Val più la pratica. Piccola grammatica immorale della lingua italiana
 9788842089292

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Economica Laterza 544

Andrea De Benedetti

Val più la pratica Piccola grammatica immorale della lingua italiana

Editori Laterza

© 2009, Gius. Laterza & Figli Nella «Economica Laterza» Prima edizione 2010 Edizioni precedenti: «i Robinson/Letture» 2009 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel luglio 2010 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9407-4

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a mio padre, mia madre e mio fratello, che mi hanno insegnato a imparare

«Due cose l’esperienza deve insegnare: la prima, che bisogna correggere molto; la seconda, che non bisogna correggere troppo.» Eugène Delacroix Diario

«Non è prudente e non è proficuo dileggiare chi sbaglia. Non è prudente, perché nessuno può mai sapere quanto sarà grosso il prossimo errore che farà egli stesso. Non è proficuo perché il dileggio richiude bruscamente quello spiraglio che ogni errore apre sulla parte nascosta del mondo, bella o brutta che sia.» Stefano Bartezzaghi Anno sabbatico

«Errori di grammatica lei non ne fa, e senza errori non si ha mai felicità.» Bruno Lauzi, Roberto Carlos Dettagli

«Si sbalio, mi corigerete.» Karol Wojty¢a

Introduzione

Sarà anche vero, come si sente dire in giro, che l’italiano si sta imbarbarendo, che gli incolti lo inquinano, che l’inglese lo corrompe, che i giornali lo mortificano e che la televisione lo umilia, ma non c’è al mondo esercito più feroce e agguerrito di quello che ogni giorno – dalle cattedre scolastiche, dalle rubriche della posta su giornali e riviste, e ultimamente anche dai blog – presidia la frontiera che separa la lingua ‘buona’ dalla lingua ‘cattiva’. Una legione di insegnanti, vetero-puristi e neo-cruscanti impegnati a vario titolo in battaglie quotidiane contro i tanti subdoli nemici che metterebbero a repentaglio l’integrità della lingua di Dante: il «che» polivalente, «lui» e «lei» usati come soggetti, le «dislocazioni», gli anacoluti, la scomparsa del congiuntivo, la punteggiatura approssimativa, l’eccesso di anglicismi, le ripetizioni, e molto altro ancora. A ispirare e a sorreggere queste devote sentinelle di una lingua ‘buona’, la fede cieca e assoluta nelle virtù salvifiche della Grammatica, entità quasi metafisica che tutto spiega, tutto classifica e tutto dispone. In realtà la grammatica – con la minuscola – spiega molto ma non tutto, classifica in maniera non sempre soddisfacente, e quanto al disporre, non è che la gente le dia IX

sempre poi così retta. I linguisti in qualche modo se ne sono fatti una ragione e lavorano con impegno per rendere meno imperfette le loro teorie e le loro descrizioni; sono le persone comuni a non rassegnarsi e a invocare l’intervento di qualcuno o qualcosa che metta le ganasce a chi si ostina a oltraggiare la lingua. Questo libro, in cui si cerca di ridefinire il concetto di errore, di aggiornare la nomenclatura e la dottrina grammaticale più obsolete, e soprattutto di riabilitare, attraverso gli esempi, alcune presunte devianze dalla norma, è diretto soprattutto a loro. Nella speranza che imparino a prendere meno sul serio la grammatica, e soprattutto sé stessi. E tuttavia, chi pensasse di trovarvi provocazioni gratuite, idee eversive o pericolose forme di relativismo linguistico, sarebbe fuori strada. A dispetto del sottotitolo, infatti, l’intento del libro non è quello di destare scandalo, bensì di far riflettere. Le cose che potete leggere qui sono le stesse che hanno scritto e scrivono tanti linguisti più illustri e qualificati del sottoscritto, e del resto sarebbe stato stupido da parte mia sfidare, oltre al sentimento popolare, l’intero gotha di una disciplina solida e matura per il solo gusto di spararla grossa. La differenza sta nel fatto che i linguisti ‘veri’ queste cose (se) le dicono dall’alto della loro erudizione, mentre io proverò a spiegarle come le spiegherei al mio gatto se nella sua proverbiale curiosità dovesse mai interessarsi di grammatica. Di immorale questo libro ha dunque soltanto il tono e il gusto un po’ perverso di punzecchiare i puristi della domenica dove fa più male e di immaginare le loro facce inorridite X

mentre leggono la difesa del «che» polivalente o del «lui» usato come soggetto. Avrete notato che il libro è scritto in prima persona. Dappertutto – nelle scuole, nelle università, nei giornali – si raccomanda di non usarla per ragioni di modestia, di eleganza e di obiettività. A costo di infrangere il primo di una lunga serie di tabù, io la userò lo stesso: in primo luogo perché non la considero più immodesta del plurale maiestatis né più inelegante della forma impersonale, in secondo luogo perché questo è (anche) un libro di opinioni personali, che in quanto tale non ci tiene più di tanto a risultare obiettivo. Anzi, usare la prima persona mi permette di assumermi la piena responsabilità di ciò che vi è scritto e soprattutto di come è scritto. Ma c’è anche una terza ragione, forse più importante delle altre, per cui ho scelto la prima persona, ed è il fatto che in queste pagine si parla del sentimento del parlante nei confronti della propria lingua. A questo sentimento, da buon linguista, cercherò di contrapporre soprattutto la forza della ragione. Siccome però so che non sempre basterà, qua e là esporrò anche il mio, di sentimento. Che non pesa più di quello di chi leggerà questo libro, ma neppure di meno. A quel punto, se non altro, ce la giocheremo ad armi pari.

Val più la pratica

1.

Totem e tabù

Ditemi pure che sono strano, ma a me da piccolo la grammatica piaceva da morire. Mi piaceva scrivere paginate di coniugazioni verbali, dissezionare nomi e aggettivi al microscopio estraendone radici e desinenze, classificare le parole in articoli, avverbi e congiunzioni, come altri bambini più sani di me facevano con le farfalle o i fossili. Non ero – e non sono mai stato – un secchione. Però mi piacevano i giochi, e la grammatica, per come la vedevo io, era un bellissimo gioco di incastri, pazienza e precisione, come il Lego e i puzzle. Poi arrivarono le scuole superiori, un’altra età e un’altra grammatica. La vita cominciò a sembrarmi opaca e piena di contraddizioni, e l’ambiguità di quella ‘nuova’ grammatica, tutta analisi logica e prescrizioni spesso incoerenti e immotivate, corroborò tale impressione. Mi avevano assicurato che tutte le frasi erano dotate almeno di un soggetto e di un verbo, ma io trovavo in continuazione enunciati orfani di mamma o papà. Mi avevano spiegato che il soggetto «fa l’azione», ma io lo vedevo spesso subire inerme i colpi impietosi di verbi come «cadere», «soffrire» o «essere picchiato», di fronte ai quali non poteva agire e tan3

to meno reagire. Mi avevano garantito che conoscere la grammatica era importante per imparare a scrivere meglio, ma io continuavo a prendere cinque e mezzo nei temi in classe anche se ero in grado di distinguere il complemento di specificazione da quello di materia. Mi avevano insomma fatto capire che la grammatica aveva una risposta per tutto, ma quando avevo qualcosa da domandarle mi sembrava che lei per prima avesse le idee piuttosto confuse. La grammatica, che mi aveva attratto da bambino per la sua geometrica precisione, stava iniziando a rivelarsi molto più astratta e imprecisa di quanto immaginassi, e più diventava imprecisa più mi appariva paradossalmente pedante, e più mi appariva pedante meno mi piaceva. Forse era solo una questione di età e di nichilismo adolescenziale, visto che non capitava soltanto a me e visto che ai tempi anche la matematica mi faceva lo stesso effetto. Ma forse c’era anche qualcosa d’altro, in quel voltarle le spalle: qualcosa che aveva a che fare con il suo carattere non sempre ragionevole, col fatto che mi sembrava un catechismo ancora più dogmatico di quello vero e senza neppure la prospettiva di una redenzione della lingua che giustificasse il sacrificio di studiarla. Per la riconciliazione dovetti attendere gli anni dell’università. Lei smise di fare la petulante e riconobbe i suoi errori. Io mi scusai per aver dubitato di lei e ricominciai ad amarla nella sua grandiosa incompiutezza. Perché se c’è una cosa che ho capito, riavvicinandomi alla grammatica in età matura, è che è piena di imperfezioni. Ne elencherò alcune: 4

1. le regole grammaticali sono piene di eccezioni e di irregolarità (vedi le coniugazioni verbali); 2. molte regole hanno formulazioni vaghe e imprecise (vedi la definizione di soggetto); 3. alcuni fenomeni della lingua non sono riconducibili a regole, al massimo a regolarità (vedi l’uso delle preposizioni); 4. molte regole variano in funzione dello spazio, del tempo e del contesto (vedi la differente distribuzione d’uso di passato prossimo e passato remoto tra il Nord e il Sud d’Italia). In generale, alla grammatica non si può chiedere troppo. Le si può chiedere a che cosa servono le preposizioni, ma non per quale motivo si va «al cinema» e «in discoteca»; le si può chiedere la coniugazione del trapassato remoto ma non per quale ragione la gente non lo usa quasi più; le si può chiedere dove deve cadere l’accento su una determinata parola ma non perché i parlanti dicano indifferentemente «èdile» e «edìle», «mòllica» e «mollìca», e così via. Poi, conoscendola a fondo, della grammatica ho capito anche un’altra cosa, e cioè che è meno spigolosa di come la si dipinge e di come, in un certo senso, la gente vorrebbe che fosse. Al contrario, ha un’indole relativamente mite e un’intima – e apprezzabile – vocazione al dubbio. Il problema è che i parlanti più scrupolosi, da lei, si aspettano responsi chiari e univoci. Vogliono sapere se sia giusto o sbagliato usare «lui» anziché «egli» in funzione di soggetto, quale sia l’ausiliare da usare con i verbi «potere» e «dovere», se si possa incominciare una frase con «dun5

que», «allora» e «quindi» oppure no. La grammatica, secondo costoro, deve enunciare verità, non seminare dubbi; indicarti la strada, non metterti di fronte a un bivio; separare ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, non consentire rapporti promiscui tra l’uno e l’altro. Quando qualcuno, magari un linguista, prova a spiegargli che la grammatica – in particolare una certa grammatica di tradizione scolastica – è spesso incoerente e inaffidabile; che non si può ridurre tutto alla dicotomia giusto/sbagliato ma esistono tante sfumature intermedie di accettabilità; che alcune regole tramandate di generazione in generazione addirittura non esistono; che non sta scritto da nessuna parte che non si possa scrivere, e soprattutto dire, «il libro l’ho letto»; che la lingua, come scriveva uno dei più illustri presidenti dell’Accademia della Crusca, Giovanni Nencioni, «esiste prima della grammatica e spesso nonostante la grammatica»; quando – dicevo – qualcuno prova a spiegargli tutto questo, la loro reazione è insieme di delusione e di incredulo scetticismo, come se un prete gli andasse a raccontare che Dio non esiste. Ora, la questione non è se Dio esista o meno, ma se la grammatica possa essere considerata un’entità immutabile e trascendente, se l’essere derivata, come è il caso dell’italiano, da una storia letteraria sublime possa conferirle attributi divini. Ebbene, la risposta è: no, no e no. No perché la lingua, anche se la tradizione cerca di fissarla in un canone «definitivo», non cessa mai di cambiare. No perché molti di quelli che la vulgata grammaticale considera errori – dall’anacoluto alla concordanza a senso – vantano lun6

ghi e nobili trascorsi letterari. No, soprattutto, perché la grammatica è innanzitutto un dispositivo di funzionamento interno alla lingua, non solo la sovrastruttura che le si costruisce addosso. Proverò a spiegarmi con una similitudine sportiva, perché mi sembra che possa illuminare bene la questione e perché non vedevo l’ora di parlare di calcio. Orbene, se giocate a calcio o lo seguite, saprete che esiste un regolamento che enuncia una serie di norme e stabilisce determinate sanzioni per chi le infrange. Sgambettare involontariamente il rivale è penalizzato con un calcio di punizione, commettere fallo di mano in area viene punito col rigore, tirare un calcione all’avversario mentre la palla è lontana comporta l’espulsione. Immaginate però che un giocatore afferri la palla con le mani e si lanci verso la porta avversaria come un rugbista. Come si comporterà l’arbitro in quel caso? Dovrà espellere il giocatore, d’accordo. Ma prima di espellerlo rimarrà qualche istante attonito e pensoso a riflettere sul fatto che quel gesto non è un semplice fallo, ma qualcosa di più: è l’infrazione di un principio, di un patto costituente – «a calcio si gioca con i piedi» – che sta alle fondamenta del gioco e che viene osservato dai professionisti come dai bambini che giocano con una palla fatta di stracci. Ora trasferite la situazione dal campo di calcio a quello della lingua. Osserverete che anche lì ci sono varie tipologie di infrazioni, dalle lievi trattenute (gli errori di punteggiatura) agli sgambetti veniali (il classico «a me mi»), fino ai calcioni a palla lontana (la maggior parte degli errori di 7

ortografia). Ma oltre a queste infrazioni diciamo così codificate, ci sono cose che a nessuno, nemmeno al più incolto dei parlanti, verrebbe mai in mente di scrivere o di dire. Per esempio: «l’ho dato a egli» oppure «arrivo per mezz’ora». Frasi del genere non sono neppure catalogabili come errori: sono autentiche bestialità, sono l’equivalente del giocatore di calcio che corre per il campo con la palla in mano, sono, in definitiva, sequenze che nessun italiano madrelingua potrebbe mai pronunciare. Tutto questo per dire che un conto è l’infrazione di una convenzione, che produce al massimo una sgrammaticatura, e un conto è la violazione della legge naturale di una lingua, che genera espressioni agrammaticali, collocando chi le enuncia al di fuori del perimetro dell’italiano. Ma il punto non è nemmeno questo. Il punto è che la grammatica scientifica non si preoccupa tanto di prescrivere quanto di descrivere, analizza cioè come i parlanti si comportano nei fatti, non come dovrebbero comportarsi. Ne consegue che il compito del linguista non è quello di irreggimentare la lingua ma solo di capire come funziona e di darne una rappresentazione. Dunque la prima domanda che gli si deve fare non è «si può dire questo?» o «è giusto quest’altro?», ma solo «come funziona?» e «perché funziona così?». Poi, sulla base di questo, può anche fare il consulente di etichetta (si fa, non si fa), ma non è quello il suo ruolo primario. La cosa dovrebbe risultare sufficientemente chiara, ma non manca di generare qualche confusione. In particolare, i paladini del buon parlare e del buono scrivere sono vitti8

me di diversi malintesi: confondono la sgrammaticatura con l’agrammaticalità, sovrappongono il concetto di «bello» all’idea di «corretto», scambiano le loro idiosincrasie personali per errori inaccettabili. Soprattutto, considerano soltanto la dimensione normativa della grammatica, trascurando colpevolmente quella descrittiva, che è come se pretendessimo, per tornare alla similitudine di prima, di illustrare a qualcuno le regole del calcio senza avergli preliminarmente spiegato che si gioca con un pallone. Questo sbilanciamento verso una grammatica di tipo normativo deriva, come accennavo nell’introduzione, da una diffusa preoccupazione per le sorti della lingua italiana. Una preoccupazione senz’altro lodevole, come lodevole è l’impegno per cercare di contribuire alla salvaguardia di qualcosa che, nel bene e nel male, è quasi l’unico retaggio di un’identità comune. Solo che quando i signori di cui parlavo prima si mettono a tempestare le redazioni dei giornali di lettere indignate e apocalittiche sul destino dell’italiano, a creare associazioni per la difesa del congiuntivo o del pronome dativo «loro» (su Internet ne esistono varie), e a trillare come metal detector impazziti ogni volta che rilevano un congiuntivo mancato a meno di due metri di distanza, rischiano di apparire – come dire? – un tantino integralisti. Così integralisti da diventare – scriveva sempre Giovanni Nencioni – «più cruscanti della Crusca», cittadini di un «paese iperreale» (questa invece è di Stefano Bartezzaghi) in cui la grammatica della gente comune è, almeno nelle velleità, molto più rigida di quella che propongono i linguisti di mestiere. 9

Un catalogo ricco e variopinto di tali velleità è rappresentato dai quesiti inviati alla «Crusca per voi» (la rivista di consulenza linguistica editata fino a qualche anno fa dall’Accademia della Crusca) da cultori e appassionati a vario titolo della lingua italiana, che si rivolgono al grammatico come ci si potrebbe rivolgere al dottor House o a Nostradamus, ottenendone però risposte non sempre all’altezza delle loro aspettative iper-puriste. Ecco alcuni esempi di tali quesiti: «Si può cominciare un periodo con ma o però?» «Perché non si insegna a sostituire alle forme scorrette degli imperativi fai, vai, dai, stai le corrette forme grammaticali fa’, va’, sta’, da’?» «Dicendo ‘in casa di X ci sono dei bei quadri’ non si raddoppia l’indicazione del luogo perché ci significa lì?» C’è quello che domanda, quello che condanna e quello che avanza proposte. C’è quello che vagheggia una lingua bella, quello che la pretende corretta, e quello che si accontenterebbe che fosse quantomeno logica, suggerendo allo scopo soluzioni improbabili come l’abolizione del verbo «suicidarsi», in quanto tautologico. Il problema è che spesso nemmeno le spiegazioni e le rassicurazioni degli esperti riescono a tranquillizzare i neocruscanti, che si comportano come quelli che vanno dal medico perché vogliono sentirsi dire che sono ammalati e non si rassegnano fino a quando non ne trovano uno che certifica la loro malattia – vera o presunta – e li riempie di placebo. 10

Addirittura, come osserva Luca Serianni, c’è chi per eccesso di zelo (e di presunzione) critica gli usi linguistici degli stessi accademici, un po’ per il sommo piacere di prenderli in castagna, un po’, soprattutto, perché molti si ritengono altrettanto «abilitati a interpretare la norma grammaticale». Ora, immaginatevi la scena di un insigne storico della lingua costretto a replicare a un lettore della «Crusca per voi» che lo bacchetta per l’uso troppo parsimonioso delle maiuscole (tutto vero). Ho provato tra me e me a figurarmi situazioni simili: un giocatore di calcio che ammonisce l’arbitro; un alunno che porta il professore dal preside; mio figlio quando si mette a spiegarmi i film che vediamo insieme; un proprietario di reti televisive che si lamenta perché i suoi stessi telegiornali ce l’hanno con lui. Poi mi è venuto in mente che tutte queste situazioni le ho vissute (il prof portato dinanzi al preside da un alunno ero io) o viste su YouTube, e ho capito che nessuna evocava in me un’idea di rovesciamento della realtà e dei ruoli più vivida di quella dell’anziano linguista accusato di eccessiva modernità da uno sbarbatello (nel senso dell’esperienza) amante delle lettere, in particolare, appunto, delle maiuscole. A questo punto sorge spontanea una domanda: ma se i neo-cruscanti sentono una necessità così imperiosa di stabilire una norma univoca, e se nello stesso tempo non si fidano del tutto dei linguisti di professione, considerati troppo lassisti e inutilmente eruditi, a quale autorità in materia, a parte il loro sentire, si rimettono? La risposta ce la suggerisce di nuovo Luca Serianni: 11

Il lettore della «Crusca per voi» è sensibile all’autorità di dizionari e grammatiche, ma in primo luogo (...) alla norma linguistica interiorizzata, così com’è andata stratificandosi non tanto sulla base della propria esperienza di parlante, quanto sull’immagine di lingua che si è formata soprattutto negli anni di scuola.

Insomma siamo tornati al punto di partenza, alla grammatica-catechismo che si impara come un dogma di fede e che ti educa a considerare l’italiano come una reliquia intoccabile. Talmente intoccabile che quando diventi adulto e cominci a interrogarti sulla lingua per passione personale o per mestiere (magari fai l’insegnante pure tu), sei ormai prigioniero di quel format mentale, che a quel punto contribuirai a perpetuare a tua volta, in saecula saeculorum. Aggiungete il fatto che la maggior parte degli insegnanti di italiano ha una formazione prevalentemente letteraria ed è abituata a considerare la lingua come ancella della letteratura, e capirete come mai i linguisti di professione siano destinati a rimanere fatalmente esclusi da questo circuito. Ciò premesso, va però riconosciuto che a scuola la grammatica è normativa più per necessità che per scelta esplicita. «Bisogna che imparino a rispettare delle regole», si lamentano gli insegnanti quando sentono questi discorsi, e in quei casi mi rendo conto che pretendere il rispetto dell’ortografia o delle regole più elementari della sintassi non è una forma di autoritarismo ma una doverosa battaglia sul Piave che separa la tolleranza dall’anarchia, la libertà espressiva dall’incomunicabilità. Quello che non riesco a capire, però, è da un lato l’accanimento con cui vengono puniti certi non-errori (l’omis12

sione della «d» eufonica, l’impiego di «e» o «ma» dopo un punto fermo, talune ripetizioni del tutto legittime), dall’altro l’insistenza di alcuni a voler spiegare la lingua usando categorie descrittive vaghe e fini a sé stesse, che non aiutano quasi mai a capirne il funzionamento e spesso confondono ulteriormente le idee: penso alla definizione di «soggetto», a quella di «verbo», all’inutile smania classificatoria dell’analisi logica, tutti argomenti su cui mi accanirò nell’ultima sezione del libro. In tutto questo avrete notato che, con pochi colpi di scalpello, ho dato forma a un personaggio: un personaggio iper-dogmatico e pieno di paranoie che ci terrà compagnia per tutto il libro, vestendo di volta in volta i panni dell’interlocutore, dell’antagonista e della vittima. Poco fa l’ho definito «neo-cruscante», ma d’ora in avanti lo chiamerò più semplicemente «neo-crusc», perché mi fa pensare ai neo-con e ai teo-dem (neo-conservatori e democratici devoti), che come lui amano le contraddizioni e le sintesi audaci di opposti inconciliabili. Qua e là lo farò sembrare un mostro, altre volte un ingenuo sempliciotto, ma sia chiaro che non ce l’ho con lui. Ce l’ho con alcune delle cose che dice e con l’atteggiamento acritico con cui diffonde leggende e stereotipi sentiti qua e là. Ne elenco alcuni, con relative considerazioni mie. «I giovani d’oggi non scrivono e non leggono più.» Leggere non so, ma scrivere non si è mai scritto così tanto e in così tanti modi (sms, posta elettronica, forum, chat, blog, e persino sui muri e sui vecchi diari scolastici) come ora. 13

«Il computer ha ucciso la scrittura.» Vedi sopra. Se può valere la mia modestissima testimonianza, posso garantire che è accaduto esattamente il contrario, poiché so di molte persone, anche scrittori, che non si sarebbero mai messe a scrivere se non avessero avuto a disposizione uno strumento che permetteva di fare correzioni puntuali, mirate e ‘pulite’, evitando la frustrazione della pagina devastata dalle cancellature. «La gente non sa più parlare l’italiano.» Falso. Anzi, rispetto a cinquant’anni fa, il numero degli italofoni è quasi raddoppiato. Quello che la gente non sa più parlare, semmai, è il dialetto. Dopodiché, se il dialetto vi sembra a sua volta un retaggio degno di essere rimpianto, pensate a vostro bisnonno che parlava solo in piemontese strettissimo e sognava di potersi affrancare dalla schiavitù della terra e della miseria imparando l’italiano. «La televisione ha rovinato l’italiano.» Che abbia rovinato gli italiani, non ci piove. Ma l’italiano, proprio no. In realtà, come osservava Tullio De Mauro nella sua Storia linguistica dell’Italia unita, la tivù ha contribuito a diffondere l’italiano tanto quanto la scuola e l’urbanesimo. Dopodiché, se oggi non è più un modello da seguire, non significa che l’italiano televisivo sia peggiore di quello che si sente parlare per strada. «Sta scomparendo il congiuntivo.» Un mito anche questo. Il congiuntivo è molto più diffuso di un tempo, talvolta persino a sproposito. E comunque in francese si è perso più che in italiano, benché in Francia esista un’accademia della lingua molto più ascoltata e pignola della nostra Crusca. 14

«L’inglese sta colonizzando la lingua italiana.» Affermazione condivisibile solo previa aggiunta dell’avverbiale «adesso» (duecento anni fa era altrettanto invadente il francese, fra quarant’anni magari toccherà al cinese) e con la puntualizzazione che il fenomeno riguarda quasi esclusivamente il lessico. Anzi, per essere precisi, soltanto alcuni ambiti del lessico (economia, informatica, tecnologia, moda). La morfologia e la sintassi sono ancora saldamente italiane, e tali rimarranno a lungo. Potrei andare avanti, ma per amor di patria (e di chi legge) non lo farò. Dirò soltanto che questi cliché, come la maggior parte dei cliché, prendono frammenti di verità (l’alluvione di anglicismi è effettivamente fastidiosa e spesso evitabile) e ne fanno assiomi di fede, riducendo la complessità della lingua alla retorica di slogan facili e sbrigativi. Dirò anche – e con ciò concludo – che in questo i neocrusc somigliano un po’ a quelli che identificano lo straniero con il delinquente e il dipendente pubblico con il fannullone, reclamando più polizia per le strade e licenziamenti a pioggia per chiunque riceva lo stipendio dallo Stato. Forse, tra sé e sé, sognano l’istituzione di un’autorità che controlli e sanzioni, come quando durante il Ventennio Mussolini mise fuorilegge gli esercenti che esponevano insegne in lingua straniera o come quando, pochi anni fa, il senatore Andrea Pastore presentò un disegno di legge per l’istituzione di un Consiglio Superiore della Lingua Italiana, iniziativa di per sé più che condivisibile non fosse stato per la proposta di commissionarle l’elaborazione di una 15

grammatica «ufficiale» (!) della lingua italiana e di farla presiedere dal Presidente del Consiglio dei Ministri (!!). Ora, forse sarò troppo ottimista, ma a me pare che la lingua sappia ancora badare a sé stessa e non abbia bisogno, almeno per il momento, di un uomo forte, dell’esercito o dei Caschi Blu per garantire l’ordine pubblico. Sono sufficienti i vigili già in servizio – linguisti, scrittori, professori, buoni giornalisti – oltre a un minimo di senso civico dei parlanti. Ben sapendo che questi vigili non ci metteranno mai la multa sul parabrezza (a parte i professori, che lo fanno di mestiere). Al massimo ce la può mettere chi ci legge o chi ci ascolta. Basta che dica: «Non ho capito». FARINA DA ALTRI SACCHI

Accademia della Crusca, La Crusca risponde, presentazione di Giovanni Nencioni, Le Lettere, Firenze 1995. Dove si fornisce un catalogo di tutte le principali ipocondrie linguistiche dei neo-crusc. Tullio De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 200810. Dove si racconta che nel 1861, una volta fatta l’Italia, bisognava ancora fare l’italiano, non solo gli italiani. Luca Serianni, Il sentimento della norma linguistica nell’Italia di oggi, in «Studi linguistici italiani», XXX (2004), pp. 85-103. Dove si spiega fino a che punto abbiamo bisogno dell’italiano per sentirci italiani. Pietro Trifone, Malalingua, il Mulino, Bologna 2007. Dove si fa la linguaccia a tante malelingue. 16

2.

Senza «e» e senza «ma»

Dice il neo-crusc: «Guai a usare una congiunzione dopo il punto fermo». Senza eccezioni. Senza sconti. Senza «e» e senza «ma». La tentazione istintiva sarebbe di rispondergli, dopo una pausa calcolata: «E perché?» Lo stacco intonativo e il passaggio di turno nella conversazione, indizi inequivoci del confine tra una frase e l’altra, non mi vietano di usare proprio una congiunzione – «e» – per prendere la parola e, di passata, smentirlo. Ma sarebbe troppo comodo, e persino un po’ snob, liquidare la questione della congiunzione a inizio frase con un’altra congiunzione a inizio frase (cioè quello che ho appena finito di fare). Piuttosto vale la pena domandarsi come si sia propagata, generazione dopo generazione, una regola così perentoria e, diciamolo, così sciocca. Le grammatiche scolastiche, per una volta, sembrano innocenti: quasi tutte sfiorano l’argomento nel capitolo dedicato alle congiunzioni e in quello sulla punteggiatura, ma nessuna di loro osa addentrarsi nelle trincee della tradizione – oltretutto solo presunta – per difenderla o sbugiardarla. A proposito di «e» e di «ma» si limitano per lo più a segnalare che si tratta di «congiunzioni coordinanti», mentre la fenomenologia del punto si riassume in una frasetta 17

(«il punto segnala una pausa lunga nell’enunciato») talmente abusata da sembrare tautologica. Nessun cenno invece al punto come frontiera invalicabile oltre la quale sarebbe proibito esportare congiunzioni. Il punto è un punto, e basta. Anzi: e punto. A ben vedere, però, quello dei manuali è un silenzio omertoso e colpevole. Molti di essi, infatti, tralasciano di ricordare che «e» e «ma» non servono solo per coordinare, per allacciare le cinture della sintassi («Non ho fame ma penso che mangerò qualcosa») o chiudere le portiere di un elenco o una lista («Ho comprato frutta, verdura e pane»), ma sanno fare un sacco di altre cose. «Ma», ad esempio, funziona benissimo per cambiare discorso, per farlo defluire verso una direzione imprevista («Ma oggi non sono qui per parlarvi di congiunzioni, bensì di difesa a zona»). La sua specialità, però, è quella di prendere la parola, di infilarsi nelle conversazioni, il più delle volte senza chiedere il permesso. Non a caso è una delle particelle preferite dai frequentatori dei salotti televisivi nostrani, che su di essa hanno pazientemente costruito la loro professione di sicari della dialettica: dal finto garbato («Ma scusi, onorevole...»), al prepotente autentico («Ma stia zitto!») all’italiano più italiano di tutti («Ma mi faccia il piacere!»). Anche «e» si trova a suo agio nelle conversazioni e può essere d’aiuto per segnalare l’inizio del proprio turno di parola. A differenza di «ma», tuttavia, è una particella molto più educata e tollerante, che non interrompe nessuno e non alza mai la voce. Al massimo – questo sì – può avere un tono leggermente stizzito o inquisitorio. 18

Supponiamo ad esempio che un giorno, di punto in bianco, la vostra fidanzata cominci a parlare di un tale Rocco, che intuite essere un suo collega e subito vi figurate alto, bello, ricco e senza scrupoli. Comprimendo i vostri sentimenti di gelosia in una smorfia ironica, le domanderete con falsa disinvoltura: «E chi sarebbe, questo Rocco?». Nulla, nel vostro atteggiamento, potrebbe far trapelare la collera che vi consuma il fegato. Nulla, tranne quella «e». E tuttavia (ahi, ci risiamo) non c’è nessuno che sappia usare la nostra particella con la perversa maestria di giudici, commissari e detective. Lasciata nelle loro mani, anche un’innocente congiunzione può convertirsi in spietato strumento di tortura. Avete presente Perry Mason? O il tenente Colombo? O il commissario Montalbano? Sentite un po’ questo brano tratto da Il giro di boa: «Quante volte l’ha fatto?». «Due volte». «E tutte e due le volte con gli adulti c’erano dei bambini?». Marzilla agliuttì due o tre volte prima d’arrispunniri. «Sì». «Durante questi viaggi dove sta seduto?». «A seconda. Al lato all’autista oppure dentro con quelli da portare». «E nel viaggio che mi interessa dove stava?». «Per un certo tratto davanti». «E poi è passato darrè?». Marzilla stava sudando, era in difficoltà. «Sì»1. 1

Andrea Camilleri, Il giro di boa, Sellerio, Palermo 2003.

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Sottoposto all’incalzare delle domande di Montalbano, Marzilla «suda» e si trova «in difficoltà». E sapete perché suda? Perché il commissario, quelle domande, le ha annodate insieme con tante «e», ottenendo un effetto paragonabile a quello di una scarica di mitra. Sento già le prime obiezioni: «Sì, d’accordo, ma un conto è infilare la ‘e’ in una spaccatura naturale del discorso come il cambio di turno nella conversazione, un conto è tranciare in due l’enunciato e ripartire con una congiunzione subito dopo il punto». Obiezione respinta. Intanto perché quella dei turni di conversazione è un’eccezione troppo ampia per giustificare la formulazione di una regola così perentoria, e poi perché, posta in questi termini, derubrica il problema a una questione di punteggiatura, sollevando le povere congiunzioni da ogni responsabilità diretta. Quello che non piace, che provoca istintivo ribrezzo nel neo-crusc, insomma, non è tanto la povera e vituperata «e», ma il fatto che questa sia connivente con il punto fermo in un complotto volto a scardinare la sintassi ariosa e articolata di matrice ciceroniana. E tuttavia persino Cicerone sarebbe stato disposto a convenire che il punto, abbinato alla congiunzione «e», non è solo un crudele sfasciasintassi, ma un prezioso utensile con il quale si possono limare i significati. Volete un esempio? Eccone tre. Il primo, di fantasia, è il seguente: a. Marco è un ragazzo timido e noioso. b. Marco è un ragazzo timido. E noioso. A quanto pare il povero Marco non gode di grande po20

polarità tra i suoi amici. Chiamati a esprimere un giudizio sul suo conto, a e b dicono, in apparenza, la stessa cosa, e cioè che si tratta di un ragazzo timido e noioso. Ma mentre l’amico (per modo di dire) che pronuncia la prima frase si limita a constatare il fatto con un distacco quasi notarile, il secondo affonda impietosamente la lama del giudizio, andando a ferirlo là dove fa più male. Ad affilare questa lama, ad arroventarne il taglio è proprio il punto fermo anteposto alla congiunzione, che mette il primo aggettivo fuori fuoco e spara tutto il flash sul secondo. Passi la timidezza, sembra dirci b. Ma uno noioso come Marco non l’ho mai conosciuto. Il secondo esempio è un brano tratto dal romanzo di Stefano Benni Margherita Dolcevita. Sentite un po’ qua: Quei signori e signore e ragazzi e ragazze seduti, tutti avevano ragione. E parlandone, si rafforzavano in questa loro certezza. E la loro ragione era costituita sul dileggio, sulla rovina, sul disprezzo per gli altri. E più parlavano, più la ragione cresceva e chiedeva il suo tributo di parole, di minacce, di gesti. E sempre più gli altri, quelli dalla parte del torto, diventavano lontani e miserabili2.

