Piccola storia della letteratura italiana
 9788820748197

Table of contents :
Indice......Page 581
Frontespizio......Page 3
Premessa......Page 11
Bibliografia......Page 15
Parte I - Il Medioevo......Page 21
1. La civiItà medievale......Page 23
Bibliografia......Page 32
2.1. Primi documenti in volgare......Page 35
2.2. La letteratura europea......Page 37
2.3. La poesia provenzale......Page 40
2.4. Primi testi letterari in Italia......Page 42
Bibliografia......Page 43
3.1. La poesia della corte imperiale......Page 45
3.2. Gli Ordini mendicanti......Page 50
3.3. La poesia comunale toscana......Page 55
3.4. La poesia lirica ‘nuova’ da Bologna a Firenze......Page 57
3.5. La poesia comica......Page 61
3.6. La poesia allegorica e didascalica......Page 63
3.7. La lauda......Page 66
3.8. La prosa......Page 69
Bibliografia......Page 74
4.1. La vita......Page 79
4.2. Rime della giovinezza......Page 81
4.3. Vita nuova......Page 82
4.4. Rime della maturità......Page 85
4.5. Convivio......Page 87
4.6. Le opere latine......Page 88
4.7. Commedia......Page 91
Bibliografia......Page 104
Parte II - Il Rinascimento......Page 109
1.1. Crisi del Medioevo......Page 111
1.2. La cultura veneta......Page 113
1.3. Lettori di Dante......Page 114
1.4. Le cronache......Page 116
Bibliografia......Page 118
2.1. La vita......Page 121
2.2. Rerum vulgarium fragmenta......Page 124
2.3. Triumphi......Page 129
2.4. Opere latine......Page 130
Bibliografia......Page 135
3.1. La vita......Page 139
3.2. Opere giovanili......Page 140
3.3. Decameron......Page 143
3.4. Opere della maturità......Page 152
Bibliografia......Page 155
4.1. La prosa......Page 157
4.2. La poesia......Page 161
Bibliografia......Page 163
5.1. Rinascimento e umanesimo......Page 165
5.2. I centri dell’umanesimo......Page 169
5.3. Valla......Page 175
5.4. Alberti......Page 176
Bibliografia......Page 180
6.1. La civiltà delle corti......Page 185
6.2. Pulci......Page 195
6.3. Lorenzo......Page 197
6.4. Poliziano......Page 198
6.5. Boiardo......Page 202
6.6. Sannazaro......Page 204
6.7. Bembo......Page 207
6.8. Castiglione......Page 210
6.9. Leonardo......Page 212
Bibliografia......Page 215
7.1. La vita......Page 219
7.2. Le scritture del “segretario”......Page 222
7.3. De principatibus......Page 223
7.4. Politica e storia......Page 226
7.5. Letteratura e teatro......Page 228
Bibliografia......Page 230
8.1. La vita......Page 233
8.2. Orlando Furioso......Page 234
8.3. Il teatro......Page 240
8.4. Le Satire......Page 242
Bibliografia......Page 243
Parte III - L’età moderna......Page 245
1.1. Un secolo difficile......Page 247
1.2. Guicciardini......Page 252
1.3. Dibattiti di lingua e di poetica......Page 255
1.4. La poesia......Page 258
1.5. La prosa......Page 264
1.6. La prosa narrativa......Page 272
1.7. Il teatro......Page 274
Bibliografia......Page 280
2.1. La vita......Page 285
2.2. Il poema......Page 287
2.3. Teatro......Page 293
2.4. Prose......Page 294
2.5. Poesie......Page 295
Bibliografia......Page 297
3.1. Moderno e barocco......Page 299
3.2. Galileo......Page 303
3.3. La poesia......Page 305
3.4. La prosa......Page 309
3.5. Il teatro......Page 314
Bibliografia......Page 316
4.1. L’età dell’Arcadia......Page 319
4.2. L’Illuminismo......Page 327
4.3. Parini......Page 334
4.4. Goldoni......Page 337
4.5. Alfieri......Page 341
Bibliografia......Page 344
5.1. Rivoluzioni e restaurazioni......Page 347
5.2. Il neoclassicismo......Page 349
5.3. Il romanticismo......Page 352
5.4. Foscolo......Page 359
5.5. Il Risorgimento......Page 365
Bibliografia......Page 378
6.1. La vita......Page 381
6.2. Prime prove letterarie......Page 384
6.3. Dallo Zibaldone ai Pensieri......Page 389
6.4. Le Operette morali......Page 391
6.5. La poesia satirica......Page 394
6.6. I Canti......Page 395
Bibliografia......Page 403
7.1. La vita......Page 405
7.2. La poesia......Page 407
7.3. Il teatro......Page 409
7.4. I promessi sposi......Page 411
7.5. Prose critiche......Page 420
Bibliografia......Page 423
Parte IV - L’età contemporanea......Page 425
1.1. Apogeo e crisi della civiltà europea......Page 427
1.2. La letteratura dell’Italia unita......Page 435
1.3. Carducci......Page 444
1.4. Verga......Page 447
1.5. Pascoli......Page 450
1.6. D’Annunzio......Page 453
Bibliografia......Page 458
2.1. La vita......Page 463
2.2. I romanzi......Page 464
2.3. Novelle per un anno......Page 467
2.4. Il teatro......Page 468
2.5. Il cinema......Page 473
Bibliografia......Page 474
3.1. Imperialismi e totalitarismi......Page 477
3.2. Società e cultura in Italia nel primo Novecento......Page 484
3.3. Svevo......Page 492
3.4. La prosa......Page 495
3.5. Moravia......Page 502
3.6. La poesia......Page 504
3.7. Ungaretti......Page 509
3.8. Saba......Page 511
3.9. Montale......Page 514
Bibliografia......Page 517
4.1. La società globale......Page 523
4.2. La cultura italiana nel secondo Novecento......Page 530
4.3. La prosa......Page 532
4.4. Gadda......Page 548
4.5. Calvino......Page 551
4.6. La poesia......Page 555
4.7. Teatro e cinema......Page 562
4.8. Pasolini......Page 566
Bibliografia......Page 573
Quarta di copertina......Page 580

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critica e letteratura 87

Carlo Vecce

Piccola storia della letteratura italiana

Liguori Editore

Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore (Legge n. 633/1941: http://www.giustizia.it/cassazione/leggi/l633_41.html). Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla registrazione analogica o digitale, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati, anche nel caso di utilizzo parziale. La riproduzione di questa opera, anche se parziale o in copia digitale, è ammessa solo ed esclusivamente nei limiti stabiliti dalla Legge ed è soggetta all’autorizzazione scritta dell’Editore. La violazione delle norme comporta le sanzioni previste dalla legge. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile al seguente indirizzo: http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=legal L’utilizzo in questa pubblicazione di denominazioni generiche, nomi commerciali e marchi registrati, anche se non specificamente identificati, non implica che tali denominazioni o marchi non siano protetti dalle relative leggi o regolamenti. Liguori Editore - I 80123 Napoli http://www.liguori.it/ © 2009 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Maggio 2009 Vecce, Carlo : Piccola storia della letteratura italiana/Carlo Vecce Napoli : Liguori, 2009 ISBN-13 978 - 88 - 207 - 4819 - 7 1. Critica letteraria, filologia italiana 2. Tradizione dei testi I. Titolo. Aggiornamenti: 18 17 16 15 14 13 12 11 10 09

10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

indice

Premessa Bibliografia

XIII XVIII

Parte I Il Medioevo 1. La civiltà medievale Bibliografia

3 12

2. Le origini della letteratura in volgare 2.1. Primi documenti in volgare 2.2. La letteratura europea 2.3. La poesia provenzale 2.4. Primi testi letterari in Italia Bibliografia

15 15 17 20 22 23

3. Il Duecento 3.1. La poesia della corte imperiale 3.2. Gli Ordini mendicanti 3.3. La poesia comunale toscana 3.4. La poesia lirica ‘nuova’ da Bologna a Firenze 3.5. La poesia comica 3.6. La poesia allegorica e didascalica 3.7. La lauda 3.8. La prosa Bibliografia

25 25 30 35 37 41 43 46 49 54

4. Dante 4.1. La vita 4.2. Rime della giovinezza 4.3. Vita nuova 4.4. Rime della maturità

59 59 61 62 65

viii

indice

4.5. Convivio 4.6. Le opere latine 4.7. Commedia Bibliografia

68 71 84

Parte II Il Rinascimento 1. Il primo Trecento 1.1 Crisi del Medioevo 1.2 La cultura veneta 1.3 Lettori di Dante 1.4 Le cronache Bibliografia

91 91 93 94 96 98

2. Petrarca 2.1. La vita 2.2. Rerum vulgarium fragmenta 2.3. Triumphi 2.4. Opere latine Bibliografia

101 101 104 109 110 115

3. Boccaccio 3.1. La vita 3.2. Opere giovanili 3.3. Decameron 3.4. Opere della maturità Bibliografia

119 119 120 123 132 135

4. Cultura volgare fra Tre e Quattrocento 4.1. La prosa 4.2. La poesia Bibliografia

137 137 141 143

5. L’umanesimo 5.1. Rinascimento e umanesimo 5.2. I centri dell’umanesimo 5.3. Valla 5.4 Alberti Bibliografia

145 145 149 155 156 160

6. L’apogeo del Rinascimento 6.1. La civiltà delle corti 6.2. Pulci

165 165 175



indice

6.3. Lorenzo 6.4. Poliziano 6.5. Boiardo 6.6. Sannazaro 6.7. Bembo 6.8. Castiglione 6.9. Leonardo Bibliografia

ix

177 178 182 184 187 190 192 195

7. Machiavelli 7.1. La vita 7.2. Le scritture del “segretario” 7.3. De principatibus 7.4. Politica e storia 7.5. Letteratura e teatro Bibliografia

199 199 202 203 206 208 210

8. Ariosto 8.1. La vita 8.2. Orlando Furioso 8.3. Il teatro 8.4. Le Satire Bibliografia

213 213 214 220 222 223

Parte III L’età moderna 1. Il Cinquecento 1.1. Un secolo difficile 1.2. Guicciardini 1.3. Dibattiti di lingua e di poetica 1.4. La poesia 1.5. La prosa 1.6. La prosa narrativa 1.7. Il teatro Bibliografia

227 227 232 235 238 244 252 254 260

2. Tasso 2.1. La vita 2.2. Il poema 2.3. Teatro 2.4. Prose 2.5. Poesie Bibliografia

265 265 267 273 274 275 277



indice

3. Il Seicento 3.1. Moderno e barocco 3.2. Galileo 3.3. La poesia 3.4. La prosa 3.5. Il teatro Bibliografia

279 279 283 285 289 294

4. Il Settecento 4.1. L’età dell’Arcadia 4.2. L’Illuminismo 4.3 Parini 4.4. Goldoni 4.5. Alfieri Bibliografia

299 299 307 314 317 321 324

5. Il primo Ottocento 5.1. Rivoluzioni e restaurazioni 5.2. Il neoclassicismo 5.3. Il romanticismo 5.4. Foscolo 5.5. Il Risorgimento Bibliografia

327 327 329 332 339 345 358

6. Leopardi 6.1. La vita 6.2. Prime prove letterarie 6.3. Dallo Zibaldone ai Pensieri 6.4. Le Operette morali 6.5. La poesia satirica 6.6. I Canti Bibliografia

361 361 364 369 371 374 375 383

7. Manzoni 7.1. La vita 7.2. La poesia 7.3. Il teatro 7.4. I promessi sposi 7.5. Prose critiche Bibliografia

385 385 387 389 391 400 403



indice

xi

Parte IV L’età contemporanea 1. Il secondo Ottocento 1.1. Apogeo e crisi della civiltà europea 1.2. La letteratura dell’Italia unita 1.3. Carducci 1.4. Verga 1.5. Pascoli 1.6. D’Annunzio Bibliografia

405 405 415 424 427 430 433 438

2. Pirandello 2.1. La vita 2.2. I romanzi 2.3. Novelle per un anno 2.4. Il teatro 2.5 Il cinema Bibliografia

443 443 444 447 448 453 454

3. Il primo Novecento 3.1. Imperialismi e totalitarismi 3.2. Società e cultura in Italia nel primo Novecento 3.3. Svevo 3.4. La prosa 3.5. Moravia 3.6. La poesia 3.7. Ungaretti 3.8. Saba 3.9. Montale Bibliografia

457 457 464 472 475 482 484 489 491 494 497

4. Il secondo Novecento 4.1. La società globale 4.2. La cultura italiana nel secondo Novecento 4.3. La prosa 4.4. Gadda 4.5. Calvino 4.6. La poesia 4.7. Teatro e cinema 4.8. Pasolini Bibliografia

503 503 510 512 528 531 535 542 546



Premessa

Tra le letterature dell’Europa e del mondo, la letteratura italiana presenta una ricchezza di voci, di culture, di lingue, straordinaria e difficilmente eguagliabile. I suoi ‘classici’ sono i classici della cultura mondiale, e basterebbe ricordare, solo per i primi secoli, i nomi di Dante, Petrarca, Boccaccio, Machiavelli, Ariosto, Tasso. Per la nostra tradizione, la loro voce, e quella di innumerevoli altri autori, ha avuto nel tempo un valore e un significato che spesso andavano oltre la specificità primaria del testo letterario. A differenza di altri paesi europei, infatti, l’Italia continuò a essere per secoli un sistema di stati regionali molto diversi tra loro per condizioni economiche, sociali, linguistiche, senza centro e senza unità, ma con molti centri e molte capitali. A loro volta, le realtà particolari delle città, delle corti, degli stati piccoli e grandi, dialogavano direttamente, senza mediazioni, su orizzonti internazionali, intrecciando profondamente le vicende della storia italiana con quelle della storia europea e mediterranea. Un patrimonio culturale condiviso permetteva comunque ad un’élite intellettuale, politica, sociale, di considerarsi a pieno titolo ‘italiana’, e di esibire il proprio senso di appartenenza ad una comunità operante al di là dei ristretti confini municipali o regionali. Questo patrimonio era, in larga misura, la letteratura. Una letteratura sicuramente polifonica, policentrica, plurilinguistica, ma anche, fin dalle origini (dalla corte di Federico II a Dante e Petrarca), con una forte vocazione unitaria, e unificante. È la letteratura che comincia a costruire l’immaginario collettivo degli italiani, che ne racconta le storie e le passioni, gli scontri, gli intrighi, le meschinità, le tensioni spirituali e le avventure di mercanti e chierici in giro per il mondo. Oggi, a cosa serve la letteratura italiana? Nella sua vicenda di lungo periodo, solo da centocinquanta anni essa è diventata anche la letteratura di una nazione più o meno unitaria. Nel momento più critico del suo processo di trasformazione si collocava uno dei prodotti più importanti della riflessione sulla sua storia secolare, la Storia della letteratura italiana di Francesco De

xiv

premessa

Sanctis. La letteratura diventava la colonna portante dell’insegnamento di italiano nella scuola e nell’università, con manuali e antologie che ne accentuavano il valore identitario fondante, proponendo nel canone degli autori, dei ‘classici’ e delle letture dei testi il bagaglio esemplare delle virtù laiche e moderne del nuovo stato unitario; ma forse cominciava anche a perdere quel carattere sostitutivo, compensatorio, ideale, di una realtà desiderata e che non c’era ancora, e che ora invece si chiamava, anche sulla carta politica d’Europa, Italia. L’evoluzione delle poetiche e delle teorie critiche del Novecento ci ha allontanato sempre di più dall’idea tradizionale di ‘storia della letteratura’, dalla ricostruzione orientata di periodizzazioni, percorsi, ‘correnti’, ‘gallerie’ di ritratti di autori (cosiddetti ‘maggiori’ e ‘minori’). La critica (e la crisi) del sistema letterario, nell’enorme complessità degli stimoli e degli indirizzi, ha comunque portato ad acquisizioni il cui valore mi sembra difficilmente revocabile: l’attenzione al testo e alle sue strutture formali, e all’opera ‘in movimento’ sullo scrittoio dell’autore e nel viaggio che essa intraprende nel mare della ricezione e dell’interpretazione; e quindi l’attenzione agli attori principali del processo della ricezione, il lettore e il pubblico, e alle modalità per mezzo delle quali, nel tempo e nello spazio, si attua il ‘contatto’. Ne deriva l’importanza degli strumenti della filologia, e del suo continuo interrogarsi: da dove, e come, giunge a noi questa voce? E poi ancora l’analisi del sistema della comunicazione in cui il testo letterario trova la sua naturale collocazione, le funzioni, i generi, i modi, i codici, la lingua; e infine il contesto, la società, le istituzioni politiche, sociali, culturali (le corti, la Chiesa, le accademie). La sensazione di crisi e disorientamento potrebbe venire piuttosto dalla sovrabbondanza degli strumenti, dei punti di vista, e ormai anche dei dati, che le moderne tecnologie dell’informazione ci mettono a disposizione, ma spesso senza adeguati supporti interpretativi: enciclopedie e biblioteche digitali, cataloghi, riviste. L’idea del labirinto, potenzialmente senza fine e senza senso, è immediatamente percepibile nella navigazione in rete, e nella trasformazione dello spazio letterario, che non è più solo parola scritta o detta, ma è contemporaneamente suono, immagine, movimento, luce. In un mondo in cui tutto sembra compresente e simultaneo, forse, varrebbe la pena di recuperare la possibilità di una navigazione ‘lineare’ nel tempo della storia, di una memoria puntuale dei testi, degli uomini, dei tempi, dei luoghi, anche (e soprattutto) in quello spazio particolare della comunicazione che è la didattica, la scuola, la trasmissione della conoscenza da una generazione all’altra. E allora, a cosa può servire ancora la letteratura, e in particolare la letteratura italiana? Esaurito il ruolo secolare di avatar di una nazione che non



premessa

xv

c’era, esaurito anche quello di pilastro della scuola nazionale postunitaria, resta probabilmente il valore che da sempre ci viene riconosciuto dagli altri, da ‘fuori di casa’, e di cui non sempre siamo consapevoli: la forte identità che la civiltà italiana ha saputo esprimere nella creazione e nell’elaborazione delle forme culturali (dalle lettere alle arti, dalla musica alla filosofia e alla scienza, e perfino nella moda e nella cucina), dal Medioevo al Rinascimento e oltre, nell’interazione continua con la storia della civiltà europea e cosiddetta ‘occidentale’, e ora col resto del mondo, con la società globale. Un’identità, naturalmente, in ‘contrappunto’, come indicava profeticamente Gramsci; e l’idea di ‘contrappunto’ è al nostro tempo ripresa da Said, che non a caso ricorda l’altro grande valore formativo (oltre che terapeutico) che letteratura e filologia possono avere oggi. Avvicinarsi al testo letterario è un’operazione straordinaria che ci consente di entrare in comunicazione con un mondo del tutto diverso dal nostro, e di vederlo con occhi che non sono i nostri. Abbiamo bisogno di ‘leggerlo’, cioè di attivare tutte le nostre competenze di analisi linguistica e formale, di decodificazione, di interpretazione; ma alla fine dobbiamo arrivare a una sintesi, che, per quanto personale e limitata, ci dirà cosa quel testo è ancora in grado di comunicarci, qui e ora. E, soprattutto, abbiamo bisogno di tempo. Tutto il contrario del mondo in cui viviamo, in cui la velocizzazione estrema dell’esperienza porta solo a modelli di comportamento imitativi, acritici, vuoti di senso; e ad una tragica perdita dell’humanitas. La filologia significa invece educazione alla critica, resistenza attiva alla dilatazione immensa della ‘memoria’ e dell’archivio collettivo, e di conseguenza alla manipolazione dell’informazione; resistenza all’attacco generale e globale alla stessa possibilità di esistenza di un libero pensiero, e quindi strumento di democrazia, di uguaglianza, perfino di difesa dell’ambiente e della natura. Un’educazione alla ‘lettura lenta’ di tutti i messaggi (dalle forme tradizionali del linguaggio verbale scritto, dal libro al cinema, alla televisione, a internet), opposta alla stessa velocità delle nuove tecnologie. E credo che la letteratura italiana, da Dante a Pasolini, abbia ancora molto da dire, in questo senso. Finisco di scrivere queste parole all’ultimo piano della Young Library dell’Università della California, a Los Angeles. Fuori, il vento porta via le nuvole verso la striscia azzurra dell’oceano. Sullo scaffale si allineano alcuni campioni della gloriosa tradizione anglosassone della short history dedicati alla letteratura italiana, da Garnett e Whitfield a Wilkins: a posteriori, mi piacerebbe pensare che anche queste pagine, con tutti i loro limiti, possano collegarsi a quella vecchia scuola. Nulla di più (e nulla di meno) di una ‘piccola storia’, espressione che potrebbe sembrare paradossale se applicata

xvi

premessa

ad una tradizione di lungo periodo così ampia, e apparentemente così pesante, paludata, massiccia, opaca. Una sintesi auspicabilmente chiara, leggibile, leggera, moderatamente ‘oggettiva’, con un po’ di autoironia e di consapevolezza che comunque una ‘storia della letteratura’ (breve o lunga che sia) è sempre anche un racconto (come ci ricorda Remo Ceserani), una cronaca dell’incontro (personale e diretto) con l’oggetto centrale e fondamentale della letteratura: il testo. Los Angeles, aprile 2009

La bibliografia finale presenta solo quelle indicazioni che possono guidare l’approfondimento nella lettura di un testo o di un autore (edizioni, strumenti, saggi critici, siti web). Per questa premessa, rinvio a Edward Said (Umanesimo e critica democratica, Milano, Il Saggiatore, 2007), Remo Ceserani (Raccontare la letteratura, Torino, Bollati Boringhieri, 1990), Stefano Jossa (L’Italia letteraria, Bologna, Il Mulino, 2006). Per il titolo (e non solo), dichiaro il mio debito all’esemplare Piccola storia della lingua italiana di Nicola De Blasi (Napoli, Liguori, 2008). Non riuscirei, in poche righe, a ricordare i nomi di chi mi ha aiutato ad elaborare e correggere il testo di questa ‘piccola storia’: il mio ringraziamento va a tutti loro, indistintamente, e con eguale affetto. Ricordo in particolare gli amici del Dottorato di Italianistica dell’Orientale di Napoli; e del Department of Italian di Los Angeles, dove ho potuto concludere (ma si conclude mai qualcosa?) un lavoro iniziato molti anni fa, nella pratica quotidiana dell’insegnamento, dal liceo all’università, e dedicato ora idealmente agli studenti che ho incontrato nel tempo, e che mi hanno sempre insegnato molto. E soprattutto a chi, nel tempo, con pazienza e amore, mi ha saputo seguire e comprendere e incoraggiare (e anche istigare, con la sua tanto più ampia esperienza di scuola e di comunicazione, la prima idea di scrivere una ‘storia’): a mia moglie, Mirella.



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Bibliografia Per un primo avviamento agli studi di area italianistica: L’italianistica. Introduzione allo studio della letteratura e della lingua italiana, a c. di G. Bárberi Squarotti e al., Torino, UTET, 1992; Guida allo studio della letteratura italiana, a c. di E. Pasquini, Bologna, Il Mulino, 1997; G. Zaccaria – C. Benussi, Per studiare la letteratura italiana, Milano, Bruno Mondadori, 2002; G. Baroni – M. Puppo, Manuale criticobibliografico per lo studio della letteratura italiana, Torino, SEI, 2002; M. Pozzi – E. Mattioda, Introduzione alla letteratura italiana. Istituzioni, periodizzazioni, strumenti, Torino, UTET, 2002; Manuale di italianistica, a c. di V. Roda, Bologna, Bononia University Press, 2005. Punto di partenza della moderna storia della letteratura italiana è F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Napoli, Morano, 1870-1871 (ed. recente a c. di G. Ficara, Torino, Einaudi-Gallimard, 1996). L’impostazione positivista della Scuola Storica, orientata all’accertamento rigoroso dei documenti e dei testi, ha prodotto la Storia letteraria d’Italia, Milano, Vallardi, I ed. 1898-1926, aggiornata e rielaborata nel corso del Novecento, con l’apporto di nuovi collaboratori (l’ultima edizione a c. di A. Balduino, Padova, Piccin Nuova Libraria, completata nel 2007). Dagli anni Sessanta sono apparse altre grandi storie ‘collettive’: Storia della letteratura italiana, diretta da E. Cecchi e N. Sapegno, Milano, Garzanti, 1965-1969 (ed. aggiornata 1987-1988); Letteratura italiana. Storia e testi, diretta da C. Muscetta, Bari, Laterza, 1970-1980 (con antologia di testi); Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1982-2000 (ai primi volumi, di carattere tematico e dedicati alle questioni fondamentali della civiltà letteraria italiana, si aggiungono le sezioni su Storia e geografia, Gli Autori. Dizionario bio-bibliografico e Indici, Le Opere, Dizionario delle opere); Storia della civiltà letteraria italiana, diretta da G. Bárberi Squarotti, Torino, UTET, 1990-1996; Storia generale della letteratura italiana, diretta da N. Borsellino e W. Pedullà, Milano, Motta, 1999; Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, Roma, Salerno, 1995-2005. Con diversi criteri di organizzazione è stata impostata la collana Orientamenti culturali. Letteratura italiana, Milano, Marzorati, 1956-1974, suddivisa in diverse sezioni: Le correnti, I minori, I contemporanei, I critici. Storie ‘sintetiche’ recenti, ad iniziare da quella ‘classica’ di N. Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Firenze, La Nuova Italia, 1956; G. Petronio, L’attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1979; G. Ferroni, Storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1991 (in 4 voll.), e Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1992 (vol. unico); The Cambridge History of Italian Literature, ed. P. Brand and L. Pertile, Cambridge, University Press, 1999; G.M. Anselmi, Profilo storico della letteratura italiana, Firenze, Sansoni, 2001; Storia della letteratura italiana, a c. di A. Battistini, Bologna, Il Mulino, 2005 (in 6 parti curate rispettivamente da L. Surdich, R. Bruscagli, E. Ardissino, A. Beniscelli, R. Bonavita, A. Casadei); U. Dotti, Storia della letteratura italiana, Roma, Carocci, 2007; M. Santagata – A.

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Casadei, Manuale di letteratura italiana medievale e moderna e Manuale di letteratura italiana contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2007; A. Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2009. Nella tradizione anglosassone delle storie ‘brevi’: G. Manacorda, Storia della letteratura e della lingua italiana, Roma, Newton Compton, 2001; G. Prezzolini, Storia tascabile della letteratura italiana, Palermo, Sellerio, 2002; G. De Rienzo, Breve storia della letteratura italiana, Milano, Bompiani, 2002. Utili percorsi di analisi testuale: il Breviario dei classici italiani. Guida all’interpretazione di testi esemplari da Dante a Montale, a c. di G.M. Anselmi, A. Cottignoli ed E. Pasquini, Milano, Bruno Mondadori, 1996; P.V. Mengaldo, Attraverso la prosa italiana e Attraverso la poesia italiana. Analisi di testi esemplari, Roma, Carocci, 2008; M. Santagata, La letteratura nei secoli della tradizione. Dalla «Chanson de Roland» a Foscolo, ivi 2007, e La letteratura nel secolo delle innovazioni. Da Monti a d’Annunzio, ivi 2009. I generi letterari erano già stati oggetto di studio della Storia dei generi letterari italiani, Milano, Vallardi, 1904-1952. Strumento aggiornato di analisi è oggi il Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi, a c. di F. Brioschi e C. Di Girolamo, Torino, Bollati Boringhieri, 1993-1996. Indagini approfondite su alcuni generi: S. Zatti, Il modo epico, Roma-Bari, Laterza, 2000; Il romanzo, a c. di F. Moretti, Torino, Einaudi, 2001-2004. V. inoltre Il mito nella letteratura italiana, a c. di P. Gibellini, Brescia, Morcelliana, 2004-2007. Sulla critica letteraria: Storia della critica letteraria in Italia, a c. di G. Baroni, Torino, UTET, 1997; Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, vol. XI, La critica letteraria dal Due al Novecento, a c. di P. Orvieto, Roma, Salerno, 2003; F. Suitner, La critica della letteratura e le sue tecniche, Roma, Carocci, 2004. Alcuni ‘grandi saggi’ che attraversano tutta la tradizione italiana. Innanzitutto, C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana (1967), Torino, Einaudi, 1994 (raccolta che comprende, oltre al fondamentale Geografia e storia, anche Tradizione classica e volgarizzamenti, e Chierici e laici). Sulle strutture della prosa, e sulla critica semiotica: C. Segre, Lingua, stile e società (1963), Milano, Feltrinelli, 1991; Id., Le strutture e il tempo, Torino, Einaudi 1974; Id., Semiotica filologica, Torino, Einaudi 1979. Enciclopedie e dizionari di letteratura (e di letteratura italiana): Dizionario Bompiani delle opere e dei personaggi di tutti i tempi e di tutte le letterature, Nuova ed., Milano, Bompiani, 2005; Dizionario Bompiani degli autori di tutti i tempi e di tutte le letterature, Nuova ed., Milano, Bompiani, 2006; Nuova Enciclopedia della letteratura (1972), Mi-



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lano, Garzanti, 1986; Dizionario critico della letteratura italiana, diretto da V. Branca (1974), Torino, UTET, 1999; Enciclopedia della letteratura italiana Oxford – Zanichelli, a c. di P. Hainsworth, D. Robey, P. Stoppelli, Bologna, Zanichelli, 2004; Encyclopedia of Italian Literary Studies, ed. G. Marrone, New York – London, Routledge, 2007. Sul teatro: Enciclopedia dello spettacolo, diretta da S. D’Amico, Roma, Le Maschere – Firenze, Sansoni, 1954-1962; M. Apollonio, Storia del teatro italiano (1938-1950), Firenze, Sansoni, 1981; C. Molinari, Storia del teatro, Roma-Bari, Laterza, 2003; Storia del teatro moderno e contemporaneo, diretta da R. Alonge e G. Davico Bonino, Torino, Einaudi, 2000-2003 (tre volumi di impostazione cronologica e un quarto di Trame per lo spettatore). Strumento indispensabile di aggiornamento sono le riviste di italianistica, tra le quali si segnalano il “Giornale Storico della Letteratura Italiana”, “Lettere italiane”, “La rassegna della letteratura italiana”, “Studi e problemi di critica testuale”, “Filologia e critica”, “Italianistica”, “Rivista di letteratura italiana”, “Esperienze letterarie”, “Critica letteraria”, “Aevum”, “Belfagor”, “Intersezioni”, “Lingua e stile”, “Linguistica e letteratura”, “Misure critiche”, “Nuovi argomenti”, “Paragone”, “Strumenti critici”, “Filologia italiana”, “Letteratura e arte”, “Per leggere”, “Studi italiani”, “Allegoria”, “Nuova rivista di letteratura italiana”. All’estero, “Italian Studies”, “The Italianist”, “Italica”, “Italian Quarterly”, “Modern Language Notes”, “Chroniques italiennes”, “Revue des Etudes Italiennes”, “Italique”, “Italienische Studien”. Specializzate su aspetti particolari di filologia e analisi testuale sono “Studi di filologia italiana”, “Autografo”, “Metrica”, “Ecdotica” (v. più avanti per altri periodici specializzati su periodi e autori specifici). In formato digitale (cui si stanno convertendo anche i periodici ‘tradizionali’) sono “Bollettino 900” (www.comune.bologna.it/iperbole/boll900) e “Griselda on line” (www.griseldaonline.it). Dal 2000 la schedatura di molte riviste di italianistica è realizzata da Italinemo (www.italinemo.it). Per la bibliografia della letteratura italiana, essenziale punto di riferimento è la Bibliografia generale della lingua e della letteratura italiana, Roma, Salerno, dal 1993 (anche in formato digitale). Cfr. Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, vol. XIV, Bibliografia della letteratura italiana, Roma, Salerno, 2004. Per il reperimento dei testi sono disponibili i cataloghi on line delle principali biblioteche italiane (OPAC, SBN: v. il sito dell’Associazione Italiana Biblioteche www.aib.it) e straniere (in particolare, la British Library di Londra, la Bibliothèque Nationale de France a Parigi, la Library of Congress a Washington). I testi della letteratura italiana sono in gran parte disponibili in formato digitale, a partire dai primi corpora prodotti in CD-ROM: la mitica LIZ (Letteratura Italiana Zanichelli), giunta alla versione 4.0, a c. di P. Stoppelli ed E. Picchi, Bologna, Zani-

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chelli, 2001; e l’Archivio Italiano, Roma, Lexis (Petrarca, Leopardi, Archivio della tradizione lirica da Petrarca a Marino, Commenti danteschi). In continua evoluzione il mercato dell’e-book, e la disponibilità delle biblioteche digitali. Tra le più ricche di testi letterari italiani: Liber Liber (Progetto Manuzio) (www.liberliber.it), Biblioteca della letteratura italiana (testi dalla Letteratura italiana Einaudi. Le Opere, ed. in CD-ROM) (www.letteraturaitaliana.net), Biblioteca Italiana (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”: l’archivio comprende anche la collezione completa degli Scrittori d’Italia Laterza) (www.bibliotecaitaliana.it), IntraText Digital Library (www.intratext.com), Biblioteca dei classici italiani (www. classicitaliani.it). Utile anche la consultazione di Gallica (Bibliothèque Nationale de France) (gallica.bnf.fr). I motori di ricerca offrono possibilità nuove alla ricerca, dalla visualizzazione completa del testo di un manoscritto o di un’edizione antica al reperimento di citazioni all’interno del libro: Google Book (ricerca tra milioni di libri, digitalizzati soprattutto nelle biblioteche pubbliche americane) (books.google.com), Europeana (biblioteca digitale europea) (dev.europeana.eu/home.php). Risorse di italianistica in rete: Bollettino 900 (www.comune.bologna.it/iperbole/ boll900), Griselda on line (www.griseldaonline.it), Italica – Rai International (www. italica.rai.it), Letteratura.it (www.letteratura.it), Italianistica Online (www.italianisticaonline.it) e Italianistica.info (www.italianistica.info). Associazioni di studi italianistici: Associazione degli italianisti italiani (ADI) (www. italianisti.it), Associazione Internazionale per gli Studi di lingua e letteratura italiana (AISLLI) (www.aislli.it), American Association for Italian Studies (AAIS) (www.aais. info), American Association of Teachers of Italian (www.aati-online.org). In formato cartaceo tradizionale, i testi sono ancora disponibili nelle collane di ‘classici’. Tra quelle ‘storiche’, la Biblioteca Nazionale di Le Monnier (Firenze dal 1843), e gli Scrittori d’Italia di Laterza (Bari), iniziati nel 1910 sulla base di un progetto di Benedetto Croce; e inoltre i Classici Italiani Sansoni (Firenze 1957-1968), Classici Rizzoli (Milano, dal 1935), Biblioteca di classici italiani Feltrinelli (Milano 1960-1967), Classici Italiani Mursia (Milano 1961-1969), Classici Italiani Zanichelli, Classici Mondadori (dal 1934). Tra le collane ancora attive: La letteratura italiana. Storia e testi, avviata dall’editore Ricciardi nel 1951 (Milano-Napoli); i classici della UTET (Torino), nella nuova serie iniziata nel 1948; la Nuova Raccolta di classici italiani annotati (Torino, Einaudi, dal 1939); la Biblioteca di scrittori italiani Guanda (Parma, dal 1990); la Biblioteca della Pléiade Einaudi – Gallimard; i Classici Bompiani. Un’ampia collezione con una sezione di letteratura italiana è quella dei Meridiani, Milano, Mondadori, dal 1969. Collane specializzate: Collezione di opere inedite o rare dei primi tre secoli, Bologna, Commissione per i testi di lingua, dal 1861, nuova serie dal 1944; Autori classici e documenti di lingua e Scrittori italiani e testi antichi, Firenze, Accademia della Crusca;



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Testi e documenti di letteratura e lingua, Roma, Salerno; Biblioteca dell’Ottocento Italiano, Bologna, Cappelli; Classici italiani minori, Ravenna, Longo; I novellieri italiani, Roma, Salerno, dal 1971; Il Parnaso Italiano, Torino, Einaudi; Diamanti, Roma, Salerno; Cento libri per mille anni, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato. Agli autori principali della letteratura italiana sono dedicate le edizioni nazionali. Per un quadro complessivo: Bibliografia delle Edizioni Nazionali, Milano, Bonnard, 1998. Un importante ruolo di diffusione culturale è stato svolto dalle edizioni economiche, a iniziare dalle collane di fine Ottocento e inizio Novecento: Sonzogno (Milano), Carabba (Lanciano), Biblioteca Universale Rizzoli (BUR), Biblioteca Moderna Mondadori (BMM), Oscar Mondadori, Grandi libri Garzanti, Universale Laterza, Piccola Biblioteca Einaudi (PBE), Einaudi Tascabili. Classici e Classici Moderni, Grande Universale Mursia (GUM), Biblioteca Economica Newton (Newton Compton). Tra le antologie: Antologia della poesia italiana, diretta da C. Segre e C. Ossola, Torino, Einaudi-Gallimard, 1997; Teatro italiano, a c. di S. D’Amico ed E. Possenti, Milano, Nuova Accademia, 1955-1956; Il teatro italiano, Torino, Einaudi, 1975-1985; Il teatro dal Medioevo all’Illuminismo, a c. di M. Scaparro, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1999; e le antologie dei Meridiani: Scrittori italiani di aforismi, a c. di G. Ruozzi, Milano, Mondadori, 1994-1996; La poesia in dialetto, a c. di F. Brevini, Milano, Mondadori, 1999; Scrittori italiani di viaggio, a c. di L. Clerici, Milano, Mondadori, 2008. Nella manualistica scolastica (legata allo schema tradizionale della storia-antologia: Salinari-Ricci, Giudice-Bruni ecc.) un importante ruolo di rinnovamento metodologico è stato svolto da R. Ceserani – L. De Federicis, Il materiale e l’immaginario, Torino, Loescher, 1978. Tra i manuali pubblicati negli ultimi anni: C. Segre e al., Testi nella storia. La letteratura italiana dalle origini al Novecento, Milano, Bruno Mondadori, 1991; G. Baldi e al., Dal testo alla storia, dalla storia al testo, Torino, Paravia, 1994; R. Luperini e al., La scrittura e l’interpretazione, Palermo, Palumbo, 1995; C. Riccardi e al., La memoria letteraria. Storia, testi e temi della letteratura italiana, Firenze, Le Monnier, 2003; G. Ferroni e al., Storia e testi della letteratura italiana, Milano, Mondadori Università, 2002; G.M. Anselmi e al., Tempi e immagini della letteratura, coordinamento di E. Raimondi, Milano, Bruno Mondadori, 2003; M. Santagata e al., Il filo rosso. Antologia e storia della letteratura italiana ed europea, Roma-Bari, Laterza, 2006. Per la teoria letteraria e l’analisi testuale: C. Segre, Avviamento all’analisi del testo letterario, Torino, Einaudi, 1985; R. Ceserani, Guida breve allo studio della letteratura, Roma-Bari, Laterza, 2005; F. Brioschi – C. Di Girolamo – M. Fusillo, Introduzione alla letteratura, Roma, Carocci, 2006.

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Sulla storia della lingua italiana e dei dialetti: G. Devoto, Profilo di storia linguistica italiana, Firenze, La Nuova Italia, 1953; B. Migliorini, Storia della lingua italiana (1963), Firenze, Sansoni, 2002; G. Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, Einaudi, Torino, 1966-1970; Storia della lingua italiana, a c. di F. Bruni, Bologna, Il Mulino 1992; Storia della lingua italiana, a c. di L. Serianni e P. Trifone, Torino, Einaudi, 1993-1994. A. Castellani, Grammatica storica della lingua italiana, Bologna, Il Mulino, 2000; N. De Blasi, Piccola storia della lingua italiana, Napoli, Liguori, 2008. Sulla filologia italiana: A. Balduino, Manuale di filologia italiana (1979), Firenze, Sansoni, 2001; F. Brambilla Ageno, L’edizione critica dei testi volgari, Padova, Antenore, 1984; A. Stussi, Introduzione agli studi di filologia italiana (1994), Bologna, Il Mulino, 2007; G. Inglese, Come si legge un’edizione critica. Elementi di filologia italiana, Roma, Carocci, 1999; B. Bentivogli – P. Vecchi Galli, Filologia italiana, Milano, Bruno Mondadori, 2002; P. Stoppelli, Filologia della letteratura italiana, Roma, Carocci, 2008. Per un quadro generale della tradizione dei testi della letteratura italiana: C. Bologna, Tradizione e fortuna dei classici italiani, Torino, Einaudi, 1993; Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, vol. X, La tradizione dei testi, a c. di C. Ciociola, Roma, Salerno, 2001. Sulla metrica: R. Spongano, Nozioni ed esempi di metrica italiana, II ed., Bologna, Pàtron, 1974; W.Th. Elwert, Versificazione italiana dalle origini ai giorni nostri, Firenze, Le Monnier, 1985; A. Menichetti, Metrica italiana: fondamenti metrici, prosodia, rima, Padova, Antenore, 1993; F. Bausi – M. Martelli, La metrica italiana: teoria e storia, Firenze, Le lettere, 1996; G. Lavezzi, Manuale di metrica italiana, Roma, NIS, 1996; F. De Rosa – G. Sangirardi, Introduzione alla metrica italiana, Firenze, Sansoni, 1996; G. Bertone, Breve dizionario di metrica italiana, Torino, Einaudi PBE, 1999; P.G. Beltrami, Gli strumenti della poesia, Nuova ed., Bologna, Il Mulino, 2002. Esemplari letture metriche in M. Fubini, Metrica e poesia: lezioni sulle forme metriche italiane, Milano, Feltrinelli, 1975; G.L. Beccaria, L’autonomia del significante: figure del ritmo e della sintassi: Dante, Pascoli, D’Annunzio, Torino, Einaudi, 1975. Sulla retorica: O. Reboul, Introduzione alla retorica, Bologna, Il Mulino, 1996; M.P. Ellero, Breve manuale di retorica, Firenze, Sansoni, 2001; H. Lausberg, Elementi di retorica, Bologna, Il Mulino, 2002; B. Mortara Garavelli, Manuale di retorica, Milano, Bompiani, 2003. Cfr. anche A. Battistini – E. Raimondi, Le figure della retorica, Torino, Einaudi, 1990.

Parte I Il Medioevo

1. La civiltà medievale

Come negli altri paesi europei, anche in Italia una civiltà nuova nasce alla fine del mondo antico. La grande unità politica, economica, culturale e linguistica dell’Impero Romano si disgrega in molte nuove realtà, in cui riemergono elementi (sia antropologici che linguistici) anteriori alla romanizzazione (il cosiddetto ‘sostrato’), e che si fondono con gli apporti di nuove popolazioni, giunte nei territori dell’Impero con stanziamenti pacifici o più spesso con invasioni distruttive. Dall’unità linguistica del latino si passa alla pluralità delle lingue volgari neolatine o romanze (dall’antico francese romans, a sua volta derivato dalla locuzione latina romanice loqui, ‘parlare alla romana’; e ‘volgari’ perché parlate dal vulgus, il popolo), nei paesi dove la popolazione latina resta maggioritaria (Italia, Francia, penisola iberica, Romania), mentre altrove prevalgono le nuove lingue germaniche (Germania, Inghilterra). Il passaggio da un’età ad un’altra non è avvenuto improvvisamente. Un tempo si indicava in una stessa data la fine dell’Antichità e l’inizio del Medioevo: il 476 dopo Cristo, l’anno in cui l’ultimo imperatore romano d’Occidente, Romolo Augustolo, venne deposto da Odoacre re dei barbari Eruli, e rinchiuso nella fortezza marina di Castel dell’Ovo a Napoli. È una data simbolica. In realtà il grandioso processo di dissoluzione dell’unità era iniziato molto prima, già con gli imperatori successori di Augusto, e si era accelerato nel III-IV secolo, in un periodo di anarchia politica e amministrativa, di divisione fra Oriente e Occidente (sancita dall’imperatore Diocleziano), e di prime invasioni barbariche. Un lungo periodo complesso, in cui il rapporto fra l’antico e il nuovo non è mai completamente interrotto. Il fatto veramente nuovo, dal punto di vista culturale e religioso, è piuttosto, nel IV secolo, l’affermazione di una nuova religione venuta dal Mediterraneo orientale, che, dopo molte persecuzioni, viene riconosciuta dall’imperatore Costantino (313), soppianta l’antica religione pagana, e di-



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venta addirittura la religione di stato: il cristianesimo. Gli insegnamenti di un giovane rabbi ebreo di nome Ieoshua (Gesù), detto in greco il Cristo, cioè il ‘consacrato’, crocifisso dai Romani a Gerusalemme sotto Tiberio perché si era proclamato Messia e Figlio di Dio, vengono messi per iscritto e tradotti dall’aramaico in greco, in brevi testi che raccontano la sua vita e riportano le sue parole. Quei testi vengono chiamati ‘vangeli’, cioè in greco ‘buona novella’. E da Roma, nell’unità declinante del mondo antico, quel messaggio si diffonde fino ai confini dell’impero, e conquista anche i barbari invasori. Roma non era più la capitale dell’impero: il suo posto era stato preso da Milano in Occidente, e da Bisanzio, ribattezzata Costantinopoli, in Oriente. Ma Roma restava il centro simbolico del mondo. A Roma erano venuti a morire (a essere ‘martiri’, che significa ‘testimoni’ della loro fede) i primi apostoli, i primi seguaci di Gesù, Pietro e Paolo. Sulle loro tombe erano state costruite, da Costantino in poi, grandiose basiliche, luogo d’attrazione dei fedeli della nuova religione, chiamati ‘cristiani’. E il vescovo di Roma continuerà da allora ad essere considerato il successore di Pietro. Nella grande ex-capitale del mondo, spopolata, ridotta a un enorme guscio vuoto dopo la fine dell’impero, quel vescovo diventa il papa, il vicario di Cristo, acquista il potere, anche politico, di un nuovo imperatore. Per l’Italia, la prima esperienza di un’entità politica e culturale limitata alla penisola si ha con il regno degli Ostrogoti, succeduti a Odoacre, e soprattutto con la grande figura di Teodorico (493-526). La capitale è ora Ravenna, già importante con gli ultimi imperatori del IV-V secolo, perché attivo porto e strategico centro di commerci con l’Oriente e con Bisanzio. Teodorico vi fa costruire splendidi edifici religiosi, e il proprio palatium, centro del potere civile. In particolare, persegue un suo utopico progetto di incontro con la grande cultura latina, con la collaborazione di due grandi intellettuali dell’epoca, Boezio e Cassiodoro. Purtroppo il progetto non riesce. Severino Boezio (ca. 480-526) viene perseguitato e ucciso: in carcere, prima di morire, scrive un testo straordinario, che sarà letto in tutto il Medioevo, il De consolatione Philosophiae (‘la consolazione della Filosofia’), in cui è la stessa Filosofia ad apparire all’autore, e a guidarlo negli ultimi momenti della sua vita. Aurelio Cassiodoro (ca. 490-575) si rifugia in una comunità monastica da lui fondata in Calabria, Vivarium, con la finalità di salvare le testimonianze della civiltà antica dalla loro completa distruzione, favorendo la trascrizione e la conservazione di molte opere letterarie e filosofiche. Un’altra forma di riorganizzazione e trasmissione del sapere poteva essere quella di tipo enciclopedico, come fa in Spagna Isidoro di Siviglia,



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nelle Etymologiae: altra opera fondamentale per la cultura medievale, in cui torna la divisione delle discipline ereditata dal mondo antico, presente in Boezio e Cassiodoro, e diventata canonica nei secoli successivi. Si tratta delle cosiddette ‘arti liberali’, ripartite in trivio (grammatica, retorica, dialettica) e quadrivio (matematica, geometria, astronomia, musica): un vero sistema di pensiero, basato sulla perfezione simbolica del numero sette, che diventa unico strumento di interpretazione del reale. Non tutto può essere salvato. Talvolta è necessario fare scelte dolorose, perché non c’è materiale scrittorio sufficiente. Bisognava distinguere fra autori di ‘prima categoria’, quelli considerati veramente importanti (per il loro posto nei programmi scolastici, o il loro valore formativo ed estetico), e quelli a cui si sarebbe anche potuto rinunciare. Fu allora che si diffuse la parola ‘classico’, dal latino classicus, ‘appartenente ad una classe’ (la prima attestazione è in Aulo Gellio, erudito romano del II secolo). Il ‘classico’ era uno scrittore ‘di prima classe’, e quindi degno di essere ‘salvato’, e imitato. Al livello dell’educazione grammaticale e retorica, i ‘classici’ divennero presto gli autori (in particolare i poeti) principali della letteratura latina, che furono oggetto di commenti. In primo luogo Virgilio, che con le sue tre grandi opere, le Bucoliche, le Georgiche e l’Eneide, forniva una guida a tre importanti generi letterari, la poesia pastorale, la poesia didascalica, e la poesia epica, e ai tre stili che nel Medioevo furono codificati come fondamentali: nell’ordine, lo stile umile (o elegiaco), lo stile medio (o comico), e lo stile sublime (o tragico). Di più, la celebre IV egloga, che profetizzava la nascita di un puer, fu interpretata come una profezia della nascita di Cristo. Gli altri ‘classici’, nella scuola medievale, furono Ovidio, Lucano, Stazio, Orazio, Terenzio, e, per la prosa, Cicerone e Seneca. Ma la loro conoscenza era molto imperfetta. Ovidio era conosciuto ampiamente, ma interpretato sempre secondo un’ottica cristiana, perché altrimenti testi come le Metamorfosi (con tutte le storie della mitologia e degli dèi pagani, e le loro infinite vicende di amori illeciti, stupri, violenze) o come l’Ars amandi non sarebbero mai stati tramandati da un copista cristiano in un monastero. Di Lucano si leggeva il poema Bellum civile, di Stazio la Tebaide, di Orazio le Satire e l’Ars poetica. Le commedie di Terenzio erano lette per i loro contenuti morali, mentre venivano quasi dimenticate quelle di Plauto. Di Cicerone si conosceva soprattutto lo scrittore di dialoghi filosofici e di opere retoriche, e si ignorava la produzione di orazioni e di lettere, cioè il suo reale coinvolgimento nella politica attiva. Seneca era apprezzato come maestro morale con i suoi Dialoghi e con le Epistole a Lucilio, ma non se ne conosceva il lato oscuro e sanguinario delle Tragedie. Molti altri autori



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antichi erano tramandati da pochissimi manoscritti (se non da uno solo): Livio, Catullo, Lucrezio, Apuleio. Altri scomparvero del tutto. All’epoca, la trasmissione della cultura scritta avveniva per mezzo della trascrizione su fogli di pergamena, o più raramente su rotoli di papiro, perché ormai il papiro non giungeva quasi più dall’Egitto. Era un’operazione lenta e difficile, nella quale il copista doveva fare molta attenzione a non introdurre errori nella sua copia. Ogni manoscritto (che da allora si cominciò a chiamare codex, ‘codice’, cioè fascicolo di fogli inseriti e legati uno dentro l’altro) era un unicum, e a sua volta poteva tramandare il suo testo ad un nuovo manoscritto. Qualche volta la pergamena era così poca che bisognava cancellare quello che c’era scritto prima (se considerato poco importante) e riscriverci sopra (il cosiddetto palinsesto, che significa ‘scritto di nuovo’). Mentre le grandi biblioteche cittadine andavano distrutte in incendi e saccheggi, cominciavano a formarsi nuove biblioteche in posti simili a quella Vivarium dove si era rifugiato Cassiodoro, cioè nei monasteri. Il monachesimo era una forma di vita eremitica, dedita alla spiritualità, sorta in Oriente, e riorganizzata nel VI secolo in Occidente da Benedetto da Norcia in una struttura comunitaria, retta sulla regola dell’ora et labora (‘prega e lavora’). Il centro del monachesimo occidentale divenne presto il monastero di Montecassino, fondato da Benedetto. E una parte della regola di Benedetto imponeva ai monaci proprio il compito di copiare i codici, sia antichi che cristiani, in uno spazio dedicato all’interno del monastero, chiamato scriptorium. I monasteri, d’altronde, non furono mai luoghi isolati dal resto del mondo, ma costituirono efficaci reti di collegamento per tutta Europa, favorendo lo scambio di uomini, libri, saperi, come dimostrarono in particolare i monaci inglesi e irlandesi che scesero nel continente, fondando importanti monasteri (in Italia, Bobbio). Dopo la morte di Teodorico, il regno degli Ostrogoti non resiste all’assalto di Bisanzio, dove l’imperatore Giustiniano vuole ristabilire l’unità dell’impero. Dopo una guerra lunga e catastrofica (535-553) l’Italia è riconquistata dai Bizantini. Le città sono distrutte o spopolate, le campagne incolte, i commerci e l’economia completamente rovinati. Ma è conquista di breve durata. Nel 568 nuovi invasori, i Longobardi, conquistano l’Italia, tranne l’area di Ravenna e alcuni territori dell’Italia meridionale che resteranno per molti secoli legati a Bisanzio (le fasce costiere della Campania, Gaeta, Napoli, il Salento, la Calabria, la Sicilia). Forse è con questa data che si rompe effettivamente la continuità col mondo antico, ed inizia, per l’Italia, il Medioevo.



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Che significa dunque Medioevo? Quando si cominciò a usare per la prima volta, questa parola aveva un forte significato negativo, e qualche volta lo ha ancora oggi, almeno nei suoi derivati (l’aggettivo ‘medievale’, che, fuori contesto, fa pensare a qualcosa di arretrato, di oscuro). Letteralmente significa ‘età di mezzo’. All’inizio dell’età moderna, fra Quattro e Cinquecento, gli intellettuali guardarono con grande ammirazione alla civiltà degli Antichi, e cercarono in tutti i modi di farla ‘rinascere’. Ai loro occhi, il lungo periodo che li divideva dall’Antichità non era stato altro che un lungo periodo di buio, di oscurità, di barbarie, di cui si dava la colpa soprattutto ai ‘barbari’ che avevano invaso e distrutto l’impero romano. Era stata un’‘età di mezzo’, un ‘medio-evo’, un momento transitorio che bisognava superare, e dimenticare. Qualcuno aveva spento la luce, bisognava solo riaccenderla. Gli uomini del Medioevo, ovviamente, non sapevano di vivere in una ‘età di mezzo’, e a lume spento. Al contrario, essi erano certo consapevoli che era avvenuto qualcosa di terribile, che aveva portato alla distruzione della civiltà di Roma. Ma davano a quell’insieme di eventi una interpretazione che permetteva di continuare il cammino degli Antichi, nonostante tutto. Il primo era stato Agostino da Ippona (354-430), un maestro di scuola africano che viene in Italia nel IV secolo, si converte al cristianesimo, segue il grande vescovo di Milano Ambrogio, e ritorna in Africa negli ultimi anni della sua vita. La sua opera più bella è, in parte, anche una autobiografia, le Confessioni, in cui Agostino ripercorre le tappe fondamentali della sua vita, nel graduale riconoscimento dei suoi errori, e in una ricerca costante di Dio che avviene attraverso lo scavo interiore, nel profondo della propria anima. Ma Agostino è anche testimone di terribili invasioni barbariche (quella dei Vandali, che culmina con il saccheggio di Roma), e si interroga, in altre opere come il De civitate Dei (‘la città di Dio’), sul senso della storia, e sul rapporto fra la città degli uomini e la città di Dio, fra l’imperfezione di quella (destinata sempre alla caduta, alla rovina) e la perfezione di questa, la Gerusalemme celeste. L’impostazione agostiniana sarà fondamentale per i secoli successivi, anche attraverso un’opera storica scritta da un seguace di Agostino, Paolo Orosio, le Historiae adversus paganos (‘storie contro i pagani’), in cui si rigettava l’accusa che Roma fosse decaduta a motivo dell’abbandono della religione dei padri, e dell’indebolimento che sarebbe stato causato dalla cristianizzazione. Al contrario, secondo Orosio, la decadenza era diretta conseguenza dei peccati del paganesimo, e le distruzioni segni tangibili dell’ira e della punizione divina.



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Il cristianesimo segna quindi, per l’uomo del Medioevo, non elemento di frattura, ma di continuità. L’elemento di salvezza della storia dell’uomo, a partire dalla morte di Cristo sulla croce, punto centrale di una storia che era concepita come divisa esattamente a metà: da una parte il tempo dell’attesa, dal Peccato Originale fino alla Croce, dall’altra il tempo della redenzione, dalla Croce fino alla fine della storia, il Giudizio Universale. una ripartizione che corrispondeva perfettamente al libro sacro dei cristiani, la Bibbia, che univa i libri sacri degli Ebrei (l’Antico Testamento) ai nuovi testi su Cristo: i Vangeli, le Lettere e gli Atti degli Apostoli, l’Apocalisse (il Nuovo Testamento). In questo tempo lineare, la civiltà e la letteratura degli Antichi potevano essere salvate, purché inserite in un sistema di interpretazione unitario e coerente. Autori pagani come Ovidio o Virgilio, che mettono in scena o descrivono anche divinità pagane come Venere o Apollo, devono essere reinterpretati. La descrizione di Venere rinvia non alla reale esistenza di una dea dell’amore, ma ad una realtà ‘altra’, a livello spirituale o morale. La letteratura e il mondo sono percepiti come un sistema di ‘segni’ che rinvia sempre a qualcos’altro, ad un livello più elevato (allegoria). Si sviluppa quindi un tipo di lettura allegorica (‘allegoria dei poeti’), simile a quella che veniva utilizzata per i testi sacri cristiani (‘allegoria dei teologi’). Nell’Europa del Medioevo la principale lingua di comunicazione, a livello religioso, politico e culturale, resta il latino. Ma non è più il latino ‘classico’, cioè quello utilizzato dagli antichi scrittori romani. Definito oggi ‘latino medievale’, è un latino che si apre a molteplici e nuove esperienze del mondo, agli spazi dell’immaginario e del meraviglioso, all’altezza del sacro, e col tempo alle necessità comunicative delle scienze e delle professioni. È un latino che conosce, nella sua vitalità, una grande diffrazione nelle sue differenti specializzazioni: il latino della filosofia scolastica, il latino della giurisprudenza, il latino della medicina. È il latino della Chiesa, soprattutto, debitore della lingua dei testi sacri, in particolare della traduzione della Bibbia condotta da san Girolamo (la cosiddetta Vulgata, ca. 385-404), e dei Padri della Chiesa; il latino dei documenti pontifici e curiali, delle decretali e dei concili, e della liturgia. È infine il latino dei poeti cristiani. Nel campo della poesia si avvertiva uno dei principali fenomeni di trasformazione della lingua latina, nel passaggio alle lingue romanze: la perdita definitiva del senso della ‘quantità’, secondo cui ogni sillaba poteva essere ‘lunga’ o ‘breve’, avere cioè una durata maggiore o minore. La poesia latina classica era ‘quantitativa’, e poeti come Virgilio e Orazio costruivano i loro versi su una sapiente successione



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di sillabe lunghe o brevi. Nelle lingue romanze le sillabe hanno invece tutte la stessa durata, e quindi la poesia ha bisogno di altri elementi per marcare il verso: il ritmo degli accenti naturali delle parole, e la rima, o ripetizione delle stesse sillabe alla fine del verso. I primi grandi poeti cristiani tentano di imitare la metrica classica, ma gradualmente diffondono, per mezzo della poesia liturgica (gli inni, a iniziare da quelli composti da sant’Ambrogio, il vescovo di Milano che guidò la formazione di Agostino; e le sequenze, testi cantati diffusi dopo l’anno Mille), forme di poesia in cui prevale il carattere ritmico. Nell’ambito della Chiesa svolgono la loro attività i primi grandi scrittori latini medievali in Italia: il papa Gregorio Magno (540-604), originario di un’antica famiglia romana, autore di lettere, dialoghi, e di un commento al testo biblico di Giobbe (Moralia in Iob); e un monaco di origine longobarda, Paolo Diacono (720-799), vissuto ormai alla fine del regno longobardo e stabilitosi a Montecassino, che conserva una viva testimonianza della sua epoca nell’Historia Langobardorum (‘storia dei Longobardi’). È un quadro di un’Europa frammentata e in continua disgregazione, cui fa da contraltare la straordinaria espansione dell’Islam, che travolge gran parte dell’impero bizantino, conquista l’Africa e la Spagna, e viene arrestata solo a Poitiers nel 732 da Carlo Martello. Un cambiamento decisivo avvenne con l’ascesa al trono dei Franchi di Carlo Magno, discendente di Carlo Martello, che riuscì alla fine dell’VIII secolo a ricreare una struttura unitaria di potere al centro del continente, superando il grande frazionamento dei regni e dei popoli romano-barbarici. Questa restaurazione di un potere di tipo imperiale culminò in un episodio di grande valenza simbolica, l’incoronazione di Carlo a Roma nella notte di Natale dell’anno 800 da parte di papa Leone III, e la sua acclamazione a ‘imperatore dei Romani’. I contemporanei credettero di vedere la rinascita dell’impero di Roma, in una forma che venne definita poi Sacro Romano Impero. Per l’Italia, l’azione di Carlo ebbe molteplici effetti: sul piano politico, la quasi scomparsa del dominio longobardo (ridotto ad alcuni principati del centro e del sud), e la diminuzione dell’influenza bizantina, e di converso una maggiore indipendenza del papato; sul piano culturale, il coinvolgimento di grandi intellettuali italiani in una vasta opera di recupero della tradizione antica, una vera e propria ‘rinascita’, la prima definibile con questo nome nel corso del Medioevo. La rinascita, detta appunto carolingia, avvenne principalmente con la rinascita delle istituzioni scolastiche, presso la corte imperiale (la ‘scuola palatina’, cioè di palazzo, ad Aquisgrana), e presso le principali cattedrali e abbazie di Francia e Germania (Lione, Orléans, Tours,

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Treviri, Corbie, Corvey), dove si ricominciò a copiare testi classici rari. E il processo, ormai avviato, continuò anche dopo la fine dei Carolingi, quando il centro politico dell’impero si spostò in Germania, con la dinastia di Sassonia (secolo X). Nello stesso periodo si comincia a prendere atto dell’esistenza delle lingue volgari, e a riconoscerne l’uso. Lo stesso Carlo Magno, secondo la tradizione, era inizialmente analfabeta, come in genere lo era la classe dirigente laica dei principi e dei feudatari. Nell’813 il Concilio di Tours stabilisce di fatto il bilinguismo, cioè l’uso del latino per i documenti ufficiali della Chiesa, e l’uso del volgare (in quel caso, l’antico tedesco e l’antico francese) per la predicazione, che altrimenti non sarebbe stata compresa dal popolo. La più antica attestazione dell’uso del volgare francese risale invece all’842. In quell’anno Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico, figli dell’imperatore Ludovico il Pio (successore di Carlo Magno), davanti ai loro eserciti, si giurano lealtà, ciascuno nella lingua dell’altro, cioè in antico francese Ludovico, e in antico tedesco Carlo (i cosiddetti Giuramenti di Strasburgo). La rinascita avviene comunque in un sistema sostanzialmente statico, quello della società feudale importata dai popoli invasori, e dominante nei confronti della civiltà urbana tardoantica (peraltro non del tutto scomparsa). Erano strutture che comportavano una visione gerarchica e immobile dei rapporti tra gli uomini, e che a loro volta riflettevano la visione del rapporto fra terreno e ultraterreno, fra creature e Creatore. Al vertice del potere l’imperatore, sotto di lui i principi, i regnanti di rango inferiore, i grandi e i piccoli feudatari inquadrati nel sistema del vassallaggio, e in basso i servi della gleba, privi di qualunque diritto. Poco dopo l’anno Mille il sistema sociale fu efficacemente rappresentato dal vescovo Adalberone di Laon secondo la teoria dei tre ordini: in alto gli oratores (‘coloro che pregano’), cioè gli ecclesiastici, poi i bellatores (‘coloro che combattono’), i feudatari, i cavalieri e i soldati, e infine i laboratores (‘coloro che lavorano’), i contadini, gli operai, gli artigiani. Col tempo si costruisce una dualità di poteri, con la graduale conquista di autonomia del papato, che rivendica la costituzione di un’identica piramide in ambito ecclesiastico. Gli strumenti della cultura sono comunque saldamente in mano alla Chiesa, che gestisce la quasi totalità delle scuole e delle biblioteche esistenti, presso le cattedrali o i monasteri, dove si svolge, con poche eccezioni, la produzione e la comunicazione letteraria. Dopo l’Anno Mille le strutture del mondo feudale cominciano ad entrare in crisi, in un lungo periodo di decadenza che si trascinerà per molti secoli. Il movimento è lento ma inarrestabile, e parte dalla ripresa dei commerci e delle relazioni economiche, sia all’interno del continente, sia all’esterno,



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nel Mediterraneo Orientale. Il processo storico culmina in vere guerre di conquista di territori del Medio Oriente (la Palestina e la Siria), le Crociate, che, pur avendo la motivazione primaria di liberare Gerusalemme e il Santo Sepolcro, portarono nei fatti alla riapertura delle rotte commerciali e alla fondazione di porti e basi marittime. Se i cavalieri crociati appartenevano alla nobiltà feudale europea, gli armatori e i marinai che li portavano in Palestina erano quasi tutti italiani, di alcune città costiere che ebbero allora un prodigioso sviluppo economico e sociale, costituendosi in città-stato libere e con reggimenti autonomi, le Repubbliche marinare, tra cui emersero soprattutto Amalfi, Venezia, Pisa e Genova. La ripresa di commerci e fiere si estende dall’Italia all’Europa, e in particolare a Francia, Fiandre, Borgogna, favorendo la rinascita delle città, che gradualmente si liberano da qualunque forma di sudditanza nei confronti dei feudatari. La città è un luogo ‘libero’, in cui tutto diventa possibile. Il potere viene gestito dal basso, con varie forme di assemblea e consultazione popolare (in cui comunque hanno peso maggiore le classi più importanti dal punto di vista economico, i mercanti, e i produttori delle merci lavorate più richieste dal mercato internazionale: la lana, la seta, i pellami, le armi), perché la civitas è communis, è ‘comune’. Nasce così il libero comune. In Italia il processo è più accentuato e avanzato che altrove: le città reclamano la loro libertà non solo nei confronti dei feudatari, ma addirittura nei confronti dell’imperatore, Federico Barbarossa, battuto dalla lega delle città del Nord nella battaglia di Pontida (1170). Nel Sud, invece, le strutture feudali riprendono vigore con la discesa dei cavalieri Normanni, che si impadroniscono dei residui principati longobardi e bizantini del Mezzogiorno, e della Sicilia (sotto dominio arabo nei secoli IX-XI), e fondano un grande regno che ha come capitale Palermo, e in cui per la prima volta nel continente europeo le tradizioni culturali e artistiche del Mediterraneo cominciano a dialogare, non con le armi dei Crociati, ma sui libri di filosofi e medici. La civiltà araba musulmana aveva infatti raggiunto in quei secoli livelli senz’altro superiori alla civiltà occidentale cristiana, soprattutto nei campi del sapere scientifico e filosofico: la medicina, l’astronomia, l’ottica, la geometria, la matematica (con la mediazione all’Occidente delle cifre indiane, che vennero chiamate ‘arabe’). Gli Arabi, con la conquista di gran parte dei territori che avevano fatto parte del mondo ellenistico (da Alessandria d’Egitto a Damasco di Siria), avevano anche raccolto la straordinaria eredità del mondo classico, e promosso la traduzione e la diffusione delle opere più importanti della filosofia antica, e soprattutto di Aristotele, che avrà tra i massimi interpreti medievali le figure di Ibn Sina (detto Avicenna, 980-1036), e Ibn Rushd (detto Averroé, 1126-1198).

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Uno degli effetti sul piano culturale fu la nascita delle prime scuole laiche di rango superiore, comunità di insegnanti e studenti autonome nei confronti della Chiesa, che vennero poi chiamate università. Fra i primi centri di studio si ricorda quello di Salerno (XI-XII secolo), specializzato nella medicina, grazie alla presenza di studiosi fortemente influenzati dalla scienza araba, come Costantino l’Africano. A Bologna si sviluppò invece nel XII secolo la scuola di diritto, che portò alla rinascita del diritto romano. Le facoltà principali furono allora, oltre alla teologia, quelle di diritto e di medicina, mentre le arti liberali (considerate propedeutiche alle altre discipline, più elevate, o più professionalizzanti) erano insegnate nella facoltà delle arti. Per la cultura europea le università significarono anche la possibilità di una grande circolazione di uomini e di idee, sia professori che passavano da una sede all’altra, sia studenti provenienti da nazioni diverse, e che confrontavano le loro diverse culture: una nuova classe di intellettuali, talvolta irregolari (i clerici vagantes), che trovava espressione nelle forme della poesia goliardica, centrata sui temi di una vitalità gioiosa, della riscoperta della corporeità e dell’eros, ma anche di una nuova coscienza della labilità della vita e del potere universale della fortuna (come appare nei Carmina Burana, così chiamati perché conservati in un manoscritto proveniente dal monastero tedesco di Benediktbeuren). Ma si trattava anche di una rivoluzione materiale dei mezzi di comunicazione. Nelle università professori e studenti avevano bisogno di una quantità di testi scritti molto maggiore rispetto a quanto era necessario nello scriptorium di un monastero o di una cattedrale. E fortunatamente dall’Oriente fu importata la tecnologia di produzione della carta, più conveniente e più economica della pergamena. Gradualmente, in un mondo in cui contavano sempre di più professori e giuristi e notai, la scrittura prese il sopravvento sull’oralità.

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2. Le origini della letteratura in volgare

2.1. Primi documenti in volgare Quando inizia la letteratura italiana? La risposta non è facile. Di solito, la si faceva cominciare con i primi testi documentati in lingua volgare (dal latino vulgaris, ‘la lingua parlata dal popolo’), e in cui fosse riconoscibile qualcuno di quei fenomeni che normalmente distinguono il testo letterario da altre tipologie di testo o di messaggio: ricerca di un certo ritmo, uso di figure retoriche, modifiche nell’ordine e nella disposizione delle parole, fino alla divisione in versi e in strofe per i testi poetici. Da questo punto di vista, era la storia di una letteratura di cui si riconosceva, come carattere dominante, il fatto che fosse stata espressa in volgare italiano: vale a dire, nei primi secoli, in uno dei molti dialetti della penisola (dal veneziano al siciliano, dal napoletano al milanese), tra i quali prenderà gradualmente il sopravvento il toscano, e in particolare il fiorentino; dal Quattro-Cinquecento in poi, in una lingua letteraria italiana più o meno comune alle classi colte, modellata sul fiorentino letterario, ed evolutasi in età contemporanea anche in lingua d’uso, l’italiano di oggi. In realtà, la letteratura italiana non si limita alla sola produzione di testi in lingua volgare, e in italiano, e quindi non inizia con i primi testi letterari in volgare del XIII secolo. Almeno fino all’inizio del Cinquecento è una letteratura plurilinguistica, che si serve di lingue diverse, con una straordinaria ricchezza nella possibilità d’uso di strumenti differenti. In quei secoli, in Italia si fa poesia o si scrivono testi letterari in latino, in antico francese, in provenzale, in greco, in ebraico, e perfino in arabo. Alcuni grandi scrittori passano senza difficoltà da una lingua all’altra, a seconda delle necessità di comunicazione. Eppure, si è parlato di un ‘ritardo’ della letteratura italiana rispetto alle altre letterature europee. Ritardo in che cosa? Solo nell’apparizione e nello sviluppo delle prime forme letterarie in volgare. Quando altrove

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erano già nati la Chanson de Roland, il Cid e i canzonieri provenzali, da noi non era stato composto un solo verso in volgare. Rare sono le prime attestazioni dell’uso del volgare. La più antica sembra il breve testo di un indovinello ritrovato in un manoscritto della Biblioteca Capitolare di Verona, e perciò chiamato Indovinello veronese, della fine dell’VIII secolo: “Se pareba boves, alba pratalia araba / albo versorio teneba et negro semen seminaba”. In una lingua intermedia fra latino e volgare (già distinto dalla caduta delle desinenze consonantiche, e dalla scomparsa della declinazione dei casi) l’amanuense, in una pausa del proprio lavoro, rappresenta la propria mano come un agricoltore, che spinge avanti i buoi (le dita), ara bianchi prati (la carta), impugna un bianco aratro (la penna) e sparge un nero seme (l’inchiostro). Molto significativi sono anche quattro documenti scritti a Capua fra 960 e 963, i cosiddetti Placiti campani, in cui un giudice Arechisi riconosce diritti di proprietà dell’abbazia di Montecassino, grazie alle dichiarazioni di alcuni testimoni che, di fronte al giudice, testano in volgare: “Sao ko kelle terre per kelle fini que ki contene trenta anni le possette parte Sancti Benedicti”. Il testo in volgare (di nuovo distinto dalla caduta delle desinenze flessive, e dalla subordinazione per mezzo della congiunzione ko; in più, è avvertibile la presenza di un parlato campano) è inserito all’interno del documento latino, per dare più forza (anche giuridica) alla registrazione della testimonianza. Sono voci del popolo, distinte dalla voce (latina) del giudice o degli ecclesiastici, come le frasi che, alla fine dell’XI secolo vengono scritte su un affresco della chiesa inferiore di San Clemente, a Roma. Vi si illustra un episodio prodigioso della vita del santo, che, sul punto di essere catturato, riesce a sfuggire e lascia che i suoi persecutori trascinino non lui legato ma una pesante colonna. La narrazione per mezzo delle immagini si fa comica, perché, nella medievale dottrina degli stili, entrano in scena personaggi ‘bassi’: e questi ‘popolani’ possono allora parlare la loro lingua, con le imprecazioni suscitate da quell’inutile fatica: “Fàlite dereto co lo palo, Carvoncelle! – Albertel, Gosmari, tràite! – Fili de le pute, tràite!”. Sotto il sorriso di san Clemente, la lingua italiana nasce anche con queste parole scritte sulla parete come se fossero dei fumetti, pronunciati da quei ‘fili de le pute’, espressione che, a quasi mille anni di distanza, non ha cambiato molto il suo valore semantico.



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2.2. La letteratura europea Il XII secolo vede una nuova grande ‘rinascita’ culturale, strettamente legata alla rinascita delle città e alla fioritura dell’economia e dei commerci. In Francia si sviluppano grandi centri di studio, specializzati nella ricerca filosofica: le scuole di San Vittore a Parigi e di Chartres promuovono la ripresa del platonismo, e si dedicano alla codificazione dell’interpretazione allegorica dei testi biblici, con Ugo e Riccardo di San Vittore. A livello europeo assistiamo allora al prodigioso sviluppo delle letterature in volgare. Dominante è l’interesse per la poesia epica: in Spagna il Cantar de mio Cid (1140), epopea della graduale reconquista della penisola iberica agli Arabi, e quindi momento simbolico della lotta fra Cristianità e Islam; e in Germania, la saga dei Nibelunghi (ca. 1200), che riprende le leggende fondative dei popoli germanici. Nella Francia settentrionale la produzione letteraria avviene nella lingua francese antica, chiamata Langue d’oïl. È soprattutto la storia del periodo carolingio a diventare mito, e a sostanziare la materia di poemi detti chansons de geste, come la Chanson de Roland (ca. 1080), celebrazione della lotta fra Carlo Magno e i Saraceni culminata nel celebre episodio della rotta di Roncisvalle e della morte di Orlando, testo di riferimento per gli altri poemi del ciclo carolingio, caratterizzato dall’esaltazione di valori come la forza e il coraggio del paladino, che integra in sé i caratteri dell’eroe dell’epica classica (Achille, Enea), del guerriero germanico, e del santo cristiano. Si tratta di testi che venivano cantati e recitati, e quindi trasmessi per mezzo dell’oralità, come testimonia anche lo stile poetico, distinto dall’uso di un verso molto cadenzato ritmicamente, il décasyllabe, e da frequenti ripetizioni di parole e frasi. Alla stagione dei poemi epici succede, nel XII secolo, un maggiore approfondimento dell’interiorità dei personaggi, della loro storia individuale e delle loro passioni. Prevale ora la forma del ‘romanzo’ (roman), dalla metrica più leggera e cantabile, basata sul verso octosyllabe. Le storie raccontate possono provenire dalle leggende del mondo antico (la guerra di Troia, e le vicende dei Troiani dispersi nel mondo dopo la distruzione della loro città, raccontate nel celebre Roman de Troie di Benoît de Sainte-Maure; le storie degli eroi di Tebe), o da figure storiche ormai trasformate in mito (Alessandro Magno); oppure dall’altra grande variante dell’epopea cavalleresca, il ciclo bretone, legato alle figure di re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda, e dominato dal tema dell’amore, incarnato nelle coppie di Lancillotto e Ginevra, e di Tristano e Isotta. Dall’unità lineare della chanson si passa nel roman alla molteplicità di una complessa struttura di intreccio, in cui le vicende dei diversi protagonisti si

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intersecano tra di loro, un elemento che rende difficile la memorizzazione e quindi la trasmissione orale, mentre viene privilegiata la scrittura. E per mezzo della scrittura si affermano allora le prime grandi individualità artistiche: in particolare Chrétien de Troyes, attivo nella seconda metà del XII secolo, nel Nord-Est della Francia, tra lo Champagne e le Fiandre, autore di un romanzo sugli amori di Lancillotto e Ginevra (Lancelot), e di un altro sulla ricerca del Santo Graal, condotta incessantemente dal cavaliere Perceval, simbolo di purezza spirituale (Perceval ). Amore e avventura, amore e ricerca, sono gli elementi nuovi di questa letteratura, che rappresenta in effetti il superamento della fissità statica del mondo feudale. I cavalieri dei romans sono in perenne movimento, appartengono alla feudalità ma in un certo senso sono esclusi dai privilegi e dalle ricchezze in quanto cadetti, per cui la loro ideologia finisce con l’esaltare la nobiltà d’animo (superiore a quella di sangue) e il distacco dai beni terreni, la dimostrazione pubblica della forza e del coraggio, la fedeltà e la lealtà, la difesa dei deboli e delle donne: tutti quei valori che sono fatti propri dagli ordini cavallereschi nati dalle Crociate, i Cavalieri del Santo Sepolcro, i Templari, l’Ordine Teutonico. Questa cultura viene definita cortese, perché si sviluppa in alcune corti feudali e principesche, come quella di Champagne, dove alla fine del XII secolo operano Chrétien de Troyes e Andrea Cappellano, autore del trattato De Amore, che codifica (anche grazie alla ripresa di Ovidio) l’amore cortese in dodici comandamenti, cioè le regole comportamentali alle quali gli amanti devono ubbidire (come ad esempio quello secondo il quale l’amata non può respingere un amante ispirato da un amore puro e totale). L’amore è un elemento di nobilitazione dell’anima, che però passa attraverso il desiderio concreto di una forma sensibile, percepita per mezzo della vista. L’amante si dispone nei confronti dell’amata come un servitore nei confronti della sua signora feudale, in rapporto di vassallaggio o sudditanza. E infine si afferma la superiorità dell’amore libero sull’amore sottoposto a vincoli sociali o religiosi. A questo codice si conformano cavalieri come Lancillotto o Tristano, per i quali la superiorità assoluta del sentimento d’amore spinge a contravvenire ai vincoli di fedeltà nei confronti del sovrano. Sicuramente la nuova concezione dell’amore porta alla rivalutazione della funzione della donna nella società dell’epoca. Nel Medioevo la donna (se non si consacrava alla vita religiosa, o diventava santa o martire) era sempre considerata con sospetto, non solo come essere socialmente e intellettualmente inferiore, ma anche strumento del demonio, e schiava del peccato (come sembrava indicare la figura biblica di Eva, unica figurazione ammessa, nell’arte cristiana, del corpo femminile nudo). Ma la donna ado-



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rata dal cavaliere non è una santa: è un essere umano che, pur vivendo fino in fondo la vicenda erotica, acquista un grado di supremazia feudale sul cavaliere, diventa cioè veramente ‘donna’, dal latino domina, ‘signora’. Così facendo, consente al cavaliere di attuare la sua più autentica esperienza di nobilitazione, considerata ormai superiore anche all’impresa guerresca. Emergono così alcune donne scrittrici, appartenenti ai livelli più alti dell’aristocrazia feudale, che mettono per iscritto le loro o altrui esperienze, in stile elevato e raffinato, come Maria di Francia, principessa normanna vissuta in Inghilterra, che compone tra 1170 e 1175 i suoi celebri Lais (‘canti’), brevi racconti in versi sull’amore cortese. La ‘cortesia’, da intendere come l’insieme di virtù che distinguono il cavaliere, si oppone alla ‘villania’ (dal francese vilain, ‘contadino’), che sembra indicare tutti i comportamenti percepiti come negativi dal mondo cortese: la viltà, l’ipocrisia, la falsità, l’astuzia, e soprattutto la ricerca di guadagno, di ricchezza, il desiderio di cambiare stato sociale ed economico, e, sul piano erotico, la riduzione del rapporto amoroso ad un fatto esclusivamente fisico, materiale. Atteggiamenti che erano invece particolarmente diffusi nelle classi mercantili allora emergenti nelle città europee. Il guadagno ricavato dai commerci e dall’attività artigianale di produzione di beni, disprezzato dal cavaliere, è per il borghese (dal francese bourgeois, ‘abitante del borgo’) un giusto e lecito strumento di affermazione sociale, abbinato a elementi che diventano dei valori positivi: l’astuzia e la falsità diventano intelligenza e prudenza. Il raggiungimento di un certo grado di benessere comporta anche la graduale acquisizione di strumenti intellettuali prima riservati solo alla Chiesa, la capacità di leggere e di scrivere, all’inizio concentrata sull’attività mercantile (la scrittura di libri di conti o di lettere di cambio, la possibilità di leggere un documento notarile), e poi applicata anche alla fruizione di testi letterari. Il mondo dei ‘villani’, opposto al mondo dei cavalieri, si rispecchia in una sua letteratura in volgare, contraddistinta da forme generalmente più brevi, più adatte quindi ad una fruizione episodica o irregolare, nelle pause tra un viaggio e l’altro, o in famiglia nelle lunghe sere d’inverno. Fra questi testi emergono, per vivezza di rappresentazione dell’ambiente cittadino e popolare, i Fabliaux, brevi racconti in versi in cui risalta la tematica erotica e giocosa, al centro di beffe giocate dalle donne ai danni di mariti ed amanti: e si tratta di figure di donne molto diverse da quelle idealizzate dalla letteratura cavalleresca o dalla lirica amorosa, donne reali che acquistano una loro libertà di giudizio e di azione, dimostrandosi superiori agli uomini. Alla licenziosità dei Fabliaux si accosta il genere delle favole degli animali, derivate dai modelli antichi (Esopo e Fedro), ma arricchite anche di

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influssi dal mondo orientale, indiano e arabo: e in questa produzione spicca una raccolta di storie legate alla figura di una volpe astuta, il Roman de Renart, che non è altro che il rispecchiamento delle vicende degli uomini, sotto il travestimento allegorico degli animali.

2.3. La poesia provenzale Nella Francia meridionale (la Provenza, la Linguadoca, l’Aquitania, l’Alvernia) la lingua dominante è il provenzale, detto Langue d’oc. Tra la fine dell’XI e l’inizio del XIII secolo in questa lingua si esprime una poesia di altissimo livello formale, proiezione nel genere lirico della stessa tematica cortese dei romanzi, e anch’essa elaborata (come nel Nord della Francia) nell’ambiente delle corti feudali. I poeti, chiamati trovatori (in provenzale trobadours, dal verbo trobar, comporre ‘tropi’ cioè poesie musicate), appartengono a livelli sociali diversi, ma tutti gravitanti intorno alla corte: dal menestrello (dal latino medievale ministeriale, ‘servitore’) al giullare (dal latino medievale ioculator), dal segretario del signore al chierico, al cavaliere, e perfino al principe o al feudatario, come nel caso di Guglielmo IX d’Aquitania conte di Poitiers (1071-1126), il poeta in cui la tradizione riconosce l’iniziatore della poesia provenzale. Gli stessi elementi dell’amore cortese presenti nei romanzi (l’amore come rapporto feudale, l’esaltazione idealizzata della donna-domina), svincolati ora dalla struttura narrativa, vengono riproposti in prima persona dai trovatori come momenti di una storia individuale. La tensione verso la perfezione dell’amore (il cui livello più alto viene definito fin’ amor, ‘amore perfetto’) non esclude gli aspetti più concreti dell’amore fisico, dell’eros, vissuti dal poeta e dalla sua donna (di solito di rango molto superiore, e sposata) in condizioni spesso difficili, di lontananza, o di pericolo. Caratteristica della poesia provenzale è sicuramente l’attenzione alla forma, con la sperimentazione continua di nuove possibilità nella lingua e nella metrica, cioè nelle strutture dei componimenti. In questo ambito probabilmente i trovatori subirono influenze di altre forme di poesia che circolavano nel Sud della Francia, provenienti dal mondo arabo, o da quello ebraico. Di più, erano poesie quasi sempre accompagnate dalla musica, e destinate ad essere ‘eseguite’ pubblicamente nelle feste della corte: la musica guidava quindi il trovatore nella composizione del verso, nella scelta di un ritmo e di una scansione degli elementi fonici (vocali e consonanti) che fosse il più possibile in armonia con la melodia, che era ancora di tipo monodico, come la forma contemporanea del canto religioso, il canto gregoriano. Il



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trovatore era come un cantautore, uno chansonnier di oggi, impegnato sul duplice versante della parola e della musica. Tale sperimentazione portò alla creazione di forme metriche del tutto originali, come la canzone (in provenzale canso), caratterizzata dalla suddivisione in strofe (chiamate coblas, di solito con rime che tendevano a ripetersi dall’inizio alla fine del componimento, e quindi dette unissonans), e da una conclusione, il congedo (o tornada), in cui il poeta prende appunto ‘congedo’ dal suo testo, e addirittura gli rivolge la parola, ad un livello metatestuale, indirizzandolo alla donna amata. Ogni strofa presenta una complessa architettura bipartita in ‘fronte’ e ‘sirma’, a loro volta divise in due parti (chiamate ‘piedi’ e ‘volte’). All’interno della canzone anche le tematiche seguono un ordine prestabilito: all’inizio di solito si presenta una descrizione della natura (spesso colta negli aspetti più belli e piacevoli della primavera: non è una descrizione realistica, ma un elemento letterario ricorrente, chiamato in retorica locus amoenus, ‘luogo piacevole’), collegata alla descrizione o alle lodi della bellezza della donna. L’amore può essere dichiarato pubblicamente, oppure nascosto, e protetto nei confronti dei malevoli e dei maldicenti. Il nome della donna amata si nasconde allora in segni enigmatici o allusivi, i senhals, basati su giochi etimologici o numerologici. I provenzali inventano anche un vero sistema di generi, in cui sono possibili escursioni e uscite dall’ortodossia lirica e dal tema dell’amore cortese. L’alba (aube)esprime il momento triste della separazione degli amanti dopo la notte d’amore. Il pianto (plahn) è il compianto in morte, spesso del signore feudale al cui servizio opera il menestrello. Il sirventese affronta tematiche politiche contemporanee: e sul tema della guerra (anche negli aspetti più cruenti) si specializzò il poeta Bertran de Born, mentre Guiraut de Bornhel preferì un più rigoroso impegno di poesia morale (Dante lo chiamerà cantor rectitudinis). Il contrasto (partimen) è una forma di poesia dialogata, in cui ad esempio l’amante dichiara il suo amore all’amata, che risponde in un primo momento con un netto rifiuto. In effetti la drammatizzazione della situazione amorosa può favorire il passaggio ad uno stile meno elevato, come avviene ad esempio nel genere leggero e raffinato della pastorella, rappresentazione convenzionale dell’incontro casuale del poeta con una pastorella (figura femminile agli antipodi sociali e culturali della ‘donna’, della principessa amata di fin’amor), incontro che approda quasi sempre alla conquista erotica della fanciulla (che, anche se di umile condizione, non è mai ‘villana’, mentre il tono non è comico, ma piuttosto fiabesco). Infine, su un registro comico-realistico potevano essere composti i due generi opposti del plazer (‘piacere’) e dell’enueg (‘noia’), che consistevano l’uno nella presentazione di aspetti piacevoli della vita cortese, e l’altro nel

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gioco retorico del loro completo rovesciamento in situazioni fastidiose e talvolta repellenti. Oltre ai generi, è possibile riconoscere anche due grandi partizioni di stile, il trobar leu (‘poetare leggero’, di facile comprensione e dalla forma lieve e cantabile) e il trobar clus (‘poetare chiuso’), caratterizzato da un arduo lavoro di elaborazione, dall’uso di parole difficili e di figure retoriche, e da una forma aspra e franta. Al trobar leu possono ascriversi poeti come Bernart de Ventadorn e Jaufré Rudel, che elabora soprattutto il tema dell’assenza dell’amata, della sofferenza della separazione, dell’amore nella lontananza (amor de lohn); al trobar clus, Raimbaut d’Aurenga, e soprattutto Arnaut Daniel, inventore della più difficile forma metrica provenzale, la sestina Lo ferm voler (‘la ferma volontà’), componimento di sei strofe di sei versi e un congedo di tre, basato sulla ripetizione ossessiva di sei sole parole-rima: e si tratta infatti di un canto angoscioso per un amore impossibile.

2.4. Primi testi letterari in Italia Per contiguità geografica e culturale, gli inizi della letteratura italiana sono strettamente legati all’area francese, e in particolare alla poesia provenzale. Uno dei testi più antichi, scoperto pochi anni or sono in una pergamena a Ravenna, e databile agli anni dopo il 1180, è appunto una canzone in cinque strofe di decasillabi, accompagnata dalla musica, Quando eu stava in le tu’ catene, in cui un innamorato si lamenta della propria condizione rivolgendosi direttamente alla personificazione di Amore. In effetti, nel Nord Italia la poesia provenzale circolò in modo naturale in ambienti simili a quelli in cui era stata prodotta, nelle corti signorili, ma anche in città culturalmente all’avanguardia, come Genova. Nel 1190 opera a Genova e in Lunigiana il trovatore Raimbaut de Vaqueiras, autore di un contrasto con la donna amata che, essendo genovese, gli risponde giustamente in dialetto genovese. E cantore politico è nel 1194 Pier de la Caravana, in un’esortazione ai comuni italiani a resistere alla discesa in Italia dell’imperatore Arrigo VI. I primi poeti italiani, nella seconda metà del XII secolo, sono per lo più dei giullari, al servizio di signori feudali o ecclesiastici, e i loro componimenti, probabilmente recitati con accompagnamento ritmico, non presentano troppe preoccupazioni formali nella misura dei versi e nella scelta delle parole: per questo si tratta di testi che vengono definiti ‘ritmi’. Ma evidentemente i modelli lontani (e ancora irraggiungibili) dovevano essere le poesie ascoltate fuori d’Italia, in Provenza o nella Francia del Nord. Potevano trattare temi non molto elevati, quasi comici, per far sorridere il potente destinatario: ad esempio, un



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giullare toscano, nel cosiddetto Ritmo laurenziano (perché ora conservato a Firenze, nella Biblioteca Laurenziana), chiede al vescovo di Iesi di gratificarlo del dono di un cavallo, per ricompensarlo dei suoi servigi poetici. Potevano essere testi che nascevano in ambito cittadino, e quindi finalizzati alla celebrazione del comune, come il Ritmo bellunese (1193) e il Ritmo lucchese (1213); oppure in ambito monastico, su temi religiosi (Ritmo cassinese, sul tema tradizionale del contrasto fra anima e corpo), o agiografici (Ritmo di sant’Alessio, composto nelle Marche). E sempre a Montecassino viene scritta una Passione in latino (XII secolo), che ospita uno straordinario inserto in volgare, il pianto della Madonna. La forma poetica in volgare può essere utilizzata anche dalla comunità ebraica, come espressione identitaria di uno stato di sofferenza legata alla diaspora e alla persecuzione, nell’elegia giudaica La ienti de Siòn plange e lutta, che, all’inizio del Duecento, è comunque tra le prime poesie in volgare italiano. Infine, nella pianura padana, fra Lombardia e Veneto, si diffonde un tipo di poesia proverbiale-moraleggiante (anch’essa ispirata a modelli francesi), di solito poemetti in versi chiamati alessandrini (composti da due settenari). In Veneto si registra ad esempio il testo arcaico dei Proverbia que dicuntur super natura feminarum (‘proverbi tramandati sulla natura delle donne’) (1156-1160), un piccolo concentrato di tutto quello che si poteva dire di male delle donne nel Medioevo. A Cremona, all’inizio del Duecento, un certo Gerard Pateg scrive lo Splanamento de li proverbii de Salamone, una sorta di commento poetico al testo biblico dei Proverbi attribuiti a Salomone, e le Noie, una canzone derivata dal genere provenzale dell’enueg, mentre il suo amico Uguccione da Lodi compone un poemetto morale intitolato Libro, in cui si tratta del confronto tradizionale tra virtù e vizio, e tra paradiso e inferno.

Bibliografia 2.1. Primi documenti in volgare. Sui primi testi in volgare: A. Castellani, I più antichi testi italiani, Bologna, Pàtron, 1976; La prosa italiana delle origini, I. Testi toscani di carattere pratico, a c. di A. Castellani, Bologna, Pàtron, 1982. Per lo studio linguistico, è fondamentale il Tesoro della Lingua Italiana delle Origini (TLIO), vocabolario storico dell’italiano antico (dall’Indovinello veronese fino alla fine del Trecento), diretto da P.G. Beltrami, e consultabile in rete (www.ovi.cnr.it).

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2.2. La letteratura europea. Un’antologia ‘classica’: Le più belle pagine delle letterature d’oc e d’oïl, a c. di A. Roncaglia, Milano, Nuova Accademia, 1961. Opera di studio complessivo: Lo spazio letterario del Medioevo, II. Il Medioevo volgare, a c. di P. Boitani, M. Mancini e A. Varvaro, Roma, Salerno, 1999-2005. Sulla letteratura cavalleresca: E. Köhler, L’avventura cavalleresca. Ideale e realtà nei poemi della Tavola Rotonda (1970), Bologna, Il Mulino, 1985. Altri studi: C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale (1936), Torino, Einaudi, 1981; S. Battaglia, La coscienza letteraria del Medioevo, Napoli, Liguori, 1965; A. Varvaro, Struttura e forma della letteratura romanza del Medioevo, Napoli, Liguori, 1968. 2.3. La poesia provenzale. Un’antologia di testi in C. Di Girolamo, I trovatori, Torino, Bollati Boringhieri, 1989. Cfr. M.L. Meneghetti, Il pubblico dei trovatori. La ricezione della poesia cortese fino al XIV secolo, Torino, Einaudi, 1992; M. Mancini, Metafora feudale. Per una storia dei trovatori, Bologna, Il Mulino, 1993. 2.4. Primi testi letterari in Italia. Antologia di testi in Le origini, a c. di A. Viscardi e al., Milano-Napoli, Ricciardi, 1956. Sulla carta ravennate (Quando eu stava in le tu’ catene), con interpretazione musicale: Tracce di una tradizione sommersa: i primi testi lirici italiani tra poesia e musica, a c. di M.S. Lannutti e M. Locanto, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2005.

3. Il Duecento

3.1. La poesia della corte imperiale La poesia provenzale, che all’inizio del Duecento rappresentava forse il livello più avanzato di elaborazione letteraria sul continente europeo, finì in modo improvviso e tragico. Il diffondersi di movimenti ereticali nel Mezzogiorno francese (ispirati in particolare alle credenze dei Càtari, concentrati nella città di Albi) e la grande prosperità economica e indipendenza politica raggiunta dalle corti provenzali portarono alla convergenza di interessi politici e religiosi, miranti alla distruzione di quella civiltà. Sotto il pretesto della Crociata, bandita da papa Innocenzo III contro gli Albigesi per estirpare l’eresia (12081209), si scatenò una lunga e sanguinosa guerra di conquista che portò alla fine delle fiorenti corti feudali, e alla diaspora degli ultimi trovatori. Non pochi trovarono rifugio nelle corti dell’Italia del Nord, come Uc de Saint-Circ, che approda a Treviso, presso Alberico da Romano (1219-1220). Si trascrivono i testi provenzali, in manoscritti compositi dove accanto ai testi poetici si dispongono anche testi in prosa, con il racconto della vita del trovatore (la vida), e un commmento alle poesie (razo). E ora sono gli stessi italiani che iniziano a scrivere canzoni sul modello provenzale, e direttamente in lingua provenzale, apparendo a essi il volgare materno ancora troppo incerto o indegno di esprimere i sentimenti più alti dell’amore cortese o dei suoi valori morali. Nella Genova che aveva accolto Raimbaut si distinguono così trovatori come Percivalle Doria, Lanfranco Cigala, Bonifacio Calvo; nel Veneto, Bartolomeo Zorzi. E il mantovano Sordello da Goito (1200-1269), originario di una piccola nobiltà decaduta, divenuto giullare dalla vita errabonda e incerta, scrive uno dei più bei testi italiani in lingua provenzale, il compianto (Planh) per la morte del suo signore Blacatz (1236), in realtà un testo di forte valenza politica, in cui si rimprovera la decadenza morale e la viltà dei principi contemporanei, invitati sarcasticamente a mangiare il cuore

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del signore defunto, per assumerne la forza e il coraggio (parola derivata appunto dal provenzale coratge, ‘virtù del cuore’). Negli stessi anni la nostra penisola poteva assistere anche alla prima costituzione di un gruppo di poeti, che riprende direttamente l’eredità della poesia provenzale. L’impulso determinante per questa esperienza (fondativa della letteratura italiana) venne da Federico II di Hohenstaufen (dinastia tedesca della Svevia) (1194-1250), figlio dell’imperatore Arrigo VI e della principessa normanna Costanza d’Altavilla, e per questo chiamato ad assumere in sé la duplice eredità dei domini germanici dell’impero e del regno di Sicilia, che comprendeva, oltre alla Sicilia, l’intero Mezzogiorno d’Italia, fino ai confini dello Stato della Chiesa. Federico tra l’altro era nato in Italia, a Iesi, nel 1194, ed aveva vissuto l’adolescenza presso la corte pontificia, a Roma, dal momento che il papa Innocenzo III temeva la possibilità del costituirsi di un forte potere laico in Italia, antagonista della sovranità temporale della Chiesa. Cosa che puntualmente accadde, quando Federico salì al trono, nel 1220, e assunse poi anche il titolo imperiale, ingaggiando una lotta senza quartiere nei confronti della Chiesa, e della sua ingerenza nella politica terrena. La sua maggiore difficoltà fu però nei confronti dei liberi comuni italiani, che in maggioranza parteggiarono per il papa, temendo di perdere le loro autonomie, e tolsero all’imperatore l’appoggio determinante della loro potenza economica. Fu in quest’epoca che la distinzione fra guelfi e ghibellini, fra partigiani del papa e partigiani dell’imperatore, divenne ancora più acuta, determinando lacerazioni e lotte intestine in molte città italiane. Il sogno di Federico era quello della creazione di una struttura statale nuova e centralizzata, che superasse la staticità del mondo feudale. Per poterlo attuare, era necessaria una vera rivoluzione culturale, che l’imperatore cercò di sostenere con ogni mezzo. Bisognava formare una classe di funzionari, di uomini fedeli allo stato e all’imperatore, esperti di diritto e di diplomazia. Non bastava più, come luogo di formazione giuridica, l’università di Bologna, controllata dalla Chiesa, e allora Federico fondò l’università di Napoli nel 1224. Ma, al di là dell’immediato fine politico, Federico volle promuovere la rinascita culturale in ogni campo, filosofico e scientifico, basandola sulla conquista di una reale autonomia dalla religione. Alla corte imperiale vengono così invitati dotti e scienziati provenienti dal resto d’Europa, ma anche dal mondo arabo e bizantino: il matematico pisano Leonardo Fibonacci, l’astrologo Michele Scoto, Eustazio da Matera, Riccardo da Venosa. Pietro da Eboli scrive il De balneis puteolanis, poemetto latino sui bagni termali dei Campi Flegrei, che è tra l’altro importante per la modalità comunicativa di abbinamento di testi ed immagini, tipica di molti



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manoscritti prodotti in epoca fredericiana (dal trattato latino scritto dallo stesso Federico sulla caccia col falcone, De arte venandi cum avibus, a vari testi greci e arabi di ottica, geografia, medicina, botanica, scienze naturali). Insomma, una serie di attività che sembrarono confermare, da parte ecclesiastica, l’immagine di un Federico ‘eretico’, quasi un Anticristo, che doveva essere abbattuto ad ogni costo. Federico adolescente era stato testimone indiretto della contemporanea distruzione della civiltà provenzale. Educato probabilmente ad amare quei testi, ed i valori della civiltà cortese, coltivò il desiderio di salvare i frutti più elevati della poesia laica europea, e spinse le persone che lo circondavano a leggerli, e a imitarli. Essi non erano poeti di professione, menestrelli o giullari, e nemmeno cavalieri o nobili, ma erano comunque uomini di grande levatura intellettuale, cancellieri, giudici, notai, funzionari. Il fatto nuovo, rispetto alla ricezione della poesia provenzale avvenuta contemporaneamente nel Nord Italia, fu che alla corte imperiale si cominciò ad utilizzare sistematicamente il nostro volgare, e non il provenzale. Quale volgare? Naturalmente quello usato da quei dignitari, la loro lingua materna, elevata, nello stile e nei contenuti, al rango della corte, e del particolare livello di comunicazione e di circolarità dell’esperienza poetica, alla quale partecipava, con suoi componimenti, lo stesso imperatore, o qualche membro della sua famiglia (alcune poesie sono attribuite a Federico, e ai suoi figli Enzo e Manfredi, e non c’è ragione per dubitare di tale attribuzione). Non è possibile definire un luogo preciso, per l’elaborazione di questa poesia. Se è vero che la sede principale della corte imperiale, la cosiddetta Magna curia, fu Palermo (la vera capitale del regno dall’epoca dei Normanni), è anche vero che la politica imperiale di Federico lo costringeva a viaggi molto frequenti, e a dimore in altre sedi, in Italia e in Germania, ma soprattutto nella rete di castelli costruiti nell’Italia meridionale: Melfi, Venosa, Bari, e il mirabile sogno geometrico di Castel Del Monte. Tra questi siti e Palermo, in una corte itinerante, nacque il miracolo della poesia fredericiana. In gran parte i suoi rappresentanti erano siciliani, e la loro lingua materna era quindi il siciliano: ma accanto ad essi si riconoscono figure provenienti da altre regioni, dalla Campania, dalla Puglia, dalla Lucania, che contribuirono ampiamente con l’apporto delle loro lingue e della loro cultura. La ripresa della poesia provenzale appare abbastanza fedele nelle forme e nei temi, ma con alcuni significativi cambiamenti. Il tradizionale repertorio dell’amore cortese (la donna-domina, oggetto di un omaggio quasi feudale da parte dell’amato) viene rielaborato ad un certo grado d’astrazione, ed è facile capirne il perché: era una ripresa di maniera, da parte di poeti per così dire ‘dilettanti’, che vi aggiungevano tutti gli altri loro più vivi interessi culturali,

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estranei agli antichi trovatori: la speculazione filosofica e scientifica, e insieme il mondo dell’immaginario medievale, con tutti i suoi bestiari e lapidari, gli animali fantastici e le pietre preziose dotate di virtù magiche. In verità, è straordinario pensare che questo gruppo di poeti dilettanti sia riuscito non solo ad imitare molto bene i provenzali, ma addirittura a sperimentare nuove forme metriche, che saranno poi costitutive dell’intera letteratura italiana, e quindi della letteratura europea dei secoli a venire. Intanto, nella costituzione di regole metriche da seguire, ad esempio, nella composizione del verso, non si ammettono più le irregolarità arcaiche dei ‘ritmi’. Per rispettare la misura sillabica del verso, si impone la sinalefe, procedimento secondo il quale la sillaba finale di una parola (terminante in vocale) e quella iniziale della parola successiva (iniziante in vocale) contano per una sola sillaba. I testi sono composti esclusivamente di endecasillabi e settenari, i versi più vicini ai corrispettivi d’Oltralpe (decasyllabes e octosyllabes), ma tanto più leggeri e cantabili, grazie alla mobilità degli accenti tonici delle lingue italiane. La canzone, di struttura provenzale, la supera in varietà, perché rinuncia ad avere lo stesso sistema di rime in tutte le strofe, che diventano quindi autonome (singulars), appena legate dal gioco sottile del rinvio dalla fine dell’una all’inizio dell’altra (coblas capcaudadas o capfinidas). È evidente che, per questi poeti, esisteva un insieme di regole non scritte, una sorta di ‘codice’ a cui essi si conformavano, e che era il risultato di una attenta e non episodica riflessione sulle forme della poesia. Da osservare, inoltre, che questa sperimentazione tecnica fu motivata anche dal fatto che i testi, a differenza dei modelli provenzali, non erano musicati, cioè erano destinati principalmente ad una trasmissione scritta, e quindi ad una fruizione riservata ad un pubblico di elevato livello culturale, che vi accedeva per il mezzo solitamente individuale della lettura. Fra tutte le loro invenzioni, la più bella fu forse quella del sonetto (diminutivo di son, ‘canzone’), straordinaria forma metrica (forse derivata dalla stanza di una canzone) conclusa nel giro di quattordici endecasillabi, partiti in due quartine (la ‘fronte’) e due terzine (la ‘sirma’). Il probabile inventore fu il notaio Iacopo da Lentini, detto appunto il Notaro, l’autore più prolifico della corte, con ben 39 testi (di cui 14 canzoni, 24 sonetti e un discordo). È sua la poesia che apre uno dei più antichi manoscritti della poesia italiana, il Canzoniere Vaticano, la canzonetta Madonna, dir vo voglio; e forse più degli altri Iacopo approfondisce gli spunti teorici dell’amore cortese, riprendendo Andrea Cappellano nel sonetto Amor è uno desio che ven da core. Ma altrimenti l’appagamento erotico è raggiunto nella contemplazione della bellezza della donna, come se fosse un angelo del Cielo, ed anzi quasi ‘blasfemo’, capace



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di distogliere dalla visione di realtà più spirituali, nel sonetto Io m’aggio posto in core a Dio servire. Si tratta di una contemplazione tutta interiore, di una donna idealizzata e assente, di cui il poeta-amante costruisce un’immagine nel cuore, e la adora, come una pittura sacra, simile alle icone, alle madonne devozionali della pittura bizantina: quel che leggiamo nella leggerissima canzonetta in settenari Meravigliosamente, notevole anche per l’implicito rinvio alle contemporanee arti figurative. Fra gli altri scrittori della corte imperiale, Pier delle Vigne (ca. 11901249), segretario di Federico morto suicida per non essere riuscito a sopportare il peso della sua disgrazia politica, scrive importanti lettere in latino, in cui elabora un alto livello di stile. Il giudice messinese Guido delle Colonne (1210-ca. 1280), autore della Historia destructionis Troiae (rielaborazione latina del Roman de Troie di Benoît de Sainte-Maure), compone anche una canzone di stile ‘alto’, Ancor che l’aigua per lo foco lassi, ricca di riferimenti al mondo naturale, ed esempio di classico trobar clus. Ma è significativo il fatto che accanto alla poesia ‘alta’ non manchi un filone popolareggiante, rappresentato da poeti non siciliani, come Rinaldo d’Aquino, membro della grande feudalità campana, autore di un lamento per la partenza di un crociato, Giamai non mi conforto (1227); e Giacomino Pugliese, del quale la canzone Isplendïente / stella d’albore risulta già conosciuta in Italia settentrionale entro il 1234: segno di una diffusione che superò subito i confini della corte, e trasmise al resto d’Italia la nuova poesia. Il testo probabilmente più interessante è il contrasto Rosa fresca aulentissima (1231-1250), scritto da un giullare di Alcamo di nome Michele (in siciliano antico, Cielo): tradizionale dialogo fra amante e amata, trasferito in un contesto rurale, ad un livello stilisticamente ‘basso’, adeguato al livello sociale dei personaggi. In realtà, Cielo contamina consapevolmente lo stile ‘alto’ della lirica amorosa con lo stile ‘basso’ e crudamente realistico di tipo giullaresco, attuando un plurilinguismo simile ad altri contrasti, come quello provenzale-genovese di Raimbaut. L’amante non è un cavaliere ma un giullare, e la sua richiesta alla donna è mirata non alla nobilitazione per mezzo della fin’amor, ma all’immediata soddisfazione del desiderio sessuale. La contadina (affine alle pastorelle provenzali, caricatura e rovesciamento della domina cortese) resiste lungamente, fino a chiedere all’amante di giurarle il suo amore sul Vangelo. Con un imprevisto colpo di scena, il poeta malandrino estrae dalla camicia una copia del libro sacro, appena rubato al monastero, e ci giura sopra. Allora la donna si arrende, di fronte a quella consacrazione solo formale resa dall’amante ladro sacrilego; le parti si rovesciano, ed è ormai lei a guidare l’uomo verso la camera da letto: “A lo letto ne gimo a la bon’ora, / ché chissà cosa n’è data in ventura”.

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Di fronte a questa produzione aurorale della poesia italiana, la prima che sia possibile circoscrivere nei contorni di una ‘scuola’, cioè di una cerchia di persone che condividevano gli stessi orizzonti, e gli stessi mezzi linguistici e stilistici, resta un solo rimpianto. Il fatto che quasi nessuno di quei testi si possa leggere nella lingua originale, il siciliano illustre dei poeti di origine siciliana, o comunque l’elevata lingua di koiné meridionale utilizzata dagli alti dignitari, campani o pugliesi, alla corte imperiale. Perduti i primi manoscritti originali, ci restano solo le trascrizioni effettuate dai copisti toscani, ad esempio nel già ricordato Canzoniere Vaticano, eseguito a Firenze alla fine del Duecento. Un solo caso sembra sfuggire alla perdita generale: una canzone di Stefano Protonotaro, Pir meu cori alligrari (conservata, insieme ad altri frammenti di Guido delle Colonne e re Enzo, nel Cinquecento dal grammatico modenese Gian Maria Barbieri, nel Libro dell’arte del rimare). Si tratta di una lingua siciliana già abbastanza elevata, e per così dire ‘regolarizzata’, ‘illustre’ nella scelta del lessico (con forte presenza di latinismi, gallicismi, provenzalismi) e nella sintassi. I copisti toscani, insomma, non dovettero faticare molto. Il loro non fu un lavoro di ‘traduzione’, ma piuttosto di ‘trasposizione’ da un sistema fonetico-grafico ad un altro, ma in una sostanziale fedeltà ai testi che ci sono stati tramandati.

3.2. Gli Ordini mendicanti Gli inizi del Duecento sono caratterizzati da grandi fermenti religiosi, e da una nuova spiritualità, più vicina alle necessità delle popolazioni urbane. Nascono piccole comunità, che si sforzano di vivere autenticamente il Vangelo, rinunciando alle ricchezze e alla vanità terrene, ma senza ritirarsi al di fuori del mondo, come avveniva nei secoli precedenti nei monasteri. Sono i cosiddetti Ordini mendicanti, dei quali il primo fu quello dei frati predicatori, detti Domenicani dal nome del loro fondatore, lo spagnolo Domenico di Guzmán (ca. 1170-1221). L’Ordine Domenicano era basato soprattutto sull’apostolato da compiersi nelle moderne città europee, una sorta di nuova crociata, di milizia spirituale nella quale i frati si servivano dell’arma della parola, rivolta contro le moderne eresie (lo stesso Domenico era stato in Provenza per contrastare i Càtari), e contro la corruzione dei costumi. Il momento più intenso dell’azione dei Domenicani era quello della predica, del discorso svolto in occasione di particolari festività, o periodi dell’anno, come il tempo di Quaresima, dedicato all’approfondimento di tematiche penitenziali. Interamente giocata sul livello della comunicazione orale, la predica era naturalmente in volgare, affinché fosse intesa da tutti, e caratterizzata



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dall’uso di una retorica particolare, destinata a colpire l’immaginazione: metafore, forti immagini, racconti di episodi memorabili o di vite di santi, che servissero da esempio, da paradigma (i cosiddetti exempla). La formazione culturale del predicatore doveva essere di alto livello: bisognava imparare le tecniche dello stile e della retorica, conoscere perfettamente i testi sacri e i loro commenti medievali, ma anche la letteratura degli exempla, da richiamare per impressionare l’uditorio. Un prodotto tipico di questa mentalità fu la Legenda Aurea di Iacopo da Varazze (ca. 1267), che raccontava le vite dei santi attraverso la raccolta di aneddoti esemplari, che erano riutilizzati da predicatori famosi come Giordano da Pisa (1260-1311), nelle prediche del Quaresimale fiorentino (1305-1306), e Domenico Cavalca (1270-1342), autore delle Vite dei Santi Padri, e del Pungilingua. Una tradizione continuata da Iacopo Passavanti (Firenze 1302-1357), priore di Santa Maria Novella a Firenze dal 1345, autore dello Specchio di vera penitenza, in cui confluiscono numerose novelle esemplari, e un interessante trattato sui sogni. I più importanti conventi dei Domenicani si dotarono di scuole, che talvolta assursero alla dignità di ‘Studio’, cioè di facoltà universitaria di teologia, come accadde a Napoli. E domenicano fu il più grande filosofo dell’epoca, insegnante a Parigi e a Napoli, Tommaso d’Aquino (1225-1274), originario della stessa grande famiglia feudale che era stata al servizio di Federico II. Tommaso raccolse l’eredità di Alberto Magno, che propugnava la ripresa di Aristotele, e ne aveva commentato alcuni trattati, correggendo talvolta le interpretazioni radicali degli arabi, Avicenna e Averroé, soprattutto nei casi in cui quelle interpretazioni portavano a negare le verità della fede cristiana (ad esempio l’immortalità dell’anima, o il libero arbitrio). Bisognava cercare quindi di accedere al testo di Aristotele in lingua originale, in greco, e non nelle incerte traduzioni latine di traduzioni arabe, e così Tommaso fece eseguire nuove traduzioni direttamente dal greco. Tra le sue opere più importanti, oltre a vari commenti aristotelici, il Contra Gentiles (‘contro i pagani’, 1260); il trattatello De Pulchro (‘sul Bello’), importante sintesi dell’estetica medievale, del modo di concepire la bellezza, e quindi di rappresentarla nelle arti figurative; e soprattutto la Summa Theologica, testo fondativo della filosofia detta Scolastica, basata sull’autorità aristotelica, e soprattutto sul tentativo di accordare fede e ragione. L’altro grande ordine mendicante fu fondato da un giovane e ricco borghese dell’Italia centrale, Francesco di Pietro Bernardone (Assisi 11821226). Figlio di un agiato mercante, Francesco ne avrebbe dovuto continuare l’attività, nello schema tradizionale della ‘famiglia’, finalizzata alla prosperità economica e all’ascesa nel contesto cittadino nel tempo: e passò la sua

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giovinezza tra le occupazioni tipiche di un giovane del suo rango, non esclusa la partecipazione ad una delle frequenti e feroci guerre con i comuni vicini. Forse proprio l’esperienza della guerra, o la graduale insoddisfazione di quell’orizzonte esistenziale legato principalmente alla ‘roba’ e al denaro, portarono Francesco ad una conversione, che fu assolutamente radicale, e culminò nell’episodio in cui, trascinato sulla piazza di Assisi dal padre inferocito, di fronte al vescovo, Francesco si spogliò nudo, per significare la rinuncia alle ricchezze, e la dedizione totale a Dio. All’inizio visse da solo in assoluta povertà, senza un progetto preciso, poi a poco a poco intorno a lui si formò una piccola comunità, che ne condivise lo stile di vita: poveri, diseredati, ma anche i vecchi compagni di avventura e di piacere, che si convertivano al suo esempio. La storia di Francesco, raccontata dai suoi seguaci, è straordinaria e affascinante, e intimamente legata all’immaginario collettivo contemporaneo. Dio gli parla direttamente, dal crocifisso di una cappella diroccata a San Damiano, o per mezzo di sogni, tipica modalità di comunicazione col divino nel mondo medievale: e in uno di questi sogni Francesco vede un edificio pieno di armature, bandiere e strumenti per la guerra. Per lui, che è stato cavaliere e soldato, è il segno che, dopo gli inizi irregolari, quella comunità, quel movimento, deve diventare una milizia, simile a un ordine cavalleresco. E, dopo gli iniziali sospetti di eresia, la Chiesa approva l’ordine dei frati minori, che verrà detto dei Francescani. È lo stesso Francesco a dettare la regola, in latino; e in latino scrive altri testi devozionali, lettere, preghiere, segno di una cultura non trascurabile, in parte formata già prima della conversione. Francesco morirà, circondato dalla venerazione dei suoi discepoli, nell’umile capanna della Porziuncola, presso Assisi, nel 1226. Due anni prima, nel 1224, la sua vita, interamente dedicata alla conformazione all’esempio di Cristo (tanto da suscitare nei contemporanei la definizione di alter Christus), aveva conosciuto l’episodio più forte, sull’eremo appenninico della Verna, la comparsa miracolosa delle stimmate sul suo corpo. Nello stesso anno, secondo la tradizione, a San Damiano, Francesco compose nella sua lingua materna, un dialetto umbro appena innalzato ad un certo livello di letterarietà, un canto di lode al Signore, il Cantico delle creature (Laudes creaturarum o Cantico di frate Sole): appena 33 versi senza misura fissa e senza rima, basati su una scansione interna del ritmo, e sulla ripetizione del modulo di lode “Laudato si’, mi’ Signore” ad inizio di ogni strofa (secondo la figura retorica dell’anafora), una tipologia poetica che rinvia immediatamente alla poesia biblica (il cantico dei tre fanciulli nel libro di Daniele), e in particolare alla poesia dei Salmi (il Salmo 148).



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Il cantico di Francesco non è però una semplice ‘traduzione’ dei salmi di lode, gli ultimi del Salterio, quelli dedicati alle Laudes, in cui si esortano tutte le creature a lodare il Creatore. Alla generale esortazione biblica (Laudate Dominum omnes gentes) Francesco sostituisce un rapporto più diretto con Dio, gli si rivolge di persona, nel colloquio della preghiera, con quel “mi’ Signore”. E la sua preghiera passa attraverso il ringraziamento per l’opera del creato (con l’apertura di lode ai vv. 1-4). Il ‘laudare’ è motivato dalle creature che ci circondano (nella preposizione per andrà quindi letto un valore principalmente causale), e in cui prevale il segno positivo impresso dal Creatore. Nella seconda parte del cantico (vv. 5-22) l’uomo, creatura fra le creature, instaura con esse un rapporto di ‘fratellanza’, in quanto nate da un unico principio: fratelli e sorelle dell’uomo sono allora, nell’ordine, il sole, la luna e le stelle, il vento, il fuoco, la terra. Nella terza parte (vv. 23-26, probabilmente aggiunta da Francesco in un secondo momento), fra il tema del perdono e la conclusione salmistica compare l’ultima creatura, ‘sorella Morte’, che, intesa come morte corporale, non è figura spaventosa, ma ministra di Dio nell’ordine della creazione e della vita, a differenza della morte ‘vera’, che è quella dell’anima con il peccato. Dal punto di vista dei contenuti, il cantico di Francesco esprime in modo immediato una riflessione più ampia sulla ‘positività’ del mondo, che è tipica del tardo Medioevo, e che si contrappone alle ideologie religiose che tendevano a negarlo, per privilegiare esclusivamente l’aspetto spirituale: ad esempio i Càtari, che credevano in una dualità ontologica tra bene e male, e per i quali il mondo apparteneva senz’altro al dominio del male; ma anche, nel campo dell’ortodossia cattolica, la visione di Lotario da Segni (poi papa Innocenzo III, lo stesso che accolse Francesco la prima volta a Roma, e diede la prima approvazione al suo movimento), che nel trattato De contemptu mundi (‘disprezzo del mondo’) cerca di dimostrare la vanità del mondo per mezzo dell’esibizione violenta della corruzione della materia, ad esempio nella decomposizione del corpo dopo la morte. Un tema devozionale di indubbia presa popolare, che si tradurrà (in poesia, in musica, in pittura) nelle cosiddette ‘danze della morte’. In Francesco prevale invece l’aspetto della gioia, perché ogni creatura ‘significa’ Dio, cioè rinvia (in quell’immenso sistema di segni che è il mondo per l’uomo medievale) ad una realtà ‘altra’, al suo Creatore; e addirittura la morte corporale è sottratta all’imagerie macabra, per diventare nostra ‘sorella’, anch’essa creatura, compagna di strada al momento finale del nostro cammino. Gioia, letizia, e si potrebbe aggiungere allegria, quella dei giullari, per intenderci, perché nello stile (fatta salva la derivazione biblica) il modello di Francesco è ancora quello dei ritmi giullareschi. La forte ritmicità interna

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(svincolata dalla misura regolare del verso, e dalla rima) era legata (secondo la testimonianza antica della Legenda Perusina) alla musica, per cui il cantico era veramente un canto, probabilmente monodico e molto semplice, modulato su tre o quattro note (come i versetti della Bibbia durante la liturgia), ma pur sempre un canto, che poteva essere eseguito dalla comunità dei frati per esprimere il loro sentimento di gioia e di ringraziamento a Dio. La scelta delle parole è attenta, e raggiunge i risultati più espressivi nell’aggettivazione (come nell’indimenticabile frate Foco “robustoso et forte”), che danno agli elementi naturali una forte valenza umana, li trasformano in personaggi di una rappresentazione, ognuno con proprie qualità morali e fisiche. Ed in questo si avverte un altro aspetto rivoluzionario di Francesco: l’attenzione al teatro. Nel Medioevo si era del tutto perduta la tradizione del teatro classico, condannato moralmente dai Padri della Chiesa. Lentamente, la drammatizzazione era rinata in ambito religioso come esecuzione ‘vivente’ di testi biblici, in particolare del Vangelo, ad esempio il momento della Passione, della Morte e della Resurrezione di Cristo (il cui testo di solito veniva, e viene ancora, letto da più persone nella liturgia della Settimana Santa). La ‘sacra rappresentazione’ si sarebbe poi spostata dall’interno della chiesa all’esterno, sul sagrato; ma anche la predicazione di Domenicani e Francescani diventava una forma di ‘teatro’, con grande attenzione alla gestualità, alla mimica, al modo di parlare. Era in fondo un problema di comunicazione. Il messaggio doveva raggiungere le masse (spesso prive di cultura, e di accesso al mondo del testo scritto) nel modo più immediato ed efficace possibile. Anche in questo, Francesco fu tra i primi ad esplorare forme nuove di drammatizzazione, come nel celebre episodio del Presepe di Greccio, quando per la prima volta un intero paese fu guidato a trasformarsi in Betlemme, e a rappresentare la scena della Natività. E ‘visibile teatro’ fu il racconto della vita di Francesco, che i suoi confratelli cominciarono a fare subito dopo la sua morte. Ancor prima di approdare alla scrittura, esso fu resoconto orale, ed ebbe bisogno di una prima tradizione figurativa, consacrata dall’apporto dei più grandi maestri della pittura contemporanea, in particolare i Berlinghieri di Pisa, che realizzarono nel 1235 la grande tavola di San Francesco a Pescia. In questo archetipo della pittura francescana del Duecento la parte narrativa della vita del Santo (come nella tradizione orientale bizantina) è leggibile ai due lati della figura centrale, in riquadri (detti ‘istorie’) dedicati agli episodi più importanti: la conversione, le stimmate, la morte, e perfino la celebre predica agli uccelli. Dopo vennero i testi (in latino, per garantirne la diffusione alla Chiesa universale): l’anonima Legenda Perusina, poi la Vita Sancti Francisci di



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Tommaso da Celano († ca. 1260), in due redazioni, infine la Legenda maior scritta da Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274), generale dell’ordine, ma anche insigne filosofo, già professore a Parigi, autore dell’Itinerarium mentis in Deum (1259) in cui, in fondo, si espone, in forma filosofica, lo stesso ‘cammino’ a Dio seguito da Francesco, la via al Creatore per mezzo delle creature. Fu dopo Bonaventura che anche l’ordine francescano cominciò un’intensa attività culturale (originariamente non primaria per i ‘poverelli’ di Francesco), promuovendo la nascita di ‘studi’ come quelli dei Domenicani. Non mancarono allora scontri e divisioni con quanti volevano rifarsi ad un più radicale voto di povertà, come i ‘fraticelli’, o gli ‘spirituali’, perseguitati dalla Chiesa, e guidati dal mistico Ubertino da Casale, autore dell’Arbor Vitae crucifixus (‘l’albero della vita crocifisso’). La via mistica è seguita nello stesso periodo da altre importanti figure, soprattutto da alcune donne, come Angela da Foligno (1248-1309), terziaria francescana, le cui straordinarie esperienze sono scritte nel Memoriale, dettato a un frate e poi tradotto in latino. La prima letteratura francescana in volgare fu comunque molto vicina all’immaginario popolare. Le storie di Francesco e dei suoi confratelli, attinte alla tradizione orale e poi scritte in latino, sarebbero state rielaborate in volgare nei Fioretti di san Francesco (ca. 1380). Il frate Giacomino da Verona già pochi anni dopo la morte di Francesco compose il De Ierusalem celesti (1230), e poi il De Babilonia civitate infernali (1265): due poemetti in quartine di alessandrini (e quindi, anche per il metro, legati a quella tradizione di poesia morale che già era diffusa nell’Italia del Nord), che si distinguono per il bisogno di rendere immediatamente ‘visibili’, concreti da un punto di vista materiale e fisico, gli aspetti della vita delle anime dopo la morte, nei due regni ultraterreni dell’Inferno e del Paradiso. Un Paradiso in cui sembra possibile godere di ogni bene terreno (e in particolare cibi e bevande prelibate, in un Medioevo in cui carestie e gente affamata non mancavano mai), mentre l’Inferno segue la più classica rappresentazione di luogo popolato dei soliti diavoli osceni e repellenti, che uncinano e torturano per l’eternità i dannati. Una poesia da ‘vedere’, mentre la si ascolta, perché erano le stesse raffigurazioni del Giudizio Universale che si potevano vedere dipinte sulle mura delle chiese, ‘teatro’ visibile di una realtà morale a cui era più facile credere grazie alla mediazione sensibile.

3.3. La poesia comunale toscana L’esperienza della poesia della corte imperiale era finita tragicamente, dopo la morte di Federico II (1250), con il crollo del dominio svevo e del partito

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ghibellino in Italia, segnato dalla sconfitta del figlio ed erede Manfredi a Benevento (1266). A Napoli veniva incoronato Carlo d’Angiò, rappresentante della nuova dinastia venuta dalla Francia, ed era poi giustiziato l’ultimo Svevo, Corradino. L’eredità di quella poesia non andò però perduta. Essa fu trascritta in manoscritti toscani, in cui la primitiva veste linguistica siciliana o meridionale fu assimilata all’uso toscano. Fu un passaggio importante, perché significò la ricezione da parte di un pubblico molto più ampio, nei comuni toscani di metà Duecento: non più funzionari imperiali, ma borghesia mercantile, notai e giuristi di città, e magari di simpatie guelfe. Importante fu il ruolo di Bologna come centro di mediazione. Bologna era stata luogo di studio comune sia per i funzionari della Magna curia, sia per molti uomini ‘pubblici’ dei comuni dell’Italia centrale, punto d’incontro di guelfi e ghibellini, leggendario luogo di prigionia di re Enzo figlio di Federico. L’interesse per la poesia volgare si sviluppa nell’ambiente giuridico e notarile; e curiosamente le prime testimonianze manoscritte della poesia in volgare sono proprio alcuni ‘memoriali’, libri di trascrizioni di documenti, in cui (per non lasciare spazi bianchi alla fine della carta, e per evitare falsificazioni) il notaio scriveva il testo che casualmente, in quel momento, gli passava per la testa: un pezzo di una canzone, un proverbio, un sonetto. Non è un caso che sempre Bologna sia importante laboratorio (come vedremo più avanti) della prosa volgare (in particolare dell’arte di scrivere lettere, determinante per segretari e cancellieri cittadini), grazie ad autori come Guido Faba e il fiorentino Bono Giamboni. Da una prima formazione giuridica bolognese tornò infatti in Toscana, a Lucca, Bonagiunta Orbicciani (ca. 1220-ca. 1280), notaio come Iacopo da Lentini, autore di canzonette e ballate, che appare il primo mediatore, alla metà del Duecento, della poesia imperiale nella Toscana occidentale, culla di una ricca borghesia mercantile legata ai traffici marittimi sviluppatisi con le crociate. Bonagiunta segue lo stile del trobar leu, di una poesia piana e cantabile, e infatti predilige i metri delle canzonette e delle ballate, dette queste ultime ‘canzoni a ballo’ perché, accompagnate dalla musica, erano effettivamente eseguite nelle feste dell’epoca (anche il metro è simile a quello delle canzoni di oggi, una serie di strofe alternate ad un ritornello, detto ‘ripresa’). Nella Toscana orientale, percorsa da antiche vie di comunicazione fra Nord e Sud (la Valdarno), e quindi esposta in prima linea nelle lotte politiche contemporanee, opera ad Arezzo Guittone del Viva (ca. 1235-ca. 1294), personaggio singolare del suo tempo, che ne incarna tutte le possibilità, dalla passione politica municipale all’ansia di rinnovamento spirituale. Celebre, della sua biografia, è l’episodio della conversione improvvisa dalla vita del



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mondo a quella religiosa (1265), evento che lo portò ad abbandonare moglie e figli, e ad unirsi alla confraternita laica dei Milites Beatae Virginis Mariae, detti anche Frati godenti, appunto a Bologna. La sua ampia produzione poetica (quasi cinquanta canzoni, e 175 sonetti) si divide esattamente in due metà, che ne riflettono la dualità esistenziale, fra il versante amoroso-politico, e quello religioso-morale. Autore anche di lettere che sono documento di una raffinata prosa d’arte, Guittone preferisce lo sperimentalismo formale del trobar clus, in una poesia fortemente retorica, aspra, grave. Per questo si impegna anche in un campo estraneo ai poeti imperiali, ma non ai provenzali, quello politico, con il sirventese scagliato contro la corruzione dei concittadini aretini Gente noiosa e villana, che già nel titolo evidenzia l’antitesi moderna rispetto al mondo cortese; e soprattutto con la canzone scritta in occasione della sconfitta dei fiorentini guelfi a Montaperti nel 1260, Ahi lasso! or è stagion de doler tanto, in cui la denuncia delle rivalità e delle fazioni si unisce alla condanna sarcastica di Firenze, in un forte stile profetico. Dopo la conversione, segnata dalla canzone Ora parrà s’eo saverò cantare, Guittone si consacrerà alla poesia morale e dottrinaria, non sempre però ben intelligibile a causa dell’oscurità formale. Per chi avrebbe voluto essere ‘cantore della rettitudine’ come Guiraut de Bornhel, questo difetto di comunicazione avrebbe nuociuto alla ricezione e all’intelligenza della poesia guittoniana, dopo appena pochi anni. Ma intanto il suo stile fa ‘scuola’, proprio a Firenze, che fino ad allora sembrava essere rimasta ai margini della poesia volgare, e dove è possibile annoverare diversi ‘guittoniani’: l’abbondante Chiaro Davanzati (con ben 60 canzoni e 100 sonetti), Dante da Maiano (in contatto col giovane Dante), l’artificioso Monte Andrea; e finalmente una poetessa, la prima della nostra letteratura, chiamata nei manoscritti la Compiuta Donzella, vale a dire ‘fanciulla perfetta’.

3.4. La poesia lirica ‘nuova’ da Bologna a Firenze Torniamo a Bologna, dove soggiorna Guittone, dove è attivissima la scuola di retorica volgare, e dove sono ancora vivi gli echi dei poeti imperiali. È assolutamente coetaneo di Guittone il bolognese Guido Guinizzelli (Bologna ca. 1235-Monselice 1276), di parte ghibellina, e quindi costretto all’esilio in Veneto dal 1274. A differenza dei guittoniani, non produce molto (appena 5 canzoni e 15 sonetti), ma quel poco che scrive sarà determinante a cambiare un’epoca. All’inizio è ‘guittoniano’ pure lui, considera l’Aretino ‘maestro’ e addirittura gli si rivolge chiamandolo ‘padre’ (O caro padre meo, de vostra laude). Poi, però, una più attenta riflessione sulla poesia, e probabilmente

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una conoscenza di prima mano dei provenzali e dei poeti imperiali, lo porta a saltare la mediazione di Guittone, e a tornare alla poesia fredericiana, in particolare nel sonetto Io voglio del ver la mia donna laudare. La reazione degli ex-amici è immediata, ed è la prima querelle della nostra storia culturale: Guittone lo critica, e il più anziano Bonagiunta lo rimprovera di troppa ‘sottiglianza’ e ‘iscura parlatura’, di eccessiva densità filosofica e scarsa chiarezza di comunicazione (nel sonetto Voi, ch’avete mutata la mainera). Cosa era accaduto? Riprendendo lo stile del Notaro, Guinizzelli aveva lodato la donna ricorrendo ad una serie mirabile di similitudini (troppe forse in un solo sonetto), la rosa e il giglio, la ‘stella dïana’ (cioè Venere, che è anche la dea dell’amore), la verde campagna, l’aria, e tutti i colori dei fiori, concludendo con l’immagine della donna che saluta, e che quindi, etimologicamente, ‘dona salute’, cioè salvezza, all’innamorato in contemplazione. Sono gli stilemi inconfondibili della poesia provenzale, e della più recente mediazione fredericiana, con un’accentuazione del ricorso alla similitudine tratta dal mondo naturale (tipica del Notaro), forse per l’influenza dell’ambiente filosofico dell’università di Bologna. Il tema del ‘saluto’, in particolare, viene approfondito nel sonetto Lo vostro bel saluto e ’l gentil sguardo: vi si riprende la fenomenologia dell’amore, che passa attraverso la vista, mentre lo sguardo della donna (ancorché ‘gentile’, nobile) può sempre essere assassino, ferire e uccidere (e qui si avverte in filigrana la presenza del bestiario medievale, e della leggenda del basilisco, di cui si diceva che uccidesse col solo sguardo). Al di là del tema tradizionale, è interessante anche l’affiorare di una coscienza metapoetica, laddove il poeta-amante sa di essere, nonché protagonista e vittima, anche testimone e scrivano di quello che gli accade. La sua penna segue Amore, e si fa fedele interprete dei suoi movimenti. Ce n’era abbastanza per farne una poetica ‘nuova’. E il manifesto ne fu la celebre canzone Al cor gentil rempaira sempre amore. Fin dal primo verso vi si afferma il legame indissolubile fra amore e cuore nobile, del tutto svincolato dalle condizioni sociali (e si noti la significativa preferenza di Guinizzelli per gentile, al posto di cortese: passaggio che segna il definitivo abbandono dell’originario contesto feudale, a favore di quello cittadino). La tematica amorosa, liberata da ogni elemento contingente, viene innalzata fino all’assolutizzazione e alla sublimazione della donna-angelo, interpretata come immagine di Dio, suo messaggero inviato sulla terra a redenzione dell’umanità, e soprattutto del poeta suo amante. La densità filosofica e teologica (rimproverata da Bonagiunta) è tutta nel solito bagaglio di similitudini dal mondo naturale, che ha quindi bisogno di un pubblico ‘colto’, quasi di livello universitario: Guinizzelli opera infatti un restringimento selettivo del suo



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pubblico, e prepara la strada ad un tipo di poesia inizialmente elitaria, che circola all’interno di un gruppo omogeneo che partecipa degli stessi orizzonti culturali. A suo modo, questa canzone è come il Cantico delle creature di Francesco (testo forse conosciuto da Guinizzelli), ma con una differenza di fondo: la lode viene riservata alla donna, e non al Creatore. Assolutamente ‘laico’ è infatti il congedo del testo, in cui trova posto il rimprovero di Dio, a cui il poeta risponde di aver agito così, perché la donna ebbe sembianza d’angelo, di intermediario fra cielo e terra. Nuovo, oltre che la tematica, è lo stile, che insiste sul raffinamento del lessico ad un livello sovramunicipale: nel caso di Guinizzelli, questo significa tentare di formare un linguaggio ‘comune’ della poesia, senza troppi artifici e oscurità (che penalizzavano la poesia di Guittone e Monte Andrea). Un trobar leu, senz’altro, in cui la leggerezza si appaia alla dolcezza melodica. Risultato apparentemente spontaneo di una ricerca formale sofferta, perché Guinizzelli non era certo poeta monocorde. Nella sua non ampia produzione, lo dimostra la presenza anche di due sonetti ‘comici’, basati cioè sul rovesciamento, sull’inversione del tema della donna-angelo, e nell’uso di un vocabolario plebeo e di uno stile ‘basso’: Chi vedesse a Lucia un var capuzzo, e Volvol te levi, vecchia rabbiosa. La lezione di Guinizzelli viene ripresa e trasferita a Firenze, roccaforte dei ‘guittoniani’, proprio da un altro fiorentino, il giovane Guido Cavalcanti (Firenze ca. 1255-1300), che vuole così marcare la componente elitaria della sua poesia rispetto alla maniera attardata, e talvolta plebea, della generazione precedente. Cavalcanti apparteneva infatti ad un’importante famiglia nobile guelfa ‘bianca’ (a Firenze, dopo la cacciata dei ghibellini, i guelfi si erano a loro volta divisi in Neri, capeggiati dai Donati, e Bianchi, guidati dai Cerchi), e aveva sposato Bice di Farinata degli Uberti, che era stato il capo dello sconfitto partito ghibellino. Nel 1292 inizia un pellegrinaggio a Santiago di Compostela (una delle grandi mete della spiritualità medievale), ma si arresta a metà strada, a Tolosa. Tornato a Firenze, non potrebbe partecipare formalmente alla vita politica, in quanto una legge recente (gli Ordinamenti di giustizia di Giano della Bella, del 1293) ne esclude tutti i nobili; ma in realtà vi prende parte in modo violento, scontrandosi con Corso Donati, capo dei Neri. Viene così esiliato, insieme agli altri faziosi, il 24 giugno 1300 a Sarzana (il decreto è approvato anche da Dante!). Guido non tornerà mai più: sarebbe morto di febbri il successivo 29 agosto. Nei suoi anni migliori, Guido capeggia una ‘brigata’, un gruppo di giovani amici poeti, tra cui vi sono anche suoi parenti (Iacopo e Nerone Cavalcanti, Lapo di Farinata degli Uberti). All’inizio è un’elaborazione collettiva, un

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divertissement leggero sul filo del trobar leu, dell’imitazione di Guinizzelli, e oltre, fino ai provenzali e ai fredericiani: come appare nella fresca ballata di Calendimaggio Fresca rosa novella / piacente primavera. Col tempo Guido si distacca dai suoi amici, consapevole dell’approfondimento cui sottopone il tema che, in ogni caso, è l’unico tema del suo piccolo canzoniere (solo cinquanta testi, fra sonetti, ballate e canzoni): l’amore. Tema ossessivo, l’amore, esplorato in ogni aspetto di trascendenza, estasi, negatività. Sfuggendo al dominio della ragione, l’amore finisce col dominare l’anima, diventando una specie di malattia, e imponendo una serie di effetti patologici: il tremore, la paura, lo sbigottimento, lo svenimento, la malinconia, il pianto. Una complessa psicologia che Cavalcanti rappresenta, nella sua poesia, con la personificazione delle facoltà vitali e spirituali, definite ‘spiriti’ e ‘spiritelli’, travolti dalla potenza di Amore. E prendono vita e individualità anche i dettagli e gli oggetti coinvolti nella vicenda: a livello fisico, gli occhi, il cuore, gli organi interni; esternamente, le ‘cose’, e perfino gli strumenti di scrittura di cui si serve il poeta, che parlano in prima persona (nel sonetto Noi siàn le tristi penne isbigotite). Alla fine, anche il tema del saluto diventa distruttivo. Nel sonetto Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira (che riecheggia il biblico Cantico dei Cantici: “Quae est ista quae ingreditur?”) si esprime la sostanziale indicibilità della donna, in un accumularsi di interrogativi senza risposta e di negazioni. Nel sonetto Voi che per li occhi mi passaste ’l core Guido insiste su una serie di metafore, di immagini riprese dalla scena di una battaglia, in cui la donna, vista dal poeta, infierisce su di lui, fino al massacro e alla carneficina del cuore. Guido aveva raggiunto, probabilmente a Bologna fra anni Settanta e Ottanta, ampie conoscenze di filosofia naturale e medicina, restando suggestionato in particolare dalla dottrina di Averroé, che affermava la separazione fra anima sensitiva (che non sopravvive dopo la morte) e anima razionale (che comunica con l’intelligenza universale). L’amore investe l’anima sensitiva, irrazionale, ed è esperienza vitale e potenzialmente distruttiva. Su queste basi Guido scrisse la sua grande canzone dottrinale Donna me prega, che è in effetti una sorta di trattato sulla natura dell’amore: un testo difficilissimo (già allora fu necessario comporre dei commenti), lontano dallo stile delle altre poesie di Guido e dei suoi amici. Una corda nuova, rispetto a Guinizzelli, è provata da Guido nelle ballate, leggere e malinconiche, col presentimento della morte in Perch’i’ no spero di tornar giammai. Altri testi del suo canzoniere tornano al tema d’amore sotto un diverso segno stilistico: quello più basso della ‘pastorella’ provenzale (In un boschetto trova’ pasturella), con la variante della ‘forosetta’, della contadina (Era in penser d’amor quand’io trovai); fino al gioco comico del rovesciamento



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della donna-angelo (già tentato da Guinizzelli) nella visione malevola di una gobbetta, nel sonetto Guata, Manetto, quella scrignutuzza. Indubbiamente gli altri poeti della ‘brigata’ seguono da vicino il modello cavalcantiano, ma senza la stessa profondità. Lapo Gianni, incurante dell’impegno dottrinale, preferisce cantare l’atmosfera di gruppo, la vita raffinata dei giovani fiorentini del tempo. Più ‘osservanti’ nello stile sono Gianni Alfani, e Dino Frescobaldi, autore di venti poesie per una donna ‘sdegnosa’, sul tema dell’amore impossibile. Su tutti i seguaci di Guido emergerà il più giovane Guittoncino di Francesco de’ Sinibuldi, detto Cino da Pistoia (Pistoia 1270-Napoli 1337). Figlio di un notaio, e poi giurista anche lui, formatosi a Bologna e Orléans, avrebbe insegnato a Siena, Perugia, Napoli. Guelfo nero esiliato da Pistoia, appoggiò la discesa in Italia dell’imperatore Arrigo VII; e soprattutto, amico di Dante, sarebbe vissuto abbastanza a lungo da essere un importante anello di congiunzione con la generazione di Petrarca e Boccaccio. Suo sarà il compianto per la morte di Dante (Su per la costa, Amor, de l’alto monte), mentre Petrarca a sua volta ne avrebbe pianto la scomparsa (Piangete, donne, e con voi pianga Amore). Il suo canzoniere annovera ben 165 testi, dominati dall’amore per la sua donna, Selvaggia. Con Cino può dirsi superata la stagione dello sperimentalismo (che interessa ancora Cavalcanti e Dante): più che tentare forme nuove, gli basta ormai seguire le soluzioni stilistiche già tentate dai suoi amici (e Guido in un caso lo chiamerà addirittura ‘ladro’). Si assiste in effetti alla nascita di una ‘maniera’ basata su un linguaggio poetico selezionato, secondo un processo che anticipa Petrarca. In particolare, Cino elabora il tema del ricordo e della lontananza. Nella canzone (amata da Petrarca) La dolce vista e ’l bel guardo soave l’evocazione della partenza dell’amata porta il poeta a meditare sul dolore della separazione, della privazione della vista, come aveva fatto Jaufré Rudel nella definizione dell’amor de lohn.

3.5. La poesia comica Su un binario parallelo alla poesia lirica ‘alta’ (e quindi ‘tragica’, negli esiti stilistici dell’ultimo Cavalcanti) corre, secondo la ripartizione medievale degli stili, la poesia ‘comica’, ‘bassa’: uno spazio espressivo non popolaresco, né necessariamente ridicolo, ma basato sul rovesciamento e sulla parodia dei temi principali della poesia ‘alta’. La donna-angelo, modello di cortesia, diventa una popolana brutta e volgare: e vi confluisce la tradizione misogina, con il suo odio della donna e l’enumerazione dei suoi vizi.

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Che si tratti di un esercizio di stile, coesistente alla lirica amorosa ‘seria’, lo dimostrano i sonetti comici di Guinizzelli, Cavalcanti, Dante; e, prima di loro, soprattutto la figura di Rustico di Filippo (Firenze ca. 1230-ca. 1300), la cui produzione (58 sonetti) si divide esattamente in due metà, i testi amoroso-cortesi, e i testi comici. Si tratta per lo più di caricature, di ritratti grotteschi di tipi e personaggi della vita quotidiana: l’avaro, il soldato, la vecchia, la donna adultera. Anche se in forma convenzionale, il legame con la vita quotidiana del mondo comunale, con la cronaca, si fa più evidente. La definizione di tipologie grottesche potrà anzi servire all’elaborazione dei personaggi nelle prime forme narrative, dagli exempla alle novelle. Un altro filone di poesia ‘comica’, diffusa a livello europeo, in ambito universitario, era quello della poesia goliardica, legata ai motivi della vitalità giocosa, dissipata nell’eros, nel gioco, nella vita di taverna. Ne è influenzato il senese Cecco Angiolieri (Siena ca. 1260-ca. 1313), poeta dalla vita inquieta e irregolare, soldato nelle guerre di Siena contro Firenze, più volte processato per risse e debiti. Culturalmente non è affatto un isolato: deve aver avuto esperienza di vita universitaria, forse nella solita Bologna, conosce le poesie di Cavalcanti, e scrive tre testi giocosi a Dante. I suoi oltre cento sonetti si distendono fra le due polarità di letteratura e vita, al punto che è difficile distinguervi tra la verità del dato biografico e la ripresa di un luogo comune, come l’esaltazione dei tre principi della vita goliardica, la donna, la taverna e il dado, cantati in Tre cose solamente m’ènno in grado. La condizione economica e sociale è comunque un elemento determinante: Cecco, carico di debiti, è ormai al di fuori dell’ordine ‘regolare’ della società borghese, che privilegia il ricco mercante. Sente quindi tutto il potere della Fortuna, simbolo dell’irrazionalità e della vanità delle cose del mondo (e come tale cantata nei Carmina Burana, nell’inno O Fortuna); e vi si scaglia contro, così come attacca tutte le autorità costituite, a iniziare dal padre (che vorrebbe vedere morto). La sua rivolta lo porta a desiderare d’essere Dio, papa, imperatore, e tutti gli elementi naturali (compresa la Morte: eco rovesciata del Cantico francescano), per sconvolgere il mondo e l’intera umanità, nel celebre sonetto S’i’ fosse foco arderei ’l mondo. Anche Cecco ha la sua storia d’amore, ma ovviamente è un amore curvato sugli aspetti più bassi della sensualità. Irraggiungibile oggetto del desiderio è Becchina, la volgare figlia di un conciatore di pellami, tra l’altro già sposata (e si osservi il possibile gioco allusivo nei confronti del nome della donna amata da Dante: BEatrice – BEcchina). Un amore impossibile, solo perché Cecco è troppo povero per conquistarla. Di nuovo, quindi, il tema della povertà, contrapposta alla ricchezza, che porta il poeta a vivere in modo patologico il suo stato di privazione, fino alla malinconia, nel sonetto



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La mia malinconia è tanta e tale. Secondo la medicina medievale (ripresa da Cavalcanti), la malinconia era una condizione di alterazione dell’equilibrio psicofisico (basato sulla dottrina degli umori), in cui prevaleva l’umore nero (in greco melancholia): condizione di solito tipica della malattia d’amore (in cui l’amante soffre per la privazione dell’amata), e quindi dei poeti d’amore. La differenza è che, per Cecco, la malinconia nasce dalla privazione del denaro, non della donna; dall’emarginazione sociale, in un mondo dalle regole dure e senza possibilità di riscatto.

3.6. La poesia allegorica e didascalica Nella prima metà del Duecento, in Francia, Guillaume de Lorris aveva composto un poema allegorico intitolato Roman de la Rose (‘Romanzo della Rosa’) (ca. 1230), raffinata espressione della civiltà cortese, in cui si racconta la conquista della rosa (cioè della donna) da parte dell’amante, in uno splendido giardino primaverile. Il poema, incompiuto, fu continuato circa quaranta anni dopo da Jean de Meun (ca. 1270), che spostò l’attenzione sulla cultura filosofica e scientifica del suo tempo. Secondo gli schemi dell’allegoria, ogni elemento, ogni dettaglio della storia rinvia ad una complessa realtà intellettuale; e il poema diventa una sorta di enciclopedia, di summa del sapere medievale, comunicata in modo più leggero rispetto ad un trattato latino. Si tratta quindi di poesia ‘didascalica’, in cui prevale lo scopo dell’insegnamento. Il modello francese fu importante per la composizione di testi simili nella Toscana della seconda metà del Duecento. Alla cornice del giardino si preferisce lo schema allegorico del ‘viaggio’, in cui il poeta è anche pellegrino, e protagonista della propria narrazione, impegnato in una ricerca (della verità, della sapienza, o dell’amore) in cui appare spesso la figura di una guida, di un aiutante. L’autore più rilevante fu sicuramente ser Brunetto Latini (Firenze ca. 1220-1294), un notaio guelfo che ebbe modo di vivere quasi sette anni in Francia (in quanto esule dopo la sconfitta dei guelfi a Montaperti, 12601267), dove si dedicò alla pratica dei volgarizzamenti di classici latini, il De inventione e alcune orazioni di Cicerone. In prosa francese scrisse addirittura un’enciclopedia, il Trésor, che in tre libri affrontava tematiche di teologia e filosofia naturale, morale, retorica e politica. Abbinamento, quest’ultimo, decisivo per ser Brunetto, che promuove la formazione culturale di coloro che dovranno reggere le sorti della città, e che, nella sua attività di insegnamento, avrà tra i suoi allievi anche il giovane Dante.

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La composizione più significativa di Brunetto (oltre ad un poemetto in settenari sul tema dell’amicizia, il Favolello, indirizzato a Rustico di Filippo) è sicuramente il Tesoretto, poema allegorico di quasi tremila settenari a rima baciata. Il racconto inizia presentando Brunetto che vaga smarrito in una selva, dopo la sconfitta di Montaperti (1260); gli viene incontro la Natura, che lo guida nella conoscenza dell’uomo e del cosmo, e poi la Vertude, che lo inizia alla conoscenza delle virtù cardinali e delle virtù civili (Cortesia, Leanza, Larghezza, Prodezza). Il viaggio continua in luoghi diversi e lontani: nel Regno di Amore, dove s’incontra Ovidio, a Montpellier, sull’Olimpo dove s’incontra il geografo antico Tolomeo, e dove il racconto si interrompe. Testi simili vengono composti a Firenze nello stesso periodo. Nel Detto del gatto lupesco (poemetto in novenari-ottonari a rima baciata) un ‘gatto lupesco’ incontra due cavalieri e poi un eremita, e si avvia alla ricerca della croce. Il Mare amoroso (poemetto di 330 versi liberi) non è altro che una piccola enciclopedia sull’amore, costruita sul collage di luoghi comuni e figure retoriche. Un altro racconto allegorico di viaggio è l’Intelligenza (309 strofe in novenari), in cui un poeta segue in Oriente una donna bellissima, l’Intelligenza, che lo conduce in un palazzo affrescato con le storie di Cesare, di Alessandro, di Troia e della Tavola Rotonda. Nell’allegoria, il palazzo vorrebbe significare l’anima dell’uomo (nelle Confessioni, Agostino aveva descritto la memoria come un grande palazzo): ma in realtà è il pretesto per richiamare una serie di testi narrativi fondamentali nella cultura medievale, e per avviare il confronto con le arti figurative, nell’epoca in cui le figure di Cimabue e Giotto si imponevano all’attenzione dei contemporanei. Un caso particolare è costituito dal Fiore, composto intorno al 1280 da un notaio fiorentino di nome Durante. Era lo stesso nome di Dante, e si è quindi creduto che fosse lui l’autore del Fiore, anche a causa di una significativa serie di corrispondenze con altri testi danteschi (dalle rime alla Commedia): ma, più probabilmente, Dante ne fu non l’autore, ma un primo e attento lettore. La struttura del poema si basa su una serie di 232 sonetti (la cosiddetta ‘corona’), in una lingua intermedia tra il toscano e il francese, e in uno stile orientato verso il livello comico. Si tratta di una evidente imitazione della parte narrativa del Roman de la Rose, cioè il racconto della conquista erotica del Fiore da parte di Amante, in una rappresentazione che porta in scena, come personaggi, le personificazioni delle Virtù e dei Vizi: Franchezza, Pietà, Schifo, Bellaccoglienza, Malabocca, Falsembiante. La vicenda si conclude con il raggiungimento dell’oggetto di desiderio, culminante nella descrizione allegorica degli organi genitali della donna, addirittura assimilati alle sacre reliquie di un santuario, alla fine di un lungo pellegrinaggio. Ser Durante (che probabilmente dimorò in Francia, come Brunetto; e l’unico ma-



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noscritto si trova oggi a Montpellier) si dimostra esperto di poesia francese, e anche di filosofia, ricordando la figura del filosofo antiscolastico Sigieri di Brabante. Suo è anche un più breve poemetto in settenari (il metro preferito di Brunetto), il Detto d’Amore, sull’esperienza dell’amore, sempre derivato dal Roman de la Rose. Altre ‘corone’ di sonetti scrisse Iacopo di Michele detto Folgóre (San Gimignano ca. 1270-ca. 1332), un borghese guelfo di provincia che era riuscito a diventare nobile, con la nomina a cavaliere, e che dedicò tutta la sua poesia a cantare l’ammirazione sconfinata verso il mondo cortese. Folgóre è consapevole che si tratta di un mondo ormai in declino, come dice nel sonetto Cortesia cortesia cortesia chiamo, mentre invece la società contemporanea è dominata dall’ avarizia, cioè dalla ricchezza. Le ‘corone’ possono essere dedicate ai mesi dell’anno; ai giorni della settimana; o all’armamento di un cavaliere, con l’allegoria delle Virtù cortesi. Il modello di riferimento è quello del plazer provenzale. Ne emerge un mondo idealizzato (e forse ormai inesistente) fondato sul ‘diletto’ e la virtù, uno spazio protetto in cui si muove la ‘brigata’ dei giovani ‘cortesi’, con tutte le loro disimpegnate occupazioni: la caccia, la cavalcata, i tornei, il ballo, il gioco. Per quanto ideale, è uno spazio comunque importante, e se ne ricorderà Boccaccio, nella cornice del Decameron. Anche Francesco da Barberino (1264-1348), giurista fiorentino che aveva viaggiato fra Veneto, Provenza e Francia tra 1303 e 1313, riprende la tematica dell’amore cortese, e immagina che sia Amore in persona, per mezzo di Eloquenza, a dettarne gli insegnamenti (in latino documenta), alla presenza di dodici donne, e del poeta, nei Documenti d’Amore (1309-1313): un singolare prosimetro in cui le parti poetiche sono in volgare, accompagnate da traduzioni e commenti in latino. L’attenzione al mondo delle donne lo porterà poi alla composizione di un manuale di comportamento, Reggimento e costumi di donne (1320), altro prosimetro che è fonte preziosa per notizie di costume contemporaneo, e sulla condizione della donna. Al di fuori della Toscana, la poesia didascalica è maggiormente legata ad una fonte di ispirazione religiosa. A Milano, infatti, un maestro di scuola come Bonvesino da la Riva (Milano ca. 1250-ca. 1313), legato all’ordine religioso degli Umiliati, riprende il tema del mondo ultraterreno nel Libro delle tre scritture (1274), suddiviso in scrittura ‘negra’ (l’Inferno), ‘rossa’ (la Passione di Cristo), e ‘dorata’ (il Paradiso). Nel De quinquaginta curialitatibus ad mensam (‘cinquanta cortesie a tavola’) Bonvesino compone un altro manuale di buona educazione, mentre le Disputationes non sono altro che dialoghi, contrasti di gusto medievale, fra personificazioni di qualità morali (la rosa e la viola, la mosca e la formica), o fra l’anima e il corpo, o la Vergine

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e Satana. Tutti questi testi sono scritti in un vivace ed espressivo dialetto milanese. Ma il magister Bonvesino sa padroneggiare anche il latino, in un testo che applica alla sua città, Milano, lo schema della laudatio urbis, nel De magnalibus urbis Mediolani (‘meraviglie di Milano’) (1288). Infine a Genova, alla fine del Duecento (in un manoscritto ora all’Archivio Comunale di Genova) l’Anonimo genovese, di estrazione cittadinoborghese, compone poesie in volgare genovese (con preferenza per versi come l’ottonario e il novenario), e anche in latino, affrontando una pluralità di temi morali, politici, civili, e dimostrando un’ascendenza lontana dalla linea toscana.

3.7. La lauda Nel Medioevo la religiosità popolare si era frequentemente espressa contro la corruzione dei costumi, per un ritorno alla purezza e alla povertà evangelica. Nel Duecento si era diffuso inoltre un clima di attesa della fine dei tempi, di un grande rinnovamento, come quello annunciato dall’Apocalisse. Un monaco calabrese, Gioacchino da Fiore (1130-1202), aveva nutrito questa attesa di tempi nuovi con un libro di profezie, il Liber figurarum (diffuso in splendidi manoscritti illustrati), e annunciando che, dopo l’età del Padre (corrispondente all’Antico Testamento) e quella del Figlio (il periodo da Cristo in poi), era imminente l’età dello Spirito Santo. Nell’anno 1260 (indicato nelle profezie come anno di inizio della nuova età) l’Italia fu percorsa da cortei di penitenti e flagellanti, che si raccolsero intorno alla figura di Ranieri Fasani a Perugia, e al movimento dei Disciplinati. Era un movimento che nasceva in un contesto laico, e laici (borghesi, mercanti, artigiani) erano gli aderenti alle prime comunità, che, col tempo, diminuirono l’attività penitenziale, e si dedicarono principalmente alla preghiera in comune, in momenti di incontro collettivo che culminavano nella recitazione, o meglio nel canto, di testi poetici in volgare, strutturati in forma di antifona, di canto responsorio, dialogato tra un officiante e il gruppo dei fedeli. Nasceva così la lauda, cioè lode, inno cantato in queste confraternite (dette di ‘laudesi’), che raccoglievano con cura i loro testi in manoscritti (i laudari, localizzati soprattutto nell’Italia centrale, fra Umbria, Toscana, Marche; di grande rilevanza è quello di Cortona). I temi preferiti sono quelli della storia sacra, in particolare la Passione di Cristo, e poi le lodi della Vergine. La metrica della lauda è quella della ballata, cioè di un metro profano abbinato alla musica (e talvolta il testo religioso conserva lo stesso accompagnamento musicale di un coevo testo amoroso profano), caratterizzato dalla ripetizione



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del ritornello, cantato dal confratello che guidava la celebrazione, e dall’uso di versi fortemente ritmati, e popolareggianti, come l’ottonario (che sembrava riecheggiare il ritmo di inni e sequenze in latino). La lauda è un fenomeno collettivo, e nei laudari non emergono grandi individualità. Con una sola eccezione, che costituisce anche il solo caso di costituzione di un laudario privato, di una sorta di ‘canzoniere’ religioso, parallelo alla produzione profana dei poeti lirici contemporanei: quello di Iacopone da Todi (Todi ca. 1236-Collazzone 1306), al secolo un avvocato, Iacobo de Benedictis, di solida formazione culturale in latino e volgare, sposato con una nobildonna, e dedito in giovinezza ai piaceri della vita. Un evento tragico e improvviso, nel 1268 (la morte della moglie a causa di un crollo, durante una festa da ballo; ma soprattutto la scoperta che la donna praticava, a sua insaputa, l’aspra penitenza del cilicio) lo spinge ad una radicale conversione, alla totale rinuncia a quel mondo fino ad allora tanto amato. Dopo dieci anni di vagabondaggio, come un ‘bizzocco’ (una specie di sacro accattone), Iacopone aderisce al movimento francescano, ma, nella sua umiltà, vorrà restare sempre laico, senza mai prendere gli ordini sacerdotali. Per la sua buona formazione culturale, viene comunque incaricato di badare ai giovani novizi (per i quali scrive anche alcune opere latine). In quel tempo l’ordine francescano cominciava ad attraversare una grave crisi, dividendosi tra coloro che chiedevano un ammorbidimento della severa regola dettata da Francesco (i ‘conventuali’), e quelli che invece reclamavano un ritorno alla purezza delle origini, e ad un’assoluta povertà (gli ‘spirituali’, capeggiati da Ubertino da Casale). Ovviamente Iacopone parteggiò per gli spirituali. Si trovò con loro, quando fu eletto papa un umile eremita abruzzese, Pier dal Morrone, che prese il nome di Celestino V (1295) (Iacopone gli rivolse allora la lauda Que farai, Pier da Morrone?). L’illusione di un vero rinnovamento della Chiesa durò pochissimo. Appena pochi mesi dopo il potente cardinal Caetani spinse l’incerto Celestino alla rinuncia al pontificato, e ne prese il posto col nome di Bonifacio VIII, restaurando una politica di potenza teocratica. Iacopone lo attaccò come se fosse l’Anticristo nella lauda O papa Bonifazio, molt’ài iocato al mondo, si unì agli spirituali ribelli che, capeggiati dal cardinal Colonna, dichiararono il papa decaduto (manifesto di Lunghezza 1297), e fu catturato nell’assedio di Palestrina (1298). Condannato ad un carcere durissimo, descrisse la sua condizione nella straordinaria lauda autobiografica Que farai, fra Iacovone?, e chiese anche, invano, perdono al papa (O papa Bonifazio, eo porto tuo prefazio). Liberato solo nel 1303 dal nuovo papa Benedetto XI, morì nella quiete del convento di Collazzone, nella sua terra natale.

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Anche solo da un punto di vista quantitativo, la poesia di Iacopone si impone come l’esperienza individuale più importante del Duecento. I manoscritti restituiscono i testi di 92 laude sicure, più i testi attribuibili nel Laudario Urbinate. Nell’insieme, ne viene fuori l’immagine di un ‘laudario d’autore’, diverso dagli altri laudari collettivi. Una poesia che nasce non per i bisogni di una confraternita laica, ma per la cerchia ristretta delle scuole di novizi dei conventi francescani, come quello di San Fortunato a Todi, dove Iacopone aveva iniziato la sua attività; cerchia allargata poi agli altri conventi, e infine anche al pubblico laico, grazie alla fortuna della trasmissione manoscritta. Un laudario multiforme, in cui sono presenti molti diversi registri stilistici (tragico, comico, profetico, didascalico, allegorico), e diverse tematiche. Innanzitutto quella morale e religiosa, in laude dottrinali che servivano all’insegnamento di materie talvolta difficili per i giovani frati (il cammino di perfezione, il rapporto fra anima e Dio), e che Iacopone cerca di spiegare nel modo più diretto possibile, facendo spesso ricorso alle tradizionali personificazioni di virtù e vizi, e all’immaginazione visiva (in alcuni casi, i testi sono costruiti proprio su strutture simboliche ‘da vedere’: un albero, una scala, un letto). Le laude, già ricordate, a Celestino V e Bonifacio VIII sono espressione di un forte impegno religioso ma anche politico, e sono dominate dall’assunzione del registro biblico della profezia, con un linguaggio fortemente visivo. La rinuncia al mondo si basa sul disprezzo della fisicità, e sulla dimostrazione della vanità delle cose umane: dimostrazione che (come nel De contemptu mundi di Lotario da Segni) si avvale della descrizione di dettagli orridi o macabri. Netta è la condanna morale della donna, che è comunque rappresentata in modo vivacemente realistico (ad esempio, nella vanità del trucco, del vestiario, o dell’acconciatura dei capelli). Infine, la via di spiritualità scelta da Iacopone è quella della mistica, che passa attraverso il superamento di ogni esperienza sensibile, fino al momento in cui il divino entra nell’anima, la riempie al di là di ogni possibilità di comprensione (un ‘fuori di misura’ che Iacopone chiama esmesuranza), un’esperienza indicibile e non raccontabile con la parola umana: allo stesso modo, nel Medioevo, la teologia cosiddetta ‘negativa’ tentava di giungere a Dio per mezzo della definizione di ciò che Dio non è. L’estasi porta così al canto O iubelo del core, in cui Iacopone diventa ‘pazzo per Dio’. La sua ‘follia’ è il rovesciamento di tutto quello che al mondo sembra buono e desiderabile, la ricchezza, la prosperità, l’amore terreno. E la sua esmesuranza si oppone all’ideologia dell’equilibrio, propugnata dalla filosofia scolastica, e condivisa dalle classi borghesi delle città italiane. La lingua di Iacopone è il dialetto umbro, nobilitato nel lessico dal confronto con il latino (biblico, ecclesiastico, giuridico) e con gli altri volgari.



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Non manca l’influenza della poesia giullaresca, della poesia comica, e della poesia lirica profana, certo conosciuta dal giovane Iacopone: dai provenzali ai poeti della corte imperiale. Il suo stile tende alla brevitas, allo scorciamento, alla sintassi spesso spezzata, e questo per una consapevole e dichiarata ansia di comunicazione. Al ragionamento complesso e sillogistico preferisce l’enumerazione, l’elencazione, la giustapposizione di elementi come in un quadro. La stessa urgenza di comunicazione spinge Iacopone su un piano simile a quello di Francesco, la ricerca della drammatizzazione, della teatralità. Molte sue laude, anche dottrinali, sono dialogate, in modo da coinvolgere meglio l’ascoltatore. Nel Laudario Urbinate compaiono dei testi sulla Passione di Cristo, che rappresentano il dolore della Vergine di fronte alla morte del Figlio: testi anche visivamente forti (nella descrizione del corpo ferito di Cristo) che rinviano alla visione dei capolavori della pittura duecentesca, le grandi Croci di Giunta Pisano, Coppo di Marcovaldo, e Cimabue. Sono i primi esperimenti per quel capolavoro della nostra poesia delle origini che è Donna de Paradiso (rielaborato anche in forma di inno latino, lo Stabat Mater). Si tratta di una lauda drammatica, il cui testo viene recitato da diversi personaggi: un interlocutore della Vergine, che la chiama e la avverte della cattura di Cristo (nei testi del Laudario Urbinate si tratta di una donna, una ‘sorella’ di Maria); la Vergine, che si precipita presso Pilato e cerca di salvare il figlio, e poi vive tutta la sua sofferenza sotto la croce; il popolo ebraico, che coralmente chiede il supplizio; lo stesso Cristo, che dalla croce dialoga con sua madre, e le indica il ‘figlio novello’, Giovanni. Iacopone va oltre il racconto evangelico, e mette in scena il dolore autentico e umanissimo di una madre, di qualunque madre, che impazzisce al momento della morte del figlio, che ne abbraccia i piedi e chiede di morire insieme a lui.

3.8. La prosa Bologna fu centro importante anche per la genesi della prosa in volgare. Nel Medioevo la prosa latina medievale si era innalzata a mezzo di comunicazione ufficiale, nelle cancellerie del Papato e dell’Impero, nella scrittura di lettere e documenti ufficiali, che, per la loro solennità, dovevano essere composti in una forma molto elevata. Questa forma fu in particolare elaborata presso il monastero di Montecassino, ed era fondata sul ritmo delle clausole finali del periodo (chiamate cursus). I cursus erano essenzialmente quattro: l’ordinario planus (sèrvus / servòrum), il solenne velox (sècula / seculòrum), l’artificioso tardus (rìtus / exèquitur), il cadenzato trispondaicus (fìdes / sùpplemèntum). Il

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documento di una cancelleria poteva così essere riconosciuto anche dallo stile: alla Curia Romana, ad esempio, si usava lo stile detto “gregoriano” (da papa Gregorio VIII), elaborato dalla scuola cassinese, e caratterizzato dalla presenza di velox e tardus. La stessa tecnica usata in latino (ancora viva nella cancelleria imperiale di Federico II, come dimostrano le lettere di Pier delle Vigne) passò nel corso del Duecento al volgare, dal momento che i comuni italiani cominciarono a servirsi della lingua viva per i loro documenti. L’arte dello scrivere elegante, soprattutto lettere, fu chiamata ars dictandi o ars dictaminis, e i suoi specialisti, i dictatores. Ne era fondamento l’insegnamento della retorica, professato a Bologna dal maestro Boncompagno da Signa tra 1195 e 1215, autore di un importante trattato latino intitolato Rhetorica antiqua, o anche Boncompagnus. In volgare Guido Faba raccolse esempi di prosa e di lettere nella Gemma purpurea (1239), e nei Parlamenta et epistole (1243). Anche il giudice fiorentino Bono Giamboni (Firenze ca. 1235-ca. 1295) ebbe occasione di insegnare a Bologna, e di scrivere un Libro de’ vizi e delle virtudi, racconto allegorico di un viaggio di iniziazione, e della battaglia tra Vizi e Virtù (sul modello antico della Psychomachia di Prudenzio); ma soprattutto con Bono inizia quel laboratorio sperimentale della prosa volgare che furono i volgarizzamenti, traduzioni e rielaborazioni di testi latini come la Rhetorica ad Herennium (tradotta nel Fiore di Rettorica dedicato a Manfredi), le storie di Orosio, il De miseria humanae conditionis di Lotario da Segni. Prima che si giungesse all’elaborazione di testi originali, i volgarizzamenti furono una tappa fondamentale anche nella narrativa ‘lunga’, in una sostanziale contiguità fra storia antica, leggenda, mitologia, ed epopea cavalleresca: in fondo, personaggi come Giulio Cesare o Alessandro Magno erano percepiti come grandi cavalieri antichi, allo stesso livello di grandezza d’animo e di virtù di Lancillotto o Tristano. In questa forma si diffuse la letteratura romanzesca e cavalleresca francese, che era così importante nella definizione dell’immaginario ‘cortese’: il Roman de Troie di Benoît de Sainte-Maure fu prima tradotto in latino da Guido delle Colonne nell’Historia destructionis Troiae, e poi in fiorentino dal notaio Filippo Ceffi (1324); e sulla stessa materia fu composta un’Istorietta troiana alla fine del Duecento, e poi a Siena un altro volgarizzamento ad opera di Binduccio dello Scelto (1322). Li faits des Romains (sintesi di grandi autori antichi come Cesare, Sallustio, Svetonio, Lucano) furono tradotti nei Fatti di Cesare. Parallelamente si traducevano i romanzi del ciclo bretone, nel Tristano Riccardiano (in area umbro-aretina) e nella Tavola ritonda (Firenze). A Roma venne usato un vivace dialetto romanesco nella versione della Storia de Troia e de Roma,



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mentre Le miracole de Roma riprendevano la tradizione medievale dei Mirabilia Urbis, una specie di guida turistica del pellegrino che, giunto nella sede della Cristianità per venerare le reliquie di San Pietro, si lasciava affascinare anche dalle rovine grandiose della Roma antica. Solo in Veneto si continuò a usare, fino alla metà del Trecento, la lingua francese, per rielaborazioni e continuazioni di storie cavalleresche. La storia del passato poteva essere narrata, altrimenti, nella forma degli annali e delle cronache, originariamente in latino, in una forma di scrittura elaborata prima nelle grandi abbazie europee (Montecassino, Farfa, Novalesa ecc.), e poi promossa dai governi cittadini, per celebrare lo sviluppo delle nuove realtà urbane (ad esempio, Pisa e Genova). Vi si riflette la concezione medievale e cristiana della storia, come un processo lineare, guidato dalla Provvidenza divina, in cui si conoscono bene i punti di partenza (la Creazione prima, e la venuta di Cristo poi), e il punto di arrivo (il Giudizio Universale). Spazio e tempo sono contingenti, rispetto alla dimensione dell’eterno. L’annalista e il cronista, più che dare giudizi o tentare sintesi, si limitano a registrare gli eventi come essi si verificano, in linea progressiva. In genere la loro narrazione inizia sempre dall’origine biblica dei tempi, e si distende su un quadro universale, facendo riferimento anche ad eventi lontanissimi o leggendari, miracoli o fatti straordinari, giunti allo scrittore per tradizione orale. Nel quadro delle cronache latine del Duecento si distingue però la Chronica di Salimbene de Adam (Parma 1221-1288), un frate francescano che aveva sperato nella realizzazione delle profezie di Gioacchino, e che poi, disincantato, compose una cronaca contemporanea, in un latino molto personale, ‘grosso’, vicino al volgare, e allo stile dei giullari, in cui i personaggi del suo tempo vengono rappresentati con tratti realistici e talvolta ‘comici’. La cronaca municipale in volgare si sviluppa soprattutto in Toscana, con la Cronichetta lucchese e la Cronichetta pisana, La sconfitta di Monte Aperto, i Gesta florentinorum (1245), l’Istoria fiorentina di Ricordano Malaspina (1282), e la Cronica fiorentina (1303). Su tutti questi testi spicca la forte personalità di Dino Compagni (Firenze 1260-1324), un ricco borghese fiorentino di parte guelfa, membro della potente Arte della Seta, e fautore delle leggi antinobiliari di Giano della Bella. Travolto anche lui dalle lotte fra Bianchi e Neri, che portarono all’ingerenza esterna di Bonifacio VIII e alla vittoria dei Neri, il Compagni nutrì nuove speranze di riscatto (come Dante) con la discesa in Italia dell’imperatore Arrigo VII, e scrisse allora una specie di memoriale del suo tempo. Superando lo schema annalistico, la Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi (1310-1312) non era una cronaca impersonale e anonima, ma

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la testimonianza di eventi vissuti in prima persona, in uno stile diretto e talvolta violento che è espressione della passione politica dell’autore. La narrativa ‘breve’ nel Medioevo si basava sulla tradizione degli exempla: aneddoti della vita di grandi uomini, significativi per l’aspetto morale, e quindi considerati come paradigmi, come portatori di valori assoluti. Gli Antichi se ne servivano come bagaglio di luoghi comuni, nell’ambito della retorica, e tendevano alla compilazione di raccolte come quella di Valerio Massimo. Tra le più diffuse collezioni medievali era la Disciplina clericalis (‘ammaestramento del chierico’) dello spagnolo Pietro Alfonso (sec. XII). Anche la letteratura agiografica (le vite dei santi, come la Legenda aurea di Iacopo da Varazze) e la predicazione si fondavano sull’uso sistematico di exempla. Come per la narrativa ‘lunga’, anche per la narrativa ‘breve’ fu importante il ruolo dei volgarizzamenti. La destinazione ad un pubblico laico fa preferire, ai santi cristiani, le figure esemplari degli antichi filosofi (i Savi), di imperatori e cavalieri. Uno dei grandi serbatoi enciclopedici della cultura medievale, lo Speculum historiale (‘specchio della storia’) di Vincenzo di Beauvais (11901264), fu condensato nei Fiori e vita di filosafi e d’altri savi e d’imperatori (ca. 1270-1275). Testi classici e cavallereschi servirono alla compilazione delle venti storie dei Conti di antichi cavalieri (Arezzo, ca. 1290) in cui sono posti allo stesso livello eroi antichi, cavalieri moderni, e perfino eroi del mondo musulmano. Il testo più singolare è però il Libro dei Sette Savi (ca. 1290), volgarizzamento toscano di un testo francese a sua volta tradotto da un testo latino, derivato da un originale arabo. In una cornice di origine orientale, un principe viene accusato ingiustamente dalla perfida matrigna, che racconta sette storie sul tema del tradimento dei figli; le rispondono sette sapienti con altrettante novelle sulla falsità delle donne, fino a dimostrare l’innocenza del principe e a far condannare la donna. Da tutte queste esperienze fu elaborata, a Firenze alla fine del secolo, la più importante raccolta narrativa del Duecento, il Libro di novelle e di bel parlar gentile (così il titolo nel manoscritto più antico; ribattezzato Le ciento novelle antike nella prima edizione curata da Carlo Gualteruzzi nel 1525; e poi Novellino da Giovanni Della Casa). Già nel titolo compare il termine ‘novella’, che, derivato dal latino, poteva assumere il significato di ‘cosa nuova, recente’, ‘notizia’, e quindi di ‘racconto veritiero di qualcosa accaduto recentemente’. È la nascita di un nuovo genere, che comincia a superare la tradizione degli exempla. L’autore sintetizza il contenuto del ‘libro’ in questo modo: “Questo libro tratta d’alquanti fiori di parlare, di belle cortesie e di be’ risposi, di belle valentie e doni”. Gli episodi raccontati sono condensati intorno ad un nucleo



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in cui risaltano due aspetti: da una parte la manifestazione esteriore della ‘cortesia’, dall’altra l’uso della parola, in ‘fiori di parlare’, e in belle risposte, in motti in cui si dimostra l’intelligenza e la sagacia dei personaggi. I quali, a loro volta, possono appartenere all’orizzonte cavalleresco, sia leggendario che storico (Lancillotto e Tristano, Carlo Magno, e il moderno imperatore Federico II, il feroce Ezzelino da Romano, e perfino l’arabo Saladino, modello di virtù e magnanimità), ma anche a quello borghese-cittadino, di cui fanno parte l’autore e il suo pubblico. Virtù cortesi, dunque, e intelligenza borghese, espressi in una lingua media più vicina all’uso del parlato. Per dare velocità alla narrazione ‘breve’, la sintassi è dominata dalla paratassi, dalla sintesi, dall’ellissi, con un effetto di condensazione che permette ormai a questa prosa di scorrere leggera, senza la pesantezza latineggiante della prosa d’arte e dei volgarizzamenti. Altra forma di narratio brevis comune nel Medioevo è quella delle favole degli animali, anch’esse dotate di valore esemplare, proiezione della vita di relazione tra gli uomini. Nell’immaginario collettivo, il mondo degli animali rinvia allegoricamente al mondo morale, dal momento che ogni animale può simboleggiare una realtà morale: il leone il coraggio ma anche la prepotenza, la volpe l’astuzia, la colomba la lussuria, e così via. Alcuni animali avevano contorni incerti e favolosi, perché nessuno li aveva mai visti dal vivo, come gli elefanti o le tigri. Altri non esistevano affatto, ma la gente era comunque sicura della loro esistenza: il micidiale basilisco, che uccideva con la vista, la salamandra che si nutriva di fuoco, la fenice che moriva bruciando e risorgeva dalla cenere. Tutte queste note furono già raccolte, alla fine dell’antichità, nel testo greco del Physiologus, da cui si originarono i bestiari latini medievali, fino alle versioni volgari, nel Bestiario toscano, nel Libro della natura degli animali (1290), e nel Fiore di Virtù (Bologna, ca. 1320). La meraviglia nei confronti di un mondo che cominciava ad aprirsi alla conoscenza si avverte nel Libro della composizione del mondo di Ristoro d’Arezzo (1282), che si impegna nella divulgazione in volgare dei rudimenti di filosofia naturale contenuti nelle enciclopedie medievali. I primi grandi viaggi compiuti da Francescani in Oriente sono raccontati da Giovanni da Pian del Càrpine nell’Historia Mongolorum (1245-1247), e da Odorico da Pordenone nella Relazione del viaggio in Oriente e in Cina (1330). L’esperienza più significativa fu quella di un mercante veneziano, Marco Polo (Venezia 1254-1324), andato in Cina col padre Niccolò e lo zio Matteo all’epoca di Kublai Khan (1271-1295). Tornato in Italia, Marco fu catturato a Curzola dai Genovesi, che lo imprigionarono a Genova (1298). Lì ebbe la ventura

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di incontrare un altro prigioniero, Rustichello da Pisa (scrittore in lingua francese di un Roman de Roi Artus), che cominciò a scrivere sotto dettatura le straordinarie avventure vissute da Marco nel corso dei suoi viaggi. Ne scaturì uno dei libri più belli della letteratura italiana delle origini (in effetti opera di Rustichello), composto prima in francese col titolo Le divisament su monde o Livre des merveilles dou monde, e tradotto poi in veneziano, e in toscano, col titolo Milione (dal soprannome familiare dei Polo, Emilione). L’esperienza del meraviglioso è qui vissuta in presa diretta, rispetto alle cronache o ai romanzi. Marco passa attraverso mondi diversi, prima conosciuti solo in modo favoloso: il Medio Oriente, l’India, e soprattutto la Cina, la cui antica civiltà entrava per la prima volta in contatto con l’Occidente europeo.

