che è subito sottoposto ad un breve perio­ do di torture, che termina con l’offerta a Willard d’una ciotola di riso scondito. Willard la rifiuta, asservito com’è alla sua dieta di Martell. Kurtz-Brando vive come un corpo mistico adorato da grandi masse di comparse indigene. Egli sogna d’un esercito americano eroico come quel­ lo nord-vietnamita, animato, cioè, da un profondo imperativo morale. I soldati americani, castrati d’un tale imperativo, sono destinati a perdere. (Kurtz-Brando non dice che i soldati nord-vietnamiti erano costretti all’e­ roismo perché la loro nazione potesse sopravvivere). In questo punto del film si riannoda il filo del cibo. Scopriremo con sorpresa che Kurtz-Brando è l’unico personaggio di questa apocalisse anche gastronomica che mangi qualcosa. Svogliatamente, ma mangia. Egli, nel corso d’una lunga scena nella quale comunica a Willard il suo desiderio di essere da lui ucciso, sbocconcella pigramente lembi d’un frut­ to tropicale non identificabile, dalla buccia giallastra, succoso come un agrume, se si tien conto della bava che scende dalle labbra dell’attore. Kurt-Brando è truccato da tenente Kojak ed appare ancor più grasso che in Missouri nonostante non mangi nulla oltre quei pezzetti di frutta. 117

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

Poi l’apocalisse, in un sordido sacrificio che non riesce a diventare purifi­ catore. Willard scanna Kurtz-Brando-Kojak in una apoteosi di rossi e bruni, mentre ai piedi d’un tempio gli adoratori di Kurtz sacrificano un bovino. Lo squartano con perizia da grandi macellai, in modo che subito, distaccandosi il collo dal costato, appaia la sagoma d’una enorme bistec­ ca saignante. Il film finisce così, su questa poderosa immagine di una bistecca alla O. Henry, molto al sangue, ancora vivente: la più grande bistecca mai vista al cinema. La bistecca diviene simbolo dell’apocalisse. Beef-Steak Now. La bistec­ ca di Oldenburg, simbolo del sogno americano, del proteinismo america­ no. La bistecca-patria: tutto quello che è andato a naufragare, durante e dopo il Viet-Nam, nello spreco, nel massacro, nella follia, nella gastro­ astenia. La bistecca è anche simbolo di morte, di cannibalismo, di tanatofilia. Molte le proteine per alimentare un sogno ormai carbonizzato al napalm. Un grande sogno collettivo che ha scoperto il vuoto dei propri significati umani ed è diventato incubo. Un enorme barbecue al napalm per gente che non vuole più credere nella bistecca. La triste anoressia di cannibali stanchi. «Nuova Cucina», 5, febbraio-marzo 1980.

118

OGROi PANE E FRITTATA, FALCE E MARTELLO

Ogro è la ricostruzione filmata dell’attentato a Carrero Blanco e del dibattito ideologico-politico che si sviluppò fra gli attentatori nel corso di tutto quanto precedette l’azione. I terroristi erano tutti ex-seminaristi. Nel film di Pontecorvo è molto ben descritto l’aspetto mistico del loro com­ portamento. Anche nel più trascurabile dei gesti quotidiani, i terroristi di Ogro sono casti, scarni, monacali. Naturalmente, anche per il cibo essi si comportano in maniera quaresimale. Di tanto in tanto, si radunano insie­ me a mangiare, ma si presume che si nutrano solamente di cibi essenziali, sessualmente mortificanti. Il mangiare diviene rito politico, si sta lì assie­ me intorno ad un tavolo con il pretesto di mangiare, ma per parlare di altro, delle ragioni politiche e militari dello stare assieme. I terroristi sono nazionalisti baschi, ma agiscono a Madrid. Il film non dice cosa conten­ gano le scodelle da cui castamente prendono il cibo: sono pietanze basche o castigliane? I nazionalisti baschi mangiavano basco o spagnolo? Ce stata discus­ sione, tra loro, su quel che si doveva mangiare prima e dopo l’attentato? Dev’essere, il cibo d’un terrorista, nazionale-popolare? C’è un solo perso­ naggio che fa capire coraggiosamente la natura del suo cibo, ed è quello d’un muratore comunista, al quale i terroristi devono ricorrere per certi scavi. D muratore si presenta al lavoro con una bellissima, lunghissima frusta di pane alla francese ripieno, se non andiamo errati, di frittata. Questa frusta di pane e frittata è un segno della ragionevolezza e umanità del personaggio, e sta anche a significare la giustificata diffidenza del muratore verso i terroristi. Egli non si fida di gente così. Dice a se stesso: «Io, a questi matti, una mano gliela do: ma da mangiare me lo porto da casa». La frusta diviene anche simbolo dell’internazionalità del cibo proletario. Pane e frittata, nelle sue varie versioni, con cipolla, con zuc­ chini, eccetera, è la falce e martello della gastronomia proletaria. Il nemi­ co gastronomico di classe innalza a simbolo del suo privilegio caviale e bitnis. Il capo dei terroristi - politici ma anche gastronomici - è Volontè. L’attore appare molto grasso, rispetto a quel che gli si vede mangiare ed anche al tormento ideologico che dovrebbe macerarlo. Un attore ben pasciuto che in scena non si butta avidamente su tutto quel che gli capita

119

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

di commestibile vuoi dire che non si sente in parte. Nel caso contrario, avrebbe fatto qualcosa per dimagrire. E la sua grassezza stona, bisogna dirlo, con lo stile essenziale, sobrio, “magro” del film: che proprio per questa sua monacalità si lascia amare. Ogro è molto rigoroso, ma è anche, a suo modo, molto dolce, proprio come certi semplici sapori mediterranei. «Nuova Cucina», 5, febbraio-marzo 1980.

120

DON GIOVANNI OVVERO IL BOLLITO ALLA DIONISO

Fin dalle prime immagini con le quali Losey ha visualizzato la meravi­ gliosa ouverture di Don Giovanni, ci si può trovare immersi in un raro stato d’animo, che si librerà spesso nella sfera del sublime, e non soltanto perché sopra, intorno a noi, e dentro di noi, incombe, ci avvolge, ci pene­ tra la musica di Mozart - o «Mozzart», come scriveva Da Ponte, vuoi per rendere meglio, con la doppia «zeta», la corretta fonetica del nome, vuoi per trascurataggine. Davanti a noi c’è il film. Siamo lì, estasiati, rapiti anche dalla straor­ dinaria magia tecnica che si sprigiona dallo schermo: dall’arte, dunque, di tutti indistintamente coloro che hanno “fatto” il film. Una magia porten­ tosa, che Losey tien desta fotogramma dopo fotogramma, nelle condizio­ ni tecniche più assurde. Già di per sé, l’eccezionale performance del regi­ sta e di quanti hanno lavorato per lui, in un momento come questo, per noi italiani di totale barbarie artigianale, è un fatto poetico di altissimo valore, per tutto ciò che implica: amore per il proprio lavoro, rispetto per il pubblico, passione della cultura; ossia umanità. Tuttavia, il nostro spirito può anche essere toccato da un certo sconforto, che, a mano a mano, potrà crescere fino a sconfinare nel peni­ tenziale; e, in definitiva, nell’idea critica che ci si trovi a cospetto d’un opera inquinata da una qualche nevrastenia non mozartiana. Dal nostro specifico punto di vista, ad esempio, possiamo subito osservare che il feeling gastronomico del film, nonostante tutti i suggerimenti di Da Ponte e di «Mozzart», è pallido, freddo, disanimato. Lo diciamo con dispiacere, ma con una certa fermezza. E partendo dal nostro, sia pur ristretto, angolo visuale, cercheremo di risalire ad osservazioni più ge­ nerali. Ci spiegheremo meglio proprio esaminando la visualizzazione dell’owverture. Losey ha ambientato il suo Don Giovanni tutto “dal vero” nella laguna veneta e nel suo umido, fumigante entroterra, bavoso come certe frittate, spettrale come certi budini di mirtilli. Un cielo carico di presagi; un mare livido, gonfio di veleni; una barca di laguna trasporta verso un’i­ sola alcuni personaggi in abiti settecenteschi, tutti in nero o in bianco, i colori dei morti. La laguna è un Lete. Tutto è già morto, nel film, fin dall’ouverture. La barca arriva ad una darsena. I fantasmi, tra cui riconosce­ vi

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

remo Don Giovanni medesimo e donna Anna, scendono a terra, ed entra­ no in un antro di vetrai. Qui appare la prima cosa viva del film: il fuoco del forno, presentimento del fuoco infernale che brucerà vivo Don Giovanni. Sarà in questo forno, tramutato in inferno, che sparirà alla fine Don Giovanni per scontare i suoi «peccati». Mozart ha intessuto l'ouverture attorno a quelle cellule musicali che annunzieranno nella sedicesima scena dell’atto secondo la tremenda apparizione del Commendatore, per continuare morbosamente a espan­ dersi fin quando Don Giovanni non sparirà, inghiottito dalle fauci infuo­ cate dell’inferno. Losey aveva, dunque, bisogno di immagini che, al pari della partitura, facessero presentire allo spettatore il destino infernale del suo personaggio. (Sì, ma perché quel vagabondare spettralmente turisti­ co? Perché quei vetrai realistici, un poco guttusiani, e perché quel fuoco da documentario su Murano? Perché, insomma, questo dolore senza iro­ nia?) L’idea che guida «Mozzart», aiutato dal suo librettista, è l’idea d’un li­ bertino manqué e poi, manqué fino ad un certo punto. Nella sua musica, e nelle parole, è vero, c’è il sentimento tragico di chi porta nella propria sensualità il lutto della natura, della libertà, dell’istintualità, ma nel clima dolce-ironico d’un rito libertino che non riuscirà mai più a compiersi. Don Giovanni, infatti, non riuscirà mai, nell’arco dell’opera, a “possede­ re” alcuna delle donne che corteggia. Questo dualismo, in tutta la sua estensione poetica, è già presente, nota su nota, ouverture dell’opera, mentre nella visualizzazione loseiana, ne è esaltato soltanto il lato tragico, addirittura da funeral par­ lour. Qualcuno è già morto: e questo è un poco arbitrario. Ora, era già un notevole arbitrio quello di filmare una ouverture: sarebbe come filmare la Juppiter, o la sonata K. 367.

Dieta erotica Comunque, arbitrio per arbitrio, cosa di meglio che visualizzare Vouverture giocando proprio sul libertinismo di Don Giovanni? Perché vi­ sualizzare una vetreria, cupa immagine estranea alla cultura mozartiana, e non un’ipotetica cena di Don Giovanni, preparatoria alla sua scorribanda notturna in casa di Donna Anna? La «lussuria» è anche «gola». Come si preparava un dongiovanni veneto alle sue imprese? Una cena leggera, ma

122

«NUOVA CUCINA» (1980)

molto attenta alle qualità erogene di certi cibi dei quali, peraltro, la cuci­ na veneta mena vanto? Una cena a base di granseole, canoce ed altri coquillages lagunari? Un breve e rapido assaggio d’un gibier di palude? Vini del Friuli lievi, olezzanti di viola, lampone e mandorla? Non ha, una cena, anche un suo lato tragico? Poi, Don Giovanni può partire, con il corpo stregato da succhi amo­ rosi, verso il sesso, scopo primo ed ultimo della sua esistenza; in questo caso, verso il sesso di Donna Anna. Ma Losey ha bisogno del fuoco, d’un fuoco che preannunci la punizio­ ne. Eppure era lì, pronto, il fuoco della grande cucina veneta. Il fatto è che Losey aveva pensato un fuoco realistico, che subito ci ricordasse l’inferno, lo stesso nel quale far ricadere alla fine il suo eroe. Ma l’inferno, inutile sottolinearlo, non è nulla di realistico. E un’idea culturale che hanno insi­ nuato nel gioioso esistere di Don Giovanni. A meno che, Losey, nei forno della vetreria non abbia voluto simboleggiare il mondo futuro dell’indu­ stria e della tecnica, nel quale si carbonizza quanto di istintuale era in noi; e, nei vetrai, un proletariato ossequioso: ma non sarebbe, questa, un’in­ terpretazione troppo arzigogolata del trasparente universo mozartiano? Da Ponte, che pure era uno spretato, descrive così il “suo” inferno: «Fuoco da diverse parti, tremuoto etc.». E Molière, nel 1665, centoventi­ due anni prima: «Le tonnerre tombe avec un grand bruit et de grands eclairs sur Don Juan; la terre s’ouvre et l’ahimè; et il sort de grands feux de l’endroit où il est tombé». L’inferno di costoro non è realistico, come non è realistica la statua del Commendatore. Sono entrambi fantasmizzazioni dell’establishment ses­ suale e politico, della sua punitività, del suo potere coercitivo.