Avete notato come è strutturato il brano? È come una vertiginosa rampa di scale i cui gradini sono costituiti da frasi che si susseguono una dopo l’altra a ritmo febbrile, introdotte ciascuna da una «e». Ma l’impressione di andare in salita non è solo frutto di una suggestione metaforica. Sentite anche cosa dicono le parole: più, sempre più, si 2

Stefano Benni, Margherita Dolcevita, Feltrinelli, Milano 2006.

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rafforzavano, cresceva, diventavano. Se questa non è un’arrampicata da togliere il respiro! Pare quasi di sentire il clima che cambia man mano che si salgono gli scalini, e infatti questa sovrapposizione di immagini che poco per volta si gonfiano, si ingrossano e quasi minacciano di straripare, in retorica si chiama proprio così, climax. Ovviamente Stefano Benni lo sa benissimo, e sa anche che la accumulazione di «e», nella climax, è strumento prezioso e assai utile alla causa. Il terzo e ultimo esempio è l’incipit del Gelsomino notturno di Pascoli che, per chi non lo ricordasse, fa così: «E s’aprono i fiori notturni / nell’ora che penso a’ miei cari / ...». Qui la «e» sta addirittura all’inizio di tutto, non viene dopo un punto e a prima vista non congiunge un bel niente. Eppure... Eppure l’efficacia dell’attacco pascoliano sta proprio lì, in quella parolina che sembra voler continuare un ragionamento precedente, che evoca un non detto, che lascia all’immaginazione – e alla critica – una porta socchiusa su che cosa sia successo «prima». Ora, qualcuno ribatterà che solo i poeti sono autorizzati a disobbedire alla grammatica, e che tutti gli altri dovrebbero prestarle rispetto e sottomissione filiale. Ma se una mamma o un papà impongono regole sbagliate, non è forse più saggio trasgredirle? In questo caso, poi, la colpa non è neanche dei genitori (in questo caso della ‘genitrice’), ma dei baby-sitter, cioè di quei maestri e insegnanti che interpretano in senso restrittivo la norma linguistica. Dire che non si può cominciare una frase o un pensiero con una congiunzione equivale un po’ a mettere i bambini a let22

to alle sette quando avrebbero il permesso – e il diritto – di restare svegli fino alle nove e mezza. Ricorda Gerhard Rohlfs, insigne filologo e autore della grammatica storica più importante dell’italiano: «Nell’italiano antico e può avere funzione d’introduzione d’un pensiero». Ma se vale per l’italiano antico, che a ragione consideriamo custode dell’essenza più pura e virtuosa della nostra lingua, perché non deve valere per quello moderno? Quasi tutti noi – chi più chi meno attentamente – leggiamo ogni giorno uno o più quotidiani. A essere sinceri, in realtà, più che leggerli li sfogliamo, limitandoci a scorrere i titoli e a farci un’idea sommaria delle notizie in base a quelle brevi strisce di testo che sovrastano, e in un certo senso eclissano, l’articolo. Ebbene, quante volte ci è capitato di leggere titoli del tipo «E Berlusconi disse ai suoi: niente scherzi sulla giustizia» oppure «Ma Veltroni non ci sta»? Che cosa sono quelle «e» e quei «ma» iniziali se non anelli che collegano tutte le notizie su uno stesso argomento in un’unica enorme catena testuale e, diciamolo pure, narrativa? Come tutte le bestie ferite, a questo punto il neo-crusc comincerà a mostrare i denti e a contrattaccare alla disperata: «Allora adesso mi verrete a dire che vale cominciare i discorsi con una parola qualsiasi, magari anche con allora». Sì, caro neo-crusc, diciamo e confermiamo: tanto più che l’hai appena fatto anche tu. Si può cominciare con «allora», con «dunque» o con «quindi»; con un articolo, con una preposizione o con un’interiezione (sono da considerare tali anche le invocazioni a parti anatomiche maschili o femminili, ma quelle è meglio evitarle); con un soggetto, un 23

predicato o un complemento. L’importante, qualunque parola si scelga per esordire in una conversazione, è non farla diventare un vezzo o, peggio ancora, un vizio. Lo studente impacciato che attacca l’interrogazione con una sventagliata di «dunque... ecco... cioè... allora...» non fa obiettivamente una bella impressione. Sembra uno a cui hanno appena passato l’aspiratutto nel cervello e che non riesce più a trovare i suoi pensieri, confusi tra polvere e briciole. E tuttavia non è solo colpa sua se il prof, invece di aiutarlo a recuperarli dal sacchetto, glieli sparpaglia in modo irrimediabile e definitivo sbuffandogli addosso che «non si iniziano le frasi con dunque, perché dunque conclude». Non c’è peggior insegnante di quello che, mentre stai partorendo con dolore un concetto giusto, ti fa notare un (presunto) errore linguistico. E questo non lo dico solo io: lo dice chiunque abbia misurato su sé stesso e sul prossimo il potere inibitorio e ostruente di un’interruzione, che produce, sulle nostre facoltà di elaborazione intellettuale, lo stesso effetto di un dosso piazzato su un rettilineo mentre si arriva lanciati con l’automobile: L’allievo infatti non ha, allo stesso livello dell’insegnante, la padronanza linguistica e concettuale che permette una produzione orale fluente: sovente si interrompe, prende tempo, si corregge o viene corretto. Il fatto stesso che l’insegnante lo interrompa (...) porta sovente lo studente a riprendere il turno e a ripianificare con una certa difficoltà3. 3 Carla Bazzanella, Gli indicatori fatici nell’interazione scolastica, in Franca Orletti (a cura di), Fra conversazione e discorso, NIS, Roma 1994.

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Dunque? Dunque lasciamo in pace il «dunque». Tanto, se l’alunno sta cercando di barare, è facile scoprirlo: basta arrivare al dunque. FARINA DA ALTRI SACCHI

Bice Mortara Garavelli, Prontuario di punteggiatura, Laterza, Roma-Bari 200811. Dove, parlando di virgole, si mettono i puntini sulle «i». E talvolta anche prima delle «e».

3.

In principio era il soggetto

Dunque, dove eravamo? Ah, sì: non si possono iniziare i discorsi con «dunque». A meno che «dunque» non chiosi un discorso precedente. A meno che non serva a rimettere in fila le idee e a farle rigare dritto. A meno che per qualche ragione non risulti utile impiegarlo prima di arrivare al dunque. In tutti questi casi, che a questo punto non sono più l’eccezione ma la maggioranza, il «dunque» iniziale è perfettamente lecito. A proposito di incipit: avete fatto caso che dall’inizio di questo capitolo non ho ancora incominciato una frase col soggetto? Una volta ho esordito con un’interiezione («ah»), tre volte con la congiunzione «a meno che», una con un complemento preposizionale («in tutti questi casi»), una con «a proposito» e una, per puro e semplice spirito di contraddizione, con il famigerato «dunque». Eppure, quando ti spiega come è fatta una frase, il neo-crusc recita: «La frase inizia con il soggetto, poi viene il verbo e infine il complemento oggetto». Anche i linguisti, per la verità, dicono una cosa del genere, e cioè che l’italiano appartiene alla tipologia SVO (acronimo che indica appunto Soggetto, Verbo e Ogget26

to), ma così come è formulato dal maestro – ne converrete – il principio imbarca acqua da tutti i commi. Sorvoliamo per il momento sul fatto che non tutti i verbi portano per forza in dote un complemento oggetto. Dimentichiamo per un attimo che il soggetto ha tutto il diritto, se lo ritiene, di sottrarsi al matrimonio con il verbo, soprattutto se questo è un single impenitente come «piovere» o «nevicare». Tralasciamo anche di approfondire la questione se il verbo, fermo restando che è lui in casa a portare i pantaloni, sia così indispensabile nell’economia domestica. La faccenda, qui, riguarda in primo luogo lo stile. Si racconta di un celebre direttore di giornale che un bel giorno così apostrofò un redattore neo-assunto che aveva osato infrangere l’aurea norma di cui sopra: «Quando scrive un articolo – disse – si ricordi: ogni frase comincia col soggetto, poi viene il predicato verbale, poi vengono i complementi. Punto, e si ricomincia. Se vuole inserire nella frase un aggettivo, venga prima nel mio ufficio e mi chieda il permesso». Ebbene, provate a scriverlo, un articolo così. Provate a scriverlo e soprattutto provate a rileggerlo: dopo il terzo capoverso non riuscirete più a tenere gli occhi aperti e avrete bisogno di un paio di caffè. Se mi passate il paragone, sarebbe come se in musica non si potesse mai cambiare tema né tempo, come se si proibissero gli accordi dissonanti e i suoni disarmonici, come se si abolissero per decreto il jazz e il reggae. Ma la questione, oltre che stilistica, è soprattutto pragmatica. Tra parentesi, ma neanche tanto tra parentesi, quando si dice pragmatica, in linguistica, si intende in sen27

so tecnico tutto ciò che riguarda i rapporti tra il contenuto dell’enunciato e le intenzioni del parlante. Che cosa vuol dire? Vuol dire che se un meteorologo, annunciando le previsioni del tempo, dice «c’è molto caldo», è assai probabile che stia facendo una semplice constatazione, ma se a pronunciare la stessa frase è il passeggero di un treno seduto lontano dal finestrino, quello che vuole è che qualcuno glielo apra. Il contenuto dell’enunciato rimane lo stesso, l’intenzione – e quindi il significato – cambia. Intesi? Chiusa parentesi. E che cosa c’entra tutto questo con soggetto, verbo e complemento? C’entra, c’entra. Provate per esempio a capovolgere l’ordine degli elementi di questo brano tratto dalla rubrica quotidiana di Michele Serra su «Repubblica»: Vedendo al cinema Gomorra mi ha colpito la complessiva bruttezza fisica dei protagonisti, nonché la bruttura ambientale che fa loro da cornice.

Se dovessimo attenerci all’ordine prescritto dal direttore del giornale e risistemare di conseguenza le tessere del puzzle ne uscirebbe una cosa di questo tipo: La (complessiva) bruttezza (fisica) dei protagonisti, nonché la bruttura (ambientale) che fa loro da cornice, mi ha (hanno?) colpito vedendo al cinema Gomorra.

Ho messo tra parentesi gli aggettivi tanto invisi al direttore, casomai il sant’uomo decidesse di concederci una deroga. E tuttavia, anche lasciandoli al loro posto, resta l’impressione di una casa messa a soqquadro, come se ci 28

fossero appena passati i ladri e avessero rovistato tra i cassetti. Risultato della rapina, una frase in cui l’argomento principale – il film Gomorra – viene messo in coda, privando il lettore delle coordinate contestuali che lo aiuterebbero subito a capire di che cosa si sta parlando. Non solo: rimescolando gli ingredienti, resta coperto il sapore speziato del giudizio personale, mentre spicca quello, più scipito, dei due sintagmi iniziali («la bruttezza dei protagonisti» e «la bruttura che fa loro da cornice»), che a quel punto vengono serviti quasi come dati intrinseci e oggettivi, in sostanza capovolgendo il senso del messaggio. Un linguista avrebbe forse da eccepire sulla forma di quello che ho appena detto, non certo sulla sostanza: a reclamare la prima posizione nella frase, spiegherebbe, non è il soggetto come tale, ma – cosa ben diversa – il tema, che qualcuno chiama anche topic, e che con il soggetto non necessariamente coincide. E il famoso SVO – obietterete – dove lo mettiamo? Non avevamo appena finito di dire che anche i linguisti erano d’accordo sul fatto di dare la precedenza al soggetto? Sì, ma con qualche però. Questo è il primo della serie. Per il momento facciamo un passo alla volta. Supponiamo che siate al ristorante con un gruppo di amici. Avete appena terminato il dessert e state aspettando il conto: facendo violenza alla vostra celebre taccagneria e occultandola sotto uno strato di spavalda e affettata generosità, sfoderate la vostra carta di credito ed esclamate: «Pago io!». Ovvero: io, e nessun altro. Gli amici ringraziano, 29

commossi e increduli di fronte a cotanto gesto, e non importa se nel pronunciare la vostra offerta vi auguravate che qualcun altro si facesse avanti per rilanciare. E tuttavia, se invece di «pago io» aveste dichiarato «io pago», adesso non sareste lì a calcolare mentalmente l’entità dei danni arrecati al vostro conto corrente da quell’atto così audace. Dire «io pago» non avrebbe escluso che potessero pagare anche gli altri. Anzi, le implicazioni pragmatiche sottese sarebbero state quasi antitetiche: a. «io pago» (nel senso che pago la mia parte, voi fate pure come volete); b. «io pago» (anche se potrei perfettamente non farlo e lasciarvi tutto il conto da saldare). Ecco cosa capita a cambiare di posto al soggetto: si dicono cose diverse. Non un po’ diverse: molto diverse. In questo caso, se aveste lasciato il soggetto all’inizio dell’enunciato vi sareste risparmiati i soldi di una cena. Posponendolo, vi siete presi un impegno. L’italiano, insomma, non funziona come la matematica, dove si insegna che il risultato non cambia invertendo l’ordine degli addendi. Qui il risultato cambia eccome, e cambia perché il significato di una frase non sempre corrisponde alla somma degli elementi che la compongono. Al contrario, dire «pago io» al ristorante somiglia piuttosto a una sottrazione, nella misura in cui quell’«io» posposto esclude tutti gli altri soggetti che potrebbero venire assegnati alla stessa azione. Un po’ come proclamare «sono stato io» dinanzi a un magistrato, il cui effetto – salvo nel caso di un’autocalunnia – è quello di scagionare automaticamente tutti gli altri possibili indiziati. 30

Altro esempio. Arrivate a casa e vostra moglie vi annuncia con enfasi: «Ha telefonato Marco». Bene, vi dite, era da tanto che non lo sentivo. Oppure: male, speravo che si fosse dimenticato di me. Quale che sia la vostra reazione, a provocarla è stata la notizia della telefonata di Marco. Un evento doppiamente inatteso, nella misura in cui vi ha informati di due cose simultaneamente. Ovvero che: a. ha telefonato qualcuno e b. quel qualcuno è Marco E se invece vostra moglie vi dicesse: «Marco ha telefonato»? In questo caso la notizia non è più l’evento, ma un’azione, cioè la telefonata fatta da Marco. Il quale Marco, verosimilmente, era già stato citato in precedenza nei vostri discorsi o comunque era presente nell’orizzonte mentale di entrambi, e dunque non costituiva in alcun modo un fattore di novità. Detto in altri termini, qui l’informazione si sdoppia: da un lato c’è «Marco», l’elemento dato, colui di cui si parla; dall’altro la telefonata, che costituisce la parte nuova. Nella frase «ha telefonato Marco», invece, tutta l’informazione è nuova, tutta l’informazione è inattesa. Potete fare la prova con altri verbi intransitivi come «arrivare», «affondare», «cominciare», «finire» e volendo con tutti i verbi in forma passiva: vi accorgerete che anch’essi raccontano cose diverse a seconda che portino il soggetto allacciato sul davanti o sul di dietro. Un conto è dire che «è arrivato l’ambasciatore» un altro che «l’ambasciatore è arrivato». Nel primo caso può trattarsi di una visita a sorpresa, nel secondo quasi certamente lo si stava aspettando. 31

Con tutti gli altri verbi, invece, mettere il soggetto dietro al verbo significa soprattutto rispondere a una domanda centrale nella nostra esistenza: «Chi?». Chi ha scritto la Divina Commedia? L’ha scritta Dante. Chi ha scoperto la penicillina? L’ha scoperta Alexander Fleming. Chi è stato il primo uomo a mettere piede sulla Luna? È stato Neil (non Louis, e nemmeno Lance) Armstrong. Chi vi ha detto che non si può mettere il soggetto dopo il verbo? Ce lo ha detto il maestro. È quella l’informazione nuova che si fornisce, e per quello la si piazza dopo il verbo («ha scritto», «ha scoperto», «è stato»), che invece è il fatto già assodato. Anzi, come lo abbiamo definito in precedenza, il fatto dato. Ecco dunque aprirsi una nuova falla nello scafo di certezze su cui si lasciano galleggiare pigramente tanti maestri e tanti direttori di giornali: non solo il tema ha in genere la precedenza sul soggetto, ma ce l’ha anche l’informazione data, conosciuta: il perno informativo da cui si estende e si articola, come un compasso, l’intero discorso. Il dato precede logicamente il nuovo come la causa precede l’effetto, come l’autunno precede l’inverno. Poi, magari, si può anche decidere di mettere il nuovo prima del dato salvaguardando così lo ius primae positionis del soggetto, ma a quel punto è necessario assumere un’intonazione anomala e forzata («DANTE, l’ha scritta», «FLEMING, l’ha scoperta»), che nello scritto richiederebbe l’inserimento di una virgola, con conseguente violazione di un altro incrollabile tabù dei puristi della domenica, ovvero quello che vieta di infilare segni di interpunzione tra soggetto e predicato. 32

Invertire dato e nuovo è come inserire un flashback all’interno di una narrazione: si può fare, ma bisogna badare a non confondere il prima con il dopo, a lasciare sul sentiero della frase un sassolino per permettere a chi ascolta o legge di ritrovare la strada come Pollicino nella fiaba che porta il suo nome. Ebbene, quel sassolino, nella fattispecie, è proprio l’intonazione (o la virgola). Già che parliamo di Pollicino, vogliamo provare per un attimo a perderci anche noi? Imbocchiamo il sentiero, apparentemente agevole, di un enunciato come «Luigi ha chiamato Mario». Pronunciata con un’intonazione neutra o leggermente discendente (in linguistica si direbbe non marcata) la frase può voler dire una sola cosa, e cioè che è stato Luigi – soggetto – a chiamare Mario – oggetto. Se però si pronuncia il nome di Luigi con un accento più calcato (LUIGI, ha chiamato Mario), come quando si dà un forte colpo di acceleratore all’automobile prima di ridurre i giri al minimo, allora il sentiero del significato si biforca. Può essere infatti che il parlante senta il bisogno di segnalare che è stato proprio Luigi – e non altri – a chiamare Mario, ma può anche intendersi che sia stato Mario ad aver chiamato Luigi, nel qual caso il senso dell’enunciato risulta clamorosamente capovolto. Chi immagina la grammatica come una geometria a una sola dimensione, in cui le parole devono stare rigidamente allineate in modo da produrre uno e un solo significato per volta, rimarrà di nuovo sconcertato. Come può la lingua consentire simili ambiguità? Come è concepibile che un enunciato significhi una cosa e il suo contrario? La rispo33

sta a queste domande è che la lingua, non solo quella italiana, è un organismo sghembo e pieno di fessure; ha il passo irregolare, un equilibrio instabile e tende a inciampare in trappole che lei stessa predispone. In questo caso la trappola risiede nel fatto che a Luigi e Mario, una volta scardinata la struttura standard della frase, non rimane nulla che permetta di essere identificati univocamente come soggetto e oggetto: non l’accordo col verbo, non la posizione (la prima spetta di diritto al soggetto solo negli enunciati intonativamente e informativamente ‘neutri’), non il caso (in latino Luigi sarebbe declinato al nominativo e Mario all’accusativo: peccato che in italiano non esistano le declinazioni), e neppure la natura dei due soggetti in gioco, visto che chiamare è una cosa che possono fare sia Mario che Luigi (diverso sarebbe se al posto di Mario ci fosse, poniamo, «il cane»). A permettere l’identificazione del soggetto non rimane dunque che il contesto, ovvero la scia di sassolini che Pollicino ha lasciato sul sentiero mentre si allontanava da casa. Il contesto è tutto quello che circonda i parlanti: luoghi, cose, persone, parole. È quello che è stato appena detto, oppure che è stato evocato con un gesto o uno sguardo, oppure che è stato detto in un altro luogo, in un altro momento e da altre persone ma che, per qualche ragione, io e il mio interlocutore concordiamo nel considerare attuale e significativo per la conversazione. Nel nostro caso, il contesto potrebbe essere una frase detta in precedenza («Giulio ha chiamato Mario? No. LUIGI, ha chiamato Mario), oppure un orizzonte condiviso di conoscenze con il mio in34

terlocutore, tra le quali c’è – mettiamo – anche il fatto che Mario ha il cellulare senza credito e dunque può ricevere chiamate ma non farle. Tutto questo per dire che il soggetto non sempre porta indosso una maglietta con su scritto «io sono il soggetto», ma spesso si nasconde sotto abiti meno appariscenti, ed è chi ascolta, cooperando con chi parla, a doverlo riconoscere. Tornerò su questo argomento nel capitolo 12, dedicato al soggetto. Nel frattempo, a furia di stare dietro a Pollicino, ci siamo però allontanati un po’ dalla strada maestra. La riprendiamo ora, ripassando le tappe che ci hanno condotto fin qui: 1. l’ordine degli elementi nelle frasi italiane è, di norma, Soggetto, Verbo, Oggetto (SVO); 2. ciò premesso, è del tutto lecito e talvolta persino necessario alterare quest’ordine e incominciare la frase con un elemento diverso dal soggetto; 3. la posizione del soggetto rispetto al verbo può incidere sul significato della frase; 4. invece che di soggetto, per il primo elemento della frase i linguisti preferiscono parlare di tema o di dato, che non necessariamente coincidono tra loro e tanto meno con il soggetto stesso. Aggiungo a questo punto una cosa magari ovvia ma certamente più importante di tutte quelle che ho detto finora, e cioè che il soggetto è un concetto astratto, un’etichetta che serve a descrivere, a classificare, a illustrare il funzionamento della lingua, ma che non ha alcuna fun35

zione pratica. Proverò a dirlo con altre parole: così come il libretto di istruzioni di un’automobile spiega come è fatta la vettura ma non è di nessun aiuto quando si tratta di guidarla, i concetti di soggetto e verbo sono utili a spiegare come è fatta la lingua ma non servono a nulla nel momento in cui la lingua bisogna usarla. Ciò significa che quando formulo un pensiero, scritto o orale che sia, la mia prima preoccupazione deve essere quello che voglio dire, non certo se il soggetto o il verbo siano regolarmente al loro posto. Vi pare forse che i bambini, o gli illetterati, o tutti quei privilegiati che riescono in qualche modo a sopravvivere ignorando – beati loro – che cosa sia un soggetto, vi pare, domando, che tutti costoro non siano capaci di formulare lo stesso una frase corretta o comunque perfettamente comprensibile in italiano? Ecco, il vizio di fondo dell’opinione che ho appena cercato di smontare – e di tante altre che ho smontato e smonterò nei capitoli a seguire – è proprio questo: è la convinzione che per imparare a guidare sia sufficiente consultare il manuale di istruzioni di un’automobile o che per diventare un bravo artista basti leggere il De pictura di Leon Battista Alberti; è l’idea insomma che un’osservazione del tutto legittima e pertinente sul funzionamento della lingua italiana – il soggetto occupa in genere la prima posizione della frase – valga come principio operativo quando si tratta di scrivere o di parlare. L’esperienza, il buon senso, persino le grammatiche ci dicono che non è così. Perché ostinarsi a sostenere il contrario?

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FARINA DA ALTRI SACCHI

Miriam Voghera, Sintassi e intonazione nell’italiano parlato, il Mulino, Bologna 1992. Dove si capisce perché al soggetto ogni tanto fa bene spostarsi dalla prima posizione dell’enunciato e cambiare aria.

4.

Dislocazione fatale

Nel capitolo precedente abbiamo, se così si può dire, cominciato a decostruire l’idea di enunciato così come generazioni di neo-crusc a piede libero l’hanno tramandata fino a noi, ovvero soggetto, verbo e complemento oggetto disposti rigorosamente in quest’ordine senza possibilità di sgarrare. Uno schema di implacabile rigidità in cui confluiscono, come al solito, le incrostazioni dell’insegnamento tradizionale e l’esigenza trascendente di una norma, qualunque essa sia, che tutto spieghi e tutto disponga. Disfatto il puzzle, abbiamo scoperto che in realtà era possibile montarlo in un altro modo, che il soggetto si poteva incastrare anche a destra del verbo ottenendo un’immagine sostanzialmente simile a quella originaria, ancorché non sempre – e non del tutto – combaciante. Ora bisogna procedere sulla stessa strada per verificare in quanti e quali modi sia possibile ricomporre il puzzle e quali siano le immagini che si possono ottenere cambiando di volta in volta l’ordine delle tessere. Soprattutto – e qui rischio di nuovo di pestare i calli a più di un lettore – si tratta di capire in che misura il puzzle accetti la presenza di tessere ‘doppie’, di elementi cioè che indicano la stessa cosa. 38

L’esempio lo faccio subito. Anzi, l’ho appena fatto. Nell’enunciato «l’esempio lo faccio subito», ho infatti eseguito due operazioni a frase aperta in una volta sola: uno, anticipare il complemento oggetto prima del verbo; due, replicare – di fatto – lo stesso complemento oggetto attraverso il pronome «lo». Il risultato di queste due operazioni si chiama, in gergo tecnico, dislocazione a sinistra. Non a caso, per definirla, ho appena usato una metafora medica: come dice la parola stessa, è qualcosa di simile a una slogatura dell’enunciato, e infatti ad alcuni dei nostri maestrini deve provocare lo stesso dolore di quando un osso esce dall’articolazione. Ovviamente esiste anche quella a destra, di dislocazione. Come è fatta? Come la frase che ho appena finito di scrivere, dove la parola dislocazione viene anticipata dal pronome «quella» e relegata al fondo dell’enunciato, in posizione isolata e svettante. In realtà la dislocazione, così come altre costruzioni dello stesso tenore, vanta nella lingua italiana una tradizione piuttosto lunga e altrettanto controversa, che è stata minuziosamente ricostruita da Paolo D’Achille in un capitolo del suo magistrale Sintassi del parlato e tradizione scritta della lingua italiana. La controversia riguarda la legittimità di tale struttura nell’italiano scritto, essendo del tutto pacifica la sua accettabilità nella lingua orale, da cui non a caso proviene. Ho appena finito di definire ‘pacifica’ l’accettabilità della dislocazione nell’italiano parlato, ma devo subito correggermi. C’è infatti un agguerrito drappello di insegnan39

ti, giovani e meno giovani, che le hanno dichiarato guerra, e la vanno a stanare fin nelle pieghe più riposte delle interrogazioni orali, per esibirla, una volta snidata, di fronte alla classe atterrita come monito a non provarci mai più. Fin qui ho spesso scherzato su neo-cruscanti e maestrini dalla penna rossa che rimpiangono la disciplina, la precisione e l’infallibilità della grammatica così come era spiegata sui vecchi manuali. In realtà, più che ai maestri in quanto tali, il tono di scherno è rivolto al maestrino che c’è in tutti noi, all’inconsolabile laudator temporis acti, al pedante fustigatore di costumi sempre più (per lui) irrimediabilmente scostumati, all’insegnante mancato che sfoga la sua frustrazione andando a caccia di anacoluti e «che» polivalenti come si dà la caccia ai ricercati o agli animali fuggiti dallo zoo. Qui invece vorrei parlare di insegnanti veri o aspiranti tali. Più volte, negli ultimi anni, mi è infatti capitato di affrontare la questione delle dislocazioni con gli alunni dei corsi SIS o dei corsi abilitanti speciali dell’Università di Torino, dunque con docenti in erba o già in servizio da anni, spesso riscontrando da parte loro sorpresa e incredulità, quando non addirittura aperto sdegno, di fronte alla mia apologia di quella che loro considerano una vera e propria aberrazione grammaticale, da arginare con le buone, ed eventualmente anche con le cattive. Anch’io, da parte mia, confesso di essere rimasto sorpreso. Non per la loro intransigenza, che dopotutto, come ho già avvertito, può avere anche sensate ragioni di tipo pedagogico, quanto per il fatto che molti di loro si ritengono 40

immuni da qualunque forma di vizio linguistico. Pensano cioè di esprimersi come un libro (ben) stampato, di parlare come scrivono, di essere guardiani sempre vigili della propria lingua, pronti a rintuzzare eventuali errori, dovuti magari a un cambio di pianificazione, prima che questi si affaccino sul davanzale della loro bocca e li facciano sporgere sull’abisso della figuraccia. C’è chi arriva ad affermare, con assoluta convinzione, di non aver giammai, non solo scritto, ma neppure pronunciato frasi come «il libro l’ho letto» o «Mario il film l’ha visto». Ebbene, malgrado il rispetto e la stima che meritano molti di questi futuri (e in alcuni casi anche presenti) insegnanti, voglio dire subito che si tratta di una sciocchezza colossale. Se solo ascoltassero con attenzione le proprie e le altrui conversazioni, si accorgerebbero subito che tutti i parlanti della nostra lingua, nessuno escluso, dislocano alla grande. Disloca il colto e disloca l’illetterato, disloca l’aristocratico e disloca il miserabile, disloca l’adulto e disloca il bambino. E sapete perché, almeno nel caso del complemento oggetto, dislocano tutti? Perché l’alternativa alla dislocazione è la costruzione passiva, l’unica che permette di anticipare l’oggetto in modo ‘legale’ trasformandolo in soggetto. Il problema è che quella passiva è una costruzione che impegna e non fa nemmeno particolarmente fine. Direste mai: «il libro è stato letto da me» o «il film è stato visto da Mario»? Mi sia consentito dubitarne. Di recente mi è capitato di rivedere una sequenza tratta dal film documentario Comizi d’amore, quello in cui Pier Paolo Pasolini va in giro per l’Italia a chiedere opinioni e 41

confessioni sul sesso alla gente comune. È un documento molto interessante non solo per la materia di cui tratta, ma anche per la mappatura linguistica che disegna, quella di un paese – siamo nel 1963 – in cui la popolazione sta cominciando a istruirsi in tutti gli strati sociali, ad abbandonare il dialetto per l’italiano, ad abbattere steccati secolari che separano regioni e persone molto distanti tra loro. Altrettanto interessante è però riascoltare la voce di Pasolini, di cui conosciamo perfettamente il modo di scrivere e di raccontare per immagini, ma molto meno quello di parlare. Ebbene, l’italiano parlato da Pasolini era ovviamente molto colto e sorvegliato, ma era anche frammentario, ridondante, ‘sporco’, ed era sporco perché nessuno, neppure il più bravo e preciso tra i fabbri di parole, ha il tempo materiale di spolverare e lucidare una ad una tutte le frasi man mano che gli escono dalla bocca. Non parliamo poi di Italo Calvino, il quale, nelle rare interviste video che di lui si conservano, sfoggiava un italiano lento, colloso e impastato dalla timidezza, lontanissimo dal nitore accecante della sua prosa. Inutile dire che anche Calvino e Pasolini dislocavano che è un piacere, e lo facevano per la semplice ragione che le dislocazioni servono. Faccio subito un esempio, che viene proprio da Pasolini, il quale a un certo punto, in Comizi d’amore, domanda a uno dei suoi intervistati: «Ma tu vuoi esserlo, un Don Giovanni, o no?». Quel «lo», che per molti è un’inutile ripetizione di qualcosa che viene nominato per esteso subito dopo (Don Giovanni), serve in realtà a prepararne l’entrata in scena, come quando un 42

presentatore televisivo comincia a parlare di un ospite evocandolo senza nominarlo, così da alimentare l’attesa del pubblico. Quanto a Calvino, sarete sorpresi di sapere che dislocava addirittura nello scritto, e non certo per spirito trasgressivo, ma perché gli era terribilmente utile: Continuava a seguirla col pensiero, quel trotterellare veloce per il cortile, il portone, il marciapiede, fino alla fermata del tram. Il tram lo sentiva bene, invece1.

Passo a un esempio apparentemente più ‘basso’, ma a me molto caro. Conoscete i Blues Brothers? Il film, intendo. A un certo punto i due protagonisti, a bordo della loro Dodge truccata, trovano un ponte sbarrato da un gruppo di manifestanti: un poliziotto spiega loro che i dimostranti protestano contro «gli stronzi del partito nazista», che stanno celebrando un’adunata proprio sopra il ponte. Ed è lì che John Belushi pronuncia una delle sue battute più celebri («I hate Illinois nazis») prima che il suo compare parta sgommando in direzione del ponte costringendo i nazisti a tuffarsi nel fiume sottostante. Sapete come è stata resa questa battuta in italiano? Così: «Io li odio, i nazisti dell’Illinois». Notate la finezza – temo inconsapevole – del traduttore, che ha dislocato a destra l’estrema destra. Ma notate soprattutto l’effetto che è riuscito a ottenere: ha isolato il tema dell’enunciato e gli ha costruito intorno un recinto, rendendolo così ben visibile anche da lontano. 1 Brano tratto dall’Avventura di due sposi, scritta nel 1958 e oggi raccolta nel volume Gli amori difficili, Mondadori, Milano 2007.