Bibliografia 3.1. La poesia della corte imperiale. Testo di riferimento per la poesia del Duecento è stata nel secondo Novecento l’antologia curata da G. Contini, Poeti del Duecento, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960. I testi dei primi ‘canzonieri’ del Duecento sono ora pubblicati in edizione critica in Concordanze della lingua poetica italiana delle origini (CLPIO), a c. di d’A.S. Avalle, Milano-Napoli, Ricciardi, 1992; I canzonieri della lirica italiana delle origini, a c. di L. Leonardi, Firenze, SISMEL, 2000-2001. In generale, sull’esperienza poetica del XIII secolo: d’A.S. Avalle, Ai luoghi di delizia pieni. Saggio sulla lirica italiana del XIII secolo, Milano-Napoli, Ricciardi, 1977; M. Santagata, Dal sonetto al ‘canzoniere’. Ricerche sulla preistoria e la costruzione di un genere, Padova, Liviana, 1989; C. Giunta, Versi a un destinatario. Saggio sulla poesia italiana del Medioevo, Bologna, Il Mulino, 2002; Id., Codici. Saggi sulla poesia del Medioevo, Bologna, Il Mulino, 2005. Sintesi storica fino alla fine del Trecento: S. Carrai – G. Inglese, La letteratura italiana del Medioevo, Roma, Carocci, 2003. Altra antologia curata da Contini: Letteratura italiana delle origini, Firenze, Sansoni, 1970. Sui poeti della corte imperiale, basti ora rinviare alla nuova edizione dei Meridiani: Poeti della Scuola Siciliana, voll. I e II, a c. di R. Antonelli e C. Di Girolamo, Milano, Mondadori, 2008. Cfr. V. Formentin, Poesia italiana delle origini. Storia linguistica italiana, Roma, Carocci, 2007. 3.2. Gli Ordini mendicanti. Una raccolta di testi di predicazione in Racconti esemplari di predicatori del Due e Trecento, a c. di G. Varanini e G. Baldassarri, Roma, Salerno, 1993. Cfr. L. Bolzoni, La rete delle immagini. Predicazione in volgare dalle origini a Bernardino da Siena, Torino, Einaudi, 2002. Sulla figura di san Francesco: R. Manselli, San Francesco, Roma, Bulzoni, 1982; C.



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Frugoni, Vita di un uomo: Francesco d’Assisi, Torino, Einaudi, 2005. I testi di Francesco e della prima tradizione francescana in Francesco d’Assisi, Gli scritti e la leggenda, a c. di G. Petrocchi, Milano, Rusconi, 1983; Letteratura francescana, a c. di C. Leonardi, Milano, Mondadori, 2004-2005. Sulle origini del teatro medievale: A. D’Ancona, Origini del teatro in Italia. Studi sulle sacre rappresentazioni, Firenze, Le Monnier, 1891 (II ed.); P. Toschi, Le origini del teatro italiano. Origini rituali della rappresentazione popolare in Italia, Torino, Boringhieri, 1955; L. Allegri, Teatro e spettacolo nel Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 1988; Teatro medievale, a c. di J. Drumbl, Bologna, Il Mulino, 1989. Sulla letteratura mistica: Mistici del Duecento e del Trecento, a c. di A. Levasti, Milano, Rizzoli, 1935; Scrittrici mistiche italiane, a c. di G. Pozzi e C. Leonardi, Genova, Marietti, 1988. 3.3. La poesia comunale toscana. Per i testi, oltre all’antologia di Contini (cit. in 3.1), v. Poeti della Scuola Siciliana, vol. III, a c. di R. Coluccia, Milano, Mondadori, 2008. Cfr. C. Giunta, La poesia italiana nell’età di Dante. La linea Bonagiunta-Guinizzelli, Bologna, Il Mulino, 1998. 3.4. La poesia lirica ‘nuova’ da Bologna a Firenze. Una raccolta complessiva in Poeti del Dolce stil nuovo, a c. di M. Marti, Firenze, Le Monnier, 1969; un’antologia recente in I rimatori del Dolce stil novo, a c. di G. R. Ceriello, Milano, Rizzoli, 2003. Sul cosiddetto ‘Stil nuovo’: M. Marti, Storia dello Stil nuovo, Lecce, Milella, 1973; G. Favati, Inchiesta sul Dolce stil nuovo, Firenze, Le Monnier, 1975. - G. Guinizzelli, Rime, a c. di L. Rossi, Torino, Einaudi, 2002. Cfr. P. Pelosi, Guido Guinizelli: stilnovo inquieto, Napoli, Liguori, 2000; A. Gagliardi, Guinizzelli, Dante, Petrarca. L’inquietudine del poeta, Alessandria, Dell’Orso, 2003; Da Guido Guinizzelli a Dante. Nuove prospettive sulla lirica del Duecento, a c. di F. Brugnolo e G. Peron, Padova, Il Poligrafo, 2004; P. Borsa, La nuova poesia di Guido Guinizelli, Firenze, Cadmo, 2007. - G. Cavalcanti, Rime, a c. di D. De Robertis, Torino, Einaudi, 1986. Cfr. C. Calenda, Per altezza d’ingegno. Saggio su Guido Cavalcanti, Napoli, Liguori, 1976; E. Fenzi, La canzone d’amore di Guido Cavalcanti e i suoi commenti, Genova, Il Melangolo, 2000; A. Gagliardi, Guido Cavalcanti. Poesia e filosofia, Alessandria, Dell’Orso, 2001; M.L. Ardizzone, Guido Cavalcanti. L’altro Medioevo, Firenze, Cadmo, 2006. 3.5. La poesia comica. Per i testi: Poeti giocosi del tempo di Dante, a c. di M. Marti, Milano, Rizzoli, 1956; Rimatori comico-realistici del Due e Trecento, a c. di M. Vitale, Torino, UTET, 1956. Cfr. M. Marti, Cultura e stile nei poeti giocosi del tempo di Dante, Pisa, Nistri-Lischi, 1953.

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3.6. La poesia allegorica e didascalica. - B. Latini, Tresor, a c. di P. Squillacioti, P. Torri e S. Vatteroni, Torino, Einaudi, 2007; Id., Il tesoretto, Milano, Rizzoli, 1985. - Il Fiore e il Detto d’Amore attribuibili a Dante Alighieri, a c. di G. Contini, Milano, Mondadori, 1984; Il fiore – Detto d’Amore, a c. di L.C. Rossi, Milano, Mondadori, 1996. Cfr. Il Fiore in context, ed. Z.G. ����������������������������������������������� Baranski – P. Boyde, Nôtre Dame – London, University of Nôtre Dame, 1997. 3.7. La lauda. Edizioni di Laudari: R. Bettarini, Iacopone e il Laudario Urbinate, Firenze, Sansoni, 1969; Laude cortonesi dal secolo XIII al XV, a c. di G. Varanini, L. Banfi e A. Cerruti Burgio, Firenze, Olschki, 1981; Laudario di Cortona, a c. di C. Terni, Spoleto, CISAM, 1992; Il Laudario di Cortona, ed. crit. a c. di A.M. Guarnieri, Spoleto, CISAM, 1991. Altre edizioni di singoli Laudari sono pubblicate da Olschki (Firenze). Cfr. F. Mancini, Il tempo della gioia. Un’interpretazione del Laudario di Cortona, Roma, Archivio Guido Izzi, 1996. Edizioni di Iacopone: Iacopone da Todi, Laudi, Trattato e detti, a c. di F. Ageno, Firenze, Le Monnier, 1953; Id., Laude, a c. di F. Mancini (1974), Roma-Bari, Laterza, 2006; E. Menestò, Le prose latine attribuite a Jacopone, Bologna, Pàtron, 1979; Iacopone da Todi e la poesia religiosa del Duecento, a c. di P. Canettieri, Milano, Rizzoli, 2001. Sulla figura di Iacopone: F. Suitner, Iacopone da Todi. Poesia, mistica, rivolta nell’Italia del medioevo, Roma, Donzelli, 1999; Iacopone da Todi. Atti del XXXVII Convegno storico internazionale (Todi 8-11 ottobre 2000), Spoleto, CISAM, 2001; Iacopone poeta, a c. di F. Suitner, Roma, Bulzoni, 2007. 3.8. La prosa. Studio fondamentale sulla prosa d’arte delle origini, il cursus e gli ‘stili’: A. Schiaffini, Tradizione e poesia nella prosa d’arte italiana dalla latinità medievale a G. Boccaccio, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1943. Sulla lingua: M. Dardano, Lingua e tecnica narrativa nel Duecento, Roma, Bulzoni, 1969. Testi antologici: La prosa del Duecento, a c. di M. Marti e C. Segre, Milano-Napoli, Ricciardi, 1959; La prosa del Duecento e del Trecento, a c. di C. Bologna, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 2005. Cfr. C. Segre, Lingua, stile e società (cit. in 0); G. Folena, Volgarizzare e tradurre, Torino, Einaudi, 1994. Un’antologia recente delle cronache del Duecento in Cronisti medievali, a c. di G.E. Sansone, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 2003. Sulla novellistica e la letteratura esemplare: C. Bremond, J. Le Goff, J.-C. Schmitt, L’exemplum, Turnhout, Brepols, 1982; D. Delcorno, Exemplum e letteratura. Tra Medioevo e Rinascimento, Bologna, Il Mulino, 1989; S. Battaglia, Capitoli per una storia della novellistica italiana. Dalle origini al Cinquecento, a c. e con introduzione di V. Russo, Napoli, Liguori, 1993; “Favole parabole istorie”. Le forme della scrittura novelli-



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stica dal Medioevo al Rinascimento, a c. di G. Albanese, L. Battaglia Ricci e R. Bessi, Roma, Salerno, 2000. - Il Novellino, a c. di G. Favati, Genova, Bozzi, 1970; Il Novellino, a c. di A. Conte, Roma, Salerno, 2001; Il Novellino, a c. di V. Mouchet, intr. di L. Battaglia Ricci, Milano, Rizzoli, 2008. - M. Polo, Il Milione, a c. di G. Ronchi, intr. di C. Segre (1982), Milano, Mondadori, 2007.

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4.1. La vita Nel 1265 nasce a Firenze Durante di Alagherio, detto Dante (1265-1321). Appartiene ad una piccola nobiltà cittadina non tanto benestante: il titolo di ‘cavaliere’ se l’era conquistato il trisavolo Cacciaguida, insignito dall’imperatore Corrado III per la sua partecipazione ad una crociata. Ma alla metà del Duecento le condizioni economiche della famiglia non erano tra le più splendenti: il padre Alagherio si occupa di piccoli traffici finanziari (non convenienti ad un nobile), e qualcuno dice anche di usura. Il giovane Dante sposa una ragazza della potente famiglia dei Donati, Gemma, da cui avrà tre o quattro figli (due di essi, Pietro e Iacopo, saranno devoti alla memoria del padre anche dopo la sua morte, e si dedicheranno alla diffusione e al commento della Commedia; e la figlia Antonia diventerà una religiosa, col nome di suor Beatrice). È un periodo di studio e di formazione, legato da una parte alla figura autorevole, quasi paterna, di Brunetto Latini, e dall’altra al grande amico della giovinezza, il più maturo Guido Cavalcanti, esperto in pratica della poesia, e inserito nella raffinata vita delle classi dominanti a Firenze. In questi anni si colloca forse un soggiorno a Bologna tra 1286 e 1287, per studi di filosofia o medicina. Ma soprattutto, nel 1283, sarebbe avvenuto l’incontro con la diciottenne Beatrice di Folco Portinari, già sposa di Simone de’ Bardi (e allora Dante era già promesso sposo di Gemma): ne nasce, da parte di Dante, un amore intenso ma tutto interiore, che verrà raccontato, dopo la precoce scomparsa della donna (1290), nella Vita nuova. Dante cerca di conquistarsi un posto nella vita della sua città, andando anche a combattere, nella guerra contro gli aretini, alla battaglia di Campaldino l’11 giugno 1289, dove si batte come ‘feditore a cavallo’, e poi il 16 agosto a Caprona contro i pisani. Negli anni Novanta riprende gli studi dei classici e dei filosofi, frequentando i conventi di Santa Croce (Francescani) e

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Santa Maria Novella (Domenicani). Nel 1293 Giano della Bella promulga gli Ordinamenti di giustizia che escludono dalla partecipazione alla vita politica i nobili, in quanto estranei alle Arti, alle corporazioni di mercanti e artigiani che governavano di fatto la città. Ma Dante riesce ad eludere il divieto, facendo valere le sue competenze di ‘filosofo’ per iscriversi nel 1295 all’Arte dei medici e degli speziali. Può allora prendere parte a diverse assemblee cittadine, in una carriera che culmina con l’elezione a priore per il periodo 15 giugno – 15 agosto 1300. Negli scontri fra Bianchi e Neri Dante aveva cercato una politica d’equilibrio, e quando fu priore, di fronte a più gravi episodi di violenza, non esitò a firmare un decreto d’esilio per i più faziosi: il potente capo dei Neri, Corso Donati, e addirittura l’antico amico Guido, partigiano dei Bianchi, che morirà di febbri in esilio. Dante continua ad operare per la fine delle rivalità, e in particolare si scaglia contro le ingerenze esterne del papa Bonifacio VIII, che parteggia apertamente per i Neri. Nell’ottobre 1301 partecipa ad un’ambasceria al papa, che però, approfittando della situazione, invia il suo emissario Carlo di Valois a Firenze (1° novembre), che favorisce la vittoria dei Neri. È il momento delle vendette. Dante, che stava tornando a Firenze da Roma, è colpito da una condanna a due anni di esilio per ‘baratteria’ (17 gennaio 1302), cioè per corruzione nei pubblici uffici, amarissima accusa per chi aveva sempre operato con la massima rettitudine. Avendo pensato bene di non rientrare a Firenze, viene ulteriormente condannato a morte e alla confisca totale dei beni. È la catastrofe, umana ed esistenziale. Dante e la sua famiglia saranno costretti a vagabondare per l’Italia, cercando rifugio presso signori ospitali e benevoli, ma che comunque non possono surrogare all’esule la mancanza della sua vera patria, della sua casa. Il primo esilio si consuma forse alle porte di Firenze, nel Mugello, poi presso grandi signori ghibellini del Nord Italia, come Scarpetta Ordelaffi a Forlì, e Bartolomeo della Scala a Verona. Nell’illusione di una possibile pacificazione dopo la morte di Bonifacio VIII scrive nel 1304 al cardinale Niccolò da Prato; e si allontana dalla faziosità dei Bianchi, dopo la sanguinosa sconfitta di questi nella battaglia della Lastra. Riprende il peregrinare senza sosta: nel centro ghibellino di Treviso, in Lunigiana presso il guelfo Moroello Malaspina, in Casentino e a Poppi presso il conte Guido di Battifolle e i conti Guidi di Romena, a Lucca, forse a Parigi. La speranza di un riscatto si riaccende con la venuta in Italia del nuovo imperatore Arrigo VII di Lussemburgo (1310), ma crolla ben presto con la sua morte (1313). A Firenze, intanto, Dante era stato escluso dall’amnistia del 1311, ma incluso in quella del 1315, purché pagasse una multa. Per Dante, dopo tutto quello che aveva sofferto, era veramente troppo: il pagamento della multa



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avrebbe comunque significato un’ammissione di colpa, e quindi egli rispose sdegnosamente con una lettera ad un amico fiorentino (Epistola XII), lettera che ebbe come conseguenza la conferma della condanna a morte. Non restavano a Dante che gli ultimi rifugi di Verona, presso Cangrande della Scala (1312-1318); e di Ravenna, presso Guido Novello da Polenta, dove la morte lo colse, il 14 settembre del 1321.

4.2. Rime della giovinezza Il giovane Dante inizia a scrivere poesie sparse sotto l’influenza di Guittone prima, e di Guido Cavalcanti poi. Uno dei suoi primi testi, scritto in seguito all’incontro con Beatrice, il sonetto A ciascun’alma presa e gentil core (1283), è inviato agli altri rimatori fiorentini, una sorta di autopresentazione, alla quale, tra gli altri, risponde Guido, con un sonetto che segna l’accettazione di Dante nella cerchia elitaria degli amici di Guido. Dante è molto legato al ‘gruppo’, alla brigata dei giovani poeti, e vi predilige una leggerezza un po’ manierista. Nel sonetto Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io sogna ad esempio di trovarsi, per magia, su una barca, insieme agli amici Lapo Gianni e Guido e le loro tre donne, in un’atmosfera rarefatta e cortese, in un sogno di isolamento dalla realtà (simile a quello che avrebbe vagheggiato Folgòre). Ed una simile atmosfera si avverte nella ballata Per una ghirlandetta. Per le belle donne di Firenze scrive un sirventese (ora perduto) in cui il nome di Beatrice si trova singolarmente al nono posto. In ogni caso, l’adesione al club di Guido comporta l’adesione ai moduli della poesia ‘nuova’, e l’allontanamento da tentazioni guittoniane, o realistiche. È quanto si rende evidente nell’omaggio esplicito al Guinizzelli, “Amore e ’l cor gentil sono una cosa / sì come il saggio in suo dittare pone”, con la citazione di Al cor gentile, e la definizione del suo autore come ‘saggio’, sapiente nella dottrina d’amore (nel Purgatorio, trent’anni dopo, lo chiamerà “padre / mio e dell’altri miei miglior che mai / rime d’amor usar dolci e leggiadre”: Pg. XXVI, 97-99). Forse studente a Bologna, compone il sonetto Non mi poriano già mai fare ammenda, che compare in un memoriale bolognese già nel 1287. Il salto di qualità avverrà proprio con l’evoluzione delle poesie dedicate a Beatrice, che saranno ad un certo punto consacrate alla sua lode esclusiva, lode che da sola può appagare il poeta, anche in condizione di assenza della donna, o di rifiuto del suo saluto. Lo ‘stilo della loda’ viene inaugurato da una grande canzone, Donne ch’avete intelletto d’amore, che determina anche un primo allontanamento dalle posizioni di Cavalcanti. L’amore non è potenzialmente distruttivo o negativo, come fenomeno

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che interessa l’anima irrazionale, ma al contrario è nobilitante (secondo la tradizione cortese), e addirittura ‘beatificante’, via di beatitudine, di ascesa spirituale, di purificazione. A distanza di quasi trent’anni, un Dante maturo, alla fine del Purgatorio (nel canto XXIV), guardò indietro, alla sua vita e alle rime della sua giovinezza, e volle definire il momento preciso in cui la sua poesia cambiò, rispetto a quella di Guido e di tutti gli altri poeti che erano venuti prima di lui. Era un modo di chiudere i conti con una fase della sua esistenza, prima del nuovo incontro con Beatrice nel Paradiso Terrestre, e l’ascesa al Paradiso. Di più, ebbe l’idea geniale di far pronunciare questo giudizio proprio a colui che era considerato l’iniziatore della poesia toscana in volgare, anello di congiunzione con i poeti fredericiani e quindi con i provenzali, il lucchese Bonagiunta Orbicciani. Nel loro incontro, Bonagiunta riconosce Dante come colui che iniziò le “nove rime” con Donne ch’avete intelletto d’amore (vv. 50-51), e, dopo la dichiarazione di poetica di Dante, fondata su una poesia ispirata direttamente da Amore, e della quale il poeta si fa umile scriba ed interprete (vv. 52-54: “I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando”), erompe nel grido di agnizione: “O frate – diss’elli – issa vegg’io il nodo / che l’Notaro e Guittone e me ritenne / di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo” (vv. 55-57). Chiarissima è dunque l’idea di Dante, che la sua originale interpretazione della lirica cortese, inaugurata da Donne ch’avete intelletto d’amore, abbia segnato un netto superamento della tradizione precedente. Bonagiunta può parlare solo della sua generazione, e di quella a lui precedente (i fredericiani), ma è chiaro che il ‘dolce stil novo’ di Dante segna uno stacco stilistico incolmabile anche nei confronti di Guido e dei suoi amici. Un complesso di risultati formali giocati nella metrica e nella tessitura di immagini e figure (‘stile’), basato sulla ricerca di valori di musicalità ed equilibrio ritmico e fonico (‘dolce’), ma assolutamente rinnovato (‘nuovo’, in senso biblico, paolino) nell’ispirazione e nei contenuti, che guardano ad una Beatrice salvifica e spirituale. Il ‘dolce stil novo’ è dunque la fase della poesia dantesca che va dalla composizione della canzone-manifesto Donne ch’avete alla conclusione della Vita nuova. Una fase dalla quale, secondo Dante, Guido era definitivamente escluso.

4.3. Vita nuova Qualche anno dopo la morte di Beatrice (1290), e precisamente verso il 1293, Dante pensò di raccogliere quasi tutta la produzione poetica legata alla donna, e di farne un ‘libro’, di unire quei testi poetici in una struttura unitaria, che



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rendesse conto di una ‘storia’, la storia della sua giovinezza, del suo amore, e soprattutto della sua poesia. Quel ‘libro’ non poteva farsi nella semplice forma del ‘canzoniere’, del ‘libro’ di sole rime. Troppi erano gli elementi extratestuali che Dante voleva ancora comunicare, e talvolta sovrabbondante la stratificazione di significati che quei testi avevano ormai assunto per lui, da quando aveva iniziato le “nove rime”. In un certo senso, aveva bisogno di raccontare agli altri anche perché erano nati quei testi, in quali situazioni, in quali condizioni della sua anima e del suo corpo. Serviva un’esegesi, un’interpretazione autentica, simile a quella che i teologi applicavano sui testi sacri: e testi sacri erano, per Dante, le poesie per la sua Beatrice. Fu così che nacque la Vita nuova (che, nell’accezione dantesca, significa appunto ‘vita della giovinezza’). La struttura è quella del prosimetro, in cui 31 testi poetici dal 1283 al 1291 (25 sonetti, 4 canzoni, una stanza isolata, e una ballata) si dispongono in una cornice unitaria di testi in prosa, di solito tra una prosa narrativa, e una ‘divisione’, cioè una spiegazione scolastica delle parti del componimento. È evidente l’influenza del modello di Boezio (il De consolatione Philosophiae era un prosimetro, dal forte carattere autobiografico, ripreso ad esempio nella poesia latina medievale dall’Elegia de diversitate fortunae di Arrigo da Settimello, 1193), ma soprattutto dei manoscritti provenzali, in cui le poesie dei trovatori erano accompagnati da parti in prosa con il racconto della loro vita (vida) e l’interpretazione del testo (razo). Straordinaria, da parte di Dante, è la scelta di fare il racconto in prima persona. La scrittura autobiografica non era molto frequente nel Medioevo, perché il parlare di sé poteva essere segno di egoismo e superbia. Pure non mancavano esempi illustri, dalle Confessioni di Agostino all’Historia calamitatum mearum di Abelardo. In realtà, la Vita nuova non è né un’autobiografia di Dante, né un romanzo d’amore, ma un’opera molto più complessa, in cui si sovrappongono riferimenti alle scritture profetiche e apocalittiche, ai Vangeli (con l’insistita equivalenza Beatrice-Cristo), all’agiografia (tanto che si è potuto vedere in questo testo anche una Legenda Sancte Beatricis). E, in più, è anche l’occasione di esibire una cultura personale, faticosamente formata da Dante sui classici latini (gli stessi amati e insegnati da ser Brunetto: Cicerone, Virgilio, Ovidio) e sulla Bibbia (il Cantico dei Cantici, Geremia, l’Apocalisse); testi da cui si era allontanato Cavalcanti, che seguiva piuttosto i filosofi d’avanguardia. Dall’esegesi biblica medievale veniva infine il ricorso alla numerologia, che è strumento interpretativo profondo dei rapporti tra le cose e gli eventi, e non semplice simbologia. Beatrice è sempre associata al numero nove (segno di assoluta perfezione, perché prodotto del 3, numero della Trinità, per se stesso), perché, secondo Dante, è veramente quel numero, cioè un angelo, una manifestazione sensibile della potenza divina.

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Nel proemio, metatestuale e metaforico, Dante finge di aprire un libro immateriale, il ‘libro della memoria’, e quasi all’inizio trova una ‘rubrica’, una titolazione che dice “Incipit vita nova”, in cui ritrova tutte le ‘parole’ della ‘vita nova’, della giovinezza: più che i ricordi, si tratta proprio delle ‘parole poetiche’, cioè delle poesie che ha scritto in quegli anni; e il suo proposito è allora quello di ricopiarle in un altro ‘libello’, di farsi scriba di se stesso. La narrazione inizia con il ricordo del primo incontro con Beatrice fanciulla a nove anni, che provoca un totale sommovimento degli ‘spiriti’, cioè delle varie facoltà dell’anima. Nove anni dopo, nel 1283, Dante diciottenne incontra di nuovo la ‘gentilissima’, e il suo ‘saluto’ scatena la fenomenologia d’amore, e provoca il primo grande sogno di Dante: l’apparizione di Amore e della donna, con l’immagine del cuore mangiato, e un primo presagio di morte, la figura di lei che viene portata in cielo dagli angeli. Al risveglio Dante scrive il suo primo sonetto, A ciascun alma presa e gentil core, in cui racconta brevemente il sogno, e lo invia ai suoi amici (i “fedeli d’Amore”) per chiederne spiegazione, in particolare a Guido (che risponde con Vedeste, al mio parere, onne valore: ma secondo Dante nessuno di loro capisce il vero significato del sogno, che contiene anche la profezia della morte di Beatrice). La volontà di tenere segreto il suo vero amore spinge Dante a simulare amore per un’altra donna, la ‘donna dello schermo’, e poi per una seconda ‘donna dello schermo’, cosa che provoca lo sdegno di Beatrice e la negazione del suo saluto (che, in senso guinizzelliano, solo poteva dare ‘salute’, cioè salvezza). Profonda è la crisi di Dante, superata solo con l’erompere dello ‘stilo della loda’ (del ‘dolce stil novo’), con la prima grande canzone Donne ch’avete intelletto d’amore, recupero del valore positivo dell’esperienza amorosa in una dedizione totale all’amata, qualunque sia il suo atteggiamento. È il rifiuto della visione negativa di Cavalcanti. Il testo è solenne anche dal punto di vista formale, essendo una canzone formata da stanze di 14 versi tutti endecasillabi (che sembrano quasi un sonetto). E significativo è il cambio di destinatario. Non più la donna amata, ma le ‘donne che hanno intelletto d’amore’, cioè un pubblico elitario in grado di intendere questa dottrina d’amore, per esperienza diretta e per conoscenza teorica. Dante non presume di arrivare alla perfezione della lode, ma almeno potrà ‘isfogar la mente’, con funzione liberatoria della propria angoscia e dell’ossessione amorosa. Il superamento di Cavalcanti avviene anche nel sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare. Il ‘saluto’ di Beatrice innesca una vera epifania, un’apparizione miracolosa (pare), in cui si rivela l’eccellenza della sua nobiltà interiore (gentile) e del suo decoro (onesta). Gli effetti sull’amato sono all’inizio annichilanti (come in Guido): la lingua trema e non riesce a proferire suono, gli occhi si abbassano; l’esperienza della dolcezza è ineffabile, indicibile, non



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comunicabile a chi non la prova, ma resta poi intensamente reale, come lo erano le esperienze mistiche; non è distruttiva, ma beatificante. La storia continua tra continui presagi di morte, dalla morte del padre di Beatrice ad una visione tragica modulata su immagini apocalittiche. La morte di Beatrice non viene raccontata, ma la data precisa (l’8 giugno 1290) fornisce a Dante l’occasione di una straordinaria digressione sulla misurazione del tempo e del calendario, in cui, ancora una volta, emerge la presenza magica del numero 9. Eppure, la memoria di Beatrice non basta a Dante, che viene traviato da una ‘donna gentile’ due anni dopo, e richiamato all’ordine da una nuova visione di Beatrice, che alla fine gli appare in una ‘mirabile visione’. Qui Dante si interrompe, ripromettendosi di trattarne in una nuova e più degna opera.

4.4. Rime della maturità Probabilmente già con l’avvio delle “nove rime” Dante si allontanò da Guido, che lo criticò nel sonetto I’ vegno ’l giorno a te infinite volte. Ma anche l’esperienza di quel “dolce stil novo” era destinata a finire, con il ritorno di Dante allo stile comico, in uno scambio di sonetti con Cecco Angiolieri (non ci sono conservati i testi di Dante, ma tre interessanti sonetti di Cecco sì), e soprattutto nella tenzone con Forese Donati, cioè una giocosa sfida di tre sonetti di Dante e di tre risposte di Forese, fratello di Corso Donati: tenzone ‘per le rime’, perché Forese riprende le stesse rime dei testi danteschi. Dante attribuisce a Forese impotenza sessuale, povertà, gola e falsità; Forese risponde con le accuse di vigliaccheria e avarizia (e velatamente di usura). In realtà, si tratta di temi convenzionali: ma è comunque per Dante un importante momento di sperimentazione, nell’uso di un lessico ‘basso’ e plebeo, e di rime difficili. Su questa nuova base formale Dante torna a rileggere l’eredità provenzale, ma nel registro arduo del trobar clus, rappresentato per lui dal trovatore Arnaut Daniel. L’occasione si presenta fra 1296 e 1298, in margine ad un episodio di forte passione erotica per una donna ‘impossibile’, che lo respinge ed è insensibile come una ‘pietra’ (ma è del tutto incerto se l’episodio abbia una qualche realtà biografica). Dalla crudele ‘donna-pietra’ queste poesie prendono quindi il nome di rime petrose: appena quattro componimenti, che però portano ai massimi livelli lo sperimentalismo metrico dantesco. Nella prima canzone, Così nel mio parlar voglio esser aspro, si descrive l’amore per la ‘donna petra’, con l’espressione del desiderio di vendetta e di un

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vivace immaginario sadico. Nell’altra canzone, Io son venuto al punto della rota, la negativa condizione esistenziale si proietta su uno sfondo cosmicoastronomico, sulla natura ‘morta’ dell’inverno, su un mondo di gelo che è il correlativo oggettivo del gelo, della morte dell’anima. Il livello più alto è raggiunto in Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra, in cui (per la prima volta nella poesia italiana) Dante usa il difficile metro della sestina, riprendendolo da Lo ferm voler di Arnaut: sei stanze di sei endecasillabi l’una, e un congedo di tre versi, per un totale di 36 versi; e in ogni stanza sei parole-rima, che tornano uguali, ma cambiando di posto, seguendo uno schema ricorrente (la cosiddetta retrogradatio cruciata: ABCDEF > FAEBDC). Una ‘danza’ di rime, il cui movimento disegna mirabilmente, ancora una volta, il numero 6: una forma di poesia figurata, in cui la figura visiva, dinamica e non statica, appare nel suo farsi. Si tratta quindi di un componimento fondato sull’iterazione magica del numero 6, che ha un valore negativo, rovesciato, rispetto al 9 di Beatrice, e può ben significare il momento di crisi spirituale ed esistenziale, l’inverno e la ‘pietrificazione’ del cuore, la terra desolata, in cui Dante sente di essere arrivato, in questa fase della sua vita. L’uso della parola-rima si fa più difficile nella sestina doppia Amor tu vedi ben che questa donna, in cui le parole-rima sono solo cinque (donna, tempo, luce, freddo, petra). È evidente che il martellamento e la ripetizione della stessa parola porta ad un’esplorazione di tutte le sue possibilità semantiche, un esercizio che darà a Dante la padronanza di quegli strumenti formali necessari alla composizione della sua opera maggiore. Negli anni successivi Dante sarebbe tornato sporadicamente alla composizione di rime. Nel periodo iniziale dell’esilio, forse nel 1304, compose la canzone Tre donne intorno al cor mi son venute, in cui appaiono al poeta tre donne che sono altrettante personificazioni della Giustizia: ed il tema della giustizia si lega all’acuta sofferenza di chi è stato vittima di un’ingiusta accusa di baratteria, e di una condanna all’esilio e alla morte. Un Dante amaramente ferito nella propria vicenda umana, che si proietta comunque al di fuori della sua sfera individuale, e cerca di essere cantor rectitudinis, poeta di alto impegno morale, come era stato, fra i provenzali, Guiraut de Bornhel. Ultima canzone isolata di Dante, nel 1307, fu Amor, da che convien pur ch’io mi doglia, detta la ‘montanina’, perché rinvia ad un paesaggio montano, alle valli fra i monti del Casentino, fra Pratomagno e Camaldoli, nel periodo in cui l’esule era ospite dei Conti Guidi. La ‘montanina’ segna un ritorno inaspettato alle ‘petrose’: Dante avrebbe incontrato, in un castello dei Conti Guidi, una bellissima e giovanissima nobildonna (forse della stessa famiglia



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comitale), che, sedottolo, lo avrebbe respinto con la stessa crudeltà della ‘donna-petra’. Su quest’ultima storia erotica si interrompono le rime. Dante non penserà nemmeno, ormai, a raccoglierle, in quello che avrebbe potuto essere un ‘canzoniere’. Oltre gli errori del passato (e del presente), tutte le sue energie intellettuali erano dedicate ora ad un’unica impresa: la Commedia.

4.5. Convivio Intorno al 1304 (dopo due anni di febbrile e vano vagabondare) Dante dovette convincersi che l’esilio sarebbe diventato la condizione dominante della sua vita, e che doveva trovare un’occasione di riscatto morale, di fronte alla sua città, e di fronte al mondo. Questo riscatto non poteva avvenire né su un piano politico né sociale, ma sull’unica ricchezza che la confisca dei beni gli aveva lasciato: la sua vasta formazione culturale, straordinaria per un laico, per un ‘dilettante’ di discipline filosofiche, solitamente professate da chierici e professori universitari. Dante, che non era un chierico, si era comunque avvicinato ai testi più avanzati della cultura medievale: Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, i grandi commenti ad Aristotele (alla Fisica, alla Metafisica, all’Etica, e poi al De anima, al De generatione animalium ecc.), ma anche i testi di Platone diponibili in traduzione latina (come il Timeo), Avicenna e Averroé, i filosofi delle scuole di Chartres e San Vittore, e della Sorbona, fino a Sigieri di Brabante, gli scrittori di astronomia, ottica, medicina, e naturalmente la Bibbia, e i grandi esegeti medievali come Bernardo di Chiaravalle. A tutto questo si aggiungeva la vasta cultura letteraria, che andava dai classici latini ai testi delle moderne letterature europee in volgare. Il progetto di Dante è allora molto chiaro: comunicare tutto questo suo sapere, nel modo più immediato possibile (e quindi in lingua volgare), come se fosse un ‘convito’ di vivande offerto agli uomini desiderosi di conoscenza, in un’opera che si intitola appunto Convivio. L’architettura dell’opera segue lo schema dell’enciclopedia medievale, nella forma del prosimetro, e della scrittura esegetica: all’inizio un proemio, poi 14 grandi canzoni dottrinali, ognuna delle quali doveva essere seguita da un libro di commento. È una sorta di continuazione della Vita nuova, dal momento che si interpreta l’apparizione della ‘donna gentile’ come l’apparizione della Filosofia (come in Boezio), simbolo della ripresa dello studio della filosofia dopo la morte di Beatrice. Il primo libro definisce le finalità dell’opera, la scelta del pubblico e della lingua, il volgare fiorentino: scelta coraggiosa, da parte di Dante, perché era la prima volta che il volgare era utilizzato per un’opera di divulgazione

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filosofica, solitamente riservata al latino (o al limite al più ‘nobile’ francese, come aveva fatto Brunetto nel Trésor). Il secondo libro, partendo dall’esposizione della canzone Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete (rivolta cioè agli angeli che muovono il terzo cielo, quello di Venere, che influenza gli spiriti amanti), si diffonde sul sistema del sapere medievale, nella scansione delle arti liberali, in trivio e quadrivio; e soprattutto chiarisce il metodo di interpretazione allegorica (derivato da Riccardo di San Vittore), secondo i 4 sensi delle scritture (letterale, allegorico, anagogico, morale). Il terzo libro, aperto dalla canzone Amor che nella mente mi ragiona (sul tema dell’ineffabilità per insufficienza di comprensione da parte della mente), si rivolge alla lode della ‘donna gentile’, cioè della Filosofia. Il quarto libro, commento della canzone Le dolci rime d’amor ch’i’ solìa, affronta il tema (fondamentale nella civiltà cortese) della nobiltà, considerata non prerogativa ereditaria o di sangue, ma dono divino da confermare con l’esercizio della virtù; e il discorso si allarga al tema della nobiltà dell’essere umano nell’ordine del creato, in una crescente ammirazione per le meraviglie della natura (come la nascita della vita e il concepimento del feto, atto di partecipazione all’azione creatrice di Dio). E qui, intorno al 1308, Dante si interruppe. Una parte della materia già affrontata era passata ad un altro progetto di opera sul volgare e sulla poetica (il De vulgari eloquentia). Ma soprattutto l’ansia di comunicazione del suo mondo interiore ed umano era ormai confluita, interamente, nel nuovo cantiere della Commedia. Il Convivio restava incompiuto al quarto libro, segnando comunque una grande conquista nella prosa volgare, anche rispetto alla Vita nuova: una più ampia e articolata architettura della frase, una maggiore chiarezza comunicativa (anche nell’uso frequente di similitudini tratte dalle vita quotidiana o dal mondo animale e naturale), con uno spettro stilistico che va dalla lingua parlata ai linguaggi specialistici della filosofia, della scienza e della medicina.

4.6. Le opere latine Iniziando nel Convivio la riflessione teorica sull’uso del volgare, Dante volle estenderla in un altro trattato, più o meno contemporaneo (1304), il De vulgari eloquentia, dedicato in particolare alla lingua della poesia, e stavolta scritto in latino. Concepita inizialmente in più libri, l’opera rimase interrotta al secondo libro, anche in questo caso, probabilmente, per il totale assorbimento del poeta nella scrittura della Commedia.



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Il primo libro tratta del rapporto di netta separazione tra latino (considerato lingua artificiale, grammaticale, secondaria) e volgare (lingua materna, primaria). Nella storia dell’umanità, secondo la Bibbia, la pluralità delle lingue è nata all’epoca della Torre di Babele, mentre in origine esisteva un unico linguaggio, quello parlato da Adamo, riflesso nella lingua sacra dell’ebraico. Tutte le altre lingue sono soggette ad un processo di metamorfosi nel tempo, analizzato da Dante fino ai tre volgari romanzi più vicini a lui, la lingua d’oc, d’oïl e di sì. Nella lingua di sì è possibile distinguere ulteriormente 14 varietà di dialetti, di lingue regionali o municipali, nessuna delle quali veramente superiore alle altre. Per Dante il volgare illustre può nascere non da una singola parlata, ma da un processo di innalzamento che coinvolge la prima tradizione letteraria grazie all’uso degli scrittori migliori, fino ad essere definito come ‘illustre’ (‘che dà luce’ alla lingua, e alla cultura che esprime), ‘cardinale’ (‘cardine’ dei vari volgari), ‘aulico’ (degno di essere usata in un’aula, cioè una reggia) e curiale (degno di una curia, di una corte di grandi uomini come era stata la Magna curia di Federico). Quindi, una lingua ideale, non ancora esistente, in una visione che punta al superamento delle particolarità municipali o regionali. Nel secondo libro s’inizia la trattazione del volgare come lingua della poesia, trattazione che però resta incompiuta, limitandosi alla struttura più ‘alta’, la canzone, in stile tragico. È il primo tentativo consapevole di storia della letteratura italiana, di sistemazione delle esperienze poetiche precedenti in una scansione di ‘scuole’: un filo rosso che va dai ‘siciliani’ (mediatori dei provenzali) direttamente a Guinizzelli, Cavalcanti, Dante e Cino, saltando e svalutando Guittone e gli altri. I contenuti più degni dello stile ‘alto’ saranno allora salus, venus, virtus, cui corrispondono i generi dell’epica, della lirica e della poesia della rettitudine. All’epoca della rinnovata speranza imperiale, legata ad Arrigo VII (13101313) si può datare la Monarchia, importante approfondimento del pensiero politico dantesco, parallelo all’elaborazione della Commedia. Il trattato, in tre libri, ribadisce all’inizio la necessità della monarchia universale, che nel secondo libro viene fatta coincidere con Roma e il suo impero, voluto dallo stesso Dio. Nel terzo libro si tratta il punto più scottante, il rapporto tra Chiesa e Impero. Per Dante, entrambe queste autorità derivano da Dio, ma sono diverse per funzione e per ambito di azione, governando il papa sulle cose dello spirito, e l’imperatore su quelle del mondo. I due massimi poteri del mondo medievale sono quindi come due astri che brillano nello stesso cielo, come il sole (il papa) e la luna (l’imperatore). Ne deriva la condanna

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senza appello di ogni forma di potere temporale dei papi, in quanto contaminazione di sfera spirituale e sfera mondana; e viene parimenti criticata, e considerata nulla, la celebre Donazione di Costantino (un documento medievale apocrifo in cui Roma sarebbe stata donata al papa: ma Dante ancora lo credeva autentico). Inutile aggiungere che la Monarchia fu subito condannata da papa Giovanni XXII, e Dante considerato un eretico. Negli anni dell’esilio Dante si servì dello strumento di comunicazione delle lettere, scritte in latino, e di solito nella forma della lettera ‘pubblica’, rivolta a più destinatari, pezzo retoricamente elaborato (con ampio uso di figure retoriche e di cursus), nel solco della tradizione dell’epistolografia ufficiale (da Pier delle Vigne in poi); testi sparsi, che lo stesso Dante non si preoccupò di raccogliere (ci sono stati conservati grazie a Boccaccio). Sono tredici Epistole in latino, di alto livello morale, rivolte ai potenti della terra (principi, signori, cardinali, grandi signori feudali), oppure ai perfidi Fiorentini, bersaglio di una violenta invettiva (Ep. VI). Anche la lettera che sembra più ‘personale’, quella indirizzata ad un amico fiorentino (Ep. XII), è in realtà una sdegnosa risposta pubblica all’ignominiosa offerta di essere amnistiato, purché pagasse una multa, e ammettesse quindi una colpa che non aveva (1315). Un’ultima lettera (Ep. XIII: forse non autentica, ma comunque elaborata da qualcuno molto vicino all’ultimo Dante) dedica a Cangrande della Scala il Paradiso, fornendo la chiave di lettura allegorica dell’intera Commedia, secondo i già ricordati quattro sensi delle scritture. Nel 1319 il professore bolognese Giovanni del Virgilio (eccellente commentatore dei classici, e in particolare delle Metamorfosi di Ovidio) scrive a Dante (a Ravenna) un carme latino in cui lo rimprovera di non aver usato il latino per il suo poema, scritto invece nella bassa lingua del volgo. Dante non si arrabbia ma rilancia la posta, rispondendo al professore con un altro carme latino in cui trasforma l’intera vicenda in uno scenario di pastori, in un paesaggio agreste. È la prima egloga della letteratura italiana, il primo campione dell’umile genere bucolico, derivato da Virgilio: ed è una risposta ironica a chi riprendeva l’uso del volgare per una materia ‘alta’, dimostrando che la dottrina degli stili poteva essere applicata in piena autonomia in contesti linguistici diversi, come erano appunto latino e volgare. Giovanni imparò la lezione, e inviò una sua egloga, a cui Dante rispose ancora con un altro testo bucolico. L’ultimo testo latino di Dante (ma di non sicura attribuzione), infine, è la Quaestio de aqua et terra, lezione tenuta a Verona il 20 gennaio 1320,



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sul tema se vi fossero punti della superficie terrestre più bassi del livello dell’acqua. Una questione tutta scolastica, che poteva appassionare gli intellettuali dell’epoca perché coinvolgeva le loro conoscenze sul cosmo e sulla dottrina degli elementi. Che il vecchio Dante potesse essere coinvolto in questi dibattiti, non è da stupire. Dopo la pubblicazione dell’Inferno e del Purgatorio, il poeta (che diceva di aver viaggiato fino al centro della Terra, e di essere salito sulla montagna del Paradiso Terrestre) era universalmente considerato anche un esperto di cosmologia e geografia.

4.7. Commedia In un momento imprecisato del suo esilio, forse nel 1306, forse nella solitudine di un castello del Casentino, Dante cominciò l’opera che, da sola, sarebbe bastata a riscattare la catastrofe della sua esistenza. In una lettera del 1307 a Moroello Malaspina (Ep. IV), inviando in dono la canzone ‘montanina’, Dante dice di aver interrotto una grande opera, a causa della passione distruttiva per la ‘montanina’ (leggendaria sembra invece la storia secondo la quale Dante avrebbe iniziato il poema prima dell’esilio, tramandata da un lettera apocrifa di un tale Frate Ilaro copiata da Boccaccio). Superato l’ultimo traviamento, l’ultimo vero smarrimento nella ‘selva del peccato’, Dante avrebbe ripreso l’opera, che lo accompagnò in tutto il suo lungo esilio, con la scrittura dell’Inferno (1306-1309), del Purgatorio (1309-1315), e del Paradiso (1316-1321), preceduto dalla pubblicazione delle cantiche precedenti (Verona 1314-1315). Il titolo dell’opera è ricordato nell’Epistola a Cangrande (Ep. XIII), con il suo celebre incipit: “Incipit Comoedia Dantis Alagherii, florentini natione, non moribus”. Comoedia, e quindi in volgare Commedia, il suo vero titolo (sarà Boccaccio a definirla ‘divina’, aggettivo che fu unito al titolo solo in un’edizione veneziana del 1555). È evidente, nel titolo, un rinvio alla dottrina medievale degli stili, con la sua tripartizione in stile tragico, comico, elegiaco. Lo stile ‘comico’ si colloca in quello spazio intermedio fra tragico ed elegiaco in cui è possibile l’utilizzazione di diversi registri espressivi. Nella stessa Epistola a Cangrande si chiarisce la natura della ‘commedia’, in rapporto alla ‘tragedia’: la commedia rappresenta una vicenda che inizia male e finisce bene, mentre la tragedia ha un percorso opposto. Del resto, la stessa idea di ‘commedia’ porta con sé un carattere di drammatizzazione: un immenso teatro sul quale si muoveranno alcuni personaggi, ‘attori’ di una vicenda che rinvia all’intera storia dell’umanità. Dante chiama dunque

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la propria opera Commedia (If. XVI,128; XXI,2) anche in relazione al suo grande modello di poema epico, l’Eneide di Virgilio, definito ‘tragedia’ (If. XX, 113). È significativo comunque che nel Paradiso al termine ‘commedia’ subentri quello di ‘sacrato poema’ (Pd. XXIII,62) e ‘poema sacro’ (Pd. XXV,1), che riecheggiano proprio un’antica definizione dell’Eneide (chiamata da Macrobio “sacratum poema”). In realtà, non è facile dire che cosa sia esattamente la Commedia. Un poema didascalico-allegorico? Una summa del sapere medievale? Una visione? Si è tentato di rintracciare tutti i possibili antecedenti medievali di Dante: dalla Navigazione di San Brandano ad Alano da Lilla e al Roman de la Rose, dal Libro della scala di Maometto a Bonvesino, Giacomino, Brunetto ecc. In realtà, è lo stesso Dante, ad apertura dell’opera, ad additarci i suoi modelli, menzionando i due ‘eroi’ che, prima di lui, hanno osato viaggiare oltre il confine tra la vita e la morte: Enea, che scende agli Inferi pagani e ritrova le ombre del padre Anchise, e di Didone; e san Paolo, che secondo la tradizione cristiana fu assunto al terzo cielo (If. II, 32). Enea e Paolo rinviano ai due testi fondamentali di Dante: l’Eneide e la Bibbia. Sono le due polarità di tutta la sua formazione culturale, dall’epoca della Vita nuova. Da un lato l’humanitas dei classici, rappresentata dal personaggio che subito compare come guida del pellegrino, lo stesso Virgilio, simbolo del livello più alto al quale può arrivare la ragione umana nella sua autonomia. Dall’altro la luce della fede, il messaggio divino del cristianesimo, per il quale servirà una nuova e più alta guida, quella stessa Beatrice che nella Vita nuova era apparsa sensibilmente, nella realtà contingente di un corpo mortale, al giovane Dante. Punto di partenza della Commedia dovette comunque essere l’idea di un viaggio allegorico, simile a quello descritto dal maestro Brunetto nel Tesoretto: un viaggio in cui raccontare tutto, ma veramente tutto, quello che stava accadendo, in quel terribile inizio del Trecento, all’umanità, e a lui stesso, Dante, vittima dell’ingiustizia degli uomini. Il colpo d’ala di Dante fu quello di fondere, in un’unica opera, gli spunti che gli venivano da generi diversi, dalla visione del mondo dell’oltretomba al racconto di viaggio. Se bisognava raccontare un viaggio nell’oltretomba, bisognava naturalmente misurarsi col modello classico di Virgilio, dal quale viene ripresa una parte consistente dell’imagerie dell’Inferno: i fiumi infernali, l’antinferno, la città di Dite, i mostri mitologici e i guardiani, alcuni dei supplizi. Mentre il mondo pagano prevedeva, oltre la morte, un unico regno infernale governato da Ade, l’oltretomba cristiano si divideva nettamente in Inferno e Paradiso: due regni ai quali l’anima veniva destinata per l’eternità, in base alle azioni svolte nella vita terrena. Il Purgatorio (assente nei poemetti di Giacomino



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e Bonvesino) era una novità teologica dell’ultim’ora, proposto dal Concilio di Lione nel 1274, una sorta di regno intermedio, di passaggio, nel quale le anime dovevano espiare, per un tempo determinato, colpe più lievi. Dante ne accetta la realtà per gettare un ponte fra l’eterno e il contingente, e anche per completare la perfezione di una struttura ternaria: una Commedia scandita in tre cantiche, e in tre regni, l’Inferno, il Purgatorio, il Paradiso (If. I,112-29). La Commedia è fondata su un’idea di struttura morale, che deriva dall’Etica Nicomachea di Aristotele, filtrata dai commenti medievali, e dalla dottrina della Chiesa. Recependo la dottrina scolastica sul libero arbitrio, Dante riconosce maggiore o minore gravità al peccato a seconda del consentimento della volontà. Di conseguenza, i peccati meno gravi sono quelli in cui, più che la volontà, ha influito una predisposizione, un’inclinazione, una situazione (a questa categoria appartiene per esempio la colpa della lussuria, della concupiscenza carnale; ad un livello medio, perché considerata violenza contro natura, è l’omosessualità); i peccati più gravi sono invece quelli in cui la libera volontà e la stessa intelligenza si voltano consapevolmente verso il male, diventano ‘progetto’ di male (la corruzione, la falsità, l’ipocrisia, l’inganno, il tradimento). L’ordine morale viene tradotto da Dante in un ordine ‘fisico’, e cosmologico. Se il male è allontamento dal bene, allora questa gradualità può essere ‘vista’ nella stessa struttura dell’Inferno: un’immensa voragine causata, all’inizio dei tempi, quando Lucifero e gli angeli ribelli precipitarono dal cielo, e la terra, inorridita, si ritrasse. Le balze e le terrazze di questa enorme cavità ospitano i ‘gironi’ infernali, in un ordine rovesciato che va dal peccato più lieve a quello più grave. La parte di mondo ‘fuggita’ da Lucifero (solidamente conficcato al centro della terra) è finita agli antipodi, a formare l’immensa montagna del Purgatorio, al centro del mare Oceano, sormontata dal primordiale Paradiso Terrestre: e anche l’ascesa di questa montagna avviene per mezzo di ‘cornici’, che più o meno corrispondono ai sette peccati capitali. Intorno alla sfera terrestre girano le orbite dei pianeti (derivate dal sistema tolemaico), ad ognuna delle quali si collega un ordine angelico, e una categoria di spiriti beati, fino alla visione finale dell’empireo e della gloria divina. La struttura è a sua volta fondata su una grandiosa architettura tripartita. Ogni cantica conta trentatré canti (l’Inferno trentaquattro, perché il primo canto funge da proemio all’intera opera), per un totale di cento canti, e complessivi 14.233 versi endecasillabi (i canti non hanno misura fissa, ma oscillano tra i 115 e i 160 versi). La numerologia continua ad avere un

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grande valore per Dante. I cento canti sono un segno di perfezione, perché risultato del prodotto del numero perfetto 10 per se stesso. Spesso ripetuto è il numero 7, cifra delle Virtù ma anche dei Vizi, dei Doni dello Spirito Santo, delle Arti Liberali ecc. Il numero 9 (cifra dei cieli, e delle gerarchie angeliche) segna nuovamente il ritorno di Beatrice. Il centro esatto dell’opera (i canti XVI e XVII del Purgatorio) è dedicato ai temi fondamentali del libero arbitrio (da cui scaturisce l’intero ordine morale) e dell’amore. Di più, fra le tre cantiche, come se fossero tre navate di una cattedrale, o tre piani sovrapposti di un edificio, si instaurano alcune evidenti e non casuali corrispondenze di situazione (ad esempio, il canto VI affronta, in ogni cantica, il tema politico, perché il numero 6, nell’esegesi medievale, rinvia di solito alla sfera terrena), e di parole (ogni cantica si conclude con la parola ‘stelle’). Ma il numero assolutamente dominante è il 3, associato alla Trinità, che è il mistero di fede contenuto nell’ultima visione del Paradiso (Pd. XXXIII). In un certo senso, è lo stesso mistero che percorre la Commedia, dalla prima all’ultima parola, per mezzo del metro utilizzato da Dante, la terzina, modulo rimico basato sullo schema ABA BCB CDC, e così via: ogni gruppo di tre rime si ‘incatena’ al gruppo precedente e successivo, in un gioco potenzialmente infinito, e ‘aperto’ (a differenza della sestina, sistema ‘chiuso’, perché dopo la sesta strofa la struttura tornava al punto di partenza). Si tratta di una straordinaria invenzione formale di Dante, in parte spiegabile solo con il suo lungo sperimentalismo metrico, dalle prime rime fino alle ‘petrose’ (anzi, proprio nelle ‘petrose’ e nelle poesie ‘comiche’ si approfondisce lo studio della rima, in tutte le sue possibilità espressive, anche quelle più aspre e difficili). Schemi di terzine ‘chiuse’ erano già presenti nei sonetti, mentre poemi, poemetti, sirventesi, erano normalmente strutture ‘aperte’. Dante contaminò le tradizioni precedenti, e creò una forma praticamente perfetta, che superava qualunque altro esempio di versificazione fino ad allora tentato nelle letterature medievali. Il titolo Commedia non significa affatto, per Dante, un’opera in stile ‘comico’, ma piuttosto un’opera globale in cui siano rappresentati tutti gli stili. Continuo è il passaggio, lo switching, da uno stile ad un altro (basso e alto, comico, tragico, elegiaco), al di là delle frontiere dei generi e dei modi (romanzesco, fiabesco, lirico, didascalico, storico). Un pluristilismo globale (pur se con tonalità differenti nell’adattamento alla materia prevalente delle tre cantiche: l’Inferno ‘basso’, il Purgatorio ‘medio’, il Paradiso ‘alto’), a cui corrisponde un plurilinguismo di fatto, innestato sulla base fiorentina della lingua poetica dell’autore, ampliata a molteplici esperienze (dal latino agli altri volgari), e alla continua creazione di nuove parole.



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Visio o fictio? Già i primi commentatori si interrogavano sulla questione se Dante avesse visitato veramente l’oltretomba, o se si fosse trattato solo di una sublime invenzione letteraria. Per il lettore medievale, la domanda era seria, visto che all’epoca gente che giurava di aver visto cose straordinarie ce n’era tanta. Oggi, semmai, la domanda da porre è un’altra: come avrebbe voluto Dante che la sua opera fosse letta, indipendentemente dal fatto che quel viaggio fosse reale o inventato? La risposta è semplice: sicuramente come una visio, come il racconto di un’esperienza reale. Il livello di rappresentazione è tale da non lasciare dubbi. Il racconto procede incalzante, senza digressioni dell’autore (se digressioni dottrinali ci sono, sono sempre consegnate ai dialoghi fra i personaggi). Siamo dunque di fronte ad una struttura narrativa di straordinaria coerenza, in cui la focalizzazione tende al massimo livello di oggettività, nonostante l’intera vicenda sia narrata in prima persona, da un Dante su più livelli, in cui contemporaneamente è riconoscibile (nel tempo interno del racconto) il Dante personaggio e attore del viaggio, il pellegrino, il penitente, il discepolo, e poi (nel tempo esterno della scrittura) il Dante reale fra 1306 e 1321, il poeta e l’esule. La funzione emozionale, nella Commedia, non è cifra di soggettività, ma elemento di ‘certificazione’, come nelle scritture agiografiche e nella tradizione cristiana: è l’io del testimone, di chi dice: “Io ero lì, e ho visto”. Racconto di un viaggio, dunque, che è speculare al ‘viaggio’ esistenziale di Dante negli anni dell’esilio, una vera discesa all’Inferno prima, e un lungo cammino di sofferenza e privazione poi. Mentre Dante racconta il viaggio ultraterreno, cammina realmente nelle strade del mondo. Ogni viaggio avviene nello spazio e nel tempo. Il tempo ‘interno’ è idealmente fissato alla Settimana Santa dell’anno 1300: un anno importante nella storia della Cristianità, perché vi si celebrò il primo Giubileo, indetto a Roma da Bonifacio VIII. Mentre migliaia di pellegrini convergevano verso la Città Santa, Dante svolge un suo straordinario pellegrinaggio, simile però allo schema penitenziale del Giubileo, che prevede non solo la visita ‘fisica’ delle grandi Basiliche, ma anche la meditazione dei peccati commessi, e la loro purgazione. Il tempo del viaggio (come è stato evidenziato) corre in modo del tutto simbolico. Nell’Inferno, regno della notte del peccato e della privazione della luce, non c’è una percezione precisa del suo passaggio, se non con richiami al mondo di superficie. Diversa sarà la condizione del Purgatorio, vero regno della temporalità (perché è nel tempo che si svolge il processo di purificazione), dove anzi il succedersi di giorno e notte (allegoricamente, la luce della grazia, e il ritorno alla tenebra del peccato) dà modo a Dante di dipingere memorabili rappresentazioni di albe, crepuscoli, tramonti. Nel Paradiso, il tempo non sarà più il tempo dell’uomo, ma quello del cosmo,

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del movimento siderale, dell’armonia delle sfere, fino al suo annullamento nella visione di Dio. Lo scarto fra tempo interno (il tempo del viaggio, collocato nell’anno 1300, al “mezzo del cammin” della vita di Dante, che ha 35 anni) e tempo esterno (il periodo di composizione della Commedia, 1306-1321) ha come conseguenza la possibilità di raccontare anche eventi posteriori al 1300, in forma di profezie pronunciate dai personaggi incontrati lungo la strada. Il ‘futuro’ di Dante personaggio corrisponde al ‘presente’ di Dante autore. Il registro profetico è un’altra componente fondamentale della Commedia, e contribuisce ad elevarne il tono tragico. In questo la Commedia è ancora di più una visio, cioè una ‘visione’ di cose ultraterrene simile a quelle raccontate dai profeti biblici (Isaia, Ezechiele), dall’Apocalisse e dai profeti medievali (Gioacchino da Fiore). Le profezie vengono emesse con un linguaggio enigmatico, oscuro, soprattutto quelle che si riferiscono a Dante, e che saranno ‘aperte’, spiegate nel loro significato, solo nella parte finale del viaggio, nel Paradiso, da parte dell’avo Cacciaguida. La struttura narrativa della storia non è lineare, ma continuamente proiettata in avanti, verso un futuro ancora da venire, ma già passato per chi scrive (flashforward); oppure curvata all’indietro, nei racconti dei personaggi incontrati da Dante (flashback). Un fenomeno che complica l’interpretazione, perché moltiplica il senso storico-letterale, e rende quindi più mobile, sfuggente, quello allegorico, mai univoco (come invece accadeva nella letteratura allegorica medievale). È in questa terra di nessuno tra la lettera e l’allegoria che si attua il miracolo della poesia della Commedia, una poesia che illumina globalmente ogni singola parte della struttura. Una poesia che acquista carattere di modernità, e di apertura ad un nuovo orizzonte, quando si fa rappresentazione di vicende umane, attraverso l’invenzione di ‘personaggi’ che sono a tutti gli effetti i personaggi di un dramma universale, la storia dell’umanità. Quelle ‘figure’, dopo la morte, lasciano la mutevolezza del tempo umano, ed entrano nella condizione dell’eterno: non possono aggiungere più nulla a ciò che hanno fatto in vita, la loro ‘figura’ è ‘compiuta’ per sempre. Dante interpreta questo rapporto fra umano ed eterno inventando un procedimento di rappresentazione (definito ‘realismo figurale’) basato su elementi fortemente ‘realistici’ (la descrizione fisica, il movimento e lo stile, il modo di parlare, l’espressione di sentimenti e stati d’animo) ma proiettati sulla condizione eterna della ‘figura compiuta’. L’allegoria è allora qualcosa di più che una sovrastruttura culturale, è un costitutivo genetico della poesia dantesca. La descrizione fisica rinvia sempre ad una realtà spirituale, ed è per questo che, nella discesa dell’Inferno, le fattezze umane acquistano sempre più caratteri



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bestiali, o diventano del tutto irriconoscibili. Ma l’irriconoscibilità tornerà anche nel Paradiso, dove l’umano sarà soverchiato e abbagliato dalla luce del divino. Molti di questi personaggi sentono il bisogno di raccontare a Dante le loro storie individuali. Si trattava di gente famosa, e di storie (magari anche banali) che tutti, all’epoca di Dante, conoscevano, dalla cronaca nera a quella politica: l’assassinio di due amanti da parte del marito tradito (Francesca e Paolo), il crudele supplizio di un traditore (Ugolino della Gherardesca), la fine tragica (e, secondo l’opinione popolare, meritata) di alcuni ghibellini (Manfredi, Bonconte da Montefeltro). Dante non ha bisogno di raccontare di nuovo i fatti, lavora per ellissi, li lascia sottintesi. I suoi personaggi rivelano se stessi invece in dettagli segreti, come se fosse stato possibile spiarli dal buco di una serratura, o nella profondità imperscrutabile della loro anima, e del loro rapporto privato con Dio. Francesca racconta in modo mirabile il momento dell’innamoramento, del tremore dell’amante nel momento in cui sfiora le sue labbra nel primo bacio; il resto non conta. Manfredi e Bonconte, che tutti si aspettavano di trovare all’Inferno, si scoprono in Purgatorio, perché si sono pentiti all’ultimo momento. Si tratta, a tutti gli effetti, di ‘novelle’, spesso ‘tragiche’, quindi in stile alto, come si conveniva a personaggi di rango elevato. Lo schematismo esemplare (tipico della letteratura medievale, sacra e profana, e basato sulla ripetizione di exempla morali sovratemporali ed astratti) appare ormai superato grazie al realismo figurale, che dà autonomia e vita e passione reale al personaggio. La Commedia è quindi anche un ‘libro di novelle’, un testo narrativo che il lettore contemporaneo sentiva vicino alla narrativa storica, in quanto i fatti narrati erano veri; e quindi vicino alla cronaca, perché la Commedia, con tutta la passione politica di Dante, è anche il grande libro che racconta la storia italiana del Due-Trecento, la cronaca dell’oggi e di uno ieri appena trascorso, nello scontro fra papato e impero, e nelle convulsioni interne della civiltà comunale, su cui si staglia l’immagine di Firenze, odiata e sempre desiderata dal poeta esule. Inferno La narrazione inizia presentando Dante smarrito di notte in una selva oscura (allegoria del peccato), e che all’alba tenta di salire un colle per raggiungere la luce del sole, ma viene bloccato da tre fiere, una lonza, un leone e una lupa (allegoria di lussuria, superbia e avarizia). Ad aiutarlo appare un’ombra, che si rivela essere Virgilio, e che prospetta a Dante il viaggio da compiere per raggiungere la salvezza, attraverso l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso (I). Dante ha paura, vorrebbe rinunciare, ma Virgilio lo convince a seguirlo, ricordando di

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essere stato mandato addirittura da Beatrice, intermediaria della Vergine Maria (II). Terrificante è l’ingresso attraverso la porta dell’Inferno, oltre la quale è la prima visione degli ignavi, costretti a correre senza posa dietro ad una bandiera (secondo la regola del contrappasso, che prevede una pena rovesciata rispetto al peccato compiuto). Oltre il primo fiume infernale, l’Acheronte, attraversato a bordo della barca di Caronte (III), è il primo cerchio, il limbo, luogo esente dai supplizi, sede delle anime che non conobbero il messaggio di Cristo, grandi spiriti antichi, come Omero, Orazio, Ovidio, Lucano, e lo stesso Virgilio (IV). Il secondo cerchio, aperto da Minosse che giudica i dannati, è riservato ai lussuriosi, trascinati eternamente da una bufera, in cui Dante riconosce Francesca e Paolo; e Francesca racconta la tragica storia del suo amore (è il primo grande incontro di Dante)(V). Nel terzo cerchio, fra i golosi, tormentati da una pioggia ‘maledetta’ e dal mostro Cerbero, Dante trova il fiorentino Ciacco, che emette la prima oscura profezia sulle lotte fra Bianchi e Neri (VI). Il quarto cerchio, sorvegliato da Pluto, ospita i prodighi e gli avari, che spingono giganteschi pietroni in direzioni opposte; nel quinto cerchio sono invece iracondi e accidiosi, immersi nelle acque melmose dello Stige (VII). Il passaggio del fiume, sulla barca di Flegiàs, è movimentato dall’apparizione dell’iracondo Filippo Argenti; giunti alle mura della città di Dite, Dante e Virgilio vengono respinti dai diavoli (VIII), e riescono ad entrare solo grazie all’aiuto di un angelo (IX). Il sesto cerchio offre un macabro paesaggio di tombe scoperchiate, che ospitano gli eretici, tra i quali Dante incontra il ghibellino Farinata degli Uberti (che profetizza di nuovo) e Cavalcante Cavalcanti padre di Guido (X). Dopo una spiegazione della struttura dell’Inferno da parte di Virgilio (XI), attraverso una grandiosa frana (originata dal terremoto avvenuto alla morte di Cristo) si passa nel settimo cerchio, dove sono puniti i violenti, custoditi dal Minotauro e divisi in tre gruppi; il primo è quello dei violenti contro il prossimo, immersi nel fiume di sangue bollente Flegetonte e tormentati dai centauri (XII). Segue una strana boscaglia, le cui piante rinsecchite sono in realtà le anime dei suicidi, violenti contro se stessi: Dante se ne accorge spezzando un ramo, da cui escono “parole e sangue” del cancelliere imperiale Pier delle Vigne; due anime di scialacquatori (altra forma di violenza contro se stessi) sono invece dilaniate da cani infernali (XIII). Il terzo e ultimo gruppo di violenti si trova in una landa desertica, sotto una pioggia di fuoco: prima i violenti contro Dio (XIV), poi i violenti contro natura, cioè i sodomiti, tra i quali Dante riconosce la figura paterna del maestro Brunetto Latini, che profetizza ancora sul futuro di Dante (XV), e poi i guelfi fiorentini Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandi e Iacopo Rusticucci, cui Dante riferisce della decadenza di Firenze (XVI); infine i violenti contro arte, vale a dire gli usurai. Arduo è il passaggio all’ottavo cerchio, in sella al mostro volante Gerione, figura del peccato: un cerchio immenso, che ospita le dieci Malebolge (letteralmente, ‘bolgia’ significa ‘borsa’, ‘tasca’), riservate ai fraudolenti verso chi non si fida (XVII). Nella prima bolgia, dannati a procedere in due schiere opposte, sono i ruffiani, fra i quali emerge il bolognese Venedico Caccianemico, e i seduttori, ove si riconosce Giasone. Nella seconda bolgia degli adulatori, tuffati negli escrementi, Dante vede Alessio Inter-



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minelli da Lucca e la puttana Taide (XVIII). Nella terza bolgia, una groviera di pietra bucherellata, i simoniaci sono ficcati a testa in giù nei buchi: tra essi è addirittura papa Niccolò III, che sta aspettando l’arrivo dei suoi colleghi Bonifacio VIII e Clemente V (XIX). Gli indovini, maghi e astrologhi, nella quarta bolgia, presentano la testa voltata al contrario rispetto al corpo, stravolgimento della figura umana che commuove Dante (XX). Nella pece bollente della quarta bolgia sono i barattieri, arpionati dai diavoli (qui rappresentati secondo la tradizione medievale, e in modo quasi ‘comico’), con il cui capo Malacoda Virgilio cerca di stipulare un accordo per l’incolumità sua e di Dante (XXI). Dopo l’episodio comico di un dannato, Ciampolo di Navarra, che riesce a sfuggire agli uncini dei diavoli, facendo cadere anche loro nella pece (XXII), Dante e Virgilio cominciano a fuggire, temendo giustamente l’inganno dei demoni, e riescono ad arrivare alla sesta bolgia degli ipocriti, dove si trova Caifas gran sacerdote del Sinedrio che condannò Gesù, e i bolognesi ‘frati gaudenti’ Catalano dei Malavolti e Loderingo degli Andalò (XXIII). Segue la settima bolgia dei ladri, condannati alla perpetua metamorfosi con dei serpenti: uno di loro, Vanni Fucci, profetizza ancora contro Dante (XXIV), bestemmiando poi Dio, e venendo subito punito, mentre altri ladri si trasformano in serpenti, e viceversa, tra i quali i fiorentini Puccio Sciancato e Francesco Cavalcanti (XXV). È naturale allora per Dante erompere in un’invettiva contro Firenze, prima di scendere all’ottava bolgia dei consiglieri fraudolenti, uno strano paesaggio sparso di fiammelle, che si rivelano essere le anime dei dannati: uno di loro è il grande Ulisse, che racconta le vicende del suo ultimo tragico viaggio, e che è quasi controfigura dello stesso Dante (XXVI); prende poi la parola Guido da Montefeltro, punito per i consigli malvagi dati a Bonifacio VIII (XXVII). Nella nona bolgia i seminatori di discordie (Maometto, il romagnolo Pier da Medicina, il fiorentino Mosca de’ Lamberti, e perfino il trovatore Bertran de Born; e forse anche un parente di Dante, Geri del Bello) sono orrendamente feriti e squartati (XXVIII). Nella decima e ultima bolgia i falsari sono colpiti da terribili malattie, e tra essi Griffolino d’Arezzo e Capocchio da Siena (XXIX), azzannati da Gianni Schicchi e Mirra, mentre Dante si intrattiene con Maestro Adamo (XXX). Segue un immane fossato circolare sul cui contorno sembra di vedere delle torri: in realtà i Giganti che custodiscono il nono e ultimo cerchio dell’Inferno, riservato ai fraudolenti contro chi si fida, cioè i traditori, un livido paesaggio ghiacciato che imprigiona le anime. Uno dei Giganti è Nembrot, colpevole della Torre di Babele; un altro, Anteo, con la mano enorme depone i due pellegrini sul fondo (XXXI). La prima zona, la Caina, è quella dei traditori dei congiunti, soprattutto personaggi contemporanei, protagonisti delle tremende lotte intestine delle città italiane; nella seconda zona, detta Antenora, si trovano i traditori della patria, il fiorentino Bocca degli Abati, e uno strano personaggio intento a rodere il cranio di un altro (XXXII): il celebre conte Ugolino, condannato a morire di fame a Pisa, che racconta la parte più umana della sua vicenda, il supplizio patito insieme ai figli innocenti, di cui il padre, sconvolto dalla fame e dal dolore, finisce col cibarsi. Oltre sono i traditori degli ospiti (frate Alberigo e Michele Zanche), nella cosiddetta Tolomea (XXXIII).

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Infine, nel fondo più fondo, è la Giudecca, dove i traditori di Dio e dell’impero, Giuda, Bruto e Cassio, sono dilaniati nelle tre bocche di Lucifero, immenso re dell’Inferno, che emerge per metà dal ghiaccio. Aggrappandosi al pelo di Lucifero Dante e Virgilio riescono a superare il centro della terra, e ad imboccare un lunghissimo budello che li porta dall’altra parte del mondo, finalmente “a riveder le stelle” (XXXIV). Purgatorio Dopo un’invocazione alle Muse, il racconto ricomincia con la visione del pianeta Venere e di quattro stelle; nell’alba compare il custode del Purgatorio, Catone l’Uticense, morto suicida per difendere la libertà al tempo di Cesare, e figura emblematica della dirittura morale. Sulla spiaggia Dante esegue un rito di purificazione (I). Giunge una barca, guidata da un Angelo, e ne scendono le anime che cantano il salmo In exitu Israel: tra esse, un amico di Dante, il musico Casella, che inizia a cantare proprio la canzone dantesca Amor che nella mente mi ragiona (II). Da un altro gruppo di anime, gli scomunicati, incontrato ai piedi di una parete insuperabile, si stacca la figura di Manfredi, figlio di Federico II, ucciso nella battaglia di Benevento nel 1266, ma salvato dal suo estremo pentimento (III). Per uno stretto sentiero si sale ad una piana che ospita gli spiriti negligenti, fra i quali è il fiorentino Belacqua (IV). Più avanti, tra i morti di morte violenta, raccontano la loro storia Iacopo del Cassero, il ghibellino Buonconte da Montefeltro morto alla battaglia di Campaldino, e la senese Pia de’ Tolomei (V). In disparte, da solo, il mantovano Sordello, la cui figura ispira a Dante il lamento sulle tristi condizioni politiche d’Italia, e di Firenze, “Ahi serva Italia, di dolore ostello” (VI). Guidati da Sordello, Dante e Virgilio raggiungono poi la valletta dei principi, anch’essi puniti per la loro negligenza nell’operare il bene: attraverso i loro nomi e le loro dinastie, Dante tratteggia un ampio quadro dell’Europa del suo tempo (VII). Mentre cala l’oscurità, due angeli scendono per mettere in fuga un malefico serpente; poi Dante ha ancora il tempo di parlare con il giudice pisano Nino Visconti, e Corrado Malaspina, che gli profetizza la parte dell’esilio che si svolgerà in Lunigiana; ma ormai è notte, e con l’oscurità (segno dell’assenza momentanea della grazia divina) è necessario fermarsi (VIII). Nel sonno, Dante ha un sogno di un’aquila d’oro che lo porta nella sfera del fuoco, e al risveglio, all’alba, apprende da Virgilio di essere stato effettivamente portato da Lucia in alto, alla porta del Purgatorio, dove un angelo con una spada scrive sulla fronte di Dante sette P, simboli dei sette peccati capitali dai quali bisognerà purificarsi (IX). Oltre la porta è il primo girone dei superbi (caricati di enormi massi) intorno ad una parete rocciosa intagliata a rilievo con tre episodi della storia sacra e profana, exempla legati al tema dell’umiltà (l’Annunciazione, la danza di David, e l’aneddoto dell’imperatore Traiano che rende giustizia ad una vedova), e momento di fusione di linguaggio verbale e linguaggio iconico, il “visibile parlare” (X). I superbi recitano il Pater noster, e tra essi prendono la parola Omberto Aldo-



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brandeschi, e il miniatore Oderisi da Gubbio, che afferma la vanità della gloria umana, con gli esempi di Cimabue e Giotto nella pittura, e Guido Guinizzelli e Guido Cavalcanti nella poesia, e additando infine l’anima di Provenzan Salvani (XI). Anche per terra si scorgono delle immagini, ma si tratta di esempi di superbia punita. Dopo l’angelo guardiano, i due pellegrini escono dal girone, e Dante si accorge di avere una P in meno sulla fronte, cosa che avverrà in tutti i successivi passaggi di girone, segno di progressiva purificazione (XII). Nel secondo girone sono gli invidiosi, vestiti come mendicanti cenciosi, i cui occhi sono cuciti col fil di ferro, e Dante ha modo di parlare con la senese Sapia (XIII); poi Guido del Duca se la prende con le città toscane della valle dell’Arno, e ricorda con nostalgia la propria terra, la Romagna; intanto i consueti esempi sono pronunciati da voci invisibili (XIV). Un altro angelo guardiano segna l’ascesa al terzo girone degli iracondi, in cui appaiono tre visioni di mansuetudine, poi un fumo nero avvolge tutto (XV), e a Dante parla, senza essere visto, Marco Lombardo, che espone la dottrina del libero arbitrio (XVI). Oltre il fumo, ancora tre visioni, ma di iracondia punita, e un altro angelo, mentre Virgilio discetta su questioni morali e sulla struttura del Purgatorio (XVII). Ormai è sera, nel quarto girone degli accidiosi, condannati a correre senza posa, gridando esempi di sollecitudine e di accidia punita, e tra essi l’abate di San Zeno di Verona, poi Dante si addormenta (XVIII). Alla fine della notte, poco prima dell’alba, Dante ha un secondo sogno, una donna balbuziente e orrenda che però, sotto la lente deformante del desiderio sessuale, sembra una bella ‘sirena’ che canta dolcemente, ma giunge un’altra donna che svela l’inganno: sogno che, secondo Virgilio, rappresenta l’inganno del peccato. Nel quinto girone di avari e prodighi, costretti a stare distesi a terra, Dante distingue il papa Adriano V (XIX), e poi pronuncia un’invettiva contro la ‘lupa’, simbolo dell’avarizia. Interviene Ugo Capeto, fondatore della dinastia reale francese, arrabbiato contro i suoi stessi discendenti; all’improvviso si sente un misterioso terremoto, le anime gioiscono, ma Dante è impaurito (XX). Compare un’anima, che spiega che la sacra montagna si ‘commuove’ quando qualcuno finisce il suo periodo di purgazione: appunto lui, il poeta latino Stazio (XXI), che racconta la storia della sua conversione cristiana, avvenuta proprio grazie alla lettura dei testi di Virgilio (in particolare la IV egloga). I tre arrivano al sesto girone dei golosi, condannati al desiderio insoddisfatto della fame e della sete (XXII), e ridotti a scheletriche larve umane, in cui è quasi impossibile riconoscere il viso di Forese Donati amico di Dante, che inveisce contro le sfacciate donne fiorentine (XXIII), o quello del poeta Bonagiunta Orbicciani, che riconosce in Dante l’autore di Donne ch’avete intelletto d’amore, avvio della poetica del ‘dolce stil novo’ (XXIV). Ripreso il cammino, Stazio spiega a Dante perché le anime, entità spirituali, possano sentire fame e sete (e quindi interagire col mondo fisico, dall’Inferno in poi): un pretesto per richiamare le dottrine scolastiche sull’anima umana e sulla generazione di Alberto Magno e Tommaso, contro Averroé (XXV). Il settimo e ultimo girone è riservato ai lussuriosi, tormentati dal fuoco, tra i quali Dante incontra Guido Guinizzelli, riconosciuto come ‘maestro’, e il trovatore Arnaut Daniel, “il miglior fabbro” della poesia volgare, che addit-

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tura gli parla in lingua provenzale (XXVI). L’ultima prova che Dante deve superare è l’attraversamento del muro di fuoco, oltre il quale i tre pellegrini si fermano, a dormire per l’ultima notte; Dante ha un terzo sogno, le figure bibliche di Lia e Rachele (la vita attiva e la vita contemplativa). All’alba ricomincia il cammino, e Virgilio preannuncia il prossimo cambio di guida: non più lui, ma Beatrice (XXVII). Dante entra nella meravigliosa selva del Paradiso terrestre, dove incontra Matelda (XXVIII), lungo il corso del fiume Lete, che toglie il ricordo del peccato (un altro fiume, Eunoé, riporta il ricordo del bene); ed ecco che appare una processione di sette candelabri, ventiquattro vegliardi, quattro animali straordinari, un carro trionfale tirato da un grifone, ai cui lati danzano sette donne, e infine altri sette vecchi (allegoria dei libri della Bibbia) (XXIX). In una nuvola di fiori, sul carro, è Beatrice, mentre Dante si accorge della scomparsa di Virgilio. In questo primo incontro Beatrice è durissima, e rimprovera a Dante i suoi passati traviamenti, per i quali chiede autentico pentimento (XXX). Dante, sopraffatto dai sentimenti, sviene e cade nel Lete, ma ne è tirato fuori, purificato, da Matelda (XXXI), e assiste poi alla metamorfosi del carro, assalito da un’aquila, da una volpe e da un dragone, e poi trasformato in un mostro a sette teste su cui siede una puttana, accompagnata da un gigante: complessa allegoria politica, derivata dall’Apocalisse, che rappresenta la storia dell’impero e della Chiesa (XXXII). Beatrice annuncia il prossimo arrivo di un imperatore (segnato dal numero magico 515) che restaurerà la giustizia. Infine Dante è immerso nelle acque dell’Eunoé, fiume che riporta la memoria del bene, ed è ormai pronto a salire in Paradiso, verso le “stelle” (XXXIII). Paradiso Dopo il proemio e l’invocazione ad Apollo, Dante riprende la narrazione. È mezzogiorno, e Dante comincia miracolosamente a salire verso l’alto, lo sguardo fisso negli occhi di Beatrice (I). Giunto nel primo cielo della Luna, ascolta Beatrice spiegare la causa delle macchie lunari, non fisica ma spirituale (II), e scorge poi alcuni visi sfocati, gli spiriti inadempienti per violenza altrui: tra essi, Piccarda Donati, sorella di Forese, che gli racconta la propria storia, e che presenta poi la sua compagna, l’imperatrice Costanza (III). Beatrice chiarisce a Dante alcuni dubbi: la differenza tra volontà assoluta e volontà relativa, la ragione per cui le anime appaiano nei diversi cieli, pur risiedendo in realtà solo nell’Empireo (IV), e la questione dell’inadempienza ai voti religiosi. Ma l’ascesa, rapidissima, continua. Dante e Beatrice giungono nel secondo cielo di Mercurio, in cui appaiono gli spiriti attivi per desiderio di gloria (V). Prende la parola lo spirito dell’imperatore Giustiniano, che presenta la storia dell’impero romano attraverso le vicende del suo simbolo supremo, l’Aquila, fino al tempo di Dante, e introduce poi Romeo di Villanova, la cui vicenda di triste esilio sembra alludere a quella dello stesso Dante (VI). Beatrice spiega a Dante un punto del discorso di Giustiniano relativo alla distruzione di Gerusalemme ad opera di Tito, come punizione del popolo ebraico a causa della morte di Cristo;



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e interviene anche sulla dottrina della corruttibilità del mondo fisico, a differenza di quello spirituale (VII). Intanto Dante e Beatrice sono ormai al terzo cielo di Venere, ove compare il primo degli spiriti amanti, citando la canzone dantesca Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete. Stupore di Dante: si tratta del principe Carlo Martello d’Angiò, che era stato a Firenze ed era addirittura diventato amico di Dante. Ora Carlo, riferendosi alla propria famiglia (i fratelli Ludovico e Roberto d’Angiò, dei quali il primo sarebbe divenuto vescovo di Tolosa e santo, e il secondo re di Napoli), spiega come mai da una buona origine possa nascere una cattiva progenie (VIII). Intervengono poi Cunizza da Romano, e il trovatore Folchetto, che si lancia in un’invettiva contro Firenze, ormai corrotta dalla cupidigia, come la stessa Chiesa (IX). Dante e Beatrice salgono al quarto cielo del Sole, tra gli spiriti sapienti emerge san Tommaso d’Aquino, che presenta gli altri filosofi e teologi medievali (X), e soprattutto illustra la straordinaria storia di san Francesco d’Assisi, focalizzata sul matrimonio mistico con Madonna Povertà (XI). Tocca poi a san Bonaventura fare il panegirico di san Domenico, trattando anche dell’attuale decadimento morale dell’ordine francescano, e indicando a Dante altri spiriti sapienti (XII). Interviene ancora Tommaso, con un discorso sulla sapienza di Salomone (XIII), che a sua volta spiega a Dante che la luce divina è eterna, e splenderà eternamente ai beati, anche quando essi risorgeranno col corpo glorioso. Dante e Beatrice salgono poi al quinto cielo di Marte, in cui gli spiriti combattenti si dispongono a formare una croce, nella quale si distingue la figura di Cristo (XIV). Dalla croce scende lo spirito di Cacciaguida, trisavolo di Dante crociato al tempo dell’imperatore Corrado III, che evoca prima con nostalgia la Firenze incorrotta dei suoi tempi (XV), poi ricorda a Dante la storia della sua famiglia, inveendo contro la Firenze attuale (XVI), e infine scioglie le varie profezie di esilio udite da Dante nel corso del suo viaggio, esortandolo a raccontare con coraggio le cose vedute (XVII). Continua l’ascesa al sesto cielo di Giove, tra gli spiriti giusti, che formano la frase Diligite iustitiam qui iudicatis terram, e poi, continuando la loro danza sulla ultima lettera M, la trasformano nella figura di un’Aquila, uccello sacro a Giove nell’antica mitologia, e simbolo di giustizia (XVIII). È l’Aquila stessa a parlare, affermando l’imperscrutabilità del giudizio divino nella salvezza delle anime (XIX). In essa si distinguono i grandi operatori di giustizia nella storia dell’umanità, da Davide a Traiano (XX). Dante e Beatrice salgono ancora al settimo cielo di Saturno, associato agli spiriti contemplativi, che salgono e scendono per una scala d’oro che si perde all’infinito verso l’alto (la stessa che apparve nel sogno biblico di Giacobbe): tra essi, san Pier Damiani, grande teologo medievale, che discetta sul tema della predestinazione (XXI); poi san Benedetto, che lamenta la decadenza degli ordini religiosi. Dante e Beatrice salgono rapidissimi la scala: Dante guarda in basso, contemplando le orbite degli astri, e giù, nel fondo, la Terra, che appare da tanta altezza una minuscola sfera: “l’aiuola che ci fa tanto feroci” (XXII). Nell’ottavo cielo delle stelle fisse gli appare ora la prima visione estatica, il trionfo di Cristo, circondato dalla miriade di luci dei beati (XXIII). In successione, i tre grandi Apostoli interrogano Dante sulle tre virtù teologali: san Pietro sulla Fede (XXIV), poi

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(dopo una digressione di Beatrice sugli angeli) (XXV) san Giacomo sulla Speranza, e infine san Giovanni sulla Carità (seguito dall’importante apparizione dell’anima del primo uomo, Adamo, che tratta anche dell’origine del linguaggio umano) (XXVI). I beati cantano il Gloria, ma san Pietro pronuncia una terribile invettiva contro la Chiesa corrotta. Continua l’ascesa al nono cielo, il Primo mobile, mentre Dante guarda per un’ultima volta la Terra (XXVII). Fissando gli occhi di Beatrice scorge un punto luminoso, si volta per guardarlo e ne è accecato: è un punto (Dio) intorno al quale girano nove cerchi concentrici di fuoco, che corrispondono, in un’immagine rovesciata, alla struttura concentrica del cosmo. Gli Angeli si dispongono su ogni cerchio, in tre ordini di tre gruppi ciascuno (XXVIII), in una complessa gerarchia spiegata da Beatrice (XXIX). Finalmente giunto nel decimo e ultimo cielo Empireo, Dante vede la gloria dei beati, come un immenso fiume di luce, che assume poi la forma di una Candida Rosa (XXX). Rapito dalla visione, Dante si volge verso Beatrice, e non la trova più. Al suo posto un vecchio vestito di bianco, il mistico medievale san Bernardo di Chiaravalle, che sarà sua guida alla fine del viaggio (XXXI), e che indica a Dante la Vergine Maria, le anime beate intorno a lei, tra cui Beatrice, e gli altri beati della Rosa (XXXII). Infine, san Bernardo si rivolge direttamente a Maria¸ “Vergine Madre”, affinché, grazie alla sua intercessione, Dante possa giungere alla visione finale di Dio. Visione in cui appare la ragione di tutte le cose, e lo stesso mistero della Trinità, nella forma cangiante di tre cerchi uguali ma di diversi colori. La visione è indicibile, ineffabile, non raccontabile, per l’insufficienza della ragione umana, e di ogni strumento linguistico. Dante torna sulla Terra purificato, ormai guidato da “l’amor che move il sole e l’altre stelle” (XXXIII).

Bibliografia Edizioni complessive delle opere: Le opere di Dante, a c. della Società Dantesca Italiana, Firenze, Bemporad, 1921; Opere minori, Milano-Napoli, Ricciardi, 1979-1988. Repertori enciclopedici: Enciclopedia Dantesca, diretta da U. Bosco, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1970-1978; The Dante Encyclopedia, ed. ���������������� R. Lansing, New York- London, Garland, 2000. Monografie: G. Padoan, Introduzione a Dante, Firenze, Sansoni 1995; E. Malato, Dante, Roma, Salerno, 2002; C. Ledda, Dante, Bologna, Il Mulino, 2008; G. Gorni, Dante: storia di un visionario, Roma-Bari, Laterza, 2008. Studi critici complessivi: F. De Sanctis, Lezioni e saggi su Dante, Torino, Einaudi, 1955; B. Croce, La poesia di Dante, Bari, Laterza, 1921; E. Auerbach, Studi su Dante (1963), Milano, Feltrinelli, 1988 (con i saggi fondamentali Dante poeta del mondo terreno, e Figura; la lettura di If. X è invece in Mimesis, cit. in I, 1); G. Contini, Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino, Einaudi, 1976 (con l’analisi del sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare).



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Sugli orizzonti culturali, politici e filosofici: E. Moore, Studies in Dante, Oxford, Clarendon Press, 1896-1917; E. Gilson, Dante e la filosofia (1939), Milano, Jaca Book, 1987; B. Nardi, Dante e la cultura medievale (1949), Roma-Bari, Laterza, 1990; G. Muresu, Dante politico, Torino, Paravia, 1979; P. Boyde, L’uomo nel cosmo. Filosofia della natura e poesia in Dante, Bologna, Il Mulino, 1984; C. Segre, Fuori del mondo. I modelli nella follia e nelle immagini dell’aldilà, Torino, Einaudi, 1990; M. Asín Palacios, Dante e l’Islam (1927), Parma, Pratiche, 1994; Dante e la scienza, a c. di P. Boyde e V. Russo, Ravenna, Longo, 1995; P. Dronke, Dante e le tradizioni latine medievali, Bologna, Il Mulino, 1990; M. Corti, Scritti su Cavalcanti e Dante, Torino, Einaudi, 2003 (ristampa dei saggi precedenti La felicità mentale. Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, 1983; e Percorsi dell’invenzione. Il linguaggio poetico e Dante, 1993, con un importante contributo su Ulisse); S. Debenedetti Stow, Dante e la mistica ebraica, Firenze, Giuntina, 2004. Su questioni di carattere filologico: M. Barbi, Problemi di critica dantesca (1893-1937), Firenze, Sansoni, 1975. Riviste specializzate: “Studi danteschi”, “Dante Studies”, “L’Alighieri”, “Dante”. Risorse in rete: Società Dantesca Italiana (www.danteonline.it), Italica – Rai International (www.italica.rai.it/principali/dante), The World of Dante, a c. di D. Parker, Virginia University, Charlottesville (www.worldofdante.org), Digital Dante, a c. di T. Barolini e R.O. McClintock, Columbia University (dante.ilt.columbia.edu), Danteworlds, University of Texas, Austin (danteworlds.laits.utexas.edu), The Princeton Dante Project (etcweb.princeton.edu/dante), Dartmouth Dante Project, database dei commenti della Commedia (dante.dartmouth.edu). 4.1. La vita. M. Barbi, Vita di Dante, Firenze, Sansoni, 1965; G. Petrocchi, Vita di Dante, RomaBari, Laterza, 1983; J. Risset, Dante. Una vita, Milano, Rizzoli, 1995. Cfr. anche C.T. Davis, L’Italia di Dante, Bologna, Il Mulino, 1988. 4.2. Rime della giovinezza. Edizioni: Rime della “Vita nuova” e della giovinezza, a c. di M. Barbi e F. Maggini, Firenze, Le Monnier, 1956; Rime, a c. di D. De Robertis, Firenze, Le Lettere, 2002. Cfr. P. Boyde, Retorica e stile nella lirica di Dante, Napoli, Liguori, 1979. 4.3. Vita nuova. Edizioni: Vita nuova, a c. di M. Barbi, Firenze, Bemporad, 1932; Vita nuova, a c. di D. De Robertis, in Opere minori, vol. I, parte I, Milano-Napoli, Ricciardi, 1984; Vita Nova, a c. di G. Gorni, Torino, Einaudi, 1996. Un’ed. economica con buon commento, a c. di L.C. Rossi, Milano, Mondadori, 1999. Studi: Ch.S. Singleton, Saggio sulla “Vita Nuova” (1958), Bologna, Il Mulino, 1968;

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Testo e contesto. Semiotica dell’arte e della cultura, Bari, Laterza, 1980 (con una lettura dell’Ulisse dantesco); V. Hollander, Il Virgilio dantesco: tragedia nella Commedia, Firenze, Olschki, 1983; V. Russo, Il romanzo teologico. Sondaggi sulla Commedia di Dante, Napoli, Liguori, 1984; R. Mercuri, Semantica di Gerione. Il motivo del viaggio nella Commedia di Dante, Roma, Bulzoni, 1984; G. Bárberi Squarotti, L’ombra di Argo. Studi sulla Commedia, Torino, Genesi, 1986; J. Freccero, Dante. La poetica della conversione, Bologna, Il Mulino, 1989; F. Ferrucci, Il poema del desiderio. Poetica e passione in Dante, Milano, Leonardo, 1990; G. Muresu, I ladri di Malebolge, Roma, Bulzoni, 1991, e Tra gli adepti di Sodoma, Roma, Bulzoni, 2002; G. Padoan, Il lungo cammino del “poema sacro”. Studi danteschi, Firenze, Olschki, 1993; T. Barolini, Il miglior fabbro. Dante e i poeti della Commedia, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, e La Commedia senza Dio. Dante e la creazione di una realtà virtuale, Milano, Feltrinelli, 2003; C. Bologna, Il ritorno di Beatrice. Simmetrie dantesche fra “Vita Nova” e “Commedia”, Roma, Salerno, 1998; Z.G. Baranski, Dante e i segni. Saggi per una storia intellettuale di Dante Alighieri, Napoli, Liguori, 2000; E. Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, Milano, Bruno Mondadori, 2001; U. Carpi, La nobiltà di Dante, Firenze, Polistampa, 2004. Introduzioni alla lettura della Commedia: U. Dotti, La Divina Commedia e la città dell’uomo. Introduzione alla lettura di Dante, Roma, Donzelli, 1996; G. Inglese, Dante. Guida alla Divina Commedia, Roma, Carocci, 2001.

Parte II Il Rinascimento

1. Il primo Trecento

1.1. Crisi del Medioevo All’inizio del Trecento le strutture fondamentali della civiltà medievale entrano in una crisi profonda. Il papato che con Bonifacio VIII sembrava aver raggiunto il livello di supremazia teocratica perseguito da quasi un secolo, dal pontificato di Innocenzo III, passa sotto la tutela interessata della monarchia francese, e trasferisce la propria sede da Roma ad Avignone (13081377); il ritorno dei papi a Roma avverrà solo con Urbano V (1370), e poi definitivamente con Gregorio XI (1377), ma questo avrebbe provocato il gravissimo Scisma d’Occidente, cioè la separazione di quanti continuavano a riconoscere un papa legittimo ad Avignone (1378-1412). L’impero, dopo la discesa di Arrigo VII e la sua morte improvvisa (1313), rinuncia gradualmente alla politica d’influenza in Italia e nell’Europa occidentale, orientando la sua sfera d’azione, con la dinastia di Boemia, e poi d’Asburgo, all’Europa centrale e orientale. Nuovi e più potenti soggetti politici stanno emergendo, i primi stati nazionali, la Francia e l’Inghilterra, che si fronteggiano nella lunga e sanguinosa Guerra dei Cento Anni (13371453). A Oriente, l’impero bizantino (già piegato dagli stessi occidentali con la Quarta Crociata del 1204) sta per crollare definitivamente sotto i colpi degli invasori Turchi. L’economia europea attraversa periodici momenti di crisi, determinati dalla coesistenza di sistemi ormai conflittuali: da una parte la residua società feudale, dall’altra la sempre più crescente circolazione di prodotti e di uomini, l’apertura di nuovi mercati, la nascita di strumenti finanziari, di capitali e di banche. Questo fenomeno interessa direttamente l’Italia, che nel corso dei secoli XII-XIII si era proiettata verso il Mediterraneo orientale, con le Crociate e le Repubbliche Marinare, e verso l’intera Europa, con i mercanti e gli agenti di cambio delle sue città, soprattutto della Toscana. Nella prima grande

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‘globalizzazione’ della società medievale, l’Italia risente in prima linea dei contraccolpi di quanto accade nel continente: la crisi della monarchia francese, la Guerra dei Cento Anni, e soprattutto grandi eventi collettivi che si manifestano a più riprese, come le carestie, e le pestilenze, culminate nella terribile Peste Nera, che spopola l’Europa tra 1347 e 1350. Falliscono le banche principali, come i Bardi e i Peruzzi a Firenze, per l’insolvenza dei loro debitori europei. Le città diventano ingovernabili, per le lotte tra le diverse fazioni politiche, e le prime rivolte di classe, delle maestranze e dei lavoratori sottoposti alle logiche sempre più stringenti del profitto, come accadde nel Tumulto dei Ciompi (Firenze 1378). In molte città le istituzioni politiche comunali, di tipo assembleare e repubblicano, lasciano il posto all’effettivo esercizio del potere da parte di una sola famiglia, più ricca o potente delle altre, nelle forme di governo della Signoria, e poi del Principato. Il fenomeno è più rapido al Nord, dove già dal Duecento grandi famiglie di origine feudale prendono stabilmente il potere nelle città più importanti, costituendo delle vere e proprie ‘corti’: prima in Veneto, a Treviso (i Da Romano), Verona (gli Scaligeri), Padova (i Da Carrara), poi a Milano (i Visconti), Mantova (i Gonzaga), Ferrara (gli Estensi). Il sistema italiano, in assenza di un’entità più forte delle altre, capace di unificare la penisola (come stava accadendo in altri paesi europei), tende a costituirsi come un sistema di stati regionali, cui corrisponde una sostanziale autonomia anche culturale e linguistica. Alla metà del Trecento, delle antiche repubbliche marinare, restano solo, come potenze marittime di rango mediterraneo, Genova e Venezia, entrambe con una fitta rete di domini e colonie in Oriente. Pisa sta per essere assorbita nell’orbita di Firenze, che espande la sua influenza sul resto della Toscana, contrastata da Lucca e soprattutto da Siena. Lo Stato della Chiesa versa in una situazione di grave anarchia, culminata nel tentativo di costituzione di una repubblica romana (1347) da parte del tribuno Cola di Rienzo (ucciso però nel 1353), e il suo controllo sarà recuperato solo dalla ferrea azione del cardinale Albornoz (1350-1370), in vista del ritorno dei Papi a Roma. Al Sud il regno di Napoli (anche dopo la perdita della Sicilia, ribellatasi con i Vespri siciliani, e diventata dominio aragonese) si configura, sotto il regno di Roberto d’Angiò, come un forte stato, di grande rilevanza europea e mediterranea, ma, dopo la morte del re (1343), viene coinvolto nella decadenza dinastica degli Angioini. Nel complesso, i contemporanei hanno l’impressione di vivere in un mondo profondamente cambiato rispetto al passato: un mondo dominato dalla mutevolezza, piuttosto che dalla stabilità, e in cui la Fortuna (comunque sempre presente nell’immaginario medievale) perde il carattere moralistico di



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strumento rivelatore delle vanità umane (dal potere mondano alla ricchezza), per diventare il segno enigmatico del caos, dell’irrazionalità. In questa graduale perdita del significato è coinvolto anche il senso della Morte, che può apparire, nelle grandi pestilenze, come un flagello universale e livellatore. Gli affreschi del Trionfo della Morte al Camposanto di Pisa (1336-1342) sono basati sul contrasto drammatico fra i piaceri illusori della vita terrena e la realtà macabra della dissoluzione fisica. Una nuova visione della vita, con maggiori inquietudini e minori certezze, ne scopre la profondità e l’altezza, e la posizione dell’uomo sotto un cielo che può essere autonomo da influenze metafisiche o spirituali. Tale visione si riflette, innanzitutto, nelle arti figurative, con Giotto, e con la scuola senese, da Duccio a Simone Martini. Lo spazio si è dilatato, e il mondo è diventato più piccolo. Il tempo scorre molto più velocemente, e diventa misurabile con maggior precisione, grazie all’invenzione degli orologi meccanici. Forse il cambiamento della percezione del tempo porta ad un radicale cambiamento della musica, con l’invenzione dell’Ars Nova (titolo di un trattato di Philippe de Vitry), che introduceva la tecnica della polifonia, della sovrapposizione di voci e linee melodiche diverse, una architettura di suoni analoga alle strutture verticali delle cattedrali gotiche.

1.2. La cultura veneta Il Veneto, nel corso del Duecento, rappresenta per più aspetti una regione d’avanguardia nella cultura italiana, laboratorio di esperienze culturali in cui si incrociavano le istanze delle nuove letterature volgari europee (in provenzale o in francese) e della cultura mediolatina, orientata sulla definizione di un primato della poesia, e del recupero della memoria degli Antichi. La presenza di insigni resti archeologici a Verona, e di importanti biblioteche come la Capitolare di Verona e quella della vetusta abbazia di Pomposa, favorisce un clima di ricerca di testi antichi, che in alcuni casi erano rimasti sconosciuti da secoli, o tramandati da manoscritti scorretti. È questo il caso delle tragedie di Seneca, ritrovate a Pomposa dal padovano Lovato Lovati (1241-1309), o dello stesso Livio, oggetto di una venerazione particolare nella città, Padova, che si vantava di avergli dato i natali. Fra questi intellettuali, emerge la figura del notaio padovano Albertino Mussato (1261-1329), attivo anche nella vita politica della sua città, come ambasciatore a Bonifacio VIII e poi ad Arrigo VII, avversario di Cangrande della Scala, ed esule a Chioggia nel 1328. Incoronato poeta nel 1315, il Mussato scrisse opere storiche in latino fortemente legate alla contempora-

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neità (Historia Augusta de gestis Henrici VII, e De gestis Italicorum post mortem Henrici VII); e soprattutto una tragedia latina, l’Ecerinis, sull’efferato tiranno di Treviso, Ezzelino da Romano. Apparentemente, si trattava di una tragedia ‘storica’, perché riferita ad eventi accaduti cento anni prima: in realtà, il vero bersaglio di Mussato era il nuovo tiranno di Verona, Cangrande, che minacciava la libertà di Padova. Nello stile, la tragedia (la prima nella letteratura italiana) si segnala per la consapevole imitazione delle tragedie di Seneca, appena riscoperte, e dalle quali deriva il gusto per una rappresentazione cupa e sanguinaria, basata sulla figura diabolica di Ezzelino. In latino nasceva anche la storiografia ufficiale veneziana, con le cronache scritte dallo stesso doge Andrea Dandolo, mentre la narrativa d’evasione del genere cavalleresco preferiva ricorrere alla lingua franco-veneta, per testi che ebbero grande fortuna di pubblico, soprattutto nell’ambiente raffinato delle corti padane, come quella degli Estensi: i Geste Francor, e l’Entrée d’Espagne (Padova 1320), racconto dell’innamoramento di Orlando per una bella saracena, continuato da Niccolò da Verona ne La prise de Pampelune (1343). La svolta decisiva verso la letteratura volgare veniva intanto preparata, oltre che dalle presenze di Dante e poi di Petrarca, dall’attiva opera di mediazione di poeti come Niccolò de’ Rossi, che a Treviso, entro la metà del Trecento, oltre ad una sua interessante produzione lirica, compilò un’importante antologia di poesia in provenzale, francese e toscano.

1.3. Lettori di Dante La pubblicazione della Commedia, e lo stesso peregrinare di Dante fra Italia centrale e settentrionale nei due primi decenni del Trecento, in città come Bologna e Verona, ebbero un impatto enorme sulla cultura contemporanea. Un primo, e più limitato, livello di ricezione è quello che si attuò nella produzione di testi che, in un modo o nell’altro, si richiamavano alla situazione strutturale della Commedia (il poema didascalico e allegorico, di solito racconto di un viaggio fantastico, o di una visione), riprendendone anche la più importante invenzione metrica, la terzina. Il primo episodio, in ordine cronologico, marca, in verità, non un’imitazione, ma un’opposizione, così radicale da individuare in quell’opera una sorta di anti-Commedia: si tratta dell’Acerba di Francesco Stabili, detto Cecco d’Ascoli (Ascoli 1269-Firenze 1327), medico e astrologo esperto della cultura scientifica araba, commentatore della Sfera di Giovanni Sacrobosco e dell’Alcabizio, e perciò considerato, nella società tardomedievale, un po’ stregone e un po’ mago, accusato di aver stretto un patto col Diavolo sui Monti Sibillini, e bruciato vivo a Firenze.



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Cecco non era così pericoloso, ma pagò di persona le superstizioni e le lotte politiche del suo tempo. Apertamente debitore nei confronti del progetto globale della Commedia, Cecco vorrebbe cantare la verità della Natura in modo diretto, e senza la finzione allegorica dantesca: “Qui non se canta al modo de le rane, / qui non se canta al modo del poeta / che finge imaginando cose vane”; e perfino nella metrica Cecco cerca di cambiare, mutando le terzine incatenate aperte in terzine ‘chiuse’ (in realtà stanze di sei versi, con rime ABACBC). Nonostante tutto, l’Acerba, incompiuto poema in quattro libri sul cosmo, l’uomo, e le meraviglie della natura (soprattutto quelle tramandate da bestiari e lapidari), è testimonianza preziosa del momento di passaggio dalla cultura medievale alla ricerca scientifica moderna, già avviata nel Duecento da filosofi come Ruggero Bacone e Alberto Magno. Più ristretta (e meno pericolosa per gli autori) opera compilativa sono gli altri poemi allegorici del Trecento, in terzine dantesche: il Dittamondo di Fazio degli Uberti (Pisa ca. 1305-ca. 1367), un viaggio erudito guidato dai geografi antichi Tolomeo e Solino; e il Quadriregio di Federico Frezzi (ca. 1390), un monaco di Foligno che crede di superare Dante, immaginando di viaggiare per ben quattro ‘regni’ (quelli di Amore, di Satana, dei vizi e delle Virtù), guidato da Minerva. La ricezione dantesca avvenne invece soprattutto sul piano della lettura e dell’esegesi della Commedia, segno di un rapido mutamento del contesto culturale tra la generazione di Dante e quelle immediatamente successive, per le quali diventava sempre più difficile capire la profondità dottrinale e teologica, e anche, in alcuni casi, i riferimenti storici e cronachistici. Erano quindi necessari dei commenti, e la Commedia fu il primo testo della letteratura italiana ad essere oggetto di spiegazione sistematica, in forma scritta, sui margini dei manoscritti, come si usava allora solo per i classici latini o i testi biblici; e poi in forma orale, nelle letture pubbliche di canti del poema (Lectura Dantis). Commenti non univoci, ma documento fondamentale della diffrazione interpretativa di un’opera che, in modi diversi, avrebbe comunque segnato per sempre la tradizione letteraria italiana ed europea. Tra l’altro, bisognerebbe osservare che la prima forma di ‘interpretazione’, in molti di quei manoscritti, fu costituita dalle miniature, dall’apparato illustrativo: le immagini permettevano al lettore di ‘vedere’ direttamente Dante e Virgilio, o le bolge dell’Inferno, e dimostravano anche il forte carattere ‘visivo’ della poesia di Dante. Scrissero commenti alla Commedia gli stessi figli del poeta, interessati alla riabilitazione morale e intellettuale del padre, Iacopo di Dante per il solo Inferno (1322), e Pietro di Dante, più attento all’individuazione delle fonti (1341-1348). A Firenze, Andrea Lancia, nel commento detto l’Ottimo

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(1333-1334), approfondì gli aspetti anche linguistici e intertestuali, mentre il frate carmelitano Guido da Pisa ebbe a insistere sulla lettura profetica e visionaria (1340). A Bologna, importante centro di cultura universitaria dove insegnava il corrispondente di Dante, Giovanni del Virgilio, scrissero i loro commenti Iacopo della Lana (1330), e in latino Graziolo de’ Bambagioli, per il solo Inferno (1323), e Benvenuto Rambaldi da Imola (1375): protagonista, quest’ultimo esegeta, di una pubblica lettura in cui l’esperienza di insegnamento dei classici (Virgilio, Lucano, Valerio Massimo, e anche le egloghe di Petrarca) si applicava ad un autore come Dante, percepito ormai come un ‘classico’. Il più grande cultore di Dante, nel Trecento, fu sicuramente Boccaccio, che ne fu lettore precoce (anche di testi che noi non conosciamo, come il sirventese per le belle donne fiorentine, imitato nella Caccia di Diana), imitatore della Commedia (nel poema allegorico Amorosa visione), e soprattutto copista delle opere dantesche, al punto da fissarne stabilmente il testo (la cosiddetta ‘vulgata’). Negli ultimi anni fu incaricato dalla Signoria di leggere la Commedia a Firenze (1373-1374), lettura interrotta però al canto XVII dell’Inferno. Oltre il testo di quelle Esposizioni, restava un’opera intera di ricostruzione della vita di Dante, il Trattatello in laude di Dante (iniziato nel 1351-52), ideato per precedere la raccolta delle sue opere, in intelligenti operazioni ‘editoriali’ predisposte dallo stesso Boccaccio, e testimoniate ancora da alcuni suoi manoscritti autografi.

1.4. Le cronache La cronaca, nel Trecento, diventa una delle forme di scrittura più adatte alla registrazione della contemporaneità. In questa operazione è determinante la posizione del cronista, il suo particolare punto di vista, e quindi l’io dello scrivente, come era già avvenuto per Dino Compagni. Apparentemente sembra fare un passo indietro, rispetto al Compagni, Giovanni Villani (Firenze ca. 1280-1348), perché la sua Nuova cronica ha all’inizio una struttura universalistica, e parte dalle origini del mondo. Poi, però, si concentra soprattutto sul periodo vissuto dallo stesso autore, e anzi identifica in un momento preciso l’ispirazione della scrittura storica, nell’anno emblematico del Giubileo del 1300, quando il giovane Villani si trovava a Roma, e veniva suggestionato dai resti imponenti della civiltà degli Antichi, come anche dalla lettura dei classici, Virgilio, Sallustio, Lucano, Livio. Giovanni non era uno scrittore di professione, o un letterato, ma un mercante, partecipe della vita politica di Firenze (era guelfo ‘nero’), coinvolto nella crisi economica del 1346, e morto



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di peste nel 1348. La sua cronaca (iniziata dopo il 1322), sospesa tra modernità e municipalismo, è così documento attento della società contemporanea, anche in aspetti fino ad allora trascurati, come l’economia e il commercio; e per di più, nella peculiare tradizione fiorentina basata sulla ‘famiglia’, diventa una specie di ‘libro di famiglia’, continuato dal fratello Matteo († 1363), e poi dal nipote Filippo († 1405, ormai anche umanista, autore del Liber de origine civitatis Florentiae et eiusdem famosis civibus). A Napoli la scrittura cronachistica è il prodotto non di un contesto familiare e borghese (come in Toscana), ma della registrazione degli eventi ad opera di funzionari della corte regia. Uno di loro compone la prima parte della Cronaca di Partenope (ca. 1326), primo testo letterario in volgare napoletano, denso di notizie favolose sulle origini della città, e sulla leggenda medievale di Virgilio mago, mentre le tre parti successive (compilate dal nobile Bartolomeo Caracciolo ed altri cortigiani) percorrono la storia contemporanea di Napoli (rapidamente decaduta dopo la morte di re Roberto, e insanguinata da diverse tragedie dinastiche), riprendendo la stessa cronaca del Villani. A Roma, negli stessi anni, il punto di vista del cronista è decisivo nella redazione di una Cronica, già detta dell’Anonimo Romano, e ora recentemente attribuita al medico Bartolomeo di Iacopo da Valmontone, al servizio del potente cardinale Ildebrandino Conti. Si tratta di un vivido affresco di Roma negli anni 1325-1354, teatro di grandi rivolgimenti in cui si stagliano le figure di eroi moderni ma tratteggiati ‘all’antica’, come il tribuno Cola di Rienzo. Il testo, composto prima in latino (perduto), fu poi tradotto in volgare romanesco, in uno stile fortemente rappresentativo, anche per l’asserzione di testimonianza autentica che l’autore vuole fornire: “E io le viddi e sentille”. In arcaiche quartine di alessandrini canta la giovane storia della sua città, L’Aquila (fondata nel 1254), Buccio di Ranallo (1295-1363) nella Cronaca aquilana. E affine, per ricezione di pubblico e per vicinanza temporale degli eventi trattati, anche se già mitizzati in un contesto cavalleresco, è la prosa narrativa romanzesca dell’Avventuroso Siciliano (1340) di Bosone da Gubbio, che racconta le avventure di cinque baroni siciliani, cavalieri erranti alla fine del Duecento.

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- Bosone da Gubbio, L’avventuroso siciliano, a c. di R. Gigliucci, Roma, Bulzoni, 1989.

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2.1. La vita Francesco di Petracco nasce ad Arezzo nel 1304 da un notaio fiorentino, ser Pietro di Parenzo di Garzo dell’Incisa, detto Petracco. Coinvolto negli stessi torbidi politici vissuti da Dante, come Dante Petracco era stato costretto alla fuga nella ghibellina Arezzo, con una condanna ad una multa e al taglio della mano. In realtà, il piccolo Francesco dimora con la famiglia, e soprattutto con la madre, Eletta Canigiani, e il fratello minore Gherardo, nella casa avita dell’Incisa, donde si sposta a Pisa, quando il padre vi raggiunge la corte dell’imperatore Arrigo VII. Alla morte di Arrigo (1313), la famiglia si trasferisce in Provenza, alla corte papale di Avignone, dove, tra esuli o mercanti fiorentini e grandi ecclesiastici, ser Petracco può tentare di ricostruirsi una vita. La famiglia risiede nella più economica e tranquilla Carpentras, dove Francesco inizia lo studio delle discipline del ‘trivio’ (grammatica, dialettica e retorica) con il maestro e poeta Convenevole da Prato, e svolge poi studi di diritto a Montpellier (1316-1320), dove lo raggiunge la notizia della morte della madre (1320). Il padre Petracco invia allora a Bologna i fratelli Francesco e Gherardo, per completare gli studi di diritto: proposito presto disatteso, perché il clima intellettuale bolognese (tra cultura universitaria latina e suggestioni della letteratura volgare: Dante era ancora vivo, e Giovanni del Virgilio spiegava i classici) orienta i due giovani allo studio appassionato delle lettere. Studio comunque non osteggiato dal padre, che dona al figlio i primi, costosi manoscritti di testi classici: soprattutto lo splendido Virgilio Ambrosiano, monumentale collezione delle opere virgiliane col commento di Servio. Il soggiorno bolognese finisce bruscamente nel 1326, con la morte del padre. Francesco torna ad Avignone (1326-1337), e entra a far parte della cerchia di una famiglia romana molto influente in curia, i Colonna, come

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familiare di Giacomo Colonna vescovo di Lombez (1327-1330), e cappellano del cardinale Giovanni Colonna (1330-1347). Francesco diventa quindi ‘chierico’, membro della struttura ecclesiastica ma senza gli ordini sacerdotali, e dai benefici economici legati a questa posizione avrà, negli anni successivi, quella libertà d’azione che potrà garantirne la piena libertà intellettuale. Nell’ambiente internazionale di Avignone, compie anche le sue esperienze culturali fondamentali: la conoscenza straordinaria dei classici latini (Virgilio, Orazio lirico, Ovidio, i poeti elegiaci e satirici), quale nessuno prima di lui, nel Medioevo, aveva raggiunto, anche grazie al ritrovamento di testi sconosciuti (le orazioni di Cicerone, trovate a Liegi nel 1333, tra cui la Pro Archia), o al restauro filologico di autori come Livio (nel manoscritto oggi a Londra, Harleiano 2493). Con quegli autori Francesco inizia un dialogo personale, serrato, fatto di appunti e postille sui margini dei manoscritti, il suo tesoro più prezioso (come ricorda nel 1333 nella prima lista dei “libri mei peculiares”, nel codice Parigino latino 2201). Allo stesso tempo approfondisce la lettura dei Padri della Chiesa, da Girolamo ad Agostino, da Ambrogio a Lattanzio, e la meditazione sulla condizione umana, favorita anche dalla frequentazione del monaco agostiniano Dionigi di Borgo San Sepolcro. Ad Avignone avviene l’evento fondamentale della sua vita: il 6 aprile del 1327, nella chiesa di Santa Chiara, l’incontro con una donna di nome Laura, forse della nobile famiglia de Sade. È un amore sconvolgente, per una donna irraggiungibile, oggetto del desiderio che scatena nel poeta un’intensa fantasia erotica, proiettata nelle sue prime poesie in volgare, e che lo porta a far dipingere un ritratto dell’amata al celebre pittore senese Simone Martini (che eseguirà anche una grande miniatura sul codice di Virgilio). Intorno a Laura Francesco costruisce il suo mito più grande, ripreso dal mito antico di Apollo e Dafne, la ninfa che si trasforma in ‘lauro’ nell’istante in cui viene toccata dal dio. Forse in questo periodo il poeta si inventò il suo classicheggiante ‘nome d’arte’, Petrarca, rinunciando al brutto Franciscus Petracchi, e richiamandosi invece al mito di Medusa. Alla donna che diventa ‘legno’ (Laura-Dafne-lauro) corrisponde infatti l’amante che si muta in ‘pietra’ (Petrarca-pietra). Dopo un primo, entusiasmante viaggio a Roma presso i Colonna (1337), vera scoperta personale del mito della classicità, Francesco torna ad Avignone (1337-1341), ma inizia anche a distaccarsene, in quella ricerca dialettica della solitudine che marcherà tutta la sua vita. Come rifugio personale, compra quindi una casa nella campagna sulle rive del fiume Sorgue, a Vaucluse (Valchiusa), dove gli nascono, da donne non identificate, i figli Giovanni (1337) e Francesca (1343), e dove comincia a scrivere le prime importanti opere letterarie in latino, il De viris illustribus e il poema Africa. Proprio la



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fama procurata dal poema gli fruttò la coronazione poetica a Roma, l’8 aprile 1341, in Campidoglio (dopo un esame sostenuto a Napoli presso re Roberto d’Angiò): un viaggio importante, che trattenne Petrarca in Italia fino al 1342, a Parma, presso l’amico e signore Azzo di Correggio, che gli consentì il ritiro in un nuovo rifugio, a Selvapiana. Tornato ad Avignone (1342-1343), Petrarca incontra il monaco calabrese Barlaam, con cui cerca di iniziare lo studio del greco, ma deve affrontare anche un momento di acuta crisi morale, di ripensamento della propria condizione esistenziale, sospesa tra vane attività mondane (la poesia e il desiderio di gloria, l’amore per Laura), e la tensione per una più alta spiritualità. Crisi acuita dalla conversione del fratello Gherardo, che diventa monaco certosino a Montrieux (1342); e riflessa poi nella composizione di opere come il De vita solitaria (1346), il De otio religioso e il Secretum (1347). Petrarca andrà a trovare Gherardo proprio nel 1347, dopo un altro turbolento viaggio in Italia (1343-45), che lo porta di nuovo a Napoli (1343), del tutto cambiata dopo la morte di re Roberto, e poi a Parma, assediata dalla guerra (1344-45), e finalmente nella pace degli studi a Verona, dove scopre un codice con le epistole Ad Atticum di Cicerone (1345). Il richiamo dell’Italia è fortissimo, soprattutto quando Cola di Rienzo (conosciuto da Petrarca nel 1342) sale al potere a Roma (1347). L’entusiasmo di Petrarca è di breve durata, ma intanto egli è tornato in Italia, a Verona (1347), e a Parma, dove lo raggiungono le notizie tragiche della peste che devasta l’Europa, e uccide i suoi più grandi amici: il poeta Sennuccio Del Bene, il cardinale Giovanni Colonna, e soprattutto, il 6 aprile 1348, Laura. Petrarca ormai resta in Italia. Raccoglie le sue lettere familiari, e rivede le opere precedenti. Andando a Roma per il Giubileo incontra a Firenze Boccaccio (1350), che lo visita poi a Padova, offrendogli una cattedra allo studio fiorentino, e restando a lui legato per sempre, in un comune sodalizio intellettuale: tra l’altro, sarà Boccaccio a mediare l’incontro con Leonzio Pilato, che insegnerà un po’ di greco a Petrarca, e gli tradurrà in latino i poemi di Omero. Dopo un ultimo breve ritorno a Valchiusa, e nella ormai odiata Avignone (1351-1353), Petrarca si stabilisce a Milano, presso l’arcivescovo e signore Giovanni Visconti (1353-1361), per il quale svolge importanti ambascerie europee, all’imperatore Carlo IV a Praga (1356) e al re di Francia Giovanni II a Parigi (1361). Si sposta poi a Padova (1361), Venezia, con passaggi a Pavia e Ferrara (1362-1367), e infine a Padova (1368), presso i Da Carrara, e nell’ultimo rifugio della villa di Arquà, nei Colli Euganei, dove muore nel 1374.

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2.2. Rerum vulgarium fragmenta Probabilmente la prima produzione letteraria di Francesco, tra Avignone, Montpellier e Bologna, avvenne sotto il segno della poesia, e in particolare della poesia in volgare. Era un apprendistato quasi inevitabile, per un giovane fiorentino ‘fuori di casa’, per marcare un recupero personale della lingua materna, e della cultura familiare. In famiglia, il bisnonno, Garzo dell’Incisa, era stato poeta in volgare, autore di laude. Sono gli anni della prima diffusione della Commedia, forse letta precocemente da Francesco, insieme ai testi della poesia lirica provenzale e italiana, con iniziale predilezione verso i campioni del trobar clus, di una poesia raffinata ed elitaria, molto attenta all’elaborazione formale (Arnaut, Cavalcanti, Dante petroso), e poi verso gli ultimi esponenti della poesia ‘nuova’ toscana, emigrati verso Napoli e la Provenza, Cino da Pistoia e Sennuccio Del Bene, che rinunciano allo sperimentalismo linguistico e stilistico, e lavorano alla formazione di una ‘maniera’, basata su una lingua poetica più ristretta e definita. Petrarca apportò, in questa tradizione, alcune novità radicali. Innanzitutto il peso di una personale e straordinaria formazione classica, di una profonda lettura dei poeti antichi (anche rari, come Orazio lirico, Properzio, Tibullo, e poi lo sconosciuto Catullo, riscoperto a Verona), che gli forniscono un nuovo repertorio di immagini e situazioni, in particolare nell’ambito della mitologia (studiata nelle Metamorfosi di Ovidio, ma anche in altri testi tardoantichi e medievali), per la prima volta utilizzata non in chiave allegorico-morale, ma come forte paradigma esistenziale. Petrarca sente la necessità di ‘vedere’ con occhi nuovi quei miti, di ricreare quelle ‘favole’ come se fossero attuali, e questo spiega anche il suo forte interesse per la loro ‘visualizzazione’, attraverso la tecnica della descrizione. Dai classici, più che dai moderni, deriva l’impulso a raccogliere le ‘cose volgari’ in una struttura unitaria, in un ‘libro’ di rime, in un ‘canzoniere’ individuale, operazione che nessuno dei precedenti poeti in volgare aveva tentato: i ‘canzonieri’ erano stati fino a quel momento manoscritti collettivi, e le eccezioni più cospicue erano costituite dal laudario di Iacopone, e dal prosimetro della Vita nuova di Dante. L’elemento di aggregazione fu l’innamoramento di Laura, nel 1327: e già nel 1330, in una postilla ad un codice di Orazio, Petrarca ricorda un suo primo ‘libello’, probabilmente di rime volgari, che dovevano essere relative alla storia d’amore per Laura. Tra 1336 e 1338 alcuni di quei testi sono ricopiati e rielaborati in un altro manoscritto (il Vaticano latino 3196, detto ‘codice degli abbozzi’): si tratta di ventidue sonetti, tra i quali spiccano i due testi sul ritratto di Laura eseguito da Simone



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Martini (R.V.F. 77-78), e dell’inizio della canzone Nel dolce tempo della prima etade (R.V.F. 23), basata su una serie di metamorfosi in parte derivate da Ovidio, ma già indicative della riscrittura ‘mitica’ della storia di Francesco e Laura, come la favola di Apollo e Dafne. È importante però notare come la prima poesia volgare di Petrarca non sia un esperimento solitario, ma presenti anche molti testi di corrispondenza, segno di una comunicazione costante con altri poeti contemporanei, e di formazione di un proprio pubblico, capace di comprendere i senhals del nuovo cifrario d’amore; e testi pubblici erano anche quelli non ‘amorosi’, ispirati a tematiche politiche e morali, dal lamento sulle tristi condizioni dell’Italia all’invettiva contro la corruzione della corte avignonese, chiamata ‘nuova Babilonia’. Una nuova raccolta del 1342 ci dà anche il primo testo proemiale, il sonetto Apollo, s’ancor vive il bel desio (R.V.F. 34), che insiste sulla cifra mitologica della storia, e che viene sostituito, nella posizione di apertura, solo verso il 1349-1350, con la composizione di Voi ch’ascoltando in rime sparse il suono. Il nuovo proemio si rivolge al pubblico del ‘libro’, indicando un possibile titolo (Rime sparse), e dando una chiave di lettura diversa, possibile solo dopo la morte di Laura (1348): non più la totalizzante storia d’amore Francesco-Laura, ma la storia dell’anima di Francesco, nei suoi movimenti dialettici di pulsione alle vanità della vita (il “primo giovanile errore”), e di pentimento spirituale. Il canzoniere attraversa allora fasi diverse: una raccolta (non pervenuta) fatta preparare per l’amico Azzo da Correggio (la cosiddetta ‘forma Correggio’, 170 testi: 1357); un manoscritto autografo di Boccaccio, col titolo Fragmentorum liber, e con divisione tra rime ‘in vita’ e ‘in morte’ di Laura (la ‘forma Chigi’, nel Vaticano Chigiano L.V.76, 215 testi: 1362-1366); e finalmente, nel 1366, l’inizio della trascrizione dell’opera completa, a cura del giovane copista Giovanni Malpaghini, nel codice Vaticano latino 3195, fonte di altre trascrizioni intermedie, e completato dallo stesso Petrarca fino al 1374 (anche con l’esclusione di molte rime giovanili, le cosiddette Extravaganti). Nella redazione definitiva il titolo latino voluto dall’autore fu Rerum vulgarium fragmenta (‘frammenti delle cose volgari’), un titolo simile a quello usato da Boccaccio nel codice Chigiano, e significativo più dal punto di vista morale che poetico, dal momento che richiama una delle espressioni conclusive del Secretum, in cui Petrarca si sforzava di raccogliere i fragmenta della sua anima, di ritrovare il significato perduto di quello specchio spezzato che era diventata la sua vita. Se guardiamo invece alla struttura, si tratta ben altro che di ‘frammenti’, ma di una costruzione dalla coesione interna fortissima, paragonabile, nelle

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letterature medievali europee, alla sola Commedia; un’opera che raggiunge il miracolo dell’unità solo alla fine, dopo un cammino di formazione di oltre cinquanta anni in cui è stata, invece, ‘opera in movimento’, mobile riflesso della ‘opera in movimento’ che era la stessa vita del poeta, senza centro e senza luogo. Un blocco di 366 testi, divisi in due parti, definite ‘in vita’ (1263) e ‘in morte’ (264-366) di Madonna Laura, ma che in realtà rispecchia non tanto l’evento biografico (molti testi della prima parte sono composti dopo il 1348, e in vari testi della seconda parte Laura appare ancora viva), quanto una vicenda di ‘metamorfosi’ interiore. Il numero stesso suggerisce un messaggio evidente, da parte dell’autore: 366 sono i giorni di un anno, e per analogia i giorni e le età di una vita intera, nella successione delle stagioni (la nascita, la pienezza, la senescenza e la morte). Ci dà l’illusione di un diario, che diario non è. Successione di giornate simile a un calendario liturgico, ma di una strana liturgia personale, dominata da un sentimento del tempo contraddittorio, sempre ambivalente tra la sensazione di una perdita irreparabile e la speranza dell’eterno. Elementi magici, che allontanano o esorcizzano quasi la presenza costante della morte, sono quelli legati ai segni fisici delle parole, dei nomi (innanzitutto il nome di Laura, oggetto di litania erotica nella sua ripetizione ossessiva e trasformazione in ‘lauro-l’auro-l’aura’), e dei numeri (in particolare il numero 6, associato alla perfezione terrena di Laura), che hanno per Petrarca significato del tutto diverso dal realismo metafisico di Dante: non entità perenni e stabili, ‘segni del divino’, ma numeri in movimento, segni del tempo, e quindi del contingente. Perpetua metamorfosi, instabilità della vita umana, malinconia, appaiono i temi dominanti, forse ancora più di quello dell’amore e della donna, che a sua volta è sottratta alla realtà fisica, e rivissuta all’interno di un mondo interiore. Laura-Dafne, a differenza della creatura del mito (che effettivamente Apollo riesce a sfiorare), è oggetto di un inseguimento senza fine. La sua irraggiungibilità ha bisogno quindi della focalizzazione sui ‘dettagli’, sul corpo (i capelli, gli occhi, le labbra, la mano), o sugli oggetti che potremmo definire ‘feticistici’ (le vesti, il velo, il guanto), fino agli stessi elementi della natura che entrano a contatto con il suo corpo divino (la brezza primaverile che porta il suo profumo, le ‘chiare fresche e dolci acque’ in cui si è bagnata nuda, l’erba del prato dove si è seduta). Per raggiungere questi risultati, Petrarca cercò di ridurre lo sperimentalismo dei poeti che l’avevano preceduto (Dante e Cavalcanti) ad un sostanziale unilinguismo, riducendo le escursioni della lingua poetica, e creando un lessico privo di asprezze ma dotato di una maggiore densità semantica. Se Dante ‘crea’, Petrarca ‘riscrive’, varia, ricombina i pezzi di una tradizione già esistente. Evitando, soprattutto nei sonetti, la complicazione sintattica,



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Petrarca preferisce la paratassi, la coordinazione, l’allineamento orizzontale di sostantivi, aggettivi, sinonimi o antonimi, in gruppi di due, tre, quattro elementi. Prevale di solito la struttura binaria, che dà l’idea del doppio, dell’alternanza, del movimento pendolare tra gli opposti, che poi è una delle condizioni genetiche della poesia petrarchesca. La medesima selezione formale avviene nella metrica, che si riduce a due soli tipi di verso, l’endecasillabo e il settenario, combinati in una gamma di solo cinque forme metriche: nell’ordine di frequenza, sonetti (317), canzoni (29), sestine (9), ballate (7) e madrigali (4) (per il madrigale, si trattava di un’interessante operazione compiuta sul genere della ‘pastorella’, ridotto ad un breve componimento di una sola stanza di endecasillabi, con rime ABABCBCC). Accanto alla selezione linguistica (la rimozione di ogni presenza vernacolare e popolare), era quella metrica la scelta decisiva da un punto di vista storico: la costituzione di un canone poetico, che avrebbe favorito l’assimilazione della poesia in volgare da parte degli ambienti intellettuali non toscani (e anche non italiani), non solo nella prospettiva di un’imitazione delle forme e dei contenuti della lirica petrarchesca (il cosiddetto petrarchismo), ma anche e soprattutto per la futura nascita di una letteratura ‘italiana’, sovramunicipale e sovraregionale. L’opera (e la prima parte ‘in vita’) si apre con un sonetto proemiale, Voi ch’ascoltando in rime sparse il suono (1), che presenta ad un pubblico ideale le vicende del “primo giovanile errore” e del suo cammino di pentimento. Segue una prima serie di testi giovanili, influenzati dalla poesia provenzale e fiorentina, e dalla lettura mitologica della storia d’amore, associata soprattutto al mito di Dafne, e al tema ovidiano della metamorfosi. L’inizio dell’amore per Laura si lega anche a elementi cristologici, come il Venerdì Santo (3, Era il giorno ch’al sol si scoloraro), o il pellegrinaggio alla Veronica, immagine di Cristo cui Petrarca oppone quasi l’idolatria del viso di Laura (16, Movesi il vecchierel canuto et bianco). La prima sestina, A qualunque animale alberga in terra (22), espressione di una negatività esistenziale opposta alla condizione naturale delle creature, deve molto ai modelli, Arnaut e Dante, anche nelle parole-rima. Ma la prima canzone delle metamorfosi, Nel dolce tempo della prima etade (23), è invece un vero manifesto di poetica, descrizione delle metamorfosi (derivate da Ovidio) di Petrarca in lauro, cigno, pietra, fonte, cervo. Il mito dell’eroe omerico Bellerofonte ispira il sonetto Solo et pensoso i più deserti campi (35), identificazione di uno stato di ‘malinconia’, di separazione dal consorzio umano, stato proprio dell’alienazione amorosa; e quello di Diana il madrigale Non più al suo amante Diana piacque (52), metamorfosi della pastorella ‘alpestra e cruda’, scorta da Petrarca nell’atto di lavare un velo nelle acque di un fiume, così come lo sventurato Atteone (poi tramutato in cervo) aveva osato vedere la nudità di Diana. Un deciso cambio di poetica avviene con la canzone delle citazioni, Lasso me (70), in cui Petrarca fa i conti con la tradizione, citando gli incipit di una canzo-

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ne attribuita ad Arnaut, di Donna me prega di Cavalcanti, di Così nel mio parlar di Dante (petroso, non ‘stilnovista’!), e de La dolce vista e ’l bel guardo soave di Cino (Cino sarà celebrato poi nel sonetto in morte, Piangete, donne, et con voi pianga Amore, 92, del 1337). È la premessa alle canzoni degli occhi (71-73), e ad una poesia della memoria, dell’evocazione, in grado di sostituire l’oggetto d’amore, irraggiungibile o lontano. La sostituzione di quel viso è operata infatti dal ritratto di Simone Martini (77-78), mentre il ricordo dei capelli biondi increspati dal vento viene trasfigurato in Erano i capei d’oro a l’aura sparsi (90), in un contesto metaforico in cui Laura diventa veramente “angelica forma”, “spirto celeste”, “vivo sole”. Dopo l’intermezzo di Mai non vo’ più cantar com’io soleva (105), unica ‘frottola’ del canzoniere (canzone con endecasillabi che ripetono a metà la rima del verso precedente), vero collage di proverbi e sentenze oscure, e del madrigale-pastorella Nova angeletta sovra l’ale accorta (106), breve e sospesa fabula erotica sulle rive di un fiume, si presenta un importante ‘blocco’ di cinque canzoni, recupero memoriale del fantasma di Laura assente: prima la coppia Se ’l pensier che mi strugge (125) e soprattutto Chiare, fresche et dolci acque (126), dialogo con gli elementi del paesaggio di Valchiusa che conservano la ‘memoria’ fisica di Laura, trasfigurata come una dea (Diana e Venere al tempo stesso); poi le canzoni di lontananza In quella parte dove Amor mi sprona (127) e Di pensier in pensier, di monte in monte (129) (probabilmente a Selvapiana, ca. 1344), con l’intermezzo della grande canzone politica Italia mia, benché ’l parlar sia indarno (128) (forse composta Parma nel 1345). Oltre la possibilità consolatoria della memoria e della poesia, resta l’angoscia del labirinto d’amore, espresso nei testi successivi, imperniati sulla non soluzione del contrasto morale, come in Pace non trovo, et non ho da far guerra (134). Un labirinto di perdizione morale, cui fa sponda la corruzione di Avignone, nuova Babilonia, contro cui si scagliano tre sonetti di intonazione biblica e profetica (136-138). Ne deriva l’ossessiva e non salvifica ripetizione del nome di Laura, nei sonetti de “l’aura” (194 e 196-98), in cui l’espressione “l’aura” è sempre in incipit e modulata da quattro aggettivi diversi (gentil, serena, celeste e soave); o l’insistenza sui dettagli feticistici della mano e del guanto (199-201). È un quadro in cui si insinua il presentimento della morte di Laura, anche in sogni premonitori (246-54), anche se la prima parte ‘in vita’ si conclude con l’apoteosi del lauro, Arbor victoriosa triumphale (263), segno di gloria di imperatori e di poeti, ed emblema dell’amata. La seconda parte ‘in morte’ si apre con la canzone I’ vo pensando, et nel penser m’assale (264), in realtà un testo di meditazione sulla vanità della vita, chiuso dal celebre verso “et veggio ’l meglio, et al peggior m’appiglio” (v. 136), derivato da Ovidio, “Video meliora proboque, / deteriora sequor” (Met. 7,20-21). Il primo testo in cui effettivamente si presenta la morte di Laura (1348) è invece il sonetto Oimè il bel viso, oimè il soave sguardo (267), seguito dalla canzone Che debb’io far? Che mi consigli, Amore? (268), e dal sonetto Rotta è l’alta colonna e ’l verde lauro (269), anche sulla morte di Giovanni Colonna, mentre la morte di Sennuccio (287) ispira l’idea di mandarlo come ‘messaggero’ in Paradiso ai poeti



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d’amore, nel cielo di Venere: nell’ordine, Guittone, Cino, Dante, Franceschino degli Albizzi, e tutti gli altri (e si noti che al nome di Dante non è dato alcun primato). Tornato a Valchiusa (1351-53), Petrarca comincia a sognare frequentemente Laura, che si ferma a conversare con lui, nel ciclo del sogno (278-86). Ma è illusione inutile, come quella del ritorno ciclico della primavera, opposta al ‘deserto dell’anima’ nel sonetto Zefiro torna e ’l bel tempo rimena (310). Petrarca riprende la giovanile canzone delle metamorfosi con la grande canzone delle visioni, Standomi un giorno solo a la finestra (323), in cui rivede la morte di Laura in sei visioni oniriche successive, in cui l’amata appare come animale, nave, lauro, fontana, fenice e bella donna (1365-68). In altri testi Laura continua a trasformarsi in figure del mito, positive ma anche negative (Proserpina, Euridice, la Fenice, Medusa, la Sirena), e continua a tornare in sogno (340-43), fino all’ultima canzone Quando il soave mio fido conforto (359), dialogo quasi familiare, con Laura seduta sulla sponda del letto, ma iconograficamente rappresentata come una santa, con i ramoscelli di palma e di lauro; e le sue ultime parole di conforto sono un arrivederci al Paradiso. C’è tempo ancora per fare il processo ad Amore nel Tribunale della Ragione, in Quel antiquo mio dolce empio signore (360); o di interrogare la propria immagine, il viso invecchiato e prossimo alla morte, nello specchio, “Dicemi spesso il mio fidato speglio / l’animo stanco, et la cangiata scorza” (361), e lo specchio gli dice, apertamente: “Non ti nasconder più”. Uno specchio che evoca un altro mito, e un altro peccato: quello di Narciso. Il finale del canzoniere ricorda quello della Commedia: una canzone alla Vergine, Vergine bella, che, di sol vestita, / coronata di stelle (366). È la più bella poesia religiosa di Petrarca, anche perché rielabora i moduli più puri della poesia religiosa medievale: la ripetizione litanica (la parola Vergine ripetuta due volte in ogni strofa, in anafora, all’inizio della fronte e della sirma) e la modulazione di aggettivi ed epiteti, come nelle Litanie Lauretane. Nella forte funzione conativa, ne deriva un ritmo di cantilena, con allusioni a testi liturgici. La conclusione è la preghiera di intercessione a Cristo, “ch’accolga il mio spirto ultimo in pace”, con quella parola, PACE, che conclude una storia dominata invece dalla GUERRA delle passioni e delle vanità umane. Ai vv. 111-112 Petrarca ricorda infatti il suo amore per Laura, ormai identificato con il mito di Medusa, che ha ‘pietrificato’ il poeta (Petr-arca): “Medusa et l’error mio m’àn fatto un sasso / d’umor vano stillante”; lo stesso errore che apre, in una perfetta figura circolare, il canzoniere (1, v. 3: “primo giovanile errore”).

2.3. Triumphi Forse all’epoca dell’ultimo soggiorno in Provenza, verso il 1352, su suggestione di Boccaccio (autore dell’Amorosa visione) e della Commedia di Dante, Petrarca concepì l’idea di un poema allegorico che raccontasse la vicenda del suo amore per Laura, i Triumphi, basati su una successione di sei visioni,

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che nella fictio sarebbero iniziate nel momento della prima apparizione di Laura e dell’innamoramento del poeta (6 aprile 1327). Da un lato si tratta di sogni-visioni di tipo medievale, dall’altra il titolo ‘trionfo’ allude ad una forma di iconografia ricavata dalla letteratura classica, il trionfo del condottiero, su un carro preceduto o seguito dai trofei e dai vinti (iconografia già utilizzata da Dante, nel finale del Purgatorio). Nel Trionfo d’Amore (in quattro canti) il poeta ha una visione del carro trionfale di Amore, e della processione degli dèi e degli uomini asserviti al suo dominio, tra i quali, quasi senza accorgersene, entra anche lui; la schiera giunge all’isola di Venere, Cipro, dove viene incarcerata da Amore. Nel successivo Trionfo della Pudicizia (in un solo canto) Laura sfida a battaglia Amore, lo vince e lo imprigiona nel tempio della Pudicizia a Roma. Nel Trionfo della Morte (in due canti) la Morte supera Laura, e ne spegne la vita, restando però soggiogata dalla sua bellezza, e perdendo i propri caratteri più orrendi: “Morte bella parea nel suo bel viso”. Nel Trionfo della Fama (in tre canti) i grandi uomini, condottieri militari, poeti, filosofi, continuano a vivere anche oltre la morte. Ma anche la Fama svanirà, nel corso dei secoli, con il Trionfo del Tempo (un canto). E infine, anche sul Tempo prevarrà il Trionfo dell’Eternità (un canto). In realtà, la complessa struttura del poema rimase incompiuta, ed alcuni canti (nel Trionfo d’Amore, Trionfo della Morte, Trionfo della Fama) ebbero redazioni molto diverse, e mai perfettamente adattate all’insieme: Petrarca comunque lavorò all’opera fino alla fine della vita, come dimostra la stesura autografa del Trionfo dell’Eternità nel codice degli abbozzi. L’imitazione dantesca, evidente in una serie di riprese testuali, è palese nell’uso dello stesso metro della Commedia, la terzina: ma per il resto il poema segue istanze di comunicazione completamente diverse. Il carattere di ‘visione’ fa privilegiare l’elemento visivo-descrittivo su quello narrativo, soprattutto nei lunghi elenchi di personaggi, mitologici e storici. La loro descrizione si serve di procedimenti di scorciamento, di tratteggio in pochi particolari, in pochi versi. Una tecnica simile a quella dei pittori, nella tradizione dell’iconografia sacra medievale. In un certo senso, Petrarca fonda l’iconografia laica e moderna degli eroi antichi, in un testo che cominciò ad essere ampiamente utilizzato nelle arti figurative del Rinascimento.

2.4. Opere latine Come poeta latino, Petrarca si lanciò subito nell’ardua impresa del poema epico, che lo portò a misurarsi direttamente con Virgilio. Doveva essere un



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poema epico fondato sulla storia di Roma antica, ispirato dall’entusiastica riscoperta degli autori antichi, e dal primo commosso viaggio nell’Urbe, nel 1337. In particolare, un autore come Livio suggeriva la ripresa dello scontro epocale con Cartagine, tra Scipione ed Annibale. Nella quiete di Valchiusa, verso il 1338, Petrarca iniziò così l’Africa, poema sulla seconda guerra punica. La diffusione dei primi brani composti gli generò una tale fama poetica, da guadagnargli l’incoronazione di lauro in Campidoglio nel 1341. Ma l’opera, dopo molti rimaneggiamenti, rimase incompiuta. Ne restano nove libri, in cui emergono alcuni episodi di intensa rappresentazione drammatica, con la creazione di personaggi di grande complessità interiore, e di eroi malinconici. I primi due libri sono quasi interamente occupati da un sogno di Scipione, squarcio profetico sulla storia di Roma, ripresa del Somnium Scipionis di Cicerone. Il quinto libro, da solo, costituisce una specie di romanzo d’amore, concluso tragicamente, tra Sofonisba e Massinissa, mentre il sesto libro presenta la figura di Magone, destinato alla morte precoce. Nel finale, sulla nave di Scipione vittorioso che torna a Roma dopo Zama, al poeta Ennio appare in sogno Omero, poeta fondatore della musa epica. Infine, un’interessante dimostrazione di cultura mitologica (così importante per Petrarca) si ha nel terzo libro, con la descrizione delle decorazioni della reggia di Siface, che presentano appunto tutti gli dèi pagani: un brano così ben costruito (sulle fonti classiche e medievali, ma anche sulla personale fantasia di Petrarca), che sarà alla base dell’iconografia mitologica dell’età moderna. Prima dell’Africa, Petrarca aveva già scritto alcuni carmi latini, che per lo più erano nella forma dell’epistola in versi (come quella che Giovanni del Virgilio aveva inviato a Dante), testimonianza viva di una rete di rapporti intellettuali, testi paralleli alle epistole vere e proprie, ma filtrati dalla comunicazione poetica: 66 di questi testi, databili tra 1333 e 1354 furono raccolti nei tre libri delle Metrice, in cui sono notevoli il proemio all’amico Marco Barbato da Sulmona (I,1: 1350), e la riflessione su se stesso di Ad se ipsum (I,14). Un altro genere di poesia latina, la poesia bucolica, era rinato da poco proprio in un contesto epistolare, lo scambio tra Dante e Giovanni del Virgilio. Petrarca intese riprendere quello spunto, ma ricollegandosi direttamente a Virgilio, nelle 12 egloghe del Bucolicum Carmen (‘carme pastorale’). Siamo tra 1346 e 1348: il travestimento pastorale allude ad un momento di crisi, personale e collettiva, dalla morte di re Roberto (chiamato Argus) alla monacazione del fratello Gherardo (nella prima egloga, Parthenias, dialogo tra Petrarca-Silvius e Gherardo-Monicus), dal distacco definitivo dal cardinal Colonna

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(Divortium) fino al racconto allegorico della morte di Laura, nella descrizione dello sradicamento di un lauro (nella decima egloga, Laurea occidens). Parallelamente all’Africa (poema epico, ma di forte ispirazione storica) erano nate le opere storiche, iniziatrici di importanti generi della letteratura umanistica. Innanzitutto il genere biografico, con il De viris illustribus (‘uomini illustri’)(iniziato nel 1338-1343, ripreso nel 1351-1353 e oltre), 36 ritratti di grandi uomini, un quadro cominciato con i grandi condottieri romani, e poi esteso a figure bibliche (Adamo) e mitologiche (Ercole, Giasone). Poi quello aneddotico con i Rerum memorandarum libri (‘libri di fatti memorabili’) (1343-1345), debitori di Valerio Massimo e della tradizione esemplare antica e moderna. Un ultimo testo di erudizione storico-geografica fu l’Itinerarium Syriacum (1358), una guida di viaggio per un pellegrino in Terrasanta: viaggio mai compiuto da Petrarca, ma immaginato a partire dalle sue ampie letture, e in cui trova posto anche il ricordo nostalgico di luoghi visti e amati, come Napoli e i Campi Flegrei. L’inquietudine morale di Petrarca trovava invece espressione nelle opere che, alla fine degli anni Quaranta, affrontarono il tema, filosofico (da Cicerone e Seneca) e religioso, della solitudine e della tranquillità dell’anima. Il De vita solitaria (‘vita solitaria’)(1346-1371), dedicato all’amico Filippo di Cabassoles vescovo di Cavaillon, promuove la solitudine come valore, e presenta Valchiusa come l’eremo laico per eccellenza, il luogo dell’elaborazione intellettuale, contrapposto alla vita tumultuosa della città. Influenzato dall’esperienza monastica del fratello è invece il De otio religioso (‘tranquillità della vita religiosa’)(1347), mentre il desiderio di pentimento, e di legame diretto con Dio, emerge nell’esperienza di poesia di ispirazione biblica dei sette Psalmi penitentiales (‘salmi penitenziali’)(1348), nell’anno della morte di Laura. Petrarca fu ancora riconosciuto in tutta Europa maestro di moralità grazie al De remediis utriusque fortune (‘rimedi dell’una e dell’altra fortuna’)(1356-1357, e poi 1366), trattato di struttura scolastica sulla Fortuna, sia favorevole che sfavorevole: un serrato dialogo tra le personificazioni morali, diviso in due parti (Ragione, Gaudio, Speranza; e poi Ragione, Dolore, Timore), applicato a tutti gli aspetti della vita. Petrarca interpretò la propria avventura intellettuale come una sorta di battaglia contro la barbarie e l’oscurità, e in alcuni casi si servì del violento strumento comunicativo delle invettive per colpire aspetti negativi della cultura contemporanea. Poteva trattarsi della scienza medica, accusata di falsità e ciarlataneria, nelle Invective contra medicum (‘invettive contro un



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medico’)(1352-53, e 1355); oppure della deriva della filosofia aristotelica, ingessata dal principio d’autorità, nel De sui ipsius et multorum ignorantia (‘l’ignoranza propria e di molti altri’)(1367), contro quattro filosofi averroisti veneziani. Altre volte poteva essere la risposta ad un attacco personale, come quello subìto ad opera del potente cardinale Jean de Caraman, rintuzzato nell’ Invectiva contra quendam magni status hominem sed nullius scientie et virtutis (‘invettiva contro un uomo potente ma ignorante e sciocco’)(1355), o infine l’appassionata difesa della civiltà italiana, contro chi (il frate francese Jean de Hesdin) voleva che i papi restassero ad Avignone, con l’Invectiva contra eum qui maledixit Italie (‘invettiva contro un tale che sparlò dell’Italia’)(1373). Nonostante la ricerca della solitudine, tutta l’opera di Petrarca è percorsa da un modernissimo bisogno di dialogo con l’altro, di comunicazione delle proprie inquietudini, e dei propri orizzonti, ad una cerchia di amici, e poi a un pubblico di lettori. Per questo, l’opera latina a cui furono dedicate più cure, e che attraversò tutta la vita dell’autore, parallelamente alla composizione dei Rerum vulgarium fragmenta, furono gli epistolari, anch’essi fragmenta dell’esperienza vitale, ma in forma di prosa, di lettere sparse per il mondo, a destinatari diversi; e quindi di un dialogo ininterrotto con gli altri, anche se consumato in absentia, a distanza di spazio e di tempo, come avviene con una lettera. Grandezza di Petrarca fu quella di fondare il genere moderno dell’epistolario, guardando ai modelli antichi delle Epistulae ad Lucilium di Seneca, e delle Ad Atticum di Cicerone, scoperte nel 1345. Certo, le lettere venivano, nel tempo, profondamente rielaborate. La scrittura diventava anche autobiografica, perché riscriveva l’esperienza a posteriori, cercando di costruire, per i posteri, una figura ideale, uno ‘specchio’ morale dell’autore. La prima grande raccolta epistolare fu quella dei 24 libri delle Familiares, 350 lettere dal 1325 al 1366, aperte da una prefatoria all’amico ‘Socrate’, cioè il fiammingo Ludovico Santo (1350). Vi trovano posto alcuni testi fondamentali, come la celebre lettera a Dionigi di Borgo San Sepolcro, sull’ascensione al Monte Ventoso (Fam. IV,1, datata 26 aprile 1336, ma in realtà rielaborata anni dopo), o quella a Boccaccio in cui Petrarca fa finta di non aver mai letto la Commedia (donatagli appunto da Boccaccio), e afferma di non essere invidioso della fama universale di Dante (Fam. XXI,15). L’ultimo libro, il XXIV, è il più singolare: Petrarca sente gli Antichi così vicini a lui, così ‘contemporanei’, che inizia a inviare lettere anche a loro, a Cicerone, Virgilio, Orazio, Omero. E anzi, a Cicerone, non risparmia aspre critiche, quando scopre (dalle lettere private Ad Atticum, o dalle orazioni) che il grande autore latino non era solo un grande filosofo o retore (come

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credeva il Medioevo), ma anche uomo politico, coinvolto nella vita del suo tempo, non immune dalle bassezze della politica. Scartate diverse lettere (raccolte postume col titolo di Varie), e riunite senza nome d’autore le lettere violentissime contro il papato avignonese (intitolate appunto Sine nomine, 1342-58), Petrarca continuò l’opera dell’epistolario anche con lettere della vecchiaia, nei 17 libri delle Seniles, 120 lettere dal 1361 al 1374, in cui predomina, come interlocutore, la figura di Boccaccio, di cui Petrarca traduce in latino l’ultima novella del Decameron, la Griselda. L’ultima lettera della raccolta è destinata a superare il tempo, perché si rivolge a un destinatario ignoto, nel futuro, l’ideale lettore dell’opera petrarchesca, nell’epistola Posteritati, estremo autoritratto del poeta. Di tutte le opere di Petrarca, una sola era rimasta gelosamente chiusa nel cassetto. Un’opera ‘segreta’, privata, intima, il cui titolo era appunto Secretum, o meglio De secreto conflictu curarum mearum (‘intima battaglia delle mie preoccupazioni’), in tre libri. Francesco l’aveva iniziata nel 1347 (e rivista poi nel ’49 e nel ’53), in un periodo di riflessione sulla propria esistenza che stava per culminare nella morte di Laura, ma preferì adottare, nell’opera, la finzione di un’ambientazione a qualche anno prima, al 134243, cioè al ritorno dal momento di gloria mondana, vissuto a Roma con l’incoronazione poetica. Nel primo libro, partendo dalla situazione medievale della visione, Francesco inizia descrivendo l’apparizione di una donna, la Verità, e poi di un personaggio che si rivela essere addirittura sant’Agostino. Il santo rimprovera l’attaccamento di Francesco alle cose terrene, il suo vano inseguire i phantasmata, le immagini esterne, le apparenze, gli inganni del mondo, svela le illusioni della vita umana, anche attraverso una macabra contemplatio mortis. Francesco vorrebbe rinunciare ai suoi ‘errori’, ma è trattenuto da una forza superiore alla sua volontà e alla sua ragione. Nel secondo libro, dopo l’analisi dei peccati capitali, si evidenzia il senso di perenne insoddisfazione, e poi il vizio peggiore, l’accidia, che porta alla non azione, alla malattia fisica e morale della malinconia. Nel terzo libro finalmente emergono le due più forti ‘catene’ di Francesco, amore e gloria, che coinvolgono la sua stessa attività di scrittore. Francesco difende la purezza e il valore nobilitante dell’amore per Laura, segno terreno della luce divina, ma Agostino dimostra invece la sua caduta verso il basso, verso il compiacimento della concupiscenza, nell’ossessione amorosa diventata follia, idolatria per un corpo fisico e la sua caduca bellezza, e per il suo stesso nome. E vana è anche la ricerca della gloria terrena. Alla fine, i dubbi di Petrarca restano irrisolti, ed egli non riesce a rinunciare totalmente alle sue ‘catene’, pur rendendosi conto della loro sostanziale negatività.



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In questo profondo scavo interiore, molto forte è il rapporto con le Confessioni di Agostino. In realtà, nel Secretum, Francesco e Agostino sono non due personaggi distinti, ma due aspetti dello stesso io, in conflitto tra loro. La straordinaria modernità del dialogo sta nella sua non-conclusione, nel dissidio consapevole ma irrisolto fra vanitas e spiritus. La vita continua, nella ricerca e nella sofferenza, nell’attesa della morte, della pace, dell’incontro con un Dio misterioso e misericordioso. Resta il valore della conoscenza dell’io, con i suoi movimenti, vera conquista del cammino di introspezione che si fa carico di raccogliere gli sparsi frammenti dell’anima (“sparsa anime fragmenta”), e di definirne, di nuovo, l’unità.

Bibliografia Edizioni complessive delle opere: Rime, Trionfi e poesie latine, a c. di F. Neri, MilanoNapoli, Ricciardi, 1951; Prose, a c. di G. Martellotti e al., Milano-Napoli, Ricciardi, 1955; Opere, a c. di E. Bigi e G. Ponte, Milano, Mursia, 1963; Opere, a c. di M. Martelli, Firenze, Sansoni, 1975. V. anche Petrarca, a c. di P. Stoppelli, CD-ROM, Roma, Lexis, 1997. Monografie: U. Bosco, Francesco Petrarca (1946), Bari, Laterza, 1961; V. Pacca, Petrarca, Roma-Bari, Laterza, 1998; M. Ariani, Petrarca, Roma, Salerno, 1999; E. Fenzi, Petrarca, Bologna, Il Mulino, 2008. Lo studio di Petrarca in età contemporanea è stato profondamente rinnovato dal contributo della filologia medievale e umanistica, che ha permesso di ricostruire la sua straordinaria biblioteca, e la rete di rapporti intellettuali dai quali è nato l’umanesimo. Cfr. in particolare P. De Nolhac, Pétrarque et l’humanisme, Paris, Champion, 1892; G. Billanovich, Petrarca letterato, I. Lo scrittoio del Petrarca, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1947; Id., La tradizione del testo di Livio e le origini dell’umanesimo, Padova, Antenore, 1981; Id., Petrarca e il primo umanesimo, Padova, Antenore, 1996; G. Martellotti, Scritti petrarcheschi, Padova, Antenore, 1983. Studi critici: F. De Sanctis, Saggio critico sul Petrarca (1869), Torino, Einaudi, 1983; C. Calcaterra, Nella selva del Petrarca, Bologna, Cappelli, 1942; B. Martinelli, Petrarca e il Ventoso, Bergamo, Minerva Italica, 1977; U. Dotti, Petrarca e la scoperta della coscienza moderna, Milano, Feltrinelli, 1978; L. Marcozzi, La biblioteca di Febo. Mito e allegoria in Petrarca, Firenze, Cesati, 2002; E. Fenzi, Saggi petrarcheschi, Firenze, Cadmo, 2003; A. Quondam, Petrarca, l’italiano dimenticato, Milano, Rizzoli, 2004; K. Stierle, La vita e i tempi di Petrarca. Alle origini della moderna coscienza europea (2003), Venezia, Marsilio, 2007. Riviste specializzate: “Studi petrarcheschi”, “Quaderni petrarcheschi”. Bibliografia aggiornata e risorse in rete: L. Marcozzi, Bibliografia petrarchesca 19892003, Firenze, Olschki, 2005; Comitato Nazionale del VII Centenario della nascita di Francesco Petrarca (www.franciscus.unifi.it).

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2.1. La vita. E.H. Wilkins, Vita del Petrarca, a c. di R. Ceserani, Milano, Feltrinelli, 1970 (con il saggio La formazione del Canzoniere, 1951); nuova ed. a cura di L.C. Rossi, Milano, Feltrinelli, 2003. V. anche U. Dotti, Vita del Petrarca, Bari, Laterza, 1987; A. Foresti, Aneddoti della vita di Francesco Petrarca, a c. di A. Tissoni Benvenuti, Padova, Antenore, 1977. Sull’importante vita scritta da Boccaccio: G. Boccaccio, Vita di Petrarca, a c. di G. Villani, Roma, Salerno, 2004. Una biografia per immagini: Itinerari con Francesco Petrarca, a c. di G. Frasso, Padova, Antenore, 1974. 2.2. Rerum vulgarium fragmenta. Edizioni recenti: a c. di G. Contini (1964), Torino, Einaudi, 1992; a c. di M. Santagata (1996), Milano, Mondadori, 2004; a c. di R. Bettarini, Torino, Einaudi, 2005. Edizioni commentate, importanti per la ricezione moderna del Canzoniere: a c. di G. Leopardi (1826), G. Carducci e S. Ferrari (1899), E. Chiorboli (1924). Studi critici: G. Contini, Preliminari sulla lingua del Petrarca, e Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare, in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970, pp. 169-92 e 5-31; M. Fubini, La metrica del Petrarca, in Metrica e poesia, Milano, Feltrinelli, 1975, pp. 236-327; F. Suitner, Petrarca e la tradizione stilnovistica, Firenze, Olschki, 1977; P. Trovato, Dante in Petrarca, Firenze, Olschki, 1979; M. Santagata, Dal sonetto al ‘canzoniere’ (cit. in I, 3.1); Id., Per moderne carte. La biblioteca volgare di Petrarca, Bologna, Il Mulino, 1990; Id., I frammenti dell’anima. Storia e racconto nel Canzoniere di Petrarca (1992), Bologna, Il Mulino, 2004; C. Berra, La similitudine nei Rerum vulgarium fragmenta, Lucca, Pacini Fazzi, 1992; M. Vitale, La lingua del Canzoniere (Rerum vulgarium fragmenta) di Francesco Petrarca, Padova, Antenore, 1996; G. Capovilla, “Sì vario stile”. Studi sul Canzoniere del Petrarca, Modena, Mucchi, 1998; R. Bettarini, Lacrime e inchiostro nel canzoniere di Petrarca, Bologna, CLUEB, 1998; N. Tonelli, Varietà sintattica e costanti retoriche nei sonetti dei Rerum vulgarium fragmenta, Firenze, Olschki, 1999; M. Zenari, Repertorio metrico dei Rerum vulgarium fragmenta, Padova, Antenore, 1999; La metrica dei Fragmenta, a c. di M. Praloran, Roma-Padova, Antenore, 2003; P. Cherchi, Verso la chiusura: saggio sul Canzoniere di Petrarca, Bologna, Il Mulino, 2008. Introduzione alla lettura: S. Fornasiero, Petrarca. Guida al Canzoniere, Roma, Carocci, 2001. Sul petrarchismo: D. Alonso, La poesia di Petrarca e il petrarchismo (1959), in Saggio di metodo e limiti stilistici, Bologna, Il Mulino, 1965, pp. 305-58. 2.3. Triumphi. Edizioni: I Triumphi, a c. di M. Ariani, Milano, Mursia, 1988; a c. di V. Pacca, in Trionfi, Rime estravaganti, Codice degli abbozzi, a c. di V. Pacca e L. Paolino, Milano,



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Mondadori, 1996. Cfr. I Triumphi di Francesco Petrarca, a c. di C. Berra, Milano, Cisalpino, 1999; M.C. Bertolani, Il corpo glorioso. Studi sui Trionfi del Petrarca, Roma, Carocci, 2001. 2.4. Opere latine. Edizione completa delle opere latine: Opera quae extant omnia, Basilea, Petri, 1554. Edizioni di singole opere: - Africa, a c. di N. Festa, Firenze, Sansoni, 1926. Cfr. V. Fera, La revisione petrarchesca dell’Africa, Messina, Centro di studi umanistici, 1984, e Antichi editori e lettori dell’Africa, ivi 1984. - Il Bucolicum carmen e i suoi commenti inediti, a c. di A. Avena, Padova 1906; Il ‘Bucolicum carmen’ di F. Petrarca, a c. di D. De Venuto, Pisa, ETS, 1990; Laurea occidens, a c. di G. Martellotti, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1968. - De viris illustribus, a c. di G. Martellotti, vol. I, Firenze, Sansoni, 1964; De viris illustribus, vol. I, a c. di S. Ferrone, Firenze, Le Lettere, 2006; vol. II: Adam – Hercules, a c. di C. Malta, Firenze, Le Lettere, 2007 (nuova ed. Messina, Centro di Studi Umanistici, 2008); vol. IV, Compendium, a c. di P. de Capua, Firenze, Le Lettere, 2007. Cfr. anche De gestis Cesaris, a c. di G. Crevatin, Pisa, Scuola Normale Superiore, 2003. - Rerum memorandarum libri, a c. di G. Billanovich, Firenze, Sansoni, 1945. - Itinerario in Terra Santa 1358, a c. di F. Lo Monaco, Bergamo, Lubrina, 1990. - De vita solitaria, a c. di G. Martellotti, in Prose (cit. in 2.2), pp. 286-590; a c. di M. Noce, Milano, Mondadori, 1992. - De otio religioso, a c. di G. Rotondi, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1958; a c. di G. Goletti, Firenze, Le Lettere, 2006. - Invective contra medicum. Invectiva contra quendam magni status hominem sed nullius scientie aut virtutis, a c. di F. Bausi, Firenze, Le Lettere, 2005; Contra eum qui maledixit Italie, a c. di M. Berté, Firenze, Le Lettere, 2005. Cfr. F. Bausi, Petrarca antimoderno. Studi sulle invettive e sulle polemiche petrarchesche, Firenze, Cesati, 2008. - Familiares, a c. di V. Rossi e U. Bosco, Firenze, Sansoni, 1933-1942; trad. it. di E. Bianchi in Opere 1975 (cit. in 2.2). Cfr. Motivi e forme delle Familiari di Francesco Petrarca, a c. di C. Berra, Milano, Cisalpino, 2003; L. Chines, Lettere dell’inquietudine, Roma, Carocci, 2004. - Lettere disperse, a c. di A. Pancheri, Parma, Guanda, 1994. - Sine nomine. Lettere polemiche e politiche, a c. di U. Dotti, Bari, Laterza 1974. - Res seniles. Libri I-IV, a c. di S. Rizzo e M. Berté, Firenze, Le Lettere, 2006. - Lettera ai posteri, a c. di G. Villani, Roma, Salerno, 1990. - Secretum. Il mio segreto, a c. di E. Fenzi, Milano, Mursia, 1992; a c. di U. Dotti, Roma, Archivio Guido Izzi, 1993. Cfr. F. Rico, Vida u obra de Petrarca, I. Lectura del “Secretum”, Padova, Antenore, 1974.

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Un aspetto importante dell’attività intellettuale di Petrarca è costituito dall’imponente sistema di postille che attraversa i suoi manoscritti. Tra le edizioni recenti più rilevanti: Il codice parigino latino 7880.1. Iliade di Omero tradotta in latino da Leonzio Pilato con le postille di Francesco Petrarca, a c. di T. Rossi, Milano, Edizioni Libreria Malavasi, 2003; L. Refe, Le postille del Petrarca a Giuseppe Flavio (codice parigino Lat. 5054), Firenze, Le Lettere, 2004; F. Santirosi, Le postille del Petrarca ad Ambrogio (codice parigino Lat. 1757), Firenze, Le Lettere, 2004; Le postille del Virgilio Ambrosiano, a c. di M. Baglio, A. Nebuloni Testa e M. Petoletti, Roma-Padova, Antenore, 2006.

3. Boccaccio

3.1. La vita Giovanni Boccaccio nasce nel 1313, probabilmente a Firenze. È figlio illegittimo, ma presto riconosciuto, di Boccaccino di Chelino, un uomo ben introdotto nel mondo delle banche e del commercio, socio del potente banchiere Bardi. Il padre lo porta con sé a Napoli nel 1327, con la prospettiva di un inserimento nella stessa attività lavorativa, al banco, ma, di fronte al disinteresse di Giovanni, cerca almeno di orientarlo allo studio del diritto canonico, all’università (1330-1331). È tutto inutile. Il giovane si lascia attrarre dalla raffinata vita della corte angioina, con l’amico Niccolò Acciaiuoli, e si appassiona di studi letterari, forse anche grazie ad uno dei professori di diritto all’università, il celebre poeta Cino da Pistoia, amico di Dante e Petrarca. È una formazione vasta e tumultuosa, che va dai classici (Virgilio, Ovidio, Livio) ai romanzi medievali e alla novellistica, alla poesia medievale latina e volgare, e che è documentata dai suoi zibaldoni, manoscritti privati in cui Boccaccio raccoglie testi di letture giovanili e prime prove letterarie. Scrive le prime poesie in latino (una Elegia di Costanza è del 1332), e in volgare, ad imitazione di Dante e Cino. Al 1333 risale un evento che assimila la sua biografia a quella di Dante e Petrarca: nella chiesa di san Lorenzo si innamora di una fanciulla, chiamata Fiammetta, forse una Maria d’Aquino figlia naturale di re Roberto, e per lei nascono le prime opere in volgare. Il felice e spensierato periodo napoletano finisce nel 1341. Il padre era rientrato a Firenze, per un dissidio con i Bardi. È un momento difficile. Mentre a Napoli muore re Roberto (1343), Firenze è attraversata da una grave crisi finanziaria, che culmina con il fallimento dei Bardi (1345). Giovanni cerca una sua indipendenza fuori Firenze, il che significa tentare di ritrovare una collocazione cortigiana simile a quella che aveva conosciuto a Napoli: e si tratta delle stesse corti padane dove era passato Dante, trenta-

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quaranta anni prima, la Ravenna dei Da Polenta (1345-1346) e la Forlì degli Ordelaffi (1347). È una vita un po’ irregolare e libertina, quella di Giovanni, a cui nascono in questo periodo ben cinque figli da donne diverse. Nella peste del 1348 muore il padre, Giovanni ne eredita il non cospicuo patrimonio, e si dedica all’opera più grande, il Decameron. Nel 1350 Petrarca passa a Firenze: è solo il primo dei loro incontri (a Padova nel ’51, a Milano nel ’59, a Venezia nel ’63, a Padova nel ’68), l’inizio di una grande amicizia, destinata a segnare il futuro della civiltà italiana. Grazie a Petrarca, Boccaccio approfondirà lo studio dei classici, ponendosi alla guida, a Firenze, di un circolo di intellettuali che farà della rinascita degli Antichi la propria missione principale. In questa ottica si inserisce anche lo studio del greco, per la prima volta insegnato allo Studio fiorentino da un maestro calabrese, Leonzio Pilato, fatto venire da Boccaccio (1360-1362), e traduttore in latino di Omero per Petrarca. Boccaccio riprende a viaggiare, stavolta con incarichi ufficiali del comune: a Ravenna nel ’50, dall’anziana figlia di Dante, suor Beatrice; nel ’51-52 in Tirolo da Ludovico di Baviera; nel ’54 ad Avignone dal papa Innocenzo VI. Ha modo di tornare a Napoli, nel 1355 (e poi ancora nel ’62 e nel ’70), ma è un mondo ormai mutato, rispetto alla fiabesca vita cortese dell’adolescenza: ne approfitta almeno per visitare l’abbazia di Montecassino, e per scoprirvi (e sottrarvi) alcuni manoscritti di testi classici sconosciuti (Varrone, Tacito, Apuleio). Nel frattempo, attraversa un periodo di allontamento dalla vita pubblica, e di disgrazia politica, ritirandosi a Certaldo, paese d’origine del padre (13611365), e accettando di diventare ‘chierico’ come Petrarca, con un beneficio concesso dal papa. Dopo gli ultimi viaggi ad Avignone (1367), Venezia e Roma (1367), Padova (1368) e Napoli (1370), accetta l’incarico di leggere pubblicamente Dante a Firenze nel 1373, ma è costretto a smettere pochi mesi dopo, nel 1374, per l’aggravarsi della malattia che l’anno successivo, a Certaldo, lo porterà alla morte (1375).

3.2. Opere giovanili Ad appena vent’anni, a Napoli, Boccaccio si cimenta nella sua prima opera letteraria, la Caccia di Diana (1333-1334), un poemetto allegorico in 18 canti in terzine dantesche, imitazione di un perduto sirventese di Dante sulle belle donne di Firenze. Sotto il travestimento della favola mitologica (le cacciatrici di Diana finiscono col diventare seguaci di Venere, quando la dea dell’Amore trasforma le loro prede ferine in amanti; quel che accade allo



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stesso autore, mutato da cervo in uomo, al contrario di Atteone) Boccaccio presenta le donne della Napoli contemporanea, principesse e aristocratiche della corte angioina, rappresentanti del mondo cortese vagheggiato e idealizzato dal giovane figlio di banchiere, che fingeva di essere nato a Parigi da una nobildonna francese. È lo stesso mondo che emerge sullo sfondo del Filocolo (1336), ampio romanzo in prosa, in cinque libri, derivato dal poemetto francese Flore et Blanchefleur. Si tratta della storia dell’amore contrastato di due giovani, il principe Florio (detto Filocolo, che, secondo le incerte conoscenze di greco di Boccaccio, avrebbe significato ‘fatica d’Amore’), figlio di Felice re di Spagna, e di Biancifiore, fanciulla cristiana che re Felice, per impedire il loro amore, fa vendere schiava. Florio attraversa mari e monti (soprattutto mari, il favoloso scenario mediterraneo dell’epoca di Boccaccio), fino a ritrovare e sposare l’amata, e diventare anche lui cristiano. L’esile vicenda di questi due ‘promessi sposi’ diventa, per la fantasia narrativa di Boccaccio, un incredibile intreccio di avventure, tra parti narrative e parti descrittive, con prevalenza del gusto per il meraviglioso e l’esotico. Un ruolo importante ha, nella struttura, il racconto dei sogni, che hanno la duplice funzione di aprire squarci profetici sul futuro della storia, e di rivelare la psicologia profonda dei personaggi. Fondamentale è anche, nel IV libro, la tappa di Florio a Napoli, occasione per una lunga digressione nell’ambiente cortese contemporaneo, in cui Florio viene invitato a partecipare ad una ‘corte d’amore’, un simposio dove un gruppo di donne propongono tredici ‘questioni d’amore’, sul modello del trattato di Andrea Cappellano. Con il Filocolo (vero laboratorio stilistico del giovane Boccaccio) si confermano anche i caratteri principali di questa produzione giovanile: la sperimentazione di nuovi generi letterari, e il forte autobiografismo, per cui l’autore si proietta sempre nei personaggi principali. Evidente è il debito nei confronti della letteratura francese, né poteva essere altrimenti nella Napoli angioina, capitale cosmopolita orientata verso la Provenza e il Nord Europa. Dai romanzi del ciclo troiano proviene infatti lo spunto narrativo per il poemetto Filostrato (‘vinto da Amore’)(1339), storia dell’amore infelice di Troiolo per la prigioniera greca Criseida. Nonostante l’ambientazione nella guerra di Troia, il Filostrato è un testo più lirico che epico-narrativo, con frequenti effusioni sentimentali del disperato Filostrato, che alla fine muore ucciso da Achille: una situazione tragica che avrà notevole fortuna nel teatro europeo, fino al Troylus and Cressida di Shakespeare. Ma la grande novità dello sperimentatore Boccaccio è l’invenzione di una nuova forma metrica che si rivelerà particolarmente adatta alla narrazione poetica, l’ottava, strofa di otto endecasillabi con rime ABABABCC.