Don Giovanni uguale Dioniso

Perché, allora, in Losey, il bisogno d’un inferno realistico e non deli­ rante, d’un «tremuoto» da scala Mercalli, e non vissuto soltanto con fan­ tasia fanciullesca? Vuole forse “realmente” punire Don Giovanni, e noi con lui? Si potrebbe dire, perché tutto sia chiaro, che il personaggio di Don Giovanni, in Mozart, è anticristiano e dionisiaco, in senso nietzschano, mentre quello di Losey è invaso dal dubbio morale, ciò che ne fa, rispet­ to al personaggio mozartiano, un cristiano, un deviante, un caso patologi­ 123

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

co. Nell’opera di Mozart, invece, sono gli esponenti deW establishment anche nel canto - a ridurre ossessivamente l’amore a peccato di lussuria, vittime deprecabili d’un triste senso dell’onore, animati da un insaziabile desiderio di vendetta; sono essi che deviano dal comportamento d’una vita «puramente artistica», come vogliono il Dioniso nietzschiano, ed il Don Giovanni mozartiano: sono essi il «caso patologico».

Odor dì femmina Don Giovanni vuole vivere, in Mozart-Da Ponte, nella piena libertà dei sensi, di tutti i sensi. «Zitto: mi pare / sentir odor di femmina...», dice questa creatura del libertino Da Ponte (che aveva scritto, già nel ’72, un Ditirambo sopra gli odori). Egli vive con tutt’e cinque i sensi al servizio di quella che Nietzsche chiama «la vita per la vita», dell’istinto, della sen­ sualità, dell’amore. Chi non ama l’«odor di femmina», e frustri il suo odo­ rato, la sua vista, il suo gusto, il suo tatto, il suo udito, per «paura della bellezza» e «della sensualità», recherà su di sé i connotati d’una conce­ zione del mondo che, per essere morale, è mortale, e mortifera, punitiva, antiumana. La «lussuria», per essere piena, ha bisogno di tutti i possibili «pecca­ ti» corporali. Ed infatti il Don Giovanni mozartiano non fa altro che muo­ versi in un mondo nel quale hanno grande importanza i sapori, il profu­ mo dei vini, il gusto selvatico degli odori umani. Nel film, invece, si beve un sorso di vino soltanto dopo ben quaranta minuti primi, durante la festa di nozze di Zeriina e Masetto. Vediamo una comparsa che accenna a sbevuzzare, senza alcun trasporto bacchico, come sotto lo sguardo d’un predicatore battista. In questa sequenza si vedono molte ceste ricolme d’uva, e cataste di mele, ma nessuno che s’az­ zardi ad approfittare di tutto quel ben di Dio. Anzi, le mele, invece di mangiarsele, se le tirano giocosamente addosso. E si sa quanto una mela, se ti piglia in faccia, possa recar danno. Capricci incomprensibili, se non si risale all’origine americana di Losey, che evoca subito idee di sovrab­ bondanza e di spreco, ma anche di rudezze puritane. Dopo oltre sessanta minuti si intravede in uno scantinato una vecchia contadina sdentata che tira su qualcosa da un intingolo, forse un pezzet­ to di baccalà alla vicentina. E dove sono andati a finire il «cioccolatte», il «caffè», i «vini», i «presciutti» che Don Giovanni ordina a Leporello per 124

«NUOVA CUCINA» (1980)

gli invitati? Si noti che in questa elencazione di cibi non v’è nulla che non sia “superfluo”, e quindi, “erotico”. Non arrosti, ordina Don Giovanni, ma «cioccolatte», quella leccornia del palato che attirò in Ispagna la cen­ sura dei vescovi, perché troppo amata dalle donne, che se la portavano fin dentro la chiesa, ai vespri. Losey ambienta in “esterno”, nei campi, l’aria di Don Ottavio «Dalla sua pace la mia dipende». Sui prati giacciono i corpi di numerosi contadini, immersi, come animali, nella siesta. Ma quando hanno mangiato questi con­ tadini? E perché non mettere in iscena il loro pasto? Quella di Losey verso il cibo è una vera e propria censura, per non dire castrazione', e, senza dub­ bio, ha un significato più generale che impregna tutto il suo lavoro.

La magia cena col Commendatore E la cena col Commendatore? Nel film di Losey si vede Don Giovanni, seduto solitario davanti ad una tavola confusamente imbandi­ ta, attorniato da invertiti, suoi servi e famigli ( ! ). Se ne sta da solo, schiac­ ciato dal “vizio”, e dalla paura provata poc’anzi durante il dialogo cimi­ teriale con la statua del Commendatore. Viene Elvira a cercare di redi­ merlo in extremis. Don Giovanni le risponde a disagio, disappetente, angosciato dall’idea del peccato e della punizione; ammalato, insomma di “cristianesimo”. Se ci si concentra intensamente sulla musica e si capiscono bene le parole, ci accorgiamo invece, che lo spirito della scena è completamente diverso. Intanto, Don Giovanni mangia a quattro ganasce. Tanto che il plebeo Leporello commenta: «Ah, che barbaro appetito! / Che bocconi da gigante / Mi par proprio di svenir». E Don Giovanni ordina: «Piatto!», e poi: «Versa il vino». E, dopo aver bevuto, esclama: «Eccellente marzimino!», con l’arguta abilità di ricono­ scere questo vino del Trentino, tra le diecine di altri vini del Veneto Nulla di penitenziale, o pestilenziale, nel testo di Mozart-Da Ponte. La musica è serena e scherzosa, fino a: «sì eccelente è il vostro cuoco/Che lo volli anch’io provar», una delle arie più lievi e affabili dell’intera opera. Arriverà Elvira, a tentare cupamente la redenzione, e Don Giovanni la accoglierà con gentilezza concludendo con un civilissimo «Lascia ch’io mangi. / E se ti piace / Mangia con me», dove, visti i rapporti carnali in­ tercorsi tra i due, “mangiare” sta anche per “far l’amore”.

125

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

Il Don Giovanni di Mozart, a un passo dalla punizione, è ancora indul­ gente, sereno, liberale, libertino', ossia, «libero pensatore», poiché, prima di «licenzioso», questo voleva dire, la parola «libertino». Fino al punto che dopo l’esagerata invettiva di Elvira: «Restati, barbaro, / Nel lezzo immondo: / Esempio orribile d’iniquità», l’eroe mozartiano le risponde con tutta innocenza: «Vivan le femmine! / Viva il buon vino! / Sostegno e gloria / D’umanità», parole che richiamano lo splendido brano del primo atto, in cui Don Giovanni inneggia alla libertà - da Losey, vecchio e coraggioso libertario, meravigliosamente rappresentato. Poi arriva il Convitato di Pietra, e Dio ci scampi: qui il Don Giovanni loseiano perde proprio le staffe, come, in punto di morte, certi atei di fra­ gile struttura filosofica. Il baritono Raimondi, da quell’eccezionale attore che dimostra di essere, ci fa vivere tutte le sfumature del terrore, con la sua pacifica faccia padana devastata da espressioni che giungono fino al metafisico. Eppure, nel testo mozartiano, Don Giovanni tien testa al capo deW establishment fino alla fine. Dice: «Ho fermo il core in petto, / Non ho timor: verrò!» e si prende il lusso di insultare il grande spettro della morale, dandogli del «vecchio infatuato». Manifesta qualche breve momento d’angoscia nello stringergli la mano, e non nasconde la sua atterrita meraviglia alla vista delle fiamme. Ma sono tutti comprensibili moti umani. Poi grida un semplice: «Ah!» e sparisce. Si dirà: «Va bene, ma la cena del Commendatore l’hanno ideata e scrit­ ta Mozart e Da Ponte, non Losey: dunque, essi volevano la punizione di Don Giovanni». E vero, ma non si può essere tanto categorici. La fine di Don Giovanni è nel mito: è in Tirso de Molina, è in Molière, è in Goldoni ed in tutte le altre versioni settecentesche, italiane e non. Perfino il marxista Roger VaiDand, nel suo Monsieur Jean (Gallimard, 1959), fa morire Don Giovanni schiacciato sotto il ritratto del Commandeur. Il mito è mito. È cultura. Ci vien dato nel latte materno. E la cultura di Mozart e Da Ponte è già quella che vuole la punizione del mostro erotico, degenerazione del­ l’istinto di procreazione, e nemico incorruttibile dell’ordine sociale. Tuttavia, i due artisti “raccontano” e cantano il mito senza alcuna parte­ cipazione moralistica. Essi, tutt’e due, il divino fanciullo ed il piccolo Casanova ebreo convertito di Cèneda, non partecipano all’esecuzione. Tutt’al più, insieme con lui, provano un puerile orrore davanti all’idea delle fiamme. Ma tutto lì. Il resto dell’opera lo sta a testimoniare.

126

«NUOVA CUCINA» (1980)

Il canto di Don Giovanni, infatti, è sempre seducente, non è mai sini­ stro, colpevole, luttuoso. Sono drammatiche e mortuarie soltanto le arie cantate dai personaggi deìY establishment: Elvira, Donna Anna, Ottavio, il Commendatore. La stessa Zeriina è complice di Don Giovanni: «Là ci darem la mano, / là mi dirai di sì», e complice consapevole, deliziosa, pronta a star con lui per lasciarsi divertire, pur amando il suo promesso sposo. Il sesso è da lei vissuto come un Don Giovanni in gonnella: per dir di «sì». «Felice, è ver, sarei», canta Zeriina, «felice», se i suoi sensi non fossero imbrigliati dall’i­ dea del matrimonio. Don Giovanni è amato dalle donne, come Dioniso, che era considera­ to il Giove delle Femmine. Ne è amato perché le ama. Non le vorrebbe tutte sposare? Si può supporre che perfino Donna Anna, all’inizio, abbia sentito un trasporto per lui, tanta è la passione sensuale che si avverte nel suo canto, pur sdegnato. E la religiosissima Elvira non dirà a Leporello, scambiandolo per Don Giovanni: «Son per voi tutta fuoco?», e in quel «tutta» c’è intero il suo corpo. Losey, invece, quando tenta di fare il «libertino», non riesce che a mettere in scena una fanciullona anglosasso­ ne addormentata, mentre Don Giovanni, vestito, come il solito, di nero, come un prete o un fascista, recita il suo «Lasciar le donne? Pazzo... Sai ch’elle per me son necessarie più del pan che mangio». Nel recitare, Don Giovanni si appoggia a questo munifico corpo di ragazza come fosse la spalliera del letto. E un libertinismo un poco troppo freddo, troppo sar­ castico, quello di Losey, da calendario di «Playboy». Ad onore del vero, non si può nemmeno dire, tuttavia, che la musica di Mozart sia dionisiaca, se non in qualche irrefrenabile, gioioso e fluen­ tissimo fiume di note, come l’aria di Zeriina: «Giovinette che fate all’a­ more, / Non lasciate che passi l’età», o in quella successiva di Don Giovanni: «Fin ch’han del vino / Caldaia testa». Non sarà voluttuosa­ mente tutta musica dionisiaca, ma non è punitiva. La sua filosofia è affet­ tuosa verso l’innocenza di quest’uomo perseguitato dai? establishment: è una filosofia che contempla malinconica l’irreparabile perdita del fallo, amputato dalla Legge apollinea del supremo ordine, della forma senza crisi. Ora, quel che va detto, è che a questa sensuosità nostalgica, forse lieve­ mente orfana, di Mozart, si somma il sentimento di Losey, ch’è di aperta disperazione, di pieno lutto, di piena negatività. Quel che in Mozart è lan­ guore, e dolce poetico presentimento di morte, nel film di Losey è già un