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Qualcuno osserverà a questo punto che in inglese la dislocazione non c’era. Vero, ma semplicemente perché l’inglese è una lingua molto più rigida dell’italiano per quanto riguarda l’ordine degli elementi all’interno dell’enunciato. E non è che sia più rigida perché noi siamo i soliti lassisti e loro no. È più rigida perché è una lingua poco ‘flessiva’, manca cioè quasi completamente di un sistema di desinenze per le varie categorie grammaticali (genere e caso di nomi, pronomi, articoli e aggettivi; persona del verbo) e l’ordine delle parole rimane l’unica traccia visibile delle loro rispettive funzioni. A proposito di funzioni: dagli esempi che ho fatto fin qui sembrerebbe che uno possa dislocare solo il complemento oggetto, o comunque un’espressione nominale. Niente di più fuorviante. L’italiano permette di dislocare assolutamente di tutto: soggetti, complementi, persino frasi intere. Quando Caterina Caselli cantava Insieme a te non ci sto più, non stava soltanto interpretando uno dei brani più appassionati della storia della canzone italiana, ma stava facendo anche una splendida dislocazione a sinistra. E un po’ di quella passione, di quell’intensità, in fondo, era proprio merito della dislocazione, che annunciava, mettendo in primo piano il legame con l’altro (insieme a te), una sofferta dichiarazione d’intenti. Sarebbe stato lo stesso se, anziché Insieme a te non ci sto più, la canzone avesse detto Non sto più insieme a te? Direi proprio di no, e non solo perché sarebbe saltata la rima. Dai ruvidi urli beat di Caterina Caselli alle soffici e carezzevoli vocalizzazioni di Mina. Altra canzone (Parole, pa44

role, parole), altra crisi di coppia. E lei che ad Alberto Lupo, il quale cerca inutilmente di riconquistarla con le solite smancerie, risponde così: «Caramelle, non ne voglio più». Come dire: guarda che se continui così, me ne vado. Anzi, mi disloco. Siamo così entrati in pieno nel territorio dello scritto, vicini a varcare la soglia minata della letteratura. Facciamolo un passo alla volta. Il primo ci porta dentro un libro singolare e bellissimo, Noi la farem vendetta, del parmigiano Paolo Nori. È la rievocazione dei fatti di Reggio Emilia del 7 luglio del 1960, quando la polizia uccise nel centro cittadino cinque manifestanti di sinistra che protestavano contro le misure repressive del governo Tambroni. Non è però un libro di storia, e neanche un vero romanzo, ma una specie di zibaldone ragionato, un gioco di tarsie in cui si incastrano uno dentro l’altro ricostruzioni e documenti, ricordi e riflessioni personali. Il tutto tenuto insieme da un reticolo linguistico a maglie molto larghe, omaggio programmatico all’italiano dei semicolti e più in generale all’italiano parlato da tutti noi. Ne riparleremo anche nei capitoli a seguire, per il momento basti segnalare un mirabile esempio di dislocazione ‘estrema’, disciplina in cui solo gli scalatori delle più alte vette linguistiche possono cimentarsi senza correre rischi: Mi dispiace, le ho detto a Francesca, lei mi ha detto che se voglio le posso raggiungere solo che io il mare, non lo sopporto, poi il mare d’estate, poi saremmo anche in un appartamento stretti, in sei, ci vorrebbe solo la discoteca, ho detto a Francesca, e è l’immagine dell’inferno, come quando avevo diciannove an45

ni e sono andato un mese in Puglia coi miei amici un mese di mare di coabitazione di discoteca l’inferno, le ho detto a Francesca (...). Sto dicendo, le ho detto a Francesca, che convincermi a me che avevo bisogno della Puglia del mare e della discoteca c’è voluta una macchia propagandistica simile a quella che avevan messo in piedi per convincere gli italiani che avevan bisogno del fascismo. Ma guarda che a te non ti obbligava nessuno, a andare in discoteca2.

Allora, siete riusciti a contare tutte le dislocazioni o avete avuto bisogno di un Alka-Seltzer? Se non ce l’avete fatta, vi aiuto io: sono sette, di cui una – «le ho detto a Francesca» – ripetuta ben tre volte. Le altre – «io il mare, non lo sopporto», «convincermi a me», «a te non ti obbligava nessuno, a andare in discoteca» (questa è doppia) – quasi esauriscono il repertorio di potenzialità grammaticali ed espressive di questa costruzione, declinandola in una varietà di forme a dir poco prodigiosa. La lingua di Paolo Nori – la lingua di tutti i suoi libri, non soltanto quello di cui stiamo parlando – porta fino alle estreme conseguenze il tratto forse più tipico del parlato: l’egocentrismo. Quando parlo di egocentrismo non mi riferisco al disturbo della personalità che ci fa credere che il disegno dell’universo sia stato fatto puntando il compasso su di noi. Mi riferisco a una variante meno aggressiva della malattia, che però, a differenza dell’altra, non risparmia nessuno e si manifesta nel linguaggio tramite un’organizzazione dei contenuti e delle informazioni orientata sul 2

Paolo Nori, Noi la farem vendetta, Feltrinelli, Milano 2006.

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parlante. Detto in altri termini, nella lingua parlata ho la possibilità, modulando il colore dell’intonazione e ricalcando i contorni delle parole, di riprodurre i pensieri nell’ordine e secondo le gerarchie con cui vengono disegnati man mano dalla mente, e non come li disegnerebbe la grammatica se avesse un pennello. È, l’egocentrismo del parlante, qualcosa in più e insieme qualcosa di meno del soggettivismo letterario, perché non è una scelta ma una specie di irresistibile riflesso condizionato, che solo nella gestazione lenta dello scritto è possibile tenere a bada. Anche su questo ritorneremo più avanti, quando parleremo di anacoluti. Per il momento archiviamo Nori alla voce «scrittore di parlato». Scrittore molto più ‘scritto’ è invece Alessandro Baricco, il quale, tra le altre cose, si è cimentato anche in un adattamento teatrale dell’Iliade, il libro che sta alla storia della letteratura universale come Adamo a quella dell’umanità. Generazioni di grecisti ne hanno affrontato la traduzione con l’attenzione e lo scrupolo con cui si eseguono le operazioni di microchirurgia, utilizzando il sottilissimo bisturi della filologia per non danneggiare parole e significati di una creatura così delicata. Lui invece ha preso una traduzione, quella di Maria Grazia Ciani, e l’ha sottoposta a una sorta di trattamento di chirurgia estetica: «La traduzione della signora Ciani – spiega Baricco – usa un italiano vivo, più che un linguaggio da filologi. Ho cercato di proseguire in quella direzione». Il risultato è un’Iliade che mantiene quasi tutte le virtù della lingua scritta ma che è bell’e pronta per essere letta ad alta voce. Le dislocazioni, da questo punto di vista, so47

no un po’ le sue personali note di scena, quasi dei suggerimenti su come interpretare il testo, fluttuando sulle onde dell’intonazione. Qualche esempio: Poi gli achei capirono che quella battaglia la stavano perdendo. Nessuno fermò Ettore quando gli si avvicinò. Questo non lo potete capire. Tu sei un morto che cammina, Ettore. Niente ti strapperà di dosso il tuo destino orrendo. Quella poca vita che hai ancora, verrà Achille e te la strapperà. Elena la trovarono nelle sue stanze. Credetemi, sarà con l’intelligenza, e non con la forza, che noi prenderemo Troia. Lo vedete, il magnifico cavallo di legno costruito da Epèio?3

Forse mi sono dilungato un po’, sulle dislocazioni, ma credo ne sia valsa la pena. Resta una piccola ma non secondaria postilla: pure «a me mi» è una dislocazione. Una dislocazione anomala, d’accordo, perché l’elemento spostato a sinistra e quello che lo riprende sono entrambi pronomi – per di più molto ravvicinati – ma pur sempre una dislocazione. Dunque il rompete le righe vale anche per lei? Qui andrei un po’ più cauto. Un conto, infatti, è riprendere l’oggetto dislocato con un pronome («il libro l’ho letto»), senza il quale non sarebbe appunto possibile identificarlo come un oggetto; un altro conto è ‘copiare’ con un pronome il complemento di termine spostato a sinistra, di 3

Omero, Iliade, di Alessandro Baricco, Feltrinelli, Milano 2007.

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cui la preposizione «a» chiarisce già il ruolo sintattico. Resta il fatto che, come scrive Giovanni Nencioni, non si tratta di una vera ripetizione in quanto «il primo pronome, tonico, ha più forza del secondo, atono, quindi ha un valore diverso». Senza dimenticare che in spagnolo dire «a mi me gusta» non solo è lecito, ma è addirittura obbligatorio. Per questo mi sento di dire che in italiano «a me mi», prima ancora che un problema di grammatica, è una questione di galateo e di ordine pubblico. Per un popolo bigotto come il nostro, dire «a me mi» (così come «ma però» e «mentre invece») equivale insomma a girare per le strade ignudi o a mettersi le dita nel naso durante una cena di gala. Chissà se siamo pronti per un simile passo. FARINA DA ALTRI SACCHI

Paolo D’Achille, Sintassi del parlato e tradizione scritta della lingua italiana. Analisi di testi dalle origini al secolo XVIII, Bonacci, Roma 1990. Dove si scopre che Boccaccio e Petrarca, se fossero ancora vivi, prenderebbero cinque nei temi in classe (da leggere anche dopo i capitoli 5, 6 e 7). Edoardo Lombardi Vallauri, La struttura informativa dell’enunciato, La Nuova Italia, Firenze 2002. Dove si evince che iniziare un tema con il tema non dovrebbe essere mai considerato errore.

5.

Ora pro nomi

Certo, quello di raddoppiare i pronomi è un bel viziaccio. E mica succede solo con «a me mi». Nella parlata toscana esiste addirittura la duplicazione del soggetto di seconda persona: «te tu». «Te tu fai», «te tu sei», «te tu c’hai». Mentre in italiano il pronome soggetto è spesso inutile (le informazioni sulla persona le fornisce già la desinenza verbale), loro ne usano addirittura due in una volta: un bello spreco, se ci pensate. Eppure... Eppure quel doppio pronome ha l’aria di essere un’invenzione utilissima. Io per esempio me lo figuro ideale per attaccare briga: «te tu ce l’hai con me?»; «te tu vuo’ botte?». È come se un pronome servisse per tenere fermo il tizio che si vuole menare e l’altro per schiaffeggiarlo. Peccato non avere nulla di simile, qui al Nord. Del resto, parlando di sprechi e di pronomi, non è che l’italiano parlato sia messo tanto meglio del toscano. Sapete qual è uno dei vocaboli in assoluto più usati nella nostra lingua? «Io»: un altro pronome soggetto. Il Lessico di frequenza dell’italiano parlato (LIP), pubblicato nel 19931, lo 1 Tullio De Mauro et al., Lessico di frequenza dell’italiano parlato, ETAS libri, Milano 1993.

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dava in undicesima posizione in graduatoria, superato soltanto da articoli e preposizioni, ed è ragionevole supporre che nel frattempo, individualisti come siamo diventati, la situazione non sia mutata, anzi. Per questo, quando sento i neo-crusc lamentarsi di come vengono utilizzati i pronomi italiani, mi viene sempre da rispondere che il vero problema dei nostri pronomi non ha nulla a che fare con la grammatica, ma al massimo con la psicanalisi. I pronomi, loro, sono creature discrete e inoffensive. Piccoli e laboriosi, si nascondono nelle pieghe delle frasi, talora persino nei risvolti delle parole, e operano silenziosamente per il bene della sintassi e della coesione del testo. Prendete ad esempio questo brano: Paolo usciva da una settimana con Laura. I pomeriggi, in quelle giornate di primavera, erano lunghi e luminosi. L’aria era tiepida e il cielo, anche in città, sereno. Con lei, Paolo si sentiva felice e non perdeva occasione per dirglielo. Sapete come suonerebbe lo stesso brano coi nomi al posto dei pronomi? Suonerebbe così: Paolo usciva da una settimana con Laura. I pomeriggi, in quelle giornate di primavera, erano lunghi e luminosi. L’aria era tiepida e il cielo, anche in città, sereno. Con Laura, Paolo si sentiva felice e non perdeva occasione per dire a Laura che si sentiva felice. Un poco stucchevole, non è vero? Stucchevole e anche lievemente ambiguo, perché leggendolo sembra quasi che 51

si stia parlando di due «Laura» diverse: una con cui Paolo si sentiva felice e un’altra a cui Paolo diceva di sentirsi felice. Nella prima versione del brano, invece, i pronomi aiutano a sparecchiare via dal testo tutte le ridondanze inutili (vedremo più avanti che non tutte le ridondanze lo sono) e nel contempo servono a creare amalgama tra le sue parti, neutralizzando, di passata, ogni possibile confusione. I pronomi sono insomma qualcosa di simile a dei parassiti ‘buoni’ della lingua, che si nutrono per lo più di significati altrui ma nello stesso tempo aiutano l’organismo del testo a non sgretolarsi, o addirittura a irrobustirsi. Qui non si tratta però di difendere la dignità biologica e l’utilità pratica di questi minuscoli invertebrati. Qui si tratta si scardinare l’idea, vagheggiata dai neo-crusc, che l’ecosistema pronominale debba essere preservato così com’è, anzi così com’era formulato nelle teorizzazioni integraliste dei puristi ottocenteschi: «egli», «ella», «essi» e «esse» pronomi-soggetto rispettivamente per la terza persona singolare e per quella plurale; «lui», «lei», «loro» pronomi «obliqui» (da impiegare cioè in tutti gli altri casi); «gli» pronome dativo atono di terza persona singolare; «loro» pronome dativo di terza persona plurale. Ho parlato di teorizzazioni e non di prassi perché non vorrei si pensasse che nell’Ottocento i (pochi) parlanti usassero i pronomi personali come sarebbe piaciuto ai puristi. Nulla di più fuorviante. Non li usavano così i parlanti e spesso non li usavano così neppure gli scrittori, a cominciare da Manzoni, che nella seconda edizione dei Promessi sposi aprì le 52

chiuse del bon ton stilistico e inondò il romanzo di «lui», «lei» e «loro» usati come soggetti. Tanto per cambiare, per la cronaca, era stato Bembo a proporre il primo giro di vite sulla questione, e pian piano gli erano andati dietro diversi colleghi in un crescendo di integralismo che sarebbe appunto culminato nell’Ottocento. Ma prima di lui – è bene ricordarlo – ciascuno faceva più o meno come gli pareva. Al di là delle vicissitudini storiche, capirete che un ecosistema del genere, frutto di un esperimento di laboratorio più che di un processo di selezione naturale, avrebbe potuto resistere solo in uno stato di perfetto isolamento o grazie alla criogenia. Siccome invece la lingua non si lascia ibernare e tanto meno chiudere dentro un recinto, è successo che alcuni pronomi sono sfuggiti al controllo dei tanti dottor Frankenstein che li avevano in custodia e si sono rimessi a gironzolare, famelici e randagi, fuori dal laboratorio. Il risultato è che, anche nello scritto, «lui» ha ricominciato a insidiare «egli», «lei» a dar la caccia a «ella», «loro» a mettere in fuga «essi» e «esse», «gli» a marcare il terreno su cui pascolava «loro» (e in parte anche «le»). La natura, del resto, sa essere ben spietata, quando vuole. Così spietata che se una specie aggressiva ne minaccia un’altra costituzionalmente debole, anziché intervenire per garantire la sopravvivenza di quest’ultima, lascia fare con pilatesca neutralità. Prendete la coppia «egli»/«lui». Stando alle teorie dei neo-crusc, il primo, che viene dal nominativo latino «ille», andrebbe utilizzato come soggetto, mentre il secondo, derivato dal dativo «illi», dovrebbe es53

sere riservato a tutti gli altri casi. Ora, se le cose stessero veramente così, «egli» non avrebbe di che preoccuparsi per la propria incolumità: ruoli e mansioni sarebbero definiti in maniera chiara e univoca all’insegna dell’unicuique suum, e a nessuno verrebbe in mente di usare «lui» al posto di «egli» per il puro gusto di infrangere una regola. Senonché «egli» non è affatto autosufficiente come pronome soggetto, e in diverse circostanze la sua inadeguatezza lo costringe a farsi sostituire da «lui». Nessuno, ad esempio, direbbe o scriverebbe mai «me lo ha dato egli» o «è stata ella». Non è soltanto che si tratti di errori: è che sono frasi agrammaticali, espressioni cioè completamente inaccettabili, che nessun italiano madrelingua potrebbe riconoscere come appartenenti al proprio codice. La regola – perché in questo caso, se dio vuole, ce n’è una – è che quando il soggetto è posposto al verbo e aggiunge un elemento nuovo all’informazione, si può utilizzare soltanto il pronome obliquo «lui», «lei» o «loro». Così lo spiega, con parole più precise e autorevoli, Francesco Sabatini: In questa posizione e funzione il soggetto viene ad assumere quasi il ruolo di oggetto: il verbo esprime già l’idea di un evento che si verifica, e poi l’elemento nominale indica su chi o su che cosa va proiettata quell’informazione.

Certo per essere uno che di mestiere sa fare solo il soggetto, non è un buon inizio, da parte di «egli», accettare solo la posizione pre-verbale. È come se un aspirante tennista non fosse capace a tirare di rovescio o un laureando in matematica non sapesse eseguire le moltiplicazioni. 54

Il fatto preoccupante è che «egli», oltre alle moltiplicazioni, non sa fare nemmeno le addizioni. Provate a scrivere «io e egli» oppure «egli e sua sorella si volevano bene». Un pugno nello stomaco, no? E provate a confrontare l’accettabilità di frasi come «lui è sempre lui» e «egli è sempre egli». Lotta impari, nevvero? E ancora, se non siete soddisfatti, provate a rispondere «egli» a uno che vi chieda: «Chi ha ucciso il marito della baronessa?». Tragicomico, isn’t it? Tutto questo per dire che «egli» è davvero un pessimo soggetto. Non perché abbia ucciso il marito della baronessa, ma perché non sa fare in modo decente neppure il proprio mestiere. L’unica circostanza in cui «egli» se la cava è quando deve fungere da pronome anaforico, quando serve cioè a «richiamare il nome di una persona già citata in precedenza o comunque ricavabile dal contesto», senonché la sua menomazione fa sì che spesso gli si preferisca «lui» anche in questi casi. Ne cito un paio tratti dall’Iliade di Alessandro Baricco: Ascoltatemi! Ascoltate quello che dice Paride, colui che ha scatenato questa guerra. Lui vuole che deponiate le armi, e chiede di combattere lui solo contro Menelao, e decidere in duello chi avrà Elena e le sue ricchezze. Portarono ad Achille le armi che i migliori artigiani achei avevano costruito per lui, quella notte, lavorando con arte divina. Le posarono ai suoi piedi. Lui era seduto accanto a Patroclo e stava singhiozzando.

In tutti questi casi, Baricco avrebbe potuto perfettamente utilizzare «egli» al posto di «lui». Per i neo-crusc, 55

addirittura, avrebbe dovuto. Eppure, se uno se lo lascia decantare in bocca, si capisce che in questi brani «lui» dà più corpo e aroma alla prosa, la rende più calda e vicina. È come se indicasse con un dito colui di cui si sta parlando, come se ci dicesse: «Eccolo qui: guardatelo bene, toccatelo pure». Del resto, tutte le scelte linguistiche fatte da Baricco nella sua Iliade vanno in questo senso. Lo spiega lui (ripeto: lui) stesso nell’introduzione al libro, là dove afferma di aver utilizzato come testo di partenza la traduzione di Maria Grazia Ciani, in quanto propone «un italiano vivo, più che un linguaggio da filologi», aggiungendo di aver cercato, nel suo adattamento, di «proseguire in quella direzione». Eccoci dunque arrivati al nocciolo della questione. Il nocciolo della questione è che, per la maggior parte dei parlanti – e ormai anche degli scriventi – «egli» sa irrimediabilmente di obsoleto, di pedante, di affettato. Sa di nozionismo scolastico più che di vita reale, di burocratese più che di letteratura. Per questo la gente gli preferisce «lui». Per questo e perché, a conti fatti, serve a poco. Quanto detto per «egli» vale naturalmente anche per «ella» e per la coppia «essi»/«esse», anche se questi ultimi, rispetto alle forme di terza persona singolare, hanno dalla loro il vantaggio di poter essere usati anche insieme a preposizione e in riferimento a cose o animali («insieme ad essi», «per mezzo di essi»), il che spiega la loro maggior capacità di resistenza rispetto ai pronomi di terza persona singolare. 56

La morale della fiaba è comunque una sola: quando una lingua dispone di due forme concorrenti per una stessa funzione, tende a prevalere quella più duttile. Non è né bello né brutto che accada. È normale. È inevitabile. È Darwin. È quello che capita di fare anche a voi quando avete due robot da cucina di cui uno trita, impasta e centrifuga qualunque ingrediente e l’altro serve solo a passare le patate. Alla fine userete sempre il primo e dimenticherete il secondo in fondo all’armadietto, fino a quando non deciderete di buttarlo. Sarà pure un gesto anti-ecologico, ma in casa lo spazio è quello che è. Lo stesso discorso vale per il pronome indiretto di terza persona plurale «loro» («ho dato loro un compito», «ho chiesto loro il permesso di entrare»), un altro di quei relitti linguistici vintage che, se potessero, i neo-crusc metterebbero sotto vetro per impedire ai malintenzionati di toccarlo o anche solo di avvicinarsi. Ora, non ho nessuna difficoltà a riconoscere che certi pezzi di antiquariato linguistico piacciono anche al sottoscritto, ma rimpiangere «loro» è come volersi ostinare a usare gli sci di legno quando quelli in materiali sintetici sono più elastici, veloci e sicuri. Voglio dire, fuor di metafora, che «gli», oltre a essere attestato in tutta la storia della lingua italiana e a poter contare sulla forza trainante dell’uso spontaneo, è anche più comodo, più ragionevole, oserei dire persino più giusto rispetto a «loro», unico tra i pronomi dativi («mi», «ti», «gli»/«le», «ci», «vi», «loro»/«gli») ad avere due sillabe, a essere dotato di accento proprio, a non potersi combinare con altri pronomi («me lo», «te lo», «glielo», ecc.; ma non 57

«loro lo ho dato »), a non potersi allacciare a un infinito verbale, e a essere impiegato, salvo rarissime eccezioni, dopo il verbo. Come ha scritto Stefano Bartezzaghi, «ci sono errori linguistici commessi dalla Storia, e ci sono errori linguistici commessi dalla Lingua stessa, che ha i suoi momenti di distrazione»: la mancanza del pronome atono di terza persona plurale è uno di questi. La forma «gli», da questo punto di vista, non fa altro che sanare questa asimmetria e razionalizzare il sistema, disattivando una delle innumerevoli trappole della nostra lingua e rendendo la vita un po’ più semplice ai parlanti. Aggiungo che con alcuni verbi, come «piacere», «loro» suona francamente indigesto e «gli» si fa nettamente preferire: a. «Mi hanno detto che il film è piaciuto loro» b. «Mi hanno detto che il film gli è piaciuto» Sfido chiunque ad affermare che la prima versione è migliore della seconda. Solo un neo-crusc all’ultimo stadio riuscirebbe a sostenerlo. Al massimo qualcuno potrebbe suggerire una terza via («mi hanno detto che il film a loro è piaciuto»), ma con l’avvertenza che, così facendo, si produce uno slittamento di senso non banale, nella misura in cui l’espressione «a loro» non si limita a constatare, ma sottolinea una contrapposizione implicita con tutti coloro che abbiano già visto il film o debbano ancora vederlo («a loro – e non ad altri – il film è piaciuto»). Se nella lingua orale il pronome dativo «loro» è una specie ormai in via d’estinzione, in quella scritta comincia a sentire il terreno franare sotto i suoi piedi. Le ragioni sono 58

le stesse per cui «egli» e compagnia sono stati quasi sepolti dalla frana di «lui» e «loro»: perché suona forzato, pignolo, azzimato, come quando si solleva il mignolo nel sorseggiare un caffè. Anche in questo caso, l’Iliade di Baricco fa una scelta precisa e in certa misura definitiva, adottando la forma meno affettata e abbandonando quella che pare troppo artificiosa persino per il classico dei classici: Quando arrivai al torrione delle porte Scee vidi gli anziani di Troia, radunati lì a guardare ciò che accadeva nella pianura. Erano troppo vecchi per battersi, ma gli piaceva parlare e in quello erano dei maestri.

Ignoro se Baricco farà tendenza, né voglio essere il suo avvocato d’ufficio nel processo alle intenzioni che qualcuno, leggendo queste righe, gli starà idealmente facendo («guardalo lì, quello scrittore gonfiato, che si permette di riscrivere l’Iliade e, già che c’è, anche la grammatica della lingua italiana. Ma chi si crede di essere?»). Si è soliti dire che il linguista deve essere notaio e non giudice delle lingua. Deve registrare, non prendere (troppo) posizione. Tuttavia, in questo caso, Baricco ha fatto quello che fanno quasi tutti e che forse avrei fatto anch’io al suo posto: ha aperto le finestre, lasciato entrare un po’ d’aria e tolto le ragnatele alla lingua. Insomma, l’ha ringiovanita. A proposito di giovani, nel romanzo Margherita Dolcevita, Stefano Benni mette in bocca alla bambina che ne è protagonista – Margherita, appunto – una frase che riassume meglio di un intero saggio il senso di queste pagine: 59

Quando i bambini crescono e diventano adulti, capiscono subito che quello che gli avevano detto da bambini non è vero, eppure riciclano ai loro figli l’antica bugia.

Forse non l’avete notato, ma questo brano parla di noi. Anzi: parla dei (e ai) neo-crusc. Sono loro i bambini che crescono tra pareti ovattate di piccole e pietose menzogne. E sono sempre loro gli adulti che, in mancanza di meglio, rimettono in circolazione l’«antica bugia» con i propri figli, dove l’«antica bugia» non è ovviamente l’esistenza di Babbo Natale, bensì l’idea di una grammatica-totem che ha tante risposte, e tutte giuste, per ogni dubbio. Sdoganato ciò che era giusto sdoganare, mi sembra però opportuno mantenere controlli più ferrei per quanto riguarda gli sconfinamenti del dativo maschile singolare «gli» nel territorio del femminile «le». Non è una questione di doppia morale, ma di semplice rispetto per le simmetrie della lingua: se per i pronomi soggetto esistono una maschile e un femminile («lui»/«lei» e «egli»/«ella»), non c’è infatti motivo di neutralizzare questa distinzione di genere fra i pronomi atoni. Chi dice «gli ho detto» invece di «le ho detto», insomma, non viola soltanto il codice della tradizione, ma anche quello degli equilibri interni a una lingua e, di conseguenza, delle pari opportunità. Certo, anche qui si tratta di una semplificazione del paradigma pronominale, senonché nella fattispecie, anziché ripristinare una simmetria, «gli» la rompe. Piuttosto, così come si va estendendo l’uso di «gli» per la terza persona plurale, forse non sarebbe un delitto fare altrettanto con «le», ma non vorrei che questa venisse presa per una proposta, perché le 60

proposte, le raccomandazioni, e a maggior ragione le leggi, non fanno quasi mai il bene della lingua. Ancora alcuni appunti sparsi sui pronomi. Primo: si dice «io e te» o «tu ed io»? Nel parlato vince il primo di goleada, nello scritto metterei «X2» in schedina, anche se mi risulta difficile immaginare situazioni d’uso che non rientrino nella corrispondenza personale (nel qual caso, visto che ci si dà già del «tu», tutto sommato ci si può dare anche del «te»). A chi insistesse nel dire che «te» non è un pronome soggetto, potrei rispondere che almeno in due casi «te» e «me» svolgono le funzioni che in latino spetterebbero a un nominativo: uno, nei paragoni di uguaglianza («come me», «come te»: in spagnolo invece si dice «como tú» e «como yo»); due, quando hanno funzione predicativa e c’è diversità di soggetto («tu non sei me»). Secondo appunto: «c’ho la macchina nuova» o «ho la macchina nuova»? Di nuovo, la prima versione gioca in casa nella lingua parlata mentre la seconda dovrebbe avere la meglio in quella scritta, anche per via della problematica resa grafica della combinazione «ci» + verbo «avere» (tra le varianti spurie segnalo almeno «ciò», «c’ò», «ci ho»). In ogni caso dipende sempre da che tipo di scritto si tratta: se è scritto-scritto, non sussistono dubbi. Ma se è uno scritto che cerca di imitare il parlato, allora la trasgressione diventa inevitabile. Peraltro mi sembra giusto ricordare che esiste almeno un caso in cui il «ci» con il verbo «avere» è obbligatorio, ed è quando a domanda (ad esempio: «hai l’abbonamento?») si risponde con un pronome («sì, ce l’ho»). 61

Il fenomeno in questione ha comunque portata più ampia, e riguarda l’ipertrofia pronominale dell’italiano, che tende a fare un uso smodato di particelle come quelle persone che si imbottiscono di pasticche senza ricetta medica. Rientrano in questo fenomeno anche i casi di «pronominalizzazione intensiva», che non è una terapia d’urgenza contro il calo pronominale, bensì una forma di iper-codificazione della persona verbale («mi sono visto un bel film», «si è mangiato un panino con la mortadella») che si fa in due comparendo contemporaneamente come soggetto e come beneficiario dell’azione. Giusto? Sbagliato? Me lo devo pensare. L’ultimo appunto lo riservo ai pronomi allocutivi, al secolo «tu» e «lei». Qui il libertino lascia spazio al conservatore, che rimpiange i tempi in cui a partire da una certa età e in determinati contesti sociali o professionali era di prammatica il «lei». Non arrivo, per ragioni ideologiche e di età, al punto di struggermi per la dipartita del fascistissimo «voi», ma non credo di essere l’unico cittadino di questo paese a coltivare un po’ di nostalgia per i tempi in cui la lingua si incaricava di marcare distanze di ruolo che al giorno d’oggi si sono sgretolate, facendoci sembrare – il professore e l’allievo, l’adulto e il giovane – tutti troppo uguali e tutti troppo amici. Soluzioni? Ovviamente nessuna. Ma d’ora in avanti, se non siete d’accordo con le cose che scrivo, vi pregherei di darmi del «lei».

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FARINA DA ALTRI SACCHI

Francesco Sabatini, L’“italiano dell’uso medio”: una realtà tra le varietà linguistiche italiane, in Gesprochenes Italienisch in Geschichte und Gegenwart, a cura di Günter Holtus e Edgar Radtke, G. Narr, Tübingen 1985, pp. 154-184. Dove si intuisce che l’“italiano dell’uso medio” non è per forza mediocre.

6.