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Il nuovo metro dell’ottava è infatti subito usato nel Teseida (1339-1340), poema epico in dodici libri derivato dal ciclo tebano, con la vicenda di due amici tebani, Arcita e Palemone, innamorati della stessa donna, l’amazzone Emilia, finché Arcita muore in una giostra, e lascia l’amata all’amico: sullo sfondo una Atene che si rivela in realtà la Napoli frequentata da Boccaccio, con i tornei cavallereschi a cui partecipavano i giovani aristocratici della corte. Tornato a Firenze, Boccaccio sperimenta ancora un altro genere, quello bucolico, appena inaugurato in latino da Dante, scegliendo però la forma del prosimetro, derivato dalla Vita nuova, e un titolo che adombra sempre Dante: Comedia delle ninfe fiorentine (1341), detta poi Ameto. In un paesaggio pastorale alle porte di Firenze, tra l’Arno e il Mugnone, il rozzo pastore Ameto ha la visione di sette bellissime ninfe (figure delle Virtù) e si innamora di una di loro, Lia (la Fede); ogni ninfa racconta la sua storia, e canta un canto in terzine, mentre l’amore di Lia finisce per elevare spiritualmente il pastore. Oltre il pretesto allegorico, Boccaccio sembra ora affascinato dalle possibilità descrittive della natura e della bellezza fisica, che acquista caratteri sensuali (anche se molto letterari, alla maniera di Ovidio) nella descrizione delle ninfe. Di nuovo Dante ispira la composizione di un vero poema allegorico, l’Amorosa visione (1342), in 50 canti in terzine, che formano anche un immenso ‘acrostico’ (struttura tipica della poesia medievale, in cui le lettere iniziali di ogni terzina formano le parole di un nuovo testo poetico). L’avvio è quello solito del sogno-visione, in cui l’autore viene guidato da una ‘donna gentile’ nella visita di un castello che ricorda il Castello Angioino di Napoli, in due sale decorate da pitture (nell’una, il trionfo di Sapienza, Fama, Ricchezza e Amore; nell’altra il trionfo della Fortuna), per le quali si evoca il nome di Giotto; alla fine, in un giardino, avviene l’atteso incontro con l’amata Fiammetta. Il legame con la Commedia, in realtà, è molto labile: l’opera di Boccaccio è soprattutto descrittiva, giocata sull’erudizione e l’iconografia (come l’Intelligenza), e finirà con l’essere imitata da Petrarca nei Trionfi. Altra opera con cui Boccaccio torna alla memoria degli anni napoletani, e all’amore per Fiammetta, è l’Elegia di Madonna Fiammetta (1343-1344), lunga lettera in prosa indirizzata alle ‘donne innamorate’. Il genere epistolare denuncia subito il grande modello classico delle Eroidi di Ovidio, finte lettere scritte da eroi ed eroine mitologiche, straordinaria invenzione letteraria soprattutto in quelle lettere che si fingono scritte da donne, e in cui Ovidio lasciava parlare le eroine in prima persona, nell’espressione immediata del loro dolore e dei loro sentimenti. È questo l’aspetto rivoluzionario che recepisce Boccaccio, rovesciando il racconto della ‘sua’ storia d’amore, e facendola raccontare alla stessa Fiammetta, innamorata del giovane fiorentino



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Panfilo che poi la abbandona, lasciando per sempre Napoli. Un esperimento importante, che mette al centro dell’attenzione un personaggio femminile, con una profondità di analisi psicologica che non era mai arrivata a questo livello, nella letteratura medievale. Ma perché elegia? Per Dante, il genere elegiaco era un genere molto basso, stilus miserorum: per Boccaccio, invece, è forma di espressione della sofferenza intrinseca di una storia d’amore, non coronata dal lieto fine (comoedia), ma nemmeno conclusa tragicamente (tragoedia). In questo senso, è la prova più rilevante della ricerca di uno ‘stile mezzano’ da parte di Boccaccio. L’ultima opera ‘giovanile’ rappresenta un altro tentativo di genere ‘medio’, il Ninfale fiesolano (1344-1345), poemetto in 473 ottave sulle origini mitiche di Firenze (e quindi detto poema ‘eziologico’, cioè sulle ‘origini’), ma che narra essenzialmente l’amore tra il pastore Africo e la ninfa Mensola, consacrata a Diana. I loro nomi sono i nomi di due corsi d’acqua in cui i due giovani si tramutano, dopo la punizione del loro amore da parte di Diana. Dovrebbe trattarsi quindi di una tragoedia, ma l’ambientazione rusticale, il carattere della fabula mitologica, tra sensualità erotica e metamorfosi, rendono all’insieme una felice leggerezza narrativa, sospesa tra realtà e sogno.

3.3. Decameron Al “mezzo del cammin” della sua vita, a trentacinque anni, Giovanni Boccaccio poteva guardare con soddisfazione alla sua produzione letteraria. Aveva sperimentato molti generi diversi, e in alcuni casi se ne poteva addirittura considerare l’inventore. Nella letteratura in volgare, e in volgare fiorentino, nessuno era andato così avanti. Nessuno, tranne Dante, con la Commedia. Giovanni (che tra l’altro ne ha composto una pallida imitazione, l’Amorosa visione) sa bene che non può misurarsi direttamente con quell’opera che lui chiama ‘divina’. Il campo in cui si sente veramente bravo è quello del racconto, lungo o breve, in prosa o in poesia, ma comunque racconto. Negli anni, ha lavorato sul duplice versante dell’esperienza personale della vita, e della riscrittura di storie altrui, e ha accumulato molti materiali, embrioni narrativi, aneddoti esemplari, novelle antiche e moderne, spunti di cronaca contemporanea, tragica o grottesca, di tradizione scritta o anche orale. Un magazzino di ‘storie’ che probabilmente dovevano servirgli per altre opere di stampo tradizionale (romanzi, poemetti ecc.), e che invece, a un certo punto, si coagulano intorno ad un grande evento storico, occasione scatenante per la prima opera narrativa della letteratura occidentale moderna in cui il racconto ha, come finalità principale, non l’ammaestramento morale o religioso, ma

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il piacere intrinseco dell’essere detto e ascoltato, e la conoscenza della vita umana nel suo svolgersi reale e concreto. L’evento è la grande Peste del 1348, che, come nel resto d’Europa, scuote in modo durissimo anche la città di Firenze, mietendo migliaia di vittime. Boccaccio è colpito soprattutto dall’improvviso effetto di ‘sospensione delle regole’, umane, civili, morali e religiose, che un fenomeno collettivo così grandioso sembra provocare. Tutte le certezze del mondo medievale sembrano crollare, e i predicatori dal pulpito annunciano l’Apocalisse e interpretano l’evento come una diretta punizione divina per i peccati degli uomini: ma Boccaccio, educato alla lezione dei classici e anche alla lettura di Dante, cerca spiegazioni umane e terrene. La natura umana è per se stessa negativa, macchiata dal peccato originale, e da reprimere con l’ascetismo? Le pulsioni più naturali, l’amore anche fisico, il desiderio, la bellezza terrena, sono, per se stesse, da condannare? La risposta di Boccaccio è no. E inizia così a scrivere, qualche tempo dopo la pestilenza, nel 1349, il Decameron, concluso probabilmente entro il 1351: un tempo relativamente breve per un’opera così ampia, complessa e rivoluzionaria, e che dimostra un’applicazione unitaria e continuata da parte dell’autore. Il titolo, composto da due parole greche (déca, ‘dieci’, e emeròn, ‘giorni’), indica esattamente un periodo di dieci giorni, e riprende titoli simili della letteratura medievale (come ad esempio l’Hexaemeron di Ambrogio, sui sei giorni della Creazione). Ma, come una persona reale (che, all’epoca di Boccaccio, si cominciava a chiamare con ‘nome’ e ‘cognome’), così anche quest’opera presenta ‘nome’ e ‘cognome’, come avverte all’inizio lo stesso autore: “Comincia il libro chiamato Decameron cognominato prencipe Galeotto, nel quale si contengono cento novelle in diece dì dette da sette donne e da tre giovani uomini”. Galeotto era un personaggio della storia di Lancillotto e Ginevra, a cui si attribuiva anche la composizione di quel romanzo: il libro d’amore per eccellenza, leggendo il quale Paolo e Francesca si innamorano (If. V, 137: “Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse”). Boccaccio rinvia dunque alla letteratura cavalleresca di ispirazione erotica (il ciclo bretone) e a Dante (anche per il numero delle novelle, cento come i canti della Commedia), come modelli iniziali del Decameron, presenta esattamente la struttura dell’opera (cento novelle raccontate in dieci giorni da sette donne e tre giovani), e poi nel proemio si rivolge direttamente al suo pubblico, le donne, a cui le novelle sono dedicate, oltre che per ammaestramento, soprattutto per diletto, per evasione, per alleggerimento e sollievo della difficoltà del vivere, delle sue tristezze e sofferenze. Un messaggio già chiaro nell’incipit: “Umana cosa è aver compassione degli afflitti”.



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I testi raccontati sono definiti “cento novelle o favole o parabole o istorie”, ma è il primo termine, novella (già utilizzato nel Libro di novelle e di bel parlar gentile) quello che conta, e che riduce gli altri non a possibilità alternative di genere (come erano nelle letterature medievali), ma a semplici sinonimi. Superata l’esemplarità, e anche il vincolo della brevitas, la novella diventa una forma narrativa autonoma, capace di dilatarsi in intrecci complicati quasi come un romanzo, o di restringersi alla secchezza di pochi elementi. Le novelle, a loro volta, sono inserite in una struttura globale, che è essa stessa un racconto, la cornice, la vicenda dei dieci giovani che, per sfuggire la peste, si sono rifugiati in una villa fuori Firenze, e passano il tempo raccontandosi storie. A questo livello bisogna aggiungerne un altro, anche se più sfuggente, e quasi mai dichiarato: quello dell’autore stesso, che trasferisce le novelle (‘raccontate’, e quindi trasmesse nell’oralità) all’universo della scrittura, e che nell’opera (oltre al Proemio e alle Conclusioni   ) interviene in prima persona solo una volta, all’inizio della quarta giornata, per difendere il proprio stile “umilissimo e rimesso”, e le proprie scelte tematiche e morali. La cornice è una struttura narrativa autonoma, e deriva dalle raccolte di novelle orientali, arabe, persiane, indiane (ad esempio, le Mille e una notte). Di più, in Boccaccio, ha un forte valore di contemporaneità, e quindi di ‘verità’ del racconto, rinviando a quel tragico 1348 che tutti avevano vissuto. L’introduzione, quindi, è la descrizione della peste, un brano di vera cronaca contemporanea (anche se richiama storici medievali come Paolo Diacono), con particolari macabri che lo fanno definire “orrido cominciamento”. Più che la manifestazione visibile del Trionfo della Morte, a Boccaccio importa la percezione di una ‘sospensione’ della civiltà, in tutti i suoi aspetti, e quindi di sospensione delle regole: i legami familiari, i freni morali e religiosi, l’assoluta anarchia. Nell’ottica ristretta dell’ideologia familiare e borghese dell’epoca, era la catastrofe. Ma Boccaccio, più freddamente, vede l’evento come una grande e paradossale possibilità di ‘libertà’: libertà di azione (anche negativa), di giudizio, di parola (su tutto e tutti). I suoi eroi sono allora dieci giovani che sono protagonisti di una libera scelta: la fuga dalla ‘città’, per sfuggire non tanto il contagio (i loro cari sono morti, e anch’essi potrebbero essere già condannati), ma l’epidemia di ‘disumanizzazione’ che sembra aver colpito tutti gli altri. Al di fuori della ‘città’ si realizza il miracolo di un’altra sospensione: quella del tempo storico reale, e quindi della Morte (si ricordi che simile sospensione avveniva nelle Mille e una notte, in cui Sheherazade riusciva ad allontanare indefinitamente la morte grazie alla magia del racconto). Il tempo ricomincia a scorrere in modo a-storico ma ‘naturale’, segnato da albe e tramonti, e dalle ‘oneste’ occupazioni dei giovani; lo spazio è quello chiuso

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e protetto della ‘villa’, del ‘giardino’, sintesi armoniosa di natura e ragione, di piacere e decoro, di bellezza e di equilibrio. È necessario ricostruire la civiltà umana, per mezzo di nuove regole, di volta in volta affidate ad un re o ad una regina, a turno uno dei dieci giovani. È all’interno delle novelle che si torna al tempo della Storia, ed è in gran parte la storia contemporanea, in ambientazioni che si estendono dall’Italia all’Europa, sul Mediterraneo e fino al favoloso Oriente, ma con prevalenza della Toscana, e di Firenze. Anche i personaggi rinviano a tutte le classi sociali e a tutte le corporazioni: principi e nobili, ricchi mercanti e pirati, banditi di strada, pittori, avvocati, giuristi, medici, artigiani, contadini, cuochi. Due categorie della società contemporanea spiccano su tutte le altre. La prima, in chiave negativa, è quella degli ecclesiastici, una lunga galleria di preti, vescovi, frati, monaci, di volta in volta ipocriti, avari, e per lo più lussuriosi, oggetto di una satira impietosa, parallela alla condanna morale della corruzione della Chiesa, lanciata da Dante nella Commedia. La seconda categoria, invece, prevalentemente positiva, è quella delle donne, che conquistano una piena libertà d’espressione, con doti di sentimenti e intelligenza che spesso le portano a primeggiare sugli uomini: aristocratiche, popolane, prostitute, monache, le donne, ricorda Boccaccio, devono affrontare difficoltà di vita superiori a quelle degli uomini, collocate ad un rango subalterno nella società. E l’ultimo eroe del Decameron è appunto una donna, Griselda, che contrasta la ‘matta bestialità’ dell’uomo con la propria virtù e la propria coerenza. Come ‘vedeva’ Boccaccio le sue storie e i suoi personaggi? Ci restano due documenti eccezionali, inimmaginabili per altri autori, come Dante e Petrarca. Boccaccio, si sa, era ottimo amanuense, ma anche buon disegnatore. Quando un suo amico fiorentino, Giovanni Capponi, si copiò il Decameron (nel codice Parigino italiano 482, ca. 1360), lasciò in bianco le parti iniziali dell’opera e di ogni giornata, e Boccaccio le riempì con dei bellissimi disegni, che di solito rappresentavano la prima novella della giornata (Cepparello, Masetto, ecc.), un esempio straordinario di ‘traduzione’ in immagini. Quasi dieci anni dopo, lo stesso Boccaccio trascrisse tutta l’opera (nel codice Berlinese Hamilton 90, ca. 1370), e lì invece inserì i ritratti di alcuni personaggi, in piccoli disegni che evidenziano, anche in forma di caricatura, il loro carattere di analisi psicologica. Gli elementi fondamentali del Decameron sono essenzialmente due: natura e ragione. Da un lato l’insieme delle pulsioni ‘naturali’ dell’individuo, l’eros, il desiderio, il principio di piacere al suo livello primario e irrazionale, ma insopprimibile in sé; dall’altra il lungo cammino della civiltà, per mezzo dell’ingegno, che rende possibile il passaggio dallo stato ferino all’umanità,



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che eleva l’eros in amore, il desiderio di possesso in virtù positiva delle classi mercantili. Per Boccaccio l’humanitas (rappresentata nella cornice) sta nel mezzo, nell’equilibrio di eros e ingegno. L’eros è il motore primario, quello che dà la prima scintilla (come nella novella di Cimone), poi è necessario l’ingegno. L’assolutizzazione dell’uno o dell’altro elemento porta alla disumanizzazione, alla deformazione grottesca: gran parte dell’universo rappresentativo del Decameron serve appunto a rendere evidenti queste escursioni estreme dell’umanità, senza nessuna censura morale, dando pieno diritto di cittadinanza alle rappresentazioni del basso materiale e corporeo, della giocosità e della vitalità. Al di fuori dell’individuo è il potere della fortuna, non più elemento morale (in un mondo comunque guidato dalla Provvidenza), ma emblema dell’insieme inconoscibile della globalità in cui siamo immersi, dell’universo della possibilità, che può sconvolgere disegni lungamente preparati, ma anche risolvere positivamente situazioni apparentemente chiuse e tragiche. Alla lunga, l’ingegno può rivelarsi anche superiore alla fortuna, quando impara dall’esperienza, e riesce a prevedere lo sviluppo degli eventi. A differenza della Commedia di Dante, il Decameron non ha affatto una struttura morale ‘ascensionale’ dalla prima all’ultima giornata. La struttura è piuttosto di tipo circolare. Griselda non è l’antitesi di Cepparello. Anche nella cornice, simbolicamente, i giovani non sono impegnati in un ‘viaggio’, ma si fermano a novellare in ‘cerchio’, in luoghi circoscritti (anche se una delle novelle più significative, quella di Madonna Oretta, è raccontata in itinere, come avverrà poi per i Canterbury Tales di Chaucer). Conta di più, per Boccaccio, il criterio classico della variatio, dell’alternanza di situazioni e di stili: un criterio che non è solo estetico, ma che serve anche a rappresentare la realtà nella sua pienezza, e nella sua varietà, come è, e non come dovrebbe essere. Dal punto di vista stilistico, Boccaccio riesce a realizzare pienamente, nella prosa, quello stile mezzano che aveva cominciato ad elaborare già dal Filocolo, mistione di tragico-epico, leggendario-favoloso, e comico-realistico. I passaggi attraverso tutti questi ‘stili’ sono facilitati dal fatto che ogni novella può essere letta anche come testo autonomo, e che quindi vi sono novelle tragiche, comiche, favolose ecc.: ma è necessario osservare che l’unità strutturale dell’opera fa sempre evitare a Boccaccio gli estremi, in ogni direzione. È quel che si nota a livello linguistico: viene evitata una connotazione vernacolare o popolare troppo forte, il fiorentino è comunque elevato, nel lessico e soprattutto nella sintassi, lingua scritta e non parlata (in particolare nelle parti narrative), esemplata sul modello dei classici latini (Cicerone, Quintiliano, Livio). I periodi presentano spesso strutture sintatti-

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che molto ampie, basate su diversi gradi di subordinazione, ma bilanciano la complessità di pensiero con una forte musicalità del ritmo e dei valori fonici, soprattutto nelle clausole di fine periodo. Non è più la tecnica della prosa medievale: si tratta proprio di una conquista espressiva maturata in una lunga lettura dei classici, anche nel laboratorio del volgarizzamento. In ogni caso, lo stile tende sempre ad adattarsi alle situazioni e ai personaggi della novella: la sintassi si semplifica nei dialoghi tra popolani o contadini, e si complica retoricamente nelle grandi ‘orazioni’, il plurilinguismo dei dialetti italiani affiora ogni tanto (ma senza eccessi) a marcare le differenze regionali di un cuoco veneto o di una prostituta siciliana. Il risultato complessivo è quello di un nuovo realismo, che inizia a superare la secolare divisione degli stili (alto, medio, basso), finora legati a classi sociali diverse. Eros e ingegno, ci ricorda Boccaccio, appartengono a tutta l’umanità, senza alcuna discriminazione di classe, razza, religione, lingua, genere. Dopo il Proemio (in cui l’autore dedica l’opera alle donne), la narrazione inizia subito con l’introduzione alla I giornata, anch’essa rivolta alle “graziosissime donne”. Siamo nel 1348, e la Peste sta devastando Firenze. Un martedì mattina, nella chiesa di Santa Maria Novella, si ritrovano sette ragazze fra i 18 e i 28 anni, amiche e parenti tra loro (Pampinea, Elissa, Lauretta, Neifile, Fiammetta, Filomena ed Emilia: sono nomi fittizi, ripresi dalle altre opere di Boccaccio). La più matura, Pampinea, le convince a lasciare Firenze, cosa che è resa possibile dall’arrivo di tre ragazzi, che si uniranno a loro (Panfilo, Filostrato e Dioneo). Il giorno dopo, all’alba, il gruppo, con servi e vettovaglie, lascia Firenze, e raggiunge una villa con corte e giardino, su una collinetta a tre chilometri dalla porta della città, verso Fiesole (forse Poggio Gherardi). Le occupazioni della prima giornata scorrono tra passeggiata, pranzo, danza, musica, canto, poi, di pomeriggio, in un prato, Pampinea, eletta ‘regina’, propone di passare il tempo ‘novellando’, a turno, ciascuno di loro; il tema delle future giornate verrà scelto dal re o dalla regina, mentre questa prima giornata sarà a tema libero. Alla regola si sottrae solo Dioneo, che si riserva totale libertà tematica (di solito orientata a racconti comici o erotici). Panfilo racconta la prima novella, ambientata in Borgogna: protagonista è un malvagio notaio, ser Cepparello, che in punto di morte sembra beffare addirittura Dio, rilasciando una falsa confessione, così pia che, dopo la sua morte, viene santificato come san Ciappelletto (I,1). È un racconto ‘estremo’, ma in realtà Boccaccio insiste sul tema dell’imperscrutabilità del giudizio divino (un tema simile a quello della Commedia dantesca), ironizzando sulla superstizione popolare. Cepparello è figura eroica, anche se negativa. Altre critiche della corruzione ecclesiatica compaiono nelle novelle di Abraam giudeo (I,2), e di un licenzioso monastero di Lunigiana, dove monaco e abate si godono la stessa fanciulla (I,4). Alla sera i giovani tornano nella villa, cenano e danzano, e concludono la giornata cantando una ballata: un rituale che verrà ripetuto nelle giornate successive.



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La II giornata, di giovedì, regina Filomena, presenta le avventure dominate dalla fortuna, ma a lieto fine. Non conta solo la fortuna, ma anche l’ingegno, perché i personaggi subiscono una sorta di metamorfosi, diventano più savi o prudenti. Nella prima novella (che rinvia a quella di Cepparello) il giullare Martellino si finge prima paralitico e poi miracolato dalle reliquie del Beato Arrigo, a Treviso, ma poi, smascherato, rischia il capestro (II,1). Tre novelle creano un piccolo ciclo napoletano, con le storie di Landolfo Rufolo da Ravello (II,4), il giovane mercante Andreuccio da Perugia, derubato da una cortigiana (II,5), e la nobile Beritola Caracciola (II,6). Se Andreuccio si muove nel labirintico (e pericoloso) scenario cittadino di Napoli, con i suoi vicoli e i suoi luoghi reali, Landolfo e Beritola vengono trascinati dalla fortuna in giro per i mari, e la donna addirittura, finita da sola nella natura selvaggia di Ponza, diventa una specie di Robinson Crusoe: tutta abbronzata e pelosa vive in una grotta e allatta due caprette, “gentil donna divenuta fiera”. Incredibili avventure erotiche saranno quelle della saracena Alatiel, posseduta da otto uomini diversi prima di venire maritata al re del Garbo, che la crede ancora vergine (II,7), il tutto sullo sfondo di un Mediterraneo meraviglioso, tra esotismo ed erotismo, piccolo romanzo da ‘leggere’ sulla mappa di un portolano, di una carta marina dell’epoca. Ma anche Alatiel è un’eroina che “con altezza d’animo propose di calcare la miseria della sua fortuna”; concupita suo malgrado, domina il corso degli eventi, che invece travolgono i suoi malcapitati spasimanti; di più, la bella Alatiel non riesce a comunicare con i suoi amanti cristiani con le parole (perché è saracena), ma solo con il linguaggio del corpo. Dopo la pausa di venerdì e di sabato, prescritta per adempiere a funzioni religiose, e a pratiche igieniche, la III giornata, di domenica, vede il passaggio ad un’altra villa, con un bel prato e una fontana di marmo (forse sul poggio di Camerata). Regina Neifile, si tratterà del potere dell’ingegno nell’acquistare o recuperare qualcosa di fortemente desiderato. Il tema viene subito interpretato in chiave di desiderio sessuale, di dominio dell’eros a cui si piega anche l’ingegno, e con la solita satira dell’ipocrisia dei religiosi. Masetto da Lamporecchio si finge muto per lavorare l’orto di un convento, e finisce col diventare l’amante di tutte le monache: anche qui, come Alatiel, parlando il solo linguaggio del corpo (III,1). Alla fine della giornata, Dioneo racconta l’incredibile storia della semplice fanciulla Alibech, che, infiammata di santo ardore, viene convinta dall’eremita Rustico che mettere “lo diavolo in inferno” (trasparente metafora sessuale) è cosa buona e giusta, e vorrebbe dedicarsi unicamente a questa santa occupazione (III,10). L’ambientazione è nella mitica Tebaide egiziana, ed è evidente, da parte di Boccaccio, il rovesciamento parodico della santità di quegli eremiti (personaggi di una vasta letteratura esemplare, come le Vite dei Santi Padri, dove spesso il demonio compariva in forma di femmina seducente). Al di là del tema morale, però, qui emerge la rappresentazione dell’ingenua freschezza e della potenza dell’eros, forza primitiva anteriore ad ogni convenzione sociale. La medesima situazione di Alibech è in fondo nella centounesima novella, che Boccaccio stesso racconta alle “carissime donne”, fuori cornice, all’inizio della IV giornata, la storia del figlio di Filippo Balducci che, educato in totale

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isolamento e prevenzione dai mali del mondo, desiderando fortemente le belle donne da lui viste nella ‘prima uscita’ a Firenze, ne viene dissuaso dal padre, che, non osando nemmeno dirne il nome, le definisce ‘papere’. È l’esempio della forza incoercibile dell’amore, con il quale Boccaccio difende le sue “novellette”, scritte in “fiorentin volgare” e in “istilo umilissimo e rimesso”. Riprende la narrazione. È lunedì, re Filostrato, e il tema quello dell’amore tragico, l’aspetto nero e distruttivo dell’eros, sui grandi esempi letterari di Francesca, o di Isotta. Così è, infatti, la prima novella, con la grande ed eroica figura di Ghismunda, che, di fronte al padre Tancredi che le ha fatto avere il cuore dell’amante in una coppa, si uccide bevendo senza timore il veleno (IV,1); una situazione simile a quella di Guglielmo da Rossiglione, che fa mangiare alla moglie il cuore dell’amante, ma stavolta cotto a puntino, e ne provoca il suicidio (IV,9). Interessa notare che lo stile tragico (di solito riservato a personaggi di alto livello sociale) può ora servire a raccontare la storia di personaggi borghesi, come la sventurata Lisabetta da Messina, cui i fratelli uccidono l’amante Lorenzo; dal fatto di cronaca nera Boccaccio passa al racconto fantastico, quando fa apparire Lorenzo in sogno a Lisabetta, che riesce a trovarne il corpo, e, segatane la testa, nella follia amorosa continua a tenerla presso di sé, nascosta in un vaso, sotto una rigogliosa pianta di basilico (IV,5). Nel complesso, la quarta giornata è abbastanza cupa, e allietata dal solo intermezzo comico di frate Alberto, che, per godersi una bella e ingenua veneziana, si traveste da Angelo Gabriello, ma finisce con l’essere ignominiosamente scoperto (IV,2). Nella V giornata, di martedì, la regina Fiammetta rovescia il tema in amore a lieto fine, grazie all’aiuto della fortuna, o meglio ancora dell’ingegno, come appare nel primo esempio, quello del rozzo Cimone che, a Cipro, per amore di Ifigenia trasforma completamente se stesso, diventando un giovane di grande cultura e ‘cortesia’(V,1). Altra rappresentazione di un eros fresco e ingenuo è nella novella di Ricciardo e Caterina, giocata tutta sulla metafora sessuale dell’usignuolo (V,4). Più complessa, anche per la rete di riferimenti alla letteratura medievale, è la storia di Nastagio degli Onesti che, respinto ingiustamente dalla sua amata, riesce a farle cambiare idea proponendole lo spettacolo terrificante e soprannaturale di una caccia infernale nella pineta di Classe, giusta punizione per chi nega l’amore (V,8). Ultimo esempio è ancora di ‘cortesia’, ma anche di ‘miseria e nobiltà’, col nobile decaduto Federigo degli Alberighi che dà da mangiare all’amata Monna Giovanna il suo falcone prediletto, senza sapere che la donna era venuta da lui per avere in dono proprio quel bel falcone, e regalarlo al figliolo ammalato (V, 9). Nella VI giornata, di mercoledì, la regina Elissa propone come tema i motti di spirito. È il dominio della parola, dell’espressione dell’ingegno e dell’arguzia. La prima novella, al centro del Decameron, è addirittura una ‘metanovella’, cioè un testo il cui soggetto è l’atto stesso del narrare, con una Madonna Oretta, moglie di Geri Spina, che nel corso d’un viaggio, condividendo la cavalcatura con un insopportabile e maldestro novellatore, gli chiede finalmente di scendere da cavallo, cioè, metaforicamente, di finirla con quello strazio (VI,1). L’ambientazione è di solito in Toscana, con personaggi borghesi, o del tutto popolari,



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come Cisti fornaio, che dà un’arguta risposta al servo di Geri Spina (VI,2), o il cuoco veneziano Chichibio, che al padrone Corrado Gianfigliazzi s’inventa la favola che le gru hanno una sola zampa (V,4). Tra gli altri personaggi, spicca il pittore Giotto, famoso per la sua bruttezza (V,5); monna Filippa di Prato, che, colta in flagrante con l’amante, con un suo discorsetto riesce a far cambiare la legge cittadina che condannava a morte le adultere (V,7); e soprattutto la figura di Guido Cavalcanti, considerato filosofo ‘epicureo’ e campione di leggerezza esistenziale (V,9). Alla fine, Dioneo racconta la storia di frate Cipolla, “il miglior brigante del mondo” e “gran rettorico”, ambientata proprio a Certaldo, dove il buon frate avrebbe dovuto mostrare alla gente credula la penna dell’Angelo Gabriello (in realtà la variopinta penna di un pappagallo), e invece, trovati nella cassettina delle reliquie solo dei carboni inseriti da due burloni, dichiara solennemente che sono le braci su cui fu arrostito san Lorenzo (V,10). Qui Boccaccio raggiunge il vertice espressivo della parodia delle prediche contemporanee, una straordinaria prova mimetica anche nell’invenzione geografica, degna di testi come il Milione. La giornata si conclude con un’escursione nella Valle delle Donne, dove i giovani si bagnano piacevolmente nelle acque di un fiume, forse la Mensola. La VII giornata, di giovedì, vede i giovani tornare nella Valle delle Donne. Il re Dioneo chiede di raccontare le beffe delle donne ai mariti, un tema ancora dominato dall’ingegno e dall’eros. Le beffe sono strutturate di solito sullo schema del ‘triangolo’ donna-marito-amante, ma con prevalenza assoluta della donna nell’azione. Una novella riporta la scena a Napoli, e in un contesto molto popolare, con Peronella che riesce a beffare contemporaneamente marito ed amante, su uno spunto che deriva addirittura da Apuleio, autore latino appena riscoperto da Boccaccio (VII,2). Estranea al tema è l’ultima novella dei senesi (per il fiorentino Boccaccio, sempliciotti per antonomasia) Tingoccio e Meuccio, che si fanno reciprocamente la promessa che chi morirà per primo tornerà in sogno all’altro, a raccontargli come vanno le cose dall’altra parte. Il che puntualmente avviene: ma la grande sorpresa è la rivelazione che, nell’oltretomba, il peccato di lussuria non è poi tanto punito. Come diceva anche Dante, c’è ben di peggio, nella malvagità degli uomini, e quindi nelle punizioni dell’Inferno. Per l’amico superstite, è una grande rivelazione (veritiera, perché ottenuta grazie a una visio): l’eros non è peccato (VII,10). Dopo la pausa di venerdì e sabato, l’VIII giornata, di domenica, regina Lauretta, resta sul tema delle beffe, ma di vario genere, e sempre con il coinvolgimento di eros e ingegno. Tra quelle erotiche spicca l’“amorazzo contadino” del Prete di Varlungo, importante per il basso linguaggio espressivo messo in campo da Boccaccio (VIII,2). Appare poi una vera brigata di ‘beffatori’, Maso, Bruno e Buffalmacco, con la figura dell’eterno beffato, Calandrino, cui i compari fanno credere l’esistenza della magica pietra dell’elitropia che rende invisibili, e poi gli rubano un porco e due capponi (VIII, 3 e 6); Maso e compagni invece riescono a sottrarre le brache del giudice marchigiano Nicola da Sant’Elpidio proprio mentre il malcapitato sta sentenziando (VIII,5), mentre i soliti Bruno e Buffalmacco fanno finire il tronfio medico Mastro Simone in un bel bagno di

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escrementi (come era successo ad Andreuccio)(VIII,9). La fine della giornata arriva al racconto della ‘beffa al quadrato’, cioè del ‘beffatore beffato’ o della ‘beffa vendetta di beffa’: uno studente di Parigi che si vendica atrocemente della perfida burla di una vedova (VIII,7), o la cortigiana ‘ciciliana’ Iancofiore superata in astuzia dal mercante Salabaetto (VIII,10). La IX giornata, di lunedì, regina Emilia, torna sul tema libero, che però diventa prevalentemente la rappresentazione comica e liberatoria dell’eros, con l’immagine di una badessa che, nella fretta, si riveste mettendosi in testa le brache del prete con cui giaceva (IX,2). Di nuovo in Toscana, torna il personaggio di Calandrino, prima convinto di essere ‘incinto’ (IX,3), e poi innamorato e bastonato dalla moglie (IX,5); ma compaiono anche personaggi dell’epoca di Dante, come lo scapestrato Cecco Angiolieri (IX,4), e il goloso Ciacco (IX,8). Apoteosi della giornata è la novella campagnola di Donno Gianni, un prete licenzioso che fa credere a una donna di potersi trasformare in cavalla, e se la gode mentre organizza il finto rituale magico, ovviamente alla presenza del marito (IX,10). Per la X giornata, di martedì, il re Panfilo propone esempi di liberalità e magnificenza, cortesia e virtù, grandezza d’animo che trionfa sulla fortuna, e che si dimostra superiore anche ad eros e ingegno. Si tratta di personaggi appartenenti di solito ad elevato rango sociale e culturale. L’ultima novella, raccontata da Dioneo, presenta invece una donna di umili origini, addirittura la “figlia d’un villano”, sposata da Gualtieri marchese di Saluzzo senza amore, ma solo per dimostrare la vanità delle donne. Il suo nome è Griselda, e nonostante tutte le prove, anche crudeli, che ella deve sopportare a causa della ‘matta bestialità’ del marito, riesce a mantenere costante la sua forza d’animo, e la sua virtù, al punto da ottenere, alla fine, il pentimento completo di Gualtieri, e il suo amore (X,10). Il tempo del novellare si è ormai concluso. La mattina del giorno dopo i giovani tornano a Firenze, dove l’epidemia sembra aver attenuato la sua forza mortifera. L’autore riprende per un’ultima volta la parola, nella Conclusione rivolta alle “nobilissime giovani”, con un’apologia dell’opera contro le accuse di oscenità o di imperfezione linguistica o formale.

3.4. Opere della maturità Gli anni di composizione del Decameron furono fondamentali, per Boccaccio, anche per confermare l’importanza che, nella sua formazione intellettuale, aveva avuto l’eredità di Dante, amato fin dalla giovinezza, e poi, dopo il ritorno a Firenze, diventato il centro di una vera politica culturale di esaltazione di Firenze nel panorama italiano. È questo, infatti, il senso profondo dell’incontro con Petrarca, con la continua insistenza, da parte di Boccaccio, affinché il più anziano amico e maestro leggesse la Commedia. L’opera di trascrizione del poema, da parte di Boccaccio, fu decisiva per la costituzione



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di quella che si definisce una ‘vulgata’, cioè un testo più o meno stabile, che dalla metà del secolo si continuò a copiare in tutta Italia, livellando le differenze che prima esistevano, tra le diverse tradizioni. Boccaccio era riuscito a ritrovare testi rari di Dante, come le egloghe o le lettere, e a salvarli nei suoi Zibaldoni, e per rispondere ad alcuni dubbi irrisolti (Dante aveva iniziato la Commedia prima o dopo l’inizio dell’esilio? e l’aveva iniziata in latino o in volgare?) non aveva esitato a fabbricare qualche piccolo ‘falso’: una curiosa lettera attribuita a un misterioso Frate Ilaro, che avrebbe incontrato l’esule Dante. Boccaccio copiò ancora Vita nuova, Commedia e canzoni del Convivio in un codice ora a Toledo, e la Vita nuova in un codice Chigiano (Biblioteca Vaticana). Come introduzione a questi suoi manoscritti, compose allora una biografia di Dante, il Trattatello in laude di Dante (iniziato nel 1351-1352, e oggetto di varie rielaborazioni), intessuta di dati biografici reali (ad esempio, sull’identità di Beatrice) e leggendari (il sogno della madre di Dante), finalizzati alla costruzione del mito del ‘poeta teologo’, autore della ‘divina’ Commedia (epiteto non dantesco che compare per la prima volta proprio con Boccaccio). Una ‘lettura’ dell’opera di Dante, più orientata all’esegesi retorica e storico-mitologica, che sarebbe culminata nelle Esposizioni della Commedia, lettura pubblica di cui Boccaccio fu incaricato a Firenze, nella Chiesa di Santo Stefano di Badia, nel 1373, ma interrotte, nel 1374, sul canto XVII dell’Inferno. Dante, come s’è visto, era stato il grande modello del capolavoro di Boccaccio, nella tensione continua ad una rappresentazione realistica del mondo degli uomini, nelle loro vicende e nelle loro passioni. Un realismo che (forse ancora su influsso dantesco) è presente nell’ultima opera volgare di Boccaccio, il Corbaccio (1355), originato dalla vicenda di un amore non ricambiato per una vedova (è lei il nero e malefico ‘corvo’ adombrato nel titolo), la cui perfidia è rivelata al poeta-amante in un sogno-visione dal fantasma dello stesso defunto marito della donna. L’autore finisce quindi col rinnegare tutta la sua opera di esaltazione della nobiltà e dell’intelligenza della donna, dalla Caccia di Diana al Decameron, nel segno ora della più bieca e tradizionale misoginia medievale. È una palinodia tardiva, e credibile fino a un certo punto. Importa piuttosto, al di là dei contenuti (che oggi potrebbero sembrare politically incorrect), il risultato di grande espressività realistica raggiunta da Boccaccio, con uno stile veloce, e una sintassi talvolta scorretta, ma molto più moderna e vicina alle ‘cose’, rispetto all’equilibrio del Decameron. È singolare che tali risultati siano stati raggiunti quando la principale attenzione di Boccaccio, dopo l’incontro con Petrarca, era ormai rivolta agli

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studi classici, e alla produzione di opere in latino, molto vicine a quelle del suo grande amico. Ad esempio, nel genere bucolico, dopo aver trascritto nello Zibaldone Laurenziano le egloghe di Dante, e l’egloga Argus di Petrarca, anche Boccaccio volle iniziare a scrivere testi pastorali, inizialmente in forma epistolare (come Dante), e poi nella raccolta delle sedici egloghe del Buccolicum carmen (‘poema pastorale’)(1350-1368), dedicato al pastore Appennino, in realtà un amico del Petrarca, Donato degli Albanzani, che aveva appunto commentato le egloghe petrarchesche. Ma, a differenza di Petrarca, Boccaccio preferisce cantare, sotto il travestimento pastorale, il suo personale mondo di amori (nella prima egloga, Galla, la storia di Fiammetta e Panfilo), e di affetti familiari (nell’egloga Olympia, la dolcissima riapparizione della figlia Violante, morta ad appena sei anni). La straordinaria vena narrativa di Boccaccio (con accentuazione di caratteri già presenti nel Decameron, come il potere della Fortuna o dell’Eros, e l’importanza della donna) si riflette anche in latino, in opere come il De casibus virorum illustrium (‘disgrazie di uomini illustri’)(1355-73) e il De mulieribus claris (‘le donne famose’)(1361-1375), compilazioni erudite da testi classici e medievali, che ebbero però fortuna enorme nella cultura europea, attraverso una serie di traduzioni, ad iniziare da quelle in francese. Nel genere dell’agiografia, cioè della biografia sacra, fu composta anche una Vita sanctissimi patris Petri Damiani (‘vita di san Pier Damiani’)(1362), mentre opera di erudizione geografica fu il De montibus, silvibus, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus, et de nominibus maris (‘monti, selve, fonti, laghi, fiumi, stagni o paludi, e nomi del mare’)(1355-57), derivato dai geografi antichi (Plinio, Solino, Pomponio Mela, e soprattutto Vibio Sequestre). L’opera latina che appassionò Boccaccio fino alla fine (e che ebbe anch’essa ampia ricezione in Europa) fu però la Genealogia deorum gentilium (‘genealogia degli dèi pagani’)(iniziata nel 1350, ripresa nel 1363-66, e continuata fino al 1374), grande trattato di mitologia in 15 libri (di cui gli ultimi due dedicati alla riflessione poetica). Era un tema ‘originario’, per Boccaccio. La sua poesia era cominciata con una favola su Venere e Diana, e si era sempre nutrita delle favole antiche. L’incontro con Petrarca (1350), studioso attento di mitologia, collezionista di rari testi mitografici (nel codice Parigino latino 8500), e autore di un compendio iconografico degli dèi pagani (il terzo libro dell’Africa, ripreso in tutta Europa tramite una rielaborazione di Ovidio, l’Ovide moralisé  ), spinse Boccaccio a scrivere la prima enciclopedia moderna del mito, un testo fondativo in cui si superava definitivamente la tradizione medievale di attualizzazione e allegorizzazione morale-religiosa. Era un ritorno deciso agli Antichi, che preparava ormai la ‘rinascita degli dèi’, e l’alba di una nuova civiltà.



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Bibliografia Edizione completa delle opere: Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, a c. di V. Branca, Milano, Mondadori, 1964-1999. Cfr. anche Opere, a c. di C. Segre, Milano, Mursia, 1966. Monografie: C. Muscetta, Boccaccio (1972), Bari, Laterza, 1990; F. Tateo, Boccaccio, Roma-Bari, Laterza, 1988; L. Surdich, Boccaccio, Roma-Bari, Laterza, 2001; L. Battaglia Ricci, Boccaccio, Roma, Salerno, 2002. Studi critici: G. Billanovich, Restauri boccacceschi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1947; V. Branca, Boccaccio medievale e nuovi studi sul “Decameron” (1956), Firenze, Sansoni, 1986; G. Padoan, Il Boccaccio, le Muse, il Parnaso e l’Arno, Firenze, Olschki, 1978; P.G. Ricci, Studi sulla vita e sulle opere di Giovanni Boccaccio, MilanoNapoli, Ricciardi, 1983; F. Bruni, Boccaccio. L’invenzione della letteratura mezzana, Bologna, Il Mulino, 1990. Sulla tradizione manoscritta: V. Branca, Tradizione delle opere di Giovanni Boccaccio, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1958-1991. Sull’importante aspetto della tradizione figurativa: V. Branca, Boccaccio visualizzato. Narrare per parole e per immagini fra Medioevo e Rinascimento, Torino, Einaudi, 1999. Rivista specializzata: “Studi sul Boccaccio”. Risorse in rete: Decameron Web, Brown University (www.brown.edu). 3.1. La vita. V. Branca, Giovanni Boccaccio. Profilo biografico, in Tutte le opere, vol. I (1967), pp. 3-203. Sugli zibaldoni: Gli Zibaldoni di Boccaccio. Memoria, scrittura e riscrittura, a c. di M. Picone e C. Cazalé Bérard, Firenze, Cesati, 1998. Lo Zibaldone Laurenziano è consultabile in rete (rmcisadu.let.uniroma1.it/boccaccio/). Per la produzione giovanile di rime, lettere ed esercizi poetici in latino, v. il vol. V, parte I, di Tutte le opere (1992): Rime, a c. di V. Branca (con Appendici di G. Padoan); Carmina, a c. di G. Velli; Epistole e lettere, a c. di G. Auzzas (con un contributo di A. Campana); Vite, a c. di R. Fabbri; De Canaria, a c. di M. Pastore Stocchi. 3.2. Opere giovanili. - Caccia di Diana, a c. di A.E. Quaglio, in Tutte le opere, vol. I (1967). - Filocolo, a c. di A.E. Quaglio, in Tutte le opere, vol. I (1967). - Filostrato, a c. di V. Branca, in Tutte le opere, vol. II (1964). - Teseida, a c. di A. Limentani, in Tutte le opere, vol. II (1964). - Comedia delle Ninfe fiorentine, a c. di A.E. Quaglio, in Tutte le opere, vol. II (1964). - Amorosa visione, a c. di V. Branca, in Tutte le opere, vol. III (1974).

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- Elegia di Madonna Fiammetta, a c. di C. Delcorno, in Tutte le opere, vol. V, t. II (1994). - Ninfale fiesolano, a c. di A. Balduino, in Tutte le opere, vol. III ����������� (1974). 3.3. Decameron. Ed. crit. a c. di V. Branca, Firenze, Accademia della Crusca, 1976; con commento a c. di V. Branca (1980), Torino, Einaudi, 1992. Studi critici: G. Getto, Vita di forme e forme di vita nel Decameron, Torino, Petrini, 1958; V.B. Sklovskij, Lettura del Decameron, Bologna, Il Mulino, 1969; T. Todorov, Grammatica del Decameron (1969), in Poetica della prosa, Roma-Napoli, Theoria, 1989; M. Baratto, Realtà e stile nel “Decameron”, Roma, Editori Riuniti, 1980; Il testo moltiplicato, a c. di M. Lavagetto, Parma, Pratiche, 1982 (diverse letture della novella di Lisabetta da Messina); G. Bárberi Squarotti, Il potere della parola. Studi sul Decameron, Napoli, Federico e Ardia, 1983; C. Cazalé Bérard, Stratégie du jeu narratif. Le Décaméron, une poétique du récit, Paris, CRLLI, 1985, e Métamorphoses du récit, Paris, CRLLI, 1987; P.D. Stewart, Retorica e mimica nel «Decameron» e nella commedia del Cinquecento, Firenze, Olschki, 1986; L. Battaglia Ricci, Ragionare nel giardino. Boccaccio e i cicli pittorici del Trionfo della morte, Roma, Salerno, 1987; F. Fido, Il regime delle simmetrie imperfette. Studi sul “Decameron”, Milano, Angeli, 1988; Lessico critico decameroniano, a c. di R. Bragantini e P.M. Forni, Torino, Bollati Boringhieri, 1995; P. Cherchi, L’onestade e l’onesto raccontare del Decameron, Firenze, Cadmo, 2004; S. Marchesi, Stratigrafie decameroniane, Firenze, Olschki, 2004; G. Alfano, Nelle maglie della voce. Oralità e testualità da Boccaccio a Basile, Napoli, Liguori, 2006; M. Picone, Boccaccio e la codificazione della novella. Letture del Decameron, Ravenna, Longo, 2008. 3.4. Opere della maturità. - Trattatello in laude di Dante, a c. di P.G. Ricci, in Tutte le opere, vol. III (1974). - Esposizioni sopra la Commedia di Dante, a c. di G. Padoan, in Tutte le opere, vol. VI (1965). - Corbaccio, a c. di G. Padoan, in Tutte le opere, vol. V, t. 2 (1994). - Buccolicum carmen, a c. di G. Bernardi Perini, in Tutte le opere, vol. V, t. 2 (1994). - De casibus virorum illustrium, a c. di P.G. Ricci e V. Zaccaria, in Tutte le opere, vol. IX (1983). - De mulieribus claris, a c. di V. Zaccaria, in Tutte le opere, vol. X (1967). - De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus, et de nominibus maris, a c. di M. Pastore Stocchi, in Tutte le opere, voll. VII-VIII, tomo 2 (1998). - Genealogia deorum gentilum, a c. di V. Zaccaria, in Tutte le opere, voll. VII-VIII, t. 1-2 (1998). Cfr. in generale sulle tarde opere latine: V. Zaccaria, Boccaccio narratore, storico, moralista e mitografo, Firenze, Olschki, 2001.

4. Cultura volgare fra Tre e Quattrocento

4.1. La prosa Dopo la metà del Trecento la fortuna sovraregionale della Commedia dantesca e l’intensa rete di relazioni culturali intessuta da Petrarca e Boccaccio contribuiscono alla graduale creazione di un pubblico della letteratura in lingua fiorentina e toscana, ormai recepita come lingua media della comunicazione letteraria anche al di fuori della Toscana. Grazie al Decameron il genere che gode di maggior fortuna è quello della narrativa breve, della novellistica, che ora veramente comincia a configurarsi come ‘genere’, come spazio di composizione in cui si riconoscono elementi di continuità formale da un autore all’altro, e si crea nel pubblico un preciso orizzonte di attesa. Ed è in questo contesto che matura l’episodio più importante di ricezione del Decameron a livello europeo: la sua lettura da parte di un letterato inglese di nome Geoffrey Chaucer, figlio di un mercante di vini di Londra al servizio di principi di sangue reale, che venne in Italia nel 1372 e nel 1378, e che scrisse i Canterbury Tales (‘racconti di Canterbury’) nella cornice di un pellegrinaggio a Canterbury. L’autore italiano più significativo è senza dubbio il fiorentino Franco Sacchetti (Firenze 1332-1400), appartenente ad una famiglia di mercanti di parte guelfa (e forse nato non a Firenze ma a Ragusa in Dalmazia). Vicino al Boccaccio, il giovane Sacchetti partecipa dell’atmosfera giocosa del Decameron nella Battaglia delle belle donne (1353), poemetto in ottave in cui le vecchie invidiano la bellezza e la freschezza delle giovani, in uno stile vicino alla lingua parlata, con dialoghi, giochi linguistici e bisticci; e si collega alla tradizione lirica fiorentina nel Libro delle rime (1363-1400), raccolto in un manoscritto autografo (ora a Firenze, Biblioteca Laurenziana), con una predilezione particolare per alcuni generi più ‘leggeri’ e cantabili, come le ballate derivate dalle ‘pastorelle’ (celebre, fra tutte, O vaghe montanine pasturelle), o alcuni originali

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componimenti ambientati in un contesto cacciatorio e boschivo, intitolati appunto ‘cacce’. Molti dei testi poetici del Sacchetti erano strettamente legati alla musica, e venivano eseguiti nelle occasioni festive della società borghese dell’epoca. A questa produzione giovanile seguì, dopo la pestilenza del 1374 ed un’acuta crisi religiosa, una stagione di impegno religioso (testimoniato dalla composizione di nuove poesia religiose, e delle Sposizioni dei vangeli, 1381) e politico, con il coinvolgimento diretto nel governo fiorentino. Da questa esperienza di vita cittadina, tutta fiorentina e toscana, nacque una raccolta di novelle, intitolata Trecentonovelle (1392-1397), che anche nel titolo sembrava esprimere una volontà di superamento del capolavoro di Boccaccio (in realtà, ne furono scritte molte di meno, 223). La differenza maggiore, rispetto al Decameron, è, a livello macrostrutturale, l’eliminazione della cornice. L’opera sembra più vicina ad un ‘libro di ricordi’, o a una ‘cronaca’, con una maggior importanza del punto di vista (sociale e morale) dell’autore-novellatore, che tiene talvolta a precisare che si tratta di storie ‘vere’, o di cui egli stesso è testimone. Le novelle sono narrate direttamente dall’autore, che di solito aggiunge una sua conclusione moralistica, legata allo sfondo borghese e mercantile a cui appartengono quelle vicende e quei personaggi (artigiani, mercanti, bottai, speziali), nel superamento definitivo dei miti cortesi che erano ancora compresenti in Boccaccio. Di più, le novelle tendono a condensarsi in forme sempre più brevi, e meno complesse, in cui stilisticamente prevale il dialogo, e di nuovo una lingua vicina al parlato. Gli altri novellieri contemporanei sentono invece tutti il bisogno di una cornice di tipo boccacciano. Il giullare Giovanni da Firenze (soprannominato Malizia Barattone, interessante figura che gira tra le varie corti italiane, in particolare nella Napoli angioina), nel Pecorone (1380) fa raccontare le sue novelle, alternatamente per venticinque giorni, a un frate Auretto e una monaca Saturnina, che comunicano castamente tra loro attraverso le grate di un parlatorio di un monastero di Forlì (singolare situazione di ‘luogo chiuso’ che reinventa in uno spazio sacro il ‘giardino’ decameroniano): in tutto cinquanta novelle (e venticinque ballate), che derivano dalla precedente tradizione narrativa, ma anche dall’attualità, e soprattutto dalla cronaca (molte novelle sono in realtà capitoli della Cronica di Giovanni Villani, trasferiti di sana pianta in forma novellistica). Il lucchese Giovanni Sercambi (1348-1424), autore anche di una cronaca della sua città, dà alle sue 155 Novelle un punto d’avvio simile al Decameron, l’epidemia di peste del 1374: una brigata di giovani cerca di sfuggirle lasciando la propria città, e continuando a novellare nel corso di un viaggio per l’Italia (una struttura quindi ‘itinerante’, come in Chaucer). E anche il senese Gentile Sermini racconta di essere sfuggito ad una pestilenza, per raccogliere



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in ‘villa’ le sue quaranta Novelle (ca. 1426), che un amico a sua volta aveva ascoltato nel centro termale di Petriolo, presso Siena. La Firenze del primo Quattrocento, raffinato luogo d’incontro di umanisti ed artisti, è invece il soggetto principale del Paradiso degli Alberti dell’eclettico notaio Giovanni Gherardi (Prato 1367-1442), per il quale la ‘cornice’ (ambientata nel 1389) diventa l’elemento autoreferenziale della scrittura; ancora nello scenario di una ‘villa’, quella del Paradiso, a Firenze, appartenuta alla famiglia Alberti. All’opposto, la novella può acquistare un’autonomia tale, come forma narrativa, da circolare da sola, nella forma detta ‘spicciolata’. Ad esempio, Antonio di Tuccio Manetti (Firenze 1423-1497), amico del Brunelleschi (ne scrive una bella e vivace Vita, inaugurando il genere letterario della biografia d’artista), compone la celebre Novella del Grasso legnaiuolo, storia di una beffa ideata proprio dal Brunelleschi, che fa credere al Grasso di essere un’altra persona. La novella si trasforma in una specie di ‘commedia’ della vita rappresentata sulla scena cittadina di tutti i giorni, in una situazione che ricorda una vera commedia di Plauto, i Menaechmi; proprio in quel periodo l’autore latino (sconosciuto da secoli) veniva riscoperto, in una biblioteca tedesca, da Poggio Bracciolini, e riportato in Italia. Infine, la struttura ampia e onnicomprensiva (dal punto di vista stilistico e narrativo) del Decameron poteva originare fenomeni di specializzazione in sottogeneri letterari, destinati ad avere uno statuto autonomo. Dalla sesta giornata, ad esempio, derivò la ricca tradizione di motti e facezie, raccolte di novelle di solito brevi o brevissime, giocate su un motto di spirito che risolve una situazione difficile, o mette in burla un avversario, dimostrazione di intelligenza o astuzia di personaggi appartenenti ad un ceto umile e popolare. In un caso, si tratta di una raccolta legata ad un unico personaggio, la cui vita diventa il filo unitario (la ‘cornice’): Motti e facezie del Piovano Arlotto, dal nome di un longevo prete di campagna, Arlotto Mainardi (ca. 1396-1484). Il genere aveva già avuto, del resto, un riconoscimento ufficiale, anche nella letteratura umanistica latina, con il Liber facetiarum di Poggio Bracciolini; e lo stesso Poliziano vi si esercitò in volgare, con il Bel libretto di detti piacevoli (1477-1482). Molti manoscritti del Decameron, e dei novellieri fra Tre e Quattrocento, appaiono vergati da ‘lettori’ appartenenti alle classi sociali di mercanti e borghesi che maggiormente potevano vedersi rispecchiati in quelle storie. Non è un caso che fra quei mercanti si sviluppi sempre di più anche un’abitudine alla scrittura, che è soprattutto una scrittura di ‘memoria’, di ‘ricordi’, di registrazione dell’esperienza individuale, proiettata oltre il confine esistenziale del singolo, nella prospettiva della ‘famiglia’. Anche da un

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punto di vista ideologico, la ‘famiglia’ è il perno di questa società, e chi vi appartiene sente anche la responsabilità di trasmettere il suo bagaglio di conoscenze (della vita, del mondo, degli uomini, e, perché no, anche dei trucchi e dei segreti per fare fortuna negli affari) ai figli, e ai figli dei propri figli, in una catena che si prolunga nel tempo. Nascono così i libri di famiglia, o libri di ricordi, singolari forme di scrittura dell’io, codificate da un preciso rapporto di comunicazione da mittente (il mercante) a destinatario (il figlio del mercante, o i suoi discendenti), e chiuso comunque nel privato della famiglia. Nei casi in cui lo scrivente appartiene alle famiglie dominanti della città, la storia della famiglia si confonde con la storia cittadina: così è per la Cronica domestica di Donato Velluti (Firenze 1313-1370), o per i Ricordi di Bonaccorso Pitti (Firenze 1354-1430), che fu attivo su un vasto scenario europeo. Più ripiegato verso l’intimo familiare appare Giovanni di Pagolo Morelli (Firenze 1371-1444), mercante dell’Arte della Lana, che nei suoi Ricordi (1393-1411) racconta ad esempio il grande dolore provato per la morte del figlioletto, apparso poi in sogno al padre. Un ‘libro di famiglia’ in presa diretta possono essere considerate le lettere che Alessandra Macinghi Strozzi (1406-1471) scrisse ai propri figli, esiliati da Firenze, esempio di grande forza morale ed espressiva, che è testimonianza del livello culturale raggiunto dalle donne del ceto medio-alto nel corso del Quattrocento, e, allo stesso tempo, campione significativo di una scrittura ‘al femminile’, di una madre che, nel disastro politico della ‘famiglia’, si fa carico del valore ideologico, e ne garantisce la trasmissione. Un livello altissimo di espressione aveva già raggiunto, nel secolo precedente, un’altra donna, che per mezzo delle proprie lettere si era fatta ascoltare dai potenti di tutta Europa, papi e sovrani: santa Caterina da Siena (Siena 1347-Roma 1380). Figlia di un tintore, e poi terziaria domenicana, Caterina aveva imparato a scrivere, ma, per la composizione dei suoi testi (il Dialogo della Divina Provvidenza, e l’ampio Epistolario), si serviva di solito della dettatura. La principale forma di comunicazione di Caterina era la lettera, che in molti casi (considerata l’importanza del destinatario) aveva un valore pubblico. Per mezzo della lettera Caterina ammoniva, esortava, spingeva; e poi manifestava con immagini straordinarie il suo mondo interiore, fondato su una mistica dell’unione con Cristo, di un eros spirituale che si esprime con un linguaggio molto forte di ‘cose’ anche fisiche (il fuoco, il sangue). Sempre a Siena, dopo Caterina, la comunicazione religiosa continuò ad avere grande importanza, con la figura del francescano san Bernardino da Siena (1380-1444), che rinnovò il genere della predicazione, coinvolgendo l’uditorio in modo diretto, e con un linguaggio semplice ed efficace (definito



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da lui stesso “chiarozzo chiarozzo”!), ma anche con un’attenzione costante ai problemi concreti della gente: i rapporti sociali, la possibilità di una compiuta vita cristiana pur restando nel mondo, e operando onestamente nella mercatura e nella politica.

4.2. La poesia Anche nella poesia si registra il graduale allargamento della sfera d’influenza di Firenze e della Toscana al resto d’Italia. Nella poesia lirica, la lezione petrarchesca si accompagna ad una certa libertà di sperimentazione, che riporta i poeti, oltre i confini di un’esclusiva tematica d’amore, all’impegno politico, all’attualità, all’autobiografismo, alla poesia occasionale o celebrativa. Luoghi importanti, nella produzione e nella fruizione della poesia, sono ora le corti signorili dell’Italia del Nord, dove operano Antonio Beccari da Ferrara (1315-ca. 1374), Francesco di Vannozzo da Padova (ca. 1340-ca. 1390), e Simone Serdini da Siena detto il Saviozzo (ca. 1360-ca. 1420), che elabora la canzone ‘alla disperata’, lamento del poeta per un amore impossibile, concluso di solito con un desiderio di morte (e lo stesso Saviozzo morì suicida). Si tratta di una poesia che recupera un rapporto organico con la musica, in un’epoca in cui si diffonde l’Ars Nova, e che si riavvicina alle forme della poesia popolare, come si nota nelle canzonette del patrizio veneziano Leonardo Giustinian (Venezia 1388-1446), in dialetto veneto, chiamate appunto giustiniane dal nome del loro inventore. Al medesimo ambiente cortigiano appartiene infine Giusto de’ Conti (Valmontone ca. 1390-Rimini 1449), che nel suo canzoniere, intitolato La bella mano, opera per primo una consapevole riduzione della libertà espressiva, tentando di imitare più fedelmente il modello petrarchesco nelle tematiche e nelle forme, e iniziando di fatto il petrarchismo. A Firenze, a fronte di una nutrita ma non brillante produzione lirica, estesa a tutte le classi sociali (e testimonianza interessante, comunque, di una larga e non episodica alfabetizzazione), spicca invece la figura singolare di Domenico di Giovanni detto il Burchiello (1404-1449), un barbiere molto vicino alla vita culturale della sua città, inventore di una poesia basata su immagini surreali, su accostamenti improbabili di parole e oggetti. Ma si tratta di assurdità solo apparenti. A metà strada tra il gioco linguistico popolare e il riuso parodico del lessico della cultura ‘alta’ (dalla Chiesa alla filosofia universitaria e alla poesia lirica ‘seria’), Burchiello in realtà mette in campo una satira feroce delle forme esteriori, per mezzo delle ‘parole’:

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dalle superstizioni religiose (“E vidi le lasagne / andare a Prato a vedere il Sudario”) alla vuota maniera poetica di stampo cavalcantiano o petrarchesco (“Sospiri azzurri di speranze bianche / mi vengon nella mente e tornan fuori / seggonsi a pie’ dell’uscio con dolori, / perché dentro non son deschetti o panche”). La poesia popolare veniva affidata a una trasmissione prevalentemente orale, nelle piazze delle città, in occasione di importanti feste religiose o cittadine. Per i cantastorie (chiamati canterini) fu determinante l’invenzione boccacciana della nuova forma metrica dell’ottava, che permetteva di memorizzare più facilmente le strofe, ed eventualmente di cambiarle, o di aggiungerne durante la recitazione, senza modificare la storia, ma integrando descrizioni di luoghi fantastici, di personaggi, di battaglie. Uno dei primi poemi narrativi in ottave, i cantari, è appunto un Cantare di Fiorio e Biancifiore (1343), derivato dal francese Flore et Blanchefleur, fonte del Filocolo di Boccaccio. Le storie sono soprattutto quelle del filone cavalleresco (nei due cicli principali, carolingio e bretone), ma non mancano vicende derivate dalla storia (antica e moderna), dall’attualità, dall’agiografia e dalla Bibbia, come indicano i titoli di alcuni tra i cantari più diffusi: Liombruno, Ponzela Gaia, La donna del Vergiù. All’inizio, i testi erano tutti anonimi, e spesso rielaborati da canterini diversi. Una forte individualità di autore si riconosce solo con Antonio Pucci (Firenze ca. 1310-1388), appartenente al ceto artigiano, e che, in qualità di ‘banditore’ del comune, si sentiva coinvolto nella vita pubblica fiorentina, con la scrittura di poesie appunto ‘pubbliche’, sirventesi politici, testi morali e satirici, e cantari: Apollonio di Tiro, Brito di Brettagna, Gismirante, Guerra di Pisa. È interessante, in Pucci, il valore dato alla figura della donna, come si vede nel cantare La Reina d’Oriente, e soprattutto in Madonna Leonessa, che riesce a salvare il marito condannato a morte dal re di Francia, dimostrando la propria superiorità per intelligenza e astuzia. Un caso unico, nel panorama dei cantari in ottave, è costituito dal fortunato Geta e Birria di Domenico da Prato, curiosa riscrittura di una commedia elegiaca medievale, il Geta di Vitale di Blois: nient’altro che il canovaccio dell’Anfitrione di Plauto, commedia degli errori e degli scambi in cui Mercurio si trasforma in Geta, e convince Geta di non essere nessuno. Affine al mondo dei cantari, per il carattere di recitazione pubblica e per il metro dell’ottava, è quello della sacra rappresentazione, che si sviluppa soprattutto a Firenze, con Feo Belcari (1410-1484): una forma embrionale di teatro (derivata dalla lauda drammatica), messa in scena nelle piazze e sui sagrati nel corso delle festività religiose, importante per la nascita delle



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prime ‘compagnie’ specializzate nell’allestimento teatrale, con attori e comparse, macchine sceniche, costumi, strumenti musicali. Feo, in particolare, dedito alla divulgazione di scritti sacri (tradusse ad esempio i Quattro gradi della Carità di Riccardo di San Vittore), rappresentò episodi biblici come Abram e Isaac, o l’Annunciazione, con una visualità parallela a quella dei pittori contemporanei. E sempre dalla narrazione potenzialmente infinita dei cantari derivano i romanzi di Andrea da Barberino (Firenze ca. 1370-ca. 1432), che, dopo un’esperienza di canterino, scrive in prosa il Guerrin Meschino (la storia di un fanciullo venduto schiavo che, dopo molte peripezie, diventa cavaliere, scopre una sua nobile origine, ed è infine incoronato re), e la saga dei Reali di Francia, compendio del ciclo carolino che è rimasta nella tradizione popolare fino al nostro tempo.

Bibliografia 4.1. La prosa. Cfr. in generale P. Salwa, La narrativa tardogotica toscana, Firenze, Cadmo, 2004. - F. Sacchetti, Il libro delle rime, a c. di F. Brambilla Ageno, Firenze, Olschki, 1990; Il trecentonovelle, a c. di V. Marucci, Roma, Salerno, 1996; a c. di D. Puccini, Torino, UTET, 2008. Cfr. L. Caretti, Saggio sul Sacchetti, Bari, Laterza, 1951; L. Battaglia Ricci, Palazzo Vecchio e dintorni. Studio su F. Sacchetti e le fabbriche di Firenze, Roma, Salerno, 1990. - Mercanti scrittori. Ricordi nella Firenze tra Medioevo e Rinascimento, a c. di V. Branca, Milano, Rusconi, 1986. Cfr. M. Guglielminetti, Memoria e scrittura. L’autobiografia da Dante a Cellini, Torino, Einaudi, 1976; A. Cicchetti – R. Mordenti, I libri di famiglia in Italia, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1985-2002; V. Branca, Narrar di mercanti fra Boccaccio e Machiavelli, Venezia, Marsilio, 1996. 4.2. La poesia. Antologie della poesia del Trecento: Poeti minori del Trecento, a c. di N. Sapegno, Milano-Napoli, Ricciardi, 1952; Rimatori del Trecento, a c. di G. Corsi, Torino, UTET, 1969; Poesie musicali del Trecento, a c. di G. Corsi, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1970. Cfr. A. Balduino, Boccaccio, Petrarca e altri poeti del Trecento, Firenze, Olschki, 1984; E. Pasquini, Le botteghe della poesia. Studi sul Tre-Quattrocento italiano, Bologna, Il Mulino, 1991; M. Santagata – S. Carrai, La lirica di corte nell’Italia del Quattrocento, Milano, Angeli, 1993. Su Giusto de’ Conti: I. Pantani, L’amoroso messer Giusto da Valmontone. Un protagonista della lirica italiana del XV secolo, Roma, Salerno, 2006; Giusto de’ Conti di Valmontone. Un protagonista della poesia italiana del ’400, a c. di I. Pantani, Roma, Bulzoni, 2008.

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Su Burchiello: Domenico di Giovanni, I sonetti del Burchiello, a c. di M. Zaccarello, Torino, Einaudi, 2004. Cfr. G. Crimi, L’ oscura lingua e il parlar sottile. Tradizione e fortuna del Burchiello, Manziana, Vecchiarelli, 2005. Sui cantari: Fiore di leggende. Cantari antichi, a c. di E. Levi, Bari, Laterza, 1915; A. Pucci, Cantari della Reina d’Oriente, a c. di A. Motta e W. Robins, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 2007. Cfr. I cantari. Struttura e tradizione, a c. di M. Picone e M. Predelli, Firenze, Olschki, 1984; M.C. Cabani, Le forme del cantare epicocavalleresco, Lucca, Pacini Fazzi, 1988; Firenze alla vigilia del Rinascimento. Antonio Pucci e i suoi contemporanei, a c. di M. Bendinelli Predelli, Firenze, Cadmo, 2004. Su sacra rappresentazione e teatro: C. Molinari, Spettacoli fiorentini del Quattrocento. Contributi allo studio delle Sacre Rappresentazioni, Vicenza, Neri Pozza, 1961; Sacre rappresentazioni del Quattrocento, a c. di L. Banfi, Torino, UTET, 1963; Il teatro italiano. Dalle origini al Quattrocento, a c. di E. Faccioli, Torino, Einaudi, 1975.

5. L’umanesimo

5.1. Rinascimento e umanesimo Col termine Rinascimento si intende comunemente il periodo storico che interessò l’Italia e l’Europa tra XIV e XVI secolo, caratterizzato dal passaggio dalle strutture economiche e sociali del mondo feudale a quelle dell’età moderna. In varie accezioni (ad esempio, renascentia studia), il concetto prese corpo proprio in quell’epoca, e appartenne alla consapevolezza storica degli intellettuali di allora. Era la percezione che qualcosa, dopo un lungo periodo di oscurità e barbarie, ‘rinasceva’, tornava alla luce: la lezione di civiltà degli Antichi, intesa globalmente nel suo valore di visione del mondo, e di concezione dell’uomo. Era una lezione che in realtà, nel corso del Medioevo, non era mai stata dimenticata: i classici antichi erano stati trascritti negli scriptoria dei monasteri, ed in gran parte continuavano ad essere letti nelle scuole. Cambiava però radicalmente il modo di leggerli. All’interpretazione allegorica, finalizzata all’individuazione di un sovrasenso religioso o morale, si sostituiva una ricerca indipendente della realtà umana, si cercavano risposte a domande nuove: le forme della convivenza civile e sociale, i rapporti tra lo stato e i cittadini, l’educazione, le relazioni politiche, l’affermazione delle libertà individuali di pensiero e di azione. Un’idea di ‘rinascita’ era naturalmente collegata anche al fatto che, tra la fine del Duecento e gli inizi del Cinquecento, fu possibile riscoprire, nelle biblioteche di antiche abbazie e cattedrali europee, un certo numero di testi classici quasi del tutto dimenticati. Gli intellettuali padovani di fine Duecento avevano trovato le tragedie di Seneca nell’abbazia di Pomposa, alle foci del Po; Petrarca aveva arricchito la sua biblioteca di nuove orazioni e raccolte epistolari di Cicerone e del più completo manoscritto di Livio, e Boccaccio aveva fatto altrettanto con autori come Tacito, Apuleio, Varrone, scoperti a Montecassino. Nel più celebre episodio di scoperte dei codici l’umanista

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Poggio Bracciolini ritrovò nell’abbazia di San Gallo nel 1416 un manoscritto integro di Quintiliano (autore fondamentale per l’educazione stilistica e retorica), e raccontò la vicenda come se si fosse trattato dell’eroica liberazione di un vero prigioniero dalla torre in cui era incarcerato. I classici ‘rinascono’ quindi come se fossero persone vive, come aveva dimostrato già Petrarca nel suo ininterrotto dialogo con essi, continuato anche simbolicamente nelle lettere conclusive delle Familiari, indirizzate direttamente a Cicerone e Omero. Non sono solo gli scrittori latini a ‘rinascere’. Per secoli l’Europa occidentale e il Mediterraneo orientale erano rimasti divisi anche per ragioni linguistiche. Nell’Occidente latino si era persa la conoscenza del greco, tranne in poche aree geografiche di tradizione bizantina (il Salento e la Calabria). I grandi filosofi antichi, Platone e Aristotele, erano letti in traduzioni incerte, spesso mediate da traduzioni arabe. Il cambiamento, ancora una volta, fu promosso da Petrarca e Boccaccio, che si sforzarono di imparare il greco con Barlaam e Leonzio Pilato, e di introdurne brevemente l’insegnamento a Firenze: cosa che divenne possibile solo a partire dalla fine del Trecento, quando il dotto bizantino Manuele Crisolora iniziò nel 1396 le sue lezioni di greco allo Studio fiorentino. Fu un evento rivoluzionario. Nel giro di pochi anni gli umanisti più importanti impararono la lingua greca, anche nel corso di viaggi a Costantinopoli e in Grecia; e la stessa caduta di Costantinopoli (1453), conquistata dai Turchi, favorì l’arrivo in Italia di intellettuali greci, e soprattutto di libri. Il sogno di Petrarca, di poter leggere Omero e gli altri poeti greci nella lingua originale, si era finalmente avverato. Il panorama della letteratura classica si era enormemente esteso, e questo finiva col mettere in crisi le vecchie strutture dell’insegnamento. Nel Medioevo la lettura dei principali classici latini avveniva nelle prime classi elementari, dedicate alle arti del Trivio (grammatica, retorica e dialettica), e considerate propedeutiche alle arti del Quadrivio (matematica, geometria, astronomia, musica), e agli studi universitari professionalizzanti (diritto e medicina) e superiori (filosofia e teologia). Ora quei contenitori didattici non bastavano più. Con una forte componente ideologica, la battaglia culturale si combatteva nel rinnovamento dell’educazione. La gerarchia tradizionale di trivio e quadrivio veniva letteralmente rovesciata, e le materie prima ritenute inferiori, la grammatica e la retorica, erano ora considerate le più importanti per una formazione globale: le arti della parola e dell’eloquenza, sulle quali si basa la comunicazione umana, e la trasmissione del sapere. Alcuni maestri cominciarono allora a fondare scuole in cui si dava rilevanza assoluta alla lettura dei classici, come fondamento di quel programma pedagogico: a Padova Gasparino Barzizza (Bergamo 1360-Pavia 1431), entusiasta inteprete di Cicerone; a Ferrara Guarino da Verona (Verona 1374-



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Ferrara 1460), che aveva studiato greco a Costantinopoli, e basava il suo insegnamento su basi grammaticali e retoriche; a Mantova Vittorino da Feltre (Feltre ca. 1373-Mantova 1446), che, protetto da Gianfrancesco Gonzaga, poté fondare una scuola, chiamata Ca’ Zoiosa, e aperta ad una formazione globale, che prevedeva anche l’esercizio fisico e la cura del corpo. Erano scuole estranee al sistema tradizionale, anche se in seguito (per esempio a Ferrara, dove insegnava Guarino) finirono per influenzare anche l’università, che era ancora legata alla trasmissione dei saperi medievali, e che, rinnovata, sarà centro di diffusione della nuova cultura al resto d’Europa (non bisogna dimenticare che nelle università italiane, Bologna, Ferrara, Padova, erano molto numerosi gli studenti provenienti dagli altri paesi europei). Manifesto programmatico della nuova pedagogia furono i trattati sull’educazione, che ebbero una fortuna enorme in tutta Europa: innanzitutto il De ingenuis moribus et liberalibus studiis adolescentiae libellus (‘libretto dei nobili costumi e degli studi liberali dell’adolescenza’) di Pietro Paolo Vergerio (Capodistria 1370-Buda 1444), umanista istriano che si formò a Padova, e che poi viaggiò per l’Europa centrale al servizio dell’imperatore Sigismondo. Come spiega Vergerio, quegli studi sono detti ‘liberali’ perché si convengono ad un uomo ‘libero’; ed è lo studio che rende veramente ‘liberi’. Il complesso di discipline e di testi che costituivano il curricolo di queste scuole cominciò ad essere chiamato (con un’espressione già presente in Cicerone e Gellio) studia humanitatis, e col tempo chi si occupava in modo specialistico di tali studi fu definito humanista, cioè un professionista di humanae litterae, di cultura greca e latina. Il termine ‘umanista’ nacque tardi, solo nel Cinquecento, e con un’accezione ristretta ad un ambito scolasticouniversitario, mentre noi oggi tendiamo a riferirla anche al secolo precedente, a tutti quegli intellettuali (anche al di fuori del circuito dell’insegnamento) che si riconoscevano nel più ampio movimento della ‘rinascita’; e questo perché utilizziamo una parola moderna, umanesimo (coniata nel primo Ottocento nell’ambito della pedagogia), che oggi indica convenzionalmente quel periodo del Rinascimento in cui si pongono al centro dell’esistenza i valori dell’humanitas, sulla falsariga dell’insegnamento degli Antichi. Al centro degli studia humanitatis era la lettura dei classici, e quindi l’acquisizione delle migliori competenze linguistiche, per poter intendere quei testi, e utilizzare poi in maniera originale lo stesso strumento comunicativo. La lingua dell’umanesimo era il latino. Non più il latino medievale, specialistico, della Chiesa o delle università, ma il latino classico, la lingua di Cicerone e Virgilio, restituita alla sua forma antica per mezzo di una nuova disciplina, la filologia. Da Petrarca in poi si comincia ad essere consapevoli che, nel tempo e nella tradizione manoscritta, i testi sono soggetti ad un continuo

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processo di corruzione: un processo che è possibile risalire al contrario, riscoprendo i codici più antichi, o cercando di interpretare l’origine di certi errori. La filologia è un difficile esercizio intellettuale, che abitua allo spirito critico nei confronti dei testi, privilegiando la libertà di interpretazione e di ricerca, e in questo senso sarà alla base delle future rivendicazioni di libertà religiosa (nell’ambito dell’interpretazione individuale dei testi sacri), e della libertà della ricerca scientifica. L’uso del latino come lingua della comunicazione culturale e letteraria aveva il vantaggio evidente dell’universalità, a livello europeo. Ma lo sforzo enorme di riportare in vita il latino classico si rivelò, alla fine, un’illusione. Da secoli il latino non era più la lingua parlata dal popolo, e il suo uso era limitato alle ristrette élites che avevano accesso alla cultura. Rigettato il latino medievale (avvertito come una lingua ‘barbara’, ma ancora pienamente vitale), bisognava tornare ai modelli antichi, e cercare di imitarli. L’imitazione divenne così uno dei problemi principali per gli umanisti, fonte di dibattiti accesi tra chi proponeva l’imitazione fedele di un solo modello (ad esempio Cicerone, all’origine del fenomeno del ‘ciceronianismo’), e chi invece era favorevole ad una maggiore libertà di espressione individuale. La letteratura umanistica latina crea dunque un nuovo sistema di generi, che sarà fondamentale per le letterature moderne europee. È un sistema in parte già riconoscibile nell’opera di Petrarca, e in larga misura derivato dalla letteratura antica. Nella prosa, si dà grande valore alla storiografia, che si distacca dalla tradizione medievale di cronache ed annali, e riprende i grandi disegni storiografici di Livio, o lo stile di altri storici, come Cesare, Sallustio, Tacito. Vastissima fortuna ha il genere inaugurato da Petrarca, l’epistolario, in cui si proietta la fitta rete di relazioni intessuta dagli umanisti; e da Petrarca l’epistolario conserva anche il carattere di specchio autobiografico, dell’esperienza individuale dell’umanista, seppure filtrata dallo sguardo retrospettivo dell’opera pubblica. Di più, l’epistola è sempre una sorta di ‘dialogo a distanza’: e l’altro grande genere umanistico è sicuramente il dialogo, derivato dai modelli antichi (Cicerone, Seneca, Platone), e in cui la ricerca della verità è sempre condotta insieme dagli interlocutori, nel libero confronto di tesi anche discordanti, ma aperte al reciproco superamento. La poesia conoscerà un momento di grande splendore, e darà veramente l’impressione di una ‘rinascita’ dei generi degli Antichi, imitati e rielaborati con una freschezza nuova: l’epigramma, l’elegia, la poesia erotica, l’epica, la bucolica. Infine, si cominciarono a comporre le prime commedie umanistiche, ad imitazione di Plauto e Terenzio, atto di nascita del teatro europeo moderno. Il carattere dominante dell’umanesimo è, come si è detto, la riscoperta della civiltà classica, riscoperta che inizia sul piano del recupero dei testi



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(letterari, filosofici, scientifici), e prosegue poi nel sogno di una restituzione globale, estesa a tutti gli ambiti della vita: le istituzioni politiche e civili, le arti figurative e l’architettura, e perfino la moda. Nelle arti, la ‘rinascita’ fu resa visibile dall’opera di artisti come Brunelleschi, Masaccio, Donatello, che, studiando direttamente le testimonianze dell’arte classica, rinnovarono radicalmente i linguaggi artistici. Non si trattava di un semplice ritorno all’indietro, di un erudito restauro antiquario. La concezione dello spazio, ad esempio, era completamente diversa da quella degli Antichi (legati alla concezione dell’ottica di Euclide), grazie all’invenzione della prospettiva, attribuita a Brunelleschi: un procedimento matematico-geometrico che permetteva di stabilire con precisione le grandezze apparenti degli oggetti, e di riprodurle in pittura con sorprendente realismo. La grandezza eroica dell’umanesimo è forse nella ‘globalità’ di questa ‘rinascita’: nel procedere simultaneo di tante ricerche e tante indagini, che danno veramente la coscienza che l’uomo sia ‘misura di tutte le cose’, e che la sua ragione sia in grado di interpretare la realtà nellle sue diverse forme. Un ottimismo di fondo, che, anche oltre il Rinascimento e il crollo di molte delle sue illusioni, sarebbe rimasto come eredità alle età successive, nella spinta propulsiva che avrebbe portato la civiltà europea ad uscire dai confini del proprio continente, per mezzo delle grandi esplorazioni, da Cristoforo Colombo in poi.

5.2. I centri dell’umanesimo Anche se legato al sistema degli stati regionali e delle corti signorili dell’Italia di fine Trecento, l’umanesimo nasce come un fenomeno sovraregionale imperniato su alcuni centri propulsori, ma rapidamente diffuso in tutta la penisola. Era determinante, anche in questo, l’eredità di Petrarca, che aveva vissuto in città diverse, e che soprattutto aveva creato un vero network intellettuale che sopravvisse alla sua morte, una ‘repubblica delle lettere’ in cui i primi umanisti potevano riconoscersi, con orgoglio e senso di appartenenza. Un’ulteriore proiezione verso l’Europa fu inoltre favorita dall’appartenenza di molti umanisti alle strutture di governo della Chiesa Cattolica, che in quegli anni, per attraversare e superare la grave crisi dello Scisma d’Occidente, promosse i grandi concili di Costanza e di Basilea, che furono una straordinaria occasione di confronto tra i curiali italiani e quelli europei. Un’area geografica determinante, come luogo di incontro e di formazione, fu all’inizio il Veneto: a Padova si conservavano i libri di Petrarca (poi trasferiti nella biblioteca viscontea di Pavia), e presso la giovane università

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o le scuole cittadine si incontrarono Vergerio, Guarino, Barzizza, Vittorino, cioè i primi grandi maestri dell’umanesimo. Venezia, al massimo della sua potenza economica e politica, era anche la principale porta di accesso da e per l’Oriente greco, luogo d’arrivo dei primi manoscritti greci, e sede di importanti scuole umanistiche. Il rappresentante più significativo della nuova cultura fu il patrizio veneziano Francesco Barbaro (1390-1454), autore di un importante epistolario, e del trattato De re uxoria, che esalta il valore del matrimonio, e della donna, contro una precedente tradizione misogina, che preferiva vedere il ruolo dell’intellettuale come una missione esclusiva, a cui poteva nuocere una vita ‘normale’, e la formazione di una famiglia. A Firenze la nuova cultura era stata preparata soprattutto da Boccaccio, che aveva educato i suoi concittadini al culto di Dante e Petrarca, e aveva lasciato i suoi libri al convento agostiniano di Santo Spirito, vero cenacolo spirituale e umanistico, animato dal frate Luigi Marsili († 1394). L’umanesimo fiorentino si sviluppò subito con una forte caratterizzazione ideologica e politica. Uscita stremata da un secolo di pestilenze, carestie, disastri finanziari, alluvioni, divisioni politiche e sociali, la città credette nel sogno di una repubblica retta da filosofi, da intellettuali, come era stata descritta idealmente da Platone, e percorse un cammino inverso a quello che seguirono allora molti altri stati regionali, evolutisi in signorie e principati. Conservò le proprie istituzioni comunali, ma ripensandole come una repubblica di stampo antico, sul modello della città-stato greca (Atene) o della Roma repubblicana. Questo significò il coinvolgimento diretto degli umanisti nel governo cittadino: non in funzione subalterna, di consiglieri di un principe, o di un capo politico, ma come primi attori della vita civile, come cancellieri, segretari, reggenti. Era il cosiddetto umanesimo civile, un progetto ideale, un mito, se vogliamo, che comunque, nella realtà, doveva mediare con i continui problemi sociali e politici. Le lotte per il potere (così sanguinose nel Trecento) si erano solo sopite, e a Firenze il vero potere era sempre nelle mani delle famiglie degli ‘ottimati’, le antiche e ricche famiglie di mercanti (Pazzi, Pitti, Strozzi, Ridolfi, Velluti, Capponi) che ora si erano ‘nobilitate’ e infeudate, con l’acquisto di grandi proprietà terriere, e a cui interessava solo una sostanziale stabilità di governo, per frenare le spinte e le rivendicazioni del ‘popolo minuto’, gli artigiani e le classi più umili, ferocemente represse nel Tumulto dei Ciompi. Si continuava a mandare in esilio gli avversari politici, o i capi di quelle famiglie che sembravano emergere più delle altre, e potevano diventare pericolose, come toccò agli Alberti, e anche a Cosimo de’ Medici, che però, al ritorno dal suo esilio (1434), instaurò definitivamente il dominio dei Medici sulla città, pur conservandone formalmente le istituzioni repubblicane.



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Il vero anello di congiunzione tra l’età di Petrarca e Boccaccio e l’umanesimo civile fu il notaio Coluccio Salutati (Stignano Valdinievole 1331Firenze 1406), cancelliere della repubblica fiorentina a partire dal 1375, che si richiamò esplicitamente all’eredità petrarchesca, con la composizione di un importante epistolario (e anche con la riscoperta delle Familiari di Cicerone, nel 1392), e l’affermazione della superiorità degli studia humanitatis sulle discipline professionali (diritto e medicina), nel trattato De nobilitate legum et medicinae (‘la nobiltà delle leggi e della medicina’)(1390). In un punto però Coluccio si distacca da Petrarca: nell’affermazione del primato della vita attiva sulla vita contemplativa, e del diretto coinvolgimento dell’intellettuale nell’attività politica e mondana. Coluccio difese la concezione di un libero stato repubblicano, rispetto alla deriva signorile contemporanea, in opere come il De tyranno (‘sul tiranno’)(1400), e in una Invectiva (1403) contro un umanista al servizio dei Visconti, signori di Milano, Antonio Loschi, ostile a Firenze. Alla sua attenta rilettura dei classici si deve infine il De laboribus Herculis (‘fatiche di Ercole’), che testimonia il successo del mito umanistico di Ercole (dopo il contributo dato da Petrarca nel De viris illustribus): Ercole non è più simbolo di forza sovrumana, ma figura eroica che sembra rappresentare pienamente l’aspirazione del primo umanesimo di combattere vittoriosamente contro i mostri della barbarie e dell’ignoranza. Non tutti, però, erano d’accordo con Coluccio: il domenicano Giovanni Dominici (Firenze 1356-Buda, Ungheria 1419) attaccò infatti, nella Lucula noctis (1405), la possibilità di conciliare cultura classica e fede cristiana. Allievo di Coluccio, e suo successore al cancellierato fiorentino dal 1427, fu Leonardo Bruni (Arezzo ca. 1370-Firenze 1444), che celebrò la figura del Salutati nell’importante Laudatio Florentinae urbis (‘lode della città di Firenze’), ma fu poi fautore di Cosimo de’ Medici. Studioso di greco (a lui si debbono decisive traduzioni dell’Etica Nicomachea e della Politica di Aristotele, del Fedone di Platone, del De tyranno di Senofonte, e di un’epistola di san Basilio sull’utilità degli studi), ed umanista latino, non gli sfuggì comunque l’importanza della tradizione letteraria in volgare, e fu tra i promotori del culto delle cosiddette ‘tre corone’ (Dante, Petrarca, Boccaccio); dei primi due scrisse infatti la vita (in volgare), e trattò della loro eccellenza nei Dialogi ad Petrum Histrum (‘dialoghi a Pietro Paolo Vergerio’), dedicati al Vergerio, di cui condivise sempre l’ansia pedagogica (anche con la composizione di un trattatello in forma di epistola a una donna, Battista Malatesta, il De studiis et litteris, ‘degli studi e delle lettere’). Grande fu soprattutto la sua opera di storico, che lo fa riconoscere come il fondatore della storiografia umanistica, e padre della storiografia moderna con l’Historia florentini populi (‘storia del popolo fiorentino’)(1439), in nove libri dalle origini della città fino al 1407,

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grande affresco dell’ascesa di un ‘popolo’, a cui si aggiunsero, negli ultimi anni di vita, i Rerum suo tempore gestarum commentaria (‘commentari di storia contemporanea’), e il De bello italico adversus Gothicos (‘la guerra in Italia contro i Goti’). Bruni influenzò molto la cultura contemporanea, e a lui si collegarono umanisti come Niccolò Niccoli (Firenze ca. 1365-1437), uno degli interlocutori dei Dialogi bruniani (in cui tra l’altro finge di criticare aspramente Dante e Petrarca, per poi rovesciare le accuse in elogio), appassionato della civiltà antica in tutte le sue forme (si racconta che anche a tavola e nella vita quotidiana cercasse di atteggiarsi ad antico romano), e soprattutto grande collezionista di libri (per conto di Cosimo de’ Medici), che formarono il nucleo della libreria del convento domenicano di San Marco a Firenze, la prima biblioteca pubblica dell’umanesimo. Nella scrittura in volgare, subalterna a quella latina, bisogna ricordare Matteo Palmieri (Firenze 1406-1475), uno speziale che si dedicò alla divulgazione degli ideali politici bruniani nel trattato Della vita civile, mentre nel poema dantesco Città di vita espose oscuramente le proprie concezioni religiose, in odore di eresia. Nell’Italia del Nord lo sviluppo delle corti signorili diede all’umanesimo un carattere diverso rispetto a Firenze. L’umanista era in funzione subalterna rispetto al principe, e poteva al massimo diventarne il segretario, il cancelliere, lo scrittore delle sue lettere ufficiali, il responsabile dell’ufficio che oggi chiameremmo PR, public relations. Si tratta comunque di un ruolo importante. Con gli strumenti che gli sono propri (l’arte della parola, la retorica, la conoscenza della storia e delle lettere, oltre che del diritto e dell’arte del governo), l’intellettuale contribuisce alla costruzione di un’immagine pubblica positiva del principe e del suo sistema di governo: e questo è evidente soprattutto nella storiografia, ideologicamente orientata. Non è un caso che la principale polemica umanistica, in questo periodo, fosse sul tema delle forme politiche, e dell’interpretazione delle grandi figure della Roma antica, Cesare e Scipione. Naturalmente gli umanisti fiorentini erano favorevoli alle libertà repubblicane e ostili alla tirannia, mentre gli umanisti al servizio delle corti settentrionali difendevano il governo signorile. Al di là degli usi strumentali della cultura, è un fatto che, in ogni caso, i principi delle grandi famiglie del Nord furono subito consapevoli dei valori intrinseci dell’umanesimo, e ne divennero i principali promotori. Quasi tutti i trattati pedagogici sono dedicati ai principi di allora, e non si tratta solo di dediche formali. L’umanesimo era una cultura elitaria, e le scuole miravano alla formazione di una nuova e più dinamica classe dirigente, in grado di affrontare le sfide di un mondo radicalmente mutato.



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Un primato politico ed economico, tra le corti settentrionali, acquista la Milano dei Visconti, che, dopo aver ospitato addirittura Petrarca, attira grandi umanisti come Uberto e Pier Candido Decembrio, e Antonio Loschi; merito dei Visconti, nella promozione della cultura, è la costituzione di una grande biblioteca nel castello di Pavia, e la fondazione dell’università, sempre a Pavia. Le altre corti si sviluppano in città più piccole, come Mantova con i Gonzaga, Ferrara (importante sede universitaria, ora anche per la presenza di Guarino) con gli Estensi, e Rimini con i Malatesta. In realtà, l’umanesimo è un fenomeno policentrico, che interessa simultaneamente gran parte della penisola: una rete di molti centri, e nessun ‘centro’. Spesso l’umanista non resta legato al suo luogo d’origine, ma gira tra diverse città, in cerca di una migliore sistemazione al servizio di un principe, o di un miglior incarico di insegnamento in un’università. È questo il caso di Francesco Filelfo (Tolentino 1398-Firenze 1481), che, dopo una prima formazione in Veneto, e addirittura a Costantinopoli (per studiare il greco, e sposare anche la figlia del suo maestro, Teodora Crisolora), insegnò a Bologna, Firenze, Siena, Pavia, Roma, oscillando tra lo status del cortigiano (in particolare a Milano) e quello del professore. Oltre alle sue numerose opere latine (spesso di carattere encomiastico), spicca nella produzione del Filelfo un imponente epistolario, specchio della vita dell’umanista, e della sua epoca, tra luci e ombre, grandezze e meschinità. Né sfuggiva al Filelfo l’importanza della letteratura in volgare, alla quale dedicò una pubblica lettura della Commedia dantesca a Firenze (1431-32), e un commento del Canzoniere petrarchesco (pubblicato nel 1476). Dopo il ritorno dei papi da Avignone, e la composizione dello Scisma d’Occidente, Roma acquista un ruolo crescente fra i centri dell’umanesimo. Nella prima metà del Quattrocento molti umanisti appartengono alla curia pontificia, e le vicende ancora incerte del papato, nella contemporanea coesistenza di papi e antipapi, e durante lo svolgimento dei concili di Costanza e Basilea (continuato, quest’ultimo, a Ferrara e Firenze), li portano in giro per l’Italia e per l’Europa, con delicate funzioni diplomatiche e politiche. L’esempio più emblematico è quello di Poggio Bracciolini (Terranova Valdarno 1380-Firenze 1459), per molti anni segretario nella corte pontificia, e infine cancelliere a Firenze (1453), anche lui autore di un grande epistolario, importante testimonianza di vita e costume contemporaneo, con la descrizione dei luoghi visitati in Europa, e il racconto delle vicende che diedero fama maggiore all’umanista, le scoperte di codici di autori latini ancora sconosciuti, o letti in testi scorretti, attuate nelle biblioteche dei monasteri europei: tra le più rilevanti, le orazioni di Cicerone a Cluny in Francia (1415); Quintiliano,

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autore fondamentale per l’educazione e la retorica, e le Argonautiche di Valerio Flacco a San Gallo in Svizzera (1416); il De rerum natura di Lucrezio, Silio Italico e le storie di Ammiano Marcellino a Fulda in Germania (1417); e poi ancora Plauto, le Silvae di Stazio, una parte del Satyricon di Petronio. Tra le sue opere emerge la forma, tipicamente umanistica, del dialogo, su temi morali e civili, tra i quali si possono ricordare il De avaritia (‘l’avarizia’)(1428-1429), il De varietate fortunae (‘la varietà della fortuna’)(1448), e il De miseria humanae conditionis (‘miseria della condizione umana’)(1453), oltre al fortunatissimo Liber facetiarum (‘libro di facezie’)(1452), che nobilitava in latino il genere volgare dei motti e delle facezie. Nella storia della civiltà Poggio ha un ruolo singolare: quello di ‘inventore’ della scrittura umanistica. Dal XII secolo la scrittura in uso in Europa, nelle università e nella produzione libraria, aveva caratteristiche molto elaborate, e risultava talvolta illeggibile. Già Petrarca e Salutati cominciano ad adottare una scrittura più chiara, con i caratteri distinti e ben leggibili, e considerano quell’altra scrittura come un segno di decadenza: una scrittura ‘barbarica’, che sarà appunto definita ‘gotica’. La scrittura umanistica nasceva però da un malinteso. Poggio imitava la scrittura dei codici che aveva appena scoperto, e che credeva originali del tempo di Cicerone e Virgilio. Essi erano invece tutt’al più dell’epoca carolingia, e la loro era una scrittura ‘carolina’, e non ‘romana antica’. Nonostante l’errore, la scrittura inventata da Poggio sarà l’espressione grafica della rivoluzione culturale dell’umanesimo, e, con qualche piccolo cambiamento, è alla base della scrittura che usiamo ancora oggi. Poggio fu a lungo un ‘curiale’, cioè un umanista al servizio della corte pontificia, ma restò sempre un ‘laico’, senza prendere gli ordini religiosi, e divenire un ‘chierico’. Come si è visto, l’umanesimo nasce in un rapporto stretto con le strutture della Chiesa Cattolica. Grandi scrittori come Petrarca e Boccaccio erano addirittura stati ‘chierici’, cioè partecipavano a quelle strutture fruendo di benefici ecclesiastici. Nel corso dell’umanesimo, i papi favorirono la cultura umanistica e la libertà di ricerca intellettuale. Uno di loro era stato un grande umanista, Enea Silvio Piccolomini, papa col nome di Pio II (Corsignano di Siena 1405-Ancona 1464), straordinaria figura di respiro europeo, partecipe del movimento conciliare e segretario dell’imperatore Federico III. Piccolomini scrisse un’importante opera storica (i Commentarii ) e un diffuso trattato pedagogico, ma anche, in gioventù, belle poesie latine, una commedia Chrysis, e un romanzo amoroso, l’Historia de duobus amantibus (‘storia di due amanti’), che mette in scena la relazione tra una gentildonna senese e un cavaliere tedesco. Al di là dell’effettivo rapporto fra chierici e laici, restava vivo il dibattito su quale dovesse essere il ruolo della nuova cultura in una società e in un



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mondo che restavano comunque intimamente cristiani. In effetti (nonostante una moderna mitizzazione dell’umanesimo lo abbia voluto interpretare in funzione di opposizione al cristianesimo), gli umanisti conservarono nella loro formazione profonde radici cristiane. La loro battaglia contro quello che chiamavano il ‘medio evo’ era una battaglia contro la ‘barbarie’, non contro la spiritualità, e anzi è questa l’epoca di maggior attenzione, e di maggior ritorno, alla voce dei Padri della Chiesa, dei grandi intellettuali cristiani che per primi si erano posti il problema del rapporto tra cultura classica e cristianesimo (Lattanzio, Ambrogio, Girolamo, Agostino), risolvendolo positivamente, non nella direzione del rigetto o del conflitto, ma della continuazione di una tradizione fondata su un condiviso ideale di humanitas. Nella loro poesia, e nel loro immaginario, da Petrarca in poi, potevano tornare gli dèi della mitologia antica, non come elementi di un nuovo paganesimo, ma come grandi valori simbolici dell’esistenza umana. Nel cambiamento epocale del rapporto dell’uomo col mondo, mutano piuttosto gli interrogativi, e le risposte, e il modo di porsi di fronte al divino.

5.3. Valla L’umanista che più di ogni altro avvertì il senso della battaglia contro la barbarie fu Lorenzo Valla (Roma 1405-1457). Dopo un’iniziale formazione tra Firenze, Roma e Venezia, Valla insegnò all’università di Pavia (1431-1433), dove compose un singolare dialogo, il De voluptate (‘sul piacere’), difesa del principio di piacere, pulsione naturale dell’uomo, contro l’ascetismo medievale, in un quadro che rievocava l’antico epicureismo (poi attenuato nelle successive rielaborazioni, intitolate De vero bono, e De vero falsoque bono), ma che, dopotutto, non era molto lontano dal riconoscimento della positività della vita nel Decameron di Boccaccio. Dopo varie peregrinazioni, entrò al servizio del principe Alfonso d’Aragona (1435), impegnato in una lunga guerra per la conquista del regno di Napoli, e seguì Alfonso nel momento del suo trionfo, l’ingresso a Napoli nel 1443 (tra l’altro, la collocazione cortigiana spinse Valla anche alla storiografia, con una biografia di Ferrante d’Aragona, padre di Alfonso). Sono questi gli anni di maggior attività intellettuale, in opere che hanno come bersaglio principale i fondamenti della cultura medievale: la tradizione filosofica aristotelica, demolita nel dialogo De libero arbitrio (‘sul libero arbitrio’), e nella Dialectica (‘dialettica’)(1439); e in particolare la cosiddetta Donazione di Costantino, un documento col quale l’imperatore Costantino avrebbe ceduto la città di Roma al papa, e che fondava il presupposto del

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potere temporale dei papi, ma che Valla dimostrò falso nel De falso credita et ementita Constantini donatione (‘la donazione di Costantino, ritenuta falsamente autentica, e smentita’)(1440). Tale dimostrazione fu possibile soprattutto grazie ad argomenti di filologia e di storia della lingua latina, la cui approfondita conoscenza portò l’umanista alla composizione della sua opera più importante, le Elegantiae latinae linguae (‘eleganze della lingua latina’)(1441-1449), rifondazione della grammatica latina e del suo lessico riportata sul rigoroso studio dei classici. È uno dei testi chiave dell’umanesimo. Nella prefazione Valla afferma che la vera grandezza di Roma antica fu nella diffusione della lingua latina, attraverso la quale aveva educato i popoli nelle arti liberali e nelle leggi, liberandoli dalla barbarie. La sua decadenza aveva coinciso con la decadenza della civiltà, che però ora tornava a rinascere, e per la quale bisognava lottare generosamente, come avevano fatto i Romani per liberare Roma dai Galli. Tra gli autori antichi maggiormente studiati fu Livio, che Valla poté leggere anche sul codice di Petrarca, ma che fu causa di gravi dissidi con altri umanisti alfonsini, Bartolomeo Facio e Antonio Beccadelli detto il Panormita, attaccati in scritti violentemente polemici in cui si evidenziava l’imperizia filologica dei suoi avversari. Valla abbandonò allora Napoli (1448), per la più tranquilla collocazione alla corte pontificia, a Roma, presso il papa-umanista Niccolò V, dove attese alla rielaborazione delle sue opere, e alla conclusione di una Collatio Novi Testamenti (‘studio comparativo del Nuovo Testamento’), applicazione della critica testuale e linguistica al testo della traduzione latina del Nuovo Testamento (la cosiddetta Vulgata attribuita a san Girolamo), anche grazie al ricorso ai testi greci originali. L’opera passò quasi inosservata, e fu riscoperta solo nel 1504, da Erasmo da Rotterdam, in un’abbazia presso Lovanio, nelle Fiandre. Un evento capitale, che segnò il passaggio della filologia da scienza ‘neutrale’ (ma lo era mai stata?) dei testi antichi a strumento di indagine sui testi sacri, per i quali si rivendicava libertà di studio ed interpretazione.

5.4. Alberti L’umanesimo ebbe l’aspirazione di rinnovare tutti gli aspetti dell’attività umana, in nome di un’interpretazione globale dell’humanitas, ma gli umanisti furono più spesso degli specialisti del campo che era a loro più congeniale, quello della parola, dell’eloquenza. Fa eccezione la figura di Leon Battista Alberti (Genova 1404-Roma 1472), paradigma dell’uomo universale del Rinascimento, specialista di molte discipline diverse, e tra l’altro compiuta-



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mente bilingue, scrittore in latino e in volgare, in un’età in cui l’umanesimo tendeva ad essere esclusivamente latino. Battista (questo il suo vero nome, a cui fu premesso in seguito il soprannome Leone) nacque da una famiglia mercantile fiorentina, allora in esilio a Genova, perché aveva lottato invano per una maggiore democratizzazione della società fiorentina: una condizione originaria, quindi, di nascita in esilio (come Petrarca), di incerta appartenenza, che lo accompagnò per tutta la vita, passata tra i centri principali dell’umanesimo. Negli anni di studio a Padova e Bologna, tra l’apprendistato letterario e la laurea in diritto canonico, Battista esordì appena ventenne con una commedia umanistica latina, Philodoxeos fabula (‘favola dell’amante della verità’)(1424), allegoria della ricerca della conoscenza, e poi con un’acuta riflessione sulla posizione sociale e umana dell’intellettuale, il De commodis litterarum et incommodis (‘vantaggi e svantaggi delle lettere’)(1428); e le prime rime e operette in volgare, dedicate soprattutto al tema amoroso, tra cui risalta la Deifira, dialogo in cui un innamorato deluso e disperato decide di abbandonare il consorzio umano, e l’illusione d’amore. Risalta subito, anche nei testi poetici, un’attitudine sperimentale, che porta l’Alberti a creare nuove forme metriche e nuovi generi: determinante, tra l’altro, l’apporto che diede al giovane genere bucolico con la composizione di due egloghe. Importante fu la collocazione presso la curia pontificia, con l’incarico di abbreviatore apostolico, che lo portò a Roma (1432), e poi finalmente a Firenze, al seguito del papa Eugenio IV. In questo periodo l’Alberti compilò una raccolta di favole a sfondo morale, gli Apologi, mentre la propria vicenda individuale veniva raccontata in una singolare scrittura autobiografica in terza persona, la Vita (1438). È un momento felice, per Battista, che stringe fecondi contatti con gli esponenti dell’umanesimo fiorentino, e nutre l’illusione di un suo pieno inserimento nel panorama culturale della città originaria della sua famiglia. Forse proprio questo vagheggiamento di una famiglia che più non esisteva, dispersa nei suoi rami, sradicata dalla patria, lo portò alla composizione di un’opera che era il punto d’arrivo, e di fusione, delle istanze dell’ideologia ‘familiare’ della tradizione toscana del Trecento, e dell’umanesimo civile del primo Quattrocento, i quattro libri Della famiglia (1433-1440). Si tratta di dialoghi, che si fingono avvenuti tra i membri della famiglia degli Alberti, e in cui si affrontano le tematiche della vita e dell’organizzazione di una famiglia ideale, basata sulla virtù, ma attenta anche al mantenimento della sua ricchezza, della ‘roba’ o della ‘masserizia’, del suo status sociale, e della sua dignità; ma anche quella, tutta umanistica, dell’amicizia (nel quarto libro). Nel solco dell’umanesimo pedagogico si colloca, strategicamente, il primo libro dedicato all’educazione, il cui fondamentale livello, prima ancora che

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nella scuola, si attua nella famiglia. Rispetto però alla famiglia tutta ‘urbana’ del Trecento, quella ‘rinascimentale’ dell’Alberti manifesta nuove aspirazioni, che si rendono evidenti, ad esempio, nel vagheggiamento della vita in ‘villa’: molte delle grandi famiglie borghesi si erano ormai ‘infeudate’, con l’acquisto di terre, e con il passaggio dalla vivace incertezza della mercatura e della finanza ad una più tranquilla amministrazione fondiaria e domestica. Un segno di ripiegamento, di cui Alberti fornisce la prima testimonianza. Ma la sua opera è importante anche perché scritta in volgare, nel momento di massimo splendore dell’umanesimo latino a Firenze. La novità sostanziale è che si tratta di prosa volgare, uno strumento comunicativo che fino ad allora non si era particolarmente sviluppato, fatta eccezione per il genere novellistico, grazie al Decameron di Boccaccio. Ora, il rinnovamento attuato dall’Alberti è proprio nei confronti del modello boccacciano. Non più l’ampio periodo classicheggiante, basato su una complessa architettura di subordinazione sintattica (l’ipotassi), ma una prosa più agile, grazie anche alla finzione del dialogo, più vicina ad un registro colloquiale, e comunque nobilitata dal costante confronto (soprattutto nel lessico) con il latino. Uno stile adatto non solo a ‘raccontare’, ma anche a ‘descrivere’ e ad ‘argomentare’, più aderente alle ‘cose’, in generi che potevano andare dalla trattatistica morale a quella tecnica e scientifica, come aveva provato a fare per primo Dante con il Convivio. Ne sarebbero scaturite le opere successive, sempre nella forma del dialogo morale: il Theogenius (1440), i Profugii ab aerumna (‘coloro che fuggono le preoccupazioni’) o Della tranquillità dell’animo (1441-1442), e il tardo De iciarchia (‘amministrazione domestica’)(1468). L’attenzione consapevole dell’Alberti per il volgare si tradusse nei primi scritti di riflessione linguistica dopo il De vulgari eloquentia: innanzitutto il proemio del terzo libro Della famiglia, dedicato appunto alla difesa dell’uso del volgare; e poi addirittura una piccola grammatica della lingua toscana, la prima che fosse mai stata elaborata, segno che anche il volgare (considerato da Dante lingua ‘primaria’ in opposizione funzionale rispetto al latino, lingua ‘secondaria’ e ‘grammaticale’) poteva avere la dignità di una sua ‘grammatica’, di sue ‘regole’, da applicare all’uso. Un episodio importante dimostra la battaglia condotta dall’Alberti per convincere gli umanisti fiorentini (in primo luogo il Bruni) della nobiltà del volgare: una vera gara di poesia, il Certame coronario (così chiamato perché al vincitore sarebbe toccata una corona d’argento), indetto nel 1441 sul tema dell’amicizia, che concludeva i libri Della famiglia. Non era una gara qualsiasi. Battista aveva proposto una sorta di regola a cui i poeti dovevano attenersi: le poesie volgari, basate sugli accenti naturali delle parole, dovevano imitare la metrica classica, basata sulla ‘quantità’, cioè sulla ‘durata’ delle sillabe (metrica quantitativa); una tecnica



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che secoli dopo il Carducci avrebbe definito ‘poesia barbara’. L’effetto dei testi proposti da Battista e dai suoi amici era però un po’ comico (basti l’esempio del verso iniziale dell’Alberti, che vorrebbe imitare un esametro latino: Dite, o mortali, che sì fulgente corona), e fu ovviamente disdegnato dagli umanisti fiorentini, provocando l’ira dell’Alberti, e un nuovo concorso (anch’esso concluso in insuccesso, l’anno seguente) sul tema non casuale dell’invidia. L’amarezza e le disillusioni portarono gradualmente l’Alberti (nel frattempo allontanatosi da Firenze, e residente soprattutto a Roma) ad una forte consonanza con un autore greco appena riscoperto, Luciano, i cui dialoghi ironici e sarcastici, in situazioni talvolta surreali in cui si proietta l’assurdità irrazionale della vita umana, influenzarono la composizione dei dialoghi latini dell’Alberti intitolati Intercoenales: apparentemente, come vorrebbe il titolo, componimenti giocosi, festivi, da leggersi nel corso dei conviti, e in realtà riflessione amara sull’uomo e sulla vita, sulle sue follie, sulle pulsioni oscure e negative. Alberti è il primo umanista che ribalta l’ottimismo dominante in un realismo pessimista, che fa vedere l’altra faccia della medaglia, il lato oscuro dell’umanesimo. Le Intercoenales, per la loro violenza ideologica, restarono un testo quasi ‘segreto’, con una circolazione sotterranea in pochi manoscritti. E la stessa visione del mondo affiora nel Momus, o De principe (1443-1450), strana favola mitologica in cui un ‘dio minore’ e dispettoso, Momo, mette a soqquadro l’ordine costituito degli uomini e degli dèi, denudando le loro meschinità, e la vacuità del potere. Il periodo fiorentino aveva però messo a contatto l’Alberti con il mondo degli artisti del Rinascimento, e in particolare con Brunelleschi e Donatello. Da allora Battista (che aveva compiuto anche studi tecnici e matematici, riflessi nella composizione di opuscoli latini come i Ludi matematici) consacrò una parte importante della propria attività alle arti figurative, e soprattutto all’architettura, con la realizzazione di alcuni tra i più importanti edifici del Quattrocento: a Firenze la facciata di Santa Maria Novella e Palazzo Rucellai; a Rimini il Tempio Malatestiano; a Mantova la chiesa di Sant’Andrea. L’Alberti volle contribuire alla nobilitazione di quelle arti che, nella gerarchia disciplinare alla fine del Medioevo, erano considerate ancora ‘meccaniche’, perché legate ad operazioni ‘materiali’, e quindi inferiori rispetto alle arti ‘liberali’. I grandi maestri da Giotto in poi avevano dimostrato una straordinaria autonomia intellettuale degli artisti, che si formavano non in scuole regolari, ma nell’ambiente vivacissimo delle ‘botteghe’, punto d’incontro di esperienze diverse, dalla tecnologia alla metallurgia, dall’alchimia alle scienze naturali, dall’ottica alla geometria e alla meccanica. Quello che mancava ancora era l’approdo alla tradizione scritta di quel grande complesso di conoscenze

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pratiche accumulate dagli artisti in poco più di centocinquant’anni (fatta eccezione per pochi e non elevati scritti per ‘addetti ai lavori’, come il Libro dell’arte di Cennino Cennini). Battista cominciò così a scrivere per i suoi amici artisti, e non smise più. In prima istanza la pittura, il De pictura (‘sulla pittura’)(1435), in latino, poi tradotto dallo stesso autore in volgare, per l’amico Brunelleschi: un importante trattato, che espone chiaramente la rivoluzionaria teoria della prospettiva, e fonda la rappresentazione pittorica su basi matematiche, e cioè profondamente ‘oggettive’, misurabili. Poi la scultura, con il De statua (‘sulla statua’) e il De equo animante (‘sul cavallo animato’), sulla rappresentazione viva del cavallo nei monumenti equestri (si pensi al Gattamelata di Donatello, a Padova). Infine, l’architettura, il campo praticato dallo stesso Alberti, con il trattato De re aedificatoria (‘sull’arte del costruire’)(1452), che superava l’antico e talvolta oscuro trattato romano di Vitruvio, proponendo una nuova terminologia, e segnando la definitiva acquisizione dello stile classico nelle costruzioni pubbliche e private. Non è solo un libro sull’arte del costruire. Per l’Alberti, la casa e la villa, il tempio, il teatro, e così via, sono veramente i luoghi in cui si svolge la vita umana, in cui si attua l’ideale dell’humanitas. La città albertiana è così un progetto di armonia, di equilibrio, modello della città ideale vagheggiata dagli umanisti e dagli artisti del Rinascimento.

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Stocchi, vol. III, parte I, Vicenza, Neri Pozza, 1980; V. Branca, La sapienza civile. Studi sull’umanesimo a Venezia, Firenze, Olschki, 1998. Sull’umanesimo e la cultura a Firenze: H. Baron, La crisi del primo Rinascimento italiano. Umanesimo civile e libertà repubblicana in un’età di classicismo e di tirannide (1955), Firenze, Sansoni, 1970; C. Bec, Cultura e società a Firenze nell’età della rinascenza, Roma, Salerno, 1981. – C. Salutati, Epistolario, a c. di F. Novati, Roma 1891-1911; De laboribus Herculis, a c. di B.L. Ullman, Padova, Antenore, 1951; De fato et fortuna, a c. di C. Bianca, Firenze, Olschki, 1985. Cfr. B.L. Ullman, The humanism of Coluccio Salutati (1963), Padova, Antenore, 2000; D. De Rosa, Coluccio Salutati. Il cancelliere e il pensatore politico, Firenze, La Nuova Italia, 1980. - L. Bruni, Opere letterarie e politiche, a c. di P. Viti, Torino, UTET, 1996; Historiarum florentini populi libri XII e Rerum suo tempore gestarum commentarium, a c. di E. Santini e C. Di Pietro, Città di Castello, Lapi-Bologna, Zanichelli, 1914-1926; Laudatio florentine urbis, a c. di S.U. Baldassarri, Firenze, Sismel-Edizioni del Galluzzo, 2000. Cfr. P. Viti, Leonardo Bruni e Firenze. Studi sulle lettere pubbliche e private, Roma, Bulzoni, 1992. - M. Palmieri, Vita civile, a c. di G. Belloni, Firenze, Istituto nazionale di studi sul Rinascimento, 1982. Cfr. A. Mita, Matteo Palmieri tra storia, letteratura e politica, Napoli, Name, 2005. Sulle corti centro-settentrionali: Storia di Milano, Milano, Fondazione Treccani, 1953-1962; C. Mozzarelli, Mantova e i Gonzaga, Torino, UTET, 1987; La corte e lo spazio. Ferrara estense, a c. di G. Papagno e A. Quondam, Roma, Bulzoni, 1982; V.L. Gundersheimer, Ferrara estense: lo stile del potere, Modena, Panini, 2005; Le Signorie dei Malatesta, Rimini, Chigi, 1990. Un’ed. recente di F. Filelfo, Satyrae, vol. I, a c. di S. Fiaschi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2005. Su Roma: A. Pinelli, Roma del Rinascimento, Roma-Bari, Laterza, 2007. Edizioni di testi: - Poggio Bracciolini, Opera omnia, a c. di R. Fubini, Torino, Bottega d’Erasmo 19641969; Lettere, a c. di H. Harth, Firenze, Olschki, 1984-1987; Facezie, a c. di S. Pittaluga, Milano, Garzanti, 1995; La controversia di Poggio Bracciolini e Guarino Veronese su Cesare e Scipione, a c. di D. Canfora, Firenze, Olschki, 2001; De infelicitate principum, a c. di D. Canfora, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1998; De vera nobilitate, a c. di D. Canfora, ivi, 2002; Contra hypocritas, a c. di D. Canfora, ivi, 2008. - Enea Silvio Piccolomini, Historia de duobus amantibus, a c. di D. Pirovano, Alessandria, Dell’Orso, 2001; Il dialogo su un sogno, a c. di A. Scafi, Roma, Aragno, 2004; I commentarii, a c. di L. Totaro, Milano, Adelphi, 2008. Cfr. A.M. Corbo, Pio II Piccolomini un papa umanista (1458-1464), Roma, Edilazio, 2002.



l’umanesimo

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5.3. Valla. Un’edizione complessiva è in L. Valla, Opera omnia, a c. di E. Garin, Torino, Bottega d’Erasmo, 1962. Fondamentale la serie di edd. critt. promossa da G. Billanovich presso l’editore Antenore di Padova: Gesta Ferdinandi Regis Aragonum, a c. di O. Besomi (1973); Antidotum in Facium, a c. di M. Regoliosi (1981); Repastinatio dialectice et philosophie, a c. di G. Zippel (1982); Epistole, a c. di O. Besomi e M. Regoliosi (1984); De professione religiosorum, a c. di M. Cortesi (1986); Le postille all’«Institutio oratoria», a c. di L. Cesarini Martinelli e A. Perosa (1996). Nell’Edizione Nazionale sono uscite le Raudensiane note, a c. di G.M. Corrias, Firenze, Polistampa, 2007. Cfr. anche Collatio Novi Testamenti, a c. di A. Perosa, Firenze, Sansoni, 1970. Edizioni con trad. it.: Scritti filosofici e religiosi, a c. di G. Radetti, Firenze, Sansoni, 1953; L’arte della grammatica, a c. di P. Casciano, Milano, Mondadori, 1990; La falsa donazione di Costantino, a c. di G. Pepe, Firenze, Ponte alle Grazie, 1992; Falsa donazione di Costantino, Milano, Rizzoli, 1994. Studi critici: F. Gaeta, Lorenzo Valla. Filologia e storia nell’umanesimo italiano, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Storici, 1955; Lorenzo Valla e l’umanesimo italiano, a c. di O. Besomi e M. Regoliosi, Padova, Antenore, 1984; M. Regoliosi, Nel cantiere del Valla. Elaborazione e montaggio delle «Elegantiae», Roma, Bulzoni, 1993, e Pubblicare il Valla, Firenze, Polistampa, 2008; S. Camporeale, Lorenzo Valla. Umanesimo, Riforma e Controriforma. Studi e testi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002. 5.4. Alberti. Edizioni recenti di testi: - Opere volgari, a c. di C. Grayson, Bari, Laterza, 1960-1966; De vera amicitia. I testi del primo Certame Coronario, a c. di L. Bertolini, Modena, Panini, 1993; I libri della famiglia, a c. di R. Romano e A. Tenenti, Torino, Einaudi, 1994; “Grammatichetta” e altri scritti sul volgare, a c. di G. Patota, Roma, Salerno, 1996; Rime, a c. di G. Gorni, Paris, Les Belles Lettres, 2002. - Opere latine: L’architettura, a c. di G. Orlandi, Milano, Il Polifilo, 1988; De statua, introd., trad. e note a c. di M. Spinetti, Napoli, Liguori, 1999; Intercenali, a c. di I. Garghella, Napoli, ESI, 1999; Id., a c. di F. Bacchelli e L. d’Ascia, Bologna, Pendragon, 2003; Apologhi, a c. di M. Ciccuto, Torino, Aragno, 2003; Momus, a c. di F. Furlan, Milano, Mondadori, 2007; Studi critici: G. Ponte, Leon Battista Alberti umanista e scrittore, Genova, Tilgher, 1981; P. Marolda, Crisi e conflitto in Leon Battista Alberti, Roma, Bonacci, 1988; R. Cardini, Mosaici. Il nemico dell’Alberti, Roma, Bulzoni, 1990; C. Grayson, Studi su Leon Battista Alberti, Firenze, Olsckhi, 1998; L. Boschetto, Leon Battista Alberti e Firenze. Biografia, storia, letteratura, Firenze, Olsckhi, 2000; R. Rinaldi, “Melancholia Christiana”. Studi sulle fonti di Leon Battista Alberti, Firenze, Olschki 2002; A. Grafton, Leon Battista Alberti: un genio universale, Roma-Bari, Laterza, 2003; M. Paoli, Leon Battista Alberti,

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Torino, Bollati Boringhieri, 2007; Leon Battista Alberti umanista e scrittore. Filologia, esegesi, tradizione, a c. di R. Cardini e M. Regoliosi, Firenze, Polistampa, 2008. Rivista specializzata: “Albertiana”. Bibliografia on line: Leon Battista Alberti (alberti. wordpress.com)

6. L’apogeo del Rinascimento

6.1. La civiltà delle corti Intorno alla metà del Quattrocento il policentrismo dinamico dell’umanesimo si stabilizzò in un grande sistema politico, destinato a durare almeno fino alla fine del secolo, e che può essere definito civiltà delle corti: sistema peculiare della civiltà italiana del Rinascimento, che la differenzia dallo sviluppo di tutti gli altri paesi europei, proiettati invece verso processi di unificazione interna, e di formazione delle monarchie nazionali. I principali centri italiani ebbero in questo periodo, come polo di aggregazione delle attività culturali e artistiche, una ‘corte’, da intendersi non in senso tradizionale (come lo erano state le corti feudali nel Medioevo), ma come prototipo di organizzazione moderna del potere, schema piramidale che aveva al vertice il ‘principe’, e poi, a diversi livelli, la cancelleria, i consiglieri, i funzionari, in simbiosi con la vita quotidiana, privata e pubblica, della stessa ‘corte’: matrimoni e feste, committenze artistiche, relazioni. Altro polo di aggregazione diventa, al di fuori della corte ma in rapporto organico con essa, l’accademia, all’inizio libera associazione di umanisti e intellettuali che si richiama ad antichi modelli greci, luogo d’incontro e di discussione che gradualmente stabilisce un suo rituale di accesso e di organizzazione. Il sistema, dopo una fase di lotte feroci, conobbe un periodo di stabilità, quasi un quarantennio, a partire dal 1454 (l’anno della pace di Lodi), favorito poi dalla politica di equilibrio e diplomazia di Lorenzo il Magnifico. Ma fu una stabilità breve e illusoria: nel 1494 scese in Italia il re di Francia, Carlo VIII, per conquistare il regno di Napoli, e la facilità della sua effimera conquista dimostrò la debolezza intrinseca degli stati italiani. Pochi anni dopo il crollo fu inevitabile: tra 1499 e 1501, Francia e Spagna conquistarono due fra gli stati più ricchi e potenti, il ducato di Milano e il regno di Napoli, e dopo le alterne vicende delle cosiddette guerre d’Italia (culminate nella bat-

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taglia di Pavia nel 1525), la Spagna impose il suo predominio alla penisola, destinato a durare quasi due secoli. La storiografia tradizionale ha di solito indicato nel decennio anteriore al 1500 un forte punto di svolta, segnato dalla coincidenza di alcune date significative: nel 1492, la morte di Lorenzo il Magnifico, la conquista di Granada ad opera dei Re Cattolici, Ferdinando e Isabella (momento finale della storia secolare della reconquista), e la scoperta di un nuovo mondo a opera di Cristoforo Colombo; nel 1494, la discesa di Carlo VIII, e la caduta dei Medici a Firenze. Per la civiltà italiana fu svolta, ma non cesura. Inizio di una crisi profonda, e non più rimediabile, ma anche continuità del sistema, almeno per i successivi trent’anni. Dal punto di vista culturale, la seconda metà del Quattrocento vede un evento rivoluzionario, che cambia tutte le dinamiche di comunicazione del sapere: l’invenzione della stampa a caratteri mobili, operata in Germania grazie a Johann Gutenberg, con la prima pubblicazione di una Bibbia a Magonza intorno al 1455. Mentre prima un libro doveva essere scritto a mano, ed era quindi un prodotto unico, ora il libro poteva essere stampato in cento, duecento, mille copie tutte uguali. I costi di produzione e vendita scendevano, e i libri sarebbero stati presto alla portata di un pubblico più ampio. In Italia, la prima stamperia fu impiantata dai tedeschi Schweinheim e Pannartz a Subiaco, con l’edizione della grammatica latina di Donato (ca. 1465), e poi a Roma, dove, protetti dai papi, essi produssero le prime importanti edizioni dei classici latini, e dei commenti umanistici. E furono chiamati, quei primi libri che sembravano neonati in fasce in una culla, incunaboli (dal latino cuna, ‘culla’). Un altro evento significativo è la netta ripresa della letteratura in volgare, dopo la stagione del dominio quasi assoluto dell’umanesimo latino. L’allargamento del pubblico di lettori al di fuori degli ambiti specifici del mondo dell’insegnamento, e l’impulso dato dalle corti principesche alla produzione di testi più agevolmente fruibili sia all’interno che all’esterno del circuito cortigiano, spinsero molti intellettuali, anche di formazione umanistica, alla sperimentazione di nuovi generi letterari in volgare, e al rinnovamento di quelli già esistenti. Non era una semplice ‘rivincita’ del volgare contro il latino. Molti grandi scrittori di quest’epoca erano scrittori bilingui, in latino e in volgare, e portarono nella giovane tradizione volgare (già basata sul riconosciuto culto delle Tre Corone) l’altezza della cultura umanistica, con tutte le sue conquiste testuali, le riflessioni sul sistema dei generi, i nuovi e rivoluzionari orizzonti antropologici e spirituali. I risultati furono di enorme valore per la fondazione di una letteratura compiutamente ‘italiana’, che



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si riconoscesse cioè in valori e forme condivise, al di là delle specifiche declinazioni regionali. Le corti assicurarono dunque anche una importante possibilità di circolazione di esperienze letterarie, resa ancora più intensa dall’invenzione della stampa. Nel sistema della civiltà delle corti, i centri più importanti saranno quelli retti da principi ‘nuovi’, non provenienti dall’antica aristocrazia feudale, o da precedenti esperienze di governo signorile. Il caso più significativo è quello di Firenze, che passa dalla repubblica dell’umanesimo civile ad uno stato retto dalla famiglia dei Medici, pur nel rispetto formale delle istituzioni comunali e repubblicane. Dopo il governo di Cosimo, e poi di suo figlio Piero, il potere passò al giovane figlio di questi, Lorenzo (1469), e subì un ulteriore irrigidimento dopo la fallita Congiura dei Pazzi (1478). Dopo la sua morte (1492), il potere dei Medici sopravvisse solo due anni: il figlio Piero fu cacciato da una rivolta popolare che portò al potere fra Girolamo Savonarola (Ferrara 1452-Firenze 1498), grande predicatore e fautore della riforma della Chiesa, condannato al rogo per l’opposizione al papa Alessandro VI. La repubblica, non più teocratica, continuò sotto la guida di Pier Soderini, e con l’apporto di un segretario chiamato Niccolò Machiavelli, ma dovette di nuovo cedere al ritorno dei Medici, nel 1513. Lorenzo diede uno straordinario sviluppo alle arti e alla cultura, favorendo con il suo mecenatismo l’aggregazione di numerosi intellettuali e artisti, evidentemente anche per finalità di strategia politica di ampio respiro. Nelle arti, attraverso il rapporto con la bottega di Andrea del Verrocchio, emergono le figure di Sandro Botticelli e Leonardo da Vinci, e poi del giovane Michelangelo Buonarroti. Nelle lettere, resta basilare lo studio del greco, insegnato all’università dal maestro bizantino Giovanni Argiropulo. Una vivace rappresentazione contemporanea degli intellettuali e degli artisti dell’epoca è nelle Vite di Vespasiano da Bisticci (Bisticci 1421-Antella 1498), un libraio al servizio dei Medici. Più che l’università, conta adesso il circolo che si riunisce attorno a Lorenzo, e spesso nelle ville medicee presso Firenze, a Careggi, a Castello o a Poggio a Caiano, circolo chiamato allora ‘accademia’, e guidato da un sacerdote, Marsilio Ficino (Figline 1433-Firenze 1499), promotore dello studio di Platone e della tradizione neoplatonica ed ermetica, per mezzo di importanti traduzioni, e di trattati come la Theologia platonica de immortalitate animae (‘teologia platonica sull’immortalità dell’anima’) e il De amore (‘l’amore’). Il revival platonico nell’umanesimo, cominciato con Petrarca, e ripreso con l’arrivo del filosofo bizantino Giorgio Gemisto Pletone (a Firenze nel 1439-1440), non era l’unica componente della cultura laurenziana. Quella

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aristotelica si riconosceva in Giovanni Pico della Mirandola (Mirandola 1463-Firenze 1494), che comunque, grazie alla propria vastissima formazione culturale e linguistica (estesa fino alla conoscenza diretta dell’ebraico e dell’arabo), andava oltre i confini della scolastica, con l’affermazione piena della libertà intellettuale e della grandezza dell’uomo, nell’Oratio de hominis dignitate (‘discorso sulla dignità dell’uomo’)(1486). E una posizione ancora più radicale sarebbe stata quella di Michele Marullo Tarcaniota (Costantinopoli 1453-Volterra 1500), umanista e soldato greco, autore di Epigrammata e Hymni naturales, in cui giunge alla definizione di una religione della natura influenzata dalla lettura di Lucrezio. Figura di raccordo tra umanesimo latino e volgare fu Cristoforo Landino (Firenze 1424-Borgo alla Collina 1498), che, professore allo Studio, pose allo stesso livello l’insegnamento di Virgilio e di Dante e Petrarca, considerati ormai ‘classici’ moderni, ai quali furono dedicati importanti commenti a stampa. Scrittore latino delle Disputationes Camaldulenses (‘dialoghi di Camaldoli’) e delle poesie della Xandra, Landino contribuì alla diffusione del volgare anche con la traduzione di classici latini, come l’enciclopedia naturale di Plinio il Vecchio. Del resto, al volgare guardano lo stesso Lorenzo, con la propria produzione poetica, e gli scrittori della sua cerchia, da Luigi Pulci ad Angelo Poliziano. Ancora più di Firenze, la vera new entry, nella cultura dell’umanesimo, fu Napoli. Dopo il periodo di crisi legato alla decadenza della dinastia angioina, Napoli era rientrata a pieno titolo nel sistema delle corti del Rinascimento grazie ad un principe straniero, Alfonso d’Aragona, un condottiero che aveva avuto l’intelligenza di circondarsi dei migliori umanisti contemporanei. Re di Napoli dal 1442 al 1458, Alfonso continuò a servirsi del loro aiuto, anche come consiglieri nell’attività di governo. La sede del potere e del governo, il castello già chiamato (dai suoi fondatori) Maschio Angioino, fu quasi completamente ricostruito, come simbolo e manifestazione della regalità, ma anche della vittoria della civiltà umanistica, nello straordinario arco di trionfo realizzato dallo scultore dalmata Francesco Laurana, memoria del trionfo ‘all’antica’ con il quale Alfonso era entrato vittorioso a Napoli nel 1443; castello che sarà anche foyer culturale, in quanto sede della ricchissima Biblioteca Reale. L’umanesimo alfonsino fu tutto latino, dal romano Lorenzo Valla all’esule fiorentino Giannozzo Manetti (Firenze 1396-Napoli 1459), autore del De dignitate et excellentia hominis (‘dignità ed eccellenza dell’uomo’)(1451-53), importante trattato che, dopo Salutati e prima di Pico, afferma la dignità dell’uomo, e la bontà intrinseca e la bellezza della vita e delle gioie terrene,



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contro la tradizione ascetica medievale. Avversario di Valla nella questione delle correzioni al testo di Livio (ma in realtà nei rapporti di potere all’interno della corte) fu Antonio Beccadelli detto il Panormita (Palermo 1394Napoli 1471), autore del più licenzioso e divertente libro di poesia erotica dell’umanesimo, l’Hermaphroditus, ma anche segretario regio, e fondatore di un’accademia chiamata, dal suo nome, Porticus Antoniana (‘portico d’Antonio’, dal porticato antistante la sua casa nel centro antico di Napoli). L’eredità del Panormita, e l’abitudine dell’accademia, fu continuata da un giovane umanista umbro, Giovanni Pontano (Cerreto di Spoleto 1429Napoli 1503), che fu a sua volta segretario del successore di Alfonso al trono di Napoli, Ferdinando d’Aragona. Pontano fu soprattutto poeta, forse il più grande dell’umanesimo latino, capace di ricreare i generi antichi come se fossero del tutto contemporanei: l’epigramma celebra l’amore sensuale e la vita gioiosa degli stabilimenti termali dei Campi Flegrei negli Hendecasyllabi seu Baiae (‘endecasillabi o Baia’), ma anche la dolcezza dell’amore coniugale e degli affetti domestici nel De amore coniugali (‘amore coniugale’), fino alla malinconica rievocazione degli amici e familiari scomparsi nei Tumuli (‘sepolcri’), in cui sono i morti a parlare in prima persona, attraverso le loro epigrafi tombali (alcune realmente scolpite, nella bella cappella costruita da Pontano a Napoli, presso la propria casa); suprema forma di rielaborazione di un genere poetico antico, quello della poesia epigrafica, in una chiave moderna che giungerà fino alla Spoon River Anthology di Edgar Lee Masters. Esperienza politica e cultura filosofica portarono invece alla composizione di un’opera storica, De bello Neapolitano (‘la guerra di Napoli’), e di diversi trattati morali e politici, tra i quali risaltano quelli dedicati a tematiche importanti della riflessione umanistica: De prudentia (‘sulla prudenza’), De fortuna (‘sulla fortuna’), De sermone (‘sul discorso’). Nel De principe (‘sul principe’) si definisce un modello ideale di principe, basato però sulle esperienze reali del Pontano ‘segretario’, riflesse anche nelle belle lettere in volgare, scritte per conto di re Ferdinando. Sulla linea di Luciano (e dell’Alberti delle Intercoenales) Pontano si dedicò anche alla scrittura di alcuni dialoghi, che sono tra le migliori prose dell’umanesimo (Charon, Antonius, Asinus, Actius, Aegidius). Intorno al Pontano si raccolse l’accademia degli umanisti napoletani (detta Pontaniana), continuata dopo la sua morte dalla figura più rappresentativa della cultura meridionale, Iacopo Sannazaro. Era ormai un gruppo di intellettuali che si erano formati sotto il regno di Ferdinando, e ne avevano visto i progressi (la modernizzazione dello stato, le ripresa delle città e dei commerci, l’attività edilizia e urbanistica), ma anche le ombre morali, che ne segnarono il declino: la cosiddetta Congiura dei Baroni, episodio della lunga lotta tra i grandi feudatari del regno e il sovrano, che eliminò i suoi

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avversari con il tradimento, e la negazione di tutti gli ideali di humanitas predicati dai suoi umanisti (1486). Il crollo della dinastia (già colpita da Carlo VIII nel 1494, e poi definitivamente abbattuta da Francesi e Spagnoli nel 1501), ebbe un testimone d’eccezione in un medico e umanista di periferia, Antonio De Ferrariis detto il Galateo (Galàtone 1448-Lecce 1516), autore di vivaci epistole latine, e di un surreale dialogo Eremita in cui l’anima di un eremita, dopo la morte, si conquista con la forza l’ingresso in Paradiso, litigando con gli stessi santi; di un opuscolo in volgare Esposizione del Pater noster; e soprattutto di un De educatione (‘sull’educazione’)(1505), apparentemente un trattatello pedagogico per l’ultimo principe Ferdinando in esilio in Spagna, in realtà un’impietosa rappresentazione della crisi dell’umanesimo italiano, nel confronto con le altre culture del continente. Nonostante il primato dell’umanesimo latino, l’età di re Ferdinando segnò anche a Napoli la riscossa del volgare, favorito dal sovrano nella formazione di una classe di funzionari regi, incaricati dell’amministrazione dello stato. Il nobile umanista Diomede Carafa (Napoli 1406-1487) scrive in volgare una serie di realistici Memoriali sull’agire politico e la vita di corte. Parallelamente all’accademia umanistica nasce un gruppo di poeti legati in varia misura alla corte, e distinti dalla duplice appartenenza ad una piccola nobiltà provinciale o cittadina, o alla classe dei funzionari statali; piccoli ‘poeti gentiluomini’, insomma, autori di personali canzonieri di ispirazione petrarchista, mediata anche dalla lettura della Bella mano di Giusto de’ Conti: il Naufragio di Giovanni Aloisio (Aversa ca. 1450-Sant’Agata dei Goti 1519), gli Amori di Gianfrancesco Caracciolo (Napoli ca. 1437-1506), il Colibeto di Francesco Galeota (Napoli ca. 1446-1497), il Perleone di Giuliano Perleoni detto Rustico Romano. La loro poesia, segnata da un certo sperimentalismo talvolta dilettantesco, oscilla tra la cultura alta e quella popolare, da cui si riprendono talvolta, in forma parodica, le cadenze dialettali, nelle forme metriche dello strambotto, e in particolare di un tipo di frottola dialettale di endecasillabi con rima al mezzo, che viene chiamato gliòmmero, cioè ‘gomitolo’. Ne scrissero, tra gli altri, Sannazaro, e un suo amico degli anni giovanili, Pietro Iacopo De Iennaro (Napoli 1436-1508), autore di un altro canzoniere, e di una Pastorale intessuta di prose ed egloghe ad imitazione dell’Arcadio di Sannazaro. Ma su tutti questi poeti emerge il nome del catalano (ma stabilimente residente a Napoli) Benet Gareth detto il Cariteo (Barcellona 1450-Napoli 1514), che elabora, soprattutto nella raccolta Endimione (1506), una forma nuova di imitazione petrarchesca, meno sperimentale e più selettiva, basata su immagini e metafore nuove, che sembrano preludere alla poetica del secolo successivo.



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Al petrarchismo lirico corrisponde, nella prosa, un ‘boccaccismo’ narrativo, con la composizione del Novellino di Tommaso Guardati detto Masuccio Salernitano (Salerno ca. 1410-1475), raccolta di cinquanta novelle senza cornice, ma con dediche a personaggi illustri contemporanei. Nonostante il richiamo esplicito a Boccaccio, il mondo di Masuccio è molto lontano da quello del Decameron. Intanto, la satira antireligiosa e misogina è portata, soprattutto nella prima parte, a situazioni estreme. Si avverte una perdita di equilibrio, che conduce al dominio dell’irrazionalità, dell’oscenità e della violenza. Uno scenario cupo, che tornerà, agli inizi del Cinquecento, nelle Novellae latine del giurista Girolamo Morlini. Dove invece dilaga il gusto del racconto, a Napoli, è nella cronachistica e memorialistica, che, dopo la fortunata Cronaca di Partenope, vede la vivacissima scrittura autobiografica del vecchio Loise de Rosa (Pozzuoli 1385ca. 1475), dignitario della corte angioina che testimonia del passaggio dai vecchi ai nuovi padroni, in una girandola di divertenti avventure personali. E poi le grandi rappresentazioni, a metà tra il realismo dei fatti e la trasfigurazione leggendaria, dei cosiddetti Diurnali del Duca di Monteleone, epopea cavalleresca dell’ultimo re angioino di Napoli, Renato d’Angiò, detto il bon roi René; o della Cronica del Ferraiolo, conservata in un manoscritto figurato che anche nelle illustrazioni manifesta lo stupore popolare per l’avvento di Carlo VIII; fino alle più tarde cronache di Silvestro Guarino d’Aversa, e di Notar Giacomo. Anche Ferrara conosce un periodo di splendore, sotto il duca Ercole I d’Este (al potere dal 1471 al 1505), mecenate delle arti e delle lettere. L’università, promossa a centro di eccellenza con Guarino da Verona, continua sulla stessa linea di insegnamento umanistico col figlio Battista Guarino e altri importanti maestri aristotelici, e ospita un gruppo numeroso di studenti europei, che riporteranno nei loro paesi i semi dell’umanesimo italiano. La poesia umanistica latina raggiunge i livelli più alti con Tito Vespasiano Strozzi (1424-1505). La corte, però, favorisce ora la letteratura in volgare, con poeti cortigiani come Antonio Cornazzano, già al servizio degli Sforza (Piacenza ca. 1429-Ferrara ca. 1483), Niccolò da Correggio (Ferrara 14501508) e Antonio Tebaldi detto il Tebaldeo (Ferrara 1463-Roma 1537). E al duca Ercole risulta dedicata anche la raccolta delle Porretane novelle di Sabadino degli Arienti, rappresentazione del raffinato ambiente cortigiano della Bologna dei Bentivoglio, trasferito nella cornice dei bagni termali della Porretta. Tra i generi di punta, nella cultura ferrarese, sono sicuramente la bucolica, con ampia produzione di egloghe in latino e in volgare, travestimento

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pastorale di situazioni di corte e personaggi contemporanei, utilizzato soprattutto da Matteo Maria Boiardo; il genere cavalleresco (sempre con il Boiardo) da sempre lettura prediletta degli Estensi e dei loro cortigiani, come rivelano gli antichi cataloghi della biblioteca signorile, ricchissima di testi cavallereschi francesi e italiani; e infine il nuovo genere teatrale. Il teatro profano era una riscoperta tutta umanistica, e si era finora espresso in qualche commedia umanistica latina confinata ad un ristretto contesto scolastico o universitario. Merito della corte estense fu di promuovere le prime rappresentazioni di commedie di Plauto e Terenzio (a iniziare dai fortunatissimi Menaechmi, 1486), tradotte in volgare, ed eseguite nel cortile di palazzo ducale in occasione delle feste del carnevale. Alle traduzioni successero presto le opere originali: la ovidiana Fabula di Cefalo (1487) di Niccolò da Correggio, e la rielaborazione del Tebaldeo della Fabula di Orfeo di Poliziano. Il fenomeno della poesia cortigiana, al quale partecipavano il Correggio e il Tebaldeo, era comunque un fenomeno sovraregionale, che interessava in maniera circolare tutte le corti, per le quali si trovavano a passare alcuni dei più famosi poeti dell’epoca, contesi dal loro pubblico per l’abilità versificatoria, e in particolare la capacità di comporre ‘all’improvviso’, come faceva il celeberrimo Serafino Cimminelli detto Serafino Aquilano (L’Aquila 1466-Roma 1500). Poeti toscani non eccelsi come Antonio Cammelli (Pistoia 1436-Ferrara 1502), o Bernardo Bellincioni (Firenze 1452-Milano 1492, autore di una Festa del Paradiso messa in scena da Leonardo nel 1491), potevano fare la loro fortuna al Nord, semplicemente perché vi giungevano in un’epoca di grande ammirazione per la letteratura toscana, a iniziare dai grandi esempi di Dante, Petrarca e Boccaccio. A Milano, all’antica dinastia dei Visconti era succeduto un ‘uomo nuovo’, un condottiero che aveva sposato la figlia dell’ultimo Visconti, Francesco Sforza. Alla fine del Quattrocento il potere era passato ad un principe spregiudicato, Ludovico il Moro, che si era circondato di artisti come Leonardo da Vinci e Bramante da Urbino, e per il quale la cultura restava uno strumento del potere, o un gradevole passatempo. Ne furono testimoni gli umanisti latini al suo servizio, Giorgio Merula e Tristano Calco. E soprattutto gli scrittori volgari, nobili cittadini o funzionari di corte (una situazione simile a quella napoletana), come Gasparo Visconti (Milano 1461-1499), amico di Bramante, autore di un canzoniere petrarchesco e di un poema narrativo De Paulo e Daria, variazione sul tema degli amanti infelici; ma anche autore teatrale della Pasitea, insieme al cortigiano Baldassarre Taccone, compositore di una Danae (1495) che ebbe l’onore di essere allestita addirittura da Leonardo.



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Il mecenatismo a Mantova si identificò soprattutto con l’opera di Isabella d’Este, principessa estense andata sposa al marchese di Mantova, Francesco Gonzaga, ma presto protagonista di un’autonoma politica culturale, che andava dalla sponsorizzazione del grande pittore Andrea Mantegna all’ospitalità data a umanisti come Mario Equicola (Alvito 1470-Mantova 1525). L’Equicola, proveniente dal regno di Napoli come cortigiano dell’esule duca di Sora Sigismondo Cantelmo, fu uno di coloro che maggiormente furono consapevoli della dimensione ‘cortigiana’ della loro attività, in un’opera in volgare come il Libro de natura de Amore (1525), in cui si comincia a tracciare un bilancio critico della tradizione della poesia volgare italiana. Nelle Marche Urbino, piccola città provinciale, era stata proiettata nel cuore del Rinascimento da Federico da Montefeltro, che promosse la costruzione di uno straordinario palazzo ducale, ad opera anche del Laurana, che aveva lavorato a Napoli per l’arco di trionfo di Alfonso d’Aragona. Nei primi anni del Cinquecento, sotto il duca Guidubaldo, e la principessa Elisabetta Gonzaga, Urbino accolse un eccezionale circolo intellettuale, di cui avrebbe lasciato memoria Baldassar Castiglione nel suo Cortegiano, curatore tra l’altro nel 1513 della rappresentazione della Calandra di Bernardo Dovizi (Bibbiena 1470-Roma 1520), vivace commedia di travestimenti derivata più da Boccaccio che da Plauto, e ambientata nella Roma contemporanea. A Roma, la stabilizzazione della residenza dei papi dopo lo Scisma d’Occidente coincide con la ‘rinascita’ della città, tanto più significativa perché essa stessa simbolo del Rinascimento, luogo di formazione privilegiato degli artisti, che vi giungevano per studiare i resti dell’Antico: le rovine del Foro, del Colosseo, dei templi e degli archi di trionfo, e le nuove sensazionali scoperte archeologiche, dalla Domus Aurea al Laocoonte. A Roma nasce dunque, come disciplina propria dell’umanesimo, l’archeologia moderna, nelle collezioni di antichità presso le grandi famiglie nobili, e il palazzo dei papi. La restitutio antiquitatis è così un fenomeno globale: mentre Valla lavora sulla lingua, l’umanista Biondo Flavio (Forlì 1392-Roma 1463) si dedica alla celebrazione della vitalità dell’antichità classica in opere come Roma instaurata e Italia illustrata, scrivendo anche il primo manuale archeologico moderno, Roma triumphans. La ricerca antiquaria sarà un elemento caratteristico dell’umanesimo romano, continuato dalla generazione successiva di umanisti, raccolti in un’accademia guidata da Pomponio Leto (Teggiano 1428-Roma 1497). Presso la corte pontificia nasceva anche la Biblioteca Vaticana, la più grande e ricca dell’epoca. L’ideologia umanistica dominante vedeva nella Roma papale mo-

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derna l’effettiva rinascita della Roma antica, e nei papi la guida non solo spirituale della Cristianità. Le strutture ecclesiastiche diventavano un sistema amministrativo moderno, come dimostra il De cardinalatu (‘il cardinalato’) di Paolo Cortesi (Roma 1465-San Gimignano 1510), l’umanista che codifica l’imitazione classicista, in polemica con Poliziano. La corte romana non era un ambiente facile: sospettata di congiura, la stessa accademia fu dispersa da papa Paolo II e i suoi membri incarcerati (1468). Di più, dopo i grandi papi umanisti (Niccolò V, Pio II), si impose una politica di potenza militare, e di ingerenza nel sistema italiano ed europeo (oltre che di interesse privato della stessa famiglia del papa, chiamato ‘nepotismo’), culminante con papa Alessandro VI Borgia, che favorì l’ascesa del figlio Cesare, detto il Duca Valentino, nella conquista di uno stato che si sarebbe potuto estendere a tutta Italia. Il progetto dei Borgia fallì miseramente con la morte del papa (1503), ma la politica temporale continuò con il papa guerriero Giulio II Della Rovere, e anche con i papi medicei Leone X e Clemente VII. La Roma del Rinascimento era giunta allora all’apice del suo splendore, Bramante, Raffaello e Michelangelo vi avevano realizzato le loro opere più grandi, ed era in costruzione la nuova basilica di San Pietro. E proprio allora giunse la catastrofe: il terribile Sacco di Roma, perpetrato dall’esercito imperiale nel 1527. Un grande episodio simbolico, che sembrava portare la punizione divina sulla corte pontificia che già alcuni anni prima un monaco agostiniano tedesco, Martin Lutero, aveva accusato di corruzione, e di essersi allontanata dalla purezza originaria del Vangelo. Il segno di una crisi morale profonda, da cui la Chiesa doveva ormai risollevarsi. Infine, nel sistema delle corti italiane, costituisce un caso particolare Venezia, che, conservando nei secoli le proprie strutture di repubblica oligarchica, non divenne mai un ‘principato’, e non ebbe mai una ‘corte’. L’intera area veneta, come si è visto, era stata determinante nello sviluppo dell’umanesimo, e alla fine del Quattrocento il dominio di terraferma della Serenissima si estendeva dall’Isonzo fino alle porte di Milano, con Bergamo e Brescia. Ogni città aveva un suo vivace circolo umanistico, e sue istituzioni scolastiche, e Padova annoverava la celebre università, centro soprattutto di studi aristotelici. Venezia era stata la vera ‘porta dell’Oriente’, accogliendo i dotti bizantini, in particolare il cardinal Bessarione, che donò la sua straordinaria biblioteca greca (1468), base della Biblioteca Marciana. In nessun’altra area italiana l’umanesimo assolse di più alla sua funzione originaria di formazione delle classi dirigenti, che nella repubblica si saldavano strettamente agli esponenti dell’antico patriziato. Una concezione alta ma strumentale della cultura, che portava a vedere con sospetto chi, proveniente dal patriziato,



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decideva di dedicarsi esclusivamente agli studi e alle lettere, come fece Ermolao Barbaro (Venezia 1453-Roma 1493), nipote di Francesco, grande traduttore e commentatore di testi greci (soprattutto Aristotele), e maestro di filologia nelle Castigationes Plinianae (‘correzioni a Plinio’)(1492-93). Venezia divenne soprattutto la capitale dell’editoria, nell’età degli incunaboli e oltre. La rete di intensi scambi commerciali europei e mediterranei, la disponibilità di maestranze artigiane specializzate, la produzione di carta, la forte richiesta di testi dalle scuole venete e dall’università di Padova: sono solo alcuni dei motivi che possono spiegare l’assoluta preminenza di Venezia nella rivoluzione di Gutenberg. Il vero cambiamento avvenne quando, per la prima volta, editore divenne un umanista, Aldo Manuzio (Bassiano Romano 1450-Venezia 1515), che applicò la filologia umanistica all’attività editoriale. Non bastava più riprodurre il testo di un manoscritto qualsiasi. Bisognava interrogarsi sul suo valore testuale, sulla sua correttezza, e confrontarlo con altri. Aldo fu una figura decisiva per la cultura europea: stampò quasi tutti i classici greci in lingua originale, e molti classici latini, inventando un nuovo formato (cosiddetto ‘in ottavo’) per i suoi libri, non più grandi e costosi come i primi incunaboli, ma quasi ‘tascabili’, con il solo testo e senza pesanti commenti, destinati ad un pubblico ampio di lettori, e non solo di specialisti. Tra quei classici antichi, anche i classici moderni, Dante e Petrarca, stampati con la collaborazione di Pietro Bembo. E anche testi contemporanei singolari, come l’Hypnerotomachia Poliphili (‘battaglia d’amore di Polifilo in sogno’)(ed. 1499), il più bel libro illustrato del Rinascimento, racconto allegorico di una storia d’amore sospesa tra realtà e sogno (anche con una forte venatura erotica), frutto della fantasia antiquaria e umanistica di un frate del convento di San Giovanni e Paolo a Venezia, Francesco Colonna (Venezia ca. 1434-1527).

6.2. Pulci Luigi Pulci (Firenze 1432-Padova 1484) apparteneva a una famiglia nobile decaduta, e con i fratelli Luca e Bernardo conobbe tutta la difficoltà di vivere in una società chiusa come quella fiorentina, dominata dalle grandi famiglie oligarchiche. Legati alla cultura popolare non umanistica, i tre fratelli si dedicarono ai vari generi di letteratura volgare: il maggiore, Luca, banchiere fallito, ricreò con le Pístole (‘epistole’) il genere delle lettere d’amore (anche in persona di donna), inventato da Ovidio con le Eroidi, mentre Bernardo e la moglie Antonia si dedicarono alla poesia religiosa e alle sacre rappresentazioni (ma anche, Bernardo, alla traduzione in terzine delle

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Egloghe virgiliane, episodio importante per la diffusione del genere bucolico). Luigi riuscì a entrare nella cerchia di Lorenzo il Magnifico verso il 1461, e lì divenne facilmente, con la sua arguzia e vivacità d’ingegno, l’animatore della ‘brigata’ laurenziana, anche grazie al favore della madre del Magnifico, Lucrezia Tornabuoni. Giocò con Lorenzo all’invenzione di un genere di parodia campagnola, e ne celebrò la vittoria in un torneo del 1469 con un poemetto in ottave, la Giostra. Le cose cambiarono per i dissidi col Ficino, e per i suoi atteggiamenti talvolta irriverenti e irreligiosi. Alla fine, prevalsero i cortigiani, e Luigi cambiò signore, seguendo dopo il 1473 il condottiero Roberto Sanseverino, soprattutto nel Nord Italia. Capolavoro del Pulci fu un poema cavalleresco in ottave, iniziato, sembra, ad istanza della Tornabuoni, dopo il 1460. Luigi trovò il manoscritto di un rozzo cantare di materia carolingia, destinato alla recitazione (il cosiddetto Orlando Laurenziano), e lo riscrisse radicalmente, in una forma quasi parodica delle modalità di narrazione popolare. Apparentemente la storia e i personaggi erano sempre i soliti: l’imperatore Carlo Magno (che qui non brilla per troppa intelligenza politica) e l’eterno traditore Gano di Maganza, e i paladini senza macchia e senza paura Orlando e Rinaldo. Luigi dilatò invece il ruolo di un personaggio minore, un gigante di nome Morgante che, vinto da Orlando, si converte e comincia a battagliare per la parte cristiana. Morgante è il simbolo più significativo del mondo immaginario di Pulci: un mondo che raggiunge gli effetti del comico e del grottesco grazie all’esagerazione e alla deformazione. La sua figura diventa così importante che finisce col dare il nome all’intero poema: il Morgante (pubblicato in 23 cantari nel 1481, e poi in 28 cantari nel 1483, il cosiddetto Morgante Maggiore, che continua la narrazione insistendo sulla malvagia figura di Gano e sulla rotta di Roncisvalle). E sembra che il titolo sia stato imposto dal pubblico, e non scelto dall’autore. Morgante è proprio il contrario dell’ideale di equilibrio predicato dagli umanisti (con cui Pulci si troverà spesso in polemica), protagonista di azioni distinte sempre dall’eccesso: sanguinosissime battaglie, ed epiche mangiate. E completamente originale è un altro personaggio, inventato da Pulci: un semigigante di nome Margutte, furfante, ladro, libertino, goloso, che in un suo discorsetto paradossale rovescia tutti i valori dell’umanesimo. Comiche saranno anche le circostanze della morte dei due giganti: il grande e invincibile Morgante morirà punto da un granchiolino, e l’astutissimo Margutte morirà dal troppo ridere, nel vedere una scimmietta calzare i suoi stivali. Ma la vera grandezza comica del Pulci sta nel linguaggio, nella deformazione a cui sottopone la parola. Luigi aveva un gusto innato per il gioco linguistico, e in generale per il linguaggio: aveva studiato il gergo e il codice furbesco,



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e si era anche dato da fare per la compilazione di un piccolo vocabolario personale di parole rare, e latinismi, chiamato Vocabulista. Il Morgante raggiunge così un vertice espressivo molto alto, grazie ad uno stile basato sull’enumerazione e sulla parodia linguistica. Anche questa, se vogliamo, una dimostrazione della posizione antiumanistica dell’autore, più vicino alla cultura irregolare delle botteghe degli artisti del suo tempo.

6.3. Lorenzo A soli vent’anni, nel 1469, Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico (Firenze 1449-1492), figlio di Piero di Cosimo, prende le redini della famiglia, e di Firenze, dopo la morte del padre. Educato da umanisti come Ficino e Landino, Lorenzo segue anche le indicazioni della madre, Lucrezia Tornabuoni, e di Luigi Pulci, nella promozione della letteratura in volgare. In sintonia col Pulci, compone poemetti come il Simposio (che, ad onta del titolo platonizzante, mette in scena una vera brigata di ubriaconi), e la realistica Uccellagione di starne, e in particolare una parodia linguistica della parlata rusticale del Mugello nelle venti ottave della Nencia da Barberino, celebrazione della bellezza ruspante della contadinotta Nencia, evidente ripresa della novella decameroniana dell’“amorazzo contadino” del Prete di Varlungo: un testo che avrà grande fortuna di rifacimenti, e a cui rispose lo stesso Pulci, con una sua Beca da Dicomano. Ai giocosi anni giovanili seguì un forzato rappel à l’ordre, quando Lorenzo assunse funzioni di governo, e sposò la nobildonna romana Clarice Orsini (1469), lasciando il primitivo amore per Lucrezia Donati. L’influenza del Ficino riprese vigore nel poemetto dantesco e neoplatonico in terzine Altercazione (o De summo bono, dialogo tra Lorenzo e Marsilio sul tema del sommo bene)(1473), e nella rilettura allegorico-morale di alcune sue poesie nel prosimetro del Comento sopra alcuni dei suoi sonetti. Al di là dell’impianto platonizzante, l’itinerario di Lorenzo è significativo anche per i richiami espliciti a Dante e a Cavalcanti. Inizia ora una riflessione storica sulla letteratura italiana, sulla tradizione della poesia lirica, che va oltre la ricezione vulgata del petrarchismo quattrocentesco, e tende al recupero della poesia delle origini, e soprattutto alla definizione di una ‘storia’, di un filo che lega passato e presente. Episodio importante di questa strategia culturale fu l’allestimento di un manoscritto di poesia italiana delle origini, imperniato su Dante (Vita nuova e Rime), e poi Guinizzelli, Guittone, Cavalcanti, Cino, fino ai testi dello stesso Lorenzo. Il manoscritto fu donato al principe Federico d’Aragona, incontrato da Lorenzo a Pisa nel 1476, e fu

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chiamato allora Raccolta Aragonese. E non era un caso che collaboratore di Lorenzo in questa prima prova della filologia volgare (e probabile estensore della lettera di dedica) fosse il più grande filologo umanista contemporaneo, Angelo Poliziano. Tra la dotta poesia di Poliziano e l’immaginario mitologico di artisti come Botticelli e Piero di Cosimo, ora Lorenzo rappresenta il suo sogno personale di rinascita delle favole antiche, nelle egloghe Corinto e Amori di Venere e Marte, e nel raffinato poemetto eziologico Ambra, che riecheggia anche il Boccaccio del Ninfale Fiesolano. Ma è ormai finito il clima di ‘festa mobile’ della Firenze laurenziana. Nel 1478 Lorenzo sfugge miracolosamente alla congiura dei Pazzi, nella quale muore invece il fratello Giuliano. Si scatena una feroce repressione, che segna anche la fine delle ultime, esteriori libertà repubblicane. Negli ultimi anni, sempre di più Lorenzo utilizzerà la propria produzione letteraria in senso ‘impegnato’, cioè come strumento di comunicazione di massa, di legame tra il principe e il suo popolo, nell’occasione delle feste religiose e laiche, in primo luogo il carnevale. Da una lato le laude, e le sacre rappresentazioni, come la Rappresentazione di san Giovanni e Paolo (1491); dall’altro (ma è sempre la stessa medaglia) i ‘canti carnascialeschi’ (cioè ‘carnevaleschi’), cantati dalle brigate nelle sfilate del carnevale, basati sul metro della ballata, testi di particolare violenza espressiva, e soprattutto giocati sul doppio senso osceno. In occasioni simili furono composti anche alcuni ‘trionfi’ mitologici, come la Canzona di Bacco (1490), nei cui versi leggeri traspare tutta la malinconia dell’ultimo Lorenzo, che avvertiva ormai tutta la fragilità della vita umana, e del suo mondo declinante: “Quant’è bella giovinezza / che si fugge tuttavia! / Chi vuol esser lieto, sia: / di doman non c’è certezza”.

6.4. Poliziano Angelo Ambrogini detto il Poliziano dal nome della sua città (Montepulciano 1454-Firenze 1494) entrò giovanissimo al servizio dei Medici (1473), diventando in breve il precettore dei figli di Lorenzo (1475), ma abbracciando allo stesso tempo anche lo stato ecclesiastico (più che altro, inteso come fonte di benefici economici). Si distinse subito per le straordinarie competenze umanistiche, nella conoscenza del greco (con la traduzione parziale dell’Iliade), e la composizione di raffinate poesie in latino (la celebre elegia In violas), e perfino in greco. Nella cerchia laurenziana era però naturale anche l’uso del volgare, adottato da Poliziano in una serie di ballate, canzonette e ‘rispetti’ (cioè ottave),



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che alludono a forme della poesia popolare e per musica, nella ripresa dello stile più leggero di certo Cavalcanti. Ne derivano dei piccoli capolavori poetici, celebrazione della primavera della vita (la ballata Ben venga maggio), della giovinezza e dell’eros, di irripetibile e trasognata freschezza (la ballata I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino), forse incomprensibile se non si tiene conto che il loro autore ha già rielaborato, dentro di sé, l’esperienza dei lirici greci e degli elegiaci latini. E, di più, è di quegli anni il primo recupero filologico della poesia delle origini, promosso da Lorenzo nella Raccolta aragonese (1476) proprio con l’aiuto di Poliziano, che ne scrive la dedicatoria a Federico d’Aragona. Nel 1475 Giuliano de’ Medici vince un torneo, che fornisce a Poliziano una ghiotta occasione celebrativa. Già ne aveva approfittato Pulci nel 1469, con la sua Giostra in onore di Lorenzo. Ora Poliziano scrive (sempre nella forma del poemetto in ottave) le Stanze per la giostra del Magnifico Giuliano, in cui lo spunto originario (la vittoria di Giuliano) si salda alla tematica amorosa, l’amore di Giuliano per una Simonetta Cattaneo. In uno scenario allegorico il giovane cacciatore Iulo (cioè Giuliano), sprezzatore delle donne e amante della fiera vita selvaggia, viene per vendetta fatto innamorare dal dio Amore: la ninfa prescelta è ovviamente la bellissima Simonetta. Amore svolazza poi fino all’isola di Cipro, per riferire della sua gran vittoria alla madre Venere. A questo punto, Poliziano interrompe l’esile filo narrativo, e si lancia in una grande digressione descrittiva del palazzo e del giardino di Venere, con spunti che influenzeranno direttamente gli artisti laurenziani, come Botticelli nella Nascita di Venere e in Venere e Marte. E qui si interrompe il primo libro delle Stanze. Sono evidenti, sin da ora, alcuni elementi che derivavano dall’archetipo dei poemetti allegorici umanistici, i Trionfi di Petrarca, giocati naturalmente in ordine diverso rispetto al modello: all’iniziale ‘trionfo di castità’ di Iulo succede il ‘trionfo d’Amore’, mentre in seguito Iulo avrebbe dovuto conquistare Simonetta, dimostrando il suo valore e il suo coraggio in un torneo: un vero ‘trionfo di Virtù’, sia umanistica che cavalleresca, che sarebbe stato eternato dalla poesia, in un ‘trionfo della Fama’. Quel che Poliziano non aveva previsto, è che era in agguato anche il ‘trionfo della Morte’. Nel 1476 morì improvvisamente Simonetta. Il poeta riprese faticosamente il secondo libro, giungendo fino alla quarantaseiesima ottava. E a quel punto morì anche Giuliano, ucciso dai pugnali dei Pazzi (1478). Il poema incompiuto rimase comunque testimonianza di una sintesi felice tra cultura umanistica e tradizione volgare, lettura profonda dei classici e loro ricreazione nel ritmo veloce dell’ottava. La lingua è il frutto di una sperimentazione continua, di fusione tra la parlata popolare e il preziosismo latineggiante. Lo stile

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si avvale soprattutto della tecnica combinatoria di citazioni esplicite e di allusioni ad un vastissimo panorama di ‘classici’, antichi e moderni, fino a Dante, Petrarca e Boccaccio. Se nelle Stanze la concezione dell’amore è ancora legata ad una prospettiva platonica, di nobilitazione dell’anima (la stessa percorsa da Ficino, e da Lorenzo nel suo Comento), nelle opere successive Poliziano si spostò su un’idea dell’amore come furor, come improvvisa e devastante alterazione della natura umana, che non può non portare a morte e rovina. Anche nelle Stanze, in fondo, la Morte si era invitata da sola. Siamo nel 1480. Poliziano ha lasciato Firenze l’anno precedente, dopo oscuri dissapori con Lorenzo, o con la moglie Clarice Orsini. Ma forse la causa principale è il clima cupo e sanguinario che si respira a Firenze, dopo la Congiura dei Pazzi. Ospite dei Gonzaga a Mantova, Poliziano compone allora (“in due giorni, infra continui tumulti”, scrive egli stesso) uno spettacolo teatrale, la Favola di Orfeo, che mette in scena la storia di amore e morte di Orfeo ed Euridice, già raccontata nelle Georgiche di Virgilio e nelle Metamorfosi di Ovidio: Euridice, amata da Orfeo, muore per un morso di serpente, mentre fugge lo spasimante pastore Aristeo; il divino cantore scende all’Ade, e con la forza del suo canto riesce a commuovere le divinità infernali, che concedono il ritorno di Euridice alla vita, ma ad un patto: lungo il percorso di risalita Orfeo non dovrà mai voltarsi a guardare la donna. Cosa che invece puntualmente avviene, e fa scomparire di nuovo Euridice nelle tenebre. Orfeo disperato rinuncia per sempre all’amore delle donne (e anzi, singolarmente, esalta quello tra maschi), e incappa in una banda di sfrenate e ubriache Baccanti che provvedono a dilaniare il digraziato poeta. È un testo eccezionale (pur nell’imperfezione di una composizione di getto), che contamina generi, stili, metri, linguaggi diversi: l’egloga bucolica e il genere nenciale (negli iniziali dialoghi tra pastori), la poesia lirica volgare e quella umanistica latina (Orfeo), il canto carnascialesco (nella finale ballata delle Baccanti); il latino, il volgare elevato del petrarchismo lirico, il vernacolo fiorentino, la parlata rusticale dei pastori, e addirittura il dialetto padanoveneto delle Baccanti; la polimetria, corrispondente agli stili diversi (ottave, stanze liriche, terzine, ballata); l’escursione dalla sacra rappresentazione al teatro classico, e forse addirittura al dramma satiresco greco. Un’opera complessa, nella sua brevità, portatrice (come le Stanze) di messaggi diversi: innanzitutto, il mito classico di Orfeo, tradizionalmente interpretato come simbolo della superiorità della poesia, sembra qui a sua volta superato dalle pulsioni irrazionali della natura, e dell’eros, che diventano pulsioni di morte. Ma anche grande opera di teatro, la prima completamente autonoma nella civiltà moderna europea. Il testo viene rappresentato con accompagnamento



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musicale (alcuni pezzi sono improvvisati alla lira dal fiorentino Baccio Ugolini), e con un abbozzo di scenografia, che prevede il passaggio dal paesaggio primaverile e sereno del locus amoenus alle profondità infernali, dalla vita alla morte. Leonardo da Vinci, autore di un successivo allestimento, avrebbe risolto il problema con la costruzione di una macchina scenica, una finta montagna che, aprendosi, avrebbe rivelato al suo interno l’Ade e le divinità infernali, in una repentina mutazione di luci e di suoni. Al suo ritorno a Firenze, Poliziano cambiò il corso della sua vita. Più che il legame con la brigata laurenziana, lo attrassero gli studi classici e umanistici, legati ora all’insegnamento di eloquenza greca e latina all’università. Ne scaturirono importantissimi corsi su Stazio, Quintiliano, Virgilio, e Aristotele, fondati sulla rigorosa analisi filologica dei testi e dei manoscritti: analisi spesso documentata dagli stessi libri utilizzati da Poliziano, e che ci hanno conservato le sue preziose postille, o dai suoi quaderni di appunti, o ‘zibaldoni’. I corsi si aprivano con prolusioni poetiche in esametri latini intitolate (come in Stazio) Sylvae (Manto, Rusticus, Ambra, Nutricia), importanti documenti di poetica e di critica letteraria, che vanno dalle questioni di genere (la bucolica o l’epica) alla stessa storia della poesia come storia della civilizzazione umana. La testimonianza più alta del metodo di Poliziano, una raccolta di cento brevi saggi di filologia applicata, vero manifesto della nuova filologia come metodo di indagine scientifica e di mentalità critica (di lì a poco trasferibile ad ogni disciplina umana, dalla lettura dei testi sacri alle scienze naturali e alle tecnologie), apparve nel 1489: la Miscellaneorum centuria prima, cui seguì l’abbozzo di una seconda centuria, rimasta manoscritta alla morte dell’autore. Il metodo intellettuale di Poliziano era sostanzialmente basato su un’idea forte di libertà, di studio e di creazione. Ne derivava, nel dibattito umanistico sull’imitazione, la difesa dell’individualità e originalità dello stile, elaborato dallo scrittore moderno nel confronto con una pluralità di modelli antichi, in un rapporto non di sudditanza ma di parità, e se possibile di emulazione: concetti esposti in un’importante epistola al giovane curiale Paolo Cortesi, rimproverato per la rigida imitazione ciceroniana (ca. 1488). Il Cortesi difese invece, nella sua risposta, la necessità di imitare un solo modello antico, identificato come il migliore. Il classicismo, linea portante e contraddittoria dell’umanesimo, si avviava a diventare sistema generale di retorica e stile, e base imprescindibile della formazione nella cultura dell’età moderna.

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6.5. Boiardo Massimo rappresentante dell’umanesimo cortigiano alla corte di Ferrara fu Matteo Maria Boiardo (Scandiano 1441-Reggio Emilia 1494), conte di Scandiano e familiare del duca Ercole, coinvolto anche in incarichi amministrativi, come capitano di Modena (1480-1483) e poi di Reggio (dal 1487). La sua formazione umanistica, che ascendeva alla figura del grande poeta latino Tito Vespasiano Strozzi (fratello di sua madre), lo porta inizialmente alla composizione di poesie latine, e in particolare (nella moda bucolica che appassionava Ferrara) delle dieci egloghe dei Pastoralia (ca. 1464), genere ripreso vent’anni dopo in volgare, in dieci Pastorali, che ora alludevano alle vicende storiche contemporanee, e alle preoccupazioni per la guerra con Venezia (1482-1484). La dimensione cortigiana mantiene Boiardo in un territorio di confine tra latino e volgare, con una vera e propria officina di volgarizzamenti dei classici, eseguiti anche con l’aiuto di suoi segretari (Cornelio Nepote, Senofonte, Apuleio, Erodoto). Il dialogo con gli Antichi proseguì anche nella collaborazione alla rinascita teatrale promossa dal duca Ercole, riflessa in un’operetta rappresentata in occasione delle nozze di Alfonso d’Este (1491), il Timone, rielaborazione del dialogo Timone o Misantropo di Luciano, che metteva in burla il malcostume cortigiano di parassiti e adulatori. Al centro del mondo poetico del Boiardo è fin dall’inizio il tema dell’amore, declinato simultaneamente su orizzonti culturali diversi: il petrarchismo lirico e l’antica poesia erotica ed elegiaca, da Catullo a Ovidio. Il risultato fu il più coerente e compatto libro di rime del Quattrocento, gli Amorum libri III (1476), dall’eloquente titolo classicheggiante e ovidiano, vicino però a Petrarca nel racconto di una ‘storia’ d’amore per un’unica donna, storicamente e concretamente determinata (al contrario di tante evanescenti fantasmi femminili del petrarchismo): una Antonia Caprara di Reggio Emilia. Il canzoniere è organizzato regolarmente in tre libri, di sessanta poesie ciascuno (e a sua volta ogni libro presenta cinquanta sonetti, e dieci altre forme metriche, anche rare e sperimentali, dal madrigale al rondò). La ‘storia’ ha una scansione dialettica: prima l’innamoramento, poi il tradimento di lei, la disillusione, il proposito di pentimento, il ritorno dell’illusione d’amore. Un ciclo non chiuso, ma potenzialmente infinito, come nel Secretum petrarchesco, e nella Bella mano di Giusto de’ Conti: l’amore è (come in Ovidio, e nell’Orfeo di Poliziano) una forza irresistibile, una sorta di malattia inguaribile, una “smisurata ed incredibil voglia”. È questo allora il tema dominante del capolavoro del Boiardo, un poema cavalleresco di materia carolingia, contaminata però con il filone erotico-



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sentimentale del ciclo bretone: l’Inamoramento de Orlando (chiamato poi, impropriamente, Orlando Innamorato, dalla seconda ottava del poema: “Non vi par già, signor, meraviglioso / odir cantar de Orlando inamorato”, I,1,2). L’azione inizia a Parigi, nella solita corte di Carlo Magno, turbata dall’arrivo della misteriosa e bellissima principessa Angelica, pronta a concedersi a chi batterà il fratello Argalia in torneo. Tra i paladini è il finimondo: il desiderio erotico prevale su tutti i doveri morali e militari, e Angelica fugge, inseguita dai cugini rivali Ranaldo e Orlando. È l’inizio di una serie infinita di avventure, in cui ha una parte fondamentale anche l’elemento magico, ad iniziare dalle fontane incantate, le cui acque fanno innamorare o disamorare: sempre, ovviamente, della persona sbagliata, che riprende a fuggire, inseguita dal suo spasimante. Orlando è solo uno dei moltissimi personaggi: paladini come Ranaldo, Astolfo e Baiardo; saraceni nobili e magnanimi come Ferraù, o feroci come Agricane, Agramante, Mandricardo, Rodamonte; maghe e stregoni, come Malagigi, Atlante, Morgana, Alcina. La magia è elemento di metamorfosi continua, e cambio di condizione. Acquistano così valore due personaggi creati dal Boiardo, anche in funzione encomiastica della casa estense: Ruggiero (leggendario capostipite degli Estensi), che all’inizio è un pagano, tenuto prigioniero dal mago Atlante; e la sua amata Bradamante, sorella di Ranaldo, vergine guerriera, travestita da maschio paladino, e quindi oggetto di non richieste attenzioni erotiche della bella Fiordispina. Scritto per la corte estense, affamata di letteratura cavalleresca, l’Inamoramento ne proietta il tradizionale vagheggiamento del mondo ‘cortese’ dei cavalieri antichi in una società ormai molto diversa. Le avventure di Orlando, più che militari, acquistano la tensione dell’eros, per il raggiungimento di un oggetto (Angelica) assolutamente irraggiungibile. La ricerca è quindi infinita, come anche la struttura narrativa, che Boiardo complica straordinariamente, privilegiando il dominio assoluto dell’intreccio sulla fabula: le vicende dei personaggi si svolgono tutte contemporaneamente, e lo scrittore passa di continuo dall’una all’altra, lasciando in sospeso i fili narrativi precedenti, e riprendendoli in seguito. L’impressione, per il lettore (o l’ascoltatore, se pensiamo alla fruizione orale originaria), è quello di un ritmo vertiginoso, di un vortice narrativo labirintico in cui è meglio, in fondo, abbandonarsi all’incanto della favola, più che conservare una memoria cartesiana della storia. Come rivela già il primo verso, “Signori e cavallier che ve adunati”, il primo destinatario del poema è la corte ferrarese. L’immediata ricezione cortigiana porta Boiardo ad adottare le forme tipiche della recitazione orale, nella misura dei singoli cantari, e nelle modalità linguistiche (il volgare padano e ferrarese) e stilistiche (moduli di ripetizione ed enumerazione), nobilitate comunque al livello della raffinata corte estense. La composizione

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dell’opera lo accompagnò per molti anni, probabilmente dopo la stagione degli Amorum libri. Una prima redazione in due libri fu pubblicata a Reggio nel 1483. Il poema rimase poi interrotto alla morte dell’autore, al canto IX del terzo libro, su un’ultima ottava che registrava, con amarezza, la discesa di Carlo VIII in Italia, vero momento di crisi della civiltà umanistica italiana. Destino paradossale, quello dell’Inamoramento: essere conosciuto nei secoli successivi solo a prezzo di un totale travestimento. Il titolo vulgato divenne Orlando Innamorato, anche a causa del contemporaneo influsso del capolavoro dell’Ariosto, che si proponeva come la sua continuazione, l’Orlando Furioso. La metamorfosi più forte fu quella linguistica. La vivace patina ferrarese sarebbe apparsa arcaica e illeggibile nel corso del Cinquecento, e un poeta toscano, Francesco Berni, tradusse in lingua fiorentina il poema, pubblicato a Venezia nel 1541, e da allora letto fino all’Ottocento solo nella traduzione bernesca.