127

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

rito funerario in atto, un après coup, è il senno di poi, è irreparabile. E in Losey c’è anche il lutto per la scomparsa della cultura mozartiana. Così che il maggior contributo ad una lettura moderna del mito, Losey lo ha dato, e non sembri poco, nello sbrogliare magistralmente l’intricata matassa del racconto, quello della paranoica persecuzione di Don Giovanni. La vicenda, nel film, appare finalmente limpida e perfino densa di suspense. Fantasmi paranoici che perseguitano ossessivamente un fan­ tasma nevrastenico: roba da alto Hitchcock. La stessa tecnica scelta da Losey è, se così si può dire, meravigliosa­ mente ossessiva. È la tecnica del “piano-sequenza”, che riunisce in una unica inquadratura, a tempo reale, di scena in scena, tutte le diverse azio­ ni dei personaggi, escludendo il montaggio di pezzi brevi, cioè l’intarsio. Una tecnica ordinatissima, da nevrastenici, che richiede una disciplina formale veramente apollinea, ma che rende ancor più freddi e fantomati­ ci il fluire del tempo musicale, che non è mai reale, l’agitazione dei perso­ naggi, e la presenza delle monumentali, quindi cadaveriche, scenografie dal “vero”. Il Don Giovanni di Losey è troppo tecnico? Si può dir di sì, pur to­ gliendosi il cappello davanti all’arte del regista. E per tecnica si vuole qui intendere qualcosa di inanimato, di pre-giudiziale, che tutto piega a se stesso, alle sue esigenze. Il rispetto dell’iconografia settecentesca è appa­ rentemente rigoroso: Longhi, Guardi, Canaletto, nulla avrebbero da ridi­ re. Ma noi sappiamo quanto valore di significato avesse nella pittura sette­ centesca - si pensi a Chardin - il rapporto tra l’uomo e le cose inanimate. Il borghese aveva scoperto in quella pittura l’incanto degli oggetti, d’una tavola imbandita, d’un pezzo di pane fresco, come segni, tracce della propria identità culturale. La tecnica del piano-sequenza esclude la possibilità di raccontare un tale rapporto, perché obbliga la macchina da presa a non soffermarsi mai su un dettaglio, sia pure significante. Il rac­ conto del piano-sequenza si fa in sé, per il movimento della macchina, che diventa romanzesco in sé, e non semplicemente per l’analisi narrativa di “tutto” quel ch’è raccontabile. Così, le cucine di Don Giovanni son visi­ tate da Losey distrattamente: pannocchie, mele e pere messe a disseccare in bell’ordine da qualche arredatore, ma senza il gusto di «quelle cose lì», ch’era il gusto di Visconti, tattile, sensuale, gastrico. Così, la tavola imban­ dita per la cena del Commendatore è raffazzonata: arriva, d’un tratto, un piatto di arrosto che sembra tirato fuori dalla cucina di un delicatessen della Sixth Avenue, Wolfs poniamo. 128

«NUOVA CUCINA» (1980)

Bollito alla Dioniso

D’altronde può anche venire un dubbio: e se Losey avesse ragione? E se quella serenità di Mozart non fosse più possibile, per noi? E se a noi fosse ormai precluso, nell’epoca della tecnica senza filosofia, di godere della lievità di Mozart se non provando altro che dura ed impotente disperazione? Forse, a noi, non risulta ormai possibile altro che il mondo apollineo, freddo, razionale, elegante, perfetto, asettico, liberato per sem­ pre dal dolce afrore caprigno del povero Dioniso (del resto, a sua volta sfortunato: fu tagliato in sette pezzi, per ordine di Giunone, e i sette pezzi vennero messi a bollire; l’idea di un bollito, il bollito alla Dioniso non è da scartare). Insomma: e se l’establishment sessuale e politico avesse vinto? Mangiare e fare l’amore sono atti che rubano il tempo alla produt­ tività. E Don Giovanni, certo sia come mangiatore, sia come seduttore, non avrebbe potuto lavorare alla Fiat. Sarebbe stato un interessante caso sindacale. E, invece dell’inferno, il licenziamento. «Nuova Cucina», 6, aprile 1980.

129

EX AFFAMATI SAZII SULLA TERRAZZA

La fame, come il desiderio sessuale, è stata raccontata, da sempre, in due soli modi: o per far ridere, o per far piangere. Tuttavia, a parte la drammaturgia d’indirizzo sociale e populista, sulla fame e sugli affamati, generalmente, tutti hanno preferito ridere. La risata esorcizza una condi­ zione, seppellisce un sintomo, rimuove un problema. La risata, in un certo senso, definisce la insolubilità d’un nodo. Non si ride volentieri della morte, sia pure istericamente? Bergson annovera i gobbi tra le persone che più suscitano il riso. Ora, cos’altro è, un affamato, se non un gobbo con la sua deformità rovesciata verso l’interno? E, quanto più la sua fame sarà insaziata ed insaziabile, tanto più farà ridere, o piangere, a causa di quella che Bergson chiama répétition. Le commedie all’italiana hanno giocato sempre molto sulla répétition della fame. I film comici italiani erano, un tempo, affollati di Totò, Fabrizi, Peppino, De Vico, Nando Bruno, Giulio Cali, Luigi Pavese, Claudio Ermelli, Fanfulla, Macario, Sorrentino, Rascel, Sordi, Manfredi e di infi­ nite schiere di comici napoletani, tutti alle prese con il proprio stomaco vuoto, con la loro «gobba» interna. In quel tempo il cibo era assai impor­ tante nel nostro paese, perché non c’era. Gl’italiani, salvo gli appartenen­ ti alle classi agiate, mangiavano poco. E tra coloro che mangiavano poco erano gli artisti e gli intellettuali, come i personaggi del film. Dice Moravia che il ricordo più angoscioso del fascismo, per lui, è la fame dell’intellet­ tuale. E quando racconta questa fame scoppia a ridere. Il «mangiare», al pari della «famiglia», era una giustificazione assoluta per qualunque bassezza si fosse commessa. «Lo faccio per mangiare» dicono ancora gl’italiani con la coscienza sporca. Anche i Caltagirone diranno che Than fatto per mangiare. Ma verso la metà degli anni Sessanta la fame parve scomparire dalla realtà del nostro paese. E vero, anche in Italia, e non solo in India, di tanto in tanto vengono ritrovati vegliardi o bambini morti d’inedia e mangiucchiati dai sorci, ma sembrano starsene lì, stecchiti, soltanto a ricordarci un penoso passato. Se in Italia la fame non sussiste più come problema collettivo, non si può più ridere o piangere sugli affamati. Al posto della fame sembra esser­ si installato nella gente un sentimento di sazietà. Ma si può ridere o pian­ gere sulla sazietà?

130

«NUOVA CUCINA» (1980)

Questo ci pare essere il problema de La terrazza, il film di Ettore Scola, scritto da Age, Scarpelli e dallo stesso regista. In fondo, Ceravamo tanto amati si sarebbe potuto anche intitolare «Eravamo tanto affamati». La ter­ razza, invece, non potrebbe essere altro che «Siamo tanto sazii». Si può subito osservare che mentre le commedie della fame, se così si può dire, sono dinamiche, prefiggendosi il compito di descrivere tutte quante le azioni che l’Affamato escogita per arrivare a riempirsi lo stomaco, la commedia della sazietà, all’opposto, è statica, immobile, grave. La fame è una carenza che va riempita. La sazietà è, invece, uno stato che va sem­ plicemente contemplato. L’Affamato corre dietro al cibo. Il Sazio si lascia correre dietro dal cibo. Nella sazietà vien meno l’azione di corteggiare e sedurre il cibo. Il vuoto è stato riempito. Il cibo non è più fuori, è “den­ tro”. La gobba interna è sparita. Diciamo così: il problema primario del “come” conquistarsi il cibo si trasforma in problema etico. Si è conquistato il cibo in un modo onore­ vole? Il Sazio tenderà, in un primo momento, a contemplare se stesso, la propria pancia ed il mondo, con malinconica inquietudine. I suoi saranno pensieri post-prandiali, un poco tristi, ma anche inutili, dal momento che la cosa, ormai, è fatta. Ma in una fase successiva, se non è un cretino, o un benpensante, il Sazio, che ha superato il problema della fame, sarà final­ mente nello stato d’animo della riflessione, e non in quello dell’azione. Nel film di Scola “non” agiscono alcuni Sazii: Mastroianni, Gassman, Satta Flores, Trintignant, Reggiani, il Nostro Direttore [Ugo Tognazzi], e le rispettive mogli o amanti, Colli, Sandrelli, Gravina. Da diversi lustri essi s’incontrano a casa d’un amico, per celebrare il rito della cena in terrazza. Quando incominciarono a mangiare insieme la sera, molti anni prima, la cena era per loro un rito essenziale. S’incontravano essenzialmente per mangiare. Negli anni successivi ognuno ha risolto, in un modo o nell’al­ tro, il problema del mangiare. Ed ora i Sazii mangiano, sì, ma distratta­ mente, e non con quella bella fame di Totò. La loro cena è un simulacro. È fatta per spiare la propria decadenza, in quella altrui, o per celebrare il successo, per stringere o rinsaldare alleanze, chiamate impropriamente «amicizie», e per combattere la solitudine, tremenda nella grande città. E una messa in cui viene sacrificato il Nemico, ossia colui che non è stato invitato. È tante cose, ma non una cena. Cos’è rimasto, nella cena de La terrazza, dei tempi in cui una cena era una cena? Naturalmente il ricordo della fame, che si trasforma in nostal­ gia della fame, intesa anche come nostalgia della gioventù, la fame essen­ 131

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

do un istinto peculiare di quell’età. Il menù della «terrazza» sta a dimo­ strare proprio quel che andiamo dicendo. Non si spiegherebbe, sennò, la necessità per questi Sazii, quasi tutti vicini alla sessantina, ci scusi il nostro Direttore, di trovarsi davanti ai torrenti di cibo che, nel film, straripano dai tavoli. Vi è, nell’erogazione di una tale quantità di calorie, la voglia di «crescere» ancora, nonostante la raggiunta mezza età. E vi è anche la paura antica di non riuscire a sfamarsi ed a sfamare l’ospite. Ma il menu di Scola è anche rigorosamente neorealistico, poiché rispecchia fedel­ mente i menus offerti dalle padrone di casa romane nelle loro cene: anti­ pasti misti, crudités, salmone e cipolla, pasta e fagioli calda e/o fredda, pasticcio di maccheroni o/e matriciana o/e puttanesca o/e quattro for­ maggi, abbacchio arrosto, arista di maiale, roast-beef, insalata e verdure lesse e/o fagioli all’uccellino, frutta, dolce, gelato, caffè, liquori. Migliaia di calorie, da mandare avanti un asilo infantile per un’intera settimana. A gente dell’età dei nostri cinque Sazii, tutte queste calorie, ingurgitate alla rinfusa, senza discernimento, in ora avanzata della sera, e all’aperto, con lo stomaco esposto al ponentino, non possono altro che provocare grevi incubi notturni, insonnia, dispepsia, ipertensione arteriosa, ed altro ancora che tacciamo, per l’amore che portiamo al nostro Direttore ed agli altri Sazii. Per l’esattezza neorealistica, da Scola caritatevolmente obliata, va spe­ cificato che queste cene, a Roma, vengono abitualmente ordinate da Ruschena, o Vanni o Euclide, ma che le padrone di casa amano far cre­ dere d’averle preparate personalmente. La base delle cene, fagioli, pasta­ sciutte forti, abbacchio, sta a rivelare, più che lo snobismo dei cenanti, le loro malcelate origini pitocche. Una volta, tutta quanta questa roba era desiderata, amata, e, fi­ nalmente, posseduta, assaporata, e divorata e violentata. E chi aveva il tempo di parlare? Ora no. I cinque Sazii del film la mangiano distratta­ mente. Perché distrattamente? Bisogna partire dall’idea che oggi anche il rap­ porto col cibo, come quello del sesso, è vissuto con sensi di colpa, per quattro ragioni: a) perché si teme faccia male alla salute, b) perché si ha come il rimorso di stare a perdere tempo, invece di fare qualcosa di «utile», c) perché si ha come l’impressione di non esserselo meritato, d) perché il «mangiare» è la prima causa apparente del proprio dover pena­ re durante il giorno e del sacrificio di se stessi. Tutti questi sensi di colpa, è sottinteso, vanno inseriti nel ciclo fosco della tradizione cristiana, che 132