(Non) c’è di «che»

«E qui c’è Raffaello che si vede la faccia.» Avreste dovuto vedere la faccia. Non quella di Raffaello, che sporgeva, grave ma affabile, sul lato destro dell’affresco vaticano della Scuola di Atene da lui stesso dipinto, ma quella del professore di Storia dell’Arte: un lupo mannaro a digiuno, con la bava grondante da ambo i lati della bocca, lui che per solito era un uomo di mondo socievole e spiritoso. E il mio compagno di banco Massimiliano, di fronte a lui, con l’aria interdetta di quello che non si rende conto di averne sparata una enorme – e perché. La sfuriata durò alcuni minuti, al termine dei quali Massimiliano fu rispedito al posto con un votaccio del tutto immeritato sul registro: immeritato perché lui, dopotutto, aveva studiato, e perché quello «che si vede la faccia» era, in effetti, proprio Raffaello. Fortunatamente, per quanto un poco rustico nel modo di esprimersi, Massimiliano era anche – e credo continui a essere – persona intelligente e imperturbabile, tanto che l’episodio, lungi dall’imbarazzarlo o deprimerlo, divenne in breve fonte di gioconde risate tra i compagni, cui lui partecipava con ammirevole autoironia. A provocare una reazione così virulenta da parte del 64

prof era stato ovviamente il maltrattamento del pronome relativo, che nella scuola di quei tempi – parlo di oltre vent’anni fa – non costituiva un semplice errore di grammatica, ma era considerato alla stregua di un oltraggio alla lingua. Il Sessantotto era passato da un pezzo, e con esso l’idea che solecismi e anacoluti fossero il pittoresco intonaco con cui il buon selvaggio era autorizzato a decorare il proprio italiano ancora in costruzione. La grammatica, dopo qualche anno di esilio forzato dal guardaroba ideologico della scuola italiana, era di nuovo lì a delimitare il perimetro che separava il buon italiano da quello cattivo, e quelli come Massimiliano erano tornati ad essere gli ineleganti imbratta-lingua di sempre. Non importava che l’errore lo avesse commesso durante un’interrogazione di Storia dell’Arte anziché di Italiano; non importava che il suddetto errore si fosse prodotto in una situazione di lingua parlata; non importava che mai e poi mai a Massimiliano sarebbe sfuggito nulla di simile in una prova scritta: quell’espressione in italiano un po’ sgangherato bastava di per sé a giustificare la pubblica censura nei suoi confronti, come se l’uso corretto del relativo costituisse la soglia minima al di sotto della quale nessuno, tanto meno lui, poteva accampare diritto di cittadinanza culturale nel nostro Paese, nella nostra scuola e nella sua materia. Ora, malgrado la politica di tolleranza zero praticata vent’anni fa dal prof di Storia dell’Arte e da molti dei suoi sodali, e nonostante l’irriducibile integralismo dei bellicosi neo-crusc, mi duole annunciare che il «che» alla Massimiliano (ti abbraccio, ovunque tu sia) gode tuttora di otti65

ma salute. Gode di ottima salute nella lingua parlata, ovviamente, ma è abbastanza in forma anche in quella scritta, dove peraltro può vantare una tradizione molto più lunga e radicata di quanto non si immagini. Ma che cos’è, in concreto, il «che» alla Massimiliano? Si può ancora chiamare pronome relativo o è una perversione linguistica talmente abietta da non meritare neanche un nome? Risposta tecnica: il «che» alla Massimiliano non è esattamente un pronome ma è certamente un relativo, privo però di una qualunque marca della sua funzione grammaticale (eventualmente delegata a un pronome atono). Risposta mia: il «che» alla Massimiliano è un vorace semplificatore sintattico, che tende a fagocitare tutti gli altri relativi («il/la quale», «cui») ereditandone, sia pure in forma annacquata, le caratteristiche grammaticali. Nello specifico, si possono distinguere due tipologie di questo curioso ibrido: il «che» con ripresa pronominale e il «che» senza ripresa pronominale (o «che» alla Massimiliano propriamente detto). Nel primo caso (esempi a e b) la funzione grammaticale del «che» è data da un pronome, nel secondo caso (esempio c) si ha invece un legame grammaticale più lasso e sfumato, anche se facilmente ricostruibile: a. «Quello di Luca è un cane che non gli puoi (a cui non puoi) dare delle carezze, se no ti morde.» b. «A casa di Luca c’è una scala che non ci si può salire sopra (su cui non si può salire) perché è pericolante.» 66

c. «Sono andato a una conferenza che si parlava (in cui si parlava) di cambio climatico.» Aggiungo una cosa: il «che» alla Massimiliano si fida talmente poco di sé stesso e della sua capacità di fornire tutte le informazioni grammaticali necessarie, che a volte si associa a un pronome anche quando non ne avrebbe alcun bisogno, ovvero quando svolge funzione di soggetto o di complemento oggetto: d. «Ho un amico che lui è molto appassionato di modellismo.» e. «È un film che l’ho visto un sacco di volte.» Sento un brusio levarsi dalla platea: «Ma noi non diremmo mai frasi del genere!». Sì che le direste. Le dite voi e le dico io. Un’insegnante di mia conoscenza, spietata fustigatrice di ogni forma di scostumatezza linguistica, una volta mi ha raccontato di aver presentato un libro nel paese di x «che c’è una sala che si può affittare per questo tipo di eventi». Avrei voluto farle notare l’ineleganza, ma sicuramente avrebbe negato, come certi assassini vittime di un raptus che un minuto dopo aver commesso il crimine non ricordano più nulla. Siccome temo anch’io di essere un potenziale assassino di relativi, ritengo di aver fatto bene ad abbozzare. Torniamo al nostro «che». Di lui possiamo dire, riassumendo quanto osservato finora, che come relativo sa fare un po’ di tutto, e se non sa, si arrangia. Più che a un operaio specializzato somiglia a quegli artigiani tuttofare che chiamiamo al capezzale della nostra casa, che si tratti della perdita in bagno, del banale guasto elettrico o dell’anten67

na da riparare. In altre parole è lui il pulsante più comodo da trovare sulla tastiera delle scelte sintattiche quando la comunicazione incalza, è lui la stampella più stabile a cui lasciare appesa la frase in attesa di progettarne il seguito. Mettetevi dunque nei panni di Massimiliano e pensate a come avrebbe potuto completare la frase una volta giunto sull’orlo del baratro: «E qui c’è Raffaello che...». «Che fa capolino con la sua faccia accanto a quella del Sodoma»? «Che s’erge infra color che a manca stan ritti»? A freddo siamo capaci tutti. Ma a caldo? A caldo Massimiliano voleva dimostrare prima di tutto che lui era in grado di riconoscere i personaggi raffigurati nell’affresco, a cominciare da Raffaello. Era quello l’argomento della sua esposizione, era quella l’informazione che lui considerava più importante e urgente da fornire. A quel punto, con mezza frase già infornata, doveva affrettarsi a cucinare l’altra metà prima che il resto del concetto («la faccia») gli sfuggisse dalla mente. Non cerco alibi postumi per lui, anche perché non ne ha bisogno. Cerco solo di dimostrare che spesso, nell’urgenza implacabile della conversazione, il «che» può essere utile a prendere tempo senza lasciare vuoti comunicativi. Che questo possa produrre talora effetti molesti non lo nega nessuno, ma ci sono certi neo-crusc con le orecchie un po’ troppo delicate che non accettano nemmeno di sentire cose come «il giorno che ti ho incontrato» perché secondo loro bisognerebbe dire «in cui». L’esempio non è casuale: ricorderete un film di Carlo Verdone intitolato proprio Maledetto il giorno che ti ho incontrato. Ecco, se si fosse 68

chiamato Maledetto il giorno in cui ti ho incontrato, semplicemente non sarebbe stato un film di Verdone. Nello specifico, fra l’altro, «il giorno che ti ho incontrato» non dovrebbe costituire errore nemmeno per il purista più arcigno, essendo che nell’espressione da cui deriva – «ti ho incontrato il giorno x» – il complemento di tempo («il giorno x») manca di preposizione. Ma se ai nostri neocrusc una forma del genere sembra già esecrabile, cosa dovrebbero dire di quel tale che poco più di un secolo fa osò scrivere in una poesia: «nell’ora che penso a’ miei cari»? Quel tale, per chi non lo avesse riconosciuto, era Giovanni Pascoli, e il verso in questione era il secondo di uno dei suoi componimenti più celebri, il già citato Gelsomino notturno. Ora, inutile dire che Pascoli sapeva perfettamente quello che scriveva, e soprattutto come lo scriveva. Idem dicasi di Dante, Petrarca, Bembo, Manzoni, Pasolini, che potrebbero essere chiamati tutti quanti come correi per il medesimo reato di «leso relativo» (per chi volesse approfondire la questione rimando ancora una volta al libro di Paolo D’Achille segnalato in precedenza). E dunque? Sbagliavano tutti? La nostra norma è migliore della loro? Gli errori sono errori solo quando li commettono gli incolti (cioè noi)? Che poi, in fondo, non è nemmeno questo il punto. Il punto è che il «che» alla Massimiliano, brutto o bello che sia, si usa oggi e lo usano quasi tutti, non solo nell’italiano parlato. È come una slavina che non soltanto travolge le fragili barriere ideologiche erette dai neo-crusc, ma col tempo tende a ingrandirsi, a irrobustirsi, a trascinare con 69

sé i registri più sorvegliati e i parlanti più insospettabili, al punto che diventa difficile, alla fine, distinguere gli usi più sciatti da quelli, diciamo così, ‘fortuiti’. Un indicatore attendibile, da questo punto di vista, è la presenza di una pausa prolungata dopo il «che», che azzera quanto detto precedentemente e autorizza a riprogettare il discorso da capo: «E qui c’è Raffaello che... sulla destra si vede la faccia di Raffaello». Un altro è la distanza tra il «che» e il verbo della relativa, nel senso che se fra i due c’è un oceano di parole, è più facile per il parlante perdere la rotta e naufragare nel procelloso mare della sintassi: «E qui c’è Raffaello che, raffigurato sulla destra dell’affresco accanto al Sodoma e a un paio di altri filosofi non facilmente riconoscibili, si vede la faccia». Per il resto, tutto dipende dal grado di autorevolezza e istruzione del parlante, eufemismo per dire che se il «che» alla Massimiliano esce dalla bocca di un professionista della lingua si tratta di un lapsus o di una violazione consapevole della norma, mentre se capita allo stesso Massimiliano, o chi per lui, è un errore e basta. È la classica doppia morale all’italiana, ma le cose stanno proprio così. Nella lingua scritta la situazione è un po’ più chiara. E tuttavia, accanto agli usi stilisticamente marcati che ne potevano fare Pasolini («Tagliò per i vicoletti di Torpignattara, che in mezzo a quell’ora non ci si passava») e Calvino («Erano gente tranquilla, che non gli piaceva litigare con nessuno») o che ne fa il solito Paolo Nori («Ci sono delle cose (...) che noi ce le beviamo come all’epoca si bevevano la superiorità del fascismo», «Comunque io quel che vole70

vo dire che da quel momento lì per me io ho un rispetto, di Niccolò dell’Arca, che prima non ce l’avevo») e a quelli inequivocabilmente frutto di trascuratezza (non pensate solo a certi temi di terza elementare: sul sito di «Repubblica» mi è capitato di leggere in un titolo Arrivano le magliette che ci si riscrive sopra), ci sono anche molti casi, diciamo così, borderline. Tra questi collocherei tre esempi abbastanza celebri e abbastanza clamorosi che hanno marcato la nostra (la vostra non so, la mia certamente sì) giovinezza: 1. «Quella sua maglietta fina / tanto stretta al punto che / mi immaginavo tutto / e quell’aria da bambina / che non gliel’ho detto mai / ma io ci andavo matto.» 2. «Tu che sei nata dove c’è sempre il sole / sopra uno scoglio che ci si può tuffare.» 3. «Sono un ragazzo fortunato / perché mi hanno regalato un sogno / sono fortunato / perché non c’è niente che ho bisogno.» Riconosciute le citazioni? Sono tratte rispettivamente da: Questo piccolo grande amore di Claudio Baglioni (1972), Fiore di maggio di Fabio Concato (1984) e Ragazzo fortunato di Jovanotti (1992). Vent’anni di canzoni che, per dirla con le loro parole, ci si sorride ancora sopra. Si sorride perché quei versi parlano dell’amore e della vita come ne parlerebbe un dodicenne, perché spremono da emozioni complesse un succo di parole dolciastre e sgrammaticate, perché invece di arrampicarsi sui tetti espressivi della poesia aulica preferiscono avventurarsi negli scantinati della lingua parlata, andandovi a pescare pezzi di quel71

la piccola chincaglieria romantica che tutti noi, da qualche parte, conserviamo. E tuttavia oso azzardare che il segreto del loro successo, in parte, stia proprio lì, nell’aver saputo raccontare la banalità dei sentimenti con una lingua per nulla costruita, nell’aver trovato in quei «che» apparentemente sgraziati la cifra esatta di quel codice che intendevano rappresentare. Prova ne sia che le tre canzoni resistono all’ingiuria del tempo e rimangono ancora, a distanza di qualche decennio – quale più quale meno – testimoni fedeli di una porzione di italiano che nel frattempo è rimasta sostanzialmente intatta. Che altro aggiungere? Direi almeno tre osservazioni. La prima è che tra i relativi, oltre al «che» alla Massimiliano, va forte pure il «dove» alla Altobelli, dal nome di un celebre calciatore italiano degli anni ’70 e ’80, tanto implacabile sotto porta quanto sgraziato alle prese con la sintassi. La sua particolarità era di invertire il «dove» e il «che» con spietata puntualità: «San Siro è uno stadio che è difficile giocare», ebbe a dire una volta, concludendo: «Ma noi siamo una squadra dove non finisce mai di stupire». La seconda osservazione è che, oltre a essere il relativo più amato dagli italiani, il «che» sa fare un sacco di altre cose. Si potrebbe definire una specie di Zelig della subordinazione (ma non solo), pronto ad assumere, con o senza opportuni travestimenti, la funzione che il parlante di volta in volta gli assegna o che il contesto reclama. Avete qualcosa da chiedere? Il «che» domanda («che vuoi?»); vi serve un pizzico di enfasi? Il «che» esclama («che bello!»); 72

inoltre il «che» sa argomentare («svegliati che è tardi»); sa prospettare effetti e conseguenze («ho una fame che non ci vedo»), sa sperare, promettere e (sper)giurare («spero/ prometto/giuro che tornerò presto»); sa, in generale, amalgamare bene le frasi, anche a costo di risultare stucchevole come la panna nei sughi e di perdere, talora, le sue prerogative di congiunzione subordinante per diventare un connettivo qualunque. Bastino come esempi i primi due «che» di questo brano di Paolo Nori (prometto che d’ora in poi non lo citerò più), qui impegnato in un virtuoso equilibrismo sintattico: L’Estonia non vi si presenterà subito come un paese amichevole che voi direte Ah, finalmente siamo arrivati in Estonia, no, che quando la doganiera vi chiederà di guardare il numero di telaio voi penserete Va be’, lo fa per far vedere alla sua collega lettone che vi guarderà dalla Lettonia tre metri più indietro che anche lei sa le procedure europee (...)1.

La terza osservazione è che alcuni, specialmente i bambini, usano il «che» addirittura per cominciare un discorso. Qui si rischia di spargere nuovo sale sulla ferita aperta nel capitolo dedicato all’ordine delle parole, e dunque è meglio dire subito che in questo caso si tratta di un tic brutto a sentirsi, anche se, come molti disturbi tipici dell’infanzia, tende a scomparire con l’età. Resta il fatto che cominciare una frase col «che» non costituisce necessariamente reato, specie se dal contesto si può desumere un ver1 Daniele Benati, Paolo Nori, Baltica 9. Guida ai misteri d’oriente, Laterza, Roma-Bari 2008.

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bum dicendi sottinteso («Che cosa mi racconti? Che mi sono sposato e che ho un bambino di 5 anni»). A queste osservazioni, volendo, se ne potrebbe aggiungere una quarta, inevitabile corollario delle altre tre: a furia di farcire la sintassi con massicce dosi di «che», si rischia infatti l’indigestione. Nel parlato si nota meno, ma nello scritto, dove tutto rimane sulla pagina, certe ridondanze rimangono anche un po’ sullo stomaco. Nel suo L’italiano. Lezioni semiserie, Beppe Severgnini fa giustamente notare come si tratti di un problema caratteristico dell’italiano (e dello spagnolo, aggiungo io), perché in inglese esistono almeno sei modi diversi per tradurre «che» (who, whom, which, that, what, than), che evitano il rischio di ripetizioni moleste. In questo senso lo stesso Severgnini propone addirittura l’abolizione del «che», o quantomeno una moratoria che ne limiti drasticamente l’uso, suggerendo allo scopo esercizi di bonifica dei testi infestati da questi fastidiosi insetti della sintassi. Un proposito nobile ma difficilmente realizzabile. Checché lui ne dica. FARINA DA ALTRI SACCHI

Paola Benincà, Sintassi, in Introduzione all’italiano contemporaneo, vol. 1. Le strutture, a cura di Alberto Sobrero, Laterza, Roma-Bari 200810, pp. 246-290. Dove si capisce che il concetto di errore nell’uso del pronome relativo è qualcosa di estremamente relativo.

7.

La congiuntura del congiuntivo

Se c’è una cosa che rappresenta e riassume meglio di tutte le altre il conservatorismo, le nevrosi puriste e il feticismo linguistico dei neo-crusc, questa è il compianto preventivo sulla sorte del congiuntivo. Una sorte che, secondo costoro, sarebbe irrimediabilmente segnata dalle offese, dagli abusi e dalle umiliazioni quotidiane cui lo sottopongono i parlanti, che alla sua indole cauta e dubbiosa preferiscono le maniere spicce e prepotenti dell’indicativo. Nel sentirli rimpiangerne anticipatamente le virtù e il blasone, sembra quasi che i neo-crusc stiano parlando di una persona in carne e ossa, più che di un modo verbale, e in effetti il congiuntivo somiglia un po’ a certi vecchi gentiluomini dagli abiti fuori moda e dalle maniere garbate che chiedono sempre permesso prima di entrare e non alzerebbero mai la voce durante una conversazione. A voler essere pignoli, si potrebbe osservare che il nostro anziano signore della grammatica a tratti può risultare pedante, forse addirittura un filino snob, e tuttavia è impossibile provare antipatia nei suoi confronti e non sentirsi minimamente coinvolti dai persistenti problemi di salute di cui, stando alle voci più accreditate, soffrirebbe. 75

Oddio: a guardarlo bene il vecchio non sembra avere un’aria così malaticcia. Anzi, per essere un modo verbale, ha ancora un discreto aspetto, certo molto più sano e vivace di certi tempi dell’indicativo come il trapassato remoto o il futuro anteriore, ormai ridotti a figurine scheletriche senza che nessuno si sia mai sentito in dovere di preoccuparsene. Non importa che illustri accademici come Maria Luisa Altieri Biagi o Luca Serianni garantiscano sul suo stato di salute complessivamente buono, specie nell’uso scritto; non basta che l’istruzione obbligatoria e i mezzi di comunicazione di massa lo abbiano portato in casa di chi, altrimenti, non avrebbe mai avuto occasione di conoscerlo: per i neo-crusc, i sintomi di prostrazione del paziente sono molteplici e inequivocabili. E tuttavia, a parte lo sguardo grave e i sospiri prolungati da veglia funebre, bisogna dire che grandi soluzioni non ne prospettano. Proviamo dunque a capire noi se il malato è così malato, se i suoi disturbi possono essere in qualche misura fisiologici e, soprattutto se, e in che misura, abbia senso curarlo. Da un primo sommario check-up emerge un dato abbastanza chiaro, e cioè che nello scritto – formale e non – il congiuntivo non mostra alcun segno di cedimento visibile. Anzi, persino in quella geenna di linguaggi che è la Rete, in cui confluiscono promiscuamente il meglio dell’italiano scritto e il peggio di quello parlato, l’anziano gentiluomo resiste con buona tempra alle imboscate ordite dall’indicativo. Un motore di ricerca, da questo punto di vista, fornisce sempre buoni indizi: se provate ad esempio a inserire nella stringa di Google le sequenze «credo che sia» e «credo 76

che è», scoprirete – forse con sorpresa – che la prima è molto più vitale della seconda (il rapporto è circa di dieci a uno). Ancora più clamoroso è il gap tra «voglio che tu sia» e «voglio che sei» (più di cinquecento a uno). Certo, in alcune aree, come quella del periodo ipotetico, la situazione è più opaca e controversa: «se avessi potuto sarei venuto», per esempio, soccombe nei confronti di «se potevo venivo», ma vorrei insistere sul fatto che non tutto l’italiano che si legge su Internet può essere considerato ‘scritto’, per quanto tecnicamente lo sia. Nella scrittura ‘vera’, in compenso, non c’è partita. Provate a scivolare su un congiuntivo, non dico in un tema scolastico, terreno notoriamente – e costituzionalmente – pieno di bucce di banana, ma in una mail di lavoro, o in una lettera all’amministratore di condominio, o in un dépliant pubblicitario: rischiereste il posto di lavoro, non convincereste l’amministratore a installare la pulsantiera in ottone e (vi) fareste una pessima pubblicità. Questo significa che, in certi contesti, la sanzione scolastica e quella sociale per leso congiuntivo sono da ritenersi oltremodo giuste e necessarie, ma significa anche che non sono poi così numerosi i temerari o i disadattati che sfidano la norma al punto di esporsi al pubblico ludibrio. Al massimo, quelli che non lo conoscono, o che lo utilizzano con la stessa disinvoltura di uno che indossi i pattini da ghiaccio per la prima volta, evitano di trovarsi in situazioni scivolose per non ritrovarsi pancia (e sintassi) all’aria. Detto questo, congiuntivo e indicativo agiscono su ambiti sintattici limitrofi e spesso tra i due sorgono complicate 77

dispute territoriali che sarebbe avventato tentare di risolvere dando pregiudizialmente ragione ai fautori del congiuntivo. Pensate ad esempio al verbo «credere». La grammatica tradizionale lo classifica senza troppi distinguo tra i verba putandi, volgarmente detti «verbi di pensiero», e così facendo gli rifila un bel pacchetto di incombenze grammaticali tra cui figura, appunto, la reggenza del congiuntivo nelle subordinate. E tuttavia c’è modo e modo di «credere». C’è il credere dubitativo di chi fornisce un’umile opinione, e c’è il credere pio e convinto di chi non esprime soggettività di giudizio ma la certezza di una fede. Un conto è affermare: «credo che Marco è una brava persona»; un altro è dire: «credo che Marco sia una brava persona». Nel primo caso, per Marco mettereste la mano sul fuoco; nel secondo caso Marco è un tipo che vi ispira fiducia ma a cui non rivelereste mai il pin della vostra carta di credito. Scriveva Antonio Gramsci nella Città futura: «Odio gli indifferenti. Credo che vivere vuol dire essere partigiani». Concordo in pieno: sia nel merito del suo giudizio sia con l’uso dell’indicativo. Non si può credere in certe cose col congiuntivo. È come dire che non ci si crede fino in fondo, che si mantiene una minima riserva mentale, che se qualcuno dimostrasse che è vero il contrario saremmo pronti a cambiare idea. Il credente vero, il credente kierkegaardiano, il credente del «credo quia absurdum», non dirà mai: «Credo che Dio esista». Se lo facesse non sarebbe un vero credente, ma uno scettico travestito. Aggiungo tre osservazioni: la prima è che mentre tutti si stracciano le vesti e deprecano la decadenza dei costumi se 78

solo uno si azzarda a perdere per strada un congiuntivo, si tende a dimenticare che tutti i verba putandi, compreso «credere», sono perfettamente autorizzati a reggere almeno un tempo dell’indicativo – il futuro – senza alcun tipo di restrizione: «credo che arriveremo presto», «suppongo che non finirò entro stasera» sono frasi non soltanto accettabili, ma corrette a tutti gli effetti, le si guardi con la lente indulgente degli accademici più anticonformisti o con quella tradizionalista e impietosa dei neo-crusc. La seconda osservazione è che in italiano si possono dare giudizi e opinioni in maniera grammaticalmente ineccepibile anche senza utilizzare il congiuntivo. Lapalissiano, direte. Fino a un certo punto: perché se io dico «Marta è arrivata, credo» anziché «credo che Marta sia arrivata» dimostro che l’indicativo possiede una tavolozza di possibilità espressive che il congiuntivo non ha. Ne riparleremo fra breve. L’ultima osservazione, che in qualche modo scaturisce dalle precedenti, è che in italiano bisogna distinguere i «congiuntivi per amore» dai «congiuntivi per forza». I «congiuntivi per amore» sono quelli che si impiegano per sottolineare uno stacco di significato o di registro rispetto a possibili alternative (tipico caso quello del periodo ipotetico: «se avessi potuto sarei venuto» vs. «se potevo venivo»); i «congiuntivi per forza» sono quelli che si devono utilizzare comunque per non inceppare i meccanismi della grammatica, perché usare un altro modo non sarebbe soltanto brutto, ma inaccettabile: va da sé che i «congiuntivi per forza» (come quelli in dipendenza da «sebbene», 79

«prima che», «affinché», ecc.) sono mediamente più resistenti e diffusi rispetto ai «congiuntivi per amore», a conferma del fatto che non ci si possono aspettare comportamenti virtuosi senza fornire dei buoni motivi. Nell’oralità, come ho anticipato, il livello di guardia sull’uso dei congiuntivi è molto più basso. Di lì la preoccupazione dei neo-crusc, i quali temono che le ondate del parlato possano facilmente straripare nello scritto, se appena le si assecondi un po’. In alcuni casi, lo ammetto, anche a me si caglia il sangue nelle vene quando ascolto obbrobri tipo «basta che prendete un foglio di carta» o «pensavo che stavi meglio». È come quando senti le unghie grattare sulla lavagna: ti dà fastidio anche solo pensarci. Dirò di più: quando mio figlio, intorno ai tre-quattro anni di età, ha sciorinato il suo primo periodo ipotetico dell’irrealtà con tutti i modi e i tempi verbali al loro posto, confesso di aver avuto un fugace fremito d’orgoglio, come quando l’avevo visto gattonare o camminare per la prima volta. Se l’uso del congiuntivo – mi dicevo – segna il passaggio dal ragionamento puramente semantico a quello speculativo, dal significato alla congettura, dal reale al virtuale, allora – concludevo – vuol dire che mio figlio è proprio intelligente. Mi sbagliavo. Non perché mio figlio non fosse intelligente (in realtà direi che è abbastanza normale), ma perché quel ragionamento dimostrava innanzitutto quanto io fossi – anzi: ero – cretino. Il congiuntivo, infatti, di per sé non voleva dire nulla, se non che il piccolo, come tutti i bambini che acquisiscono una lingua, imitava il modo di parla80

re di suo padre, di sua madre e della maggior parte delle persone che lo circondavano. Se avesse usato l’imperfetto al posto del congiuntivo, non sarebbe stato meno intelligente. Quando poc’anzi scrivevo che il congiuntivo può risultare talora un po’ snob e pedante, mi riferivo proprio a questo: al fatto che il prestigio sociale di cui gode è di gran lunga superiore ai suoi meriti linguistici. Non è insomma affatto vero che il congiuntivo sa comunicare cose che con l’indicativo non si potrebbero esprimere. E non è vero perché il congiuntivo, dopotutto, è un solo modo verbale, e il modo è una categoria grammaticale, non semantica. La categoria semantica più prossima si chiama modalità, ma è una cosa diversa e non necessariamente coincide con il modo. Il modo è una forma, la modalità ha a che fare col significato, e più precisamente con il voltaggio comunicativo (in semiotica si chiamerebbe forza illocutiva) che si intende dare al messaggio: la scelta del modo dipende dalla grammatica, quella della modalità da ciò che voglio dire; l’indicativo e il congiuntivo sono modi; obbligo, permesso, necessità e possibilità sono modalità. È più o meno chiaro? Provo a fare un paio di esempi. Se io dico «torna subito!» e «voglio che (tu) torni subito», la modalità del messaggio è identica (si tratta di un ordine), anche se una volta uso l’imperativo e un’altra il congiuntivo. Non cambia la modalità, cambia il modo. All’opposto, se dico «penso che Marco torni» e «voglio che Marco torni» uso lo stesso modo – il congiuntivo – per esprimere modalità diverse (nel primo caso incertezza, nell’altro ordine). 81

Aggiungo – e con ciò chiudo la digressione tecnica – che in tante lingue, a cominciare dall’inglese e dal francese, il congiuntivo non esiste o è clamorosamente marginale, ma questo non ne sminuisce il blasone e soprattutto non significa che non si possano esprimere altrimenti le diverse modalità comunicative. Semplicemente, non disponendo di un utensile come il congiuntivo, queste lingue utilizzano altri attrezzi più grossolani (avverbi, verbi modali, ecc.) per modulare i pensieri e limare i significati. Punto. Tutta questa lunga divagazione per far capire che l’alone sacro da cui è avvolto il congiuntivo non è il riflesso di quello che ‘significa’ ma di quello che ‘rappresenta’. E il congiuntivo, nel nostro Paese, rappresenta una specie di patente nobile del buon parlare, di lasciapassare sociale che permette di riconoscere immediatamente il milieu intellettuale delle persone dalle desinenze che usano. Può sembrare un discorso classista – e in parte lo è – ma dall’uso dei modi verbali si capisce subito chi ha fatto buone scuole e chi no, chi è circondato da persone ragionevolmente istruite e chi no, chi ogni tanto legge libri o giornali e chi no. Non è più vero, invece, che l’uso del congiuntivo identifichi anche un’élite economica e «borghese», e anzi c’è tutto un ampio segmento di imprenditori e commercianti che ne fanno volentieri a meno, quasi lo considerassero un’inutile forma di affettazione per lo sbrigativo pragmatismo di cui è fatto il loro lavoro. In questo senso, usare il congiuntivo nel parlato non è più uno sfizio linguistico da ricchi ma è rimasto un piacere di nicchia, prelibatezza 82

slow-language che per molti parlanti ha lo stesso valore biologico dei formaggi di malga e del lardo di Colonnata. Più o meno gli stessi concetti, sia pure con altre parole, esprimeva qualche tempo fa Piero Ottone nella sua rubrica settimanale sul «Venerdì di Repubblica»: Il modo verbale di cui parliamo è paragonabile all’uso della cravatta. Ma se così è, possiamo definirlo una bandiera di classe. La difesa del congiuntivo è una delle ultime battaglie che si combattono per non sprofondare nell’uguaglianza totale, in una società senza differenze di ceto, senza classi. Come si difende un club esclusivo. Lo dico, sia chiaro, senza ombra di riprovazione (...).

Lontani i tempi di Fantozzi e del suo collega Filini, che usavano congiuntivi abborracciati per darsi un tono in un ambiente che di fatto li disprezzava e li teneva ai margini (celeberrimo lo scambio di battute sul campo da tennis: «Allora, ragioniere, che fa: batti?», «Ma come, Filini, mi dà del tu?», «No, no, dicevo: ‘batti lei’», «Ah, è un congiuntivo...»), oggi non ci si deve stupire se un politico ragionevolmente acculturato come Pier Ferdinando Casini proclama durante una conferenza stampa (per giunta dedicata al tema dell’istruzione): «È inutile che vi avventurate in percorsi universitari che vi daranno solamente illusioni». Non sorprenderebbe anzi che qualche esperto in comunicazione gli avesse suggerito di evitare i congiuntivi di proposito, per uscire dalle paludi stagnanti della comunicazione politica e avvicinarsi al linguaggio della cosiddetta ‘ggente’. Da questo punto di vista, aveva torto il suo collega Fausto Bertinotti quando affermava in un’intervista: «Io lo so 83

che il sogno dei borghesi è avere dei comunisti che sbagliano il congiuntivo, che sono sporchi, che vestono malissimo, che sono maleducati, in modo da poter dire che i comunisti sono così». E aveva torto perché i veri borghesi, agli occhi del popolo, spesso sono proprio i «comunisti», che si preoccupano più delle sorti del congiuntivo che del problema della sicurezza e dell’aumento delle tasse. Al di là dei facili sociologismi, l’ostentata inosservanza della sintassi e il silenzioso genocidio dei congiuntivi da parte di molti parlanti dimostrano comunque che i timori dei neo-crusc sulla salute del congiuntivo hanno qualche fondatezza, almeno per quanto riguarda la lingua orale. Resta da capire se esistono ragioni specificamente linguistiche che possano spiegare il suo progressivo abbandono da parte dei parlanti. Propongo tre piste d’indagine: una sociolinguistica, una sintattica e una semantica. Quella semantica l’abbiamo già esplorata parlando di modo e modalità, giungendo alla conclusione che il congiuntivo, come portatore di significati, è un utensile linguistico quasi sempre rimpiazzabile. La pista sociolinguistica porta da un lato verso la scomparsa del «lei», che in Italia ormai non ci si dà più nemmeno tra adulti, con conseguente erosione di un altro terreno tradizionalmente di competenza del congiuntivo: quello della ritualità formale; dall’altro, soprattutto, ci fa viaggiare a ritroso nella storia della nostra lingua per ricordarci che l’italiano parlato è una creatura ancora giovane e, come tutte le lingue che escono dai libri ed entrano nella vi84

ta delle persone, ha una certa tendenza a perdere per strada fregi e capitelli. Quanto alla pista sintattica, valgano due osservazioni. Primo: nel parlato prevale la coordinazione, con conseguente sacrificio del congiuntivo, che serve soprattutto a subordinare. Secondo: il vero epicentro del terremoto che potrebbe inghiottire alcuni usi del congiuntivo anche nello scritto e confermare le previsioni più apocalittiche dei neo-crusc è costituito dalla seconda persona singolare. La ragione, se avete voglia di seguirmi ancora per qualche riga, ve la spiego subito: la seconda persona del congiuntivo è infatti uguale alla prima e alla terza, e questo obbliga i parlanti a utilizzare il pronome soggetto per evitare ogni possibile ambiguità («penso che tu sia una brava persona») con le altre due. E perché solo la seconda reclama il soggetto e non anche la prima e la terza? Perché alla prima persona si può usare la costruzione implicita («penso di essere una brava persona») e la terza, rispetto alla seconda, ha una specie diritto di precedenza per quanto riguarda la possibilità di sottintendere il soggetto. A chi tutto questo sembrasse poco attinente con la decadenza del congiuntivo, ricordo che l’italiano è una lingua «a soggetto zero», cioè una lingua che può perfettamente prescindere dal soggetto espresso, essendo che la desinenza del verbo fornisce già le informazioni necessarie relative alla persona. Unica eccezione, appunto, le prime tre persone del congiuntivo presente, che sono uguali come gemelli omozigoti e per distinguersi hanno bisogno, soprattutto la seconda, del soggetto. 85

Ma esprimere il soggetto, in italiano, è così contronatura che i parlanti preferiscono sacrificare il congiuntivo a vantaggio dell’indicativo, dove il soggetto è di nuovo facoltativo («penso che sei una brava persona»). Capito, insomma, questi italiani? Conoscono il congiuntivo, lo rispettano quando lo leggono, lo usano quando scrivono, ma nel parlato preferiscono l’indicativo perché è più comodo, duttile e diretto, come quelli che per arrivare prima usano l’auto anziché i mezzi pubblici anche se sanno di inquinare e di rischiare l’imbottigliamento. Ecco, se dovessi riassumere il senso di questo capitolo dopo tanto divagare tra grammatica e sociologia, direi proprio questo: che il congiuntivo è troppo slow per chi ha fretta di arrivare a destinazione. Passi per la scrittura, che è lenta per definizione. Ma la lingua parlata non può permettersi pause. Deve correre senza riflettere. Se no, non sarebbe sé stessa. FARINA DA ALTRI SACCHI

Michele Prandi, Le regole e le scelte, Utet, Torino 2006. Dove si dimostra che la grammatica non è fatta solo di norme non negoziabili ma anche di libero arbitrio (da leggere anche dopo il capitolo 13). Luciano Satta, Matita rossa e blu, Milano, Bompiani 1989. Dove si dicono molte delle cose che avete letto in questo capitolo, ma scritte meglio.