6.6. Sannazaro Appartenente ad una famiglia di piccola nobiltà di origine lombarda, per Iacopo Sannazaro (Napoli 1458-1530) fu naturale trovare la propria collocazione, come intellettuale, presso la corte aragonese. Ad una raffinata formazione umanistica (testimoniata da un giovanile ‘zibaldone’) accompagnò la pratica della poesia in volgare, in sodalizio con poeti ‘jentelomini’ come il Caracciolo e il De Iennaro: e quest’ultimo doveva iniziarlo alla scrittura di egloghe, secondo una moda che ormai da anni era diffusa in ambito cortigiano, e che, nel 1482, ebbe nuovo impulso con la pubblicazione a Firenze, presso l’editore Miscomini, di un’importante antologia di poeti bucolici contemporanei (tra i quali spicca il senese Francesco Arzochi) più le bucoliche virgiliane tradotte da Bernardo Pulci. Le prime egloghe di Sannazaro, influenzate dall’Arzochi e da Giusto de’ Conti, mettono in campo situazioni bucoliche tradizionali, che da un punto di vista formale seguono uno sperimentalismo simile a quello dei suoi modelli, e anche dell’Orfeo di Poliziano, contaminando diversi metri (la frottola di endecasillabi con rima al mezzo, le terzine a rima sdrucciola, le stanze liriche) e linguaggi (dalla parodia rusticale e comica all’effusione lirica). Il vero e rivoluzionario cambiamento avvenne quando Sannazaro decise di raccogliere le sue egloghe sciolte in un ‘libro’, che prese (sull’esempio della Vita nuova di Dante e dell’Ameto di Boccaccio) la forma del prosimetro: una regolare scansione di prose e di egloghe, dove la prosa fa da tessuto narrativo e da cornice delle vicende dei pastori che, di volta in volta, cantano i testi



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poetici. In prima redazione (subito diffusa in ampia tradizione manoscritta), l’opera è strutturata in un prologo, dieci prose e dieci egloghe, col titolo Arcadio (o, più precisamente, Libro pastorale nominato Arcadio)(1486). Nasce così il romanzo pastorale, su un’esile trama ambientata nella mitica regione di Arcadia, nel Peloponneso, dove un personaggio che parla in prima persona, Sincero (controfigura dello stesso autore, che aveva assunto il nome umanistico di Actius Sincerus), partecipa alla vita e alle occupazioni quotidiane dei pastori. La sua individualità soggettiva emerge dopo la VI prosa, con un commosso ricordo di Napoli, “famosa e nobilissima città, e di arme e di lettere felice forse quanto alcuna altra che al mondo ne sia”. Sincero ne sarebbe fuggito a causa di un suo amore disperato per una fanciulla (che i commentatori antichi identificavano in una Carmosina Bonifacio, realmente esistita al tempo di Iacopo); la vicenda si salda ad una serie di segnali, che rivelano la stessa cifra autobiografica anche in altri pastori: Selvaggio, ed Ergasto, che nella X prosa guida le onoranze funebri al sepolcro di Massilia (evocazione della stessa madre di Sannazaro, di nome Massella). È un mondo incantato, in cui il tempo del mito sembra scorrere lentissimo, malinconico, al di fuori della storia, in gare poetiche, rituali e cerimonie. Un teatro in cui l’onnipresente paesaggio naturale si rivela una costruzione artificiosa, letteraria, come i giardini del Rinascimento, con i monumenti ‘all’antica’ e le finte rovine sparse tra la vegetazione: obelischi, piccole piramidi, tempietti, grottini. Su quelle scenografie di cipressi e salici, di fonti e prati, si muovono gli attori-pastori, travestimenti più o meno riconoscibili della società intellettuale contemporanea, e del mondo della corte: Cariteo, Caracciolo, lo stesso Sannazaro. Ma si tratta anche di uno straordinario patchwork culturale, leggibile a livelli diversi, mosaico di citazioni, allusioni, tra la tradizione classica e umanistica e quella volgare, oltre i confini dei generi letterari, e dello stesso genere bucolico. Le egloghe arcaiche (I, II, VI, IX), polimetriche e sperimentali, sono già fortemente corrette, con l’eliminazione di troppo marcati elementi linguistici napoletani, e la diffusa toscanizzazione; e vi si aggiungono nuove egloghe che segnano l’ingresso del petrarchismo lirico nel mondo bucolico, con i metri della sestina (IV Chi vuole udire i miei sospiri in rime, VII Come notturno ucel nemico al sole) e della canzone petrarchesca (III Sovra una verde riva; V Alma beata e bella ). Le prose, di grande musicalità e scorrevolezza, influenzate da Boccaccio (ma più dalle opere giovanili che dal Decameron) e anche da Dante, si arricchiscono di una tensione lirica nuova, dovuta alla particolare forma del prosimetro, e avvertibile soprattutto nei territori di ‘confine’, nelle ‘soglie’ tra prosa e poesia, prima e dopo ogni egloga. Naturalmente, su tutto, l’imitazione dei classici, latini (Virgilio e gli elegiaci, ma

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anche i testi chiave dell’erudizione umanistica, Plinio il Vecchio e Varrone), e anche greci, con l’utilizzazione degli idilli di Teocrito, che si rivela nella filigrana dell’ultima prosa, descrizione di un orto estivo in cui si distendono i pastori (derivato dal VII idillio teocriteo, le Talisie). Il numero 10 è lo stesso della bucolica virgiliana, e la struttura si apre e si chiude circolarmente con descrizioni di paesaggio e ambiente naturale. Anche se sospeso nel mito, non è un mondo felice. Forte è la presenza della morte (come nei bucolici antichi, Teocrito e Virgilio), che giunge a romperne l’equilibrio (nella V e nella X prosa, con i compianti funebri per Androgeo e per Massilia). E costante è la sensazione che, dietro la scenografia teatrale di Arcadia, si agiti una realtà ben più dura, spietata, sanguinaria: quella della lotta politica della Napoli aragonese, tra la monarchia e la grande feudalità, conclusa tragicamente con la cosiddetta Congiura dei Baroni e l’uccisione dei suoi principali aderenti, compreso il segretario regio Antonello Petrucci, valente umanista allievo del Valla, ma ora bersaglio polemico di poeti come De Iennaro e Sannazaro. E il disagio di Iacopo affiora frequentemente, dalle egloghe più antiche fino alla decima egloga, in cui mette in bocca all’amico poeta Caracciolo un oscuro canto profetico sull’iniquità dei tempi. La posizione di Sannazaro era comunque allineata alla corte aragonese. Fin dai primi anni Ottanta il giovane poeta e umanista era entrato al servizio di Alfonso d’Aragona duca di Calabria, figlio del re ed erede al trono. L’aveva seguito in campagne militari, a Otranto (1481, per liberare la città dai Turchi), e a Ferrara per la guerra contro Venezia (incontrando forse il Boiardo, impegnato nella composizione delle Pastorali ) (1483-84). E soprattutto, in quel decennio, si era avvicinato al nuovo segretario regio, il Pontano, che ne celebrò l’amicizia nel dialogo Actius. Su questo nuovo orizzonte, prevalentemente umanistico, Sannazaro riprende in mano il suo romanzo, aggiungendo due prose, due egloghe e un congedo, e un nuovo titolo: Arcadia (1494, ed. 1504). L’atmosfera sospesa ma unitaria dell’Arcadio viene infranta, e nell’ultima prosa, dopo sogni e presagi di morte, Sincero lascia l’Arcadia e torna a Napoli, in un viaggio sotterraneo dal mito alla storia, che si conclude proprio nel centro cittadino, accanto alla cappella Pontano, con due umanisti travestiti da pastori, Barcinio e Summonzio (Cariteo e Pietro Summonte), che nell’ultima egloga riportano il lamento funebre di Meliseo (Pontano) per la propria amata (la moglie Adriana, morta nel 1490). Con l’edizione del 1504 per l’Arcadia iniziava una straordinaria fortuna europea, che l’avrebbe resa una delle opere italiane più lette ed imitate nel corso del Cinquecento. Nello stesso periodo di composizione dell’Arcadia Sannazaro aveva portato avanti una raccolta di Rime, in cui l’elaborazione del codice formale del



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petrarchismo raggiunge un livello superiore a quello dei contemporanei. E si era dedicato anche al teatro, nell’allestimento di spettacoli chiamati Farse e rappresentati nella corte aragonese tra 1488 e 1492, testi giocosi vicini ad un curioso esperimento linguistico di parodia del dialetto napoletano (probabilmente anch’esso recitato a corte), che, per la struttura metrica della frottola con rima al mezzo, prese il nome napoletano di Gliómmero, cioè ‘gomitolo’. Ma sono esperienze cortigiane che ormai Iacopo sente superate. Nel congedo dell’Arcadia pronuncia il suo addio definitivo alla poesia bucolica, e possiamo intenderlo in generale come un addio alla poesia volgare, e cortigiana. Al suo posto, si afferma un’attenzione crescente e sempre più esclusiva alla poesia umanistica latina, nei libri delle Elegiae e degli Epigrammata, che presentavano testi come la malinconica elegia De ruinis Cumarum; e di nuovo alla poesia bucolica, ma in latino, e con un singolare trasferimento di scenario, dalle selve d’Arcadia al paesaggio marino del Golfo di Napoli, le Eclogae Piscatoriae. Nel frattempo, il mondo di Sannazaro era completamente cambiato. Napoli aveva perso la sua indipendenza, e l’ultimo re aragonese, Federico, era andato in esilio in Francia (1501). Iacopo fu tra i pochi che lo seguirono, e il viaggio francese fu un’occasione eccezionale per entrare in contatto con gli ambienti culturali e spirituali europei; di più, l’umanista ebbe la fortuna di scoprire testi classici (da Ausonio a Marziale, e alcuni del tutto sconosciuti, come Rutilio Namaziano e i poeti cinegetici), che lo fecero tornare all’esercizio della filologia. Tornato a Napoli, Sannazaro si ritirò nella villa di Mergellina, avuta in dono da re Federico, e lì iniziò a costruire una chiesa, Santa Maria del Parto, che avrebbe dovuto ospitare il suo mausoleo. C’era un ultimo grande progetto da portare avanti: l’idea di un poema religioso in latino sulla nascita di Cristo, il De partu Virginis (‘il parto della Vergine’)(1526), che doveva rappresentare l’incontro delle aspirazioni ideali dell’humanitas degli antichi con il messaggio del Cristianesimo. Messaggio declinato, non a caso, sul momento dell’Incarnazione e della Passione, cioè della manifestazione più completa dell’umanità di Cristo.

6.7. Bembo Pietro Bembo (Venezia 1470-Roma 1547) era figlio di uno degli esponenti più in vista del patriziato veneziano, Bernardo Bembo, ambasciatore e umanista, collezionista di preziosi manoscritti antichi, come un codice di Terenzio sul quale il giovane Pietro esercitò la propria filologia insieme a un maestro d’eccezione, allora in visita a Venezia: Angelo Poliziano (1491).

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Poco dopo, al fine di perfezionare la propria conoscenza del greco, partì per Messina, per ascoltare le lezioni del maestro bizantino Costantino Lascaris (1492-1494): un periodo di studi entusiastici, che portò Pietro addirittura alla composizione di testi in greco, e che gli diede occasione per una prima opera letteraria, la rievocazione di una gita sull’Etna, il De Aetna (1496), dialogo latino tra Pietro e suo padre, in cui la trattazione della materia naturalistica è ingentilita dallo strumento (umanistico e pontaniano) del dialogo. Dopo aver seguito studi di filosofia aristotelica a Padova e Ferrara (14961499), Bembo matura probabilmente nell’ambiente ferrarese, laboratorio e luogo d’incontro di cultura latina e volgare, l’idea di scrivere un’opera in volgare, che segna anche la sua conversione al neoplatonismo, gli Asolani (1505), dialogo-prosimetro in tre libri ambientato nell’idealizzata cornice della piccola corte di Caterina Cornaro ad Asolo. Tema dominante dei dialoghi è quello tipico della filosofia ficiniana: l’amore. Due degli interlocutori, i giovani Perottino e Gismondo, ne danno un’interpretazione diametralmente opposta: per l’uno l’amore è fonte di eterno dolore, per l’altro è motivo di piacere. La sintesi conclusiva viene fatta dal terzo giovane, Lavinello, grazie all’incontro con un eremita, che rivela la vera essenza di amore: desiderio sì della bellezza, ma di quella vera, che è solo (secondo Platone, e i contemplativi) la bellezza spirituale. È una conclusione più ideale che reale: nella vita del Bembo, l’amore è qualcosa di molto concreto, testimoniato da lettere d’amore appassionate, come quelle alla nobildonna veneziana Maria Savorgnan (1500-1501), e addirittura alla celebre e bellissima Lucrezia Borgia, duchessa di Ferrara (1502-1503). Prima opera volgare del Bembo, la debolezza degli Asolani è però proprio nell’eccessiva ambizione stilistica, che punta all’imitazione della prosa di Boccaccio, e all’emulazione del migliore dei contemporanei, Sannazaro, con risultati non sempre all’altezza degli obiettivi. La vera dimensione del Bembo era piuttosto quella di uno straordinario operatore culturale, mediatore di esperienze diverse, e fino ad allora separate. Le sue competenze di filologia classica e umanistica lo avvicinarono ad Aldo Manuzio, di cui divenne uno dei principali collaboratori. Aldo gli stampò l’Aetna e gli Asolani, ma anche la grammatica greca di Lascaris (portata da Messina proprio da Pietro), e soprattutto la Commedia di Dante (1502) e il Canzoniere di Petrarca (1501), tratti da manoscritti bembiani: addirittura, nel caso di Petrarca, gli stessi codici originali (Vat. lat. 3195 e 3196). Era l’atto di nascita della filologia italiana, in edizioni che mettevano i classici moderni della letteratura volgare sullo stesso piano dei classici latini e greci. E sempre in ambito filologico Bembo cominciò ora la stesura di un dialogo latino, il De Virgilii Culice et Terentii fabulis (‘sulla Zanzara di Virgilio



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e sulle commedie di Terenzio’)(pubblicato solo nel 1530), in cui conduce un’attenta analisi testuale di testi di Virgilio e Terenzio, sulla scorta di antichissimi manoscritti della sua biblioteca. Il metodo è apparentemente quello di Poliziano: ma in realtà segna il definitivo distacco dal maestro, in nome di una filologia ‘orientata’ all’individuazione di valori stilistici, alla ricostruzione del ‘bello’ più che del ‘vero’. Nel frattempo si matura anche il distacco da Venezia: dopo infruttuosi tentativi di entrare nella carriera politica, Bembo trascorre gli anni successivi nella splendida corte di Urbino, celebrata nel dialogo ciceroniano (poi tradotto anche in volgare) De Guido Ubaldo Feretrio deque Elisabetha Gonzagia Urbini ducibus (‘su Guidubaldo da Montefeltro ed Elisabetta Gonzaga duchi di Urbino’, 1509-1510); e sempre a Urbino si dedica alla composizione di poesia volgare, le cortigiane Stanze, e soprattutto un consistente gruppo di Rime (pubblicate poi nel 1530, e rapidamente assurte a modello di petrarchismo). Intraprende la carriera ecclesiastica, destinata a segnare tutta la sua vita (diventerà cardinale nel 1539), e che non gli impedirà tuttavia di convivere con la Morosina (Ambrogina Faustina Della Torre), madre dei suoi figli. E approda nella Roma di Giulio II e poi Leone X (1512), diventando segretario pontificio. Nella capitale del classicismo umanistico conferma le sue idee sul ciceronianismo in uno scambio di epistole sull’imitazione con il filosofo Gianfrancesco Pico, fautore della libertà espressiva e dello stile eclettico (1512-1513). Per Bembo, l’imitazione è un processo di assimilazione organica da un solo autore, individuato come il migliore nel suo genere (Cicerone per la prosa e Virgilio per la poesia): un modello empirico, non ideale, cui ci si avvicina per lunga pratica di studio. Conseguenza diretta e profonda di questa idea, sugli sviluppi della letteratura italiana, fu il suo trasferimento agli autori volgari, in un’opera elaborata soprattutto nella Roma ciceroniana, ma completata e pubblicata in Veneto (dove l’autore risiedette più stabilmente dopo il 1521), le Prose della volgar lingua (ed. 1525), dialogo in tre libri, ambientato a Venezia nel 1502, tra il fratello Carlo Bembo e altri intellettuali e principi, come l’umanista ferrarese Ercole Strozzi e Giuliano de’ Medici. Se è possibile assimilare i classici moderni ai classici antichi, allora valgono le stesse regole di imitazione, in una formula che propone Petrarca come modello per la poesia, e Boccaccio per la prosa (Dante comincia ad essere escluso dal canone, per critiche di oscurità ed arcaicità della lingua). Le Prose avranno nel Cinquecento un fortissimo valore normativo (soprattutto per il lessico, la grammatica, l’ortografia, oggetto d’analisi minuziosa nel terzo libro), per esempio per gli sviluppi futuri del petrarchismo, e per la costituzione di una lingua della poesia, modellata soprattutto sul Petrarca lirico, che avrebbe influenzato i secoli successivi,

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fino quasi alla poesia contemporanea. Opera di un umanista veneziano, non toscano e non fiorentino, esse servirono alla fondazione di una ‘volgar lingua’ letteraria che non era più ‘fiorentina’ o ‘toscana’ (anche se modellata sui grandi autori fiorentini), ma autenticamente ‘italiana’, patrimonio comune degli scrittori di aree culturali e linguistiche diverse, dalla Sicilia al Veneto. Oltre le varietà regionali, nasceva ora la ‘letteratura italiana’.

6.8. Castiglione Se Bembo fonda la lingua letteraria delle classi colte italiane dal Cinquecento in poi, un altro gentiluomo fonda i modelli comportamentali delle classi dirigenti, italiane ed europee, dell’età moderna, proiettando l’esperienza cortigiana oltre i confini delle stesse corti del Rinascimento. In quelle corti svolse tutta la sua esistenza il nobile mantovano Baldassar Castiglione (Casatico, Mantova 1478-Toledo 1529), dopo un periodo di formazione umanistica tra Milano e Mantova, al servizio dei Gonzaga fino al 1504, poi di Guidubaldo da Montefeltro e di Francesco Maria della Rovere a Urbino fino al 1516, e di nuovo a Mantova dove sposò Ippolita Torelli. Dopo la morte della donna (1520) divenne chierico a Roma, nella corte di Leone X, frequentata anche negli anni precedenti, in una lunga relazione di amicizia con il sommo artista Raffaello (per conto del quale scrisse anche una bella lettera a Leone X sulle antichità di Roma). Ambasciatore in Spagna per il nuovo papa mediceo Clemente VII (1525), assistette da quella specola internazionale al crollo della civiltà umanistica italiana, con il terribile Sacco di Roma (1527), e morì a Toledo (1529), compianto dallo stesso imperatore Carlo V, che si dolse della perdita del “mejor caballero del mundo”. Autore di raffinate poesie latine e volgari (talvolta anche, come nel Pontano, espressione di un mondo interiore di affetti e sentimenti), Castiglione fu coinvolto in una delle grandi novità della vita culturale contemporanea, l’attività teatrale, tipica appunto delle corti. Di ambito bucolico è l’egloga in ottave Tirsi, che lo stesso Baldassarre attore-regista rappresentò e recitò a Urbino nel 1506; e sempre a Urbino nel 1513 curò l’allestimento della Calandra di Bernardo Dovizi da Bibbiena, manifesto della nuova commedia italiana. Ma la grande opera fu quella in cui la sua lunga vita da ‘cortigiano’ trovò compiuta modalità di comunicazione, Il libro del Cortegiano (elaborato in tre redazioni successive dal 1513 al 1524, e stampato a Venezia nel 1528). Si tratta, ancora una volta, di un dialogo, in quattro libri, ambientato a Urbino nel 1507. Nella cerchia eletta di Elisabetta Gonzaga, e nelle stanze



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del meraviglioso palazzo ducale eretto da Federigo da Montefeltro, si ritrova un gruppo di illustri personaggi: Giuliano de’ Medici, Cesare Gonzaga, Ludovico da Canossa, Ottaviano e Federico Fregoso, il Bibbiena, lo stesso Bembo. Oggetto delle conversazioni, la definizione del modello ideale del “perfetto cortegiano”, dell’uomo completo, dotato di tutte le qualità necessarie per vivere, nel migliore dei modi, in quel microcosmo sociale e politico che è la corte. Nel primo libro tocca soprattutto a Ludovico delinearne gli aspetti fisici e morali, per cui il ‘cortegiano’ si rivela erede dell’ideologia cavalleresca medievale: il gentiluomo, come l’antico cavaliere, deve essere ancora valente uomo d’armi, coraggioso e leale, fisicamente prestante. Nel secondo libro, per bocca di Federico, è la civiltà umanistica (e l’eredità pedagogica dei suoi grandi maestri) a individuarne il carattere fondativo della conversazione e dei comportamenti civili, mentre il Bibbiena riprende il De sermone del Pontano con la tematica della ‘facezia’: ed è qui che vengono registrati, con straordinaria finezza di analisi, i nuovi dominanti elementi della ‘grazia’ e della ‘sprezzatura’, atteggiamenti che iniziano a privilegiare l’aspetto esteriore della ‘cerimonia’ (sul modello della desenvoltura importata in Italia dagli spagnoli). Un’importante discussione è quella del terzo libro, guidata da Giuliano, sul tema della donna, che riconosce ormai la decisiva funzione, sociale e intellettuale, assunta dalle donne nella vita contemporanea delle corti. Infine, nel quarto libro, vengono affrontate le questioni del rapporto intellettuale-potere, esemplificato nel rapporto ‘cortegiano-principe’ (Ottaviano), e dell’amore platonico (Bembo). Il Cortegiano dà anche un apporto fondamentale al dibattito linguistico dell’epoca, sostanzialmente diverso da quello delle Prose del Bembo. L’intellettuale di corte parla una lingua moderna e mutevole, che non è più il dialetto regionale, ma che non si vuole nemmeno limitare ad una troppo stretta imitazione del fiorentino letterario. Essa resta aperta agli apporti degli altri linguaggi: quello che conta è la varietà diastratica, cioè il contesto socialmente e intellettualmente elevato della corte. Una corte che, comunque, è percepita nella forma di un rapporto equilibrato, armonioso, con la società civile che da essa è guidata, come sembra dimostrare il ricordo di Urbino, della “città in forma di palazzo”. Ma si tratta purtroppo del vagheggiamento di un mondo ormai scomparso. Quando Castiglione scrive, la maggior parte dei personaggi del dialogo sono morti, e lo stessa dinastia urbinate sembra travolta da un colpo di mano mediceo, segno di una politica cinica e per nulla ispirata a valori elevati. Con sublime distacco, fingendo che la cosa non lo riguardi più, con ‘sprezzatura’, appunto, Baldassarre vede il suo mondo declinare, e sparire, e tenta di salvarne almeno un ritratto ideale, da consegnare al resto d’Europa.

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6.9. Leonardo Figlio illegittimo di un notaio fiorentino, Leonardo da Vinci (Vinci 1452Amboise, Francia 1519) fu avviato, ancora ragazzo, alla bottega di Andrea del Verrocchio, a Firenze. Era, questa, una formazione alternativa a quella che poteva avvenire nella scuola umanistica, e poi nell’accademia o nella corte. Le botteghe artistiche del Quattrocento erano realmente diventate dei laboratori intellettuali, aperti ad ogni tipo di esperienza. E, nella Firenze laurenziana, quella del Verrocchio era sicuramente una delle più avanzate. Il giovane Leonardo ha modo di imparare non solo l’arte della pittura (realizzando le sue prime opere: l’Annunciazione, il ritratto di Ginevra de’ Benci eseguito per Bernardo Bembo, l’Adorazione dei Magi), ma anche le altre arti, le tecnologie e le scienze applicate. Di più, la bottega ha rapporti stretti con Lorenzo, e quindi con i suoi umanisti, dal Ficino a Poliziano. La concezione che si forma dell’uomo e della natura non deriva però solo dal platonismo, ma è una sintesi originale di molti spunti diversi, magari avvicinati in modo tumultuoso e provvisorio (Leonardo non aveva avuto un’educazione regolare, e non sapeva il latino, per cui poteva essere definito “omo sanza lettere”): dalla filosofia naturale degli antichi (Seneca, Plinio il Vecchio) all’ermetismo (tràdito da allievi del Ficino, come Tommaso Benci), dalla scienza meccanica medievale, prevalentemente aristotelica (Alberto Magno, Alberto di Sassonia, Giordano Nemorario), all’ottica araba (Alhazen). Il tutto sovrapposto ad una lettura personale delle Metamorfosi di Ovidio (in traduzione italiana), da cui si ricavava il senso del rivolgimento universale, di una legge di natura basata sul perpetuo movimento, sulla metamorfosi, e sul rapporto analogico tra microcosmo (l’uomo) e macrocosmo (il mondo). Ne derivò una delle sue pagine più antiche, e intense, una descrizione di un mostro marino e di una caverna (Codice Arundel, ca. 1478), in cui al simbolo della smisurata forza della natura succede l’immagine dell’ingresso tenebroso di una caverna (rovesciamento del mito platonico), custode dei segreti della natura, che incute “paura e desiderio”. Dopo anni difficili, in cui non riesce a ‘sfondare’ nel mercato artistico fiorentino e subisce anche un processo per sodomia, nel 1482 Leonardo lascia Firenze per Milano, dove cerca di entrare al servizio di Ludovico il Moro, con una singolare lettera di presentazione in cui elenca, come sue competenze, solo quelle di ingegnere militare, e solo alla fine, quasi di sfuggita, quelle di artista. Collabora con il pittore milanese Ambrogio De Predis alla Vergine delle Rocce, e inizia a lavorare per il Duca al grande progetto del monumento equestre di Francesco Sforza (che però non sarà mai completato), e al Cenacolo di Santa Maria delle Grazie. Nel 1499 Leonardo



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lasciò Milano (conquistata dai Francesi), e incominciò una vita errabonda, che lo portò al servizio di Cesare Borgia, e poi a Firenze, di nuovo a Milano, a Roma, e infine ad Amboise, dove morì al servizio del re di Francia Francesco I; gli anni degli ultimi capolavori, dalla Sant’Anna alla Gioconda e al San Giovanni. Torniamo però al primo periodo milanese, determinante per un altro evento: la decisione di Leonardo di diventare uno scrittore. Non era, questa, una scelta usuale, anche se nel Rinascimento diversi artisti avevano preso questa strada: Lorenzo Ghiberti, Filarete, Piero della Francesca, Francesco di Giorgio Martini, e soprattutto l’Alberti. La composizione di trattati sulla pittura, sulla prospettiva, sull’architettura assicurava la comunicazione di un sapere prevalentemente pratico al di fuori del mondo delle botteghe, verso la cultura umanistica o di corte. Leonardo, “omo sanza lettere”, comincia dall’apprendistato più umile: prendendo appunti e derivando disegni dai libri degli altri (Codice B, ca. 1486), ricopiando lunghe liste di vocaboli ‘difficili’, da autori come Pulci, Masuccio, Valturio (Codice Trivulziano, ca. 1488), e cercando di imparare il latino, lui autodidatta quarantenne, con l’aiuto di una grammatica per bambini. Si avvia così una pratica della scrittura, che accompagnerà tutta la sua vita, diventando probabilmente attività prevalente, anche nei confronti di quella artistica. Una scrittura soprattutto ‘progettuale’, perché Leonardo (a differenza dei suoi contemporanei, anche artisti) non completò mai alcun libro, alcun trattato. I testi sono tutti consegnati alle pagine dei suoi manoscritti, quaderni resi ancora più privati dal carattere particolare della scrittura inversa di Leonardo (che era mancino), leggibile solo allo specchio, e chiamata perciò ‘speculare’; non ordinati in nessuna gerarchia, ma potenzialmente collegabili gli uni agli altri, in una rete di relazioni che sembra prefigurare un moderno ipertesto, con i suoi links e i suoi frames. Leonardo inventa dunque, per suo uso personale, una forma testuale estremamente moderna, finalizzata ad ‘inseguire’ la realtà nel suo divenire, e ad accompagnare il processo della ricerca scientifica, che, di per sé, è potenzialmente infinito, e sempre ‘aperto’. Questa forma di ‘scrittura aperta’, è bene ricordarlo, aveva comunque dei precedenti: i ‘libri di ricordi’ dei mercanti, gli ‘zibaldoni’ degli umanisti, e naturalmente i quaderni di appunti e disegni degli artisti. Ogni manoscritto è, per se stesso, un documento individuale di un momento del cammino intellettuale di Leonardo, e, in alcuni casi, presenta una maggiore convergenza verso tematiche unitarie, verso poli di aggregazione che possono essere assimilati alla forma rinascimentale del ‘trattato’. È possibile riconoscere così un insieme di materiali per un ‘libro di pittura’ (soprattutto nel Codice A, 1492), che sarebbe stato messo assieme, dopo la

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morte del maestro, dal suo allievo Francesco Melzi (e pubblicato in forma ridotta, col titolo Trattato della pittura, solo nel 1651, a Parigi). Vi emergono, per intensità espressiva e forza polemica, alcuni scritti (forse destinati all’introduzione del ‘libro’, e chiamati in seguito Paragone) in cui Leonardo afferma la superiorità della pittura sulle altre arti (scultura e musica) e sulle altre forme di speculazione e di espressione umana (filosofia, poesia, oratoria, storiografia); e anche alcune straordinarie ‘descrizioni’ di tempeste e di battaglie, basi di esercitazione per allievi pittori, ma anche vere e proprie ‘visioni’ (come quelle terribili dei diluvi). Oltre ai vari trattati scientifici e naturalistici, dispersi nei vari codici (sull’acqua, sulle scienze della terra, sulla meccanica ecc. ecc.), Leonardo perseguì in particolare il sogno di un grande trattato di anatomia (Quaderni di Windsor), il primo della civiltà moderna, basato sulle sue personali osservazioni, e sugli eccezionali disegni del corpo umano, ‘inseguimento’ del miracolo della vita nei suoi minimi particolari. A questi filoni ‘maggiori’ la scrittura di Leonardo accosta altri testi più specificamente letterari, collegati alle opere volgari da lui più amate: la Commedia di Dante, l’Acerba di Cecco d’Ascoli, il Decameron di Boccaccio, il Morgante di Luigi e le Pístole di Luca Pulci, il Novellino di Masuccio. Scrive così favole di animali e piante, facezie anche erotiche, un bestiario allegoricomorale, strane lettere in cui finge di essere andato in Oriente, e di descrivere l’arrivo di un feroce gigante (come Morgante), o un immane cataclisma. Per la corte sforzesca inventa finte profezie apocalittiche che si rivelano banali indovinelli, e raffinati giochi di società basati su quelli che oggi definiremmo rebus: associazioni di parola e immagine, che sono parallele alla moda rinascimentale delle ‘imprese’, esplosa poi nel Cinquecento. Non bisogna dimenticare infine che Leonardo fu tra gli artefici della rivoluzione del teatro del Rinascimento, ideando le prime importanti macchine scenografiche per gli spettacoli contemporanei, con vari trucchi scenici ed ‘effetti speciali’ di luci e suoni. In particolare, curò gli allestimenti, a Milano, della Festa del Paradiso di Bernardo Bellincioni (1491), della Danae di Baldassarre Taccone (1496), e soprattutto dell’Orfeo di Poliziano (ca. 1507). Forse solo Leonardo fu in grado di realizzare la fantasia scenica di Poliziano, costruendo una grande montagna che all’inizio serviva da sfondo al dialogo bucolico e all’inseguimento di Euridice, e che poi, aprendosi su se stessa con una serie di complessi meccanismi, lasciava vedere al suo interno l’Inferno. Nell’immaginario leonardesco, era ancora la ‘caverna’, in cui la discesa di Orfeo portava, con la forza del canto e della poesia, la vittoriosa ma illusoria sfida al potere della Morte.



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Bibliografia 6.1. La civiltà delle corti. Cfr. in generale i volumi pubblicati nella collana Biblioteca del Cinquecento (Roma, Bulzoni, dal 1978), a cura di Europa delle Corti, Centro Studi sulle società di Antico Regime, Ferrara (www.europadellecorti.it); C. Vasoli, La letteratura delle corti, Bologna, Cappelli, 1980. Sull’invenzione della stampa: E.L. Eisenstein, La rivoluzione inavvertita. La stampa come fattore di mutamento, Bologna, Il Mulino, 1985, e Le rivoluzioni del libro. L’invenzione della stampa e la nascita dell’età moderna, ivi 1997. Sulla produzione e circolazione libraria: Libri, scrittura e pubblico nel Rinascimento, a c. di A. Petrucci, Bari, Laterza, 1977. Sul genere cavalleresco: M. Villoresi, La letteratura cavalleresca, Roma, Carocci, 2000; R. Bruscagli, Studi cavallereschi, Firenze, SEF, 2003 Sul rapporto latino-volgare: C. Dionisotti, Gli umanisti e il volgare fra Quattro e Cinquecento, Firenze, Le Monnier, 1968; M. Tavoni, Latino, grammatica, volgare. Storia di una questione umanistica, Padova, Antenore, 1984. Su Firenze nell’età laurenziana: - Vespasiano da Bisticci, Le vite, a c. di A. Greco, Firenze, Sansoni, 1970. - Marsilio Ficino, El Libro de l’Amore, a c. di S. Gentile, Firenze, Olschki, 1987; Lettere, vol. I, a c. di S. Gentile, ivi 1990; Sopra lo amore ovvero Convito di Platone, a c. di G. Rensi (1914), Milano, SE, 2003. Cfr. Marsilio Ficino e il ritorno di Platone, a c. di S. Gentile e P. Viti, Firenze, Le Lettere, 1984; P.O. Kristeller, Il pensiero filosofico di Marsilio Ficino, Firenze, Le Lettere, 2005. - Giovanni Pico della Mirandola, Discorso sulla dignità dell’uomo, a c. di F. Bausi, Parma, Guanda, 2007. Risorsa on line: Progetto Pico, Brown University (www.brown.edu/ Departments/Italian_Studies/pico). - M. Marullo, Carmina, a c. di A. Perosa, Padova, Antenore, 1951; Inni naturali, a c. di D. Coppini, Firenze, Le Lettere, 1995. - C. Landino, Comento sopra la Comedia, a c. di P. Procaccioli, Roma, Salerno, 2001. Cfr. R. Cardini, La critica del Landino, Firenze, Sansoni, 1973. Sulla Napoli aragonese: Storia di Napoli, vol. IV, Napoli, SEN, 1974. Sui singoli autori: - G. Manetti, De dignitate et excellentia hominis, a c. di E.R. Leonard, Padova, Antenore, 1974 - Antonio Panormita, Hermaphroditus, a c. di D. Coppini, Roma, Bulzoni, 1990. - Giovanni Pontano, Antologia di carmi, a c. di L. Monti Sabia, Perugia, Effe, 2003; I libri delle virtù sociali, a c. di F. Tateo, Bulzoni, 1999; De sermone, a c. di A. Mantovani, Roma, Carocci, 2002; De principe, a c. di G.M. Cappelli, Roma, Salerno,

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2003. Cfr. G. Parenti, Poeta Proteus alter. Forma e storia di tre libri di Pontano, Firenze, Olschki, 1985. - A. De Ferrariis il Galateo, Vituperatio litterarum, a c. di P. Andrioli Nemola, Galatina, Congedo, 1991; De educatione, a c. di C. Vecce, Leuven, Peeters, 1993; La Iapigia, a c. di D. Defilippis, Galatina, Congedo, 2005; Puglia neolatina. Un itinerario del Rinascimento fra autori e testi, a c. di F. Tateo, M. De Nichilo e P. Sisto, Bari, Cacucci, 1994. - Diomede Carafa, I memoriali, a c. di F. Petrucci Nardelli, Roma, Bonacci, 1988. - lirici aragonesi: M. Santagata, La lirica aragonese, Padova, Antenore, 1979. Edizioni e studi: P.I. De Iennaro, Rime e lettere, a c. di M. Corti, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1956; F. Galeota, Le lettere del Colibeto, a c. di V. Formentin, Napoli, Liguori, 1987; G. Parenti, Benet Garret detto il Cariteo. Profilo di un poeta, Firenze, Olschki, 1993. - Masuccio Salernitano, Il Novellino, a c. di S.S. Nigro, Bari, Laterza, 1979. Cfr. S.S. Nigro, Le brache di San Griffone. Novellistica e predicazione tra Quattro e Cinquecento, Bari, Laterza, 1989; L. Reina, Masuccio Salernitano. Letteratura e società del «Novellino», Salerno, Edisud, 2002. - Loise de Rosa, Ricordi, a c. di V. Formenti, Roma, Salerno, 1998. - Ferraiolo, Cronaca, a c. di R. Coluccia, Firenze, Accademia della Crusca, 1987. Sulla Ferrara estense: La corte e lo spazio: Ferrara estense, a c. di A. Quondam, Roma, Bulzoni, 1982; R. Alhaique Pettinelli, L’immaginario cavalleresco nel Rinascimento ferrarese, Roma, Bonacci, 1983. Sulla corte dei Montefeltro a Urbino: Federico di Montefeltro. Lo Stato, Le Arti, La Cultura, a c. di G. Cerboni Baiardi, G. Chittolini e P. Floriani, Roma, Bulzoni, 1986. 6.2. Pulci. Testi: Morgante, a c. di F. Ageno, Milano – Napoli, Ricciardi, 1955; a c. di D. Puccini, Milano, Garzanti, 1989; Morgante e opere minori, a c. di A. Greco, Torino, UTET, 2006. Studi: P. Orvieto, Pulci medievale. Studio sulla poesia fiorentina del Quattrocento, Roma, Salerno, 1978; C. Marinucci, L’ intertestualità nel «Morgante» di Luigi Pulci. Dante, Petrarca, Boccaccio, Roma, Aracne, 2006. 6.3. Lorenzo. Testi: Tutte le opere, a c. di P. Orvieto, Roma, Salerno, 1992; Opere, a c. di T. Zanato, Torino, Einaudi, 1992. Studi: M. Martelli, Studi laurenziani, Firenze, Olschki, 1964; P. Orvieto, Lorenzo de’ Medici, Firenze, La Nuova Italia, 1976; Lorenzo il Magnifico e il suo mondo, a c. di G.C. Garfagnini, Firenze, Olschki, 1994.



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6.4. Poliziano. Testi: Stanze. Fabula di Orfeo, a c. di S. Carrai, Milano, Mursia, 1988; Rime, a c. di D. Delcorno Branca, Venezia, Marsilio, 1990; L’ Orfeo del Poliziano con il testo critico dell’originale e delle sue successive forme teatrali, a c. di A. Tissoni Benvenuti, Roma-Padova, Antenore, 2000; Stanze. Orfeo. Rime, a c. di D. Puccini, Milano, Garzanti, 2004. Studi: V. Branca, Poliziano e l’Umanesimo della parola, Torino, Einaudi, 1983; M. Martelli, Angelo Poliziano. Storia e metastoria, Lecce, Conte, 1995; P. Orvieto, Poliziano e l’ambiente mediceo, Roma, Salerno, 2009. 6.5. Boiardo. Testi: Orlando innamorato, a c. di R. Bruscagli, Torino, Einaudi, 1995; Inamoramento de Orlando, ed. crit. a c. di C. Montagnani e A. Tissoni Benvenuti, Milano-Napoli, Ricciardi, 1999; Amorum libri tres, a c. di T. Zanato, Torino, Einaudi, 1998; Pastorali, a c. di S. Carrai e M. Riccucci, Parma, Guanda, 2005. Studi: P.V. Mengaldo, La lingua del Boiardo lirico, Firenze, Olschki, 1963; A. Franceschetti, L’Orlando innamorato e le sue componenti tematiche e strutturali, Firenze, Olschki, 1975; M. Praloran – M. Tizi, Narrare in ottave (metrica e stile dell’Innamorato), Pisa, Nistri-Lischi, 1988; Il Boiardo e il mondo estense nel Quattrocento, a c. di G. Anceschi e T. Matarrese, Padova, Antenore, 1998; F. Cossutta, Itinerarium mundi ac salutis: gli «Amorum libri» di Matteo Maria Boiardo, Roma, Bulzoni, 1999; C. Dionisotti, Boiardo e altri studi cavallereschi, Novara, Interlinea, 2003. 6.6. Sannazaro. Testi: Opere volgari, a c. di A. Mauro, Bari, Laterza, 1961; Arcadia, a c. di F. Erspamer, Milano, Mursia, 2002; Il parto della Vergine, a c. di S. Prandi, Roma, Città Nuova, 2001. Studi: G. Folena, La crisi linguistica del Quattrocento e l’Arcadia del Sannazaro, Firenze, Olschki, 1952; F. Tateo, Tradizione e realtà nell’Umanesimo italiano, Bari, Dedalo, 1967; M. Corti, Metodi e fantasmi, Milano, Feltrinelli, 1969; C. Vecce, Iacopo Sannazaro in Francia, Padova, Antenore, 1988, e Gli zibaldoni di Iacopo Sannazaro, Messina, Sicania, 1998; M. Riccucci, Il “neghittoso” e il “fier connubbio”. Storia e filologia nell’Arcadia di J. Sannazaro, Napoli, Liguori, 2001. Sul genere bucolico: E. Carrara, La poesia pastorale, Milano, Vallardi, 1938; La poesia pastorale nel Rinascimento, a c. di S. Carrai, Padova, Antenore, 1998. 6.7. Bembo. Testi: Prose e rime, a c. di C. Dionisotti, Torino, UTET, 1966; Prose della volgar lingua. L’editio princeps del 1525, a c. di C. Vela, Bologna, CLUEB, 2001; Le rime, a c. di A. Donnini, Roma, Salerno, 2008; Gli Asolani, a c. di G. Dilemmi, Firenze, Accademia della Crusca, 1991.

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Studi: P. Floriani, Bembo e Castiglione, Roma, Bulzoni, 1976; G. Dilemmi, Dalle corti al Bembo, Bologna, CLUEB, 2000; C. Dionisotti, Scritti sul Bembo, Torino, Einaudi, 2002; E. Curti, Tra due secoli. Per il tirocinio letterario di Pietro Bembo, Bologna, GEDIT, 2006. 6.8. Castiglione. Testi: Il cortigiano, a c. di A. Quondam, Milano, Mondadori, 2002. Studi: La corte e il “Cortegiano”, a c. di C. Ossola e A. Prosperi, Roma, Bulzoni, 1980; C. Ossola, Dal “Cortegiano” all’“Uomo di mondo”, Torino, Einaudi, 1987; P. Burke, Le fortune del Cortegiano. Baldassarre Castiglione e i percorsi del Rinascimento europeo, Roma, Donzelli, 1998; A. Quondam, “Questo povero cortegiano”. Castiglione, il libro, la storia, Roma, Bulzoni, 2000; U. Motta, Castiglione e il mito di Urbino. Studi sulla elaborazione del «Cortegiano», Milano, Vita e Pensiero, 2003. 6.9. Leonardo. Testi: Scritti scelti, a c. di A.M. Brizio, Torino, UTET, 1952; Scritti letterari, a c. di A. Marinoni, e Scritti artistici e tecnici, a c. di B. Agosti, Milano, Rizzoli, 1974-2002; Scritti, a c. di C. Vecce, Milano, Mursia, 1992; Libro di pittura, a c. di C. Pedretti e C. Vecce, Firenze, Giunti, 1995. Studi: C. Scarpati, Leonardo scrittore, Milano, Vita e Pensiero, 2001; C. Vecce, Leonardo, Roma, Salerno, 2006.

7. Machiavelli

7.1. La vita Niccolò Machiavelli nasce a Firenze nel 1469, da un notaio di modeste condizioni economiche ma vivaci interessi culturali, Bernardo, che lo inizia alle prime letture dei classici latini (Livio, Lucrezio, Terenzio) e degli autori volgari (Dante, Boccaccio). È una formazione non umanistica (manca il greco), ma più vicina agli ambienti borghesi e mercantili della città (dove lo scapestrato Niccolò è soprannominato “il Machia”), e comunque nobilitata dalle lezioni dell’umanista Marcello Virgilio Adriani. Dai grandi rivolgimenti del ’94-95 (caduta dei Medici e ascesa di Savonarola) Niccolò è quasi assente. Non favorevole al governo del Savonarola, esce improvvisamente dall’ombra quando, dopo il supplizio del frate (1498), viene nominato segretario della seconda cancelleria, alle dipendenze del suo maestro, l’Adriani, a capo della prima cancelleria. È l’inizio di un prodigioso periodo che vedrà Niccolò impegnato soprattutto su un fronte diplomatico e internazionale, per garantire alla sua città-stato un margine di autonomia e di sopravvivenza, nel turbinare delle Guerre d’Italia. Dopo una missione a Forlì presso la forte principessa Caterina Sforza (1499), è subito proiettato nel gran teatro della politica europea, nel primo viaggio in Francia, alla corte di Luigi XII, per ottenerne aiuto nella guerra contro Pisa (1500), che si arrenderà solo nel 1509, proprio grazie alla mediazione di Machiavelli. Nel 1501 sposa Marietta Corsini, da cui avrà prole numerosa, e a cui sarà sempre legato da forte affetto, nonostante molte altre avventure passionali. Dal 1502 diventa il principale consigliere del nuovo reggitore della repubblica fiorentina, il Gonfaloniere a vita Pier Soderini. Con il fratello di Piero, Francesco Soderini, svolge nel 1502-1503 la sua missione più difficile e forse per lui più istruttiva, presso Cesare Borgia, detto il duca Valentino, che, approfittan-

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do dell’appoggio del padre, il papa Alessandro VI, stava ampliando un forte stato personale tra le Marche e la Romagna, con una politica spregiudicata. Machiavelli lo raggiunge nel 1502 a Urbino (dove il Valentino aveva appena spodestato il legittimo duca Guidubaldo da Montefeltro), ed è poi, nel gennaio 1503, testimone del feroce massacro di Senigallia, in cui vengono attirati con l’inganno e poi uccisi i principali nemici del Valentino. Come ne era stata rapida l’ascesa, favorita dalla fortuna, altrettanto veloce ne fu però la rovina, dopo la morte del papa. Niccolò è inviato a Roma per il conclave che elegge il papa guerriero Giulio II (1503), torna diverse volte in Francia (1504, 1510, 1511), poi a Mantova, Siena (1505), al seguito del papa (1506) e dell’imperatore Massimiliano d’Asburgo a Innsbruck (1508) e a Verona (1509). L’esperienza di quegli anni drammatici gli ha insegnato che una delle prime cause della debolezza degli stati italiani è nella mancanza di un esercito di leva: i principi si servono di mercenari, pronti a cambiare bandiera da un momento all’altro, e di condottieri malfidati. Nasce quindi l’idea (derivata dal modello della Roma repubblicana) che perseguirà generosamente negli anni successivi: la costituzione di una milizia della repubblica fiorentina, formata dagli stessi popolani e contadini, adeguatamente istruiti all’uso delle armi e alla formazione militare. È un progetto difficile, osteggiato o ridicolizzato dai suoi stessi concittadini. Niccolò, di estrazione ‘popolare’, è malvisto dai ‘grandi’, dagli esponenti delle famiglie ricche e patrizie che da sempre dominano Firenze; ma non sente ragioni, e riesce, tra 1505 e 1507, a costituire i primi reparti del ‘suo’ esercito. Tanto lavoro, per salvare la libertà e l’integrità di Firenze, sembra improvvisamente crollare nel 1512, quando, nel consueto rovesciamento delle alleanze, il papa Giulio II guida una lega per cacciare i Francesi (da lui ora chiamati ‘barbari’) dall’Italia. Verso Firenze, tradizionalmente alleata della Francia, si muove un minaccioso esercito spagnolo, che a Prato annienta proprio la milizia ordinata da Machiavelli. Pier Soderini fugge, i Medici rientrano a Firenze, e Niccolò è subito congedato dalla cancelleria, confinato, e addirittura incarcerato e torturato, con l’accusa di aver partecipato a una congiura antimedicea (1513). Per fortuna, il cardinal Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, è eletto papa Leone X, e l’amnistia rimette in libertà Niccolò, che si ritira nella quiete della sua casa di campagna, l’Albergaccio a San Casciano, presso Firenze. Tempo di amarezza, di solitudine, ma anche (per la prima volta nella sua vita, dopo tanti anni di straordinaria operosità) di riflessione, di meditazione sulle vicende contemporanee, e sulla propria vita, da cui nasce il capolavoro del De principatibus. Eppure Niccolò non riesce a stare ozioso in villa, e vorrebbe tornare ad essere utile alla sua città, in qualunque incarico, anche il più piccolo. Vani



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sono i primi tentativi di riguadagnare la fiducia dei Medici. E allora si avvicina ad un circolo di giovani patrizi fiorentini, Zanobi Buondelmonti, Luigi Alamanni, Iacopo Diacceto, infiammati agli ideali repubblicani, e ammiratori del ‘Machia’, di quel che ha fatto negli anni della repubblica, a livello europeo, e della sua vivace conversazione, che sa fondere la sapienza degli antichi con l’esperienza diretta del presente. Ci si riunisce nel giardino della famiglia Rucellai (detto appunto gli Orti Oricellari), alle porte di Firenze, sotto la guida di Cosimo Rucellai, nipote del grande umanista Bernardo, autore di opere importanti sulla civiltà di Roma. E proprio a Roma, al suo modello politico, guarda Machiavelli in questa stagione, con la composizione dei Discorsi sulla Prima Deca di Tito Livio. Dopo il 1519 riprendono finalmente i contatti con i Medici, che apprezzano le sue scritture letterarie: la commedia Mandragola, la Vita di Castruccio Castracani, e il trattato De re militari (‘arte della guerra’). Gli si chiedono pareri sul modo di riformare la costituzione di Firenze, e Machiavelli coraggiosamente propone la restaurazione della repubblica, nel Discursus florentinarum rerum (‘discorso sullo stato di Firenze’)(1520). Gli si dà qualche incarico, ma sempre di poco conto, se non umiliante, come quello di inviato al capitolo generale dei frati minori a Carpi (1521), a quella che il Machia (sempre insofferente nei confronti dell’ipocrisia clericale) chiama con scherno “la Repubblica degli Zoccoli”. La missione è comunque importante, da un punto di vista umano, perché conferma l’amicizia (testimoniata da bellissime lettere) di Niccolò con il più giovane Francesco Guicciardini, allora governatore di Modena, con cui architetta una beffa ai danni dei frati (in pratica, le lettere di Guicciardini venivano recapitate al Machia da un balestriere armato, e il Machia faceva credere che si trattasse di documenti segreti di vitale importanza, lasciando i frati a bocca aperta). A Firenze, intanto, l’oppressione è sempre in agguato. I giovani degli Orti Oricellari sono accusati di congiura, alcuni di loro decapitati (il Diacceto), e altri costretti alla fuga e all’esilio (il Buondelmonti e l’Alamanni). Niccolò, per fortuna, non è coinvolto, e si concentra nella scrittura della sua grande opera storica, le Storie fiorentine, che presenta ufficialmente a Roma al nuovo papa mediceo Clemente VII (1525). La politica del papa, ostile all’impero di Carlo V e favorevole alla Francia, addensa però pericolosi scenari di guerra sull’Italia. Machiavelli, non più giovane, torna attivissimo, per cercare di riorganizzare la milizia, in Romagna, con Guicciardini. Viene nominato cancelliere dei Procuratori delle Mura a Firenze, per curare le difese della città. Ma è tutto inutile. Nel 1527 l’esercito imperiale arriva a Roma e la saccheggia, mentre a Firenze torna la repubblica, che però guarda con sospetto a questo ex-segretario che, in tutti gli anni precedenti, sembra

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non aver fatto altro che cercare di riguadagnare il favore dei Medici. Deluso e amareggiato, escluso da ogni incarico, Niccolò muore il 21 giugno 1527, mentre la sua città si prepara a vivere l’ultima resistenza repubblicana.

7.2. Le scritture del “segretario” Il periodo in cui Machiavelli fu segretario della prima cancelleria (14981512) coincide anche con l’inizio della sua attività di scrittore. In questi anni è quasi esclusivamente compositore di scritture politiche, direttamente legate all’occasionalità: la relazione di una missione appena compiuta, le lettere diplomatiche (magari scritte dal Machia, e firmate dall’ambasciatore), la ‘memoria’ ai Signori di Firenze, o al Soderini, sulle decisioni da prendere su una determinata situazione politica, strategica, militare, economica. La responsabilità finale di tali decisioni non competeva a Machiavelli, ma la sua influenza, come ‘segretario’, fu spesso decisiva. Per questo, le scritture del ‘segretario’ riescono a innovare notevolmente l’ambito della ‘scrittura professionale’. Il loro stile è secco, la lingua si avvicina al parlato (in alcuni casi si sarà anche trattato di testi esposti oralmente ai Signori), ma si nota un’elaborata cura retorica, con un’attenta disposizione degli argomenti, e uso di linguaggio figurato. Anche un’esposizione apparentemente oggettiva dei fatti, Niccolò lo sa bene, può non essere neutrale. Al ‘segretario’, come ad ogni politico, non interessa solo ‘esporre’, in modo freddo e impersonale, ma anche ‘orientare’, suggerire soluzioni, che saranno poi prese da altri. È una retorica ‘effettuale’, non puramente esornativa. Una prima serie di scritti riguarda i rapporti di Firenze con le città vicine, rapporti che rivelano che l’egemonia fiorentina deve reggersi anche sulla forza e la violenza: il Discorso sopra Pisa (1499), che affronta uno dei nodi della politica fiorentina, quello della conquista della libera e pericolosa concorrente, che continuò a resistere per altri dieci anni, mettendo spesso in difficoltà l’esercito assediante; il De rebus Pistoriensibus (‘dei fatti di Pistoia’)(1502), la prima memoria per il Soderini; Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati (1502), sulla città di Arezzo sempre ribelle (e in questo caso su istigazione del Valentino), e per la quale si chiede un castigo esemplare. A questioni amministrative e di governo sono dedicate le Parole da dirle sopra la provisione del danaio (1502), mentre il sogno della milizia repubblicana viene caldamente promosso ne La cagione dell’ordinanza (1506). Un’ultima categoria di scritture si rivolge all’orizzonte più ampio della politica europea: sono le memorie stese da Machiavelli al ritorno dei suoi



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viaggi diplomatici, vividi ritratti di uomini, costumi, cose, che rivelano la sua straordinaria capacità di osservazione, e il suo realismo, scevro da ogni condizionamento ideologico: il De natura Gallorum (‘la natura dei Francesi’)(1503) e il Ritracto di cose di Francia (1510), il Rapporto di cose della Magna (1508), il Discorso sopra le cose della Magna (1509), e il Ritracto di cose della Magna (1512). A differenza di scritti consimili di umanisti contemporanei (ad esempio la Pro Gallis apologia, ‘difesa dei Francesi’, di Mario Equicola), Machiavelli supera la struttura tradizionale dei luoghi comuni, e registra ciò che ha effettivamente veduto. Ne emergono così vividi ritratti psicologici dei personaggi storici incontrati, come l’ombroso Luigi XII, il cardinale Georges d’Amboise, l’impenetrabile imperatore Massimiliano d’Asburgo. Alle scritture politiche il ‘segretario’ aggiunge le sue prime scritture letterarie, che sono naturalmente legate al filone della letteratura popolare fiorentina del Quattrocento, e che continuano a riflettere comunque le contemporanee esperienze politiche. Ad esempio, le vicende dei dieci anni dal 1494 al 1504, decisivi per la storia d’Italia (la discesa di Carlo VIII, il crollo di Milano e Napoli e guerre tra Francesi e Spagnoli, potenza e caduta di papa Borgia e Valentino), sono raccontate in un poemetto in terzine dantesche, intitolato appunto Decennale (1504)(un secondo Decennale rimase invece incompiuto, fino al 1509). Alcune vicende particolari ispirarono invece, negli anni successivi, la composizione di alcuni Capitoli, sempre in terzine, di tono satirico e morale: Di Fortuna (1506), dopo l’esperienza al seguito di Giulio II; Dell’Ingratitudine (1508), quando, per la missione all’imperatore, fu inizialmente sostituito da Francesco Vettori, perché malvisto dai ‘grandi’; Dell’ambizione (1509), al tempo della guerra contro Venezia; Dell’occasione (1512).

7.3. De principatibus La rovina della repubblica (1512) segna una cesura netta nella vita di Machiavelli. Come era accaduto a Cicerone, anche Niccolò può ora dedicarsi alla riflessione sulla storia appena passata, cercando di comprendere i motivi di quei grandi e terribili rivolgimenti, della caduta di stati che sembravano forti e invincibili, e in generale della crisi che sembrava travolgere la civiltà del Rinascimento, i suoi valori e le sue speranze. Suo rifugio, dopo il carcere e la tortura, è la villa fuori Firenze, l’Albergaccio. Lì sembra quasi inselvatichire, a contatto con i rozzi villani. La sera però (come racconta in una splendida lettera al Vettori, il 10 dicembre 1513), tornato a casa, riveste idealmente gli

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abiti “curiali”; in quella sala rustica dell’Albergaccio i grandi Greci e Romani tornano a rivivere, e a conversare con Niccolò. È il senso, tutto umanistico, del dialogo con gli antichi (iniziato in chiave moderna dal Petrarca), che continuano, con le loro opere e i loro esempi, ad ammaestrare, ad ammonire, a far comprendere lo stesso presente. Di cosa parlava Niccolò con quei fantasmi? La risposta ce la dà lo stesso Niccolò, nella lettera al Vettori: sono i temi di un’opera che lui sta scrivendo, e che vorrebbe dedicare a Giuliano de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico e fratello del papa, reggitore di Firenze, principe illuminato, amico e mecenate di Bembo, Castiglione e Leonardo (forse è proprio Giuliano che l’ha tirato fuori dal carcere): “uno opuscolo De principatibus, dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitationi di questo subbietto, disputando che cosa è principato, di quale spezie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono”. È la prima testimonianza del De principatibus (‘i principati’)(1513), rivisto nel 1514 con nuova dedica a Lorenzo di Piero de’ Medici, detto Lorenzino († 1519), successore di Giuliano nel governo di Firenze, e pubblicato solo postumo nel 1532. Il titolo sarebbe divenuto (impropriamente) Il principe, perché, sull’orizzonte della ricezione, se ne sarebbe privilegiata la parte dedicata al ‘ritratto’ del principe (capitoli XV-XXIII), più che l’insieme dell’opera, che in realtà è un breve trattato sulle varie forme di governo monarchico, e sulle modalità di gestione e conservazione. Scandita da capitoli non troppo lunghi, la prosa si distende in uno stile veloce, incalzante, che supera la retorica esornativa per raggiungere una massima aderenza alle ‘cose’; e la lingua è il fiorentino vivo, parlato. Non dimentichiamo che il De principatibus nasce da un laboratorio già maturato nelle scritture politiche precedenti, memorie, legazioni, e ne resta debitore, nell’orizzonte comunicativo. Scritto probabilmente di getto, nel corso del 1513, subito dopo la scarcerazione, il De principatibus riflette il momento più cupo della vita di Machiavelli, e del suo orizzonte politico. Tutto intorno a lui sembra crollato: la repubblica, il sogno di una milizia popolare, l’utopia di una città prospera e giusta. Al contrario, i grandi modelli europei delle monarchie nazionali (profondamente conosciuti da Niccolò nel corso delle sue legazioni) sembrano assolutamente vincenti, con i loro forti eserciti, e il moderno sistema amministrativo. È possibile allora che l’Italia si riprenda dallo stato di decadenza in cui è improvvisamente precipitata, dopo gli splendori del Rinascimento? La risposta di Machiavelli è sì. Ma per dare questa risposta sembra necessario dimenticare il sogno repubblicano dell’umanesimo civile, e considerare coraggiosamente e realisticamente una forma di governo ‘forte’ in grado di superare le divisioni tra gli stati italiani. Il ‘principato’, appunto, o la forma



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monarchica. È un doppio salto mortale, quello di Machiavelli, ex-segretario di una repubblica, e ora teorico dei principati. Ma ancora una volta lo aiuta la grande capacità di analisi della realtà che lo circonda. La prima parte dell’opera esamina quindi le varie tipologie di principato (ereditario, nuovo, o misto: il ‘principe nuovo’, che si conquista da solo il principato, è quello che attrae di più Machiavelli, che ha conosciuto il Valentino), e le modalità di acquisto (per virtù, fortuna, delitto, e favore: l’ultimo caso, che è quello che prevede un ampio consenso popolare all’ascesa del principe, è il cosiddetto principato ‘civile’, che sembrava realizzato nei momenti più felici della signoria dei Medici); a parte si collocano i principati ecclesiastici, come quello del papa, il cui potere temporale si avvale (talvolta in modo improprio) anche dell’immensa autorità morale e spirituale della Chiesa (capitoli I-XI). Sempre di carattere generale è l’analisi delle “offese e difese” del principato, che si concretizzano nel modo di organizzare le proprie milizie, in quattro tipologie diverse (mercenarie, ausiliarie, proprie, miste)(capitoli XII-XIV); e qui Machiavelli riprende tutte le sue riflessioni precedenti sul tema della milizia. La seconda parte (capitoli XV-XXIII) è quella più sconvolgente, e dimostra che, forse, in un primo momento (e prima dell’idea di dedica a Giuliano), in quel fatale 1513, il De principatibus nacque come forma di scrittura privata (a differenza di tutte le altre scritture politiche del ‘segretario’), come meditazione e sfogo personale del Machia, quasi esule e rinnegato, ma sostanzialmente libero di dire, a se stesso e ai fantasmi degli antichi, al chiuso dell’Albergaccio, tutto quello che voleva. La verità delle cose, o come la chiama lui, la “verità effettuale”, e non l’ “imaginazione di essa”, o un’utopia ideale o morale. Tutta la tradizione medievale e umanistica sul tema del principe, il cosiddetto speculum principis (‘specchio del principe’), rappresentata da intellettuali illustri come il Pontano, autore del De principe, presuppone un destinatario primario, che è lo stesso principe; e si collega in fondo con la stessa tradizione pedagogica dell’umanesimo, che si serve di solito della forma dell’epistola parenetica. Machiavelli no. In questi capitoli è come se non avesse destinatario, come se parlasse a se stesso. E guai se qualcuno lo ascoltasse, con le cose terribili che dice. Il suo scritto ha la forma del tractatus, dell’opuscolo tecnico, come avrebbe potuto scriverlo un ingegnere (Francesco di Giorgio Martini) o un artista (Leonardo). Bisogna descrivere un oggetto e il suo meccanismo di funzionamento, senza tanti fronzoli. E l’oggetto è il principe. Non più quello buono, giusto, leale dello speculum principis, campione di ideali classici, cristiani e cavallereschi, ma quello reale che Machiavelli ha visto in azione (ancora una volta, il Valentino), e che d’altronde è sempre esistito; il principe che

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non esita ad usare l’inganno, la violenza, la ferocia, se tutto ciò è necessario al mantenimento dello stato. Un principe, compendia Machiavelli, che ha l’astuzia della volpe e la forza e la crudeltà del leone. Domina, è vero, nelle pagine di Machiavelli un pessimismo di fondo sulla natura degli uomini. E forse fu contemporanea la composizione di queste pagine, e di quelle in cui si rievocavano le gesta più efferate del Valentino a Senigallia nel 1503, nella memoria intitolata Tradimento del Duca Valentino al Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo et altri. Ma le sue affermazioni non sono contro gli ideali di humanitas classici e umanistici, né esplicitamente contro la morale cristiana. Quegli ideali, e quella morale, sono semplicemente sospesi, perché il momento politico contemporaneo esige uno sforzo eccezionale di pensiero e azione. Una sospensione simile, ricordiamo, era avvenuta per la genesi di un altro capolavoro, il Decameron di Boccaccio. Ed è questa la grande prospettiva della parte finale del trattato, che negli ultimi capitoli riprende tutte le argomentazioni precedenti, svelando un fine, una speranza, e introducendo ormai anche un possibile destinatario. Nel capitolo XXIV si esaminano le cause della rovina dei principi italiani, travolti per la debolezza militare (basata su eserciti mercenari), il disamore del popolo, e l’intervento delle potenze straniere. Il capitolo XXV si solleva alla considerazione del potere immenso della fortuna nelle vicende umane, potere al quale però è possibile opporre la forza della virtù, almeno in fase di previsione degli eventi, così come alle inondazioni dei fiumi si pone riparo alzando per tempo gli argini. E ‘virtù’ significa anche la ripresa della fiducia umanistica nella capacità della ragione di misurare il mondo e giudicare gli eventi. Machiavelli torna ottimista, e nell’ultimo capitolo (XXVI) si rivolge ai Medici, esortandoli a difendere l’ideale della libertà italiana, con la citazione conclusiva della canzone All’Italia di Petrarca: “Virtù contro a furore / prenderà l’arme, e fia el combatter corto; / ché l’antico valore / nell’italici cor non è ancor morto” (R.V.F. CXXVIII, 93-96). Un’esortazione alla quale, forse, il cuore di Giuliano de’ Medici avrebbe saputo rispondere, ma non quello dell’inetto Lorenzino.

7.4. Politica e storia Sperimentata l’inanità dei suoi sforzi nel rendersi accetto ai Medici, Machiavelli mette il De principatibus nel cassetto e torna a Firenze, dove trova ad accoglierlo il circolo degli Orti Oricellari. La conversazione con quei giovani brillanti, appassionati di ideali repubblicani, lo fa rinascere. E rinasce la sua



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meditazione sulla repubblica, in un contesto molto più vasto rispetto a quello fiorentino, umanisticamente rapportato all’epopea dell’ascesa di Roma, così come raccontato nei primi dieci libri delle Storie di Livio. Machiavelli si trova così a scrivere, in margine agli incontri degli Orti Oricellari, i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1515-1517), dedicati a Cosimo Rucellai e Zanobi Buondelmonti, pubblicati postumi solo nel 1531. Modello di riferimento è quello del commento umanistico ai classici, una forma di scrittura di secondo grado che però Machiavelli trasforma in un vero dialogo con l’autore, attualizzando fortemente il suo messaggio. Nel I libro, sulle diverse forme di repubblica, è poi decisivo il ricorso ad un testo ancora poco conosciuto, il VI libro della Storia di Roma dello storico greco Polibio, tradotto in latino dal dotto bizantino Giano Lascaris incontrato da Machiavelli in Francia, e in cui si espone la teoria dell’‘anaciclosi’, interpretazione ciclica della Storia. Lo stato è come un organismo vivente, che nasce, cresce, e poi decade; ogni forma di governo è relativa, rispecchia uno stato evolutivo: il governo di uno solo, il principato, può diventare una tirannide, abbattuta dal governo degli ottimati che può degenerare in oligarchia, a sua volta rovesciata dal governo del popolo in una repubblica democratica. Nel II libro Machiavelli ricostruisce le tappe dell’ascesa di Roma, e ritorna sul tema (a lui caro) della milizia, dell’organizzazione militare, che fu il vero punto di forza dell’espansione romana, mentre nel III libro conclusivo passa in rassegna varie tematiche, dalle grandi azioni dei Romani alla loro politica interna, dalla guerra alla fortuna. Rispetto al De principatibus, acquista maggiore importanza il tema della ‘durata’ di una forma di governo. Non conta l’acquisto, più o meno efficace e rapido, di uno stato da parte di un ‘principe nuovo’, bisogna anche saperlo mantenere nel tempo e nelle generazioni, secondo un progetto che va oltre il confine biologico del singolo individuo. E, oltre il singolo, è il ‘popolo’ che conta, nelle istituzioni repubblicane, quel Populus Romanus così ammirato da Machiavelli per la pluralità di forze in esso presenti, talvolta dialettiche e conflittuali, ma sempre necessarie alla costruzione della grandezza di Roma, dal patriziato alla plebe. Un mondo in cui conta, per il suo forte valore civile, anche la religione. Ed è allora impressionante il passo in cui Machiavelli, lodando la religione degli antichi Romani, evidenzia che una delle cause della decadenza dell’Italia sia da imputare proprio alla Chiesa Romana, ai suoi cattivi esempi morali, e soprattutto al suo esercizio del potere temporale, che ha tenacemente impedito nei secoli la formazione di un forte stato nazionale. Il tema della milizia di leva, che percorre come un filo rosso tutte le opere di Machiavelli, trova la sua espressione più alta nel De re militari (‘arte della guerra’), in cui le argomentazioni già esposte nelle antiche scritture

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politiche o nel De principatibus o nei Discorsi vengono riprese nella forma, letterariamente elevata, del dialogo, fra alcuni interlocutori molto cari a Machiavelli (e di lì a poco scomparsi, o dispersi da eventi tragici): Cosimo Rucellai, il Buondelmonti, l’Alamanni, e il vecchio condottiero Fabrizio Colonna. L’opera, composta nel 1520, fu una delle poche pubblicate in vita, a Firenze nel 1521, e diede subito all’autore una meritata fama, anche in ambiente mediceo. Intanto, il confronto continuo con gli storici antichi avrebbe portato Machiavelli alla scrittura storica, naturale punto di arrivo del processo evolutivo della sua prosa che, nata dalle scritture di servizio delle memorie e delle legazioni e maturata nella trattatistica del De principatibus, si propone addirittura in un genere che era peculiare della letteratura umanistica, la biografia, con la Vita di Castruccio Castracani (1520), legata a una piccola missione a Lucca (riflessa in un Sommario delle cose di Lucca). Machiavelli era maturo per l’incarico ufficiale più importante, quello di scrivere la storia della sua città, sulle orme di grandi umanisti come Leonardo Bruni, ma finalmente in volgare: le Istorie fiorentine, personalmente presentate nel 1525 a Roma al papa Clemente VII. È un quadro grandioso, che va dalle origini fino alla morte di Lorenzo il Magnifico (1492). Alla base, la concezione antica della storia magistra vitae, intesa da Machiavelli con una valenza ideologica nuova, che lo porta talvolta a ‘orientare’ l’interpretazione dei fatti come dimostrazione delle tesi per le quali Niccolò aveva lottato tutta una vita: il valore intrinseco del governo repubblicano, e la spiegazione della crisi di Firenze come allontanamento dalle sue originarie istituzioni, e dal culto delle virtù civili.

7.5. Letteratura e teatro Machiavelli era tornato alla ‘vita’, e alla sua città, dopo gli Orti Oricellari. Era tornato alle consuetudini che gli erano proprie, ai costumi scherzosi e satirici della sua origine mezzo popolana. Era tornato, in fondo, a sorridere. Questo nuovo ‘sorriso’ di Machiavelli si fa ora letteratura, nelle forme e nei generi della letteratura volgare contemporanea. Eccezionale è l’incontro con l’Asino d’oro di Apuleio (l’autore latino scoperto da Boccaccio, che racconta le avventure di un giovane trasformato in asino), che suggerisce la composizione di un incompiuto poemetto satirico in terzine, L’Asino (1517-1518), che si sarebbe dovuto concludere, appunto, con la metamorfosi di Niccolò in asino. Nella tradizione della novella ‘spicciolata’ rientra una novella intitolata Favola. Ne è protagonista addirittura l’arcidiavolo Belfagor, che, travestito,



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sale sulla terra e si sposa, poi, per colpa della moglie, finisce in un mare di debiti, e viene salvato dal villano Gianmatteo, che però alla fine lo fa fuggire di nuovo all’inferno, facendogli credere imminente l’arrivo della moglie. Conclusione morale implicita e pessimistica: l’inferno è forse meglio della vita che viviamo quassù. Ma il campo nel quale si dispiega veramente l’interesse di Machiavelli, in questi anni, è quello del teatro: e non a caso, per lui che da giovane aveva letto e amato Plauto e Terenzio, e che aveva poi sperimentato in profondità il teatro della vita e della politica. Che il De principatibus fosse anche un’opera di base per il teatro tragico, l’avrebbe capito, ad esempio, Shakespeare. Ora, invece, Machiavelli traduce l’Andria di Terenzio (1517), e rielabora la Casina di Plauto nella sua commedia Clizia (1525), satira della contesa amorosa tra un vecchio padre e suo figlio per una bella schiava, in cui la figura del vecchio adombra ironicamente proprio quella di Machiavelli, allora coinvolto in una delle sue ultime avventure. Ma prima aveva composto il suo capolavoro teatrale, la Mandragola (1518), forse rappresentata a Firenze per la festa di nozze di Lorenzino, poi a Roma davanti a Leone X, e poi a Venezia (1522), in un crescente successo. Rispetto ai modelli antichi, non è una commedia troppo complicata. Il giovane Callimaco concupisce Lucrezia, ingenua sposa dello sciocco Nicia, che si dispera per non riuscire a ingravidarla. Per vincere l’onestà di Lucrezia, Callimaco inventa la storia di un’erba magica, la Mandragola, che rende feconda la donna, ma fa morire colui che giace con lei. Con l’aiuto di vari mezzani come il parassita Ligurio, la stessa madre di Lucrezia Sostrata, e il corrotto frate Timoteo, Callimaco riesce a finire nel letto di Lucrezia che, scoperto l’inganno nel corso della notte d’amore, decide comunque di tenersi l’amante. Con la Mandragola il sorriso di Machiavelli diventa più amaro, e torna al pessimismo del De principatibus. Lo scenario cupo è quello della vita reale degli uomini, che sembrano mossi solo da interessi particolari. Anche se quell’erba è solo una finzione, e nessuno morirà nella commedia, pure una tragedia si consuma, ed è nell’anima della semplice ma onesta Lucrezia, per cui è inaccettabile non solo la perdita dell’onestà, ma anche il fatto che una vita umana debba essere sacrificata, che un giovane debba morire per renderla feconda: evento sul quale sembrano tutti diabolicamente d’accordo, anche l’inetto Nicia. Il fine, si potrebbe dire, giustificherebbe il mezzo. È questa la vera tragedia: la metamorfosi di Lucrezia, da semplice a consapevole, da onesta a disonesta. E non è una conclusione da ridere. Machiavelli guarda qui ai moderni, non agli antichi. Riprende il Boccaccio delle sostituzioni di persona (ad esempio, la novella di Ricciardo

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Minutolo, Dec. VI,3); l’azione si svolge a Firenze, sullo scenario cittadino contemporaneo, e non nell’antica Atene; e il linguaggio è il fiorentino parlato. Un punto importante, questo, per Machiavelli ‘letterato’ nei suoi ultimi anni, quando altrove si dibatteva la questione della lingua migliore, se si dovesse preferire il toscano letterario di Petrarca e Boccaccio, o la lingua cortigiana. Per Niccolò non vi sono dubbi. La lingua più efficace, per lui, è quella che gli è servita per tutta una vita di scrittura e di comunicazione, il fiorentino vivo: una posizione affermata in un tardo Dialogo intorno alla nostra lingua (1524), in cui compare addirittura Dante, criticato per la teoria del volgare illustre nel De vulgari eloquentia (riscoperto proprio nel primo Cinquecento dal Trissino, e oggetto di discussione negli Orti Oricellari intorno al 1515).

Bibliografia Edizioni complessive: Opere, a c. di L. Blasucci e al., Torino, UTET, 1989; a c. di C. Vivanti, Torino, Einaudi, 1997-2005. Monografie: G. Sasso, Niccolò Machiavelli, Bologna, Il Mulino, 1993; E. Cutinelli Rendina, Introduzione a Machiavelli, Roma-Bari, Laterza, 2002; F. Bausi, Machiavelli, Roma, Salerno, 2005; R. Bruscagli, Machiavelli, Bologna, Il Mulino, 2008. Studi complessivi e raccolte di saggi: L. Russo, Machiavelli, Bari, Laterza, 1965; F. Gilbert, Machiavelli e il suo tempo, Bologna, Il Mulino, 1977; C. Dionisotti, Machiavellerie. Storia e fortuna di Machiavelli, Torino, Einaudi, 1980; G. Skinner, Machiavelli, Bologna, Il Mulino, 1999; G. Ferroni, Machiavelli, o dell’incertezza (1981), Roma, Donzelli, 2003; G. Inglese, Per Machiavelli. L’arte dello stato, la cognizione delle storie, Roma, Carocci, 2006. Risorsa in rete: Bibliografia machiavelliana del Novecento, Università di Zurigo (fmpserver.ital.unil.ch/ital/machiavel). 7.1. La vita. O. Tommasini, La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli, Firenze, Sansoni, 1978; R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Firenze, Sansoni, 1981; M. Viroli, Il sorriso di Machiavelli. Storia di Machiavelli, Bari, Laterza, 1988. 7.2. Le scritture del “segretario”. J.J. Marchand, I primi scritti politici (1499-1512). Nascita di un pensiero e di uno stile, Padova, Antenore, 1975. 7.3. De principatibus. Edizioni: De principatibus, ed. crit. a c. di G. Inglese, Roma, Istituto Storico Italiano



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per il Medio Evo, 1994; Il principe, a c. di M. Martelli, Roma, Salerno, 2006; Il principe, a c. di R. Ruggiero, Milano, Rizzoli, 2008. Studi: F. Chiappelli, Studi sul linguaggio di Machiavelli, Firenze, Le Monnier, 1952, e Nuovi studi sul linguaggio di Machiavelli, ivi 1969; G. Bárberi Squarotti, La forma tragica del “Principe” e altri saggi sul Machiavelli, ivi 1966, e Machiavelli o la scelta della letteratura, Roma, Bulzoni, 1987; E. Raimondi, Politica e commedia. Dal Beroaldo a Machiavelli, Bologna, Il Mulino, 1972. 7.4. Politica e storia. Testo: Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, a c. di C. Vivanti, Torino, Einaudi, 2000. Cfr. G.M. Anselmi, Ricerche sul Machiavelli storico, Pisa, Pacini, 1979. 7.5. Letteratura e teatro. Testi: Teatro, a c. di G. Davico Bonino, Torino, Einaudi, 1979; Mandragola, a c. di P. Stoppelli, Milano, Mondadori, 2006. Studi: G. Ferroni, “Mutazione” e “riscontro” nel teatro di Machiavelli e altri saggi sulla commedia del Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1972; F. Grazzini, Machiavelli narratore, Bari, Laterza, 1990; Il teatro di Machiavelli, a c. di G. Barbarisi e A.M. Cabrini, Milano, Cisalpino, 2005; P. Stoppelli, La “Mandragola”: storia e filologia, Roma, Bulzoni, 2005, e Machiavelli e la commedia di Belfagor, Roma, Salerno, 2007.

8. Ariosto

8.1. La vita Da nobile famiglia al servizio degli Estensi, Ludovico Ariosto nasce nel 1474 a Reggio Emilia, dove il padre Nicolò era capitano della rocca. La sua giovinezza si svolge nel raffinato ambiente della corte di Ferrara, che lo attira molto di più degli studi giuridici avviati presso l’università, e finalizzati, secondo le intenzioni del padre, all’inserimento del giovane tra gli alti funzionari del duca. Ludovico preferisce invece le attrattive della vivace cultura umanistica, rappresentata da poeti latini come Ercole Strozzi, e dalla lettura dei classici, mediata dall’insegnamento del maestro Gregorio da Spoleto: ne deriva una prima produzione di poesia latina, di notevole elaborazione formale, sospesa fra i temi erotici e quelli occasionali ed encomiastici. Il carattere proprio della cultura ferrarese, tra latino e volgare, porta però il giovane poeta subito alla lirica volgare, anche grazie all’incontro e all’amicizia con Pietro Bembo (che studia filosofia proprio a Ferrara nel 1496-1499): una poesia che si distacca dallo sperimentalismo cortigiano contemporaneo, in un tentativo di avvicinamento ‘medio’ al modello petrarchesco. La vita di Ludovico è interamente proiettata su una dimensione cortigiana. Già ‘familiare’ del duca Ercole I (1498) e capitano della rocca di Canossa (1501-1503), entra nel 1503 al servizio del cardinale Ippolito d’Este, un vero principe del Rinascimento più che un uomo di chiesa. In ogni caso, come cortigiano di un cardinale, Ludovico deve diventare ‘chierico’, e prende gli ordini minori, pur senza abbandonare gli amori della giovinezza, dai quali ha i due figli Giambattista (1503) e Virginio (1509). Ippolito è padrone esigente, che tratta Ludovico quasi come un segretario, costringendolo a frequenti incarichi che allontano il poeta dagli studi e dalla letteratura. Si alternano viaggi a Bologna, Mantova, e soprattutto nella Roma del battagliero papa Giulio II (spesso in conflitto con gli Estensi); missioni anche pericolose, come

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quella col duca Alfonso a Roma nel 1512, quando l’ira del papa costrinse l’Ariosto a fuggire travestito. La sua vita privata cominciò a cambiare profondamente quando nel 1513 incontrò una donna (allora sposata, ma presto divenuta vedova), destinata a diventare il suo grande amore: Alessandra Benucci, sposata ‘segretamente’ solo nel 1528 (per non perdere i benefici ecclesiastici). La necessità di una maggiore tranquillità di vita, da dedicare ai figli e agli affetti familiari, ma anche all’impegno letterario, cresciuto negli anni con la composizione dell’Orlando furioso (stampato per la prima volta nel 1516), lo portò all’inevitabile rottura col cardinal Ippolito, consumata al rifiuto di accompagnare il cardinale in Ungheria (1517). Negli anni successivi l’Ariosto mantenne sempre un certo grado di indipendenza nei confronti della corte del duca Alfonso d’Este, tranne che nel periodo in cui accettò il difficile incarico di commissario della Garfagnana, tumultuosa terra di confine sottoposta al dominio estense (1522-1525): incarico che il poeta, tornato a mansioni di governo, seppe svolgere con giustizia ed equilibrio, in un’esperienza umanamente importante, testimoniata dalle sue lettere. Rientrato a Ferrara, trascorse gli ultimi anni alla cura delle proprie opere letterarie, e alle successive edizioni del Furioso, spegnendosi nel 1533.

8.2. Orlando Furioso La morte del Boiardo, nel 1494, aveva lasciato incompiuto il suo poema, l’Inamoramento di Orlando. L’Ariosto, che giovane aveva conosciuto Boiardo, e in parte ne ripercorreva la stessa carriera all’interno della corte ferrarese, cominciò a lavorare intorno al 1505 ad una continuazione dell’Inamoramento, venendo incontro ad una probabile aspettativa dei suoi primi destinatari, i principi estensi. Nel 1507 alcuni testi di questa ‘giunta’ erano recitati dallo stesso autore di fronte a Isabella d’Este, a Mantova. Nell’arco di un decennio l’opera fu completata, e pubblicata a Ferrara nel 1516, in una prima redazione in 40 canti dedicata al cardinal Ippolito, con il titolo che riprendeva il titolo ormai più diffuso del poema boiardesco (Orlando innamorato), cioè Orlando furioso, scritto in una lingua ancora vicina al Boiardo e alla cultura volgare ‘padana’ e ferrarese. Ma l’Ariosto lasciò aperto per tutta la vita il ‘cantiere’ del Furioso, nello sforzo di allargarne gli orizzonti ad un più vasto pubblico italiano (e non più solo di corte), sforzo già testimoniato dalle correzioni di lingua e di stile della seconda redazione (anch’essa in 40 canti) pubblicata nel 1521; e soprattutto dalla terza redazione in 46 canti, edita nel 1532, che attua in modo sistematico



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la revisione linguistica in direzione del toscano letterario, sulla base dello spirito normativo delle Prose del Bembo. Già nell’incipit si avverte la forte distanza dalla precedente tradizione cavalleresca (di cui resta un pallido, ironico residuo nella frequente ‘finzione’ di oralità): “Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto”. Dopo tanti cantari spesso anonimi, emerge ora la forte presenza dell’autore, dell’io del narratore, che dipana e sovrappone i fili del racconto come un tessitore intreccia la sua tela, o come un musico ricerca l’armonia di voci diverse in una polifonia (e si tratta di metafore suggerite dallo stesso Ariosto nella sua opera, assimilata appunto a una ‘tela’ o a una ‘musica’). Figura quasi divina nel creare e muovere i suoi personaggi, il poeta riprende la tecnica dell’intreccio narrativo (già presente nei romanzi francesi medievali, fino al Boiardo), e la porta alle sue massime possibilità espressive: tutti i personaggi, tutte le vicende, si muovono sulla dimensione della contemporaneità, e, per essere raccontate, devono alternarsi tra loro, essere lasciate in sospeso e poi riprese anche a grande distanza testuale. Nonostante il titolo suggerisca un prevalere della storia di Orlando, in realtà nessun filo è dominante sugli altri, in questa polifonia in cui veramente gli stili e i generi si rispondono tra loro, in relazioni armoniche di tipo musicale: il tragico e il comico, il favoloso e l’ordinario, l’erotico e il sublime. Nel suo carattere di contenitore ‘plurimo’ di generi letterari, il Furioso contiene anche delle digressioni novellistiche, di derivazione boccacciana, come la storia di Fiammetta condivisa contemporaneamente da due amici-amanti (c. XXVIII). Ma quell’io canto richiama anche, apertamente, il primo verso dell’Eneide virgiliana, Arma virumque cano, e quindi la consapevole fusione del genere cavalleresco con le istanze classiche della cultura umanistica: dai modelli dell’epica classica (Virgilio e Omero) alla riflessione sulla tragedia antica, conosciuta principalmente attraverso le Tragedie di Seneca. Forse proprio da una tragedia di Seneca, l’Hercules furens (‘Ercole furioso’), poteva venire lo spunto principale per il titolo, Orlando furioso. Non dimentichiamo che nell’umanesimo (da Petrarca a Salutati) Ercole incarnava il mito positivo dell’eroe fortissimo ma anche saggio, ideale dell’umanista che lotta vittoriosamente contro i mostri della barbarie. La riscoperta della tragedia senecana, già dal Trecento, comincia a illuminare la sua figura di una luce fosca, per l’epilogo tragico della follia che lo spinge ad atti di inconcepibile disumanità, come l’uccisione dei figli. Se la follia di Ercole era il risultato della vendetta di una donna, il tema, nel Medioevo, si saldava a quello della follia d’amore, che conduce a morte e rovina, con gli esempi di Tristano, Lancelot, e perfino del personaggio di Fileno nel Filocolo di Boccaccio.

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Per i cavalieri dell’Ariosto, dunque, i valori cortesi dell’amore, dell’eroismo e della nobiltà, e quelli umanistici della ragione e della virtù, vengono sopravanzati dalla presenza della follia, la negazione assoluta della ragione, del cortese e dell’onesto, che travolge proprio il paladino più forte e invincibile, Orlando, controfigura cristiana e medievale del pagano Ercole. Orlando, tra l’altro, entra in scena con un sogno, che, presentandogli Angelica in pericolo, diventa il vero motore della sua azione. E diventa pazzo quando scopre le prove dell’amore di Angelica per un oscuro fante nemico. Di fronte alla realtà crolla l’illusione, e ogni ideale cavalleresco. Qualcosa si spezza dentro quella macchina perfetta di guerriero, e lo trasforma in un essere selvaggio, che, tornato a uno stato ferino e precivilizzato, vaga completamente nudo. Ma la follia è ovunque già prima di Orlando, e attorno a Orlando. È la follia di disumani eroi pagani come Mandricardo e Rodomonte, è la follia momentanea della gelosa Bradamante, è la follia ordinaria degli uomini accecati dalle illusioni della vita: il desiderio di potere e di ricchezza, la meschinità, il tradimento, la lussuria. Per l’Ariosto, è in filigrana la critica morale dell’intera società del Rinascimento, critica parallela a quella del contemporaneo Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam. E, paradossalmente, la più grande follia umana appare ora la guerra, che non è più la competizione ‘onesta’ tra due leali cavalieri, ma la guerra ‘sporca’ delle armi da fuoco, definite “scelerata e brutta invenzion” (XI, 26,1-2) che distrugge la gloria e toglie onore al “mestier de l’arme”. È la crisi degli ideali militari della cavalleria. Un ignobile fantaccino, armato di colubrina, può ferire mortalmente il più forte e nobile cavaliere, senza che il cavaliere si accorga nemmeno della provenienza della pallottola. Non è più la ragione ‘misura di tutte le cose’. Il mondo torna a essere non misurabile, dominato da forze irrazionali, come il caso e la fortuna, rappresentate visivamente in grandi scenari e architetture simboliche, come la labirintica foresta del I canto, o il magico castello di Atlante. Una nonmisurabilità che corrisponde all’improvvisa e inaspettata dilatazione delle frontiere dello spazio conosciuto, all’epoca dell’Ariosto, con la scoperta di un nuovo mondo da parte di Cristoforo Colombo e Amerigo Vespucci. Vastissima è allora la geografia fantastica del Furioso, spazi immensi percorsi dall’inesausta ‘ricerca’ dei paladini, dagli scogli remoti delle isole britanniche ai regni magici e sensuali dell’Oceano Indiano. Per superare quegli spazi, Ariosto inventa l’Ippogrifo, un fantastico e riottoso cavallo alato, che viene utilizzato da Astolfo in uno straordinario viaggio sulla Luna, dove è possibile ritrovare ciò che si perde sulla Terra, e dove appunto viene recuperata l’ampolla con il senno perduto di Orlando (secondo uno spunto derivato dalle Intercenali dell’Alberti). Astolfo, a sua volta, è uno dei personaggi più



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originali del Furioso: appare all’inizio trasformato in pianta dalla perfida maga Alcina, e poi si lancia in una serie di avventure vorticose in paesi lontani ed esotici, avventure dominate dal senso del magico ma anche da un desiderio di conoscenza. Non è un caso che tocchi a lui, il più ‘leggero’ dei paladini, il più mobile e curioso, il compito di ‘domare’ l’Ippogrifo. Tra gli altri personaggi, spicca la figura di Ruggiero, che (come in Boiardo) conserva una funzione encomiastica nei confronti dei principi estensi, in quanto considerato mitico capostipite della famiglia. In Ruggiero, principe pagano che poi, per amore di Bradamante, diventa cristiano, si osserva il processo di metamorfosi che Ariosto applica a molti dei suoi personaggi, non più le statiche marionette della tradizione canterina, divise tra buoni (i Cristiani) e cattivi (i Mori), ma figure umane a tutto tondo, che soffrono e si disperano, e cambiano non per magia, ma per un interiore processo di formazione, e talvolta di elevazione. Ruggiero passerà dalla condizione di effeminato schiavo erotico di Alcina a quella del guerriero cristiano che riesce a battere la forza smisurata di Rodomonte. La novità più significativa è costituita dai personaggi femminili. Le donne (la prima parola del poema) acquistano una funzione nuova, non più (o non solo) oggetto del desiderio, concupite e inseguite da paladini e saraceni. La bellissima Angelica, sempre inseguita e sempre in fuga, si serve dell’intelligenza e della seduzione per piegare ai suoi voleri i cavalieri che incontra; e alla fine si innamora di un amore intenso e compassionevole per un umile soldato ferito, Medoro. La maschia Bradamante, vergine guerriera sorella di Rinaldo, batte in duello vari guerrieri maschi (Sacripante, Rodomonte), lasciandoli nella vergogna più nera. Esse sono proiezione delle donne che cominciano a diventare le protagoniste della vita di corte del primo Cinquecento, da Isabella d’Este a Lucrezia Borgia, fino a Vittoria Colonna, elogiata nelle ottave del poema; e anche in questo il Furioso (apparentemente una storia fantastica ambientata in un leggendario Medioevo) rivela i suoi forti legami con la contemporaneità, espressi nei frequenti ‘squarci’ profetici, e nell’allargamento dall’orizzonte ferrarese, cortigiano e nobiliare, a quello italiano ed europeo, borghese e cittadino. Ma lo stesso senso della contemporaneità, nel difficile periodo della crisi della civiltà delle corti (1518-1527: la fine del papato di Leone X, la riforma di Lutero, la battaglia di Pavia, il Sacco di Roma), ispirò anche la composizione dei cosiddetti Cinque Canti, che poi restarono al di fuori del poema: una lunga digressione che doveva ritardare il lieto fine del matrimonio tra Ruggiero e Bradamante con una trama di sospetti e inganni orditi dal traditore Gano di Maganza (assente nel Furioso). Uno scenario cupo, simile a quello della Mandragola di Machiavelli o delle tragedie di Seneca, animato

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da potenze oscure e infernali, e in fondo estraneo alla solarità del Furioso. Solarità cui concorre l’eccezionale lavoro stilistico per mezzo del quale l’Ariosto, nel corso delle tre diverse redazioni, cerca di affinare la propria lingua poetica, eliminando elementi troppo marcatamente settentrionali o dialettali, e raggiungendo un equilibrio di componenti diverse, anche latine e umanistiche, in un impianto generale ispirato ai modelli toscani, Petrarca e anche Dante. E il Petrarca lirico è anche spesso il modello metrico negli endecasillabi dell’ottava, il metro della tradizione canterina che nel Furioso diventa una forma nuova, non più un modulo meccanicamente ripetitivo, ma calibrato sul perfetto equilibrio di parole e ritmi (sarà infatti definito ‘ottava d’oro’). Il senso della ‘misura’ (perduto dai paladini, e dai contemporanei dell’Ariosto) appare allora pienamente recuperato nella globalità del Furioso, nella dialettica fra microstrutture e macrostruttura, nel delicato bilanciamento di opposti sul cui filo si regge (come un equilibrista) l’ultimo capolavoro del Rinascimento. Il poema inizia nel punto in cui si era interrotto quello del Boiardo: a Parigi re Carlo è assediato dai Mori di Agramante e Marsilio. La bellissima Angelica fugge dal campo cristiano, Rinaldo la insegue in una selva dove si scontra col saraceno spagnolo Ferraù, poi fa tregua e cavalca insieme a lui (“Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!”). Un altro spasimante di Angelica, il circasso Sacripante, fa la pessima figura d’essere disarcionato da una donna, la guerriera Bradamante, sorella di Rinaldo (I), poi duella con lo stesso Rinaldo; e Angelica continua sempre a fuggire. Mentre Rinaldo è inviato in Bretagna da Carlo, Bradamante è fatta precipitare dal traditore maganzese Pinabello in una grotta (II), che non è altro che la grotta magica di Merlino, in cui dallo spirito del mago e dalla buona fata Melissa la donna apprende la profezia del glorioso futuro della stirpe estense che nascerà da lei e dal suo innamorato, il pagano Ruggiero (III). Ruggiero, tenuto prigioniero dal mago Atlante in un castello sui Pirenei, è allora liberato da Bradamante, grazie al potere di un anello magico che, rubato al ladro saraceno Brunello, le consente di battere Atlante. Il mago, senza le sue arti magiche e senza il destriero alato Ippogrifo, le sembra un innocuo vecchierello, e la guerriera allora lo risparmia: ma l’Ippogrifo le rapisce di nuovo Ruggiero (IV). Mentre Rinaldo, in Scozia, difende da false calunnie Ginevra sorella del paladino Zerbino (V), Ruggiero finisce in India nell’isola incantata della maga Alcina, che avviluppa i suoi amanti in dolci piaceri erotici, e poi li trasforma in piante o animali, come rivela una pianta parlante di mirto, che si rivela essere il paladino inglese Astolfo (VI). Ruggiero amoreggia con Alcina, finché non giunge Melissa a salvare lui e gli altri cavalieri, e a svelare che in realtà Alcina, senza l’illusione della magia, è una vecchia bruttissima (VII). E Angelica? Fuggendo fuggendo, viene insidiata da un lascivo ma inconcludente eremita, e rapita da un popolo crudele, che l’incatena nuda all’isola di Ebuda, per farla divorare dall’Orca. Entra finalmente in scena Orlando, che sogna la



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sua amata in terribile pericolo, e parte subito da Parigi al suo soccorso (VIII), non senza prestare aiuto a donzelle indifese lungo il cammino, come Olimpia in Olanda (IX). Il caso vuole che Ruggiero, a cavallo d’Ippogrifo, arrivi prima di lui a salvare Angelica (X), che poi sfugge alle sue comiche avances rendendosi invisibile. Orlando, che sopraggiunge e finalmente uccide l’Orca, trova incatenata non Angelica, ma la solita sfortunata Olimpia (XI). Ruggiero resta nuovamente in potere di Atlante, in un castello incantato nel cui labirinto di stanze ognuno vede il fantasma del suo amore e lo insegue invano. Ci finisce anche Orlando, che però ne esce per continuare l’inseguimento della vera Angelica (XII), e per salvare da una grotta la bella saracena Isabella, amante di Zerbino; e cade nell’incantesimo di Atlante anche Bradamante (XIII). Al campo dei Mori arriva il feroce tartaro Mandricardo, e rapisce la bella Doralice donna del fortissimo Rodomonte (XIV), prima impegnato nel sanguinoso assedio di Parigi, dove per fortuna torna Rinaldo con i rinforzi inglesi (XVI), e poi furibondo per l’offesa patita da Mandricardo. Nella notte dopo la battaglia, due fanti saraceni, esempio di perfetta amicizia, Cloridano e Medoro, decidono di effettuare una sortita per dare sepoltura al corpo del loro re Dardinello (XVIII), ma sono scoperti dai Cristiani: Cloridano è ucciso, e Medoro gravemente ferito. Lo trova nella capanna di un pastore la bella Angelica, e, sorprendentemente, se ne innamora, e se lo porta in Catai (XIX). Con perfetto parallelismo si dipanano le avventure straordinarie di Astolfo in Oriente, con la cattura del gigante Caligorante e l’uccisione del mostro Orrilo (XV), e di altri paladini come Grifone e Aquilante figli di Oliviero, e Sansonetto (XVII), e soprattutto della valorosa guerriera pagana Marfisa (XVIII). La loro nave approda nella città delle ‘femmine omicide’ (XIX), dove Marfisa duella con Guidon Selvaggio, e da cui riescono a fuggire in Francia (XX). Dopo qualche avventura di Zerbino (XXI), Astolfo arriva finalmente al castello di Atlante, ne libera tutti, e tiene per sé l’Ippogrifo; finalmente Ruggiero e Bradamante potrebbero restare insieme, ma sono subito divisi dalla sorte; e Bradamante ha la possibilità di uccidere il perfido Pinabello (XXII). La svolta della storia avviene nel momento in cui Orlando trova nel bosco i segni dell’amore tra Angelica e Medoro, e diventa ‘furioso’, cioè completamente pazzo, spogliandosi nudo e abbandonando le sue armi (XXIII). Ne approfitta Mandricardo, che gli ruba la spada Durindana, uccide il povero Zerbino, e duella col geloso Rodomonte, finché non li ferma Doralice (XXIV), mentre si svolgono altre avventure di Ruggiero (XXV-XXVI). Ormai a Parigi stanno per vincere i Mori, ma per fortuna la Discordia ne allontana Rodomonte (XXVII), che in Provenza ascolta da un oste una pepata novella misogina (Astolfo e Iocondo che si godono insieme una Fiammetta), e poi incontra la sventurata Isabella, in lutto per Zerbino. Rodomonte se ne innamora (XXVIII), ma la donna, per non cedergli, si fa uccidere; allora il pagano resta a guardia del suo sepolcro e imprigiona chiunque passi sul ponte d’accesso. Solo un pazzo potrebbe sfidarlo: e infatti sopraggiunge proprio Orlando, nudo e furibondo, e i due, lottando insieme, cascano nel fiume (XXIX). Orlando poi ne combina molte altre delle sue, passando a nuoto lo stretto di Gibilterra, mentre Ruggiero uccide il catti-

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vo Mandricardo (XXX). A Parigi i Mori, senza Rodomonte, sono ricacciati in Provenza da Rinaldo (XXXI), e la sorella Bradamante diventa anche lei ‘furiosa’ per gelosia, alla notizia che Ruggiero si sposa con Marfisa; dopo insani propositi di suicidio, giunge nel castello di Tristano (XXXII), nella cui sala dipinta vede rappresentate tutte le guerre future, fino al tempo di Ariosto. Continuano intanto le mirabolanti avventure di Astolfo sull’Ippogrifo, che in Etiopia sconfigge le Arpie (XXXIII), scende all’Inferno, sale al Paradiso Terrestre: vi incontra san Giovanni, che lo accompagna sulla Luna, dove si può ritrovare ciò che si perde sulla Terra; e infatti vi trova l’ampolla con il senno di Orlando (XXXIV). Dopo aver devastato i regni dei Mori in Africa (XXXVIII), trova finalmente Orlando, e aprendo l’ampolla gli ridona il senno, e lo guarisce (XXXIX). Nel frattempo, Bradamante, sempre più ‘furiosa’, batte diversi cavalieri, tra cui Rodomonte (XXXV) e Marfisa, e sta per prendersela con l’innocente Ruggiero, quando lo spirito di Atlante rivela che in realtà Marfisa è sorella di Ruggiero (XXXVI); riappacificati, ripartono tutti e tre insieme verso Arles in Provenza (XXXVII). Ruggiero, per tenere fede al suo re, va al campo di Agramante, mentre Marfisa va al campo cristiano e viene battezzata. Si decide che la guerra sia conclusa dal duello di Ruggiero e Rinaldo (XXXVIII), ma durante il duello Agramante rompe i patti e provoca un finimondo (XXXIX), nel quale i Mori hanno la peggio, e ripiegano in Africa, fino all’estremo ridotto dell’isola di Lipadusa (XL). Grande duello finale, tra i mori Agramante, Gradasso e Sobrino, e i cristiani Orlando, Brandimarte e Oliviero (XLI): Gradasso uccide il povero Brandimarte, ma viene a sua volta ucciso, con Agramante, dalla furia di Orlando, mentre Oliviero e Sobrino restano gravemente feriti. La terribile guerra, iniziata con l’invasione della Francia, è finita. E finisce anche l’ossessione amorosa per Angelica da parte di Rinaldo, che ne viene liberato bevendo alla fontana del Disamore (XLII). Resta solo una storia da chiudere, quella di Bradamante e Ruggiero. I paladini seppelliscono ad Agrigento Brandimarte, pianto dall’inconsolabile Fiordiligi, e trovano presso un eremita Ruggiero, che intanto si è convertito alla fede cristiana (XLIII). Ultimo ostacolo al suo amore: i genitori di Bradamante, Amone e Beatrice, la promettono sposa al principe bizantino Leone. Ruggiero vorrebbe sfidarlo a duello mortale, ma invece i due diventano amicissimi (XLIV). Leone rinuncia alla donna per l’amico (XLV), e quando ormai a Parigi si festeggiano le nozze tra Ruggiero e Bradamante, ricompare il solito cattivone, Rodomonte, che viene ucciso in un duello finale da Ruggiero (XLVI).

8.3. Il teatro Il teatro, come abbiamo visto, era una delle componenti fondamentali della vita di corte a Ferrara, e il giovane Ludovico vi fu coinvolto già quasi a vent’anni, partecipando ad una delle ‘compagnie’ che mettevano in scena le prime rappresentazioni ferraresi. Lavorò allora sicuramente su testi di Plauto e Terenzio, preparando delle traduzioni destinate alla recitazione (e oggi



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perdute), ma anche scrivendo un’originale Tragedia di Tisbe (1493, anch’essa perduta). A un’occasione scherzosa del carnevale doveva essere destinato l’Erbolato, una prosa di medicina popolare recitata da un finto ciarlatano. E finalmente, nel carnevale del 1508, l’Ariosto mise personalmente in scena una sua commedia, la Cassaria, con una scenografia dipinta di Pellegrino Prisciani che rappresentava la prospettiva di una città del Rinascimento, con le sue vie e i suoi palazzi: un fondale in cui non era difficile, per il pubblico ferrarese, vedere il rispecchiamento della propria città. Quella commedia (solita storia plautina di amori contrastati, intorno a una ‘cassa’ che custodisce il denaro utile al riscatto di due belle schiave) si distingue subito per la novità del linguaggio: non più in poesia (come nella commedia latina, e anche nell’Orfeo di Poliziano) ma in prosa volgare e moderna, resa ancora più vivace dal colorito ferrarese e da frequenti giochi di parole. Carnevale del 1509: Ariosto replica il successo dell’anno prima con i Suppositi, che significa letteralmente gli ‘scambiati’, commedia degli errori e degli inganni, degli scambi di persona, ambientata stavolta esplicitamente a Ferrara, e sempre in prosa volgare. Per molti anni però gli incarichi al servizio del cardinal Ippolito gli impediranno di coltivare questa vera e propria passione per il teatro, che aveva necessità di tempo ed energia, per il coordinamento della ‘compagnia’, degli attori, degli scenografi, dei costumi. Le commedie ariostesche godevano intanto di meritata fortuna, e gli stessi Suppositi ebbero la gloria di essere rappresentati a Roma nel 1519, con la straordinaria scenografia architettonica di Raffaello, che proprio allora si occupava con Castiglione del recupero antiquario della Roma antica. Il ritorno al teatro avverrà solo negli ultimi anni, quando Ariosto si occuperà di nuovo del teatro di corte, dirigendo anche una compagnia inviata dal Ruzzante. La grande novità, e la grande sfida, sarà ora di scrivere teatro in versi, ma tali da sembrare lingua viva, seppur nobilitata ad un livello letterario. È quello che avviene con la Lena (1528, ma già iniziata nel 1509) e il Negromante (1528, ma già inviata al papa nel 1520), che presentano pezzi di grande profondità psicologica nei monologhi di personaggi come la disincantata ruffiana-prostituta di mezza età (sulla scena cittadina di Ferrara) o lo stregone imbroglione (a Cremona). Oltre a un’ultima commedia incompiuta, gli Studenti (ambientata all’università di Pavia), l’Ariosto riscrive in versi anche le sue prime due commedie, Cassaria e Suppositi (1531). Versi strani e difficili, quelli delle commedie dell’Ariosto: gli endecasillabi sdruccioli sciolti (simili al ritmo del senario giambico, verso dominante nella commedia latina antica), che però vengono trattati con grande perizia, con un ritmo quasi naturale nel parlato e nei dialoghi tra i personaggi, che talvolta rende riconoscibile la struttura in versi solo nella pagina scritta.

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8.4. Le Satire La ‘satira’, nella letteratura latina antica, era un genere letterario dedicato alla critica morale di costumi e atteggiamenti della società contemporanea (Persio e Giovenale), e poi, nella originale declinazione di Orazio, alla riflessione personale su temi morali, esposta nella forma media e colloquiale di un’epistola. A questo genere, rinato nella letteratura umanistica, guarda l’Ariosto nel momento di maggiore svolta della sua vita, il distacco dal servizio cortigiano e dal cardinal Ippolito. Gli serve un mezzo di espressione nuovo, con cui comunicare il proprio disagio esistenziale, ma anche la difficoltà e il coraggio di certe scelte. Nascono così le Satire, in terzine, il metro delle egloghe, dei capitoli e delle epistole poetiche: e infatti si tratta di vere e proprie epistole, legate al genere epistolare classico e umanistico, una sorta di piccolo libro di Familiari (sul modello petrarchesco), i cui destinatari sono tutti parenti (i fratelli Alessandro e Galasso e il cugino Annibale) o amici stretti (Pietro Bembo). Si forma un genere praticamente nuovo nella letteratura italiana, segnato dalla cifra dell’ironia e della comicità garbata, in cui la struttura epistolare si apre a digressioni anche di tipo narrativo-favolistico: forse uno degli elementi più belli delle Satire (come l’apologo dell’asino che deve vomitare ciò che ha mangiato per recuperare la libertà, nella I Satira), collegati al modello oraziano, ma anche alla tradizione delle favole antiche e umanistiche. Apre la serie la I Satira (1517), sulla rottura col cardinale che voleva portarlo in Ungheria; e vi si lega strettamente la II Satira sulla corte romana e sul rifiuto della carriera ecclesiastica. Identico atteggiamento critico è espresso nei confronti della vita cortigiana nella III Satira (1518), mentre varie considerazioni sul matrimonio (con spunti anche violentemente misogini) sono riportate nella V Satira (1519). Tutti gli altri testi sono databili al periodo trascorso in Garfagnana (1523-1525), e la IV Satira fa riferimento esplicito ai problemi a cui è esposto il poeta-commissario in quelle terre turbolente, preso dalla nostalgia dell’amata Alessandra. La VI Satira, al Bembo, con la richiesta di un precettore per il figlio Virginio, è in realtà il pretesto per un piccolo testo pedagogico, in cui emerge il valore civilizzatore della poesia e delle lettere. Infine, la VII Satira racconta del rifiuto della nomina ad ambasciatore al papa. Le Satire dell’Ariosto sono il documento più vivo della crisi del ‘cortigiano’ negli anni Venti del Cinquecento. Il primo livello di comunicazione avviene in un ‘piccolo mondo’ familiare, più ristretto di quello della corte, e poi si allarga ad un pubblico potenzialmente più vasto, col quale condividere valori che cominciano a non essere più quelli del ‘cortigiano’. Il tema principale è infatti un tema morale di altissimo valore, presente in



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Orazio (maestro del ‘giusto mezzo’) ma soprattutto nelle opere filosofiche di Seneca, e in Petrarca: il tema del ‘rifiuto’, della rinuncia all’eccessivo coinvolgimento nella vita di corte, agli onori e alle ricchezze del mondo, in nome di un superiore principio di libertà di ricerca intellettuale. L’otium letterario e poetico non è isolamento egoistico, ma ricerca dell’humanitas, in un mondo che sembra aver dimenticato gli ideali dell’umanesimo. Ed echi di grandi dibattiti (e ‘generi’) umanistici appaiono continuamente nelle satire, piccoli trattati dalla forma colloquiale e leggera sui temi, ad esempio, de educatione (‘dell’educazione’) e de re uxoria (‘del matrimonio’). Quel che può allora apparire come un ripiegamento verso il privato, verso il ‘particulare’, nel momento più acuto di crisi del Rinascimento, è invece una profonda meditazione sui rapporti tra intellettuale e potere.

Bibliografia Edizioni complessive: Opere minori, a c. di C. Segre, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954. Monografia: G. Sangirardi, Ariosto, Firenze, Le Monnier, 2006; G. Ferroni, Ariosto, Roma, Salerno, 2008; S. Jossa, Ariosto, Bologna, Il Mulino, 2009. 8.1. La vita. M. Catalano, Vita di Ludovico Ariosto ricostruita su nuovi documenti, Ginevra, Olschki, 1930-1931. 8.2. Orlando Furioso. Ed. crit. a c. di S. Debenedetti e C. Segre, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1960 Altre edizioni notevoli: a c. di L. Caretti, Milano, Mondadori, 1954; a c. di C. Segre, Milano, Mondadori, 1976; a c. di E. Bigi, Milano, Rusconi, 1982. V. anche Cinque canti, a c. di L. Firpo, Torino, UTET, 1964. Studi: P. Rajna, Le fonti dell’Orlando furioso (1876), Firenze, Sansoni, 1900; B. Croce, Ariosto, Bari, Laterza, 1919; A. Momigliano, Saggio sull’ “Orlando Furioso”, Bari, Laterza, 1932; W. Binni, Metodo e poesia di Ludovico Ariosto (1947), Firenze, La Nuova Italia, 1996; C. Segre, Esperienze ariostesche, Pisa, Nistri-Lischi, 1966; N. Borsellino, Lettura dell’ “Orlando Furioso”, Roma, Bulzoni, 1972; L. Caretti, Ariosto e Tasso (1961), Torino, Einaudi, 1977; D. Delcorno Branca, L’Orlando furioso e il romanzo cavalleresco medievale, Firenze, Olschki, 1973; E. Saccone, Il “soggetto” del Furioso e altri studi tra Quattro e Cinquecento, Napoli, Liguori, 1974; G. Savarese, Il Furioso e la cultura del Rinascimento, Roma, Bulzoni, 1984; A. Gareffi, Figure dell’immaginario nell’Orlando

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furioso, Roma, Bulzoni, 1984; G. Dalla Palma, Le strutture narrative dell’Orlando furioso, Firenze, Olschki, 1984; M. Santoro, Ariosto e il Rinascimento, Napoli, Liguori, 1987; M.C. Cabani, Tra omaggio e parodia. Petrarca e petrarchismo nel Furioso, Pisa, Nistri-Lischi, 1990; S. Zatti, Il Furioso tra epos e romanzo, Lucca, Pacini Fazzi, 1990; W. Moretti, Ariosto narratore e la sua scuola, Bologna, Pàtron, 1993; G. Sangirardi, Boiardismo ariostesco. Presenza e trattamento dell’Orlando innamorato nel Furioso, Lucca, Pacini Fazzi, 1994; C. Bologna, La macchina del “Furioso”. Lettura dell’ “Orlando” e delle “Satire”, Torino, Einaudi, 1998; D. Javitch, Ariosto classico. La canonizzazione dell’Orlando furioso, Milano, Bruno Mondadori, 1999; M. Praloran, Tempo e azione nell’“Orlando furioso”, Firenze, Olschki, 1999; A. Casadei, Il percorso del “Furioso”, Bologna, Il Mulino, 2001. 8.3. Il teatro. Testi: Commedie, a c. di A. Casella, G. Ronchi e A. Stella, Milano, Mondadori, 1984; a c. di A. Gareffi, Torino, UTET, 2007. Cfr. G. Coluccia, L’ esperienza teatrale di Ludovico Ariosto, Lecce, Manni, 2001. 8.4. Le Satire. Testi: Satire, a c. di C. Segre, Torino, Einaudi, 1987; a c. di A. D’Orto, Parma, Guanda, 2002. Cfr. P. Floriani, Il modello ariostesco. La satira classicistica nel Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1988; Fra satire e rime ariostesche, a c. di C. Berra, Milano, Cisalpino, 2000.

Parte III L’età moderna

1. Il Cinquecento

1.1. Un secolo difficile Nel 1525 la battaglia di Pavia sembra risolvere la contesa tra la Francia di Francesco I e l’Impero di Carlo V d’Asburgo a favore di quest’ultimo. Le ultime velleità di politica autonoma del papato sono stroncate col Sacco di Roma, nel 1527, ad opera di truppe imperiali in cui è preponderante la presenza di milizie luterane tedesche: le fiamme che avvolgono i palazzi romani, mentre papa Clemente VII si rifugia in Castel Sant’Angelo, sono il segno tangibile della crisi del Rinascimento italiano. Tre anni più tardi, nel convegno di Bologna (1530), sarà lo stesso pontefice a consacrare imperatore Carlo V, riconoscendo un predominio spagnolo che, confermato dalla pace di Cateau Cambrésis (1559), sarebbe durato quasi due secoli. Sono governati direttamente dalla Spagna, per mezzo di viceré e governatori, i territori più ricchi e strategicamente rilevanti della penisola, Milano, Napoli, la Sicilia e la Sardegna, che acquistano un ruolo importante nella politica mediterranea della Spagna e nello scontro con l’impero Ottomano, la cui espansione viene fermata con la battaglia di Lepanto (1571). In realtà, l’asse politico ed economico dell’Europa non gravita più intorno al Mediterraneo o all’Italia, ma si è spostato verso Occidente, con la scoperta dell’America e la corsa delle potenze europee (all’inizio Spagna e Portogallo, e poi Francia, Paesi Bassi, Inghilterra) a conquistare il Nuovo Mondo, e a stabilire relazioni commerciali dirette con le Indie e l’Oriente, per via marittima, saltando le vie tradizionali del Mediterraneo orientale e delle carovane del Medio Oriente. L’afflusso di nuove merci e di ingenti quantitativi di metalli preziosi porta ad una inarrestabile rivoluzione dei prezzi, che mette in ginocchio la rete dei mercanti e banchieri italiani, prima egemoni in Europa. Per Venezia (che è riuscita a restare indipendente) è l’inizio di una lunga decadenza, che coinvolge comunque l’intero sistema produttivo

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e commerciale italiano, marginalizzato rispetto all’Europa, ripiegato sulla proprietà fondiaria e su forme di immobilismo sociale. Eppure, proprio il Cinquecento è il secolo in cui gli ideali e le forme del Rinascimento passano dall’Italia all’Europa, in un veloce e straordinario momento di trasformazione che vede, ad esempio, la fine dell’architettura gotica e l’avvento del classicismo, da un’estremità all’altra del continente, dalla penisola iberica alla Polonia e perfino alla Russia, grazie all’emigrazione di artisti italiani, richiamati dalle corti straniere. Alla diffusione di uomini e di libri nel periodo dell’umanesimo, favorita dall’invenzione della stampa e dalla rete di relazioni internazionali di editori come Aldo Manuzio, succede ora la formazione di scuole umanistiche, che raccolgono l’ideale di humanitas fondato sullo studio degli antichi, e lo coniugano con le nuove istanze politiche e religiose della società europea, spesso in polemica con gli ultimi umanisti italiani, visti come attardati esponenti di un classicismo ciceroniano basato sulla sterile imitazione. Tale era, ad esempio, la posizione di Erasmo da Rotterdam, che fu tra i principali difensori della libertà di ricerca intellettuale, in un tempo in cui gli spazi di libertà andavano sempre più restringendosi, nello scontro delle opposte ideologie. La posizione di Erasmo univa una formazione iniziale di intensa cultura spirituale (legata alla tradizione nordica della Devotio Moderna, una forma di religiosità interiorizzata e individuale) alla conoscenza approfondita della cultura classica e dell’umanesimo italiano (in particolare Valla). Tra le sue opere più importanti si ricordano l’Encomio della Follia e gli Adagia, e il dialogo Ciceroniano, che critica ferocemente il ciceronianesimo italiano ridotto ad una sterile imitazione formale. In rapporto anche d’amicizia con Erasmo fu l’inglese Tommaso Moro, grande figura di uomo politico al servizio di Enrico VIII, autore di un testo celebre, Utopia, in cui si descrive un paese fantastico (in greco, appunto, u-topia, ‘non-luogo’, ‘luogo che non c’è’), i cui abitanti sono riusciti a regolare la propria vita, e l’intero sistema di rapporti sociali, politici, economici, in modo armonioso ed equilibrato, eliminando guerre e contese, realizzando il regno dell’amore e della fratellanza. Esattamente il contrario di quel che avveniva ai tempi del Moro (che finì giustiziato per l’ irriducibile rifiuto di accettare il divorzio del suo re), e in generale nella storia dell’umanità. Nonostante l’ideale di unità tra gli uomini nel segno della ragione, il Cinquecento fu soprattutto un secolo di divisioni, di lotte feroci, di guerre sanguinose, rese ancora più terribili dalle recenti invenzioni delle armi da fuoco (che rendevano tristemente ‘fuori



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moda’ gli ideali militari della cavalleria). Gran parte delle guerre fu giustificata dall’etichetta della ‘guerra di religione’, ideologicamente promossa come ‘guerra giusta’, contro un nemico che andava non sottomesso ma sterminato, da parte di chi si riteneva detentore della ‘verità assoluta’. La divisione principale, destinata a segnare i secoli successivi della storia europea, fu quella originata dalla ribellione di un monaco agostiniano tedesco, Martin Lutero, nei confronti della decadenza morale e della corruzione evidenti nella corte pontificia romana, e nella Chiesa tedesca del primo Cinquecento. Lutero, che propose la Riforma della Chiesa e il suo ritorno agli originari precetti evangelici, non fu un ‘profeta disarmato’ (come disse Machiavelli di Savonarola), ma la sua protesta fu appoggiata dal desiderio di maggiore indipendenza dei principi tedeschi nei confronti dello strapotere dell’Impero. La Chiesa Cattolica all’inizio non seppe comprendere il reale bisogno di rinnovamento e si limitò a scomunicare il monaco ribelle, poi, di fronte all’ingigantirsi della ‘protesta’ (da cui il termine ‘Protestanti’, adottato per i cristiani che si staccarono dall’obbedienza al papa), dovette correre ai ripari, con un vasto movimento di restaurazione dell’ordine, che è stato definito dagli storici Controriforma, o Riforma cattolica, a seconda che se ne vogliano cogliere gli aspetti repressivi nei confronti delle devianze dall’ortodossia, o quelli propositivi di cambiamenti nella vita della Chiesa, di moralizzazione dei costumi e di riforma della liturgia. Il momento più intenso di confronto fu il Concilio di Trento, indetto da papa Paolo III Farnese nel 1545, e concluso da papa Paolo IV Carafa nel 1563, concilio in cui furono dettate le regole di riorganizzazione della Chiesa Cattolica nell’età moderna, con attenzione particolare al rapporto di vescovi e sacerdoti con i fedeli, e alle forme della comunicazione, anche artistica. Come era avvenuto alcuni secoli prima con la fondazione degli Ordini Mendicanti, anche ora la Chiesa poté contare sull’aiuto di nuovi ordini religiosi che si impegnarono a fondo nella battaglia culturale e religiosa: i Teatini, i Barnabiti, e in primo luogo i Gesuiti, o Compagnia di Gesù, fondata nel 1534 dallo spagnolo Ignazio di Loyola. Organizzati quasi in forma militare, i Gesuiti si concentrarono sul problema dell’educazione delle classi dirigenti, raccogliendo l’eredità della scuola umanistica (dallo studio delle letterature classiche alle esercitazioni retoriche e stilistiche, in un curricolo di studi chiamato Ratio Studiorum), e ponendola al servizio della militanza religiosa. Per due secoli essi furono l’arma più potente al servizio della Chiesa Cattolica, incaricati di delicati rapporti diplomatici in tutta Europa, formatori ed educatori delle classi nobiliari e borghesi, zelanti missionari alle frontiere del mondo, per diffondere la fede cattolica: e dall’istituto allora fondato a Roma, De propaganda Fide (‘istituto per la diffusione della Fede’), nacque

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la parola moderna ‘propaganda’, con valore semantico talvolta negativo. In realtà, proprio in Oriente i Gesuiti scrissero le pagine più belle della loro storia, nell’incontro di civiltà lontane, dall’India alla Cina e al Giappone, nei cui confronti seppero, ad un certo punto, deporre l’urgenza evangelizzatrice e la pretesa di superiorità ‘occidentale’, per cercare di comprendere veramente l’umanità degli ‘altri’, come fece padre Matteo Ricci, che alla corte imperiale di Pechino giunse addirittura alla conoscenza della lingua cinese, e alla composizione di opere letterarie e filosofiche in cinese. Le ombre della Controriforma furono evidenti soprattutto nella politica di repressione a cui fu sottoposta la metà dell’Europa che restava fedele alla Chiesa Cattolica, con l’abolizione della libertà di pensiero, la persecuzione non solo degli aderenti alle chiese ‘protestanti’, ma anche di liberi intellettuali, e addirittura di scienziati e filosofi che osavano contraddire opinioni filosofiche o scientifiche approvate dalla Chiesa, anche se del tutto irrilevanti nei confronti dei dogmi religiosi: come ad esempio la disputa sul sistema cosmologico, che vedeva contrapposte le teorie del geografo antico Tolomeo (la terra è immobile al centro dell’universo) a quelle dell’astronomo umanista polacco Niccolò Copernico (la terra gira, con gli altri pianeti, intorno al sole). Fu rafforzato il tribunale dell’Inquisizione, e istituito un organismo apposito, il Sant’Uffizio, per individuare e reprimere i casi sospetti di eresia e di allontanamento dall’ortodossia cattolica; di più, nei territori soggetti alla dominazione spagnola, l’attività inquisitoria si svolse nelle forme terribili dell’Inquisizione spagnola. Molte di queste battaglie furono combattute con uno degli strumenti principali di comunicazione, che era ormai diventato il libro a stampa, disponibile a costi accessibili a strati sempre più larghi di popolazione: la Chiesa adottò allora un sistema capillare di controllo della produzione e della diffusione libraria, sancito dalla pubblicazione dell’Index librorum prohibitorum (‘indice dei libri proibiti’)(1559), in cui finirono anche molti testi della letteratura italiana, da Dante a Boccaccio e a Machiavelli. Nel giro di appena una generazione, dunque, intellettuali e letterati italiani si trovarono a fronteggiare una drammatica chiusura di orizzonti. Proprio quando lo stile di vita del ‘cortegiano’ assurge a modello e si diffonde in tutta Europa, grazie al trattato del Castiglione, entra in crisi il suo sistema di riferimento, una crisi avvertita già pienamente nelle Satire dell’Ariosto. L’intellettuale cerca disperatamente di ritrovare da un lato spazi di libertà individuale, dall’altro la tranquillità economica e sociale di una sistemazione stabile presso le strutture del potere: due obiettivi che sono quasi sempre disgiunti, mentre diventa più difficile l’impiego presso le corti superstiti (Ferrara, Mantova, Urbino), e la Chiesa, nella sua opera moralizzatrice, non



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può consentire più di stipendiare o concedere lauti benefici economici a letterati che non si assumano l’impegno concreto della vita religiosa e della cura pastorale. L’umanista tende allora a rinchiudersi nel recinto protetto della scuola e dell’università, dove coltiva in modo specialistico la lettura dei classici greci e latini, e lì gradualmente la sua scienza libresca si isterilisce e si estingue. Il ‘cortigiano’ si trasforma in segretario, in esperto fidato di composizione di lettere per conto del principe o dell’autorità ecclesiastica, mettendo la sua retorica e la sua eloquenza al servizio del potere, del quale si fa consigliere e servitore, in cambio di uno stipendio fisso. Figura assolutamente nuova, nella società dell’epoca, è quella di chi inizia a vivere a stretto contatto con il mondo editoriale, che dagli inizi del secolo comincia ad avere i caratteri di organizzazione industriale che avrà nell’età moderna: una vita incerta e irregolare, talvolta pericolosa (non sono infrequenti i casi di scrittori finiti sul patibolo), con un mestiere ancora tutto da inventare, tra il ‘poligrafo’ (autore che passa da un genere all’altro, inseguendo gli umori del pubblico: dalle ‘lettere’ alle ‘rime’, dal ‘trattato’ alla ‘commedia’) e l’editore, tra il curatore editoriale e il correttore di bozze. Anche se non esiste ancora un vero sistema di diritti d’autore, i libri più fortunati possono fruttare buoni compensi da parte degli editori agli autori, e ne possono consacrare la fama presso un pubblico nazionale, se non addirittura europeo. Dopo il periodo avventuroso ed ‘eroico’ degli incunaboli, l’editoria entra ora nella fase di produzione industriale, e di stabilizzazione dei mercati e delle reti di distribuzione, a livello europeo. Dopo l’esperienza fondamentale di Aldo Manuzio, la stampa dei testi in volgare ebbe il suo fulcro soprattutto a Venezia, in particolare con l’editore Gabriele Giolito de’ Ferrari. L’espansione della stampa e l’allargamento del pubblico segna allora il definitivo trionfo del volgare sul latino, ridotto ormai alla produzione di una letteratura raffinatissima ma destinata ad un pubblico di nicchia. Un’ultima sua vana autocelebrazione avvenne a Bologna nel 1529, quando l’umanista Romolo Amaseo pronunciò davanti al papa l’orazione De linguae latinae usu retinendo. A metà del Cinquecento, i luoghi di aggregazione degli intellettuali non sono più la corte, o l’università, ma quelle forme di associazione libera chiamate Accademie, già nate in età umanistica, e ora rifondate nel segno della regola e del rituale, mondi più chiusi che aperti verso l’esterno, in posizione difensiva, che però garantiscono in alcuni casi quello spazio di libera discussione e di confronto che era stato fondamentale nell’età precedente. Le Accademie si diffondono un po’ in tutta Italia, con statuti diversissimi tra loro, e finalità anche molto lontane, dalla promozione dell’attività teatrale al dibattito filosofico e scientifico: tra le più importanti, quella degli Infiam-

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mati a Padova dal 1540, molto attiva su tematiche poetiche e retoriche; e a Firenze quella degli Umidi, chiusa e sostituita dall’Accademia Fiorentina; e alla fine del secolo, specializzata su questioni linguistiche e sulla difesa della purità del fiorentino letterario, l’Accademia della Crusca. Sullo sfondo dell’incertezza e dell’inquietudine politica e religiosa, la cultura, la letteratura, la lingua tentano di ritrovare regole stabili su cui fondare le proprie istituzioni, e lo fanno con un’ampia produzione di trattati, poetiche, testi teorici, grammatiche, vocabolari, enciclopedie, prontuari, formulari, mentalità che guida anche la composizione del fondamentale Catechismo Tridentino, che detta le regole della vita spirituale ad ogni fedele, individualmente, distogliendolo da eventuali e pericolose indagini personali sulle Scritture o sulla fede. È una pratica collettiva e inconscia dell’imitazione, diffusa a tutti i livelli, e in tutti gli strati della popolazione, più che una teoria consapevolmente condivisa da qualche umanista. Il fenomeno è ben riconoscibile nelle arti figurative: dopo l’apogeo toccato dalle figure di Leonardo, Raffaello e Michelangelo, gli artisti del Cinquecento si trovano di fronte al difficile dilemma di non sapere più su cosa basare la propria arte, incerti tra l’imitazione diretta della natura (che oltretutto appare essa stessa ‘artificiosa’, creatrice di forme strane e terribili, che contraddicono i canoni di perfezione proporzionale del Rinascimento), l’imitazione degli Antichi (sempre presenti, e anzi ossessivi, dopo il recupero antiquario promosso nella Roma di Bramante e Raffaello), e l’imitazione dei Moderni (che, in modo indubitabile, hanno superato gli Antichi). È l’ultima strada quella che, fondendosi alle altre due, gradualmente si impone, con il nome di Maniera: un vocabolo allora di uso comune, col significato di ‘modo’, ‘comportamento’, e utilizzato dal pittore e storico Giorgio Vasari per indicare quegli artisti che si rifanno coerentemente a una ‘scuola’, a un codice riconoscibile di forme e di colori, a una ‘grammatica’ e ad una ‘poetica’ non individuale ma collettiva, e che appunto dipingono ‘alla maniera di’. Ne sarebbe derivata, nei secoli successivi, la definizione negativa di Manierismo, che, nell’ambito particolare della critica e della storia dell’arte, sarebbe stata applicata in generale allo sviluppo delle arti in Italia intorno alla metà del Cinquecento, e (in tempi più recenti, ma priva di connotazione negativa) anche alla produzione letteraria e poetica.

1.2. Guicciardini Di famiglia aristocratica vicina ai Medici, Francesco Guicciardini (Firenze 1483-Santa Margherita in Montici, Firenze 1540), oltre ad un’iniziale for-



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mazione umanistica con Marcello Virgilio Adriani (figura importante anche per Machiavelli), ha modo di compiere regolari studi universitari di diritto a Firenze, Ferrara e Padova (1498-1505), e di esercitare poi la professione di avvocato. La sua posizione politica è quella delle altre famiglie patrizie fiorentine, ostili alla repubblica del Soderini, e favorevoli al ritorno dei Medici, che avviene nel 1512, mentre Guicciardini sta svolgendo un incarico diplomatico in Spagna (1512-1514). Da quel momento le fortune di Guicciardini saranno sempre legate ai Medici: consigliere di Lorenzo reggitore di Firenze (il dedicatario del De principatibus di Machiavelli), governatore di Modena e Reggio per conto di papa Leone X (1516), presidente di Romagna (1524). Consigliere di papa Clemente VII, ne promuove l’adesione alla lega di Cognac, ma, in qualità di luogotenente generale delle truppe pontificie, assiste impotente alla catastrofe della sua politica, col Sacco di Roma e la ribellione di Firenze che torna a proclamarsi repubblica popolare (1527). È un momento difficile per Guicciardini, che si ritira in villa, e attende a opere apologetiche (come le orazioni Accusatoria, Consolatoria, Defensoria), e alla rielaborazione delle Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli e dei Ricordi. La restaurazione medicea (1530) lo riporta di nuovo vicino alle stanze del potere, prima con il duca Alessandro (ucciso nel 1537), poi con Cosimo, ma sempre di più in una condizione subalterna, senza reale incidenza sulla politica di accentramento del potere in chiave assolutistica, opposta all’ideale di repubblica oligarchica che era stato del giovane Guicciardini. Quell’ideale, ispirato al modello di Venezia, era stato espresso, ad esempio, nel Dialogo del reggimento di Firenze (ca. 1525), un dialogo ambientato alla fine del Quattrocento, e al quale prendevano parte, tra gli altri, il padre Piero Guicciardini, Pier Capponi, e lo sventurato Bernardo del Nero, fatto decapitare dal Savonarola nel 1497. Il dialogo evidenziava inoltre il rapporto stretto che Guicciardini ebbe sempre con Machiavelli, dal punto di vista sia della conoscenza personale (testimoniata da alcune bellissime lettere), che della lettura e dell’attenta riflessione sugli scritti del ‘segretario’. Riflessione che ne marcava però l’incolmabile distanza, nel superamento definitivo dell’orizzonte umanistico di fiducia nella lezione della storia e degli Antichi che ancora animava Machiavelli. Ritiratosi in villa nel 1527, Guicciardini scrisse infatti le penetranti Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli, che negavano la possibilità di trarre dall’analisi degli eventi storici (e in particolare dalla storia romana, secondo il racconto di Livio, oggetto dell’analisi di Machiavelli) valutazioni applicabili anche a situazioni contemporanee. Ogni evento costituisce un caso a sé stante, sostanzialmente irripetibile. Il medesimo orizzonte è sullo sfondo dei Ricordi, oltre duecento pensieri composti, rielaborati e ordinati in un progetto di ‘libro’ tra il 1512 e il

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1530. La tradizione fiorentina dei ‘libri di ricordi’, destinati primariamente alla circolazione privata entro la cerchia familiare dei destinatari (i figli o gli eredi, a cui lo scrivente cerca di trasmettere la sua esperienza della vita), viene superata dal fatto che si tratta di scrittura privatissima, quasi senza destinatario se non lo stesso autore, che se ne serve come amaro specchio di se stesso e dell’umano. Un intenso esercizio di stile, che tende verso la condensazione del pensiero in periodi brevi e densissimi, indipendenti e autonomi, nella forma dell’aforisma, come lo erano stati molti pensieri di Leonardo, o di grandi autori antichi (Marc’Aurelio). Le idee critiche che affiorano nella lettura dei Discorsi di Machiavelli qui si fanno principi negativi, contro il giudicare “per gli essempli” e l’imitazione degli antichi: “Quanto si ingannono coloro che a ogni parola allegano e Romani!” (Ricordi CX). È una posizione che si colloca consapevolmente al di là della civiltà umanistica, e del classicismo retorico ancora imperante. Non più l’ottimismo della ragione ‘misura di tutte le cose’, ma il pessimismo sulla possibilità di previsione degli eventi. Le variabili che sfuggono alla comprensione umana sono così tante e imponderabili che il caso acquista una dimensione enorme, e si vanificano gli sforzi della virtù per porre riparo al potere della fortuna. Resta allora, in Guicciardini, il principio della discrezione, termine che indica precisamente la capacità di discernimento, di valutazione di ogni situazione per se stessa, nell’insieme delle circostanze che la determinano. Un ‘saper vedere’, che scende in profondità, analizza l’oggetto (la vita degli uomini e il loro agire politico) con l’aiuto di una lente d’ingrandimento, che ingigantisce il dettaglio, il ‘particulare’. È nell’analisi del ‘particulare’ (inteso sia come ‘dettaglio’ di una situazione, che come interesse privato dell’osservatore) che trova allora piena espressione la prudenza (ora preferita alla ‘virtù’ di Machiavelli), capacità di sopravvivere all’imprevedibile mutabilità dei tempi e delle condizioni politiche. Il pessimismo critico nei confronti del reale non impedì però al Guicciardini di cimentarsi nella storiografia, genere importante nella tradizione umanistica e civile fiorentina, fino a Machiavelli. Abbandonata l’esemplarità degli Antichi, prevale il forte interesse per il contemporaneo, nelle giovanili e incompiute Storie fiorentine (1508-1511) dedicate al periodo 1494-1509; e soprattutto nel capolavoro della Storia d’Italia (1537-1540, pubblicata a Firenze nel 1561-64). La Storia si distende in venti libri su appena quarant’anni (1492-1534, dalla morte di Lorenzo il Magnifico a quella di Clemente VII), grandioso affresco della rovina d’Italia raccontata da un testimone diretto che ricerca minuziosamente le cause degli errori degli uomini. Il suo stile, ampio e grave, si eleva al livello di quella tragedia, nella definizione psicologico-morale dei personaggi e degli attori, nell’impostazione retorica dei



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grandi discorsi. Era, in definitiva, la cronaca di un fenomeno epocale, la crisi e la fine del Rinascimento italiano, la cui eredità, però, si diffondeva ormai a tutta l’Europa.

1.3. Dibattiti di lingua e di poetica La scuola umanistica, nel momento della crisi e della metamorfosi, trasmette il suo insegnamento anche alla letteratura in volgare, che fino ad allora si era sviluppata con una certa libertà di sperimentazione linguistica e stilistica. Nasce allora una questione della lingua, da intendere soprattutto come il problema di definire uno strumento di comunicazione in ambito letterario e culturale, condiviso in tutte le regioni della penisola, e quindi compiutamente ‘italiano’, e non più solo ‘toscano’, ‘fiorentino’, ‘napoletano’ o ‘lombardo’. Una lingua letteraria comune, con un suo vocabolario, una sua grammatica, e anche con le sue regole di grafia e interpunzione. Sembrerà strano, ma la richiesta più forte per l’elaborazione di questa lingua ‘media’ non veniva da Firenze, o dalla Toscana, che aveva comunque fornito i modelli linguistici e stilistici di fondo (soprattutto Petrarca e Boccaccio). Le città in cui si era perseguito con maggior insistenza questo obiettivo erano Napoli (con Sannazaro), e Venezia, capitale dell’editoria italiana ed europea, dove l’edizione dei testi letterari in volgare esigeva anche la fissazione di regole grafiche e ortografiche stabili e accettate da un più ampio pubblico di lettori a livello sovraregionale. In area veneta, e in contesto umanistico, nascono quindi i primi tentativi di dare ‘regole’ alla lingua volgare, riprendendo i metodi della filologia umanistica, con Giovan Francesco Fortunio, autore delle Regole grammaticali della volgar lingua (1516). L’articolazione però più coerente fu quella proposta da Pietro Bembo, con le Prose della volgar lingua (1525), che in certo senso ‘fondarono’ la lingua letteraria italiana sulla base della lingua letteraria fiorentina del Trecento, ricostruita nell’imitazione dei grandi modelli toscani del Trecento, soprattutto Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa (assimilati a quel che veniva proposto per la letteratura latina con Virgilio e Cicerone). La soluzione bembiana era destinata a vincere nel tempo perché più rispondente all’orizzonte di attesa di un’epoca di inquietudine (politica, culturale, religiosa) che chiedeva certezze e regole; e anche perché sostanzialmente astorica, astratta, recepibile anche in contesti lontani o radicalmente mutati. All’inizio le si opposero quanti erano ancora legati al mondo cortigiano, in cui si utilizzava una sorta di lingua mista comune, di elevato livello sociale, segno identitario di riconoscimento di quanti vivevano nelle corti italiane del tardo Rinascimento, principi, funzionari, intellettuali, umanisti,

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funzionari e segretari di diversa estrazione regionale. È la cosiddetta lingua cortigiana, difesa nella variante ‘romana’ (la lingua volgare parlata nella corte pontificia) da Mario Equicola, o in quella più ampia ed equilibrata, sovraregionale, adottata da Baldassar Castiglione nel Cortegiano. Un aiuto insperato alla soluzione ‘cortigiana’ sembrò darlo addirittura la voce del ‘padre’ della letteratura volgare, Dante Alighieri (in parte svalutato dal Bembo come modello linguistico e stilistico), grazie alla riscoperta del trattato De vulgari eloquentia, che venne interpretato (non correttamente) come la proposta di un “italiano illustre”, di una “lingua italiana” cioè “cortigiana e commune” basata sui principali dialetti regionali, e non sul solo fiorentino letterario. Fu questa la posizione di Giovan Giorgio Trissino (Vicenza 1478-Roma 1550), esposta nella curiosa Epistola de le lettere nuovamente aggiunte ne la lingua italiana (1524, rivoluzionaria ma fallimentare proposta di inventare nuovi segni grafici, tratti dal greco, per indicare i diversi valori fonetici della lingua italiana), e nel dialogo Il Castellano (1529). Il Trissino ebbe comunque il merito di allargare la sua riflessione dalla lingua al dibattito poetico e sui generi letterari, come dimostrano la sua Poetica (1529), e i generosi tentativi di inaugurare nella letteratura italiana nuovi generi non ancora provati, come il poema epico storico L’Italia liberata dai Goti, in endecasillabi sciolti, sulle antiche vicende della Guerra Gotica del VI secolo, ma con allusione alla realtà contemporanea dell’Italia invasa da Francesi e Spagnoli; e la tragedia Sofonisba (1524), tratta dalla storia d’amore narrata da Petrarca nell’Africa e nei Trionfi e ambientata nella Seconda Guerra Punica, tragedia del conflitto universale fra l’amore e il senso del dovere. Paradossalmente (ma non tanto) i principali avversari di questa nuova lingua ‘italiana’ (sia essa derivata dal fiorentino letterario, sia essa ‘cortigiana’) sono all’inizio proprio i fiorentini, che propugnano la difesa ad oltranza della lingua fiorentina viva, della parlata contemporanea del popolo fiorentino, con tutte le sue caratteristiche fonetiche e grammaticali: posizione assunta da Machiavelli, e ribadita poi da Giambattista Gelli. Quando ormai, dopo gli anni Quaranta, la proposta bembiana prevale su tutte le altre, è possibile arrivare ad una forma più equilibrata, in cui alla ormai riconosciuta imitazione dei modelli letterari si accosta la nuova dimensione moderna del volgare toscano, depurata da ogni eccesso popolare o vernacolare negli importanti Dialoghi (1542, e in particolare nel Dialogo delle lingue) del professore padovano Sperone Speroni (Padova 1500-1588). La sintesi della linea fiorentina e bembiana è attuata nell’Hercolano (ed. 1570) di Benedetto Varchi (Firenze 1503-1565), che torna a dare valore alla lingua d’uso e al fiorentino, osteggiato però ferocemente da Girolamo Muzio nelle Battaglie in



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difesa dell’italica lingua (1582): e si potrebbe dire che la lingua italiana nasca veramente quando le ragioni del Bembo sono fatte proprie anche da Firenze. I tempi sono allora maturi perché, nella seconda metà del Cinquecento, a Firenze, cominci una grande stagione di filologia, per stabilire su solide basi testuali quale sia la tradizione letteraria fiorentina e toscana su cui basare la lingua italiana. La filologia italiana nasce soprattutto nel Cinquecento, con il recupero dei manoscritti della poesia e della prosa delle origini (si pensi alla riscoperta del Libro di novelle e di bel parlar gentile, ribattezzato Le ciento novelle antike e poi Novellino), ma anche di Dante e Petrarca. Uno dei più grandi filologi fu il monaco benedettino Vincenzo Maria Borghini (Firenze 1515-1580), che però, influenzato dai principi di censura morale della Chiesa Cattolica, realizzò un’incredibile edizione del Decameron (1573, la cosiddetta “rassettatura”), in cui il testo risultava molto più corretto, sulla base di autorevoli manoscritti, ma anche ‘purgato’ delle novelle e delle situazioni erotiche più licenziose. Poco dopo la sua morte, ad opera dell’amico Lionardo Salviati (Firenze 1540-1589), venne fondata l’Accademia della Crusca (1583), così chiamata perché finalizzata a separare la ‘farina’ dalla ‘crusca’, cioè la lingua letteraria eccellente (ricavata dai migliori autori toscani “dall’aureo milletrecento fino al millequattrocento”) dai prodotti dialettali, popolari, regionali, contaminati, considerati comunque deteriori. Un grande lavoro di spoglio degli ‘autori’, che approdò alla prima edizione del Vocabolario (1612): fondazione di un canone linguistico e letterario, di una norma sovratemporale destinata a durare nei secoli successivi. La formazione del canone avveniva non solo su basi filologiche, ma anche interpretative. Il Cinquecento vede estendersi la pratica dei commenti, desunta dalla scuola umanistica, e applicata sempre di più ai grandi classici moderni in volgare (seguendo una tradizione comunque già quattrocentesca): in particolare (rispetto a un graduale declino di Dante), Petrarca, fondamentale modello stilistico, oggetto di molteplici commenti, da Alessandro Vellutello (1525) a Bernardino Daniello (1541, sulle fonti classiche), dal meridionale Giovan Andrea Gesualdo (1533, sulla lingua e lo stile) a Ludovico Castelvetro (1576, sulla morale e l’estetica). Su tutto, un’attenzione nuova e vivissima ai problemi della poetica. Innanzitutto sulla questione dell’imitazione, retaggio delle polemiche umanistiche tra Poliziano e Cortesi, e tra Bembo e Gianfrancesco Pico. L’opposizione di fondo è tra classicismo-ciceronianismo da una parte, e difesa della libertà di composizione dall’altra. Ad un certo punto, questa opposizione fu avvertita quasi come uno scontro tra la civiltà umanistica italiana, ancorata ai Classici pagani e alla dottrina dell’imitazione, e l’Europa moderna, nel

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violento dialogo di Erasmo intitolato Ciceroniano, che diede l’avvio ad una lunga serie di scritti sul tema dell’imitazione, fino alla Poetica di Giulio Cesare Scaligero (1561). Un altro tema comune fu quello della definizione del sistema dei generi, radicalmente mutato dopo il Rinascimento, e affrontato nell’Arte poetica di Antonio Minturno. In quest’ambito ad esempio si accende la discussione sul genere romanzesco ed epico-cavalleresco, nella quale si registra l’importante opera critica di Giambattista Giraldi Cinzio (Ferrara 1504-1573, scrittore di teatro e di novelle), Discorso intorno al comporre dei romanzi (1549), decisivo riconoscimento dell’eccellenza dell’Ariosto.

1.4. La poesia Nel Cinquecento cambiano completamente gli orizzonti della produzione e della fruizione della poesia. Non più la circolazione ‘protetta’ della poesia cortigiana, ma l’allargamento del pubblico, favorito dalla diffusione del libro a stampa, ad un mondo di lettori gentiluomini e soprattutto borghesi, da un capo all’altro della penisola. Per la poesia lirica, questo avviene soprattutto grazie alla diffusione del petrarchismo ‘regolare’, iniziato da Cariteo e Sannazaro a Napoli e Ariosto a Ferrara, e canonizzato dal Bembo con le Prose della volgar lingua (1525): e un vero momento di svolta (quasi un anno di nascita del petrarchismo italiano moderno) i contemporanei avvertirono nel 1530, con la pubblicazione simultanea di due importanti raccolte di rime, quelle di Sannazaro e del Bembo. Nell’ambito della dottrina dell’imitazione, i nuovi strumenti dei petrarchisti furono anche i rimari e i vocabolari della lingua poetica, mentre la diffusione dei loro testi veniva assicurata, oltre che dalla pubblicazione di canzonieri individuali, soprattutto dalla compilazione di antologie, di raccolte di rime, curate dagli intelligenti editors veneziani che lavoravano per Giolito (Lodovico Dolce, Girolamo Ruscelli). Un segno importante del fatto che il petrarchismo, più che un fatto individuale (a parte alcune isolate e grandi personalità), è un grande fenomeno collettivo. Un grado particolare di elaborazione formale raggiunse Giovanni Della Casa, l’autore del Galateo, che nelle sue Rime approfondì l’analisi del ritmo interno del verso, e l’uso di figure come l’enjambement (allora detto ‘inarcatura’), che lega un verso all’altro in un’unica onda musicale: in particolare il sonetto appare modellato in una forma nuova, come se fosse un epigramma moderno. Tra petrarchisti come Giovanni Guidiccioni (Lucca 1500-1541) e Bernardo Cappello (Venezia 1498-1565, ortodosso imitatore di Petrarca) si distinse poi Bernardo Tasso (Venezia 1493-Ostiglia 1569), padre di Torquato, di origine bergamasca, che fu anche cortigiano al servizio di



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Ferrante Sanseverino principe di Salerno (tra 1532 e 1554), e che raccolse la sua ampia produzione lirica nelle Rime (1560), esempio di un cammino che va oltre il petrarchismo, nei territori dell’ode e dell’inno. Ne sono prova anche i tentativi tassiani per il rinnovamento dell’epica cavalleresca, con lo smisurato poema Amadigi, in cento canti, ripresa dell’Amadís de Gaula dello spagnolo García Rodríguez de Montalvo, archetipo della tradizione del cavaliere errante che arriverà al Don Chisciotte di Cervantes. Alla lunga presenza di Bernardo Tasso a Napoli e alla tradizione di Sannazaro si lega una sorta di ‘scuola napoletana’ (sancita dall’edizione giolitina curata dal Dolce nel 1552, Rime di diversi illustri signori napoletani ), a cui appartengono Luigi Tansillo (Venosa 1510-Teano 1568), sensibile e vivace cantore anche del mondo georgico e agreste nei poemetti Il Vendemmiatore e Il Podere, e Berardino Rota (Napoli 1509-1575), imitatore di Sannazaro nelle sue Egloghe piscatorie. Isolato invece nella sua condizione di barone calabrese, violento antagonista delle rivendicazioni del suo popolo ma anche ribelle all’autorità spagnola e perciò incarcerato a Napoli, è Galeazzo Di Tarsia (Napoli 1520-1553), che elabora un suo personale e intellettualistico petrarchismo, sintatticamente e linguisticamente difficile, sfogo della propria condizione esistenziale. Un fenomeno nuovo e importante, anch’esso consacrato da un’edizione collettiva (Rime diverse d’alcune nobilissime donne, a cura di Lodovico Domenichi, Lucca 1559), è quello della produzione poetica di donne scrittrici, da interpretare però non come ‘gruppo’ o ‘scuola’, ma come categoria riflessa di un’età che comincia a riconoscere alla donna un valore e un peso crescenti nella società e nella cultura (come avviene già nel Cortegiano). La loro poesia si colloca all’interno di un petrarchismo formalmente ortodosso, ma con l’approfondimento di tematiche che ne individuano (agli occhi dei lettori contemporanei) la categoria ‘femminile’: il senso dell’attesa nei confronti di una realtà ‘altra’ (l’uomo, il marito o l’amante, o il Divino), il rapporto amoroso (naturalmente vissuto dal punto di vista femminile), la consapevolezza della propria non sempre facile condizione umana, e anche economica e sociale (in particolare per quelle scrittrici che esercitavano la professione ‘più antica del mondo’). Una tipologia frequente, dal punto di vista formale, è quella dell’epistola poetica, della poesia che ha bisogno di rivolgersi ad un interlocutore (di solito l’uomo, lontano o assente): l’evidente modello era quello delle Eroidi ovidiane, che Boccaccio aveva per la prima volta ricreato in volgare nell’Elegia di Madonna Fiammetta. All’inizio si tratta di grandi signore feudali, che si sono trovate (per la morte del marito) in una precoce condizione di vedovanza e solitudine, e

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che hanno dovuto amministrare direttamente e con singolare energia i propri beni, come nel caso di Veronica Gambara (Brescia 1485-Correggio 1550), signora di Correggio dopo la morte del marito Gilberto da Correggio (1518); e soprattutto di Vittoria Colonna (Marino 1490-Roma 1547), marchesa di Pescara, vedova del condottiero Francesco Ferdinando d’Avalos e perciò a lungo dimorante in Ischia e a Napoli, nelle dimore degli Avalos, e poi tornata a Roma, a stretto contatto con gli ambienti riformisti italiani (Reginald Pole, Bernardino Ochino, Juan de Valdés). Con Vittoria si assiste al passaggio dalla lirica amorosa cortigiana alla poesia spirituale e platonizzante, sempre nelle forme del petrarchismo, ma con la forte presenza di tematiche tipiche della ‘scrittura femminile’: l’amore e il tempo dell’attesa, declinate, nella poesia religiosa, in una serie di intense riprese dal Cantico dei Cantici, nel rapporto tra la Sposa e il suo Amato. Spicca comunque in Vittoria (cantata anche dai contemporanei come esempio di una virtù più ‘virile’ di quella degli uomini) il senso del superamento delle barriere di genere, ripreso anche nella sua continuatrice Laura Terracina (Napoli ca. 1510-ca. 1577), che, tra sperimentalismo metrico e intenso uso di un linguaggio metaforico, si distinguerà nella scrittura delle proprie rime utilizzando per se stessa il genere maschile. Platonizzanti animatrici di circoli culturali saranno Chiara Matraini (Lucca 1514-ca. 1597), e Laura Battiferri Ammannati (Firenze 1523-1589), eternata in un ritratto del Bronzino col piccolo libro di rime in mano. Ispiratrici di letterati, ed ‘etere’ moderne, saranno anche le grandi cortigiane veneziane, come Gaspara Stampa (Padova 1523-Venezia 1554, una giovane nobile che diventa “cortigiana onesta”, e che racconta nella propria poesia la sua relazione erotica con il conte Collatino di Collalto), e Veronica Franco (Venezia 1546-1591), rinomata prostituta che frequentava il circolo letterario del nobile Domenico Venier. Un caso unico, nella storia delle poetesse del Cinquecento, è infine quello di Isabella di Morra (Valsinni di Matera 1520-1546), sventurata secondogenita del barone di Favale, che fu spietatamente uccisa dai fratelli a causa del suo amore clandestino col nobile spagnolo Diego Sandoval de Castro (ucciso poi anche lui). In una vicenda così crudele (e purtroppo non infrequente, tra Medioevo ed età moderna, espressione di un mondo di violenza e di sopraffazione in cui spesso la donna era vittima innocente), Isabella lascia una testimonianza straordinaria, in appena dieci sonetti e tre canzoni, del suo desiderio di amore e libertà, che, grazie alla poesia, sopravvive all’odio dei suoi carnefici. Un altro caso a parte è dato dalla produzione poetica di uno dei più grandi artisti della storia, Michelangelo Buonarroti (Caprese 1475-Roma 1564), che trovò fin da giovane nella poesia un fondamentale strumento di espressione, autonomo rispetto alle arti figurative. Ma era uno strumento difficile, per chi



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come lui era tormentato da una difficile condizione esistenziale, nel rapporto con gli altri uomini, e con l’arte stessa. C’è sì imitazione delle forme di Petrarca, e anche del visionarismo di Dante, ma secondo un cammino del tutto individuale: è una faticosa conquista, una continua battaglia con le ‘cose’ che si fanno ‘parole’, segni intelligibili, così come la pietra, il blocco di marmo, è con fatica scolpito affinché ne emerga una forma perfetta interiore, un’idea, in senso platonico. Michelangelo tratta quindi di tematiche vicine alla sua vita di artista, come in Non ha l’ottimo artista alcun concetto, o addirittura guardandosi con ironia, al tempo in cui dipingeva gli affreschi della volta nella Cappella Sistina (1512), nell’autocaricatura I’ ho già fatto un gozzo in questo stento; ma è anche pronto a sdegnarsi per la corruzione della Chiesa, e il tradimento degli ideali evangelici da parte del terribile papa guerriero Giulio II in Qua si fa elmi di calici e spade. Per lui (omosessuale, e preso dallo slancio erotico verso il bellissimo giovane patrizio romano Tommaso de’ Cavalieri) fu allora decisivo il nuovo incontro con il ‘femminile’, nella persona di Vittoria Colonna (idealizzata non a caso nel mirabile madrigale Un uomo in una donna, anzi uno idio), con cui attuò, nella maturità, un eccezionale scambio poetico e spirituale, nell’interrogazione di un’oscura Divinità dalla quale l’artista sentiva un angoscioso senso di separazione e dannazione. “Tacete unquanco, pallide viole, / e liquidi cristalli e fiere snelle; / e’ dice cose, e voi dite parole”. Questi versi di elogio della poesia di Michelangelo, e di critica di un petrarchismo di sole ‘parole’, furono scritti da Francesco Berni (Lamporecchio 1497-Firenze 1535), che passò la sua vita al servizio di vari cardinali, soprattutto a Roma dal 1517 in poi, esponente di un antipetrarchismo (celebre il sonetto Chiome d’argento fino, irte e attorte, rovesciamento del canone della bellezza ideale, e parodia del sonetto del Bembo Crin d’oro crespo; o il Dialogo contra i poeti ) che si esprime soprattutto nella forma del capitolo satirico in terzine, nei modi dell’erotismo e dell’oscenità burlesca, che venne appunto in seguito definita ‘bernesca’; ma il Berni, nonostante il suo apparente ribellismo, lavorò comunque all’interno di un sistema culturale che tendeva a rendere omogenee le diversità (suo fu ad esempio il rifacimento toscaneggiante dell’Orlando Innamorato che girerà poi a nome suo, e non del Boiardo), e a non capire alcuni autentici tentativi di rinnovamento morale (come nell’ingeneroso capitolo contro il papa straniero Adriano VII). Altre modalità diverse dalla lirica petrarchesca erano quelle della poesia didascalica, di ispirazione virgiliana, genere che fu percorso con i poemetti Le api di Giovanni di Bernardo Rucellai (1524), La coltivazione di Luigi Alamanni (1530), la Ninfa Tiberina di Francesco Maria Molza (1537), fino al Tansillo.

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Di fronte al trionfo della poesia in volgare, la poesia latina raggiunse nello spazio di una generazione il suo apogeo, e il suo velocissimo tramonto, con i grandi poemi sacri di Sannazaro (De partu Virginis) e Marco Girolamo Vida (Christias, 1527), e il poema scientifico del medico veronese Girolamo Fracastoro (Syphilis sive de morbo gallico, 1530), sull’attualissimo tema dell’origine e della diffusione della terribile epidemia di sifilide che aveva devastato l’Europa dopo la scoperta dell’America. Non mancarono raffinatissimi autori di elegie ed epigrammi, cantori di un eros sensuale, ad imitazione degli antichi (Catullo, Marziale, i lirici greci). Ma la forza espressiva del latino, coniugata felicemente con la lingua viva degli studenti universitari e con i dialetti popolari del Nord, diede origine ad un eccezionale esperimento linguistico, che sorprende per la sua libertà d’invenzione e di risultati, sullo sfondo di questo secolo di ‘regole’. È la cosiddetta poesia maccheronica, chiamata così dal titolo di un poemetto di un certo Tifi Odasi, Macaronea (1490), scritto nel vivace ambiente dell’università di Padova, e i cui personaggi sono ghiotti di un tipo particolare di gnocchi detti ‘macaroni’. La lingua utilizzata non è il latino, ma uno strano linguaggio artificiale, che utilizza su una base grammaticale latina parole volgari o dialettali, e talvolta anche i costrutti sintattici. Ne nasce un irresistibile effetto comico, di parodia della lingua ‘alta’ dei pedanti e dei preti. L’autore più grande fu Girolamo Folengo (Mantova 1491-Bassano 1544), poi monaco benedettino col nome di Teofilo Folengo, e autore maccheronico col nome di Merlin Cocai. Teofilo, oltre a operette minori maccheroniche (Moschaea, poemetto omerico sulla guerra di mosche e formiche; e le egloghe della Zanitonella), latine (Varium poema) e italiane (il curioso Orlandino sull’infanzia del celebre paladino, e lo strano dialogo del Chaos del Triperuno), attese al suo capolavoro, il Baldus, poema eroicomico sulle gesta di Baldo, figlio del paladino Guidone e di Baldovina figlia del re di Francia, ma fatto nascere in realtà nell’oscuro villaggio di Cipada presso Mantova. Prevale quindi lo sfondo contadino, nel contrasto comico fra ideale cavalleresco e banalità quotidiana che sarà poi tipico di Cervantes (ad esempio il fanciullo Baldo legge solo libri di cavalleria, come don Chisciotte, e di tutti gli altri fa scartozzos e ci cuoce le salsiccie). Si susseguono avventure incredibili in mari e paesi esotici, scontri con pirati, epiche abbuffate, e perfino la discesa all’inferno. Più che una compagnia di cavalieri erranti, sembra una banda di ribaldi, come in Pulci e Rabelais (anch’essi cantori del grottesco e dell’immane), con personaggi memorabili come il gigante Fracasso, il diabolico semigigante Cingar, il mezzo uomo Falchetto, che nell’ultima parte (purtroppo incompiuta) finiscono tutti travolti dalla follia nella casa della Fantasia, una zucca vuota (come in certi



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quadri di Hieronymus Bosch) in cui viene punito anche l’autore del poema, e di tutti i suoi vaneggiamenti. Oltre la metà del Cinquecento il petrarchismo sembra ingaggiare una battaglia formale col modello, in una sorta di scrittura di secondo grado, combinatoria e artificiosa, in cui i poeti cercano di esaurire tutte le possibilità espressive all’interno di un codice ristretto e definito; in modo, tutto sommato, non dissimile dall’ardua sperimentazione dei colori e delle forme che, nella stessa epoca, tentano i pittori italiani che si richiamano alla ‘maniera’ dei grandi artisti del primo Cinquecento (Leonardo, Raffaello, e soprattutto Michelangelo), e che vengono perciò detti ‘manieristi’. Il manierismo, in letteratura, porta ad un’estenuazione degli artifici formali, come nell’immenso Nuovo Petrarca (1560) del napoletano Ludovico Paterno (Napoli 1533-ca. 1575). Un esito paradossale è addirittura l’a-petrarchismo, di cui è un esempio significativo Ferrante Carafa marchese di Sanlucido (Napoli 1509-1587), autore dell’Austria (1573) sulla battaglia di Lepanto, vero stravolgimento della forma metrica del sonetto, e della religiosa Carafé (1580). In effetti, tra le forme metriche prevale ora il madrigale, modulato con grande libertà di soluzioni che tendono soprattutto alla fusione di poesia e musica, alla creazione di testi il più possibile aperti ad una eventuale esecuzione musicale di tipo polifonico. Ma emergono anche, nello scenario inquieto dell’Europa della Riforma e della Controriforma, nuove preoccupazioni religiose e morali, e un persistente senso della caducità delle cose, della morte, come nelle poesie di Celio Magno (Venezia 1536-1602), anch’egli, come Veronica Franco, partecipante al circolo del Venier, ma poi piegato sull’espressione di temi funebri e lugubri, di un trionfo del tempo e della morte che prelude a ben altri temi del secolo successivo. Una via personale al superamento del petrarchismo, all’interno del classicismo, seguì infine l’aristocratico ligure Gabriello Chiabrera (Savona 15521638), che si avvalse di un’intensa educazione gesuitica sui classici latini e greci e di un forte rapporto con la cultura francese, dove la scuola umanistica e il classicismo greco avevano favorito la nascita della nuova poesia di Ronsard e della Pléiade. Era una poesia basata sulla rigorosa imitazione dell’antica metrica greca, ad esempio degli inni di Pindaro, con scansione strofica e misure dei versi intentate nella poesia italiana, spesso brevissimi o parisillabi, con sorprendenti rime baciate, e invenzione di nuovi ritmi. Una poesia ‘classicheggiante’ e ‘alla greca’, non classicista o manierista, singolare esperimento che, nella ricerca di un nuovo registro eroico, e talvolta teatrale, avrebbe anch’essa consentito di guardare al futuro, nell’evoluzione delle forme poetiche.

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1.5. La prosa Nelle intenzioni del Bembo la prosa avrebbe dovuto conformarsi al modello di Boccaccio, e in parte egli stesso aveva cercato di seguire quel modello nella scrittura degli Asolani. Per fortuna, l’evoluzione successiva della prosa italiana non seguì quelle indicazioni, ma cercò di attuare un compromesso equilibrato tra periodare boccacciano, influenze latineggianti, e lingua parlata, viva. Un esempio importante è dato, a metà del secolo, da monsignor Giovanni Della Casa (Firenze 1503-Roma 1556), un ecclesiastico che fece prima carriera nella corte di Paolo III Farnese, poi a Venezia come nunzio apostolico, e infine a Roma come segretario di stato di Paolo IV Carafa; personaggio emblematico del suo tempo, che si formò nell’ambiente licenzioso e ancora umanistico della Roma di Clemente VII, mentre alla fine della sua vita mise la sua opera al servizio della Controriforma, contribuendo alla prima stesura dell’Indice dei libri proibiti. Le sue operette latine sono legate a tematiche etico-comportamentali ancora in voga nelle corti contemporanee: l’An uxor sit ducenda (‘se bisogna sposarsi’) è un trattatello misogino in cui si dimostra che per l’intellettuale è meglio non prender moglie, mentre il De officiis inter potentiores et tenuiores amicos affronta il problema dei rapporti tra i signori e i loro subalterni. Più che a questi testi, e alle sue celebrate rime petrarchiste, il Della Casa deve la sua fama all’opuscolo Il Galateo (1553-1555), così chiamato dal nome del dedicatario, Galeazzo Florimonte vescovo di Aquino. Nel testo l’autore si finge un “vecchio idiota” che cerca di educare un giovane ai buoni costumi, e si rivolge in realtà ad un pubblico borghese medio, con un linguaggio di facile comunicazione. Dominante è l’influenza dell’Etica aristotelica, nel senso che la ricerca di un comportamento adeguato ha valore non per se stessa, per un vuoto formalismo, ma perché si tratta di un elemento distintivo del vivere civile, per mezzo del quale l’uomo si rende accetto all’altro uomo, cercando di evitare al suo prossimo ogni occasione di fastidio o dispiacere. L’enorme fortuna dell’opera a livello europeo corrispose quindi al bisogno delle nuove classi dominanti di riconoscersi in un manuale moderno di comportamento, leggibile più agevolmente di un ponderoso trattato filosofico, e riducibile all’occorrenza in una minuta precettistica, da utilizzare nell’educazione domestica dei fanciulli. L’esito estremo, se vogliamo, della parabola della pedagogia umanistica, alle soglie dell’età moderna. Il Galateo costituiva anche un ottimo esempio della nuova prosa italiana. Ne aveva dato già alcune prove un altro religioso toscano gravitante intorno alla corte romana, Agnolo Firenzuola (Firenze 1493-Prato 1543),



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negli incompiuti Ragionamenti d’amore, un prosimetro strutturato come una cornice decameroniana, in giornate; e nella curiosa Prima veste de’ discorsi degli animali (1540), favole moraleggianti del mondo degli animali che addirittura derivavano (tramite un’avventurosa vicenda di traduzioni) dall’antica raccolta indiana del Panciatantra. Sempre a Firenze, ma più vicino alle forme della letteratura popolare, è l’artigiano e calzolaio Giovan Battista Gelli (Firenze 1498-1563), che, familiare del granduca Cosimo, farà addirittura parte dell’Accademia Fiorentina. Gelli è autore dei Capricci del bottaio (finti monologhi moralistici di un bottaio di nome Giusto, controfigura dell’autore), e della Circe (1549), in cui (riprendendo la leggenda narrata nell’Odissea, secondo la quale la maga Circe tramutava gli uomini in animali) si immagina che le bestie di Circe rifiutino di tornare uomini. Il rovesciamento comico (come nell’Elogio della follia di Erasmo) dimostra non l’eccellenza ma la pazzia e la sventura dell’uomo. Per fortuna, alla fine, il solo elefante accetta di tornare ciò che era un tempo, richiamando gli argomenti umanistici (Manetti e Pico) sul primato e sulla dignità dell’essere umano. Chi veramente rinnova l’espressione in prosa, trascorrendo da un genere all’altro, contaminando poesia e teatro, libellistica ed epistolografia, ed esercitando un’influenza profonda sulla cultura contemporanea è Pietro Aretino (Arezzo 1492-Venezia 1556), intellettuale irregolare che, dopo un soggiorno a Roma tra 1517 e 1524, trascorrerà la sua vita soprattutto a Venezia. Venezia era la capitale di quell’editoria dalla quale l’Aretino è il primo intellettuale italiano a trarre regolari mezzi di sostentamento, utilizzando i nuovi strumenti di comunicazione come potente cassa di risonanza delle sue opere, e delle sue prese di posizione, culturali e politiche. Uomo di scandalo fu l’Aretino, fin dai primi licenziosissimi Sonetti lussuriosi (1524), stampati con eloquenti incisioni di Marcantonio Raimondi, e dalle Sei giornate (1534-1536), dialoghi fra le cortigiane Nanna, Antonia e Pippa, in cui si descrive il vivace mondo delle prostitute d’alto bordo e s’insegna il mestiere alla più giovane. Ma fu soprattutto stratega della comunicazione, con le sue scritture teatrali, e con le sue lettere, straordinarie nello stile e nella vivacità linguistica, finzione di realismo e naturalezza che colpì moltissimo il pubblico, come dimostra il successo clamoroso del Primo libro de le lettere (1538). L’Aretino era però accorto a non infastidire troppo i potenti, cosa che non seppe imparare troppo bene il suo allievo e amicissimo (e poi inimicissimo) Niccolò Franco (Benevento 1515-Roma 1570), che sarebbe finito schiacciato dalle lotte di potere seguite alla morte di papa Paolo IV, e impiccato dall’Inquisizione. Nonostante i suoi estremismi e il suo stile mordace, Niccolò è un attento testimone dei suoi tempi, in opere come le Pìstole volgari e i Dialoghi piacevoli,

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e soprattutto nel dialogo Il Petrarchista (1539), satira dell’idolatria petrarchista contemporanea. L’epistolografia è uno dei generi più fortunati, nella prosa del Cinquecento, e lo provano le innumerevoli raccolte collettive di lettere prodotte a Venezia. Ma è anche il tempo dei ‘poligrafi’, cioè di quegli scrittori che, legati a qualche impresa editoriale, si mettono a pubblicare e a scrivere di tutto, come Anton Francesco Doni (Firenze 1513-1574), autore di opere singolari (anche per la non comune intelligenza delle correnti artistiche contemporanee) come I Marmi, La Zucca, I Mondi, Libraria prima e Libraria seconda, oltre che di molte Lettere. O ancora come Francesco Sansovino (Venezia 1521-1583), che identifica ne Il Segretario il nuovo ruolo del moderno uomo di lettere, non più ‘umanista’ o ‘cortigiano’: tematica poi ripresa da Giulio Cesare Capaccio e Tommaso Costo, Angelo Ingegneri e Battista Guarini. Infinite sono ormai le ‘professioni’ e i ‘mestieri’ ai quali deve adattarsi il letterato, nella complessità e nell’insicurezza della vita moderna. Sempre più ampio è l’enciclopedismo, con i suoi moduli ripetitivi e seriali, di accumulazione infinita delle informazioni, e un esempio illuminante ne sono le compilazioni di Tommaso Garzoni, La piazza universale di tutte le professioni del mondo (1585), e L’Hospidale de’ pazzi incurabili (1586), grandi affreschi della vita quotidiana dell’epoca. La trattatistica è il contenitore multiforme adattabile a qualunque forma di contenuto, e in genere strutturato nella modalità del dialogo, che consentiva una ricezione migliore, e in cui la ricerca della verità veniva presentata come un processo di incontro tra interlocutori diversi, senza dogmatismi o pregiudizi. In generale, i modelli di comportamento di questa civiltà del ‘dialogo’ e della ‘conversazione’, ereditati dalla pedagogia umanistica per il tramite del Cortegiano e del Galateo, arriveranno fino all’importante trattato del nobile Stefano Guazzo (Casale Monferrato 1530-Pavia 1593), La civil conversazione (1574), che segnerà il punto di riferimento delle classi dirigenti nella società di antico regime. Dopo Ficino, Bembo e l’Equicola, sulla fortunata tematica de amore scrive Leone Ebreo (Lisbona ca.1460-Napoli dopo il 1521), un ebreo portoghese rifugiatosi a Napoli per sfuggire alle persecuzioni, autore dei platonizzanti Dialoghi d’Amore (ed. 1535) che si svolgono tra l’autore-amante (Filone) e la donna amata allegoria della Sapienza (Sofia); e poi la cortigiana Tullia d’Aragona (Venezia 1510-1556), autrice del Dialogo della infinità di amore (1547). La lingua della filosofia resta il latino, anche se adattato a contesti diversi: ad esempio, il latino vivo e irregolare di Pietro Pomponazzi, il filosofo



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aristotelico radicale che a Padova dimostra la non immortalità dell’anima; o ancora il latino multiforme e complesso dei trattati del medico e scienziato (e, per molti, mago-stregone e astrologo-ciarlatano) Girolamo Cardano (Milano 1501-1576), indagatore dei misteri della Natura, e soprattutto autore di una originale e affascinante autobiografia, il De vita propria; fino alla figura coraggiosa del filosofo Bernardino Telesio (Cosenza 1509-1588), che ingaggia nel suo De rerum natura iuxta propria principia una lotta senza quartiere contro l’aristotelismo dominante, preparando la strada a Giordano Bruno. Un ambito del tutto speciale della trattatistica del Cinquecento è quello delle scritture legate al mondo delle arti figurative. Verso la metà del secolo è tutto un fiorire di trattati sulla pittura (ad esempio quelli di Paolo Pino, Lodovico Dolce, Michelangelo Biondo), sulla scultura, sull’architettura, sulle arti cosiddette minori, e si traducono e si pubblicano quelli di Leon Battista Alberti; opere che riflettono l’interesse enorme che, presso il pubblico colto, ha ormai il dibattito sull’arte, nella nuova consapevolezza che veramente il Rinascimento aveva raggiunto e superato, nelle sue realizzazioni, gli Antichi. La grande novità è che alcuni di questi scritti sull’arte sono ora opera degli stessi artisti, che, considerati un tempo ‘illetterati’ o ‘omini sanza lettere’ (si pensi a Leonardo), ora si prendono la loro rivincita culturale: e in questa rivincita gioca un ruolo importante lo stesso Leonardo (scomparso nel 1519), di cui si copiano gli scritti sull’arte in un manoscritto intitolato Libro di pittura, e poi in una redazione abbreviata che ebbe grande fortuna, il cosiddetto Trattato della pittura, stampato a Parigi nel 1651, con illustrazioni disegnate dal pittore francese Nicolas Poussin. Il più grande artista-scrittore è sicuramente Giorgio Vasari (Arezzo 1511Firenze 1574), che scrive le Vite dei grandi artisti italiani, dal Duecento al Cinquecento (I edizione Firenze, Torrentino, 1550; II edizione Firenze, Giunti, 1568, molto arricchita di notizie, ma sbilanciata nella struttura generale). Soprattutto nella prima edizione, le Vite sono una specie di grande ‘romanzo’, di storia di ‘lungo periodo’ non solo dell’arte, ma di tutta la civiltà del Rinascimento (ed è il Vasari il primo a utilizzare in modo sistematico e puntuale questa parola, così come è lui, fondatore del lessico artistico moderno, a introdurre il termine ‘maniera’). La concezione storica è organicistica ed evolutiva, nelle fasi della prima rinascita delle arti dopo il periodo di oscurità del ‘medio evo’ (Giotto), dell’augumento, dello sviluppo della tecnica e dello stile nel Quattrocento (Masaccio, Donatello, Brunelleschi), dell’avvento della maniera moderna (Leonardo e Raffaello), e di un’età della perfezione (Michelangelo), che sembra superare perfino l’arte classica. È un’opera composita, sospesa su generi letterari diversi: la storia, la biografia, la descrizione delle opere d’arte, la

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trattatistica tecnica, ma addirittura anche la novellistica esemplare. Gli artisti sono in fondo gli ‘eroi’ del Rinascimento. L’apoteosi è nella figura di Michelangelo, superiore agli Antichi e ai Moderni, massimo punto di perfezione, oltre la quale Vasari percepisce l’inizio, forse, di una lunga decadenza. Altri trattati sulle arti scrisse Benvenuto Cellini (Firenze 1500-1571): ma qui la scrittura si fa prepotente scrittura dell’io, autobiografia, perché l’opera più grande di Cellini è sicuramente la sua Vita. La Vita fu scritta tra 1558 e 1562, e anzi in parte ‘dettata’ (a un giovane scrivano), il che spiega il forte carattere di oralità che si avverte nel testo, l’irregolarità della sintassi, il flusso del periodo che talvolta si complica o si perde, senza un’ulteriore revisione. Era un Benvenuto ormai vecchio, ed il suo è uno sguardo retrospettivo, non la cronaca diaristica che si stratifica giorno per giorno. Quasi un romanzo, in cui l’io dell’autore (certo preponderante) costruisce a posteriori la propria immagine, i propri momenti di gloria eroica (artistica e umana: la fusione del mirabile Perseo) ma anche quelli di difficoltà nei rapporti tempestosi con i grandi committenti (il papa Clemente VII, Francesco I re di Francia, il granduca Cosimo), e di disperazione assoluta, come quelli vissuti nel carcere, o nella tentazione del suicidio. Una grande e commovente scrittura dell’io, anche se tanto meno elaborata, troviamo nel quaderno-diario che uno dei più grandi pittori manieristi, Iacopo Carucci detto il Pontormo (Pontormo 1494-Firenze 1556), tenne aperto negli ultimi due anni della sua vita, annotando gli eventi minimi della sua vita, le visite degli amici, il menu della cena, le indisposizioni di ventre, l’umore e i fatti atmosferici, microscopia malinconica di un mondo inviduale in attesa della morte. Infine, il pittore lombardo Giovanni Paolo Lomazzo (Milano 1538-1600) fu autore di bizzarri ‘dialoghi dei morti’ alla maniera di Luciano (Li sogni ), e di vivaci poesie in lingua italiana (Grotteschi ) e in una curiosa lingua ‘facchinesca’ derivata dal dialetto ticinese della Val di Blenio (Rabisch, ‘arabeschi’), gergo giocoso usato nell’estroversa Accademia dei Facchini cui Lomazzo partecipava insieme ad altri artisti e poeti. Lomazzo raccolse poi le sue importanti riflessioni di teoria artistica (con molti spunti tratti direttamente dai manoscritti di Leonardo) nel Trattato dell’arte della pittura (1584), e nell’Idea del tempio della pittura (1591). Un’altra storia che appassiona il pubblico del Cinquecento è quella che si può leggere nelle pagine della letteratura di viaggio. Dopo che Colombo aveva aperto le vie di navigazione occidentale, e Vespucci aveva dimostrato che si trattava di un ‘mondo nuovo’, le relazioni e descrizioni di viaggio (già genere fortunato di scrittura dal Medioevo, da Marco Polo in poi) conoscono un successo senza pari. Si può trattare di realtà vicine, come quelle oggetto della Descrittione di tutta Italia del domenicano Leandro Alberti (Bologna



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1479-1552), o non troppo lontane, come nel vivace Viaggio in Alamagna di Francesco Vettori (Firenze 1474-1539), destinatario di una celebre lettera di Machiavelli. Ma per il resto sono soprattutto racconti di mondi esotici, di popoli mai visti prima, di usanze e costumi incredibili per gli europei, come quelli che affiorano nel gustosissimo Itinerario di Ludovico da Varthema, che affronta un lunghissimo viaggio nei paesi orientali, assimilandone i costumi, vestendone gli abiti, imparandone la lingua, e restando anche coinvolto in impreviste situazioni erotiche; o nel drammatico diario di Antonio Pigafetta, compagno di Magellano nella prima epica circumnavigazione del globo. Tutti questi testi furono infine raccolti in una monumentale edizione della letteratura di viaggio, le Navigazioni e viaggi (1550-1559) curate da un nobile veneziano amico del Bembo, Giambattista Ramusio (Venezia 1485-1557). L’intellettuale che, nella prima metà del Cinquecento, sembra compendiare tutti gli interessi della cultura contemporanea, dalle arti figurative alla storia e alla cosmografia, è l’umanista Paolo Giovio (Como 1483-Firenze 1552), che è grande cronista del suo tempo negli Historiarum sui temporis libri e nelle Vitae degli uomini illustri contemporanei, dai condottieri ai letterati e agli artisti. Secondo la tradizione fu Giovio a spingere Vasari alla composizione delle vite degli artisti; e sempre Giovio ebbe l’idea di comporre una serie di brevi testi biografici, gli Elogia, concepiti per accompagnare i ritratti dei grandi uomini che adornavano la sua villa di Como, denominata Museo. Un’illustrazione di grande modernità, che si serviva contemporaneamente della parola e dell’immagine, secondo nuove modalità di comunicazione che affiorano anche in un’altra moda del Cinquecento, diffusa in tutta Europa: la moda delle imprese, brevi motti in latino o in volgare, sintesi di qualità morali, rappresentate allo stesso tempo da un emblema talvolta enigmatico, e codificate dallo stesso Giovio nel suo Dialogo dell’imprese militari e amorose (1551). Ampia è la storiografia cinquecentesca, soprattutto a Firenze, in continuazione di Machiavelli e Guicciardini, con le opere di Benedetto Varchi e di Iacopo Pitti; e a Napoli con Angelo Di Costanzo e Camillo Porzio, che cercano di comprendere le ragioni della crisi del Rinascimento, e in particolare della fine del regno di Napoli, preparata dalla crisi del rapporto tra la dinastia aragonese e le strutture di potere della società meridionale (efficacemente trattata nella Congiura dei Baroni del Porzio). La riflessione storica contemporanea si fa spesso riflessione politica, come in Donato Giannotti (Firenze 1492-Roma 1573), strenuo avversario dei Medici e perciò destinato a un lungo esilio, autore di un’esaltazione del modello politico di Venezia nel dialogo Della repubblica de’ Viniziani (1530).