«NUOVA CUCINA» (1980)

considera il mangiare un peccato di gola, e che, più o meno, agisce anche “dentro” mangiatori laici. Nella distrazione opera, come nei lapsus, il meccanismo della ri­ mozione. Si mangia, ma non si presta attenzione a quel che si mangia, ossia all’oggetto del proprio senso di colpa. Mangiare diventa un lapsus. Si mangia, ma si vorrebbe fare «altro». Quindi, si mangia «distrattamen­ te», conversando o addirittura leggendo il giornale. Questo tema ci sembra assai interessante, ma è svolto soltanto nell’e­ pisodio interpretato da Serge Reggiani. Costui porta il lapsus fino alle conseguenze estreme: non mangia affatto. Egli ricusa completamente il cibo, per punirsi. Reggiani è cosciente della mediocrità della sua vita. Ed avendo accettato di diventare quel che è diventato per «mangiare», nel mangiare si colpisce, e rifiuta il cibo, come causa della sua sconfitta, del suo male spirituale. La dieta Reggiani è la seguente: tre olive e tre lupini, altrimenti detti, a Roma, «fusaje». È una dieta molto poetica, poiché ricor­ da i venditori di lupini, i «fusajari», e, dunque, i luoghi deputati della gio­ vinezza, i cinema di periferia, i giardinetti, i mercatini, la strada, le piazze, i comizi. Quella di Reggiani è la storia più significativa, dal punto di vista gastrologico, e, non a caso, è anche quella più “secca”, quella raccontata meglio; il suo umorismo diventa immagine cinematografica, non è “parla­ to”, aforistico, sentenzioso come negli altri episodi, che sono leggermen­ te «melensi», nel senso etimologico dell’aggettivo. «Melenso» non viene, infatti, da «mela», ma da «lento», da «tardo». E le altre storie del film sono proprio «tarde», sia perché sembrano troppo allungate rispetto al nocciolo di quel che vanno narrando, sia perché i personaggi danno l’idea di essere attardati rispetto al tempo in cui vivono. E questo essere surannés non è presente né alla loro coscienza, né alla coscienza degli autori, ciò che gl’impedisce di divenire materia narrativa, vuoi comica, vuoi drammatica. I cinque Sazii sono semplicemente «tardoni» o at-tardoni, ci perdoni ancora il nostro Direttore, il quale, tra gli altri, è, se non altro, un tardone genuino, che non s’abbandona all’aforisma asmatico, alla lagrimuccia del coccodrillo. Quello di Tognazzi, nostro amato Dominus, è, almeno, un personaggio mangione e godereccio. Tira fuori dal frigo una fetta di prosciutto e la trincia con le dita, come quello che è, cioè una bestia, un produttore cinematografico. Gli altri sono intellettuali, deputati al parlamento, studiosi di cinema, scrittori e devono tener fede al loro mestiere: parlano molto e fingono di mangiare poco. Sentenziano

133

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

molto, ma pensano poco, e ci rivelano poco di sé, del loro vero «sé». Eppure, se c’è una condizione positiva nello stato di «sazietà» è proprio quello di avere la mente sgombra dal problema della fame, e di poter, per conseguenza, pensare ad altro che non sia il proprio stomaco. Ma i personaggi de La terrazza sono sazii nel modo un poco stupefat­ to dei benpensanti, e non è certo da loro, poco inclini alla riflessione ed all’autocritica, che sapremo cos’è successo in Italia, e nelle loro coscienze, durante gli anni che vanno dalla Grande Fame alla Nauseante Sazietà, né per ridere, né per piangere. Essi si esprimono per aforismi, e come si sa, gli aforismi non fanno né ridere né piangere. L’aforisma serve di copertu­ ra al vero discorso che s’intrattiene con se stessi. Non fanno ridere, soprat­ tutto, gli aforismi melensi dei benpensanti, come quello, ineffabile, mor­ morato da Gassman: «Noi siamo personaggi da tragedia che non possono essere raccontati che in una commedia». Dietro Gassman che impersona la figura d’un deputato comunista, non si vede la tragedia, né s’intravede la commedia. Un parlamentare comunista di questi giorni è ben più bef­ fardo, frustrato, malinconico, grottesco, cinico, romantico ed in malafede di quanto non sia il senatore di Gassman, che sembra lo Studente di Praga. E non fa, appunto, né ridere, né piangere. Nel film di Scola, concludendo, non si risponde alla domanda: può, la Sazietà, come la Fame, far ridere o piangere? E non si risponde nemme­ no a quelle altre domande che sembrano stare più a cuore al regista ed ai suoi collaboratori. Forse, una maggiore coscienza, come dire, gastrologi­ ca, avrebbe potuto aiutarli a scegliere strade meno tortuose. Ormai è chia­ ro: l’assenza di una reale coscienza gastrologica è un male comune tra i cineasti. Soltanto che Scola, Age e Scarpelli hanno fatto volontariamente un film su una cena, mica su un simposio dell’istituto Gramsci, con le citazioni da nouveaux riches della cultura. E per raccontare bene una cena, e tutto quel che implica di sociale, di politico, perfino d’ontologico, è alla cena che bisogna attenersi, come insegnano i capolavori del genere: Pranzo alle otto e La Grande Pouffe. Ci si perdoni un’ultima osservazione. All’arte del nostro Direttore è stato ancora una volta affidato il più volgare e cretino dei personaggi del film. Ma quando si capirà che animus sensibile e raffinato sia quello del nostro Direttore, e da quale altezza la sua mente ci scruti, tutti, compresi Scola, Age e Scarpelli? «Nuova Cucina», 7, maggio 1980.

134

LA CITTÀ DELLE DONNE

Nel nostro taccuino leggiamo le seguenti note: «Inizio proiezione La città delle donne, ore 16,25. Subito, prima che Snaporaz si metta a sogna­ re: una bottiglia d’acqua minerale sul tavolinetto d’uno scompartimento ferroviario, tristissima (senza marca leggibile: segno che non hanno presi i soldi dalla pubblicità), nessuno la beve\ ore 16,50: al congresso delle fem­ ministe, riunito all’Hotel Miramare, arriva un cameriere con un vassoio su cui si notano: tre brioches, vari cappuccini, due bottiglie di birra senza marca (id.); non si sa, né si saprà, chi ha ordinato questa roba (Mastroianni-Snaporaz s’impadronisce del vassoio e lo porta in giro per l’albergo, al fine di giustificare la sua presenza tra le femministe); ore 17,25: la straordinaria e mostruosa fuochista del Miramare offresi ac­ compagnare Marcello-Snaporaz alla stazione più vicina, in moto; invece lo attira in una serra, dove si vedono un gatto impagliato ed una gallina viva, e gli offre un ovetto ma, subito dopo, quando si volta verso di lui, si denu­ da il seno destro e glielo offre da succhiare e Marcello-Snaporaz rifiuta, limitandosi a toccare seno con dito indice; associazione ovetto-seno, tutt’e due oggetti da succhiare, ma nessuno succhia niente; ore 17,35: teppiste femministe in automobile bevono coca-cola, masticano chewing-gum, impasticcate, una ha male alla pancia e si lamenta penosamente, ma non è indigestione; 17,45: apparizione primo whisky, bevanda che tornerà ad intervalli regolari, sorseggiata svogliatamente da signora Snaporaz; nel sacrario delle diecimila amanti di Sante Katzone una è fotografata con biscottino in bocca (fellatio?); ore 18,10: comparsa dello champagne durante festino per il diecimillesimo coito di Sante Katzone: non lo bevo­ no; apparizione quasi contemporanea, di gigantesca torta a cinque piani, con diecimila candeline accese: non la mangiano; 18,20: sempre durante festino Katzone, in campo lunghissimo, tra la folla dei convitati, sfocate, visibili solo ad occhio interessato di gastronomo, due ragazze, comparse anonime, leccano coni gelati (fellatio?); imbandigione banchetto Katzone a base specialità romanesche, fritto misto, supplì, in forme falliche, come tutto arredamento Katzone, se si eccettua labirintica pianta tropicale, di forma schiettamente vulvare; molta frutta esotica, ananas e banane: ma nessuno mangia; ore 18,30: appaiono tre mele e tre cipolle, ma per essere usate in un esorcismo che concili il sonno di Snaporaz ed allontani da lui presenze maligne: naturalmente nessuno le mangia; due volte vengono 135

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

rappresentati ambienti raffiguranti la cucina; dapprima in uno sketch anti­ maschilista, nel quale attrice femmina scodella un piatto fumante di spa­ ghetti a suo marito, un mimo con sembianze di Frankenstein; il marito Frankenstein non li mangia, preferendo a spaghetti coito anale; una seconda cucina è messa in scena negli ambulacri del tribunale femminista, ma non ci cucinano niente; ore 19: riapparizione, nello scompartimento ferroviario, al risveglio di Mastroianni-Snaporaz, di bottiglia d’acqua minerale, intatta; ore 19,05: fine de La città delle donne». Dopo la lettura di questi appunti viene spontaneo chiedersi se il di­ chiarato non far mangiare i personaggi de La città delle donne, non de­ nunci nel nostro maggiore autore di cinema una glaciale e sinistra idio­ sincrasia del cibo, una preoccupante cibosincrasia, neppure spiegabile con la storica scorpacciata di Satyricon. Ma questo sarebbe il modo più spicciativo, ed anche il più ottuso, di affrontare il film, ch’è opera più complessa di quel che gastronomi estre­ misti, al pari dell’ala fanatica del femminismo, non vogliano o possano ammettere. Il problema, come sempre, è di ragionare su quel che si vede e di non lasciarsi accecare da pregiudizi.

«Concerto muto» alla Cage Come se detto, nel film di Fellini il cibo c’è, e spesso: è lì, presente, descritto, se non con cura, con rispetto. Ma nessuno lo mangia. Il cibo se ne sta muto, nell’immagine, ma ben visibile, come per attirare l’attenzione sul fatto che non lo si mangi. Esso, il cibo, nel film esegue una sorta di «Concerto muto» alla Cage. La sua muta e oltraggiata presenza di cibo che non viene usato correttamente, cioè “mangiato”, ha il potere “spaesante” di quei dettagli che, nei sogni, avvertono il dormiente che sta sognando. Nel sogno, come ciascun sa, gli elementi del reale vengono rivissuti nella loro apparenza perfettamente credibile, ma con alcune com­ ponenti stravolte - ne basta una - e fuorviami al punto di ribaltare il valo­ re di credibilità di tutte le altre. Il procedere del sogno è stato fantasiosa­ mente imitato dai surrealisti in questo secolo, sia nella pittura, sia nel cine­ ma, sia nella letteratura, raccogliendo, se così si può dire, una idea che è nell’arte stessa, ma che era emersa chiara, precedentemente, nella coscien­ za del romanticismo nero e gotico. Per restare nel campo del cinema, il metodo è usato in modo trasparente nel pranzo descritto da Bunuel, mae­ 136

«NUOVA CUCINA» (1980)

stro del dépaysement surrealista, nel suo Charme dìscret de la bourgeoisie. I partecipanti a quel pranzo, nel mangiare, siedono disinvolti ad un tavo­ lo, ma non su comuni sedie, bensì su vasi di latrina all’inglese. Questo scambio nella funzionalità di due strumenti della normale vita quotidiana rende la scena paradossale come certi fenomeni onirici e, ironicamente, vuole dirci: badate, voi, mangiando, sedete praticamente sul gabinetto, poiché è quello il terminal dei vostri bocconi. Ma, soprattutto, vuole sot­ tolineare come le diverse gestualità e posture del mangiare e del defecare, nella condizione umana, assurdamente s’equivalgono e diventino inter­ cambiabili. “Come” in un sogno, le sedie, trasformate in latrine, sono l’e­ lemento “spaesante” fisso della scena. La stessa funzione ce l’ha il cibo ne La città delle donne: c’è, ma non si mangia, per la semplice ragione che il film, pur non essendo surrealista che nell’apparenza, è proprio la ricostruzione rigorosa di un sogno: del sogno di Mastroianni-Snaporaz. Ed il cibo ne costituisce l’elemento sim­ bolico “spaesante” fisso. Ci sembra di poter dire che il film di Fellini non è surrealista, né “gotico”, nonostante il suo carattere onirico, perché esso distingue bene la veglia dal sonno, non propone una rappresentazione mitica della vita come sogno, né contiene una lettura premonitrice di sin­ tomi visionarii. Di che natura è il sogno di Snaporaz? Vediamo. La città delle donne è Alice nel paese delle meraviglie in versione maschile. Owerossia, «Alico nel paese delle Vagine» (del resto, non aiutò Alico i Dioscuri a cercare Elena rapita da Teseo?). Durante un viaggio in treno, Snaporaz, Alice maschio vertiginosamente avviato verso i ses­ santanni, al momento d’entrare in una vecchia galleria in disuso (il «bu­ co» di Alice?), in comincia a sognare d’un suo viaggio nel paese delle me­ raviglie femminili.