8.

Puntini di vista

«...quest’anno c’è stata una grande moria delle vacche, come voi ben sapete. Punto. Due punti. Massì, fai vedere che abbondiamo. Adbondanti sit adbondantum.» Non so se avete presente la scena: Totò è in piedi – la schiena leggermente inarcata, i pollici infilati nei giromanica del gilè – che sta dettando con enfasi professorale la lettera più sgrammaticata, sconclusionata ed esilarante nella storia delle poste mondiali; curvo sulla scrivania, Peppino insegue a fatica le parole di quel dettato, riuscendo però a trascriverlo tutto, compresi gli «a parte», le ripetizioni e il pulviscolo paraverbale che arriva qua e là a intercettare. A un certo punto, terminato un altro segmento della lettera, Totò scarica una seconda gragnola di istruzioni interpuntive («Punto, punto e virgola, punto e un punto e virgola»), che Peppino prova timidamente a contenere: «Troppa roba!», azzarda. Ma Totò: «Lascia fare. Non si dica che noi siamo provinciali, che siamo tirati...». Catalogo ragionato di cattiva scrittura, capolavoro assoluto di comicità verbosa (che è altro da dire ‘verbale’), la lettera di Totò e Peppino alla «malafemmina» racconta meglio di qualunque saggio l’approccio che hanno gli ita87

liani – oserei dire quasi: gli umani – verso la punteggiatura. Un approccio superficiale ma nello stesso tempo devoto, come si conviene a un’istituzione che si sa essere importante ma che nessuno saprebbe spiegare in che modo – e perché – lo sia. A fronte della sonora materialità delle parole, i segni di interpunzione – così piccoli e silenziosi – sono percepiti come delle entità quasi metafisiche, che nulla aggiungono e nulla tolgono al senso delle frasi in cui si infilano, ma che si presume contengano, in qualche modo misterioso, il segreto della loro bellezza. Totò lo intuisce, e per non sbagliarsi decide di abbondare («adbondanti sit adbondantum»...), quasi che la prodigalità nell’uso di punti, virgole, e due punti bastasse da sola a farne un generoso e raffinato ‘uomo di mondo’. Il vero merito di Totò è però quello di far sorridere su una questione a proposito della quale, in certi ambienti, non è lecito scherzare. Fin da bambini abbiamo infatti imparato che la punteggiatura è una faccenda terribilmente seria su cui ogni insegnante ha una sua teoria e in cui è facilissimo sbagliare. La mia maestra, ad esempio, mi aveva spiegato che il punto corrisponde a una pausa lunga nel discorso, il punto e virgola a una pausa media e la virgola a una pausa breve, ma ci sono anche quelle che consigliano di mettere il punto al termine di ogni frase soggetto-verbooggetto e quelle che il punto e virgola neppure lo nominano, per evitare inutili sofferenze agli alunni e a sé stesse. Certo, nella gerarchia degli errori scritti l’ortografia conta di più, ma un buono o cattivo uso della punteggiatura ba88

sta già a orientare il giudizio dell’insegnante nei confronti della prova di lingua. In genere, finché si tratta dei punti interrogativi e di quelli esclamativi, quasi tutti siamo comunque in grado di capire a quali atti linguistici (domanda, ordine, espressione di sorpresa, ecc.) si associano e in che tipo di contesto vanno utilizzati, anche se i punti di domanda mi fanno venire sempre in mente quella striscia dei Peanuts di Schulz in cui Charlie Brown scrive al suo «amico di matita» la seguente lettera: «Caro? Amico? Di? Matita? Oggi? A? Scuola? Abbiamo? Imparato? I? Punti? Interrogativi?». Il punto, invece, è un arnese molto meno maneggevole di quanto sembra. Non basta dire che serve a concludere una frase, prima di tutto perché bisognerebbe mettersi d’accordo su che cosa sia una frase (cercheremo di farlo nel capitolo 13), e poi perché, anche una volta chiarita la questione, toccherebbe spiegare per quale ragione ci sono punti che non separano frasi e frasi che non sono separate da punti. Vi ricordate di Marco, il ragazzo «timido e noioso»? Abbiamo detto nel capitolo dedicato a «e» e «ma» che piazzando una pausa prima della congiunzione («Marco è un ragazzo timido. E noioso») il primo aggettivo rimane un po’ sfocato mentre il secondo cattura su di sé tutta la luce dei riflettori. Dunque, in questo caso, il punto non delimita il confine tra due enunciati, ma serve piuttosto a spezzare una frase per costruire una specie di recinto intorno all’aggettivo «noioso» e marcare una pausa teatrale prima della sua trionfale entrata in scena. 89

Naturalmente il giochino funziona solo a piccole dosi: «Il troppo mettere a fuoco – osserva infatti Bice Mortara Garavelli – finisce per annullare l’effetto dell’evidenza [col risultato di] ostacolare la lettura e talvolta persino oscurare il senso degli enunciati». Le primarie continuano a sorprendere gran parte degli osservatori, degli analisti, dei commentatori. E degli stessi attori politici coinvolti. Come era avvenuto due anni fa. Quando ‘travolsero’ ogni previsione. Questa volta anche più di allora. Perché nell’aria si percepivano rumori poco rassicuranti.

A leggere questo brano, tratto da un articolo di Ilvo Diamanti su «Repubblica», si ha l’impressione di avanzare su una di quelle strade in cui trovi un dosso ogni cinquanta metri e rischi ogni volta di rovinare le sospensioni e far spegnere il motore. Non si tratta di una scorrettezza formale, come pretenderebbero i neo-crusc, ma di un semplice vizio stilistico. Eppure è vero che quello spesso strato di punti risulta lezioso e affettato, come una pesante mano di trucco spalmata sulla superficie del testo. Se è vero, come osserva ancora Mortara Garavelli, che esistono una punteggiatura «per l’occhio», pensata per agevolare la lettura silenziosa, e una punteggiatura «per l’orecchio», che serve a imprimere un determinato tono alla lettura ad alta voce, il brano di Diamanti potrebbe essere un buon esempio di punteggiatura «per il cuore», nel senso che fornisce una mappa emotiva per orientare il lettore nell’interpretazione del testo, isolando piccoli segmenti testuali e marcandoli con l’evidenziatore. 90

Da questo punto di vista, lo stream of consciousness joyciano, pagine e pagine di pensieri che fluiscono disordinati e impetuosi senza l’argine sintattico e tematico di alcun segno interpuntivo, è un esempio solo in apparenza opposto a quello dell’articolo di «Repubblica», poiché in entrambi i casi la scelta di fondo è fortemente ‘emotiva’: la differenza è che Diamanti si serve dei punti per suddividere la frase in unità tematiche discrete, mentre Joyce sospende la punteggiatura per rappresentare il continuum liquido di cui è costituito il pensiero. È un fatto che le norme interpuntive sono di un’astrusità micidiale, e sono astruse perché non si conformano a un unico criterio, ma sono il risultato di una stratificazione di consuetudini che privilegiano ora l’occhio, ora l’orecchio, ora il cuore, ora tutti e tre insieme, e che servono tanto a «leggere» un testo scritto quanto a «scrivere» una lingua che nasce come orale. Se la punteggiatura fosse solo «per l’orecchio», in fondo, non ci sarebbe bisogno di usare le virgole negli elenchi («Tizio, Caio, Sempronio») poiché non corrispondono a una pausa nel ritmo della lettura; se fosse solo «per l’occhio», a nessuno verrebbe in mente di inserire la virgola tra soggetto e verbo («chi la fa, l’aspetti»), o tra verbo e complemento oggetto, perché non servirebbe a demarcare confini tra le frasi; se fosse solo «per il cuore», infine, non ci dovremmo nemmeno preoccupare di individuare delle regole, perché ciascuno agirebbe secondo il proprio insindacabile giudizio. Forse sto per dire un’ovvietà, ma a me pare che la punteggiatura emotiva sia quella che, oggigiorno, gode di mag91

gior successo. Basta vedere come scrivono molti giovani, i quali evitano deliberatamente i segni all’apparenza più asettici e istituzionali (ignorando ad esempio che i due punti legano due frasi molto meglio di un «cioè» o un «in pratica») per farcire i loro testi di punti esclamativi enfatici, puntini di sospensione allusivi e persino di quelle faccine animate, non a caso denominate «emoticon», che costituiscono vere e proprie note di scena del testo e rispondono a un’esigenza diffusa di teatralizzare la comunicazione scritta. Il fatto è che, così come le smitragliate di punti fermi nell’articolo di Ilvo Diamanti, anche i puntini di sospensione e i punti esclamativi, se insistiti e reiterati, rischiano di risultare stucchevoli e di perdere le loro proprietà espressive. Lo spiega, meglio di come ho fatto io, lo scrittore Andrea Bajani, quando nel suo Domani niente scuola racconta le sue esperienze di comunicazione in chat con adolescenti: Io, che ho una particolare e talvolta isterica idiosincrasia per i punti esclamativi e i puntini di sospensione (...), ogni tanto provo a lamentarmene, in una maniera che però suona subito pedante. Ne discuto un po’ con Silvio, un po’ con Simone, un po’ con Claudia, una volta anche con Martina. Dico loro che a me sembrano degli impigrimenti del linguaggio, delle vie facili per non sforzarsi con le parole di far capire all’interlocutore il senso della frase. Ma le risposte che ricevo spesso non lasciano gran margine alla trattativa: «E smettila!», «Sei vecchio...», «La tua è tutta invidia...!», «Che noia...», «Forse hai ragione, ma non ci riesco, a non usarlo!», «Ci proverò...»1. 1

Andrea Bajani, Domani niente scuola, Einaudi, Torino 2008.

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Disarmato di fronte alle spicce argomentazioni dei teenagers, Bajani si dà del pedante da solo, ma a me pare che la vera pedanteria sia quella di coloro che terminano tutte le frasi coi puntini di sospensione come se ti stessero facendo perennemente l’occhiolino o ti volessero spiegare una barzelletta. Conosco un tale che in un tema di liceo aggiunse i famigerati puntini in fondo a uno dei passi più celebri dei Promessi sposi («La sventurata rispose»), pensando di rendere in tal modo un buon servizio a Manzoni. Non aveva capito, lo sciagurato, che il segreto di quella frase stava proprio nel non aver bisogno dei sottotitoli per spiccare in tutta la sua allusività. Vi chiederete chi fosse, quel disgraziato. Purtroppo non ve lo posso dire. Sappiate solo che, a distanza di più di vent’anni, forse ha finalmente capito la lezione. FARINA DA ALTRI SACCHI

Alessandro Baricco, Filippo Taricco, Giorgio Vasta, Dario Voltolini (a cura di), Punteggiatura, 2 voll., Scuola Holden-Bur, Milano 2001. Dove si parla di come uno scrittore può lasciare il segno attraverso dei segni. Lynne Truss, Eats, shoots & leaves.The zero tolerance approach to punctuation, Profile Books, London 2003. Dove si scopre che in inglese, per una virgola di troppo, un panda può diventare un assassino.

9.

Ripetere, ripetere, ripetere

Non so voi, ma il correttore ortografico del mio programma di videoscrittura a volte si comporta in modo strano. Anziché limitarsi, come sarebbe suo dovere, a segnalare, ed eventualmente a sterminare, gli errori di battitura, mostra atteggiamenti piuttosto pedanti – mi verrebbe da dire perbenisti – verso i miei scritti, come se a ispirarne le azioni fosse qualcosa di simile a una coscienza e non un comunissimo software. Ho scoperto ad esempio che non gli piacciono le parolacce, e che per questa ragione le sottolinea tutte in rosso, come gli errori di ortografia. Non distingue, il correttore, le parolacce grevi e sboccate da quelle innocue e leggere. Per lui sono tutte moralmente riprovevoli, e sono arrivato a convincermi che, per quanto cerchi di usarle con garbo e moderazione, sotto sotto mi consideri un maleducato. Un’altra cosa che gli dà fastidio sono le abbreviazioni e i troncamenti, e lì un po’ lo capisco, perché anche a me non piacciono i mozziconi di parola abbandonati in mezzo alle frasi, che tollero a fatica persino negli sms (ognuno ha le sue idiosincrasie, come vedete). A tratti, tuttavia, ho l’impressione che esageri, e una volta, dopo l’ennesima sotto94

lineatura di un’elisione perfettamente lecita ho provato a cancellare e a riscrivere l’espressione «quell’anno» un centinaio di volte per vedere se continuava a marcarla o alla fine si stancava e la smetteva di fare il pignolo. Inutile dire che mi sono stufato prima io. I problemi maggiori, però, il correttore li dà con le ripetizioni. Qualcuno, nel programmarne il funzionamento, deve aver infatti dato istruzione di marchiarle a fuoco. Dunque non si può scrivere «ahi ahi», «così così», «tran tran», «quatto quatto», «sotto sotto», «poco poco», «lemme lemme», «pissi pissi», «pucci pucci», eccetera, senza che il secondo elemento della coppia venga segnalato come portatore di una specie di virus. Lo stesso vale per l’isola di Bora Bora, per la squadra cilena del Colo Colo, per il carcere di Sing Sing e per il clap clap: anzi, in questi ultimi due casi il correttore sottolinea entrambi i membri della coppia, giacché, oltre a tutto il resto, il signorino non gradisce neanche i forestierismi. Ora, si sa che i correttori automatici sono censori tanto zelanti quanto ottusi, ed è evidente che quando agiscono lo fanno in maniera irriflessa e meccanica, senz’altro metro di giudizio che quello suggerito loro dal programmatore di turno. E tuttavia, nella catena di responsabilità che ha portato alla realizzazione del software, ci deve essere stato qualcuno, magari il programmatore stesso, che a un certo punto ha deciso di trattare le ripetizioni come errori – non importa se dolosi o colposi – da evidenziare. Alla faccia del «repetita iuvant» con cui ci hanno riempito le orecchie durante i nostri anni di scuola, la vera pa95

rola d’ordine di chi corregge, oggigiorno, è infatti diventata «repetita nocent», ripetere fa male. Non è dato sapere esattamente a che cosa – o a chi – faccia male ripetere: alcuni sostengono che faccia male al nostro vocabolario, che a furia di usare sempre gli stessi termini rischia di rattrappirsi come un bonsai; altri considerano che faccia male alla scrittura stessa, a cui i bis di parole rimangono sempre un po’ sullo stomaco. Tutti però sono d’accordo nel giudicare la ripetizione della stessa parola in un testo alla stregua di una malattia da combattere e nel ritenere il sinonimo la medicina migliore da impiegare per estirparla. Già, i sinonimi. Vi ricordate come si usava il dizionario dei sinonimi alle medie o nei primi anni delle superiori? Le modalità più diffuse erano fondamentalmente due: primo, scegliere nel mucchio un sinonimo a caso, possibilmente sbagliato; secondo, scegliere il primo sinonimo della lista. Così, mettiamo, se si trattava di trovare un sinonimo dell’aggettivo «grosso», c’era chi sfoderava accostamenti tipo: «una corporatura cospicua», oppure «un voluminoso personaggio del mondo dello spettacolo» (sic!), esponendosi ai lazzi della classe. Obietterete che se uno prende una medicina senza aver letto le avvertenze e questa gli fa venire l’orticaria, non significa che la medicina stessa non funzioni. Giusto: però se nessuno ha spiegato all’interessato come consultare il foglietto illustrativo, la colpa non può essere solo sua. Fuor di metafora, quello che mi preme sottolineare è che scegliere il sinonimo adeguato non è cosa banale, per chi abbia scarsa dimestichezza con l’uso dei dizionari. 96

Il punto, però, è un altro. Il punto è che persino nel valutare un fatto di stile, dove in teoria vigono regole più lasse e soggettive che nella grammatica propriamente detta, i neo-crusc assumono atteggiamenti al limite dell’integralismo, facendo di un assennato consiglio – quello di evitare le ripetizioni inutili – una specie di diktat etico. In mancanza di parametri oggettivi e condivisi per la correzione dei compiti scritti, certi insegnanti adottano infatti griglie di valutazione empiriche in cui la ripetizione, essendo di per sé facilmente misurabile, occupa i primi posti nella graduatoria degli errori da evitare a tutti i costi. Nessuna riflessione sull’ampia e complessa fenomenologia della ripetizione, nessun distinguo tra ripetizioni buone e ripetizioni cattive, nessuno sconto di pena per le ripetizioni inevitabili. Il martellamento è tale che molti studenti, alla fine, introiettano il messaggio con pavloviana rassegnazione, conservando per il resto della loro esistenza un panico irriflesso verso ogni forma di ripetizione, anche quando il misfatto (peraltro presunto) non sarebbe di loro spettanza. È il caso di quegli aspiranti traduttori (e professionisti del settore) che si sentono in dovere di emendare il testo di partenza da tutti i repetita, come quelli che quando portano a spasso il proprio cane raccolgono anche gli escrementi dei cani altrui, casomai qualcuno accusasse loro di essere gli sporcaccioni. Passi per quelli che ramazzano via le ripetizioni inutili dal pavimento di testi polverosi e disordinati senza alcuna pretesa estetica o letteraria. Ma già nei linguaggi speciali, per dire, certi tecnicismi non sono mai sostituibili. In que97

gli ambiti, anzi, ripetizione e ridondanza sono garanzia di precisione e, almeno in teoria, di trasparenza. Se non ci credete, provate a riformulare una legge o un teorema evitando le ripetizioni. Il teorema di Pitagora, per dire, verrebbe fuori più o meno così: «Il quadrato costruito sull’ipotenusa equivale alla somma dei quadrilateri equilateri ed equiangoli edificati sui cateti». Che cosa ne direbbe un matematico? Non oso immaginarlo. Il peggio, però, si ha quando gli aspiranti traduttori si mettono in testa di raschiare via, una per una, le ripetizioni dai testi letterari, ingenuamente – e presuntuosamente – persuasi di poter rendere, così facendo, un buon servizio all’autore e all’opera stessa. Sembra un po’ la storiella – non ho mai capito se autentica o inventata – di quella donna delle pulizie che il primo giorno di lavoro in una casa dell’aristocrazia romana, per fare bella figura coi suoi padroni, si premurò di ricucire una tela squarciata che stava appesa in salotto, senza sapere – la tapina – che era un quadro di Lucio Fontana, noto appunto per i suoi tagli artistici. Ecco, forse il paragone suonerà ingeneroso, ma più volte mi è capitato di correggere traduzioni che sembravano fatte dalla stessa signora, con l’aggravante che i miei alunni, laureandi o già laureati, sapevano fin dall’inizio che si trattava di brani d’autore e non di scarabocchi casuali. In uno di questi testi, ad esempio, lo scrittore spagnolo Eduardo Mendoza fa ripetere quattro volte in tre righe la parola «retenciones» (code) al protagonista – e voce narrante – del romanzo: En los accesos a la ciudad se producen retenciones, que a me98

nudo alcanzan el grado de importantes retenciones. Algunas de estas retenciones, sobre todo las denominadas importantes retenciones duran hasta el próximo fin de semana (...)1

In altre circostanze un tale accanimento lessicale sarebbe risultato mortifero. In questo caso, invece, è perfettamente funzionale alla caratterizzazione del personaggio: un extraterrestre in missione sul nostro pianeta che osserva con sguardo straniato il bizzarro spettacolo di una città sull’orlo di una crisi di nervi (la Barcellona dei cantieri preolimpici) descrivendone con minuziosa e beffarda pedanteria, alla maniera del Georges Perec più entomologico e classificatorio, il vano e ridicolo affaccendarsi quotidiano. Una traduzione plausibile del brano poteva essere ad esempio: Sulle vie d’accesso alla città si producono code, che spesso raggiungono il grado di lunghe code. Alcune di queste code, soprattutto quelle denominate lunghe code durano fino al weekend successivo.

Ecco invece le versioni del brano proposte da due zelanti alunne: Versione 1: «Sulle strade che portano alla città si formano degli ingorghi, che spesso diventano molto intensi.

1 Il romanzo si chiama Sin noticias de Gurb. Il titolo della traduzione italiana è: Nessuna notizia di Gurb, (Feltrinelli, Milano 2003). I corsivi nel testo sono dell’autore.

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Alcuni di questi ingorghi, soprattutto quelli detti “ad alta intensità”, dureranno fino al prossimo fine settimana». Versione 2: «Negli accessi alle città si creano ingorghi, che spesso raggiungono il grado di importanti ingorghi. Alcuni di questi, soprattutto quelli che si definiscono importanti, durano fino al fine settimana seguente». Nel tentativo di eliminare quante più volte possibile la parola «ingorghi», le fanciulle hanno usato le maniere spicce, asfaltando l’ironia di Mendoza con uno stile grigio e uniforme. Il risultato è che al posto di una caricatura piuttosto efficace (a leggere l’originale sembra di sentire la voce dell’annunciatrice di Onda verde) ci ritroviamo con un minestrone di registri linguistici senza sale né spezie. Abbiamo in compenso una nuova ripetizione, che nell’originale non c’era («fino al prossimo fine settimana») e che sarebbe stato meglio evitare. Nel grigiore risultante, è facile leggere in controluce il comandamento in nome del quale le fanciulle hanno agito: non ripetere. Un comandamento sbagliato per almeno due motivi: primo perché bisognerebbe almeno integrarlo con la parola «invano»; secondo perché il linguaggio è, di per sé stesso, uno strumento di comunicazione altamente ripetitivo, che non esita a dire e ridire le stesse cose se ciò può essere utile per fare arrivare il messaggio a destinazione. In italiano, per esempio, abbiamo un sistema morfologico talmente ridondante che in una frase come «il mio vestito bianco è diventato grigio» il genere grammaticale maschile viene codificato la bellezza di sei volte, una per ogni articolo, nome o aggettivo. Tutto il contrario dell’inglese, 100

dove la stessa frase («my white dress has become grey») non presenta alcun indicatore di genere. Questo non significa che in italiano sia consentito mettere le desinenze sbagliate o addirittura non metterle affatto. Anzi, se scrivessimo «il mi vestit è diventat grigi», nessuno, tranne forse un parlante catalano, potrebbe negare che si tratti di un errore. Questo per non parlare delle ridondanze più classiche («a me mi», «ma però»), che non si dovrebbero dire, ma però si dicono – e si scrivono – lo stesso. Tra i più illustri profanatori del tabù del «ma però» cito solo Carlo Bo nella prefazione alla traduzione italiana del Viaggio al termine della notte di Céline («Naturalmente si tratta di un vizio già sensibile nel Voyage e soprattutto in Mort à crédit, ma però in queste prime due opere lo scrittore aveva di fronte un’immagine di sé stesso più autentica, quindi più giustificabile agli occhi del lettore»), e soprattutto Aldo Palazzeschi nella celebre Rio Bo («Microscopico paese, è vero, / paese da nulla, ma però... / c’è sempre disopra una stella»2). In generale, comunque, tutte le performance linguistiche funzionano meglio se si è un po’ insistenti e ripetitivi: «no e poi no», per esempio, è una negazione molto più efficace e definitiva di un semplice «no»; lo stesso vale per una supplica come «ti prego, ti prego, ti prego» o per un grido d’allarme come «presto, presto, presto!». Un esempio vivo: ricordate le leggi sulla giustizia varate nel 2001 dal governo Berlusconi? Qualche mese dopo la loro approvazione, durante la cerimonia di apertura dell’anno giudiziario 2002, il Procuratore Generale di Mi2

Per l’«a me mi» rinvio al capitolo 5, dedicato ai pronomi.

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lano Francesco Saverio Borrelli pronunciò una famosa invettiva in cui invitava i giudici a difendere la loro indipendenza dalla politica. Culmine retorico di tale allocuzione era il momento in cui il simbolo di Mani Pulite chiamava i magistrati a «resistere, resistere, resistere, come su un’immaginaria linea del Piave». Sfido chiunque a ricordare altri discorsi di inaugurazione dell’anno giudiziario o altri interventi pubblici di Borrelli. Quello, però, non lo ha dimenticato nessuno. E non lo ha dimenticato nessuno perché il triplice appello del magistrato, nella sua icasticità, era esso stesso il Piave, il vallo, la trincea verbale innalzata contro l’ingerenza della politica nella giustizia. Ripetere, ripetere, ripetere – sembrò voler dire Borrelli – era l’unico modo per «resistere, resistere, resistere». Ora, non sempre tre parole uguali accatastate una sull’altra bastano a rendere più compatto il muretto di un’argomentazione. Quasi sempre, però, è più facile visualizzare il senso di un messaggio se ci si va a sbattere contro tre volte di seguito. È il principio di fondo degli slogan pubblicitari e politici, che funzionano per accumulazione (e serialità) più che per argomentazione. È, soprattutto, l’idea già menzionata del repetita iuvant: un precetto che siamo stati abituati a leggere con occhiali da pedagoghi (da cui l’invenzione delle ‘ripetizioni’ per i somari e la crudele pratica di ‘far ripetere’ l’anno scolastico ai lavativi), ma che riflette in primo luogo un’esigenza operativa della psiche, del linguaggio, del nostro modo di vivere e raccontare le cose. Lo psicologo Jean Piaget sosteneva ad esempio che la ripetizione è un meccanismo fondante di tutti i processi co102

gnitivi, «in quanto favorisce la messa in atto di accomodamenti ed assimilazioni successivi che portano alla costruzione o all’assunzione di un concetto». Per Freud, che andava sempre un po’ più in là, il replay è invece il tasto schiacciando il quale il subconscio ricrea le condizioni di un trauma, passo propedeutico al tentativo di superarlo. Più che un’azione, quella di ripetere, per lui, costituisce una coazione. Un’idea un po’ estrema, come quasi tutte quelle di zio Sigmund, ma ammetterete che suona bene. Non voglio dire con ciò che se un alunno farcisce un testo di ripetizioni inutili significa che non ha ancora superato il suo Edipo. Dico però che a volte una mano in più di vernice può dar luce a significati sbiaditi, siano essi linguistici o psicanalitici. E comunque, da che scrittura è scrittura, non c’è tradizione retorica che non abbia trovato, in questa coazione a ripetere, una sorgente inesauribile di immagini, di suggestioni, di bellezza. Perché nella lingua si può ripetere tutto, mica solo le parole. Si possono ripetere suoni e ritmi; si possono ripetere strutture e frasi intere; si possono ripetere forme e significati. Io stesso, non per vantarmi, ho testé ripetuto tre volte la formula «si possono ripetere», e così facendo ho dato vita a un’anafora, che è la replica di una stessa espressione all’inizio di un segmento testuale. Ogni forma di ripetizione, nella tradizione retorica, ha comunque un suo nome specifico, a volte persino più di uno. Nel suo Manuale di retorica, Bice Mortara Garavelli distingue non meno di trenta figure articolate su un qualche tipo di replica – lessicale, sintattica, fonetica o ritmica 103

– ed esistono interi generi letterari o paraletterari (salmi, proverbi, slogan pubblicitari e politici, canzoni, poesie, tiritere, ninne nanne) che devono la loro fortuna all’esasperazione di una (o più) di queste figure, spesso talmente orecchiabili da impregnare di sé la lingua comune. Qualche esempio? «Chi si loda si imbroda» è un omoteleuto (terminazione uguale o simile di parole contigue); «di riffa o di raffa» è un bisticcio o paronomasia (accostamento di due suoni quasi identici); «in verità, in verità vi dico» un’epanalessi o geminatio (raddoppiamento di un’espressione all’interno dello stesso segmento testuale); «meditate, gente, meditate» una – tenetevi forte – epanadiplosi (ripetizione di uno stesso elemento all’inizio e alla fine di un segmento testuale); «anno nuovo, vita nuova» un’epifora, (replica di una parola alla fine di due segmenti testuali contigui); «carta canta» un’allitterazione (ripetizione di una sequenza di suoni all’inizio di parole successive); «occhio per occhio e dente per dente» un doppio polittoto (doppia ricorrenza di un vocabolo con funzioni sintattiche diverse). Così, nei Fiori blu di Raymond Queneau, il duca d’Auge liquida l’argomento: «Sappi, bestione, che la ripetizione è uno dei fiori più odoriferi della retorica». Il punto, come sempre, è riuscire a capire dove si colloca la frontiera che separa il bene dal male, e dunque, nella fattispecie, le ripetizioni buone da quelle cattive. I criteri sono fondamentalmente due. Il primo, che abbiamo visto essere valido per qualunque tipo di trasgressione dalla norma, è quello della consapevolezza, che dipende a sua volta dal prestigio e dall’autorevolezza di chi scrive. Quando 104

Eduardo Mendoza ripete quattro volte in quattro righe la parola retenciones, per esempio, possiamo stare sicuri che non si tratta di una svista, e anzi non ci è difficile ravvisare, in quel cumulo grottesco di parole tutte uguali, una qualche forma di premeditazione. La dimostrazione è che eliminando le ripetizioni, come hanno fatto le mie alunne, la prosa si sgonfia e l’umorismo evapora. Allo stesso modo, se Eugenio Scalfari scrive in un articolo «Qui comincia il problema. Problema serio. Problema pieno d’incognite ancora non risolte. Problema grave», capiamo subito che quella parola – «problema» – non è affatto un problema, ma un tema che attraversa tutta l’argomentazione come un accordo ribattuto in musica. Sostituirlo con dei sinonimi sarebbe impossibile, come sarebbe impossibile cambiare la sequenza iniziale della Quinta di Beethoven tutte le volte che ricompare nella sinfonia, per il semplice motivo che a quel punto non sarebbe più la Quinta di Beethoven. Di qui il secondo discrimine per distinguere i bis indigesti da quelli appetitosi: la necessarietà. In molti casi, in effetti, cancellare una ripetizione non solo non aiuta ad abbellire il testo, ma finisce col danneggiarlo. Nei testi giuridici o scientifici, ad esempio, ripetere serve a evitare qualunque tipo di ambiguità, perché i sinonimi (ricordate il teorema di Pitagora...) non sono mai perfetti e perché i pronomi non sempre si riferiscono a quello che vorremmo. Nelle poesie, nelle canzoni, negli scioglilingua e nelle filastrocche, invece, la rima, il bisticcio o l’allitterazione sono 105

spesso gli unici attributi che ci permettono di identificarle come tali. In generale, comunque, a decidere è il tipo di testo. Se nell’angolino in basso a destra del computer leggo l’avviso «Connettività limitata o assente per questa connessione. Potrebbe non essere possibile accedere a Internet o ad alcune risorse di Rete», è molto improbabile che le coppie «connettività»/«connessione» e «potrebbe»/«essere possibile» siano altrettante figure etimologiche. Più facile che si tratti, nel primo caso di una scelta obbligata, nel secondo di una lieve trascuratezza. Nell’ottobre 2008, in occasione della consegna del premio Nobel a Paul Krugman, «Repubblica» pubblicò (questo sarebbe un bisticcio, ma non avrei saputo evitarlo) un articolo dell’insigne economista americano in cui a un certo punto arrivava una raffica di complementi preposizionali tutti quanti introdotti da «per»: Tutti concordano sul fatto che è necessario fare qualcosa di incisivo, ma Paulson pretende di ottenere poteri straordinari per sé – e per il suo successore – per utilizzare il denaro dei contribuenti per un progetto che, per come la vedo io, non ha senso.

Nonostante il prestigio del personaggio, nessuno avrebbe potuto definire quel disordinato corteo di preposizioni gemelle una sfilata di anafore. D’altra parte era difficile pensare che Krugman, pur in un articolo di tono e contenuti assai poco ameni (si parlava di banche e finanza), potesse inciampare cinque volte di fila nello stesso gradino. 106

Lì era successo che nel volgere il testo dall’inglese all’italiano, il traduttore (automatico?) non si era affatto preoccupato delle ripetizioni, traducendo alla lettera ogni sintagma fino a ottenere quell’atroce risultato. Avrete notato che ho iniziato il capitolo difendendo la ripetizione e i ripetenti e che lo sto finendo con un’arringa dalla parte dell’accusa. Qualcuno potrebbe definirla una contraddizione bella e buona. Ma non lasciatevi ingannare: è solo che non volevo ripetermi. FARINA DA ALTRI SACCHI

Bice Mortara Garavelli, Manuale di retorica, Bompiani, Milano 2000. Dove, per evitare di ripetersi, si parla della ripetizione con circa ventisette denominazioni diverse. Gertrude Stein, Geography and plays, University of Wisconsin Press, Madison 1993. Dove si dice che «una rosa è una rosa è una rosa è una rosa».

10.