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Sempre di più, però, nel corso del secolo, si diffonde un certo pessimismo sulle possibilità di influire su una realtà nella quale l’esercizio del potere acquista i connotati della tirannia, talvolta oscura e incomprensibile, coperta, come diceva Guicciardini, da una ‘nebbia’ che ormai divideva il ‘palazzo’ dalla ‘piazza’, il principe dal popolo. In questo contesto, la lettura di un autore latino come Tacito, storico dei momenti più cupi dell’impero romano (i tempi di Tiberio e Nerone), acquista un’attualità nuova, configurandosi anzi come una moda intellettuale, il cosiddetto tacitismo, che si accompagna alla straordinaria fortuna dei testi di Machiavelli. Contro ‘tacitismo’ e ‘machiavellismo’ si muove un ex-gesuita come Giovanni Botero (Cuneo 1544-Torino 1617), legato a grandi figure della spiritualità cattolica come Carlo e Federigo Borromeo, e autore del trattato Ragion di stato (1589), che fonda la scienza politica moderna come scienza autonoma, individuando uno dei princìpi dell’azione politica nello stato moderno. Alla fine del secolo la riforma cattolica si produce in un enorme sforzo di propaganda e di scrittura storica e religiosa, con potenti personalità come i cardinali Cesare Baronio e Roberto Bellarmino. L’educazione umanistica e classicista deve essere integrata in un nuovo curricolo ispirato rigorosamente a princìpi religiosi: i Gesuiti la codificano nella Ratio studiorum, che regge i programmi dei loro collegi per quasi due secoli, e punta soprattutto alla formazione delle classi dirigenti laiche. La predicazione torna ad essere potente strumento di comunicazione, nei confronti delle masse, e la retorica si mette al suo servizio, come dimostra la sperimentazione stilistica e il linguaggio figurato del frate minorita Francesco Panigarola (Milano 1548-Asti 1594). Si tratta di una vera e propria ‘guerra’, dichiarata contro le eresie e le divisioni dell’Europa cattolica e contro il pericolo incombente dell’Islam, e fuori di metafora la intende il gesuita Antonio Possevino (Mantova 1533Ferrara 1611), legato pontificio nei Paesi Scandinavi e nell’Europa orientale, fino alla Russia di Ivan IV il Terribile. Ne Il soldato cristiano (1569) Possevino promuove l’ideologia della ‘guerra giusta’, e della licenza di sterminare tutti gli eretici e gli infedeli, con l’affermazione: “Nella morte del Pagano il Cristiano si gloria”. In seguito, il battagliero gesuita avrebbe spostato i suoi propositi bellicosi sul piano culturale, componendo un contributo fondamentale al sistema ideologico della Riforma Cattolica con la bibliografia universale della Bibliotheca selecta (1593), estesa a tutti i campi del sapere, dalla teologia e dalla filosofia alle scienze, la letteratura e le arti. In questi tempi di terribili divisioni politiche e religiose, e di asservimento delle libertà individuali alla ‘ragion di stato’ e ai dogmi religiosi, sullo sfondo di



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un nefasto incrociarsi di interessi di potere, sono proprio le voci di alcuni religiosi a difendere la libertà spirituale e intellettuale a rischio della propria vita. A Venezia un frate servita, Paolo Sarpi (Venezia 1552-1623), prende le parti della Repubblica colpita dall’interdetto lanciato dal papa (1606), dimostrando l’illegittimità dell’atto pontificio. Sarpi rievoca poi la vicenda del Concilio di Trento nell’Istoria del concilio tridentino (stampata a Londra nel 1619, e subito messa all’Indice), individuando le ragioni della grande occasione mancata di riconciliazione dei Cristiani e di effettiva riforma morale della Chiesa. Il martirio per la difesa delle proprie idee sarebbe stato patito da Filippo Bruno (Nola 1548-Roma 1600), figlio di un soldato, frate domenicano col nuovo nome di fra Giordano a 17 anni nel convento napoletano di San Domenico (1565). Costretto a fuggirne con l’accusa di possedere libri proibiti, come quelli di Erasmo (1576), Bruno cominciò allora una vita di lunghi vagabondaggi per l’Europa (Ginevra, Francia, Inghilterra, Germania, Praga), abbandonando la chiesa cattolica ma senza mai aderire del tutto al protestantesimo, conservando una propria assoluta indipendenza di pensiero. Nel 1591 giunse a Venezia, ospite del patrizio Giovanni Mocenigo, e si illuse di una pacificazione con la Chiesa, ma fu invece arrestato a tradimento (1592), incarcerato a Roma dal Sant’Uffizio (1593), e, dopo un lungo processo, bruciato vivo a Campo de’ Fiori il 17 febbraio 1600. Bruno è straordinaria figura europea, e le sue opere più importanti nascono e sono pubblicate in un contesto che va oltre i confini italiani. Il latino è la lingua universale della comunicazione filosofica, negli scritti di mnemotecnica, o in quelli come il De Magia, in cui la magia naturale, in questo tempo di formazione della scienza rinascimentale, viene interpretata come il tentativo di entrare in comunicazione con l’anima del mondo. Ma altrimenti Bruno utilizza tutta la forza espressiva del volgare, in testi finalizzati a scardinare le basi della filosofia tradizionale e dell’autorità religiosa. A Parigi, pochi anni dopo la fuga dall’Italia, viene pubblicata una strana commedia in volgare, il Candelaio (1582), in cui si presenta un mondo alla rovescia e senza speranza dominato dal male, memoria cupa e lontana della Napoli in cui s’era formato fra Giordano (che nel frontespizio si definisce “Accademico di nulla Accademia detto il Fastidito”). Nel fecondo periodo inglese (1583-85) nascono invece alcuni importanti dialoghi. In ambito cosmologico, dominati dal tema del relativismo e piccolezza dell’uomo nell’infinito, si collocano La cena de le ceneri, De la causa, principio et uno, e De l’infinito, universo e mondi, che affermano apertamente la libertà di ricerca scientifica e intellettuale nello studio della natura condotto nei suoi propri princìpi originari (iuxta propria principia),

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contro ogni tipo di pregiudiziali astratte o metafisiche. Sulla poetica si distende il dialogo Degli eroici furori, che, partendo dal commento ad alcuni testi poetici (soprattutto dell’altro grande nolano, il poeta Tansillo), riporta il messaggio di libertà antiaristotelica anche nel campo della poesia, che “non nasce da le regole, se non per leggerissimo accidente: ma le regole derivano da le poesie”: più importanti delle ‘regole’, per Bruno, sono il ‘furore’ e l’‘entusiasmo’ che guidano l’ispirazione del poeta, che giunge ad un’elevazione quasi divina. Posizioni di netta critica del cristianesimo si presentano nello Spaccio della bestia trionfante, in cui Giove, malcontento del disordine e della corruzione del mondo, vuole restaurarvi la Giustizia e scacciarne i ‘mostri’, generati dal ‘sonno della ragione’; e nella Cabala del Cavallo Pegaseo, grottesco elogio dell’asino che rivela l’influsso della tradizione antica e umanistica (da Luciano ad Erasmo) del ‘paradosso’. Ma soprattutto Bruno reinventa il genere umanistico e rinascimentale del dialogo come una forma di vera e propria comunicazione ‘teatrale’ del sapere e della filosofia. La libera trasmissione delle idee diventa qualcosa di militante, di impegnato, “dove sa di dialogo, dove di comedia, dove di tragedia, dove di poesia, dove d’oratoria”.

1.6. La prosa narrativa Nella prosa d’invenzione narrativa del Cinquecento prevale sicuramente la novellistica (anche se la più ampia conoscenza della letteratura greca consente già gli inizi della forma del romanzo). Il genere trova una sua consacrazione in operazioni culturali come quella delle Prose del Bembo, che indicano nel Decameron del Boccaccio il principale modello stilistico e strutturale. Ma è anche un tempo di recuperi filologici e testuali, dal cosiddetto Novellino alla ‘rassettattura’ del Decameron. Insomma, il modello boccacciano non è avvertito in maniera altrettanto normativa di quello petrarchesco nella poesia lirica, e lo dimostra la pluralità di soluzioni adottate nella ricca produzione novellistica cinquecentesca: libri con o senza cornice, tradizione di novelle spicciolate, incroci di tradizioni e culture diverse e lontane. Una novella isolata, e di importanza fondamentale per la letteratura europea, è quella che compone il nobile veneziano, amico del Bembo, Luigi da Porto (Vicenza 1485-1529), l’Historia di due nobili amanti, che, nell’ambientazione veronese della faida medievale tra Capuleti e Montecchi, racconta l’immortale storia di Giulietta e Romeo, dei due amanti tragicamente divisi dall’ostilità delle rispettive famiglie: vicenda già prefigurata in alcune novelle ‘tragiche’ del Decameron e nel Paulo e Daria di Gasparo Visconti.



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La storia, com’è noto, giunse a Shakespeare, passando attraverso la riscrittura presente nelle Novelle (1554) di Matteo Bandello (Castelnuovo Scrivia 1485-Bassens 1561), un frate domenicano che finirà vescovo di Agen in Francia. La sua raccolta sostituisce alla ‘cornice’ narrativa boccacciana un macrosistema di ampie lettere dedicatorie che costituisce anch’esso un tessuto narrativo, dal momento che quelle lettere raccontano l’origine della novella, e l’universo sociale e culturale delle declinanti corti del tardo Rinascimento, soprattutto dell’Italia del Nord. Bandello, cronista del suo tempo, predilige spesso vicende contemporanee, e spesso tragiche, come quella di Giulietta e Romeo; e di più difende il proprio essere (culturalmente e linguisticamente) ‘lombardo’ e non ‘toscano’, in un’età in cui molti correvano a porre il proprio stile e la propria lingua al riparo delle nuove sicurezze precettistiche del Bembo. Sempre di area lombarda, ma legato a un contesto più popolare, è Giovan Francesco Straparola, autore delle Piacevoli notti (1550-1553), nella cui esile cornice notturna sono raccontate novelle e fiabe in cui prevale l’aspetto del sogno, della magia e della superstizione. A Venezia ci porta invece il musico e madrigalista Girolamo Parabosco, organista a San Marco e anche commediografo, che nei Diporti (1550) fa raccontare una serie di novelle patetiche e tragiche ad alcuni gentiluomini isolati dalla tempesta in mezzo alla laguna per tre giornate. E anche Sebastiano Érizzo (Venezia 1525-1585) immagina per le novelle delle Sei giornate (1567) la cornice di una brigata di studenti, mantenendosi all’interno di un’imitazione formale di Boccaccio che ne livella ogni carattere plurilinguistico. Il cortigiano ferrarese Giambattista Giraldi Cinzio (1504-1573), autore di teatro e di poetica, raccoglie oltre cento novelle negli Ecatommiti (1565), in cui da un lato la temperie controriformistica riduce la componente erotica più esplicita e ancora importante in Boccaccio, dall’altro alcune vicende diventano proiezione di psicologie morbose e perverse, come quella di Otello, il Moro di Venezia, anch’essa ripresa da Shakespeare. Più sotterranea resta la novellistica proprio nella regione di Boccaccio, la Toscana. Il senese Pietro Fortini (Siena 1500-1562) ci lascia due raccolte manoscritte (edite solo nell’Ottocento), le Giornate delle novelle de’ novizi e le Piacevoli ed amorose notti de’ novizi, di ambientazione senese ed imitazione boccacciana, nella cornice di un giardino in cui i giovani si ritrovano a novellare e a raccontare situazioni anche molto licenziose, e sempre meno accette nel clima moralistico del secondo Cinquecento. A Firenze invece Anton Francesco Grazzini detto il Lasca (Firenze 1503-1584), espulso e poi riammesso nell’Accademia Fiorentina, e tra i fondatori della Crusca, in quanto anche autore di teatro esplora le possibilità ‘teatrali’ delle novelle, raccolte nelle postume Cene (ed. 1756), giocate nello spazio chiuso cittadino

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come se fosse una scena di teatro in cui si svolgono memorabili e grottesche beffe ai danni della vittima di turno, come lo era stata, nel Quattrocento, la Novella del Grasso legnaiuolo. Il genere novellistico sembra avviarsi ad una diminuzione d’interesse verso la fine del secolo. Ma c’è ancora tempo perché a Napoli Tommaso Costo (Napoli 1545-1620), accademico e cruscante segretario di svariati principi napoletani, componga Il fuggilozio (1596), un’opera che in effetti inscrive in una pretestuosa cornice decameroniana quello che è un grande ‘zibaldone’ (definito appunto dall’autore “insalata”) di 422 racconti, soprattutto arguzie e motti. Infine, il mondo popolare e dialettale trova la sua voce più alta a Bologna, con Giulio Cesare Croce (San Giovanni in Persiceto 1550-Bologna 1609), un figlio d’un fabbro che diventa geniale cantastorie, buffone, organizzatore di spettacoli di piazza, tra lingua e dialetto. Le sue invenzioni (in parte tratte da un curioso testo medievale, il Dialogus Salomonis et Marcolphi ) girano tutte intorno alla figura del popolano Bertoldo che, con la sua arguzia, riesce a prevalere sui potenti, e in particolare sullo sciocco re longobardo Alboino, nell’ambientazione di un alto Medioevo fantastico e straccione. Bertoldo non è un rivoluzionario, certo, e le sue trovate d’ingegno servono soprattutto a trovargli una posizione stabile nella corte del re, e un pasto sicuro (spesso massima aspirazione ideale delle classi popolari in quell’epoca di carestie e privazioni): ma egli resta, nell’uso spregiudicato dello strumento linguistico, l’erede diretto degli eroi umili di Boccaccio, il cuoco Chichibio e Cisti fornaio, che riescono a manifestare la propria intelligenza nel genere del ‘motto-facezia’. Le sue avventure furono pubblicate ne Le sottilissime astuzie di Bertoldo, continuate con quelle dell’insipiente figlio di Bertoldo, Bertoldino, Le piacevoli e ridicolose semplicità di Bertoldino, cui il letterato secentesco Adriano Banchieri aggiungerà ancora la Novella di Cacasenno figlio del semplice Bertoldino (1641).

1.7. Il teatro Dopo i primi passi del teatro umanistico latino e del teatro profano in volgare, dall’Orfeo di Poliziano alle rappresentazioni dei volgarizzamenti di Plauto e Terenzio a Ferrara, il teatro si afferma nel Cinquecento a partire da alcune grandi prove d’autore, le commedie di Ariosto e Machiavelli. Nel medioevo era scomparsa del tutto l’idea del teatro profano, e le sacre rappresentazioni avvenivano all’aperto, sul sagrato delle chiese, o al massimo all’interno di luoghi di culto; e nel Quattrocento le prime rappresentazioni ‘laiche’ trova-



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vano posto nei cortili o nelle sale o nei giardini dei grandi palazzi signorili. Era necessario creare un vero ‘teatro’, uno spazio come quello che avevano gli antichi, e di cui era possibile leggere la descrizione nel trattato di architettura di Vitruvio. Un primo esempio ne fu l’effimera architettura lignea allestita da Raffaello nel 1513 a Roma in Campidoglio per festeggiare il papa Leone X, e in cui fu rappresentato il Poenulus di Plauto, a cura dell’umanista Fedra. Dopo più di settant’anni sarebbe stato completato il primo grande teatro del Rinascimento su modello classico: il Teatro Olimpico di Vicenza, progettato da Andrea Palladio, e completato da Vincenzo Scamozzi (1585). Una splendida cornice architettonica, anche se poi i massimi capolavori del teatro europeo sarebbero nati in malandati e rumorosi e popolari teatri di legno come l’Old Vic di Londra, la scena preferita di Shakespeare. Nello stesso anno 1513 a Urbino il Castiglione fece rappresentare la Calandra del Bibbiena, commedia degli equivoci e dei travestimenti, in cui lo sciocco Calandro si innamora di Lidio amante della moglie, travestito da donna. Un tema, quello del travestimento, dello scambio dei ruoli tra uomo e donna, del superamento dell’identità di genere, che costituirà il filo rosso di tutto il teatro del Cinquecento, come se, nel tempo della prima importante emergenza della dimensione femminile nella cultura moderna, fosse necessario anche nella proiezione teatrale della realtà riprodurre visivamente i meccanismi dello ‘scambio’. Una città che agli inizi sembra restare ai margini della rinascita teatrale è proprio Venezia, dove l’unica commedia rappresentata con successo di pubblico nel 1499 è scritta in un vivace latino plautino da un frate crocifero, Giovanni Armonio: e sorprende che la sua Stephanium metta in scena la storia di una prostituta proprio in una sala di un convento (quello dei Crociferi), aperta a un pubblico pagante. Grande però era la tradizione del teatro popolare e di piazza a Venezia, soprattutto per i travestimenti del Carnevale, le feste e le pantomime (chiamate momarie) organizzate da vere e proprie compagnie (prima di dilettanti, e poi di professionisti), come la Compagnia della Calza. È in questo contesto, sospeso tra la capitale lagunare e l’ambiente rurale di terraferma, tra raffinato divertissement aristocratico e teatro popolare, che nasce l’esperienza geniale di Angelo Beolco detto Ruzante (Padova ca. 1496-1542), prima al servizio del nobile Alvise Cornaro come amministratore, poi impresario teatrale e attore e autore in proprio, e chiamato Ruzante dal più significativo dei suoi personaggi, un contadino della campagna padovana (in dialetto ‘ruzar’ significa giocare). L’operazione culturale di Ruzante è veramente straordinaria dal punto di vista linguistico: mentre tutte le forme di espressione letteraria contemporanea tendono verso un sostanziale uni-

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linguismo, nell’assimilazione del toscano e del fiorentino letterario, Ruzante torna al dialetto della bassa padovana (il cosiddetto ‘pavano’), e ricrea un mondo rurale nei confronti del quale supera il livello di comica parodia, presente ancora nel genere rusticale e nenciale (Pulci e Lorenzo). All’inizio è un’idealizzazione bucolica, nel dramma La Pastoral (1517), in cui però già compare il personaggio Ruzante, che poi acquista una fisionomia propria, e domina la scena dei drammi succcessivi: il Parlamento di Ruzante qual era stato in campo (1530), la triste storia del contadino che, arruolato per miseria, scampa ai pericoli della guerra e torna dalla moglie Gnua, solo per scoprire che la sua donna è nel frattempo diventata puttana e donna di un bullo di provincia che finisce col bastonare il disgraziato reduce; e il Dialogo secondo (1531), una sorta di riscrittura del Parlamento con personaggi diversi, ma con un finale tragico, in cui l’ex-soldato lasciato dalla moglie uccide a coltellate il ricco rivale. Alla fine, l’orizzonte di Ruzante non è più ‘comico’. I suoi personaggi vivono drammi veri, come quello della guerra, della violenza, dello sfruttamento sociale, del dominio perverso della ‘roba’, che inquina i rapporti tra gli esseri umani. Il mondo della campagna, degli umili e dei contadini, non ha più nulla di idillico, di vagheggiamento di vita semplice e incontaminata. Le loro sofferenze sono reali, e non fanno più ridere. La critica sociale e morale di Ruzante resta un unicum nel teatro veneziano del Cinquecento, mentre la componente dialettale continua a fecondarne la lingua. In dialetto veneziano è una grande commedia anonima, La Venexiana (1536), spettacolare contesa erotica tra un’esperta vedova (Angela) e una giovane sposa (Valeria) per la conquista di un bel giovane lombardo di passaggio (Iulio). Va anche oltre Andrea Calmo (Venezia 1510-1571), inventando nelle sue commedie una lingua mescidata e sperimentale, in cui col veneziano si confrontano gli altri dialetti italiani, e le varianti ‘alte’ della lingua avvertita ormai come ‘italiana’. Riprende la commedia classica il poligrafo Ludovico Dolce, mentre il musico e novelliere Girolamo Parabosco diverte il suo pubblico col tema del travestimento, dello scambio tra uomo e donna. Figura importante del teatro è anche l’Aretino, con le sue cinque commedie: Il marescalco, ambientato a Mantova, in cui un maniscalco misogino viene costretto da un intenso pressing collettivo a sposarsi, per scoprire sull’altare che la sposa non è altro che un paggio travestito, e l’intero matrimonio una terribile beffa; La cortigiana (1525), quasi una ‘controcommedia’, satira della corte romana ma anche della ‘cortigianeria’, ripresa poi nei dialoghi delle Sei giornate; la Talanta, altra commedia di travestimenti che ruota intorno alla cortigiana romana Talanta; l’Ipocrito (1542); e infine Il filosofo (1544), notevole anche perché è la riscrittura teatrale della novella di Andreuccio da Perugia, nella commedia ribattezzato addirittura ‘Boccaccio’.



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Negli altri centri italiani il teatro è collegato all’attività delle accademie. A Siena opera prima una Congrega dei Rozzi, e poi l’Accademia degli Intronati, che organizza l’importante recita de Gli Ingannati (1532), commedia esemplare, e rappresentata anche nel resto d’Italia, il cui successo fu garantito dalla fusione di comico e patetico e dall’azione vivace, dominata dal solito gioco del travestimento: la fanciulla, Lelia, travestita da maschio col nome Fabio per conquistare l’amore di Flaminio, a sua volta innamorato di Isabella, a sua volta innamorata del finto Fabio. A Firenze il Lasca promuove nelle sue sette commedie una sorta di ribellione contro la ripetitività convenzionale della commedia ‘regolare’, introducendo l’elemento nuovo del magico (La Strega, e La Spiritata), e riprendendo nel Frate (1540) il modello boccaccesco del triangolo amoroso moglie-marito-frate. Napoli (dove nasce anche un vivace teatro di parodia popolare e rusticana, le Farse cavaiole, così chiamate per la satira degli abitanti di Cava de’ Tirreni) tiene a battesimo le sue prime commedie in una sala dello splendido palazzo del principe Sanseverino, il protettore di Bernardo Tasso, negli anni Quaranta: un’esperienza che però viene presto interrotta, con l’esilio del principe (1547), e la chiusura delle accademie napoletane ad opera del sospettoso viceré spagnolo don Pedro di Toledo. Solo a partire dagli anni Settanta tornò a scrivere commedie un curioso rappresentante della cultura filosofica e scientifica, astrologo e un po’ mago, Giambattista Della Porta (Napoli 1535-1615), noto per il trattato Magia naturalis (1558) e gli interessanti studi di fisiognomica e di arte della memoria. In fondo, anche nelle sue opere teatrali, come la Fantesca (1592) o il Trappolario (1596), emerge, tra erotismo e vivacità linguistica, la particolare visione di un mondo ‘magico’, ricco di corrispondenze inaspettate e sorprendenti, che prelude ormai ad un’epoca che sarà dominata dal senso della ‘meraviglia’. Fin qui il panorama della commedia del Cinquecento. Ma dall’inizio è intenso il dibattito su una rinascita teatrale ‘globale’, tale da riportare in vita tutti i generi teatrali sperimentati dagli Antichi, e quindi anche e soprattutto la tragedia. Le poetiche cinquecentesche, oltre la tradizionale ricezione della Ars poetica di Orazio (commentata da Aulo Giano Parrasio, Marco Girolamo Vida, e ripresa dal Daniello), erano state infatti rivoluzionate dalla riscoperta della Poetica di Aristotele, il cui testo greco fu pubblicato dall’umanista Giorgio Valla (1498), e la traduzione latina curata da Alessandro de’ Pazzi (1536). Era un testo, com’è noto, giunto mutilo, nella sola parte dedicata alla tragedia, e quindi utilizzato da questo momento in poi come base normativa delle regole del genere tragico, e anche di quello epico. Delle indicazioni aristoteliche, una ebbe una rilevanza precettistica eccezionale, e influenzò

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il teatro europeo dell’età moderna: le cosiddette tre unità (di azione, di tempo e di luogo), secondo le quali la tragedia (a differenza di altre opere letterarie e narrative) doveva presentare lo svolgersi di un’azione unitaria, concentrata in un tempo breve e determinato, e nello stesso luogo. Momenti fondamentali della ricezione della Poetica furono il commento di Francesco Robortello (1548), e la traduzione e il commento di Ludovico Castelvetro (1570), inclinante ad un’estetica antiplatonica, e alla distinzione fra il ‘vero’ (storia) e il ‘verisimile’ (poesia). Molti furono i letterati che allora provarono a far risorgere la tragedia: il Trissino con la Sofonisba, il Rucellai con la Rosmunda, il Pazzi (traduttore della Poetica) con traduzioni di Sofocle ed Euripide. Ma furono tutti tentativi senza grande successo. Insieme alla predilezione per le eroine femminili, la tendenza era quella di rappresentazioni un po’ astratte e meccaniche, troppo ‘letterarie’, su scenari troppo cupi e sanguinari, e insomma troppo ‘tragici’ e disumani. Un esempio lampante, l’Orbecche di Giraldi Cinzio (1541; autore anche di drammi su Didone e Cleopatra), in cui un ferocissimo tiranno Sulmone offre in dono alla figlia Orbecche la testa del marito di lei e i corpi dei suoi figlioletti, e la giustamente vendicativa Orbecche finisce con l’uccidere il padre e se stessa. La Canace dello Speroni (1542) raccontava invece una storia di incesto priva del senso del destino e della catarsi. Oltre queste prove isolate, bisogna aspettare la fine del secolo per incontrare veri tragediografi. Pomponio Torelli (Parma 1539-1608) scrive drammi ‘politici’ (la Merope, il Tancredi, il Polidoro, la Vittoria) che iniziano a rispecchiare la complessità del tempo presente (come accadeva contemporaneamente nel teatro elisabettiano, da Marlowe a Shakespeare). E l’attualità in presa diretta emerge per la prima volta con Federigo Della Valle (Asti ca. 1560-ca. 1628), autore de La reina di Scozia (prima stesura 1591), sulla vicenda di Maria Stuarda decapitata nel 1587 per ordine di Elisabetta I, eroina e martire dal punto di vista cattolico, in un’opera che è soprattutto rappresentazione della violenza esercitata sull’individuo dalla ragion di stato e dal potere politico. Il Della Valle si rivolse invece alla materia biblica per altre due tragedie, l’Ester, e la Iudit: notevole la seconda (oltre che per la tematica, che gode di grande fortuna nell’arte contemporanea), per il principio del fine onesto ottenuto per mezzo della dissimulazione, dell’inganno, con cui Giuditta si serve della propria bellezza, per farsi concupire dal condottiero nemico Oloferne, e sgozzarlo a tradimento nell’intimità della sua tenda. Tra la commedia e la tragedia nasce col tempo l’esigenza di un genere intermedio, il cosiddetto ‘terzo genere’, la tragicommedia, che però, in un contesto di sostanziale divisione degli stili (l’alto e tragico riservato a vicende mitologiche o storiche e a personaggi di elevato livello sociale; il



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comico invece proiettato su una scena urbana, con personaggi borghesi o popolari), può realizzarsi solo nell’evasione della favola pastorale, portando a compimento lo sviluppo di tutta la tradizione bucolica, che nelle sue egloghe dialogate, e soprattutto nell’Arcadia di Sannazaro, aveva una fortissima dimensione teatrale, con personaggi reali semplicemente travestiti da pastori. Un primo tentativo è del solito Giraldi Cinzio, attento alle mutazioni dei generi e delle poetiche nel Cinquecento, e che a Ferrara compone la “favola di satiri” Egle (1545); e sempre a Ferrara viene rappresentata l’Aminta (1573, ed. 1580), capolavoro giovanile di Torquato Tasso, vagheggiamento della felicità innocente dell’età dell’oro. Ma non mancano gli attacchi degli aristotelici, come il professore padovano Giasone de Nores, che denuncia la ‘mostruosità’ della favola pastorale (1586). La risposta migliore alle critiche viene di nuovo da Ferrara, con Battista Guarini e il suo Pastor fido (1590), che è quasi il manifesto e la consacrazione del genere, a livello europeo, anche grazie alla fortuna di alcune sue parti musicate da Claudio Monteverdi. La storia si apre con una situazione difficile: la maledizione di Diana, che potrà essere placata solo col matrimonio di Silvio (discendente di Ercole) ed Amarilli (discendente di Pan), che però ama l’umile pastore Mirtillo, mentre il misogino Silvio concupisce tutte le altre donne, ed è amato disperatamente dalla infelice ninfa Dorinda, e dalla perfida e sensuale ninfa Corisca. Amarilli, sorpresa in una grotta con Mirtillo, viene condannata a morte per adulterio, ma Mirtillo si offre di morire al suo posto. Quando tutto sembra ormai perduto, ecco l’agnizione risolutiva: è Mirtillo il vero discendente di Ercole, e quindi è lecito il suo amore per Amarilli, mentre Dorinda può unirsi al suo Silvio. Torna la serenità in Arcadia, si ristabilisce l’ordine dell’onore, superiore al disordine del piacere, come aveva affermato il coro del quarto atto: “piaccia, se lice”. Nonostante il lieto fine, domina però un diffuso senso di malinconia, di morte, anche nell’idillico mondo dei pastori (sentimento già forte in Sannazaro, e poi nel Seicento rappresentato visivamente in un celebre quadro di Nicolas Poussin, intitolato Et in Arcadia ego, in cui è proprio la Morte che sembra parlare ai pastori, e rivelare la sua ineludibile presenza). Non più quindi l’Arcadia libera dell’Aminta, il regno di un piacere innocente e incorrotto. Vi sono penetrate ormai le leggi e le regole della società del Cinquecento, anche se poi la favola non ha finalità educativa, perché per Guarini la poesia “non ha per fine l’insegnare, ma il dilettare”.

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a c. di G. Masi, Milano, Mursia, 1994; Storia d’Italia, a c. di E. Pasquini, Milano, Garzanti, 1988; Storie fiorentine, a c. di A. Montevecchi, Milano, Rizzoli, 1998. Studi: F. Gilbert, Machiavelli e Guicciardini. Pensiero politico e storiografia a Firenze nel Cinquecento (1965), Torino, Einaudi, 1970; E. Lugnani Scarano, La ragione e le cose. Tre studi sul Guicciardini, Pisa, ETS, 1980; M. Palumbo, Gli orizzonti della verità. Saggio su Guicciardini, Napoli, Liguori, 1984, e F. Guicciardini, ivi 1988. 1.3. Dibattiti di lingua e di poetica. Testi: Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, a c. di B. Weinberg, Bari, Laterza, 1970-1974; Trattatisti del Cinquecento, a c. di M. Pozzi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1993. Studi: M. Pozzi, Lingua e cultura del Cinquecento, Padova, Liviana, 1975; G. Mazzacurati, Misure del classicismo rinascimentale, Napoli, Liguori, 1990; G. Belloni, Laura tra Petrarca e Bembo. Studi sul commento umanistico-rinascimentale al “Canzoniere”, Padova, Antenore, 1992. 1.4. La poesia. Antologie: Lirici del Cinquecento, a c. di L. Baldacci (1957), Milano, Longanesi, 1984; Lirici del Cinquecento, a c. di D. Ponchiroli, Torino, UTET, 1958; Poeti del Cinquecento, a c. di G. Gorni e al., Milano-Napoli, Ricciardi, 1998; Manieristi e irregolari del Cinquecento, a c. di M. Mari, Roma, Ist. Poligrafico dello Stato, 2004. Studi: B. Croce, Poesia popolare e poesia d’arte. Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento, Bari, Laterza, 1946; S. Carrai, L’ usignolo di Bembo. Un’idea della lirica italiana del Rinascimento, Roma, Carocci, 2006. Sulla formazione e la tradizione del ‘libro di poesia’: Il libro di poesia dal copista al tipografo, a c. di M. Santagata e A. Quondam, Modena, Panini, 1989; R. Fedi, La memoria della poesia. Canzonieri, lirici e libri di rime nel Rinascimento, Roma, Salerno, 1990; «I più vaghi e i più soavi fiori». Studi sulle antologie di lirica del Cinquecento, a c. di M. Bianco ed E. Strada, Alessandria, Dell’Orso, 2001. Sul petrarchismo: M. Guglielminetti, Il petrarchismo italiano nel Cinquecento, Padova, Liviana, 1971, e Petrarca e il petrarchismo. Un’ideologia della letteratura, Alessandria, Dell’Orso, 1994; L. Baldacci, Il petrarchismo del Cinquecento, Padova, Liviana, 1974; I territori del petrarchismo. Frontiere e sconfinamenti, a c. di C. Montagnani, Roma, Bulzoni, 2005; Il Petrarchismo. Un modello di poesia per l’Europa, a c. di L. Chines, F. Calitti e R. Gigliucci, Roma, Bulzoni, 2006. Testi: G. Della Casa, Le Rime, a c. di S. Carrai, Torino, Einaudi, 2003; Michelangelo Buonarroti, Rime, a c. di E.N. Girardi, Bari, Laterza, 1967; Poetesse italiane del Cinquecento, a c. di S. Bianchi, Milano, Mondadori, 2003. Sul manierismo napoletano: G. Ferroni – A. Quondam, La “locuzione artificiosa”. Teoria ed esperienza della lirica a Napoli nell’età del Manierismo, Roma, Bulzoni, 1973; A. Quondam, La parola nel labirinto. Società e scrittura del Manierismo a Napoli, Bari, Laterza, 1975.

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Sull’epica: G. Baldassarri, Il sonno di Zeus. Sperimentazione narrativa e tradizione omerica nel poema rinascimentale, Roma, Bulzoni, 1982; A. Casadei, La fine degli incanti. Vicende del poema epico-cavalleresco nel Rinascimento, Milano, Angeli, 1997. - T. Folengo, Baldus, a c. di M. Chiesa, Torino, UTET, 2006; Macaronee minori. Zanitonella, Moscheide, Epigrammi, a c. di M. Zaggia, Torino, Einaudi, 1987; Teofilo Folengo e i macaronici, a c. di G. Ferroni, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1996. Studi: I. Paccagnella, Il fasto delle lingue, Roma, Bulzoni, 1984, e Le macaronee padovane. Tradizione e lingua, Padova, Antenore, 1979; M. Chiesa – S. Gatti, Il Parnaso e la Zucca. Testi e studi folenghiani, Alessandria, Dell’Orso, 1995; A. Capata, Semper truffare paratus. Genere e ideologia nel Baldus di Folengo, Roma, Bulzoni, 2000; M. Scalabrini, L’incarnazione del macaronico. Percorsi del comico folenghiano, Bologna, Il Mulino, 2003. - G. Chiabrera, Maniere, scherzi e canzonette morali, a c. di G. Raboni, Parma, Guanda, 1998; Opera lirica, a c. di A. Donnini, Torino, RES, 2006; Poemetti sacri 1627-1628, a c. di L. Beltrami e S. Morando, intr. di F. Vazzoler e S. Morando, Venezia, Marsilio, 2007. 1.5. La prosa. - G. Della Casa, Galateo overo de’ costumi, a c. di E. Scarano, Modena, Panini 1990. Cfr. M.A. Cortini, “Et in udendo il silentio”. Una lettura del Galateo, Roma, Bulzoni, 2004. - P. Aretino, Sei giornate, a c. di G. Aquilecchia, Bari, Laterza, 1980; Lettere, a c. di F. Erspamer, Parma, Guanda, 1995-1998; a c. di G.M. Anselmi, Roma, Carocci, 2000; a c. di P. Procaccioli, Roma, Salerno, 1997-2002 (Edizione Nazionale); Pietro Aretino, a c. di G. Ferroni, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 2002; Tutte le commedie, a c. di G.B. De Santis, Milano, Mursia, 2009. Studi: M. Cottino Jones, Introduzione a Pietro Aretino, Bari, Laterza, 1993; P. Larivaille, Pietro Aretino, Roma, Salerno, 1997. Sui libri di lettere: Le “carte messaggiere”. Retorica e modelli della comunicazione epistolare: per un indice dei libri di lettere del Cinquecento, a c. di A. Quondam, Roma, Bulzoni, 1981. - G. Vasari, Le opere, Firenze, Le Lettere, 1998; Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, a c. di L. Bellosi e A. Rossi, Torino, Einaudi, 2005. Cfr. G. Pozzi – E. Mattioda, Giorgio Vasari storico e critico, Firenze, Olschki, 2006. - B. Cellini, La vita, a c. di L. Bellotto, Parma, Guanda, 1996. Cfr. Benvenuto Cellini artista e scrittore, Roma, Accademia dei Lincei, 1972. - P. Giovio, Elogi degli uomini illustri, a c. di F. Minonzio, Torino, Einaudi, 2006; Dialogo dell’imprese militari e amorose, a c. di M.L. Doglio, Alessandria, Dell’Orso, 1978. Cfr. B. Agosti, Paolo Giovio. Uno storico lombardo nella cultura artistica del ‘500, Firenze, Olschki, 2008. - Paolo Sarpi, a c. di C. Vivanti, Roma, Ist. Poligrafico dello Stato, 2000. Cfr. G.



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Ruzante e la letteratura pavana, Padova, Antenore, 1964; P. Sambin, Per le biografie di Angelo Beolco, il Ruzante, e di Alvise Cornaro, Padova, Esedra, 2002; P.M. Vescovo, Da Ruzante a Calmo. Tra «signore comedie» e «onorandissime stampe», Padova, Antenore, 1996, e Il villano in scena. Altri saggi su Ruzante, Padova, Esedra, 2007. - G.B. Della Porta, Teatro, a c. di R. Sirri, Napoli, ESI, 2000-2003; Opere, a c. di M. Durante, Messina, Sicania, 2005. - B. Guarini, Pastor fido, a c. di E. Selmi, Venezia, Marsilio, 1999.

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2.1. La vita Torquato Tasso nacque a Sorrento nel 1544, dalla nobile napoletana Porzia de’ Rossi e dal poeta Bernardo, segretario e uomo di fiducia del principe di Salerno Roberto Sanseverino, che, dichiarato ribelle dal viceré spagnolo di Napoli don Pedro di Toledo, fu costretto all’esilio in Francia, portandosi dietro anche Bernardo. L’infanzia di Torquato si svolse dunque tra Salerno e Napoli, con la madre, e in parte godendo di una prima educazione presso i Gesuiti, che allora stavano stabilendo le loro importanti scuole a Napoli. Ritrova a Roma il padre, che nel frattempo si era staccato dal gravoso seguito del Sanseverino (1554), e da allora lo segue in giro per alcune importanti corti e città italiane: ad Urbino, presso Guidubaldo II Della Rovere (1557), e a Venezia (1559). Sono anche gli anni degli studi classici e universitari, a Padova, dove segue all’inizio le lezioni di diritto a cui preferisce poi quelle di filosofia ed eloquenza, e a Bologna, donde fugge per una inopportuna satira sull’ambiente universitario (1560-1562). Ma è anche il tempo della prima produzione poetica, all’ombra del padre Bernardo, celebrato autore di rime, e del poema Amadigi: a Venezia Torquato inizia un poema storico sulla Prima Crociata, Il Gierusalemme (1559), lo lascia incompiuto e si sposta sulla materia cavalleresca del Rinaldo (1562), dedicato al cardinale Luigi d’Este. Nell’ambiente universitario di Padova, dopo la lettura della Poetica di Aristotele stende un primo abbozzo dei Discorsi dell’arte poetica, et in particolare del poema heroico (1562). E intanto continua una fertile produzione di rime, legate a motivi occasionali o agli amori giovanili per donne come Laura Peperara e Lucrezia Bendidio. Nel 1565 la vita del ventenne Torquato sembra arrivare all’esito programmato, quello dell’inserimento organico in una corte rinascimentale, che è quella splendida della Ferrara estense al tramonto. Il giovane ne condivide

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in pieno gli obblighi (un viaggio in Francia al servizio del cardinale d’Este nel 1570) e le opportunità di libertà creativa, come la rappresentazione della favola pastorale Aminta (1573, ed. 1580). Comincia a comporre una tragedia di argomento nordico, il Galealto re di Norvegia, insegna allo Studio rudimenti di fisica aristotelica, e diventa anche storiografo ufficiale (1576). Ma soprattutto, in questi anni di entusiasmi collettivi per la rivincita cristiana contro i Turchi nella battaglia di Lepanto (1571), continua la sua passione per il poema cavalleresco, che torna alla materia storica (e non favolosa) della Prima Crociata, con un poema in venti canti, il Goffredo, intitolato all’eroe di quella crociata, Goffredo da Buglione, e letto al duca Alfonso d’Este (1575). Eppure, proprio all’apice del successo mondano e letterario, cominciano a manifestarsi i primi segni del disagio esistenziale e psichico di Torquato, che avverte in modo acutissimo le inquietudini religiose del suo tempo, fra i timori dell’Inquisizione e di possibili sospetti di eresia nei confronti delle sue opere. Uno strisciante complesso di persecuzione, che lentamente gli fa apparire nemica anche la corte ferrarese, e che culmina nel 1577 con l’aggressione ad un servitore. Dopo una prima breve prigionia, Torquato fugge e vagabonda per l’Italia, giungendo fino a Sorrento, dove si presenta travestito da frate alla sorella Cornelia, facendosi riconoscere solo in un secondo momento. Nel 1579 torna a Ferrara, in occasione delle nozze tra il duca Alfonso e Margherita Gonzaga, e dà in escandescenze di fronte alla corte, facendosi rinchiudere, come pazzo furioso, nell’isolamento dell’ospedale di Sant’Anna per ben sette anni. Il periodo più terribile della sua vita, in cui però l’esercizio della scrittura continua in modo prodigioso, consentendogli una via di liberazione almeno morale, per mezzo della comunicazione letteraria, oltre le mura della cella di Sant’Anna, con il mondo che l’aveva dichiarato folle. Compone centinaia di lettere e rime, e importanti Dialoghi su tematiche di grande attualità nel dibattito contemporaneo (la poesia, la nobiltà, la donna, la funzione del letterato ecc.). Intanto vengono pubblicate le sue opere del periodo cortigiano: l’Aminta (1580), e il poema Goffredo (1580), ribattezzato Gerusalemme liberata nell’edizione curata dall’amico Angelo Ingegneri (1581). L’enorme e immediata fortuna del poema, con il nuovo titolo (mai accettato dall’autore), ne consacrò definitivamente la fama, accendendo anche le discussioni sulla poesia epica, concentrate sul confronto fra Ariosto e Tasso: l’Italia letterata si divide in sostenitori del primo (la Crusca, che accusa Tasso di oscurità stilistica), e partigiani del secondo (Camillo Pellegrino, che ne Il Carrafa ovvero dell’epica poesia, del 1584, ne celebra la modernità patetica e sentimentale), e nell’agone scende lo stesso



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Tasso, con una Apologia (1585) che è anche difesa dell’Amadigi del padre Bernardo, rivendicazione della libertà di utilizzare la materia storica, della coesistenza di verità storica e invenzione poetica, della legittimità delle voci non toscane e della creatività linguistica. Un poeta così celebre era diventato intanto un prigioniero scomodo nell’ospedale di Sant’Anna. Dopo la liberazione (1586), Tasso iniziò l’ultimo decennio della sua vita, trascorso in un inquieto peregrinare tra i più importanti centri della cultura contemporanea, a cominciare dalla Mantova degli ultimi Gonzaga (1586 e 1591), dove riscrive la tragedia Galealto col titolo Re Torrismondo. Nella splendida Napoli vicereale (la città che l’aveva accolto fanciullo) soggiorna a più riprese, ospite del convento di Monteoliveto (1588), dove scrive il poemetto Monteoliveto sulla solitudine contemplativa, e il poemetto bucolico Il rogo amoroso; viene poi accolto con entusiasmo dai giovani intellettuali e patrizi napoletani, Matteo Di Capua e Giambattista Manso, Carlo Gesualdo principe di Venosa e Giambattista Marino, e compone un poema sulla creazione, Le sette giornate del Mondo Creato (1592); e risiede infine presso i Benedettini, dove inizia un poema Della vita di san Benedetto (1594). Ma è Roma, la rinnovata capitale del cattolicesimo controriformista, che lo attira nelle residenze più lunghe, a partire dal 1587. Qui il Tasso attende alla lunga e impegnativa revisione della Liberata, pubblicata col titolo (definitivo e approvato dall’autore) di Gerusalemme Conquistata (1593). E qui muore, nel 1595, nel convento di Sant’Onofrio al Gianicolo.

2.2. Il poema In fondo, tutta l’opera di Tasso, dall’adolescenza fino alla morte, ruota intorno alla scrittura di un grande poema, un testo che risolvesse le aporie e le difficoltà strutturali che il genere cavalleresco aveva sempre avuto, nel rapporto contraddittorio tra originaria tradizione orale e popolare ed elaborazione scritta cortigiana e letteraria, contraddizioni ingigantite dalla comparsa di un capolavoro non imitabile e non ‘continuabile’ come il Furioso. Il poema ariostesco costituiva una specie di sfida permanente, raccolta ad esempio da Bernardo Tasso con l’Amadigi, e quindi con il ricorso ad una tradizione straniera, europea. Di più, il tema del confronto tra Cristianità e Islam sembrava diventare giorno dopo giorno più urgente, con il pericolo costituito dai Turchi che ormai dilagavano nel Mediterraneo orientale, travolgendo i Cavalieri Gerosolimitani a Rodi, conquistando l’Ungheria, Cipro, i domini veneziani nel Peloponneso, e assediando Malta. Allo stesso giovane Torquato giungevano le notizie della devastazione di Sorrento e Capri, prese

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d’assalto dal feroce pirata saraceno Kair-ed-Din, detto il Barbarossa. Va detto però che questo pericolo era percepito da un punto di vista prevalentemente italiano e centroeuropeo, perché il resto del continente era già proiettato sulla conquista delle Americhe. L’idea di piegare la letteratura al servizio di questo scontro di civiltà nasce a Venezia, nel 1559. La materia non è più la vicenda favolosa del ciclo carolingio (ripresa dagli ultimi grandi autori, Pulci, Boiardo, Ariosto), ma quella storica, reale, del momento in cui l’Europa cristiana aveva battuto l’Islam, riconquistando i luoghi santi della Palestina, la Prima Crociata guidata da Goffredo di Buglione nel 1099. Tasso inizia così il suo primo poema, intitolato Il Gierusalemme, il cui contenuto è già descritto nei versi iniziali che segnano l’appartenenza ad un genere epico-eroico, più che ‘romanzesco’ o ‘avventuroso’: “L’armi pietose io canto e l’alta impresa / di Gotifredo e de’ cristiani eroi / da cui Gierusalem fu cinta e presa / e n’ebbe impero illustre origin poi”. Un progetto già grandioso, per un ragazzo di soli quindici anni, e quindi lasciato incompiuto dopo sole 116 ottave. Dopo l’intermezzo di un poema cavalleresco in dodici canti intitolato Rinaldo (1562), che sostituisce alla varietà ariostesca una sola storia d’amore tra il paladino Rinaldo e la bella Clarice (anche in ossequio alla regola aristotelica dell’unità d’azione), Tasso torna alla sua epopea della Prima Crociata, e termina il poema, stavolta intitolato col nome dell’eroe cristiano per eccellenza, Goffredo, in venti canti, finito nel 1575 e letto al duca Alfonso: un poema epico regolare che riprende con coerenza i grandi modelli del genere, Omero e Virgilio. Abbandonate le leggende medievali, prevale una struttura di fondo basata sulle fonti storiche medievali, e coniugata con episodi ‘verisimili’. Alla poliedrica complessità dell’Ariosto si sostituisce l’unità strutturale del racconto. La revisione del poema, anche troppo attenta e talvolta maniacale, coadiuvata dal giudizio di recensori e celebri letterati, avrebbe contribuito ad alimentare le paure e il senso di persecuzione dell’autore, secondo una tradizione biografica forse un po’ leggendaria. Fatto sta che quel processo di revisione trovò il suo punto di arrivo proprio nel periodo terribile del carcere di Sant’Anna, nella liberazione spirituale del capolavoro che, uscito dalle mura della prigione, fu stampato nelle prime edizioni non autorizzate, col titolo Goffredo (1580, edizione parziale in 12 canti), e poi Gerusalemme liberata (Parma 1581: titolo dato dal letterato e amico Angelo Ingegneri, forse su memoria del poema del Trissino, L’Italia liberata dai Goti, e mai accettato dal poeta). La Liberata conserva l’idea iniziale del Gierusalemme e del Goffredo, la centralità della figura dell’eroe cristiano, il personaggio storico di Goffredo



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di Buglione, su cui si proietta l’ideale del condottiero e del principe moderno: e i primi versi sembrano la riscrittura di quelli che già iniziavano il Gierusalemme: “Canto l’armi pietose e ’l capitano / che ’l gran sepolcro liberò di Cristo”. Resta anche l’aspirazione a superare l’Ariosto in nome dell’unità strutturale di marca aristotelica. Ma ora questa unità (di luogo, di azione, di tempo: Gerusalemme, la Crociata, il 1099) è più apparente che reale. Il mondo della Liberata non è affatto statico, ma mobile e inquieto, e giocato su una inaspettata molteplicità di luoghi e di personaggi. Al personaggio storico Goffredo si affianca così la figura di Rinaldo, il campione cristiano che svolge anche funzione encomiastica nei confronti degli Estensi, in quanto inserito nella genealogia dei signori di Ferrara come lo era stato il Ruggiero dell’Ariosto: e come Ruggiero è eroe ambivalente, temporaneamente vinto dalle dolcezze erotiche della maga Armida nelle isole della Fortuna, donde viene ritrovato e riportato al dovere dai cavalieri Carlo e Ubaldo. L’altro campione è Tancredi, guerriero generoso, impulsivo, fortissimo, destinato a uccidere l’amata Clorinda (vergine guerriera del campo saraceno) senza riconoscerla; e oggetto del desiderio della bella Erminia, che per lui abbandona Gerusalemme, e alla fine riesce a coronare il suo amore. Dall’altro lato gli eterni nemici, i ‘cattivi’ dell’epica cavalleresca, i Mori, i Saraceni, gli Infedeli: Argante e Solimano, entrambi però presentati come due eroi magnanimi, malinconici e consapevoli di un proprio destino di morte, e non esempi di immanità come gli ariosteschi Rodomonte e Mandricardo. Da Virgilio proviene un più diffuso senso della pietas, di una umanità comune al cristiano e all’infedele, al vincitore e al vinto; e la guerra, lungi dall’essere una gloriosa pompa, mostra l’orrore del suo vero volto, la strage e il massacro. Dalle scene corali Tasso passa continuamente al dettaglio individuale, in cui l’approfondimento della psicologia del singolo personaggio consente di volta in volta di esplorare gli aspetti patetici e sentimentali, alternativi a quelli eroici e religiosi. Un mondo di dubbi, di incertezze, di sospensioni, al quale corrisponde sempre la scenografia paesaggistica e naturale, in ‘consonanza’ con le situazioni descritte e lo stato d’animo dei personaggi. Il tempo dell’azione (come nell’Arcadia di Sannazaro) si dipana in una successione mirabile di notturni e di albe. La ‘simpatia’ con la Natura è anzi uno degli elementi fondamentali della poetica tassiana, collegata a quella di Virgilio e di Sannazaro, il punto d’incontro più evidente di una poesia che si colloca a metà tra il genere epico e il genere lirico. Ma anche premonizione delle più moderne forme teatrali, quelle che tenderanno alla fusione con la musica e alla compiuta manifestazione del patetico, come in uno degli episodi più intensi e ‘teatrali’ del poema, la morte dell’eroina Clo-

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rinda, scandita, in un commosso rallentamento temporale, dal ritmo franto delle sue ultime parole a Tancredi, suo amante e suo assassino: “Amico hai vinto: io ti perdon... perdona / tu ancora” (XII, 66,1-2). Lo stile, allora, è il luogo di suprema elaborazione di questa poesia, così lontana dalla tradizione canterina e cavalleresca, strettamente legata al laboratorio della poesia lirica, soprattutto la madrigalistica e la poesia per musica. Non si riuscirebbe a spiegare altrimenti la natura intimamente musicale dell’ottava tassiana, lungo i cui endecasillabi scorrono onde ritmico-musicali aperte, in un fluire ininterrotto che presenta l’enjambement spesso in chiusura di strofa. E la lingua realizza il miracolo di precipitare all’interno del genere epico-eroico parole popolari, puntando alla sonorità del verso, alla forma del significante più che ai significati, in un effetto di magnificazione epica. Più che poesia destinata all’oralità, una poesia di lettura interiore, che contiene dentro di sé tutte le cifre della propria musica. Il senso generale del poema, dunque, va ben oltre la celebrazione di un episodio glorioso della storia della Cristianità, e dell’impegno a rinnovare quella storia nel presente. Nell’immaginario di Tasso si accampa il quadro grandioso di una lotta tra il bene e il male, che diventa anche, nelle dicotomie drammatiche dell’età della Controriforma, la lotta tra dovere e piacere, tra norma e disordine, tra unità e varietà. È una sostanziale dualità di fondo, e il movimento irrisolto di Tasso da un polo all’altro è il movimento eterno della sua poesia, il dato che la fa grande, e tragica. Nell’unità del classicismo rinascimentale è entrato il sentimento dell’ignoto, dell’infinito, della rovina, della solitudine. Dopo la protasi, l’invocazione alla Musa, e la dedica al duca Alfonso, la narrazione inizia con la presentazione dell’esercito crociato in Palestina, indebolito da divisioni interne, e alla cui testa si pone finalmente, per ispirazione divina, Goffredo di Buglione, che passa in rassegna l’armata, e gli eroi cristiani: l’impetuoso Tancredi (innamorato della pagana Clorinda), e il giovane Rinaldo (antenato degli Estensi) (I). Intanto a Gerusalemme il re Aladino, consigliato dal mago Ismeno, ordina la strage dei cristiani, incolpati del furto di una sacra icona della Madonna: se ne accusa una vergine cristiana, Sofronia, ma anche il suo innamorato Olindo, ed entrambi sono salvati dal supplizio per l’intercessione generosa di Clorinda. Dopo un’inutile ambasceria dei pagani Alete e Argante (II), i crociati giungono in vista di Gerusalemme: prima battaglia con i saraceni, dominata dallo scontro tra Clorinda e Tancredi, che le dichiara comunque il suo amore, e dalla morte di Dudone ucciso da Argante (III). Anche le potenze infernali parteggiano per i pagani, mentre il mago Idraote, signore di Damasco, invia la bellissima nipote e maga Armida nel campo cristiano a fingere una richiesta di aiuto, e distrarre così i cavalieri più forti dall’impresa: cosa che puntualmente avviene, anche per la seduzione di Armida, nonostante la contrarietà di Goffredo



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(IV). E tra i cristiani le cose non vanno più tanto bene: in una lite Rinaldo uccide Gernando e poi abbandona il campo, mentre giungono pessime notizie dell’arrivo di un immenso esercito egiziano (V). Terribile ma inconcluso duello fra Argante e Tancredi, di cui si innamora pazzamente la principessa saracena Erminia, che fugge di notte da Gerusalemme, travestita con l’armatura di Clorinda e inseguita vanamente da Tancredi (VI), fino a giungere alle rive del Giordano, dove il dolce contesto bucolico la convince a restare. Intanto Tancredi, attirato con l’inganno, è imprigionato per magia nel castello incantato di Armida; ad Argante, che vuole riprendere il duello, si oppone il vecchio Raimondo, ma la tenzone si trasforma in una sanguinosa battaglia, a cui prendono parte anche le potenze infernali, con un terribile temporale (VII). Nel deserto l’esercito di Solimano ha sterminato i Danesi di Sveno, e si crede morto ormai anche Rinaldo: il demone Aletto semina la discordia tra italiani e francesi, sobillati da Argillano (VIII). Attacco a sorpresa dei saraceni, Solimano uccide Argillano, ma Goffredo riesce a capovolgere le sorti dello scontro, grazie all’inaspettato ritorno dei cinquanta cavalieri già sedotti da Armida, e liberati da Rinaldo (IX). Solimano, entrato a Gerusalemme grazie alle arti magiche di Ismeno, convince Aladino alla resistenza (X). Processione dei cristiani al Monte degli Ulivi alla vigilia del grande assalto, che avviene il giorno dopo con l’ausilio di una grande torre d’assedio (XI). Sortita di Clorinda e Argante, che riescono a incendiare la torre; ma Clorinda, rimasta fuori le mura, ingaggia un tremendo duello con Tancredi, senza mai togliersi l’elmo e rivelargli la propria identità, finché non viene colpita a morte, e solo allora, spirando tra le sue braccia, si fa riconoscere, chiedendo il battesimo (XII). I démoni infestano la selva di Saron, spaventando i cristiani, e impedendo la raccolta del legno necessario alle riparazioni delle macchine d’assedio, e la siccità infierisce sui crociati, finché non giunge provvidenzialmente la pioggia, inviata da Dio dopo le preghiere di Goffredo (XIII). Goffredo, perdonato Rinaldo, invia i cavalieri Carlo e Ubaldo a riportarlo al campo di battaglia. I due scendono nel palazzo sotterraneo del mago di Ascalona, che riferisce della seduzione amorosa operata da Armida sull’eroe, tenuto prigioniero delle sue delizie in un palazzo labirintico nelle Isole Fortunate, nell’Oceano Atlantico (XIV). L’isola di Armida è raggiunta subito attraversando il Mediterraneo su un’imbarcazione fatata guidata proprio dalla Fortuna (XV). Rinaldo, inebriato dai piaceri del giardino di Armida, si vergogna di sé specchiandosi nello scudo di Ubaldo, e fugge; Armida giura di vendicarsi (XVI), e raggiunge l’esercito egiziano guidato dal califfo Emireno, mentre i cavalieri cristiani hanno presso il mago di Ascalona la visione profetica della gloria di casa d’Este, discendenza di Rinaldo, e tornano infine da Goffredo (XVII). Solo Rinaldo, dopo la confessione con Pietro l’Eremita e la preghiera di purificazione sul Monte degli Ulivi, può ora vincere la selva incantata; viene ricostruita la torre d’assedio, e nel nuovo assalto Rinaldo è il primo a salire sulle mura nemiche, e Goffredo vi pianta la bandiera cristiana (XVIII). Conquista e spietato sacco di Gerusalemme, ultima resistenza di Solimano nella Torre di Davide. In una valletta duello finale di Argante, che muore, e Tancredi, che resta gravemente ferito, e viene soccorso dall’amorevole Erminia; cavallerescamente Tancredi fa dare sepoltura anche al

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nemico Argante (XIX). Arriva finalmente l’esercito egiziano per l’ultima battaglia, in cui muoiono Aladino e Solimano. Armida sta per suicidarsi, ma Rinaldo la salva, e ne favorisce l’inopinata conversione. Infine Goffredo uccide in duello Emireno, e va al Santo Sepolcro a deporre le armi (XX).

La Liberata, completata nell’orrore esistenziale di Sant’Anna, non fu però mai riconosciuta dal suo autore, che si sforzò, per tutta la parte rimanente della sua vita, di riscriverla secondo i principi di una poetica che, nel frattempo, anelava a ridurre la molteplicità e la dualità in unità, il movimento in stabilità, l’inquietudine nella massima coerenza stilistica e religiosa, secondo una “tessitura più ampia e magnifica” (come scrisse lo stesso Tasso in Del giudizio sovra la sua Gerusalemme da lui stesso riformata). Un destino paradossale, per il poema che in realtà era l’opera ‘in movimento’ di tutta una vita: un testo che aveva cambiato più volte titolo, ma che sembra quasi acquistare, davanti agli occhi dell’autore, una sua vita, fino all’ultima metamorfosi, l’unica ‘autorizzata’, la Gerusalemme Conquistata (1593) che dilata il testo in 24 libri, passando dalle 1927 ottave della Liberata a ben 2739 ottave; ma che, soprattutto, sul piano qualitativo della revisione linguistica, porta al dominio del tono tragico, e del sublime nella sfera religiosa ed eroica, per mezzo di amplificazioni, perifrasi, epiteti, parole solenni e arcaiche, rime interne, onomatopee. Oltre al diverso incipit, “Io canto l’arme e ’l cavalier sovrano / che tolse il giogo a la città di Cristo”, cambiano gli stessi nomi dei personaggi (l’eroe Rinaldo diventa Riccardo, la bella Erminia si chiama ora Nicea), e alcune parti scopertamente erotiche o troppo digressive, romanzesche, avventurose, vengono semplicemente eliminate (Olindo e Sofronia; Erminia tra i pastori). Si riduce la pietas nei confronti del nemico: ad Armida non si concede possibilità di redenzione, ma solo una crudele punizione, e i Saraceni sono in genere manichini disumani, che è giusto uccidere. Libri interamente nuovi sono ora il XVIII (l’incendio delle navi crociate e la disperata difesa dei cristiani), il XIX (la battaglia, e l’uccisione di Ruperto che veste le armi di Riccardo), il XX (visione profetica di Goffredo: la storia umana, dalle figure bibliche ai pontefici e agli imperatori, fino all’età contemporanea, agli Asburgo e ai principi italiani), e il XXI (funerali di Ruperto, lutto e purificazione di Riccardo, rivestito da Pietro l’Eremita con una nuova armatura): tutti episodi che rivelano l’insistenza sul registro epico alto, e l’influenza del modello dell’Iliade, più di quello dell’Eneide. La Conquistata perde irrimediabilmente quegli elementi di mobilità che aveva la Liberata, ma bisogna anche riconoscere che acquista, nei suoi momenti più alti, vette inarrivate di spettacolarità e terribilità. Il suono fragoroso delle trombe riempie ormai di sé una grande macchina finalizzata a comunicare, prima d’ogni altra cosa, il ‘magnificente’, il ‘maraviglioso’.



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2.3. Teatro Tasso aveva dimostrato, nella lunga storia del suo poema, un’intelligenza non comune delle forme di spettacolarizzazione della vita e della letteratura contemporanea. A quasi trent’anni, nel momento di più serena integrazione con il mondo cortigiano di Ferrara, si cimentò con il ‘terzo genere’, scrivendo di getto lo straordinario successo dell’Aminta (1573, ed. 1580), messa in scena nell’isoletta di Belvedere presso Ferrara. Si tratta di una favola pastorale in cinque atti, rappresentazione dell’amore non ricambiato del pastore Aminta per la ninfa Silvia: Aminta, credendo morta la ninfa, tenta il suicidio gettandosi da una rupe, e Silvia, fino ad allora irremovibile, ne prova finalmente pietà, ed amore; e allora ecco il colpo di scena, Aminta si è salvato, Silvia non può più tornare indietro, e i due convolano a giuste nozze e felicità. Lo sviluppo è molto semplice, con pochi personaggi, ridotti quasi al rango di consiglieri-comparse, oltre la coppia principale. Non ci sono, nella favola, veri antagonisti, oppositori, al progetto di felicità di Aminta, se non gli stessi protagonisti: Aminta, perché incapace di confessare il suo amore, se non col gesto estremo del suicidio; Silvia, perché ostile e negatrice dell’amore. Importante è allora la funzione (teatrale e comunicativa) del coro, in particolare nel I atto, quando viene celebrato il canto “O bella età dell’oro”: vagheggiamento di un’utopia di piacere senza peccato, di eros collettivo privo di angosce e paure, regolato dall’unica legge del diletto: “S’ei piace, ei lice”. Su tutto, una poetica del vago, dell’indefinito, fatta più di sensazioni e di atmosfere, che di situazioni nette e distinte. Il lieto fine dell’Aminta ha rovesciato a sorpresa quella che sembrava una tragedia, la morte di Aminta, e l’ingresso della Morte nell’idilliaco mondo dei pastori. Questa, in fondo, era la caratteristica del ‘terzo genere’, intermedio tra la commedia e la tragedia. Ma Tasso sperimentò anche, con particolare intensità, la tragedia, cercando in questo caso di seguire i principi della poetica di Aristotele. Novità radicale, rispetto agli altri primi tragediografi italiani, fu quella di scegliere una tematica del tutto originale: una storia del profondo e tenebroso Nord del mondo, la Scandinavia, a quest’epoca terra ancora del tutto leggendaria, dai mari popolati di mostri marini, e a stento illuminata da un‘opera bizzarra e fantastica che Tasso aveva letto con grande curiosità, l’Historia de gentibus septentrionalibus (‘storia dei popoli del Nord’) del vescovo svedese Olao Magno. Da quel mondo venne l’abbozzo di tragedia intitolato Galealto re di Norvegia, e poi compiuto come Re Torrismondo (1586, nella Mantova dove Tasso si era rifugiato dopo la liberazione, e dove forse nasce anche la commedia Intrichi d’amore). È una storia che ha il senso di un destino ineluttabile, contro cui è inutile lottare. Torrismondo re dei Goti, intermediario fra Germondo re di

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Svezia e il re di Norvegia, deve portare in sposa a Germondo Alvida, figlia del re di Norvegia. Durante il viaggio, però, Torrismondo possiede Alvida, e lei crede che sia lui il promesso sposo. Torrismondo vorrebbe allora, in cambio di Alvida, offrire in sposa a re Germondo sua sorella Rosmonda, ma scopre con orrore che in realtà Alvida è sua sorella, e che l’atto d’amore che hanno consumato è in realtà un incesto. Non resta altro che il doppio suicidio di Torrismondo e di Alvida. Oltre la trama, colpisce il nuovo immaginario ‘nordico’ di Tasso, in gran parte desunto da Olao, e contaminato con il mondo tragico di Sofocle e di Seneca: un presentimento di cieli lividi, mari tempestosi, terre inospitali e desertiche, proiezione dello stato d’animo dell’homo melancholicus che contempla l’estremo punto di arrivo dell’humanitas rinascimentale.

2.4. Prose Un giovanissimo Tasso, a Padova nel 1562, nel fervido contesto universitario delle lezioni dello Speroni e di Carlo Sigonio, si era cimentato con il dibattito sulle poetiche, con la stesura del primo abbozzo dei Discorsi dell’arte poetica, et in particolare del poema heroico, ripresi e completati nel 1587. Si trattava di una tematica fondamentale per il poeta che, dal Gierusalemme alla Liberata, si era misurato con la composizione di un poema che superasse le difficoltà strutturali della tradizione cavalleresca. Il poema epico va quindi ricondotto alle prescrizioni della Poetica di Aristotele, il che implica uno stretto rapporto con il genere della tragedia. La sua materia si colloca tra il vero storico e il ‘verisimile’, e lo stile eroico deve avere la giusta escursione tra la gravità del tragico e la vaghezza del lirico. In una successiva redazione, i Discorsi del poema heroico (1594) avrebbero rispecchiato di più la poetica della Conquistata, con una nuova teoria della ‘magnificenza’ di stile e di linguaggio che comporta anche una straordinaria coscienza della nuova funzione del poeta. L’unità strutturale del poema va perseguita con ogni mezzo, perché il rapporto fra autore e opera si inscrive in un sistema che vede sullo stesso piano il rapporto fra Dio e mondo, e fra macrocosmo e microcosmo. Il poema è realmente “un picciolo mondo”, un organismo vitale in cui si rispecchia l’intero universo. Non basta più, per raccontare il mondo, il verisimile, ma serve ora il meraviglioso: una strada aperta per tutta la generazione di giovani poeti che, a Roma e soprattutto a Napoli (Giambattista Marino), ebbero modo di eleggere il vecchio Tasso a loro maestro. Nel carcere di Sant’Anna, a partire dal 1579, Tasso aveva coltivato anche un altro genere di prosa, il dialogo, che viene piegato ad esiti originali rispetto



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alla tradizione rinascimentale (come del resto avrebbe fatto Giordano Bruno). I ventisei Dialoghi affrontano temi comuni del dibattito contemporaneo, di derivazione umanistica: il gioco, l’educazione, la famiglia, la nobiltà di sangue e di costumi, la posizione della donna nella società e nella cultura, la poesia, la moda delle ‘imprese’ (consacrata da Giovio), la funzione dell’intellettuale e del letterato cortigiano (sempre più ridotto a mansioni di ‘secretario’) ecc. ecc. Non manca la riflessione sulla ‘corte’, ne Il Malpiglio, overo della corte, che, a partire dal Castiglione, insiste sulla doppia polarità corte-accademia, e riconosce nella prudenza la dote principale del cortigiano moderno, quella che gli consente di sopravvivere in un mondo in cui prevale la doppiezza e l’ipocrisia. Tra i personaggi dei dialoghi compare talvolta anche la figura del Tasso, col nome enigmatico di Forestiero Napolitano: lui, che era nato nel Regno di Napoli, e che ora, dichiarato folle ed escluso dal consorzio umano, con ironia poteva dirsi veramente ‘straniero’. Infine, la prosa tassiana si stende su un vasto corpus di circa 1300 lettere, solo una parte delle quali sarebbe dovuta confluire in una raccolta epistolare sulla genesi del poema, espressione continua dei dubbi del poeta sulla sua opera, talvolta piccoli trattati, lettere ‘aperte’ su tematiche di rilievo, e che avevano una larga circolazione pubblica. Ne emerge un dialogo continuo con i contemporanei, un’immagine del Tasso che contraddice completamente il mito romantico del poeta isolato, sdegnoso, dichiarato folle, vittima del destino e dell’incomprensione dei contemporanei. In realtà, il suo era un mondo di grandi amicizie intellettuali, e di ininterrotti affetti familiari, come quello per la sorella Cornelia, anche negli anni più tardi legame con la famiglia originaria, con il ‘nido’ sorrentino e napoletano sempre evocato con nostalgia. Ed è proprio in una lettera alla sorella che si dichiara il senso altissimo della libertà intellettuale, eccezionale in un’epoca di persecuzioni e di conformismi: “Padrone non ho né vorrei averne” (lettera del 14 novembre 1587).

2.5. Poesie Si è visto che il registro lirico del poema non sarebbe stato possibile senza un ininterrotto laboratorio di abbondante produzione lirica, che attraversa tutta la vita del Tasso. Le Rime furono raccolte nel 1591, con una divisione tra amorose ed encomiastiche; ed una terza parte era prevista di rime spirituali. Il segno dominante è però quello dell’occasionalità, cortigiana o accademica, e la prima raccolta di 42 testi appare appunto in un’antologia degli Accademici Eterei di Padova (1567). La tematica d’amore dei primi anni si divide tra le rime per una dama estense, Lucrezia Bendidio, e una mantovana, Laura

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Peperara: ma, al di là di una superficiale cronistoria amorosa, è in realtà il pretesto di una modulazione della lirica erotica petrarchesca lungo il filo di una sperimentazione che va oltre l’imitazione cinquecentesca. La nuova frontiera di Tasso è quella dell’espressione musicale, del gusto per una acuta percezione sensoriale, per la descrizione di atmosfere indefinite e sensuali: sono i fantastici paesaggi sonori che torneranno nella Liberata, la Natura viva e ‘artificiosa’, il senso di sospensione panica di pomeriggi affocati o di notti senza vento: “Tacciano i boschi e i fiumi, / e ’l mar senza onda giace”. Ne risultano testi sempre scorrevoli, naturalmente cantabili, pronti ad accogliere senza alcun problema l’intonazione della musica contemporanea. Nella metrica questo segna il passaggio dal sonetto al madrigale, e alla trasformazione di quest’ultimo in una forma quasi libera con prevalenza di settenari e rime baciate, preludio al recitativo del futuro teatro per musica, come da soli rivelano questi versi per Laura Peperara (col classico gioco petrarchesco sul nome della donna, l’aura-Laura): “Ecco mormorar l’onde / e tremolar le fronde / e l’aura mattutina e gli arboscelli, / e sovra i verdi rami i vaghi augelli / cantar soavemente / e rider l’oriente”. Oltre le Rime, Tasso compose anche, negli anni tardi, i suoi ultimi poemetti, che esploravano territori di poetica in parte nuovi: a Mantova, il poemetto encomiastico Genealogia della Casa Gonzaga (1591); e soprattutto a Napoli, alcune composizioni di forte ispirazione religiosa (eccezion fatta per il testo bucolico Il rogo amoroso). Il poemetto Il Monte Oliveto, composto nella quiete del convento di Monteoliveto a Napoli (1588), celebrava la vita solitaria, e la fondazione di quel cenobio. Le Stanze per le Lagrime di Maria Vergine e per le Lagrime di Gesù Cristo (1593) erano due variazioni sul genere del pianto religioso (già frequentato in latino da Sannazaro), ispirato dal culto delle immagini sacre e dalla pietas controriformistica, mentre il poemetto Della vita di san Benedetto era direttamente legato ad un soggiorno presso l’abbazia benedettina di Napoli (1594). Fra tutti questi testi, il più significativo resta forse Il Mondo Creato (1592), poema in endecasillabi sciolti sulla storia della Creazione, basato naturalmente sulla Genesi e sulla Bibbia, espressione di vera poesia cosmica, che passa in rassegna gli elementi naturali, le creature e gli animali, fino alla creazione dell’uomo, “quasi un picciol mondo” (VII,599). Un poema che trascorre dall’origine alla fine, in uno scenario apocalittico in cui viene rappresentata l’inarrestabile senescenza delle cose, “lo stanco e veglio / Mondo” (VII,1124-25).



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Bibliografia 2.1. La vita. Edizioni complessive: Opere, a c. di B. Maier, Milano, Rizzoli, 1963-1965; a c. di B.T. Sozzi, Torino, UTET, 1974. Monografia: C. Gigante, Tasso, Roma, Salerno, 2007. Rivista specializzata: “Studi tassiani”. 2.2. Il poema. Edizioni: Gerusalemme liberata, a c. di L. Caretti (1957), Milano, Mondadori, 1988; Gerusalemme conquistata, a c. di L. Bonfigli, Bari, Laterza, 1934; Rinaldo, a c. di M. Sherberg, Ravenna, Longo, 1990. Studi: E. Donadoni, Torquato Tasso, Firenze, La Nuova Italia, 1936; B.T. Sozzi, Studi sul Tasso, Pisa, Nistri-Lischi, 1954; F. Chiappelli, Studi sul linguaggio del Tasso epico, Firenze, Le Monnier, 1957, e Il conoscitore del caos. Una vis abdita nel linguaggio tassesco, Roma, Bulzoni, 1981; F. Ulivi, Il manierismo del Tasso e altri studi, Firenze, Olschki, 1966; G. Getto, Interpretazione del Tasso, Napoli, ESI, 1967; Id., Nel mondo della “Gerusalemme”, Firenze, Vallecchi, 1968; Id., Malinconia di Torquato Tasso, Napoli, Liguori, 1986; L. Caretti, Antichi e moderni, Torino, Einaudi, 1971; G. Petrocchi, I fantasmi di Tancredi, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1972; G. Baldassarri, “Inferno” e “cielo”. Tipologia e funzione del “meraviglioso” nella “Liberata”, Roma, Bulzoni, 1977; E. Raimondi, Poesia come retorica, Firenze, Olschki, 1980; S. Zatti, L’uniforme cristiano e il multiforme pagano. Saggio sulla “Gerusalemme liberata”, Milano, Il Saggiatore, 1983; P. Larivaille, Poesia e ideologia. Letture della “Gerusalemme liberata”, Napoli, Liguori, 1987; G. Scianatico, L’armi pietose. Studio sulla “Gerusalemme liberata”, Venezia, Marsilio, 1990; A. Di Benedetto, Con e intorno a Torquato Tasso, Napoli, Liguori, 1996; E. Ardissino, L’aspra tragedia. Poesia e sacro in Torquato Tasso, Firenze, Olschki, 1996; Torquato Tasso e la cultura estense, a c. di G. Venturi, Firenze, Olschki, 1999; M. Residori, L’idea del poema. Studi sulla «Gerusalemme conquistata» di Torquato Tasso, Pisa, Scuola Normale Superiore, 2005. 2.3. Teatro. Teatro, a c. di M. Guglielminetti, Milano, Garzanti, 1983; Aminta, a c. di C. Varese, Milano, Mursia, 1985. Cfr. C. Varese, Torquato Tasso. Epos-Parola-Scena, MessinaFirenze, D’Anna, 1976; G. Da Pozzo, L’ambigua armonia. Studio sull’Aminta di T. Tasso, Firenze, Olschki, 1983. 2.4. Prose. Prose, a c. di E. Mazzali, Milano-Napoli, Ricciardi, 1959; Dialoghi, a c. di B. Basile, Milano, Mursia, 1991. Cfr. M. Rossi, Io come filosofo era stato dubbio. La retorica dei «Dialoghi» di Tasso, Bologna, Il Mulino, 2007.

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2.5. Poesie. Rime, a c. di B. Basile, Roma, Salerno, 1994. Cfr. L. Caretti, Studi sulle rime del Tasso (1950), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1973; G. Santarelli, Studi sulle rime sacre del Tasso, Bergamo, Centro Tassiano, 1974; B. Basile, Poëta melancholicus. Tradizione classica e follia nell’ultimo Tasso, Pisa, Pacini, 1984.

3. Il Seicento

3.1. Moderno e barocco Nel Seicento il grande scontro tra le potenze europee per il dominio del continente raggiunge il culmine nella Guerra dei Trent’anni, che termina con il Trattato di Westfalia (1648), e l’inizio del declino della Spagna e dell’Impero, ancora retti da dinastie degli Asburgo. È il tempo della prodigiosa proiezione commerciale e coloniale di Olanda, Inghilterra e Francia sulle rotte oceaniche, dall’Asia al Nuovo Mondo, eventi nei cui confronti il Mediterraneo comincia a essere un teatro ‘marginale’, con conseguenze negative soprattutto per Venezia. L’Italia è saldamente inserita nel sistema imperiale spagnolo, con alcuni importanti stati dominati direttamente da viceré e governatori (Sicilia, Napoli, Milano), e gli altri impossibilitati ad una politica veramente autonoma; un sistema che può avere momenti di crisi, come la guerra e la pestilenza che interessano il Milanese intorno al 1630, o la grande rivolta di Masaniello a Napoli (1647), ma che riesce comunque a sopravvivere fino all’inizio del secolo successivo. Luci e ombre si alternano al tempo del predominio spagnolo: da un lato la diffusione di un sistema di amministrazione burocratica centralizzata, che si accompagnava spesso a fenomeni di malgoverno e corruzione; dall’altro l’accelerazione delle dinamiche di trasformazione sociale, che portarono alcune città (soprattutto Napoli) ad uno straordinario (e talvolta incontrollabile) sviluppo demografico, alla modernizzazione dei sistemi di produzione di massa e di commercio, con i primi stabilimenti industriali a Milano e Napoli. Il sistema delle corti principesche di antico regime, se non viene spazzato via (come i Gonzaga di Mantova), resiste in una dorata decadenza (gli Estensi trasferiti a Modena, i Medici granduchi di Toscana, e gli emergenti Savoia a Torino). La ‘corte’ più importante è forse proprio quella di Roma,

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la splendida Roma che i papi della Controriforma avevano riportato ad essere capitale del Cattolicesimo, promuovendo la magnificenza artistica (in particolare sotto il pontificato di Paolo V Borghese e Urbano VIII Barberini) con la presenza di figure come Bernini e Borromini, e anche di un geniale irregolare come il Caravaggio; ma è anche la Roma sede della pesante censura morale del Sant’Uffizio, e capitale dell’educazione cattolica, con il grande Collegio dei Gesuiti, centro di irradiazione missionaria nel mondo, e con lo sviluppo di altri importanti ordini religiosi come gli Oratoriani (così chiamati dall’Oratorio del fondatore San Filippo Neri), i Barnabiti e gli Scolopi, che si rivolgeranno, nella loro missione educativa, alle classi sociali più indigenti. L’attenzione e spesso la censura della Chiesa non può impedire l’incremento continuo del mondo della comunicazione. La cultura si diffonde presso un pubblico più ampio, per mezzo di edizioni economiche e dei primi fogli periodici, antesignani delle gazzette e dei giornali, e il passaggio alle prime modalità di produzione di massa porta gli stessi letterati a cercare di seguire il gusto del pubblico al quale si rivolgono, ad attribuire maggior valore all’opera d’arte che incontri il gradimento dei ‘moderni’, dei contemporanei, più che a quella che risponda a pregiudiziali estetiche assolute, o all’imitazione dei ‘classici’. Si afferma la superiorità dei Moderni rispetto all’autorità degli Antichi, resa possibile anche dal fatto che l’intero processo di scoperte geografiche e scientifiche avviato nel Rinascimento (Toscanelli, Colombo, Copernico, Vasco de Gama) è arrivato ormai a livelli prima impensabili, mettendo in crisi i fondamenti stessi del classicismo. Le accademie, se continuano la loro attività, sono dedite principalmente alle scienze naturali e alla promozione del metodo sperimentale, come l’Accademia dei Lincei, fondata a Roma dal principe Federico Cesi (1603), o quella degli Investiganti a Napoli, o del Cimento a Firenze. Le ultime conquiste sono quelle di Galileo, con l’invenzione del cannocchiale, la scoperta di nuovi corpi celesti, e la dimostrazione matematica e astronomica del sistema cosmologico già proposto da Copernico. Una fondazione razionale della scienza della natura, che viene attuata contemporaneamente dal filosofo francese Cartesio, con il suo Discours de la méthode (‘discorso sul metodo’)(1637). Le frontiere del mondo conosciuto sono ormai molto più ampie di quelle conosciute da Aristotele o Tolomeo. Nuovi popoli, nuove lingue, nuovi continenti si affacciano alla storia, e al confronto, talvolta dialettico o tragico, con la civiltà europea. Si sgretolano certezze millenarie, e il sentimento che domina i Moderni, nei confronti di questo mondo ‘dilatato’, è sicuramente quello della meraviglia, dello stupore per le cose viste per la prima volta, per le grandi scoperte scientifiche, per il trascorrere dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande, per mezzo di uno strumento come il cannocchiale.



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L’espressione più significativa di questo atteggiamento è nell’intenso collezionismo di oggetti che vengono appunto chiamati “meraviglie”, in piccoli musei di principi o di accademici (le cosiddette Wunderkammern, ‘camere delle meraviglie’): tentativo di racchiudere in un’unica ‘stanza’, nello spazio definito della catalogazione dell’enciclopedismo, un cosmo immenso che non è più a misura d’uomo. È il sentimento inquietante di un mondo instabile, mobile, non più al centro dell’Universo, un piccolo pianeta sperduto in un infinito universo, tra altri infiniti mondi (Bruno), in un relativismo che costringe l’uomo a ripensare criticamente il proprio rapporto con la Storia e con la Natura. Il Seicento rende così l’idea di un secolo ‘in rivolta’. Ribellione contro i Classici, contro gli Antichi, contro i sistemi tradizionali del pensiero, della società, della religione, contro la stessa morale (da parte dei filosofi detti Libertini), contro le norme e le ‘regole’ che avevano fornito la struttura fondante del Cinquecento, dell’età del Classicismo e del Manierismo, e all’interno delle quali si era consumata l’inquieta parabola di Tasso. Una parte importante di questa ‘rivolta’ avviene proprio in campo linguistico, con la reazione alle pretese dell’Accademia della Crusca di dare fondamento normativo alla lingua italiana, sulla base del toscano letterario fissato nel Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612): reazione che vide gli interventi autorevoli di Alessandro Tassoni (che considerava il Trecento, definito ‘aureo’ dai Cruscanti, solo l’infanzia della lingua italiana), e di Paolo Beni, autore addirittura di un’Anticrusca, in cui si afferma una sorta di principio di non-imitazione dei modelli. Dopo una seconda edizione senza sostanziali innovazioni (1623), la Crusca dovette in seguito procedere a un grande ampliamento del lessico, fino a Tasso e altri autori ‘moderni’, accettati nella terza edizione del Vocabolario (1691). Ed intanto i dialetti avevano iniziato la loro rivincita sulla letteratura in lingua, dal Basile al teatro popolare veneziano. Il nuovo prevale sul vecchio, e la meraviglia nasce dalla scoperta continua di inconosciute associazioni tra le cose, in un mondo retto da una rete potenzialmente infinita di analogie e di corrispondenze. Dal momento che tali corrispondenze profonde sono percepibili a partire dall’analogia delle forme esteriori, il meccanismo che rende possibile la scoperta agisce a livello soprattutto linguistico, retorico, formale, per mezzo di una figura retorica che diventa un vero e proprio strumento conoscitivo, la metafora, analizzata in tutte le sue possibilità comunicative nell’opera (dal titolo emblematico, che evoca sia Galileo che Aristotele) del gesuita torinese Emanuele Tesauro, Il cannocchiale aristotelico (1654). Lo “spirito vitale della poetica elocuzione”, secondo Tesauro, è però l’argutezza, o acutezza, la capacità di raffinare la ‘vista interiore’ delle cose, per coglierne il senso profondo, che suscita meraviglia

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e fonda l’essenza dell’arte. Una poesia fatta di concetti (donde la definizione di ‘concettismo’), di idee ingegnose ed argute, di inediti accostamenti di immagini, che rinnova profondamente la retorica degli Antichi, come teorizza il bolognese Matteo Peregrino nel trattato Delle acutezze (1639). Non è un caso, allora, che la misteriosa parola che definisce l’arte e la poesia del Seicento sembri derivare dall’ambito semantico della filosofia e della logica: il barocco, un tipo di sillogismo della tarda scolastica, arzigogolato ed ingegnoso (oppure, secondo un’altra etimologia, il barroco, che in portoghese significa una perla rara di forma irregolare e bizzarra). Il termine fu utilizzato nel Settecento in senso del tutto spregiativo, per condannare le forme artistiche bizzarre, abnormi, anticlassiche, del Seicento, e solo in età contemporanea è stato assunto in modo neutro, per indicare prima le arti figurative, e poi la letteratura e la musica di quell’età, che viene oggi chiamata, appunto, ‘barocca’. La cultura cosiddetta ‘barocca’ presenta alcuni caratteri di fondo, che talvolta (de-storicizzandoli) alcuni studiosi hanno creduto di riconoscere in momenti molto lontani della storia della civiltà, ad esempio nell’Ellenismo, o nel Tardo Antico, o addirittura nel Novecento. Possiamo dire però che, nella sua realtà storica, l’età barocca si distingue per la prevalenza del ‘vedere’, portando a compimento un processo di trasformazione nel sistema della comunicazione che passava dal dominio dell’udito (civiltà antiche e Medioevo) a quello della vista (età moderna). Sono gli occhi di Galileo aperti sull’universo, grazie alle lenti del cannocchiale. È l’affermazione di una spettacolarità globale, che tende a trasformare tutto in un ‘teatro’ (in senso etimologico, cioè luogo in cui si attua e si fruisce una visione): il gran teatro del mondo, in cui ognuno di noi è attore e protagonista, e in cui gli eventi storici acquistano una dimensione spettacolare, contorni patetici o eroici o melodrammatici, rappresentati davanti al pubblico dei contemporanei, o davanti al tribunale della Storia. È sicuramente questa una delle ragioni per cui, tra le forme dell’espressione artistica e letteraria del Seicento a livello europeo, il teatro raggiunse un suo indiscutibile primato, nelle sue forme alte come in quelle popolari. Reciproco il rispecchiamento (dal teatro della vita alla vita come teatro): e anche l’assunzione della maschera, della dissimulazione, al più alto e conveniente grado di convivenza sociale, quello della civile conversazione. Lo teorizzerà un accademico segretario di aristocratici napoletani, Torquato Accetto (Trani 1590-Napoli ca. 1650), che nel trattato Della dissimulazione onesta (1641) definisce la dissimulazione “industria di non far vedere le cose come sono”. Un nascondersi, come forma estrema di autodifesa nei confronti della violenza dei poteri (politico e religioso): l’altra faccia della medaglia dell’esibizionismo barocco.



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L’arte barocca predilige le forme in movimento, la velocità, la metamorfosi, il bizzarro, il mostruoso, perché attraverso la poetica delle forme raggiunge uno dei suoi scopi principali: il godimento estetico. È un’arte edonistica, fondata sul piacere. Si serve degli strumenti dell’illusionismo e della sensualità, anche a livello sensoriale immediato: nelle sculture del Bernini, le membra di marmo che sembrano ancora vive di Dafne appena sfiorata da Apollo; nelle architetture di Borromini, le volute di pietra che sembrano muoversi ed avvolgersi in vortici; nella poesia barocca, il compiaciuto gioco dei significanti, delle onomatopee, della sonorità musicale, dello sperimentalismo metrico e stilistico. E il tutto sempre oltre le regole, le norme costituite del Classicismo. Una poesia piena e vitale, erotica, che, nell’esuberanza e nell’esibizionismo della carne (come in certi quadri di Rubens), maschera il suo opposto: un profondo sentimento della Morte, rappresentata nei momenti più orridi e macabri, in ‘trionfi’ di scheletri e analisi microscopiche del disfacimento dei corpi, eventi ‘spettacolari’ che il Seicento poté vedere più volte, nelle terribili pestilenze che spopolarono città come Milano e Napoli.

3.2. Galileo Figlio d’arte, Galileo Galilei (Pisa 1564-Arcetri 1642) era figlio di un celebre musico fiorentino, Vincenzo, che aveva partecipato al rinnovamento culturale e artistico nella Firenze di fine Cinquecento. Tra Medioevo e Rinascimento la musica era ancora una delle arti liberali, vicina alla matematica nel quadrivio, e in un certo senso era naturale per il giovane Galileo intraprendere studi di matematica allo Studio di Pisa, donde però tornò a Firenze senza conseguire il titolo. E a Firenze prevale il forte interesse per le lettere, le arti, la musica, fino allo svolgimento di due Lezioni circa la figura e grandezza dell’Inferno di Dante all’Accademia Fiorentina (1588), e ad intense letture, che lo portano ad esaltare la poesia dell’Ariosto, e a svalutare quella di Tasso, avvertita troppo oscura e patetica. Ripresa la carriera universitaria a Pisa (1589), e poi a Padova (1592), sempre come professore di matematica, Galileo rifonda i principi della fisica e della meccanica per mezzo di osservazioni sperimentali, come quelle sull’oscillazione del pendolo e sulla caduta dei gravi. Si avvicina al sistema copernicano e si costruisce da solo un cannocchiale (1609): esegue le prime osservazioni ravvicinate della Luna (sulla cui superficie scopre valli e monti simili alla Terra), scopre nuovi astri, le nebulose, le macchie solari, e in particolare i quattro satelliti di Giove (chiamati “pianeti medicei” in onore

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del granduca di Toscana Cosimo II). La grande scoperta è comunicata con toni entusiastici al mondo scientifico per mezzo di un trattato latino, il Sidereus Nuncius (‘annuncio astrale’)(1610), e lo stesso Granduca lo richiama in Toscana, come suo ‘filosofo personale’. Galileo è convinto ormai della giustezza del sistema copernicano, più capace di spiegare la realtà di un mondo in movimento e in trasformazione, a differenza di quel che affermava la filosofia aristotelica, basata sulla dottrina dell’immutabilità dei corpi celesti oltre il cielo della Luna, nel sistema tolemaico. Va addirittura a Roma, e aderisce ai Lincei (1611), per ottenere appoggio alle sue ricerche, e proporre una separazione funzionale tra scienza e fede. Ma inizia allora, con le cosiddette Lettere copernicane, una battaglia feroce con i Gesuiti, che osteggiano fermamente il sistema copernicano, facendolo condannare come contrario alla teologia e alla Sacra Scrittura (1616). Galileo non si dà per vinto, e, attaccato dal gesuita Orazio Grassi in un trattatello sulle comete (1618), lo demolisce duramente nel Saggiatore, edito dai Lincei a Roma nel 1623 e dedicato al papa Urbano VIII, che sembra allora favorevole a Galileo. È in quest’opera che si apre la visione galileiana dell’universo come “un grandissimo libro”, scritto “in lingua matematica”, e che va letto e compreso interpretando appunto le parole di quella lingua; una grande lezione di pensiero critico, in cui l’affermazione del metodo sperimentale si accompagna al netto rifiuto del principio di autorità. Ma anche uno straordinario esempio di una nuova prosa volgare, l’atto di fondazione della prosa scientifica, in cui, accanto ad un accorto uso della retorica dell’ironia, prevale la precisione del linguaggio ‘medio’, la ricerca della misura e dell’esattezza nello sforzo di massima aderenza alle cose. Una posizione stilistica nettamente distinta dalle intemperanze formali della contemporanea prosa barocca. L’iniziale vittoria del Saggiatore fece nascere in Galileo l’illusione di poter vincere la battaglia contro l’aristotelismo e il dogmatismo, con il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano (1632), dedicato al granduca Ferdinando II. L’affermazione del sistema copernicano viene qui attuata con la ripresa dello strumento principe della civiltà del Rinascimento, il dialogo, cammino di ricerca della verità attraverso il confronto di opinioni contrapposte. Gli attori sono il nobile Giovanfrancesco Sagredo, e i due veri contendenti, Filippo Salviati (controfigura di Galileo), e il vacuo aristotelico Simplicio (satireggiato anche nel nome, oltre che negli inconsistenti ragionamenti). Galileo tenta un difficile gioco di simulazioni per difendere la verità scientifica, gioco definito da Campanella “comedia filosofica”, e addirittura finge, nella prefazione, di aver scritto il dialogo e aver discusso la teoria copernicana solo per fini dialettici.



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Ma si tratta di accortezze del tutto inutili. Stavolta l’Inquisizione non si fa sorprendere in contropiede, fa convocare Galileo a Roma, lo processa e lo condanna all’abiura delle ‘dottrine erronee’ (1633), sottoponendo il vecchio scienziato all’umiliazione di inginocchiarsi di fronte al tribunale. Piegandosi all’abiura Galileo scampa il supplizio e la morte, ma viene condannato al confino nella sua villa di Arcetri, presso Firenze, isolamento totale reso ancora più duro dalla morte della figlia suor Virginia e dalla cecità completa (1637), e superato solo dalla vasta rete di relazioni intellettuali con i giovani scienziati e filosofi d’Italia e d’Europa (a iniziare dagli allievi Benedetto Castelli, Evangelista Torricelli, Vincenzo Viviani), testimoniata dalle sue splendide lettere.

3.3. La poesia Nel sistema dei generi letterari del Seicento, la poesia è quello che avverte di più l’ansia di superamento dei modelli, e degli Antichi, con l’incessante ricerca di nuove strutture e nuove forme di espressione, e nell’esplicita dichiarazione di una finalità edonistica. “È del poeta il fin la meraviglia”, afferma il più rappresentativo poeta dell’epoca, Giambattista Marino (Napoli 15691625). Il Marino si era formato nella magnifica Napoli aristocratica di fine Cinquecento, segretario del principe Matteo di Capua, e a stretto contatto con Torquato Tasso. Da Napoli passò nel 1600 alle altre corti italiane (in particolare la Roma dei papi, e la Torino dei Savoia, dove fu addirittura oggetto di un tentativo di assassinio da parte del poeta rivale e invidioso Gaspare Murtola, da lui sbeffeggiato nella Murtoleide), e infine a quella francese di Maria de’ Medici (1615), dove pubblicò le sue opere più importanti, e conquistò una gloria veramente europea, prima di tornare definitivamente a Napoli. La prima, vasta produzione di Marino è nella poesia lirica, erotica e d’occasione, pubblicata nelle raccolte delle Rime (1602), divise in due grandi partizioni metriche (da una parte i sonetti, dall’altra madrigali, canzoni e canzonette), e della Lira (1614), in cinque parti ‘tematiche’ intitolate Amori, Lodi, Lagrime, Divozioni, Capricci; titoli che esprimono aspetti caratteristici della cultura contemporanea, dall’invenzione ‘bizzarra’ e ‘barocca’ del ‘capriccio’ alla sfera religiosa e devozionale (che spinse Marino anche alla composizione di tre esercizi di oratoria sacra, le cosiddette Dicerie sacre, 1614, e di un poema religioso La strage degli innocenti). Vi si riconosce ancora l’influenza tassiana, declinata sempre di più in direzione della musicalità del verso, e della densità metaforica. Oltre i confini della poesia lirica, la bucolica viene rinnovata con i dodici idilli della Sampogna (1620); un’originale creazione,

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a gara con modelli ellenistici, è la Galeria (1619), ideale passeggiata in una ‘galleria’, in un moderno museo di arti figurative, le cui opere sono descritte in una catena di componimenti, secondo il principio oraziano dell’Ut pictura poesis. L’aspirazione più grande del Marino era però quella di superare il più grande poeta della generazione precedente, il Tasso, e perciò egli si industriò subito alla composizione di una Gerusalemme distrutta, abbandonata la quale si volse interamente ad una favola mitologica, quella di Adone, il bellissimo fanciullo amato da Venere, e ucciso da un cinghiale aizzato dal geloso Marte. L’esilissima storia viene dilatata in un enorme poema mitologico-allegorico in venti canti, l’Adone (ed. Parigi 1623), in cui ogni minuscolo dettaglio è pretesto di digressioni infinite, dalla descrizione del Giardino del Piacere all’analisi dei Cinque Sensi, passando per i cieli della Luna, di Mercurio, di Venere. Le digressioni narrative diventano veri poemi nel poema, come la favola di Amore e Psiche, o gli altri vari racconti mitologici, seguendo i modelli strutturali delle Metamorfosi di Ovidio e delle Dionisiache del poeta ellenistico Nonno di Panopoli. La scrittura mariniana è estremamente sensuale, e si compiace degli accostamenti fonici e musicali che produce (celebre la virtuosistica descrizione del canto di un usignuolo, che sembra riprendere la partitura di un madrigale di Monteverdi), come anche dell’immenso bagaglio enciclopedico utilizzato nelle parti allegoricodidascaliche, un enciclopedismo esibito, ostentato. Il sistema si regge su meccanismi di ripetizione e dilatazione, e di ricombinazione del già detto. In questa smisurata macchina testuale, l’elemento dominante resta quello distintivo del suo tempo: la meraviglia per la vitalità travolgente della Natura, la curiosità per un mondo potenzialmente infinito, vorticoso, che si risolve in una fondamentale attenzione alle scoperte della scienza contemporanea, con l’altissima lode a Galileo e all’invenzione del telescopio, inteso come mirabile strumento del ‘vedere’. L’opera del Marino influenzò profondamente la poesia dei contemporanei, e della generazione successiva, suscitando anche dibattiti di poetica e fenomeni di imitazione che hanno fatto quasi pensare a due correnti letterarie contrapposte, i ‘marinisti’ e gli ‘antimarinisti’, guidati da quel Tommaso Stigliani che ne L’Occhiale (1627) aveva pesantemente criticato l’Adone, denunciandone l’assenza di unità, la viltà della lingua, e l’immoralità. In realtà, proprio Stigliani aveva tentato di superare l’Adone con un suo sconclusionato poema sulla scoperta dell’America, il Mondo Nuovo; e un altro poema di esaltazione dell’età dell’oro e di ritorno alla Natura, lo Stato rustico, aveva scritto il nobile genovese Giovan Vincenzo Imperiali (Genova ca. 1570-ca.1645).



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Più che all’artificiosa distinzione tra ‘marinisti’ e ‘antimarinisti’, giova però risalire alle ‘scuole’ che, nei principali centri culturali della penisola, presentano un filo continuo di tradizione ed elaborazione. In primo luogo a Napoli, dove l’eredità tassiana, petrarchista, classicista, è tenuta ancora viva da Giovan Battista Manso (Napoli 1569-1645), autore di una importante Vita del Tasso, e delle Poesie nomiche che ispirano la produzione di Pirro Schettini, Torquato Accetto, Giuseppe Battista, Antonio Muscettola. Lo sperimentalismo barocco, il concettismo, il metaforismo trionfano invece in Girolamo Fontanella (Napoli 1612-1644), autore delle Elegie in terzine, dei Nove cieli e delle Ode; e soprattutto nelle Scintille poetiche del gesuita Giacomo Lubrano (Napoli 1619-ca. 1692), che rappresentò nella sua poesia gli eventi più terribili del secolo, segni di un mondo sull’orlo dell’apocalisse: la rivolta di Masaniello, le eruzioni del Vesuvio e i terremoti, le pestilenze. Al furore del barocco napoletano Bologna e l’Emilia rispondono con l’equilibrio poetico del petrarchista Claudio Achillini (Bologna 1574-1642), e di Fulvio Testi (Ferrara 1593-Modena 1646), che nella decadente corte estense si distinse come cantore di poesia civile, di contenuti politici e morali altrove assenti, con un certo grado di consapevolezza della realtà politica e civile anche contemporanea (riflessa anche nell’importante epistolario). A Roma, nel classicismo promosso da papa Urbano VIII, emerge il giovane Virginio Cesarini (Roma 1595-1624), allievo dei Gesuiti ma anche Linceo e amico di Galileo, notevole poeta in latino e in volgare che torna alla lezione di Petrarca e dei classici. A Genova si riconosce una scuola che segue le orme di Chiabrera, fino ad Anton Giulio Brignole Sale (Genova 1605-1662), che con gli epigrammi grecizzanti del Satirico innocente fa anche prova di poesia satirica, contro la corruzione dei costumi contemporanei; e importanti satire scrisse anche il pittore napoletano Salvator Rosa (Napoli 1615-Roma 1673). Un posto a parte lo conquista il friulano Ciro di Pers (Pers 1599-San Daniele 1663), ossessionato dalla presenza della Morte, e dallo scorrere inesorabile del Tempo, rappresentato per mezzo degli strumenti di misurazione, la clessidra, la meridiana, l’orologio. Dopo le altezze inarrivabili della Liberata del Tasso, e del poema epico-eroico, alla crisi della tradizione cavalleresca non c’era altro rimedio se non la poesia eroicomica, basata su un meccanismo mimetico di parodia e di rovesciamento: un altro modo, se vogliamo, di declinare la ‘rivolta’ del Seicento contro i modelli. Vi si cimentò il nobile modenese Alessandro Tassoni (Modena 1556-1635), impegnato peraltro, nel corso della sua vita, su posizioni generalmente critiche nei confronti delle convenzioni politiche

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e poetiche (dalle anonime Filippiche contra gli Spagnoli alle antipetrarchiste Considerazioni sopra le rime del Petrarca). Gli antecedenti erano illustri: da Pulci a Rabelais e Teofilo Folengo. Il grande e nobile obiettivo della guerra santa nel poema eroico (la liberazione di Gerusalemme) diventa (nel passaggio dalla macrostoria epica alla microstoria comica) un insignificante episodio della guerra tra guelfi e ghibellini, intorno alla battaglia di Fossalta e alla cattura di re Enzo da parte dei bolognesi (1249): il furto di un secchio di legno, perpetrato dai modenesi ai danni dei bolognesi. Nasce così La secchia rapita (1630), incredibile poema che narra in dodici canti gli scontri delle due armate di cittadini sgangherati, caricatura delle descrizioni militari della poesia epica, e rappresentazione comica di memorabili antieroi come il Conte di Culagna. Sotto il registro comico, però, emerge l’allusione al difficile presente dell’Italia, dominata dagli stranieri. Il successo della Secchia diede l’avvio ad una produzione straripante di poemi eroicomici, tra i quali basti ricordare L’Eneide travestita di Giovan Battista Lalli (1633), Il Lambertaccio di Bartolomeo Bocchini (1641), l’Avinavoliottoneberlinghieri di Piero de’ Bardi (1643), L’Iliade giocosa di Giovan Francesco Loredano (1653), la Nobiltà dei maccheroni di Francesco de Lemene (1654), La Troia rapita di Loreto Vittori (1662), fino allo sperimentalismo linguistico e gergale del Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi. Al di fuori dei generi tradizionali, la poesia sembra porsi ancora al servizio del divertissement e della divulgazione scientifica con il capolavoro del Bacco in Toscana di Francesco Redi (Arezzo 1626-Pisa 1698), uno scienziato al servizio del granduca nell’Accademia del Cimento e membro della Crusca, studioso degli insetti e delle vipere: il Bacco è definito un ‘ditirambo’, sul modello di antichi testi greci in onore del dio del vino, ed esprime, nella struttura mobile dei suoi versi, un senso giocoso della vita, nell’esaltazione della bevanda degli dèi che libera dalla sofferenza e dalla tristezza. Infine, la poesia dialettale, particolarmente viva a Napoli con il geniale Giulio Cesare Cortese (Napoli ca. 1570-ca. 1640), una sorta di cantastorie che nei suoi poemi in ottave rappresenta gli aspetti più veri della vita popolare a Napoli tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento: Micco Passaro ’nnamorato; Lo Cerriglio ’ncantato, sulla celebre taverna napoletana oggetto di un epico assalto dei famelici plebei guidati da Sarchiapone; La Rosa, favola pastorale di una fanciulla rapita dai Turchi e travestita da uomo; e Il viaggio di Parnaso. Ma la sua opera più grande è sicuramente La Vaiasseide, celebrazione delle ‘vaiasse’, donne umili e serve della città, di cui si raccontano tutte le esperienze, dagli amori al matrimonio, dalla prostituzione alla morte: una straordinaria rappresentazione sociale dalla parte delle donne



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degli strati più bassi della società, in una delle più tumultuose e moderne città dell’Europa del tempo. Sempre a Napoli è attivo Filippo Sgruttendio, autore di un poemetto che esalta lo strumento musicale della ‘tiorba’, De la Tiorba a taccone (1646). A Venezia invece si colloca La carta del navegar pitoresco (1660) di Marco Boschini (1613-1678), dialogo poetico sull’eccellenza di Venezia e delle sue scuole pittoriche.

3.4. La prosa “Il più bel libro italiano barocco” (secondo Benedetto Croce) è stato scritto da Giambattista Basile (Napoli ca. 1575-1632), il più importante rappresentante della multiforme cultura napoletana tra Cinque e Seicento, accanto a Marino, Manso, Cortese. Il Basile (che nelle sue opere si firmava con lo pseudonimo-anagramma di Gian Alesio Abbattutis), dopo la formazione napoletana, era stato cortigiano a Mantova con la sorella cantante Adriana, soldato al servizio dei veneziani a Creta, e perfino governatore di piccole città del Sud. Ma la sua vera dimensione era quella del fine letterato, e anche del filologo. Dopo un’ampia produzione poetica in lingua italiana, decise negli ultimi anni di consacrarsi al dialetto napoletano, componendo le nove egloghe de Le Muse napolitane, fresca rappresentazione di realtà cittadine e di scene di costume, più che di utopie bucoliche. Il suo capolavoro è Lo cunto de li cunti overo lo tratteniemento de li peccerille, detto anche Pentamerone (a imitazione di Boccaccio) perché i suoi cinquanta racconti vengono raccontati in cinque giornate (come nel Decameron, dieci al giorno; e le prime quattro giornate si chiudono con un’egloga). Perché ‘lo cunto de li cunti’? Perché l’ultima novella, raccontata dalla protagonista della cornice, è la sua stessa storia: novella e cornice, realtà e finzione finiscono col coincidere, in un gioco di specchi e di contenitori progressivi che ricorda la novellistica orientale. La principessa Zoza, figlia del re di Vallepelosa, incapace di ridere, riesce a farlo solo assistendo alla buffa caduta di una vecchia strega, che la maledice: potrà sposare solo un principe eternamente addormentato in una tomba, e che può essere risvegliato riempiendo di lacrime una brocca. Dopo lunghe ricerche, Zoza trova il principe, e piangendo piangendo sta per colmare la brocca, quando sul più bello si addormenta, e una schiava nera di passaggio compie facilmente il sortilegio e sposa il principe. Zoza però rovescia la situazione facendo intrattenere i due da dieci vecchie e orrende novellatrici, per cinque giornate, fino all’ultima favola, narrata da lei stessa travestita: non

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è una favola, ma il racconto reale di quel che le è capitato, che fa scoprire la verità al principe, eliminare la perfida rivale, e convolare a giuste nozze. Grazie a Basile, la tradizione novellistica italiana si rinnova, esplorando i territori della fiaba e del meraviglioso (ad esempio, nella bellissima fiaba della Gatta Cenerentola, ripresa poi da Perrault e dai Grimm), e inventandosi una lingua che eleva il dialetto napoletano a strumento linguistico barocco per eccellenza, sovrabbondante, ricchissimo. Ma Lo cunto è anche testimonianza eccezionale di emergenza della cultura popolare, di ricezione della tradizione orale, del substrato antropologico del Mezzogiorno d’Italia, dell’incrocio di magia e superstizione. Il confronto col Basile non lo regge nessun altro novelliere del Seicento. La novellistica acquista anzi una connotazione accademica, sociale, ‘collettiva’, e per così dire di costume, con le veneziane Cento novelle amorose dei Signori Accademici Incogniti raccolte da Giovan Francesco Loredano (16411651); o con il predominio dell’ambientazione della ‘cornice’, specchio di una civiltà della conversazione che annovera il bolognese Adriano Banchieri (il continuatore di Croce con la novella di Cacasenno), Trastulli in villa in sette giornate (1627), e il veneto Giovanni Sagredo, Arcadia in Brenta (1667). Un genere quasi del tutto nuovo, e quindi libero dal confronto con regole e modelli, è il romanzo, che riesce a esprimere alcuni caratteri profondi dell’età barocca: il gusto del fantastico e dell’esotico, la componente erotica e libertina, il senso dell’avventura come dominio del caso nelle vicende della vita e la creazione di personaggi che abdicano a ogni principio di ragione e si lasciano trasportare dalla fortuna, tra pirati, briganti, pìcari, furfanti, avventurieri di ogni risma e paese. La geografia è spesso quella mobilissima del Mediterraneo e dell’Oriente, fra feroci saraceni e sensuali schiave: ma presto lo scenario diventa quello più familiare della laguna veneta, e della contemporaneità galante. Gli intrecci complicatissimi sono macchine testuali non dissimili dai contemporanei poemi barocchi. Ma la vera novità è la lingua. Destinati a un pubblico medio-borghese, se non addirittura popolare, in ampia tiratura di edizioni di consumo (e quindi vero genere ‘di consumo’), questi romanzi operano un cambiamento sensibile nella prosa italiana, fino ad allora legata all’imitazione di moduli classicisti, toscani, boccacciani, aprendo ad apporti dialettali, e all’evocazione delle lingue europee e mediterranee. La capitale del romanzo barocco, per la presenza di una grande industria editoriale, è sicuramente Venezia, dove operano Giovan Francesco Biondi, autore dell’Eromena, della Donzella desterrada e del Coralbo, e di



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Girolamo Brusoni, autore della Fuggitiva e dell’Orestella, inventore del romanzo veneziano di costume contemporaneo con l’importante trilogia La gondola a tre remi, Il carrozzino alla moda e La peota smarrita. Pace Pasini scrive un’intricatissima Istoria del Cavalier perduto (che sembra anticipare la struttura narrativa dei Promessi Sposi), mentre il veronese Francesco Pona ne La lucerna fa raccontare ad uno spirito magicamente imprigionato in una lampada tutte le sue vite precedenti, in una sorta di ‘romanzo di romanzi’ aperto a ogni possibilità. L’altro grande centro di produzione romanzesca è Genova: qui Anton Giulio Brignole Sale compone il romanzo religioso Maria Maddalena peccatrice e convertita (1636), e Giovanni Ambrosio Marini il fortunato Calloandro fedele (1640-1641), mentre Bernardo Morando descrive nella Rosalinda le peripezie di una giovane inglese cattolica in fuga dal suo paese. Infine, il frate genovese Francesco Fulvio Frugoni crea ne Il Cane di Diogene (1689) una specie di opera-mondo, di letteratura di secondo grado, di ipertesto aperto a ogni genere di scrittura, dalla narrativa alla critica e alla satira, dalla filosofia alla storia: il tutto nella storia del viaggio all’Inferno di Saetta, il cane del filosofo cinico Diogene. Un caso a parte è quello di un altro grande irregolare (come Aretino), destinato (come Niccolò Franco) ad una fine tragica (la morte per decapitazione), Ferrante Pallavicino (Piacenza 1616-Avignone 1644), vissuto in un contesto libertino e quasi rivoluzionario, insofferente delle norme, e divulgatore intemerato dei propri costumi in una serie di romanzi e libri scandalosi: La pudicizia schernita, Il principe ermafrodito, Le due Agrippine; addirittura Il divorzio celeste (tra la Chiesa e Cristo); e la Retorica delle puttane, in quindici lezioni che condannano vivacemente l’ipocrisia religiosa. Ma Pallavicino è anche attento alle nuove possibilità di strategia narrativa, in un’opera come Il corriero svaligiato, che simula il furto di 49 lettere a un ‘corriere’, e ricostruisce una serie di microstorie attraverso la lettura di quelle lettere: un attentato contro la privacy, certo, ma che consente al narratore di entrare nell’intimità delle vicende, quasi per caso, come tranches de vie. Fin qui la prosa d’invenzione. Ma il Seicento è anche il secolo dell’eccezionale sviluppo della prosa scientifica e filosofica (Galileo), che inizia ad affrancarsi da retaggi espressivi, scolastici, classicistici, per aderire più da vicino alle cose, e giungere ad un livello di comunicazione più efficace. L’urgenza della comunicazione è anzi il carattere distintivo di Giovan Domenico Campanella (Stilo 1568-Parigi 1639), frate domenicano col nome di fra Tommaso (1583), predicatore a Napoli, Roma e Firenze, e filosofo antiaristotelico e telesiano nella Philosophia sensibus demonstrata. Professore a Padova, viene arrestato dall’Inquisizione (1595), e confinato in Calabria. Tornato nella sua

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terra, unisce allora la sua originaria rivolta intellettuale contro le autorità filosofiche e i dogmi del pensiero ad un vero progetto di rivoluzione sociale e civile contro l’oppressione spagnola, particolarmente dura in quelle aree del Mezzogiorno dove da secoli perdurava anche un feroce dominio feudale. La rivolta è sventata, e Campanella rinchiuso nel Castelnuovo di Napoli, per ben ventisette anni di carcere durissimo (1599-1626), in cui il filosofo si finge addirittura pazzo per evitare la morte. Uscirà da Castelnuovo solo per andare in un’altra cella, quella del Sant’Uffizio a Roma (1626-1629), donde sarà però liberato dalla benevolenza di Urbano VIII. Le opere migliori di Campanella nacquero nelle più terribili condizioni della prigionia napoletana. Contro ogni difficoltà, si procurava la carta, la penna, l’inchiostro, e scriveva di nascosto, continuando a fingersi pazzo. Una vera ‘opera di libertà’, che gli consentiva di uscire con lo spirito dalle mura in cui lo avevano rinchiuso. Sono opere filosofiche e poetiche, scritte ora in latino ora in volgare, con un’escursione tra le due lingue che lo avvicina a Bruno e a Galileo: Del senso delle cose e della magia (1604, poi in latino 1620), espressione di un’idea del mondo ‘animato’ e dotato di sensibilità, di una concezione ‘magica’ sospesa tra gli Antichi e la nuova scienza sperimentale; la Poetica (prima stesura in volgare 1596, poi in latino 1612); le poesie filosofiche influenzate da Lucrezio, da Dante e dalla Bibbia, aperte a infiniti orizzonti cosmici; e addirittura un testo latino in difesa di Galileo, l’Apologia pro Galilaeo (1616), che il recluso di Castelnuovo sentiva di dover scrivere per sostenere la battaglia galileiana per la libertà intellettuale. La più grande visione di Campanella è quella di un’umanità che riesce finalmente a superare la necessità, la violenza, la sopraffazione; una ‘città’ dalla quale le tenebre sono bandite per sempre, cacciate dalla luce del Sole: la Città del Sole (prima stesura in volgare 1602, poi in latino 1623, rifatta a Parigi 1637), un testo ‘utopico’, direttamente legato da un lato all’Utopia di Tommaso Moro (simile è la struttura del dialogo con un marinaio genovese, già al servizio di Colombo, che racconta della scoperta di quella città straordinaria), dall’altro all’ideale platonico della Repubblica, fondata sul comunismo, sull’uguaglianza e sull’abolizione della proprietà privata, dell’individualismo e della violenza. L’utopia campanelliana si collocava in un contesto in cui la prosa politica e storica era percorsa dal dibattito sul tacitismo: da un lato, nettamente critico, Traiano Boccalini (Loreto 1556-Venezia 1613), che nei Ragguagli di Parnaso mette in scena una finzione satirica del mondo degli dèi in cui si proietta il mondo di quaggiù, e in cui si svela il lato anche oscuro dell’azione dei principi; dall’altro lato il bolognese e ‘tacitista’ Virgilio Malvezzi



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(1595-1653), considerato all’epoca il più grande prosatore del secolo, autore di biografie e trattati politici in stile laconico, talvolta involuto e oscuro; di romanzi storico-politici come Romulo, Tarquinio Superbo, Davide perseguitato; e del significativo Ritratto del privato politico cristiano (1635), sulla figura del Conte Duca d’Olivares, ministro del re di Spagna, nel cui elogio si rivela il fiancheggiamento della politica spagnola. Suo nipote, il gesuita Pietro Sforza Pallavicino (Roma 1607-1667), scriverà la Storia del Concilio di Trento (1656-1657), concepita come una risposta alle critiche dell’Istoria del concilio tridentino di Paolo Sarpi; e un Trattato dello stile e del dialogo (1662) in cui si tratta dell’importanza della scrittura “insegnativa” e della comunicazione, che si serve soprattutto dello strumento rinascimentale del dialogo, evitando gli eccessi formali del barocco. Un forte elemento di rinnovamento e di sperimentalismo affiora comunque negli scritti dei Gesuiti, che, nonostante la posizione retriva assunta nel caso Galileo, dimostrano in altre occasioni un’inesausta curiosità intellettuale e scientifica, favorita anche dalla propagazione della Compagnia a livello planetario, dalle Americhe all’India e alla Cina, con la fondazione di missioni in cui le popolazioni native vengono educate anche a valori derivati dalla civiltà umanistica, alle arti e alla musica: una vicenda grandiosa celebrata nella Storia della Compagnia di Gesù (1650-1673) da Daniello Bartoli (Ferrara 1608-Roma 1685), con uno stile vivido che coniuga l’enfasi barocca e la meraviglia per quei nuovi mondi con la precisione descrittiva. Lo stesso stile il Bartoli l’utilizza, d’altronde, in una serie di scritti morali, in cui si legge anche un ripensamento della funzione dell’intellettuale: L’uomo di lettere difeso ed emendato (1645); L’uomo al punto cioè l’uomo in punto di morte (1657); La ricreazione del Savio (1659). Una linea di sobrietà che torna nelle prediche e negli scritti del gesuita Paolo Segneri (Roma 1624-1694), a differenza del vero e proprio ‘teatro’ barocco che pervade il resto della predicazione secentesca, in particolare il Quaresimale del cappuccino Emanuele Orchi (Como 1600-1649). Infine, il senso del nuovo e del meraviglioso che pervade l’età barocca continua ad essere vivissimo nella letteratura di viaggio, praticata, come s’è visto, dagli stessi missionari gesuiti. Nel corso del Seicento vi si distinguono autori come Pietro Della Valle (Roma 1586-1652), avventuroso viaggiatore che, partito per un pellegrinaggio in Palestina, finì col vagare per quasi dodici anni in giro per l’Asia, dall’impero turco fino alla Persia e all’India; e Francesco Negri (Ravenna 1623-1698), che nel suo Viaggio settentrionale descrive le terre desolate del Nord Europa, fino a Capo Nord.

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3.5. Il teatro Il Seicento segna indubbiamente il trionfo del teatro come mezzo di espressione, e il suo successo di comunicazione presso tutti i livelli sociali, dalla Corte e dall’Accademia alla fruizione popolare della piazza, della fiera, del mercato: e sono proprio i contesti medio-bassi a favorire la costruzione di nuovi edifici teatrali, e a diffondere la pratica del pubblico pagante (soprattutto a Venezia, il San Cassiano viene fondato nel 1636, e si arriva a ben 15 teatri pubblici alla fine del ’600). In molti casi, è il trionfo dell’effimero, in una diffusa spettacolarizzazione della vita pubblica, in cui la manifestazione del potere avviene per mezzo di grandi macchine scenografiche, con il concorso di ingegnosi mezzi scenici, musiche e effetti di luci, finalizzati a suscitare la ‘meraviglia’. La musica, già accompagnata al teatro del Cinquecento nella forma dell’interludio o dell’intermezzo, cerca ora di avvicinarsi il più possibile al testo, superando la complessità della polifonia e adottando schemi di canto monodico più adatti alla recitazione, o, come si disse allora, al ‘recitar cantando’. Il genere più adatto alla fusione di parola e musica sembrava quello che già si era posto come genere d’avanguardia, di confine tra commedia e tragedia, cioè la tragicommedia di ambientazione pastorale o mitologica, come l’Aminta o il Pastor fido, i cui testi furono a lungo una fonte importante per i musicisti dell’epoca, e che influenzarono la fortunata Filli di Sciro di Guidubaldo Bonarelli (Ferrara 1607). Il primo dramma musicale, o melodramma, sembra essere stata la Dafne di Ottavio Rinuccini, rappresentata a Firenze nel 1598, e seguita dall’ Euridice, con musiche di Iacopo Peri, nel 1600, nelle feste per il matrimonio di Maria de’ Medici. Dello stesso Rinuccini, l’Arianna fu rappresentata a Mantova nel 1608 con la musica del più grande musicista contemporaneo, Claudio Monteverdi, autore dei fondamentali libri dei Madrigali, e responsabile di un’altra memorabile rappresentazione dell’Orfeo (Mantova 1607). A Roma, nell’ambiente dell’Oratorio dei Filippini di San Filippo Neri, era nata invece la forma dell’oratorio, un insieme di testi recitati e di testi cantati di argomento sacro, con la celebre Rappresentazione di Anima e Corpo (1600), su testo di Agostino Manni e musiche di Emilio de’ Cavalieri. Un fenomeno quasi spontaneo di trasformazione della commedia regolare in una forma di teatro popolare, aperto al rispecchiamento della realtà contemporanea in tutti i suoi aspetti, è la commedia dell’arte, nata già nel Cinquecento grazie all’opera di compagnie di attori girovaghi, di cui facevano parte anche le donne (una novità sostanziale, considerato che le leggi civili e religiose vietavano alle donne di calcare le scena, e le loro parti



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erano prima interpretate da travestiti professionisti, il che spiega anche la grande diffusione di situazioni en travesti nella commedia del primo ’500). Talvolta erano vere e proprie compagnie ‘familiari’, come la compagnia dei Gelosi, guidata da Francesco Andreini (specializzato nella parte di Capitan Spavento) e sua moglie Isabella, e continuata dal figlio Giambattista (detto Lelio, perché specializzato nel tipo del damerino innamorato). A Napoli furoreggiava Silvio Fiorillo, celebre nella parte del Capitan Matamoros, considerato il geniale creatore di Pulcinella, o meglio adattatore, all’interno della commedia dell’arte, di un tipo antropologico antichissimo, risalente alle origini pagane e sensuali del popolo napoletano. Il fondamento della commedia dell’arte era l’improvvisazione. Gli attori girovaghi non avevano il tempo di imparare a memoria le commedie antiche, anche se le tenevano presenti per ricavarne gli intrecci fondamentali (all’inizio sempre l’amore, un desiderio erotico lecito o meno lecito, ostacolato da altri pretendenti o da vincoli sociali o morali, poi il consueto gioco di scambi, travestimenti, riconoscimenti ecc. ecc.). Bastava loro solo il canovaccio o ‘scenario’ (come quelli raccolti da Flaminio Scala nel Teatro delle favole rappresentative nel 1611), lo scheletro dell’azione e delle entrate, su cui essi improvvisavano le battute, tratte da un repertorio comune. Per questo motivo ogni attore si specializzava su un tipo particolare, e di solito solo su quello: un personaggio della commedia regolare che col tempo perde ogni profondità psicologica, e diventa nient’altro che una maschera, come quelle in uso nei carnevali tardomedievali, in particolare a Venezia. Ma le maschere, a loro volta, riproducono tipi universali, ben riconoscibili nella società contemporanea: il vecchio mercante veneziano (Pantalon), il ‘dottore’ bolognese, avvocato o medico o pedante (Balanzone), i servi furbi, dal tipo del facchino veneziano o bergamasco (Arlecchino e Brighella), il popolano napoletano famelico, sfaccendato e filosofo (Pulcinella), i furbi e disinibiti servi veneziani o zanni (da Zanni, ‘Giovanni’), specializzati nei ruoli plebei e nella gestualità. Una riconoscibilità che è assicurata anche dalla connotazione linguistica dialettale, che produce effetto comico anche grazie al confronto con la varietà ‘alta’ dei personaggi che rappresentano la cultura borghese e aristocratica. Per sua natura, la commedia dell’arte è plurilinguistica. Tra i primi ad avvalersi delle potenzialità espressive del dialetto in ambito teatrale fu il filosofo e professore milanese Carlo Maria Maggi (Milano 1630-1699), autore di Rime (1688), e soprattutto di una serie di commedie in dialetto milanese, in cui s’inventa il tipico personaggio di Meneghino. Ma anche Francesco de Lemene (Lodi 1634-1704), interessante poeta tardobarocco che si richiama ancora allo stile di Marino, compone una commedia in dialetto lodigiano, La sposa Francesca (1694), in cui si mette in scena una

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vedova (Francesca) che ha da maritare la figlia senza dote: una notevole rappresentazione del mondo lombardo degli ‘umili’ che poi arriverà fino al Manzoni. Di fronte alle novità rivoluzionarie del melodramma e della commedia dell’arte e del teatro dialettale, le forme tradizionali di teatro perdono terreno, e si isteriliscono. Ipertrofico esito della commedia cortigiana è ancora La fiera (1619) di Michelangelo Buonarroti il Giovane, in realtà un insieme di cinque commedie. La tragedia diventa più che altro una forma letteraria, destinata alla lettura più che alla recitazione. Nell’Aristodemo (1657) di Carlo de’ Dottori (autore anche di un’interessante autobiografia, le Confessioni, e di un poema eroicomico tassoniano L’Asino del 1652) trionfa il pessimismo totale, nella vicenda di un re dell’antica Grecia che finisce con l’uccidere la figlia innocente Mérope, e se stesso.

Bibliografia 3.1. Moderno e barocco. Sull’età e la letteratura barocca: B. Croce, Storia dell’età barocca in Italia (1929), Milano, Adelphi, 1993; Id., Saggi sulla letteratura italiana del Seicento (1911), Bari, Laterza, 1962; Id., Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento (1929), Napoli, Bibliopolis, 2003; C. Calcaterra, Il Parnaso in rivolta. Barocco e Antibarocco nella poesia italiana (1941), Bologna, Il Mulino, 1961; G. Getto, Il Barocco letterario in Italia, a c. di M. Guglielminetti, Milano, Bruno Mondadori, 2000; F. Croce, Tre momenti del Barocco letterario italiano, Firenze, Sansoni, 1966; E. Raimondi, Anatomie secentesche, Pisa, Nistri-Lischi, 1966, e Letteratura barocca. Studi sul Seicento italiano, Firenze, Olschki, 1991; J.A. Maravall, La cultura del Barocco. Analisi di una struttura storica (1975), Bologna, Il Mulino, 1999; P. Guaragnella, Gli occhi della mente. Stili nel Seicento italiano, Bari, Palomar, 1997; A. Battistini, Il Barocco, Roma, Salerno, 2000; M. Fumaroli, L’età dell’eloquenza. Retorica e “res literaria” dal Rinascimento alle soglie dell’epoca classica (1980), Milano, Adelphi, 2002. Su filosofia e scienza: C. Vasoli, L’enciclopedismo del Seicento, Napoli, Bibliopolis, 1978; G. Olmi, L’inventario del mondo. Catalogazione della natura e luoghi del sapere nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 1992; G. Baffetti, Retorica e scienza. Cultura gesuitica e Seicento italiano, Bologna, CLUEB, 1997. Rivista specializzata: “Studi secenteschi”. Risorsa in rete: Archivio Barocco, a c. di M. Pieri, Università di Parma (www2.unipr. it/~pieri).



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3.2. Galileo. Testi: Opere, edizione nazionale diretta da A. Favaro con la consulenza filologica e letteraria di I. Del Lungo, Firenze, Barbèra, 1890-1909; Opere, a c. di F. Brunetti, Torino, UTET, 2005; Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano, ed. crit. a c. di O. Besomi e M. Helbing, Padova, Antenore, 1998; Il saggiatore, ed. crit. a c. di O. Besomi e M. Helbing, ivi 2005. Studi: A. Battistini, Introduzione a Galilei, Roma-Bari, Laterza, 1989; S. Drake, Galileo, Bologna, Il Mulino, 1998; M. Di Giandomenico – P. Guaragnella, La prosa di Galileo. La lingua, la retorica, la storia, Roma, Argo, 2006. Risorsa in rete: Portale Galileo, Istituto e Museo di Storia della Scienza, Firenze (brunelleschi.imss.fi.it/portalegalileo/indice.html) 3.3. La poesia. Antologie: Lirici marinisti, a c. di G. Getto, Torino, TEA, 1990; Il Barocco, Marino e la poesia del Seicento, a c. di M. Pieri, Roma, Ist. Poligrafico dello Stato, 1996; Opere scelte di Giovan Battista Marino e dei Marinisti, a c. di G. Getto, Torino, UTET, 1996. - G.B. Marino, L’Adone, a c. di G. Pozzi, Milano, Adelphi, 1988; La Galeria, a c. di M. Pieri, Padova, Liviana, 1979; La sampogna, a c. di V. De Maldé, Parma, Guanda, 1993. Cfr. P. Cherchi, La metamorfosi dell’Adone, Ravenna, Longo, 1996. - A. Tassoni, La Secchia rapita, ed. crit. a c. di O. Besomi, Padova, Antenore, 19871990. - F. Redi, Bacco in Toscana, a c. di G. Bucchi, Roma-Padova, Antenore, 2005. Cfr. Francesco Redi, un protagonista della scienza moderna. Documenti, esperimenti, immagini, Firenze, Olschki, 1999. 3.4. La prosa. Antologie: Trattatisti e viaggiatori del Seicento, a c. di E. Raimondi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960; Scienziati del Seicento, a c. di M.L. Altieri Biagi e B. Basile, MilanoNapoli, Ricciardi, 1980; Prosatori e narratori barocchi, a c. di G. Bárberi Squarotti, Roma, Ist. Poligrafico dello Stato, 2002; Scrittori politici dell’età barocca, a c. di R. Villari, ivi, 1998. Studi: A. Mancini, Romanzi e romanzieri del Seicento, Napoli, SEN, 1981; M.A. Cortini – L. Mulas, Selva di vario narrare. Schede per lo studio della narrazione breve nel Seicento, Roma, Bulzoni, 2000; La novella barocca, a c. di L. Spera, Napoli, Liguori, 2001; A. Colombo, Lo sguardo che s’interna. Personaggi e immaginario interiore nel romanzo italiano del Seicento, Roma, Aracne, 2002. - Giambattista Basile, a c. di S. Strati, Roma, Ist. Poligrafico dello Stato, 1997; Lo cunto de li cunti, a c. di M. Rak, Milano, Garzanti, 2007. Cfr. M. Rak, Da Cenerentola a Cappuccetto rosso. Breve storia illustrata della fiaba barocca, Milano, Bruno Mondadori, 2007.

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- T. Campanella, Le poesie, a c. di F. Giancotti, Torino, Einaudi, 1998; La Città del Sole, a c. di L. Firpo, Roma-Bari, Laterza, 2006; Del senso delle cose e della magia, a c. di G. Ernst, ivi 2007; Apologia pro Galileo, a c. di M.P. Lerner, Pisa, Scuola Normale Superiore, 2006. Cfr. G. Ernst, Tommaso Campanella, Roma-Bari, Laterza, 2002; S. Zoppi Garampi, Tommaso Campanella. Il progetto del sapere universale, Milano, Vivarium, 1999. 3.5. Il teatro. R. Tessari, La Commedia dell’Arte: la maschera e l’ombra, Milano, Mursia, 1980; Alle origini del teatro moderno. La Commedia dell’Arte, a c. di L. Mariti, Roma, Bulzoni, 1980; F. Taviani – M. Schini, Il segreto della Commedia dell’Arte, Firenze, La Casa Usher, 1982.

4. Il Settecento

4.1. L’età dell’Arcadia Alla fine del Seicento, le cosiddette ‘guerre di Successione’ portano al graduale declino della Spagna, e all’ascesa della Francia a livello continentale, e dell’Inghilterra a livello globale. Continua la marginalità dell’Italia, che passa dalla sfera d’influenza spagnola a quella austriaca, negli importanti stati di Milano e Napoli; ma comincia ad imporsi l’autonomia della dinastia dei Savoia, che con Vittorio Amedeo giunge al titolo regio, con l’acquisto del Regno di Sicilia (1714), scambiato poi con l’Austria per quello di Sardegna (1720). Agli occhi degli stranieri (testimoni di un grande sviluppo economico e culturale che, in Inghilterra, porta all’avvio della cosiddetta rivoluzione industriale) l’Italia di allora, ancorata al classicismo e alle sue tradizioni, ma anche culla della retorica e degli splendori del barocco, poteva apparire in un certo senso ‘attardata’, rispetto alle conquiste dei ‘moderni’. Nel 1687, a Parigi, nel corso di una vivace seduta dell’Académie, Claude Perrault (il celebre scrittore di favole) affrontò polemicamente il tema della ‘querelle des anciens et des modernes’ (‘confronto degli antichi e dei moderni’), dichiarando che finalmente il ‘grand siècle’ aveva superato la ‘belle antiquité’. Un superamento che, per gli stranieri, significava anche il ‘sorpasso’ della civiltà italiana, di quella civiltà che con Dante, Boccaccio, Petrarca, il Rinascimento, l’umanesimo, il manierismo, il barocco, aveva fino ad allora guidato l’intera civiltà europea, e ispirato i suoi orizzonti culturali, le sue aspettative, il suo stesso gusto. In quello stesso 1687 esce infatti un testo di Dominique Bouhours, De la manière de bien penser dans les ouvrages d’esprit (‘come ben procedere nelle opere dello spirito’), polemico contro un’Italia poco ‘moderna’, caratterizzata dalla poca verità e dalla troppa retorica. La risposta degli italiani (con Giovanni Giuseppe Orsi e Ludovico Antonio Muratori) fu di rivendicare il valore della loro tradizione letteraria e

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poetica, il loro ‘classicismo’, che andava semmai depurato dalle intemperanze formali del Seicento barocco. Un ritorno all’ordine, alla chiarezza stilistica, ispirato ai grandi classici antichi (Orazio) e moderni (Petrarca, Ariosto, Tasso), come chiede Benedetto Menzini nella sua Poetica (1688). Ma fu una risposta che si concretizzò soprattutto in una rinascita dell’accademia, di quell’istituzione che, nata nel Rinascimento, era stato uno degli strumenti più efficaci e stabili di aggregazione degli intellettuali nell’Antico Regime, possibilità di circolazione di idee e di poesia che poteva godere di una certa autonomia dalle strutture del potere politico. In particolare, un circolo di letterati aveva cominciato a riunirsi dal 1674 intorno ad un personaggio quasi leggendario della Roma barocca, Cristina di Svezia, exregina dello stato scandinavo, protagonista di una spettacolare conversione dal protestantesimo al cattolicesimo e giunta a Roma nel 1655, donna indipendente e talvolta spregiudicata, protettrice delle lettere e delle arti, morta nel 1689. Un anno dopo (1690), tra quei letterati, riunitisi per commemorare la regina, sorse quasi spontanea l’esclamazione: “Egli mi sembra che noi abbiamo oggi rinnovata l’Arcadia”. Era la nascita dell’Accademia dell’Arcadia, formalizzata il 15 ottobre 1690 a San Pietro in Montorio sul Gianicolo (luogo sacro per la memoria della poesia, perché accanto alla tomba del Tasso). Vi parteciparono da subito poeti e intellettuali come Vincenzo da Filicaia, Alessandro Guidi, Francesco Redi, Giovan Battista Zappi, Benedetto Menzini, e soprattutto Giovan Mario Crescimbeni (Macerata 1663-Roma 1728), che ne fu il primo ‘custode’, cioè segretario. Il gesuita maceratese Crescimbeni, a Roma dal 1679, avrebbe un giorno rappresentato in forma allegorica la nascita e lo sviluppo dell’accademia nel romanzo pastorale L’Arcadia (1709); ma intanto era stato il principale animatore della sua poetica, con alcuni scritti importanti che sono in effetti le prime storie della letteratura italiana, cioè i primi bilanci della tradizione dei ‘classici’ che esigeva il ripensamento critico di fine Seicento: L’istoria della volgar poesia (1698), La bellezza della volgar poesia (1700) e i Comentari intorno alla storia della volgar poesia (1702). L’Arcadia rinviava naturalmente al mito pastorale dell’Arcadia, la regione del Peloponneso nella quale la tradizione bucolica antica e moderna aveva ambientato le proprie raffinate finzioni poetiche (come aveva fatto Sannazaro). Per questo motivo i ‘soci’ dell’accademia si travestivano idealmente da ‘pastori’, e prendevano un nuovo nome accademico, desunto dal mondo bucolico. Ma la sua produzione letteraria non era limitata al solo genere pastorale, anzi, l’ampiezza degli interessi andava verso l’intero sistema dei generi, con una netta preferenza per l’effusione lirica e amorosa. Quel che ne distingueva la poetica era la ricerca della chiarezza d’espressione, l’abban-



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dono del concettismo e dell’arguzia del Seicento barocco, il ritorno al ‘vero’ e al ‘buon gusto’: una riforma che agisce soprattutto nella retorica, e nella metrica, nella quale si impongono le forme poetiche brevi, le canzonette di settenari basate prevalentemente sulle strofe di quartine, e caratterizzate da una nuova sensibilità musicale. Nelle arti, invece, è ancora imperante il tardobarocco, che tende però a perdere i caratteri della monumentalità e della grandiosità per diventare una pratica soprattutto decorativa, raffinata, chiamata ‘barocchetto’ o ‘rococò’. Un altro aspetto importante dell’Arcadia è sicuramente costituito dalla sua ampia dimensione sociale e istituzionale. L’Accademia non rimase confinata a Roma, ma ebbe una larga e capillare diffusione nazionale, per mezzo di sedi distaccate chiamate ‘colonie’, dotate di autonomia propria. Di più, la sua poesia era spesso una poesia ‘collettiva’, affidata a pubblicazioni come le raccolte delle Rime degli Arcadi, che cominciarono a uscire nel 1716, a cura del Crescimbeni. Non è perciò facile isolare, nella produzione poetica del primo Settecento, delle personalità ben individuate: ma vi si distinguono almeno quelle di Giovan Battista Felice Zappi (Imola 1667-Roma 1719), definito ‘inzuccheratissimo’ dal Baretti, autore di sonetti che rappresentano l’assoluta leggerezza di quadretti galanti contemporanei; o di Paolo Rolli (Roma 1687-Todi 1765), celebrato per le sue canzonette meliche, molto cantabili (e spesso musicate), come Solitario bosco ombroso o La neve è alla montagna, e importante diffusore della cultura italiana in Inghilterra, a Londra dal 1716 al 1744, dove produsse diverse edizioni dei nostri classici, libere dalle costrizioni morali e religiose che ancora vigevano nella penisola (ad esempio, l’edizione del Decameron integro, senza gli assurdi tagli controriformistici). Non era ambiente pacifico e idilliaco, quello dell’Arcadia, ma anzi talvolta luogo di scontro feroce tra diverse idee della poesia. Il nome più prestigioso dell’accademia, dal punto di vista culturale e filosofico, era quello di Gian Vincenzo Gravina (Roggiano 1664-Roma 1718), grande giurista, filosofo e critico letterario di origine calabrese che, dopo gli studi condotti a Scalea sotto la guida del cugino filosofo Gregorio Caloprese, approdò a Roma nel 1689 e aderì all’Arcadia. Provenendo dal Sud e da Napoli, il Gravina aveva una formazione classicistica e umanistica molto più profonda degli altri Arcadi, e la sua meditazione poetica si basava su ragioni di ordine filosofico e storico, e non retorico-formale. Nel trattato Della ragion poetica (1708), ad esempio, la poesia è strettamente legata al potere di creazione e finzione della fantasia, e questo gli consente di recuperare il valore del mito, e anche di indicare, per la prima volta, in poeti come Omero e Dante (svalutati dalla tradizione classicistica, a favore di Virgilio e Petrarca), una sorta di primato ‘immaginativo-poetico’, di ‘furore’ primitivo e quasi divino. Ne derivava una

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critica serrata della tradizione lirico-amorosa in volgare, dal vuoto formalismo petrarchista agli ultimi poeti dell’Arcadia; e quindi anche l’inevitabile scontro col Crescimbeni, che portò il Gravina a uscire dall’accademia (1711), e a fondarne una propria, chiamata Accademia dei Quirini, dove avrebbe approfondito la riflessione sul teatro tragico, con la composizione di cinque tragedie di ispirazione classica, e di un trattato Della tragedia (1715). Aveva ragione il Gravina a vedere nel teatro il genere più vitale e nuovo del suo tempo. Ma non erano certo le sue tragedie, o quella pur celebrata del contemporaneo ed erudito Scipione Maffei (Verona 1675-1755), la Merope, a infiammare il pubblico. Ormai l’attività teatrale aveva perso del tutto quel carattere di provvisorietà e marginalità che aveva agli inizi della Commedia dell’Arte. Esistevano in ogni città teatri e compagnie stabili, in cui erano ben definiti tutti i ruoli e tutte le funzioni: l’impresario, l’autore, il librettista, il musicista, gli attori e le attrici, i cantanti e i virtuosi, i ballerini, i musici, artigiani e operai, manovali, scenografi, pittori, falegnami, costumisti, fin giù alle ‘maschere’, ai venditori di biglietti, ai banditori. Un mondo variegato e affascinante, specchiato e preso garbatamente in giro dal musicista veneziano Benedetto Marcello nel suo bellissimo Il teatro alla moda (1720). Tra i più importanti scrittori di libretti per il melodramma si impose Apostolo Zeno (Venezia 1668-1750), vivace animatore di cultura anche grazie ad una pubblicazione periodica, il “Giornale dei letterati d’Italia” (dal 1710), poi poeta cesareo a Vienna (1718-1729), sostenitore di una riforma del teatro musicale, dal quale si sarebbe dovuta eliminare l’esuberante commistione dei generi comico e tragico. Ma chi veramente contribuì alla piena diffusione europea del teatro e della musica italiana fu Pietro Trapassi detto Metastasio (Roma 1698-Vienna 1782), formatosi nell’orbita del Gravina, che si era accollato l’educazione del giovane Pietro, umile apprendista orafo. Per garantirsi una conveniente sistemazione sociale il Metastasio prese gli ordini minori e divenne abate (1714). Dopo un primo dramma storico intitolato Giustino, passa a Napoli, uno dei più importanti centri europei per il melodramma e per la musica, con istituzioni come la Pietà dei Turchini, e musicisti come Alessandro e Domenico Scarlatti e Leonardo Leo. A Napoli stringe amicizia con la Romanina (il grande soprano Marianna Benti Bulgarelli) e con il celebre cantante castrato Farinelli (Carlo Broschi)(vigeva all’epoca la crudele usanza di operare i fanciulli più promettenti nel canto, per conservarne la meravigliosa vocalità). Al teatro San Bartolomeo di Napoli Metastasio rappresenta la sua prima opera, la Didone abbandonata (1724), con musica di Domenico Sarro, la Romanina nei panni di Didone, e un altro famoso castrato, il



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Nicolino, nel ruolo di Enea. Il successo di questa e delle opere successive è immediato ed enorme, e porta Metastasio in giro per l’Italia e l’Europa; fino alla sistemazione definitiva come poeta cesareo presso la corte imperiale di Vienna, al servizio di Carlo VI d’Asburgo e poi di Maria Teresa, dal 1730 fino alla morte. Nell’immensa produzione librettistica, la Didone restò quasi l’unica sua tragedia. Metastasio preferì infatti scrivere drammi eroici come il Demofoonte o La clemenza di Tito (che sarà musicata anche da Mozart), e drammi ‘patetici’ come l’Olimpiade. Quasi sempre opere a lieto fine, anche se percorse da un’elevata conflittualità tra principi contrapposti (il piacere e l’amore contro il dovere, il cuore contro la ragione, gli affetti umani e familiari contro l’inflessibilità di leggi ingiuste), che sembra precipitare i protagonisti in una catastrofe senza rimedio, e poi invece solo in extremis si risolve per mezzo di un’agnizione, di un grande gesto di magnanimità. È, di solito, la vittoria delle ragioni del cuore, contro quelle della convenienza e del sociale, all’interno però di un quadro equilibrato e armonico dei valori. Nella caratterizzazione dei personaggi e nell’invenzione delle situazioni più ‘patetiche’ è fortissima l’influenza del Tasso, avvertibile anche nello stile e nella lingua. Fedele ai dettami dell’Arcadia, Metastasio cerca di evitare le intemperanze barocche, e di comunicare per mezzo della sua poesia insegnamenti utili, esempi di valore, di virtù, e anche di impegno politico. Come in Tasso, si tratta di una lingua già molto musicale, basata su un lessico ridotto e semplificato, e articolata su una metrica fortemente comunicativa, sia nei recitativi che nelle ‘arie’, cantate dai protagonisti dell’opera, momento alto di effusione sentimentale, marcato dalla ritmica della canzonetta arcadica di versi brevi (ottonari, settenari, senari, quinari, e spesso versi tronchi in fine di strofa). Uno stile che ispira anche la produzione poetica extrateatrale, nella quale si distinguono le poesie dedicate all’incostante figura femminile di Nice: La libertà, Palinodia, e La partenza (con i versi celeberrimi “E tu chi sa se mai / ti sovverrai di me”). S’è detto dell’importanza di Napoli per la formazione di Gravina e Metastasio. In effetti, gli ultimi anni del Seicento, e del dominio spagnolo, sono per la grande capitale meridionale un momento di intensa rinascita culturale, anche grazie all’azione degli ultimi illuminati viceré spagnoli (il duca di Medinacoeli, che sostiene l’Accademia Palatina). Gli interessi prevalenti sono di ambito storico, politico, filosofico e giuridico, in collegamento con i circoli culturali del Nord Europa; ma è anche il momento di una ‘riscoperta’ del Rinascimento e dell’umanesimo. Grandi biblioteche di giuristi come Gaetano Argento e Giuseppe Valletta vengono aperte alla consultazione pubblica,

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riprende l’attività editoriale con Antonio Bulifon, e Napoli è meta di grandi eruditi europei (Mabillon, Montfaucon). E nel mondo dei giuristi coinvolti nell’amministrazione e nella giustizia si sviluppa una diffusa coscienza dello Stato come entità autonoma, laica e moderna, tra le più avanzate d’Europa. Questa nuova idea politica diventa presto ansia di riforma sociale e politica, a partire da quelle strutture che nei secoli avevano sempre impedito la formazione di un potere laico stabile e indipendente, o addirittura esteso fino ad unificare l’intera penisola: le istituzioni ecclesiastiche, la cui influenza nell’economia e nella società del Mezzogiorno era diventata addirittura soffocante, con l’accumularsi di benefici, la costituzione di immensi latifondi, il controllo esercitato sulla vita intellettuale. Fu questa l’azione coraggiosamente intrapresa da Pietro Giannone (Ischitella 1676-Torino 1748), che nell’Istoria civile del Regno di Napoli (1723) affermò l’autonomia del sovrano nei confronti della Chiesa, disegnando per la prima volta una “istoria tutta civile”, cioè basata sulla vicende politiche e strutturali, senza tutti quegli elementi (ritratti psicologici dei grandi personaggi, dinastie, battaglie, aneddoti, ‘discorsi’ ecc.) che rendevano di solito la storiografia tradizionale un genere di bella esercitazione retorica più che analisi realistica dei fatti. La reazione dei poteri ‘forti’ fu durissima. Giannone fu scomunicato, e andò in esilio a Vienna (1723-1734), dove scrisse ancora il Triregno (rimasto inedito fino al 1895!), violento attacco contro il “regno papale” che aveva tradito la Chiesa di Cristo originaria e spirituale. Catturato a tradimento (1736), finì i suoi giorni nelle carceri savoiarde e piemontesi, dove (come Campanella) cercò nella scrittura consolazione alle sue avversità, con la composizione di una bellissima Vita scritta da lui medesimo (1736-1741), estrema apologia di una vita spesa nella testimonianza delle proprie idee. Nel medesimo ambiente classicistico e giuridico si forma, quasi da autodidatta, Giambattista Vico (Napoli 1668-1744), per alcuni anni precettore in una famiglia nobile (i marchesi Rocco di Vatolla, nel Cilento), ma poi stabilmente impiegato (dopo la laurea in diritto come si diceva allora in utroque, cioè civile e canonico) all’università di Napoli, come professore di retorica (1699). Coltiva anche la poesia, con gusto tardobarocco (favorito dall’incontro col vecchio gesuita Lubrano), e poi arcadico. Partecipa alla vita delle accademie, entra in Arcadia, e nell’Accademia Palatina. I primi scritti rientrano in questa prima fase della sua vita, tutta legata all’insegnamento universitario, e sono perciò in latino: la prolusione, o lezione inaugurale, De nostri temporis studiorum ratione (‘il metodo di studio del nostro tempo’)(1709), difesa degli studi umanistici in cui si riprende il tema, di grande attualità, del confronto fra antichi e moderni, e si comincia a proporre un sistema



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educativo basato su sensazione e fantasia più che sulla ragione; e il trattato De antiquissima Italorum sapientia (di cui fu pubblicato solo il primo libro, 1710), ardita rievocazione degli antichi filosofi della Magna Grecia. La vera maturità di pensiero Vico la raggiunse dopo un momento difficile della sua vita, il fallito tentativo di essere nominato all’importante cattedra di Diritto Civile, cui aveva puntato con una grande opera in latino sul Diritto universale (1720-1721). Da quell’opera, e dalle grandi questioni che vi si affrontavano per la prima volta (le origini della civiltà, delle religioni, della poesia, delle istituzioni, nel passaggio dal mito alla storia) sarebbe nato, in volgare, il suo capolavoro, la Scienza nuova (col titolo Principi di una scienza nuova intorno alla natura delle nazioni)(1725); una straordinaria ‘opera in movimento’, perché rielaborata in due successive edizioni, definite la Scienza nuova seconda (col titolo Cinque libri de’ principi d’una scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni)(1730), e la Scienza nuova terza (col titolo Principi di scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni)(1744). La ‘scienza nuova’ era in realtà un’idea di Cartesio, che intendeva applicare un principio unificante all’interpretazione del reale. Ma mentre Cartesio trovava questo principio nell’astrattezza della ragione matematica, Vico lo cerca nella concretezza della Storia. Ed è la Storia la grande scoperta di Vico, la storia fatta dagli uomini, e che diventa quindi oggetto di conoscenza da parte degli stessi uomini. Come la filosofia era stata e continua ad essere la ‘scienza del vero’, nella storia lo strumento interpretativo, ermeneutico, è la filologia, ‘scienza del certo’: ma entrambi gli strumenti devono sempre restare congiunti nell’analisi. Ne deriva l’individuazione di alcune costanti nella genesi e nello sviluppo delle civiltà umane, applicate da Vico, con il suo metodo unificante (la ‘scienza nuova’), a tutte le possibili manifestazioni di quelle civiltà, dalla poesia e dalle arti figurative alle istituzioni politiche, giuridiche e religiose. In sintesi, ogni civiltà umana passa attraverso tre ‘età’, quella degli dèi (caratterizzata dal dominio della sensazione, dalla “natura poetica” e dai “poeti teologi”, come Omero e Dante), quella degli eroi (regno della fantasia e dell’immaginazione), e quella degli uomini (o della ragione): un processo che può ripetersi più volte, quando una civiltà decade e un’altra sorge (i cosiddetti ‘corsi e ricorsi storici’), e che viene mirabilmente sintetizzato in uno dei 114 aforismi (chiamati ‘degnità’) in cui Vico condensa tutto il suo pensiero con stile poetico e talvolta solennemente oscuro: “Gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura”. Vico portò avanti una coraggiosa battaglia intellettuale, testimoniata anche dall’importante Autobiografia (1728), raccontata in terza persona; ma fu all’inizio quasi ignorato dai contemporanei. Nel corso del Settecento le sue

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opere si diffusero però in tutta Europa, e influenzarono profondamente le vicende successive della storia e della cultura moderna e contemporanea. Una particolare influenza vichiana si riconosce nella poetica e nella critica letteraria, con la rivalutazione delle forme poetiche caratteristiche delle età ‘primitive’, primordiali, dominate da un diffuso senso del divino e da sensazioni forti; autori appunto come Omero e Dante, svalutati dal classicismo (e Dante addirittura incompreso e dimenticato nel corso del Seicento), e ora invece additati a modelli di poesia ‘sublime’ (come anche i libri profetici e i Salmi nella Bibbia). Con la riscoperta di Dante cominciava anche la riscoperta di quell’epoca che gli umanisti avevano considerato ‘età di tenebre’, il Medioevo. In questo Vico, a livello europeo, non era isolato. La ricerca erudita era cominciata in ambito ecclesiastico, con Jean Mabillon e la congregazione dei Padri Maurini, impegnati alla revisione delle vite dei Santi e all’eliminazione di credenze e superstizioni leggendarie, per mezzo dello studio filologico delle fonti e dei manoscritti medievali. In Italia questa istanza filologica fu rappresentata soprattutto da Ludovico Antonio Muratori (Vignola 1672-Modena 1750), un sacerdote che fu lungamente al servizio degli Estensi, e che dedicò gran parte della sua vita al grandioso progetto di ricostruzione della storia d’Italia attraverso la pubblicazione e lo studio delle fonti storiche, nelle collane dei Rerum italicarum scriptores (‘gli storici italiani’)(1723-1751) e delle Antiquitates Italicae Medii Aevi (‘le antichità italiane del Medioevo’)(1738-1742), approdando infine agli Annali d’Italia (1744-1749), sintesi storica che andava dall’anno zero al 1749, inglobando quindi l’intero periodo medievale. Il Muratori fu anche profondo studioso di poesia, concentrando le sue attenzioni al Petrarca. La sua difesa della tradizione poetica italiana (contro gli attacchi, ad esempio, del Bouhours) non era chiusa e provinciale, ma aperta, critica nei confronti delle intemperanze formali del barocco (Della perfetta poesia italiana, 1706), e orientata all’alto ideale di una ‘repubblica delle lettere’, di libera comunicazione intellettuale (I primi disegni della repubblica letteraria d’Italia, 1703). Ed è col Muratori, e con intellettuali come Crescimbeni, Francesco Saverio Quadrio, Giovanni Maria Mazzucchelli, Carlo Denina e Girolamo Tiraboschi che nasce quella riflessione critica sulla poesia e la letteratura d’Italia che si pone alle basi della moderna storia della letteratura italiana. L’esigenza di chiarezza e di comunicazione, promossa dall’Arcadia e dalle accademie contemporanee, risalta infine anche nella prosa, e in particolare in quella di divulgazione scientifica, in cui si distinsero grandi figure come il medico Marcello Malpighi (Bologna 1628-1694), fondatore dell’anatomia comparata; e Lorenzo Magalotti (Roma 1637-1712), scienziato e viaggia-



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tore, poeta e poligrafo molto attento anche al mondo del teatro, e autore teatrale in proprio, scrittore celebrato al suo tempo per i Saggi di naturali esperienze, e le Lettere sui buccheri (1695).

4.2. L’Illuminismo La rapida evoluzione economica e civile delle società dell’ancien régime si trova a fronteggiare, alla metà del Settecento, strutture politiche e istituzionali ancora saldamente ancorate al sistema dell’assolutismo, delle grandi monarchie europee di diritto divino. Solo l’Inghilterra, con l’inizio della rivoluzione industriale, e con le rivoluzioni borghesi che hanno segnato il definitivo tramonto del potere assoluto del sovrano, vede la nascita di una vera democrazia parlamentare, e di una nuova concezione politico-economica che favorisce il libero commercio e la libera concorrenza, considerati elementi di prosperità e benessere: quel che verrà definito ‘liberalismo’, e teorizzato nel trattato dello scozzese Adam Smith, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations (‘studio sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni’)(1776). Ma altrove gli intellettuali, filosofi, storici, economisti, scienziati, dovevano interrogarsi su come intervenire sul sistema, come riformarlo dall’interno senza sovvertirlo o distruggerlo. La riforma dello stato moderno portava, ad esempio, ad una separazione funzionale dei poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario), affermata in Francia da Montesquieu con l’opera fondamentale Esprit des lois (‘lo spirito delle leggi’)(1748). Tra i primi bersagli dei riformatori era l’insieme di privilegi feudali ancora detenuti dalle classi aristocratiche, che frenavano il processo di sviluppo; e soprattutto l’ingerenza della Chiesa Cattolica nella vita dello stato, già lucidamente evidenziata dal Giannone: una battaglia, quest’ultima, che avrà dei toni durissimi, in particolare contro l’ordine religioso che aveva garantito negli ultimi due secoli la propaganda cattolica e il sistema dell’educazione, i Gesuiti, che vengono espulsi da diversi paesi europei a partire dal Portogallo (1759), e infine soppressi dallo stesso papa Clemente XIV (1773). Il movimento intellettuale sarà così definito illuminismo, perché si richiama alla metafora dei ‘lumi’, della luce della ragione e della scienza che comincia a rischiarare il cammino dell’uomo dopo un lungo periodo di oscurità, di barbarie, di superstizione religiosa. Nella scienza, le sue premesse erano costituite dalle ricerche di Isaac Newton, che dimostrarono la validità del modello copernicano per mezzo della teoria della gravitazione universale, che portava a concepire l’universo come un sistema infinito fondato su basi

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meccanicistiche e matematiche; e in tutti i campi si registravano continue scoperte, dagli studi sull’elettricità naturale alla scomposizione degli elementi primari e alla nascita della chimica moderna, dalla botanica alle scienze naturali. Contemporaneamente, in filosofia, il razionalismo cartesiano era sopravanzato dalla critica empirica di Locke, Berkeley, Hume, che tornava a dare pieno valore alla percezione sensoriale come base di ogni forma di conoscenza. Ne derivava il sensismo di Condillac, e il materialismo meccanicista, che giungeva a considerare l’uomo nient’altro che una macchina, con La Mettrie, d’Olbach e Helvétius. La fiducia eccessiva nelle capacità della ragione porta a una critica radicale del cristianesimo, e alla proposizione di una nuova religione della natura. L’illuminismo era sicuramente un movimento di élite, ma si serviva di nuove forme di comunicazione e di aggregazione, che permettevano la diffusione delle sue idee a tutti i livelli, dalle classi aristocratiche e dirigenti ai ceti medi, borghesi e mercantili, fino a quelli artigiani e operai, che si affacciavano all’alfabetizzazione per mezzo di istituzioni scolastiche e filantropiche. Nuovi ‘spazi’ di elaborazione culturale sono ormai i ‘salotti’, in cui si riunisce periodicamente la società intellettuale, le dame, i poeti e i filosofi, gli avventurieri e i libertini; i ‘clubs’ (dalla parola inglese che designava questo tipo di associazione-ritrovo, originariamente molto esclusiva e riservata ai soli uomini), le biblioteche pubbliche e private e le librerie, i teatri, e infine i caffè, locali creati per la degustazione della celebre bevanda, in concorrenza con le più anglosassoni sale da té. È il trionfo della civiltà della conversazione, che si estende anche nella sala ‘virtuale’ di un caffè allargato all’Europa intera, nell’ideale ‘repubblica delle lettere’, definizione resa celebre dallo spregiudicato periodico pubblicato in Olanda alla fine del Seicento da Pierre Bayle, le Nouvelles de la République des lettres (‘notizie della repubblica della lettere’). La comunicazione culturale e letteraria, ma anche mondana e sociale, era infatti assicurata dalla nascita e dallo sviluppo immediato della stampa periodica, ad iniziare dal francese Journal des Savants (‘giornale degli studiosi’)(1665): un fenomeno stabilitosi a livello industriale soprattutto in Inghilterra, con Joseph Addison e il suo The Spectator (‘lo spettatore’)(17111712). Basti pensare che perfino Vico pubblicò la sua autobiografia a puntate su una rivista veneziana. In Francia, l’illuminismo raggiunge il suo punto più alto con la pubblicazione di un’enorme impresa collettiva, l’Encyclopédie (1751-1766) di Diderot e d’Alembert, uscita tra grandi difficoltà, censure ed opposizioni, monumento di una nuova sistematica interpretazione del mondo e dell’uomo che si estendeva a tutti gli aspetti della vita, dalle arti all’economia, dalla filosofia alle scienze, dall’industria ai commerci. Sostenitore dell’Encyclopédie



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fu François-Marie Arouet detto Voltaire (1694-1778), il filosofo e scrittore più rappresentativo dell’illuminismo europeo, autore di opere come il Traité de la Tolérance (‘trattato della tolleranza’) o l’Essai sur les moeurs et l’esprit des nations (‘saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni’), assertore dell’idea del progresso della civiltà come passaggio dalla barbarie ai Lumi della ragione: un’idea che verrà sviluppata ancora dal Condorcet nel senso di ottimistica fiducia in uno sviluppo progressivo e illimitato dell’umanità. Ma non tutti erano così ottimisti sulle sorti dell’umanità. Lo stesso Voltaire aveva preso in giro il facile ottimismo di Leibniz (che affermava che noi viviamo nel migliore dei mondi possibili) con il romanzo filosofico Candide. Un grande intellettuale ginevrino, Jean-Jacques Rousseau (1712- 1778) criticò profondamente l’illusoria prospettiva del progresso, e anzi affermò che la civiltà finiva con l’allontanare l’uomo dall’originaria purezza dello stato di natura. La storia umana, dunque, è una vicenda di corruzione e di decadimento, e compito della filosofia e della pedagogia dovrebbe essere quello di purificare e ‘liberare’ l’umanità dalle forme corrotte della civiltà. Un ideale che Rousseau comunicò all’Europa anche attraverso un altro romanzo filosofico, Julie ou la Nouvelle Héloïse (‘nuova Eloisa’), in cui il racconto della passione amorosa tra Julie e il precettore Saint-Preux serve a mettere in scena il contrasto tra la purezza dell’amore naturale e le corruzioni e le convenzioni della società circostante; e fu un testo importante per i contemporanei anche per la novità della forma, il romanzo epistolare, strutturato sulla fittizia raccolta di lettere, sul modello della Pamela e della Clarissa dell’inglese Samuel Richardson (Julie è una ‘nuova Eloisa’, perché ricorda l’eroina medievale protagonista della storia d’amore con il filosofo Abelardo, raccontata in celebri lettere). Nel trattato pedagogico Emile viene proposto un nuovo sistema di educazione, basato sulla libertà e creatività del fanciullo, senza schemi e imposizioni. Rousseau contribuì infine alla diffusione del genere autobiografico con le sue importanti Confessions (‘confessioni’), che riprendevano nel titolo l’immortale opera di sant’Agostino, gettando un ponte tra l’introspezione religiosa di matrice agostiniana e la nuova conoscenza dell’io percorsa dai moderni, da Petrarca a Montaigne. L’Italia partecipò al movimento illuministico soprattutto dal punto di vista delle riforme politiche ed economiche, temperandone gli aspetti più radicali della critica anticristiana e del materialismo libertino. Questo anche perché l’illuminismo italiano fu sostenuto da alcuni prìncipi, che vedevano in un cauto processo di riforma una possibilità di controllo migliore delle masse e degli intellettuali (quel che sarebbe stato definito “dispotismo illuminato”).

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A Napoli il nuovo re Carlo III di Borbone (sul trono di Napoli dal 1734 al 1759) promosse un grande rinnovamento statale, urbanistico e architettonico, con l’ausilio del ministro toscano Bernardo Tanucci, che guidò il governo anche nel periodo della reggenza del suo successore, Ferdinando IV. Gli intellettuali napoletani furono sicuramente, in Italia, quelli più vicini all’illuminismo francese. Il sacerdote Antonio Genovesi (Castiglione 1713Napoli 1769), che aveva conosciuto Vico ed insegnava economia politica all’università, diffuse le idee nuove sul progresso economico e sociale nelle sue Lezioni di commercio o sia di economia civile, mentre il suo allievo più brillante, l’abate Ferdinando Galiani (Chieti 1728-Napoli 1787), autore di un importante trattato Della moneta (1751), sarebbe addirittura approdato a Parigi nell’ambiente dell’Encyclopédie. Il giovane principe Gaetano Filangieri (Cercola 1752-Vico Equense 1788) nella sua Scienza della legislazione (17801785) ci lascia l’opera più importante dell’illuminismo italiano, l’ideale di uno stato basato sulla giustizia e l’eguaglianza dei diritti, che avrà un’immediata eco in Europa, e sarà ripreso anche nella Costituzione Americana (1787). Favorevoli alle riforme furono anche gli Asburgo, nel granducato di Toscana (ove s’erano estinti i Medici), e soprattutto a Milano, sotto Maria Teresa e Giuseppe II, e l’opera del plenipotenziario austriaco il conte Carlo di Firmian. Centro del rinnovamento è l’Accademia dei Trasformati, cui si aggiunge il circolo costituito da alcuni giovani aristocratici milanesi, l’Accademia dei Pugni. Ne fecero parte Pietro Verri (Milano 1728-1797), principale animatore dell’accademia e della rivista Il Caffè (1764-1766), seguace delle tendenze sensistiche della filosofia francese contemporanea nel suo Discorso sull’indole del piacere e del dolore; il fratello Alessandro Verri (Milano 1741Roma 1816), celebrato romanziere e scrittore di teatro, che avrebbe concluso la sua carriera intellettuale nella Roma del primo Ottocento, testimoniando l’adesione alle nuove poetiche neoclassicistiche nelle Notti romane al sepolcro degli Scipioni (1792-1804); e soprattutto Cesare Beccaria (Milano 1738-1794), autore di un breve trattato Dei delitti e delle pene (1764) che, per il coraggio con cui si denunciava la barbarie della tortura e della pena di morte, divenne presto uno dei testi più letti in Europa. Gli intellettuali milanesi, in questo serrato confronto con la cultura illuministica europea e in particolare con la lingua francese (vera lingua internazionale dell’epoca), sentirono molto il problema del rinnovamento anche degli strumenti comunicativi, e in particolare della lingua italiana, che nei loro testi (dagli articoli del Caffè ai saggi e ai trattati) tende a imitare talvolta la sintassi e lo stile dei philosophes d’oltralpe, nella ricerca di una chiarezza e di un’immediatezza che di solito la prosa italiana (per secoli fondata sul-



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l’imitazione di Boccaccio) non aveva. Una posizione radicale fu quella di Alessandro Verri, nella celebre Rinunzia avanti notaio al Vocabolario della Crusca (1764). Ma in generale, tra varie polemiche, ne derivò un influsso positivo a collegare maggiormente le parole alle cose, e a curare la comprensibilità dei testi, soprattutto quelli destinati alla divulgazione scientifica e filosofica. Tra l’altro, è in questo quadro linguistico che rinasce l’interesse per il dialetto, frequentato a Milano da poeti come Domenico Balestrieri e Carl’Antonio Tanzi (entrambi Accademici Trasformati); e in Sicilia da Giovanni Meli (Palermo 1740-1815), accademico e poeta di ispirazione arcadica le cui egloghe e canzonette in fresco dialetto siciliano sapranno far rivivere la declinante poesia dell’Arcadia, e avranno una notevole diffusione anche fuori d’Italia. Le istanze dialettali e della rappresentazione realistica della vita contemporanea erano vivissime a Venezia, che, anche se nell’inarrestabile decadenza della Serenissima e delle sue istituzioni politiche e civili, restava comunque una delle capitali culturali della penisola, soprattutto per l’editoria e il teatro. Gasparo Gozzi (Venezia 1713-Padova 1786) si fece carico di una reazione ‘conservatrice’ a quelle istanze, in una Accademia dei Granelleschi (1747) che avrebbe voluto richiamarsi alla tradizione letteraria e linguistica toscana. Costretto dalle necessità economiche a vivere dei proventi della propria attività intellettuale, Gasparo lavorò anche, ma in modo fallimentare, come gestore di uno dei più importanti teatri veneziani, il Sant’Angelo (1746). Si dedicò poi quasi esclusivamente all’attività giornalistica, in periodici scritti quasi interamente da lui, come la “Gazzetta Veneta” (1760-61) e “L’Osservatore Veneto” (1761-62), importanti per la critica letteraria e di costume (ad esempio, memorabile fu la sua difesa della poesia di Dante contro le accuse di rozzezza del gesuita Saverio Bettinelli). Il fratello di Gasparo, Carlo Gozzi (Venezia 1720-1806), ne riprese la polemica antirealistica (in particolare contro Goldoni), impegnandosi nella composizione di opere teatrali che riprendevano in modo originale i modi del fiabesco e del magico, anche dalla tradizione favolistica popolare e dal Cunto di Basile: L’amore delle tre melarancie (1761), la celebre Turandot (1762), e l’Augellin belverde (1765); e ripercorrendo infine le tappe di una vita lunga e avventurosa nelle sue Memorie inutili. Un altro celebre periodico pubblicato a Venezia, e vicino alle posizioni dei Gozzi, fu “La frusta letteraria”, in cui un certo Aristarco Scannabue esercitava una severa critica militante nei confronti della letteratura contemporanea: il suo vero nome era Giuseppe Baretti (Torino 1719-Londra

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1789), instancabile viaggiatore europeo, che avrebbe trascorso la parte finale della sua vita a Londra (come il Rolli), diffondendovi la conoscenza della letteratura italiana. Allo stesso ambiente apparteneva Pietro Chiari (Brescia 1712-1785), un ex-gesuita bresciano che a Venezia fece la sua fortuna come prolifico scrittore di commedie, anche lui in competizione con Goldoni, di cui riprendeva i soggetti e perfino i titoli delle commedie più fortunate (ad esempio, La scuola delle vedove, in risposta alla goldoniana Vedova scaltra). Chiari è però più importante come autore di una quarantina di romanzi, genere di grande fortuna nella letteratura del Settecento, vera letteratura di consumo. Vi si legge il rispecchiamento di una società mutevole, erotica, libertina, in cui la condizione femminile contemporanea emerge pienamente nelle figure delle protagoniste, eroine moderne che si raccontano in prima persona, e conquistano una loro indipendenza lungo percorsi ai limiti (o al di là) della morale corrente, come sembrano suggerire gli stessi titoli dei romanzi più famosi: La filosofessa italiana, La cantatrice per disgrazia, Le memorie di Madama Tolot ovvero la giocatrice di lotto, La bella pellegrina, La francese in Italia. Era un mondo reale, non inventato, popolato di molte donne scrittrici, poetesse all’improvviso (come la celebre e scandalosa Corilla), attrici, cantanti, giocatrici, cortigiane. Lo stesso mondo attraverso il quale passa, con sublime leggerezza, il più grande avventuriero del secolo, celebre per le sue infinite vicende amorose, Giacomo Casanova (Venezia 1725-Dux, Boemia 1798), che nel malinconico tramonto della sua vita, passato nel castello di Dux in Boemia, dedicò le sue estreme energie intellettuali alla composizione di una grande autobiografia, l’Histoire de ma vie (in francese, naturalmente, la lingua universale del suo tempo), ricca di pagine memorabili (dal racconto di una drammatica fuga dal terribile Carcere dei Piombi di Venezia alle testimonianze degli incontri con i sovrani dell’epoca, dagli intrecci erotici alle avventure del gioco d’azzardo). L’ideologia dell’avventuriero è, per così dire, rivoluzionaria, ma in senso individuale: di fronte alle strutture apparentemente statiche e immutabili dell’Antico Regime, l’avventuriero sfida la fortuna (nell’amore, nel gioco, nella guerra, nelle relazioni sociali), e può cambiare in modo subitaneo il proprio stato sociale, diventare aristocratico, o precipitare nuovamente nella miseria, in un carcere, sul patibolo. Ma l’Histoire è soprattutto un’autobiografia, e in questo rappresenta uno dei generi nuovi del Settecento, un secolo (aperto dalle autobiografie di Vico e Giannone) in cui la scrittura dell’io trova (in particolare con Rousseau, e con la letteratura francese) una dimensione del tutto nuova, attuata per mezzo di un ‘patto autobiografico’ tra l’autore che



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racconta se stesso e il suo pubblico, consapevole che quanto leggerà non è la ‘verità’ biografica assoluta e sincera, ma la sua rilettura a posteriori, uno sguardo retrospettivo allo specchio della memoria della propria vita, talvolta un suo ultimo ‘travestimento’. L’altro grande genere di consumo restava il melodramma, in cui imperava il vecchio Metastasio, e, col Metastasio, la poesia e la musica italiana continuavano ad avere un’influenza profonda in tutta Europa, al punto che la stessa lingua internazionale della musica, il suo lessico tecnico, divenne allora (e lo è ancor oggi) l’italiano. Il confronto tra poesia e musica sembrava risolto a favore della prima, grazie al librettista Ranieri de’ Calzabigi, che aveva scritto il celebre Orfeo musicato da Christoph Willibald Gluck (1762). Ma l’orizzonte ‘serio’ e patetico del melodramma metastasiano viene ora incrinato dalla straordinaria fortuna di un nuovo modello, la commedia musicale, l’opera buffa, spesso dialettale, elaborata soprattutto dalla scuola napoletana (Giambattista Lorenzi, Pietro Trinchera), con musicisti grandissimi come Pergolesi, Cimarosa e Paisiello. Proveniente dal vivace ambiente veneziano, Lorenzo Da Ponte (Ceneda 1749-New York 1838), in origine un ebreo convertito (il suo vero nome era Emanuele Conegliano), tipico avventuriero del Settecento, prete e poi libertino, divenne il più grande librettista del tempo, ed ebbe la fortuna di lavorare a Vienna con Mozart, scrivendo i testi di Le nozze di Figaro (1786), Don Giovanni (1787), e Così fan tutte (1790); ma, dopo la gloria raggiunta con quelle opere, la mutevole fortuna l’avrebbe costretto all’emigrazione prima a Londra e infine a New York, dove cercò di promuovere l’insegnamento della lingua e della cultura italiana, e dove scrisse anche lui il suo grande libro autobiografico, le Memorie. Gran nemico di Da Ponte, ma per certi aspetti non molto dissimile da lui, fu l’altro grande librettista del tempo, Giovan Battista Casti (Acquapendente 1724-Parigi 1803), curiosa figura di sacerdote libertino (“Un prete brutto, vecchio e puzzolente”, lo dileggiò il Parini), poeta di corte a Firenze e poi in giro per l’Europa, fino a diventare poeta cesareo a Vienna; autore di un’ultima opera, il poema Animali parlanti (1803), che, raccontando in forma di allegoria satirica la storia della rivoluzione francese, avrà una notevole fortuna di pubblico nel primo Risorgimento italiano.