Nei sogni non si mangia mai

Si può subito osservare che, in generale, nei sogni non si mangia mai. La componente cibo, offertaci nel sonno dal vissuto della veglia, viene fil­ trata, manipolata, travestita e mistificata dai contenuti sessuali del sogno in corso, che se ne impadroniscono fino a diventare un tutt’uno con essa. Nessuno mangia, nei sogni, perché in quel luogo misterioso comunemen­ te chiamato «inconscio», e sarebbe ora di cambiargli nome, cibo e sesso appartengono alla stessa sfera desiderante. L’«ovetto» e il seno materno, e 137

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

il seno della propria partner, sono la stessa cosa da succhiare, di cui nutrir­ si, di cui sfamarsi corporalmente ed affettivamente. Nei primi giorni di vita, cibo, amore, benessere, piacere - o l’inverso, se il «seno» non c’è, o è «cattivo», o è «ansioso» - si confondono. Fellini proibisce, in effetti, ai suoi personaggi non soltanto il mangiare, ma anche l’amoreggiare. Egli li censura anche sessualmente. C’è il cibo, e nessu­ no lo mangia. Vi sono donne e uomini, e non fanno l’amore. Il solo cibo che viene «mangiato» nel film - un simulacro di cibo - è quel gelato che due ragazze sfocate leccano in campo lunghissimo. Ed anche il cono gelato lecca­ to - simulacro di sesso - rinvia ad un seno ed a un benessere ormai lontano, sfocati nel campo lunghissimo del passato. Il solo amplesso raccontato da Fellini è quello miniato da due attrici femministe, in cucina, per deridere la casereccia lascivia dei maschi. Il bacio della misteriosa viaggiatrice del treno, unico approccio sessuale del film, vien dato golosamente come ad un gelato, e la baciatrice si sottrarrà a Snaporaz per tutto il sogno. Snaporaz è, dunque, un sognatore inquieto, cui è venuto meno il «seno», la fonte del cibo e dell’a­ more, e della stessa sicurezza del vivere. (Alla parola «Roma», nell’Antichità, venivano offerte due etimologie: «forza» o «poppa»).

Uno spettacolo romance

Per progredire nella comprensione del «non mangiare» di Fellini ci sembra occorra parlare delle modalità formali del sogno di Snaporaz. A nostro avviso, il sogno di Snaporaz-Alice è narrato nella forma d’uno spet­ tacolo musicale. Tutto l’andamento narrativo del film, a «siparietti», il suo apparato visuale kitsch, e l’alternarsi di brani ballettistici, in senso stretto, a sketch narrativi, stanno lì a dimostrarlo. La stessa musica romance di Bakalov ci indica continuamente, e con umorismo che siamo in pieno musical. Snaporaz sogna uno spettacolo romance in tutti i sensi: sia nel senso di «racconto sentimentale», sia di «idillio», sia di «romanza musi­ cale». Snaporaz sogna in tale forma le sue avventure nel paese delle donne perché i maschi della sua generazione, apparsa nel mondo tra gli Anni Venti e i Trenta, sono stati fortemente influenzati dalla cultura sessuale e sentimentale del musical americano, che, da noi, lavorava sugli archetipi sessuali della cultura cattolica e petrarchesca. L’archetipo maschio di questa cultura è Fred Astaire ed è in lui che Snaporaz s’identifica. Fred Astaire è l’unico meraviglioso maschio che ab­

138

«NUOVA CUCINA» (1980)

bia il privilegio di danzare - ossia di amoreggiare - con le trentasei, o settantadue, o centoquarantaquattro girls di Ziegfìeld. Il vecchio Ziegfìeld era il padreterno che forniva al maschio Astaire, romantico, dolce, capriccioso, sognatore, amante-ballerino indicibile, ma, in definitiva, bambino come Alice, le più belle donne che si potessero immaginare: belle, materne, casalinghe, vergini, sante e puttane tutt’assieme. (Nella nostra società, del resto, l’amore ed il sesso, ed anche la fami­ glia, sono vissuti in forma di romance, di perenne musical, di eterna pas­ serella dei sentimenti).

Alice nel paese di Fred Astaire

Dunque, si potrebbe anche dire che Snaporaz è Alice nel paese di Fred Astaire. E, se appena si rifletta, anche dal musical americano, che, a sua volta, è una rappresentazione onirica, il mangiare è generalmente bandi­ to. Fred Astaire e Ginger Rogers non mangiano, di regola; né mangiano le trentasei, o settantadue, o centoquarantaquattro girls dell’eterno padre Ziegfìeld. Queste meravigliose creature possono presentarsi travestite, come in un sogno, o in una pittura surrealista, da oggetti commestibili, vuoi carote, vuoi piselli, o altro, ma, in scena, esse non mangiano mai. Sono esse il cibo da mangiare, difatti, come le due soubrettine sognate da Snaporaz, che hanno glutei simili a meringhe e panna. Anche nel musical - eh’è la forma assunta dal sogno di Snaporaz - non si mangia, come nei sogni, perché nel desiderio d’amore romance si confonde e si sublima il desiderio di nutrizione. Ma cosa induce Snaporaz-Alice-Astaire a sognare un sogno inquieto, spossante e disappe­ tente anche sessualmente? Snaporaz, ossia il piccolo-borghese «tipico» nato tra il ’20 e il ’30, è arrivato, ormai, verso i sessant’anni, e sente approssimarsi la fine del suo viaggio. Egli si domanda continuamente nel film: «Ma dov’è la stazione?», intendendo per «stazione» la morte. Se lo domanda più con impazienza che con inquietudine, come se il viaggio, iniziato in quel «buco» della gal­ leria in disuso, gli fosse venuto a noia. Il mondo, attorno a Snaporaz, sta crollando: valori morali, estetici, religiosi, politici, un gran tonfo. Snaporaz tutto sopporta, ma non che gli si tocchi il mito Ziegfìeld, pro­ prio adesso che è vicino alla «stazione». Non sopporta che le innumerabili girls ziegfieldiane possano tramutarsi in creature d’un «progresso» tanto 139

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

mitico quanto precario. Questo lo spaventa veramente, poiché la vera protagonista della sua vita di bambino egocentrico, e non sembri una con­ traddizione, è stata la donna, quella donna-romance: lo spettacolo musica­ le della sua vita egli lo ha allestito per lei. All’epoca del suo sogno, la concezione romance di Snaporaz è stata dilaniata dall’irrompere del radicalismo femminista, che la calpesta, la irri­ de, la profana con la sua sguaiata contestazione-imitazione del maschio (i costumi e i comportamenti delle «femministe» e delle «teppiste», nel film, sono quanto di più libero, ma rigoroso si possa dire a documentazione della volgarità contemporanea femminile: eguagliati soltanto dall’orrido comportamento - costume di Katzone). Snaporaz-Alice-Astaire è quindi schiacciato tra gli opposti estremi­ smi del femminismo fanatico e castrante, ed il maschismo fascista di Katzone, dominato dall’idea del sesso come record, o traguardo stacano­ vista, nella quale l’eros è reificato al pari d’una qualunque attività produttiva (sulla strada che reca alla villa di Katzone si legge la scritta «Dux»).

Il narcisismo di Snaporaz Per sua disgrazia, Snaporaz non è né un movimentista, né un Katzone: non anela al potere. Il tipo di piccolo-borghese che si può specchiate in Snaporaz, ha rimosso, dell’infanzia, la tendenza, pure piccolo-borghese, alla «purezza» radicale e messianica (quella incarnata dalla linea Mussolini-Curcio-Negri), per conservare il desiderio di seduzione e di favola, il talento del gioco e del mito. Le tirannie trovano complicità, difatti, nella fascia Snaporaz della piccola borghesia, soltanto in virtù di qualche stra­ bica e mitica identificazione, o confidando nel suo disarmato stato di tran­ ce erotica: nel suo smisurato narcisismo, nella sua puerilità. «Ses­ sualmente», o «sentimentalmente», Snaporaz è ancora perduto, infatti, dietro il sogno d’una donna ideale che si apprese in lui da bambino. E l’ul­ tima Meraviglia che gli riserva il Paese delle donne è proprio la «sua» donna, ma degradata dalle femministe al ruolo d’una pupazza. Rispettando i cànoni della cultura snaporaziana, la pupazza ha i seni di una ragazza di Aitalo, è vestita con l’abito bianco dei manichini da sposa, ha la faccia glamour di Virginia Mayo e, intorno al capo, porta un’aureo­ la, come la Madonna delle sue preghiere infantili, poiché non va dimenti­

co

«NUOVA CUCINA» (1980)

cato che Snaporaz ha creduto anche nella Madonna-mamma. La Donna Ideale di Snaporaz, in altri termini, è una orrenda caricatura dell’ideale petrarchesco, è il suo disvelamento in «cosa»: frutto, anche tale disvela­ mento, del realismo femminista, crudele quanto ineluttabile. Snaporaz vuole, tuttavia, essere lasciato in pace con la sua pupazza, almeno fino alla «stazione». Il fatto che il suo ideale gli appaia, epifanicamente, come la pupazza d’un luna-park, una volta per tutte vuol dire che Snaporaz è un bambino. «La stazione dov’è?». Eccola, è lassù, in cielo. Il viaggio continua in un aerostato, e la Pupazza Ideale ne costituisce l’involucro o pallone. Sna­ poraz sale nella navicella. La Pupazza Ideale e la navicella, con Snaporaz, ascendono verso un cielo cupo, tenebroso, luttuoso: il cielo della morte. La navicella è l’esistenza di Snaporaz, ed è appesa a quell’immagine, per quanto caricaturale, sempre irraggiungibile. Snaporaz ed il suo archetipo femminile vanno su, su, su, in cielo, verso la fine. Come avvoltoi, le guerrigliere femministe assalgono l’aerostato, ma il viaggio di Snaporaz verso il nulla continua.