Trappole per Trap

È estremamente delicato, un tema che si è già dibattuto, e sul quale si andrebbero ad avere delle alienazioni, squadre di città minori e quindi il calcio io credo che in Italia sia veramente un grosso treno culturale e quindi, tutto sommato, ritengo che in questa forma possa mantenere e gestirsi sull’arco nazionale ancora abbastanza equamente ben distribuito.

Ho deciso di cominciare il capitolo con una citazione perché le buone citazioni nobilitano la scrittura e sono le radici da cui germogliano i ragionamenti più luminosi. L’affermazione non suoni ironica: quando parlo di «buone citazioni», non mi riferisco necessariamente a passi d’autore, a frasi lapidarie, a capolavori di sintesi ed efficacia concettuale, bensì a exempla, a brani capaci di illustrare in poche righe quello che un bravo saggista non saprebbe spiegare in dieci pagine. Da questo punto di vista, il mirabile patchwork linguistico di Giovanni Trapattoni che vi ho appena proposto è una delle citazioni più riuscite di questo libro, poiché è un catalogo, talmente prodigioso da sfiorare il sublime, di quasi tutte le perversioni linguistiche riconducibili al vizio del «parlare oscuro». Piccola nota biografica. Giovanni Trapattoni, in arte 108

«Trap», è stato ed è l’allenatore più famoso e vincente nella storia del calcio italiano, almeno a livello di club. Con la Juventus ha conquistato tutti i trofei possibili, ed è l’unico tecnico al mondo ad aver vinto il campionato in quattro paesi diversi. Di lui, i suoi detrattori hanno sempre sostenuto che sia un allenatore complessivamente mediocre e che la Juventus avrebbe vinto altrettanto, se non di più, con un altro in panchina al posto suo. A me invece è sempre sembrato un professionista abile e competente, ancorché spesso favorito dalla fortuna di poter allenare squadre fortissime. Resta il mistero – un mistero più semiotico che tecnico – di come abbia potuto, in questi anni, trasmettere i suoi insegnamenti, impartire le sue indicazioni, e addirittura vincere, con un linguaggio così sconclusionato. Se proviamo a dissezionare il brano che apre il capitolo con il bisturi del linguista, la prima cosa a colpirci è la sua assoluta inconsistenza semantica. Detto senza tanti eufemismi: non ci si capisce nulla, né si riesce a intravedere, dietro quella spessa coltre di parole fumose, un minimo barlume di senso. Più sorprendente è però un secondo dato, ovvero il fatto che il Trap ha rivestito questo nulla con abiti all’apparenza molto chic. Ci sono termini di registro elevato come «ritengo che» o «dibattuto», tecnicismi medici come «alienazioni», invenzioni di dubbia pregnanza concettuale ma di grande impatto come «arco nazionale» o «treno culturale», lunghe sfilate di avverbi e aggettivi, il tutto nella cornice di una sintassi a prima vista filante, coi verbi coniugati ai modi e tempi corretti e una certa temeraria propensione alla su109

bordinazione (tre frasi introdotte da un «che» e una da «sul quale»). In realtà, l’effetto di questi frammenti assemblati insieme è quello di una lingua che qualche intellettuale potrebbe definire post-moderna ma che per noi comuni mortali è solo, e soprattutto, irresistibilmente comica. Nell’affrontare il vasto e insidioso pelago della lingua, il Trap è un uomo che a malapena sa mantenersi a galla. Eppure, invece di ripararsi nell’ansa sicura di un italiano scolastico, si avventura al largo senza indossare pinne né braccioli e si tuffa dagli scogli più pericolosi (dire «si andrebbero ad avere delle alienazioni» in un’intervista di argomento calcistico è quasi un esercizio di italiano estremo), per spiaccicarsi sulle rocce dell’inintelligibilità fra lo scherno generale. In questo, Trapattoni non si distingue da quella maggioranza ahimè non troppo silenziosa di persone che considerano importante parlare un buon italiano e pensano che, per ottenere tale scopo, sia sufficiente infarcirlo di parole difficili. Al contrario, ne è il malinteso alfiere, deriso in pubblico ma inconsapevolmente (inconsapevole lui e inconsapevoli quelli che ne fanno la parodia) imitato nella lingua di tutti i giorni. Vorrei sin d’ora prevenire l’accusa che qualcuno non tarderà a muovermi: che il mio è un discorso classista, che è troppo facile divertirsi alle spalle di chi non ha avuto la possibilità e la fortuna di studiare, che sull’italiano di Trapattoni si poteva sorridere vent’anni fa ma adesso siamo fuori tempo massimo, eccetera. Intanto, come tutti gli artisti che sanno rinnovare il proprio repertorio e aggiungere sempre qualcosa di inatteso 110

alle loro performance, il Trap continua a far sorridere ancora oggi; anzi, l’impressione è che ci giochi persino, a fare l’equilibrista sulla corda oscillante della lingua, e che lo faccia per distogliere l’attenzione da questioni più specificamente tecniche, come il fatto di dover spiegare perché la sua squadra ha giocato male o perché ha sostituito Del Piero invece di Totti. Come osserva giustamente Bartezzaghi, queste sono «frasi di manovra, in cui il Trap, già in evidente vantaggio sul giornalista, mantiene il possesso di palla in attesa che l’avversario si scopra, con una ragnatela di passaggi apparentemente inconcludenti». In secondo luogo, dopo aver speso pagine e pagine a perorare la riabilitazione dell’italiano ‘basso’, l’accusa di classismo sarebbe ingenerosa. In realtà, il vero bersaglio di questo capitolo non è tanto il Trap, quanto il suo rovescio. Il pasticciato pastiche dell’ex commissario tecnico della nazionale è infatti il lato A di un fenomeno che mostra sulla facciata opposta il linguaggio grottescamente elitario, e ugualmente oscuro, di coloro che criptano l’italiano come un programma via cavo al solo scopo di far sentire inferiore l’ascoltatore e di escluderlo da una determinata cerchia sociale, professionale o intellettuale. È questa la vera calamità che affligge l’italiano, una calamità di cui i neo-crusc non saranno magari i diretti responsabili, ma sì gli omertosi spettatori. La questione è mirabilmente riassunta in un capitolo dell’Altrui mestiere di Primo Levi dedicato allo «scrivere oscuro» e pubblicato per la prima volta sulla «Stampa» a metà degli anni Settanta, quando l’eco dei nobili appelli di 111

Don Milani per avvicinare il linguaggio della politica a quello delle classi più basse era già sfumato nel suono faticoso ed ermetico della prosa post-sessantottina, infarcita di «nella misura in cui», «a monte di», «a livello di», ecc. Chi non sa comunicare o comunica male, in un codice che è solo suo o di pochi, è infelice, e spande infelicità intorno a sé. Se comunica male deliberatamente, è un malvagio, o almeno una persona scortese, perché obbliga i suoi fruitori alla fatica, all’angoscia o alla noia.

Ecco, io non so se quelli che comunicano male siano effettivamente degli infelici, se in loro prevalga la frustrazione di non essere capiti o, all’opposto, il gusto perverso di riuscire a non farsi comprendere. Mi piace però pensare che quelli che lo fanno apposta passino lunghe notti tormentate da incubi orrendi in cui, mentre stanno pronunciando il discorso di investitura del premio Nobel, improvvisamente si trovano a parlare come Aldo Biscardi (il conduttore televisivo che, come recitava una celebre battuta, «commette errori di grammatica persino quando pensa»). Il problema è che lo scrivere e il parlare oscuro di chi lo fa per posa o per dolo gode di ben altra considerazione rispetto allo scrivere e parlare oscuro di chi lo fa per mancanza di istruzione nel velleitario tentativo di elevare il proprio eloquio, e questo nonostante il livello di comprensibilità, in fin dei conti, sia il medesimo. Vi pare giusto che il burocrate che parla in «burocratese» o il critico cinematografico che parla in «critichese» meritino remissiva deferenza e il Trap solo ironica commi112

serazione? Vi sembra normale che la gente scriva ai giornali o all’Accademia della Crusca per deplorare la decadenza del congiuntivo e mai per protestare per come sono scritti certi articoli delle pagine culturali o economiche? Perché Enrico Ghezzi, a parte qualche riuscita e sporadica parodia televisiva, mantiene salda la sua fama di esimio critico cinematografico anche se nessuno capirebbe un monologo come questo che vi trascrivo? Mario Bava che è un cineasta eminentemente di genere, anche se poi è talmente di genere da essere un cineasta di genere puramente filmico, che è il suo pregio-difetto, il suo trionfo, il trionfo di un cinema tutto della superficie e nello stesso tempo tutto della trasparenza, e dei trasparenti, delle superfici trasparenti; Bava è uno dei cineasti che sanno istintivamente che ogni trasparenza è fatta di infiniti o quasi infiniti strati di superficie pellicolare in ognuno dei quali può intervenire il vero/falso del cinema moltiplicato.

Perché, se un altro critico cinematografico di un prestigioso quotidiano di sinistra scrive in una recensione: Esperienza inusuale di ‘cinema espanso’, che intrappola proprio come alcuni film americani perfidi che Moretti odia con perfidia. Ma viene da altro quel ‘levare’, l’asciugare, la semplicità di fraseggio e la sintassi di un film così etico, che pare Khatami circondato dagli strepiti dell’info-spettacolo.

...nessuno ha il coraggio di denunciarlo al direttore della testata per cui lavora e quasi tutti, invece, si rassegnano a non leggere il pezzo? A proposito di Nanni Moretti e di perfidia: avete mai vi113

sto Palombella Rossa? Se lo avete visto non avrete certamente dimenticato la battuta con cui, nel film, l’alter ego di Moretti, Michele Apicella, risponde alla giovane giornalista che lo sta intervistando: Chi parla male, pensa male, e vive male. Bisogna trovare le parole giuste, le parole sono importanti.

Apicella è esasperato dalla stupidità delle domande della ragazza e ancor più dal suo italiano sciatto e raffazzonato, che lei cerca ingenuamente di elevare infarcendolo di anglicismi, parole alla moda e formule stantie. È proprio questa lingua di plastica, fatta di espressioni come «trend negativo» o «alle prime armi» a minare i nervi di Apicella, a provocargli conati di dolore fisico, a scatenare quell’eruzione verbale che, come nel brano di Primo Levi, ha più il sapore di un anatema che di una desolante fotografia della realtà. Come ho già spiegato, ho infatti il terribile sospetto che chi parla male non viva affatto male e non provi il benché minimo senso di colpa, come quelli che non pagano le tasse, parcheggiano le auto sui marciapiedi, e in generale non si curano se l’effetto dei propri comportamenti – si tratti di dover decrittare un messaggio incomprensibile o di essere costretti ad attraversare la strada per raggiungere la fine dell’isolato – ricade sempre sugli altri. Da questo punto di vista, se proprio bisogna essere indulgenti con qualcuno, è più onesto esserlo col Trap che con Enrico Ghezzi, perché il Trap, almeno, non esclude nessuno (non almeno in maniera volontaria), non mette il 114

numero chiuso per selezionare le persone degne di ascoltarlo, non costruisce barriere intellettuali fra sé e l’interlocutore. Gli unici ostacoli sono le asperità naturali del suo modo di parlare, sassi e avvallamenti che rendono la comunicazione tortuosa e sconnessa ma che sono meno perfidi e insidiosi di certe chicane linguistiche che gli intellettuali ti piazzano sul percorso per farti uscire di strada. Quanto allo scritto, secondo Gian Luigi Beccaria, l’indice di leggibilità di un testo è basso quando: 1. le frasi sono molto lunghe; 2. la subordinazione prevale sulla coordinazione; 3. si ha un eccesso di costruzioni nominali; 4. il lessico è molto tecnico e/o di registro elevato. Non tutti i testi a basso tasso di leggibilità si possono però considerare ‘cattivi’. Proust ha una prosa impervia e faticosa, ma se sei capace ad arrampicarti fino in cima alla sua sintassi e a calarti nel profondo delle sue riflessioni esistenziali più ardue, riesci a godere di panorami davvero irripetibili. E i testi di economia saranno anche pieni di tecnicismi, ma se non sai che cosa siano il «capitale di rischio», una «società in accomandita semplice» o la «volatilità implicita», non puoi pretendere che te lo spieghino ogni volta: sei tu, glossario alla mano, a doverti informare. Intendo dire che il grado di oscurità nello scrivere e nel parlare non può essere misurato esclusivamente dal punto di vista di chi parla o scrive, ma neppure solo dalla parte di chi legge o ascolta. L’importante è che chi comunica abbia sempre presente, prima di aprire bocca o di impugnare la penna, 1) a chi si parla, 2) di che cosa si parla, 3) che mez115

zo si sta utilizzando e 4) che cosa ci si prefigge. Trascurare o ignorare anche una sola di queste variabili è da furfanti o da maleducati. Se un sussidiario di scuola elementare spiega la nozione di desinenza come la «parte terminale della parola variabile che reca in sé le informazioni di carattere grammaticale», gli autori sarebbero da denunciare al Telefono Azzurro. Se invece, in una lezione di linguistica all’università, il prof ti racconta che è «la letterina finale dei nomi e dei verbi», andrebbe denunciata la commissione che gli ha fatto superare il concorso. Il linguaggio non è né facile né difficile, né bello né brutto, né buono né cattivo. Siamo noi, come direbbe Jessica Rabbit, a farlo diventare così. C’è comunque una cosa che accomuna tutti quelli che scrivono (e parlano) oscuro, ed è il terrore, patente o recondito, di non scrivere (e non parlare) abbastanza bene. Potremmo definirla una forma atipica di ansia da prestazione, se non fosse che un tempo eravamo molto più disinibiti con la lingua che col sesso, mentre all’alba del terzo millennio, complici la rivoluzione dei costumi e la restaurazione linguistica vagheggiata dai neo-crusc, capita spesso il contrario. Oggi abbiamo paura di lasciare le frasi ignude e cerchiamo sempre di rivestirle, come se una lingua con troppe trasparenze potesse apparire lasciva. Così avvolgiamo i verbi e i nomi dentro spessi strati di avverbi e aggettivi, scegliamo sempre l’espressione più difficile da indossare tra tutte quelle che abbiamo nel guardaroba e occultiamo le pudenda dell’italiano con eufemismi che, nelle intenzioni, dovrebbero servire a non urtare la sensibilità dei 116

nostri interlocutori ma che spesso, alla prova dei fatti, si rivelano più volgari e ridicoli delle parole nude e crude. Di sicuro la lingua non ha alcun bisogno di veli né di cerone per sedurre, e se proprio deve andare in giro infagottata, meglio prima chiedere consiglio, se non a uno stilista, almeno a uno che si intende di stile. Quando leggo su un giornale che Ronaldinho ha segnato «un gol bello, magnifico e fantastico», penso a certe ragazze che inumano il proprio viso sotto dieci centimetri di trucco per nascondere un aspetto non esattamente grazioso e ho la certezza che quando vedrò quel gol rimarrò deluso. Il troppo stroppia. Il trucco stracca. Come aggettivo, «fantastico» era più che sufficiente, ma il cronista ha voluto strafare, e gli è venuta fuori una descrizione kitsch e sovraccarica come l’abbigliamento di Michael Jackson. Il problema, come dice Severgnini, è che «l’aggettivista è un tipo con gli attributi: fin troppi». Per renderlo inoffensivo bisognerebbe mettere i ceppi alle sue fregole, ridurlo alla castità verbale, o almeno imporgli l’uso di metodi contraccettivi, altrimenti il suo «crescete e moltiplicatevi» rischia di portare le frasi al collasso. Gli aggettivi sono come le droghe: all’inizio producono effetti eccitanti, ma alla lunga generano assuefazione e depressione. Mai come il doping di quelli che per migliorare le proprie prestazioni linguistiche gonfiano le frasi con tutte le espressioni più difficili che conoscono. C’è quello che non dice mai «fare» ma sempre «effettuare» o «realizzare»; mai «scegliere» ma sempre «operare una scelta»; mai «ricavare» ma sempre «estrapolare»; mai «bere» ma sempre 117

«sorbire». All’inizio non lo noti, ma quando lo senti affermare, tutto serio, che ha «effettuato un sogno», capisci che ha esagerato con la cura. Poi c’è quello che mette sempre l’accento sulla prima sillaba per far vedere a tutti quanto è bravo a trattenere il respiro in quelle successive. Lontani i tempi in cui Gadda scherniva i lombardi per il loro «terrore del dattilo», cioè per le parole sdrucciole, adesso l’homo padanus ci tiene a fare il raffinato e dimentica con nonchalance l’accento sulla prima sillaba. Passi quando dice «cosmopòlita» anziché «cosmopolìta» o «Bèngasi» invece di «Bengàsi» (spesso lo dico anch’io). Ma se fa il geometra e parla di sé come di un «impresario èdile» forse non è il caso di lasciargli progettare edifici, perché molto probabilmente penderebbero tutti a sinistra. Non parliamo poi dei francesismi («dépliant», «Camembert», «Châtillon»), innaturalmente pronunciati con l’accento sulla prima sillaba come se questo virtuosismo prosodico non richiesto potesse far contento qualcuno. Certo non i francesi, visto che la lingua d’oltralpe possiede solo parole tronche. Errore per errore, ha più senso che siano i francesi ad anticipare l’accento quando imparano l’italiano, e non viceversa. Il mio primo maestro di sci, un valdostano, chiamava «Sìmone», con l’accento sulla «i», il mio amico Simone che prendeva lezioni insieme a me. Era sbagliato, ma aveva una sua logica. Dire «Camembert» con l’accento sulla «a» è altrettanto sbagliato. E in più è pure stupido. Ingenuo, più che stupido, è infine colui che prova a giocare con le parole senza accorgersi che sono le parole a 118

prendersi gioco di lui. È quello che invece di somatizzare una malattia la «sodomizza», che senza essere mai andato nei paesi arabi è convinto di sentire urla «beduine», che pur non essendo mai stato in Israele vive allo stato «ebraico» (o tutt’al più «brando»), che fa una vita «sedimentaria», che quando dimentica qualcosa ha delle «lagune» o delle «amnistie», che è troppo «lascivo» col prossimo e con la propria lingua, che commette, tautologicamente, un «lapis» dopo l’altro. Per lui, l’italiano è un mosaico fatto di tessere intercambiabili, una mappa geografica in cui i significanti e i significati non si incrociano mai sulle coordinate giuste, un laboratorio virtuale in cui puoi fare esperimenti mettendo due atomi di fluoro invece che di cloro senza far scoppiare tutto. Il problema è che anche la lingua, nel suo piccolo, può esplodere, lasciando dietro di sé effetti di urticante ilarità. Per non correre questo pericolo, basterebbe evitare di manipolare almeno le molecole più complesse: se per parlare di un bugiardo ci limitassimo a definire «colossali» le sue balle, non rischieremmo di trovarci in bocca l’aggettivo «gastronomiche» al posto di «astronomiche»; se per riferirci alla nostra esperienza la chiamassimo, appunto, solo «esperienza» e non «bagaglio di esperienze», alla fine non esisterebbe alcun pericolo di ritrovarci, noi e lei, chiusi dentro un «bagagliaio». La morale è che, a furia di truccare il motore, alterare l’aerodinamica e allentare i freni, ci ritroviamo tra le mani un italiano che non sappiamo più guidare. Non aiuta a tenere la carreggiata la tendenza fraudolenta a non chiama119

re più le cose col proprio nome. Il massimo della perversione sono gli eufemismi politici ed economici, quelli in virtù dei quali i «licenziamenti» diventano «esuberi», i «tagli» della spesa «razionalizzazioni» e le «guerre», addirittura, «operazioni di peace keeping». Un’ipocrisia istituzionale molto bipartisan e molto sovranazionale, visto che a quanto pare il vizio è diffusissimo anche all’estero. Sentite come lo racconta lo scrittore spagnolo Juan José Millás: Siamo stati capaci di chiamare «danni collaterali» le vittime civili, «cinema per adulti» quello pornografico (...) «struttura penitenziaria» il carcere, «intervento militare» la guerra, «soluzione finale» il crimine, «tecniche di persuasione» la tortura, «privazione sensoriale» l’asfissia indotta, «produttore» l’operaio, «collaboratore» il salariato, «borsista» lo schiavo, «pulizia etnica» il genocidio, «campagna aerea» il bombardamento (...)1.

È una nostra antica debolezza, quella di mettere didascalie consolatorie alle cose, per esorcizzarne o mistificarne volontariamente il senso. Basta pensare ai più di cento modi di morire («mancare», «passare a miglior vita», «spegnersi», «andarsene», ecc.) senza usare la parola «morire». Oppure al male «brutto» o «incurabile», che ci leva dall’imbarazzo scaramantico di chiamare il cancro col suo nome. Alcuni di questi eufemismi vengono imposti per decreto, con effetti talora grotteschi: chiamare «operatore ecologico» lo spazzino non ha migliorato il suo status econo1 Il brano è tratto dall’articolo Filantropia, pubblicato su «El País» il 4 luglio 2008. La traduzione è mia.

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mico né ha mutato la percezione sociale che si ha del suo lavoro; gli ipocriti aggiustamenti lessicali che hanno promosso i portatori di handicap prima allo status di «disabili» e in seguito a quello di «diversamente abili» non hanno mai aiutato gli interessati a superare le barriere architettoniche né a sentirsi più in pace col mondo e con la propria condizione. Di questo passo, osservava giustamente Massimo Gramellini, finiremo per chiamare il pigro «diversamente sgobbone, nel senso che impiega le sue migliori energie a scansare le responsabilità». L’anno scorso, la Lega Nazionale di Serie C ha cambiato gli statuti per diventare «Lega Italiana Calcio Professionistico» e mutare la denominazione del campionato di serie C in «Campionato Lega Pro» per non offendere chi si sentiva sminuito a giocare in una categoria minore e soprattutto per non allontanare gli sponsor, che a queste cose sono molto sensibili. Ecco, non vorrei sembrare troppo cinico (solo un po’), ma il politicamente corretto nel linguaggio mi sembra soprattutto una roba da piazzisti, un involucro che sa tanto di marketing, di packaging, di ‘fuffing’ (nel senso della fuffa), ma che dentro è disperatamente vuoto. Un alunno della scuola superiore dove ho insegnato qualche anno fa era solito apostrofare con le parole «ehi, ma sei gay?» chiunque gli desse fastidio. D’accordo, suonava meglio di «finocchio», ma era chiaro che per lui gli omosessuali, comunque li chiamasse, rimanevano una categoria sub-umana. Non parliamo poi dei nomadi. Anni e anni spesi a disinfestare il linguaggio dalla parola «zingari», e quando fi121

nalmente ci siamo abituati tutti a chiamarli «rom», ecco che il governo approva un decreto per prendere loro le impronte digitali restituendoli al cliché che li vuole fastidiosi questuanti e potenziali ladruncoli. Ma il massimo dell’ipocrisia è uscito di bocca al nostro premier, quando per fare una «carineria» (parole sue) al presidente degli Stati Uniti Barack Obama, lo ha definito, a poche ore dalla sua storica elezione, un uomo «bello e abbronzato». Metà del nostro paese è sbiancata dalla vergogna. L’altra metà lo ha difeso con un tono che sembrava voler dire: «Ma come: è un negro, Berlusconi è così gentile da usare la parola abbronzato e si dovrebbe pure offendere?». Perché sarà anche vero, come sosteneva qualche tempo fa Stefano Bartezzaghi su «Repubblica», che il vero problema del linguaggio pubblico italiano è «il PS (Politicamente Scorretto): quel decisionismo linguistico che mette o rimette in circolazione termini bruschi e immediati, parole-ringhio e turpiloquio». Ma è altrettanto vero che il suo rovescio, cioè il «politicamente corretto», serve troppo spesso da alibi per occultare il «politicamente corrotto», e che quando la politica tenta di ‘correggere’ la lingua c’è sempre di che preoccuparsi. Siamo arrivati alla fine del capitolo e mi rendo conto solo ora di averci messo dentro troppe cose diverse, come si fa con la raccolta indifferenziata. Se ritenete che non abbia spiegato a sufficienza i criteri per dividerle e smaltirle, per separare il riciclabile (Primo Levi, Moretti) dal non recuperabile (Ghezzi e i suoi colleghi), vi dirò solo che anche qui l’intenzione era quella di colpire chi cerca di imporre 122

dei canoni di correttezza ed eleganza espressiva, stilistica e persino politica senza averne alcun titolo. Mi piacerebbe poter riassumere tutto in uno slogan. Purtroppo non me ne viene in mente nessuno. FARINA DA ALTRI SACCHI

Italo Calvino, L’antilingua, in Saggi 1945-1985, tomo I, Mondadori, Milano 1995. Dove si avverte che a pensare male non si commette peccato ma a parlare male certamente sì. Federico Faloppa, Parole contro, Garzanti, Milano 2004. Dove si parla di turchi, neri, zingari, ebrei e di tutte le parole ingegnose che nei secoli abbiamo inventato per insultarli. Giuseppe Picciano, Italiano, istruzioni per l’abuso, Uni Service Editrice, Trento 2008. Dove si misura la distanza linguistica che separa il paese reale dal paese istituzionale (e surreale).

11.

Cose che capitano

Assodato che il nostro neo-crusc è, a suo modo, un medico fin troppo zelante e con una spiccata tendenza a intervenire col bisturi anche sulle parti sane della lingua, bisogna avere il coraggio di dire che spesso le cattive cure sono figlie di una cattiva diagnosi, e la cattiva diagnosi può derivare da una conoscenza e una descrizione approssimative dell’anatomia di una lingua. Prendete il verbo. Se chiedete a un italiano mediamente istruito di definire in una parola questa categoria grammaticale, vi risponderà senza indugio che il verbo indica un’azione. Così gli hanno insegnato alle scuole elementari, alle medie e alle superiori, somministrandogli la definizione a intervalli regolari (circa una volta ogni tre anni) e obbligandolo a ingerirla tutta intera come si ingeriscono le pillole, senza possibilità di masticarla. Ora, tanto per restare in ambito medico, quella definizione assomiglia un po’ a certi farmaci fuori commercio che ci costringevano a consumare da bambini, non perché li avesse prescritti il dottore, ma perché così imponeva una sorta di tradizione familiare che sarebbe stato quasi sacrilego interrompere: li aveva presi la nostra nonna, li prendeva la nostra mamma, dunque, fino a prova contraria, facevano bene. 124

Adesso sappiamo, grazie ai progressi della farmacopea moderna, che quelle medicine non facevano bene affatto, e che fra tutte le tradizioni di famiglia, nocivo per nocivo, sarebbe stato più simpatico conservare quella del cotechino domenicale. In compenso, generazione dopo generazione, continuiamo a essere convinti che il verbo indichi un’azione, nonostante la ricerca linguistica e l’evidenza empirica abbiano ampiamente dimostrato che le cose non stanno così. Come si è arrivati a questo punto? Propongo due possibili spiegazioni: la prima riguarda la refrattarietà di molti studenti verso tutto ciò che implica una qualche forma di astrazione concettuale, e la conseguente necessità, da parte dell’insegnante, di semplificare il più possibile tutto quanto. Il problema è che, a furia di generalizzare, di sfrondare la questione dei rami troppo ingombranti, le definizioni diventano sempre meno precise, sempre meno maneggevoli e, in ultima analisi, sempre meno utili. La seconda spiegazione, parallela e complementare alla prima, è che il sapere scolastico, e in particolare quello linguistico, non sempre va di pari passo con l’evoluzione della disciplina di riferimento, ma tende piuttosto a calcificarsi, ad anchilosarsi su posizioni apparentemente comode da cui è poi difficile riuscire a smuoverlo, come uno che stesse seduto per delle ore nella stessa postura e a un certo punto non riuscisse più a distendere le gambe. In questo senso la domanda di partenza – come si è arrivati a questo punto? – non è pertinente, nel senso che per alcuni il vero problema è semmai quello di non essersi mai mossi. 125

Aiutiamoli dunque a mettersi in movimento (anzi: in azione) cominciando a delimitare preliminarmente il perimetro semantico della parola «azione». Ebbene, a costo di semplificare troppo a mia volta, dirò subito che l’azione è una cosa che si fa. Formulata così, bisogna riconoscere, l’affermazione può suonare leggermente tautologica e non molto spendibile dal punto di vista scientifico. Eppure, se si scava sotto il suo apparente candore, si scopre che una definizione del genere fa proprio al caso nostro. La fattibilità non costituisce infatti solo una prerogativa semantica dell’azione ma definisce proprietà linguistiche ben precise di alcuni verbi. Faccio subito un esempio. Avete a cena un ospite molto premuroso che finito il pasto si alza da tavola, infila il grembiule e fa per mettersi a lavare i piatti. Per fortuna, prima che possa aprire il rubinetto e condannarvi a una pessima figura, riuscite a fermarlo con queste parole: «Non ti preoccupare: lo faccio io». Avreste potuto dire anche «li lavo io», ma si dà il caso che abbiate usato proprio quel verbo lì – «faccio» – come termine più generico (in linguistica si direbbe iperonimo) per indicare l’atto del lavare. Dunque, lavare è una cosa che si fa, e lo sono anche sparecchiare, passare la scopa, spolverare e mettere in ordine. E tuttavia la fatica e il sudore che implicano questi lavori non c’entrano nulla con il loro status di azioni. La controprova la fornisce proprio il verbo «sudare». Ebbene, l’esperienza insegna che si può sudare perché si passa molto tempo al sole, perché si lavora duramente, perché si ha paura di qualcosa (nel qual caso, in genere, si «su126

da freddo»). Ma sudare non è una cosa che si fa, semmai è una cosa che capita, un evento del tutto indipendente dalla volontà del soggetto, come dimostra il successo che nella nostra civiltà riscuotono i deodoranti e le calzature che traspirano. Insomma, sudare non è un’azione, e non è un’azione perché non è una cosa che si fa, e non essendo una cosa che si fa non è in alcun modo sostituibile dal verbo vicario «fare». Il verbo «fare» è uno dei dispositivi di riconoscimento che la lingua italiana possiede per distinguere i verbi che esprimono un’idea di azione da quelli che esprimono qualcosa d’altro. Se qualcuno mi dice, «per piacere, vai a comprare il latte», posso rispondergli «lo faccio subito», oppure «lo faccio dopo». Ma se la mamma mi dice, «cerca di non sudare troppo», che sia subito o più tardi, non potrò mai prometterle di farlo. Appurato che «sudare» non costituisce in alcun modo un’azione, resta da decidere come classificarlo altrimenti. Io (e non solo io) proporrei di definirlo un processo, che è una categoria un po’ più ampia di quella di azione, perché include, oltre alle cose che si fanno, anche quelle che, appunto, capitano. Le cose che capitano sono tante: «sudare» è una cosa che capita, anche se uno cerca di evitarlo vestendosi leggero e azionando il condizionatore (inutile dire che il verbo «azionare», come dice la parola stessa, è un po’ la quintessenza dell’idea di azione). «Cadere» è una cosa che capita, per quanto uno si sforzi, memore degli insegnamenti ricevuti da bambino, di guardare dove mette i piedi. «Piovere» è una cosa che capita, e se non siete d’ac127

cordo ripensate un po’ a quella volta che siete usciti di casa senza ombrello perché il cielo sembrava sereno e siete rientrati zuppi come frollini rimasti troppo a lungo a mollo nel tè. Le cose che capitano, a differenza delle cose che si fanno, capitano che uno le desideri oppure no, che uno cerchi di ostacolarle oppure no. Detto in altre parole, le cose che capitano capitano indipendentemente dalla nostra volontà. E da questo punto di vista immagino che sarete tutti d’accordo se dico che «suicidarsi» indica un’azione e «morire» un processo. L’esempio è un po’ lugubre, lo ammetto, ma mi sembra piuttosto efficace. Ecco in ogni caso un altro dei tratti che distinguono l’azione dagli altri tipi di processi che stiamo esaminando: la volontarietà. Attenzione, però, perché anche le azioni, quando uno le subisce e non le esegue, si possono trasformare in cose che capitano. Ciò vuol dire che i verbi alla forma passiva, ribaltando i ruoli grammaticali della frase e mettendo il soggetto nella condizione di quello che subisce l’azione, non esprimono azioni, bensì processi. Ora, come comprenderete, è molto diverso fare una cosa che subirla. È preferibile essere nella condizione di quello che mangia rispetto a quella di chi viene mangiato; allo stesso modo, dovendo scegliere, sempre meglio picchiare che essere picchiati. Si mangia perché si ha fame, si viene mangiati perché l’appetito ce l’ha la zanzara posata sul nostro naso o il cannibale che va pazzo per il controfiletto di carne umana. Mangiare è una cosa che si fa, essere mangiati è una cosa che capita – di rado, per fortuna. Questione chiusa? Mica tanto. Prima di tutto vorrei far 128

notare un paradosso curioso, ancorché solo apparente, e cioè il fatto che non sempre il verbo «fare» viene usato per esprimere cose che si fanno. Per esempio la locuzione «fare schifo», nella frase «i topi morti fanno schifo» non indica affatto un’azione e, a ben guardare, nemmeno un processo, semmai una proprietà del soggetto. Questo significa che un medesimo verbo, a seconda delle accezioni e dei contesti in cui viene usato, può indicare cose diverse. Lo stesso «sudare» esprime un processo in una frase come «ho sudato molto giocando a tennis» e una proprietà in un’asserzione a carattere universale tipo: «I piedi sudano a stare chiusi in scarpe che non traspirano». Ma ci sono verbi ancora più difficili da classificare. Prendiamo «essere stanco»: si può forse affermare che esprime un’azione? No davvero. E un processo? Peggio che andar di notte. Alla faccia di Filippo Tommaso Marinetti, il cui progetto di eversione della sintassi passava attraverso la forza dinamica, per non dire dinamitarda, del verbo (preferibilmente all’infinito), «essere stanco», pur essendo appunto un verbo, è quanto di più lontano dall’ideale futurista di una lingua tutta spasmi, clangori e movimento, incarnando piuttosto l’immagine della fatica, del silenzio, dell’inazione. Dunque? Dunque «essere stanco» indica qualcosa che potremmo definire uno stato, sebbene, a seconda degli aggettivi (e dei sostantivi) con cui si abbina, «essere» possa esprimere anche una proprietà («Marco è intelligente», «Luigi è un ingegnere») e un processo (quando fa da ausiliare negli enunciati passivi). Quanto all’altro verbo multitasking per eccellenza, ossia 129

«avere», può indicare di volta in volta una proprietà («Marco ha un buon carattere»), uno stato («ho fame») oppure una relazione di possesso («ho una casa al mare»). Ho cercato di semplificare, e temo invece di aver fatto il solito frappè di idee. Cercherò dunque di riassumere in cinque punti le questioni a mio parere più importanti tra quelle che ho segnalato in questo capitolo. Eccole qui: 1. non tutti i verbi esprimono un’idea di azione; 2. si può parlare di azione solo quando i verbi indicano cose che si fanno; 3. si parla invece di processo quando i verbi indicano cose che capitano; 4. oltre ad azione e processo, i verbi possono indicare anche una proprietà del soggetto, una relazione, uno stato, una sensazione; 5. molti verbi, soprattutto quelli multiuso come «essere» o «avere», possono mutare di significato, e dunque esprimere cose diverse, in relazione al contesto in cui si trovano. Troppo difficile? Troppo astratto? Forse, ma ammetterete che, rispetto all’ipotesi iniziale, quella risultante è una definizione ad alta definizione, che permette di cogliere quasi tutti i dettagli dell’immagine, come gli schermi da mille megapixel. E comunque sempre meglio un lieve eccesso di astrazione che affermare, come fa qualcuno, che «non importa se la definizione è incompleta, basta che gli alunni capiscano le cose»: primo, perché in questo modo rischiano di capire cose sbagliate; secondo, perché anche le definizioni incomplete richiedono un processo di astra130

zione, e dunque tanto vale esigere uno sforzo in più per acquisire una definizione astratta ma senza fessure. Questo senza dimenticare una considerazione preliminare a tutte le altre, e cioè che per uno studente di scuola media o superiore non è poi così importante saper definire, con parole sue o altrui, che cosa sia un verbo, quanto piuttosto saperlo riconoscere. Una volta chiarito tutto ciò, resta una piccola postilla per i più secchioni: la parola «azione», che abbiamo vivisezionato in questo capitolo fino a scomporne lo scheletro, ha in realtà un uso molto tecnico in ambito linguistico, dove indica una categoria grammaticale ben precisa. L’azione verbale costituisce infatti una qualità immanente del verbo (meglio: del predicato) che delimita il suo raggio di movimento all’interno della griglia dei tempi verbali. Cosa vuol dire? Vuol dire ad esempio che alcuni verbi come «arrivare», «finire», «rompere», che esprimono processi o azioni in qualche modo istantanei, sono incompatibili con espressioni temporali tipo «per due anni», oppure «fino a domani», che esprimono durata. Frasi come «Gianni è arrivato per tre ore» o «ho finito i compiti fino alle dieci» sono insomma da considerare agrammaticali, perché la loro azione verbale, che tecnicamente si definisce non durativa, non tollera certi tipi di avverbi. Non è il caso di insistere oltre, e tuttavia, volendo ridurre il senso di questo capitolo in uno slogan, si potrebbe ben dire che non tutti i verbi esprimono azione, ma tutti i verbi presentano un certo tipo di azione. Sembra un gioco di parole. Siccome stiamo parlando di lingua, lo è. 131

FARINA DA ALTRI SACCHI

Lorenzo Renzi, Grande grammatica italiana di consultazione, vol. I, La Frase, il Mulino, Bologna 1988. Giampaolo Salvi, Laura Vanelli, Nuova grammatica italiana, il Mulino, Bologna 2004. Dove si propone una grammatica che assomiglia a quella tradizionale come il calcio al football americano.