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4.3. Parini Era di modeste origini Giuseppe Parini (Bosisio 1729-Milano 1799), ultimo di dieci figli di un piccolo negoziante, costretto a sperimentare di persona, nel corso della sua vita, le disparità sociali del suo tempo. Appassionato fin da ragazzo di letteratura e poesia, coltivata nella lettura dei classici antichi e moderni, per continuare i suoi studi dovette frequentare la scuola dei Barnabiti, e poi anche diventare sacerdote (senza alcuna vocazione religiosa) (1754), per poter fruire di un lascito testamentario di una vecchia e ricca zia, che aveva appunto condizionato l’eredità a quell’assurda clausola. L’importante era almeno conquistare una certa indipendenza economica, e in questo modo Parini poté anche prendersi carico degli anziani genitori. Il resto della sua vita operosa Parini la trascorse quasi interamente a Milano, prima come precettore presso famiglie aristocratiche, impegnate nel rinnovamento istituzionale e culturale (i Serbelloni e gli Imbonati), poi come professore nelle Scuole Palatine (1773), benvoluto dai governanti austriaci (il Kaunitz e il Firmian), sempre impegnato in un’importante attività pedagogica. Le sue lezioni, in parte pubblicate nei Principi generali e particolari delle belle lettere (1773-75), promuovevano l’idea di una poesia socialmente utile, di una letteratura che non si compiace di se stessa ma si fa maestra, avvalendosi anche di una innovativa concezione dell’unità delle arti, che, in particolare nel teatro, portano alla fusione di diversi linguaggi e di diverse istanze comunicative: la poesia, la musica, la pittura e la scultura. Alla fine del secolo Parini ebbe modo di assistere al crollo dell’Antico regime, con la Rivoluzione Francese e l’arrivo di Bonaparte a Milano (1796), criticando gli eccessi sanguinari del Terrore, ma rendendosi disponibile alla partecipazione al governo della Repubblica Cisalpina. Un brevissimo impegno, prima del ritorno degli Austriaci e della sua morte (1799), che però consegnò il suo esempio di dirittura e d’integrità morale alle nuove generazioni. Le sue prime poesie, pubblicate nella raccolta Alcune poesie di Ripano Eupilino (1752), gli consentirono l’ingresso nell’Accademia dei Trasformati e nei circoli intellettuali milanesi. Vi si riconosceva il saldo legame con la tradizione classicistica e arcadica, che però portava il giovane Parini alla sperimentazione di vari generi e metri (lirico, bucolico, georgico ecc.), e alla ricreazione originale dei modi raffinati della poesia ellenistica, da Mosco ad Anacreonte. Un importante laboratorio formale, al quale si unisce subito il forte richiamo della realtà, della vita, innanzitutto attraverso il rinnovamento della lingua della poesia. Senza essere un poeta dialettale, Parini amò i suoi colleghi ‘meneghini’ (Maggi, Balestrieri, Tanzi), e li difese contro le critiche



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di padre Onofrio Branda (1760). Inizia così l’esercizio di una letteratura sempre ‘impegnata’ nella satira morale o nell’insegnamento. In prosa, le Lettere del conte N.N. ad una falsa divota, contro la religiosità ipocrita, e il Discorso sulle caricature (1759), divertita finzione di un viaggiatore che, giunto come Gulliver su un’isola fantastica, ne descrive le incredibili bizzarrie, specchio però delle follie della società contemporanea. Importante soprattutto il Dialogo sopra la nobiltà (1757), dialogo tra un Poeta e un Nobile morti e finiti nello stesso sepolcro, in cui il Poeta dimostra al Nobile, che protesta per la vicinanza del ‘plebeo’, che di fronte alla morte si è tutti uguali: un testo in cui, con leggerezza, si affrontano alcuni temi fondamentali dell’epoca, la disuguaglianza e l’ingiustizia sociale. Infine il Discorso sopra la poesia (1761) afferma esplicitamente l’utilità morale e sociale della poesia, secondo i dettami oraziani dell’utile dulci. Del tutto conformi al programma di questo Discorso sono le prime Odi (1757-1766), all’inizio ancora in strofette arcadiche di settenari, poi caratterizzate da una metrica meno cantabile ma più ragionativa. Le Odi erano di solito lette nelle riunioni dei Trasformati, e subito pubblicate, e affrontavano le grandi tematiche del dibattito contemporaneo: dalle condizioni di vita nelle campagne (La vita rustica) a quelle della grande città, in cui già si ponevano problemi di inquinamento ambientale e di precarietà sanitaria, che colpiva principalmente le classi più indigenti (La salubrità dell’aria); dalla denuncia della crudele usanza dei ‘castrati’ nel melodramma (La musica) a quella della povertà e dell’ingiustizia sociale (Il bisogno), e perfino la pratica della vaccinazione contro il vaiolo (L’innesto del vaiuolo). Una di esse, La educazione (1764), si presenta indirizzata al giovane allievo Carlo Imbonati, ed è tutta ispirata al tema dell’educazione virtuosa della nobiltà, della formazione di una nuova classe dirigente capace di affrontare le sfide del cambiamento, nella società d’Antico Regime. Negli stessi anni Parini rovescia ironicamente la sua funzione di precettore, e inizia a scrivere alcuni poemetti satirici, fingendo che siano testi pedagogici indirizzati ad un aristocratico allievo, un Giovin Signore, ben diverso dal virtuoso Imbonati. Come se dovesse insegnare al suo discepolo tutte le minute attività della vita, Parini passa in rassegna i costumi più corrotti e insulsi. La satira di una vita vuota e inutile non si ferma al primo risultato di una facile poesia comica, ma arriva ad essere un atto d’accusa terribile nei confronti di quelle classi dominanti che perdono completamente il contatto con la realtà, e vivono da parassiti a spese di un intero sistema sociale ed economico che lavora al loro servizio. I poemetti dovevano essere tre, in modo da coprire l’arco temporale di un’intera giornata di vita del Giovin Signore (mattino, mezzogiorno e sera),

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ma Parini ne pubblicò solo due, Il Mattino (1763), in 1083 versi, preceduto da una dedica in prosa Alla Moda (trionfatrice sulla Ragione, sul Buonsenso e sull’Ordine); e Il Mezzogiorno (1765), in 1376 versi. Il progetto, ripreso negli anni Ottanta, divenne un vero e proprio poema in quattro parti, chiamato Il Giorno dallo stesso autore in una lettera del 1791, e suddiviso in Mattino (1166 versi, senza la dedica e i versi iniziali: lunghissima descrizione del risveglio del giovane e della sua ‘preparazione’ alla giornata che lo aspetta), Meriggio (1178 versi: l’incontro con la dama e le vicende dal pranzo alla passeggiata in carrozza), Vespro (un frammento di 349 versi, con la toilette degli amanti, e le loro futili visite ad altri personaggi) e Notte (un frammento di 673 versi, con l’arrivo al “gran palazzo”, dove si passa in rassegna un’incredibile ‘galleria degli imbecilli’ che si preparano al rituale collettivo del gioco d’azzardo; secondo altri appunti in prosa la notte doveva poi proseguire e forse terminare a teatro). In realtà, il progetto rimase incompiuto, e consegnato ad alcuni manoscritti, nella forma provvisoria di una grande ‘opera in movimento’ che oggi è possibile riconoscere in tutta la sua pienezza nelle più recenti edizioni critiche. Insomma, la descrizione di un giorno del Giovin Signore per oltre tremila versi porta necessariamente al rallentamento dei tempi (soprattutto nel Mattino), alle microscopie spaziotemporali, ad una descrittività che fa risaltare in modo abnorme il dettaglio (il particolare fisico, gli accessori del vestiario, la parrucca, la polvere di cipria, la tazzina, la tabacchiera, il ninnolo), glorificato secondo i modi della poesia eroicomica (non solo italiana ma anche inglese, ad esempio il celebre Ricciolo rapito di Alexander Pope, satira sociale che racconta in tono epico lo scontro di due famiglie aristocratiche a causa del ‘rapimento’ di un ricciolo di una fanciulla da parte del suo amante). Ma fortissima è anche la dimensione teatrale, con l’impressione che tutti i gesti compiuti dal Giovin Signore e da tutti gli altri personaggi non siano altro che atti di una recita che si ripete uguale a se stessa, ogni giorno, senza che gli stessi protagonisti (alienati ormai dalla loro umanità, ridotti a burattini, a marionette, a pedine o a carte di un gioco più grande di loro) se ne rendano conto. L’elemento che, in fondo, rende un esito tragico a quel che avrebbe potuto essere reso solo da una commedia. Sempre presenti i classici antichi, in particolare Virgilio, Orazio e Ovidio, e anche la mitologia, ricreata in favole del tutto originali, di tipo ‘eziologico’, cioè di spiegazione dell’origine di qualcosa (la disuguaglianza del Piacere, la cipria, il gioco del tric-trac, il Canapé). La tradizione poetica italiana viene profondamente rinnovata con l’uso sistematico dell’endecasillabo sciolto, che diventa un mobile e moderno strumento espressivo, quasi a metà tra la poesia e la prosa. Ma è importante anche notare i forti cambiamenti che



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investirono l’opera nelle ultime due parti frammentarie, e soprattutto nella Notte, che si allontana dall’originaria chiarezza e leggerezza classicistica e oraziana, per giungere a risultati stilistici che risentono di una nuova sensibilità poetica, la stessa avvertita dai primi romantici europei: l’avvio di una poesia ‘notturna’, caratterizzata da uno stile più cupo, e che riflette probabilmente l’esito fondamentalmente tragico del Giorno. Nuovi orizzonti di stile che appaiono anche nelle contemporanee ultime Odi (1774-1795): scenari invernali e tempestosi, nel malinconico tramonto di Parini, che corrispondono alla fine di un’epoca di relativa tranquillità, con la minaccia dei radicali cambiamenti riformatori di un imperatore come Giuseppe II (La tempesta), o con gli orrori della Rivoluzione Francese (A Silvia, o Sul vestire alla ghigliottina). Con nobile piglio oraziano, il vecchio poeta, che si rappresenta malandato e povero, malfermo e traballante, ha ancora l’orgoglio di rispondere con sdegno al passante che l’aiuta a rialzarsi da una caduta invitandolo però a essere più accondiscendente con i potenti (La caduta). Ai toni malinconici si accompagnerà però, fino alla fine, il vagheggiamento della bellezza femminile, dipinta ora con un gusto neoclassico (Per l’inclita Nice, o Il messaggio); una poesia ancora più struggente, perché le si affida il compito estremo di cogliere quell’ideale di bellezza e di vita, di fissarlo nel momento in cui la vita svanisce per sempre.

4.4. Goldoni Nato a Venezia, città con la quale manterrà sempre un forte legame, Carlo Goldoni (Venezia 1707-Parigi 1793) non può definirsi veramente ‘veneziano’. La sua era una famiglia di professionisti di origine modenese, abituati a cambiare residenza tra varie città italiane. Il nonno e lo zio erano notai, il papà medico, che mette Carlo a studiare presso i Gesuiti a Perugia, e poi dai Domenicani a Rimini, da dove il giovane fugge, verso Chioggia, sul barcone di una compagnia di attori girovaghi. Carlo studia legge a Pavia, ne viene espulso per una satira sulle belle fanciulle pavesi (1725), e completa gli studi a Padova (1731). Da allora alla professione di avvocato, esercitata saltuariamente, preferirà sempre più la passione per il teatro, favorita dall’incontro con Giuseppe Imer, capocomico del Teatro San Samuele a Venezia (1734), dove vengono rappresentate le sue prime opere teatrali: la tragicommedia Belisario, e varie tragedie e opere ‘serie’, ma di non grande successo, come Rosmonda e Griselda (tratte da novelle del Boccaccio), e l’interessante Don Giovanni Tenorio o sia il dissoluto, sulla figura del libertino don Giovanni, tipica della società contemporanea.

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Dopo una fuga da Venezia (per sfuggire ai debiti e alla minaccia di un matrimonio), Goldoni vi torna sposato, con una moglie genovese, e nei panni singolari di console della Repubblica di Genova presso la Serenissima. Diventato direttore di un altro teatro veneziano, il San Giovanni Grisostomo (1737-1741), Goldoni può cominciare a mettere in opera la sua originale riforma teatrale (criticata dai Gozzi e dal Chiari), che prevedeva il superamento degli schematismi e della ripetività della Commedia dell’Arte, l’abbandono dell’improvvisazione, e delle ‘maschere’. L’autore di commedie afferma l’autonomia del testo scritto, non più strumentale nella stesura di canovacci e scenari, ma elevato alla dignità di forma d’arte. Certo, il testo teatrale è sempre sospeso tra oralità e scrittura, e molti dialoghi delle commedie goldoniane risentono di una forte oralità: ma l’importanza della scrittura è segnata anche dalla cura particolare che Goldoni diede all’attività editoriale, in grandi edizioni complessive che, vivente l’autore, fissavano il testo delle sue opere, lo privavano talvolta della freschezza irripetibile delle prime rappresentazioni (ancora improvvisate), ma comunque lo ‘salvavano’ dall’incessante mobilità della ricezione, delle scene e degli interpreti. Goldoni comincia a togliere la maschera a Pantalone nel Momolo cortesan (rappresentato nel 1738), una commedia ancora ‘a soggetto’ sulla figura di un vecchio mercante veneziano. E continua con la prima commedia scritta interamente, La donna di garbo (1743, ma rappresentata solo nel ’46), in cui una coltissima Rosaura si traveste da cameriera per recuperare l’amante Florindo: la prima di una lunga serie di eroine contemporanee che con la loro intelligenza, astuzia, fascino, riescono ad avere ragione di condizioni avverse e di pregiudizi sociali e morali. Dopo una nuova fuga per debiti, e una lunga residenza a Pisa (per l’ultima volta come avvocato), Goldoni lascia Imer e avvia la collaborazione con l’impresario Medebac, facendo rappresentare al San Samuele un canovaccio di grande successo, Il servitore di due padroni (1747): poche scene scritte, e quasi tutto affidato all’abilità scenica e gestuale di Truffaldino, l’attore napoletano Giovanni Antonio Sacchi; personaggio che in seguito (con la riscrittura integrale della commedia) diventerà Arlecchino. Al Sant’Angelo si rappresenta contemporaneamente La vedova scaltra (1748), storia di un’astuta vedova contesa da ben quattro spasimanti. E nasce il personaggio di Bettina, la giovane bella popolana che resiste alle lusinghe libertine nella Putta onorata (1749), e diventa perciò, nella commedia successiva, La buona moglie: illuminante esempio di come Goldoni e il suo pubblico vedevano le possibilità di mobilità sociale, all’interno di un sistema che poteva essere corretto ma non stravolto. Gli ultimi successi di pubblico portano alla stesura di un contratto col Medebac che addirittura impegna l’autore a sfornare dieci opere teatrali



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all’anno, per un totale di quattro anni! Nonostante la straordinaria velocità di composizione, i risultati si mantengono sempre a livelli altissimi, e sono spesso autentici capolavori, come La bottega del caffè (1750), affresco di uno dei luoghi più caratteristici della vita e della società del Settecento, la locanda dove, intorno al rito della degustazione del caffè, si intrecciano relazioni sociali, economiche, culturali, erotiche. Sotto lo sguardo del gestore, il caffettiere Ridolfo, e del suo garzone Trappola, si complicano e poi si sciolgono le vicende di due giovani (Eugenio e Flaminio), dediti al gioco e ai divertimenti, ma recuperati dalle legittime consorti; nell’happy end l’unico a non gioire è l’aristocratico napoletano, Don Marzio, sempre pronto a pensare e parlar male degli altri, e quindi, alla fine, costretto a lasciare un mondo che sembra ritrovare una sua armonia. Nella prima rappresentazione erano ancora presenti in scena le maschere di Brighella e Arlecchino, che parlavano in dialetto veneziano, ma Goldoni poi li trasformò in personaggi reali, e ne uniformò anche la veste linguistica sulla lingua italiana, per farla più “universale”. Era una novità quasi rivoluzionaria, la ‘commedia di carattere’, rispetto alla Commedia dell’arte, e presentava un tale rispecchiamento della realtà da far credere agli spettatori che quella scena non fosse più una scena, ma una vera bottega del caffè, come scrisse lo stesso Goldoni: “Questa Commedia ha caratteri tanto universali, che in ogni luogo ove fu ella rappresentata, credevasi fatta sul conio degli originali riconosciuti”. Il ‘realismo’ goldoniano mirava essenzialmente a questo: a portare nel teatro il mondo, ad annullare la distanza tra la finzione e la realtà, a superare sia gli schemi della commedia dell’arte che di quella letteraria tradizionale. In questo modo entrava in scena, con una freschezza nuova e originale, tutta la vita quotidiana, con i problemi, le speranze, le aspettative reali dei suoi personaggi. Tra quei personaggi emerge ancora di più l’importanza della donna, l’affermazione della sua indipendenza e autonomia, di una dignità che non deriva dalla classe sociale o dal censo ma dall’intelligenza, l’onestà, la sensibilità. È questo il caso dell’altro capolavoro di questi anni, La locandiera (1752), in cui la locandiera Mirandolina, impegnata a portare avanti la gestione economica della locanda, riesce a far innamorare di sé l’aristocratico misogino Cavaliere di Ripafratta, per poi preferirgli il cameriere Fabrizio, il suo vero spasimante, col quale convola a giuste nozze. In un certo senso, la seducente Mirandolina, finta libertina, trionfa sul libertinismo del suo tempo: e allo stesso tempo dimostra la persistente simpatia di Goldoni per le classi ‘medie’ in ascesa, borghesi e artigiane, che vivono del loro lavoro e non di rendite terriere e feudali, come gli aristocratici, o di improvvise fortune o vincite al gioco, come gli avventurieri. La critica delle classi nobiliari è comunque sempre garbata, e non presuppone alcun moto violento di rivol-

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ta sociale. Vicino all’ideologia dell’illuminismo, Goldoni ne segue anche la prospettiva riformatrice, ostile alle rivoluzioni traumatiche. Importante in queste commedie è anche la dimensione corale, la tendenza a rappresentare un gruppo, un contesto, una comunità, più che una singola marcata individualità; una dimensione che diventa ancora più spiccata negli anni successivi, quando, lasciato il Medebac, Goldoni lavora per il teatro di San Luca, con una certa tranquillità economica (grazie a una pensione concessagli dal Duca di Parma nel 1756). Dopo alcune tragicommedie e alcuni drammi giocosi, non sempre di alto livello, Goldoni ritorna al dialetto, utilizzato ai suoi inizi, e ritrovato ora come efficace strumento linguistico, non più alternativo alla lingua italiana, ma addirittura compresente, in una condizione di sostanziale plurilinguismo, anche accanto ad altre parlate venete, o regionali del resto d’Italia. È un altro, fondamentale elemento del suo ‘realismo’: ogni personaggio parla con la sua lingua, conservando tutta la sua varietà di stile, di luogo e provenienza geografica, di classe sociale. Si passa così dallo spazio chiuso della bottega del caffè o della locanda a quello aperto de Il campiello (1756), sempre comunque un luogo d’incontro, di socializzazione, di civile conversazione tra classi e culture diverse, in cui i singoli personaggi contano meno dell’insieme, dell’azione collettiva; e soprattutto delle Baruffe chiozzotte (1762), eccezionale affresco del mondo dei pescatori di Chioggia (la cittadina al limite meridionale della laguna di Venezia, legata ad un favoloso ricordo dell’adolescenza di Goldoni, la fuga da Rimini in compagnia di attori girovaghi), basato anche sullo studio attento del dialetto chiozzotto, diverso da quello veneziano. Al tema dell’incontro sociale e del libero rapporto umano si oppongono invece I rusteghi (‘i rustici’)(1760), quattro burberi mercanti nemici della moda, del carnevale e del teatro, in una parola della ‘leggerezza’ del secolo, e perciò carcerieri delle loro mogli e figlie, che però non mancheranno di trionfare sull’ottusità dei ‘rusteghi’, e di fare tutto quel che vogliono; e Sior Tòdero brontolon o sia il vecchio fastidioso (1762), il vecchio mercante che per squallido interesse vuole costringere la bella nipote ad un matrimonio da lei non voluto. All’opposto, la satira sulle classi medie che vorrebbero imitare i costumi di vita più esteriori e inutili di quelle aristocratiche affiora nella cosiddetta Trilogia della villeggiatura (Le smanie per la villeggiatura, Le avventure della villeggiatura, Il ritorno dalla villeggiatura)(1761), rappresentazione della moda della vacanza ‘in villa’. Era giunto il momento del congedo dall’Italia. Goldoni accetta l’invito della Comédie Italienne a Parigi (1762), dove il suo nome era diventato famoso, e addirittura esaltato da Voltaire e dagli illuministi. Non è un



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cambiamento facile, perché il pubblico francese vuole ancora quella che lì si chiama ‘commedia all’italiana’, cioè proprio la Commedia dell’Arte, improvvisata a soggetto, che Goldoni aveva mandato in soffitta con la sua ‘riforma’. Il vecchio autore torna così a riscrivere i vecchi scenari di Arlecchino, e intanto è onorato anche alla corte di Versailles, dove è precettore di lingua italiana delle principesse: ma accetta le nuove sfide confrontandosi con Molière e la tradizione della commedia francese, e scrivendo addirittura una commedia in lingua francese di grande successo, Le bourru bienfaisant (‘il burbero benefico’)(1771). Dopo l’omaggio della visita del più grande autore contemporaneo del teatro tragico, il più giovane Vittorio Alfieri (1784), Goldoni rivolse negli ultimi anni un ampio sguardo retrospettivo alla sua vita, operosa e infaticabile, dominata dall’unica, immensa, divorante passione per il teatro e per la sua magia, e scrisse gli importanti Mémoires (1787), naturalmente in francese, la lingua ‘universale’ del suo tempo. Testimone della Rivoluzione Francese e del crollo dell’Antico Regime, morì a Parigi nel 1793, quasi povero e dimenticato.

4.5. Alfieri Appartenente alla vecchia aristocrazia piemontese, Vittorio Alfieri (Asti 1749-Firenze 1803) vive con insofferenza e insoddisfazione l’iniziale formazione riservata ai membri del suo ceto, del tutto priva di orizzonti culturali, in particolare presso la severa accademia militare a Torino. Quando inizia, giovanissimo, a viaggiare per l’Italia e l’Europa (1766-72), il viaggiare è qualcosa di più della moda sociale che attraversa l’Europa contemporanea, e che porta soprattutto inglesi e francesi in visita in Italia, nel cosiddetto Grand Tour (‘il grande giro’). È per lui un profondo bisogno interiore, una fuga dalla ristretta realtà provinciale e conservatrice del Piemonte savoiardo che a poco a poco diventa una vera fuga dal consorzio umano, alla ricerca delle solitudini del Nord, in un tentativo di contatto primordiale con la Natura, oltre la corruzione della civiltà moderna (come in Vico e Rousseau). È questo il tempo delle prime intense letture, dai classici greci (le Vite parallele di Plutarco, fonte di esempi magnanimi di forza e di virtù) agli illuministi francesi: e della prima metamorfosi di un aristocratico in uno scrittore, che trova il suo migliore campo d’espressione nell’ambito del teatro. Naturalmente, nella tragedia, in cui Alfieri si cimenta già con una prima opera (perduta), la Cleopatra (1775). Decisivo è il definitivo abbandono di Torino (1778), in favore di lunghi e fecondi soggiorni a Siena, Firenze, Roma, nel corso dei quali nasce e si

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cementa la relazione amorosa con la donna che lo accompagnerà per tutta la vita, ne ispirerà alcune scelte poetiche, e ne curerà la fortuna delle opere anche dopo la sua morte: Luisa Stolberg contessa d’Albany, che, moglie del principe Carlo Stuart pretendente al trono inglese, preferisce all’augusto marito l’errabondo poeta, anche negli anni difficili in cui la loro relazione li costrinse a lasciare Roma e a vagare per l’Europa, dall’Inghilterra all’Alsazia. Nascono così le prime tragedie, in un quadro di relativa difficoltà compositiva da parte dell’autore, per il quale l’italiano era quasi una lingua straniera, rispetto al più familiare francese. Per questo motivo, Alfieri si inventa un suo personale laboratorio di scrittura, che passa attraverso tre fasi, “ideare, stendere, verseggiare”: l’invenzione della storia, la sua prima stesura in prosa, la riscrittura poetica in endecasillabi sciolti. È un processo di grande impegno formale, nel corso del quale Alfieri si forgia una nuova ‘lingua della tragedia’, fatta di un lessico rarefatto, stilisticamente ‘alto’ e quindi ‘tragico’, con parole rare, arcaiche, nella direzione di una nobilitazione espressiva. La difficoltà era piuttosto nel rapporto con la precedente tradizione italiana della tragedia: Alfieri sentiva di dover ricreare completamente il genere, di non poter seguire nessuno dei suoi antecessori, dal Trissino al Maffei. Certo, ne rispetta le regole, che erano quelle delle unità aristoteliche: ma vi introduce una tematica tutta sua, l’affermazione della libertà dell’individuo, contro tutto e contro tutti. Una libertà che è proiezione del desiderio di libertà dell’autore, e che coinvolge anche il tema dei rapporti fra intellettuale e potere, portandolo, nel trattato Del principe e delle lettere (1778), a preferire decisamente i poeti che sdegnarono ogni forma di compromesso, anche pagando con l’esilio la loro libertà (Dante) a quelli che, in un modo o nell’altro, furono cantori dei loro principi (Virgilio, Orazio, Ariosto). Erano tragedie ‘aristocratiche’, non solo dal punto di vista linguistico. Convinto dell’altezza ideale della poesia, Alfieri era indifferente al giudizio del pubblico: le sue rappresentazioni di solito non avvenivano in teatro, ma in contesti ristretti, privati, di fronte a un uditorio che condivideva gran parte dell’ideologia dell’autore. Soprattutto l’ideologia della libertà, che in termini politici equivaleva ad esaltare la lotta contro i governi ingiusti e tirannici, teorizzata nel trattato Della tirannide (1777), e rappresentata nelle cosiddette ‘tragedie della libertà’, ambientate nell’antica Grecia e nell’antica Roma (Timoleone, Virginia), o nella Firenze del Rinascimento (Congiura de’ Pazzi). Dal teatro antico vengono due coppie di tragedie, ispirate alla vicenda dei figli di Edipo e Giocasta (Polinice, Antigone), e a quella dell’assassinio di Agamennone tornato dalla guerra di Troia (Agamennone, Oreste). Ma un capolavoro è già la prima di queste tragedie, il Filippo (rappresentato ancora



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a Torino, Palazzo Carignano, 1775), ambientato in una cupa Spagna di fine Cinquecento, in cui il terribile padre-tiranno (Filippo II re di Spagna) finisce con l’uccidere il figlio Carlo, suo rivale nell’amore di Isabella. Già nel Filippo emerge il lato oscuro di questa ideologia. Le più alte e intense tragedie alfieriane ruotano infatti intorno a nuclei profondi, inconfessabili e indicibili dell’animo umano: il sospetto, la vendetta, l’amore perverso e incestuoso. Ma la catarsi può essere raggiunta nella morte, spesso per suicidio, estremo atto di eroismo e di purificazione. Così è nel Saul (1782), il vecchio re d’Israele ròso dal sospetto verso il purissimo e innocente eroe David, sospetto che lo porta alla rovina in quella che è sostanzialmente la tragedia della sua solitudine. E così è nella Mirra (1784-86), figura della mitologia antica celebre per l’amore incestuoso col padre Ciniro, ricreata in modo originale dall’Alfieri perché l’eroina vive il suo amore proibito esclusivamente dentro di sé, senza mai comunicarlo all’esterno fino alla fine, quando, costretta dal padre, confessa appena la sua colpa, uccidendosi. È un incredibile crescendo di angoscia trattenuta, una tragedia dell’incomunicabilità, basata sulle figure della sospensione e della reticenza, del non detto e del non vissuto. Solitudine e angoscia che poi sono le stesse vissute dall’autore, ed espresse nella contemporanea composizione delle Rime, una raccolta poetica che, nella ripresa della tradizione anche metrica (ad esempio, il sonetto), riesce a rinnovare il petrarchismo in chiave soprattutto autobiografica e tragica, in uno scenario naturale che predilige gli aspetti sovrumani, orridi, tempestosi delle foreste e delle montagne alpestri, proiezione di un’anima tempestosa e sofferente. L’Alfieri teorico e cantore del tirannicidio non poteva non approdare a Parigi negli anni della Rivoluzione Francese (1788-1792), all’inizio favorevole alla Rivoluzione con l’ode Parigi sbastigliato (1789), poi addirittura costretto ad una fuga rocambolesca da una città in cui si stava per instaurare il Terrore, e ghigliottinare Luigi XVI e tutti gli aristocratici che capitavano a tiro, fra i quali c’era anche il conte Vittorio Alfieri. Dalla cocente delusione nacque il prosimetro satirico contro la Rivoluzione, il Misogallo (‘odiatore dei Francesi’), che però esprimeva la speranza che gli Italiani potessero un giorno trovare una loro unità e libertà; alcune satire, e tre commedie contro le illusioni della ‘democrazia’ (L’uno, I pochi, I troppi ). Tra l’altro, non deve stupire il passaggio del più grande autore tragico al genere comico-satirico: alla tragedia di un grandioso passato eroico, ideale e ‘aristocratico’, si contrappone, per Alfieri, la meschinità di un presente dominato dai disvalori ‘borghesi’ e materialistici del denaro e dell’interesse; un presente rappresentabile solo con con un amarissimo stile comico.

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Giunto a Firenze, l’ultima città della sua vita, continuò ad attendere all’ultima grande opera, la Vita scritta da esso, iniziata nel 1790 anche per la forte impressione delle autobiografie di Goldoni e di Rousseau: un testo di grande potenza espressiva, che consegna alle generazioni successive il vero e grande ‘romanzo’ scritto dall’Alfieri in prima persona giorno per giorno, nel corso della sua esistenza, il ritratto ideale del poeta che lotta per la propria libertà contro le strutture dell’Antico Regime, l’esempio di una grandiosa e solitaria individualità che si salda ormai alla temperie culturale europea che prende il nome di romanticismo.

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4.2. L’Illuminismo. F. Venturi, Settecento riformatore, Torino, Einaudi, 1969-1990; Che cos’è l’illuminismo: i testi e la genealogia del concetto, a c. di A. Tagliapietra, Milano, Bruno Mondadori, 1997; T. Todorov, Lo spirito dell’illuminismo, Milano, Garzanti, 2007. V. anche F. Arato, La storiografia letteraria nel Settecento italiano, Pisa, ETS, 2002. Testi: Illuministi italiani, a c. di F. Venturi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1958-1965; Illuministi e riformatori, a c. di L. Villari, Roma, Ist. Poligrafico dello Stato, 1997; Prosatori e narratori del Settecento, a c. di A. Battistini, ivi 2006. Sull’autobiografia: Ph. Lejeune, Il patto autobiografico (1975), Bologna, Il Mulino, 1986; G. Nicoletti, La memoria illuminata. Autobiografia e letteratura tra la Rivoluzione e il Risorgimento, Firenze, Vallecchi, 1989; A. Battistini, Lo specchio di Dedalo, Bologna, Il Mulino, 1990; B. Capaci, Le impressioni delle cose meravigliose, Venezia, Marsilio, 2002. Su narrativa e romanzo: S. Calabrese, Intrecci italiani, Bologna, Il Mulino, 1995; L. Clerici, Il romanzo italiano del Settecento, Venezia, Marsilio, 1997; T. Crivelli, “Né Arturo né Turpino né la Tavola rotonda”. Romanzi del secondo Settecento italiano, Roma, Salerno Editrice, 2002. 4.3. Parini. Testi: Opere, a c. di E. Bonora, Milano, Mursia, 1969; Il Giorno, a c. di D. Isella, Parma, Guanda, 1996, e Alcune poesie di Ripano Eupilino, a c. di D. Isella, ivi 2006; Prose, ed. crit. a c. di P. Bartesaghi e S. Morgana, Milano, LED, 2003-2005. Studi: R. Spongano, La poetica del sensismo e la poesia del Parini, Bologna, Pàtron, 1964; L. Poma, Stile e società nella formazione del Parini, Pisa, Nistri-Lischi, 1967; D. Isella, L’officina della “Notte” e altri studi pariniani, Milano-Napoli, Ricciardi, 1968; G. Savarese, Iconologia pariniana, Firenze, La Nuova Italia, 1973; E. Bonora, Parini e altro Settecento, Milano, Feltrinelli, 1982; R. Leporatti, Per dar luogo a la notte. Sull’elaborazione del “Giorno” del Parini, Firenze, Le Lettere, 1990; Interpretazioni e letture del “Giorno”, a c. di G. Barbarisi ed E. Esposito, Milano, Cisalpino, 1998; C. Annoni, La poesia di Parini e la città secolare, Milano, Vita e Pensiero, 2002. 4.4. Goldoni. Testi: Le opere, Venezia, Marsilio, dal 2000; Memorie, a c. di P. Bosisio, Milano, Mondadori, 1993. Biografie e monografie: F. Angelini, Vita di Goldoni, Bari, Laterza, 1993; H. Ginette, Carlo Goldoni. Biografia ragionata. Vol. 1: 1707-1744, Venezia, Marsilio, 2007; C. Alberti, Goldoni, Roma, Salerno, 2004. Studi: M. Dazzi, Carlo Goldoni e la sua poetica sociale, Torino, Einaudi, 1957; M. Baratto, Tre studi sul teatro, Venezia, Neri Pozza, 1964; F. Fido, Da Venezia all’Europa. Prospettive sull’ultimo Goldoni, Roma, Bulzoni, 1984; Id., Le inquietudini di Goldoni, Genova, Costa e Nolan, 1995; Id., Nuova guida a Goldoni, Torino, Einaudi, 2000; I.

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Crotti, Libro, Mondo, Teatro. Saggi goldoniani, Venezia, Marsilio, 2000; Carlo Goldoni in Europa, a c. di I. Crotti, Pisa, IEPI, 2007; F. Fido, L’ avvocato di buon gusto. Nuovi studi goldoniani, Ravenna, Longo, 2008. Rivista specializzata: “Problemi di critica goldoniana”. Risorsa in rete: Carlo Goldoni, Drammi per musica, a c. di A.L. Bellina e C. Tessarolo, Casa di Goldoni, Padova (www.carlogoldoni.it/carlogoldoni). 4.5. Alfieri. Testi: Opere, Edizione nazionale, Asti, Casa d’Alfieri, 1951-2004; Tragedie, a c. di L. Toschi, Torino, Einaudi, 1993. Studi: M. Fubini, Vittorio Alfieri. Il pensiero, la tragedia, Firenze, Sansoni, 1953; V. Branca, Alfieri e la ricerca dello stile, Bologna, Zanichelli, 1981; S. Costa, Lo specchio di Narciso: autoritratto di un “homme de lettres”. Su Alfieri autobiografo, Roma, Bulzoni, 1983; A. Di Benedetto, Vittorio Alfieri. Le passioni e il limite, Napoli, Liguori, 1987, e Il dandy e il sublime. Nuovi studi alfieriani, Firenze, Olschki, 2003; G. Debenedetti, Vocazione di Vittorio Alfieri. Tra biografia e scrittura, alla ricerca dello «sconosciuto sé stesso» (1977), Milano, Garzanti, 1995; W. Binni, Studi alfieriani, Modena, Mucchi, 1995; Alfieri tragico, a c. di E. Ghidetti e R. Turchi, Firenze, Le Lettere, 2003; P. Luciani, L’autore temerario. Studi su Vittorio Alfieri, Firenze, SEF, 2005. Rivista specializzata: “Annali alfieriani”. Risorsa in rete: Centro di Studi Alfieriani, Asti (www.fondazionealfieri.it).

5. Il primo Ottocento

5.1. Rivoluzioni e restaurazioni Il processo di rinnovamento avviato dall’illuminismo aveva messo in movimento forze economiche e sociali che, per lungo tempo trattenute nelle società di Antico Regime, divennero presto incontrollabili all’interno delle strutture tradizionali di dominio. La circolazione di beni era notevolmente aumentata nel corso del Settecento, anche grazie all’espansione degli imperi coloniali, soprattutto di quello britannico, che cominciava a penetrare in India e in Cina, e che dopo la metà del secolo era riuscito a impadronirsi dei territori francesi del Nord America, la Nuova Francia e il Canada. Un predominio di breve durata, quello sul Nuovo Mondo, perché di lì a poco la potenza coloniale più forte del pianeta fu battuta dalla rivolta dei coloni americani, insofferenti delle vessazioni fiscali della madrepatria. In realtà la rivoluzione americana (1776) può essere considerata l’avvio dell’età delle rivoluzioni che scossero il vecchio continente, determinando la caduta definitiva dell’Antico Regime: fin dall’inizio essa fu percorsa da alti valori ideali che derivavano direttamente dall’influenza del pensiero illuministico europeo, il progetto di una società nuova basata sulla libera associazione di uomini liberi ed eguali, senza discriminazioni religiose o politiche. Questo progetto cominciava a essere elaborato, in America e in Europa, anche in ristretti clubs di intellettuali che, costretti talvolta dal contesto politico a riunirsi in forma segreta, presero il carattere di società segrete, chiamate massoneria (dal francese maçon, ‘muratore’, perché gli adepti si servivano di una simbologia tratta dal campo del ‘costruire’, intendendo la costruzione di un società più giusta e tollerante): un aspetto fondamentale per l’indipendenza americana, e che sarebbe stato determinante per tutta la storia contemporanea. In Europa il movimento rivoluzionario iniziò in Francia, il paese in cui maggiori erano le tensioni tra l’aspirazione al nuovo (le punte più avanzate

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dell’illuminismo e della civiltà urbana, tecnologica e scientifica) e l’arretratezza delle strutture politiche e sociali, basate ancora sul dominio assoluto dell’aristocrazia feudale fondiaria e della Chiesa. La rivoluzione francese cominciò il 14 luglio 1789, con la presa della fortezza-prigione parigina della Bastiglia, simbolo di un potere che si riteneva basato sull’oppressione e la disuguaglianza, e divenne rapidamente un vortice incontrollabile che travolse la monarchia, e poi addirittura gli stessi rivoluzionari, al tempo del Terrore (1793-1794). Le classi medie, borghesi e mercantili, conquistato il potere, avevano ora bisogno di un ritorno all’ordine: e questo fu assicurato da un uomo forte che conquistò il potere assoluto in Francia, fondando un impero personale esteso a gran parte dell’Europa conquistata dalle sue armate: Napoleone Bonaparte. L’impatto della rivoluzione sull’Italia fu enorme. Il vecchio sistema di stati regionali, che risaliva addirittura al Medioevo e al Rinascimento, fu travolto da Napoleone nel 1796-1797: Venezia fu ceduta all’Austria col trattato di Campoformio, al Nord si formò prima la Repubblica Cispadana, poi la Cisalpina, al Centro la Repubblica Romana che poneva fine al millenario potere temporale dei Papi, al Sud la Repubblica Napoletana al posto del regno borbonico. Fu una breve illusione di libertà, perché le repubbliche italiane caddero al ritorno di austriaci e Borboni (1799), e la successiva rivincita di Napoleone avrebbe portato alla costituzione di un Regno d’Italia di fatto annesso all’Impero, e di un Regno di Napoli, governato prima da Giuseppe Bonaparte, poi da Gioacchino Murat. Il dominio napoleonico crollò nel 1814-1815, e il Congresso di Vienna sancì la Restaurazione, cioè il ripristino della situazione prerivoluzionaria, e il ritorno dei ‘legittimi’ sovrani. Non era possibile però far andare all’indietro l’orologio della storia. Le nuove idee di libertà e partecipazione politica delle classi borghesi si erano ormai diffuse in Italia, dove per la prima volta si era sperimentata la possibilità di strutture statali sovraregionali, cioè l’embrione di uno stato ‘nazionale’, compiutamente ‘italiano’. L’illuminismo aveva preparato il terreno alle rivoluzioni, ma era stato poi superato dall’evolversi di eventi che sembravano sfuggire ad ogni possibilità di pianificazione razionale. La critica all’ottimismo illuminista, oltre che nella filosofia, affiora in opere come il Candide di Voltaire, e il Tristram Shandy dello scrittore inglese Laurence Sterne, un incompiuto romanzo umoristico e sperimentale che, nella sua forma frammentaria e provvisoria, eserciterà una grande influenza sulle generazioni successive. Lo stesso Sterne prese in giro la moda più diffusa nelle classi aristocratiche e altoborghesi europee, quella del Grand Tour, del viaggio di ‘formazione’ che spingeva molti giovani



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in giro per l’Europa e soprattutto in Italia, alla scoperta delle vestigia delle civiltà antiche, e in fondo alla scoperta di se stessi, in A Sentimental Journey through France and Italy (‘viaggio sentimentale attraverso la Francia e l’Italia’) (1768), reso celebre in Italia dalla traduzione di Foscolo. L’aspetto più evidente della crisi dell’illuminismo si vede nell’esito estremo del libertinismo, che nato nel Seicento come manifestazione di libertà intellettuale e morale contro le costrizioni della religione e del potere, rischia di portare alla più terribile disumanizzazione. È quello che emerge, ad esempio, ne Les liaisons dangereuses (‘le relazioni pericolose’)(1782) di Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos, un romanzo epistolare (molto moderno nella struttura, a focalizzazione zero) che racconta i misfatti criminali di una coppia di libertini, il visconte di Valmont e la marchesa di Merteuil. E soprattutto nelle opere del marchese Donatien-Alphonse-François de Sade (1740-1814), che pagò di persona la fama di libertino passando gran parte della sua vita in prigione, in particolare alla Bastiglia, donde venne liberato il fatidico 14 luglio 1789. Alla Bastiglia Sade scrisse il suo libro più terribile, Les 120 Journées de Sodome (‘le 120 giornate di Sodoma’)(1784-1789), nel cupo scenario di un castello in cui quattro libertini (seguendo un perverso ordine geometrico-matematico) si dilettano di sevizie e torture indicibili. In seguito compose l’epopea di due sorelle, due eroine contemporanee, l’una l’opposto dell’altra, la virtuosa Justine e la libertina Juliette, a dimostrazione (in quello che in fondo è un romanzo filosofico, come in Voltaire, Diderot o Rousseau) che la virtù porta alla rovina, e il vizio alla prosperità: La nouvelle Justine ou les malheurs de la vertu suivie de l’histoire de Juliette, ou les prospérités du vice (‘la nuova Giustina o le disgrazie della virtù, seguita dalla storia di Giulietta, o le prosperità del vizio’)(1797). Era il rovesciamento totale della morale corrente: ma anche la lucida analisi del fallimento dell’utopia illuministica, e del pericolo che una futura civiltà di massa, con l’asservimento dell’individuo, del suo corpo, della sua anima, dei suoi bisogni, avrebbe potuto di lì a poco arrecare.

5.2. Il neoclassicismo Nella prima metà del Settecento avvenne la più sensazionale scoperta archeologica della storia: il rinvenimento di due città romane sepolte dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., Ercolano e Pompei (1738 e 1748). Dopo secoli di umanesimo e di classicismo, in cui si era sognato di far rinascere l’antichità classica a partire dai testi classici e dallo studio delle rovine di Roma, era addirittura possibile passeggiare per le strade di una città antica, entrare nelle

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sue botteghe e nei suoi templi, nell’intimo della vita quotidiana di una casa o di un lupanare, scoprire i segni di una vita che sembrava appena trascorsa, cancellata dalla furia distruttrice del vulcano: il pane carbonizzato sul bancone del fornaio, i graffiti sul muro, le tracce d’olio nella lucerna. Mentre Ercolano, esplorata per mezzo di profondi cunicoli, non fu allora portata alla luce, Pompei invece fu gradualmente dissepolta, e Carlo III di Borbone favorì la nascita del primo grande museo europeo finalizzato alla conoscenza dell’Antico, unificando le vecchie raccolte dei principi Farnese con le nuove scoperte. Il rinnovato entusiamo per l’Antico, unito al movimento di reazione per gli eccessi leziosi del rococò, porta alla nascita, nelle arti figurative, di un nuovo classicismo, soprattutto per opera dell’archeologo tedesco Johann Joachim Winckelmann (1717-1768). Il movimento, definito neoclassicismo, propugna il ritorno alla purezza delle forme classiche, da imitare secondo modalità non dissimili da quelle utilizzate nel corso del Rinascimento italiano, o del Seicento francese, chiamato Age Classique (‘età classica’). Cambia però la coscienza interna di questo classicismo, ed è un cambiamento impensabile senza eventi come la scoperta di Pompei ed Ercolano, o senza le conquiste intellettuali di pensatori come Vico. L’Antico, infatti, a differenza del Rinascimento, è sentito ora come qualcosa di separato, ‘altro’, assolutamente lontano e irraggiungibile. C’è un’idea della ‘distanza’, della definitiva alterità dei Moderni rispetto agli Antichi, che rende alla bellezza di quei modelli da imitare una vena di malinconia, di nostalgia per un mondo perduto e in fondo irrecuperabile: l’età degli dei e degli eroi, della mitologia classica e degli artisti sublimi come Fidia, Mirone, Policleto. Non è più possibile, dunque, un ‘rinascimento’, perché la civiltà degli Antichi non può rinascere, ma tutt’al più ispirare quella dei Moderni. Per i neoclassici, la bellezza di una statua greca è una bellezza ideale, assoluta, al di fuori del tempo, al riparo dai processi di corruzione, trasformazione e morte. Essi tendono quindi verso la forma statica, verso l’armonia immobile, definita da Winckelmann con le espressioni “nobile semplicità” e “quieta grandiosità”. Non è però un’arte astratta dal reale, ma raccoglie ancora le istanze illuministiche di ragione e di utilità sociale, fortemente impegnata e legata ad aspetti celebrativi ed occasionali, come s’avverte nella poesia delle odi di Parini, e nei contemporanei artisti neoclassici, dall’architettura (Andrea Appiani) alla scultura (Antonio Canova) e alla pittura (Jean-Louis David). I grandi modelli saranno quelli della Roma delle origini e della repubblica (e poi dell’impero per Napoleone), e della Grecia, della civiltà guerriera di Sparta e del mito dell’età d’oro delle arti e della filosofia nell’Atene di Pericle. In poesia, il gusto neoclassico si salda bene con quello dell’ultima Arcadia, come rivelano due pallidi continuatori del Parini, Ludovico Vitto-



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rio Savioli (Bologna 1729-1804), autore di canzonette che rendono piccoli quadri di vita galante con una mitologia spicciola e quotidiana, e dell’ode Il mattino per il risveglio di una bella dama; e Iacopo Andrea Vittorelli (Bassano 1749-1835), cui si ascrivono poemetti pariniani in ottave come Il tupé e Lo specchio, e il genere delle Anacreontiche che sembrava riprendere l’antica poesia ellenistica. Il rappresentante più celebre del neoclassicismo in Italia fu Vincenzo Monti (Fusignano di Romagna 1754-Milano 1828), un arcade nella Roma di Pio VI, dove si distinse per una serie di testi come la Prosopopea di Pericle (1779) e l’ode Al signor di Montgolfier (1784), celebrazione dei primi sensazionali voli di palloni aerostatici. Ma la tranquillità romana di fine secolo era ormai incrinata dalle notizie che giungevano da Parigi, e Monti si fece cantore controrivoluzionario nel poema dantesco Bassvilliana (1793), in cui l’anima di un diplomatico francese trucidato a Roma ha la visione degli orrori della rivoluzione, culminanti nell’esecuzione capitale del re Luigi XVI. Di lì a poco, però, lo stesso Monti, simpatizzante per il nuovo ordine portato da Napoleone in Italia, fuggì da Roma e approdò a Milano (1797), che sarebbe stata in seguito sua residenza principale. A Milano Monti, poeta ufficiale e professore all’università di Pavia, avrebbe celebrato Napoleone in opere come il poemetto Mascheroniana, in memoria dello scienziato Lorenzo Mascheroni (1802); e si sarebbe soprattutto impegnato in lavori di traduzione dai classici, le Satire di Persio e l’Iliade (senza però conoscere il greco, per cui il suo lavoro, basato sull’assemblaggio di traduzioni altrui, gli valse la sprezzante definizione di Foscolo, “gran traduttor dei traduttor di Omero”). Alla caduta di Napoleone Monti non mancherà di omaggiare i nuovi padroni, gli austriaci (1815), col poemetto Il ritorno di Astrea, in cui Astrea, la mitica dea della Giustizia, simboleggiava evidentemente l’auspicato ritorno all’ordine e alla legalità della Restaurazione. Nonostante tutto, la figura di Monti rappresentò un importante punto di riferimento nella cultura del suo tempo, un termine ‘medio’ di impegno civile della poesia, né rivoluzionaria né retriva. Il suo sforzo di elaborazione formale, nelle poesie come nelle traduzioni (lungamente famosa, anche nelle scuole, quella dell’Iliade), continuò a fornire un modello di lingua poetica ‘moderna’ per le generazioni successive. E anche nell’ambito della lingua la sua posizione ‘media’ contribuì a frenare le istanze più radicali del purismo, la corrente che, guidata dall’abate Antonio Cesari (Verona 1760-1828) e dall’Accademia della Crusca, voleva, dopo la relativa libertà settecentesca e l’influenza francese, un anacronistico ritorno alla lingua letteraria toscana del Trecento. Monti e il genero Giulio Perticari reagirono a tale oltranzismo con la Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca

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(1817-1826). Certo, vi si trattava ancora di lingua letteraria ‘illustre’ e non popolare, ma il fatto che essa non fosse più confinata nell’imitazione degli ‘scrittori di lingua’ apriva nuovi orizzonti di formazione di una lingua che fosse veramente la lingua d’uso degli Italiani: quel che aveva capito, con grande lungimiranza, Melchiorre Cesarotti (Padova 1730-1807), nel Saggio sulla filosofia delle lingue (1785), in cui si affermava l’importanza della lingua d’uso, e la necessità di una lingua nazionale italiana che non fosse solo quella ‘letteraria’.

5.3. Il romanticismo Contemporaneamente al neoclassicismo si diffonde in Europa un gusto estetico apparentemente opposto alla solare staticità dell’arte classica, ed invece ad essa profondamente vicino, come se fosse l’altra faccia di una stessa medaglia. Il viaggiatore straniero che vagava tra le rovine di Roma antica o tra le mura di Pompei si lasciava prendere dalla malinconia della poesia delle rovine, meditando sull’azione invincibile e distruttrice del tempo e della morte, che travolgono tutte le opere dell’uomo, anche le realizzazioni più grandiose. Mentre l’artista neoclassico cercava di scorgere, al di là di questo incessante processo di trasformazione dell’essere, una bellezza ideale e incorruttibile, ora il nostro viaggiatore avvertiva la straordinaria consonanza tra quel paesaggio di morte e la sua propria condizione esistenziale, anch’egli frammento di vita ai piedi del simbolo del potere distruttivo della Natura, il Vesuvio. Di fronte agli spettacoli di una Natura sovrana, immensa, disumana, orrida (le riviere oceaniche, le Alpi, le desolazioni nordiche, i paesaggi del Nuovo Mondo), si fa strada il sentimento del sublime, di una percezione estetica congiunta alla paura, al timore, alla smisurata distanza tra gli abissi cosmici e la infinita piccolezza dell’individuo. Anzi, in un rovesciamento soggettivistico, sembra che quei paesaggi riflettano l’orrido e il tempestoso che sono dentro l’animo umano, che la Natura esterna non sia altro che la proiezione di una Natura interna, di un Io in perpetua metamorfosi. A sua volta, l’Io, così ingigantito fino ad abbracciare tutto l’universo, può credere di potersi opporre alla forza della Natura, di rovesciare eroicamente la sua condizione di inferiorità, sfidandola come gli antichi Titani sfidavano il potere degli Dèi, con un atteggiamento che viene definito titanismo. Nasce così uno degli elementi fondamentali di questa nuova sensibilità, già avvertita da un autore come Tasso: il profondo legame tra paesaggio e stato d’animo, tra Natura e Io.



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In Italia questo gusto comincia a percorrere in modo sotterraneo la cultura del Settecento, dalle Visioni dantesche macabre e tenebrose del ferrarese Alfonso Varano (Ferrara 1705-1788) a certi spunti del Parini nel Vespro e nella Notte. In Inghilterra è l’epoca della poesia sepolcrale, che si diffonde sul compianto elegiaco delle vicende umane, nella contemplazione di cimiteri e paesaggi notturni, con Edward Young, The Complaint, or Night Thoughts (‘compianto o pensieri notturni’, tradotto in Italia col titolo Le Notti)(1745), e Thomas Gray, Elegy written in a Country Churchyard (‘elegia scritta in un cimitero di campagna’)(1751); e un’ambientazione sepolcrale o notturna avranno anche le già ricordate Notti romane al sepolcro degli Scipioni di Alessandro Verri; le Notti clementine (1775) di Aurelio de’ Giorgi Bertola (1753-1798); e le Poesie campestri (1788) di Ippolito Pindemonte (Verona 1753-1828), traduttore dell’Odissea, poeta della malinconia e dell’elegia cui un giorno Foscolo avrebbe dedicato i Sepolcri. Nella seconda metà del secolo il caso Ossian fa emergere tutti i caratteri di questa nuova letteratura. Uno scrittore scozzese, James Macpherson, traduttore di testi gaelici medievali, compone una serie di poemi imitandone lo stile arcaico, con la finta attribuzione a un bardo leggendario di nome Ossian, The Poems of Ossian (‘i poemi di Ossian’) (1765), tradotto subito in Italia da Melchiorre Cesarotti. È un testo fortunatissimo, anche perché creduto autentico, una specie di Omero medievale, esempio di una civiltà primordiale nelle terre più estreme delle isole britanniche. La sua finta patina ‘primitiva’ è data anche dall’uso della prosa lirica (resa dal Cesarotti in versi endecasillabi sciolti). Mentre si diffonde sempre più in Europa la conoscenza di Vico, si fa strada il mito di un Medioevo ‘positivo’, in cui l’uomo era più vicino allo stato di natura, e in cui lo spirito creatore agisce in tutto un popolo, e non nel singolo individuo. La poesia è dominata dalla forza potente della fantasia, e non dalla ragione, il verso erompe libero e spontaneo, senza obbedire a regole e costrizioni classicistiche. Il tutto in uno scenario che sostituisce alla mitologia classica e mediterranea la mitologia nordica, germanica e scandinava, ai paesaggi italiani quelli tempestosi o nebbiosi del Mare del Nord. In sintesi, tutti gli elementi che concorrono nel movimento poetico che di lì a poco in Germania fu promosso dai poeti tedeschi Johann Gottfried Herder e Goethe, lo Sturm und Drang (‘tempesta e impeto’)(dal titolo di un dramma di Friedrich Maximilian Klinger, 1776). Esso si basava su idee rivoluzionarie come la poesia manifestazione del genio popolare (Volksgeist), la Natura fonte del Sublime, e la stessa idea di Nazione, naturalmente declinata nei termini della nazione tedesca, di un patriottismo che dopo secoli di divisioni ambiva a ritrovare un’identità unitaria. L’artista, il poeta, è un

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genio creatore, libero, individualista, che nel suo contrapporsi alla società, alla Storia, alla Natura, acquista un carattere eroico, titanico, anche quando è destinato a soccombere. Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) ne fu all’inizio l’esponente più rilevante, con la composizione di un romanzo che diede all’Europa il ‘modello’ dell’eroe moderno, tanto più ‘imitabile’ rispetto a quelli aristocratici dell’Alfieri perché è per la prima volta un eroe ‘borghese’: Die Leiden des jungen Werther (‘i dolori del giovane Werther’)(1774). Werther è un intellettuale cittadino, appassionato di Omero e Ossian, che fugge in campagna per ritrovare la Natura, e trova invece l’amore per un’irraggiungibile Carlotta, passione disperata cui pone fine solo il suicidio, con un colpo di pistola. La forte proiezione autobiografica continua nel grande romanzo ciclico successivo, il Wilhelm Meister, un vero ‘romanzo di formazione’ (Bildungsroman) che racconta diffusamente la vita di Wilhelm, la sua adolescenza, i suoi amori, i suoi viaggi. E fu proprio un importante viaggio in Italia (1786-1788), raccontato nell’Italienische Reise (‘viaggio italiano’), a portare Goethe a stretto contatto con la civiltà antica e a convertirlo al classicismo. Salvo poi tornare alla rappresentazione delle tempeste dell’anima umana in Die Wahlverwandtschaften (‘le affinità elettive’)(1809), in cui l’unione apparentemente idilliaca di una coppia di sposi, Eduard e Charlotte, si rompe con l’arrivo di un’altra coppia, il Capitano e Ottilie, e con lo scatenarsi dell’attrazione fatale tra Eduard e Ottilie, che porta entrambi alla morte. E restava, dell’impeto giovanile, anche la pulsione al titanismo, evidente soprattutto nel Faust, l’opera di tutta una vita, paradigma dell’intera civiltà umana, mirabile riscrittura del mito rinascimentale dello scienziato che vende la sua anima al diavolo in cambio di sapienza, ricchezza, potere, amore. Accanto a Goethe, per molti anni, è Friedrich Schiller (1759-1805) che traduce le stesse istanze nelle forme della tragedia, sullo sfondo della Rivoluzione e delle prime aspirazioni del patriottismo tedesco. Schiller scrive capolavori come Die Räuber (‘i masnadieri’)(1782), terribile storia di odio tra fratelli; Don Carlos (1787), simile per ambientazione al Filippo dell’Alfieri, ma con una maggiore apertura allo scenario politico (il principe don Carlos è anche un eroe di libertà, e non solo la vittima della nefanda gelosia del padre); la trilogia di Wallenstein (1796-99), sul grande Capitano della Guerra dei Trent’anni vincitore sui campi di battaglia e assassinato a tradimento; e infine il Guglielmo Tell (1804), epopea della lotta degli Svizzeri per l’indipendenza. Ma a questo punto una nuova generazione di intellettuali e poeti tedeschi adotta per la prima volta, per definire la propria poesia e la propria sensibilità, la parola che segnerà l’intera cultura europea contemporanea:



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romantico, da cui deriva la più generale categoria di romanticismo. Siamo nel 1798, in piena età rivoluzionaria. Sulle pagine della rivista “Athenäum” Friedrich Schlegel esalta la poesia tedesca moderna, chiamandola appunto ‘romantica’ (in tedesco romantik). La parola non l’aveva inventata lui: compare nel Seicento, in Inghilterra, con valore spregiativo e il significato di ‘irreale e assurdo’, per designare il mondo immaginario e improbabile dei romanzi cavallereschi medievali (in inglese romances), già parodiati nel Don Quixote di Cervantes. Quando però Rousseau (e prima di lui Vico) riscopre tutto il valore positivo della fantasia come elemento creativo della poesia, non trova parola migliore del francese romantique per designare, col significato di ‘piacevole e suggestivo’, quel paesaggio naturale altrimenti definito pittoresque, che con il suo mistero, la sua potenza misteriosa e sublime, è capace di rapire l’anima umana, e di farla sentire consonante con l’anima della Natura. Romantic, romantique, romantik: nella storia semantica di una parola si coglie dunque il passaggio all’autocoscienza di una poesia, di una letteratura, di un’arte, di una sensibilità che si era in gran parte già sviluppata nel corso del Settecento in opposizione all’impero della ragione, dell’empirismo, del sensismo, del materialismo, del libertinismo. Un’arte che riportava con forza le ragioni del cuore, della passione, del sentimento, della spiritualità, e anche del senso religioso della vita, sia all’interno della religione tradizionale (il Cristianesimo), sia nel quadro di una più vasta religione della Natura, di un nuovo panteismo che aspira alla fusione dell’uomo con il mondo che lo circonda. Una spinta in cui è prepotente lo spazio vitale del soggetto, dell’Io che pensa, immagina, e in un certo senso si ‘crea’ la realtà: una strada che, nella grande filosofia tedesca, è aperta dal criticismo di Immanuel Kant (che nella Critica della ragion pura aveva dimostrato l’insopprimibile presenza del soggetto nella conoscenza della realtà), e confermata dalla nascita dell’idealismo, con Fichte, Schelling ed Hegel, evolutosi fino alle posizioni estreme del pessimismo volontaristico di Schopenhauer, e all’esistenzialismo di Kierkegaard. Schlegel, che è il primo a chiamare ‘romantica’ la poesia moderna, ne definisce con grande lucidità l’opposizione con la poesia antica, e quindi con il classicismo che alla tradizione degli Antichi è sempre stato legato. Mentre il classicismo vive dell’imitazione degli Antichi, consapevole che tutto è già stato detto e fatto, e che i modelli ideali e assoluti di bellezza sono già stati raggiunti, per sempre, nella Classicità, la poesia romantica moderna vuole non imitare ma creare, ed è quindi ‘progressiva’, perché sempre tesa in avanti, verso l’infinito, verso l’assoluto. Sempre in movimento, l’arte è dinamica, come la vita, opposta alla staticità formale del neoclassicismo. Un altro

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carattere che sarà presto evidente è la ricerca di identità tra letteratura e vita. Non più una letteratura disimpegnata che tende ad una bellezza ideale e astratta, ma un profondo coinvolgimento esistenziale del poeta in ciò che scrive, che è espressione diretta e spontanea di ciò che sente. Dal punto di vista del sistema dei generi, questo significa dare un’importanza nuova a forme letterarie come la lirica (momento primario dell’effusione libera dei sentimenti), il romanzo e l’autobiografia (entrambi legati in questa fase alla scrittura dell’io). Il poeta è il primo testimone della sua tragedia, insieme protagonista e autore del romanzo della sua vita, vissuta e anzi ‘bruciata’ senza risparmio di mezzi e di energie, fino ad epiloghi spesso tragici (il suicidio, la malattia, la morte in giovanissima età). Una nuova figura di ‘martire’, non cristiano ma laico, modello morale per la classe che trova primariamente nel romanticismo la proiezione delle sue aspirazioni ideali: la borghesia mercantile e imprenditoriale che, emersa vittoriosa nella Rivoluzione francese sia sull’Antico Regime dell’aristocrazia, sia sulle spinte della plebe e del proletariato, guida ora la rivoluzione industriale e l’economia globale. La rivista “Athenäum”, pubblicata a Jena, fu il primo strumento di comunicazione dei romantici tedeschi. Ne furono direttori i fratelli Friedrich e August Wilhelm Schlegel, che continuarono ad avere un’importanza decisiva per indirizzare la nuova critica e storiografia letteraria europea, con il Corso sulla letteratura drammatica di August (1808), e la Storia della letteratura antica e moderna di Friedrich (1815). Nella sua pur breve attività (1798-1800) “Athenäum” pubblicò anche una serie di testi letterari degli autori più rappresentativi, ad esempio Friedrich Leopold von Hardenberg detto Novalis (morto giovanissimo di tisi), autore di straordinari Inni alla Notte (1800) in cui si rendeva evidente questa funzione quasi magica della poesia di tracciare una rete di analogie simboliche tra realtà esterna e realtà interiore, al punto da far diventare il poeta una specie di sacerdote. E sempre Novalis era l’autore del primo grande e incompiuto romanzo romantico, l’Enrico di Ofterdingen, una vera summa della nuova sensibilità, infinita peregrinazione del protagonista alla ricerca di un misterioso fiore azzurro, simbolo della poesia e visto in sogno. Vi domina il tema del viaggio e della tensione infinita del desiderio, definita ora Sehnsucht (‘male del desiderio, nostalgia’), lo stato d’animo struggente e malinconico tipico di tutto il romanticismo europeo. L’ambientazione medievale-fantastica del romanzo si inseriva in quella diffusa rivalutazione positiva del Medioevo che fu caratteristica del romanticismo: un Medioevo visto come culla originaria della civiltà europea, un’età ancora dominata dall’immaginazione, dal sentimento, dalle forti passioni, dalla religiosità e dall’eroismo, non corrotta dal cinismo e dalla ragione.



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La lirica, con la possibilità di esprimere al meglio questa sensibilità, è il genere principale del primo romanticismo tedesco, soprattutto in un poeta come Friedrich Hölderlin, cantore della poesia cosmica e dell’amore assoluto per l’amata Diotima. Ma si torna anche a guardare con interesse alla tradizione della poesia e dell’immaginario del popolo, che per i romantici è dotato di spirito creatore collettivo: ed è dall’immaginario popolare che i fratelli Grimm (come aveva già fatto Basile nella Napoli del Seicento) traggono le loro favole, e che rinasce il genere delle ballate (come Il cacciatore feroce e l’Eleonora di Gottfried August Bürger), un genere di grande musicalità espressiva e metrica, e quindi particolarmente adatto anche allo sviluppo della musica romantica, in quella speciale fusione di parola e melodia che si realizzò nei Lieder (‘canti’) di Schubert e Schumann. Accanto alla poesia, infatti, è forse proprio la musica l’arte romantica per eccellenza, ancor più delle arti figurative, per la sua capacità di rendere le profondità inesprimibili dell’anima umana, delle sue armonie e delle sue tempeste, per mezzo di un puro linguaggio di suoni, profondamente rinnovato rispetto alla tradizione musicale precedente, ‘barocca’ e ‘classica’, con autori come Beethoven, Mendelssohn, Schubert, Schumann, fino a Chopin, Liszt, Brahms. Anche in Inghilterra la sensibilità romantica era stata preparata da diversi autori che avevano abbandonato il razionalismo e la leggerezza divertita e satirica del Settecento illuminista, soprattutto nella narrativa, dove si era diffusa la moda del cosiddetto romanzo gotico, da Il castello di Otranto di Horace Walpole (1764) all’Italiano di Ann Radcliffe (1797): un mondo tenebroso, misterioso, popolato di presenze demoniache e soprannaturali. Nella poesia, invece, era stato un grande e isolato poeta e pittore visionario, William Blake, nei suoi poemi di ispirazione dantesca, Songs of Innocence (‘canti dell’innocenza’)(1789), e Songs of Experience (‘canti dell’esperienza’)(1794), a guidare l’evoluzione della poesia verso forme quasi ‘profetiche’, in cui la parola sembrava riacquistare un potere incorrotto, primordiale, fondendosi continuamente con le immagini della fantasia. I tempi, insomma, sono maturi perché anche in Inghilterra si chiami ‘romantica’ questa nuova letteratura, con un manifesto poetico premesso dai poeti inglesi Samuel Taylor Coleridge e William Wordsworth alle loro Lyrical Ballads (‘ballate liriche’)(1800), affermazione della poesia come forma di manifestazione della Verità, per mezzo della fusione del quotidiano con lo straordinario, del corto circuito del reale con il fantastico, che ci permette di cogliere l’essenza profonda e indicibile delle cose. Quel che poi viene realizzato nei loro testi, e in particolare nella più celebre ballata di Coleridge, La ballata del vecchio marinaio, descrizione visionaria di un viaggio terrificante ai confini del mondo, reso

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maledetto dall’assurda uccisione di un albatros che guidava la nave, che da allora sembra condannata a vagare senza speranza, fino alla morte di tutti i marinai, ad eccezione dell’unico sopravvissuto, destinato a raccontare l’orrore. La generazione successiva dei poeti romantici inglesi sembrò incarnare veramente l’equivalenza letteratura-vita, in grandi figure accomunate dalla spinta alla ribellione e dal desiderio infinito del viaggiare (attratti dalla solarità del Sud dell’Italia e del Mediterraneo), del conoscere, del vivere, e dalla morte precoce, in circostanze drammatiche: George Byron, il celebrato autore del Childe Harold’s Pilgrimage (‘pellegrinaggio del cavaliere Harold’)(1812), archetipo del Grand Tour romantico, viaggiatore solitario e malinconico che instaura il mito del dandy, e che se ne va a morire per la libertà della Grecia (1824); Percy Bysshe Shelley, l’immortale poeta dell’Ode to the West Wind (‘ode al vento dell’Ovest’), mirabile rappresentazione simbolica della forza infinita e incessante della vita, morto sulle rive del mare di Lerici (1822); e John Keats, morto giovanissimo a Roma, accanto alla scalinata di Trinità dei Monti (1821), autore del poema Endimione, pervaso dal presentimento malinconico e pessimista della morte, e dell’Ode su un’urna greca, che, attraverso la raffinata descrizione delle scene rappresentatevi, sembra far rivivere l’illusione della vita morta per sempre, fino alla rivelazione finale: “Beauty is Truth, Truth Beauty” (‘la Bellezza è la Verità, la Verità è la Bellezza’). Abbastanza isolato, all’inizio, nella cultura francese ancora dominata dal classicismo napoleonico, sarà invece l’antesignano del romanticismo francese, François-René de Chateubriand, aristocratico promotore di un ritorno alla spiritualità cristiana nel Génie du Christianisme (‘genio del Cristianesimo’)(1802), e autore del romanzo René, ritratto dell’eroe romantico solitario e malinconico che cerca la purificazione dai suoi tormenti nella selvaggia natura americana. La presenza di un pubblico ormai avvezzo agli scenari del romanzo gotico, caratterizzato da ricostruzioni d’ambiente storico spesso del tutto fantasiose, e la diffusione di un orizzonte culturale nel quale la riflessione storica è ormai un dato importante favoriscono la nascita di un vero e proprio romanzo storico, con lo straordinario successo editoriale dei romanzi di Walter Scott, di solito ambientati nella Scozia del Settecento, a partire dal primo romanzo Waverley (1814), ma anche nel romantico Medioevo di maniera del celebre Ivanhoe (1819), avventurosa vicenda del tempo di Riccardo Cuor di Leone e di Robin Hood. Dal filone ‘gotico’ nasce invece il racconto fantastico, inaugurato dalla moglie di Shelley, Mary Godwin Shelley, autrice di Frankenstein or the modern Prometheus (‘Frankenstein o il moderno Prometeo)(1818), in un certo senso il primo libro moderno di ‘fantascienza’, in cui lo scenario tenebroso di un castello gotico si fonde con



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quello, altrettanto inquietante, delle conquiste tecnologiche della scienza contemporanea, dalla scoperta dell’elettricità alla medicina: era in fondo il sospetto con cui l’immaginario popolare vedeva lo scienziato moderno, un misto di stregone e di negromante, capace, come il folle dottor Frankenstein, di dare la vita ad un essere ‘costruito’ in laboratorio con pezzi di diversi cadaveri, e misteriosamente animato con l’energia del fulmine. Paradossale segno della modernità, questo binomio scienza e soprannaturale, favorito anche dalla moda contemporanea del ‘magnetismo’, della ricerca di misteriose forze della natura. Un binomio genetico nello sviluppo successivo del racconto fantastico, soprattutto col tedesco Ernst Theodor Hoffmann, creatore di storie dominate dal sogno, dall’irrazionale, dal demoniaco.

5.4. Foscolo Nato a Zante nel 1778 col nome di Niccolò (solo nel ’97 gli preferirà quello di Ugo), Foscolo era figlio del medico veneziano Andrea e di una donna greca, Diamantina Spathis. Un’origine dunque eccezionale, rispetto agli altri letterati italiani, in territori dell’impero mediterraneo di Venezia ormai in decadenza, in una condizione di lontananza e differenza, rispetto alla madrepatria, che ne segnerà per sempre il carattere esistenziale di mobilità e di inquietudine, così consonante con la sensibilità che di lì a poco si sarebbe definita romantica: e sulla stessa lunghezza d’onda si collocava l’assoluta identità tra letteratura e vita, che il giovane Foscolo leggeva soprattutto nel grande modello alfieriano. Ma di lì derivava anche, nella lingua e nello stile, un sostanziale sperimentalismo, e plurilinguismo, basato sulla conoscenza di greco moderno, italiano letterario, dialetto veneziano, greco antico e latino. Orfano di padre e approdato a Venezia con la madre (1793), viene lanciato nel gran mondo galante e intellettuale dalla relazione amorosa con la più matura e nobile Isabella Teotochi Albrizzi, e in quei salotti compone e diffonde le prime opere, la tragedia alfieriana Tieste (1795), e compie anche la precoce meditazione su se stesso, sulle acerbe e generose speranze, sui grandi progetti di poesia e di gloria, nei frammenti autobiografici del Sesto tomo dell’io. Identificandosi in un eroe alfieriano, pronto a uccidere i tiranni e a immolarsi per la libertà, Foscolo non può non entusiasmarsi per Napoleone, esaltato nell’ode A Bonaparte liberatore, salvo poi restarne disilluso per la pace di Campoformio, che cedeva la repubblica di Venezia all’Austria (1797). È la prima grande crisi esistenziale, proiettata nella finzione autobiografica delle Ultime lettere di Iacopo Ortis. Nonostante tutto, Foscolo continuerà a

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impegnarsi per la Repubblica Cisalpina e per la Francia, abbracciando la vita militare, e combattendo coraggiosamente sui campi di battaglia. Risiede saltuariamente a Milano, ma viaggiando continuamente, tra infiniti amori (da quello per l’inglese Fanny Hamilton, nel Nord della Francia, nascerà una figlia, Mary, detta Floriana). Nominato professore di eloquenza latina e italiana a Pavia (1808), ne viene subito escluso perché critico del regime napoleonico, ma fa in tempo a tenere alcune lezioni, precedute da una memorabile prolusione, in cui, al grido “Italiani, io vi esorto alle storie”, indicava nella ripresa della memoria storica nazionale la via più sicura per la formazione di una nuova e consapevole identità italiana. Contro gli intellettuali asserviti al potere scrive l’Hypercalypseos liber singularis (‘libro unico dell’Ipercalissi’) (1810), opera eccentrica in uno strano latino biblico e profetico. Continua ad essere inviso al regime, e una sua seconda tragedia, l’Aiace (1811), viene censurata, perché ritenuta anch’essa antinapoleonica. Foscolo si sposta allora a Firenze, nella dimora della Villa di Bellosguardo (1812-1813) che costituirà una breve pausa di serenità nella sua vita errabonda e tormentata: e in quella serenità nasce la terza tragedia, Ricciarda, e si svolge gran parte dell’attività compositiva del poema Le Grazie. Al crollo del dominio napoleonico, dopo un’iniziale esitazione Foscolo fugge da Milano (1815), e finisce in un triste esilio in Inghilterra (1816), caratterizzato da precarie condizioni di vita (finisce addirittura in prigione per debiti), ma anche da un’intensa attività intellettuale, che si distende ora, più che sul versante creativo, su quello critico, con la composizione di saggi che segnano veramente la nascita della critica letteraria italiana moderna: il Saggio sulla letteratura contemporanea in Italia, gli Essays on Petrarch (‘saggi su Petrarca’)(1823) e gli studi su Dante e Boccaccio; un esercizio critico in cui la conoscenza erudita e storica si salda alla stessa sensibilità del poeta che dialoga con gli altri poeti. Infine, amorevolmente assistito dalla figlia Floriana, Foscolo muore in un sobborgo di Londra (Turnham Green, 1827) e viene sepolto in un cimitero di periferia. Solo molti anni dopo (1871) l’Italia unita avrebbe reso omaggio al grande poeta esule, traslando i suoi resti nel sepolcro della chiesa di Santa Croce a Firenze, accanto alle tombe degli altri grandi italiani. La prima grande opera foscoliana, quella a cui arrise un immediato successo di pubblico e ne consacrò la fama per generazioni di lettori, fino a oggi, è sicuramente le Ultime lettere di Iacopo Ortis (1798, pubblicata a cura dell’autore a Milano nel 1802). Si tratta di un romanzo epistolare, la forma di moda nella letteratura contemporanea, da Rousseau a Goethe: e proprio Goethe fornisce a Foscolo il modello più importante, il Werther, da



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cui però l’Ortis si distacca, tentando di raggiungere una dimensione eroica più alfieriana e meno ‘borghese’, più ispirata ai grandi modelli antichi (di nuovo Plutarco), anche nell’atto finale del suicidio (Werther usa una pistola, Ortis un più ‘classico’ pugnale). Sono lettere di un unico mittente, il giovane patriota Iacopo Ortis, ad un unico destinatario, l’amico Lorenzo Alderani, che nella parte finale (quella della morte di Iacopo) assume il compito di narratore. La storia segue un filo molto semplice, simile a quella di Werther. Ortis si ritira sui Colli Euganei, sdegnato per la pace di Campoformio, ma lì si innamora della bella Teresa, promessa sposa al ricco e ottuso Odoardo. La duplice situazione di angoscia (la crisi collettiva della patria, e la crisi individuale dell’amore), e la consapevolezza che tutte le aspirazioni dell’anima umana non sono altro che illusioni, lo costringono ad un inquieto viaggio-fuga per l’Italia (importanti l’incontro con il vecchio Parini a Milano, ultimo esempio di virtù civile e poesia incorrotta, e la visita delle tombe di Santa Croce a Firenze), fino alle Alpi, e a Ventimiglia. Lì, ai confini dell’Italia, Ortis raggiunge una concezione pessimistica della vita conseguente al crollo definitivo di tutte le illusioni (patria, amore, gloria, poesia), e decide di tornare indietro, presso Teresa ormai sposata, e lì di suicidarsi. Evidente è, in tutta l’opera, il forte autobiografismo, che porta la figura di Ortis a coincidere spesso perfettamente con quella del giovane Foscolo. La finzione epistolare e l’assoluta contemporaneità (la vicenda si svolge nel biennio 1797-1799) danno al lettore l’avvicente impressione della storia ‘in presa diretta’, un senso di realismo che i romanzi italiani precedenti non avevano. Ma qual era il contesto nel quale era nata l’opera? Già nel 1796 Foscolo annotava, in un piano di studi, il titolo Laura, lettere, forse corrispondente alla vicenda di un primo amore che compare nella prima parte dell’opera, per una sfortunata fanciulla di nome Laura. Sicuramente il suo laboratorio formale era quello delle lettere reali, quelle che Foscolo scriveva giorno dopo giorno, un epistolario ricchissimo che, lungo tutta la sua vita, è lo specchio nel quale si riflette il suo spirito multiforme. Molte pagine dell’Ortis corrispondono a vere lettere di Foscolo, semplicemente rielaborate o riscritte all’interno del romanzo. La rapidità di scrittura lasciò alcuni elementi irrisolti nella struttura e nello stile (vicino all’immediatezza dello stile epistolare, e talvolta addirittura all’oralità), segni di imperfezione che dovettero spiacere a chi (come Manzoni) lavorerà per tempi lunghissimi al proprio romanzo. Ma proprio quella rapidità darà all’Ortis il carattere di freschezza sperimentale che più piacerà ai lettori. Un’opera, in fondo, che è molte opere, in una continua tensione strutturale che corrisponde alla stessa tensione dell’esistenza dell’autore, attraverso generi letterari diversi: il romanzo, l’autobiografia, l’epistolario, la tragedia alfieriana, il diario di viag-

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gio, l’invettiva politico-patriottica, il saggio filosofico, la stessa poesia lirica (vicina alla temperie romantica), evidente in alcuni squarci di consonanza tra paesaggio e stato d’animo. Dalla prosa alla poesia. Nel 1803 Foscolo pubblicò un’edizione delle sue poesie migliori degli ultimi anni. Innanzitutto, le due odi di ispirazione pariniana e neoclassica, A Luigia Pallavicini caduta da cavallo (1799), e soprattutto All’amica risanata (1802), dedicata ad Antonietta Fagnani Arese ristabilitasi dopo un periodo di malattia, delicata rappresentazione di una sensualità vitale che sembra andare anche oltre l’ideale della bellezza neoclassica, nella visione del corpo femminile che suona l’arpa o danza dolcemente: ed è la poesia che ha la funzione di eternare gli aspetti sublimi di una realtà che altrimenti è continuamente insidiata dalla contingenza, dalla malattia, dalla morte. Accanto alle odi, dodici sonetti, che testimoniano la particolare predilezione di Foscolo per questa antica forma metrica, riconosciuta ai massimi livelli in poeti come Petrarca, Della Casa, Alfieri. Foscolo, con sapiente lavoro formale sulle strutture metriche, sintattiche e retoriche, supera quei modelli, giungendo a comporre alcuni piccoli capolavori. Fra gli otto sonetti più antichi emerge l’attitudine all’autoritratto di stampo alfieriano (Non son chi fui ; perì di noi gran parte; Solcata ho fronte, occhi incavati incerti ). I quattro sonetti più recenti (1802-1803) raggiungono invece i vertici della poesia foscoliana, nell’instabile equilibrio tra l’intuizione della verità, il ritorno del mito, e le più drammatiche istanze esistenziali dell’autore. Alla Musa, “Pur tu copia versavi alma di canto”, afferma la poesia al di sopra delle vicende individuali e della storia. In Alla sera, “Forse perché della fatal quïete”, la sera è ‘immagine’ della morte, momento di sospensione della lotta e della sofferenza, di breve serenità che porta la meditazione ad innalzarsi fino alla contemplazione del nulla eterno: una condizione di energie contrapposte comunque irrisolta e non pacificata, nella quale torna, nel verso finale, “quello spirto guerriero ch’entro mi rugge”. Condannato dunque all’erranza infinita, Foscolo, nel sonetto In morte del fratello Giovanni (suicidatosi nel 1801), “Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo”, vede solo nella morte la conclusione delle sofferenze umane. Per sé, però, prefigura una morte priva del conforto di una sepoltura ‘lacrimata’ in A Zacinto, “Né più mai toccherò le sacre sponde”, mirabile testo che, con un meccanismo di compensazione, gli fa rivivere la luminosa memoria della propria isola natale, Zante, rivista attraverso le immagini del mito antico. È il mito della nascita in una primordiale isola-madre, le cui acque feconde hanno abbracciato il “corpo fanciulletto” del poeta; ed è la progressiva triplice identificazione con la dea Venere (anch’essa nata da



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quelle acque), con il poeta Omero (anch’egli cantore ramingo), con l’eroe Ulisse (anch’egli condannato a peregrinare all’infinito “di gente in gente”). Su tutto, l’isotopia dell’acqua, simbolo della vita, continuamente ripetuto e riecheggiato nel testo. Il tema della sepoltura, ampliato dalla propria vicenda individuale a quella universale a seguito dell’editto napoleonico di Saint-Cloud (1804) che ordinava l’istituzione dei cimiteri fuori le mura delle città, torna nel poemetto Dei sepolcri (1807), dedicato a Ippolito Pindemonte, e preceduto da un’epigrafe di sapore arcaico, tratta dalle antiche leggi delle Dodici Tavole: “Deorum Manium Iura Sancta Sunto”. In 295 endecasillabi sciolti, in un serrato ragionamento poetico sui sepolcri e le onoranze date ai defunti nelle varie fasi della storia della civiltà, Foscolo individua il senso di una continuità nella storia umana che va oltre la vicenda biologica del singolo individuo. Alle prime angosciose domande (“All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne / confortate di pianto è forse il sonno / della morte men duro?”) la filosofia materialista e sensista del Settecento dava una risposta netta e impietosa (la morte è la fine della vita, della sensibilità, della vita, e a nulla serve la sepoltura al defunto). Ma Foscolo invita a guardare oltre, alla comunicazione che s’instaura, oltre la morte, tra passato e presente e futuro, per mezzo della memoria storica e poetica, individuale e collettiva: la sepoltura comunica un valore civile e morale, e non è giusto che una comunità si privi di tali valori (come sarebbe accaduto, ricorda Foscolo, nel caso del Parini, confuso dopo la morte in una fossa comune). Con un’evidente ripresa vichiana, lo sviluppo delle onoranze funebri rientra in un più generale quadro di evoluzione della civiltà umana, segnato dalla progressione “nozze e tribunali ed are” (v. 91). Certo, andrebbe recuperata una concezione della morte più serena e naturale, com’era presso gli antichi Greci e Romani, o in età contemporanea in Inghilterra, e rigettare quella di matrice religiosa e cattolica, che sembra a Foscolo basata sulla paura e l’angoscia. L’esempio dei grandi del passato può continuare così ad agire sui contemporanei, come viene affermato, al centro del poema, dal verso lapidario che sintetizza l’intero discorso foscoliano: “A egregie cose il forte animo accendono / l’urne de’ forti, o Pindemonte” (vv. 151-52). E il tema viene ora declinato in un contesto di rinnovamento nazionale e identitario, simboleggiato nelle tombe dei grandi italiani a Santa Croce (Machiavelli, Michelangelo, Galileo, Alfieri), e nel ricordo anche di Dante “ghibellin fuggiasco” e di Petrarca. Nel finale Foscolo si lascia trasportare dalla visione degli antichi eroi greci di Maratona, e del mitico Aiace, sulla cui tomba il mare pietoso depone le armi di Achille. Ancora una volta, spetterà alla forza eternatrice della poesia, simboleggiata dal vecchio e cieco

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Omero, consentire la sopravvivenza della Storia, “finché il Sole / risplenderà su le sciagure umane”(vv. 294-96). A dispetto del titolo, c’è ben poco di ‘sepolcrale’ in questo poemetto, privo di ogni sentimentalismo elegiaco e malinconico, e invece più vicino alle forme della poesia filosofica, didascalica e ragionativa, ma anche, talvolta, dell’inno antico. Nella metrica e nello stile è evidente la lezione del Parini, con una prevalenza dell’apparato argomentativo su quello descrittivo o narrativo, come rivela la stessa sintassi: grandi interrogazioni, complesse architetture del periodo, improvvisi cambi di marcia e di tono. Nell’unità strutturale, una pluralità di stili: dal notturno-tenebroso (l’immagine delle ossa di Parini insozzate dal contatto con quelle di un malfattore, con una chiara allusione al Dialogo della nobiltà) al classicismo luminoso delle rievocazioni mitologiche, dalla canzone morale e politica (Petrarca) alla poesia didascalico-ragionativa. Col passare degli anni, mentre si diffondeva in Europa il romanticismo, Foscolo sembrava prendere sdegnoso le distanze dalle moderne mode intellettuali, rifugiandosi in un suo personale classicismo, nutrito dal confronto diretto con i classici, anche in intensi esercizi di traduzione (dalla catulliana Chioma di Berenice, a sua volta derivata da Callimaco; e dall’Iliade, a gara col rivale Monti). Il risultato più alto fu raggiunto con il poema Le Grazie, elaborato soprattuto durante il felice soggiorno fiorentino (1812-1813), ma lasciato incompiuto e frammentario, un progetto di grande inno in endecasillabi sciolti diviso in tre parti, ciascuna delle quali intitolata ad una grande divinità della mitologia classica, Venere, Vesta, Pallade, e con dedica all’artista principe del neoclassicismo, il Canova, autore di un celebre gruppo scultoreo delle Grazie. Dell’opera in movimento restano solo frammenti, che comunque si pongono ai livelli più alti della poesia europea contemporanea. Nel primo inno, Venere nasce tra le onde del mare della Grecia (le stesse che bagnavano le sponde di Zante, l’isola natale del poeta), e per mezzo della bellezza eleva gli uomini dallo stato ferino alla civiltà. Il secondo inno, intitolato a Vesta, segna il passaggio della civiltà a Roma e all’Italia, con la descrizione di un moderno rito pagano in onore delle Grazie organizzato dallo stesso Foscolo a Bellosguardo, e l’esaltazione del sogno di armonia del Rinascimento. Il terzo inno, intitolato a Pallade, avrebbe dovuto riportare invece alla difficoltà e alla crisi presente della civiltà, cui sovviene la dea dell’intelligenza e dell’industria; e ne resta un celebre frammento, quello del ‘velo delle Grazie’, che le proteggerà dagli sguardi indegni, e sul quale, con un procedimento di ekphrasis, sono rappresentati i grandi valori umani (l’umanità, la compassione, la nobiltà, il pudore).



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A poco più di trent’anni Foscolo sentiva di aver vissuto e provato tutto, disincantato e disilluso dalla vita, cui guardava ormai con l’ironia e il distacco di un autore come Sterne, di cui aveva tradotto il Sentimental Journey, pubblicato col titolo di Viaggio sentimentale di Yorick lungo la Francia e l’Italia, e con lo pseudonimo di Didimo Chierico (1813). In appendice, una curiosa Notizia intorno a Didimo Chierico, autoritratto ironico e paradossale, testimonianza della caduta delle illusioni e delle passioni di cui resta però “calore di fiamma lontana”. La critica e lo scetticismo coinvolgono l’impegno politico e poetico degli anni passati. Eppure restano memorabili i suoi giudizi letterari, straordinariamente sintetici: Dante è “un gran lago circondato di burroni e di selve sotto un cielo oscurissimo”, mentre la poesia dell’Ariosto è assimilata al movimento ciclico delle onde che si frangono su una spiaggia nordica: “Un giorno mostrandomi dal molo di Dunkerque le lunghe onde con le quali l’Oceano rompea sulla spiaggia, gridò: Così vien poetando l’Ariosto”. Didimo Chierico è l’ultimo travestimento dell’Io foscoliano, dopo l’Ortis, e le diverse finzioni erudite di raffinate imitazioni della poesia classica. Ma è anche un modello importante e modernissimo di prosa ‘franta’ e asciutta, collegabile a grandi esempi antichi, da Epitteto alla tradizione plutarchiana di fatti e detti memorabili.

5.5. Il Risorgimento La cosiddetta età della Restaurazione fu in realtà in Europa l’età dell’assestamento e del consolidamento del potere delle classi borghesi, imprenditoriali e finanziarie, nella formazione di potenti stati nazionali che favorissero lo sviluppo dell’economia industriale, la diffusione del libero mercato, l’estensione dell’imperialismo coloniale al mondo intero. L’ideologia romantica saldava questo sviluppo ad una particolare idea di nazione, che ebbe la massima importanza in quelle aree del continente in cui ancora non c’era un’identità fra nazione, stato, popolo: la Grecia e gran parte dei Balcani dominati dall’Impero Ottomano, i popoli dell’Europa centrale soggetti all’Impero Asburgico, la Germania e l’Italia divise in stati e staterelli, e anch’esse in parte legate all’influenza austriaca. In Italia, dunque, il periodo che va dal Congresso di Vienna (1815) all’Unità (1861) fu dominato dalla tensione verso l’unificazione della penisola, da un patriottismo che si univa alle aspirazioni ideali del romanticismo, in un unico grande movimento storico chiamato il Risorgimento. Il Risorgimento passò prima attraverso alcune rivolte che, ispirate dalle società segrete di matrice massonica ereditate dal periodo napoleonico e

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definite Carboneria, miravano alla concessione di libertà costituzionali (a Napoli nel 1820-1821) e poi alla libertà dal dominio austriaco (1831), e che furono sempre duramente represse. In questi anni, l’apostolo della libertà italiana sembrava l’esule genovese Giuseppe Mazzini (Genova 1805-Pisa 1872), animatore e istigatore di continui tentativi di insurrezione finalizzati ad uno stato di tipo repubblicano, promotore di reti associative di intellettuali e patrioti dalla Giovine Italia alla Giovine Europa, convinto assertore della necessità di un’integrazione europea che superasse un’interpretazione ristretta e imperialistica dell’idea di nazione. All’ideologo Mazzini si affiancava la popolare figura di Giuseppe Garibaldi (Nizza 1807-Caprera 1882), un marinaio coinvolto quasi per caso nei moti mazziniani, costretto all’esilio in Sudamerica, e laggiù diventato rivoluzionario, guerrigliero, condottiero invincibile, tanto da creare attorno a sé il mito dell’eroe dei due mondi. Se unitario sembrava lo scopo supremo, la libertà e l’indipendenza della patria, infinite erano però, e talvolta inconciliabili, le possibilità, le soluzioni proposte: dall’idea di una confederazione repubblicana di tipo svizzero, promossa dall’economista milanese Carlo Cattaneo (Parabiago 1801-Castagnola 1869), a quella di una confederazione di stati presieduta dal papa, sostenuta dal sacerdote piemontese Vincenzo Gioberti (Torino 1801-1852), autore del manifesto Del primato morale e civile degli Italiani, e capofila del cattolicesimo liberale e patriottico, il cosiddetto neoguelfismo. Nel 1848 il movimento di riforma costituzionale, sorprendentemente avviato dal nuovo pontefice Pio IX, divenne addirittura, dopo la rivolta antiaustriaca di Milano nelle cosiddette Cinque Giornate, una guerra degli stati italiani contro l’Austria: la prima guerra di indipendenza, nella quale però rimase da solo il Regno di Sardegna, sconfitto nel 1849, mentre negli altri stati, dopo gli eroici episodi di resistenza di Roma e Venezia, infieriva la reazione. La lungimirante guida del nuovo ministro piemontese, Camillo Benso conte di Cavour, seppe nel decennio successivo creare una convergenza di interessi internazionali intorno alla questione italiana, per cui la seconda guerra di indipendenza (1859), con l’appoggio della Francia di Napoleone III, fu un successo, e portò alla conquista o all’annessione di lì a poco di tutto il Nord Italia (tranne il Veneto, Trento e Trieste), e della Toscana. Era un’Italia a metà. Mancavano il Regno delle due Sicilie e lo Stato Pontificio. Fu allora Garibaldi, con l’appoggio segreto del Piemonte, a prendere da solo l’iniziativa, e a conquistare l’intero regno meridionale con l’impresa dei Mille, condotta all’inizio con poco più di mille volontari sbarcati a Marsala, un’armata eterogenea di poeti romantici, ufficiali e soldati irregolari, avventurieri e patrioti, idealisti e affaristi, che a poco a poco in Sicilia divennero un esercito popolare (favorito dall’aristocrazia siciliana ostile ai



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Borboni di Napoli) che travolse l’esercito regolare borbonico (1860). A Garibaldi trionfatore e dittatore a Napoli accorsero Mazzini e Cattaneo. Tutto era stato troppo veloce, e tutto sembrava ancora possibile: la repubblica, la libera confederazione di stati in cui lo sviluppo di parti così diverse del paese fosse possibile senza lo sfruttamento delle risorse di una parte a favore di un’altra. Ma così non fu. Il re di Sardegna, Vittorio Emanuele, invadendo Marche e Abruzzi scese precipitosamente nel Sud, per farsi salutare re d’Italia da Garibaldi (nel leggendario incontro di Teano), mentre Cavour affrettava il processo dei plebisciti popolari che decretavano l’annessione. Il 17 marzo 1861, a Torino, nasceva il Regno d’Italia. Il secolo era iniziato con le pagine dell’Ortis, e quelle altrettanto intense del Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 (1800) di Vincenzo Cuoco (Civitacampomarano 1770-Napoli 1823), coinvolto nella rivoluzione napoletana del 1799 e scampato al massacro dei patrioti giacobini dopo il ritorno dei Borboni. Con uno stile talvolta lapidario Cuoco traccia una lucida analisi del fallimento rivoluzionario. Negli anni successivi si interroga sulla questione dell’identità italiana, e del primato della sua civiltà, nel Platone in Italia (1806), curioso romanzo epistolare che segue un viaggio immaginario del filosofo greco in un’Italia antica che rispecchia l’Italia contemporanea. In effetti, il tema del confronto fra italiani e stranieri era vivissimo in un tempo in cui per la prima volta il sistema degli stati regionali, con i suoi confini che sembravano immutabili, era stato superato, e si tornava a parlare di una possibile unificazione della penisola. Ma la cultura italiana sembrava, ai contemporanei e soprattutto agli stranieri, inglesi e francesi, già profondamente immersi nella temperie del romanticismo, ‘attardata’, legata ancora ai modi del classicismo e dell’ultima Arcadia. Fu così che all’indomani della Restaurazione, nel 1816, un’intelligente intellettuale ginevrina, grande animatrice di cultura nei salotti europei, Germaine Necker madame de Staël (1766-1817) decise di intervenire sulla questione del ‘ritardo’ italiano, pubblicando un articolo sulla rivista milanese “Biblioteca italiana” intitolato Sulla maniera e utilità delle traduzioni, in pratica un’esortazione agli italiani a ‘svecchiare’ la propria poesia cominciando a tradurre la poesia romantica contemporanea, inglese e tedesca. La de Staël non era nuova a questo tipo di interventi ‘interculturali’. Il suo interesse per l’Italia era fortissimo, a seguito del solito Grand Tour nel nostro paese, e della composizione del romanzo Corinne ou de l’Italie (‘Corinne, o dell’Italia’)(1807), la cui eroina Corinne allude ad una celebre figura femminile dell’Italia del Settecento, la spregiudicata poetessa improvvisatrice Corilla. Ma non era inferiore la passione per la cultura tedesca, espressa nelle tradu-

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zioni da Schlegel e nel De l’Allemagne (‘della Germania’)(1813), affermazione del primato contemporaneo della nazione tedesca e del romanticismo. In genere, gli interventi della de Staël ebbero vasta eco in Europa: ne fu influenzato soprattutto il suo compatriota ginevrino Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi, che nella grande Histoire des républiques italiennes du Moyen Age (‘storia delle repubbliche italiane del Medioevo’)(1807-1818) cercò di approfondire le cause della ‘decadenza’ italiana, individuandole nella presenza della Chiesa Cattolica e nella perdita della libertà politica alla fine del Rinascimento. La rivista che accolse l’articolo della de Staël, la “Biblioteca italiana”, era nata nello stesso anno 1816, favorita dal governo austriaco, per raccogliere gli intellettuali che erano stati talvolta critici contro il precedente regime, soprattutto in nome di un recupero dell’italianità contro l’eccessiva ingerenza francese. Diretta da Giuseppe Acerbi, ebbe all’inizio la collaborazione di illustri letterati come Monti e il classicista Pietro Giordani (Piacenza 1774Parma 1848), e proprio il Giordani guidò la riscossa dei classicisti fedeli alla tradizione italiana (significativa ad esempio la difesa della mitologia classica, ripresa ancora dal Monti nel più tardo sermone Della mitologia, 1825), e sicuri del suo primato contro la nuova moda romantica. Fu proprio il tono eccessivo di quella risposta a spingere alcuni giovani intellettuali a prendere le difese della de Staël, e a riconoscere la giustezza delle sue osservazioni, e a riconoscersi anch’essi in quella definizione di ‘romantici’. La simultanea pubblicazione, in quel decisivo 1816, di diversi interventi contro e a favore della de Staël e della poesia romantica può essere considerato (quasi vent’anni dopo la pubblicazione di “Athenäum” in Germania) l’inizio del dibattito fra classici e romantici in Italia. La poesia romantica come espressione vera e sincera del sentimento viene così subito difesa dall’aristocratico piemontese Ludovico Di Breme (Torino 1780-1820), nel saggio Intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani (1816), e da Pietro Borsieri (Milano 1788-Belgirate 1852) nelle Avventure letterarie di un giorno (1816). Giovanni Berchet (Milano 1783-Torino 1851) raccolse immediatamente l’invito della de Staël, tradusse due celebri ballate di Bürger, il Cacciatore feroce e l’Eleonora, e le accompagnò ad una Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo (1816), in cui presentava (con un tono ironico che ricorda Sterne e un certo Foscolo, ma anche con grande chiarezza divulgativa) i caratteri fondamentali della poesia moderna, che deve essere “popolare”, cioè espressione del vasto ceto medio borghese a metà strada tra la barbarie del selvaggio ‘ottentotto’ e l’eccessiva civilizzazione del ‘parigino’. Berchet ha una precisa coscienza del rapporto tra intellettuale e pubblico, ed è questo che gli fa definire senza appello il classicismo “poesia de’ morti” (“imitazio-



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ne dell’imitazione”), e il romanticismo “poesia de’ vivi” (“imitazione della natura”): fino a farsi egli stesso poeta romantico, con il poema I profughi di Parga (1820), e con una vita errabonda di carbonaro esule per l’Europa. Una letteratura dunque non sganciata dalla realtà politica e sociale, o perduta nella contemplazione dell’infinito o del sublime, ma intensamente impegnata nella lotta patriottica. È questo uno dei caratteri fondamentali del romanticismo italiano: l’impegno morale e politico, che comporta in fondo una sorta di continuità con le istanze più elevate dell’illuminismo lombardo, in particolare con il magistero di Parini. E non è un caso che la guida del movimento romantico in Italia sia assunta proprio da Milano, erede di quella tradizione. Sicuramente è un romanticismo ‘moderato’, rispetto agli eccessi irrazionalistici e sentimentali di quello tedesco, come si rileva nelle Idee elementari sulla poesia romantica (1818) di Ermes Visconti (Milano 1784-Crema 1841). La sua attenzione alla realtà, al ‘vero’, all’insegnamento morale, lo rendono naturalmente portato alla conoscenza storica, orientata da un’ideologia ottimistica di sviluppo della civiltà, che corrisponde alla contemporanea idea di progresso. L’articolo del Visconti era stato pubblicato su un’altra rivista milanese, “Il Conciliatore” (1818-1819), che era diventata rapidamente l’organo di comunicazione culturale rivale della conservatrice “Biblioteca italiana”, e che intendeva ricollegarsi idealmente alla celebre rivista degli illuministi lombardi del Settecento, “Il Caffè”. Il suo indirizzo politico era di tipo liberale, e questo contribuì all’identificazione, nelle generazioni successive, di patriottismo e romanticismo. Con la direzione di Silvio Pellico e l’appoggio di Luigi Porro Lambertenghi e Federico Confalonieri, vi collaborarono i vari ‘romantici’ come Borsieri e Di Breme. Ma fu illusione di breve durata. La censura austriaca sospese le pubblicazioni, e nel 1820 molti dei suoi collaboratori furono arrestati con l’accusa di cospirazione. Silvio Pellico (Saluzzo 1789-Torino 1854) fu addirittura condannato a morte (1822), pena commutata nel carcere duro scontato nella terribile fortezza boema dello Spielberg, fino al 1830. Dopo la liberazione, Pellico raccontò le sue vicende nel memoriale Le mie prigioni (1832), che divennero il libro italiano più diffuso in Europa. Lo stile era volutamente semplice, asciutto, spogliato d’ogni enfasi retorica. Pellico non chiedeva vendetta, ma manifestava l’accettazione cristiana della vittima innocente, senza alcun astio o risentimento contro i carnefici, vittime anche loro di un sistema perverso di oppressione dell’uomo. E proprio per questo il suo libro (campione di quella variante moderna del genere autobiografico che è la memorialistica) fu l’atto di accusa più forte contro la repressione austriaca, e un potente e involontario mezzo di propaganda patriottica.

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Le riviste milanesi del primo Ottocento sono anche il segno del forte cambiamento avvenuto nel mondo degli intellettuali, dopo la fine dell’Antico Regime. Ormai, nella moderna società borghese, l’intellettuale, lo scrittore, il poeta, deve trovare da sé i propri mezzi di sussistenza. Da un lato resta la collocazione tradizionale nelle strutture dell’insegnamento, nella scuola o nell’università: e bisogna dire che si trattava di una collocazione sentita quasi come una ‘missione’, un alto impegno civile, sia a livello di base (l’educazione di popolazioni in larga parte analfabete) che a livello più elevato (la formazione di una coscienza patriottica). Ad esempio, coinvolto per molti anni nell’insegnamento fu il più europeo degli intellettuali milanesi dell’epoca, Carlo Cattaneo (Milano 1801Svizzera 1869), esperto di economia e questioni industriali, appassionato sostenitore del federalismo e ostile ad un’unità d’Italia fatta dall’annessionismo sabaudo, esule in Francia e in Svizzera. Cattaneo promosse anche la rivista che a Milano raccolse l’eredità del “Conciliatore”, “Il Politecnico” (1839-1844), cui si affiancò la “Rivista europea” (1838-1847) dell’amico Carlo Tenca (Milano 1816-1883), critico militante autore del saggio Delle condizioni della odierna letteratura in Italia (1846), che è tra i primi a testimoniare la nascita dell’industria editoriale moderna, e le problematiche che il nuovo sistema di produzione, spesso asservito a logiche di mercato, comportava su autori e scrittori, sempre di più condizionati nelle loro scelte artistiche, stilistiche, linguistiche, da ragioni di ‘vendibilità’ del prodotto-libro. Come s’è visto, importanti erano le nuove opportunità offerte dal giornalismo culturale, tra riviste, fogli periodici, gazzette. Lo scrittore legato a questi ambienti deve rinunciare alla tranquillità senza tempo della propria ‘torre d’avorio’, deve indovinare e anticipare i desideri del pubblico. Tra l’altro, un’importante forma di diffusione delle opere letterarie, sia poesie che prose narrative, avviene ora sulle pagine dei giornali, su quei ‘supplementi’ culturali periodici che vengono chiamati in Francia feuilletons, e che spesso presentano, a puntate, perfino i romanzi. L’importante era diffondere la lettura, la conoscenza, la libera circolazione delle idee, soprattutto quelle provenienti dagli altri paesi europei, e questa fu la finalità principale dello svizzero Gian Pietro Vieusseux, fondatore a Firenze di un Gabinetto scientifico-letterario (ancor oggi esistente a Palazzo Strozzi), dove era possibile leggere libri stranieri, e soprattutto giornali e periodici, punto di riferimento dei viaggiatori europei che facevano tappa a Firenze, ma anche degli intellettuali toscani di ispirazione cattolica-liberale, dal marchese Gino Capponi al classicista Giambattista Niccolini. Anche in questo caso, suo organo di comunicazione fu una rivista, l’“Antologia” (1821-1833), che ebbe tra i suoi



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redattori Giuseppe Montani e Niccolò Tommaseo, e svolse un’azione parallela a quella delle riviste milanesi. Fervido anche il panorama intellettuale a Napoli, agognata meta del Grand Tour per generazioni di artisti e scrittori romantici europei, provenienti dai paesi più lontani, dalla Russia alla Danimarca. Pochi altri luoghi in Italia e nel mondo presentavano tale incomparabile accostamento di Civiltà e Natura, di sublime e pittoresco. Pompei ed Ercolano offrivano un magico ritorno nel passato degli Antichi, e il Museo Archeologico era in grado di rivaleggiare con le raccolte del British Museum. Presso l’Officina dei Papiri si tentava di leggere gli oltre mille rotoli di papiro trovati ad Ercolano, una biblioteca filosofica di scuola epicurea pervenuta quasi intatta dall’antichità. Napoli era inoltre la capitale europea della musica e del melodramma, con il celebre teatro San Carlo, e la presenza quasi contemporanea dei più grandi musicisti italiani, Gioacchino Rossini, Vincenzo Bellini e Gaetano Donizetti. La politica protezionistica dei Borboni attirò ingenti capitali stranieri (inglesi, francesi, svizzeri, belgi), che favorirono l’inizio della rivoluzione industriale nella capitale, e alcune sensazionali novità tecnologiche: la prima ferrovia italiana, da Napoli a Portici (1839), il primo piroscafo a vapore (1818), la prima linea telegrafica elettrica (1818). Si sviluppava una classe media e imprenditoriale, i cui interessi culturali erano riflessi in un variegato panorama di riviste, il più ricco d’Italia, in cui emerge “Il Progresso” (1832-1846), di orientamento moderatamente liberale, guidato da Giuseppe Ricciardi e Saverio Baldacchini. Era un panorama dal quale però era bandito qualunque impegno politico e civile, sospetto al regime borbonico. La scuola e l’università erano ancora saldamente in mano agli ecclesiastici e ai Gesuiti, e l’editoria controllata dalla censura. Per questo motivo, perfino una scuola laica privata di stampo classicistico, quale era quella del marchese Basilio Puoti, legato al purismo dell’abate Cesari, poteva sorprendentemente a Napoli esercitare un’involontaria funzione di ‘scuola di libertà’, di fucina delle nuove coscienze italiane, con la semplice e rigorosa lettura dei testi dei grandi classici, da Dante all’Alfieri. Una scuola che avrebbe visitato lo stesso Leopardi, e da cui sarebbe uscito Francesco De Sanctis. Nel generale rinnovamento del sistema dei generi scatenato dal romanticismo, il romanzo è probabilmente la forma che registra in modo più profondo le veloci trasformazioni contemporanee, nel passaggio dal romanzo filosofico o dal romanzo avventuroso del Settecento a tutte le varie tipologie del romanzo moderno, dal romanzo gotico e fantastico e ‘nero’ al romanzo

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storico. Il romanzo storico è quello che ha la prima e immediata fortuna nel romanticismo italiano, grazie all’esempio dei Promessi sposi del Manzoni, che mediano in Italia il filone europeo, rappresentato all’inizio da Walter Scott, e poi da Alexandre Dumas. Dopo il 1827 è un’alluvione di romanzi storici, portatori anche di messaggi patriottici risorgimentali più o meno velati: tutti gli episodi della storia italiana in cui qualcuno coraggiosamente aveva preso le armi contro lo straniero diventavano figura allegorica del presente. Il tutto in un’ambientazione storica che raramente arrivava ai vertici di precisione e di documentazione raggiunti dal Manzoni: più spesso era un Medioevo di maniera, come nel Marco Visconti (1834) di Tommaso Grossi (Bellano 1790-Milano 1853), autore anche di una celebrata novella in versi, l’Ildegonda (1820), e del poema I lombardi alla Prima Crociata (1826); o nella tenebrosa Margherita Pusterla (1838) di Cesare Cantù (Como 1804-Milano 1895), o nel Castello di Trezzo di Giovan Battista Bazzoni (Novara 1803-Milano 1850). Eroe risorgimentale diventava così anche uno dei condottieri del Rinascimento, l’Ettore Fieramosca ossia la disfida di Barletta (1833) di Massimo d’Azeglio (Torino 1798-1866), genero del Manzoni e uomo politico del Risorgimento, autore anche di un’interessante autobiografia (I miei ricordi ). Nel complesso, al romanzo italiano arrideva successo di pubblico (come era avvenuto per i Promessi sposi ), ma esso stentava a tenere il passo con la grande narrativa europea, che negli stessi anni sviluppa un’eccezionale attenzione alla realtà sociale e psicologica contemporanea, col genere del romanzo realistico, da Rosso e nero di Henry Beyle (più noto con lo pseudonimo di Stendhal) alla Comédie humaine di Honoré de Balzac, da Circolo Pickwick e Tempi difficili di Charles Dickens a Les Misérables di Victor Hugo. A Napoli c’è l’unico e precoce tentativo di romanzo sociale, Ginevra o l’orfana della Nunziata (1839) di Antonio Ranieri (Napoli 1806-1888): vi si presenta un’orfana dell’ospedale napoletano dell’Annunziata, che racconta in prima persona la sua vita infelice. Un libro sicuramente imperfetto, infarcito di digressioni filosofiche improbabili per una povera e ignorante fanciulla del popolo, che addirittura ha letto La ginestra leopardiana ancora inedita; ma che riflette l’interesse per la tematica sociale e le condizioni delle classi subalterne, e in particolare della donna, a Napoli negli anni Trenta, da parte di un intellettuale che era stato vicinissimo a Leopardi. Le due più importanti novità nel genere romanzo giungono da due scrittori provenienti da aree culturali per così dire marginali. Il primo è Niccolò Tommaseo (Sebenico in Dalmazia 1802-Firenze 1874), avventuroso e mobile patriota dalmata di formazione cattolica, giornalista e collaboratore editoriale a Milano (in quest’ambito sviluppò una profonda competenza



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linguistica e lessicografica, con la compilazione di diffusissimi dizionari), acerrimo nemico di Leopardi, attivo poi a Firenze, in Francia, e soprattutto a Venezia, dove partecipò all’effimera illusione della Repubblica Veneziana del 1848-1849. Tommaseo riprese dall’ideologia romantica l’attenzione per il patrimonio culturale e antropologico popolare, come testimonia la sua importante raccolta dei Canti popolari greci, illirici, corsi e toscani (1842), tradotti modernamente in prosa poetica. Ma la sua opera più significativa fu il romanzo Fede e Bellezza (1840), di ambientazione contemporanea, in cui raccontava la vita privata di uno scrittore esule in Francia, sospeso tra romantici slanci ideali e frustrazioni di banali necessità quotidiane, tra la pulsione dell’amore assoluto e la vicenda triste della relazione con una povera sventurata che poi muore pure di tisi. È un affresco modernissimo, realizzato con acuta analisi psicologica (una sorta di anatomia delle passioni e dei sentimenti); un’opera plurigenere e sperimentale, che accoglie all’interno del tessuto narrativo testi di varia natura: lettere ed epistolari, diari, memorie. Ancora più avanti va Ippolito Nievo (Padova 1831-Mar Tirreno 1861), figlio di un magistrato di nobili origini, legatissimo, per la lunga dimora durante l’infanzia e l’adolescenza, alla dimora nobiliare della famiglia della madre, il castello di Colloredo in Friuli: un mondo incantato, che sarà evocato nella sua opera maggiore. Democratico e mazziniano nel ’48, giornalista e scrittore attivissimo, partecipa alla guerra del ’59 e all’impresa dei Mille con Garibaldi, ma scompare tragicamente nel Tirreno, nel naufragio della sua nave. Nievo aveva già dato prove di una notevole capacità di scrittura narrativa, che andava dal versante delle novelle campagnole ambientate in Friuli (Il Varmo 1856, Novelliere campagnuolo) a quello del romanzo storico (Il conte pecoraio 1857; Angelo di bontà 1856; Il Barone di Nicastro 1857). A quel punto, l’intuizione del capolavoro, la fusione del romanzo storico con il memoriale autobiografico, dell’individuale con il collettivo, del privato e del pubblico, della microstoria e della macrostoria (come prima aveva saputo fare solo Manzoni), nello straordinario ritratto dell’evoluzione della società italiana nel passaggio dall’Antico Regime al Risorgimento. Il romanzo Le confessioni di un italiano (1857-1858, ed. postumo nel 1867) è la finta autobiografia del protagonista, Carlino Altoviti, che a 83 anni rivede tutta la sua vita, a partire dalla nascita nel 1775 fino all’anno 1858. Scritto di getto, un migliaio di pagine in otto mesi, abbandona il modello linguistico manzoniano (quello del fiorentino medio) per diffondersi, senza pregiudizi, in uno stile immediato, spesso colloquiale, aperto alla lingua d’uso settentrionale, di Veneto e Lombardia, seguendo un cammino inverso a quello percorso da Manzoni.

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Quasi un romanzo a sé è tutta la parte iniziale, la rievocazione memoriale e favolosa dell’infanzia nel castello friulano di Fratta, che riprende quello reale di Colloredo. Lo stile e la modalità di rappresentazione cambia seguendo i cambiamenti del protagonista. La sua vita (è lo schema dell’Ortis) scorre sulla duplice polarità Patria-Amore. Da un lato il continuo coinvolgimento di Carlino su tutti i fronti rivoluzionari, dalla Napoli del 1799 alla Repubblica Veneziana del ’48; e anche il figlio Giulio si è sacrificato per gli stessi ideali, andando a morire in Argentina. Dall’altro la lunghissima e contrastata storia d’amore con la cugina Pisana: e qui emerge l’eccezionale modernità (scandalosa a quei tempi) con cui Nievo tratteggia la figura femminile, libera e capricciosa, ma soprattutto dotata di uno spirito attivo di iniziativa che Carlino non ha. Carlino, sincero patriota, non è un eroe alfieriano o foscoliano, non è un martire. È un uomo ‘normale’, con le sue debolezze, le sue difficoltà, in cui più facilmente può proiettarsi il suo pubblico ‘borghese’. Forse, per Nievo, era necessario che fosse così. La figura di Carlino non giganteggia isolata, ma attraverso un mondo fatto di coralità infinita, di una molteplicità di personaggi. Per questo, tanto più intenso è il suo ‘romanzo di formazione’, perché diventa ‘romanzo di formazione’ di un popolo, di una nazione. Aspirazioni che erano le stesse, in fondo, della poesia del Risorgimento, a partire dalle prove di Manzoni e Grossi. Una poesia che poteva limitarsi alla satira comico-realistica della situazione politica contemporanea, su un orizzonte sostanzialmente moderato, cattolico-liberale, come in Giuseppe Giusti (Monsummano 1809-Firenze 1850); o scegliere la via dell’inno, della canzone politica accesa di passione, come nel canto di Goffredo Mameli (1827-1849) diventato inno italiano, Fratelli d’Italia (1847). L’impegno politico venne meno però nella lirica, dove maggiore fu l’influsso di una certa poesia romantica europea, soprattutto tedesca, incline al sentimentalismo svenevole e morboso, all’effusione sdolcinata e lacrimosa dei sentimenti d’amore, come in Aleardo Aleardi (Verona 1812-1878), e Giovanni Prati (Trento 1814-Roma 1884), autore tra l’altro di una celebre novella in versi, Edmenegarda (1841), che mette in scena uno scandalo borghese contemporaneo. Ben altri sono i risultati raggiunti dalla poesia dialettale nella rappresentazione della realtà sociale contemporanea, in alcune grandi città italiane dove cominciavano a farsi sentire i segni del cambiamento. A Milano vive e lavora Carlo Porta (Milano 1775-1821), un modesto impiegato statale con la passione della poesia dialettale, che si ricollega alla gloriosa tradizione ‘meneghina’ dei Maggi e dei Balestrieri. Tra lui e quella tradizione, però, è



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passato l’illuminismo, è passata la rivoluzione, con tutta la consapevolezza del disagio della società e delle ingiustizie sociali e culturali ai danni delle classi popolari; e c’è stato Parini, con la sua alta missione educativa, e l’invito a scrivere poesia moralmente e civilmente ‘utile’. Porta sceglie la strada del ritratto di alcune figure del popolo che, in prima persona, raccontano la loro vita e rivelano il proprio stato, spesso triste e disperato: l’operaio Giovannin Bongee, angariato e vessato da tutti (Desgrazzi de Giovannin Bongee, 1812; Olter desgrazzi de Giovannin Bongee, 1813); la prostituta Ninetta, che ripercorre la vicenda che l’ha portata, povera orfana e pescivendola, vittima di persone senza scrupoli, a vendere il proprio corpo nella zona malfamata del Verziere, presso San Lorenzo e la Porta Ticinese (La Ninetta del Verzee, 1814); il ciabattino storpio Marchionn, innamorato di una donna perfida e prepotente, che si fa sposare per sottrargli tutti i suoi poveri averi e poi abbandonarlo, nella miseria e nella solitudine (Lament del Marchionn di gamb avert, 1816). Eroi umili, quindi, che nella letteratura dell’Antico Regime sarebbero stati personaggi comici, destinati a suscitare il riso con il racconto delle loro disavventure, e soprattutto con l’uso del loro dialetto: e ora invece, abbandonate le movenze comiche, denunciano una realtà sbagliata, di violenza, di sfruttamento, prefigurando, nelle vicende individuali, situazioni che nelle generazioni successive sarebbero diventate di massa. La denuncia dell’ipocrisia perbenista si appuntò in seguito soprattutto contro le forme della religiosità bigotta, che mascherava, nell’età della Restaurazione, la rinnovata alleanza tra la Chiesa e le classi dominanti, come è possibile leggere in testi come On funeral (1816), La nomina del cappellan (1819), e La preghiera (1820). I personaggi che qui si oppongono agli umili sono repellenti figure di frati e preti interessati solo a soddisfare i bisogni corporali, e di vecchie aristocratiche che nelle loro preghiere ringraziano Dio di averle fatte nascere nobili, e non miserabili plebee. Porta vi raggiunge lo stile più alto e sapiente, nella polifonia di voci e lingue diverse (il milanese, l’italiano, il latino della Chiesa), in questo avvicinamento linguistico alle classi popolari che si ricollega ad una delle istanze del romanticismo (e che, per questo motivo, fu nel 1816 anche occasione di una violenta polemica col classicista Giordani, nemico non solo dei romantici ma anche dei dialetti). Nella Roma papalina, a differenza di Milano, l’orizzonte politico e morale sembrava invece immutabile, eterno, senza speranza. È questo lo sfondo della poesia di Giuseppe Gioacchino Belli (Roma 1791-1863), un funzionario pontificio diventato ultraconservatore e antiliberale dopo il ’48, al punto da nascondere nel privato più segreto la più grande passione della sua vita: un enorme amore per la sua Roma, il suo popolo, i suoi costumi e la sua

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vita, un amore che si riflette nella composizione (quasi clandestina) di oltre duemila sonetti in dialetto romanesco, un’opera che lo stesso autore definì “un monumento di quella che è oggi la plebe di Roma”. È una scrittura contraddittoria, quasi schizofrenica. La fedelissima riproduzione della vita, nei minimi dettagli, si accompagna ad un pessimismo amaro, alla sensazione che nella Città Eterna tutto è stato e sarà sempre uguale a se stesso: il potere temporale del Papa, l’anacronistica corte dei Cardinali, dei Prelati, dei Monsignori, il potere dei Signori, degli aristocratici della Nobiltà Nera, l’immobilismo delle classi sociali, la sudditanza e l’ignoranza e la superstizione degli umili, dell’infinita “plebe di Roma”. Terribile è la satira anticlericale, che non risparmia nemmeno il papa e i cardinali. Ma la vera grandezza del Belli, nella creazione di questo capolavoro (quasi del tutto sconosciuto al suo tempo), è la cancellazione del suo particolare punto di vista, per l’adozione integrale di quello della plebe. Belli guarda le cose con gli occhi del più infimo dei popolani di Roma. E le dice con le sue stesse parole, nell’ossessiva ripetizione di un’unica forma metrica (il sonetto) che diventa qualcosa di simile più a uno stornello popolare o a un epigramma di Marziale. Non dà alcun giudizio morale o sociale. È questo il suo realismo. Le immagini, le similitudini, le metafore, sono quelle dell’immaginario popolare: talvolta iperbolico, bizzarro, grandioso, barocco come le grandi architetture della Roma pontificia, come gli enormi angeli di marmo sulle facciate delle chiese e sul ponte di Castel Sant’Angelo, che sembrano animarsi “co le tromme in bocca” in Er giorno der giudizzio. Su tutto, forse anche ispirato dal trionfo funereo di questa Roma barocca e marmorea, un senso disperato della morte, di un buio privo di senso che attende le opere dell’uomo. “La morte è un passo che ve gela er core”, afferma Belli in La morte co la coda. Infine, nella letteratura del Risorgimento il teatro di ispirazione romantica giocò un ruolo decisivo nella diffusione della nuova sensibilità poetica e culturale, anche e soprattutto tra le classi medie e in parte popolari. Nel teatro drammatico di tipo tradizionale, dopo Alfieri e Foscolo e Manzoni, prevaleva l’ambientazione storica, esattamente come nel romanzo, rivolta in particolare verso le epoche sentite come più ‘romantiche’ (il Medioevo dantesco, sfondo alla Francesca da Rimini del Pellico, 1814), oppure verso quei momenti della storia italiana come il Rinascimento, in cui si erano verificati grandi episodi di eroismo o di rivolta contro gli stranieri. Era evidente, per il pubblico, il messaggio di tipo patriottico-risorgimentale, che però era sempre mescolato ai toni patetici e sentimentali di tragiche vicende private, talvolta rappresentate sulla scena anche nei momenti più terribili di violenza sanguinaria e di morte.



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Straordinario fu il successo del teatro musicale, del melodramma, soprattutto con l’evoluzione ottocentesca dei linguaggi musicali, che già in Bellini e Donizetti cominciano ad abbandonare la raffinatezza ripetitiva del bel canto per cercare di rendere un’espressione mobile e intensa ai sentimenti dei personaggi, su influenza della grande musica tedesca contemporanea (dal sinfonismo di Beethoven ai Lieder di Schubert e Schumann). Una rivoluzione che segna il declino della commedia musicale (dalla scuola napoletana a Rossini), e il trionfo della tragedia, dell’opera seria, naturalmente legata alla temperie romantica, quindi ambientata in scenari non più mitologici o greco-romani, ma nel solito Medioevo e nel Rinascimento, su soggetti tratti da autori romantici o cari ai romantici: Shakespeare, Schiller, Byron ecc. Scompare il recitativo, tutto è un fluire musicale in cui la musica prevale sul testo, sul libretto; e acquista maggiore importanza il coro, espressione dello ‘spirito popolare’, che esegue dei veri e propri ‘inni’ carichi di valori politici e civili. Il genio italiano ed europeo del melodramma fu allora Giuseppe Verdi (Roncole di Busseto 1813-Milano 1901). Asservita la parola poetica alla potenza dell’immaginazione musicale, Verdi guida direttamente i suoi librettisti nella scrittura dei testi (tra essi, all’inizio, si distingue solo la personalità di Francesco Maria Piave). Le prime opere sono la rappresentazione corale dell’ideale patriottico e romantico, proiettato sull’ambientazione storica della sofferenza del popolo ebraico deportato in Mesopotamia, che vagheggia la patria perduta della Palestina nel Nabucco (1842), intonando il coro immortale “Va pensiero sull’ali dorate”, che diventa una specie di inno risorgimentale; o ancora nella nostalgia per la patria espressa nel coro de I Lombardi alla Prima Crociata (1843, l’opera tratta dal fortunato poema del Grossi), “O Signore dal tetto natìo”. In seguito, Verdi tenderà piuttosto alla tragedia individuale, alla creazione del grande personaggio eroico, tragico e romantico, ispirato a Shakespeare e Schiller, un eroe in cui comincia però ad essere presente una vena oscura di dramma interiore, di irrisolto conflitto psicologico. Sarà questo il tempo di Ernani (1844), Macbeth (1847), Rigoletto (1848), Il Trovatore (1853), Simon Boccanegra (1857), Un ballo in maschera (1859), La forza del destino (1862), Don Carlos (1867). Di grande modernità, e scandalosa per il pubblico moralista, è l’unica opera di ambientazione contemporanea, il dramma di costume de La traviata (1853), la vicenda della splendida cortigiana innamorata e poi colpita dallo sventurato destino di morire di tisi, tratta dalla Signora delle Camelie di Alexandre Dumas figlio. Nel 1861 l’Unità d’Italia si era compiuta, e non era più un ideale. Il melodramma perdeva una parte della sua forza comunicativa profonda, e

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Verdi cominciava a sentire una crisi di ispirazione che avrebbe portato ad un lungo periodo di silenzio. Nel 1871 si concesse al gusto del Grand Opéra francese con l’Aida, drammone ambientato nell’antico Egitto con grandiosità di effetti scenografici, grande spettacolarità e musicalità rutilante ed esotica. Verdi era ormai il musicista ‘ufficiale’ chiamato per le occasioni pubbliche ‘nazionali’, come il Requiem nell’anniversario della morte di Alessandro Manzoni (1874), un capolavoro pervaso di inquietudini e sonorità nuove. L’incontro con il giovane e vivace poeta Arrigo Boito gli fece però ritrovare il gusto della creazione, l’ultimo colpo d’ala del genio verdiano, su due libretti che Boito trasse da Shakespeare, la cupa tragedia della gelosia dell’Otello (1887), e la favolosa leggerezza del Falstaff (1893). Verdi seppe meglio di chiunque altro realizzare la fusione di melodramma e ideale patriottico, creando parole e musica per le generazioni del Risorgimento, ed anzi, in un certo senso, contribuendo alla grande illusione collettiva e popolare che l’intero Risorgimento non fosse altro che una specie di grande melodramma, rappresentato sul teatro della storia, con una serie di personaggi del tutto tradizionali, per i quali era bello cantare e morire sulla scena: gli eroi indomiti, gli esuli ed i martiri, quelli che pagavano di persona (Garibaldi, Mazzini, Menotti, Pisacane), i re buoni e quelli inetti e tiranni (Carlo Alberto e Vittorio Emanuele, Francischiello e ‘Cecco Beppe’), gli astuti politicanti (Cavour), i ‘cori’ (i Mille, i Trecento di Sapri), le donne e gli amori (Anita, la spigolatrice di Sapri). Un paradigma tutto italiano, di donne, cavalieri, armi ed amori, che accese la passione politica di generazioni di italiani nell’impresa collettiva e confusa del Risorgimento, anche se non sempre diede loro la coscienza lucida (che pochi, come Cattaneo, meno melodrammatici, continuarono ad avere) delle mutazioni economiche e sociali e culturali e antropologiche che il processo unitario avrebbe comportato.

Bibliografia 5.1. Rivoluzioni e restaurazioni. 5.2. Il neoclassicismo. W. Binni, Preromanticismo italiano, Firenze, Sansoni, 1948, e Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento, Firenze, La Nuova Italia, 1976; M. Cerruti, Neoclassici e giacobini, Milano, Silva, 1969, e L’“inquieta brama dell’ottimo”. Pratica e critica dell’Antico (1796-1827), Palermo, Flaccovio, 1982; W. Binni, Monti poeta del consenso, Firenze, Sansoni, 1981. Rivista specializzata: “Studi sul Settecento e l’Ottocento”.



il primo ottocento

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5.3. Il romanticismo. M. Fubini, Romanticismo italiano, Bari, Laterza, 1971; M. Puppo, Poetica e critica del romanticismo, Milano, Marzorati, 1973; M. Pagnini, Il Romanticismo, Bologna, Il Mulino, 1986P. Fasano, L’Europa romantica, Firenze, Le Monnier, 2004. 5.4. Foscolo. Testi: Opere, Edizione nazionale, Firenze, Le Monnier, dal 1933 (cfr. in particolare l’Epistolario); Opere, a c. di M. Puppo, Milano, Mursia, 1974; a c. di E. Bottasso, Torino, UTET, 1992-1995; a c. di F. Gavazzeni, Torino, Einaudi-Gallimard, 19941995. Monografie: M. Cerruti, Introduzione a Foscolo, Roma-Bari, Laterza, 1990; M.A. Terzoli, Foscolo, Roma-Bari, Laterza, 2000; G. Nicoletti, Foscolo, Roma, Salerno, 2006. Studi: M. Fubini, Ugo Foscolo. Saggi, studi, note (1963), Firenze, La Nuova Italia, 1978; D. Isella, Lezioni su Foscolo, Firenze, La Nuova Italia, 1981; W. Binni, Ugo Foscolo. Storia e poesia, Torino, Einaudi, 1982; V. Masiello, I miti e la storia. Saggi su Foscolo e Verga, Napoli, Liguori, 1984; V. Di Benedetto, Lo scrittoio di Ugo Foscolo, Torino, Einaudi, 1990; O. Macrì, Semantica e metrica dei «Sepolcri» del Foscolo, Roma, Bulzoni, 1995; P. Frare, L’ ordine e il verso. La forma canzoniere e l’istituzione metrica nei sonetti del Foscolo, Napoli, ESI, 1995; L. Caretti, Foscolo: persuasione e retorica, Pisa, NistriLischi, 1996; M. Palumbo, Saggi sulla prosa di Ugo Foscolo, Napoli, Liguori, 2001; Dei Sepolcri di Ugo Foscolo, a c. di G. Barbarisi e W. Spaggiari, Milano, Cisalpino, 2006; M.A. Terzoli, Con l’incantesimo della parola. Foscolo scrittore e critico, Roma, Storia e Letteratura, 2007; A. Bruni, Foscolo traduttore e poeta. Da Omero ai «Sepolcri», Bologna, CLUEB, 2008; F. Danelon, «A egregie cose». Studi sui «Sepolcri» di Ugo Foscolo, Venezia, Marsilio, 2008. 5.5. Il Risorgimento. G. Pécout, Il lungo Risorgimento. La nascita dell’Italia contemporanea (1770-1922), Milano, Bruno Mondadori, 1999; M. Berengo, Cultura e istituzioni nell’Ottocento italiano, Bologna, Il Mulino, 2004; A.M. Banti, Il Risorgimento italiano, Roma-Bari, Laterza, 2008. Antologie: Poeti minori dell’Ottocento, vol. I, a c. di L. Baldacci, Milano-Napoli, Ricciardi, 1958; G. Contini, Letteratura italiana del Risorgimento, Firenze, Sansoni, 1986. Studi: M. Fubini, Romanticismo italiano, Bari, Laterza, 1971; S. Battaglia, Romanticismo italiano, Napoli, Liguori, 1983; E. Raimondi, Romanticismo italiano e romanticismo europeo, Milano, Bruno Mondadori, 1997; S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa, Nistri-Lischi, 1969; C. Dionisotti, Appunti sui moderni. Foscolo, Leopardi, Manzoni e altri, Bologna, Il Mulino, 1988. - N. Tommaseo, Fede e bellezza, a c. di G. Tellini, Milano, Garzanti, 2006; a c. di D. Martinelli, Parma, Guanda, 1997; Scintille, a c. di F. Bruni, ivi 2008. Cfr. Niccolò Tommaseo tra modelli antichi e forme moderne, a c. di G. Ruozzi, Bologna, GEDIT, 2008.

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- I. Nievo, Opere, a c. di G. Rugarli, Roma, Ist. Poligrafico dello Stato, 1995; Confessioni d’un Italiano, a c. di S. Romagnoli, Venezia, Marsilio, 1998; a c. di S. Casini, Parma, Guanda, 1999; a c. di M. Gorra, Milano, Mondadori, 2007; Novelliere campagnuolo, a c. di A. Nozzoli, Milano, Mursia, 1994. Cfr. G. Maffei, Ippolito Nievo e il romanzo di transizione, Napoli, Liguori, 1990; U.M. Olivieri, Narrare avanti il reale. Le “Confessioni d’un Italiano” e la forma romanzo nell’Ottocento, Milano, Angeli, 1990 e L’idillio interrotto. Forma-romanzo e i «generi intercalari» in Ippolito Nievo, ivi, 2002; M. Gorra, Ritratto di Nievo, Firenze, La Nuova Italia, 1991; M. Colummi Camerino, Nievo, Roma-Bari, Laterza, 1991; A. Di Benedetto, Ippolito Nievo e altro Ottocento, Napoli, Liguori, 1996; B. Falcetto, L’ esemplarità imperfetta. Le «Confessioni» di Ippolito Nievo, Venezia, Marsilio, 1998; C. Gaiba, Il tempo delle passioni. Saggio su «Le confessioni d’un italiano» di Ippolito Nievo, Bologna, Il Mulino, 2002. - C. Porta, Poesie, a c. di D. Isella, Milano, Mondadori, 2000. Cfr. D. Isella, Carlo Porta. Cinquant’anni di lavori in corso, Torino, Einaudi, 2003. - G.G. Belli, Sonetti, a c. di G. Vigolo, Milano, Mondadori, 1978. Cfr. M. Teodonio, Belli, Roma-Bari, Laterza, 1992; E. Ripari, Giuseppe Gioachino Belli. Un ritratto, Napoli, Liguori, 2008. - G. Verdi, Tutti i libretti, a c. di L. Baldacci, Milano, Garzanti, 1975. Cfr. P. Mioli, Il teatro di Verdi, Milano, Rizzoli, 1997; R. Belenghi, Giuseppe Verdi, Napoli, Liguori, 2007; M. Conati, Giuseppe Verdi. Guida alla vita e alle opere, Pisa, ETS, 2003. Sulla librettistica: L. Baldacci, I libretti d’opera, Firenze, Vallecchi, 1974; M. Lavagetto, Quei più modesti romanzi. Il libretto nel melodramma di Verdi, Milano, Garzanti, 1979; D. Goldin, La vera fenice. Librettisti e libretti tra Sette e Ottocento, Torino, Einaudi, 1985; Libretti d’opera italiani (dal Seicento al Novecento), a c. di G. Gronda e P. Fabbri, Milano, Mondadori, 1997.

6. Leopardi

6.1. La vita Figlio del conte Monaldo Leopardi e di Adelaide Antici, Giacomo Leopardi nacque a Recanati il 29 giugno 1798, primo di altri nove fratelli (ben cinque però morirono in tenerissima età). Era una famiglia di piccola nobiltà provinciale dello Stato Pontificio, per di più rovinata dall’incapacità gestionale di Monaldo, cui pose riparo Adelaide, energica, bigotta, severissima, quasi incapace di gesti d’amore nei confronti dei figli. A fronte delle ristrettezze economiche, Monaldo coltivava qualche ambizione culturale, riflessa nella formazione di una ricca biblioteca, e nell’educazione dei figli, in particolare il prediletto Giacomo, su cui proiettava i propri sogni di gloria letteraria. All’inizio una fanciullezza quasi normale: Giacomo era un bambino “compiacente e lezioso da piccolo ma terribile nell’ira e per la rabbia”, amante di giochi e scherzi e battaglie nel giardino con i fratelli, goloso e ghiotto di dolci. Poi, lentamente, l’ossessione pedagogica del padre lo stringe in una deformante prigione psicologica, che trasforma in una prigione volontaria anche la sua stessa casa, e la biblioteca (aperta al pubblico nel 1812, ma non frequentata da nessuno). Al di fuori di quella casa, un orizzonte chiuso e ristretto, un paese, Recanati, “natio borgo selvaggio” (Le ricordanze, v. 30), una gente nei confronti della quale Giacomo sente solo avversione e disprezzo, e dalla quale sarà ricambiato col nomignolo “il gobbo de Leopardi”. Si alternano vari precettori privati (tutti preti o ex-gesuiti), ma il vero magister è il padre, alfiere di una cultura reazionaria e clericale di fronte al quale il ragazzo deve sostenere gli esami, e che ne segue le letture e i progressi sorprendenti, spesso da autodidatta (ad esempio, nell’apprendimento del greco e dell’ebraico). A partire dagli undici anni Giacomo scrive le sue prime composizioni poetiche e letterarie, e dal 1814 si concentra in severi studi filologici ed eru-

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diti. Nel 1815 si schiera a favore della Restaurazione, contro Murat sconfitto a Tolentino, nel discorso Agl’Italiani. Orazione in occasione della liberazione del Piceno, e comincia nel 1816 a pubblicare i suoi primi articoli filologici sulla rivista milanese “Lo Spettatore italiano e straniero”. Cerca anche di farsi pubblicare dalla prestigiosa “Biblioteca italiana”, ma senza successo, una lettera di risposta al celebre articolo di Madame de Staël, con la quale voleva intervenire, giovanissimo, nel dibattito fra classici e romantici. Nello stesso anno avviene quella che Giacomo chiama “conversione letteraria”, cioè il passaggio dalla pura erudizione filologica alla poesia e al bello. E nella sua esistenza entra anche, con prepotenza, la prima forte passione, erotica e proibita: quella per la ventiseienne cugina del padre, già sposata e madre, Gertrude Cassi Lazzari, sensuale figura di donna marchigiana, “alta e membruta quanto nessuna donna ch’io m’abbia veduta mai, di volto però tutt’altro che grossolano, lineamenti tra il forte e il delicato, bel colore, occhi nerissimi, capelli castagni, maniere benigne, e, secondo me, graziose”. Gertrude si ferma a Recanati solo tre giorni (11-14 dicembre 1817), e con Giacomo scambia poche conversazioni. Per il giovane prigioniero è invece una tempesta tutta interiore, riflessa nel Diario del primo amore, e nelle prime due Elegie. Una tempesta dopo la quale emerge in modo ancora più drammatico l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, compromesse per sempre dalla malformazione ossea e da problemi di vista. “Io mi sono rovinato con sette anni di studio matto e disperatissimo in quel tempo che mi s’andava formando e mi si doveva assodare la complessione. E mi sono rovinato infelicemente e senza rimedio per tutta la vita, e rendutomi l’aspetto miserabile”: così scrive il 2 marzo 1818 a Pietro Giordani, che nel settembre scende a Recanati per conoscere questo suo giovane corrispondente, e per invitarlo a scrivere una poesia di magistero civile, fondata sui modelli della tradizione classica e italiana: invito che Giacomo raccoglie subito, nelle prime canzoni All’Italia e Sopra il monumento di Dante, spinto dall’ansia indeterminata di ‘fare’ qualcosa di grande per l’Italia, in un momento di grigiore, di ripiegamento, di delusione senza speranza. Nel luglio 1819 l’immenso desiderio di libertà gli ispira anche un tentativo di fuga da Recanati, sventato dal padre. Nascono i primi idilli, e altre canzoni, mentre avviene la “conversione filosofica”, passaggio dalla condizione ‘antica’ (dominata dalla fantasia creatrice di poesia) alla condizione ‘moderna’ (segnata dalla scoperta della ‘verità’, cioè della vanità della vita e di ogni illusione, l’abbandono della fede cristiana e l’adesione ad una concezione materialistica). Finalmente, il 17 novembre 1822, la prima vera ‘fuga’ da Recanati: un soggiorno di cinque mesi a Roma, presso lo zio Carlo Antici, che si rivelerà



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però una grande delusione, tranne pochi momenti importanti, come la visita alla tomba del Tasso a Sant’Onofrio, e gli incontri con alcuni eruditi stranieri come il Niebuhr. A Roma cominciano i frustranti tentativi (proseguiti negli anni successivi) di trovare un qualunque impiego che gli desse l’indipendenza economica dalla famiglia, e quindi la possibilità di vivere lontano da Recanati: bibliotecario alla Biblioteca Vaticana, funzionario pontificio, docente universitario ma su incarichi mal retribuiti o disagevoli (Bologna, Roma, Berlino, Bonn). L’editore Filippo De Romanis gli propone invano la traduzione integrale di Platone (1823), Vieusseux lo invita inutilmente alla collaborazione alla sua rivista “L’Antologia” (1824). Nell’estate del 1825 Giacomo è a Milano, dall’editore Stella, con cui progetta un’ambiziosa (e mai realizzata) edizione di Cicerone, e pubblica invece il Canzoniere di Petrarca con suo commento (1826), e due importanti Crestomazie (cioè antologie) della prosa e della poesia italiana (1827-1828): un’attività editoriale che gli permette di ottenere anche un piccolo assegno mensile. Nel 1826, a Bologna, ha una breve infatuazione per la matura contessa Teresa Carniani Malvezzi, che ne approfitta per farsi rivedere le sue sgraziate composizioni poetiche; e il 28 marzo legge all’Accademia dei Felsinei la canzone-epistola Al conte Carlo Pepoli, indirizzata all’aristocratico amico bolognese. È un momento positivo, che vede anche le prime edizioni dei Versi (Bologna, Stamperia delle Muse, 1826), e delle Operette morali (Milano, Stella, 1827). Il 21 giugno 1827 è a Firenze, dove frequenta il Gabinetto Vieusseux, con Gino Capponi, Giuseppe Montani, Giambattista Niccolini, Tommaseo, Pietro Colletta, Alessandro Poerio, Gabriele Pepe, Stendhal. Il 3 settembre vi incontra Manzoni, e nei mesi successivi legge i Promessi Sposi: “Ho veduto il romanzo del Manzoni, il quale, nonostante molti difetti, mi piace assai, ed è certamente opera di un grande ingegno” (lettera del 25 febbraio 1828). Il 1° novembre 1827 passa a Pisa, dove la primavera del 1828 gli riporta prepotente il desiderio della poesia, silente da quasi due anni, con Il risorgimento e A Silvia. Ma è una breve illusione, seguita dalla sospensione dell’assegno dello Stella, e il ritorno a Recanati (28 novembre 1828), per un cupo periodo di malinconia, “sedici mesi di notte orribile”, ma in cui nascono alcuni dei suoi canti più belli: Il passero solitario, Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Nel 1830 il Colletta, a nome degli “amici di Toscana”, lo invita di nuovo a Firenze, offrendogli un prestito. Il 29 aprile Leopardi parte definitivamente da Recanati. A Firenze vive l’ultima illusione d’amore, per un’altra donna sposata, Fanny Targioni Tozzetti, e stringe amicizia col filologo svizzero Luigi De Sinner (cui affida i suoi scritti filologici), e soprattutto col giovane patriota napoletano Antonio Ranieri. Affascinato dalla vitalità di Ranieri,

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comincia addirittura a vivere insieme a lui. Nel 1831 pubblica i Canti, con la dedica agli “amici di Toscana”, presso l’editore Piatti, e si infuria perché gli viene attribuito un “infame, infamissimo, scelleratissimo libro”, i reazionari Dialoghetti sulle materie correnti nell’anno 1831 pubblicati anonimi dal padre Monaldo. Nell’ottobre segue a Roma Ranieri e la sua amante (l’attrice Maria Maddalena Pelzet), e di nuovo a Firenze nel ’32 i due progettano insieme una rivista subito abortita, “Lo Spettatore Fiorentino”, presentato come un giornale “inutile”, critico nei confronti di un mondo dove tutto è rivolto all’utile. Nel 1833, nella speranza di migliorare la propria salute, si sposta con Ranieri a Napoli, dove giunge il 2 ottobre, e dove vive in condizioni di grande precarietà, tra difficoltà economiche e brevi dimore in appartamentini d’affitto. Lo circonda la sostanziale ostilità dell’ambiente intellettuale, di orientamento progressista e cattolico-liberale, e contro le cui facili illusioni si scaglia con la poesia satirica dei Paralipomeni della Batracomiomachia, e dei Nuovi credenti. Tra i pochi contatti, quelli con il grande archeologo tedesco August von Platen, e con l’educatore Basilio Puoti, la cui scuola va a visitare, incontrandovi il giovane Francesco De Sanctis. Pubblica presso l’editore Starita i Canti (1835) e le Operette morali (1836), subito sequestrate dalla censura borbonica. Nel 1836, durante un’epidemia di colera, Leopardi e Ranieri si rifugiano in una villa alle pendici del Vesuvio (la villa Ferrigni a Torre del Greco), dove il poeta scrive gli ultimi suoi canti, La ginestra e Il tramonto della luna. Ma l’inverno rigido aggrava i suoi mali, finché, ritornato a Napoli nell’ultima dimora di un umile quartino in Vico Pero, sulla salita di Santa Teresa, muore il 14 giugno 1837.

6.2. Prime prove letterarie A partire dal 1809, la prima produzione poetica di Leopardi fanciullo (i cosiddetti puerilia) si svolge tutta all’interno di un orizzonte tardo-arcadico, fortemente condizionato dai due poli del classicismo (letture e traduzioni dei classici da Orazio a Omero, idilli bucolici, poemetti biblici e storici, tragedie come La virtù indiana e il Pompeo in Egitto) e della religione, che ispira gli undici discorsi sacri recitati tra 1809 e 1814 nelle chiesetta di San Vito a Recanati, esempio dell’immaginario cruento e macabro della Controriforma, applicato alla rappresentazione della Passione. La struggente fantasia del fanciullo prigioniero si riflette nella favoletta in versi dell’uccello rinchiuso “entro dipinta gabbia” (1810), mentre una burla giocata dai tre fratellini Leopardi ai danni del “pedante rigido” al ritorno da una gita in campagna (i



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tre si travestono da masnadieri e terrorizzano il povero prete) è raccontata con leggerezza nella canzonetta La dimenticanza (1811-1816). I primi studi filosofici, oggetto d’esame, sono compendiati nelle Dissertazioni filosofiche (1811-1812), mentre gli studi filologici sono di base a due compilazioni come la Storia della Astronomia (1813), e il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815), in cui emerge comunque la meraviglia nella contemplazione della Natura, e il vagheggiamento di un’età favolosa in cui ancora si credeva nei miti e negli dèi, espressione dell’infanzia dell’umanità nella rappresentazione immaginaria delle forze naturali. Negli anni successivi Leopardi continuerà la sua attività di traduzione dei classici, e anzi all’inizio sarà conosciuto e apprezzato proprio per queste versioni, le prime sue cose pubblicate in riviste come lo “Spettatore italiano e straniero” (1816-1817): dagli idilli di Mosco alla Batracomiomachia, dalle iscrizioni greche al Moretum pseudovirgiliano (tradotto col titolo La torta), dai poeti satirici all’Odissea e alla Teogonia di Esiodo. Si tratta di un importante laboratorio formale, in cui il giovane Leopardi crea il proprio linguaggio poetico, in diverse modalità stilistiche (dall’idillio bucolico allo stile ‘grande’, sublime e terribile), confrontandosi con la tradizione letteraria italiana, fino a Monti e Foscolo. L’esercizio umanistico della filologia (realizzato nei molti saggi eruditi, in latino e in italiano, diversi dei quali legati alle scoperte testuali recenti di Angelo Mai, come il Discorso sopra la vita e le opere di Cornelio Frontone, 1816) significa proprio questo: la fondazione di un’attitudine critica nei confronti del testo, della parola, del suo valore formale e semantico, che darà a tutta la poesia di Leopardi il fondamento della disciplina mentale del ricercatore. Nel 1816 la “conversione letteraria”, il passaggio dall’erudizione filologica alla poesia, nasce così proprio dall’interno della filologia, con la composizione di un Inno a Nettuno (edito sullo “Spettatore”, maggio 1816) che si finge tradotto da un testo greco da poco scoperto in un manoscritto, esempio di stile elevato nella rappresentazione del mondo degli dèi, di un neoclassicismo radicale che diventa addirittura ricreazione, o creazione di secondo grado, come aveva fatto Foscolo con Catullo; e l’Inno è accompagnato da due anacreontiche Odae adespotae (‘odi anonime’) in greco e con traduzione latina, di cui la seconda, In Lunam (‘alla Luna’) è un vero piccolo idillio alla Luna, con l’accumulazione finale di aggettivi e epiteti nell’invocazione alla Dea: “sublimem, os argenteam, / venerandam, pulcram, luciferam” (‘o volto sublime, argenteo, venerando, bello, luminoso’). Tra le altre testimonianze di questa scoperta della poesia, vi è anche il poemetto Appressamento della morte, che sviluppa in cinque canti in terzine una visione allegorica dantesco-petrarchesca in cui un angelo annuncia al poeta la morte imminente e la vanità del mondo (esemplificata, come nei Trionfi, dalla

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processione degli uomini resi schiavi dalle illusioni d’amore, della ricchezza, del sapere, della gloria e del potere). Continua anche l’attenzione alle forme della scrittura teatrale, ora più strettamente legata ai grandi modelli letterari della tragedia contemporanea (il dramma tutto ‘interiore’ della Maria Antonietta, del 1817, incompiuta allo stato di abbozzo, con solo due personaggi, Maria Antonietta e la figlia Maria Teresa Carlotta, ambientata nelle tenebre del carcere dopo la morte di Luigi XVI), a Tasso (l’idillio patetico e notturno Erminia, del 1818) e alla letteratura cavalleresca (la Telesilla, del 1819, tratta da un episodio del poema Giron Cortese di Luigi Alamanni, in cui si narra lo sventurato amore tra Girone e Telesilla moglie di Danaino). La ‘conversione letteraria’ comporta per il diciottenne Leopardi anche la tensione a ‘uscire’ dal ristretto “ostello paterno”, e a farsi conoscere dall’ambiente intellettuale contemporaneo, a livello nazionale. Espressione di questa tensione sono alcuni discorsi, o lettere pubbliche, che rimasero però tutti inediti, a partire dal discorso Agl’Italiani. Orazione in occasione della liberazione del Piceno (1815), che avrebbe voluto celebrare la liberazione d’Italia dalla dominazione francese. Nel luglio 1816 Leopardi inviò a Milano una Lettera ai Signori compilatori della Biblioteca Italiana in risposta a quella di Madama la baronessa di Staël Holstein ai medesimi, con la quale il giovane letterato provinciale sperava di inserirsi nel dibattito tra classici e romantici, naturalmente dalla parte dei classicisti, ma con una posizione originale, che criticava l’imitazione dei nuovi modelli romantici dei moderni proprio perché si sarebbe trattato di imitazione, mentre la poesia naturale e spontanea degli antichi, ormai scomparsa e impossibile, può essere solo oggetto di nostalgico vagheggiamento. Una posizione che si precisa due anni più tardi, nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (1818), nato dalla lettura delle Osservazioni del Di Breme. Leopardi stigmatizza gli aspetti superficiali della poesia romantica (la manifestazione di passioni e sentimenti, il gusto per l’orrido e il macabro, ma anche l’impegno sociale e la ricerca di ‘utilità’), ne comprende però e ne condivide le ragioni profonde (la rivolta contro le ‘regole’ e contro l’imitazione), e la definizione del carattere ‘sentimentale’ dei moderni; ‘sentimentale’ nel senso di Schiller, cioè espressione di una condizione interiore dominata dal ‘sentimento’ malinconico della perdita della naturalezza. Gli antichi erano ‘fanciulli’ quando scoprivano per la prima volta le cose, e con la loro fantasia creavano per la prima volta un mondo poetico, riflesso nei miti, che quindi non vanno disprezzati tout court, come aveva fatto il Di Breme. Infine, il confronto tra italiani e stranieri, così acuto negli anni della Restaurazione, e di quella che sembrava una nuova decadenza d’Italia, occa-



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sione per il più tardo e pessimistico Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani (1824), in cui, sul filone di un’ampia pubblicistica europea fino alla Corinne della de Staël, Leopardi identifica negli italiani una natura cinica di fondo, “poca società e poca vita” e mancanza di buoni costumi, che portano alla superiorità presente dei popoli settentrionali: “Sembra che il tempo del settentrione sia venuto”. Era sempre un ampio orizzonte europeo, quello sul quale Leopardi valutava gli esiti della nostra civiltà; e vi si sarebbe inserito un suo importante progetto critico mai compiuto, “un’opera magistrale nazionale e riformatrice, dove si paragonasse la letteratura italiana con quella delle altre nazioni”, dal titolo Della condizione presente delle lettere italiane, rifondazione della storiografia letteraria (dopo l’erudizione settecentesca di Muratori e Tiraboschi) e della critica militante. Come i discorsi, le lettere dell’epistolario: una febbrile attività di scrittura, mai raccolta o riorganizzata dall’autore, che avrebbe raggiunto alla fine della sua vita quasi il migliaio di pezzi; lettere di ogni tipo, che vanno dal breve biglietto privato alla lettera pubblica, al piccolo trattato di poetica o di filosofia morale destinato a girare tra le mani degli amici e dei letterati. Ma sempre lettere di straordinaria intensità, e di alto valore formale e letterario. Di particolare importanza sono quelle di carattere familiare, espressione primaria di forti affetti, al fratello Carlo e alla sorella Paolina, e anche, fino agli ultimi giorni, al padre Monaldo, in un ambivalente gioco di confessione e di dissimulazione. Ma sono fondamentali anche le lettere di relazione intellettuale, impressionante testimonianza di una fitta rete di relazioni e di amicizie, che contraddice il mito del poeta isolato ed emarginato, e conferma invece la sua ansia di ‘società’, di amicizia, di conversazione. Tra le lettere di amicizia, spiccano dal 1817 quelle al Giordani, già celebrato letterato e capofila dei classicisti nella “Biblioteca italiana”, confidente del giovane poeta, e anzi quasi un sostituto della figura paterna, destinatario delle confessioni più intime e tragiche; ma anche l’amico nelle controversie letterarie, difeso con un’arcaica violenza verbale e satirica nei Sonetti in persona di ser Pecora fiorentino beccaio, contro un povero filologo romano, Giacomo Manzi, nemico di Giordani e Monti. Negli anni, l’epistolario rivelerà anche un’attitudine pedagogica, nei confronti di più giovani intellettuali (Leopardi aveva amato e tradotto anche le epistole pedagogiche di Isocrate), e una costante proiezione al futuro, al quale sarebbe stata indirizzata l’ultima (e mai scritta) lettera dell’epistolario, la Lettera a un giovane del 20° secolo. La scrittura epistolare era una componente importante della scrittura autobiografica, e la ‘scrittura dell’io’ è fin dall’inizio uno dei caratteri fondamentali dell’opera leopardiana, che la avvicinano maggiormente alla poetica romantica e alla modernità, pur senza alcuna adesione esplicita al

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romanticismo. Il bagaglio di letture accumulato da Giacomo è pressoché completo: da Rousseau all’Alfieri (si veda il sonetto del 1817 Letta la vita dell’Alfieri scritta da esso), dal Werther all’Ortis. Quando l’11-14 dicembre 1817 si scatena l’inconfessato amore per Gertrude Cassi, la prima e unica possibilità di sfogo della passione è quella letteraria, la composizione del Diario del primo amore, di getto, nei giorni immediatamente successivi: una scrittura dominata, fin dalla prima parola, dall’assoluto prevalere dell’Io sulla realtà esterna, quasi annullata e insignificante (“Io cominciando a sentire l’impero della bellezza”). Non è quindi un diario dei pochi eventi reali (tutti concentrati all’inizio: il breve soggiorno della donna, la sua conversazione con i ragazzi, la pratica del ‘gioco’ e in particolare del gioco degli scacchi, la sua partenza), ma dei movimenti del cuore, dei suoi sogni e dei suoi fantasmi. Dall’abbozzo in prosa, poi, Leopardi trasse la materia di due Elegie in terzine, a loro volta rielaborate e riprese nei Canti. L’inizio contemporaneo di un vero e proprio diario intellettuale (lo Zibaldone) fece coltivare per alcuni anni la possibilità di comporre un romanzo autobiografico, alla maniera del Werther e dell’Ortis. Di questo romanzo, che avrebbe potuto dare una risposta nuova e moderna al genere romanzesco in Italia e in Europa, non restano che pochi frammenti databili intorno al 1819, vivissimi nella scrittura episodica, registrazione immediata di ricordi che seguono spesso un filo di analogie profonde ed inconsce: la severità impietosa della madre, lo sguardo di una fanciulla incrociata per strada, i giochi dei fanciulli. È la memoria soprattutto delle esperienze intellettuali, delle letture ‘forti’, delle prime riflessioni sul nulla della vita e dell’esistenza. Ma sono straordinarie anche le descrizioni d’ambiente, come la piazzetta di Recanati di fronte a Palazzo Leopardi, le voci, i giochi e le crudeltà dei bambini che uccidono una lucciola, senza alcun motivo. Nei frammenti Leopardi oscilla tra la prima e la terza persona, e in effetti il romanzo autobiografico avrebbe avuto come protagonista una sua controfigura (come Ortis o Didimo per Foscolo), come rivelano alcuni titoli: Supplemento alla vita del Poggio (18191820), Supplemento alla vita abbozzata di Silvio Sarno (1820), Storia di un’anima scritta da Giulio Rivalta pubblicata da Giacomo Leopardi (1825), appena due fogli su cui compare la frase lapidaria: “Io nacqui di famiglia nobile in una città ignobile della Italia”. In seguito, anche lo Zibaldone avrebbe potuto fornire materiali per un’opera che si sarebbe dovuta intitolare Memorie della mia vita. Ma il fallimento del progetto fu causato probabilmente dal fatto che tutta l’opera leopardiana è, in fondo, autobiografica, e che l’istanza di espressione dell’io avrebbe trovato negli anni la sua più compiuta realizzazione in altri testi, dallo Zibaldone alle Operette morali e ai Canti: in quella che è, veramente, la ‘storia di un’anima’.



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6.3. Dallo Zibaldone ai Pensieri Sempre nel 1817, tra luglio e agosto, e quindi nel pieno della ‘conversione letteraria’, Leopardi scrive le prime note di un privato diario intellettuale: “Palazzo bello. Cane di notte dal casolare al passar del viandante”. Non sono che appunti, impressioni della realtà, destinati forse, come alcuni abbozzi successivi, a composizioni poetiche di genere idillico o bucolico (‘Palazzo Bello’ era una proprietà di campagna, ancor oggi esistente). Anche questo non è un vero journal, ma una specie di secretum del pensiero e della formazione intellettuale, delle letture e delle meditazioni, più che degli eventi del mondo ‘esterno’ o di quelli dell’Io, del cuore o dei sentimenti. È una scrittura di accumulazione seriale, giorno dopo giorno, che registra praticamente tutto, e a partire dalla pagina 100 (8 gennaio 1820) sente anche il bisogno di annotare, alla fine di un pensiero o di un ragionamento, la data. Un’opera senza nome, che per l’autore non è nemmeno un’opera, e a cui quindi solo molti anni dopo, nell’indice redatto nel 1827, sarà attribuito il non-titolo di Zibaldone di pensieri. La parola ‘zibaldone’ è dell’italiano antico, e significa mescolanza di cose diverse, libro miscellaneo, e quindi poteva adattarsi a designare forme di scrittura privata come i ‘libri’ dei mercanti del Quattrocento, i quaderni privati di umanisti come Poliziano o Sannazaro, e anche i manoscritti di Leonardo. Come tutti questi esempi, lo Zibaldone si rivela un potente strumento del lavoro intellettuale, prefigurazione della moderna scrittura ipertestuale, con la sua fitta rete di rinvii interni, affidati alla precisa numerazione delle pagine. E può apparire oggi un’opera straordinariamente attuale, un’opera aperta, priva di gerarchia preordinata, disponibile a molteplici percorsi di lettura. All’inizio, è soprattutto una raccolta di giudizi critici, letterari ed estetici, appunti linguistici, grammaticali, etimologici, riflessioni sulla poesia romantica a partire dalle Osservazioni del Di Breme, e di annotazioni di lettura, in particolare della Corinne della de Staël; pensieri che spesso istituiscono originali confronti fra linguaggi diversi, tra poesia, arti e musica. Poi, gradualmente, nel 1819, oltre la pagina 70, si avverte quel passaggio dalla condizione ‘antica’ (dominata dalla fantasia creatrice di poesia) alla condizione ‘moderna’ che Leopardi chiama “conversione filosofica”, dall’immaginazione alla verità, dalla poesia alla filosofia: “Nella carriera poetica il mio spirito ha percorso lo stesso stadio che lo spirito umano in generale. Da principio il mio forte era la fantasia, e i miei versi erano pieni d’immagini”. Evidente è la ripresa di Vico, ma con proiezione dell’intera Storia umana sulla storia dell’Io (pp. 143-44, 1° luglio 1820). È un passaggio amaro e drammatico, scandito da una serie di meditazioni sul nulla, che approdano alla scoperta di una mancanza di senso della

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vita e dell’esistere, ad una concezione definita nichilismo: “Tutto è nulla al mondo, anche la mia disperazione [...] è vano, è un nulla anche questo mio dolore” (p. 72); “Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare, considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla” (p. 85). Riprendendo Rousseau (che opponeva Natura a Ragione), Leopardi scrive: “La cognizione del vero è nemica della felicità, la ragione è nemica della natura” (pp. 637-38, 10 febbraio 1821). Di fronte alla verità del nulla cadono le illusioni (Dio e la religione, la vita, l’amore, la poesia), in una dialettica però mai completamente risolta, perché a loro volta le illusioni sono parte integrante della natura umana, e ne compensano parzialmente le sofferenze: “Le illusioni per quanto sieno illanguidite e smascherate dalla ragione, tuttavia restano ancora nel mondo, e compongono la massima parte della nostra vita” (p. 213, 18 agosto 1820). La dialettica (vero-felicità, ragione-natura) si riflette anche nella poesia, separata tra “poesia d’immaginazione” (l’unica poesia vera, creatrice di miti) e “poesia sentimentale”, moderna e filosofica. Eppure, proprio di fronte all’abisso del vuoto e del nulla, la poesia può rinascere, nello spazio infinito dello sgomento. E lì, sull’orlo del concetto stesso di ‘infinito’, si sviluppa la prima grande riflessione dello Zibaldone, la teoria dell’infinito desiderio di piacere e dell’inclinazione dell’uomo all’infinito, che è causa dell’infelicità umana, ma anche del momentaneo senso di piacere che si avverte nella contemplazione del ‘vago’, dell’indeterminato (pp. 165-183, 12-23 luglio 1820). Il distacco Uomo-Natura è percepito con tale tragica intensità, che talvolta la scrittura leopardiana si fa quasi profetica, e proietta al futuro il destino dell’umanità, o meglio la sua morte e sparizione: “Sogni e visioni. A riparlarci di qui a cent’anni. Non abbiamo ancora esempio nelle passate età, dei progressi di un incivilimento smisurato, e di un snaturamento senza limiti. Ma se non torneremo indietro, i nostri discendenti lasceranno questo esempio ai loro posteri, se avranno posteri” (p. 217, 20 agosto 1820). La scrittura si addensa, soprattutto negli anni 1821-1823, per migliaia e migliaia di pagine (più di 4000!), diventa la principale attività intellettuale. È il pensiero in movimento, che si trasforma, e passa dall’iniziale critica alla Civiltà e vagheggiamento di un incorrotto stato di Natura, all’identificazione del male nella stessa Natura. I pensieri si alternano a trascrizioni di brani interi, in lingua originale e con grande esattezza anche nei rinvii bibliografici. Nel 1827 la mole del lavoro (che ha superato le quattromila pagine) rende ormai impossibile il reperimento dei materiali raccolti in questo immenso contenitore, e si rende perciò necessario un grande lavoro di indicizzazione, compiuto a Firenze da luglio a ottobre. La scrittura diminuisce gradualmente



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negli anni successivi, fino all’ultima nota, datata il 4 dicembre 1832. In totale, 4526 pagine, in fogli sciolti (oggi rilegati in sei volumi). Per Leopardi lo Zibaldone non era un’opera compiuta in sé, ma piuttosto un grande magazzino di idee, cui attingere per la scrittura di altre opere. A questo mirava il lavoro di indicizzazione, e soprattutto un altro lavoro di organizzazione ‘tematica’, in sette grandi schede chiamate Polizzine, e i cui titoli prefiguravano altrettanti progetti di opere ancora da scrivere: Lingue, Manuale di filosofia pratica, Trattato delle passioni, qualità umane ec., Memorie della mia vita, Volgare latino, Teorica delle arti, lettere ec., Della natura degli uomini e delle cose. Vi si accostava il disegno di un Dizionario filosofico, come quello di Voltaire, ma più scettico e critico, come rivela un altro titolo emblematico: Enciclopedia delle cognizioni inutili e delle cose che non si sanno. Tutte idee che restano solo idee, negli ultimi anni di Leopardi, che annota nello Zibaldone: “Chi non sa circoscrivere, non può produrre” (p. 4450, 3 febbraio 1829). Se non è possibile ‘circoscrivere’ quei progetti di opere, almeno è possibile estrarre e condensare i pensieri più significativi sui caratteri e i costumi degli uomini e delle cose, nella tarda raccolta dei CXI Pensieri (1832-1836). Quel che nello Zibaldone veniva espresso dal ragionamento ampio e disteso, ora è affidato alla secchezza tagliente dell’aforisma, che esalta la qualità della lingua leopardiana, capace di seguire in pochi tratti essenziali il movimento di un pensiero dialettico, lasciando aperta l’opzione fra la tesi e l’antitesi: “La morte non è male: perché libera l’uomo da tutti i mali, e insieme coi beni gli toglie i desiderii. La vecchiezza è male sommo: perché priva l’uomo di tutti i piaceri, lasciandogliene gli appetiti; e porta seco tutti i dolori. Nondimeno gli uomini temono la morte, e desiderano la vecchiaia” (VI). Anche in queste ultime e amare riflessioni, c’è spazio per il ritorno alla memoria mitica della fanciullezza, proiettata (come in Vico) sulla memoria delle nazioni e della civiltà: “Gli anni della fanciullezza sono, nella memoria di ciascheduno, quasi i tempi favolosi della sua vita; come, nella memoria delle nazioni, i tempi favolosi sono quelli della fanciullezza delle medesime” (CII).

6.4. Le Operette morali Con la ‘conversione filosofica’, l’adesione radicale a una concezione materialistica della vita comporta il rovesciamento di tutte le illusioni che reggono la vita degli uomini, il desiderio di gloria e di felicità. Il rovesciamento, il paradosso rende possibile lo stile comico, satirico, tale da suscitare il riso: ma è un riso amaro, che non compensa della perdita delle illusioni. Già nel 1819

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Leopardi progetta alcuni Dialoghi satirici alla maniera di Luciano, ed inizia l’anno successivo “certe prosette satiriche”, di cui restano alcuni frammenti: la Novella Senofonte e Niccolò Machiavello (1820-1822), sul modo migliore di educare un diavoletto destinato a diventare un principe; dei dialoghi satirici tra animali (1820-21); il Dialogo galantuomo e mondo (1821), rovesciamento totale dell’educazione alla virtù; e la Comparazione delle sentenze di Bruto Minore e di Teofrasto vicini a morte (1822), collegata al canto Bruto Minore, in cui si commenta l’opinione di Bruto che la virtù non sia nient’altro che una vuota parola. Solo dopo la delusione radicale del viaggio a Roma, in un momento di parziale abbandono della poesia, e di diminuzione della scrittura dello Zibaldone, Leopardi può dedicarsi intensamente alle sue Operette morali, di cui scrive le prime venti nel 1824 (da gennaio a novembre)(ed. Milano, Stella, 1827), aggiungendovi il Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco (1825), il Dialogo di Plotino e di Porfirio e Il Copernico (1827), il Dialogo d’un venditore di almanacchi e di un passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico (1832), giungendo così alla seconda (Firenze, Piatti, 1834) e alla terza edizione, sospesa dalla censura (Napoli, Starita, 1836). Le Operette si presentano in forma di dialogo (tra personaggi mitologici, allegorici o storici, o personificazioni di elementi naturali), oppure di apologo, secondo un modello che risaliva allo scrittore greco Luciano, già ripreso nell’umanesimo, ad esempio nelle Intercoenales dell’Alberti; ma anche ad altri filosofi moralisti greci (Leopardi ne progettava un’edizione), a Plutarco, al filone paradossale, a Machiavelli e ai moralisti francesi moderni. La prosa rappresenta il felice tentativo di creare una moderna lingua letteraria, né purista né francesizzante, ma ricca di tutte le possibilità espressive della tradizione italiana, e adatta ad esprimere un’altezza di pensiero talvolta abissale, con una leggerezza prima intentata. Ricorrenti sono le tematiche filosofiche, le stesse affrontate nello Zibaldone: il contrasto irrisolto fra illusione-felicità e verità-sofferenza, cui assiste una Natura matrigna, o ancor peggio indifferente. Estremamente forte è la critica del presente, del facile ottimismo dei contemporanei che credono in un progresso universale dell’umanità: ‘felici’ tempi moderni che, con singolare preveggenza, Leopardi chiama “l’età delle macchine” (“oramai non gli uomini ma le macchine, si può dire, trattano le cose umane e fanno le opere della vita”), per cui, nella Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi (cioè ‘accademia dei poeti burleschi’), si stabilisce di assegnare tre premi in denaro agli inventori di tre nuovi robot, capaci di svolgere attività e funzioni che ormai l’uomo è incapace di fare: un vero e sincero ‘amico’; “un uomo artificiale a vapore, atto e ordinato a fare opere virtuose e magnanime”; e una donna perfetta, onesta e fedele.



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Compaiono tra i personaggi dei dialoghi anche alcuni dei ‘grandi’ italiani, che formano l’ideale ‘ritratto di famiglia’ della coscienza collettiva nazionale in formazione, nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, ambientato nel tetro carcere di Sant’Anna; nel Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez, nella notte prima della scoperta dell’America, affermazione che la felicità risiede solo nell’illusione; e soprattutto ne Il Parini, ovvero della gloria, un discorso del grande e vecchio educatore ad un suo allievo, per dimostrare l’illusorietà della gloria terrena, con la conclusione pessimistica che l’altezza d’ingegno è la peggiore sventura che possa capitare a un essere umano, ma che almeno “il nostro fato è da seguire con animo forte e grande”. La visione cosmica di una Natura indifferente al dolore universale appare nel Dialogo della Natura e di un Islandese, in cui un Islandese, dopo aver vagato per l’intero pianeta cercando di sfuggire la Natura, finisce per capitarle davanti. Alle angosciose domande dell’uomo, la Natura, “una forma smisurata di donna seduta per terra [...] di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e capelli nerissimi”, rivela che “la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione”. L’Islandese incalza, e chiede il perché della sofferenza: “A chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?”. Ma non c’è alcuna risposta, perché intanto arrivano due leoni affamati e si divorano lo sventurato. La visione si allarga profeticamente nel Cantico del gallo silvestre, figura di gallo gigantesco sospeso tra cielo e terra (tratto da antiche credenze ebraiche), che canta la fine dei tempi e della vita, còlta in quello che è un processo universale di senescenza: “Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta”; non ne resterà altro che “un silenzio nudo, e una quiete altissima” nello spazio immenso, oltre l’“arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale”. E ancora il tema della morte torna nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, in cui un coro di morti sveglia lo scienziato (celebre imbalsamatore olandese del Seicento), che s’intrattiene in un’amabile conversazione con uno di loro su cosa sia il morire, cioè cessazione del dolore, e quindi quasi una forma di piacere. Dal punto di vista stilistico, un caso a parte è il Dialogo d’un venditore d’almanacchi e di un passeggere, dialogo di brevi battute, di grande velocità, d’ambientazione contemporanea, basato sulla dimostrazione che nessuno vorrebbe tornare a vivere la vita che ha già vissuto, e che il desiderio e l’illusione ci spingono solo verso ciò che non conosciamo. Nonostante però il riconoscimento del ‘vero’, e della noia dell’esistere, dopo la caduta delle illusioni, il suicidio non è l’unica possibilità di reazione, di espressione della libertà che, stoicamente, resta agli esseri umani. Anzi, il suicidio è un atto

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‘inumano’ egoistico, che priva gli altri esseri umani del nostro conforto, del mutuo soccorso di fronte al dolore. È questo l’alto e nuovo insegnamento morale che, nonostante tutto, s’afferma nel Dialogo di Plotino e di Porfirio, in cui il grande filosofo neoplatonico convince un suo allievo a non suicidarsi, con l’esortazione: “Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme”. Nella scrittura satirica e paradossale delle operette l’autore di solito si nasconde, dissimulato dietro i dialoghi e le favole allegoriche. Ma in due casi la sua personalità emerge più forte, in quella che è una forma mediata di scrittura dell’io. Innanzitutto nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri, una sorta di ironica proiezione autobiografica alla maniera delle biografie di filosofi antichi e di raccolte di detti memorabili (celebri quelli di Socrate, raccolti da Senofonte), ma anche simile al Didimo foscoliano, un testo in strettissimo rapporto con lo Zibaldone, che è la fonte principale dei pensieri e dei motti addensati e riscritti in quest’operetta. Infine, il Dialogo di Tristano e di un amico, pensato come conclusione delle Operette, conversazione fra l’autore di un libro ‘triste’ (le stesse Operette, considerate ‘tristi’ cioè scellerate e riprovevoli per i contenuti; e ‘Tristano’ è giustamente il nome dell’autore) e un amico, al quale Tristano fa finta di rigettare la sua opera, suggerendo di bruciarla, o al massimo di leggerla come “un libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici, ovvero come un’espressione dell’infelicità dell’autore”. Tristano pensava che la vita fosse infelice, e invece ora ha cambiato idea, e aderisce gioiosamente all’idea del progresso universale e alla “filosofia de’ giornali”. Ma naturalmente è solo una finta palinodia. All’altezza del Tristano (1832) la critica leopardiana alle illusioni del suo tempo è ormai diventata radicale, ma anche capace di vedere, oltre ogni facile ottimismo, i cambiamenti reali e strutturali che, nella società moderna, avrebbero cambiato il mondo: “Gl’individui sono spariti dinanzi alle masse”.

6.5. La poesia satirica La linea satirica delle Operette viene ripresa dall’ultimo Leopardi soprattutto nella poesia. Lo stile comico era già stato tentato, in gioventù, nella traduzione della Batracomiomachia attribuita ad Omero, e nella composizione di epigrammi alla maniera di Marziale. Dopo il 1831, sull’esempio degli Animali parlanti del Casti, Leopardi riprende il modello della favola degli animali, proiezione allegorica della storia degli uomini, e soprattutto della storia ultracontemporanea, quella dei primi moti rivoluzionari e dei primi tentativi patriottici, dal 1820 al 1831, basata sulla lettura di libri recentissimi come la Storia del reame



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di Napoli dell’amico Colletta. Mai Leopardi si era avvicinato con tale intensità al presente, all’attualità storica e politica. E lo fece con una violenza satirica e verbale senza pari, nei Paralipomeni della Batracomiomachia (1831-1836), in otto canti in ottave, apparente continuazione del poemetto omerico, e in realtà amara allegoria delle vicende degli ultimi dieci anni, quale nessun altro scrittore contemporaneo fu allora capace di fare. La lotta fra i topi-liberali capeggiati dal generoso eroe Rubatocchi e le rane-reazionarie si era conclusa con la vittoria delle rane, coadiuvate dai granchi-austriaci, “bruti ingordi e stranieri”, guidati dal perfido generale Brancaforte. Mentre Rubatocchi rinuncia generosamente al trono, a Topaia si elegge il re costituzionale Rodipane, e ministro il liberale Leccafondi. Ma l’illusione di libertà dura poco. I granchi attaccano, i topi fuggono, e muore il solo Rubatocchi. Si instaura un regime repressivo, Leccafondi va in esilio, e scende addirittura nell’oltretomba topesco, tentando poi, al suo ritorno, di convincere il vecchio generale Assaggiatore a riprendere la lotta. E qui Leopardi s’interrompe, fingendo la fine del manoscritto donde avrebbe tratto l’operetta, che sarà definita un “libro terribile” dal Gioberti per l’ironia con cui distrugge le illusioni patriottiche contemporanee (lo spiritualismo, l’ottimismo, il progresso), ma anche apprezzata come “lavoro finissimo, perfetto” dal Settembrini. Perfettamente contemporanea è I nuovi credenti (1835), satira contro il cattolicesimo liberale e progressista propagato a Napoli dalla rivista “Il Progresso” di Saverio Baldacchini; un capitolo in terzine, dedicato a Ranieri, testimonianza del difficile rapporto di Leopardi con i contemporanei a Napoli. L’ironia verso gli intellettuali ‘alla moda’ è sferzante, ma si vede anche la capacità di cogliere in brevi flashes una grande città in un momento critico e caotico di trasformazione, aperta sì alla modernizzazione ma con i mali atavici della disorganizzazione e della corruzione, una città-ventre in cui (ad onta dell’idealismo progressista degli intellettuali) sembra che la plebe dei ‘lazzaroni’ non pensi che al soddisfacimento dei bisogni materiali, e ai suoi “maccheroni”.