La stazione, la morte, la donna Ne La città delle donne Morte e Donna s’identificano, come in tutti i miti decadenti e crepuscolari. Non sono i gemiti d’orgasmo delle dieci­ mila amanti depositati nel «colombario» dell’amore eretto da Katzone altrettanti gemiti d’agonia, in un vero e proprio requiem, genialmente concepito da Fellini come pezzo forte del suo musical? Attraverso il suo sogno, Snaporaz scopre che morirà senza aver rag­ giunto la sua Donna Ideale. Non si badi ai suoi maledetti sessantanni: egli, come Alice, è ancora un bambino, eppure deve morire, senza aver raggiunto la «sua» donna. Risulta chiaro che Snaporaz non ha mai fatto veramente l’amore con lei, che mai se ne è completamente nutrito, se non nella fantasia. E stata questa la dolce nevrastenia della sua vita, la sua par­ ticolare forma di castità. La dolcezza della sua vita, la ninna-nanna del suo narcisismo, è tutta in quell’infantile rincorrere un irraggiungibile archeti­ po, talmente radicato nella sua interiorità da rendere, per così dire, «bises­ suata» la sua esistenza. Snaporaz non ha mai fatto veramente l’amore: più che impotente, o anoressico, egli morirà vergine. E nel suo sogno, il cibo, come la Donna Ideale, resta intatto, inconsumato, immangiato, intangibi­ li

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

le. È lì, ad adomare la tavola di Katzone come per uno di quei gai ban­ chetti che seguono le sepolture. In sostanza, La città delle donne rappresenta l’inventario minuzioso dell’immaginario d’un Italiano nato tra il ’20 e il ’30, degli archetipi da cui è stato «agito», dei suoi giocattoli sessuali, della sua puerilità, dei suoi ter­ rori sessuo-politici. Quello Snaporaz è proprio abitato da un poetico museo degli orrori culturali. Ed in ciò risiede anche una politicità del film: nel suo essere una confessione spontaneamente resa, al confine d’una grottesca autocritica, da parte d’un grande maschio bambino-Alice del Novecento italiano. E, se è un’autocritica, quella di Fellini, appartiene a quel genere d’autocritica che Sartre considerava come l’unica possibile: quella non imposta dal potere e dall’intolleranza di nessuno. Voler far passare Fellini per il De Maistre del nostro cinema è l’esi­ genza fanatica di gente che non ha più occhi per vedere e orecchi per intendere. Ma, lo sappiamo, i fanatici sono sordi e ciechi. Viceversa, per fortuna, diremmo, di tutti noi, oltre ad una freschissima vista, Fellini ha ancora orecchi stupefacenti. Basti pensare al parlato di questo film, anch’esso inventario e filastrocca di tutto il dicibile-indicibile kitsch che si va ambaradando in questo nostro Paese delle Meraviglie. In guisa di dubbio critico, tuttavia, si potrebbe rammentare a Fellini quella frase di Pascal citata proprio da Joseph De Maistre: «Quando si scrive un libro, ciò che si scopre per ultimo è ciò che si deve collocare all’i­ nizio». Noi non sappiamo con sicurezza se Fellini, nel fare il suo film, abbia, in qualche modo, tenuto presente un principio simile a quello enunciato da Pascal. Se, cioè, il suo film non soffra a tratti, anche visual­ mente, d’una incertezza di progettualità; se quel che Fellini ha scoperto «per ultimo» sia stato, poi, da lui, effettivamente «collocato» all’inizio; e se tale incertezza non risulti «spaesante» senza ragione. Forse non aver nessun progetto era il progetto di Fellini. Ma perfino l’attività onirica, a modo suo, è progettuale. Ed il nostro timore è che il non progettare possa talvolta portare ad una, come dire, eccessiva levità di pensiero, appena dissimulata dietro un’eccessiva e fascinosa ricchezza d’immaginazione. «Nuova Cucina», 8, giugno 1980.

142

KRAMER CONTRO KRAMER

Non ci vergogniamo di dirlo: noi, al cinema, o leggendo un libro, arri­ viamo ancora a commuoverci. Per “noi” s’intenda la persona costretta, per secolare tradizione giornalistica, a dire “noi”, come nel caso del sotto­ scritto, invece di “io”. In quel “noi” si vuole rappresentata l’unità di tutto il corpo redazionale d’un giornale, dal direttore, al proto, al tipografo. E, con audace ellissi, si vuole, in quel “noi” riunita perfino l’opinione del let­ tore, l’unica, a dire il vero, che si dovrebbe supporre in progress, in forma­ zione. Naturalmente quel “noi” è pura ipocrisia. E non soltanto perché ci sembra trasformato in uno spocchioso pluralis majestatis, che tende a pre­ varicare il lettore, quanto perché nei giornali, come dappertutto, le opi­ nioni sono sempre state discordi, ringraziando Dio, ed oggi più che mai. “Noi” non sappiamo, ad esempio, se il nostro direttore Tognazzi abbia pianto a Kramer contro Kramer, come noi. Chi può saperlo? E uomo imprevedibile, il nostro direttore, e potrebbe aver pianto come una mam­ mola, ma anche sghignazzato come un incallito seguace del pirata Lafitte. A questo proposito, tuttavia, è necessario sgomberare, e subito, il terreno da un possibile equivoco. Va chiarito che un pirata di Lafitte poteva benissimo essere un “sentimentale” e commuoversi con facilità, come dicono i rari documenti sulla pirateria e come ribadiscono gli stupendi film di pirati girati ad Hollywood negli anni Trenta. Non è detto, infatti, che un sentimentale sia necessariamente una persona, o un’anima «buona», nel senso che perfino il sarcastico Brecht dà alla parola. Il sen­ timentale è semplicemente qualcuno che piange facilmente. Egli coltiva il sentimento in sé, ed a forza di coltivarlo ne ha dimenticata l’origine, la radice. Così che può commuoversi a vedere la scena fittizia d’un film, pur restando di marmo davanti ad un fatto vero ed in tutto simile alla scena falsa. Il sentimentale piange, in genere, per imitazione: vedendo altri pian­ gere. Ancor più propriamente, egli piange per via di “identificazione”, ossia trovando in una situazione-simulacro un motivo per vedercisi. Anche i ricordi sono un buon pretesto per piangere dolcemente, amara­ mente, e perfino allegramente. In definitiva, il sentimentale piange su se stesso, per gli strati residui di “buoni sentimenti” che gli sono stati inocu­ lati da bambino, o addirittura, prima di nascere, e dei quali la “vita” s’è affrettata a dimostrare l’irrealtà; piange per essere ancora un bambino egli stesso, “incompreso”, represso, “abbandonato”, “tradito”: leggermente

143

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

paranoide; può piangere anche nel sentirsi “cattivo”, bambino cattivo, ed incapace di vera commozione, lui, che avrebbe potuto essere “tanto buono”: un po’ isterico. Per certi aspetti, il sentimentale, è come certi pazzi che cre­ dono d’essere Napoleone: egli “crede” di essere buono. Un bierre senti­ mentale può tranquillamente commuoversi ad un film sulla strage di via Fani, all’idea delle guardie morte ammazzate, ma anche al ricordo delle emo­ zioni provate da lui durante l’eccidio; al pari d’un boia, che potrà sprofon­ dare nella commozione, rievocando un suo lavoro di difficile esecuzione. Identificandosi con Jean Valjean, un sentimentale potrà, leggendo I miserabi­ li, piangere come una fontana, e poi prendere a calci un vero evaso, o orfa­ nelli, o mendicanti, o altri emarginati, e propugnare la pena di morte. Ossia: è facile commuoverci alla vita di personaggi fittizi, poiché una tale identifi­ cazione non ci costa nulla, anzi, ci risparmia, ci dispensa dalla commozione sulla vita “vera”. E il mettersi realmente nei panni di qualcuno in difficoltà ed aiutarlo, il nutrire un reale rapporto con gli altri, e con la vita stessa, che appare essere, per molti di noi, assai diffìcile. Allora? Chi piange a Kramer contro Kramer è una persona “cattiva”? Questo può dirlo soltanto lei o lui, se riuscirà a districarsi nell’intreccio fitto ed insondabile di buona e malafede di cui siamo tessuti. Noi vole­ vamo soltanto dire che le lacrime sgorgano dal nostro ciglio per mille motivi, tra i quali, uno, è anche la bontà. Un altro? La semplicioneria. Noi, ad esempio, ci siamo “commossi”, davanti a Kramer contro Kramer, per motivi anche gastronomici. Nel film di Benton, infatti, l’im­ portanza del cibo nella vita d’una famiglia mono-cellulare americana è de­ scritta con rara attenzione; si può dire che il cibo è il filo che rilega tante piccole commozioni diciamo, al pianto generale per la dissoluzione della famiglia Kramer. Il dramma di Ted, Johanna e Billy Kramer è un dramma gastronomico in piena regola, che raggiunge alla fine una vera catarsi, e ruota tutto attorno ad un toast alla francese, preso a simbolo dell’unità familiare. L’avventura culinaria dei Kramer maschi incomincia con le dimissioni di Johanna dal suo ruolo di moglie e madre. Fino ad allora, Johanna ave­ va svolto diligentemente il suo mestiere di gerente della sua piccola fa­ miglia mono-cellulare: cuoca, cameriera, sguattera, stiratrice, guardaro­ biera, infermiera, pediatra. Come dirà in una lettera al figlioletto Billy, ella se ne va «per trovare nella vita qualcosa d’interessante». Se ne va di sera, di punto in bianco, mentre Billy dorme, lasciando il marito Ted nell’in­ credulità e nella costernazione. 144

«NUOVA CUCINA» (1980)

Quando, al mattino, Billy non trova, la madre, non si mette a frignare. Il piccolo s’accontenta, per essere rassicurato, che Ted gli prepari quel certo toast alla francese che Johanna gli dava sempre a colazione. Il toast alla francese sta qui a rappresentare lo snobismo della middle class ameri­ cana, sempre alla ricerca di sapori esotici, per l’assenza d’una cucina nazionale realmente unitaria. Ma il toast, soprattutto, sta ad indicare che nel cibo risiede la continuità degli affetti; che esso, ancor più, è il simbo­ lo, per un bambino, dell’amore, o del disamore, dei suoi genitori. Nella nostra civilizzazione, fino al momento in cui scriviamo è la madre, certa­ mente, la nostra dispensatrice di cibo, cioè di rassicurazione e di benesse­ re, di certezza di vita e di piacere. Per quanti sforzi farà un padre, che potrà mai dar da succhiare al suo bambino? Ted, com’era prevedibile, davanti al problema del toast alla francese, postogli con insistenza da Billy, naufraga subito. Sbaglia dosi, tempi di cottura e a momenti incendia la casa. Se Billy avesse avuto per padre il nostro direttore, nella sua vita le cose avrebbero sicuramente preso un’al­ tra piega. Intanto gli sarebbero state trovate subito almeno altre due o tre madri. Ma Hoffman non è Tognazzi. Gli eventi precipitano. Dal toast in poi è un susseguirsi, per Ted, di molteplici Waterloo culinarie. Billy ha una giustificata nostalgia per Johanna, che sapeva cucinare, cioè sapeva dargli calore, ed è insofferente verso Ted, il quale gli impone cibi strani ed imprevedibili, cioè non sa ancora come amarlo. Oltre tutto, Ted, accettando la silenziosa sfida della moglie dimissio­ naria, si spinge in ricette complicate come una certa steak aux ognons che il bambino ricusa decisamente, preferendogli un gelato di stracciatella. Padre e figlio mangiano davanti a squallide tavole che ricordano la mensa della Rai-tv. I piatti sono confezionati nello stile Panam o Alitalia, ed anche il loro contenuto è da volo intercontinentale: il verdino fradicio dei piselli ed il giallino cachettico delle carote di contorno fanno una macchia, sullo schermo, indimenticabilmente triste. Abbiamo contato in tutto tre petits déjeuners, a base di latte freddo e sussidiarii del pane, flakes o altro, e tre, fra pranzetti e cene. Tristi riti, senza Johanna; riti completamente edipici, poiché Johanna svolgeva anche per suo marito il ruolo di madre, Due tristi edipi orfani di Giocasta. Nonostante, nel dialogo, un curioso «gazzosa-graffiti», nel quale Hoffman, per sedurre il figlio, divaga sulle bibite della sua infanzia, il clima di queste piccole riunioni tra lui e Billy permane squallido. C’è da chiedersi: sarebbe stato più “caldo”, questo clima, se Johanna fosse rima-