12.

Dove ti porta il predicato

Se non avete preso scorciatoie per arrivare fin qui e avete letto con cura il capitolo precedente dedicato al verbo, probabilmente vi starete arrovellando intorno a un ragionamento che da qualche pagina scalpita impaziente sotto la buccia del testo. Il ragionamento sarebbe questo: se non si può dire che il verbo (anche se sarebbe più corretto dire il predicato) esprime l’azione, non dovrebbe essere altrettanto proibito affermare che il soggetto è colui/colei che fa l’azione? Il brutto di quando si imbocca una via sbagliata, in auto ma anche in grammatica, è che quando te ne accorgi sei ormai irrimediabilmente imbottigliato. Nel nostro caso, abbiamo verificato che la definizione convenzionale di verbo («il verbo esprime un’azione») si immetteva in un vicolo senza sbocchi che rischiava di portare fuori strada anche il soggetto e ci avrebbe costretti a fare una doppia marcia indietro. Invece, per fortuna, siamo usciti quasi indenni dall’ingorgo e, una volta recuperata la via maestra, dovrebbe essere più semplice trovare il tragitto giusto anche per il soggetto. Orbene, visto che parliamo di strade, una delle prime cose che si possono dire a proposito del soggetto è che, con 133

buona approssimazione, va dove lo porta il predicato. L’affermazione è da intendersi in senso sia letterale che letterario: da un lato, infatti, abbiamo visto che con certi verbi il predicato tende a portare il soggetto a destra («è arrivato Mario»), e lo stesso succede in frasi tipo «buono questo risotto» in cui il predicato nominale privo di copula («buono») precede obbligatoriamente il soggetto. Ma il soggetto va dove lo porta il predicato anche per questioni di accordo (il soggetto deve concordare in numero e persona col verbo, e viceversa) e, in parte, di ‘affinità elettive’. Se il predicato esprime un’azione, il soggetto sarà colui/colei che la fa, se il predicato esprime una sensazione, il soggetto sarà colui/colei che la prova, e via dicendo. E tuttavia in quest’ultima affermazione c’è qualcosa che non quadra. Prendiamo il caso dei verbi che esprimono effettivamente un’idea di azione come «uscire», «prendere», «tirare», «rompere», eccetera: se dico «Mario è uscito di casa, ha preso un sasso da terra, l’ha tirato contro un lampione e l’ha rotto» posso ben affermare che Mario ha fatto tutte le azioni espresse dai diversi verbi. Dunque Mario va considerato, a buon diritto, un soggetto che fa qualcosa. Fa pasticci, fa danni, ma comunque fa. È quello il suo ruolo nella frase. Eppure è solo un caso se tale ruolo coincide con il valore grammaticale di soggetto. Basta infatti capovolgere il predicato («il lampione è stato rotto da Mario») per rompere la simmetria: qui Mario non è più il soggetto, e nondimeno continua a essere colui che ha rotto il lampione. In altre parole, Mario muta funzione grammaticale, ma 134

non ruolo. Lui era e resta il colpevole del misfatto, e l’essere diventato complemento d’agente di una frase passiva non serve a scagionarlo. Riflettete, fra parentesi, sull’espressione complemento d’agente: vi siete mai chiesti che cosa vuol dire? Se pensavate che fosse il cappello o la cintura di un poliziotto siete fuori strada, anche se in qualche modo l’abbigliamento c’entra. Il complemento d’agente è infatti il travestimento che indossa, nelle frasi passive, colui o colei che fa l’azione: alla lettera, agente vuol dire infatti colui/colei che agisce, che fa. Da questo punto di vista, Mario è un agente indipendentemente dalla funzione grammaticale (soggetto o complemento) che ricopre, così come un portiere, nel calcio, rimane tale anche se sulle spalle, al posto del numero uno, porta l’undici o il settantasette. E il lampione? Non mi interessa sapere se sia stato riparato o se Mario abbia pagato i danni. Mi interessa conoscere il suo ruolo in campo. Ebbene, se è vero che Mario rimane l’agente qualunque sia la sua posizione nella frase e la sua etichetta grammaticale, non è forse altrettanto vero che il lampione continua a svolgere anche lui la parte della vittima? Ora, vittima è una parola impegnativa per designare una nozione linguistica, ma il senso è più o meno quello. Il lampione è la vittima – direi meglio: l’oggetto – del processo espresso dal verbo, e continua a essere un oggetto anche quando cessa di essere un complemento oggetto per assumere temporaneamente («il lampione è stato rotto...») le sembianze di un soggetto. Per quanto si travestano, per quanto cerchino di nascondere le loro fattezze 135

sotto la superficie bugiarda della frase, i concetti non smettono insomma di significare quello che significano. Da questo punto di vista «Mario ha rotto il lampione» e «il lampione è stato rotto da Mario» non sono soltanto due modi per dire la stessa cosa, ma sono come dei gemelli che discendono dalla stessa molecola di significato, che hanno lo stesso patrimonio genetico e che solo la separazione alla nascita ha reso accidentalmente diversi tra loro. Possiamo quindi trarre un paio di conclusioni da quanto detto fin qui: 1. le categorie, studiate in analisi logica, di soggetto, complemento oggetto, complemento d’agente, designano funzioni sintattiche, non significati; 2. nel caso di un predicato che esprime azione, non è esatto dire che è il soggetto a farla. È l’agente che la fa, e non è detto che questo coincida col soggetto. Bisogna aggiungere che la sceneggiatura della frase prevede anche altri ruoli, oltre a quelli di agente e oggetto. Riscriviamo ad esempio la sequenza del lampione aggiungendo un altro attore: «Mario ha rotto il lampione con un sasso». Mario è l’agente, il lampione l’oggetto: fin qui nessun dubbio. E il sasso? È un complemento di mezzo, d’accordo: ma qual è, veramente, il suo ruolo? Ebbene, il suo ruolo è quello di strumento, di inconsapevole complice di un’azione eseguita da altri (non nascondere la mano, Mario: sappiamo che sei stato tu). E il suo ruolo rimane tale sia che assuma le sembianze di un soggetto («il sasso ha rotto il lampione»), sia che diventi un complemento di causa 136

efficiente («il lampione è stato rotto dal sasso»). Della serie, strumenti si nasce, complementi (e soggetti) si diventa. Di passata, vorrei di nuovo far notare il mirabile nitore di certa nomenclatura grammaticale, in particolare nell’espressione «complemento di causa efficiente». Ora, la grammatica moderna sarà anche astratta e cervellotica in alcuni termini e in alcune definizioni, ma questa qui è fuori concorso. Qualcuno è in grado di spiegare con parole sue che cos’è una «causa efficiente»? È un processo con rito abbreviato? Vi sembra il caso di dire certe cose davanti a un bambino di prima media? Sui complementi in generale avrei da dirne tante (e infatti le dirò nel prossimo capitolo), ma qui stiamo ancora disquisendo di ruoli e sceneggiature, e siamo ben lontani dall’aver esaurito il tema. Lasciamo dunque Mario alle prese con il suo lampione e parliamo invece di Maria, che proprio di Mario è follemente innamorata, tanto che qualcuno ha persino scritto su un muro: «A Maria piace Mario». Qui abbiamo due attori nel cast, e altrettanti ruoli da assegnare. La prima osservazione è che Mario, pur essendo il soggetto grammaticale, non è certamente un agente. La seconda osservazione è che Maria, pur travestita da complemento di termine, è quella che nella relazione ha il ruolo più attivo. Questo non significa che lei sia agente. Vuole però dire che lui è oggetto dei sentimenti di lei. La cosa è talmente evidente che in inglese, dove la lingua tende a seguire con maggiore scrupolo e puntualità i sentieri della logica, si direbbe «Mary likes Mario», dove 137

Mario non è soltanto oggetto ma anche complemento oggetto, sanando in tal modo le discrepanze tra ruoli e maschere grammaticali. Ma il caso più curioso è quello degli spagnoli, i quali hanno un verbo – «gustar» – che si costruisce esattamente come il nostro «piacere», e nondimeno, quando studiano l’italiano, si intestardiscono a ragionare come gli inglesi facendo concordare «piacere» con il soggetto logico («mi piacerei una vacanza in Grecia») anziché con quello grammaticale. In tutto questo non abbiamo ancora chiarito quale sia il ruolo di Maria nella frase in esame. Di lei potremmo dire che, più che fare, sente qualcosa. Sente amore o forse solo una fugace infatuazione, ma certamente sente qualcosa. E qui dobbiamo tornare al capitolo precedente, in cui abbiamo dei verbi che esprimono una sensazione. Come si deve chiamare il soggetto di quei verbi? O meglio: come si deve chiamare il ruolo di colui/colei che prova la sensazione espressa dal verbo? Si deve chiamare, anzi si chiama, esperiente. Che vuol dire: relativo a colui/colei che vive un’esperienza sensoriale (naturalmente vale anche il sesto senso). Da questo punto di vista, i ruoli in gioco nella frase «A Maria piace Mario» sono esattamente gli stessi di altre frasi come «Maria vede Mario», «Maria si è innamorata di Mario» o «Mario ha fatto innamorare Maria». Maria è sempre esperiente, Mario sempre (uomo) oggetto. Ancora un esempio e poi ho finito. L’esempio è: «Mario ha l’amichetta». Povera Maria, direte voi. Sì, e poveri anche noi: come classificare infatti il ruolo di Mario posto che, con tutta evidenza, non è agente, non è strumento e 138

non è neppure oggetto? Il suggerimento arriva dal latino, dove la stessa frase, se mi è consentita una piccola licenza maccheronica, potrebbe essere formulata così: «Mario est amicula». Il soggetto grammaticale, in questo caso, è «amicula», mentre Mario è al caso dativo (il cosiddetto dativo di possesso). Ecco, in questa grammatica dei significati che stiamo cercando di tracciare, il ruolo di Mario si definisce proprio come dativo. Di nuovo, se ci fate caso, il ruolo non c’entra nulla con il valore sintattico: c’entrerebbe se la frase fosse «l’amichetta appartiene a Mario», ma a parte il fatto che su una frase formulata in questo modo una femminista avrebbe legittimamente da eccepire, c’è da dire che la costruzione dativa in italiano non è granché diffusa. A questo punto risultano comunque più chiare alcune questioni. La prima è che un conto sono le funzioni (in latino si direbbe i casi) sintattiche, un conto sono i ruoli (che i linguisti chiamano attanti o casi profondi) che si nascondono sotto la superficie. Un soggetto, insomma, può non essere agente, un complemento oggetto non essere un oggetto, un complemento di termine non essere un dativo, e così via. La seconda è che, quando parliamo di soggetto, intendiamo in realtà ben tre cose diverse: il soggetto sintattico, cioè l’elemento senza preposizione che si accorda al verbo nella persona e che normalmente (insisto: normalmente; vedi capitolo 3) precede il verbo; il soggetto logico, cioè quello che ha il ruolo più attivo nella frase indipendentemente dalla funzione grammaticale che ricopre; il soggetto psicologico o pragmatico, cioè il tema della frase, l’ele139

mento di cui si parla, così come lo abbiamo definito nel capitolo 4. Badate che nessuna di queste definizioni è migliore delle altre, basta solo chiarire da principio a quale stiamo facendo riferimento. La terza questione, che discende dalla seconda, è che l’analisi logica tende a mescolare promiscuamente le funzioni sintattiche coi significati. Questo vuol dire che anche il complemento oggetto o il complemento indiretto (volgarmente chiamato di termine) sono definiti con criteri ora semantici («quello che subisce l’azione») ora sintattici («l’elemento che completa i verbi transitivi e diventa il soggetto delle frasi passive»). Un po’ di chiarezza, please. La quarta e ultima questione è che esistono poche cose al mondo più illogiche dell’analisi logica. Non ci credete? Tuffatevi nel prossimo capitolo e trattenete il respiro. FARINA DA ALTRI SACCHI

Cecilia Andorno, La grammatica italiana, Bruno Mondadori, Milano 2003. Dove si parte dalla grammatica tradizionale e si arriva alla grammatica scientifica senza nemmeno sentire il rollio.

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Il complemento di fine e la fine dei complementi

Un capitolo intero dedicato al soggetto e quasi mi dimentico di dire una delle cose più importanti che lo riguardano: non tutti gli enunciati ne hanno uno. Ohibò, azzarda il neo-crusc: non sarà che magari c’è ma è sottinteso, che basta cercarlo nel contesto, che è uscito a prendere un caffè e poi torna? No. Sto dicendo che alcuni enunciati il soggetto non ce l’hanno e basta, e neppure ne sentono la mancanza. Una volta ho discusso a lungo con una studentessa di un corso di specializzazione per l’insegnamento, la quale sosteneva che un soggetto mancante si può sempre integrare. «E se dico ‘nevica’? Quale sarebbe il soggetto di ’nevica’?» – le ho domandato. E lei: «Il soggetto di ‘nevica’ potrebbe essere il cielo». «Tu diresti mai ‘il cielo nevica’?» ho provato a ribattere. E lei, imperturbabile: «No, ma potrei dirlo». Riporto l’episodio perché mi sembra racconti alla perfezione l’atteggiamento dogmatico che i neo-crusc hanno non soltanto nei confronti della norma grammaticale, ma in generale verso tutto il catechismo linguistico appreso a scuola. Se la dottrina ufficiale afferma che «tutte le frasi hanno un soggetto», il neo-crusc non si pone neppure il dubbio se sia vero o falso: ci crede e basta, come si crede 141

nell’esistenza dell’anima e dello Spirito Santo. La differenza è che mentre l’anima e lo Spirito Santo possono magari dare un senso e una forma al nostro bisogno di spiritualità, credere nella trascendenza del soggetto a dispetto di ogni evidenza empirica non ci aiuta a essere più felici e soprattutto non rende un grande servizio alla scienza. Torniamo all’esempio da cui siamo partiti: «Nevica». Che cosa manca a «nevica» per poter essere considerata una frase completa? Io direi che non manca nulla. Non manca un soggetto, per quanto alla mia alunna l’idea suonasse blasfema; non manca un complemento oggetto, visto che «nevicare» è un verbo intransitivo; e non mancano neppure altri complementi, benché in teoria sia possibile aggiungerne a piacere («nevica da due giorni sui monti della Valle d’Aosta e sulle colline del Biellese»). Dunque, per quanto scheletrica, «nevica» è una frase ben costruita. Una volta accettato questo principio, posso fare una concessione alla fanciulla, e cioè che le frasi senza soggetto sono in effetti una minoranza piuttosto esigua e curiosamente hanno quasi tutte a che vedere con la meteorologia: «ieri è piovuto», «sta tuonando», «oggi fa bello», eccetera. Questo significa due cose: primo, che la presenza o meno del soggetto dipende dal tipo di verbo che fa da nucleo alla frase; secondo, che se c’è un elemento di cui l’architettura della frase proprio non può fare a meno, quello è (con una serie di eccezioni che vedremo dopo) il verbo. Il fatto che il verbo costituisca la struttura portante della frase non significa però che basti da solo a tenerla in piedi. Funziona con «nevicare», «piovere», «tuonare» e in ge142

nerale con molti verbi atmosferici, anche se alcuni di essi possono avere il soggetto in accezione figurata («piovono pietre»). Ma già verbi come «dormire», «arrivare», «camminare» non riescono a reggere da soli tutta la baracca, e hanno bisogno di appoggiarsi su un soggetto che concordi con loro perché la sceneggiatura sintattica della frase non risulti monca («è arrivato Marco», «Luigi dorme», «(io) sto camminando», ecc.). Altri verbi hanno invece bisogno di almeno due stampelle per reggersi in piedi: «incontrare», ad esempio, vuole un soggetto e un complemento oggetto («Marco ha incontrato Lucia»); «andare», un soggetto e un complemento di moto a luogo («Luca va dal dentista»); «occuparsi», un soggetto e un complemento preposizionale («mi occupo di grammatica»). Infine, ci sono verbi come «regalare», «promettere» o «confondere» che di sostegni ne pretendono addirittura tre: «regalare» e «promettere» vogliono soggetto, complemento oggetto e complemento indiretto («Mario ha regalato un anello a sua moglie»), «confondere» pretende soggetto, oggetto e complemento preposizionale («Mario ha confuso sua moglie con una sconosciuta»). Ogni frase ha dunque un suo punto di equilibrio statico, una volta raggiunto il quale può crescere e allargarsi a piacere («Marco ha regalato a sua moglie un anello di brillanti per il decimo anniversario di matrimonio...»), purché non venga meno nessuno dei muri portanti su cui il verbo si appoggia, altrimenti dirocca l’intero edificio. I linguisti, che sembrano gente arida ma hanno una fantasia molto feconda, spiegano e descrivono questa situa143

zione con una similitudine tratta dalla chimica. In particolare fu uno studioso francese, Lucien Tesnière, a individuare delle analogie fra il comportamento dei verbi e quello degli atomi. Come un atomo presenta una certa capacità di combinarsi con altri atomi a seconda del numero di elettroni liberi, spiegava Tesnière, così ogni verbo possiede un numero determinato di valenze, di posti vuoti che devono essere saturati da altrettanti argomenti, dove gli argomenti sono appunto il soggetto, il complemento oggetto, il complemento indiretto e i vari complementi preposizionali necessariamente richiesti dal verbo. Seguendo questa teoria esisteranno dunque verbi zero-valenti come «piovere», «nevicare» o «tuonare», verbi monovalenti come «dormire» o «camminare», verbi bivalenti come «incontrare» o «andare», e verbi trivalenti come «regalare», «promettere», «confondere», eccetera. Naturalmente la configurazione valenziale di un verbo può variare a seconda dell’accezione e del contesto: «cantare», ad esempio, è un verbo bivalente, ma una delle valenze – quella corrispondente al complemento oggetto – può rimanere libera senza creare particolari danni («Marco canta» è una frase che sta in piedi da sola); allo stesso modo, un verbo come «dare», che di solito è trivalente («Mario ha dato l’anello a Maria»), diventa bivalente quando significa «sostenere» («Mario ha dato un esame») o «profondere» («ho dato tutto»). Ammetterete che, così come è formulata, la teoria della valenza suona piuttosto bene. Pur con alcune imperfezioni, permette infatti di radiografare una buona porzione di lingua, di mappare il dna dei verbi individuandone tutte le 144

possibili costruzioni e di osservare le interazioni fra i vari organi di cui sono composte le frasi. Soprattutto, permette di dare una definizione operativa di «frase minima» («la frase minima è composta dal predicato e da tutti gli argomenti necessariamente richiesti dal verbo») che è un po’ il chilometro zero della sintassi, la pietra filosofale che, con le opportune integrazioni, spiega perché i verbi reggono certi complementi e certe preposizioni, quali argomenti sono necessari e quali sono facoltativi a ogni verbo, e infine quali gerarchie esistono tra i vari sintagmi (ovvero: chi regge cosa). Un esempio classico di applicazione del sistema delle valenze riguarda la definizione dei verbi transitivi e intransitivi. Come recitava già il libro di scuola? Ah sì, diceva che «i verbi transitivi sono quelli in cui l’azione ‘transita’ dal soggetto al complemento oggetto». La metafora, in effetti, era suggestiva, ma bisognava avere una bella immaginazione per veder «transitare l’azione» senza pensare a un treno merci sfrecciante dietro un passaggio a livello. Con il sistema delle valenze, invece, non c’è più nessuna azione che «transita» (ammesso che di azione si tratti, come ho avvertito due capitoli fa), ma solo la constatazione oggettiva del fatto che il verbo in questione ha fra i suoi argomenti il complemento oggetto e può essere coniugato in forma passiva. A ben vedere, la maggior lacuna della grammatica delle valenze (e della definizione di «frase semplice») è dunque quella di escludere in partenza le frasi nominali, cioè le frasi prive di predicato verbale. Nessuno, forse neanche i neo-crusc, potrebbe negare che, ad esempio, «domani 145

gnocchi» o «bello il tuo vestito» siano espressioni perfettamente dotate di senso. Ma in entrambi casi la caratteristica che ne fa delle frasi non ha a nulla a che vedere con la loro struttura, bensì col fatto che pur non essendo presente un predicato verbale in senso stretto, c’è sempre un elemento, detto rema («bello», «domani») che dice qualcosa a proposito di un tema («il tuo vestito», «gnocchi»). Vi chiederete dove voglia andare a parare, con questo discorso. Ve lo spiego subito: voglio dimostrare che esistono altre vie alla grammatica che non passano per forza attraverso l’analisi logica tradizionale, che non sono né più astratte né più complesse e che soprattutto spiegano molte più cose. La grammatica delle valenze ci spiega il comportamento sintattico dei verbi, la grammatica dei casi profondi (o, se preferite, dei ruoli: vedi capitolo precedente) ci fa capire come i significati agiscono sulla sintassi, la grammatica pragmatica (quella delle dicotomie dato/nuovo e tema/rema) ci dice come si articola l’informazione nella frase in rapporto alle intenzioni del parlante. E l’analisi logica? L’analisi logica mescola un po’ tutto insieme, sintassi e semantica, funzioni e significati, proponendo una tassonomia dei complementi tanto imponente e prolissa quanto fine a sé stessa. Se avete ancora a casa la grammatica che usavate alle medie o avete figli in età scolare, vi consiglio di andare a contare il numero di complementi che vi sono elencati. Fatto? Scommetto che non ne avete trovati meno di quaranta e sono sicuro che non mancheranno (ahimè non mancano mai) il complemento di colpa e quello di pena, quello di abbondanza e quello di 146

privazione, quello aggiuntivo e quello eccettuativo. Non mi costa nulla ammettere che io per primo faccio molta fatica a riconoscerli, e anche quando ci riesco mi capita di chiedermi a che cosa serve distinguere un complemento di materia da un complemento di specificazione o un complemento di misura da un complemento di estensione. A scrivere meglio? A costruire bene le frasi? A capire come funziona la lingua? Se dico «l’imputato è accusato di omicidio» (complemento di colpa), l’espressione «di omicidio» non serve forse a specificare qualcosa? E che differenza c’è fra «il taglio di stoffa misurava 5 metri» e «il Monte Bianco è alto 4810 metri» che un manuale per bienni delle superiori cita rispettivamente come esempi di complemento di misura e complemento di estensione? Significa che l’estensione è più grande della misura? Che cosa sono il complemento di denominazione («la città di Roma») e quello di materia («un tavolo di legno») se non varianti del complemento di specificazione («lo zio di Marco»)? Non sarebbe il caso di raggrupparli in un complemento solo? Le domande sono tante, le risposte poche, e quasi sempre tirate per i capelli. Una delle più gettonate è che l’analisi logica serve a sviluppare il pensiero astratto e a far riflettere sulla lingua. Vero. Basta che l’astrazione non sia fine a sé stessa, altrimenti è come mettersi a potare un albero destinato ad essere abbattuto. L’altra risposta che ricevono i detrattori dell’analisi logica è che essa può essere utile per lo studio del latino. Benissimo: ma allora perché distinguere il complemento di colpa da quello di specificazione, se entrambi specificano 147

qualcosa e in latino richiedono il genitivo? E a che pro istituire un complemento di allontanamento quando nella lingua dei nostri avi era tutt’uno con il complemento di moto da luogo (a o ab più ablativo)? Come non scorgere in tutto questo un’inutile – e a tratti perversa – frenesia classificatoria da parte dei compilatori di manuali scolastici, che sminuzzano la lingua con la stessa passione e lo stessa pignoleria dei vivisettori più sadici? In fondo, per rendere di nuovo presentabile l’analisi logica, sarebbe sufficiente potarne le fronde più irregolari e spazzare via un po’ di foglie secche. Soprattutto, basterebbe ricordare che la sintassi non è un’accozzaglia di bastoncini sparsi, ma un tronco da cui si dipartono dei rami grandi che reggono rami più piccoli che ne reggono di più piccoli ancora. Voglio dire che se devo analizzare dal punto di vista sintattico una frase come «questo capitolo tratta della questione dei complementi», non basta dire che «della questione» e «dei complementi» sono entrambi complementi di specificazione: devo anche sapere da cosa dipende ciascuno di essi, quale dei due è argomento del verbo «trattare» e quale no, se tutti e due, in profondità, sono effettivamente complementi di specificazione o invece, magari, il primo è un complemento oggetto travestito (come in effetti è). È qui che la descrizione della lingua smette di essere un esercizio soltanto accademico e comincia a dare risultati operativi, a fornire regole basate non più su un codice trascendente ma sulla realtà dei fatti, a spiegare perché certi 148

verbi reggono certi complementi e non altri, a rispondere – infine – alle domande dei neo-crusc che vogliono sapere se si dice «diffidare di» o «diffidare da», «constare di» o «constare in», «essere capaci a» o «essere capaci di». Così si chiude il cerchio aperto all’inizio del libro: siamo partiti da questioni di grammatica normativa e lì – al termine di un percorso quasi psicanalitico attraverso le ossessioni dei neo-crusc e quelle della scuola – siamo tornati. Perché in fondo – e su questo i neo-crusc hanno ragione – quello che a tutti importa è sapere se una cosa si può dire o no. Solo che ad alcuni interessa per il piacere di conoscere, ad altri per quello di correggere. FARINA DA ALTRI SACCHI

Maria G. Lo Duca, Esperimenti grammaticali, Carocci, Roma 2004. Dove si insegna a vivisezionare l’italiano per scoprirne i segreti. (Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica), Dieci tesi per un’educazione linguistica democratica, 1975. Dove si sostiene che un’altra grammatica è possibile. GISCEL