6.6. I Canti A diciott’anni, con la sua ‘conversione letteraria’, Leopardi cominciò a scoprire veramente la poesia: a considerarla cioè non più come un freddo oggetto di studi filologici, o come esercizio di imitazione di modelli classici o arcadici, ma come un potente e straordinario mezzo di espressione della sensibilità e della visione del mondo che aveva maturato negli anni, e che

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proprio allora si incrinava in una profonda crisi fisica ed esistenziale. È la poesia che permette alla tragedia individuale di un giovane che si sente già troppo vecchio, emarginato dalla vita e dalla felicità, di proiettarsi su una tragedia collettiva, allargata all’intera umanità e all’intera sua storia, e poi cosmica, estesa ai confini della Natura e dell’universo. È la poesia che permette a quel grido disperato di diventare il grido di ognuno, il nostro grido, perché nasce in un processo che non annullerà mai i due poli estremi di questo movimento, l’Io e il Mondo. Il ‘libro’ nasce per aggregazioni successive, all’inizio senza alcun progetto prestabilito; e anche alla fine in gran parte la sua struttura seguirà l’originario ordine cronologico. Dei testi più antichi, se ne salveranno solo pochi frammenti: i primi versi rielaborati dell’Appressamento della morte (XXXIX), e le due Elegie in terzine, composte a ridosso dell’amore per Gertrude Cassi (1817-1818). Nella prima fase (1818-1823) netta è la distinzione tra due registri principali, corrispondenti a due differenti forme metrico-testuali, la canzone e l’idillio. Le prime dieci canzoni (pubblicate a Bologna, Nobili, 1824) presentano strutture più o meno regolari di lunghe strofe, che però si allontanano dal modello petrarchesco per acquisire cadenze e movimenti dalle forme dell’ode o dell’inno; un vero inno in endecasillabi sciolti è appunto l’Inno ai Patriarchi, mentre solo l’ultima canzone Alla sua Donna (una specie di addio all’amore e alla poesia, testo conclusivo di questa fase) ha strofe a schema libero; e lo stesso autore si rendeva conto della novità delle sue ‘canzoni’, perché nelle importanti Annotazioni premesse alla prima edizione precisò con grande chiarezza che non si trattava di canzoni amorose né petrarchesche né arcadiche, ma semplicemente sue “stravaganze”, che andavano ben aldilà dell’orizzonte d’attesa del pubblico. La raccolta non comprende l’intera produzione di questi anni, ma ha già sacrificato due canzoni del 1819, rimaste inedite perché troppo crudamente e realisticamente ‘contemporanee’, Per una donna inferma di malattia lunga e mortale, e Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo. Anche i primi idilli (tutti in endecasillabi sciolti), già sperimentati nelle produzione poetica puerile e giovanile (nell’imitazione dei modelli bucolici di Mosco e Teocrito, e degli idilli moderni di Salomon Gessner), avrebbero deluso le aspettative del pubblico contemporaneo, perché invece di esprimere una vaga e malinconica consonanza con la Natura e il Paesaggio, diventavano singolari punti di partenza di avventure spirituali straordinarie, come sintetizzava lo stesso Leopardi in un suo appunto: “Idillii esprimenti situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo”. Da una situazione reale, in un luogo e un momento determinato (hic et nunc, ‘qui e ora’: l’“ermo



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colle” appena dietro casa, dove sedersi a immaginare un panorama nascosto da una siepe; la contemplazione della luna piena, dal balcone del palazzo, la sera di un giorno festivo appena passato) il poeta si slancia verso spazi infiniti, nella meditazione del destino dell’uomo nel mondo, ma sempre con uno stile piano, semplice, paratattico, volutamente spogliato d’enfasi e di eloquenza oratoria (tipica invece delle canzoni), fatto di parole quotidiane tra cui emerge ogni tanto il bagliore della parola antica, rara, classica, o l’evocazione piacevole dell’aggettivo semanticamente ambiguo, indeterminato. Pubblicati sulla rivista “Nuovo Ricoglitore” (1825-1826), comparvero poi nell’edizione dei Versi (Bologna, Stamperia delle Muse, 1826), con l’aggiunta delle due Elegie del 1817-1818, dei cinque Sonetti in persona di ser Pecora del 1817, e della nuova canzone Epistola al conte Carlo Pepoli (recitata all’Accademia Felsinea il 27 marzo). In sostanza, un’edizione, quella bolognese, che ancora non racconta una ‘storia’, ma presenta ancora separati generi, metri e forme, parallela all’edizione delle canzoni nel 1824. Canzoni e Versi recavano alla fine due espliciti ‘testi di chiusura’, amari addii all’amore e alla poesia: Alla sua donna, e A Carlo Pepoli. La ‘ripresa’ avviene nella magica primavera pisana del 1828, con il ‘nuovo inizio’ di Risorgimento (leggerissima canzonetta metastasiana) e A Silvia, e poi i grandi idilli recanatesi, affermazione e trionfo della strofa libera di endecasillabi e settenari: un momento importante, segnato da una lettera alla sorella Paolina (Pisa, 2 maggio 1828): “Dopo due anni, ho fatto dei versi quest’Aprile; ma versi veramente all’antica, e con quel mio cuore d’una volta”. Ed è proprio con Risorgimento che la raccolta poetica acquista il senso e il valore di una ‘storia’, la storia del cuore che sembrava morto e ora risorge. Una storia che recupera il suo passato attraverso il diaframma della memoria, della ‘rimembranza’. E che giunge alla prima vera edizione del libro dei Canti (Firenze, Piatti, 1831), dal titolo programmaticamente nuovo, rispetto alla tradizione italiana. In esso Leopardi procede alla fusione delle raccolte precedenti in un unico percorso di 23 componimenti concluso dal Sabato del villaggio; si mantiene in parte l’originaria divisione tra prime canzoni e primi idilli, ma con qualche significativo cambiamento nell’ordine. E la fusione fa risaltare ancora di più la ‘varietà’ impressionante di generi e di stili che, in così pochi testi, distingue il libro dei Canti: l’oratoria, la lirica, l’inno, l’ode, la canzone civile e patriottica, l’epistola, l’idillio, il sogno, la visione, lo stile descrittivo, narrativo, storico, filosofico, didascalico, tragico, elegiaco, bucolico. Un nuovo ciclo sarà segnato, negli anni successivi, dal cosiddetto ciclo di Aspasia, dai canti dedicati all’amore per Fanny, e chiusi idealmente da A se stesso: tragico addio alla vita, ‘testo di chiusura’ di un ciclo più ampio (quello iniziato con Risorgimento), certificato di ‘morte del cuore’, dallo stile così forte

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e così conclusivo che nell’edizione successiva (in 39 componimenti, l’ultima curata dall’autore: Napoli, Starita, 1835) Leopardi sentirà quasi il bisogno di aggiungervi molti altri testi, nel desiderio di andare ‘oltre la fine’, di lasciare il libro ‘aperto’. Aperto a cosa? All’ultimo e potente ‘inizio’ di poesia civile e morale, La ginestra (1836), che solo la morte dell’autore avrebbe fatto apparire, ai posteri e al Risorgimento, un testamento spirituale. In definitiva, dai Canti emerge la ‘storia di un’anima’, per riprendere uno dei titoli del romanzo autobiografico progettato da Giacomo intorno al 1825: anzi, il tramonto di quel progetto narrativo coincideva proprio con il crescere e il fortificarsi del nuovo progetto del ‘libro di poesia’, completamente nuovo nella tradizione italiana, solo in parte assimilabile alla linea dei ‘canzonieri’, da Petrarca in poi. Un libro che cresce intorno alla storia dell’Io, e che vichianamente fa parte di quella stessa storia, soggetto e oggetto allo stesso tempo. Un ‘romanzo’ poetico in cui scorrono personaggi e temi non dissimili da quelli che appassionano il pubblico contemporaneo: l’eroe alfieriano e ortisiano pronto a morire per la patria, la malinconica contemplazione della Natura nella solitudine, le disperate storie d’amore che portano al suicidio, il patetico addio di un amante morente. Su tutto, l’influenza profonda della meditazione, del pensiero, conseguente alla cosiddetta ‘conversione filosofica’ del 1819: conversione che paradossalmente non uccide la poesia, ma le dà una linfa nuova, una forza ragionativa e analitica rarissima (e non solo nella letteratura italiana), capace di entrare nell’essenza della vita e delle cose, e di svelarne le verità indicibili e inconfessabili: tutto è nulla, la vita non è altro che un momento del processo universale di trasformazione delle creature viventi, condannate a un destino assurdo di dolore, infelicità, morte. La Natura non è più madre, ma matrigna cattiva. Qualcuno (un dio malvagio?) ci ha creati solo per soffrire. E lì si rivela veramente la magia della poesia leopardiana: proprio di fronte al nulla dell’esistere, al vuoto infinito, all’angosciosa presenza del male, l’uomo ritrova quei valori positivi, interiori e universali (che pure egli razionalmente chiama illusioni), che gli consentono di opporsi alla morte e alla sofferenza (una rivolta che talvolta diventa titanismo), di non chiudersi in una solipsistica e fatalistica rassegnazione, di guardare agli altri esseri come fratelli comuni nella sventura, e, in fondo, di continuare a vivere. Una vita in cui anche le illusioni più superficiali e caduche dell’amore, della felicità, della bellezza, della speranza, della giovinezza, della primavera (dimostrate sempre e comunque vane dalla ragione), continueranno a tornare, nelle immagini velate e dolci delle ‘rimembranze’, del ricordo, della memoria; e continueranno quindi a esistere, come parte integrante e profonda di quell’essere contraddittorio e paradossale e irriducibile che è l’uomo.



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La prima parte del libro (I-XIX) si divide in due ‘blocchi’ (canzoni e idilli), e si conclude con una grande ‘cerniera’ di ‘testi di chiusura’ (XVII-XIX). Il primo ‘blocco delle canzoni’ (I-IX) si apre con le due grandi canzoni patriottiche, All’Italia e Sopra il monumento di Dante (I-II, 1818), che nel confronto tra passato glorioso e presente di decadenza lasciano emergere l’eroismo retorico del poeta, pronto a sacrificare la sua vita per la patria. Il tema patriottico domina anche la canzone Ad Angelo Mai (III, 1820), composta in occasione della scoperta del De re publica di Cicerone (un’opera considerata perduta, e della quale si conosceva solo il sesto libro, il cosiddetto Sogno di Scipione), uno dei sorprendenti recuperi di testi antichi effettuati da Angelo Mai, già bibliotecario dell’Ambrosiana e ora prefetto della Vaticana, grazie all’uso di reagenti chimici sui ‘palinsesti’ (manoscritti antichi ‘scritti di nuovo’, nei quali la scrittura originaria veniva cancellata, per riutilizzarne la preziosa pergamena): in realtà, oltre l’inizio celebrativo, e l’esortazione alla ripresa morale e civile degli Italiani, sull’esempio di Dante, Petrarca, Colombo, Ariosto, Tasso, Alfieri, si fa strada il pessimismo nei confronti della storia dell’umanità, passata dalla felicità naturale alla conoscenza del “vero”, del nulla universale, e quindi alla distruzione della fantasia, all’infelicità e alla noia. La virtù può essere quindi esaltata solo per se stessa, come modello di vita, anche se in un contesto privo di significato, nelle canzoni Nelle nozze della sorella Paolina (IV, 1821, per le nozze di convenienza della sorella, peraltro naufragate prima di essere celebrate), e A un vincitore nel pallone (V, 1821), in onore di un celebre giocatore di ‘pallone’, Carlo Didimi di Treia. Ma contro di essa, chiamata “stolta virtù” (v. 16) e considerata nulla più che una vuota parola, può rivolgersi l’estrema rivolta contro il fato, il destino, gli Dèi, messa in scena dal tirannicida Bruto, nella sua ultima notte dopo la sconfitta di Filippi, nel Bruto minore (VI, 1821). In un fosco quadro di titanismo, l’unica grande azione rimasta è così il suicidio, una scelta condivisa anche dall’antica poetessa greca Saffo disperata d’amore nell’Ultimo canto di Saffo (IX, 1822), senza però la connotazione titanica, modulata in un’elegia dolente dal dolore individuale al dolore universale: “Arcano è tutto, / fuor che il nostro dolor. Negletta prole / nascemmo al pianto” (vv. 46-48); un canto che si ricollega agli idilli con il celebre inizio notturno e lunare “Placida notte, e verecondo raggio / della cadente luna”. Inframezzato ai canti del suicidio è il dittico Alla primavera, o delle favole antiche (VII, 1822), congedo dai miti degli antichi, e quindi dalla fanciullezza-primavera dell’umanità, che però ritorna ciclicamente, e l’Inno ai Patriarchi (VIII, 1822, unico testo realizzato di un progetto di Inni cristiani), esempio di stile elevato in endecasillabi sciolti, dalla complessa struttura sintattica e metrica, congedo dalla sapienza biblica pervaso dalla nostalgia per il primitivo e per l’incorrotto stato di natura. All’inizio del ‘blocco degli idilli’ (X-XVI) fa la sua comparsa l’Io, con Il primo amore (X, 1817), in terzine, rielaborazione della Elegia I composta per Gertrude Cassi.

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Subito dopo s’inserisce un canto scritto più di dieci anni dopo, Il passero solitario (XI, ca. 1829), che rappresenta il fondamentale contrasto fra Io e mondo (di matrice petrarchesca), in una densa rete di corrispondenze poetiche: la primavera – l’illusione ciclica di felicità, il passero – poeta, la giornata che muore – la vita che se ne va, il canto – la poesia: “D’in su la vetta della torre antica, / passero solitario, alla campagna / cantando vai finché non more il giorno; / ed erra l’armonia per questa valle”. Seduto allora sull’ “ermo colle”, come un ‘passero solitario’ sulla torre, il poeta immagina il panorama oltre la siepe, nella condizione ‘romantica’ della “veduta ristretta e confinata” che suscita il desiderio dell’infinito, che mette in moto la fantasia, che inizia a creare ciò che il senso non vede: “L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario” (Zibaldone p. 171, 12-13 luglio 1820, nel contesto di una profonda meditazione sul concetto di infinito e indeterminato). È il processo intellettuale descritto appunto nel sublime idillio L’infinito (XII, 1819), che in appena quindici endecasillabi sciolti svolge un movimento d’oscillazione pendolare nello spazio e nel tempo, tra il senso del limite e l’infinito, scandito da suoni e sensazioni come lo stormire del vento tra le foglie. Un ‘paesaggio sonoro’ segna anche La sera del dì di festa (XIII, 1820), idillio di strofe libere in cui il poeta innamorato, pensando alla sua donna addormentata, medita sulla propria condizione di ‘esclusione’ tragica, e sull’universale condizione di dolore, e di sensazione di vuoto alla fine del giorno festivo. Il “solitario canto / dell’artigian” (vv. 25-26) riecheggia solo nella memoria di “un canto che s’udìa per li sentieri / lontanando morire a poco a poco” (vv. 40-41). Mirabile è l’incipit del notturno lunare: “Dolce e chiara è la notte e senza vento”. Il notturno lunare e lo stesso recupero memoriale sembrano tornare nel breve idillio Alla luna (XIV, 1819), che ricorda l’anacreontica ode latina del 1816, nella ripetuta invocazione “O graziosa luna”, “o mia diletta luna”. Segue la visione petrarchesca de Il sogno (XV, 1820), e poi La vita solitaria (XVI, 1821), apparente elogio della vita rustica in una serie di ‘quadretti’ nell’arco temporale di una giornata (alba, meriggio, notte), memorabile per l’ultima consonanza con la Natura nella sua manifestazione di potenza pànica ma benefica, momentaneo ritorno all’illusione dell’immaginazione. La prima parte del libro si conclude, come s’è detto, con una grande ‘cerniera’ di ‘testi di chiusura’: tre canti che ripetono tutti lo stesso tema, quello dell’addio. Lo troviamo modulato nella tarda novella in versi Consalvo (XVII, 1832, uno dei testi del ‘ciclo di Aspasia’), un episodio di un poema secentesco, Il conquisto di Granata di Girolamo Graziani, in cui avviene il patetico addio del morente cavaliere Consalvo alla sua donna Elvira, che lo bacia in punto di morte. Nella canzone Alla sua Donna (XVIII, 1823) è un addio all’amore, all’illusione della bellezza, alla stessa poesia, in forma di epistola poetica (v. 55, “questo d’ignoto amante inno ricevi”) a una donna ideale e inesistente (la “donna che non si trova”).



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Infine nell’epistola filosofica Al conte Carlo Pepoli (XIX, 1826) si legge l’amaro congedo dalla poesia che segna il riconoscimento del ‘vero’ (la vita è solo noia e inutile sofferenza). Dopo due anni di silenzio poetico, la seconda parte dei Canti (XX-XXIX), divisa a sua volta in due sezioni (i grandi idilli, o ‘canti pisano-recanatesi’ e il ciclo di Aspasia), inizia con la decisa rinascita del cuore e della poesia, nell’ariosa canzonetta metastasiana Il risorgimento (XX, 1828), e in A Silvia (XXI, 1828), forse ispirata dal ricordo di una Teresa Fattorini, figlia del cocchiere dei Leopardi, morta di tisi nel 1818. Nella sezione dei grandi idilli (XX-XXV), in cui avviene la definitiva conquista della metrica leopardiana dell’ampia strofa libera, è ora decisivo l’aspetto del recupero memoriale. Il ‘tu’ rivolto a Silvia, col tempo al presente, rende tutta la freschezza e la naturalezza della vita (“Silvia, rimembri ancora / quel tempo della tua vita mortale”), nei lampi degli “occhi ridenti e fuggitivi”, nel canto della fanciulla, nei profumi dei fiori di maggio, nel rumore del telaio, nei suoni e nelle luci della vita percepiti da Giacomo dal balcone del suo palazzo (XXI). I miti del borgo, rivissuti nella memoria, sono così celebrati ne Le ricordanze (XXII, 1829), evocazioni (anche sonore, come i rintocchi della campana della torre) che sembrano far rivivere le “speranze; ameni inganni / della mia prima età!” (vv. 77-78), la figura leggera di Nerina (forse un’altra fanciulla recanatese, Maria Berardinelli, morta nel 1827) di cui resta il suono dolce della voce, del suo passaggio veloce nella vita come una danza: “come un sogno / fu la tua vita. Ivi danzando” (vv. 152-53). Un intermezzo ‘cosmico’ è il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (XXIII, 1829), forse originato da una nota del “Journal des Savants” del 1828 in cui si diceva di pastori Kirghisi che passavano la notte seduti su una roccia, a guardare la luna e ad improvvisare tristi canzoni; una specie di inno alla luna, invocata più volte (con variazione di aggettivi ed epiteti di cui è il primo il più importante: silenziosa, vergine, intatta, solinga, eterna peregrina, pensosa, giovinetta immortal, candida), e più volte interrogata, in una serie di domande senza risposta, in cui prevale l’andamento da cantilena infantile, da litania religiosa, basata sulle ripetizioni; contemplazione della sofferenza universale, a partire da quella individuale (“a me la vita è male”, v. 104), a cui sembra preferibile la condizione di inconsapevolezza degli animali. E di nuovo i temi dell’illusione del piacere nella sospensione del dolore, e dell’illusione della felicità nell’attesa, compaiono nel dittico successivo de La quiete dopo la tempesta e Il sabato del villaggio (XXIV-XXV, 1829), mirabili anche per la rappresentazione del microcosmo vitale del borgo, nella ripresa della vita dopo la tempesta, o nel piccolo teatro della fanciulla che torna con i fiori, della vecchia che fila seduta sulla scala esterna della casa, della polifonia dei suoni della sera (la campana, le grida dei bambini che giocano sulla piazza, il fischio del contadino che torna a casa, i rumori degli artigiani, il fabbro e il falegname). La sezione successiva è quella che si condensa intorno all’ultima illusione d’amore per Aspasia, il cosiddetto ciclo di Aspasia (XXVI-XXIX), distinto dal passaggio

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ad una poetica anti-idillica, e all’abbandono della memorialità per una poesia tutta impegnata nel presente, come nel testo d’apertura, Il pensiero dominante (XXVI, 1832), e in Amore e Morte (XXVII, 1833), chiamati “fratelli” perché l’uno fonte di bene, l’altra annullamento del male. Ed è una sezione che subito giunge a conclusione, con la definitiva morte dell’amore in Aspasia (XXIX, 1834): un’altra epistola d’addio, come Alla sua donna, ma ora indirizzata a una donna reale, evocata nei dettagli sensuali della seduzione femminile (lei distesa su un divano, il color viola dei vestiti e il profumo dei fiori): “Or quell’Aspasia è morta / che tanto amai” (vv. 70-71). Prima di Aspasia, l’altro tragico ‘testo di chiusura’ che chiude il lungo ciclo iniziato con Risorgimento: il canto A se stesso (XXVIII, 1833), assoluto anti-idillio dal ritmo franto, spezzato, singhiozzante, una sola strofa di sedici endecasillabi e settenari, epigrafe sulla morte del cuore, della speranza, del desiderio. Terribile il finale (“Omai disprezza / te, la natura, il brutto / poter che, ascoso, a comun danno impera, / e l’infinita vanità del tutto”, vv. 13-16), che rinvia ad una concezione del male universale comprensibile solo nel confronto con il contemporaneo abbozzo dell’inno Ad Arimane, dio del male nello zoroastrismo iranico invocato come “Re delle cose, autor del mondo, arcana / malvagità, sommo potere e somma / intelligenza, eterno dator de’ mali e reggitor del moto”, una poesia-prosa di titanismo e rivolta del poeta che maledice il nome del dio malvagio, e conclude disperato: “Non posso, non posso più della vita”. Qui si sarebbe potuto chiudere il libro, e la grande invenzione formale del ritmo franto continua in effetti nei due canti successivi, di tema sepolcrale, Sopra un basso rilievo antico sepolcrale e Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima (XXX-XXXI, 1834), che, partendo dalla suggestioni di bassorilievi del contemporaneo scultore Pietro Tenerani, rappresentano il momento dell’addio alla vita, dell’ingresso nel mondo delle tenebre, e anche della macabra metamorfosi della bellezza corporea nel disfacimento delle carni e delle ossa, del ritorno al nulla, della “morte al lavoro”. Come se ormai Leopardi lanciasse i suoi messaggi dall’oltretomba, se la sua fosse una poesia ‘oltre la fine’. E invece, a Napoli, il libro dei Canti trova ancora la forza e l’energia per la composizione di tre grandi testi conclusivi: ed è una grande poesia civile, sferzante e terribile talora, in cui l’Io, dopo la sua lunga e tormentata storia di cadute e riprese, e di morte definitiva delle illusioni e del cuore, sembra ritrovare in sé alcune delle magnanime spinte giovanili, dell’ambizione a fare ‘qualcosa di grande’, alla comunicazione di un messaggio di verità e di forza morale, di opposizione e di rivolta nei confronti di un presente di decadenza e corruzione. La Palinodia al marchese Gino Capponi (XXXII, 1835), un’altra epistola come quella al Pepoli, si ricollega al dialogo di Tristano e alla satira dei Nuovi credenti, fingendo la completa ritrattazione della visione negativa del mondo e della vita, e l’accettazione dell’ottimismo universale delle “gazzette”, della nuova fede nel progresso e nella felicità del tempo presente, chiamato ironicamente “aureo secolo” (v. 38).



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Nessuna illusione, invece: la vita degli uomini continua a scorrere in un’oscurità senza speranza, come ripete Il tramonto della luna (XXXIII, 1836). Ma egualmente, in uno scenario cosmico di deserto e devastazione, che dimostra senza lasciare dubbi la vanità della vita (e la stupidità di chi crede nelle “magnifiche sorti e progressive”), resta il generoso slancio verso la fratellanza e la pietas del genere umano, che fa fronte comune contro la comune sofferenza, consapevole della fine ma anche della verità, nel simbolo de La ginestra, o il fiore del deserto (XXXIV, 1836), inno sì, ma all’umile simbolo della vita che continua a essere presente anche nel regno della morte. È questa, in effetti, la vera conclusione del libro dei Canti: prima la Palinodia (nell’edizione Starita del ’35), poi La ginestra (nella successiva edizione Le Monnier, 1845), il gran finale, come nelle sinfonie di Beethoven. Ma non sono gli ultimi testi del libro. Come un musicista che, terminato il concerto, concede ancora un bis, tornando a tentare le corde di un repertorio a cui è affezionato, così Leopardi si concede (già nell’edizione Starita del ’35) una ‘coda’ di imitazioni, scherzi e frammenti: il bozzetto di un foglia che vola spinta dal vento in Imitazione (XXXV), il quadretto anacreontico dello Scherzo (XXXVI, 1828), uno strano dialogo pastorale su un sogno della luna che cade dal cielo (XXXVII, 1819, dal titolo originario Lo spavento notturno), brevi frammenti dell’Elegia II e dell’Appressamento della morte (XXXVIII, 1818, e XXXIX,1816), e due traduzioni Dal greco di Simonide (XL-XLI, 1823). Per l’ultima volta, torna a sorridere il fanciullo troppo invecchiato di vent’anni prima.

Bibliografia Opere complessive: Tutte le opere, con introduzione e a c. di W. Binni, con la collaborazione di E. Ghidetti, Firenze, Sansoni, 1969 (Firenze, Le Lettere, 2006); Poesie e prose, a c. di R. Damiani e M.A. Rigoni, Milano, Mondadori, 2006; Tutte le poesie e tutte le prose, a c. di L. Felici ed E. Trevi, Roma, Newton Compton, 2007. Monografie: G. Tellini, Leopardi, Roma, Salerno, 2001; M.A. Bazzocchi, Leopardi, Bologna, Il Mulino, 2008. Saggi critici complessivi: C. Luporini, Leopardi progressivo (1947), Roma, Editori Riuniti, 2006; W. Binni, La nuova poetica leopardiana (1947), Firenze, Sansoni, 1971, e La protesta di Leopardi, ivi, 1973; S. Timpanaro, La filologia di Giacomo Leopardi (1955), Roma-Bari, Laterza, 1997; A. Prete, Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi, Milano, Feltrinelli, 1996. Risorse in rete: Centro ������������������������������������������������� Nazionale di Studi Leopardiani, Recanati (www.centrostudileopardiani.it); Progetto Leopardi, Recanati (www.leopardi.it), Biblioteca Nazionale di Napoli (manoscritti autografi)��(www.bnnonline.it/biblvir/leopardi.htm). 6.1. La vita. R. Damiani, All’apparir del vero. Vita di Giacomo Leopardi, Milano, Mondadori, 1998.

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6.2. Prime prove letterarie. G. Leopardi, Entro dipinta gabbia. Tutti gli scritti inediti, rari ed editi. 1809-1810, a c. di M. Corti, Milano, Bompiani, 1972. Edizioni delle lettere: Epistolario, a c. di F. Brioschi e P. Landi, Torino, Bollati Boringhieri, 1998; Lettere, a c. di R. Damiani, Milano, Mondadori, 2006. Cfr. Il monarca delle Indie. Corrispondenza tra Giacomo e Monaldo Leopardi, a c. di G. Pulce, intr. di G. Manganelli, Milano, Adelphi, 1988. 6.3. Dallo Zibaldone ai Pensieri. Edizioni: Zibaldone, ed. crit. a c. di G. Pacella, Milano, Garzanti, 1991; edizione tematica, a c. di F. Cacciapuoti, Roma, Donzelli, 1997-2003; Pensieri, ed. crit. a c. di M. Durante, Firenze, Accademia della Crusca, 1998. Studi: L. Anceschi, Un laboratorio invisibile della poesia. Le prime pagine dello Zibaldone, Parma, Pratiche, 1992; F. Mecatti, La cognizione dell’umano. Saggio sui “Pensieri” di Giacomo Leopardi, Firenze, SEF, 2003. 6.4. Le Operette morali. Operette morali, ed. crit. a c. di O. Besomi, Milano, Fondazione Mondadori, 1979; a c. di L. Melosi, Milano, Rizzoli, 2008. 6.5. La poesia satirica. Paralipomeni della batracomiomachia, a c. di M.A. Bazzocchi e R. Bonavita, Roma, Carocci, 2002. Cfr. G. Savarese, L’ eremita osservatore. Saggio sui «Paralipomeni» e altri studi su Leopardi, Roma, Bulzoni, 1995. 6.6. I Canti. Edizioni: Canti, a c. di G. e D. De Robertis, Milano, Mondadori, 1978; a c. di F. Gavazzeni, Firenze, Accademia della Crusca, 2006. Studi: F. Brioschi, La poesia senza nome, Milano, Il Saggiatore, 1980; M. Santagata, Quella celeste naturalezza. Le canzoni e gli idilli di Leopardi, Bologna, Il Mulino, 1994; L. Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito, Bologna, Il Mulino, 1985, e Lo stormire del vento tra le piante. Testi e percorsi leopardiani, Venezia, Marsilio, 2003; Lectura leopardiana. I quarantuno “Canti” e “I nuovi credenti”, a c. di A. Maglione, ivi 2003; B. Martinelli, Leopardi e la condizione dell’uomo, Pisa, Giardini, 2005; P.V. Mengaldo, Sonavan le quiete stanze. Sullo stile dei «Canti» di Leopardi, Bologna, Il Mulino, 2006; L. Polato, Il sogno di un’ombra. Leopardi e la verità delle illusioni, Venezia, Marsilio, 2007; A. Folin, Leopardi e il canto dell’addio, ivi 2008.

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7.1. La vita Alessandro Manzoni nacque a Milano nel 1785, nel ‘salotto buono’ dell’illuminismo aristocratico lombardo, figlio di Giulia Beccaria (figlia di Cesare) e probabilmente dell’amante di lei, Giovanni Verri (fratello di Pietro e Alessandro). Separatasi la madre dal padre ufficiale (il conte Pietro Manzoni) per convivere all’estero col conte Carlo Imbonati, il piccolo Alessandro veniva destinato a passare tutta la sua infanzia ed adolescenza in collegi religiosi (1790-1801), che comunque gli diedero una buona preparazione letteraria e retorica. Dopo un breve periodo di sbandamento giovanile, influenzato da Foscolo e dal classicismo di Monti, ritrova la madre a Parigi, nella Francia napoleonica (1805). Giulia Beccaria era rimasta sola, in seguito alla morte dell’Imbonati, ma ne aveva ereditato il ricco patrimonio, e da allora visse sempre col figlio, ispirandone molte delle scelte di vita e di cultura: un rapporto importante, quello di Alessandro con questa donna quarantenne che era stata bella, libera, un po’ libertina, affascinante, leggera e volitiva, culturalmente raffinata e à la page, simbolo vivente di quel Settecento che ormai lui e il suo tempo si lasciavano per sempre alle spalle. Inizia un fecondo avvicinamento alle avanguardie della cultura francese contemporanea, nella fase di passaggio dal razionalismo sensistico e materialistico allo spiritualismo romantico, soprattutto grazie all’amicizia con Claude Fauriel, conosciuto nel salotto dell’amica Sophie Grouchy, vedova del filosofo Condorcet. È il Fauriel (già amante della de Staël) a introdurlo nel gran mondo intellettuale parigino, a fargli conoscere i cosiddetti Idéologues, il filosofo Antoine Destutt de Tracy e lo scienziato Pierre Jean Cabanis, a discutere con lui delle teorie romantiche di Schlegel. Il giovane Alessandro diventa ora un vero intellettuale europeo, ben prima che in Italia si sviluppi il dibattito sul confronto tra cultura italiana ed europea, e sull’eventuale ‘ri-

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tardo’ di quella italiana. Sarà questa formazione tra Parigi e Milano che darà sempre a Manzoni quel ‘passo in più’, rispetto a molti italiani contemporanei, e che gli consentirà, pur se in un apparente aristocratico isolamento, di essere subito considerato una delle guide del movimento intellettuale italiano, e in particolare del romanticismo. Sposata a Milano la sedicenne figlia calvinista di un ricco borghese ginevrino, Enrichetta Blondel (1808), e iniziata a Parigi la frequentazione di don Eustachio Degola (un prete vicino al rigore morale del giansenismo, dottrina religiosa che affermava che l’uomo, per natura macchiato dalla Colpa, può essere salvato solo dalla Grazia), dopo un lungo e meditato percorso Alessandro si riavvicina al cattolicesimo (1810), che da questo momento guiderà tutta la sua attività intellettuale, permettendogli di identificare la ricerca del ‘vero’ con la verità proposta dalla religione rivelata; un sentito orizzonte religioso, condiviso poi con don Luigi Tosi e con il grande filosofo cristiano Antonio Rosmini. Rientrato in Italia, cominciò ad occuparsi dell’amministrazione del patrimonio terriero (all’inizio molto disastrosa), alternando la residenza tra Milano e la Villa di Brusuglio ereditata dall’Imbonati. Una vita tutto sommato tranquilla, appartata, lontana dal clamore del coinvolgimento diretto nella politica o nei moti patriottici, legata alle vicende di una vita familiare non felice, segnata da molti lutti (soprattutto la morte dell’amatissima Enrichetta nel 1833, cui seguirono quelle di vari suoi figli, della madre Giulia nel 1841, e della seconda moglie Teresa Borri nel 1861), e da problemi di salute mentale, che sfociavano talvolta nell’epilessia. In tale situazione, Manzoni pianificò e cominciò a realizzare metodicamente e pubblicare le sue varie opere, dagli Inni sacri alle Tragedie, dagli studi storici agli scritti di linguistica e di poetica, e soprattutto la grande impresa del romanzo, I promessi sposi, giunto dopo una lunga elaborazione alle due edizioni del 1827 e 1840-1842. Pochi gli spostamenti, tra i quali determinante quello a Firenze (1827), anche per la conferma della scelta linguistica del romanzo, l’adozione di una lingua letteraria basata sul fiorentino parlato dalle classi colte (la cosiddetta “risciacquatura in Arno”), scelta che si sarebbe rivelata di una portata incalcolabile per lo sviluppo successivo della lingua italiana. Con l’avvento dell’Unità d’Italia (1861), Manzoni assurse a paradigma della nuova letteratura nazionale, soprattutto con il romanzo, che divenne il libro di testo fondamentale della scuola, strumento di educazione e unificazione linguistica delle nuove generazioni. Nominato senatore del Regno, l’ultraottantenne ‘don Lisander’ era ormai un sopravvissuto a se stesso, venerata reliquia del Risorgimento nella sua casa di via del Morone, e morì in seguito a una caduta sul sagrato della chiesa di San Fedele, a Milano, nel 1873.



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7.2. La poesia La poesia giovanile del Manzoni è tutta sotto il segno dei grandi poeti della generazione precedente: Alfieri gli ispira il solito sonetto Autoritratto, “Capel bruno; alta fronte; occhio loquace” (1801), Monti (che lo conosce e lo apprezza) è il modello del poemetto dantesco e filorivoluzionario Trionfo della libertà (1801), ma soprattutto di testi legati al neoclassicismo come l’idillio Adda (1803) e il freddo poemetto mitologico Urania (1809), sul valore civilizzatore della poesia. Più duraturo e profondo (ed è un segnale importante) l’influsso del Parini, all’inizio sul versante della satira dei costumi contemporanei derivata dal Giorno (nei quattro Sermoni del 1804, caricatura della corruzione sociale); poi su quello della poesia educatrice, ispiratrice di conversione morale, nel carme In morte di Carlo Imbonati (1806), in endecasillabi sciolti, in cui la figura dell’amante della madre (morto da poco) gli appare in sogno ad indicargli la retta via della virtù, una via che per il giovane Manzoni è anche la prima dichiarazione di una poetica tesa a perseguire il ‘santo Vero’, di una poesia moralmente impegnata: “Sentir [...] e meditar: di poco / esser contento: da la meta mai / non torcer gli occhi, conservar la mano / pura e la mente: de le umane cose / tanto sperimentar, quanto ti basti / per non curarle: non ti far mai servo: / non far tregua coi vili: il santo Vero / mai non tradir: né proferir mai verbo, / che plauda al vizio, o la virtù derida” (vv. 207-215). Su questo programma si innesta perfettamente la conversione religiosa, che porta anche all’abbandono della poetica neoclassica, e al rigetto di un testo come l’Urania. Con l’entusiasmo del neofita, Manzoni si propone allora di dare alla letteratura italiana moderna una nuova e autentica voce di poesia religiosa, progettando dodici Inni sacri che avrebbero dovuto celebrare altrettante feste religiose nel corso dell’anno liturgico: ma del progetto vengono completati solo cinque inni, pubblicati nel 1822: La Risurrezione (1812), Il nome di Maria (1812-1813), Il Natale (1813), La Passione (1814), La Pentecoste (1814-1815). È un esperimento importante dal punto di vista formale: la tradizione liturgica cristiana si basava su un’innografia latina fortemente connotata dal punto di vista ritmico, e Manzoni vorrebbe ricreare quei ritmi nella metrica, servendosi anche dei versi della tradizione (strofette di settenari piani, sdruccioli o tronchi; o quartine di tre endecasillabi e un settenario) o inventandone di nuovi (il martellante decasillabo, e l’ottonario che sembra rifare il tetrametro trocaico). Nei primi quattro inni la struttura biblico-teologica appesantisce però la poesia dal punto di vista retorico, in una visione talvolta incupita dalla

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visione della dannazione eterna (La Risurrezione), o del peccato originale, che aveva precipitato l’uomo nella pesantezza del male e della materia come un masso rotolato dalla cima di una montagna (Il Natale). Appaiono però anche alcune tematiche care al Manzoni, come le immagini degli ‘umili’, delle creature della terra che invocano il nome di Maria: il fanciullo nello spavento notturno, il marinaio nel pericolo della tempesta, la donna semplice del popolo (la ‘femminetta’) che alla Vergine affida le sue lacrime, e “della sua immortale / alma gli affanni espone” (Il nome di Maria, vv. 51-52). È l’attenzione al nucleo profondo della religiosità popolare, che nel finale dell’inno diventa vera preghiera, eco del Salve regina e delle litanie lauretane: “Salve, o degnata del secondo nome, / o Rosa, o Stella ai periglianti scampo” (vv. 81-82). Dalla storia lunga e tormentata, forse solo La Pentecoste (1817-1822) si innalza all’altezza dell’inno religioso, gioiosamente cantabile nelle sue strofette di settenari, quasi da canzonetta arcadica. Qui lo Spirito Santo che illumina l’umanità si fa anche portatore dei valori universali di pace, libertà, fratellanza. Manzoni vi celebra il mistero teologico dell’origine e della storia della Chiesa (“Madre de’ Santi, immagine / della città superna”), a partire dal momento in cui lo Spirito si posò sui discepoli e gli apostoli di Gesù, operando il cosiddetto ‘miracolo delle lingue’, e avviando la propagazione irresistibile del messaggio cristiano fino ai luoghi più remoti del mondo. L’evangelo, la buona novella ha raggiunto tutti gli esseri umani, senza distinzione di razza, di condizione sociale, di ricchezza, di cultura, ed è la sola via di consolazione alle sventure della vita. I nuovi metri tentati negli Inni sacri compaiono anche nelle odi civili, che rispondono alla parallela esigenza di lanciare un messaggio di rinnovamento e di lotta per la libertà e l’indipendenza italiana sul piano politico. Le prime due, di cui sono rimasti solo dei frammenti, nascevano nel tempo confuso della caduta del dominio napoleonico, nell’illusione di una libertà da conquistare ora contro i Francesi in Aprile 1814 (1814), ora contro gli Austriaci, ne Il proclama di Rimini (1815), in occasione dell’appello lanciato da Gioacchino Murat all’unità degli italiani, e subito frustrato dalla sconfitta di Tolentino e dalla morte del re di Napoli. Le aspirazioni patriottiche riemergeranno nei forti e concitati decasillabi di Marzo 1821 (gli stessi del coro del Carmagnola), quasi una marcia guerresca, ispirata dalla speranza di libertà che il moto rivoluzionario del marzo 1821 aveva suscitato in Piemonte, e che aveva portato i patrioti sulle sponde del fiume Ticino, pronti a passare il confine, e liberare la Lombardia dal dominio austriaco: ma gli eventi precipitarono subito, i rivoluzionari furono dispersi, nessuno attraversò il Ticino,



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e Manzoni nascose la sua ode nel cassetto fino alla successiva rivoluzione del ’48. Nel 1821, l’immagine del Ticino ‘varcato’ rimase così solo un sogno: “Soffermati sull’arida sponda, / volti i guardi al varcato Ticino”. Pochi mesi dopo, in luglio, la “Gazzetta di Milano” pubblicò la sensazionale notizia che Napoleone Bonaparte, il dominatore assoluto dell’Europa appena pochi anni prima, era morto il 5 maggio, nell’oscuro esilio dell’isola di Sant’Elena, nell’Oceano Atlantico. In soli tre giorni Manzoni scrisse allora Il cinque Maggio, una delle più belle odi della letteratura italiana, in strofe di settenari che sembrano riprendere il ritmo della Pentecoste, e invece riescono a variare la modulazione in un altissimo gioco ritmico-musicale di pause (fin dal celebre inizio “Ei fu”), di crescendi e rallentamenti, di sentenze lapidarie: un testo che ebbe immediata fortuna in Europa, e fu tradotto in tedesco addirittura da Goethe. È la ‘grande Storia’ degli uomini (rappresentata da Napoleone) che deve fare i conti con l’Eterno, il Divino, per scoprire che tutto quello per cui si è versato tanto sangue (il potere e la gloria) non è che vanità, silenzio, tenebre. Alla fine, di fronte al giudizio della storia, ma soprattutto di fronte al peso angoscioso dei ricordi, resta l’uomo Napoleone, spogliato di tutta la sua gloria. Un uomo come tutti gli altri, un uomo solo, disperato, abbandonato da tutti, al cui soccorso “valida / venne una man dal cielo”, la misericordia del “Dio che atterra e suscita, / che affanna e che consola”. Si concludeva qui la scrittura poetica manzoniana, che comunque tentò di tornare al canto dopo un evento tragico, la morte di Enrichetta, avvenuta nel Natale del 1833. Manzoni cercò allora di riprendere il dialogo col Divino con un inno-preghiera, interrogazione sul senso di quella terribile perdita, sentita come il colpo della fòlgore da parte di una divinità terribile e incomprensibile: “Mentre a stornar la folgore / trepido il prego ascende / sorda la folgor scende / dove tu vuoi ferir!”. Ma l’inno, Il Natale 1833, rimase incompiuto alla quarta strofa, con la lapidaria nota latina cecidere manus (‘cadde la mano’). Allo stesso modo, nel 1847, fu abbandonato l’inno Ognissanti, che avrebbe dovuto continuare gli Inni sacri, e che presentava singolari punti di contatto con la leopardiana Ginestra (pubblicata nel ’45), nell’immagine di un “tacito fior [...] che spande ai deserti del cielo / gli olezzi del calice, e muor”.

7.3. Il teatro Nel 1816 Manzoni cominciò a dedicarsi anche al teatro, con la composizione di una cupa tragedia storica (sul modello delle tragedie ‘moderne’ di Shake-

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speare), Il conte di Carmagnola (1816-1820, ed. 1820), tratta dalla lettura appassionata dell’Histoire del Sismondi. L’ambientazione avviene in un Quattrocento italiano nel quale, più che gli scenari luminosi del Rinascimento, prevalgono gli intrighi oscuri del machiavellismo e della ragion di stato, di fronte ai quali è inevitabile che l’eroe, ingiustamente accusato, soccomba. Era un testo più da leggere che da recitare (unica rappresentazione nel 1828, a Firenze), in endecasillabi come nell’Alfieri; e lo stesso Manzoni la definì “tragedia da tavolino”. Ma aveva una sua importanza nel programma di rinnovamento romantico che Manzoni voleva portare avanti, anche nel teatro, infrangendo il tabù delle regole aristoteliche delle famose unità di luogo e di tempo (come s’afferma lucidamente nella prefazione). E infatti l’azione si svolge in tempi e luoghi lontani tra loro, descrivendo la tragedia del condottiero Francesco Bussone (il conte di Carmagnola), che passato dal servizio di Filippo Maria Visconti duca di Milano a quello dei nemici veneziani, finisce in sospetto anche di questi ultimi, accusato ingiustamente di tradimento e decapitato. La grande novità della tragedia è sicuramente il coro, presentato nella prefazione con citazioni di quanto Schlegel scriveva a proposito dei cori delle tragedie greche: “Il Coro è da riguardarsi come la personificazione de’ pensieri morali che l’azione ispira, come l’organo de’ sentimenti del poeta che parla in nome dell’intera umanità [...] il Coro era insomma lo spettatore ideale”, con in più la possibilità, per i moderni, di offrire al poeta “un cantuccio dov’egli possa parlare in persona propria”, e lasciare all’azione il massimo di oggettività, senza caricare i personaggi anche delle opinioni dell’autore. Nel Carmagnola compare un solo coro, nel secondo atto, quando infuria la battaglia di Maclodio, vinta dal Conte: un saggio di poesia ‘guerresca’, cadenzato dal ritmo martellante dei versi decasillabi, e dalla forte descrittività visivo-sonora, che serve a proporre agli spettatori una scena di battaglia che in effetti essi non vedono: “S’ode a destra uno squillo di tromba; / a sinistra risponde uno squillo”. Ma se il coro serve all’autore per manifestare il suo giudizio sulla storia, qual è questo giudizio? Semplicemente la scoperta che gli avversari di quella battaglia non sono stranieri, ma anch’essi italiani, soldati mercenari, e che si tratta di una inutile lotta fratricida (“i fratelli hanno ucciso i fratelli”), quando invece bisognerebbe unire tutte le forze per difendere l’Italia e liberarla dagli stranieri. Oltre ad un’esortazione rivolta al presente, il coro del Carmagnola presentava evidentemente anche un giudizio storico negativo sulla crisi del Rinascimento italiano, che, nonostante le altezze d’ingegno e d’arte raggiunte, non fu capace di pervenire a strutture politiche unitarie e stabili. In effetti, le tragedie del Manzoni sono strettamente legate alla sua riflessione storica, e in particolare al continuo interrogarsi sulla questione della decadenza



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della civiltà italiana, a confronto con l’Europa (ancora il tema polemico di Sismondi!), e sui modi di realizzare un vero ‘risorgimento’. Il momento successivo di tale riflessione fu attuato dunque ‘retrodatando’ i termini del problema, fino a quella che poteva sembrare la sua ‘origine’, i secoli bui dell’Alto Medioevo, l’età del dominio barbarico che aveva spazzato via la civiltà degli antichi. È questo lo scenario dell’Adelchi (1820-1822, ed. 1822), ambientato all’epoca della caduta del regno longobardo in Italia a opera dei Franchi di Carlo Magno, che spodesta l’ultimo re longobardo Desiderio con l’appoggio di papa Adriano (774). Anche questa è una tragedia ‘da leggere’ (anche se ha conosciuto nel Novecento una certa fortuna teatrale), non a caso pubblicata nel ’22 insieme a un ponderoso Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia. La storia non pesa sullo sviluppo dell’azione, che inizia già nella situazione di scontro con i Franchi: casus belli è il ripudio, da parte di Carlo, della sua sposa Ermengarda (figlia di Desiderio), un evento che condanna l’infelice alla clausura nel monastero di San Salvatore a Brescia, dove morirà “col tremolo sguardo cercando il ciel”, come canta lo splendido coro del IV atto (“Sparsa le trecce morbide / sull’affannoso petto”), nello stesso metro della Pentecoste e del Cinque Maggio. Alla figura purissima di Ermengarda corrisponde quella dell’altro figlio di Desiderio, l’eroe Adelchi, che viene sopraffatto dal nemico, anche a causa del tradimento del perfido Svarto. Ed è al momento della disfatta longobarda, della disfatta di uno straniero ad opera di un altro straniero, che per l’unica volta in questa tragedia, nel grande coro del III atto (in solenni versi dodecasillabi), si fanno vedere le mute e passive comparse della storia d’Italia, gli stessi italiani, un “volgo disperso” che sorge “Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti, / dai boschi, dall’arse fucine stridenti, / dai solchi bagnati di servo sudor”; un volgo che però tornerà fatalmente ad abbassare la testa, rassegnato a quella vicenda di lungo periodo che avrebbe visto per secoli l’Italia divisa e preda di dominazioni straniere.

7.4. I promessi sposi La ‘conversione’ di Manzoni non fu un evento limitato alla sola sfera religiosa: fu anche conversione dal neoclassicismo al romanticismo, dal mito alla storia, dalla poesia alla prosa. La scoperta della storia era già avvenuta a contatto con intellettuali come Cuoco, e con l’appassionata lettura di Vico e Rousseau, e poi di importanti testi, sia di filosofia della storia, che di storia medievale e moderna, dal Muratori al Sismondi. Se da un lato la storia umana, considerata razionalmente per se stessa, poteva ispirare un profondo

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pessimismo, dall’altro la duplice prospettiva cristiana e romantica suggeriva la possibilità di un riscatto, di un significato, di una direzione, non appiattita sull’illusione di un progresso solo materiale e sociale, ma illuminata dalla luce della Grazia e della Provvidenza, in cui le classi subalterne, gli ‘umili’, trovavano una loro piena dignità e umanità, senza bisogno di rivoluzioni violente e sanguinarie, come la Rivoluzione Francese. Di più, in questo ‘senso della storia’ poteva trovare posto anche il nuovo ideale patriottico, la speranza che, dopo un’età di decadenza, fosse giunto il tempo del ‘risorgimento’ d’Italia, e della sua indipendenza dalle dominazioni straniere. In che modo comunicare, per mezzo della letteratura, questo grandioso mutamento di prospettiva? Manzoni sentì che i generi ‘alti’, di cui sino allora s’era servito, non gli bastavano più. In piena sintonia con le istanze romantiche, c’era bisogno di un pubblico più vasto, quello delle classi medie e borghesi che erano emerse con decisione nella gestione dell’economia e della politica negli ultimi decenni, mandando in soffitta l’Antico Regime: un pubblico ‘popolare’ ma non plebeo, da conquistare con strumenti ‘popolari’, e non elitari, come qualche ‘tragedia da tavolino’. E nemmeno gli Inni sacri potevano bastare, con la loro pesante oratoria sacra, per quanto nella Pentecoste affiorasse, anche esplicitamente, l’ideale di una sorta di apostolato della comunicazione. E qual era il genere più ‘popolare’, quello che, ad esempio, aveva dato a Foscolo la fama più vasta? Ma il romanzo, naturalmente. Un genere che Manzoni conosceva benissimo, in tutte le forme declinate dal Settecento: dal Robinson Crusoe di Jonathan Swift al romanzo filosofico francese di Diderot e Voltaire, dall’umorismo di Sterne al Werther e all’Ortis, e anche il romanzo nero e gotico di Ann Radcliffe, e quello libertino e di costume di Prevost e Choderlos de Laclos (anche nella versione figurativa di William Hogarth); vere miniere dell’immaginario ‘romanzesco’ di allora, con frati diabolici e monache perverse e rapimenti in carrozza di fanciulle innocenti ad opera di perfidi signorotti, come nella novella Eugénie de Franval del marchese de Sade, accompagnata nelle edizioni da un importante saggio Idées sur les romans (‘idee sui romanzi’). Dopo tante letture (inconfessabili per il convertito, ma ancora operanti), quella apparentemente decisiva, in cui il romanzo s’incontra con la storia: l’Ivanhoe di Walter Scott, letto a Parigi nel 1820. Il prototipo del romanzo storico, lodato dall’amico Fauriel, all’inizio non convinse Manzoni, che però (considerando anche la fortuna di pubblico del contemporaneo Grossi per la sua poesia ‘storica’, l’Ildegonda) capì che era quella la strada giusta, in gran parte depurata degli elementi banalmente ‘romanzeschi’ (il dominio del fantastico e delle peripezie avventurose). Quel che è importante per lui (lo si è visto nelle tragedie) è il primato del ‘vero’, della storia, raggiun-



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to con un’accurata e maniacale documentazione preliminare, degna quasi dell’erudizione muratoriana, ma illuminata dalla coscienza vichiana di un profondo legame tra passato e presente, di costanti universali dell’operare umano che vanno al di là dei singoli periodi storici. Individuare alcune di quelle costanti, nelle profondità della coscienza individuale, in relazione alle sue grandi scelte morali, e al confronto con il Divino, con ciò che va oltre il Tempo, oltre la Storia; la verità della vita nella rappresentazione dell’eterna lotta fra Bene e Male, e quindi il ‘realismo’ in senso cristiano; queste alcune delle grandi idee che dovettero fornire al Manzoni quella prodigiosa spinta creativa che gli permise di iniziare il suo progetto, di creare qualcosa che non può essere considerato ‘solo’ un romanzo storico, un ‘libro’ nuovo e unico nella letteratura italiana ed europea. E forse, in quel momento, solo Manzoni, col suo orizzonte europeo, era in grado di scriverlo. Il 24 aprile 1821, allestito con cura un quadernone, Manzoni comincia a scrivere l’inizio del suo romanzo. Ha cura di scrivere solo su metà foglio, lasciando l’altra metà libera per le future correzioni. L’opera nasce già, nel suo pensiero, come ‘opera in movimento’. Finisce di scrivere il 17 settembre 1823. Questa prima stesura non ha per ora alcun titolo (l’amico Ermes Visconti, in una sua letterina del 1822, la definisce “il Romanzo di Fermo e Lucia”, dai nomi dei due protagonisti). È una ‘storia milanese del XVII secolo’, che l’autore, nell’Introduzione, finge d’aver trovato in un manoscritto secentesco, e di aver semplicemente riscritto e rielaborato: la storia di due popolani di un paesino sulle rive del lago di Como, ambientata nel 1628-1630 vicino a Lecco, il tessitore Fermo Spolino e la filandaia Lucia Zarella, il cui matrimonio viene mandato a monte dal perfido signorotto don Rodrigo, e che dopo infinite peripezie (dal rapimento di Lucia alla terribile epidemia di peste) riescono a ritrovarsi e a sposarsi. Manzoni torna subito a lavorare sul testo, in un radicale rifacimento strutturale. Da un lato bisogna ‘compattare’ la storia, condurla dal policentrismo (molte vicende quasi ‘separate’ a blocchi) ad un intreccio narrativo unitario, in cui le diverse linee (corrispondenti ai diversi personaggi, divisi dal destino) procedano parallele. Uno di quei ‘blocchi’ era addirittura diventato un ‘romanzo nel romanzo’, e quindi andava drasticamente ridotto (la storia della Monaca di Monza che ospita Lucia in fuga, ma poi si fa complice del suo rapimento). Andava ridotta la presenza invadente della Storia, con i suoi documenti d’archivio e le sue fonti (ad esempio, la digressione sulla Colonna Infame, che a Milano fu eretta in ricordo ignominioso di alcuni innocenti giustiziati con la falsa accusa d’aver propagato la peste, chiamati ‘untori’). Si eliminano gli elementi ‘romanzeschi’ o troppo truculenti, come l’apparizione finale dell’appestato don Rodrigo, ormai folle nell’estremo de-

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lirio, trascinato via da un cavallo impazzito nel Lazzaretto, in quella che sembra una cavalcata infernale. E infine si dà un nuovo smalto al sistema dei personaggi, con l’attribuzione di nomi sicuramente più ‘realistici’ e meno da ‘commedia’. Fermo Spolino diventa Renzo Tramaglino, Lucia Zarella diventa Lucia Mondella, il Conte del Sagrato diventa l’Innominato. Dall’altro lato, comincia la riscrittura linguistica nella direzione di una lingua nazionale media modellata sul fiorentino d’uso contemporaneo. Il risultato (al quale Manzoni dà un titolo provvisorio solo verso la fine, Gli Sposi promessi, poi subito mutato nella forma definitiva) approda così alla prima edizione, procurata a Milano dall’editore Vincenzo Ferrario (lo stesso di Tragedie e Inni sacri) nel 1827, in tre volumi (datati però 18251826), edizione chiamata perciò “ventisettana”, col titolo I promessi sposi, e sottotitolo (altrettanto importante), Storia milanese del secolo XVII scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni. In seguito, Manzoni continuò a correggere la lingua del romanzo, sempre di più avvicinata al modello del fiorentino contemporaneo parlato dalle classi medie, approdando alla seconda edizione, uscita in dispense a Milano presso Guglielmini e Redaelli dal 1840 al 1842, e quindi chiamata “quarantana”, col titolo I promessi sposi. Storia milanese del secolo XVII scoperta e rifatta. L’intera Storia della colonna infame, documento di denuncia civile dell’ingiustizia e della tortura (memore dell’eredità morale del nonno di Manzoni, Cesare Beccaria), vi comparve come appendice (1842). Ma soprattutto la ‘quarantana’ si presentava come il più bel libro illustrato dell’Ottocento italiano, un vero capolavoro tipografico con una quantità enorme di incisioni (oltre quattrocento!), eseguite in gran parte dal celebre artista Francesco Gonin, e controllate personalmente dallo stesso autore. Illustrazioni che fornivano una lettura ‘parallela’ a quella del testo, più immediata e più in linea rispetto alle modalità di ricezione di un pubblico ‘popolare’ (nell’accezione romantica e manzoniana) e del suo immaginario; se vogliamo, una specie di film, cinquant’anni prima dell’invenzione del cinema. Il romanzo è dominato dal confronto fra grande Storia e piccola Storia, tra le vicende della storia europea nel 1628-1630 e dei suoi riflessi sulla Lombardia sotto il dominio spagnolo (il malgoverno, la carestia, le rivolte, la guerra, la peste) e quelle della ‘microstoria’, delle singole vicende individuali degli ‘umili’, “gente meccaniche et di picciol affare”. È il tempo della microstoria che segna, con precisione l’inizio del racconto, “sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628”, quando sul paesaggio del lago di Como viene isolata la figura di un curato che torna “bel bello” verso casa. Su tutto, un pessimismo di fondo, che rivela che la vita quaggiù è essenzialmente



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“dolore”, la società è dominata dalla violenza, dalla prepotenza, dallo sfruttamento, e che spesso le stesse istituzioni (anche la giustizia, e talvolta perfino la Chiesa) sono paravento ipocrita del sistema di sopraffazione dei ‘potenti’, anche con le armi della lingua e della cultura (il famoso latinorum), che segnano l’invalicabile divario tra le classi dominanti e gli ‘umili’ analfabeti. Il riscatto è reso possibile solo dalla Provvidenza, e dalla fiduciosa e operosa accettazione dei disegni divini, anche quando essi sono incomprensibili, anche nell’oscurità del dolore e della sofferenza, dei tribolati e degli oppressi: e lì, soprattutto, è presente Dio, il volto di Cristo nel volto del malato o del povero, e addirittura in quello del malvagio, colpito dall’ira divina, e tornato ad essere una creatura sofferente, come tutti gli altri. Il brano iniziale del finto manoscritto è ‘ricreato’ nell’Introduzione in una finta e godibile lingua secentesca, su imitazione della prosa di Daniello Bartoli, tutta metafore e argutezze. Allo stesso modo, il Seicento viene ‘ricreato’ da Manzoni, e reso ben riconoscibile innanzitutto nell’Introduzione, con la grande metafora del ‘teatro del mondo’. Ma bisogna fare attenzione, è un Seicento ‘ricreato’, appunto, sulla scorta di una generale condanna estetica e morale di quanto quel tempo aveva espresso a livello politico, intellettuale, artistico; è la condanna settecentesca e neoclassica del barocco e della sua vanità formale e pomposa, della sua cultura concettista e arzigogolata (simboleggiata dalla biblioteca di Don Ferrante). È anche una condanna storica e politica contro quello che sembrava il punto più basso dei secoli ‘grigi’ della storia d’Italia, l’età del predominio spagnolo, e quindi di quanto sembrava derivarne nei costumi e nella mentalità, tra puntigli e formalismi ipocriti. Un Seicento dunque che funziona benissimo come modello negativo di quella che dovrebbe essere la nuova Italia del ‘risorgimento’; e, nell’analogia sempre presente in filigrana tra passato e presente (“Così va il mondo, o almeno così andava nel secolo decimosettimo!”), specchio dell’Italia contemporanea della Restaurazione, angariata dal dominio austriaco. Ma anche (nelle descrizioni dell’irrazionalità violenta dei tumulti) specchio dei timori di un aristocratico terriero come Manzoni, di fronte ai pericoli di una vera e totale rivoluzione sociale. Per quel che riguarda la superficie ‘documentaria’ il romanzo è dunque ambientato nel Seicento. Ma nell’immaginario profondo continua ad agire invece il Settecento, con tutte le sue problematiche (evidenziate da Parini e dagli illuministi lombardi e napoletani) di confronto tra classi dominanti e classi subalterne, e di necessaria riforma dello stato sociale, basato su criteri di giustizia e di eguaglianza dei diritti e della dignità, se non della classe. E continua naturalmente ad agire (non dichiarato), sul coté del Male e dei personaggi che si pongono (scientemente o no) al suo servizio, il Settecento ‘nero’, quello dei romanzi libertini (ben più presenti di quelli del Seicento),

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popolato di signorotti viziosi e imbelli, di grandi peccatori, di rapimenti in carrozza, di monasteri e conventi dove innocenti fanciulle fuggono, e che si trasformano in luoghi di perdizione, in inferno dei viventi. Significativa è la finzione del manoscritto, comune nella tradizione romanzesca, ma portata avanti da Manzoni con conseguenze del tutto nuove. In un gioco di sdoppiamenti tra sé e l’Anonimo, l’autore si presenta come un semplice traduttore-rifacitore, allontana da sé la storia, inserisce una sorta di ironia strutturale, restando l’autore onnisciente che sa tutto dei personaggi e dei loro pensieri. In questo modo è possibile realizzare uno ‘stile mezzano’, in continua oscillazione fra comico e tragico, fra descrittivismo storico e patetismo lirico, in cui la voce del narratore scorre con una naturalezza straordinaria, passando dal discorso diretto dei dialoghi ai monologhi interiori dei personaggi. Il romanzo è soprattutto qui, diremmo nella dimensione umana e ‘civile’, più che in quella dei paesaggi e della rappresentazione della natura, comunque importanti squarci ‘romantici’ e lirici, cerniere dei principali segmenti narrativi. L’intreccio appare sapientemente giocato, dopo l’inizio tutto ambientato in paese (I-VIII), sui due principali fili legati a Renzo e Lucia, che si dividono sempre di più, raggiungono il massimo punto discendente di crisi (XX, il trionfo del Male nel rapimento di Lucia), dal quale però, con la conversione dell’Innominato (XXI), comincia anche la rivincita del Bene, fino al ricongiungimento dei due ‘promessi’ (XXXVII). La lingua riesce a rappresentare i pensieri e la parlata dei personaggi, senza bisogno di far ricorso al dialetto. Ma la vera grandezza di questo stile è quella di guardare il mondo con gli occhi dei personaggi principali, e di far sentire quindi anche al lettore le loro sofferenze, le loro speranze, i loro cambiamenti. Il sistema dei personaggi rispecchia la demarcazione fra grande e piccola Storia, facendo interagire personaggi dell’uno o dell’altro ordine. Da una parte i personaggi storici, o comunque derivati da una realtà storicamente accertata, appartenenti alle classi superiori, rappresentanti del potere ecclesiastico o laico: il cardinal Federigo Borromeo, grande uomo di Chiesa consapevole anche della delicatezza dei rapporti col potere politico; la Monaca di Monza, l’ambigua Signora, Gertrude, al secolo la nobile fanciulla Marianna figlia del conte Martino de Leyva, monacata come suor Virginia Maria; e il suo scellerato amante Egidio, alias un tale Gian Paolo Osio; il gran cancelliere Antonio Ferrer; e naturalmente la grande figura dell’Innominato (chiamato il Conte del Sagrato nella prima stesura), un signorotto brigante e assassino realmente esistito di nome Francesco Bernardino Visconti, la cui conversione fece epoca. Dall’altra parte i personaggi fantastici, appartenenti a diverse classi e a diversi ‘stati’, dalla plebe stracciona milanese alla prepotente aristocrazia,



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dalla classe media e piccola degli avvocati e dei mercanti agli operai e agli artigiani, dai frati ‘in trincea’ di carità ai soddisfatti curati di paese; e a loro volta divisi tra Bene e Male, o mediocramente attestati in un medium che non è mai ‘giusto’, ma che finisce col favorire il Male. Innanzitutto il primo livello degli ‘umili’, i due ‘promessi’, l’ingenuo “ragazzone” Renzo, e la ben più saggia Lucia, e poi la mamma Agnese tipica rappresentante di una furbizia contadina e paesana in duetto con la serva del prete Perpetua. Da un lato gli operatori di bene (pochissimi), aiutanti dei ‘promessi’ e di tanta altra povera gente, a iniziare da fra Cristoforo, figura santa ed eroica, e finendo con la ‘strana coppia’ di donna Prassede e don Ferrante. Dall’altra i ‘cattivi’ (tanti), capeggiati da don Rodrigo, vigliacco e crudele e non tanto sveglio tirannello di provincia, il cui ‘capriccio’ di possedere Lucia per scommessa col più furbo cugino don Attilio è il vero motore del romanzo, l’origine di tutti i guai; e poi via via i simboli dei poteri che assecondano la spirale perversa del Male, la Politica, la Chiesa e la Legge (il Conte Zio, il Padre provinciale, l’avvocato “delle cause perse” Azzecca-garbugli); e poi una folla di banditi e assassini più o meno ‘legalizzati’ ai servizi dei signorotti col nome di ‘bravi’, fra i quali spiccano il capobravo di don Rodrigo, il Griso, e quello dell’Innominato, il Nibbio. In mezzo, naturalmente, il debole don Abbondio, il prete che avrebbe dovuto celebrare il matrimonio e viene terrorizzato dai ‘bravi’, “vaso di terra cotta” tra vasi di ferro, che invece di vivere fino in fondo la vocazione cristiana alla quale è chiamato dal suo stato si costruisce una comoda nicchia di egoistica tranquillità in cui pensa di restare indenne dai guai del mondo: una filosofia ‘piccina’ di fronte alla quale il giudizio morale dell’autore è sicuramente più severo che nei confronti di tanti altri ‘cattivi’. Un segno importante dell’adesione manzoniana all’immaginario popolare e gnomico è dato anche dal frequente ricorso ad una sorta di ‘bestiario’, che serve a sintetizzare in modo memorabile il carattere morale di alcuni personaggi, o di alcuni gruppi, e a dare quasi l’idea che l’intera vicenda possa essere letta come un’antica favola di animali. Scorrono così agnelli e ‘pulcini nella stoppia’, e dall’altra parte aquile, corvi, avvoltoi, e poi ancora lupi, cani, feroci segugi. Il Nibbio addirittura ha un soprannome che rinvia direttamente ad un uccello rapace, mentre il suo padrone è un’aquila, e il suo castello un nido d’aquila. Ma proprio in questo bestiario assistiamo alle importanti metamorfosi di alcuni personaggi: l’Innominato da aquila feroce diventa con la conversione un mansueto agnello; Renzo è un agnello, ma può trasformarsi in una belva, se non guidato dalla ragione. E qui si scopre un altro aspetto decisivo: I promessi sposi sono anche un romanzo di formazione, almeno per quei personaggi che la vita, gli eventi, la luce della Grazia riescono a cambiare, in un processo di apprendimento,

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di conversione e di innalzamento. Così è per l’Innominato; e così era stato per Lodovico, che il pentimento farà diventare fra Cristoforo; e così era stato per lo stesso autore, Alessandro Manzoni. Ma guai a chi resta uguale a se stesso, a chi (don Rodrigo, Gertrude) non ‘ascolta’ la preghiera dell’‘umile’, e non coglie l’occasione di cambiare: una condanna morale che coinvolge anche il sopravvissuto don Abbondio, che dalla vita non ha veramente imparato nulla. Chi crede invece di aver imparato, anche troppo, è Renzo, che nello strano ‘lieto fine’ è diventato un insopportabile padroncino di filanda che fastidiosamente ripete le sue avventure nel ‘gran teatro del mondo’ con l’intercalare ossessivo di “Ho imparato, ho imparato ...” (e invecchiando probabilmente sarà anche peggiorato). Non è che abbia imparato cose belle, il buon Renzo: ha imparato a dissimulare, a farsi i fatti suoi, a non lasciarsi più trasportare da quella sua antica “lieta furia”. Perfino Lucia ne è infastidita, e alla fine sbotta con la sua morale: “Io non sono andata a cercare i guai: son loro che sono venuti a cercar me”. Non serve tanto, la sapienza di questo mondo, a evitarli. Meglio affidarsi con fiducia a Dio, o alla Provvidenza. Come scrive Manzoni, “il sugo di tutta la storia” (e anche della Storia). La sera del 7 novembre 1628 un curato, don Abbondio, sta tornando “bel bello” a casa, nel suo paesino sul lago di Como, presso Lecco. Ad un bivio lo affrontano due tipacci (i cosiddetti ‘bravi’) al servizio del signorotto del luogo, don Rodrigo, che gli intimano di non celebrare un matrimonio previsto il giorno dopo, tra una filandaia di nome Lucia Mondella e il giovane filatore Renzo Tramaglino. Don Abbondio, che “non era nato con un cuor di leone”, preso dal terrore, si rifugia a casa, dove però la furba serva Perpetua riesce a farsi raccontare l’accaduto (I). Al mattino si presenta Renzo, per gli ultimi preparativi del matrimonio, e invece si infuria trovando don Abbondio che, confondendolo col suo latinorum, cerca di rinviare tutto di una settimana; quando poi, messo sull’avviso da Perpetua, costringe il curato a dire la verità e il nome di don Rodrigo, se ne va disperato a casa di Lucia (II). Lì, alla presenza della madre Agnese, Lucia rivela di essere stata adocchiata pochi giorni prima dal signorotto, che ridendo aveva detto a un suo compare (il cugino conte Attilio): “Scommettiamo”; su consiglio di Agnese, Renzo va allora a Lecco a cercar aiuto dall’avvocato Azzecca-garbugli, che incredibilmente crede che sia Renzo il malandrino, e quando scopre che il giovane è invece la vittima innocente lo caccia in malo modo (III). La mattina dopo, alla casa di Agnese e Lucia giunge il santo cappuccino fra Cristoforo (in origine un ricco giovane di nome Ludovico, che, dopo aver commesso un omicidio, si era convertito ed aveva abbracciato lo stato religioso) (IV). Il frate, coraggiosamente, va al palazzotto di don Rodrigo, che sta pranzando con degni suoi compari come il dottor Azzecca-garbugli e il conte Attilio (V). Alle sue preghiere, don Rodrigo offre maliziosamente ‘protezione’ a Lucia, e allora il frate si sdegna violentemente, e viene cacciato dal castello; intanto, al paese, Agnese convince i due giovani a fare un matrimonio clandestino, pronun-



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ciando la promessa nuziale davanti ad un curato ignaro, e Renzo trova anche i due testimoni, l’amico Tonio e il suo sempliciotto fratello Gervaso (VI). Il giorno dopo, il furente don Rodrigo, per non pagare la scommessa perduta al cugino, ordina al suo capo-bravo, il Griso, di rapire Lucia quella notte stessa. La sera, madre, sposi e testimoni giungono sotto le finestre di don Abbondio, e riescono ad entrare, perché Tonio finge di dover pagare un debito al curato (VII). La sorpresa però non riesce per la pronta reazione di don Abbondio. Nel parapiglia generale della notte degli errori, si sveglia e accorre tutto il paese, va a vuoto il rapimento tentato dai bravi, e Renzo e Lucia fuggono al convento di fra Cristoforo, che li fa scappare dall’altra parte del lago, su una barca; nella quieta notte lunare, gli angosciati pensieri di Lucia si esprimono in un grande squarcio lirico, “Addio, monti sorgenti dall’acque” (VIII). I due giovani devono separarsi. Lucia, con Agnese, arriva ad un monastero femminile di Monza, dove è accolta da una strana e influente monaca chiamata “la signora” (IX); un’infelice di nobili origini, Gertrude, monacata per forza quand’era fanciulla, e poi coinvolta in una relazione amorosa con un giovane scellerato di nome Egidio (X). Mentre al paese don Rodrigo, sempre più furibondo, riesce a sapere dove s’è rifugiata Lucia, Renzo arriva a Milano, ma non viene accolto al convento dove l’aveva mandato fra Cristoforo (XI). Si lascia allora attrarre dalla curiosità di vedere cosa stia accadendo in città, e si trova coinvolto nel tumulto di san Martino, scoppiato a causa della carestia e del rincaro del prezzo del pane; il popolo ha assalito il Forno delle Grucce (XII). La plebe inferocita assedia la casa del Vicario di Provvisione, salvato dall’intervento del gran cancelliere Ferrer (XIII). Anche Renzo, esaltato dai gran fatti della giornata, improvvisa un discorso contro birboni e prepotenti, e alla sera uno sconosciuto lo accompagna in un’osteria: Renzo beve, parla troppo, si addormenta pesantemente (XIV). Al risveglio, il giorno dopo, si trova circondato dagli sbirri che lo arrestano come rivoltoso, e riesce fortunosamente a fuggire tra la folla (XV). La fuga continua (XVI), dopo una notte angosciosa passata nella brughiera, oltre il fiume Adda (confine tra Milano e Venezia), fino a Bergamo, presso il cugino Bortolo (XVII). Ormai Renzo è considerato un pericoloso criminale, ricercato nel territorio del suo paese; e anche fra Cristoforo viene allontanato, per l’intervento del conte Attilio presso il potente Conte Zio (XVIII), che a sua volta interviene sul superiore del frate, il Padre Provinciale. Eliminato ogni ostacolo, don Rodrigo, per far rapire Lucia, si rivolge ora ad un feroce e sanguinario signorotto, l’Innominato (XIX), che a sua volta si serve dello scellerato Egidio per costringere Gertrude a collaborare all’infame disegno. Lucia, fatta uscire con l’inganno, è così rapita in carrozza dai bravi capeggiati dal Nibbio, e portata nel tetro castello dell’Innominato (XX). È il trionfo del Male. Eppure, dopo un drammatico colloquio con Lucia (che poi nella disperazione fa un voto di verginità alla Madonna) , l’Innominato trascorre una notte terribile, tormentato dal suo passato di violenze, e giunge quasi all’idea del suicidio, quando all’alba sente un lontano scampanìo (XXI). È il paese, giù nella valle, che accoglie festosamente il cardinal Federigo Borromeo, e che anche l’Innominato raggiunge, scendendo al paese spinto da

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un impulso interiore (XXII). Il colloquio col cardinale lo convince definitivamente a quella conversione che già maturava dentro di lui; e alla prima opera di bene che potrà compiere, la liberazione di Lucia. Il caso vuole che, tra i preti presenti in anticamera, ci sia anche don Abbondio, che viene costretto a salire anche lui, tremebondo, al castello per liberare Lucia (XXIII). La giovane è ospitata nella casa del sarto del villaggio, dove arriva anche la mamma Agnese (XXIV); don Abbondio, intanto, viene pesantemente redarguito dal cardinale per le sue mancanze (XXV), mentre Lucia accetta di andare a Milano in casa di signori, Donna Prassede e don Ferrante (XXVI), orgoglioso proprietario di una ricca quanto vana biblioteca (XXVII). Dalla piccola alla grande Storia: scoppia la guerra di successione al Ducato di Mantova (un episodio marginale della lunga Guerra dei Trent’anni), e scende in Lombardia l’esercito imperiale, con le sue orde di lanzichenecchi (XXVIII), che saccheggiano ovunque, anche il paese di Agnese (XXIX), che trova asilo con don Abbondio e Perpetua presso l’Innominato (XXX). Ma la soldataglia porta con sé anche i primi germi della terribile peste nera, che comincia a infierire a Milano (XXXI); vani sono tutti i provvedimenti sanitari, e alla fine si scatena la caccia ai presunti untori, poveri disgraziati creduti colpevoli e giustiziati (XXXII). Anche don Rodrigo si ammala, e tradito dal Griso, viene portato al Lazzaretto. Renzo invece, ammalato e guarito, torna al suo paese, ridotto ad un luogo spettrale di sopravvissuti (XXXIII). E poi finalmente, per ritrovare Lucia, torna a Milano, l’attraversa in uno scenario da incubo, tra i cadaveri che vengono raccolti dai carri dei monatti, su uno dei quali, scambiato dalla folla per un untore, salta su anche lui (XXXIV). Giunto al Lazzaretto, ritrova fra Cristoforo, che, portatolo al cospetto di un moribondo don Rodrigo, lo invita al perdono cristiano (XXXV). Infine, l’incontro con Lucia, anche lei da poco guarita. L’ultimo ostacolo, il voto di verginità, viene sciolto da fra Cristoforo (XXXVI), mentre su tutto cade una pioggia liberatrice (XXXVII). Tornati al paese, i due ‘promessi’ possono finalmente sposarsi, e gioire di una prole numerosa, mentre Renzo diventa padroncino di filanda (XXXVIII).

7.5. Prose critiche Nel Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia (1822), nato come ‘costola’ storica dell’Adelchi, Manzoni aveva avuto modo di misurarsi attentamente con le fonti storiche (in primis, l’Historia Langobardorum di Paolo Diacono), ma anche con grandi autori come Muratori e Vico, iniziando a prendere posizione su alcune questioni scottanti (per lui cattolico) come la parte avuta dai papi nell’invasione dei Franchi, e in generale sugli infiniti rivolgimenti politici della storia italiana; e naturalmente è una posizione che lo porta a schierarsi contro Giannone, definito “storico parziale”. La medesima riflessione storica si era sviluppata alla lettura dell’Histoire del



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Sismondi, che aveva indicato nel ruolo storico del papato una delle cause della decadenza italiana. La risposta del Manzoni, nelle Osservazioni sulla morale cattolica (1819), si spostò ora dal piano storico-politico a quello più squisitamente morale, trovando inaccettabile l’idea che fossero proprio i princìpi del cristianesimo e l’alto magistero etico della Chiesa ad aver portato gli italiani al presente stato di mancanza di strutture ‘civili’ al livello degli altri paesi europei. Non era una battaglia di retroguardia, e le posizioni del Manzoni non possono essere assolutamente confuse con la pubblicistica cattolica reazionaria del periodo. In realtà, soprattutto nelle appendici o nella seconda parte (pubblicata postuma), Manzoni, in un confronto serrato con la “ragione del secolo” e con la modernità, vede l’avanzare di un mondo che sembra non avere più bisogno del senso del Divino, del trascendente; un mondo dominato dall’utilitarismo, dalla rincorsa di un illusorio benessere materiale, dal trionfo del capitalismo borghese e della rivoluzione industriale, dagli inizi della lotta di classe e della civiltà della massa. Il suo pessimismo nei confronti dell’uomo, della sua storia, e della stessa possibilità di una filosofia morale che non abbia un fondamento spirituale, è radicale, forse addirittura più profondo di quello di Leopardi. E affiorerà anche nell’ultima opera storica, il saggio Sulla rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione del 1859 (1860, ed. postuma 1889), in cui il confronto tra gli eventi che nel 1859 portarono all’unità d’Italia e quelli del 1789 ispirerà la condanna morale di ogni rivolgimento violento dell’ordine sociale costituito, e quindi della lotta di classe che ormai dilagava in Europa. Per il pensiero critico del Manzoni la forma prediletta era però quella dell’epistola. Restio dal prendere pubblicamente posizione nel dibattito culturale contemporaneo, Manzoni utilizzò la lettera ‘pubblica’ o ‘aperta’ per diffondere, in via mediata, le sue opinioni: e il suo epistolario, sospeso fra pubblico e privato, e testimonianza anche di una perfetta padronanza della lingua francese, offre (soprattutto nelle lettere all’amico Fauriel) preziosi spunti di comprensione per le sue opere maggiori. Al critico francese Joseph Chauvet (che aveva recensito a Parigi il Carmagnola, con qualche piccolo rimprovero al fatto che Manzoni avesse infranto le famose unità aristoteliche di tempo e di luogo, salvando solo quella d’azione), Manzoni indirizzò una Lettre à M. C.*** sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie (‘lettera al signor C.*** sull’unità di tempo e di luogo nella tragedia’)(1820, ed. 1823), in cui difendeva le sue scelte anticlassicistiche e romantiche e spiegava le ragioni della propria adesione al romanticismo, con una concezione del teatro come “système historique”, strumento di rappresentazione della storia degli uomini. Parallela era la lettera a Cesare D’Azeglio Sul Romanticismo (1823, ed. non autorizzata 1846), che, dopo aver rimarcato l’ambiguità del termine e la specificità del romanticismo

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italiano (più ‘moderato’ e ‘razionale’), ribadisce il rifiuto della mitologia e dell’imitazione classicista in nome d’una maggiore libertà creativa, e del primato del ‘vero’ (“La poesia deve proporsi per oggetto il vero”). Infine, in una Lettre à Victor Cousin (1829), Manzoni critica il sistema filosofico dell’amico francese, nella cui teoria classificatoria del progresso dello spirito umano rimarcava l’astrattezza di alcuni princìpi generali. Quando da poco s’erano pubblicati I promessi sposi, Manzoni lesse una recensione anonima tedesca (che egli credette nientemeno che di Goethe), critica nei confronti della giustapposizione di vero e fantastico nel romanzo, e giunse gradualmente ad un rifiuto dello stesso genere del romanzo storico, nel saggio Del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione (iniziato nel 1829, e pubblicato, dopo numerose revisioni, nel 1850): vi si affermava ormai che il romanzo storico era un genere ibrido e incoerente, sostanzialmente lontano da quell’ideale di ‘vero’ che aveva perseguito un tempo; e in effetti l’Europa contemporanea, alla metà del secolo, aveva da tempo voltato pagina sul romanzo d’ambientazione storica, e chiedeva invece storie ‘sociali’, attuali, contemporanee. Ma contava nell’ultimo Manzoni anche la più forte influenza della spiritualità del Rosmini, a cui si collega la composizione dei dialoghi Dell’invenzione (1850), contro l’invenzione fantastica, e Del piacere (1851). Fra tante imprese cominciate e interrotte, forse solo una appassionò Manzoni fino alla fine, l’ “eterno lavoro” sulla lingua italiana, riflesso in scritti linguistici databili a partire dagli anni Venti, dalle riflessioni sorte nel passaggio dalla prima alla seconda stesura del romanzo. Proprio allora, verso il 1824, Manzoni si era reso pienamente conto della distanza tra la lingua italiana letteraria ed elitaria, e la lingua parlata media, la lingua d’uso, che era diffratta in una pluralità di dialetti e di lingue regionali. Anche la prima stesura del romanzo, fortemente condizionata dalla sua eredità linguistica lombarda, gli sembrava ormai insoddisfacente. Era necessario formare dunque una lingua italiana media, capace di sostuire la lingua italiana letteraria (difesa dai puristi e dall’Accademia della Crusca). Per far questo, il laboratorio principale fu proprio il testo del romanzo, dalla prima alla seconda edizione, e fu determinante la scelta di adottare come modello il fiorentino d’uso contemporaneo, parlato dalle classi medie. Un lavoro imponente, fondato anche su un’ampia preparazione teorica di linguistica generale, testimoniata nei frammenti del grande libro incompiuto Della lingua italiana (1824), e di Sentir Messa (1835-1836), che insisteva sull’ importanza della lingua d’uso a partire da una definizione del Dizionario dei Sinonimi del Tommaseo. Sullo sfondo del Risorgimento, e quindi della necessità sempre più stringente di giungere ad una lingua nazionale, la posizione manzoniana sarà



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quella vincente. Nelle scuole del Nord già ci si avviava a uniformare la lingua d’uso al fiorentino parlato, come dimostra la lettera Sulla lingua italiana (1847) a un professore torinese, Giacinto Carena, che aveva pubblicato un piccolo vocabolario di parole legate alle arti e ai mestieri e alla vita quotidiana, e riprese dal fiorentino. Dopo l’Unità, Manzoni sarà addirittura nominato presidente di una commissione ministeriale incaricata di formulare progetti per la diffusione della lingua italiana. Ne risultò la relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla (1868), indirizzata al ministro della Pubblica Istruzione Emilio Broglio, e scritta d’intesa con Ruggero Bonghi e Giulio Carcano. Un documento decisivo per l’educazione delle nuove generazioni dell’Italia Unita, anche negli aspetti che oggi potrebbero sembrare negativi, come la guerra dichiarata ai dialetti e alle lingue regionali, che pure tanta ricchezza culturale e antropologica ancora conservavano, a Napoli come a Venezia. Una guerra che doveva ridurre a tutti i costi l’enorme analfabetismo diffuso tra i ceti popolari e contadini, e la distanza abissale tra oralità e scrittura; e che doveva rendere la nuova lingua italiana un vero strumento di comunicazione sociale, e di crescita democratica del paese, attraverso la partecipazione di masse sempre più ampie alla sua cultura e alla sua tradizione unitaria. Era come se, nell’ultimo Manzoni, fosse sempre vivo e luminoso l’impegno pedagogico del primo Risorgimento, preoccupato di vincere ora la battaglia più delicata e difficile: quella di formare gli Italiani, dopo che, in modo più o meno fortunoso e inopinato, s’era fatta l’Italia.

Bibliografia Edizioni complessive: Tutte le opere, a c. di M. Martelli, Firenze, Sansoni, 1973; Opere, a c. di L. Caretti, Milano, Mursia, 1974. Monografia: S.S. Nigro, Manzoni, Roma-Bari, Laterza, 1978; G. Tellini, Manzoni, Roma, Salerno, 2007. Saggi complessivi: L. Caretti, Manzoni. Ideologia e stile, Torino, Einaudi, 1972; P. Frare, La scrittura dell’inquietudine. Saggio su Alessandro Manzoni, Olschki, 2006. Rivista specializzata: “Annali manzoniani”. 7.1. La vita. Di grande suggestione (anche se non è una biografia ‘classica’): N. Ginzburg, La famiglia Manzoni, Torino, Einaudi, 1983.

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7.2. La poesia. Poesie e tragedie, a c. di F. Ghisalberti, Milano, Mondadori, 1957; Inni sacri, a c. di F. Gavazzeni, Parma, Guanda, 2004. Cfr. L. Firpo, La Pentecoste di A. Manzoni, dal primo abbozzo all’edizione definitiva, Torino, Utet, 1962. 7.3. Il teatro. Le tragedie, a c. di G. Tellini, Roma, Salerno Editrice, 1996. Cfr. G. Lonardi, L’esperienza stilistica del Manzoni tragico, Firenze, Olschki, 1965. 7.4. I promessi sposi. Edizioni: I Promessi Sposi, a c. di L. Caretti, Torino, Einaudi, 1971; a c. di A. Stella e C. Repossi, Torino, Einaudi, 1995; Fermo e Lucia. I Promessi sposi (1827). I promessi sposi (1840), a c. di S.S. Nigro, Milano, Mondadori, 2002. Studi: L. Russo, Personaggi dei Promessi Sposi (1945), Bari, Laterza, 1965; E. Raimondi, Il romanzo senza idillio. Saggio sui “Promessi Sposi”, Torino, Einaudi, 1974, e La dissimulazione romanzesca. Antropologia manzoniana, Bologna, Il Mulino, 2004; G. Tellini, Manzoni. La storia e il romanzo, Roma, Salerno, 1979; D. Isella, L’idillio di Meulan. Da Manzoni a Sereni, Torino, Einaudi, 1994; A.R. Pupino, Manzoni. Religione e romanzo, Roma, Salerno, 2005. Introduzione alla lettura: A. Cottignoli, Manzoni. Guida ai “Promessi Sposi”, Roma, Carocci, 2002. 7.5. Prose critiche. Opere morali e filosofiche, e Saggi storici e politici, a c. di F. Ghisalberti, Milano, Mondadori, 1963; Lettere, a c. di C. Arieti, Milano, Mondadori, 1970.

parte iv L’età contemporanea

1. Il secondo Ottocento

1.1. Apogeo e crisi della civiltà europea Nella seconda metà dell’Ottocento l’Europa raggiunse il suo più alto grado di sviluppo economico e tecnologico, e di dominio coloniale del mondo, in un’espansione vertiginosa della rivoluzione industriale e del capitalismo a tutti i mercati mondiali. Il sistema allargato comprende ora a pieno titolo anche gli Stati Uniti, e alla fine del secolo la prima potenza non europea e non occidentale, il Giappone. In questo confronto epocale grandi civiltà come l’India e la Cina attraversano un lungo e drammatico periodo di crisi. Ma è un apogeo, quello raggiunto dall’Europa, contraddittorio e disarmonico. Il continente è diviso fra le grandi potenze imperialiste: da una parte quelle che vantavano i più grandi imperi coloniali, Inghilterra e Francia, dall’altra la Germania unita sotto la dinastia prussiana, l’Austria ancora dominata dagli Asburgo, l’arretrata Russia zarista. Le democrazie liberali consentivano solo la partecipazione di gruppi ristretti di cittadini, appartenenti alle classi più ricche, escludendo tutte le altre classi, e le donne. Dopo il 1848, quindi, i moti rivoluzionari che continuarono in Europa non furono più guidati dalle classi borghesi e imprenditoriali che avevano completato l’abbattimento dell’Antico Regime iniziato con la Rivoluzione Francese, ma furono espressione delle classi popolari, dagli operai delle città industriali ai contadini. Il liberismo aveva portato a cambiamenti profondi nel sistema sociale, con l’aumento enorme del numero di coloro che si spostavano dalle campagne alle città in vista di un miglioramento delle condizioni di vita, e che spesso venivano ridotti in uno stato miserevole di sfruttamento: masse di persone che contavano solo come ‘forza lavoro’, che nulla possedevano all’infuori della propria prole, e che perciò venivano definite proletariato. A difendere i diritti di queste masse, diverse dalla ‘plebe’ o dal ‘popolo’ dell’Antico Regime, intervennero molti intellettuali, ancora ispirati ai prin-

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cipi di eguaglianza e fraternità diffusi dalla Rivoluzione Francese, con ideali di tipo umanitario, filantropico. Si approdò alla prospettiva di una società utopistica in cui i mezzi di produzione fossero posti in comune, e i profitti redistribuiti tra i lavoratori, e non riservati a una ristretta élite di privilegiati, una prospettiva che cominciò a essere chiamata socialismo. La confusa e multiforme piattaforma ideologica del primo socialismo utopico divenne poi un aperto manifesto di lotta sociale contro la borghesia imprenditoriale a partire dalle rivoluzioni del 1848-1849: in quell’occasione soprattutto in Francia la controrivoluzione era stata guidata dalle classi borghesi, che soffocarono le richieste di democrazia allargata e giustizia sociale che venivano dalle masse popolari. E sempre nel 1848 fu pubblicato il profetico Manifesto del partito comunista di due giovani intellettuali tedeschi, influenzati dall’idealismo di Hegel e dal materialismo di Feuerbach, Karl Marx e Friedrich Engels, che applicarono la dialettica hegeliana della Storia (tesi e antitesi) alla lotta di classe, prefigurando la rivolta del proletariato contro la borghesia, e l’avvento di una società comunistica che avrebbe abolito la proprietà privata. Tutte queste tematiche emersero nella rivolta della Comune di Parigi (1871), duramente repressa dal governo repubblicano francese. Il movimento socialista aveva acquistato intanto un carattere internazionale (quel che temevano di più i governi liberali), nella Prima Internazionale (Londra 1864). Nacque allora anche la componente anarchica di Michail Bakunin che mirava alla distruzione dello stato e della religione. Furono fondati i primi partiti socialisti e i primi sindacati dei lavoratori, che aderirono alla Seconda Internazionale (Parigi 1889). Anche la Chiesa Cattolica, nonostante l’avversione al socialismo e la condanna del modernismo, si apriva alla consapevolezza dei problemi sociali ed economici, in difesa della dignità della persona umana, con il cattolicesimo sociale, l’opera educativa di san Giovanni Bosco e l’enciclica Rerum novarum di papa Leone XIII (1891). Il progresso della civiltà industriale sembrava ormai inarrestabile. Nel giro di pochi anni alcune innovazioni tecnologiche cambiarono completamente la vita di milioni di persone: le comunicazioni diventavano sempre più veloci con i treni e lo sviluppo delle ferrovie, la navigazione a vapore e poi a motore diesel, fino all’invenzione dell’automobile a scoppio e delle prime macchine volanti, gli aereoplani e i dirigibili. Le informazioni correvano da una parte all’altra del continente con il telegrafo, poi con il telefono, e infine con la radio, inventata da Guglielmo Marconi. Ma anche le forme dell’espressione artistica e letteraria erano rivoluzionate da nuovi meccanismi che consentivano la riproducibilità di alcuni aspetti della realtà (l’immagine, il suono), per mezzo della fotografia, della registrazione dei suoni su cilindri incisi e riascoltati con il grammofono, e infine del cinema, inventato a Parigi



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dai fratelli Lumière (1895). L’euforia collettiva tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si espresse allora in una società gaia e spensierata che prese il nome di Belle époque. Il primo effetto del progresso tecnologico, a livello di mentalità collettiva e di pensiero filosofico, fu la diffusione dell’idea che ormai la civiltà entrasse definitivamente in uno stadio ‘positivo’, dominato dalla scienza e dalla ragione, e che non avesse più bisogno della religione o della metafisica. Il sistema materialista e ateo chiamato positivismo fu proposto dal filosofo francese Auguste Comte, in particolare nelle lezioni del Corso di filosofia positiva (1830-1842), in cui si affermava, tra l’altro, lo studio dell’uomo come essere sociale, e la nascita di una nuova scienza chiamata sociologia. Parallelamente uno scienziato naturalista come Charles Darwin, dopo lunghe ricerche condotte nel corso di avventurosi viaggi per il mondo, giungeva alla definizione della teoria dell’evoluzionismo (in particolare nell’opera L’origine della specie, 1859). Secondo l’evoluzionismo la vecchia credenza biblica e cristiana della creazione del mondo e dell’uomo doveva fare posto all’evidenza scientifica di un lunghissimo processo evolutivo delle creature viventi, che dalle origini della vita fino a oggi, passando in milioni di anni attraverso tutti gli stadi conosciuti (percorsi attraverso l’indagine paleontologica), giungeva fino all’essere umano. Nella concezione darwiniana affiorava però, contro l’ottimismo progressista del positivismo, anche un pessimismo di fondo: il criterio fondamentale dell’evoluzione rintracciato da Darwin era quello della lotta per la vita, e della sopravvivenza degli organismi più forti, e più in grado di adattarsi all’ambiente, e ai suoi cambiamenti. Applicato alla società umana, questo principio del più forte avrebbe potuto giustificare le teorie più nefaste di dominio e di sopraffazione, di una razza o di una nazione ‘superiore’ nei confronti di un’altra razza considerata ‘inferiore’ o più debole. Del resto, non mancavano le critiche allo scientismo imperante. Un grande filosofo tedesco, Friedrich Nietzsche, fu acuto testimone delle contraddizioni della civiltà europea, ad iniziare dalle sue origini greche e mediterranee, nell’irrisolta dialettica fra apollineo e dionisiaco, fra la ragione e la pulsione profonda e gioiosa della vita e dell’eros, il cosiddetto vitalismo (Nascita della tragedia, 1872). Nietzsche, partito dal radicale superamento dell’idealismo romantico, approdò alla demistificazione dei ‘valori’ della società borghese in Così parlò Zarathustra (1883): in quest’opera, oltre alla provocatoria dichiarazione della morte di Dio, si definisce comunque la necessità di andare ‘oltre’ le condizioni mortificanti di questa vita materiale e delle illusioni metafisiche, un compito che sarà possibile solo all’Übermensch (‘oltre-uomo’, e non ‘superuomo’, come sarà erroneamente tradotto).

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Il pensiero di Nietzsche, di grandissima e sofferta modernità, sarebbe stato però totalmente frainteso dai contemporanei, che vi scorsero piuttosto la nascita del superomismo, l’affermazione di un uomo superiore, il superuomo materialista e ateo, destinato a imporre anche con la violenza e la forza la sua volontà di potenza sulla natura e sugli altri uomini ‘inferiori’: un mito che si diffuse facilmente proprio in quelle classi borghesi che si sentivano minacciate dall’avanzata del socialismo. Reazione al positivismo e alla sua attenzione esclusiva alla scienza e alla natura è anche il ritorno allo spitualismo, e allo studio dello spirito umano, con la rinascita della psicologia su nuove basi analitiche. Il filosofo francese Henri Bergson, in Materia e memoria (1896) e in Evoluzione creatrice (1907), dimostrò l’esistenza quasi di una realtà ‘parallela’ a quella fisica-materiale: la realtà psichica, che, nell’analisi del ‘flusso di coscienza’, si svolge secondo un tempo interiore diverso da quello esterno. La teoria di Bergson diede così grande importanza alla memoria, e ad un altro aspetto considerato alla base di tutte le creature viventi, un impulso profondo verso la vita chiamato ‘slancio vitale’. Lo studio della psiche umana fu portato avanti, con risultati che influenzarono enormemente la cultura contemporanea, dal medico viennese Sigmund Freud. Freud, che aveva anche un’esperienza clinica e psichiatrica, utilizzò all’inizio soprattutto i materiali provenienti dai sogni dei suoi pazienti, scrivendo così la sua opera fondamentale, L’interpretazione dei sogni (1900). Nei sogni parla, con un linguaggio proprio, il nostro profondo, l’inconscio, lanciando segnali e messaggi enigmatici che devono essere poi interpretati. Molti di quei messaggi derivano dalla sfera della sessualità, rimossa a livello consapevole con il meccanismo del ‘tabù’. Le scoperte di Freud, applicate anche a livello medico con la pratica della psicoanalisi, per la prima volta alzavano il sipario sui misteri dell’anima umana, sulle sue paure e le sue angosce, in un momento in cui le inquietudini della coscienza europea raggiungevano il loro livello più alto, nella contraddizione tra il progresso e il benessere della sua civiltà, e la sensazione diffusa che tutto sarebbe potuto crollare da un momento all’altro. La letteratura europea, e in primo luogo quella francese, risente direttamente di questi cambiamenti della visione del mondo. In Francia, i principi del positivismo vengono applicati in letteratura dal medico Hippolyte Taine, che per la prima volta usa il termine ‘naturalismo’, intendendo una forma d’arte che avrebbe dovuto rappresentare la realtà sociale, determinata da elementi come la razza, l’ambiente e il momento storico (race, milieu, moment), e dal fattore dell’ereditarietà. Nel 1858 Taine definisce ‘naturalista’,



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a posteriori, l’opera di Honoré de Balzac (1799-1850), La comédie humaine, considerata il primo importante esempio di realismo moderno. Su questa strada, tagliando i ponti con i residui di romanticismo, si collocano subito i fratelli Jules ed Edmond de Goncourt, e soprattutto Gustave Flaubert (1821-1880), che in Madame Bovary descrive il malessere esistenziale di un mondo piccolo-borghese di provincia che vorrebbe elevarsi ad uno stile di vita che non può permettersi; in particolare, Flaubert adotta la tecnica dell’impersonalità, eliminando la presenza dell’autore, del narratore, e cercando di dare alle vicende narrate il massimo di oggettività. Lo scrittore deve essere una sorta di scienziato, che analizza freddamente le azioni di un uomo, o di un gruppo sociale. È un vero e proprio metodo scientifico sperimentale, utilizzato dal rappresentante più celebre del naturalismo, Emile Zola (1840-1902), autore di un grande ciclo narrativo, imperniato sulla saga di una famiglia, i Rougon-Macquart. Zola si distinse anche per il forte impegno politico e sociale, che raggiunse il suo culmine in occasione della battaglia civile e morale in difesa di un capitano dell’esercito, Alfred Dreyfus, ingiustamente accusato di tradimento solo perché di origine ebraica: il celebre ‘caso Dreyfus’, per il quale Zola scrisse uno sferzante articolo di giornale intitolato J’accuse (‘io accuso’)(1898). La stessa ricerca di realismo, anche se in modalità diverse, permeava tutta la letteratura europea. La forma principale della comunicazione letteraria è sicuramente il romanzo. L’inglese Charles Dickens (1812-1870) aveva già descritto la difficoltà dei rapporti sociali nella moderna città industriale, in un paese come l’Inghilterra dove la Rivoluzione Industriale era cominciata almeno un secolo prima. Diversa è la situazione della Russia, che si affaccia sulla scena europea con grandissimi scrittori come Pushkin, Gogol, Fiodor Michajlovic Dostoevskij (1821-1881), Ivan Turgenev (1818-1881), e Lev Nikolaevic Tolstoi (1828-1910), in cui gradualmente si accentuano gli elementi di un acuto e tormentato realismo psicologico e dello spiritualismo. Mentre la prosa segue maggiormente l’istanza del realismo, la poesia se ne allontana subito, in una reazione al romanticismo che in un primo momento significa ritorno al classicismo e alla raffinatezza formale. Prevale l’idea di un’arte o di una poesia pura che non abbia alcuna preoccupazione di ordine morale o utilitaristico o realistico, secondo la formula l’art pour l’art (‘l’arte per l’arte’), diffusa a partire dal poeta francese Théophile Gautier e dai poeti che poi si raccolsero intorno alla rivista Le Parnasse contemporain (‘il Parnaso contemporaneo’) (1866-1876), e perciò chiamati parnassiani. A quel gruppo appartennero inizialmente poeti come Baudelaire, Mallarmé, Verlaine, che poi scardinarono il classicismo parnassiano, privilegiando solo

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l’aspetto della ‘poesia pura’, arricchita di funzioni nuove di interpretazione della realtà profonda delle cose. La guida riconosciuta di questi poeti fu Charles Baudelaire (1821-1867), per il quale fu determinante la ‘scoperta’ dell’opera di Poe (con tutte le sue moderne inquietudini), da lui tradotta e diffusa nella cultura europea. Baudelaire, soprattutto nella celebre raccolta Les fleurs du mal (‘i fiori del male’)(1857), cominciò a rappresentare l’insanabile frattura dell’uomo moderno (perduto in una metropoli industriale ormai disumana) fra angoscia esistenziale (ennui in francese, spleen in inglese) e tensione ideale (idéal  ), cui forse solo l’arte e la poesia possono dare la possibilità di un nuovo rapporto con la realtà. Per raggiungere questo scopo, la poesia deve passare attraverso un intenso legame con l’esperienza vitale, anche negativa o distruttiva (i ‘fiori del male’), nella perdizione dell’eros o del peccato, e perfino nei ‘paradisi artificiali’ degli stupefacenti. E la via nuova della poesia (strettamente legata alle arti figurative e alla musica) avverrà nella ricerca delle analogie segrete, nell’interpretazione delle “foreste di simboli” che ci circondano, come viene affermato nel celebre sonetto Correspondances (‘corrispondenze’), manifesto di una poetica e di uno stile basati sulla metafora, la sinestesia, la fusione di diversi piani sensoriali. Stephane Mallarmé (1842-1898), anche quando è un raffinato parnassiano, esprime già un profondo senso della fine, e di desiderio di fuga dal presente e dalla realtà: “La chair est triste, hélas! Et ���������������������������� j’ai lu tous les livres. / �� Fuir! là-bas fuir!” (‘la ������������������������������������������������������������������� carne è triste, ahimé, e ho letto tutti i libri. Ah, fuggire, fuggire laggiù’). Nel 1876, il suo splendido poemetto L’après-midi d’un faune (‘il pomeriggio di un fauno’), fu escluso dall’ultima raccolta del Parnasse, a causa della ricchissima tessitura simbolica nella descrizione del sogno erotico del fauno: è l’atto di nascita del cosiddetto simbolismo, movimento letterario ufficializzato nel 1886, in cui si riconoscono i poeti contemporanei che rifiutano il realismo, e cercano di raggiungere la realtà profonda per mezzo di misteriose consonanze di suoni e di rapporti simbolici. La formula di Mallarmé era “dare un senso più puro alle parole della tribù”, una creazione di ‘parole magiche’ resa possibile dalla figura del poeta-sacerdote. A loro volta, i simboli non sono quelli della tradizione poetica del passato, ma si basano su associazioni ambigue e soggettive, e diventano così quasi indecifrabili e oscuri, come nelle poesie successive di Mallarmé: il sonetto Le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui (‘il vergine, il vivace e il bell’oggi’)(1885), confessione della sterilità creativa e del dramma del foglio bianco, della poesia che, come un cigno imprigionato nel ghiaccio, non sa più volare; e infine Un coup de dés n’abolira jamais le hasard (‘un colpo di dadi non abolirà mai il caso’)(1897), in cui la creazione poetica si affida al caso, abbandonando la volontà al potere inconscio delle arbitrarie associazioni simboliche.



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Il più rappresentativo di questi poeti, per il suo stile di vita irregolare e scandaloso, fu Paul Verlaine (1844-1896), che ad un certo punto fu anche imprigionato, per aver sparato al suo giovanissimo amante Rimbaud (1871). Fu lui a coniare l’espressione Les poètes maudits (‘i poeti maledetti’), dal titolo di una sua antologia (1884); e fu sempre lui a riprendere il termine ‘decadenti’ (con il quale venivano chiamati con disprezzo lui e altri contemporanei), e ad assumerlo orgogliosamente come cifra della loro arte, nel primo verso della poesia Langueur (‘languore’) (1883): “Je suis l’empire à la fin de la décadence” (‘io sono l’impero alla fine della decadenza’). Verlaine, in particolare, coltivò la ricerca di una poesia che andasse oltre i confini della parola e delle regole metriche e retoriche (“Prends l’éloquence et tords-lui son cou”, ‘prendi l’eloquenza e torcile il collo’), verso la musica, indefinita e sfumata: tutte idee esposte nell’importante Art poétique (‘arte poetica’)(1874), che inizia col celebre precetto “De la musique avant toute chose” (‘la musica prima di tutto’), e si conclude con la celebre affermazione: “Et tout le reste est littérature” (‘e tutto il resto è letteratura’). Legato a Verlaine da una burrascosa relazione quando aveva appena diciassette anni, Arthur Rimbaud (1854-1891), archetipo del giovane ribelle antiborghese, concentrò tutta la sua straordinaria avventura poetica in tre anni, abbandonandola poi del tutto, e vivendo il resto della sua vita in giro per il mondo (forse addirittura come mercante di schiavi in Africa). La sua poetica è esposta nella cosiddetta Lettre du Voyant (‘lettera del veggente’), nella teoria del poeta-veggente, che attua il dérèglement, il ‘deragliamento’ dei sensi, nella ricerca di un Io che, nel momento della creazione poetica, si dissocia e diventa un Altro da Sé (“Je est un autre”: ‘Io è un altro’). La poesia riparte da zero, dai suoni delle stesse vocali (nella poesia Voyelles). Nel poemetto Le Bateau ivre (‘il battello ebbro’) (1871), un battello, ormai privo di guide umane (uccise dai nativi), viene trascinato dalla corrente di un fiume americano verso l’oceano, “immerso nel Poema del mare”: la sua ‘ubriachezza’ è la visione di cose che vanno oltre ogni possibile umana immaginazione, il raggiungimento di una totale conoscenza del reale, che alla fine porta al desiderio della fine, dell’annullamento nelle onde del mare. Ma soprattutto nei poèmes en prose (‘poesie in prosa’) delle Illuminations (1874) Rimbaud raggiunge il livello più alto di ‘deragliamento’, quasi delle allucinazioni in cui i sensi si confondono. Una nuova poesia, in cui si ricrea anche il mito antico della divinità femminile dell’Aurora, nella fusione erotica con il poeta, fanciullo divino, in Aube (‘alba’). Dal termine ‘decadente’, adottato da Verlaine (1883), nasceva il decadentismo, che avrà anche una sua rivista, “Le Décadent” (1886), e che divenne

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rapidamente molto più di una scuola poetica: un modo di vivere e di pensare, diffuso in tutto il mondo occidentale; uno specchio di un diffuso sentimento della crisi della civiltà borghese e capitalista, di immiserimento della dimensione umana in un mondo dominato dall’utile e dal capitale, e contemporaneamente di reazione delle classi medio-borghesi al pericolo di sovvertimento dell’ordine costituito dal socialismo e dalla civiltà delle masse. Il suo manifesto fu un celebre romanzo di Joris-Karl Huysmans (uno scrittore che pochi anni prima era stato naturalista, nell’orbita di Zola), A rebours (‘a ritroso’)(1884): in realtà non un romanzo, ma il ritratto di un raffinato esteta, il nobile Des Esseintes, e del mondo di oggetti d’arte e di abitudini in cui egli si è rifugiato, come un eremita, per sfuggire la ‘meschinità’ della vita moderna. Ma è una fuga destinata alla sconfitta, e al rientro dell’esteta nell’aborrita società (cosa che farà lo stesso Huysmans, che alla fine si convertirà al cattolicesimo). L’enorme successo europeo del libro fu determinato non dal suo scarso valore artistico, ma dal fatto che divenne (come era stato il Cortegiano di Castiglione) una specie di manuale dell’eroe moderno, superuomo decadente e sensuale, con la minuziosa descrizione dell’ambiente in cui l’esteta vive, l’arredamento, i quadri (celebre la peccaminosa Salomé di Moreau), il modo di vestire, lo stile di vita ecc. ecc. Una fama simile arrise all’opera di Oscar Wilde (1854-1900), allievo degli esteti Walter Pater e John Ruskin, e alfiere del decadentismo inglese, con l’affermazione della “vita come opera d’arte”. Wilde fu però vittima della società perbenista vittoriana in un processo per omosessualità che gli costò anni di carcere durissimo (1895). Autore anche lui di un dramma su Salomé (1893), era già diventato celebre con The Picture of Dorian Gray (‘il ritratto di Dorian Gray’)(1891), storia di uno spregiudicato esteta che, per sortilegio, non invecchia mai e resta sempre giovane e affascinante, mentre su un suo ritratto si stratificano non solo i segni della vecchiaia, ma soprattutto quelli del male morale e dei suoi orribili delitti. Il giorno in cui Dorian, sconvolto da quell’immagine di sé, distruggerà il quadro, finirà con l’uccidere se stesso. Il tema del doppio, della dissociazione dell’Io, in questo caso, va oltre lo stesso decadentismo, e prefigura un carattere fondante della modernità. Intanto, il decadentismo e il simbolismo si diffondono in tutta Europa, dal teatro borghese del norvegese Henrik Ibsen alla poesia degli austriaci Rainer Maria Rilke e Hugo von Hofmannstahl, e del russo Aleksandr Blok. La crisi del realismo era già da tempo avviata nelle arti figurative. In pittura, dopo l’invenzione della fotografia, il ‘realismo’ non poteva limitarsi alla pura e semplice imitazione della realtà esteriore, ma doveva cercare di cogliere le vibrazioni dei colori, delle atmosfere, con tecniche nuove, rivo-



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luzionarie nei confronti delle tradizioni accademiche vigenti, di ispirazione neoclassica (David, Ingres) o romantica (Delacroix). Grande fu lo scandalo morale provocato dai primi dipinti di Edouard Manet, come Colazione sull’erba (1863), e Olympia (1865). Quando nel 1874 si tenne una mostra di questi giovani pittori anticonformisti, a Parigi, presso il celebre fotografo Nadar, essi vennero chiamati con disprezzo ‘impressionisti’, titolo che passò a designare la loro arte, e il loro modo di rappresentare la realtà: Claude Monet, Auguste Rénoir, Edgar Degas, fino alle nuove soluzioni tecniche del ‘puntinismo’ di Georges Seurat, e della scomposizione del reale di Paul Cézanne. Con Cézanne, in effetti, si va oltre il realismo, verso la rappresentazione di paesaggi dell’anima, perseguita poi da Paul Gauguin e Vincent Van Gogh. L’avvento di simbolismo e decadentismo favorisce infine l’opera di alcuni pittori che si fanno interpreti di raffinato erotismo (Gustave Moreau, la cui Salomé diventa modello d’arte per Huysmans e Wilde), o di oscuri incubi (Odilon Redon). Si diffonde inoltre uno stile decorativo internazionale chiamato, nei vari paesi, Liberty, Modern Style, Art Nouveau, e in Italia Stile Floreale. In musica, si passa dalle grandi eroine dell’opera francese, la Carmen di Georges Bizet (1875) e la Manon di Georges Massenet (1884), allo sfumato impressionismo musicale di Claude Debussy (che musica il celebre Prélude al Pomeriggio di un fauno di Mallarmé)(1894). In tutta Europa si sviluppano grandi scuole nazionali di marca tardoromantica (dalla Russia di Mussorgskij e Tchaikovskij alla Norvegia di Grieg e alla Moldavia di Smetana), in cui emergono le antiche melodie popolari. Il decadentismo, oltre il sinfonismo di Gustav Mahler e Richard Strauss (autore di una versione musicale di Così parlò Zarathustra), si riconosce nel teatro ‘globale’ di Richard Wagner (esaltato anche da Nietzsche), fusione di tragedia primordiale, drammaturgia, musica, canto, scenografia, soprattutto nel ciclo dei Nibelunghi. La vicenda immortale e sanguinaria dell’Oro del Reno, di Sigfried e della Walkiria diventa la grande saga preferita dal nazionalismo tedesco, conclusa dagli oscuri presagi di morte del Crepuscolo degli dèi.

1.2. La letteratura dell’Italia unita Dopo la proclamazione dell’Unità (1861) e l’annessione del Veneto (1866), l’Italia concluse la prima fase di formazione dello stato con la conquista di Roma (1870), sottratta al potere temporale dei papi, e diventata capitale del paese. Finiva un’epoca millenaria di divisione politica, l’Italia entrava per la prima volta in Europa come stato unitario: ma cominciava anche un periodo

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estremamente difficile di modernizzazione, di riduzione forzata della straordinaria ricchezza culturale e antropologica che comunque la divisione e la diversità avevano dato, nei secoli, alla penisola. Il processo di unificazione, troppo veloce, aveva comportato un centralismo forzato, e lo spostamento delle grandi risorse finanziarie del Sud al Nord, per coprire l’enorme debito pubblico del Piemonte. Obiettivo primario era la creazione di grandi infrastrutture (la rete ferroviaria), e l’industrializzazione, che al Nord accelerò a ritmi vertiginosi dopo il 1880, fino a toccare l’apice dello sviluppo alla fine del secolo. La maggior parte dei capitali provenivano dall’agricoltura e dal Sud, dove però non s’era modernizzato affatto il sistema di proprietà e produzione. Ne risultò, dopo l’adozione di nuove politiche doganali, una gravissima crisi economico-sociale, che colpì soprattutto il Mezzogiorno, creando la cosiddetta questione meridionale (denunciata a partire dal 1878 da Pasquale Villari nelle Lettere meridionali), e la tragedia dell’emigrazione di milioni di persone verso l’Europa e le Americhe. Da allora, l’Italia divenne quello che è oggi: un sistema basato su un dualismo di fatto, da un lato il Centro-Nord, dall’altro il Sud, il cui divario ebbe all’origine, come causa principale, il grande drenaggio di risorse finanziarie e umane imposto dalla prima politica unitaria. L’Italia non era certo una grande potenza, anche se i suoi politici coltivavano sogni di grandezza, e ogni tanto tentavano (con risultati catastrofici) di conquistare un piccolo impero coloniale in Africa. Nonostante i gravi problemi economici e sociali, e l’incredibile incapacità e corruzione di gran parte della classe politica, però, il paese riuscì a superare i ritardi iniziali nei confronti dell’Europa, e a presentare alti livelli di produzione e di qualità della vita all’inizio del Novecento, con settori scientifici e tecnologici all’avanguardia mondiale (dall’invenzione della radio all’industria automobilistica e al cinema). La battaglia più dura era stata quella dell’educazione, ed essa poteva dirsi in parte vinta. Nel 1861, quasi l’80% della popolazione italiana (con punte anche più alte nel Sud) era analfabeta, e l’introduzione dell’istruzione elementare obbligatoria portò la scuola ad uno sforzo veramente eroico, raggiungendo i paesini più sperduti delle montagne appenniniche. Uno sforzo di allargamento democratico della partecipazione anche alla vita politica (all’inizio, aveva diritto al voto solo il 2% della popolazione adulta), che avrebbe portato col tempo al suffragio universale maschile. La diffusione della cultura poté allora avvenire in modo sempre più ampio, con la nascita di un’industria editoriale moderna, soprattutto a Milano, e poi a Torino e Firenze, e con lo sviluppo di giornali e quotidiani.



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Proprio al mondo dell’educazione e della scuola guardarono i primi grandi intellettuali dell’Italia unita, in una Napoli che aveva aderito con entusiasmo all’Unità d’Italia, rinunciando al suo status secolare di capitale. All’Università, riaperta e riformata dal De Sanctis, avrebbe insegnato Luigi Settembrini (Napoli 1813-1876), già grande figura di patriota, martire della causa in lunghi anni di dura prigionia borbonica (raccontata nelle vivissime Ricordanze della mia vita): professore di letteratura italiana, Settembrini affidò la materia viva del suo insegnamento, acceso di impegno civile, ghibellino e anticlericale, alla pubblicazione delle sue Lezioni di letteratura italiana (18661872). Ma soprattutto vi sarà determinante Francesco De Sanctis (Morra Irpino 1817-Napoli 1883), allievo di Basilio Puoti (nella cui scuola aveva incontrato Leopardi), poi maestro di una sua piccola scuola privata (1839-1848) e insegnante al collegio militare della Nunziatella (la cosiddetta ‘prima scuola napoletana’). Anche De Sanctis aveva osteggiato il regime borbonico, e dopo il ’48 aveva pagato di persona con tre anni di carcere, e con l’esilio, prima a Torino, poi in Svizzera, dove fu professore di letteratura italiana a Zurigo (1856). L’Unità significò per lui un ritorno all’attività politica e civile, con diversi mandati di Ministro della Pubblica Istruzione, e infine un ritorno all’insegnamento, come professore di letteratura comparata all’Università di Napoli (1871). Oltre i molti e importanti saggi critici su Dante, Petrarca, Leopardi (considerato “il primo poeta d’Italia dopo Dante”) e Manzoni, De Sanctis concepì il suo capolavoro, la Storia della letteratura italiana (18701871), come un libro di scuola, anche se poi il libro gli divenne, tra le mani, qualcos’altro: un grande affresco della storia della civiltà italiana, della genesi e dell’evoluzione dello “spirito nazionale”, passato attraverso momenti di ascesa e momenti di decadenza. In parte, la Storia, per De Sanctis, riprendeva dalla filosofia idealistica il meccanismo dialettico di tesi ed antitesi, riflesso anche in un altro principio critico importante, quello della dialettica tra forma e contenuto. Negli ultimi anni, comunque, De Sanctis si allontanò dall’idealismo per avvicinarsi al realismo, al naturalismo, al darwinismo, in importanti letture di Zola. Il reale, il ‘vero’, parola d’ordine del romanticismo italiano, e di Manzoni, pervadeva ora tutte le correnti letterarie contemporanee. Anche di quelle che, per prime, avvertivano il disagio e la disillusione degli ideali romantici e risorgimentali, di fronte ad una società borghese post-unitaria tutta dedita all’arricchimento e all’utilitarismo pratico, in cui sembrava non ci fosse più posto per l’artista e il suo messaggio. Tale fu, ad esempio, la protesta portata avanti dalla Scapigliatura, un movimento composito e anticonformista sviluppatosi negli anni Sessanta, fortemente polemico nei confronti delle

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istituzioni e delle convenzioni borghesi; nato, non a caso, a Milano, che si avviava ad essere la città italiana più avanzata sul fronte della modernizzazione industriale. Il termine fu ‘ufficializzato’ dal titolo di un romanzo di un prolifico autore popolare, La scapigliatura e il 6 febbraio di Cletto Arrighi, pseudonimo di Carlo Righetti (1862, ma la prima pubblicazione parziale sull’almanacco della rivista “Il Pungolo” era già avvenuta nel 1858). La ‘scapigliatura’ era una traduzione italiana della parola francese Bohème, e indicava l’ambiente di artisti antiborghesi che vivevano una vita libera e spensierata, talvolta pericolosa e immorale. Era un ambiente già descritto in un celebre romanzo francese di Henri Murger, Scènes de la vie de Bohème (‘scene della vita di bohème’)(1846). Contro Manzoni, i modelli letterari sono quelli dei Fiori del male di Baudelaire, del macabro e dell’irrazionale di Hoffmann e di Poe. Prevale la figura del poeta ‘maledetto’, che non di rado finisce male, morto giovane, alcolizzato o suicida. L’istanza realistica si afferma nella prosa, con Giuseppe Rovani (Milano 1818-1874), autore di Cento anni, romanzo ciclico d’appendice (uscito a puntate sulla “Gazzetta di Milano” dal 1856 al 1863) che racconta i cento anni della storia più recente, dal 1750 al 1850, con un ‘preludio’ in cui si difende il romanzo dalle critiche moralistiche, interessante documento sulla ricezione contemporanea di quel genere letterario. Realistica sarebbe stata soprattutto la cosiddetta Scapigliatura ‘democratica’ (più tarda e vicina al socialismo) di Felice Cameroni (Milano 1844-1913), con la rivista “Gazzettino Rosa”, e di Paolo Valera (Como 1850-Milano 1926), autore di un romanzo zoliano, La folla (1901), viva rappresentazione del proletariato milanese. Nella poesia scapigliata prevaleva piuttosto l’influenza della poesia maledetta e simbolista di Baudelaire, con Emilio Praga (Gorla 1839-Milano 1875), che affermava: “Noi siamo i figli dei padri ammalati”; Giovanni Camerana (Casale Monferrato 1845-Torino 1905), un magistrato morto suicida, attirato dai temi della morte e dell’indefinito; e Arrigo Boito (Padova 1842-Milano 1918), che in Dualismo esprimeva bene il senso di dissociazione dell’Io condiviso da tutta una generazione di poeti e di artisti: “Son luce ed ombra; angelica / farfalla o verme immondo”. Boito, musicista in proprio con l’opera Mefistofele (1868), e librettista di Verdi con l’Otello e il Falstaff, rappresentava anche la tensione tipica del movimento scapigliato a superare le divisioni tra le varie forme di espressione artistica, con il fine di pervenire ad una fusione delle arti, tra poesia, musica e arti figurative. Come in Boito, i temi macabri e fantastici affiorano nella narrativa di Iginio Ugo Tarchetti (San Salvatore Monferrato 1839-Milano 1869), morto giovane di tisi, cantore di un eros proibito, mostruoso o malato nei Racconti



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fantastici (1869) e nell’inquietante romanzo Fosca (1869), ma anche lucido oppositore del militarismo in Una nobile follia. L’ossessione amorosa è anche alla base del celebre racconto Senso di Camillo Boito (1836-1914), fratello di Arrigo: sullo sfondo del Veneto nella Seconda Guerra d’Indipendenza (1866), una torbida vicenda di adulterio tra una nobile italiana e un giovane ufficiale austriaco, bello, infedele, traditore nei confronti dell’amante come dei suoi doveri militari, e alla fine denunciato dalla donna, disperata per un ultimo tradimento, e condannato a morte. Infine, la personalità più originale della Scapigliatura appare Carlo Alberto Pisani Dossi (Zenevredo 1849-Cardina 1910), che assunse lo sperimentalismo formale (tentato in forma confusa dagli altri ‘scapigliati’) come vero e proprio strumento di elaborazione linguistica, di espressionismo oscillante tra il dialetto milanese e la lingua nazionale e della tradizione, oltre la lezione di Manzoni. Dal grande laboratorio privato dello zibaldone di Note azzurre Dossi passò alla scrittura di singolari romanzi, come L’Altrieri (1868), e la Vita di Alberto Pisani (1870), che si caratterizzano per la forte componente autobiografica. In seguito, divenuto lo ‘scapigliato’ un rispettabile diplomatico del Regno d’Italia, Dossi continuò a coltivare una visione originale e paradossale del mondo, nell’utopismo de La colonia felice (1874), storia di un gruppo di deportati che ricostruiscono la società umana dal suo grado zero; e nella inattuale misoginia della Desinenza in A. Uno degli scrittori più ‘espressionisti’ del tempo, antimanzoniano e antirealistico, fu il napoletano Vittorio Imbriani (Napoli 1840-1886), che, per l’infanzia segnata dall’esilio in Svizzera della sua famiglia di patrioti, ebbe un’ampia formazione europea, giovane allievo di De Sanctis a Zurigo, e studente di filosofia idealistica a Berlino. L’Imbriani, appassionato della lettura di Giambattista Basile, si crea una lingua giocosa ed espressiva, utilizzata per rappresentare situazioni estreme e talvolta scandalose, dalle novelle dei Ghiribizzi (1876) al romanzo Dio ne scampi dagli Orsenigo (1876). Nella Novella del vivicomburio (1877) si mette in scena l’incredibile vicenda boccaccesca di una seducente marchesa che, dopo aver provocato svariati suicidi di amanti, si converte alla filosofia della massima ‘disponibilità’, e viene infine violentata da una ciurma di “buggeroni” genovesi. Al di là dell’allegoria e dello sperimentalismo, in tutte le opere dell’Imbriani è comunque sempre leggibile la profonda e corrosiva critica della corruzione morale del presente. La posizione dell’Imbriani era però abbastanza isolata. Quasi tutta la narrativa contemporanea tendeva alla rappresentazione della realtà, del ‘vero’, e quindi, già dagli anni Sessanta, cominciava a circolare la parola ‘verismo’ per

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indicare l’insieme di queste tendenze. Da un lato fioriva la memorialistica, la scrittura autobiografica di chi sentiva (o credeva) di essere stato testimone di una fase straordinaria della storia italiana, e voleva trasmettere alle nuove generazioni il racconto (un po’ romanzato, e quasi sempre retoricamente sostenuto) delle vicende che aveva vissuto, come il garibaldino Giuseppe Cesare Abba (Cairo Montenotte 1838- Brescia 1910), autore di Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille (1891). Dall’altro, era sempre viva l’influenza di Manzoni, e il suo invito a considerare il mondo degli ‘umili’, che, in assenza di una vera e propria società industriale sviluppata, è ancora declinato negli ambienti dei contadini, nel filone della cosiddetta letteratura campagnola. Si tratta di un genere ben praticato da Nievo, da Francesco Dall’Ongaro (Mansué 1808-Napoli 1873), e da un’interessante figura di aristocratica friulana, Caterina Percoto (San Lorenzo di Soleschiano 1812-1887), che nelle sue novelle mette in risalto, con notevole realismo, le difficili condizioni di vita dei contadini della sua terra. Le prime problematiche dello sfruttamento industriale emergono nelle novelle di Giulio Carcano (Milano 1812-Lesa 1884), in particolare La Nunziata (1849), triste storia della figlia di un mugnaio che cerca di ‘cambiare stato’ e trovare una sua indipendenza diventando operaia in una fabbrica di cotone, e che invece, delusa e sfruttata, muore giovanissima. L’ambiente piccolo-borghese milanese viene invece raccontato da Emilio De Marchi (Milano 1851-1901), in particolare nel Demetrio Pianelli (1889). Infine, in Veneto, Antonio Fogazzaro (Vicenza 1842-1911), influenzato da una profonda educazione religiosa, trasferì ai suoi personaggi, con un raffinato realismo psicologico, le inquietudini e le contraddizioni del suo tempo (ormai vicine alla sensibilità decadente), soprattutto in Malombra (1881), dramma di un amore fatale, segnato dalla sensualità peccaminosa e demoniaca, e in Piccolo mondo antico (1895), l’amore contrastato di due sposi, Franco e Marina, sullo sfondo delle vicende del Risorgimento. Dalle vicende del figlio di Franco e Marina, Piero, e dalla sua inquieta adesione al cattolicesimo modernista, nasceranno i successivi romanzi, condannati dalla Chiesa Cattolica: Piccolo mondo moderno (1901), Il Santo (1905), Leila (1910). A Napoli, il romanzo sociale, iniziato dalla leopardiana Ginevra del Ranieri, trova il suo rappresentante più popolare nell’esuberante Francesco Mastriani (Napoli 1819-1891), già fortunato autore della Cieca di Sorrento. Pur con i suoi limiti, Mastriani rivela un notevole respiro europeo, riprendendo Les mystères de Paris di Eugène Sue in I misteri di Napoli (1870); e giunge così a rappresentare e denunciare gli aspetti più degradati della ex-capitale, della città brulicante e ingovernabile che iniziava allora la sua inarrestabile



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e grandiosa decadenza, in libri come I Vermi. Studi storici sulle classi pericolose in Napoli (1863-64). Trionfava il genere del feuilleton, della letteratura di consumo, del romanzo popolare pubblicato a puntate su quotidiani e riviste. Era questo anche il mondo della più vivace e impegnata scrittrice dell’epoca, Matilde Serao (Patrasso 1856-Napoli 1927), formatasi nella Scuola Normale Femminile di Napoli per diventare maestra, ma poi impiegata ai Telegrafi di Stato, e infine scrittrice e giornalista, in sodalizio con il marito Edoardo Scarfoglio (nei giornali “Corriere di Napoli” e “Il Mattino”), da cui si sarebbe infine separata. I primi racconti de Il romanzo della fanciulla (1885) sono ‘novelle corali’, ritratti di gruppo e d’ambiente, e non di singoli personaggi; e sono anche fortemente autobiografici, denuncia della lotta di una giovane donna che cercava la sua indipendenza nella Napoli di fine Ottocento. Su influenza naturalista e verista, la Serao scrive anche importanti descrizioni-réportages di Napoli, Il paese di Cuccagna, sul gioco del lotto, e Il ventre di Napoli, sulla città devastata dal colera del 1884. Nell’ampia produzione contemporanea sui mali di Napoli, uno dei testi più significativi e impietosi, Napoli a occhio nudo (1878), viene scritto da un toscano, Renato Fucini (Monterotondo Marittimo 1843-Dianella 1921), che con lo pseudonimo di Neri Tanfucio avrebbe lasciato una celebre rappresentazione della Toscana rurale, con un vivo linguaggio vernacolare, nei bozzetti de Le veglie di Neri (1882). Una lingua simile, formatasi su una lunga pratica del registro comicosatirico toscano, è quella che utilizza Carlo Lorenzini (Firenze 1826-1890), detto Carlo Collodi, nella più importante e fortunata favola italiana di tutti i tempi, una storia che veramente, oltre all’originaria destinazione ad un pubblico infantile (per cui è considerata l’archetipo della moderna letteratura per l’infanzia), sembra una grande allegoria del mondo degli adulti, e in parte anche di una società italiana ancora dominata da analfabetismo, povertà, rigide differenze sociali e culturali. Il libro nacque quasi per caso, a poco a poco. Dal 7 luglio 1881, sul toscano “Giornalino dei bambini”, Collodi cominciò a pubblicare le prime puntate della Storia di un burattino, concludendola con la sua morte per impiccagione. Ma fu allora costretto, a furor di popolo, a far risorgere il burattino, e a continuare la storia, col titolo Le avventure di Pinocchio (1883), fino al finale ‘moraleggiante’ che leggiamo anche noi oggi: l’auspicata trasformazione del burattino in bambino ‘vero’, la fine delle sue avventure anarchiche e irregolari e del regno assoluto della fantasia. Fu un successo enorme, perché fin dalla prima edizione Pinocchio fu un grande libro popolare, fatto di un rapporto indissolubile di parole e di

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immagini, di testo e di illustrazioni. Lo stesso rapporto, in fondo, che aveva fatto la fortuna dei Promessi sposi. Altro libro di grande successo legato al mondo della scuola e dell’infanzia fu, pochi anni dopo, Cuore (1886) di Edmondo De Amicis (Oneglia 1846-Torino 1908), un finto diario di uno studente torinese di otto anni, che riporta anche le moralistiche lettere del padre, e i lacrimevoli racconti mensili del maestro, vicende esemplari di fanciulli che si sacrificavano eroicamente durante il Risorgimento, o che difendevano con coraggio il buon nome dell’Italia, stracciona ed emigrante all’estero. De Amicis, prima ufficiale sabaudo a Custoza e poi giornalista militante, avrebbe poi abbandonato l’ottimismo patriottico di Cuore, sperimentando di persona (in un viaggio in Sud America) l’amara realtà dell’emigrazione in Sull’Oceano (1889), e descrivendo le dure condizioni di vita degli stessi educatori in Il romanzo di un maestro (1890). Infine, una completa evasione dalla realtà contemporanea era offerta dai popolari romanzi d’avventura di Emilio Salgàri (Verona 1862-Torino 1911), che, senza aver mai viaggiato fuori d’Italia, si creò un suo straordinario mondo fantastico, fatto di storie ambientate in paesi esotici, come l’epopea delle Tigri della Malesia, dei pirati di Mompracem e di Sandokan. Nella narrativa italiana del secondo Ottocento il realismo giunse al grado più alto di consapevolezza e di realizzazione artistica solo con un movimento letterario che assunse consapevolmente, per un certo periodo, il nome di verismo. Il termine (già esistente negli anni Sessanta) fu arricchito di nuovi contenuti teorici da Luigi Capuana (Mineo 1839-1915), la cui carriera di intellettuale e di scrittore si svolse soprattutto a Firenze (1864-68), Milano (1877-1880) e Roma (1888-1902), dove sarebbe stato professore al Magistero (e collega di un giovane Luigi Pirandello). Determinanti furono i soggiorni a Firenze (dove era attivo Dall’Ongaro) e a Milano (sede ancora dei fermenti scapigliati, con il loro richiamo al ‘vero’): anche per l’inizio del sodalizio con Verga, fondamentale per lo sviluppo del verismo. Capuana legge presto Zola, e riprende veri fatti di cronaca contemporanea per i suoi primi romanzi, considerati scandalosi e immorali all’epoca. Di grande interesse è anche l’approfondimento della psicologia femminile, in Giacinta (1879), storia dell’ossessione di una donna che scopre di essere stata violentata da bambina, e finisce col degradarsi sempre di più fino al suicidio; e in Storia fosca (1880), un amore proibito tra figliastro e matrigna, che segna anche il ‘ritorno’ dello scrittore alla rappresentazione dell’ambiente siciliano. Capuana si allontana dal naturalismo zoliano teorizzando il verismo, che abbandona il criterio di ‘scientificità’ assoluta e l’impegno politico radicale, e privilegia invece il principio d’impersonalità. Forse è proprio l’analisi



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psicologica quella che interessa di più Capuana, che tra l’altro è un fervido appassionato di medicina psichiatrica. Prolifica è la produzione di romanzi psicologici, in cui compaiono le problematiche dell’isteria femminile (Profumo, 1890), dell’ossessione erotica e decadente fino al suicidio commesso per amore di una donna-sfinge (La sfinge, 1895), e della sterilità creativa e della mancanza di volontà di un intellettuale “inetto all’azione” (Rassegnazione, 1900). Il romanzo più significativo di Capuana, Il marchese di Roccaverdina (1901), torna all’ambientazione in una Sicilia arida e tragica, in cui si scatena la follia di un aristocratico che, dopo aver fatto sposare la contadina ex-amante a un suo servitore, uccide quest’ultimo per gelosia. Aderisce fortemente alla poetica verista, e soprattutto al principio d’impersonalità, Federico De Roberto (Napoli 1861-Roma 1927), scrittore vissuto prevalentemente a Catania, che progettò un grande ciclo narrativo su una famiglia nobile siciliana nel secolo del grande cambiamento e dell’Unità d’Italia, i principi Uzeda di Francalanza. Il primo romanzo, L’illusione (1891), è ambientato nel periodo postunitario, e racconta la deludente educazione sentimentale di Teresa Uzeda, in un unico e straordinario monologo della protagonista. Lo sguardo di De Roberto passa poi a tutta la famiglia, I Viceré (1894), al tempo della fine del regno borbonico, una grande famiglia in decadenza, minata dalla ‘malattia’ fisica e morale, mentre avanzano le classi medie avide di ricchezza e potere; emerge allora il cugino di Teresa, il principe Consalvo, cinico e al passo con i tempi, che diventa deputato al Parlamento italiano, e che dirà alla fine del romanzo: “La storia è una monotona ripetizione: gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi”. È una visione amara di una storia immobile, senza progresso, che continua nell’ultimo romanzo incompiuto della trilogia, L’Imperio (ed. postumo 1929), stavolta del genere chiamato ‘parlamentare’, ambientato nella Roma di Consalvo deputato, mondo di corruzione e cinismo, in cui il pessimismo dell’autore diventa ancora più radicale: “La radice del male è nella nostra stessa natura […] il progresso era tutta apparenza”. Un iniziale verismo influenza anche la formazione della scrittrice sarda Grazia Deledda (Nuoro 1871-Roma 1936). Studiosa delle tradizioni popolari della sua terra, Deledda passa alla rappresentazione mitica di un mondo primordiale, quasi fiabesco nelle descrizioni di paesaggio. Di quel mondo viene attuato un recupero memoriale, in romanzi come Elias Portolu (1900), e Canne al vento (1913), i cui personaggi, segnati dal dolore e dalla predestinazione, ricordano i grandi personaggi della narrativa russa, e in particolare di Dostoevskij. Un’ampiezza di visione che conquistò alla Deledda una celebrità europea, sancita dall’assegnazione del Premio Nobel per la letteratura nel 1926.

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Infine, l’immaginario collettivo italiano di fine Ottocento continua a nutrirsi del fecondo rapporto tra letteratura e musica nel teatro musicale, come era già avvenuto in età romantica e risorgimentale con Verdi (che fino ai suoi ultimi anni resta un importante punto di riferimento nazionale, spesso considerato in opposizione alla musica di Wagner). Il verismo, ad esempio, influenza le scelte di Giacomo Puccini (1858-1924), che mette in scena il celebre dramma della Bohème (1896), proiezione di un mondo di artisti ‘irregolari’ che andava dalla Bohème parigina e dalla Scapigliatura italiana fino ai nuovi intellettuali socialisti e libertari. Puccini crea poi grandi figure femminili come Tosca (1900), Madame Butterfly (1904), e l’incompiuta Turandot (1926), in opere che superano la tradizione verdiana, nella ricerca di sonorità nuove, e di un fluire melodico ininterrotto. Direttamente legato al verismo è anche Pietro Mascagni, con la Cavalleria rusticana (1890) ripresa dalla novella di Verga. Ma è soprattutto il periodo del trionfo della canzone popolare, e in particolare della canzone napoletana, diffusa in tutto il mondo dal canto triste degli emigranti. Un fenomeno di massa, cui dedicano attenzione anche grandi poeti come D’Annunzio (autore del testo della Vucchella, musicata da Francesco Paolo Tosti). Il livello più alto e raffinato di elaborazione stilistica è raggiunto da Salvatore Di Giacomo (Napoli 1860-1934), grande poeta dialettale, autore del dramma passionale Assunta Spina (1909), e artefice di una metamorfosi ‘settecentesca’ del dialetto napoletano, in canzoni celeberrime come Marechiaro, Era de maggio, Spingole frangese, Palomma ’e notte.

1.3. Carducci La letteratura dell’Italia unita si esprime soprattutto nella prosa e nella narrativa, segno di una forte tensione verso la realtà contemporanea e sociale. Tra le poche voci significative della poesia, emerge quella di Giosue Carducci (Valdicastello di Versilia 1835-Bologna 1907), figlio del medico condotto di Bolgheri e poi di Castagneto, nella Maremma toscana, educato dagli Scolopi a Firenze, e poi alla Normale di Pisa (1853). In pieno Risorgimento, il giovane Giosue scelse una strada completamente diversa da quella dei contemporanei, dominati dal tardoromanticismo, e, con un gruppo di amici chiamati gli “Amici Pedanti”, tornò al classicismo e alla tradizione letteraria nazionale, che era comunque ricchissima di stimoli patriottici e civili: da Dante e Petrarca a Foscolo e Leopardi. Si trattava quindi di un classicismo vivo, nutrito di letture dirette dei classici greci e latini (soprattutto Orazio), e non mediato dalla vecchia tradizione arcadica o dalla fredda imitazione



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neoclassica; un classicismo aperto agli stimoli che provenivano dal resto d’Europa, da autori come Victor Hugo e Heinrich Heine, in cui operava comunque la tensione romantica. L’evento determinante della vita di Carducci fu la nomina a giovanissimo professore di eloquenza italiana all’università di Bologna (1860), da parte del ministro Terenzio Mamiani (lo stesso che Leopardi aveva attaccato nella Ginestra). In questi primi anni Carducci, mazziniano, giacobino e repubblicano, fu fortemente critico nei confronti del potere della Nuova Italia, ma col tempo si avvicinò alla monarchia sabauda, e divenne la voce più rappresentativa della poesia ufficiale e celebrativa, una sorta di ‘poeta vate’, fino ad essere insignito (il primo italiano) del Premio Nobel per la letteratura (1905). Nella lunga attività d’insegnamento, il poeta-professore esercitò un’influenza duratura sullo sviluppo delle scienze umane e della critica letteraria, privilegiando un approccio storico globale al fatto letterario, in parte influenzato dalla contemporanea filologia tedesca, basata sull’analisi attenta dei realien, dei fatti ‘positivi’. Ne derivò, attraverso numerosi discepoli e allievi, la cosiddetta ‘scuola storica’, che, attraverso l’editoria, le riviste culturali, l’università e la scuola, promosse la conoscenza approfondita della storia della letteratura italiana, lo studio dei manoscritti, la pubblicazione di edizioni critiche di testi e documenti d’archivio. Ma la grandezza riconosciuta di Carducci, a livello europeo, era quella di poeta: un poeta, soprattutto da giovane, fortemente animato da ideali risorgimentali, mazziniano e rivoluzionario e protestatario, e perciò non tanto lontano (se non nelle forme e nei metodi) da alcuni suoi coetanei romantici e scapigliati. Carducci diceva praticamente le stesse cose, ma con lo stile delle odi o dei giambi di Orazio, di Dante e Petrarca, come appare fin dalle giovanili Rime di San Miniato (1857), e dagli Juvenilia, in cui il poeta si riconosceva vero “scudiero dei classici”: in gran parte una lirica d’occasione risorgimentale, legata all’ambiente di studi del classicismo toscano, con la compiaciuta esibizione di recuperi di metri e stili italiani antichi, dal Duecento al Cinquecento. Una fase preparatoria (chiamata dall’autore “vigilia d’armi”) che si prolunga ancora nei Levia Gravia (1868), pubblicati con lo pseudonimo di Enotrio Romano. Vi compare anche il violento e anticlericale Inno a Satana (1863), in cui, nella cadenza veloce di una canzonetta arcadica, si esalta il progresso scientifico della modernità, simboleggiata dal treno “bello e orribile / mostro”. La passione politica e civile continua anche dopo l’Unità, e stavolta con il piglio satirico e morale di Orazio, in Giambi ed epodi (1882), che anche nel titolo rinviano esplicitamente al poeta latino. Si tratta ora di esercitare una critica costante nei confronti del presente, delle istitu-

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zioni e della società contemporanea, che sembravano aver tradito gli ideali del Risorgimento. Il modello di riferimento è naturalmente quello di Dante ghibellino, figura morale sdegnosa e assolutamente integra. Ma intanto l’apertura alla poesia europea contemporanea significava anche il graduale avvicinamento ad una sensibilità della crisi, e l’inizio di un ripiegamento verso l’Io, verso le sue inquietudini e i suoi dolori. Nascono così le Rime nuove (1887), vasta e composita raccolta, forse la più importante di Carducci, importante soprattutto per il recupero, dopo tanti anni di lotta, delle proprie origini, con la nostalgia della terra maremmana e degli affetti perduti, in testi come Idillio maremmano, Traversando la Maremma toscana, Davanti San Guido. Una memoria a cui bastano le rapide pennellate del bozzetto, nella forma breve del sonetto Il bove, o delle malinconiche anacreontiche Pianto antico e San Martino. Carducci continua a dialogare su tutti i versanti della tradizione letteraria, dai miti della classicità in Primavere elleniche, fino al Leopardi ‘lunare’ in Vendette della luna. E si registra anche un riavvicinamento alla letteratura romantica europea, con la composizione di alcune ballate storiche, che avrebbero voluto colmare l’assenza di una poesia epica italiana nel Medioevo, e che ebbero infatti grande popolarità nella scuola primaria (La leggenda di Teodorico, Sui campi di Marengo, La tomba del Busento). Da un punto di vista formale, Carducci raggiunse il punto più alto del suo classicismo nelle Odi barbare (1893), così intitolate perché frutto di un raffinato esperimento metrico: la ricreazione dei metri lirici classici (greci e latini: l’ode alcaica, l’ode saffica, l’asclepiadeo ecc.) nella metrica italiana, per mezzo di versi che presentavano accenti ritmici fissi nelle stesse sedi dei corrispondenti versi antichi. Qualcosa di simile, nel Quattrocento, aveva cercato di fare l’Alberti, nel celebre Certame coronario, e poi il Chiabrera e altri classicisti fra Seicento e Settecento. Solo in apparenza operazione erudita, era invece un difficile esercizio sulla parola, destinato a rinnovare profondamente il linguaggio poetico, con accostamenti nuovi e inusitati, e ad influenzare la poesia italiana successiva, fino alla ‘poesia libera’ novecentesca, insegnando a fondare la poesia su strutture ritmico-musicali profonde. Nella tematica, le Odi barbare accentuano il senso di evasione e di fuga verso il passato, di noia esistenziale e di dualismo vita-morte, con una sensibilità che si avvicina ora al simbolismo e al decadentismo, in particolare in liriche come Nevicata. In Alla stazione in una mattina d’autunno si descrive invece la partenza della donna amata (“Lina” o “Lidia”, cioè la musa ispiratrice di Carducci in questi anni, Carolina Cristofori Piva) dalla stazione ferroviaria di Bologna, in una triste mattina dove tutto si fa simbolo della fine e della morte: anche il treno, un tempo cantato come simbolo di progresso, è ora diventato “empio mostro” che trascina via la donna, l’amore, la vita.



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Oltre questi vertici di poesia, il vecchio Carducci si sarebbe identificato totalmente nella retorica figura del vate della Nuova Italia, nella poesia celebrativa di Rime e ritmi (1899), in cui comunque affiorava ancora la nostalgia dei miti ‘romantici’ e ‘medievali’, come Jaufré Rudel.

1.4. Verga Il più grande autore del verismo, uno dei pochi narratori italiani che seppero elevarsi, a fine Ottocento, ad un livello veramente europeo, fu Giovanni Verga (Catania 1840-1922), un aristocratico discendente dai baroni di Fontanabianca che, dopo la scuola giovanile presso un ‘vulcanico’ patriota romantico, don Antonino Abate, si cimentò subito nell’attività letteraria. Il suo patriottismo romantico e manzoniano emerge nei romanzi storici giovanili, Amore e patria (1857) sulla rivoluzione americana, e I Carbonari della montagna (1862) sul periodo del dominio napoleonico in Italia meridionale, mentre la contemporaneità ispira Sulle lagune (1863), una tragica storia d’amore sullo sfondo di una Venezia ancora irredenta, e il quasi autobiografico Una peccatrice (1866). Il cambiamento decisivo per la vita di Verga fu l’abbandono della Sicilia (1869), per un primo soggiorno a Firenze, dove avvenne l’incontro con Dall’Ongaro, uno degli esponenti più significativi della narrativa contemporanea, realista e ‘campagnola’. Dall’Ongaro firma la prefazione del nuovo romanzo di Verga, Storia di una capinera (1870), storia tragica della solita fanciulla monacata per forza (come in Manzoni), qui simboleggiata dall’immagine dell’uccellino in gabbia, ma resa attuale e realistica dall’ambientazione siciliana, e dalla confessione della donna, che racconta la sua storia in prima persona e in presa diretta, in forma epistolare. Firenze è anche importante per l’inizio dell’amicizia con Capuana, che Verga ritrova pochi anni dopo a Milano, dove si trasferisce nel 1872, per quasi vent’anni. Milano significa anche il confronto diretto con la realtà sociale e industriale più avanzata dell’Italia contemporanea, e anche con i problemi esistenziali denunciati dagli scapigliati e dai socialisti, innanzitutto il disagio dell’artista nella moderna società borghese. A Milano Verga compone tre romanzi mondani e ‘scandalosi’ (come farà poi anche Capuana), ritratto della crisi morale della società raffinata, altoborghese o aristocratica, a cui lui stesso appartiene, postromantica e avanzata: Eva (1873), storia della crisi di un artista siciliano fallito e ‘in fuga’, sospeso tra “sogno o storia”; Tigre reale (1875), amore tragico, al limite della ‘malattia’ morale, fra un imbelle Giorgio e la passionale e volitiva Nata; e infine Eros (1875).

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Evidentemente lo stesso Verga non era soddisfatto di queste sue prime prove, e aveva già cominciato a tornare alla sua Sicilia nel racconto Nedda (1874), un ‘bozzetto siciliano’ che forse era più vicino al genere ‘campagnolo’ di Dall’Ongaro. Poi, la frequentazione di Capuana e la lettura dei romanzieri francesi lo convince all’adesione alla poetica del verismo: soprattutto con il principio d’impersonalità, che viene interpretato in modo diverso dall’atteggiamento ‘scientifico’ del naturalismo francese. Mentre Zola si mantiene all’esterno della realtà per osservarla con il massimo di obiettività ‘scientifica’, Verga cerca di immergersi totalmente in essa, operando una vera ‘eclissi’ dell’autore. La sua “mano invisibile” guida così la composizione della novella L’amante di Gramigna, e poi via via delle altre novelle di Vita dei campi (1880). È lo straordinario ‘ritorno’ dell’aristocratico Verga non solo alla ‘sua’ Sicilia, ma al mondo degli ‘umili’, delle classi inferiori, considerate con il massimo dell’oggettività, e guardando la realtà con gli stessi occhi di quei personaggi, con il loro linguaggio e il loro immaginario, senza alcuna sovrapposizione da parte dell’autore. Ne nascono testi memorabili d’ambiente come Cavalleria rusticana, o grandi ritratti di personaggi ‘primitivi’, attori di primordiali tragedie passionali, come Rosso Malpelo, Jeli il pastore, La Lupa. Verga era ormai pronto per tentare il passaggio dalla forma breve della novella a quella più difficile del romanzo, e volle provare addirittura la struttura ciclica, tipica del romanzo naturalista francese. Il progetto viene esplicitato in Fantasticheria (1879), più un manifesto di poetica che una novella, in cui, a un’immaginaria interlocutrice femminile, si afferma che forse la vita più autentica si può cogliere, meglio che a Parigi, tra gli ‘umili’ della Sicilia, in un paese di pescatori come Aci Trezza, attaccati alla loro povera vita con quello che viene definito “l’ideale dell’ostrica”, un’arcaica religione della famiglia e dell’esistenza umana. La loro è una vita dominata dalla necessità. Essa si ripete uguale di generazione in generazione; ed è quindi grandiosamente ‘tragica’, e pervasa di un primitivo senso sacrale, come lo poteva essere l’antica tragedia dei Greci. L’idea del grande ciclo narrativo, prima col titolo La marea, poi con quello de I Vinti, è guidata quindi da una concezione della Storia darwinista, determinista e pessimista, in cui il Progresso è assimilato piuttosto a una “fiumana”, a una marea che trascina gli esseri, piuttosto che portarli a quelle che già Leopardi aveva ironicamente chiamato “magnifiche sorti e progressive”. Come nel naturalismo francese, è determinante l’influenza del milieu, dell’ambiente sociale, e il ciclo avrebbe dovuto toccare, in crescendo, tutte le classi sociali: ma gli ultimi stadi, quelli corrispondenti all’aristocrazia, al ceto parlamentare e all’alta borghesia estetizzante e decadente (forse perché in parte già rappresentati nei primi romanzi mondani, o forse perché ormai



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appannaggio della narrativa del decadentismo, e soprattutto di D’Annunzio), non vennero mai portati a termine, e ne rimasero solo i titoli: La duchessa di Leyra, L’onorevole Scipioni, L’uomo di lusso. Il primo romanzo del ciclo è I Malavoglia (1881). L’importante introduzione ribadisce il pessimismo sulla possibilità di cambiare stato e classe, e quindi sulla stessa idea di progresso. Verga descrive in modo impersonale, senza alcun impegno politico (e quindi in modo diverso da Zola), il mondo di Aci Trezza, a partire dalla povera famiglia dei Malavoglia, dal vecchio patriarca Padron ’Ntoni (legato a una concezione arcaica della vita, espressa quasi esclusivamente per mezzo di antichi proverbi) al giovane nipote ’Ntoni, soldato di leva della Nuova Italia, e infine sconfitto ed emarginato. Il naufragio delle speranze di arricchimento e di miglioramento delle condizioni di vita avviene con un vero naufragio, quello della barca di famiglia, dal nome emblematico e ironico, la Provvidenza, mentre crollano i vecchi valori ideali, incarnati simbolicamente nella ‘casa del nespolo’. I Malavoglia alla fine sono sconfitti dall’avanzare del ‘progresso’ e dell’utile. Ma soprattutto il capolavoro di Verga consiste nella creazione di una lingua e di uno stile che gli permette un’aderenza assoluta al punto di vista dei suoi personaggi, senza bisogno di adottare il dialetto siciliano: una lingua italiana, nel lessico e nella grammatica, che però nella sintassi riprende le strutture profonde del pensiero, nelle scene corali, nei mobili e veloci dialoghi, e in particolare nella tecnica del discorso indiretto libero. L’eccezionale modernità del romanzo di Verga ne decretò un iniziale insuccesso di pubblico. Lo scrittore, dopo un incontro a Parigi con Zola, tornò momentaneamente al romanzo piccolo-borghese alla Flaubert in Il marito di Elena (1882), ma non riuscì a staccarsi dal potente mondo immaginario che aveva cominciato a creare, e che tornò subito nelle Novelle rusticane (1883). La nuova raccolta di novelle era ora il ritratto di una Sicilia sempre più cupa, dominata da avidità e miseria (La roba, Malaria, Pane nero), fino alla rivolta sanguinaria della povera gente disillusa e massacrata dagli stessi garibaldini (Libertà). Una parallela raccolta di racconti, Per le vie (1883), tratteggiava invece un grigio ambiente cittadino milanese. Il tema della ‘roba’, affrontato nella novella ‘rusticana’ omonima, doveva essere alla base del secondo episodio dei Vinti, il Mastro-don Gesualdo (1889). È la storia di un popolano che, a differenza dei Malavoglia, era riuscito nella scalata delle classi sociali, con cinismo e spregiudicatezza si era arricchito, diventando possidente, e credendo di trattare da pari a pari con le classi alte. Ma, dimostra Verga, si tratta quasi di una forma di follia a cui tutto viene sacrificato, di ossessione della ‘roba’ che, in modo deterministico, finisce col rendere il ‘mastro’, in fondo, anche lui un ‘vinto’.

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Intanto Verga era diventato un autore di successo, ma solo grazie alla riduzione teatrale della novella Cavalleria rusticana, rappresentata a Torino nel 1884 con la mitica attrice Eleonora Duse; un dramma che divenne presto anche un melodramma rappresentato in tutto il mondo, con la musica di Pietro Mascagni (1890). Vedevano la luce le ultime raccolte di novelle, che alternavano il filone rusticano-siciliano a quello cittadino: Drammi intimi (1884), Vagabondaggio (1887), I ricordi del capitano d’Arce (1891). Restava forte ormai l’attrazione per il mondo del teatro. Tornato definitivamente a Catania (1893), lo scrittore compose infatti Don Candeloro e C.i (1894), strana raccolta di storie di un ‘puparo’ siciliano, in cui il confronto e la confusione tra realtà e vita sembra anticipare Pirandello. E anche il dramma Dal tuo al mio (1903), la decadenza di un barone siciliano proprietario di zolfara, prepara l’avvento del genio teatrale di Pirandello, che nel 1920 avrebbe celebrato un commosso omaggio alla grandezza di Verga, ancora vivente.

1.5. Pascoli Figlio di un amministratore di terre appartenenti ai principi Torlonia, dell’aristocrazia pontificia, Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna 1855Bologna 1912) fu profondamente segnato dall’assassinio del padre (1867), e dalla morte precoce della madre e della sorella (1868) e del fratello maggiore Giacomo (1873). Dopo un’ottima preparazione nel collegio degli Scolopi di Urbino, si iscrisse all’università di Bologna, con Carducci (1873), riuscendo a completare gli studi solo nove anni dopo, per interruzioni dovute anche alla militanza socialista e ad un breve periodo di carcere. Tutta la sua vita sarà poi dedicata all’insegnamento, prima al liceo, e poi all’università, da Messina (1897) a Pisa (1903), e infine a Bologna, sulla cattedra che fu di Carducci. Una vita appartata dai clamori pubblici, trascorsa spesso nel rifugio rurale di Castelvecchio in Garfagnana. Solo negli ultimi anni Pascoli sembrò tornare a una dimensione pubblica, dichiarandosi a favore dell’intervento italiano in Libia, giustificato con un discorso tenuto a Barga, La grande proletaria si è mossa (1911), confusa adesione ad un misto di nazionalismo e umanitarismo vagamente socialista. Formatosi alla scuola del Carducci, e negli anni del realismo e del verismo, Pascoli fin dall’inizio sceglie una strada tutta sua ed originale, che si manifesta già nella prima raccolta poetica, Myricae (1891). Il titolo latino rinvia esplicitamente ad un verso della IV Egloga di Virgilio, “Arbusta iuvant humilesque myricae” (‘piacciono gli arbusti e le umili tamerici’). A



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differenza della poesia celebrativa contemporanea, si preferisce qui la poesia delle cose umili, rappresentata dall’umiltà di piante come le tamerici, e dalle situazioni, dagli oggetti, dai suoni e dalle impressioni della semplice vita dei campi. Solo in apparenza è lo scenario del realismo ‘campagnolo’. In realtà, ognuna di quelle ‘cose’ si trasforma in un elemento della rappresentazione simbolica del male di vivere. Tra questi simboli, compaiono già quelli che saranno dominanti in tutta la poesia pascoliana: innanzitutto il ‘nido’, la famiglia distrutta del poeta, rappresentata dall’immagine della rondine uccisa e del nido abbandonato, in una visione che si allarga dal dettaglio all’intero universo, che sembra piangere la tragedia con le stelle cadenti della Notte di San Lorenzo, le lacrime di un pianto cosmico che cadono sulla Terra “atomo opaco del Male” (X Agosto). E anche i testi si presentano ‘umili’ come le cose che raccontano: brevi poesie, quasi frammenti, in brevi strofe (terzine o quartine): Arano, Lavandare, Novembre. I versi tradizionali, endecasillabi e settenari, sono mossi dall’interno da ritmi nuovi, franti, sincopati, allungati oltre la misura del singolo verso per mezzo dell’enjambement. Non mancano i toni della filastrocca popolare, della canzone dei contadini. Estremamente raffinata è la tessitura musicale, nella ricerca di un suono primitivo delle parole che sembra riprodurre i suoni della natura, con onomatopee e stile impressionistico: ne deriva quello che è stato definito fonosimbolismo, una specie di livello pregrammaticale della lingua poetica, in cui si presta attenzione al significante anche prima del significato. Su tutto, sul paesaggio sfumato e indeterminato, sugli uomini, sugli animali, un presagio di morte, di malinconia. Questo mondo poetico trova una sua coerente continuazione nei Canti di Castelvecchio (1903), ritorno ai miti dell’infanzia e alla memoria dei familiari perduti, a iniziare dall’evento più tragico dell’orizzonte pascoliano, la perdita del padre (La cavalla storna). La ricerca stilistica e metrica raggiunge qui i livelli più alti e innovativi di sperimentalismo, che avrebbe influenzato profondamente tutta la poesia del Novecento: l’uso di versi rari come il novenario, e di ritmi e sonorità nuove; la prevalenza dello stile nominale, per mezzo del quale, in assenza del verbo, le ‘cose’ vengono nominate con un valore quasi ‘magico’, e con la massima precisione (ad esempio, nell’uso del lessico botanico e ornitologico), cui corrisponde invece l’effetto sfumato e impressionistico dell’aggettivazione e della descrizione. In gran parte, è poesia che guarda ad un’interiorizzazione del rapporto con la realtà, al ripiegamento dell’Io, fino a quella che appare una vera e propria regressione allo stadio dell’infanzia. È il desiderio del bambino di lasciarsi cullare ancora, da echi e suoni familiari e materni, come in La mia sera, all’inizio descrizione del rasserenamento serale dopo una tempesta (come in Leopardi), e

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poi metamorfosi in una ‘sera dell’anima’. L’Io del poeta si rifugia nei suoi miti protettivi, e di là osserva affascinato il mistero della nascita della vita “dentro l’urna molle e segreta” de Il gelsomino notturno, un mistero in cui la vita sembra quasi fondersi con la morte e la trasformazione dell’essere. Una poesia del ‘ritorno’, della regressione all’infanzia, del recupero dell’armonia perduta, che viene esplicitata da Pascoli nella contemporanea poetica intitolata Il fanciullino (1897, 1902): la poesia è guidata non dalla ragione ma da un ‘fanciullino’ nascosto dentro di noi, capace di stupirsi delle cose e dei loro collegamenti profondi e analogie, come in un sogno. Dalla tragedia individuale Pascoli intende però passare a quella collettiva, offrendo alla poesia una possibilità consolatoria e un carattere di humanitas e di pietas assenti nel decadentismo europeo. Contava qui (più che un vago socialismo umanitario) la grande lezione di Virgilio, l’elegia malinconica dell’invenzione dei grandi ‘miti’, che nel recupero dei valori della terra, delle classi umili e lavoratrici, dei contadini, può forse trovare ancora dei valori autentici non distrutti dal falso progresso scientista e materialista. La poesia tenta allora di innalzarsi dalla forma breve a quella più complessa dei Primi poemetti (1904), dove trova posto lo straordinario poema Italy, “sacro all’Italia raminga”, il più importante testo poetico dedicato alla tragedia collettiva contemporanea dell’emigrazione. Sono 450 versi, divisi in due canti di terzine dantesche, e dantesca è in parte la narrazione, la visione di ‘peregrini’ che salgono faticosamente un’erta, il senso di un “fatale andare”, in cui è possibile riconoscere la dannazione di un inferno (lo sradicamento dalla patria, nella lontana America), e la momentanea sospensione di un purgatorio (il ritorno al paese). Anche questa è ‘poesia del ritorno’, ritorno di una famiglia di emigranti al paesino di Caprona in Garfagnana, focalizzato sul confronto fra la vecchia nonna e la nipotina Molly, nata in America e solo anglofona. È il ritorno a un ‘nido’ abbandonato, anche da un punto di vista linguistico, espresso da Pascoli con un plurilinguismo sperimentale che gli fa accostare la lingua italiana al vernacolo toscano e all’inglese storpiato parlato dagli emigranti. Una situazione simile tornerà nella raccolta successiva, Nuovi poemetti (1909), in particolare nel poemetto Pietole, in cui avviene la fusione del mito bucolico virgiliano con il dramma dell’emigrazione, nell’ossessiva ripetizione del grido dell’emigrante tradotto in tre lingue straniere (inglese, spagnolo, tedesco): “I am Italian, I am hungry” (‘sono italiano, ho fame’). L’ultimo Pascoli (oltre che dalla retorica nazionalistica) si sarebbe lasciato attirare ancora dal classicismo raffinato e decadente dei Poemi conviviali, dominati dal senso della fine che travolge anche gli eroi che raggiungono il limite estremo delle possibilità umane, e vi scoprono la vanità del tutto, e dell’esistere: come Alessandro Magno, che ai confini del mondo dichiara “il



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sogno è l’infinita ombra del vero” (Alexandros); o come un Ulisse vecchio, senescente (come quello dantesco), che affronta il suo Ultimo viaggio, per morire sulle rive dell’isola di Calipso; o come la stessa civiltà occidentale, di cui si presagisce la fine imminente, travolta da una nuova ondata di barbarie (Gog e Magog). Contemporaneamente a Myricae, Pascoli aveva iniziato un’attività di composizione poetica che non avrebbe abbandonato fino alla fine, la poesia in lingua latina, poi raccolta nei Carmina. Si trattava di una scelta sorprendente, nel mondo culturale contemporaneo, e in particolare in Italia. Dopo una gloriosa tradizione europea che andava dall’età umanistica fino al Settecento, la poesia latina era stata quasi abbandonata dal romanticismo, perché considerata un relitto della cultura d’Antico Regime. Per Pascoli, invece, erede della scuola classica romagnola, si trattava di una sfida linguistica e culturale, che lo proiettava direttamente in Europa, ai premi internazionali di Amsterdam, dove le sue poesie furono presentate a partire dal 1892, vincendovi spesso la medaglia d’oro. Anche questa, in fondo, era ‘poesia del ritorno’: ritorno al mondo degli antichi, per mezzo di una mirabile ricostruzione mimetica della lingua e dello stile, che sembra quasi quello di Orazio, Virgilio, Catullo. Il latino non è per Pascoli una lingua morta, ma una lingua poetica assoluta, sovranazionale, postgrammaticale, che supera il frammentismo e giunge alla forma complessa del poemetto. È una poesia “antica sempre nuova”, e quindi assolutamente attuale. Anzi, talvolta più attuale e incisiva e meno intimista della poesia in lingua italiana. La pietas per l’infelicità umana è spesso considerata nelle classi inferiori, negli ‘umili’ come Thallusa, la schiava cristiana che canta la ninna-nanna a un bambino altrui, nell’illusione di avere tra le braccia il figlio che le è stato strappato. E non è poesia celebrativa. Prevale l’elegia, la malinconia, il senso della fine e della decadenza, che rende alcuni di questi testi (Ultima linea, Fanum Vacunae) gli esiti più alti del decadentismo europeo.

1.6. D’Annunzio Gabriele D’Annunzio (Pescara 1863-Gardone 1938), nato da una famiglia borghese provinciale, fin dagli anni di studi al collegio Cicognini di Prato manifestò il desiderio di dedicarsi totalmente ad una vita mondana e letteraria, che per un giovane abruzzese di belle speranze significava una sola cosa: Roma, il gran mondo della capitale della Nuova Italia, vortice corrotto

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e raffinato di politici, banchieri, affaristi, aristocratici decaduti, attrici, giornalisti di cronaca culturale e di cronaca rosa, scrittori e scrittorelli. Nemmeno ventenne (1881), il giovane vi si getta a capofitto, frequentando i salotti aristocratici, allacciando i primi amori (tra essi, la duchessina Maria Hardouin di Gallese, che D’Annunzio sposa nell’83, avendone tre figli, prima della separazione nel ’90), e stringendo le prime fondamentali relazioni culturali, soprattutto nel mondo dei periodici, “La Tribuna”, e la “Cronaca bizantina” di Angelo Sommaruga, suo primo editore e sponsor. Bisogna riconoscere che all’attivissima vita mondana esteriore corrispondeva (e corrisponderà sempre) un’altrettanto intensa ‘vita interiore’, fatta di letture e studi continui, che portarono D’Annunzio ad uscire da un’iniziale condizione ‘provinciale’, e a porsi ai livelli più avanzati della cultura europea. Tra burrascose e scandalose relazioni (dalla sensuale Barbara Leoni alla principessa Maria Gravina), D’Annunzio passa a Napoli (1891-1893), nel vivace ambiente della Serao e di Scarfoglio, tornando poi a diverse riprese in Abruzzo, dove l’ospitalità del pittore Francesco Paolo Michetti a Francavilla gli consente la scrittura di nuove importanti opere. Compie un decisivo viaggio in Grecia, un vero pellegrinaggio nella terra del mito e dell’arte classica (1895); e soprattutto incontra la grande attrice Eleonora Duse (1895), con cui stringe un legame durato quasi dieci anni, e vissuto insieme a Firenze nella sfarzosa Villa della Capponcina (1898-1909). Nello stesso periodo viene eletto deputato della Destra (1897), passando però poi clamorosamente dalla parte della Sinistra. L’enorme carico di debiti, prodotto da uno stile di vita estremamente raffinato e dispendioso, lo costringe a fuggire in Francia, ad Arcachon (1910-1915), da dove inizia una lunga collaborazione giornalistica con il “Corriere della Sera” che produrrà le prose de Le faville del maglio. Il suo coinvolgimento politico si fa sempre più forte: D’Annunzio, salutato ormai come poeta-vate, torna in Italia per mettersi alla guida del movimento interventista e spingere l’Italia in guerra, alla quale partecipa in prima persona, soprattutto come aviatore, in imprese propagandistiche come la Beffa di Buccari e il volo su Vienna. Ferito ad un occhio nel 1916, è costretto ad un periodo di quasi cecità. Alla fine della guerra, il suo astro sembra ormai oscurato da quello nascente di Mussolini; ma D’Annunzio è ancora in grado di condurre un’eterogenea armata di legionari nell’effimera conquista di Fiume, dove guida il governo di una specie di repubblica autocratica chiamata “Reggenza del Carnaro”, fatta cadere da Giolitti (19191921). Per D’Annunzio è il momento di farsi da parte. Mentre Mussolini conquista il potere, il vecchio poeta si rinchiude in una grande villa di Gardone, il Vittoriale degli Italiani, enorme e funereo mausoleo personale, dove muore nel 1938.



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Precocissima, e nel segno di Carducci, è la prima poesia dannunziana di Primo vere (1879) e Canto novo (1881), già segnata da una cifra originale di sensualismo di suoni e profumi, in testi come O falce di luna calante. A Roma il giovane poeta in cerca di gloria si lancia in una pluralità di esperimenti letterari in generi diversi. Innanzitutto la novellistica, apparentemente di stampo verista e d’ambientazione abruzzese (Terra vergine 1882, Il libro delle vergini 1884, San Pantaleone 1886), ma proiettata verso la rappresentazione di un mondo violento, barbarico, primitivo, vitalistico, e alla fine ben poco realistico, nella rielaborazione delle Novelle della Pescara (1902). Dall’altro lato la poesia passa attraverso l’erotismo decadente dell’Intermezzo di rime (1884) e il preziosismo eclettico dell’Isottèo e La Chimera (1890), interessanti comunque per la formazione del laboratorio linguistico e stilistico dannunziano, fatto di un intenso lavoro (anche erudito) sulla tradizione letteraria. Il successo, in Italia e in Europa, arriva con il romanzo Il piacere (1889), fortemente influenzato dalla lettura di A rebours di Huysmans. Come il modello francese, più che un romanzo, è il ritratto dell’eroe decadente Andrea Sperelli, nemico del “grigio diluvio democratico”, che passa dalla relazione amorosa con Elena Muti alla seduzione della purezza spirituale della giovane Maria Ferres. In effetti, in Andrea si proietta lo stesso D’Annunzio, al quale si applica il principio fondamentale: “Bisogna fare la propria vita come si fa un’opera d’arte”; e una simile proiezione autobiografica si ritroverà in tutti i suoi successivi romanzi. Tenue la vicenda narrativa (ambientata nella corrotta Roma contemporanea), soverchiata dalle descrizioni d’ambiente, da uno stile dominato dalla paratassi, da una lingua preziosa e arcaizzante. Una fase di crisi e di ripiegamento del poeta-esteta (corrispondente alla separazione dalla moglie e al soggiorno a Napoli in una “splendida miseria”) si riflette in romanzi come Giovanni Episcopo (1892), monologo di un uomo qualunque, debole e inetto, che diventa assassino per vendicarsi del prepotente seduttore della moglie; e L’innocente (1892), storia di un finto ‘innocente’, che si macchia della morte di un bambino, figlio di una relazione adulterina della moglie. Una fase di ripiegamento testimoniata anche dalla poesia della nostalgia e della malinconia, vicina a certi testi di Pascoli, con il Poema paradisiaco (1891), sogno di un impossibile ritorno agli affetti familiari e alla vecchia madre (Consolazione); ma può anche essere una nostalgia del passato e della Storia, della sensuale Roma del tardo Rinascimento e del barocco, percorsa dal senso della morte, nelle Elegie romane (1893). Questa fase è ben presto superata dalla lettura di Nietzsche (1892). Ne deriva soprattutto il mito del superuomo, in poesia nell’esaltazione militarista delle Odi navali (1893), e in prosa con i nuovi romanzi superomistici, che avranno una immediata e vasta fortuna di pubblico nelle classi medie

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e borghesi, di cui interpretano i desideri profondi e gli orizzonti d’attesa. Vi dominano pulsioni di morte, come in Il trionfo della morte (1894), in cui l’esteta decadente di turno, Giorgio Aurispa, finisce col suicidarsi insieme all’amante Ippolita Sanzio. In Le vergini delle rocce (1895) il nobile Claudio Cantelmo, reazionario e antidemocratico, cerca invano di sposare una delle tre sorelle vergini della nobile famiglia Capece-Montaga, per generare dalla migliore di esse una razza superiore. Il sublime nell’arte, al cui ‘fuoco’ tutto si sacrifica, come sull’altare di una nuova religione, è il tema principale de Il fuoco (1900), ambientato in una Venezia decadente in cui muore il vecchio Wagner, e l’artista Stelio Èffrena, amante dell’attrice Foscarina, cerca di realizzare l’opera d’arte perfetta, una rappresentazione teatrale basata sul potere magico e sacrale della parola. Infine, il superuomo moderno si attua nell’esaltazione della macchina (come i contemporanei futuristi), in Forse che sì forse che no (1910), nella figura di Paolo Tarsis spericolato pilota di aereoplani e di automobili, simbolo della follia e del labirinto della vita (riecheggiato nel motto del titolo, che derivava dall’antica decorazione di una stanza del palazzo ducale di Mantova). In seguito, D’Annunzio non scriverà più romanzi, ma tornerà alla prosa autobiografica nel modernissimo Notturno (1921), nato nel 1916 in un periodo di momentanea cecità provocata da una ferita di guerra, esercizio di scrittura su “strette liste di carta” libera dall’ossessione retorica, flusso di coscienza di prose liriche e frammentarie, recupero memoriale come in un sogno; e infine nel malinconico Libro segreto (1935), completato nel triste tramonto del Vittoriale. La Foscarina del Fuoco era la controfigura della Duse, amante di D’Annunzio negli anni tra Otto e Novecento, e sua ‘musa’ ispiratrice, determinante soprattutto nell’invito a rivolgersi al teatro, come forma di espressione totale, moderna e coinvolgente, percorsa dal poeta tra 1898 e 1910. Ne nacquero tragedie come La città morta (ambientata sotto le mura delle rovine di Micene), Francesca da Rimini (sensuale rivisitazione della storia dantesca di Francesca e Paolo), La Gioconda, La Gloria, La Nave (dramma di lussuria e violenza sullo sfondo della decadenza bizantina e della mitica fondazione di Venezia); e addirittura un testo in francese, scritto ad Arcachon, Le martyre de Saint Sébastien, che ebbe l’onore di essere accompagnato dalle musiche di Debussy (1911). Strettamente legato all’esperienza teatrale sarà anche il coinvolgimento nel cinema, che, oltre a portare sulla scena varie opere dannunziane (Il piacere, L’innocente, La nave), vedrà lo stesso D’Annunzio sceneggiatore del primo kolossal della storia, il drammone Cabiria (1914) diretto da Giovanni Pastrone; e ideatore di uno strano film (mai realizzato)



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sul furto della Gioconda di Leonardo, realmente avvenuto a Parigi nel 1911. Un altro segno dell’influenza straordinaria di D’Annunzio sulla cultura e sull’immaginario contemporaneo (non solo borghese, ma collettivo), grazie alla profetica intuizione del valore dei media, dai giornali al cinema. Fra tutte le opere teatrali, forse l’unico capolavoro resta La Figlia di Jorio (1904), definita “tragedia pastorale”, la meno magniloquente e retorica, e di grande espressività linguistica. In un contesto abruzzese rurale, tra il magico e il sacrale, vi si rappresenta il tragico scontro fra un padre e un figlio (Lazaro e Aligi), entrambi folli d’amore per Mila, la figlia di Iorio, una fanciulla ai margini della chiusa società contadina, a metà fra la strega e la prostituta; alla fine, Aligi ucciderà il padre, e anche Mila sarà condotta al supplizio, e bruciata viva. L’eros, in questa vicenda, acquista il valore primordiale di ‘fascinazione’, di potere demoniaco originario e vitalistico, che spinge gli uomini a pulsioni incontrollabili e irrazionali. Negli stessi anni D’Annunzio lavora alla sua opera poetica più ambiziosa, un grande ciclo intitolato Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi, di cui scrive cinque parti che prendono il nome da divinità mitologiche: Maia, Elettra, Alcyone, Merope ed Asterope. Il progetto, in realtà, protratto nel tempo, finirà col mancare di una vera unità, e risulterà solo un vasto contenitore delle diverse modalità della poesia dannunziana. Nelle prime due parti prevale la musa retorica e superomistica. Maia (1903) è in realtà un solo lungo poema in versi liberi, la Laus vitae, in parte autobiografico (la memoria del viaggio in Grecia nel 1895), e legato alla figura di Ulissesuperuomo, cui tende lo stesso D’Annunzio: un testo interessante anche per l’esaltazione della moderna civiltà industriale, trasfigurata nei miti del passato. Elettra (1903) risulta composto di poemi patriottici ed eroici, con una sezione particolare di sonetti dedicati alle Città del silenzio, le antiche città italiane del Medioevo e del Rinascimento, depositarie della civiltà nazionale. Stancamente retoriche, nel fiancheggiamento di una politica aggressiva e militarista, appaiono anche le ultime parti: Merope (1912), dieci “Canzoni delle Gesta d’Oltremare” legate alla conquista della Libia, e Asterope (1932), tredici canti celebrativi della Grande Guerra. Un vero capolavoro della poesia europea è invece la terza parte, Alcyone (1903), che segna il momentaneo abbandono del superomismo. La raccolta si sviluppa come se seguisse il corso di una stagione, di un’estate assoluta ed eterna, stagione della pienezza della vita. I tempi, dall’inizio alla fine, sono quelli del trascolorare della natura e dell’uomo, soprattutto nel tramonto e nella sera, presentimento della fine, dell’autunno, della morte (Lungo l’Affrico nella sera di giugno dopo la pioggia); e alla fine, a settembre,

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affiora il desiderio di tornare nel natìo Abruzzo, con le greggi dei pastori che scendono verso il mare (I pastori). Ne La sera fiesolana, oltre la memoria francescana e arcaica della ripetizione della strofa “Laudata sii”, le cose si trasformano nel passaggio dalla magica luce crepuscolare alle tenebre della notte, e della “pura morte”. L’ambientazione toscana, Firenze e la Versilia, non è ovviamente realistica, ma fornisce un paesaggio simbolico di suoni, odori, sensazioni. L’uomo si fonde con la natura, in un processo metamorfico di fusione pànica (Meriggio, La pioggia nel pineto). Un processo reso mirabilmente anche dalla metrica libera, che (soprattutto nella strofa lunga) segue una fluente onda sintattica ritmico-musicale. È in queste poesie che il laboratorio formale dannunziano raggiunge le sue vette più alte, contribuendo (insieme a Pascoli) ad un’influenza profonda e duratura su tutta la poesia italiana del Novecento.

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1.6. D’Annunzio. Testi: Opere, a c. di A. Andreoli e N. Lorenzini, Milano, Mondadori, 1982-1996. Biografie: P. Chiara, Vita di Gabriele d’Annunzio, Milano, Mondadori, 1999; A. Andreoli, Il vivere inimitabile, Milano, Mondadori, 1999. Studi: E. De Michelis, Tutto d’Annunzio, Milano, Feltrinelli, 1960; G. Luti, La cenere dei sogni, Pisa, Nistri-Lischi, 1973; P. Gibellini, Logos e mythos. Studi su Gabriele d’Annunzio, Firenze, Olschki, 1985, e D’Annunzio dal gesto al testo, Milano, Mursia, 1995; N. Lorenzini, D’Annunzio, Palermo, Palumbo, 1993; R. Barilli, D’Annunzio in prosa, Milano, Mursia, 1993; G. Baldi, L’inetto e il superuomo, Torino, Scriptorium, 1997; M. Cantelmo, Il cerchio e la figura. Miti e scenari nei romanzi di Gabriele d’Annunzio, Lecce, Manni, 1999; A.R. Pupino, D’Annunzio letteratura e vita, Roma, Salerno, 2002. Riviste specializzate: “Quaderni dannunziani”, “Rassegna dannunziana”. Risorse in rete: Il Vittoriale degli Italiani, Gardone (www.vittoriale.it); archivi testuali e iconografici (www.gabrieledannunzio.net, www.gabrieledannunzio.it, www. archiviodannunzio.it).

2. Pirandello

2.1. La vita Luigi Pirandello nasce a Girgenti (l’attuale Agrigento) nel 1867, da un padre d’origine ligure che era stato anche garibaldino. La famiglia è abbastanza agiata, grazie allo sfruttamento delle miniere di zolfo (le zolfare), in cui i minatori lavoravano ancora in condizioni pericolose e subumane. Luigi sviluppa presto una vocazione letteraria, coltivata con gli studi di lettere, seguiti all’università di Palermo e poi di Roma (1887), donde ‘fugge’ per il dissidio con un docente, trasferendosi a Bonn, in Germania (1889). In quell’università approfondisce lo studio della lingua tedesca e della filologia romanza, in cui si laurea con una tesi sul dialetto di Girgenti (1891): ma soprattutto inizia a formarsi in un vero orizzonte europeo, leggendo Schopenhauer e Nietzsche, e sviluppando una concezione della vita e della realtà antipositivista e irrazionalista, e in parte anche spiritualista e teosofica. Ne scaturisce una prima raccolta di poesie, le Elegie renane (anche se la poesia non sarà poi la forma primaria di espressione per Pirandello). Tornato in Italia, deve cedere alla volontà della famiglia, e sposare in un matrimonio ‘combinato’ la figlia di un socio d’affari del padre, Maria Antonietta Portulano, la cui dote è interamente investita nella zolfara (1894). All’inizio la vita coniugale è abbastanza serena (nasceranno tre figli), anche perché dal ’92 Pirandello risiede a Roma, e può partecipare alla vita culturale contemporanea. Incontra Capuana, si avvicina al verismo, e va ad insegnare al Magistero di Roma, dove insegna anche Capuana, e dove lavorerà fino al 1922. Il 1903 segna la fine della vita abbastanza tranquilla di Pirandello professore e scrittore dilettante. La zolfara si allaga, le rendite finanziarie della famiglia crollano, la moglie comincia a soffrire di una terribile malattia mentale che la porterà all’internamento (1919). È un momento difficile. Pirandello,

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sull’orlo del suicidio, deve vivere del lavoro di insegnante, di giornalista e di scrittore, iniziando a farsi pagare i diritti d’autore. Comincia allora il grande successo dei romanzi, e delle prime rappresentazioni teatrali, anche in dialetto siciliano (1910). Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale è interventista, ma vive poi un sofferto dramma personale per la prigionia del figlio Stefano, catturato dagli Austriaci, e che il padre vorrebbe far liberare. Dopo la guerra, il successo del teatro del grottesco e del teatro del teatro diventa pressoché universale, fino al trionfo tributato a Londra e a New York alla rappresentazione dei Sei personaggi in cerca d’autore (1922). Intanto Pirandello aderisce al fascismo (1924), e accetta poi anche la nomina ad Accademico d’Italia: l’adesione al regime è del tutto formale (Pirandello non vuole intralci nel lavoro teatrale), ma è un duro colpo per la cultura italiana ostile al fascismo, che invece può vantarsi di avere dalla sua lo scrittore italiano contemporaneo più conosciuto a livello mondiale. Pirandello diventa direttore del Teatro dell’Arte di Roma 1925, cui partecipa la giovane attrice Marta Abba, musa e compagna dei suoi ultimi anni. Nel 1930 effettua un importante viaggio in America, per seguire la versione cinematografica di Come tu mi vuoi a Hollywood, con la ‘diva’ Greta Garbo. Dopo l’ultimo grande riconoscimento del Premio Nobel (1934), muore a Roma nel 1936, per una polmonite contratta sul set cinematografico de Il fu Mattia Pascal.