145

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

sta? Non è la triste ripetitività, forse, l’unico possibile clima del pranzo nella famiglia mono-cellulare? Il “teatrino” familiare del pranzo ridotto, nella sua versione moderna, a pochissimi personaggi fissi, è uno spoglio teatrino da camera, in cui le tensioni si rappresentano nude, senza possi­ bili mediazioni, o filtri, o deviazioni. Che ci sarebbe stato di tanto diverso se Johanna non se ne fosse andata? Ted e Billy avrebbero mangiato meglio, questo sì, e lui avrebbe parlato alla moglie, ossessivamente, del suo lavoro, cosa che, per fortuna, risparmia al figlio. Tutto qui? Forse sì. Ted, del resto, nel suo lavoro, è molto considerato. Egli fa il creative in un’agenzia pubblicitaria newyorkese. Ma, a mano a mano che i suoi rap­ porti con Billy si fanno più “materni”, più “professionali”, col sacrificio costante del suo tempo, spesa al supermercato, corse frenetiche all’uscita della scuola, monotono lavoro in cucina, diminuisce in lui l’energia, per dir così, arrivistica. E a questo punto che Benton fa un’incursione nel significato sociale del pranzo americano, ed introduce con acutezza il tema del pranzo di lavoro, rito assai frequentato dagli Americani e, ormai, anche da noi. Un giorno, il principale invita a pranzo Ted. Sembra un normale pran­ zo di lavoro. Finalmente roba cucinata bene, da un cuoco professionista. Alla fine del pranzo, Hoffman ha sul viso la giusta espressione post-coitale di chi ha mangiato un buon piatto di maccheroni. D’un tratto il princi­ pale gli dice: «Devo rinunciare a te». Che vuol dire: «Ti licenzio». Il prin­ cipale è un bravo tipo “democratico” e “alla mano”, invita a pranzo i suoi sottoposti. Ha un solo difetto: non tollera che la produttività dei suoi sala­ riati venga insidiata da problemi affettivi. In questo caso, lui, prima li avverte, i dipendenti, poi li licenza, ma durante un lauto pranzo. S'invita a pranzo la persona cui si vuole togliere da mangiare. Mai visto un sistema più demo-sadocratico di licenziare un poveraccio. Almeno, da noi, non s’invitano mica a pranzo, i licenziati. Una lettera e via, senza mischiare l’e­ stetica dei rapporti interpersonali, la convivialità, con l’economia. E poi si risparmia anche il conto. Dopo questo crudelissimo pranzo, che per Ted si trasforma in fiele, non vi sono più nel film, per un lunghissimo tratto, luoghi dedicati alla cucina. Si apre, infatti, la parte giuridica del film, Johanna è tornata a New York, e vuole il figlio tutto per sé. Si sente più in armonia col suo ruolo di madre, adesso che ha trovato un lavoro che le piace. Ma Ted, viceversa, nel ruolo unificato di padremadre, seppure in crisi professionale, ci sta bene. E vuole Billy tutto per sé. Non più, nel film, pranzetti omosessuali, 146

«NUOVA CUCINA» (1980)

ma un duro processo, durante il quale, in una sorta di banchetto d’antro­ pofago padre e madre cercano di divorarsi a vicenda, pur di riavere Billy (probabilmente per divorare anche lui). Qui, lo assicuriamo, c’è molto da piangere. Piange Johanna, ed anche Ted s’abbandona alle lacrime. Figuriamoci il sottoscritto. Johanna vince la causa, Billy è “suo”. Un mattino, Ted e Billy aspet­ tano in casa che Johanna venga a prendersi il figlio. È giunto il momento catartico del film. Cosa fa Ted, nell’attesa? Prepara il toast alla francese la specialità di Johanna, col brio di un grande chef, alla Tognazzi. Ora egli è anche madre, e Willy collabora con lui, con una sorta di maschile com­ plicità: intinge le fette di pane nell’uovo e le passa a Ted, che le cuoce. Il cibo diventa l’elemento catartico, purificatore, del rapporto padre-figlio che è ormai saldato. I due potrebbero benissimo vivere, ormai senza Johanna. Ma la legge è contro il padre e premia il tradimento della madre. Billy piange. Ted piange. Noi piangiamo. Arriva Johanna che, piangendo, mentre in sala quasi tutti singhiozzano, dice a Ted che non se la sente di levargli Billy. Il film finisce così, in un uragano di lacrime che ci travolge tutti. Recuperato il dominio dei nostri sacchi lacrimali, ora siamo pronti a ragionare. E vero: Benton ha fatto del cibo un uso analitico assai inte­ ressante, svelandone il contenuto simbolico affettivo. Ma egli lo ha usato prevalentemente in funzione emotiva per commuovere lo spettatore sul destino di due maschi abbandonati e traditi dalla donna. Il regista se completamente identificato nel lacrimevole personaggio di Ted, (o di Billy?). Ogni volta che vediamo mangiare, soli e tristi, Ted e Billy, siamo portati dal regista a sentirci, insieme a loro, traditi da Johanna. «Nostra madre», «nostra moglie» non doveva ridurci così. Se non sta a rivelare uno stato di penuria intellettuale di Benton, quest’uso ch’egli fa del cibo è molto ricattatorio. Ci domandiamo: perché obbligare lo spettatore a commuoversi soltanto alle sofferenze culinarie di Ted, senza mai accen­ nare, in modo onesto ed efficace, ai lunghi otto anni che Johanna ha pas­ sato in cucina, prima della fatale decisione? Tutta la questione, tanto com­ plessa, della fissità o intercambiabilità dei ruoli familiari (genetici? socia­ li? storici?), Benton non la sfiora nemmeno per farci dell’umorismo. Quello della madre è un puro ruolo biologico? Le donne hanno il latte nel seno, è vero, ma per questo sono destinate a rimanere in cucina per tutta la vita? Quanta e quale parte dei ruoli femminili non derivano dalla storia dell’economia? S’è mai chiesto, il giovane e “abbandonato” Benton, cosa

147

SCRITTI DI CINEMA E DI VITA

succederebbe della nostra economia se tutte le madri, facessero come Johanna? A parte la ristretta visione della cucina come «sacrificio» - e non come possibilità ludica - Benton è sciattamente tradizionalista anche su tutto il resto. Egli non accenna nemmeno, con pudore assai sospetto dato l’argomento, al contenuto sessuale della crisi dei Kramer. Un fanati­ co della produttività, com’è Ted, un arrivista, completamente preso di sé, che marito e amante può essere? Né la competitività di Johanna verso Ted può essere spiegata con la solita invidia del pene, o come manifestazione di irragionevole narcisismo. Questo, se fa comodo alla concezione patriar­ cale e moralistica di Benton, non porta certo alla luce i reali contenuti che sono alla base delle tante scissioni familiari e che stanno travolgendo l’isti­ tuto del matrimonio, almeno quello vissuto come ditta, come azienda, in cui la donna occupa la parte bassa. Diciamo la verità: almeno la fuga di Johanna ha costretto finalmente Ted a diventare quel padre che non era mai stato. In conclusione, va aggiunto che osservando sullo schermo i comporta­ menti di Ted e di Johanna, per esempio il loro testardo modo di conten­ dersi il «bambolotto» Billy - «È mio», «No, è mio» - viene in mente che anche Ted e Johanna siano ancora bambini, bisognosi del toast alla fran­ cese, o del bambolotto, per sentirsi al riparo della loro insicurezza. La puerilità dei genitori è, forse, il tema inconscio del film, ma Benton non l’ha svolto. Sarebbe venuto meno accattivante il suo film, e non avrebbe avuto i quattro oscar ed il successo che sappiamo. E noi non avremmo pianto. Ricetta del toast alla francese: si sbattano delle uova, chiara compresa, una a persona; si mischino col latte; vi si bagnino delle fette di pane; que­ st’ultimo verrà cotto nel burro, in padella. Per i tempi di cottura: scrivere a Tognazzi. Chiedergli, anche, se ha pianto a Kramer contro Kramer. Se sì: dirgli che si vergogni; è un semplicione, come il sottoscritto. «Nuova Cucina», 9, luglio 1980.

148

ILLUSTRAZIONI

ROMA ORE 11

VA

'

CITTA APERTA Ol 1MJICTNA1.E hi CULTURA

l.htfituf* •

fuMMAMl ChLteftU

llrdajmn*; !S|« ria del lUbaie'i A«nn |

>uurro I

ROMA



•U

L. ItoO

lurr itti

MAGGIO

I9ST

t 4 Mto

Alla ricerca dì una poetica a praMMione. co*e d'uto i-o-o u* di i**» rfw ■ n»»--jerr» im> tmi tee tato. morato • rut»-'-, dpt -etotit t>3*w. ttu?sw di «cUalc MCohos. ’VX’ *M>nuto do crynpro^eev ntonn ine». «Min o con*bo“era l'arretrato» M «Mironjute toc^o oprtGJtwiro Itdtono, le toudah rial ctorteteW^ to »o»«e tnp. rJaetox»- «to’ vor^vmtono v«g «ma lo-w un 'agio • d» tondorda • Tenderà « par anzitutto in mttuta ad Il Ut* to detto rotor• intanatemi ad ambizioni Hot nem pretondo”»:. rod. A tùtym»’ •ota “.«rg to c.hxn • e^jagar • né »m gena tur», non pretonrt.vn» t> nw« u« ponto va taccim • । gavoni

«do • tendenza • Mjnrf-g ocufta, par txM. un rv>>> porttc-j1 eva di aRror^a»» • >K•era i to- earola facile prò riportare qualsia ri disco m>, rapàtMMim» mento : è un vnlalcro i mt * ri cafri k Filò imi tarn non soli» 1? perni? ma perfino l’idcr altrui f un papagallo politico. Nera A raro, nutihra in ogni par tira. Gl 0710 SAC «IFA-NTr

6. «Città aperta», 2, 10 giugno 1957, disegno di Renzo Vespignani, Solo un giro valzer.

CITTA APERTA QUINDICINALE DI

/ricettore

Touunaac* Chiaretti

Redattone

1S1, via del Habinnci

Sono t

ROMA

Numera 8

28

.414 UMM L

CULTURA

Lire ICO

GIUGNO

IWT

reriraU*** l 4 Pto

Il fantasma del Cardinale Filma di etui (BlCMM tHUM vi * mb discorro Pii «Driil rtlvm* tal vuol posai. E pensa di ap­ pellarti al Conti (Ih. di «lato. alla «rat* Iteli 1 urianate K chiede ed ae­ rei ta la toil darle 14 del tuoi ralle(Iti di lavoro. t rai ■ tanna le roar K polche noi dichiariamo -1| marre dalla parte di Luiolilonl piai lutto thè da quell* di Felli ni vogliamo bnu marre train tetti 0 attui rotte dice rame non ♦ no dtroorro «ntla poetica, non 4 I appoggi-* ad una leudenaa pi al­ lot La ehr ad iuta altra ad una pertonalite di aritela pini tot in rhr ad «n altra. Uh» aerato ha, ana dtebiararian* di oinrpalia cono* questa* Hi tratta, ihnanri tutto. di scegliere tra li confo», miacno r II ceracelo. S4 tratte di teeCiterò tra la legalità r la malta te*4a palitene

I fati! *»nu troll Bocoll V| era la dltcuMterx -*na mollane 41 tolldarteth eoa Antonioni, e d’un tratte al r aula il la ad ana rara Al > d-atln ruo • di aottlrileeae e di elefanti ri­ tirate. Uomini come De ?»an ila a Fri Icrrinl dei qW»h non è lecita mettere la dubbio l* rombai liriU e la teal la d'-mo*Irate in molte oecaa’nni, «t ni* «ri»aito «va queai rertnCr.«>»i di evmpteee un «roto, quaa timo tool « una «rollatura la puaitlnnc loto, e«pie« •a tei modo raptìnte era «tirate « «la •no dtepoatl a daro «ani roDdanri* ad Antonioni, ma rocttemu darla «ul concreta, ««(aam.' clod prlr-u rodere il amo Alita per 1 chetino e ** alS'fetmtc. al pardi* u amano certe immagini- etrti P*’ d altri. D noairo lavoro * un continuo inroatro us un* tpeefe di circuito vtin ruatmù. tra emotivi Cromi ed ideai, r mo Uri istintivi « queata e la reoparla p.h ■ ttxjtfero* • tire abbiamo fallo rw| rea lieti UGO ATT.UU»

Ir» Attardi: laree ire di bew - 1»? 'arsati» ri*-

8. «Città aperta», 3, 25 giugno 1957, acquafòrte di Ugo Attardi, incontro dì boxe

9. «Città aperta», 3, 25 giugno 1957, in alto disegno di Renzo Vespignani; in basso xilografia di Franz Maserel.

afte anlk^ra» «tei produttori Malto »o* M am mal wtiflto • pmprto *p*i VnU’i P«"*1 iU tn arnw actrto i»W A attrita rttk Qud wlttno. ad Minute* CuAueri cat* «ottani» * luettau da4 *i«n ««poab lami l«ar» Seduto m m« divans, i»Cfr»« tuia n»teta. dal 4 «opra dew krai a pmce^o. Mario «adatta. prwa atafargil mu rt‘UU • di rotta» hi a mia» ad ouraui 1 wetata to* rirortefv cM ioaw. ft*»» a aver* urtctotto at ■Mani'aatU Dali* ««aaa della aai afte a

  • nata nwc i' ... ita la Ftadru* ■»■*•*• dieta, slUeantto qurika frate «raterr» 5 rwntk» di Mi. potuniv . a la M tHwà frtibiUr.. ». ditta Manu D «rata) ai tabe (li «cvWl a In fitte |*.