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Minima immoralia

E poi c’è il dessert. O gli avanzi, fate voi. Briciole, fondi di caffè, ma anche qualche pezzo di piccola pasticceria grammaticale che meriterebbe più spazio se a questo punto del libro non fossimo già quasi sazi. L’ortografia, ad esempio. In genere le grammatiche te la propongono come aperitivo, col rischio di toglierti subito l’appetito. Qui invece ne propongo solo qualche assaggino a fine pasto per non appesantire lo stomaco. «Un pò». Il correttore di Word corregge, e fa bene. «Po’» è la versione apocopata di «poco», lo sanno tutti. Anzi: lo sapevano. Oggi infatti sembra non saperlo più nessuno ed è diventato quasi normale scriverlo con l’accento, benché sui monosillabi (anche questo lo sapevano tutti e non lo sa più nessuno) l’accento sia proibito, salvo in pochi casi specifici. Consultando l’archivio in Rete di «Repubblica» ho trovato, dal 1984 ad oggi, circa 2600 esempi di «un pò» scritto con l’accento, segno che l’alluvione ha colpito anche le zone teoricamente meno a rischio, come il linguaggio dei giornali considerati «colti». Come è accaduto? Difficile dirlo. Sull’ortografia, di solito, la scuola alza le barricate (e fa bene anche lei), dunque 150

la responsabilità non può essere sua. Rimangono due possibilità: o c’è qualcuno che sta attuando un silenzioso boicottaggio dell’apostrofo in finale di parola in nome della semplificazione ortografica, o proprio, alla gente, questa facile regoletta va di traverso. A occhio, visto che l’apostrofo non è affatto scomparso e anzi tende a sconfinare in parole non di sua competenza («tanti anni fa’»), propenderei per la seconda ipotesi. Resta la domanda: ha ancora senso correggerlo oppure no? Per quanto mi riguarda, fermo restando che in grammatica esistono reati più gravi, voto «sì», e anzi mi dichiaro favorevole alla correzione della maggior parte degli errori ortografici. Non sono diventato improvvisamente bacchettone: è solo che mentre gli italiani scritti e parlati sono tanti, l’ortografia è – o almeno è sempre stata fino a ora – una sola. Inoltre, mentre il parlato, una volta uscito di bocca, non si può più risciacquare, la grafia si fa sempre in tempo a sbiancarla, e non farlo è segno di sciatteria, come andare in giro con una patacca di caffè sulla camicia. Dopodiché bisogna prendere atto che qualcosa sta cambiando, che certi italiani scritti – sms, posta elettronica, blog, forum, chat, eccetera – non sono più assimilabili a degli scritti-scritti, ma sono diventati traduzioni simultanee del parlato, di cui hanno conservato l’immediatezza, la spontaneità, la velocità di esecuzione e, inevitabilmente, la trascuratezza. Questo ha finito per spostare la frontiera della tollerabilità ortografica che, dopo essere rimasta pressoché immobile per quattro secoli, da dieci-quindici anni viene quotidianamente insidiata e fatta arretrare a col151

pi di e-mail o messaggini scritti senza accenti, apostrofi né maiuscole. Si aggiunga a questo la mancanza di uno standard internazionale per i segni di scrittura su computer e telefonini, e in particolare il fatto che, a seconda dei luoghi e delle lingue, le tastiere non hanno gli stessi alfabeti e i software non sono programmati per riconoscere gli stessi caratteri. Ne sono derivate alcune deroghe ortografiche «istituzionalizzate», come quella, proposta nell’ambito delle Netiquette (sorta di manuale di stile ad uso della Rete), che raccomanda di «non utilizzare le lettere accentate che possono creare grossi problemi al ricevente», consigliando a tale scopo di sostituirle con l’apostrofo. A proposito di apostrofi: sapete di gente che scriva ancora «qual è» senza apostrofo? A me non viene in mente quasi nessuno. Vi dirò di più: pur conoscendo bene la regola, quando sono sovrappensiero anche a me viene naturale metterlo, come del resto faccio, in questo caso correttamente, con «quando» («quand’è»), «dove» («dov’è») e «cosa» («cos’è»). Mi dovrei vergognare? Forse. Ma ammetterete che la giustificazione storico-linguistica di questo errore – «qual» è una parola a sé stante, dunque non c’è elisione – non regge più granché di fronte all’esigenza di uniformità con i casi appena citati («quand’è», «dov’è» e «cos’è») e all’evidenza che la parola «qual» sarà anche rimasta nei vocabolari ma certamente non nell’uso. Altro cavallo di battaglia dei fanatici dell’ortografia: la «d» eufonica. Conosco insegnanti di italiano in università straniere che la fanno imparare ai propri alunni prima del 152

passato prossimo e delle formule di saluto, come se in quel minuscolo ricamo risiedesse l’arcano splendore della lingua italiana e il segreto per apprenderla più in fretta. Ma la cosa più paradossale non è questa: è il fatto che una questione puramente fonetica sia passata, senza alcun motivo e senza alcuno scandalo, sotto l’egida dell’ortografia. Come dice la parola stessa, la «d» eufonica serve a evitare lo stridore di due suoni vocalici consecutivi. Ciò significa che nello scritto bisognerebbe limitarsi a riportare la «d» solo quando effettivamente viene pronunciata, cioè fra vocali identiche («ad Ancona», «entra ed esce») oppure in alcune espressioni fisse che la richiedono («ad esempio», «ad eccezione»). Invece i neo-crusc (e non solo loro) pretendono che la si metta sempre, anche quando non è affatto eufonica («Luca ed Alberto», «sono stato ad una festa»), come le mamme che ti costringono a indossare la canottiera persino d’estate. E tutto questo perché? Perché la «d» eufonica è facile da insegnare e ancora più facile da correggere. Avrete capito che non tutti gli errori ortografici hanno lo stesso valore. I più gravi, direi, sono quelli che mutano il significato o la funzione grammaticale di una parola, come scrivere «ciò» anziché «c’ho», «ce» invece di «c’è», «ne» al posto di «né» (o viceversa). Seguono, a ruota, gli errori che riflettono una mancata corrispondenza della grafia con i suoni, come l’omissione degli accenti nelle parole tronche («perche invece di «perché») o lo «scempiamento» delle consonanti lunghe («publico» invece di «pubblico»), anche se in questi casi esiste sempre il dub153

bio che si tratti di refusi. Quanto agli errori puramente ortografici («coscienza» scritto senza «i», «azione» con due zeta), sono brutti ma non fanno male a nessuno. Trovo invece esageratamente complesso il sistema che regola l’uso delle lettere maiuscole, un serpentone di norme in cui ci si perde più facilmente che nel centro di Shanghai e che talora, oltretutto, si rifà a una visione del mondo esageratamente servile, specie nel caso della cosiddetta «maiuscola reverenziale» («Nel ringraziarLa per la Sua gentile collaborazione Le inviamo i nostri più cordiali saluti»). Va bene dare del «lei» alle persone, ma il «Lei» scritto può risultare più invadente che cortese, come se, sgomitando nel cuore delle parole, volesse farsi notare a tutti i costi. Per il resto, a parte nomi, cognomi e toponimi, c’è grande confusione rispetto ai casi in cui sarebbe obbligatorio usare la maiuscola. Alla fine, tra nomi di feste («Ferragosto»), di secoli o grandi avvenimenti storici («il Seicento», «l’Umanesimo»), di libri, opere, punti cardinali, organismi pubblici, eccetera, uno dovrebbe andare sempre in giro con il libretto di istruzioni per ricordarsi tutte le regole caso per caso. Senza contare che anche in questo settore, complice la tecnologia, le regole si stanno facendo sempre più lasse. Tuttavia, almeno a scuola, in università e sui libri a stampa, fa ancora testo l’ortografia «ufficiale», e questa è certamente garanzia di stabilità. Ciò premesso vorrei ribadire, a scanso di equivoci, che esistono crimini linguistici ben più gravi degli errori di ortografia – per esempio parlare o scrivere senza farsi capire 154

– sui quali tendiamo a essere assai ben più indulgenti. Ho anzi l’impressione che l’errore ortografico venga punito non solo e non tanto per la sua effettiva «pericolosità» sociale, quanto perché, a differenza di altri tipi di errori, è più facile da individuare, da correggere e da additare come minaccia per l’integrità della lingua. Da questo punto di vista, l’intransigenza verso queste forme di devianza linguistica, ancorché giusta, mi sembra risponda soprattutto a una domanda di «ordine» non molto diversa da quella che fa vincere le elezioni a chi promette tolleranza-zero verso gli scippatori e non a chi propone misure severe contro l’evasione fiscale. A proposito di evasione, ma cambiando completamente discorso, proporrei d’ora in avanti di chiamare «evasione sintattica» il vecchio anacoluto. Un’evasione innocente, come quelle cantate da Lucio Battisti, una piccola fuga dalla diritta via della sintassi per imboccare un cammino parallelo, poco battuto ma quasi sempre più comodo. Anacoluto, in grammatica, vuol dire tante cose. Il «che» alla Massimiliano è un anacoluto, la dislocazione è un anacoluto. L’anacoluto per eccellenza, tuttavia, è quello che sulle grammatiche moderne viene classificato come «tema sospeso». Esempio classico: «Io, la mia patria or è dove si vive» (Pascoli). Esempio meno classico ma destinato a diventarlo: «Io, speriamo che me la cavo». Il principio è lo stesso della dislocazione – prima si introduce l’argomento, il tema, e poi ci si cuce addosso l’enunciato – con una differenza non banale: nella dislocazione il tema viene ripreso da un pronome, e dunque rimane allacciato al resto della 155

frase («il libro l’ho letto»); nell’anacoluto, invece, non c’è alcuna ripresa, e il tema resta – appunto – sospeso, abbandonato in un limbo sintattico senza legami con il resto della frase, ma nello stesso tempo ben visibile a tutti. Sul suo conto si possono spendere più o meno le stesse parole che abbiamo detto a proposito del «che» alla Massimiliano: che anche lui è l’effetto di un cambio di pianificazione nel discorso; che la norma lo boccia ma l’uso lo premia; che nel parlato ci caschiamo tutti e nello scritto un po’ meno; che mentre i puristi lo hanno sempre censurato, la tradizione letteraria italiana non lo ha mai del tutto abbandonato, traghettandolo incolume fino alla prosa di inizio millennio. E vi pare che Paolo Nori (scusate, avevo promesso di non citarlo più), nel suo ineguagliato catalogo di colloquialismi, potesse farsi mancare il più illustre di tutti? La Gazzetta di Reggio, quella di adesso, la grafica, anche del titolo, sembra un giornale del far west. Io quando ero un ragazzo che abitavo a Parma, quello che succedeva nel mondo era come se non esistesse, cominciava a esistere solo se si trasferiva a Parma.

Ancora sintassi. «La maggior parte delle persone ritengono che». Vedi alla voce: «concordanza a senso». Ovvero: accordo tra un soggetto singolare di valore collettivo e un predicato al plurale (o anche viceversa: «Italiani, brava gente»). Nulla di peccaminoso, sia chiaro: solo i neo-crusc possono sentire pruriti perbenisti verso una delle coppie di fatto più lon156

geve della storia del nostro patrio idioma. Perché in una lingua può succedere anche questo: che la logica unisca ciò che la grammatica vorrebbe separare. Del resto, sulla questione dell’accordo, non è che la stessa grammatica abbia sempre le idee chiarissime. Basta vedere come si comporta quando più soggetti sono legati fra loro tramite virgola o congiunzione copulativa («e» o «né»): a volte reclama l’accordo al plurale («io e Mario abbiamo mangiato»), a volte predilige quello al singolare («non è successa né una cosa né l’altra»), a volte contempla entrambe le possibilità: («è rimasto/sono rimasti solo un pezzo di pane e un bicchiere di vino»). Capitolo ausiliari. «È nevicato» o «ha nevicato»? La tradizione dice «è», l’uso risponde «ha» (ah!). Personalmente, «è nevicato» mi sembra più una cosa che capita, qualcosa che succede e basta, mentre «ha nevicato» mi suggerisce l’idea di un agente esterno che fa nevicare. Qualcuno obietterà che è un’emerita sciocchezza (i verbi meteorologici non contemplano la presenza di un soggetto), ma se ci fate caso quasi tutti i verbi che indicano azione vogliono l’ausiliare «avere», e dunque un minimo di logica, forse, il mio ragionamento ce l’ha. Dopodiché questo non cambia nulla sul giudizio di correttezza della forma, che parrebbe essere stata sdoganata anche nei registri più formali. «Ho dovuto andare» o «sono dovuto andare»? Idem come sopra. La regola prescrive che in presenza di verbi modali («potere», «dovere», «volere») si debba impiegare lo stesso ausiliare che si impiegherebbe se non ci fossero. Dunque: «ho dovuto leggere un libro» e «sono dovuto an157

dare via». In realtà, la presenza del verbo modale riduce la forza gravitazionale che i verbi intransitivi e quelli pronominali esercitano sull’ausiliare «essere» e li sposta nell’orbita, più ampia e confortevole, di «avere». In genere prevale «avere» in presenza di un pronome atono posposto al verbo («non ho voluto andarci», «oggi ho dovuto alzarmi presto»), mentre resta obbligatorio «essere» se il pronome è preposto («non ci sono voluto andare», «oggi mi sono dovuto alzare presto»). Dato a «essere» quel che è di «essere», bisogna però avere il coraggio di enunciare una verità scomoda, e cioè che il doppio ausiliare, orgoglio patrio al pari della pizza e della moda, è soprattutto un’enorme seccatura: nessuno, da che grammatica è grammatica, è infatti mai riuscito a formulare una regola «economica» e soddisfacente che stabilisca quando usare «essere» e quando «avere». Anzi, più uno cerca di trovarne il bandolo, più questa si sfilaccia e si sfrangia. «Avere» con i verbi transitivi e «essere» con gli intransitivi? Che mi dite di «riposare» o di «vivere»? «Essere» coi verbi che indicano movimento? Quasi sempre vero: ma «camminare»? Non mi voglio addentrare qui in uno degli anfratti più oscuri della nostra grammatica. Dirò soltanto che una lingua con due verbi ausiliari è come un corpo con due nasi (o due bocche, o due cuori): alla fine non sai mai da che parte ti conviene respirare. Anzi, agli stranieri i nostri ausiliari provocano addirittura asfissia, e so per certo che alcuni di loro vedrebbero di buon occhio l’espulsione sine die dall’Unione Europea e dalla Nato di tutti quelli che non si adeguano (ci sono anche i tedeschi) 158

all’ausiliare unico. Bisognerebbe ricordarlo, quando si progettano le classi ponte per immigrati. Sempre verbi (ancorché non sempreverdi): il passato remoto è ogni giorno più remoto (soprattutto dalla linea gotica in su); il futuro non esiste più, e non soltanto nelle coniugazioni. Il perché lo spiega Gillo Dorfles in un articolo dedicato al tempo della scrittura e quello della Natura: abbiamo «un passato che si vuol ‘presentificare’ e un futuro che si vuole ammettere solo parzialmente, forse perché non si verificherà mai». Non so se interpreto in modo corretto il suo pensiero o mi spingo troppo in là, ma forse Dorfles vuol dire che il declino del passato remoto a favore del passato prossimo c’entra col fatto che da qualche generazione a questa parte gli italiani hanno scelto di non crescere, di rimanere «bamboccioni», di fermarsi al di qua della famosa linea d’ombra e di non smuoversi più, imbalsamando il proprio passato in una serie di riti e ricordi sempre vicini e a portata di mano. Il tempo verbale, in questo senso, non fa altro che adeguarsi al tempo della memoria cancellando rughe e acciacchi con un semplice cambio di prospettiva. Dal punto di vista della tradizione grammaticale, la domanda rimane comunque sempre la stessa («bisogna preoccuparsi?»), così come la risposta («no»). Il passato remoto è ben vivo come stilema narrativo, un po’ meno come tempo pret-à-porter. Lo penalizzano l’irregolarità della coniugazione (sebbene anche i participi che servono a formare il passato prossimo non scherzino), l’intercambiabilità con altri tempi (passato prossimo, soprattutto, 159

ma anche presente storico) e, appunto, la sua lontananza nel tempo. Il passato prossimo tende ad avanzare per ragioni speculari e per il fatto che può servire anche per altri scopi, per esempio come surrogato del futuro anteriore in frasi come: «Se entro un’ora non hai finito i compiti, non guardi i cartoni animati». Il passato che si annette il futuro, in fondo, è la metafora perfetta di quello che dice Dorfles, e cioè che in un tempo in cui la tecnologia può riprodurre all’infinito il passato, non esiste più un tempo ‘remoto’ ma è tutto ‘prossimo’, così prossimo da condizionare e inglobare anche l’avvenire. Qualcuno obietterà che in italiano esiste anche il caso opposto, quello del futuro che serve a formulare ipotesi nel presente («che ore sono? Saranno le due») e nel passato («Marco non è ancora arrivato. Avrà avuto un problema con la macchina»), ma è il futuro vero che manca, il futuro che parla del futuro, quasi sempre sostituito dal presente («la prossima estate andiamo in vacanza in Sardegna»). Qualcosa vorrà (nel senso di forse vuole) pur dire. Capitolo nomi. Ho già rassicurato al principio del libro sul fatto che l’alluvione di anglicismi, seppur impetuosa, non è destinata ad abbattere, almeno a breve termine, l’edificio secolare del nostro lessico, e anzi qua e là lo puntella con nuove voci che coprono nuovi significati. C’è però chi vede nelle parole straniere un altro tipo di minaccia: troppe parole che finiscono in consonante – avvertono gli apocalittici – rischiano di snaturare la regolarità morfologica del lessico italiano, il cui zoccolo duro è formato da 160

vocaboli che terminano in vocale. Due timide obiezioni. La prima: e il latino? E i referendum? E i placet? E i forum? E i bis, gli aut-aut, i busillis e i sancta sanctorum? Quanti sono i latinismi non adattati giunti all’italiano tramite la religione, oppure attraverso il linguaggio giuridico e burocratico, oppure ancora di ritorno dallo stesso inglese (uno per tutti: media), e di cui ci facciamo vanto esibendoli mentre parliamo o scriviamo come abiti firmati? Non finiscono forse anch’essi in consonante? Non è che per caso si tratta del solito doppio-moralismo all’italiana, per cui quello che arriva dal passato è nobile a prescindere e quello che ci porta la modernità è sterco del diavolo? Seconda obiezione: dove starebbe tutta questa regolarità della morfologia nominale? Nel fatto che tutte le parole di italico conio finiscono per vocale, d’accordo. E poi? Perché si dice «amici» e non «amichi»? Perché «dialoghi» e non «dialogi», «province» e non «provincie», «ginocchi» e anche «ginocchia»? Che senso ha mantenere la «i» in «ciliegie» o «camicie» se tanto non viene pronunciata e non ha neppure ragioni etimologiche che la giustifichino? Perché il plurale di «specie» rimane «specie» e non si adegua a quello delle altre parole che finiscono in «-cie» e «-gie» («superfici», «effigi»)? Come funziona l’accordo per quelle parole che hanno il singolare di genere maschile e il plurale di genere femminile come «uovo»/«uova» o «paio»/«paia»? «Ho comprato due uova ma una era rotta» oppure «ho comprato due uova ma uno era rotto»? Non vi suonano male entrambe? E i nomi con doppio plurale? Sapete che non sono sufficienti venti regole diverse per esau161

rire la casistica di come si formano i plurali italiani? Alla faccia dell’ordine. Dopodiché, se glielo si fa notare, gli stessi teorici della perfezione euclidea della morfologia italiana sono capaci di sostenere anche il contrario, e cioè che le irregolarità sono segno di complessità, di stratificazione storica, di unicità, di bellezza. Ebbene, a costo di risultare impopolare una volta per tutte, confesso di non trovare l’italiano particolarmente bello. Non più del francese, dell’inglese o dell’inuit, almeno. Bello può essere l’italiano di Calvino, o quello delle canzoni di De Andrè, e persino quello di Trapattoni, ma è bello per come è scritto, cantato o storpiato, non per come è fatto di natura. E comunque esiste anche un italiano brutto, che come ho ripetuto tante volte non vuol dire necessariamente scorretto ma vuol dire impreciso, sciatto, incongruo e soprattutto vuoto. Forse è una deformazione professionale quella che mi fa vedere le lingue come scheletri da sezionare più che come concorrenti di una gara di bellezza, ma dal mio punto di vista la sola vera deformazione è quella di coloro che, in ossequio a obsolete categorie estetico-ideologiche, dividono le lingue in belle e brutte, musicali e cacofoniche, pure e impure, come se si trattasse di virtù innate e non di attributi contingenti. Soprattutto, ho il timore che questa classificazione inneschi pericolosi sillogismi, identificando la bellezza con la purezza, la purezza con l’autarchia e l’autarchia con il rifiuto di qualunque possibilità di ibridazione, non soltanto linguistica. In questo senso, mi pare che il vero pro162

blema dell’italiano non sia l’imbastardimento in sé, bensì la contaminazione passiva, la sudditanza politica, il conformismo culturale del voler fare gli americani a tutti i costi anziché, magari, provare ad attingere alle lingue presenti nel nostro paese come il romeno, l’arabo o l’albanese. Ecco, volevo parlare di lingua e quasi mi metto a fare politica. Meglio chiudere qui, prima che sia troppo tardi. Solo una postilla, molto sabauda. Alcuni rampognano noi torinesi per l’uso dell’espressione «solo più», che costituirebbe un calco dal piemontese «mach pi» e che darebbe luogo – orrore! – a un’insopportabile ridondanza, in quanto «solo» e «più» vogliono dire la stessa cosa. Sul calco nulla da dire, sulla ridondanza mi permetto di obiettare: in che senso «solo» e «più» significano la stessa cosa? Se un tale mi dice: «ho solo una caramella», significa appunto che ne ha una, anche se sarebbe contento di averne di più; se invece quello stesso tale mi dice: «ho solo più una caramella», capisco che a) ne ha appena una e b) prima ne aveva di più. Chiaro? Era l’ultima cosa che volevo dirvi. O meglio: volevo dirvi solo più questo. FARINA DA ALTRI SACCHI

Carla Bazzanella, Le facce del parlare. Un approccio pragmatico all’italiano parlato, La Nuova Italia, Firenze 1994. Dove si spiega perché il futuro non ha più molto futuro. Sergio Raffaelli, Le parole proibite. Purismo di Stato e regolamentazione della pubblicità in Italia (1812-1945), il Mulino, Bologna 1983. 163

Dove si racconta di come il sogno autarchico del fascismo includesse anche la lingua. Luca Serianni, Italiano. Grammatica, sintassi e dubbi, Garzanti, Milano 2000. Dove, semplicemente, si trova tutto. Beppe Severgnini, L’italiano. Lezioni semiserie, Rizzoli, Milano 2007. Dove si fa finta di scherzare sull’italiano ma in realtà lo si prende molto sul serio.

Ringraziamenti

Ho riflettuto a lungo se fosse opportuno aggiungere una pagina di ringraziamenti a questo libro. Da un lato c’erano i numerosi debiti di gratitudine da saldare con coloro che ne avevano scortato il cammino; dall’altro c’era però il timore che, dopo aver scritto quasi duecento pagine di canagliate, citare i miei complici potesse costituire una specie di chiamata a correo. Alla fine, pur assumendomi ogni responsabilità morale, materiale e ideologica di quanto scritto, ho deciso di nominarli uno ad uno, perché in fondo sono stati loro a fornirmi le armi – coraggio, volontà, pazienza, competenza – che mi hanno permesso di portare a termine questa piccola impresa criminale. Se poi, menzionandoli, li metto un po’ in imbarazzo, me ne scuso sin d’ora. Dunque grazie innanzitutto a Cecilia Andorno, che ha vegliato sul testo e sul suo autore con un affetto e una premura fraterni, perdendoci letteralmente le notti. Grazie anche a Giorgio De Alessi e Federico Faloppa, bussole sempre pronte a indicarmi la direzione da seguire non soltanto quando si tratta di scrivere libri, a Luca Serianni, guida e mèta ideale per chiunque si occupi di grammatica, che ha accettato con piacere (soprattutto mio, ovviamente) il ruolo di padre nobile dell’opera, e a Bice Mortara Gara165

velli, maestra unica (non nel senso che intenderebbe il ministro Gelmini) senza i cui insegnamenti non mi sarebbe mai venuto in mente di scrivere un libro come questo. Grazie infine ad Anna e Pablo, ai quali per qualche mese ho sottratto tempo e attenzioni mentre loro non mi hanno mai fatto mancare affetto e comprensione, e al resto della mia famiglia – papà, mamma e Massimo – cui questo libro è dedicato. Se nella vita ho imparato a imparare, il merito è soprattutto loro.

Indici

Indice dei nomi

Alberti, Leon Battista, 36. Alighieri, Dante, IX, 32, 69. Altieri Biagi, Maria Luisa, 76. Altobelli, Alessandro, 72. Andorno, Cecilia, 140. Armstrong, Lance, 32. Armstrong, Louis, 32. Armstrong, Neil, 32. Baglioni, Claudio, 71. Bajani, Andrea, 92, 93. Baricco, Alessandro, 47, 48n, 5556, 59, 93. Bartezzaghi, Stefano, VII, 9, 58, 111, 122. Battisti, Lucio, 155. Bava, Mario, 113. Bazzanella, Carla, 24n, 163. Beccaria, Gian Luigi, 115. Beethoven, Ludwig van, 105. Belushi, John Adam, 43. Bembo, Pietro, 53, 69. Benincà, Paola, 74. Benni, Stefano, 21-22, 59, 60n. Berlusconi, Silvio, 23, 101, 122. Bertinotti, Fausto, 83. Biscardi, Aldo, 112. Bo, Carlo, 101. Boccaccio, Giovanni, 49. Borrelli, Francesco Saverio, 102.

Calvino, Italo, 42-43, 70, 123, 162. Camilleri, Andrea, 19n. Carlos, Roberto (pseud. di Roberto Carlos Braga), VII. Caselli, Caterina, 44. Casini, Pier Ferdinando, 83. Céline, Louis-Ferdinand (pseud. di Louis Destouches), 101. Ciani, Maria Grazia, 47, 56. Cicerone, Marco Tullio, 20. Concato, Fabio, 71. D’Achille, Paolo, 39, 49, 69. Darwin, Charles, 57. De Andrè, Fabrizio, 162. De Filippo, Peppino, 87. Delacroix, Eugène, VII. Del Piero, Alessandro, 111. Dell’Arca, Niccolò, 71. De Mauro, Tullio, 14, 16, 50n. Diamanti, Ilvo, 90-92. Dorfles, Gillo, 159-160. Faloppa, Federico, 123. Fantozzi, personaggio cinematografico, 83. Fleming, Alexander, 32. Fontana, Lucio, 98. Freud, Sigmund, 103. Gadda, Carlo Emilio, 118.

169

Ghezzi, Enrico, 113-114, 122. Gramellini, Massimo, 121. Gramsci, Antonio, 78. Holtus, Günter, 63. Jackson, Michael, 117. Jovanotti (Lorenzo Cherubini), 71. Joyce, James, 91.

Pascoli, Giovanni, 22, 69, 155. Pasolini, Pier Paolo, 41-42, 69-70. Pastore, Andrea, 15. Perec, Georges, 99. Petrarca, Francesco, 49, 69. Piaget, Jean, 102. Picciano, Giuseppe, 123. Pitagora, 98, 105. Prandi, Michele, 86. Queneau, Raymond (pseud. di Michel Presle), 104.

Khatami, Mohammed, 113. Krugman, Paul, 106. Lauzi, Bruno, VII. Levi, Primo, 111, 114, 122. Lo Duca, Maria G., 149. Lombardi Vallauri, Edoardo, 49. Lupo, Alberto (pseud. di Alberto Zoboli), 45. Manzoni, Alessandro, 52, 69, 93. Marinetti, Filippo Tommaso, 129. Mendoza, Eduardo, 98, 105. Milani, don Lorenzo, 112. Millás, Juan José, 120. Mina (Mina Anna Mazzini), 44. Moretti, Nanni, 113-114, 122. Mortara Garavelli, Bice, 25, 90, 103, 107. Mussolini, Benito, 15. Nencioni, Giovanni, 6, 9,16, 49. Nori, Paolo, 45-47, 70, 73, 156. Nostradamus (pseud. di Michel de Notredame), 10. Obama, Barack, 122. Orletti, Franca, 24n. Ottone, Piero, 83. Palazzeschi, Aldo (pseud. di Aldo Giurlani), 101.

Radtke, Edgar, 63. Raffaelli, Sergio, 163. Renzi, Lorenzo, 132. Rohlfs, Gerhard, 23. Ronaldinho (pseud. di Ronaldo de Assis Moreira), 117. Sabatini, Francesco, 54, 63. Salvi, Giampaolo, 122. Sanzio, Raffaello, 64, 68, 70. Satta, Luciano, 86. Scalfari, Eugenio, 105. Schulz, Charles Monroe, 89. Serianni, Luca, 11, 16, 76, 164. Serra, Michele, 28. Severgnini, Beppe, 74, 117, 164. Sombrero, Alberto, 74. Sodoma (pseud. di Giovanni Antonio Bazzi), 68, 70. Stein, Gertrude, 107. Taricco, Filippo, 93. Tambroni, Fernando, 45. Tesnière, Lucien, 144. Totò (pseud. di Antonio De Curtis), 87-88. Totti, Francesco, 111. Trapattoni, Giovanni, 108-112, 114, 162.

170

Trifone, Pietro 16. Truss, Lynne, 93. Vanelli, Laura, 122. Vasta, Giorgio, 93. Veltroni, Walter, 23.

Verdone, Carlo, 68-69. Voghera, Miriam, 37. Voltolini, Dario, 93. Wojty¢a, Karol (papa Giovanni Paolo II), VII.

Indice degli argomenti

Accento tonico, 118. Accordo, 134. Agente (ruolo semantico), 135-139. Agrammaticalità, 8-9, 131. «Al», 5; v. anche Preposizioni. Allitterazione, 104. «Allora», 6, 23. «A me mi», 7, 48, 50, 101. Anacoluto, IX, 6, 40, 155-156; v. anche Tema sospeso. Anafora, 103, 106. Analisi logica, 13, 136, 140, 147; v. anche Complementi. Anglicismi, IX, 15, 160; v. anche Forestierismi. Argomento, 144. Attanti, 139; v. anche Casi profondi. «Avere», 129-130; v. anche Verbi ausiliari. Azione verbale, 131; v. anche Verbo. Bisticcio, 104, 106; v. anche Paronomasia. Casi profondi, 139, 146; v. anche Attanti. «Che» polivalente, IX, XI, 40, 6474, 155-156. «Ci», 61-62. Climax, 22.

Complementi; v. anche Analisi logica; – aggiuntivo, 147; – eccettuativo, 147; – indiretto, 140, 143-144; v. anche Complemento di termine; – oggetto, 135, 136, 139-140, 142-145; v. anche Oggetto diretto; – di abbondanza, 146; – d’agente, 135-136; – di allontanamento, 148; – di argomento, 148; – di causa efficiente, 137; – di colpa, 146; – di denominazione, 147; – di estensione, 147; – di materia, 147; – di misura, 147; – di moto da luogo, 148; – di pena, 146; – di privazione, 147; – di specificazione, 147, 148; – di termine, 140; v. anche Complemento indiretto. Concordanza a senso, 6, 156. Congiuntivo, IX, 9, 14, 75-86. Coordinazione, 115. «d» eufonica, 13, 152, 153. Dativo (ruolo semantico), 139. Dato/nuovo, 31-33, 35, 146.

173

Desinenza, 116. Dialetto, 14. Dislocazione (a sinistra e a destra), IX, 38-49, 155. «Dove», 72. «Dovere», 5; v. anche Verbi modali. «Dunque», 5-6, 23, 26. «E», 13, 17-25. «Edile» vs. «edìle», 5; v. anche Accento tonico. «Egli», 5, 52-56, 60; v. anche Pronomi. Elisione, 95, 152. «Ella», 52-53, 56, 60; v. anche Pronomi. Emoticon, 92. Epanadiplosi, 104. Epanalessi, 104; v. anche Geminatio. Epifora, 104. Esperiente (ruolo semantico), 138. «Essa», 56; v. anche Pronomi. «Esse», 52, 53, 56; v. anche Pronomi. «Essere», 129, 130; v. anche Verbi ausiliari. «Essi», 52, 53; v. anche Pronomi. Eufemismi, 116, 120-122. «Fare» (verbo vicario), 127, 129. Figura etimologica, 106. Forestierismi, 95; v. anche Anglicismi. Formazione del plurale, 161-162. Frase, 89; – minima (o semplice), 141-149; – ordine degli elementi nella frase, 26-37. Futuro, 160; – anteriore, 76; – semplice, 79.

Geminatio, 104; v. anche Epanalessi. Genere grammaticale, 100-101. Grammatica normativa/grammatica descrittiva, 9. «Gli», pronome dativo plurale, 9, 52-53, 57-58, 60. «In», 5; v. anche Preposizioni. Indicativo, 77-79. Interiezione, 23, 50. «Io e te» vs. «tu ed io», 61. Latinismi, 161. «Le», pronome dativo singolare, 53, 60-61. «Lei», IX, 52-53, 60; v. anche Pronomi. «Lei» allocutivo, 62, 84, 154. Lingua flessiva, 44; – parlata, 47, 84, 115, 151; – scritta, 77, 115, 151. «Loro», pronome dativo plurale, 9, 57. «Loro», pronome soggetto, 52-53. «Lui», IX, XI, 5, 52-56, 60; v. anche Pronomi. «Ma», 13, 17-25. «Ma però», 101. Maiuscole (uso delle), 11, 154. Modo vs. modalità, 81, 84. «Mòllica» vs. «mollìca», 5; v. anche Accento tonico. «Nevicare», 27; v. anche Verbi meteorologici. Nominale (costruzione), 115, 145146. Oggetto (ruolo semantico), 135139. Oggetto diretto, 23, 27, 33-35; v. anche Complemento oggetto.

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Omoteleuto, 104. Ortografia, 8, 12, 150-155. Paronomasia, 104; v. anche Bisticcio. Passato prossimo (uso del), 5, 159, 160. Passato remoto (uso del), 5, 159, 160. Passiva (forma), 128, 135; v. anche Verbi transitivi e intransitivi. Periodo ipotetico, 77. «Piovere», 27; v. anche Verbi meteorologici. Politicamente corretto, 120-123. Polittoto, 104. «Potere», 5; v. anche Verbi modali. Pragmatica, 27, 146. Predicato verbale, 23, 133, 134, 146; v. anche Verbo. Preposizioni, 5, 23. Presente (uso del), 160. Pronomi, 50-63; – pronomi anaforici, 55; – pronomi dativi, 57. Punteggiatura, IX, 7, 87-93; – puntini di sospensione, 92-93; – punto, 17-25, 88-91; – punto e virgola, 88; – punto esclamativo, 89, 92; – punto interrogativo, 89; – virgola, 88, 91. «Qual è», 152. «Quindi», 6, 23. Rema, 146.

Ridondanza, 52, 98. Ripetizione, IX, 94-107. Ruolo semantico, 135-140, 146. Soggetto, 3, 13, 23, 30-35, 133-140; – definizione di, 5; – logico, 138, 139; – psicologico, 139; – sintattico, 139, 141-144; – soggetto zero, 85. «Solo più», 163. Strumento (ruolo semantico), 136. Subordinazione, 115. «Te tu», 50. Tema sospeso, 155-156; v. anche Anacoluto. Tema/topic, 29, 35, 146. Trapassato remoto, 76. «Tu» allocutivo, 62. «Un po’», 150. Valenza, 144. Verbo, 3, 124-132; v. anche Azione verbale e Predicato verbale; – definizione di verbo, 13; – verbi ausiliari (uso dei), 5, 157, 158; – verbi meteorologici, 157; – verbi modali, 157, 158; – verbi pronominali, 158; – verbi transitivi e intransitivi, 142, 145, 158; v. anche Passiva (forma). «Voi» allocutivo, 62.

Indice del volume

Introduzione

IX

1. Totem e tabù

3

2. Senza «e» e senza «ma»

17

3. In principio era il soggetto

26

4. Dislocazione fatale

38

5. Ora pro nomi

50

6. (Non) c’è di «che»

64

7. La congiuntura del congiuntivo

75

8. Puntini di vista

87

9. Ripetere, ripetere, ripetere

94

10. Trappole per Trap

108

11. Cose che capitano

124

12. Dove ti porta il predicato

133

177

13. Il complemento di fine e la fine dei complementi

141

14. Minima immoralia

150

Ringraziamenti

165

Indice dei nomi

169

Indice degli argomenti

173