    “Penavi;» il cincnu fotse esibito sul piano commer­ ciale nel 1905» forse Munno-

    lini farebbe stato attirato

    più

    dal

    cinema

    che

    dal

    giornalismo» e I* Italia avrebbe avuto una Cabiria

    e

    ai

    sarebbe ri»

    spanciala

    il

    fascismo*

    in

    più

    « State Inguai ftatao» • • Non «tata |v« iymi wubo dw te ito» poa«a ricontarli », bar Marta in turai luciplmw tao: e Siete «tata < on 1*tannin. rem Tarasi. Alate ancia Callo • «ter* II «acctaa « M fianta» latto far» ta guarita ;ra tutte te Via. Dteart» é -upoiXw, rr A~ia mila L o.«ila. ritte «patte te ter»* btw. lacvunargh tara 1 r.sriiei-ioll dei te guarì * R -w-rrmw-r» ai iWMtrmr di pniu Al maral»», I» b MA frr mata li •. Marta tua. • Oh. A*aarUlnl t ua «mm rtmp»iteu L-n pò matto ». outuuii 1 a Chi ta ta aar««>le to^uH j (ter «anWbe tndiu lirr* qte nquliiro? Lar- *«'>anir ala nuka. «ratea |» J tu w*a drd* AUjpwnru. i;um»ì datanti al c-aiino » I UMiefr «i attarru» • II «.(mu Zmvta ». Mario M alta r ti rUn» mi sarchio »lfM (radagli ta mauu • MI JuptaO». .4 ria»tea • • • •

    iuvJu

    < Nw. ca|»ilr niente IKa-mta rtagm^.r

    puma sta . • Qta lutato Or «viete • mnnnrmr U '«puàiteuta cr* itatmc «tene «ha g|l (Mia di fr-mte * ù «ratti* d>tt-urta » a«ei« riputo ita jtaetetoldl (Il dai a magtaor* ik-urrtta Corbmxi MPate il roptmr. ♦ Qu, tj «nm, •luaitn: r-Utaul K r«ra .'e «ma ante »Atn.ta dte «ad» bmr K il diatopo d-vn«-rtLr l«Ua nn.4Mk»«

    LW rrwlllu» » mipf» |HK

    fwrua

    rfBT

    (wu.tattl* uril'^ifertr* Jhrttxiw*» >{11 p 4» 4MteLn : frutti tteU eapartenza tohlù affate di eruppi ruma quoto di . Corrente » la aroperu di un Pìcmmi democratica, non potevano rolinare i ruoti eparer loel di un poeta prortrinale oocc* l'Italia. dv»e -A manninta di una cui luta naaum&Je-pupulare * fin troop-.nu» iu quel, esperienza tu preataaa inllaulcoe noe fu abbacano» «Stap­ pata nei ribaltali per nutrire e neoiten*r» la turoMita vme.rezlan* • po­ ta* da.tr la ball a un nuovo '«luguac«iu fi rur»U «t L equivoco fu di creder» tu una partema rte iwc. oltana » di cam ter* rr in conto tuflUier-U U va-ore di una rveerfca fotte p.U .vctradditorla. ma re.'tastala piu valida In quanto at­ tenta a tutte le eepreeaootU poaitive • De' ■ ‘ ■ IM avrebbe racftuntc una ptb reUOa uni là pcwur» eoa i nuovi coni- nati Capire qatji» cure iirtu&a w to» rtr.no Ture con nuova ronMperìrites-a la mia pa riecipaztane alla rvrrca reaUMa. 1 miei eniuHaamL le true deluaiunk le rsue conqu-U*. fx>o naautl ne! pia vi retto letama mci le ilfiraiaiwi'. e la contnaddimni dei saliamo mul­ tante Per quarte otti per me i urnta.pltuia re ir. qj*M* atona di molti la mia Merla pefienale Qqgi li tnn avorn prwede cor. piu inai-tA e pwerna alia .'ìeert* di un mordo m» -ertamente meno alSueinanlr net attenti ma cvrtanxnte piu au­ tentico nel multali Mi aere» una aolida mnviruoooe critica e con una re­ ne di tema «uur4at« I'mtKWi ln*»ttui talltath^

    S.m. aeirhe it aonrrtn ..« .0. vnnrto tpl pr.u, ,> tai (Ml Irhi ri ttxrrbbr pM^t r • „ di «xaUmute Jedr Iran gta g*« d gruppo degli « oOu • «Via *Uatin> (.«Ian mm • ilul* • • «* la lMU« «ll»ep«*4aje> .1 riMuelta di IterralB ita, a .«aLaw»*. . -*!**.>. (he l'klaai* detta «mi te, iti* pun tal tu luma » ttwdi dl-r-tvl l**« c* !U. ptetbi (Wvpaxuiatta... -eli* Ino. Itriu'

    Ma «ntn. queue line* t*-1 manii jltta>mai u«-a di v^art*>M*M «r»na nttrita, r«r uirlla, 1 w* imi la itteliiltaiam. hi igtevria-ti «lei vte«Mi «ttnau- * . 'otte IMO - *Vpnr. « the |tnn«« «In» -e tentate «tali‘anitra aia II ibnrew «tal «uaùn lei noi" pù Mulatarete dupemin, r petru'i ,«-fictuc. neH'oprra, I umtallo » l'au«^kitr. lente, puf Wn.inàu Iulia I Mr*i< utt'altm ■ rio h»ta -«aita, iiuert* I«*rr «MI* tmhe |«e unta II dratrma ifi •|Mtwia iha u-'ettwianll mi aauKea» «tatterrM atta irta litri ih4* tiHiariMate in «*i*. pnuettatl d* U> »* fatti» to paratill ul , «tettami n> ftr»«*i to U» littfeun to mi » Afieeattao » ranco y. । (tri cm ghort toll* prmluxKme europea ir* 4 qu»r*btalr» ».l li q-atahtaeuiq'.a n confronto di ratei» at m imsaziona,» »d li risaiUi rar. cm ipier* v* tom riti* aperta tai* to enunstatuartweto * du» graum in tl n«nnda; qu»U* u in ricanta pnr«? ertorneale I2.peg.-ialutenti at mot: r**-l togli u«nim e I *1 ti* a un prJcr.Oo r «4h*«mw r*n»g g_*n»entv cuiturattMUu >ua rrUto. eoruiuita teurEKO di un* • Una fast • to. men.* ma nun par mattat» qusti* apart* it* fforaa ritta aperta, quanto *.taua Ai Lrs rar**r» del nostril paese sfuggutu. *1 *»tu probi» ma tol ctBrffi* italiano il prcL.ftra so •tarmai» quello la cu. naatra t .tic e -he !» aperto con i •pe-axione prona di »lefasttrranto >e.M «l tuttora Liduttnxli • Ei ih raMraxtohe ktooie concepita » al­ ti* a* Otuto ASdreMil II %ual» bum poteva Ign orar» che la attorni uh» to la itomita. I laraccbtomrni □ a morta Kur a ina- 1* MSfa.-f* del pr*j6.'»x3Lt ' i» n» per le peli icnotou poien» u ien densa a rc.-.sidcnira E rtnema come frnnmenu artistico o tur. olptoi ULSuurta te t *n.ut* ipslto che Itodas their.* Il •» la n.mgii-'imi* tol eri!lei e togli wuTTiml di conuiM Warm il rtaenu • nella reali* un grosso f«QOCMlta — u|ir» - »z attlto'.-u »3Lh» politico pub hi»*, che laer* tri» raw pilliir i • tlr-anx.sri' «x*nasi, pei tuspioporvu nau a quelle .'he airviebtsiu «toera I tur ésnmslnnl »;»ra l in uà» «OCke-A totht eapttaùàlira — pii pmgradrta Il potere pelvico talvolta a&ch» quahn 4ei«r.uto dall» Ione tol p.ogra*f>- non ama a. run genera al rrr.nfivs'nenin auv ratotritura* tal» eh» pua-a ihrat. iarurr.-t» m* anche molto inihratu msntr mntora sa una »pea*m«tr.» il **Min di nuu» iF uniatnuUr-* * questo pratosi tv I *‘«»ns* in |t*J* ài an cinema piU» rt-.au.-ti • » iprciftrarxrt» rattolzu In un puaae cath-oicn per anionumaA.» e (uveinato da t^rae poltvuhe che ai u* dtiomono a! raiUMt-rasimu, una t**e •. j»nza larablx uuptegoUi» t» nuu ti ic ne*t» onto della ngoroea ai.litonx* Il .tu gv-*m* »»r» ugni frema di « ptublematieu* » amba mtot^ra, anche l -aa a portar* arami alea eh» euit u osai maxi u aOSmtiwr» li4eu.isnu; *1 rabbatto poro * span.r» * k cium tol I ultstoi bua dt reumi i AU« citante » «stu-pra juu mph-i-a Ululi» ai sb-Lkamenti to: cinrtru a* ruma* 4* pan» < eezmni Cali arte, e .1 tinaomo p>u r» Itoli t» di quarta il rra«>ra*lusm » qtfMlo x| f* reo» e mal hi lori rtem piu feiiliiniitl Morra • rara » macchina da piraa in meno alta stiuda «re ect La taorissazifme attraila runouc» *4 -n*

    16. «Città aperta», 4-5,25 luglio 1957. Cesare Zavattini e Vittorio De Sica in una foto scattata da un fotografo ambulante all’epoca di Ladri di biciclette.

    17. Salvo Randonc c F.lio Petri cimante la lavorazione eli I giorni contili!.

    18. Salvo Randone e Elio Petri sul set di I giorni contali.

    19. Alberto Sordi e Elio Petri durante la lavorazione di lì maestro di Vigevano.

    20. Claire Bloom. Charles Aznavour e Elio Petri sul set di Peccato nel pomeriggio (epi­ sodio Alta infedeltà}.

    21. Elio Petri c Ursula Andress sul set di La decima vittima.

    22. Occupazione elei Centro Sperimentale eli Cinematografia nel 1%S. Si riconoscono da sinistra, Giuseppe Rotunno, Marco Bellocchio, Elda fattoli. Lino Miccichc, Elio Petti.

    23. ( kcupazione del (dentro Sperimentale di Cinematografia nel l%8. Si riconoscono eia sinistra. Marco Bellocchio. Elda Fattoli. Pier Paole"» Pasolini, Lino Miccichc. Elio Petti.

    24. Franco Nero, Elio Petri e Vanessa Redgrave sul sor di l in tranquillo posto di cam­ pagna.

    25. Franco Nero e Elio Petri sul set di (tranquiUo posto di Cil

    Ci.

    26. Gian Maria Volente, Elio Petri e latici Diberti sul set di Li disse oiìeniia ne in iwadiso s

    4

    1

    *

    27. Elio Petri e Gian Maria Volente sul set di Indagine sa un cittadino al di sopra di ogni so­ spetto.

    28. Elio Petri. ( Zink per

    ellisse operata zvz in paradiso.

    2Ld La consegna della Palma d’oro al festival di Cannes del 1972. Da sinistra, lean louzet. |can-( .lande Brialv. (dina Lollobrigida. Alfred Hitchcock. Robert Fabre Le Bret. Elio Petri, Francesco Rosi.

    30. llavio Bucci, Daria Nicolodi e Elio Petri sul set eli L