2.2. I romanzi Già nel 1893 Pirandello iniziò un romanzo verista su suggerimento di Capuana. Ambientato in Sicilia, L’esclusa (1901) racconta la storia di una donna nella Sicilia retriva di fine Ottocento: l’innocente Marta Ajala, ripudiata da uno sciocco marito che la crede adultera, fugge dal suo paese a Palermo, dove cerca di vivere una vita onesta e indipendente, tra difficoltà enormi, finché non diventa veramente l’amante di un importante uomo politico, che l’aiuta a trovare lavoro. Paradossalmente, solo ora che è veramente diventata adultera, viene riammessa nella casa del marito, che torna a crederla innocente. Lo stile e la lingua tendono a esiti poco letterari, aderenti alla realtà, con frequenti dialoghi, e spesso anche inserzioni del dialetto (come in Capuana). In realtà, il ‘verismo’ è solo di superficie, perché Pirandello non accetta fino in fondo il principio di impersonalità. Fin da questa prima prova narrativa Pirandello mette in scena il contrasto tra realtà e apparenza, in una società ipocrita che spinge la donna verso una colpa morale da lei non voluta. Di tono più comico il secondo romanzo, Il turno (1902, ma scritto nel ’95), e anzi quasi basato sul ritmo teatrale di una commedia, che si svolge



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in un paese siciliano. Una bella donna, Stellina, è concupita da diversi pretendenti che la sposano uno dietro l’altro: prima il vecchio aristocratico don Diego, poi l’avvocato don Ciro che fa annullare il primo matrimonio ma muore di crepacuore, e infine il giovane Pepé, l’unico sinceramente innamorato di Stellina, ma che ha dovuto aspettare pazientemente il suo ‘turno’. Pirandello giunge al capolavoro con Il fu Mattia Pascal (1904), piena dichiarazione di una concezione relativista della vita, dominata dal caso e dall’assurdo, tanto più coinvolgente perché narrata in prima persona dal protagonista. In un inesistente paesino ligure chiamato Miragno, Mattia si sente un fallito, stufo di una vita angariata dalle prepotenze di suocera e moglie e dal misero lavoro di bibliotecario. Decide allora di scappare in America, ma, capitato a Montecarlo, vince al Casinò un’insperata e immensa ricchezza. Mentre torna in treno legge sul giornale l’incredibile notizia della sua morte, in realtà quella di uno sconosciuto di cui s’era trovato il cadavere, irriconoscibile, ma identificato come quello di Mattia. Il protagonista approfitta di questa dichiarazione di morte, assume un’altra identità (Adriano Meis), e si gode la vita, fino ad approdare nella pensione romana di uno strano filosofo, Anselmo Paleari, che crede nello spiritismo e nella reincarnazione delle anime, e lo coinvolge in bizzarre sedute spiritiche. Mattia vorrebbe sposarne la figlia Adriana, ma il suo essere senza identità e senza documenti gli impedisce qualunque vita normale. Fugge di nuovo, e torna a Miragno, animato di propositi di vendetta sulla moglie (che intanto s’era risposata); ma, consapevole ormai dell’inutilità di tutto, potrà solo finire col rinchiudersi nella vecchia biblioteca, portando ogni tanto dei fiori sulla propria tomba. La vicenda, criticata come inverisimile, diede l’occasione a Pirandello per scrivere un’appendice (1921), in cui si sofferma sul rapporto tra realtà e fantasia, concludendo che la vita certe volte può essere più assurda e inverisimile di un romanzo. E poi, il problema di Mattia è il problema di ogni essere umano: vivere, significa avere una ‘forma’, ma quella forma, quell’identità, può diventare un’angosciosa prigione esistenziale. Il libro presenta altre tematiche fondamentali del mondo pirandelliano: l’idea del doppio (Mattia-Adriano) si riflette anche sulla struttura bipartita del libro, diviso in due parti corrispondenti alle due identità separate di Mattia e di Adriano. Nella seconda parte, Adriano finisce coinvolto nello strano contesto ‘spiritico’ del Paleari, che cerca di evocare gli spiriti dei morti: e in realtà è proprio l’identità di un ‘morto’ (Mattia) a riemergere dentro Adriano. Infine, è degna di nota la curiosa filosofia esposta da Anselmo Paleari, la ‘lanterninosofia’, secondo la quale in ognuno di noi c’è un ‘lanternino’ che illumina le cose e permette

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di distinguere il bene e il male; oltre quel debole lume c’è solo l’oscurità, la notte infinita ed eterna di un nulla senza scopo e senza ragione. Nei romanzi successivi Pirandello torna ad uno sfondo vagamente verista, nel passato prossimo o nel presente contemporaneo. Il romanzo I vecchi e i giovani (1909) rappresenta le lotte politiche e sociali nella Sicilia di fine Ottocento, nello scontro generazionale tra i ‘vecchi’, amaramente consapevoli della caduta delle illusioni risorgimentali e garibaldine, e i ‘giovani’ che, attirati dal socialismo e dai Fasci Siciliani (1892-93), vorrebbero cercare di cambiare finalmente le cose. In Suo marito (1911), invece, Pirandello affronta la tematica dell’evoluzione della condizione femminile nel primo Novecento, e in particolare della donna intellettuale e scrittrice, all’inizio schiacciata da un’opprimente figura di marito che vorrebbe gestire ogni minimo aspetto della vita e delle relazioni della moglie, provocandone alla fine la fuga. Infine, il multiforme ed effimero mondo del cinema, ancora a metà tra l’evento culturale e il fenomeno da circo o da baraccone, è lo sfondo modernissimo di Si gira... (1915, ristampato nel 1925 col titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore), in cui, in prima persona, un operatore cinematografico racconta il ‘film della vita’ di attori, registi, produttori e personaggi che girano intorno a quel mondo. Alla fine, impassibile, Serafino riprenderà la scena terribile, e vera, di un attore che per un errore fatale viene sbranato da una tigre. Un romanzo ‘allegorico’, perché vi emerge il tema del rapporto tra uomo e macchina, nella figura di Serafino ridotto a “una mano che gira una manovella”. L’ultimo romanzo di Pirandello, Uno, nessuno e centomila (1926, ma iniziato nel 1915), testimonianza di uno stile espressivo molto diretto e moderno e talvolta allucinato, porta al livello estremo quel processo di dissoluzione dell’Io e dell’identità cominciato con Il fu Mattia Pascal, e proseguito con il teatro del grottesco. Uno squallido inetto di provincia, Vitangelo Moscarda, che vive dei profitti di una banca ad usura avviata dal padre e gestita dai suoi amministratori senza che egli ne sappia nulla, racconta in prima persona l’inizio di una crisi che travolge la sua grigia vita, a partire da un minimo dettaglio fisico. Da quell’iniziale rivelazione, Vitangelo scopre che ognuno lo vede in modo diverso, e che esistono centomila versioni differenti del suo Io, centomila possibili identità; alla fine, perduto ogni suo avere e distrutta ogni sua identità, è creduto pazzo, abbandonato da tutti, e diventa finalmente un ‘nessuno’. Attraverso la dissoluzione del protagonista, Pirandello arriva qui alla dissoluzione della forma romanzo, e in particolare del romanzo di forma-



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zione, rovesciato in modo paradossale. Il ‘nessuno’ cui Vitangelo perviene è infatti moralmente migliore dell’‘uno’ inconsapevole dal quale è partito. Quel che conta, è gettare per sempre la maschera che ci impongono gli altri e le convenzioni sociali, e cercare la verità dell’essere, anche se poi quella verità coincide col nulla.

2.3. Novelle per un anno Mentre l’esperienza romanzesca, per Pirandello, è limitata nel tempo, e poi decisamente superata dal teatro, quella della narrazione breve, della novella, lo accompagna per tutta la vita, e si fonde con la stessa elaborazione teatrale. Dopo una prima raccolta di Amori senza amore (1894), le novelle successive verranno pubblicate soprattutto in riviste e giornali, praticamente fino al 1936. Verso il 1922, comunque, Pirandello progettò una grande raccolta organica, che cominciò ad allestire raccogliendo e rielaborando i testi degli anni precedenti, e aggiungendone di nuovi. Il titolo era Novelle per un anno, e doveva appunto presentare 360 novelle, come se seguissero il corso di un anno (più o meno una al giorno), secondo un criterio di organizzazione strutturale che ricorda quelli del Decameron di Boccaccio (cento novelle in dieci giornate), e del Canzoniere di Petrarca (366 componimenti). Alla fine però il progetto rimase incompiuto, e fermo al numero di 225 novelle. Forse meglio che nei romanzi, le novelle consentono a Pirandello la concentrazione del suo realismo paradossale in strutture narrative che ruotano attorno ad un unico tema, ad un unico motore. Soprattutto all’inizio è evidente un’influenza verista nello stile, che, come nei romanzi, è colloquiale, antiletterario, volutamente ‘basso’, con prevalenza del linguaggio parlato dei dialoghi, o del discorso indiretto libero, che permette di ‘ascoltare’ i pensieri dei personaggi. Nello scenario siciliano si colloca La giara (1909), in cui è rimasto intrappolato l’artigiano che avrebbe dovuto ripararla, e che il padrone vorrebbe tenere prigioniero per sempre, pur di non rompere la ‘sua’ giara. Fantastica e lirica è Ciàula scopre la luna (1912), in cui un piccolo e abbrutito minatore di zolfara, abituato a vivere nel buio sottoterra, esce una notte, attirato da uno strano chiarore, e scopre per la prima volta, con stupore primordiale, il silenzioso astro lunare. Assurdamente comica è la storia de La patente (1911), in cui uno jettatore chiede a un giudice la certificazione legale della sua attività, per trarne almeno qualche lecito profitto. Nelle ultime novelle, invece, si presentano storie di improvvise crisi esistenziali, cadute psichiche che agli altri possono sembrare ‘follia’, e sono

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invece la scoperta della realtà delle cose, cioè del vuoto e dell’assurdo. Il senso della morte e la descrizione di un’agonia sono i temi di Di sera, un geranio (1934), dove prevale l’elemento fantastico, surreale, metafisico, onirico. Ma intanto, già a partire dal 1910, le novelle erano diventate per Pirandello qualcos’altro. Una forma di scrittura in movimento, in tensione formale verso la nuova dimensione della rappresentazione teatrale, come se fossero dei canovacci che, di volta in volta, si trasformavano nei dialoghi del dramma, assumendo una vita indipendente. Le novelle saranno allora il più fecondo ‘serbatoio’ di idee e di situazioni del teatro pirandelliano. E forse anche in questo aspetto risalta la modernità del suo ‘laboratorio’: nella scrittura e riscrittura continua di opere aperte che passano da un genere all’altro, dalla prosa al teatro, e infine addirittura al cinema.

2.4. Il teatro Nel 1910, Luigi Pirandello aveva quarantatré anni, e poteva essere considerato un buon scrittore ‘emergente’, autore di un sorprendente romanzo (Il fu Mattia Pascal) e di alcune belle novelle, ma nulla più. Eppure, in quegli anni, aveva approfondito sempre di più il problema del rapporto fra l’arte e la realtà, che gli sembrava tanto più urgente di fronte al disagio esistenziale dell’uomo moderno. Il contrasto fra realtà e apparenza, fra essere e apparire, gli sembrava sempre più insanabile: ognuno di noi vive la sua vita come se fosse una rappresentazione teatrale, con una maschera incollata sul volto. Pirandello vorrebbe togliere quella maschera, e ritrovare la verità che c’è sotto la facciata della convenzione sociale, come affermava Bergson in Le rire. Essai sur la signification du comique (1899). Da lì nasce l’importante saggio L’umorismo (1908), che afferma che la comicità nasce dal “sentimento del contrario”, e che la dimensione umoristica è una costante del rapporto dell’uomo con la realtà, e quindi dell’arte come forma di rappresentazione della realtà. Che la forma migliore di tale rappresentazione fosse il teatro, Pirandello l’aveva già intuito da tempo. I suoi romanzi e le sue novelle hanno un’evidente dimensione teatrale, sia nella struttura narrativa che nelle microstrutture linguistiche e stilistiche, soprattutto nei dialoghi. Un atto unico sul tema dell’adulterio, La morsa, Pirandello l’aveva già scritto nel 1892 (e pubblicato nel ’98), ma mai rappresentato. Bisognava avere il coraggio di fare il grande salto, e portare il testo sulla scena. L’occasione arrivò finalmente il 9 dicembre 1910. Al Teatro Metastasio di Roma, su incoraggiamento di Nino Martoglio, influente uomo di teatro siciliano, Pirandello fa rappresentare La morsa, e un altro atto unico, Lumìe



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di Sicilia, tratto da una novella di dieci anni prima (le ‘lumìe’ non sono altro che i limoni che un povero musicante messinese porta a Napoli in dono a una celebre cantante, simbolo di una autenticità umile e solare che resta incomunicabile nel mondo raffinato e corrotto della ‘sciantosa’). È l’inizio di un’avventura culturale straordinaria, che porterà lo scrittore siciliano (con 44 drammi raccolti alla fine col titolo Maschere nude) a diventare uno degli autori più importanti della cultura mondiale del Novecento, e in particolare in un settore, il teatro di prosa, nel quale l’Italia aveva espresso, nell’Ottocento, poco o nulla di rilievo. Nel 1915, mentre in Europa inizia la tragedia della Prima Guerra Mondiale, e l’Italia scivola ineluttabilmente verso l’intervento, si rappresenta a Milano la prima commedia in tre atti, Se non così (anch’essa da un’idea del ’98), che diventerà poi nel 1921 La ragione degli altri. È come se sulla scena, ad apertura di sipario, Pirandello presenti se stesso: un romanziere in crisi, Leonardo Arciani, diviso tra la moglie e la relazione con una cugina che alla fine si piega alla ‘ragione degli altri’, lasciando che la figlia (sua e di Leonardo) venga allevata dalla rivale, la moglie legittima di Leonardo. Una situazione simile di dissidio tra la cruda realtà della vita e la responsabilità morale è quella che percorre Pensaci Giacomino (1916), da una novella del 1910 drammatizzata su suggerimento del solito Martoglio: la storia di un vecchio professore che sposa una ragazza incinta, ma solo per beneficare lei e il suo ragazzo Giacomino, senza curarsi dello scandalo dei benpensanti ipocriti. La commedia è scritta in dialetto siciliano, e interpretata a Roma dal grande attore siciliano Angelo Musco, per il quale viene tradotto anche Lumìe di Sicilia, e composto Liolà (1916), una splendida commedia d’ambientazione popolare, sulla figura giocosa e vitale del giovane Liolà che ha diversi figli da donne diverse, scegliendo però di restare un uomo libero, legato ai valori primari dell’amore, della vita, del sole e del mare. È una scelta coraggiosa, quella del dialetto, in un’Italia che, in cinquant’anni di sforzo educativo unitario, sia linguistico che culturale, aveva talvolta depresso la ricchezza delle culture regionali, spingendo perfino grandi autori come Verga ad un difficile processo mimetico della lingua del popolo. Una scelta parallela e contemporanea a quella che a Napoli persegue il più grande rappresentante del teatro popolare napoletano, Raffaele Viviani, e che continuerà ad appassionare Pirandello fino al 1921, con ’A birritta cu’ i ciancianeddi (Il berretto a sonagli), ’A giarra (La giara), ’A vilanza (La bilancia), Cappiddazzu paga tuttu (Cappellaccio paga tutto), ’A patenti (La patente), e perfino la traduzione del Ciclope di Euripide, U’ Ciclopu.

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Ma è anche un mondo, quello del teatro dialettale comico-verista, che Pirandello comincia a lasciare presto. Il contrasto tra essere e apparire, che in quel teatro poteva essere il primo motore del comico e dell’umorismo, non basta più. Nella tragedia che sembra travolgere l’umanità (l’assurda guerra mondiale, combattuta per lo scontro di opposti imperialismi) e la sua vita individuale (la follia della moglie, un figlio prigioniero, e l’altro soldato), non c’è più spazio per quella comicità primaria. Oltre lo schermo della maschera, forse, la verità non esiste. Forse esistono molte verità, e ognuna di esse dipende dal punto di vista, non è univoca ma assolutamente relativa. Al senso del reale si sostituisce il soggettivismo, il relativismo. Nel dramma, ogni personaggio può essere portatore di una sua verità, che può restare in campo fino alla fine, accanto alle altre verità, senza che l’una prevalga sulle altre. Un fenomeno di ‘moltiplicazione’ di specchi, che era già ne Il fu Mattia Pascal e in alcune novelle, e che comincia ad essere raccontato nell’ultimo romanzo, Uno, nessuno e centomila, che porta alla crisi interna del teatro borghese, trasformato in quello che ora viene definito teatro del grottesco. L’intuizione del ‘teatro del grottesco’, a partire dagli stessi testi pirandelliani, viene ad un modesto drammaturgo, Luigi Chiarelli, in La maschera e il volto (1916). Ma Pirandello interviene subito a difendere il suo primato, con Così è (se vi pare), rappresentata a Milano nel 1917, e tratta dalla novella La signora Frola e il signor Ponza suo genero, incredibile vicenda di due personaggi che oppongono ciascuno una propria verità (l’attuale moglie del signor Ponza, è la sua prima moglie, o è la seconda, perché la prima è morta?), che non viene risolta nemmeno dalla diretta interessata, la moglie, che alla fine conclude: “Io sono colei che mi si crede”. Se c’è finzione, non si sa nemmeno quale essa sia, come nella commedia successiva, Il piacere dell’onestà (1917), tratta dalla novella Tirocinio (1905), in cui un uomo recita così bene la parte del marito della donna di un altro e del padre di un figlio che non è suo, che alla fine la donna si innamora veramente di lui. La dialettica verità-finzione domina anche Il giuoco delle parti (1918), che mette in scena lo scontro tra “quello che vorremmo e dovremmo essere” e “quello che agli altri pare che siamo”; e nelle altre commedie prodotte in questo periodo intenso e difficile per la vita di Pirandello (dolorosamente segnato nel 1919 dall’internamento della moglie): Ma non è una cosa seria (1918), L’uomo, la bestia e la virtù (1919), Tutto per bene e Come prima meglio di prima (1920). Una vera rivoluzione teatrale, che comincia a influenzare il teatro contemporaneo, a iniziare da quello italiano, dove si afferma subito il giovane siciliano Pier Maria Rosso di San Secondo, autore di Marionette, che passione! (1918).



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In un’evoluzione continua di pensiero e di stile, però, Pirandello torna di nuovo a superare se stesso, e la fase del teatro del grottesco. Nella generale perdita di significato dell’esistere prevalgono ora i temi della follia, del caso, dell’assurdo. I suoi personaggi, che vivono nella solitudine e nell’incomunicabilità, cominciano ad avere una coscienza del bisogno di vivere che va al di là delle convenzioni dell’arte. In un certo senso, cade la barriera che li separa dalla vita, e gli spettatori che assistono al dramma vivono l’esperienza straniante di farne parte anch’essi. Nasce il teatro nel teatro, inaugurato al Teatro Valle di Roma il 9 maggio 1921 con Sei personaggi in cerca d’autore. Gli spettatori entrano, e trovano il sipario alzato, con macchinisti, operai, attori che stanno provando Il giuoco delle parti, guidati da un capocomico. Improvvisamente, dalla platea, tra la sorpresa e il mormorio del pubblico, irrompono i ‘personaggi’ di un altro dramma senza nome, il Padre, la Madre, il Figlio, la Figliastra, il Giovinetto e la Bambina. Essi rappresentano se stessi (“Il dramma è in noi; siamo noi”), e chiedono solo di ‘vivere’ fino in fondo la loro storia (“Vogliamo vivere”). Gli attori tentano vanamente di rappresentare le vicende del loro triste dramma borghese (l’adulterio della Madre, e il quasi incesto del Padre con la Figliastra), finché la Bambina muore annegata in una vasca e il Giovinetto si spara. Gli attori credono che sia finzione, ma il Padre dichiara che è ‘realtà’, e il capocomico stufo conclude gridando “Finzione! realtà! Andate al diavolo tutti quanti!”. La prima si risolse in un fiasco clamoroso, con disordini e tafferugli e una tentata aggressione di Pirandello. Il pubblico romano rifiutò quella che sembrava una provocazione, da parte di un autore che loro amavano per le commedie dialettali, comiche, paradossali. Dalla successiva rappresentazione, il 27 settembre a Milano, iniziò invece il trionfo, proseguito poi nei teatri europei, fino a New York (1922). Pirandello, ormai circondato da una celebrità internazionale, proseguì sulla sua strada, abbandonando definitivamente le esperienze precedenti, e passando dall’amara commedia borghese alla tragedia moderna dell’incomunicabilità e della follia. L’Enrico IV (1922) è la storia di un pazzo che, credutosi per dodici anni l’imperatore Enrico IV e assecondato da tutti quelli che lo circondano, rinsavisce di colpo, scopre la donna che amava tra le braccia di un altro, e decide di continuare a fingersi pazzo per altri otto anni, finché non uccide il rivale, ripiombando nella follia (o nella sua finzione). In Vestire gli ignudi (1922) una donna, circondata da un ambiente falso e ipocrita che costruisce versioni diverse della stessa tragedia familiare, ha da sola il coraggio di guardare in faccia la verità, di togliersi la maschera, e infine di suicidarsi, al grido: “Lasciatemi morire in silenzio: nuda”.

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La dissoluzione del teatro borghese, proseguita con L’uomo dal fiore in bocca (1923), La vita che ti diedi (1923), L’amica delle mogli (1927), Come tu mi vuoi (1930), Non si sa come (1935), raggiunge i suoi livelli estremi con Ciascuno a suo modo (1924), i cui due ‘personaggi’ (interpretati da due attori sulla scena) sono in realtà nascosti fra il pubblico in platea, e intervengono a sorpresa; e infine in Questa sera si recita a soggetto (1930), ironica memoria dell’antica tradizione della commedia dell’arte, che giunge alla paradossale ribellione degli attori che stanno recitando Leonora addio di Pirandello. È un teatro che annulla se stesso, come avveniva contemporanemente nella cultura europea con il surrealismo, ma anche con l’esperienza del ‘teatro della crudeltà’ di Antonin Artaud, e in seguito con quello esistenzialista di Samuel Beckett e di Eugène Ionesco. Ma intanto lo stesso vecchio Pirandello (che non aveva mai voluto seguire le mode culturali, e men che meno quella del ‘pirandellismo’), giunto all’apice della sua fama, tornò a esplorare nuove frontiere di espressione, che risentivano di una sensibilità ormai influenzata dalle ricerche di Freud sull’inconscio e in particolare sul ‘perturbante’ (unheimlich), e di Jung sugli archetipi e i miti, dall’arte tardosimbolista e surrealista, dal teatro francese del giovane Jean Cocteau dell’Orfeo, dalla pittura metafisica di Giorgio De Chirico. L’ultima grande stagione teatrale di Pirandello comincia con La nuova colonia (1928), strana utopia di palingenesi e rinnovamento, simboleggiata dalla figura di una donna col suo bambino che si salvano dal terribile terremoto che spazza via una società di contrabbandieri confinata su un’isola. Un’utopia religiosa, ma di una religiosità legata non alle forme della religione tradizionale ma a quelle arcaiche e mitiche della natura, affiora in Lazzaro (1929), importante anche per la critica al progresso della civiltà industriale, che crea un mondo del tutto disumano e innaturale. Infine, l’utopia poetica avrebbe voluto realizzarsi in I giganti della montagna (1933), grande dramma visionario che rimase incompiuto e che fu rappresentato solo dopo la morte dell’autore. Una compagnia di comici guidati da Ilse, detta la Contessa, giunge in una villa abbandonata per provare La favola del figlio cambiato, una fiaba in versi (uno scambio di bambini rapiti dalle streghe), che già da sola sembra introdurre un’atmosfera magica e inquietante. La strana terra dove i comici, senza saperlo, sono finiti, è quella degli Scalognati, ultimo rifugio dalla fantasia e del Mago Cotrone, che offre di far rappresentare la favola. Nel corso di quella festa, scenderanno a valle i misteriosi Giganti della montagna, violenti e materialisti realizzatori di opere titaniche. Alla fine, invece dei Giganti, alla favola assisteranno i loro servi che, delusi, si rivolteranno contro Ilse uccidendola, in un finale sacrificale e sanguinario. Nell’ultima, negativa visione di Pirandello l’utopia della poesia



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e dell’arte sembra così travolta dai feticci del superuomo moderno, della civiltà dell’industria e della macchina.

2.5. Il cinema Pirandello, con D’Annunzio, fu il primo grande intellettuale italiano che si rese conto delle enormi potenzialità espressive della nuova arte del cinema, e che iniziò consapevolmente a collaborare con tecnici, registi e produttori di quel mondo, diventato anche scenario di uno dei suoi romanzi più moderni, i Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Bisogna naturalmente distinguere tra le produzioni cinematografiche in cui Pirandello fu coinvolto direttamente (anche con il figlio Stefano), e quelle che invece portarono sullo schermo sue opere (novelle, romanzi, drammi) ma senza la sua collaborazione. Anche questo secondo versante riveste però un’importanza notevole dal punto di vista della ricezione, perché il ‘caso Pirandello’ è il primo, nella nostra letteratura nazionale, e in parte anche nella letteratura mondiale, di immediata fortuna nell’immaginario collettivo per mezzo del cinema. E in questo giocò un ruolo importantissimo l’industria cinematografica italiana, che nei primi due decenni del Novecento (a Roma, Napoli, Milano) raggiunse alti livelli qualitativi e di diffusione, inventando addirittura il kolossal (con Cabiria di Pastrone e D’Annunzio), prima di essere superata da Hollywood. I primi soggetti cinematografici nacquero ai margini dei primi impegni teatrali, proprio in relazione a Martoglio e Musco (1913-1915). Dopo il copione incompiuto de Il pipistrello (1925), Pirandello scrisse anche quello dei Sei personaggi (1929), per un film che però non fu realizzato. È un’attività interessante di riscrittura, quella della sceneggiatura e del copione, forse l’ultimo livello del ‘laboratorio’ pirandelliano. Lì si fermava l’artista, alle soglie di un lavoro che non era più il suo, quello della regia e del montaggio, ma che comunque lo affascinava, e a cui assisteva spesso personalmente. La vera e propria fortuna cinematografica inizia dopo la guerra, con Ma non è una cosa seria (1920) di Mario Camerini (divenuto poi il celebre regista dei ‘telefoni bianchi’), che ne dirigerà una nuova versione sonora nel ’36 con la sceneggiatura di Mario Soldati ed Ercole Patti, e principale interprete il giovane Vittorio De Sica. Negli anni si susseguono Il Viaggio di Gennaro Righelli, Lo scaldino di Augusto Genina, e La rosa di Arnaldo Frateili (1921), Il fu Mattia Pascal di Marcel L’Herbier a Parigi (1926), l’Enrico IV di Amleto Palermi (1926), In silenzio di Righelli e Giorgio Simonelli, e La canzone dell’amore di Righelli (1930), Come tu mi vuoi di George Fitzmaurice a Hollywood, con i ‘divi’ Greta Garbo e Erich von Stroheim (1932), Acciaio

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di Walter Ruttman, su scenario di Stefano Pirandello e musica di Gian Francesco Malipiero (1932). È arrivato ormai il sonoro, e Sogno (ma forse no) era addirittura stato trasmesso alla radio, dall’Eiar (1929). Infine, nel 1936, il solito Righelli chiamò Angelo Musco a interpretare l’antico successo di Pensaci, Giacomino!. E il regista francese Pierre Chenal cominciò a girare a Roma Il fu Mattia Pascal. Pirandello, ostinato, volle seguirne le riprese. Si ammalò di polmonite, e in poco tempo morì. Nella figura di quel vecchio che, nel freddo autunno del ’36, scompariva come un’ombra mentre la pellicola faceva ‘vivere’ il suo personaggio più celebre, Mattia Pascal, si compiva forse l’ultimo atto della ‘commedia’ della vita.

Bibliografia 2.1. La vita. Edizioni complessive: Opere, Milano, Mondadori, dal 1973. Monografie: N. Borsellino, Ritratto di Pirandello, Bari, Laterza, 1983; R. Alonge, Pirandello, Roma-Bari, Laterza, 1997; M. Manotta, Luigi Pirandello, Milano, Bruno Mondadori, 1998; M. Guglielminetti, Pirandello, Roma, Salerno Editrice, 2006. Studi complessivi: L. Sciascia, Pirandello e il pirandellismo, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1953; Id., La corda pazza, Torino, Einaudi, 1982; Id., Alfabeto pirandelliano, Milano, Adelphi, 1988; A. Leone de Castris, Storia di Pirandello, Bari, Laterza, 1971; R. Caputo, Il piccolo padreterno. Saggi di lettura dell’opera di Pirandello, Roma, La Goliardica, 1996; A.R. Pupino, Pirandello. Maschere e fantasmi, Roma, Salerno, 2000; Id., La maschera e il nome. Interventi su Pirandello, Napoli, Liguori, 2001; R. Cavalluzzi, Pirandello: la soglia del nulla, Bari, Dedalo, 2003. Riviste specializzate: “Pirandelliana”, “Pirandello Studies”. Risorsa in rete: PirandelloWeb (www.pirandelloweb.com). 2.2. I romanzi. R. Barilli, La linea Svevo-Pirandello, Milano, Mursia, 1972; G. Mazzacurati, Pirandello nel romanzo europeo, Bologna, Il Mulino, 1987; R. Luperini, Allegoria del moderno, Roma, Editori Riuniti, 1990; M.A. Grignani, Retoriche pirandelliane, Napoli, Liguori, 1993; P. Guaragnella, Il pensatore e l’artista. Prosa del moderno in Antonio Labriola e Luigi Pirandello, Roma, Bulzoni, 2005; A.R. Pupino, Pirandello o l’arte della dissonanza. Saggio sui romanzi, Roma, Salerno, 2008. 2.3. Novelle per un anno. M. Polacco, Gli amori, le beffe e la tragedia. Storia di Pirandello novelliere, Lucca, Pacini



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Fazzi, 1999; E. Grimaldi, Il labirinto e il caleidoscopio. Percorsi di letture tra le «Novelle per un anno» di Luigi Pirandello, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007. 2.4. Il teatro. Testi: Maschere nude, a c. di A. D’Amico, Milano, Mondadori, 2007. Studi recenti: S. Zappulla Muscarà – E. Zappulla, Pirandello e il teatro siciliano, Catania, Maimone, 1986; M. Baratto, Da Ruzzante a Pirandello, Napoli, Liguori, 1990; C. Vicentini, Pirandello, il disagio del teatro, Venezia, Marsilio, 1997; U. Mariani, La creazione del vero: il maggior teatro di Pirandello, Firenze, Cadmo, 2001; R. Alonge, Donne terrifiche e fragili maschi. La linea teatrale D’Annunzio-Pirandello, Roma-Bari, Laterza, 2004; G. Scianatico, Il teatro dei miti. Pirandello, Bari, Palomar, 2005; M. Cantelmo, Dilemmi del riso e altri saggi su Pirandello, Ravenna, Longo, 2004; G. Bárberi Squarotti, Il pipistrello a teatro. Saggi critici su Luigi Pirandello, Verona, Bonaccorso, 2006; M.L. Patruno, La deformazione. Forme del teatro moderno. Pirandello, Rosso di San Secondo, Antonelli, Bontempelli, Bari, Progedit, 2006; A. Pavone, Trame d’adulterio. Il primo teatro di Pirandello, Lecce, Manni, 2007; D. Santeramo, Luigi Pirandello: la parola, la scena e il mito, NEU, 2007; La lingua del teatro fra d’Annunzio e Pirandello, a c. di L. Melosi e D. Poli, Macerata, EUM, 2007; P. Seddio, Le donne di Pirandello. Mondo femminile e teatro, Roma, Bonanno, 2008. 2.5. Il cinema. S. Micheli, Pirandello in cinema. Da «Acciaio» a «Káos», Roma, Bulzoni, 1989; N. Genovese – S. Gesù, La musa inquietante di Pirandello: il cinema, Roma, Bonanno, 1990; S. Raffaelli, Il cinema nella lingua di Pirandello, Roma, Bulzoni, 1993.

3. Il primo Novecento

3.1. Imperialismi e totalitarismi Il Novecento è stato definito il ‘secolo breve’ dallo storico inglese Eric J. Hobsbawm: un secolo di appena settantasette anni, che vanno dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale (1914) alla fine dell’Unione Sovietica e della Guerra Fredda (1991). Il sistema economico, sociale e culturale della civiltà imperialista e capitalista sviluppatasi in Europa nel corso del XIX secolo dura fino all’inizio del secolo successivo, fino al momento in cui lo scontro armato degli opposti imperialismi nazionali, per il dominio dei mercati e delle risorse e per il timore dell’internazionalismo socialista, non divenne inevitabile. Cominciò allora la Prima Guerra Mondiale (1914-1918), che vide contrapposti gli Imperi Centrali (Germania e Austria, più la Turchia) alle potenze dell’Intesa (Inghilterra, Francia, Russia, e poi Italia, Giappone e Stati Uniti). Fu la prima guerra globale moderna, che costò milioni di morti e immani sofferenze, e in cui trovarono applicazione molte delle nuove invenzioni tecnologiche come l’aeroplano, le armi chimiche e i nuovi esplosivi, automobili e carri armati, tutti simboli di un ‘progresso’ che si rovesciava in immagine di distruzione dell’umanità. Alla fine della guerra, della vecchia Europa non restavano che rovine: l’impero asburgico smembrato in molti stati nazionali, la Germania umiliata e in parte occupata, gli stessi paesi vincitori stremati nell’economia e nella società. Il primo paese a crollare, prima della fine della guerra, fu la Russia zarista, in cui la rivoluzione guidata dai Bolscevichi di Lenin instaurò uno stato federale in cui per la prima volta si applicavano i principi del comunismo e dell’abolizione della proprietà privata, l’Unione Sovietica (1918); un’utopia sulla quale, dopo la morte di Lenin (1924), prese il sopravvento il feroce regime dittatoriale di Stalin. Era l’avvio di una trasformazione di gran parte dell’Europa in senso totalitario, una rivoluzione-involuzione dei regimi borghesi-liberali. Questi regi-

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mi, nel corso dell’Ottocento, si erano basati su un sistema di rappresentatività parlamentare, garantito da carte costituzionali più o meno aperte e ispirate al liberalismo, e in cui erano privilegiate le classi borghesi e imprenditoriali. Nel momento della concessione del suffragio universale e di maggiori diritti civili alle classi subalterne, essi rischiarono di venire travolti dalla dittatura del proletariato, e favorirono quindi, per reazione, la fine della stessa democrazia liberale: in Italia il fascismo di Mussolini (1922), in Germania il nazismo di Hitler (1933), in Spagna la dittatura di Franco dopo una sanguinosa guerra civile (1939), in molti altri paesi minori (Austria, Ungheria, Portogallo, Grecia), in Sudamerica e nel lontano Giappone; e tentazioni simili percorsero anche la società inglese e francese. Nello stesso tempo, i totalitarismi erano ormai espressione di una società di massa, in cui i rapporti di potere erano sganciati dalla dinamica della lotta di classe o della democrazia parlamentare, ma avvenivano in una diretta relazione di dominio, esercitata con i mezzi più moderni della comunicazione di massa: i giornali e l’editoria, la cultura, la scuola e l’educazione, il cinema e la radio. Gli anni Venti e Trenta furono dunque una ‘tregua’, prima che si scatenasse un nuovo scontro di imperialismi, la Seconda Guerra Mondiale (19391945), che vide le dittature fasciste dell’Asse (Germania, Italia, Giappone) contro gli Alleati (Inghilterra, Francia, Stati Uniti, Unione Sovietica). Una guerra globale che fu ancora più terribile della precedente: le popolazioni civili non furono risparmiate da bombardamenti, rappresaglie, ‘pulizie etniche’; per la prima volta fu usata la bomba atomica contro le città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki (1945); e mai come in questi anni l’umanità sembrò scendere nell’abisso del Male, con l’Olocausto (Shoah), lo sterminio (programmato a tavolino dai nazisti nell’Europa occupata e eseguito con metodica scientificità industriale nei Lager) di milioni di esseri umani, in gran parte Ebrei, colpevoli di appartenere a una razza giudicata ‘inferiore’ dalla delirante ideologia nazista. Alla fine della guerra, con la sconfitta dell’Asse, l’Europa intera usciva sconfitta, e perdeva il dominio del mondo. Il Novecento, a differenza dell’ottimismo nel progresso tecnologico e sociale che aveva caratterizzato parte del secolo precedente, è segnato dalla crisi e dall’inquietudine; e paradossalmente questo avviene proprio a fronte del massimo sviluppo tecnologico raggiunto dall’umanità, con la scoperta dell’energia atomica. Innanzitutto è crisi delle certezze della scienza, con la teoria della relatività generale (1916) di Albert Einstein, che considera spazio e tempo categorie variabili di un universo che non corrisponde più all’astratto modello matematico-gravitazionale di Newton; con la scoperta dei ‘quanti’ di energia subatomica (effettuata da Max Planck), e il principio di



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indeterminazione di Heisenberg, che afferma l’impossibilità di determinare l’esatta posizione delle particelle subatomiche. Tra le varie scuole filosofiche, quindi, quella che rappresenta meglio il Novecento è l’esistenzialismo, soprattutto con Martin Heidegger (18891976), che, ricollegandosi alla critica dell’idealismo portata avanti da Nietzsche, torna ad affermare la centralità dell’esistenza umana, e la necessità di recuperare il suo rapporto con l’essere; un rapporto approfondito poi da Hans-Georg Gadamer in termini di interpretazione e comprensione della realtà che ci circonda (ermeneutica). L’analisi del disagio psicologico dell’uomo moderno avviata da Freud prosegue con Carl Gustav Jung (18751961), che supera il maestro spostando l’attenzione dall’inconscio individuale all’inconscio collettivo, nella ricerca degli ‘archetipi’ riflessi nel mito, nelle religioni, nell’arte di ogni civiltà. Parallelamente, la sociologia, lo studio delle dinamiche interne della società portato avanti da Max Weber, guidava una serie di ricerche in ambito filosofico, estetico, artistico nella cosiddetta scuola di Francoforte, un istituto di ricerca degli anni Venti-Trenta disperso dal nazismo. Vi collaborò uno dei più acuti intellettuali del Novecento, Walter Benjamin (1892-1940), autore di saggi fondamentali come Angelus Novus e L’ opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in cui si individuano i cambiamenti radicali di produzione e fruizione dell’arte (la cosiddetta ‘perdita di aura’ dell’opera d’arte, non più un unicum irripetibile ma un oggetto di consumo legato alle leggi del mercato) e della letteratura in un mondo dominato da meccanismi di ricezione di massa. La cultura europea abbandonò le spinte contrapposte del decadentismo e del superomismo, per approfondire un più intenso viaggio interiore, alla ricerca delle ragioni della crisi. Il recupero memoriale per mezzo della scrittura è attuato in Francia da Marcel Proust (1871-1922) in La recherche du temps perdu (‘la ricerca del tempo perduto’)(1913-1927), grande ciclo narrativo in parte autobiografico, che parte dall’infanzia del protagonistanarratore nella tranquilla provincia francese di Combray (con la mitizzazione dei primi amori con Gilberte figlia del signor Swann, e poi con Albertine), per approdare ai raffinati salotti parigini e alle complicazioni sentimentali e morali fino alla morte di Albertine e al finale ripiegamento su se stesso: un’opera di analisi psicologica che Proust compie grazie ad un attento lavoro stilistico, alla creazione di una prosa che segue i movimenti del pensiero e del ricordo, còlti nei meccanismi profondi della memoria involontaria. Si svolge parallela la ricerca dello scrittore irlandese James Joyce (18821941), vissuto a lungo a Trieste in contatto con Svevo, autore dell’Ulisse (1922), un romanzo-fiume che è in effetti la descrizione di un’unica giornata

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del protagonista, Leopold Bloom, che si illude di aver trovato un figlio nella figura del giovane inquieto intellettuale Stephen Dedalus. Il libro rinvia (come suggerisce lo stesso titolo) all’Odissea di Omero, e rappresenta effettivamente l’odissea dell’uomo moderno all’interno di se stesso, e della sua corporeità. Il ‘viaggio’ avviene per mezzo della registrazione impersonale delle sensazioni, dei pensieri, nel flusso di coscienza del monologo interiore, che Joyce cerca di rendere scardinando le regole della grammatica e dello stile. La crisi della coscienza borghese e la decadenza della classe dirigente europea vengono mirabilmente raccontate, in romanzi in parte autobiografici, da Thomas Mann (I Buddenbrook 1900) e Robert Musil (L’uomo senza qualità 1930-1933). Ma lo scrittore che più di ogni altro riuscirà a rappresentare l’allucinata follia e l’assurdità della vita contemporanea, con gli strumenti di una narrazione enigmatica ed onirica, sarà Franz Kafka (1883-1924), con La metamorfosi, Il processo, e il romanzo incompiuto Il castello. Sospesa tra la nuova America e la raffinata cultura della vecchia Europa è la figura di Henri James (1843-1916), autore di romanzi memorabili come The Portrait of a Lady (‘ritratto di signora’), scritto a Venezia. Il vitalismo, già cantato dal poeta Walt Whitman, percorre invece la generazione successiva degli scrittori americani, in una forte identificazione di letteratura e vita. Ernest Hemingway (1899-1961), coinvolto nelle due Guerre Mondiali e nella Guerra Civile Spagnola (evocata nel romanzo Per chi suona la campana), elabora uno stile moderno ed essenziale (dai Quarantanove racconti all’ultimo romanzo Il vecchio e il mare), legato alla scrittura giornalistica e alla velocizzazione del mondo della comunicazione. Hemingway e gli altri scrittori americani contemporanei (William Faulkner, Francis Scott Fitzgerald, John Dos Passos, John Steinbeck) eserciteranno un’infuenza profonda su alcuni intellettuali italiani (Vittorini, Pavese) che alla fine degli anni Trenta avrebbero cercato di rinnovare le forme e i contenuti della narrativa. Nella poesia, l’eredità del simbolismo europeo e l’ideale della poesia pura trovavano ancora in Paul Valéry (1871-1945) una voce di grande e raffinata sensibilità, soprattutto in Cimitière marin (1920). In Spagna si levava la profonda umanità della poesia di Federico Garcia Lorca (1898-1936), giustiziato all’inizio della Guerra Civile, autore del Llanto por Ignacio Sánchez Mejías (1935), compianto per un torero ucciso nell’arena. Emergevano intanto le prime importanti voci di poeti non europei. In India il grande intellettuale bengalese Rabindranath Tagore (1861-1941) rappresentava un singolare punto d’incontro fra Oriente e Occidente: nelle sue poesie, scritte sia in bengali che in inglese, e in particolare nella raccolta Gitanjali, i piccoli gesti della vita quotidiana sono pervasi del profondo



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senso religioso della cultura indù, e dai misteri dell’esistenza, del dolore e dell’amore. Originario dell’Idaho, negli Stati Uniti, Ezra Pound (1885-1972) fu un attivissimo animatore di cultura, innamorato dell’Italia, ma anche poi fiancheggiatore di nazismo e fascismo durante la Seconda Guerra Mondiale, dopo la quale fu internato in dura prigionia a Pisa per molti anni. Grande sperimentatore e contaminatore di suggestioni simboliste, decadenti, medievali, orientali, Pound è una sorta di Dante del XX secolo, con l’immensa opera dei 117 Cantos (iniziati nel 1917). Di essi, i più drammatici sono i Pisan Cantos (‘canti pisani’)(1948), scritti durante la prigionia di Pisa, memoria recente della tragedia della guerra, vera discesa dell’umanità all’Inferno, dal quale il poeta riemerge con la speranza che, tra le rovine, resti almeno ciò che si ha amato: “What thou lovest, well remains” (‘ciò che hai amato, quello resta veramente’). La linea poetica legata alla tradizione dei classici della letteratura occidentale (dagli Antichi a Dante e Cavalcanti, dalla poesia metafisica inglese del Seicento al simbolismo) fu continuata da Thomas Stearns Eliot (18881965), nato negli Stati Uniti ma da famiglia di origine inglese, e poi stabilitosi in Inghilterra. Le prime poesie di Eliot, raccolte nel Love song of J. Alfred Prufrock (‘canto d’amore di J. Alfred Prufrock’)(1914), erano l’espressione del disagio interiore di un giovane del primo Novecento, che si sentiva sospeso tra mondi culturali ed epoche diverse e in continua trasformazione. In seguito, dopo l’incontro con Pound, e l’approfondimento della poesia di Dante, Eliot giunse al capolavoro di The Waste Land (‘la terra desolata’)(1922), in cui perseguì la manifestazione di realtà interiori per mezzo di segni visibili o comunicabili, definiti ‘correlativo oggettivo’. La ‘terra desolata’ è in fondo la rappresentazione dell’inferno dell’uomo moderno, cui segue, come in Dante, un tentativo di ascesa paradisiaca, nei Four Quartets (‘quattro quartetti’)(1942), in cui vengono approfonditi i temi della solitudine esistenziale per mezzo di un nuovo ‘classicismo’ basato sulla tecnica del ri-uso, del montaggio, della citazione e dell’allusione. Le stesse inquietudini della modernità sono espresse nelle arti figurative, da pittori come Edward Munch in Norvegia, James Ensor in Belgio, Gustav Klimt in Austria. Il fenomeno che sconvolge il mondo artistico all’inizio del Novecento è quello delle avanguardie, movimenti di rottura e di superamento, che talvolta si pongono in posizione dialettica l’uno nei confronti dell’altro, e attraverso i quali passano, nel giro di pochissimi anni, gli stessi artisti, coinvolti in esperienze anche molto diverse tra loro. All’inizio, il fauvismo (1905) di Rousseau il Doganiere e Henri Matisse (dalla parola francese Fauves, ‘belve’, con cui vennero designati questi artisti,

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per la violenza graffiante nell’uso dei colori primari) privilegia la ricerca coloristica, pur conservando gli elementi figurativi, ma spesso in una dimensione onirica. La scomposizione delle forme del reale viene invece decisamente attuata dal cubismo, con Georges Braque, e soprattutto Pablo Picasso, autore di Les demoiselles d’Avignon (1907), considerate l’atto di nascita del movimento. Il futurismo di Marinetti (1909), diffuso dall’Italia in tutta Europa e anche in Russia, esalta il movimento, la macchina e la velocità, tentando di raggiungere una rappresentazione ‘dinamica’ in tutte le arti, e in particolare nella scultura, con Umberto Boccioni (1909). La dissacrazione e la negazione dell’arte sono caratteristiche del dadaismo (1918) di Tristan Tzara, che affermava che “l’arte non è una cosa seria”, privilegiando composizioni basate sul caso e il gioco. Il surrealismo (1924) dei poeti André Breton e Paul Eluard, e dei pittori Max Ernst, Salvador Dalì, Joan Mirò, René Magritte, basato sul primato della dimensione onirica e simbolica, porta ad una riscoperta del mito, una dimensione cui accede anche la pittura metafisica di Giorgio De Chirico e Carlo Carrà. Infine, la dissoluzione della figuratività segna lo sviluppo di un’arte profondamente intellettuale, l’astrattismo, con Piet Mondrian, che percorrerà tutta la cultura del Novecento. Un posto a parte, tra le avanguardie, ha l’espressionismo tedesco, capace di una maggior forza di penetrazione sociale e di rinnovamento morale, con il movimento Die Brücke (‘il ponte’) di Ernst Ludwig Kirchner (1905), e con Der Blaue Reiter (‘il cavaliere azzurro’) di Vasilij Kandinskij (1911). La satira espressionistica, antiborghese e anticapitalistica, influenzò direttamente il cinema tedesco, la musica, il cabaret berlinese e il teatro di varietà (che esprimevano un grande musicista come Kurt Weil). Era questo l’ambiente in cui si formò il teatro di Bertolt Brecht (1898-1956), autore di Opera da tre soldi (1928). In seguito Brecht, costretto all’esilio per sfuggire al regime nazista (1933), combatté la sua ‘resistenza’ continuando a scrivere opere di teatro come La resistibile ascesa di Arturo Ui (1941), allegoria dell’ascesa di Hitler, prendendo posizione in difesa della libertà intellettuale (Vita di Galileo 1939) e contro l’inutile violenza della guerra (Madre Coraggio e i suoi figli 1939). L’architettura è sempre di più legata allo sviluppo della civiltà industriale e di massa, e abbandona i linguaggi eclettici, classicisti e decorativi del tardo Ottocento, che persistono ancora nello stile Liberty o Floreale. Grazie al progresso delle tecniche costruttive e all’utilizzazione del cemento armato, nel panorama urbano, a cominciare dalle città americane del primo Novecento (New York, Chicago), compaiono i primi grattacieli (skyscrapers), che diventano anche un forte elemento simbolico della metropoli moderna. Ma



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soprattutto servono edifici ispirati a principi di razionalità e funzionalità, che sono alla base dei movimenti del razionalismo e del modernismo, espressi negli Stati Uniti da Frank Lloyd Wright, in Francia da Le Corbusier, e in Germania dalla Bauhaus di Walter Gropius. In musica, Igor Stravinskij stravolge la tradizione musicale borghese dell’Europa occidentale con le violente sonorità della musica russa, in una fusione di linguaggi che si serve dell’interazione con la danza, per mezzo della celebre compagnia dei Balletti russi di Sergej Diaghilev, in cui brillava la stella del mitico ballerino Vaslav Nijinsky. Di più, la musica classica occidentale, fondata da secoli sul sistema detto ‘tonale’ (la successione regolare dei suoni nella ‘scala’ musicale, maggiore o minore), viene scardinato al suo interno dalla rivoluzione formale della dodecafonia di Arnold Schönberg, che propone nuove soluzioni armoniche nell’utilizzazione di tutti i dodici suoni della scala. Ma, accanto alla tradizione ‘alta’, il Novecento vede soprattutto l’enorme sviluppo della fruizione di massa, grazie alle nuove tecnologie di registrazione e diffusione (il grammofono e la radio): ne saranno privilegiati anche alcuni filoni della musica popolare, in particolare negli Stati Uniti, dove la fusione di linee diverse, in gran parte provenienti dalla tradizione afroamericana, portò alla nascita del jazz e del blues, consacrati ufficialmente dall’attenzione che un musicista come George Gershwin diede loro negli anni Venti-Trenta. La nuova grande arte del Novecento è il cinema, reso tecnicamente possibile dall’invenzione della fotografia nel XIX secolo. Dopo i primi esperimenti dei fratelli Louis e Auguste Lumière a Parigi (1895), il cinema si sviluppa rapidamente come forma di produzione industriale. In un primo tempo il primato è europeo, e addirittura italiano, con i primi kolossals di ambientazione storica in un esotico mondo antico: Quo vadis? di Enrico Guazzoni (1912), e Cabiria di Giovanni Pastrone con la sceneggiatura di D’Annunzio (1914). I migliori risultati tecnici del cinema muto europeo furono raggiunti dall’espressionismo tedesco, con registi come Robert Wiene, Il gabinetto del dottor Caligari (1919), Friedrich Murnau, Nosferatu il vampiro (1922), Carl Theodor Dreyer, La passione di Giovanna d’Arco, e soprattutto Fritz Lang, che in Metropolis (1926) realizzò una visione profetica delle future trasformazioni della società di massa. Nella Russia sovietica il regista più grande fu Ejzenstejn, con film celebrativi della Rivoluzione Bolscevica (La corazzata Potömkin 1925, Ottobre 1927), e poi della grandezza del popolo russo (Alexander Nevskij, con la musica di Prokoviev). Negli Stati Uniti, anche grazie alla fondazione degli Studios a Hollywood, un sobborgo di Los Angeles in California (1911), il grande cinema era nato

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con David W. Griffith, regista di Nascita di una nazione (1915), e Intolerance (1916). Il sistema di produzione e distribuzione industriale consentiva margini di guadagno sempre più alti, con la possibilità di attirare in America i migliori attori e registi europei, da Charlie Chaplin a Fritz Lang e Alfred Hitchcock, il re del ‘giallo’; e anche di creare, intorno a ogni film, e a ogni attore, un’aspettativa di pubblico che finiva col ‘divinizzare’ l’attore, rendendolo una star, come l’italo-americano Rodolfo Valentino, e le grandi ‘dive’ tedesche Marlene Dietrich e Greta Garbo. Il cinema era allora esclusivamente ‘muto’, cioè privo di colonna sonora: i dialoghi tra i personaggi venivano suppliti dall’uso di fastidiose didascalie, che interrompevano la visione delle sequenze, e l’accompagnamento musicale era fornito da pianisti o anche da piccole orchestre. Le sale cinematografiche erano ancora molto simili ai teatri di cabaret, o ai café-chantants. Una vera rivoluzione fu l’avvento del sonoro, con il film The Jazz Singer (1927) della Warner Bros. Il cinema sonoro fu all’inizio sfruttato soprattutto nella direzione del film musicale, il musical, genere primario del teatro popolare americano, e nella produzione di grandi film storici in cui la musica ha comunque una parte importante di accompagnamento dell’immagine, come Gone with the wind (‘via col vento’)(1939). Comincia a codificarsi allora un vero e proprio sistema dei generi cinematografici, parallelo a quello della letteratura di consumo: il western di John Ford (Ombre rosse), il ‘giallo’ di Hitchcock, il film storico, il film di guerra, la commedia rosa, il kolossal d’ambientazione greco-romana, e infine il cinema d’animazione di Walt Disney (Biancaneve, Fantasia). Con qualche difficoltà economica nei rapporti con le grandi case di produzione, resiste comunque anche il cinema d’autore, a partire da un regista eccentrico come Orson Welles, che in Citizen Kane (tradotto in Italia come Quarto potere)(1941) mette in scena i reali meccanismi del potere nel mondo dei mass media.

3.2. Società e cultura in Italia nel primo Novecento Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, l’Italia ha in gran parte superato il divario di industrializzazione e di benessere che, appena pochi decenni prima, la separavano dai paesi europei più avanzati. Il prezzo pagato è però altissimo. Sotto l’apparente tranquillità politica dei governi di Giovanni Giolitti vi sono ancora gravi tensioni sociali ed economiche, e l’emigrazione dalle regioni del Sud raggiunge le proporzioni di un vero e proprio esodo biblico (con punte di quasi un milione di persone l’anno). La tragedia della guerra contro l’Austria (non voluta dal parlamento, né dalla maggioranza degli



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italiani, ma imposta dalla minoranza interventista, col pretesto di ‘liberare’ Trento e Trieste) portò al peggioramento delle tensioni esistenti (1915). Con il suffragio universale maschile (concesso nel 1911) erano emersi due grandi partiti popolari, i Socialisti e i Popolari di ispirazione cattolica, mentre la classe operaia tentava di migliorare le proprie condizioni di vita con scioperi e manifestazioni. Nell’immediato dopoguerra l’industria e la finanza appoggiarono allora il movimento dei Fasci di combattimento, fondato da un ex-socialista ed ex-soldato, Benito Mussolini, che raccoglieva le simpatie delle classi borghesi impaurite dall’avanzare delle sinistre, e che, grazie all’appoggio del Re, salì al potere con la Marcia su Roma (1922). In pochi anni il fascismo liquidò il vecchio stato liberale, con una politica economica che sembrò dare all’inizio frutti positivi, e con l’avvio di una modernizzazione statale unitaria che, in effetti, le generazioni precedenti non erano riuscite a raggiungere. Il dissidio con la Chiesa Cattolica (aperto dalla conquista di Roma nel 1870) si ricompose con i Patti Lateranensi (1929), e il fascismo guadagnò un ampio consenso popolare. In seguito, però, la crisi economica, l’involuzione interna del regime e l’isolamento internazionale causato dalla conquista coloniale dell’Etiopia (1935) portarono al fatale avvicinamento alla Germania nazista, e al coinvolgimento nella Seconda Guerra Mondiale (1940). Dal punto di vista culturale, il secolo era iniziato con il più grande entusiasmo. Un gruppo di giovani intellettuali poco più che ventenni, a Firenze (dove allora, alla Capponcina, risiedeva il ‘vate’ D’Annunzio), aveva fondato, in rapida successione, alcune riviste che diffusero una nuova mentalità irrazionalista e antidemocratica nelle classi medie. La prima fu “Il Leonardo” (1903-1907), che anche nel titolo sembrava riprendere il mito superomistico e decadente del genio universale di Leonardo da Vinci (celebrato da Pater a D’Annunzio). La fondarono i giovani Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini (Firenze 1881-1956). Papini, in particolare, si fece banditore di opinioni vitalistiche di stampo dannunziano (riflesse nel romanzo autobiografico Un uomo finito del 1912), posizioni estreme e in gran parte superficiali, continuate con l’adesione al cattolicesimo (Storia di Cristo 1921), al fascismo e al razzismo antiebraico. Su una linea parallela si muoveva la rivista “Il Regno” (1903-1905) dell’ultranazionalista Enrico Corradini, mentre ad un livello estetizzante, col motto “aristocratici in arte, individualisti nella vita”, si manteneva la dannunziana “Hermes” (1904-1906) di Giuseppe Antonio Borgese (Polizzi Generosa 1882-Fiesole 1952). Borgese scriverà in seguito Rubè (1921), romanzo quasi autobiografico in cui narra la storia di un altro ‘uomo finito’, un giovane avvocato siciliano dopo la guerra, in crisi con se stesso

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e con la società che lo circonda, e che finisce col morire per caso in un tumulto di piazza. Maggiore serietà e impegno offrì invece “La Voce” (1908-1916), diretta da Giuseppe Prezzolini (Perugia 1882-Lugano 1982), insieme all’alta figura morale di Gaetano Salvemini (Molfetta 1873-Sorrento 1957), grande oppositore di Giolitti (chiamato “il ministro della malavita”), e poi del fascismo. La rivista abbandonava le posizioni retoriche oltranzistiche, e cominciava a impegnarsi sulla concreta realtà sociale dell’Italia contemporanea (“reagire alla retorica degli Italiani obbligandoli a veder da vicino la loro realtà sociale”). Questa iniziale fase di impegno fu però interrotta dall’abbandono di Salvemini, che, critico contro l’impresa di Libia (appoggiata invece da Prezzolini), fondò allora il nuovo periodico “L’Unità” (1911). Dopo una breve direzione di Papini (1912-13), Prezzolini tornò alla guida della rivista, ma ora convertito alle idee di Benedetto Croce (1914), e lasciò infine la direzione a Giuseppe De Robertis (1914-1916), importante critico letterario che orientò le scelte del periodico soprattutto sulla letteratura. “La Voce” divenne allora scuola di poesia, la scuola dei poeti cosiddetti ‘vociani’, favorendo la ricerca della cosiddetta poesia pura, raggiungibile in pochi momenti di slancio lirico, e per questo necessariamente frammentaria, isolabile in brevi testi di ‘vera’ poesia. Di qui la predilezione per il frammentismo, che è una cifra caratteristica di alcuni di questi poeti; ma anche per una linea stilistica antiretorica e antidannunziana, tesa ad una maggiore autenticità. Bisognava ritrovare un rapporto più profondo tra parole e cose, tra letteratura e vita, per mezzo della sobrietà dell’espressione, dell’autobiografismo, del rinnovamento dello stile. Alla “Voce” collabora uno dei più sensibili intellettuali dell’epoca, Renato Serra (Cesena 1884-Podgora 1915), giovane direttore della Biblioteca Malatestiana di Cesena. Alla vigilia dell’entrata in guerra (1915), Serra si interroga sulla funzione dell’intellettuale, e di quella particolare ‘religione delle lettere’ in cui aveva trovato rifugio e scopo di vita (l’orticello della letteratura, “carcere d’inchiostro”), nel suo piccolo mondo provinciale da cui ora bisogna uscire, per ritrovare un nuovo rapporto di fratellanza con gli altri uomini. Nascono così le pagine del bellissimo Esame di coscienza di un letterato, scritto appena prima di andare a morire in una guerra non voluta. Con Serra siamo di fronte alla creazione della prosa critica italiana moderna, al messaggio del ‘lettore’ che entra in sintonia con le sue letture, e le ricrea con la propria sensibilità. È un andare incontro alla vita e al mondo, anche se nella consapevolezza che nulla cambierà: “né per i vincitori né per i vinti. E forse, neanche per l’Italia”.



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Alla sensibilità sfumata di Serra si contrappone la retorica roboante e rumorosa di Filippo Tommaso Marinetti (Alessandria d’Egitto 1876-Bellagio 1944), già poeta simbolista e dannunziano a Parigi, poi fondatore del futurismo, interventista con la rivista futurista “Lacerba” (1913-1915), infine fiancheggiatore del fascismo in insulse battaglie culturali (come quella contro la pastasciutta in Cucina futurista 1932). Marinetti è l’autore del celebre Manifesto del Futurismo (1909), pubblicato a Parigi su “Le Figaro”. Inserendosi nelle avanguardie europee, il futurismo si concentra sull’elemento della velocità: “Noi affermiamo che la bellezza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità”, e un’automobile ruggente diventa dunque più bella della Nike di Samotracia. L’esaltazione della macchina è esaltazione della civiltà industriale proiettata al futuro, con il solito corredo di miti di progresso tecnologico. Sotto la superficie ‘progressista’, si nascondono le idee più bieche: “la guerra sola igiene del mondo”, e il “disprezzo della donna”. La poetica del futurismo è relativamente semplice: se l’arte è basata sulla rappresentazione del movimento (“l’eterna velocità onnipresente”), allora deve procedere alla distruzione degli stili e delle poetiche del ‘passato’, dal romanticismo al decadentismo, usare la parola in libertà, oltre la sintassi e la grammatica, anche nella disposizione grafica delle parole, giocando sull’ “immaginazione senza fili”, sulla libertà assoluta delle immagini o delle analogie. Nei fatti, le realizzazioni poetiche non erano all’altezza di tali propositi (o all’altezza del parallelo futurismo artistico di Boccioni), come si vede nelle stesse opere di Marinetti, dal romanzo Mafarka il futurista (1910) al poemetto Zang Tumb Tumb (1914), descrizione futurista di una battaglia della Prima Guerra Mondiale. La crisi dell’Italia risorgimentale, di fronte alla guerra e all’avvento del fascismo, ebbe alcune alte coscienze critiche che riuscirono a tracciare lucidamente il bilancio di quegli anni difficili. Innanzitutto Benedetto Croce (Pescasseroli 1866-Napoli 1952), che a Napoli da un’iniziale attività erudita e storico-filologica era passato allo studio della filosofia e dell’estetica, tornando a Hegel e Vico contro il positivismo e lo scientismo. La prima grande opera di questa ‘conversione’ è l’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902), seguita dalla Logica come scienza del concetto puro (1905). Croce rifonda il sistema del sapere per mezzo della dialettica dei distinti, cercando di cogliere nella sua completezza il processo di circolarità dello Spirito, sia nella forma teoretica (l’estetica, strumento di conoscenza del particolare, e la filosofia, strumento di conoscenza dell’universale) che in quella pratica (l’economia e l’etica).

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Nel gennaio 1903, mentre a Firenze nasceva “Il Leonardo”, a Bari, presso l’editore Laterza, usciva il primo numero della nuova rivista “La critica”, scritta quasi interamente da Croce stesso in compagnia di un più giovane amico, il filosofo Giovanni Gentile: strumento di alto magistero civile e morale, in quel tempo di idee confuse e superficiali. Alla vigilia della guerra, anche Croce (come Serra) meditò su se stesso e sui quindici anni di impegno speso nella filosofia e nel dibattito culturale nazionale, nello scritto autobiografico Contributo alla critica di me stesso (1915). Dopo un’iniziale simpatia verso il fascismo (dovuta alla sua posizione politica di conservatore liberale), ne prese nettamente le distanze, reagendo al Manifesto degli intellettuali del fascismo dell’ex-amico Gentile (che interpretava il fascismo come una forma di hegeliana “religione dello Stato”, e come realizzazione degli ideali patriottici del Risorgimento, richiamando addirittura Mazzini) con un vibrante Manifesto degli intellettuali antifascisti (1925). Negli anni successivi La critica approfondì sempre di più i temi di critica letteraria, in cui Croce giocò un ruolo fondamentale nell’Italia di allora, influenzando il gusto critico e le scelte di lettura. Croce credeva in una autonomia assoluta dell’arte e della poesia rispetto alle altre attività dello spirito, e rispetto alla storia e alla contingenza. Nell’elaborazione artistica domina l’intuizione pura, a priori, che si fa forma perfetta. Compito del critico è dunque quello di identificare la vera poesia, e distiguerla da tutto ciò che non lo è (strutture, allegorie, documenti storici e cronachistici ecc.), come si afferma in alcuni celebri saggi (Poesia e non poesia 1923, La poesia 1936). La posizione di Croce portò all’inizio ad un salutare rinnovamento della critica, e al superamento dell’eccessiva erudizione documentaria della Scuola Storica. In seguito, la sua applicazione scolastica, astratta e zelante (nel cosiddetto ‘crocianesimo’) ebbe come conseguenza la svalutazione di una serie di strumenti fondamentali per la comprensione del testo letterario: la linguistica, la retorica, la filologia, e la stessa storiografia letteraria, e lo studio dei generi. Come Croce, il giovane Piero Gobetti (Torino 1901-Parigi 1926) tentò di opporsi, dal versante della cultura liberale, al fascismo dilagante con le armi della parola e della ragione, ma morì per i postumi delle ferite di un pestaggio fascista. Gobetti fondò prima la rivista “La Rivoluzione liberale” (1922), e poi “Il Baretti” (1924-1928), richiamandosi alla figura del letterato settecentesco che aveva avuto un grande orizzonte europeo. Ne derivava un recupero dei valori razionali dell’illuminismo, e del suo carattere critico nei confronti di ogni mistificazione, e di difesa strenua della libertà di pensiero e di espressione, minacciata dal fascismo. Una sua raccolta di scritti, intito-



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lata La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia (1924), traccia un’acuta analisi della recente storia d’Italia, degli errori del Risorgimento, e del fascismo, rendendo l’autore, armato solo delle sue idee, uno degli avversari più pericolosi del regime. Educatosi fin da principio ad una dura realtà di lotta sociale fu invece Antonio Gramsci (Ales, Oristano 1891-Roma 1937), che, dopo un’iniziale militanza socialista a Torino, fondò il Partito Comunista d’Italia a Livorno (1921), e fu infine arrestato dalla polizia fascista (1926) e condannato a vent’anni di carcere (1928), morendo per l’aggravarsi delle precarie condizioni fisiche durante la prigionia. Negli anni della lotta politica (1915-1926) Gramsci fu soprattutto autore di scritti giornalistici e politici, pubblicati in particolare sulla sua coraggiosa rivista “L’Ordine nuovo”, dal 1919. Ma la sua intelligenza creativa (“pessimista con l’intelligenza e ottimista con la volontà”) raggiunse i risultati più alti proprio negli anni più duri del carcere, con l’intensa e liberatoria attività di scrittura dei Quaderni del carcere (1929-1935), cui si accompagnano le intense e umanissime Lettere dal carcere, rivolte soprattutto ai familiari lontani, la moglie russa Giulia Schucht e la cognata Tatiana. I Quaderni del carcere sono 32 umili quadernetti scolastici, per un totale di 2848 pagine, sottratti fortunosamente da Tatiana alla censura fascista, portati in Russia, custoditi da Palmiro Togliatti, e pubblicati dopo la guerra in sei volumi tematici (1948-1951), e poi in edizione critica cronologica (1975). Si tratta di una delle più importanti operazioni intellettuali e letterarie del Novecento. Nella forma della ‘scrittura aperta’, Gramsci ci consegna una grande, ininterrotta meditazione, simile a quella dello Zibaldone di Leopardi, o dei manoscritti di Leonardo. Nel fluire dei pensieri, sono riconoscibili alcuni fondamentali nuclei tematici: le trasformazioni della società borghese e del capitalismo; la storia d’Italia, soprattutto quella più recente (il Risorgimento, la ‘questione meridionale’, l’avvento del fascismo), e la storia della sua cultura e della sua letteratura (e perché essa non sia nazional-popolare). Gramsci riserva un’attenzione particolare alla figura dell’intellettuale e al suo rapporto con il potere, riconoscendo la formazione di un ‘intellettuale organico’ al sistema. Ma soprattutto Gramsci tenta di allargare la sua analisi ai processi generali della Storia, oltre i confini della vecchia Europa, verso il moderno capitalismo degli Stati Uniti (acutamente analizzati nelle note su ‘americanismo e fordismo’), e oltre i confini delle culture cosiddette ‘occidentali’. La sua nozione di ‘subalterni’ si estende dal contesto tradizionale della lotta di classe ad uno scenario che sembra prevedere ormai l’età postcoloniale e globalizzata di fine Novecento, in uno sguardo coraggioso al “mondo grande e terribile e complicato”.

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Mentre il fascismo conquistava il potere, i poeti si rifugiavano nell’orticello della letteratura, che almeno si voleva che fosse “buona letteratura”. Ecco la rivista “La Ronda” (Roma 1919-1922), diretta dal poeta Vincenzo Cardarelli, con Emilio Cecchi e Riccardo Bacchelli, rivista che, contro le avanguardie e gli estremismi, ma anche contro la vuota retorica del dannunzianesimo, promosse una ricerca stilistica nel solco della tradizione letteraria italiana (Leopardi, Manzoni). “Dai classici – scrive Cardarelli – abbiamo imparato ad essere uomini prima che letterati”. E soprattutto Cecchi (Firenze 1884-Roma 1966) ne interpretò l’istanza formale nell’elaborazione di una raffinata prosa d’arte. Espressione bifronte di aspetti compresenti nel fascismo e delle contraddizioni della cultura contemporanea, ambivalente tra critica e consenso al regime, furono invece le riviste successive. “Il Selvaggio” (prima a Colle Val d’Elsa e poi a Firenze, 1924-1943) di Mino Maccari fu l’organo ‘ufficiale’ del movimento di Strapaese, che esaltava una italianità ad oltranza, identificata a livello provinciale e popolare, nazionalista e fascista, e sostanzialmente antimoderna. Ad apertura della rivista, Maccari riprende addirittura un motto di Leonardo, “Salvatico è colui che si salva”, e commenta che ‘selvaggio’ è “chi rimane profondamente fedele alle tradizioni della sua terra e della sua casa e vuol costruire la modernità e la civiltà su codeste sacre e secolari basi”. La rivendicazione del valore della tradizione avviene così nella difesa del “carattere rurale e paesano della gente italiana”, dell’ambiente, del clima, della mentalità. E non è una posizione isolata. Dall’esperienza del “Selvaggio” viene anche Leo Longanesi (1905-1957), scrittore, pittore ed editore, fondatore de “L’Italiano” (Bologna 1926), “foglio mensile della rivoluzione fascista”; e poi di “Omnibus” (1937-1939), interessante esperimento di periodico popolare. Del tutto opposto a Strapaese è invece il gruppo di Stracittà, raccolto intorno alla rivista “900” (Roma 1926-1929) di Massimo Bontempelli, con un orizzonte (almeno nelle intenzioni) modernista, internazionale, europeista. Vi emerge la consapevolezza che i cambiamenti della moderna società industriale sono ormai irreversibili, con l’avvento del dominio dell’uomo sulle cose e sulla Natura. Invece di far fronte a tali cambiamenti con lo sperimentalismo delle avanguardie, si torna a dare valore all’immaginazione, all’elemento fantastico, in un contesto stilistico tutto sommato tradizionale, che privilegia la narrativa e il teatro alla poesia e alla lirica. L’arte tende a farsi ‘popolare’, a raggiungere un pubblico più ampio di quello delle élites degli intellettuali cultori dell’arte pura, anche grazie a nuove e potenti forme di espressione e comunicazione come il cinema: ma per raggiungere questo scopo deve farsi ‘prodotto di massa’, e accettare la codificazione dei rapporti tra artista e industria culturale. E scrive a proposito Bontempelli: “L’artista sia soprattutto un eccellente ‘uomo di mestiere’”.



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Negli anni Trenta a Firenze l’editore Vallecchi curò la pubblicazione di due riviste, che diedero voce ai fermenti di rinnovamento sociale e culturale di ispirazione cattolica: “Il Frontespizio” di Piero Bargellini e Carlo Betocchi (1929-1940), che ospita un celebre saggio di Carlo Bo, Letteratura come vita (1936), e varie esperienze di poesia legate all’ermetismo; e “Campo di Marte” (1938-1939), diretta da Alfonso Gatto e Vasco Pratolini, più aperta alle questioni sociali del cosiddetto ‘fascismo di sinistra’. Anche a Milano la rivista “Corrente” (1938-1940) pubblica i testi dei poeti ermetici accanto a saggi sul dibattito contemporaneo sulla cultura, le arti e la politica. Infine, la posizione culturale più avanzata, all’interno dello stesso regime fascista, sarà quella di “Primato” (1940-1943), la rivista diretta dal ministro fascista Giuseppe Bottai, tentativo (troppo tardivo) di concedere maggiore libertà di espressione nell’arte e nella letteratura, e di coinvolgere gli intellettuali. Il più autentico respiro europeo era quello che si respirava nella redazione di “Solaria” (Firenze 1926-1936), diretta dal giovane Alberto Carocci e da Alessandro Bonsanti (fondatore poi, sempre a Firenze nel 1937, di “Letteratura”, che ne continuò l’indirizzo, su un piano più strettamente letterario): e basti ricordare, al proposito, un importante articolo del giovane antifascista Leo Ferrero, Perché l’Italia abbia una letteratura europea (1928). Per quanto era possibile all’interno del regime, “Solaria” coniugava l’impegno civile gobettiano con quello letterario rondiano. Fondamentale il ruolo giocato dalla rivista: sulle sue pagine si parla di Tozzi, Svevo, Saba, ma anche degli stranieri Proust, Kafka, Joyce, e vi pubblicano i giovani esordienti, Vittorini, Gadda, Pavese, Cassola, Pratolini, e i primi poeti ‘ermetici’. È insomma un vero laboratorio della cultura italiana, da cui emergeranno alcuni tra i maggiori scrittori del secondo dopoguerra. Negli anni Trenta un altro interessante fenomeno culturale è quello delle traduzioni di letteratura straniera. Nonostante il fascismo, in Italia si legge e si traduce moltissimo, e l’industria editoriale è fiorente e tutt’altro che provinciale. Tra queste traduzioni, si affermano presto gli scrittori americani, Faulkner, Saroyan, Hemingway, che portano, nel loro stile immediato come anche nel mondo che descrivono, una ventata di novità, un mito di vitalità, di forza di una civiltà giovane, meno corrotta e immobile della vecchia Europa. Questa scoperta dell’America culminerà con la ricca antologia Americana (1942), curata da Elio Vittorini.

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3.3. Svevo Il più importante romanzo del Novecento italiano è stato scritto da un signore con un nome poco ‘italiano’, Hector Aron Schmitz, più noto con lo pseudonimo di Italo Svevo (Trieste 1861-Motta di Livenza 1928), figlio di un piccolo imprenditore di origine ebraica. Trieste allora non era Italia, ma il principale porto dell’impero asburgico, vivacissimo centro commerciale e di incroci culturali e linguistici. Svevo era un ‘dilettante’ di letteratura straordinariamente aperto a esperienze culturali europee, dalla lettura di Darwin, Schopenhauer, Marx, i grandi romanzieri europei, fino ai contatti diretti con la psicoanalisi di Freud a Vienna (1910), e addirittura all’amicizia con Joyce. Dopo il fallimento del padre (1880), costretto a impiegarsi in banca, comincia a dedicarsi sempre più alla sua vera passione, che lo porta alla composizione di novelle, articoli, saggi e commedie. Nel tempo libero giunge a scrivere due romanzi (il primo pubblicato a sue spese) che restano quasi ignorati negli ambienti letterari italiani: storie di uomini grigi e mediocri, di inetti destinati ad un fallimento morale, alla sensazione dell’inutilità e della noia dell’esistenza. Il primo romanzo, Una vita (1892) (Svevo voleva intitolarlo L’inetto), racconta una vicenda quasi autobiografica. Un giovane e modesto bancario triestino, Alfonso Nitti, è scontento della sua condizione sociale, e sogna un’evasione impossibile per mezzo della gloria letteraria e del benessere economico. Cerca di raggiungere il suo sogno seducendo la figlia del padrone e datore di lavoro, ma invece di sposarla si dà alla fuga, e al ritorno finisce col morire in duello. La narrazione in terza persona, con focalizzazione interna, e profonda analisi psicologica, evidenzia un’influenza naturalistica che risale ad una attenta lettura di Flaubert. Ma il tema dominante resta quello dell’inettitudine, dell’incapacità di rispondere alla vita in modo forte e determinato. Il dissidio (che viveva lo stesso Svevo) era quello tra la grigia e chiusa esistenza piccolo-borghese e le aspirazioni intellettuali, potenzialmente infinite. Caratteri simili si ritrovano in Senilità (1898), storia di un impiegato di una società d’assicurazioni a Trieste. Emilio Brentani conduce un’esistenza prudente ma vuota con la sorella Amalia e l’amico artista Stefano Balli, suo eterno antagonista, dal carattere forte e seducente. Il grigiore quotidiano è sconvolto dalla relazione di Emilio con la popolana Angiolina, un legame iniziato come una insignificante avventura erotica e trasformatosi in una infatuazione ossessiva e gelosa, mentre la sorella, innamorata segretamente di Stefano, muore di polmonite. Il romanzo, che si conclude con il fallimento morale di Emilio, scorre su una rappresentazione tutta interiore. Emilio è un antieroe, che si finge portatore di ideologie di liberazione, e che viene



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sconfitto dal suo ‘doppio’ forte e vitale, Stefano, e dalla stessa Angiolina, fantasma della ‘salute’, della vitalità, di tutto quello che Emilio ha sognato di vivere, e in realtà non ha mai vissuto. Si spiega così anche il senso del titolo: la ‘senilità’ non corrisponde alla reale età anagrafica di Emilio, ma è una sorta di malattia dell’anima, una ‘vecchiaia’ morale opposta alla vitalità della ‘gioventù’, rappresentata da Angiolina. Gli anni difficili di Svevo intanto finiscono con il matrimonio con Livia Veneziani (1896), appartenente ad una ricca famiglia di industriali di vernici marine, nella cui attività si inserisce lo stesso Svevo, con soggiorni in Francia e in Inghilterra. Egli sembra allora abbandonare la letteratura, cui torna solo grazie all’incontro fortuito con James Joyce, suo insegnante d’inglese alla Berlitz School di Trieste, e all’inizio di un sodalizio intellettuale basato sullo scambio reciproco delle esperienze. Dopo la guerra inizia la composizione del terzo romanzo, La coscienza di Zeno (1923), che, ignorato in Italia, ha invece fortuna europea grazie a Joyce, e viene poi finalmente conosciuto in Italia grazie al giovane Montale. Svevo avrebbe pensato anche ad un nuovo romanzo, Il vecchione (lasciato ad uno stadio progettuale), continuazione del precedente, sul tema del contrasto con le nuove generazioni. La grande novità culturale è ora la psicoanalisi, cui si sottopone il protagonista del romanzo, un altro antieroe (come Alfonso, come Emilio), di nome Zeno Cosini. L’intero romanzo si presenta in effetti come un memoriale in prima persona che Zeno scrive per favorire l’analisi da parte del suo dottore. Dopo la prefazione del dottor S., e dopo un preambolo di Zeno sulla sua infanzia, il memoriale si presenta partito in grandi capitoli: il vizio del fumo e i disperati tentativi di uscirne, con il rituale dell’‘ultima sigaretta’; la morte del padre (con la memoria terribile della mano alzata del moribondo, in un ultimo gesto di minaccia e punizione); il matrimonio con Augusta (la meno bella fra tre sorelle, ‘soluzione di ripiego’ per Zeno che è già stato respinto dalle altre due, ma in compenso la più materna e affettuosa), la vita coniugale e l’inevitabile relazione con un’amante (la popolana Carla, simile all’Angiolina di Senilità); la vita lavorativa e il rapporto col cognato-socio Guido Speier (morto suicida). Nell’ultimo capitolo, intitolato Psico-analisi, Zeno si libera con astio del rapporto con il suo psicoanalista, e continua da solo, convinto di essere guarito, e ormai sanissimo. È solo allora che finisce la relazione indirizzata allo psicoanalista, e comincia un vero diario, le cui pagine sono marcate da date reali. Lo stile del ‘memoriale’ spiega anche la modernissima rivoluzione strutturale e stilistica cui arriva Svevo, in parallelo con la Recherche di Proust e

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l’Ulisse di Joyce: il racconto di una storia che non è la storia di Zeno, ma la storia della sua malattia, e quindi giocata tutta all’interno della sua rievocazione, sul sottile filo del rapporto verità-menzogna. Un rapporto che non riguarda solo Zeno, ma anche Svevo, perché investe gli stessi princìpi del fare letterario, nel rapporto con il lettore, superando il patto autobiografico. A differenza dell’autobiografia tradizionale, infatti, la narrazione in prima persona è ora finalizzata alla scrittura di un memoriale per un medico, operazione che risolve il problema del destinatario (fittizio o reale) delle scritture autobiografiche. Il tempo del racconto, pur in un generale sviluppo cronologico di tipo seriale e progressivo, non è quindi quello della realtà, ma può andare avanti e indietro, in una continua contaminazione dei livelli temporali, tra passato, presente e futuro. L’attenzione di Zeno si ferma su episodi particolari, su dettagli della vita quotidiana che possono ingigantire fino a diventare (come nella psicoanalisi) gli elementi di una semiotica patologica (ad esempio, la celebre descrizione dei tentativi di superare il vizio del fumo, dell’ultima sigaretta). Nella morbosa autoanalisi, impietosa è la descrizione dell’ambiente borghese di cui Zeno fa parte, accusatore e imputato allo stesso tempo sulla scena di un tribunale interiore. Dal punto di vista stilistico e linguistico, comunque, il rapporto fra interno ed esterno, tra soggettività e oggettività, non si fa sperimentalismo, come avviene invece in Joyce. Lo stile è colloquiale e antiretorico, lontano dalla tradizione nazionale della prosa (alcuni critici letterari dicevano che Svevo “scriveva male”), ma sempre controllato, senza giungere al monologo interiore pregrammaticale di Joyce, perché, in fondo, tutto il libro si muove nella finzione della scrittura (la scrittura di un diario), e non nell’oralità ‘mentale’. Continua è l’interferenza del ‘comico’, in sequenze celebri come quella in cui Zeno crede di seguire il feretro del cognato Guido, senza accorgersi di aver sbagliato funerale. Per quanto la vicenda si muova in una realtà interna che ha poco bisogno di quella esterna (molto limitati gli accenni a Trieste, o alla situazione politica e storica contemporanea), la Storia, quella che travolge tutti gli uomini senza distinzione, irrompe nella parte finale, con lo scoppio della guerra con l’Italia (1915). Lo stesso Zeno rischia di essere coinvolto nel primo giorno di guerra, sulla linea di confine. Ma Zeno ora si considera guarito, e comincia ad arricchirsi con alcuni loschi traffici di guerra. In realtà, la sua malattia è diventata la malattia universale e insanabile dell’umanità, che si getta nel massacro della guerra (“La vita umana è inquinata alle radici”), e porta all’inquinamento e alla distruzione della natura, con invenzione di terrificanti armi di sterminio, fino al giorno in cui “un uomo fatto come gli altri, ma



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degli altri un po’ più ammalato” finirà col distruggere il mondo e l’umanità intera. Una visione apocalittica, che sarebbe però diventata la tragica realtà di tutto il Novecento.

3.4. La prosa Nel primo Novecento la prosa italiana, dopo le grandi esperienze di Verga, Pirandello, Svevo, risente della crisi del romanzo che interessa l’intera cultura europea. Alle strutture lunghe e complesse si preferiscono le forme brevi della prosa d’arte, del bozzetto, del frammento, della novella, del racconto breve: forme veicolate sempre di più dalla stampa culturale periodica, a livello di diffusione di massa, per mezzo dei supplementi letterari dei quotidiani e dei periodici popolari. L’alfabetizzazione è più diffusa, il pubblico si allarga: si legge di più, ma più velocemente, e in modo più frammentario. Il fenomeno dell’allargamento del pubblico coinvolge soprattutto il pubblico femminile, e corrisponde all’ampliamento dei confini della scrittura delle donne, che tra Otto e Novecento si sviluppa nei territori della scrittura del sé, della memoria autobiografica o della proiezione in personaggi che rappresentano il difficile cammino di emancipazione e di libera espressione. Si tratta di una vera rivoluzione culturale: la donna, idolatrata come oggetto di piacere da D’Annunzio, o “disprezzata” dal maschio futurista Marinetti, non era quasi mai stata considerata, nella nostra tradizione letteraria, come scrittrice degna di questo nome, come lo erano all’estero Jane Austen, Elizabeth Barrett Browning, Emily Dickinson. Ora, accanto a Matilde Serao e Grazia Deledda, si afferma la figura di Sibilla Aleramo, che in Una donna (1907) rende una coraggiosa testimonianza autobiografica della condizione femminile del primo Novecento, e che avrebbe poi vissuto un’intensa e drammatica relazione con il poeta Dino Campana. Il punto di svolta della modernità novecentesca è segnato dagli anni della Grande Guerra. Per l’Italia, questa immensa tragedia collettiva sarebbe stata vissuta sui territori di confine con l’Austria, dal Trentino e dagli altopiani veneti alle colline del Carso, il cui paesaggio brullo, scarno, arido avrebbe influenzato buona parte della letteratura di guerra, diventando proiezione di una nuova condizione esistenziale. Alla vigilia della guerra, quel paesaggio era già emerso nella coscienza letteraria grazie ad uno scrittore triestino, Scipio Slataper (Trieste 1888-Podgora 1915), autore di una raccolta di prose intitolata Il mio Carso (1912), e pubblicata da “La Voce”. Slataper, allo scoppio della guerra, partì volontario nell’esercito italiano, e morì combattendo

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sulla stessa terra del Carso. La sua opera fu esempio di una prosa asciutta, antiretorica, aderente alle ‘cose’, vicina alla poesia, descrizione di un Carso “duro e buono” che lascia però presagire l’imminenza della tragedia: “La terra ha mille patimenti [...] tutti i tronchi hanno una cicatrice o una ferita”. Un simile autobiografismo antiretorico, sempre favorito dalla poetica de “La Voce”, percorre parte della letteratura di guerra, con figure come quella di Piero Jahier (Genova 1884-Firenze 1966), un intellettuale di severa spiritualità valdese, e poi antifascista, autore di Con me e cogli alpini (1920), racconto di un’intensa esperienza di fraternità e di umanità che cerca di andare oltre le differenze di classe, di casta, di cultura e di lingua. Un caso del tutto particolare di elaborazione di una prosa narrativa di grande originalità, nel panorama italiano (tra Verga, Pirandello e Svevo) ed europeo, è quello del senese Federigo Tozzi (Siena 1883-1920), che rappresenta la contemporanea difficoltà del vivere in romanzi solo apparentemente d’impianto realistico. Tutta l’opera di Tozzi, del resto, è segnata dallo stretto rapporto tra letteratura e vita. Difficile fu la stessa vita dello scrittore, un modesto impiegato delle Ferrovie che cerca nell’ambizione letteraria la risposta alle proprie inquietudini esistenziali: il complesso rapporto col padre piccolo proprietario terriero, i problemi di salute, la condizione di ‘irregolare’ negli studi e nella vita sociale e politica (ad esempio con l’adesione al partito socialista). Dopo i primi libri di poesie (La zampogna verde 1911, La città della Vergine 1913), le prime novelle e un abbozzo di romanzo (Adele), Tozzi cerca di uscire da una condizione di marginalità provinciale annodando contatti con il ‘gran mondo’ della cultura romana, con Pirandello e Borgese. Negli anni della guerra arriva così al frammentismo di Bestie (1917), brevi prose in cui lo stile raggiunge la sua maturità, nella metamorfosi surreale della tragedia umana in termini di antico bestiario morale. È una deformazione inquietante e soggettiva della realtà, vicina alla contemporanea novellistica di Pirandello. La medesima condizione è alla base della composizione dei romanzi, in cui si proietta la stessa vicenda umana di Tozzi. Con gli occhi chiusi (1920) racconta infatti l’aspro conflitto tra un padre-padrone e un figlio inetto. In Tre croci (1920) sono tre i protagonisti, tre fratelli, librai antiquari, accomunati dallo stesso destino di fallimento e di morte. Infine, il romanzo postumo Il podere (1921) presenta la figura autobiografica di un altro sconfitto, un impiegato alle Ferrovie, che torna nella sua terra dopo la morte del padre, per prendere possesso dell’eredità di un podere: esattamente la vicenda che visse lo stesso Tozzi, quando ebbe in eredità un podere a Castagneto, ultima porzione rimastagli delle proprietà paterne. Per il protagonista non è l’ini-



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zio di una nuova vita, più autentica e più vera, ma la scoperta della realtà amara, arretrata e deforme della società rurale. È un mondo di contadini ossessionati (come il Mastro Don Gesualdo di Verga) dall’idea del possesso, della ‘roba’, della sopravvivenza, uomini-bestie che giungono all’omicidio del nuovo proprietario, che intanto aveva già deciso di disfarsi dell’eredità. La novità della scrittura tozziana, rispetto ad altri narratori contemporanei, è nel tentativo di avvicinare la lingua al parlato, dando ampio spazio al dialogo tra i personaggi, con scambi incalzanti di brevi battute, uso di espressioni idiomatiche e popolari toscane e senesi, ricorso al discorso indiretto libero. La prosa tende a scorrere veloce e incisiva, caratterizzata dalla paratassi e dalle figure di accumulazione ed enumerazione. Ma è un’esperienza che, all’epoca, resta abbastanza isolata, rispetto agli indirizzi prevalenti della cultura italiana. Nel primo dopoguerra, l’avvento del fascismo orienta in generale la narrativa verso forme di evasione dalla realtà politica e sociale. A livello popolare, il genere del romanzo conosce una nuova fortuna con il romanzo di consumo, affermatosi con autori come Guido Da Verona, Dino Segre detto Pitigrilli, Virgilio Brocchi, e Amalia Odescalchi, celebre con lo pseudonimo di Liala attribuitole da D’Annunzio. Si tratta di una vasta produzione che riprende temi tardoromantici, decadenti e dannunziani, abbandonandone però i caratteri eccezionali e superomistici, e adattando le vicende all’immaginario medio-borghese, con i suoi sogni di realizzazione sociale, le pulsioni erotiche, la satira di costume. A livello di cultura ‘alta’ prevale il cosiddetto realismo magico, promosso dal direttore della rivista “900”, Massimo Bontempelli (Como 1878-Roma 1960), vicino al surrealismo francese, basato sull’irruzione del fantastico, dell’inconscio, del sogno, dell’assurdo nella banalità della realtà quotidiana. All’inizio Bontempelli si dimostra attento agli sviluppi della moderna società industriale, nei romanzi brevi La vita intensa e La vita operosa (1920), che però già interpretano la vita contemporanea in un quadro paradossale e comico, frantumando la struttura romanzesca in una serie di episodi staccati. Il passaggio ad una dimensione irreale, non lontana da Pirandello e dalla pittura metafisica, avviene con La scacchiera davanti allo specchio (1922), ed Eva ultima (1923). L’influenza pirandelliana torna anche nella più celebre opera teatrale di Bontempelli, Minnie la candida (1926), vicenda surreale di una fanciulla semplice a cui viene fatto credere che parte dell’umanità sia composta di esseri ‘fabbricati’ (cioè artificiali, una sorta di robot o di replicanti) e indistinguibili da quelli veri; credenza che, divenuta ossessione

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di essere lei stessa una creatura ‘fabbricata’, la spinge fatalmente al suicidio. Dietro l’apologo, c’è evidentemente l’inquietudine per una civiltà in cui tutto sta diventando ‘fabbricato’, anche il cielo notturno illuminato dalle luci delle insegne pubblicitarie. Bontempelli avrebbe poi continuato il filone del realismo magico nelle opere successive, dai racconti di La donna dei miei sogni e altre avventure moderne (1925) ai romanzi brevi Il figlio di due madri (1929) e Vita e morte di Adria e dei suoi figli (1934). La tendenza alla deformazione surreale della realtà raggiunge i suoi risultati più interessanti in Alberto Savinio, pseudonimo di Andrea de Chirico, fratello del grande pittore metafisico Giorgio (Volos, Grecia 1891-Roma 1952), autore di un singolare plurilinguistico prosimetro intitolato Hermaphrodito (1918), sospeso tra mito e autobiografia. E il mito classico è fondamentale anche per altri suoi testi: Angelica o la notte di maggio (1926), che attualizza la favola di Amore e Psiche; e i racconti di Achille innamorato (1926). Scrittore ‘magico’ sarà ancora Antonio Delfini (Modena 1907-1963), che fa emergere una Modena surreale e onirica nei racconti de Il ricordo della Basca (1938), dominati dall’idea che “la vita è piena di piccole cose inspiegabili”, di eventi perturbanti che sconvolgono la tranquilla vita della provincia italiana (Il fanalino della Battimonda 1940, La Rosina perduta 1957). Tommaso Landolfi (Pico Farnese 1908-Ronciglione 1979) è il principale autore del genere fantastico, legato all’eredità di Gogol, Poe, Kafka, e dominato dall’orrore dell’incubo. Landolfi esordisce sulla rivista “Letteratura” con i sette racconti del Dialogo dei massimi sistemi (1937), in bilico tra reale e irreale, filosofia e ironia. Anche in Landolfi si riconosce l’idea del ‘perturbante’, teorizzata da Freud, e presente negli ultimi racconti di Pirandello: la smagliatura in una situazione apparentemente normale, banale, quotidiana, che si trasforma improvvisamente in un incubo. Ne La pietra lunare (1939) si svolge ad esempio la storia di una inquietante relazione amorosa tra uno studente e una strana fanciulla ‘lunare’, Gurù, che si scopre essere una “capra mannara”, con tanto di zoccoli al posto dei piedi. La poetica ‘fantastica’ di Landolfi continua con i suoi racconti e romanzi brevi (Il mar delle blatte e altre storie 1939, La spada 1942, Le due zitelle 1945, Racconto d’autunno 1947, Cancroregina 1950), fino ad arrivare allo sperimentalismo diaristico di La bière du pecheur (1953): un titolo volutamente ambiguo per una storia altrettanto ambigua, e che potrebbe essere tradotto indifferentemente come ‘la birra del pescatore’ o ‘la bara del peccatore’. Nei suoi ultimi anni Landolfi avrebbe approfondito una raffinata scrittura diaristica (Rien va 1963, Des mois 1967), le ultime raccolte di racconti (Tre racconti 1964, Un amore del nostro tempo 1965, Racconti impossibili 1966, Le



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labrene 1974, A caso 1975), e infine una significativa e conclusiva esperienza poetica, nella linea del testo-frammento (Breve canzoniere 1971, Viola di morte 1972, Tradimento 1977). Anche Dino Buzzati (San Pellegrino, Belluno 1906-Milano 1972), accanto ad una lunga attività giornalistica nel Corriere della Sera, ha sviluppato una propria inconfondibile scrittura ‘fantastica’, a iniziare dalla storia favolosa del guardiaboschi Bàrnabo delle montagne (1933). Soprattutto nel romanzo Il deserto dei Tartari (1940) Buzzati esprime il senso di attesa angosciosa, surreale e assurda, di qualcosa che, nell’Italia immobile di allora (incerta tra la neutralità e la guerra), sembrava non arrivare mai: come appunto le orde barbariche dei Tartari, attese invano da un ufficiale dagli spalti di una fortezza sperduta nel deserto. Segni enigmatici e oscuri percorrono ancora I sette messaggeri (1942), e tutte le successive raccolte di racconti ‘fantastici’ (Paura alla Scala 1949, Sessanta racconti 1958, Il colombre 1966, La boutique del mistero 1968). Ma Buzzati ha praticato anche altri generi: la favola per l’infanzia de La famosa invasione degli orsi in Sicilia (1945), corredata di vivaci illustrazioni dello stesso autore; la fantascienza (Il grande ritratto 1960), e il romanzo psicologico (Un amore 1963). L’ambiente della rivista “Solaria” (1926-1936) è decisivo per la formazione di molti giovani scrittori, che elaborano uno stile aperto a suggestioni europee, ad iniziare dal direttore Alessandro Bonsanti (Firenze 1904-1984), influenzato da Proust, autore di racconti ‘solariani’ (La serva amorosa 1929, I capricci dell’Adriana 1934, Racconto militare 1937), e di un tardo romanzo (La buca di San Colombano 1973). Arturo Loria (Carpi 1902-Firenze 1957) appare sospeso tra realismo e fantasia in racconti dominati dall’incontro con la figura femminile (Il cieco e la Bellona 1928, Fannias Ventosa 1929, La scuola di ballo 1932), e impegnato nella stesura di un incompiuto romanzo autobiografico (Le memorie inutili di Alfredo Tittamanti). Giovanni Comisso (Treviso 1895-1969) è attratto maggiormente da una tematica vitalistica e avventurosa (soprattutto nel romanzo Gente di mare 1928), riflessa da un’ininterrotta passione per la scrittura di viaggio, dall’Africa all’Oriente. Infine, Gianna Manzini (Pistoia 1896-Roma 1974) elabora una originale scrittura della memoria, tra suggestioni di Proust e di Virginia Woolf, dal suo primo romanzo Tempo innamorato (1928) alle ultime prove La sparviera (1956) e Ritratto in piedi (1971). Trascurato è ormai il romanzo storico di ampio sviluppo e di ascendenza ottocentesca, che viene in effetti coltivato dal solo Riccardo Bacchelli

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(Bologna 1891-Monza 1985), collaboratore della “Voce” e della “Ronda”, e già autore di racconti surreali in Lo sa il tonno (1923). Riprendendo suggestioni di Manzoni, Nievo, Verga, e dei romanzieri francesi e russi, Bacchelli torna alla ricostruzione d’epoca con Il diavolo al Pontelungo (1927), racconto dell’attività rivoluzionaria dell’anarchico russo Michail Bakunin e del socialista Andrea Costa in Emilia-Romagna (1873-1876): un’operazione interessante perché la storia (pur privata degli elementi più forti di lotta ideologica e sociale) è rivissuta dal punto di vista della gente e dei braccianti della ‘bassa’, e in questo modo alcuni personaggi storici come Bakunin acquistano caratteri mitici e leggendari. La figura spiritata del vecchio anarchico, nell’immaginario popolare, si sovrappone così all’icona del ‘diavolo’ che, secondo una vecchia leggenda contadina, sarebbe stato cacciato dall’arciprete del paese. Il racconto storico era per Bacchelli un processo di elaborazione fantastica di dati provenienti dalla cronaca e dalla storia, come dimostrano i contemporanei scritti saggistici come La congiura di don Giulio d’Este (1931). Elaborazione destinata ad estendersi alla narrazione di lungo periodo, nell’enorme trilogia de Il mulino del Po (1940): uno dei rari esempi del genere del romanzo ciclico nella narrativa italiana, in cui si traccia la storia di più generazioni della bassa padana per oltre cento anni di storia, da Napoleone alla Prima Guerra Mondiale, con gusto e felicità del racconto, e predilezione per uno stile diretto, colloquiale, vicino al parlato. La ricerca di un linguaggio ‘popolare’ e di una leggerezza di scrittura continua nella vasta produzione romanzesca successiva, che non si limita al solo versante storico, ma offre delle prove interessanti in altre direzioni: il romanzo di ispirazione religiosa (Il pianto del figlio di Lais 1945, Lo sguardo di Gesù 1948, Il coccio di terracotta 1966), in particolare sulla figura di san Francesco (Non ti chiamerò più padre 1959); e il romanzo di costume d’ambientazione contemporanea (La città degli amanti 1929, Una passione coniugale 1930, Oggi domani e mai 1932, Rapporto segreto 1967, L’Afrodite 1969). Dopo Verga e il Verismo, la rappresentazione del Mezzogiorno d’Italia comincia ad acquisire consapevolezza dei problemi della Questione meridionale, vissuti dal punto di vista delle classi subalterne. Il mondo contadino e rurale della Calabria è rievocato da Corrado Alvaro (San Luca 1895-Roma 1956), uno scrittore calabrese vicino a Bontempelli e alla rivista 900, che ritorna idealmente alla sua terra con il romanzo Gente in Aspromonte (1930). Il tema principale è l’assoluta difficoltà del vivere, contro cui lotta invano la famiglia del povero pastore Argirò, cacciato dal padrone per averne perso la mandria, e perseguitato dal destino che finisce col coinvolgere anche i



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suoi figli, di cui il maggiore diventa brigante. Come in una tragedia greca, l’agire dell’uomo è dominato e schiacciato da una realtà incomprensibile e assurda, una realtà che viene quindi descritta in modo non realistico ma lirico e quasi mitico. Ne deriva uno stile apparentemente semplice, aderente al modo di pensare dei pastori, basato su strutture paratattiche e su un periodare staccato di frasi brevi, scabre, incisive, statuarie. Oltre l’orizzonte calabrese, Alvaro affida soprattutto alla scrittura giornalistica e all’attività di inviato dei quotidiani italiani all’estero la viva coscienza di una crisi irreversibile della civiltà europea tra le due guerre, come si nota già nel romanzo breve L’uomo nel labirinto (1922). Grazie a questa proiezione internazionale (inconsueta negli anni del regime fascista), è in grado di vivere da testimone la deriva totalitaria del vecchio continente, dallo stalinismo al nazismo. La sua esperienza approda ad un romanzo allegorico e surreale sul totalitarismo, L’uomo è forte (1938), che, dopo un’iniziale censura fascista, poté essere pubblicato solo con l’avvertenza che la vicenda era ambientata nella Russia di Stalin. La voce critica di Alvaro avrebbe colpito poi anche i mali del consumismo contemporaneo, nel romanzo postumo incompiuto Belmoro (1957). Ma sarebbe anche tornata a raccontare la storia di un giovane del Sud (Rinaldo Diacono) nella trilogia autobiografica incompiuta e postuma (L’età breve 1946, Mastrangelina 1960, Tutto è accaduto 1961). Un diretto impegno politico è quello di Ignazio Silone, pseudonimo di Secondo Tranquilli (Pescina dei Marsi 1900-Ginevra 1978), che inizia a prendere parte alle lotte sociali della sua gente, partecipa con Gramsci alla fondazione del Partito Comunista (1921), ed è costretto all’esilio in Svizzera. Espulso anche dal partito perché ostile a Stalin, vive la tragedia della morte del fratello Romolo nelle carceri fasciste (1932), accusato ingiustamente di un attentato che non aveva commesso. Sull’orlo del suicidio, trova una ragione di vita nella letteratura, nel recupero memoriale della sua terra e della lotta dei suoi contadini (chiamati spregiativamente ‘cafoni’ dai ‘signori’) per la libertà, per la giustizia sociale, per il semplice riconoscimento della dignità umana. Scrive allora romanzi di forte coinvolgimento morale come Fontamara (1933) e Vino e pane (1937): le prime edizioni escono in traduzione tedesca, e diventano subito best-sellers mondiali che, tradotti in inglese, arriveranno in Italia negli zaini dei soldati americani nel ’43. La poesia della terra e degli umili tornerà anche nella narrativa successiva di Silone, da Il segreto di Luca (1956) fino a L’avventura d’un povero cristiano (1968), singolare ricostruzione della vicenda umana dell’eremita abruzzese Pier dal Morrone, che, eletto papa col nome di Celestino V (1295), avrebbe subito rinunciato al papato per tornare ad una vita autentica di spiritualità.

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Ridotto, per ovvi motivi di ostilità da parte della cultura ufficiale del regime, è lo spazio del romanzo sociale di ambientazione urbana e industriale. Uno dei rari esempi di narrativa ispirata al mondo operaio viene sorprendentemente dalla Napoli degli anni Trenta, a ricordarci che Napoli, nonostante i suoi mali endemici, era comunque una delle prime città industriali del paese. Si tratta di Tre operai (1934) di Carlo Bernari, pseudonimo di Carlo Bernard (Napoli 1909-Roma 1992), un dirigente industriale aperto a esperienze internazionali, e in contatto con la cultura francese d’avanguardia. È un coraggioso sguardo ai problemi della classe operaia, attraverso la storia di due uomini e una donna che lavorano in una grande lavanderia industriale. La loro vita scorre in un orizzonte privo di speranze di miglioramento, oltre il quale si intravede l’oppressione delle classi dominanti e del regime fascista. La prosa di Bernari, modernissima e veloce, adotta integralmente il punto di vista dei suoi personaggi, con l’uso frequente del dialogo e della narrazione al tempo presente. L’attenzione linguistica dello scrittore si sarebbe poi aperta anche al dialetto (Prologo alle tenebre 1947), e alla narrativa neorealista (Speranzella 1949), che era stata già così efficacemente anticipata nel suo primo romanzo. Anche le prime opere di Romano Bilenchi (Colle Val d’Elsa 1909Firenze 1989), inizialmente legato alla rivista strapaesana “Il selvaggio” e al cosiddetto ‘fascismo di sinistra’, tentano di rappresentare la condizione operaia (Il capofabbrica 1935). Ma la narrativa di Bilenchi tenderà in seguito ad approfondire il recupero della memoria individuale, inquadrando gli affetti familiari tra una madre e un figlio (Anna e Bruno 1938), e la storia intensa di un bambino cresciuto in collegio (Conservatorio di Santa Teresa 1940).

3.5. Moravia Nel campo del romanzo borghese di argomento contemporaneo esordisce il giovanissimo Alberto Moravia, pseudonimo di Alberto Pincherle (Roma 1907-1990), che, dopo un’adolescenza segnata dalla tubercolosi, collabora alla rivista “900” di Bontempelli con i suoi primi racconti, ad iniziare dallo splendido La cortigiana stanca (1927). Due anni dopo esce il primo romanzo, Gli indifferenti (1929), pubblicato a spese dell’autore, ritratto di un interno borghese, con le sue meschinità e le sue ipocrisie, che viene letto come un atto di accusa alla realtà contemporanea, e indirettamente allo stesso regime fascista, responsabile della decadenza morale del presente. È il libro di un ventenne, ma è già un capolavoro, perfetto nella struttura e nello stile asciutto della prosa essenziale e realistica. Ormai, dopo Proust, Svevo, Freud, l’analisi



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psicologica è attenta e scaltrita, il personaggio parla tra sé e svela tutta la sua mediocrità, la sua debolezza, interiore ancor più che esteriore. Negli Indifferenti si rappresenta la squallida storia di un giovane inetto (come Rubè di Borgese), Michele, che vorrebbe uccidere Leo, un cinico affarista che è stato l’amante di sua madre Mariagrazia e della sua attuale amica Lisa, e ora addirittura corteggia sua sorella Carla; il tentativo di omicidio fallisce (come tutti gli altri ‘astratti furori’ di Michele), e il tutto finisce nell’accettazione e nell’indifferenza. Nella struttura del romanzo è evidente la ripresa dal modello più importante della moderna narrativa italiana, i Promessi sposi, che vengono però rovesciati nelle relazioni perverse della vita borghese. Nella rappresentazione dei personaggi e delle loro azioni è ora determinante l’influsso di Pirandello e del teatro del grottesco, che svela il rapporto tra verità e finzione, e fa emergere i veri ‘valori’ di questa nuova società, nascosti sotto la maschera del perbenismo: il sesso e il denaro. Significativo è anche il fatto che Moravia ritorni al romanzo negli anni in cui sembra prevalere la prosa d’arte, il frammento, il racconto lungo. A questa scelta non è estranea la frequentazione dei grandi scrittori europei, in particolare russi, come Dostoevskij, che influenza il romanzo successivo (Le ambizioni sbagliate 1935). Negli anni Trenta Moravia non riesce però a restare sul piano di felicità narrativa raggiunta con la prima opera, e sembra ripiegare verso la forma del racconto di ispirazione realistica (La bella vita 1935, L’imbroglio 1937), e anche surreale (I sogni del pigro 1940). Dopo il matrimonio con Elsa Morante (1941) e gli anni difficili della guerra, Moravia si mantiene fedele all’impostazione originaria della sua narrativa, interessandosi poco al neorealismo, e continuando a rappresentare invece la decadenza morale della borghesia italiana dal suo interno, con un’attenzione particolare alla sfera sessuale, taciuta o rimossa dal perbenismo ipocrita. Significativa è la storia di Agostino (1945), iniziazione erotica di un adolescente in vacanza, che vive un morboso rapporto con la madre, giungendo alla scoperta della falsità dei rapporti sociali. In La disubbidienza (1948) è un altro adolescente, Luca, che tenta invano di ribellarsi ai disvalori borghesi, soprattutto alla religione del dio-denaro; e la crisi della coscienza borghese è ancora al centro de L’amore coniugale e Il conformista (1951). Un avvicinamento alla poetica neorealista avviene con La romana (1947), ritratto di una giovane prostituta che nonostante tutto conserva una sua innocenza interiore. Ma è decisiva, negli anni Cinquanta, l’attenzione al mondo del sottoproletariato amato da Pasolini, per la genesi dei Racconti romani (1954), e de La ciociara (1957): racconto, quest’ultimo, ambientato durante la guerra, all’epoca dell’avanzata degli Alleati nel basso Lazio, con

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protagoniste due donne, madre e figlia, che dopo aver perduto tutto devono sottostare anche alla brutale violenza dei soldati. Le ultime opere di Moravia risentono dei mutamenti culturali degli anni Sessanta e Settanta. In pieno clima esistenzialista nasce La noia (1960), romanzo-saggio in prima persona che sembra segnare il ritorno agli Indifferenti, storia del pittore Dino che perde ogni ispirazione artistica, e vive la relazione con la modella Cecilia pagando il sesso col denaro. L’attenzione (1965) mette in scena la crisi profonda di uno scrittore contemporaneo, in una forma sperimentale mista di racconto e diario. Io e lui (1971) torna sulla tematica della sessualità nel contesto della ‘liberazione sessuale’. Infine, l’adeguamento all’attualità degli ‘anni di piombo’ e del terrorismo è evidente ne La vita interiore (1978), tragica iniziazione alla vita e al sesso di una ragazza della Roma ‘bene’, in uno squallido contesto borghese.

3.6. La poesia L’esordio poetico del Novecento sembra segnato da due figure apparentemente contrapposte, ma che in realtà condividono una serie di legami con il decadentismo europeo, Pascoli e D’Annunzio. Si sviluppano allora alcune linee poetiche, esteriormente molto diverse tra loro, ma egualmente in debito nei confronti dell’eredità simbolista e decadente. La prima è segnata dal ripiegamento sull’Io, vissuto con un’ironia sentimentale che acuisce un senso di malinconia, di nostalgia per la vita che fugge e trascolora, còlta nel momento del passaggio, della metamorfosi. È una poesia che predilige i toni sfumati, melodici, semplici, lontani dalla retorica di Carducci o D’Annunzio, i paesaggi nell’ora e nei colori del crepuscolo, al punto da far definire questo tipo di poesia crepuscolarismo. La definizione (spregiativa) era di Borgese (1909), e riguardava poeti come il provinciale e dimesso Marino Moretti (Cesenatico 1885-1979), autore delle Poesie scritte col lapis (1910), e soprattutto il romano Sergio Corazzini (Roma 1886-1907), morto giovanissimo di tisi, che in Piccolo libro inutile (1906) proietta il suo sentimento di morte sulle cose e le persone che lo circondano (Per un organo di Barberia), giungendo ad affermare in Desolazione del povero poeta sentimentale: “Io non sono un poeta. / Io non sono che un piccolo fanciullo che piange”. È il rovesciamento totale della figura del poeta-vate di D’Annunzio, che era il modello odiato-amato delle giovani generazioni, come anche di Guido Gozzano (Torino 1883-1916), un poeta della buona borghesia torinese che abbandona l’apprendistato dannunziano con un’ironia sottile che agisce



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soprattutto sulla lingua e sulla metrica. Determinante era stata per Gozzano la relazione, umana e intellettuale, con una poetessa come Amalia Guglielminetti; ma anche la difficile vicenda esistenziale, segnata dalla malattia della tisi, che lo scrittore cercò invano di alleviare con un viaggio in India (1912), raccontato in Verso la cuna del mondo. L’ironia stilistica accosta (con effetto talvolta comico) il lessico aulico e quello quotidiano (con rime sorprendenti: Nietzsche-camicie), la poesia e la prosa, le irraggiungibili tensioni ideali (dal romanticismo all’estetismo) e la banale realtà quotidiana. Alla base è la rievocazione ironica del passato, degli oggetti (non ‘belli’, ma kitsch, ninnoli, soprammobili, pendole, pappagalli impagliati) che si accumulano, di generazione in generazione, nei salotti delle case borghesi (“le buone cose di pessimo gusto”). La fantasia poetica, ad esempio, può partire dal dettaglio di una vecchia fotografia che ritraeva la nonna quand’era giovane, in compagnia di un’amica, in L’amica di Nonna Speranza (“Quel giorno – malinconia – vestivi un abito rosa, / per farti – novissima cosa! – ritrarre in fotografia”). Alla donna fatale dannunziana ci si può anche accontentare di preferire una fanciulla di provincia “quasi brutta, priva di lusinga”, La signorina Felicita ovvero la Felicità, nel vagheggiamento della semplicità, nel sogno di essere un “uomo d’altri tempi, un buono / sentimentale giovine romantico ... / Quello che fingo d’essere e non sono!”. Il sogno di semplicità, di innocenza, è lo stesso che percorreva tutto il decadentismo (e anche D’Annunzio, in Poema paradisiaco). Ancora da una lirica di Baudelaire derivava il titolo di un ultimo poemetto, Totò Merùmeni, strana deformazione del greco Heautontimorùmenos (‘punitore di se stesso’, titolo di una commedia di Terenzio), ritratto di un “vero figlio del tempo nostro”, che passa dalle aspirazioni superomistiche e dal sogno erotico di attrici e principesse esotiche alla realtà di tutti i giorni, e alla sua vera amante, la cuoca diciottenne che, finite le pulizie in cucina, sale nella camera da letto del padrone, per un’ultima corvée. Il tono crepuscolare è condiviso da altri poeti contemporanei, che poi si lasciano attrarre dal futurismo, come Corrado Govoni (Copparo 1884-Anzio 1965), che sviluppa una sua originale cifra stilistica di tipo impressionista, nella descrizione dei paesaggi (Crepuscolo sul Po). Aldo Palazzeschi, pseudonimo di Aldo Giurlani (Firenze 1885-Roma 1974), è crepuscolare in liriche come Chi sono? (“Chi sono? / Il saltimbanco dell’anima mia”), in cui già si manifesta la tendenza al divertimento dissacrante, al clownismo di suoni e onomatopee, che trova la sua realizzazione nei Poemi (1909) come Fontana malata, e nel futurista L’incendiario (1910), dove

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compaiono liriche ‘eversive’ nei confronti della tradizione poetica come Lasciatemi divertire, Comare Coletta, Passeggiata. Il carattere di Palazzeschi resterà sempre quello del riso e della comicità, dalla fiaba allegorica delle peripezie di un uomo fatto di ‘fumo’ nel Codice di Perelà (1913), alla conversione ‘vociana’, e alla prosa romanzesca de Le sorelle Materassi (1934), malinconico ritratto d’ambiente fiorentino, in cui la tranquilla vita di due vecchie sorelle zitelle viene sconvolta dall’arrivo di un giovane e scapestrato nipote. Indipendentemente dalle etichette critiche, il primo Novecento favorisce la formazione di ‘poeti in rivolta’, ostili all’establishment sociale e culturale, irregolari e tardo-scapigliati, come Gian Pietro Lucini (Milano 1867-Breglia 1914), che nelle sue Rivolverate (1909), pubblicate con prefazione di Marinetti, rivela comunque una memoria civile pariniana nella satira plurilinguistica della Canzone del Giovane Signore. Il più irregolare di tutti, poeta autodidatta e giramondo, protagonista di una drammatica storia d’amore con Sibilla Aleramo, segnato da una malattia mentale che lo portò all’internamento definitivo in manicomio, fu Dino Campana (Marradi 1885-Castelpulci 1932). Nei Canti orfici (1914) Campana giunge a una forma rivoluzionaria di poesia visionaria, basata non sulla descrizione delle cose ma sull’intuizione della loro vita profonda. È un processo parallelo a quello delle avanguardie figurative contemporanee, in particolare il cubismo, e la pittura metafisica di De Chirico. I testi si collocano a metà fra la prosa e la poesia, con moduli di ripetizione, e influenze decadenti e simboliste, come è evidente ne La chimera, visione dell’archetipo femminile che, nella memoria di Leonardo, rinvia a Les phares di Baudelaire. L’inquieto vagabondare di Campana va dall’Europa all’America Latina, all’Argentina, e ci offre squarci luminosi e vitali di realtà lontanissime, dalle montagne alpine e appenniniche a paesaggi urbani metafisici, dal porto di Genova al cielo stellato sull’oceano e sulle pampas argentine. Il testo più avanzato, anche dal punto di vista formale, è il poema in prosa intitolato La Verna, cronaca visionaria di un pellegrinaggio a piedi da Marradi al santuario francescano della Verna, attraverso l’Appennino e la Falterona (un viaggio realmente avvenuto nel 1910); seguendo la finzione diaristica dei luoghi e delle date, Campana ricostruisce in una successione di brevi prose poetiche un percorso onirico e interiore, che si richiama al processo di scomposizione del cubismo. Visionario è anche Clemente Rebora (Milano 1885-Stresa 1957), che nei Frammenti lirici (1913), pubblicati dalla “Voce”, sembra rappresentare al meglio la prima tendenza della rivista fiorentina a privilegiare una poesia fatta di slanci lirici per frammenti e illuminazioni, una dialettica spirituale



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profonda che porterà Rebora ad una grave crisi esistenziale (dovuta anche alla cruda esperienza della guerra, riflessa in poesie terribili e cruente) e alla conversione ad un cattolicesimo mistico e al sacerdozio. “La Voce” ospitava anche poeti come Camillo Sbarbaro (Santa Margherita Ligure 1888-Savona 1967), autore di Resine (1911) e Pianissimo (1914), che presentavano una nuova freschezza ritmica e linguistica, che lo differenzia in sostanza dagli altri ‘vociani’. La sua poesia si colloca nel segno della semplicità discorsiva che era stata dei crepuscolari, della comunicazione franca e diretta degli stupendi versi al padre (“Padre, se anche tu non fossi il mio / padre, se anche fossi a me un estraneo, / fra tutti quanti gli uomini già tanto / pel tuo cuore fanciullo t’amerei”). Non mancavano echi della tradizione (Leopardi), e in particolare Sbarbaro legava fortemente la sua poesia ai luoghi della sua esistenza umana, la Liguria, con un processo di metamorfosi poetica che poi sarà continuato da Montale. Gli anni tra le due guerre furono caratterizzati da un ‘ritorno all’ordine’ (rappel à l’ordre, un’espressione coniata in Francia da Jean Cocteau, dopo l’ubriacatura delle avanguardie). Se ne faceva carico la rivista “La Ronda” (1919-1922), con Vincenzo Cardarelli (pseudonimo di Nazareno Caldarelli)(Corneto Tarquinia 1887-Roma 1959), socialista da giovane, amante della Aleramo, poi vociano e amico di Bacchelli, impegnato in una lunga attività giornalistica e di promozione culturale, soprattutto nei caffè letterari romani. Cardarelli si distingue per una raffinata ricerca stilistica nella prosa d’arte, come testimoniano le sue numerose raccolte (Viaggi nel tempo 1920, Terra genitrice 1924, Favole e memorie 1925, Il sole a picco 1929). La raccolta definitiva delle Poesie (1958) presenterà solo 79 testi, in un processo di rarefazione formale in cui è importante la ripresa della tradizione poetica italiana, contro il frammentismo e il crepuscolarismo. Il modello principale è il Leopardi degli Idilli, di una poesia meditativa non soggettiva e non impressionistica, che in liriche memorabili come Adolescente cerca di cogliere istanti di bellezza oltre le illusioni della vita. Negli anni Venti si tende a elaborare una poesia che, a partire da alcuni testi di Montale e Ungaretti, sembra costruire un sistema ‘chiuso’, quasi iniziatico, e talvolta oscuro ed incomprensibile, di immagini e di simboli, al punto da essere definita ‘poesia ermetica’ (con senso spregiativo) dal critico letterario Francesco Flora (1936). La definizione di Flora viene respinta da Carlo Bo, nel saggio Letteratura come vita (1938), che difende il valore di una poesia pura che tende verso la verità, verso l’assoluto. Ma intanto la

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parola ‘ermetica’ era stata accolta nel linguaggio critico, e da quel momento si può parlare di auto-identificazione di una ‘scuola’, chiamata ermetismo, a cui si richiamano alcuni dei poeti contemporanei (ma non Montale). In realtà, anche la definizione di ‘scuola’ può apparire problematica: si trattò piuttosto di una fase attraversata da molti poeti italiani negli anni Trenta, e poi superata attraverso nuove esperienze. L’ermetismo, in fondo, riprendeva alcuni elementi della poesia decadente europea (la poesia pura, l’essenzialità primordiale della parola, lo stile simbolico e analogico), portandovi la novità del surrealismo e dell’esistenzialismo. A fronte di una profonda crisi morale ed esistenziale, la rete simbolica si chiude in se stessa, e sembra diventare assurda, priva di significato. È una poesia frammentaria, evocativa, all’inizio sganciata dalla realtà e lontana da ogni forma di impegno politico, anche se poi diversi poeti ermetici saranno antifascisti, come Alfonso Gatto (Salerno 1909-Capalbio 1976), passato dalla raccolta ermetica Isola (1932) alla poesia civile della Resistenza. Un ruolo di guida nell’ermetismo è riconosciuto a Salvatore Quasimodo (Modica 1901-Napoli 1968). Il giovane Quasimodo lascia presto la Sicilia per seguire il padre capostazione, e per un impiego al Genio Civile, sostituito poi da un esclusivo impegno culturale, nel giornalismo e nell’insegnamento, tra Milano e Firenze, dove partecipa al circolo delle riviste “Solaria” e “Letteratura”, con Vittorini, Montale e Bonsanti. Nel primo libro, Acque e terre (1930), è ancora forte la memoria della Sicilia lontana, trasfigurata in liriche celebri come Vento a Tìndari. Ma già nel successivo Oboe sommerso (1932) la poesia si arricchisce di quella rete simbolica raffinata e oscura che sarà poi detta ‘ermetica’, caratterizzata in Quasimodo da una particolare forma di astrazione, e di uso dell’analogia, concentrata in forme epigrammatiche e folgoranti. Ne dànno testimonianza anche le raccolte successive di segno ‘ermetico’, Erato e Apollion (1936), e soprattutto Ed è subito sera (1942), il cui titolo deriva dall’epigrafica conclusione della sua poesia più conosciuta: “Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera”. La ricerca stilistica di Quasimodo è importante anche per il ritorno ai miti e ai classici antichi, greci e latini, un cammino che percorreva contemporaneamente lo stesso Ungaretti. I classici sono sentiti vivi e presenti, e ricreati in assidui esercizi di traduzione (dai lirici greci a Catullo). Dopo la seconda guerra mondiale Quasimodo avrebbe abbandonato del tutto la fase ermetica, per arrivare a un nuovo impegno civile e morale (Alle fronde dei salici, Lamento per il Sud ), che sarebbe stato coronato dal Premio Nobel nel 1959.



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La poesia dialettale, negli anni del fascismo, per la preponderanza culturale e scolastica della lingua italiana e l’ostracismo del regime, viene ridotta ad uno spazio sempre più ristretto, dal quale emergono comunque alcuni grandi poeti, che continuano la tradizione ottocentesca di Belli e Porta: a Roma il ‘belliano’ Carlo Alberto Salustri detto Trilussa (Roma 1871-1950); e a Milano l’espressionista ‘portiano’ Delio Tessa (Milano 1886-1939), autore della straordinaria polifonia di L’è ’l dì di mort, alegher! (1932), rappresentazione collettiva dell’eco della notizia della disfatta di Caporetto in una allucinata Milano del 1917. In uno splendido isolamento opera il gradese Biagio Marin (Grado 1891-1985), poeta di un dialetto praticamente ristretto alla sola isola di Grado. Poco lontano, a Trieste, Virgilio Giotti (Trieste 1885-1957), influenzato da Saba, innalza il dialetto triestino a un livello alto, partendo da bozzetti della realtà quotidiana. In area veneta, infine, lo sperimentalista Giacomo Noventa (Noventa 1898-Milano 1960) inventa una sua lingua poetica basata sul dialetto veneto e sulla rivolta stilistica e linguistica contro la cultura ufficiale e l’ermetismo dominante (“Fusse un poeta [...] / ermetico, / parlarìa de l’Eterno”, ma invece Noventa si dichiara, semplicemente e umilmente, solo “un poeta”, senza alcuna etichetta di scuola).

3.7. Ungaretti Il poeta italiano che visse più intensamente l’esperienza della Prima Guerra Mondiale fu Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto 1888-Milano 1970), figlio di emigranti toscani, che, dopo l’infanzia e l’adolescenza trascorse in Egitto, ebbe un intenso periodo di formazione a Parigi con Apollinaire e Picasso (1912-1914). Dall’eredità del simbolismo francese (Mallarmé, Verlaine, Rimbaud) e del clima contemporaneo delle avanguardie e del futurismo Ungaretti recepì soprattutto l’istanza di radicale rinnovamento formale, lo scardinamento della metrica, della sintassi, della punteggiatura, la ricerca di una parola pura ed essenziale. Le prime sue poesie, pubblicate sulla rivista futurista “Lacerba”, riprendono le impressioni esotiche della giovinezza egiziana, tra l’atmosfera orientale e un sentimento vago di estraneità ed esilio, e gli incontri dell’inquieto periodo parigino: ed è già riconoscibile l’elaborazione di uno stile personale basato sulla tecnica dell’analogia, e sulla ricerca di nudità ed essenzialità della parola poetica, di un suo carattere quasi magico. Già ora, per Ungaretti, la poesia è vita, è testimonianza, anche di chi è scomparso, e dimenticato da tutti, come nella lirica In memoria, per un amico arabo musulmano conosciuto a Parigi, e morto suicida, Mohammed Sceab, travolto dal fiume della vita, e di cui Ungaretti può dire: “e forse io solo / so ancora / che visse”.

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L’evento che gli permise di trasformare una ricerca ‘formale’ in un’esperienza globale di vita e di poesia fu la tragedia collettiva della guerra, che Ungaretti attraversò come soldato semplice sul fronte del Carso, a stretto contatto con l’orrore e la morte. Intorno a lui anche il paesaggio desertico o desertificato (i monconi scheletrici degli alberi e le rovine delle case) è morte e distruzione. La parola poetica riparte dunque da zero, in una serie di liriche dalla metrica libera, i versi brevi e assoluti ma legati da un forte ritmo interno, e segnati da una straordinaria presenza dell’Io. Queste poesie, scritte su un fascio di fogli che il soldato Ungaretti portava con sé in trincea, furono pubblicate per l’interessamento di un amico ufficiale, Ettore Serra, a Gorizia nel 1916, col titolo Il porto sepolto, che fu poi cambiato, nelle successive rielaborazioni della raccolta, in Allegria di naufragi (1919), e poi ancora in L’Allegria (1931). Anche la metamorfosi del titolo, per Ungaretti, è gravida di significato. L’immagine del ‘porto sepolto’ deriva dalla leggenda di un antico porto di Alessandria sommerso nella profondità del mare, e di cui si è persa ogni memoria, il simbolo di “ciò che segreto rimane in noi, indecifrabile”. La lirica che porta lo stesso titolo presenta così la poesia come un singolare procedimento di immersione ed emersione, che fa riaffiorare dagli abissi, dentro di noi, frammenti di verità nascosta: “Vi arriva il poeta / e poi torna alla luce con i suoi canti / e li disperde / Di questa poesia / mi resta / quel nulla / d’inesauribile segreto”. Dalla figura del ‘sommerso’ deriva direttamente quella del ‘naufragio’. L’‘allegria di naufragi’ è un evidente ossimoro, lo strano sentimento di sollievo di scoprirsi ancora vivi dopo una catastrofe, di fronte alla presenza incombente della morte. Il naufragio è una battuta d’arresto solo momentanea, nel viaggio della vita che non si arresta, come quello di Ulisse (“E subito riprende / il viaggio / come / dopo il naufragio / un superstite / lupo di mare”). Il naufragio è naturalmente anche quello della Grande Guerra. Ne sono rievocati gli aspetti macabri e orrendi, le notti passate in trincea accanto ai cadaveri massacrati, la figura umana stravolta in un ghigno grottesco; e allo stesso tempo la riscoperta del valore dell’amore e della vita (Veglia). Per analogia, si istituisce una piena corrispondenza tra la rovina del paesaggio e dell’umanità, e la rovina nel cuore (San Martino del Carso). Allo stesso modo, di fronte alla distruzione dell’umanità, riflessa nella distruzione della lingua e dell’immaginario, Ungaretti riparte dalla scoperta del valore primario delle parole e delle cose, con gesti rituali, quasi religiosi, come il bagnarsi nudo nelle acque del fiume Isonzo (e l’acqua è potente simbolo di vita), rievocando i fiumi della sua vita o dei suoi antenati, il Nilo, il Serchio, la Senna (I fiumi ). Assoluta è la precarietà della vita: “Si sta come / d’autunno / sugli



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alberi / le foglie” (Soldati ): ma proprio da quella precarietà rinasce l’invito alla fratellanza degli uomini (Fratelli ), e la ricerca dell’assoluto: “M’illumino / d’immenso” (Mattina). La forte esigenza di autenticità vitale e di eversione stilistica di Porto sepolto lascia il posto, negli anni successivi, ad un ‘ritorno all’ordine’ nella raccolta Sentimento del tempo (1933), nella quale Ungaretti intendeva “sentire il tempo, l’effimero in relazione con l’eterno”. Si tratta di un tempo ciclico, segnato dallo scorrere naturale delle stagioni, e da un ritorno dell’esigenza religiosa, e del mito classico, soprattutto nella forte presenza di Roma, classica e barocca, solare e luminosa. È questa la fase più ‘ermetica’ di Ungaretti, in liriche come L’isola, segnata dalla connotazione onirica, e dall’infittirsi di analogie e oscurità semantiche. Il nuovo classicismo comporta anche una ripresa dell’eredità poetica italiana (Petrarca, Leopardi, e la metrica tradizionale, con i versi classici dell’endecasillabo e del settenario). Passato all’insegnamento universitario a San Paolo del Brasile (dal 1936) e poi a Roma (dal 1942), Ungaretti vive la tragedia della Seconda Guerra Mondiale e dell’Italia divisa, una tragedia che il poeta chiede di superare, rispettando il silenzio dei morti (Non gridate più). Ed è dell’immediato dopoguerra Il dolore (1947), libro legato alla memoria del figlio morto, Antonietto, e del fratello, e caratterizzato da una intensa sensibilità della sofferenza, affine alla pietas di Virgilio. Il grande poeta latino ispira infatti la rilettura della storia di Enea e Didone in La terra promessa (1950), una raccolta frammentaria di quello che avrebbe voluto essere un testo teatrale, con monologhi, recitativi, e gli importanti Cori descrittivi di stati d’animo di Didone. Ungaretti proietta se stesso sulla figura di Enea, che sostituisce ora quella di Ulisse, nella sua sofferta partecipazione al dolore universale: una tematica che percorre le ultime raccolte, Un grido e paesaggi (1952), e Il taccuino del vecchio (1961), con gli Ultimi cori per la terra promessa. Si tratta quasi di un addio alla vita per il vecchio poeta, che recupera le ragioni più profonde della sua poesia, raccolta negli ultimi anni con il titolo programmatico Vita d’un uomo (1970). Come scrisse lo stesso Ungaretti, evidenziando l’inscindibile rapporto tra poesia e vita: “È un diario e ha il carattere di diario anche dove l’animo trabocca e sembra oltrepassarmi”.

3.8. Saba Al trobar clus dell’ermetismo si oppone, nel Novecento, un trobar leu che, già praticato da Pascoli e dai crepuscolari, ritorna nella tradizione contemporanea grazie ad una voce all’inizio appartata in condizione lontana e marginale

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(come era avvenuto, nella prosa, per Svevo): quella del poeta triestino Umberto Poli, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Umberto Saba (Trieste 1883-Gorizia 1957), di padre italiano (che abbandona subito la famiglia) e madre ebrea, vissuto per quasi tutta la vita a Trieste, con il lavoro di una piccola libreria antiquaria. Durante la Seconda Guerra Mondiale Saba si nascose a Roma e Firenze per sfuggire alle persecuzioni razziali, e si avvicinò alla lotta della Resistenza e al Partito Comunista. La sua poesia fu riconosciuta a livello nazionale solo da un primo omaggio della rivista “Solaria” (1928), e restò oggetto di un lavoro continuo di revisione stilistica in quello che è il libro di tutta una vita, intitolato (come in Petrarca) Canzoniere. Saba si era formato direttamente sui classici della letteratura italiana, Petrarca, Leopardi, fino a Carducci e D’Annunzio, come se per lui il moto dirompente delle avanguardie non ci fosse mai stato. Come per Svevo, sono determinanti i contatti diretti con la cultura europea, da Schopenhauer a Nietzsche e Freud; e la psicoanalisi in particolare fu praticata in prima persona, nel periodo di analisi cui il poeta si sottopose presso il dottor Edoardo Weiss, allievo di Freud (1929-1931). Ne emerge la forte componente erotica, legata alla difficoltà di rapporti affettivi nell’infanzia (il padre assente, il forte rapporto con la madre, e soprattutto con la balia Peppa Sabaz, da cui il poeta ricavò il proprio nuovo nome, ricordandola nelle poesie rievocative de Il piccolo Berto) ma anche nella vita adulta (non esclusa una pulsione omosessuale, testimoniata dal racconto autobiografico, postumo e incompiuto, Ernesto). È spesso contrastata la relazione con la moglie Lina, destinataria della celebre “poesia infantile” A mia moglie, in cui il poeta si rivolge alla donna chiamandola “bianca pollastra”, “gravida giovenca”, “lunga cagna”, “pavida coniglia”, “la rondine / che torna in primavera”, “provvida formica”; un sorprendente bestiario familiare, in cui “i sereni animali / che avvicinano a Dio” servono a recuperare un rapporto più autentico e primario con la vita. È una poesia apparentemente semplice, come il vecchio poeta amava fingere anche nelle sue ultime liriche, come Amai, quasi un testamento poetico: “Amai trite parole che non uno / osava. M’incantò la rima fiore / amore, / la più antica difficile del mondo. / Amai la verità che giace al fondo”. Alla rima ‘facile’ s’accosta la predilezione metrica per i versi tradizionali (endecasillabi, settenari, quinari), e per l’uso di un linguaggio quotidiano, contaminato sapientemente con il linguaggio aulico della tradizione poetica italiana, da Dante e Petrarca a Leopardi e Carducci (un piccolo canone definito da Saba “il filo d’oro della tradizione italiana”). I temi fondamentali saranno fin dall’inizio quelli dell’infanzia e della figura femminile, dell’autobiografismo, della ricerca dell’inattualità.



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Nel 1911 il giovane Saba aveva mandato alla “Voce” un saggio che non fu mai pubblicato, Quello che resta da fare ai poeti, forse perché la sua proposta apparve ‘ingenua’ ai redattori della rivista. Saba vi dichiarava che ai poeti resta da fare “la poesia onesta”, adducendo Manzoni come esempio di poeta ‘onesto’, e D’Annunzio ‘disonesto’. Una poesia onesta è sostanzialmente antiretorica, portata a riscoprire il valore della parola, sia quotidiana che aulica, in simultaneo dialogo con il presente e con la tradizione (Petrarca e Leopardi). Ma è poesia onesta anche perché pone al centro la vita quotidiana, l’adesione a un’umanità piena, la comprensione e la condivisione della sofferenza delle creature viventi: la “capra dal viso semita”, il cui belato è compreso come voce di dolore e solitudine (La capra); le classi subalterne, costrette a degradate condizioni di vita nei bassifondi del porto di Trieste, rifiuti umani dove Saba sente più vicino il contatto con la vita, e con Dio (Città vecchia). Trieste, città stretta dal mare e dalla montagna, città di confine e di incroci, è presenza costante ma discreta nelle poesie di Saba (Tre vie, Dopo la tristezza): è l’emblema della città degli uomini, da cui fuggire, verso luoghi solitari e appartati, ma a cui volgere di nuovo lo sguardo, attirati dalla sua “scontrosa grazia”, per tornare in comunione con gli altri esseri (Trieste). La prima produzione poetica di Saba si stratifica per aggregazione di raccolte successive: Poesie d’adolescenza e giovanili (1900-1907); Versi militari (1907-1908), all’epoca del servizio militare prestato a Salerno, in quanto cittadino italiano; Casa e campagna (1909-1910); Trieste e una donna (19101912). Le prime pubblicazioni hanno i titoli di Poesie (1911), e Con i miei occhi (1912), e finalmente approdano alla prima forma del Canzoniere (1921). La seconda edizione del Canzoniere vedrà la luce solo nel 1945; la terza, postuma, nel 1961, raggiungendo il numero di 426 poesie ripartite in 26 sezioni, e nelle tre grandi fasi della giovinezza (1900-1920), maturità (1921-1932) e vecchiaia (1933-1954). L’effetto è quello del racconto in versi della vita di Saba, quasi un ‘romanzo’. Trattandosi di un viaggio nell’esistenza, è spontaneo il ricorso al paradigma di Ulisse, ma in modo totalmente diverso da un contesto decadente o dannunziano. Nella tarda poesia Ulisse Saba traccia un bilancio complessivo, nello scoprire se stesso sospinto ancora al largo dal “non domato spirito” e soprattutto dal “doloroso amore” della vita. Al grande ‘libro di poesia’ Saba accostò un importante ‘autocommento’ in terza persona, intitolato Storia e cronistoria del Canzoniere (1948), atto di ‘distanziamento’ da sé, di sdoppiamento dell’io. Altre notevoli testimonianze della prosa di Saba sono le Scorciatoie e raccontini (1946), brevi e brucianti prose aforistiche, “vie più brevi per andare da un luogo ad un altro”; i RicordiRacconti (1956); e soprattutto il romanzo incompiuto Ernesto, iniziato nel ’53 (e pubblicato postumo solo nel 1975), racconto dell’esperienza omoerotica

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di un adolescente che, nel forte legame affettivo con la la madre, sembra figura dello stesso Saba.

3.9. Montale La poesia italiana del Novecento è percorsa interamente dall’esperienza di Eugenio Montale (Genova 1896-Milano 1981), che, dalle iniziali influenze di D’Annunzio, del simbolismo e del crepuscolarismo vociano, allarga i propri orizzonti a suggestioni antiche (Dante) ed europee (la poesia inglese, da Shakespeare e John Donne, di cui fu anche grande traduttore, a Eliot). Nella sua lunga vita Montale operò come attivo promotore di cultura, direttore del Gabinetto Vieusseux di Firenze (1929-1938), vicino alla rivista Solaria, e licenziato perché non iscritto al partito fascista. Dopo la Seconda Guerra Mondiale sarebbe stato a lungo collaboratore del “Corriere della Sera”, e avrebbe vinto il Premio Nobel nel 1975. Originario di una famiglia di commercianti, e diplomatosi ragioniere, Montale sviluppò subito una grande passione per il canto, la musica e la letteratura, intrecciando i primi rapporti intellettuali, nel primo dopoguerra, con Gobetti e con il critico Debenedetti. Sulla rivista gobettiana “Il Baretti” pubblicò l’importante saggio Stile e tradizione (1925), nel quale esprimeva il suo rifiuto dell’avanguardia, e la ricerca di semplicità e chiarezza nella formazione di uno ‘stile’ che avesse sempre alla base “coscienza e onestà”: e la stessa esigenza di rigore morale lo spinse ad aderire al Manifesto degli intellettuali antifascisti promosso allora da Benedetto Croce (1925). Fin dalle prime poesie (a partire dal 1916), la poetica montaliana non pretende di raggiungere direttamente l’assoluto per via di ‘illuminazione’ (come invece proponeva la tradizione simbolista, da Mallarmé in poi, ma anche in Ungaretti), ma tenta di confrontarsi con la realtà, nominando gli oggetti, le cose che circondano l’esistere dell’uomo. La poesia è una forma di conoscenza possibile, di un’oggettività nascosta sotto la superficie del fenomeno, in un contesto che appare sempre più privo di significato. Ed è soprattutto strumento di comunicazione, manifestazione di un bisogno intimo dell’essere umano, nella ricerca di un interlocutore che si esplicita nell’insistenza del rapporto IO-TU, tra mittente e destinatario. Spesso il ‘tu’ è rivolto ad una figura femminile, alla presenza misteriosa di un angelo che può salvare dall’assurdità o dal nulla. Ma talvolta è anche, semplicemente, il gioco di specchi della moltiplicazione dell’io del poeta. La ricerca di oggettività non resta separata dal rapporto con la tradizione letteraria, elemento costitutivo del fare poetico, per mezzo dell’arte



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allusiva e dell’intertestualità, una sorta di dialogo vivo con i ‘classici’ (soprattutto Dante), parallelo alla contemporanea esperienza di Eliot, di cui Montale condivide la tecnica del correlativo oggettivo. La lingua poetica tende dunque al monolinguismo, arricchendosi di parole anche rare, come in D’Annunzio, ma con finalità completamente diverse, perché si tratta ora di parole-cose, di termini essenziali in un cammino di riscoperta del reale. E anche la metrica presenta riprese della tradizione lirica, nell’equilibrio tra verso libero e versi tradizionali. Nel primo libro, Ossi di seppia (1925), pubblicato dalla “Rivoluzione liberale” di Gobetti, si manifesta pienamente una situazione di disarmonia con la realtà, un “male di vivere”, un’esistenza consunta e logorata come l’osso di una seppia, residuo di una creatura ormai priva di vita, abbandonata dalle onde del mare sulla sabbia di una spiaggia. È l’emblema non solo della condizione umana, ma anche della poesia, in grado di esprimere quel disagio, una poesia essenziale che va oltre le convenzioni dei “poeti laureati”, e attraverso la quale è forse possibile “scoprire uno sbaglio di natura, / il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, / il filo da disbrogliare che finalmente ci metta / nel mezzo di una verità” (I limoni ). È una poesia dell’assenza: assenza dell’uomo nella sospensione meridiana, resa dallo stile nominale e dal verbo all’infinito (Meriggiare pallido e assorto); e assenza di una dimensione trascendente e consolatoria con la quale sia possibile entrare in comunicazione. La poesia allora non afferma, ma nega, ed è comunque (come nella teologia negativa) in grado di ‘dire’, di comunicare: “Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe; [...] Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, / sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. / Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Per mezzo della poesia resta almeno la speranza di una via di salvezza dall’inferno della vita, un varco, una “maglia rotta nella rete / che ci stringe”. Nella raccolta successiva, Le occasioni (1939), lo stile si eleva all’altezza dell’allegoria metafisica. Le ‘occasioni’ sono infatti gli istanti in cui avviene la rivelazione dell’essenza delle cose, la loro ‘epifania’. Ma allo stesso tempo si acuisce la crisi della memoria e del senso delle cose. La casa dei doganieri è un vero ‘anti-idillio’, che nell’incipit rovescia il leopardiano A Silvia: “Tu non ricordi la casa dei doganieri”. Il poeta si rivolge col ‘tu’ ad Annetta (o Arletta), cioè Anna Degli Uberti, la prima fanciulla amata, conosciuta nel ’20 a Monterosso, morta giovane e già ricordata in Incontro. È ormai impossibile distinguere realtà-apparenza, vita-morte (“la bussola va impazzita

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all’avventura / e il calcolo dei dadi più non torna”), e la morta non può più ricordare nulla (ossessionante la ripetizione “Tu non ricordi”). Ne deriva, qui e altrove, un senso della negatività della conoscenza, in cui emergono le misteriose apparizioni di emblematiche figure femminili, come la misteriosa ebrea austriaca Dora Markus, e soprattutto la donna-angelo Clizia, una giovane studiosa americana di Dante (Irma Brandeis), conosciuta nel ’33 a Firenze e dedicataria delle Occasioni. A Clizia, che svolge una funzione salvifica paragonabile alla Beatrice dantesca, “iddia che non s’incarna” (e di cui si rappresenta un’angosciosa partenza in treno, simile ad una celebre lirica di Carducci), si collega inoltre il mito ovidiano dell’amante del Sole, trasformata in girasole. Clizia, in particolare, domina un’importante sezione del libro intitolata Mottetti, brevi epigrammi in cui si cerca di decifrare i segni della presenza o dell’assenza dell’angelo. La grande Storia, la guerra e il nazismo, irrompono nella poesia di Montale con La bufera e altro (1956), in testi come la terribile Primavera hitleriana (ricordo di una visita di Hitler “messo infernale” a Firenze nel ’38). Torna la teologia negativa in Piccolo testamento, dichiarazione di estraneità ad ogni consentimento ad una rasserenante fede religiosa o ad una certezza ideologica. Resta però l’idea che nell’oscurità sia possibile scorgere almeno un tenue bagliore, il segno di una speranza o di una fede. E torna soprattutto Clizia, come grande simbolo vitale la cui luce continua a vivere tra gli uomini, anche dopo la sua partenza, anche nel fango e nell’aridità della vita (Anguilla). Nel secondo dopoguerra Montale collaborò al periodico “Il Mondo” con Bonsanti e Loria (1945-1946), un interessante esperimento di cultura impegnata e attuale nell’Italia della ricostruzione, e poi per molti anni al “Corriere della Sera”, pubblicando recensioni di critica musicale, elzeviri, racconti, saggi e articoli. Da questa esperienza di scrittura nascono le prose montaliane, pubblicate in raccolte di racconti brevi e di dimensione quasi lirica (Farfalla di Dinard 1956), di saggistica (Auto da fé 1966), e di appunti di viaggio e di cronaca (Fuori di casa 1969), oltre ad un importante saggio Sulla poesia (1976). Dopo un lungo silenzio poetico (che corrisponde comunque al fecondo esercizio di traduttore di poesia straniera, e di scrittore di prosa), Montale innoverà profondamente il suo stile, avvicinandosi alla prosa e alla poesia del quotidiano, ad iniziare da Xenia (1966), che in greco significa ‘doni’, i doni che si fanno agli ospiti (il titolo del XIII libro degli epigrammi di Marziale); in realtà, una raccolta di poesie dedicate alla moglie morta, Drusilla Tanzi,



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soprannominata “la Mosca” (“Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale / e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino”). Dall’epigramma si passa alla satira sferzante contro l’imbarbarimento dell’uomo nella raccolta Satura (1971), che rovescia la poetica delle Occasioni, dalla poesia alla prosa, nel lirismo tragico di un’amara ironia. La ‘satura’ è genere antico, di Persio e Giovenale, basato sulla variazione di temi e argomenti, sulla satira dei costumi e sulla condanna morale. L’apparente andamento prosastico cela una ricerca stilistica di alto livello, un ritmo aspro e franto che richiama l’epigramma, la sentenza, l’aforisma. Al fondo è riconoscibile un terribile pessimismo storico, nell’idea della negatività della storia e della sua inconoscibilità e nell’irrisione del mito del progresso, riemerso negli anni del benessere economico e dell’apparente vittoria del modello consumista occidentale: “La storia non si snoda / come una catena / di anelli ininterrotta. / In ogni caso / molti anelli non tengono” (La storia). Il carattere diaristico si accentua nelle ultime raccolte. Diario del ’71 e del ’72 (1973) è critica severa del presente, in testi come Il trionfo della spazzatura, memoria di uno sciopero dei netturbini romani. La conclusione autoironica è nella raccomandazione del poeta ai posteri di fare un bel falò di tutta la sua vita e dei suoi scritti: “Vissi al cinque per cento, non aumentate / la dose” (Per finire). Infine, il Quaderno di quattro anni (1977) rivolge il suo sguardo disincantato alla trasformazione e al degrado inarrestabile del mondo che ci circonda. In Al mare (o quasi) prevale la celebrazione sarcastica della “musa del nostro tempo la precarietà”, sullo sfondo del paesaggio tipico della spiaggia vacanziera italiana, così diverso da quello che il giovane Montale scorgeva sulle spiaggie solitarie e incontaminate delle Cinque Terre o della Versilia. Rovesciato il mito del progresso, il trionfo della civiltà umana appare in una visione che acquista oggi un valore tragicamente profetico: “i rifiuti in totale / formano ondulate collinette plastiche”.

Bibliografia 3.1. Imperialismi e totalitarismi. In generale, sul quadro storico: E.J. Hobsbawm, Il secolo breve (1994), Milano, Rizzoli, 2007. 3.2. Società e cultura in Italia nel primo Novecento. Sulla letteratura del Novecento: Il Novecento, a c. di R. Luperini, Torino, Loescher, 1981; Dizionario critico della letteratura italiana del Novecento, a c. di G. Luti ed E.

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4.1. La società globale La Seconda Guerra Mondiale segnò la fine del dominio coloniale dell’Europa. Molti paesi del cosiddetto terzo mondo in Asia e in Africa conquistavano l’indipendenza, anche se poi precipitavano in condizioni anche peggiori di sudditanza economica. Sulla scena mondiale si affacciavano da protagonisti la Cina comunista di Mao, e l’India di Gandhi. Ma soprattutto si instaurava un lungo periodo di confronto ideologico, politico, militare, economico, una situazione di ‘pace armata’ fra le due principali superpotenze del pianeta, Stati Uniti e Unione Sovietica, entrambe in possesso della bomba atomica, e quindi in grado di far deflagrare una terza guerra mondiale, che sarebbe stata l’ultima dell’umanità. Fu la cosiddetta Guerra Fredda, contraddistinta dall’‘equilibrio del terrore’, che innescava violente guerre regionali, dalla Corea al Vietnam. Alla fine del secolo, il confronto fu vinto dal blocco occidentale, dove il sistema capitalistico, promuovendo più favorevoli condizioni di libertà intellettuale e di ricerca, aveva portato ad una larga diffusione della ‘società del benessere’. La caduta del simbolo della Guerra Fredda, il muro di Berlino (1989), accelerò il crollo dei regimi comunisti nell’Europa orientale, e della stessa Unione Sovietica (1991), mentre l’Europa continuava il suo processo di unificazione politica ed economica. Resta oggi (accanto a nuove potenze economiche in straordinario sviluppo, come la Cina) un’unica superpotenza globale, gli Stati Uniti, chiamata a gestire le difficili crisi politiche ed economiche del mondo legate agli interessi economici dell’impero, con l’intervento militare diretto (Iraq 1991 e 2003, Afghanistan 2001). È l’età della globalizzazione, della diffusione dell’economia capitalistica a livello globale, gestita da società multinazionali che, più potenti degli stessi governi nazionali, suddividono il mondo in aree di produzione di materie prime e manufatti (a basso costo di forza lavoro) e aree altamente sviluppate di consumo e di mercato.

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Nella cultura mondiale del secondo dopoguerra resta costante il dibattito sul rapporto con un sistema di produzione e fruizione legato alle leggi economiche del mercato, e agli orientamenti della società dei consumi. Nel mondo delle arti figurative si avverte nel modo più intenso la crisi profonda di questo rapporto, e del rapporto fra artista e pubblico. Negli Stati Uniti del dopoguerra Paul Jackson Pollock, maestro dell’espressionismo astratto, rivoluziona la tecnica della pittura per mezzo del dripping (‘sgocciolatura’), che consiste nel versare direttamente il colore sulla grande tela adagiata sul pavimento, con il coinvolgimento totale dell’azione e del movimento dell’artista (action painting). In un mondo dove tutto tende a essere omologato, meccanizzato, ripetibile, il gesto corporeo dell’artista, nella sua unicità, viene esaltato dallo spazialismo di Lucio Fontana, che provocatoriamente squarcia le proprie tele; astrattismo materico è invece quello di Alberto Burri, che riutilizza vecchi sacchi di tela, residui di plastica e sacchetti per i rifiuti, ricreati in nuove forme con l’uso del fuoco. La figura umana resta al centro dell’arte di Francis Bacon, ma resa del tutto irriconoscibile in un processo inarrestabile di deformazione e disfacimento, che comunica un sistema di rapporti umani ormai ridotti a violenza fisica e morale. Di nuovo negli Stati Uniti degli anni Sessanta si sviluppa l’esperienza della Pop Art (abbreviazione di Popular Art). In particolare, Andy Warhol è radicalmente critico nei confronti della società dei consumi, le cui icone (una lattina di Coca Cola o il volto di Marylin Monroe) vengono desemantizzate per mezzo della ripetizione ossessiva e dell’ingigantimento. La stessa operazione compie Roy Lichtenstein nei confronti dei fumetti, che erano diventati una delle principali forme di comunicazione per l’infanzia e l’adolescenza (da Walt Disney a Steve Ditko, creatore dell’Uomo Ragno). Warhol fu anche uno straordinario promotore di cultura, con il suo laboratorio artistico chiamato Factory (‘fabbrica’) e ubicato a New York in vecchie officine abbandonate, che esercitò una profonda influenza nel mondo delle arti (ad iniziare dall’allievo Jean-Michel Basquiat), del cinema, della musica (con i Velvet Underground di Lou Reed e John Cale, e il gruppo DuranDuran), della fotografia, dei fumetti, della pubblicità. Le forme della letteratura e delle arti hanno attraversato un periodo di grande mobilità teorica e critica che dura tuttora, e che ha ampliato le possibilità di interpretazione del fatto letterario: non più solo l’autore o il contesto, ma anche il testo, e il lettore. La linguistica, dallo studioso ginevrino Ferdinand de Saussure alla scuola del Circolo di Praga, aveva elaborato una concezione della lingua come sistema autonomo di segni. Nel secondo dopoguerra ne deriva lo strut-



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turalismo, applicato alla letteratura, al cinema e alle arti, nell’interazione con antropologia, filosofia e psicoanalisi; in particolare, Roland Barthes ne applica i principi in una scienza generale dei segni chiamata semiologia, o semiotica. Ne deriva una maggiore attenzione al testo e all’opera, nelle sue dinamiche interne, strutturali e linguistiche, e in relazione coll’intero sistema dei testi (secondo la nozione di intertestualità, elaborata da Julia Kristeva). Si è sviluppata parallelamente, a partire dall’ermeneutica filosofica di Gadamer, con Hans Robert Jauss e la Scuola di Costanza, una linea critica definita estetica della ricezione, che dà grande importanza alla fortuna dell’opera e alle modalità con le quali essa viene letta e interpretata, nel tempo e nello spazio, e risponde all’orizzonte di attesa del pubblico. L’estetica della ricezione, se radicalizzata, può però portare ad una perdita di senso ‘oggettivo’ del messaggio, moltiplicato in una serie infinita di interpretazioni possibili, e tutte equivalenti (il decostruzionismo di Jacques Derrida). Nelle scienze sociali e umane e nella letteratura la crisi dell’eurocentrismo ha portato alla nascita dei Cultural Studies (‘studi culturali’), con Stuart Hall e Edward Said, che hanno favorito un sempre maggiore coinvolgimento culturale delle classi subalterne del Sud del mondo, e un’attenzione particolare ad ambiti finora marginalizzati dalle culture dominanti: la scrittura delle donne, le questioni di genere, le minoranze sociali e linguistiche ecc. Oggi l’universo letterario è caratterizzato dallo straordinario sviluppo delle possibilità di comunicazione dei testi (ormai anche grazie a Internet e alle biblioteche digitali), di lettura, traduzione e interpretazione, e soprattutto di interazione continua con tutte le altre forme di comunicazione: in primo luogo audiovisiva (il cinema e la televisione). La letteratura contemporanea è un fenomeno globale, di rilevanza mondiale, non più circoscrivibile a un solo paese, o a un solo continente. Le grandi individualità di scrittori provengono da tutte le aree del mondo, e in particolare dai continenti che erano finora subalterni nei confronti del dominio coloniale dell’Europa e del Nordamerica (la cosiddetta ‘civiltà occidentale’): l’America latina, l’Asia (in particolare il Giappone, l’India, la Cina, e poi Israele e i paesi arabi), l’Africa. Anche la letteratura ‘italiana’ comincia a non avere confini, dopo quasi duecento anni di emigrazione verso l’Europa, le Americhe e l’Australia, dove si sono imposti importanti scrittori di origine italiana (negli Stati Uniti, in lingua inglese, il narratore John Fante; e Joseph Tusiani, poeta in inglese, italiano e soprattutto in latino). Un fenomeno, quello della letteratura dell’emigrazione, ancora poco conosciuto in Italia, cui corrisponde, in parallelo, lo sviluppo di originali esperienze di scrittura in lingua italiana da parte della nuova generazione di immigrati nel nostro paese, dall’Europa dell’Est, dal bacino mediterraneo, dall’Africa e dall’Asia.

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La letteratura di massa obbedisce ai rigidi meccanismi dell’editoria e della tutela dei diritti d’autore, nella selezione dei prodotti ad opera degli agenti editoriali, nella pubblicizzazione e nel marketing del libro. Nella specializzazione di alcuni generi di consumo tipici della letteratura di massa emergono comunque grandi autori, che tendono a essere considerati come dei ‘classici’. Nel genere del ‘giallo’ si possono ricordare i nomi del francese Georges Simenon e dell’americano Raymond Chandler, rispettivamente creatori di personaggi famosi come il commissario Maigret e l’investigatore privato Philip Marlowe. La fantascienza aveva già raggiunto tra fine Ottocento e inizio Novecento dignità letteraria con Jules Verne, Herbert George Wells (La macchina del tempo e L’uomo invisibile), il russo Eugenij Zamjatin (Noi ) e il polacco Stanislaw Lem (Solaris). La sua trasformazione in genere di largo consumo (consacrato anche dal cinema) si deve alla capacità di proiettare verso il futuro (prossimo o lontano) i sogni, le speranze, e anche gli incubi, dell’umanità contemporanea, la cui vita sembra sconvolta da un impensabile progresso tecnologico, e minacciata dalle armi di distruzione di massa. Uno degli scrittori più significativi è stato l’americano Philip K. Dick, autore di romanzi famosi come Il cacciatore di androidi (diventato film col titolo Blade Runner, regia di Ridley Scott). Tra gli ultimi grandi autori del Novecento riconosciuti a livello mondiale, l’argentino Jorge Luis Borges (1917-1985) testimonia il prevalere, nell’immaginario collettivo, della visione del mondo come un labirinto, come un’immensa, infinita rete di relazioni, la cui comprensibilità sfugge ormai all’essere umano; e labirintico è lo stesso sistema letterario, assimilato all’idea della ‘biblioteca di Babele’, in cui tutti i libri e tutte le opere sono compresenti, e tendono a confondersi. Dal Sudamerica provengono anche il brasiliano Jorge Amado e il colombiano Gabriel García Márquez (Cent’anni di solitudine), entrambi capaci di rappresentare, nella rievocazione favolosa di ambienti e atmosfere della loro terra, i caratteri universali dell’esperienza umana. La letteratura americana contemporanea riesce ad esprimere voci significative nell’introspezione psicologica ed esistenziale, come quelle di Saul Bellow (L’uomo della pioggia) e Philip Roth (La macchia umana). John Fante, figlio di un emigrante abruzzese, esprime nei suoi romanzi e nell’indimenticabile personaggio di Arturo Bandini una personale e critica rielaborazione del sogno americano, nella rappresentazione della precarietà e della difficoltà del vivere, soprattutto dei giovani. L’odissea della vita diventa anche lo scenario del libro più famoso di Jack Kerouac, On the Road (‘sulla strada’), mentre il disagio giovanile viene raccontato da J.D. Salinger in The Catcher in the Rye (tradotto in Italia come Il giovane Holden).



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In Giappone Kawabata Yasunari riprende l’erotismo raffinato della tradizione giapponese (La casa delle belle addormentate), e il ribelle Yukio Mishima vive la tragica dialettica fra i valori antichi della cultura giapponese e il vuoto del moderno consumismo occidentale d’importazione, dialettica conclusasi con il suicidio dello scrittore per mezzo di harakiri. Gao Xingjian è il primo scrittore della Cina a essere insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 2000, ma è in realtà esule dal suo paese fin dal 1987: il suo romanzo più importante, La montagna dell’anima, è la rievocazione di uno straordinario viaggio nella Cina profonda, alla ricerca della sua millenaria tradizione culturale, delle sue leggende, della sua umanità; un percorso che (nonostante l’ostracismo politico a Gao) è oggi lo stesso della cultura cinese contemporanea. Dal resto del ‘mondo grande e terribile e complicato’ (come lo definiva Gramsci) la letteratura continua a svolgere un’importante funzione di trasmissione di valori di umanità, e si tratta quasi sempre di scrittori ‘scomodi’, oggetto di critiche o anche di persecuzioni nei loro paesi d’origine: e in alcuni casi vengono addirittura minacciati di morte, come Salman Rushdie considerato colpevole di aver bestemmiato la figura di Maometto ne I versi satanici (1989). Nadine Gordimer è stata voce coraggiosa contro l’apartheid in Sud Africa, favorendo la transizione pacifica al nuovo corso di Nelson Mandela. Abraham Yehoshua e David Grossman in Israele vivono da vicino il dramma di un paese in uno stato di guerra permanente, e il bisogno di guardare le cose anche con gli occhi degli ‘altri’, arabi o palestinesi. Il turco Ohran Pamuk (1952) affronta il problema dell’incontro di culture all’interno dell’identità turca, del confronto tra Oriente e Occidente che è alla base della storia turca moderna, ma anche della coesistenza pacifica con le minoranze (i curdi e gli armeni): per questo è necessario il ritorno alla Storia, che ispira anche i migliori romanzi di Pamuk, come Il mio nome è rosso (2000), ambientato nello splendore della Turchia del Cinquecento, sotto Solimano il Magnifico. Infine, sullo sfondo dell’Afghanistan devastato dall’invasione sovietica e poi dal regime talebano, Khaled Hosseini ambienta Il cacciatore di aquiloni (2003), una storia di un’amicizia tra ragazzi, appartenenti ad etnie e classi sociali diverse, il cui valore assoluto supera positivamente la distruzione e la morte arrecate dalla follia degli uomini. Un’evoluzione simile avviene anche nel teatro. La dissoluzione del teatro borghese, iniziata da Pirandello, era passata attraverso il ‘teatro della crudeltà’ di Antonin Artaud, per approdare poi all’inquietudine esistenzialista del teatro dell’assurdo di Eugène Ionesco (1909-1994), che con La cantatrice calva (1950) lanciò il manifesto di una forma di rappresentazione in cui venivano abbandonati gli ultimi residui di ‘razionalità’. La sua poetica fu continuata in

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Inghilterra da Samuel Beckett (1906-1989) con Aspettando Godot (1952), e dal più giovane Harold Pinter (1930-2008). Dopo gli anni Settanta, però, Pinter diventa autore di un teatro politicamente impegnato che sembra riprendere l’eredità di Brecht, in difesa dei diritti umani e delle minoranze etniche perseguitate nel mondo, come il popolo curdo rievocato in The Mountain Language (‘il linguaggio della montagna’)(1988). La tragedia dell’umanità, ricorda Pinter, è soprattutto un problema linguistico: non riuscire a capire il linguaggio dell’altro, e imporre con la violenza il linguaggio del più forte. Il cinema d’autore tra anni Cinquanta e Settanta, tra l’Europa, gli Stati Uniti e il Giappone, ha conosciuto un’ultima grande stagione creativa. La scuola francese passa dai maestri degli anni Trenta-Quaranta (René Clair e Jean Renoir) ad un nuovo modo di raccontare per mezzo dell’immagine, parallelo all’Ecole du Regard (‘scuola dello sguardo’) e al Nouveau Roman (‘nuovo romanzo’) di Alain Robbe-Grillet e Roland Barthes. Nasce così la Nouvelle vague (‘nuova onda’) di Jean-Luc Godard, Eric Rohmer, Claude Chabrol, Alain Resnais, François Truffaut. Tra le figure più significative del cinema mondiale si affermano Ingmar Bergman, Luis Buñuel, Akira Kurosawa, Federico Fellini. Attraversa tutti i generi Stanley Kubrick con Arancia meccanica, 2001 Odissea nello spazio, Shining, Eyes wide shut, mentre Quentin Tarantino (Pulp fiction, Kill Bill ) rinnova profondamente la forma e lo stile del racconto filmico, anche in modo provocatorio e violento. La musica è infine il principale genere di comunicazione artistica tra le giovani generazioni. L’evoluzione successiva dei generi musicali, dal country al rock, dal pop al metal, passando per gruppi storici come i Beatles e i Rolling Stones e spettacolari eventi di massa come i concerti di Woodstock o i raduni dell’isola di White, si arricchisce dell’influsso della musica etnica e globale, della ricerca delle sonorità nuove offerte dalla musica elettronica. L’intera società dei consumi è diventata oggi una società dello spettacolo, del divertimento, dell’evasione, finalizzati comunque a sostenere il livello di consumi da cui dipende la produzione industriale. Determinante è l’avvento del nuovo e potente strumento di comunicazione di massa, la televisione. Attraverso la televisione i messaggi delle culture dominanti entrano ovunque, in ogni famiglia, in ogni casa (come nella profezia del Grande Fratello in 1984 di George Orwell), suggeriscono bisogni e desideri per mezzo della pubblicità, appiattiscono le differenze linguistiche (uniformandole verso il basso), influiscono sull’immaginario collettivo e individuale, propongono nuove forme narrative autorappresentative (soap, telenovela), modelli il più



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possibile semplificati di comportamento e di concezione del mondo. Per gran parte della popolazione mondiale, la comunicazione visiva proposta dalla televisione, e in misura minore dal cinema, si sostituisce alla funzione svolta un tempo dalla letteratura con gli strumenti del racconto, del romanzo, del poema narrativo. Dopo circa tre millenni, la letteratura perde la centralità che aveva avuto, nella civiltà umana, nella formazione dell’immaginario collettivo. La letteratura diventa un fatto marginale nella società dello spettacolo, perché non fa ‘spettacolo’. Ha bisogno di un tempo più lungo di fruizione, di riflessione, di interiorizzazione. Ma quasi nessuno ha più a disposizione tanto tempo. La comunicazione ha raggiunto livelli di velocità prima impensabili, e, in più, lo stesso mondo della testualità letteraria, finora affidato principalmente alla ‘scrittura’, è diventato ‘mobile’. A partire dagli anni Ottanta, nella comunicazione e nella gestione delle informazioni è avvenuta l’ultima rivoluzione tecnologica, paragonabile a quella di Gutenberg nel Quattrocento: la diffusione di massa della tecnologia informatica, del computer e della scrittura digitale. Gli antichi dicevano: Verba volant, scripta manent. Le parole volano, gli scritti restano. Oggi anche gli scritti ‘volano’, trasformati in files di archivi digitali: la Commedia di Dante, l’Odissea, le tragedie di Shakespeare, compresse in poche centinaia di Kilobytes, trasmesse su Internet. E così infiniti altri testi, di tutte le lingue e di tutte le culture del mondo. Di ieri e di oggi, come se fossero tutti contemporanei. In pochi anni, il senso del passato, della tradizione, della storia, è scomparso. Per definire la nuova epoca che sembra iniziata dagli anni Settanta-Ottanta del Novecento, si è diffuso il termine di postmoderno (proposto dall’intellettuale francese Jean-François Lyotard nel 1979). È una parola ambigua, perché riprende a sua volta un altro concetto storiografico indeterminato (il ‘moderno’), e in fondo del tutto relativo, comprensibile solo in rapporto con un’altra realtà (il moderno in rapporto all’antico, e il postmoderno in rapporto al moderno, o come superamento del moderno); un’etichetta che si applica a quelle manifestazioni di arte o di letteratura ‘di secondo grado’, che sembrano basate sulla citazione, sulla riscrittura, sull’intertestualità, e percorse dai temi del relativismo e del labirinto. Quello che cambia veramente è la comunicazione umana. Nulla sarà più come prima, nemmeno la letteratura, che è una delle forme possibili di comunicazione umana, ma non l’unica; e ora sicuramente non più quella privilegiata. E avremo forse allora bisogno di nuove parole, per chiamare le nuove cose che oggi nascono, e non conosciamo ancora.

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4.2. La cultura italiana nel secondo Novecento L’Italia, entrata nella Seconda Guerra Mondiale del tutto impreparata, subì una dura sconfitta militare da parte degli Alleati. All’invasione della Sicilia seguirono, in rapida successione, la caduta del fascismo (25 luglio 1943), l’armistizio con gli Alleati (8 settembre 1943), l’occupazione nazista e la divisione dell’Italia in due parti, al Nord la fascista Repubblica Sociale, al Sud quel che restava del Regno d’Italia. Era il momento più nero della storia d’Italia, il crollo di tutto quello che era stato costruito nel Risorgimento. Ma, mentre gli Alleati risalivano la penisola, si sviluppava un moto spontaneo di resistenza che animò nelle regioni del Centro-Nord la Guerra di Liberazione, fino alla sua conclusione (25 aprile 1945). L’anno successivo nasceva, dopo un referendum, la Repubblica italiana (2 giugno 1946). Il dopoguerra sarebbe stato dominato dalla dialettica di due grandi partiti popolari, la Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi, e il Partito Comunista di Palmiro Togliatti. La formazione cattolica e moderata vinse le elezioni del 1948, e fu al governo del paese, alleata ad altri partiti, praticamente fino al 1994. Un lungo periodo in cui l’Italia, distrutta dalla guerra, seppe ricostruire interamente la propria economia, nel cosiddetto ‘miracolo economico’, e diventare uno dei paesi più avanzati del mondo. La società si trasformò rapidamente e profondamente, e subì quindi il contraccolpo di nuove crisi sociali ed economiche alla fine degli anni Sessanta (il Sessantotto) e negli anni Settanta (gli ‘anni di piombo’ e il terrorismo delle Brigate Rosse, culminato nell’assassinio dello statista democristiano Aldo Moro nel ’78). L’apogeo della società consumistica in Italia, negli anni Ottanta, coincise però con la corruzione di un sistema politico che era rimasto sempre uguale a se stesso, allontanandosi sempre più dal paese reale. Il crollo di quel sistema (1992), con la scomparsa dei grandi partiti che avevano dominato la vita italiana del secondo Novecento, ha fatto emergere la tragica assenza di una classe politica e dirigente del paese, che ha iniziato una fase di evidente declino economico, sociale e culturale, e di marginalizzazione rispetto all’Europa e al mondo. La ricostruzione morale e culturale nell’immediato dopoguerra passò anche attraverso la convinta partecipazione degli intellettuali. Una rivista culturale diretta da Elio Vittorini, “Il Politecnico” (1945-1947), si trovò subito ad affiancare quella confusa esplosione creativa, nel cinema e nel romanzo, che prese il nome di neorealismo. Il titolo rinviava esplicitamente alla rivista ottocentesca di Carlo Cattaneo. L’impegno si svolgeva contemporanemente nell’economia, nella società, nella letteratura, anche se il non allineamento



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alle direttive del Partito Comunista di Togliatti (l’intellettuale non deve “suonare il piffero della rivoluzione”, scrisse allora Vittorini) finì col provocarne la crisi interna, e infine la chiusura. Un’ulteriore crisi degli intellettuali di sinistra, ancora allineati al Partito Comunista, intervenne dopo la Rivoluzione d’Ungheria, repressa dalle truppe sovietiche (1956). Un’eco di quella crisi è nelle riviste di quel periodo che segnano la fine della stagione del neorealismo, come “Officina” (1955-1959) di Pier Paolo Pasolini, Roberto Roversi e Francesco Leonetti, che promuovono un intenso rinnovamento letterario, alternativo al neorealismo e alla tradizione novecentesco-ermetica. “Il Menabò” (1959-1967) di Elio Vittorini e Italo Calvino affronta il problema del rapporto tra letteratura e società a livelli diversi (lingua e dialetto, letteratura e Mezzogiorno d’Italia, realismo ecc.), e in particolare avvia il confronto sul tema industria e letteratura (il menabò, ‘menabuoi’, era lo strumento usato per la composizione tipografica, metafora del lavoro intellettuale). “Il Verri” (dal 1956) di Luciano Anceschi contribuisce al cambiamento delle istituzioni formali della letteratura, nella prosa e nella poesia, favorendo lo sperimentalismo, e istituendo ‘ponti culturali’ tra barocco e Novecento. Nel 1961 la rivista fa pubblicare un’antologia di poeti, I Novissimi, che segna la nascita della neoavanguardia, cui segue (anche per influenza del saggio Opera aperta di Umberto Eco) la formazione del Gruppo ’63, dal quale scaturiscono le esperienze del romanzo sperimentale di Arbasino, e di poeti come Sanguineti. Oltre gli anni Settanta, il dibattito culturale in Italia viene progressivamente spegnendosi, seguendo quel processo di declino che era stato profeticamente individuato da Pasolini, e che si registra a fine Novecento anche in campo politico, economico e sociale. Cambiano radicalmente le modalità di produzione e comunicazione culturale. Il mondo editoriale si concentra nelle mani di pochi proprietari, che gestiscono gran parte dell’informazione, e influiscono direttamente sulla vita politica. Come negli altri paesi del mondo avanzato, i mezzi di comunicazione di massa pervadono ogni aspetto della vita culturale e artistica, ma in Italia l’avvento della società dello spettacolo sembra corrispondere ad una crisi molto più profonda. L’immagine è quella di un paese chiuso, diviso, invecchiato, che non investe sul suo futuro, e in cui la coscienza critica di larghi strati di popolazione (analfabeta di ritorno dopo otto-dieci anni di scuola dell’obbligo, ignara dell’esistenza di oggetti che si chiamano ‘letteratura’ o ‘poesia’, come anche del significato autentico di molte altre parole come ‘partecipazione’, ‘solidarietà’, ‘libertà’, ‘giustizia’,

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‘democrazia’ ecc.) è quasi del tutto cancellata dai bisogni e dai desideri indotti dalla televisione e dal consumismo.

4.3. La prosa Lo scrittore che seppe meglio interpretare il momento storico e politico della cultura italiana nell’immediato dopoguerra fu Elio Vittorini (Siracusa 1908-Milano 1966), figlio di un ferroviere siciliano approdato a Firenze dalla natìa Sicilia, nell’ambiente di “Solaria”, nelle cui edizioni si pubblicarono i racconti di Piccola borghesia (1931). Da “Solaria” veniva anche una naturale predisposizione ad un’esperienza di cultura internazionale, riflessa nella lettura e nella traduzione di scrittori americani contemporanei, pubblicati nell’importante antologia Americana (1942). Vittorini, vicino alle posizioni del cosiddetto ‘fascismo di sinistra’ esprimeva la sua critica antiborghese rievocando figure politiche problematiche come la rivoluzionaria socialista tedesca Rosa Luxemburg, protagonista del romanzo Garofano rosso (1934); o descrivendo la vita di un quartiere operaio nel romanzo incompiuto Erica e i suoi fratelli (1936), vicenda di una giovane costretta dalla miseria a prostituirsi. L’involuzione autoritaria del regime si riflette invece nell’amara narrazione allegorico-autobiografica di Conversazione in Sicilia (uscita a puntate su Letteratura col titolo Nome e lacrime nel 1938-39, poi col titolo definitivo in volume nel 1941), in cui un giovane intellettuale di nome Silvestro (figura dello stesso Vittorini), “in preda ad astratti furori”, torna da Milano in Sicilia per ritrovare la madre, in scenari metafisici ed enigmatici che rinviano all’immaginario di De Chirico. Lo stile è segnato da una prosa quasi lirica, oracolare, cadenzata da anafore e ripetizioni, e nell’insieme dà l’idea di una fuga dalla realtà. Dopo il crollo del regime, Vittorini iniziò la sua militanza comunista, partecipando alla Resistenza, e imponendosi come una delle guide del rinnovamento culturale italiano dopo il ’45, con le riviste “Il Politecnico” e “Il Menabò”, e con la lunga collaborazione con la casa editrice Einaudi. Nel 1945 uscì Uomini e no, uno dei primi esempi di romanzo dedicato ai temi della guerra e della Resistenza, di narrazione quasi in presa diretta, racconto di eventi accaduti appena pochi mesi prima. La struttura, quasi sperimentale, corre su due livelli paralleli: da un lato la registrazione dei fatti, a focalizzazione zero, costruita su dialoghi veloci e brevi battute; dall’altro, la riflessione dell’autore, al di fuori della storia, in una dimensione atemporale e assoluta.



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Nasceva allora, come un movimento quasi spontaneo, dettato dall’urgenza di raccontare il grande dramma collettivo di una nazione, il neorealismo. All’inizio, il termine fu applicato al cinema, già durante la guerra, per un film come Ossessione di Luchino Visconti (1942), che rovesciava la disimpegnata leggerezza del cinema di allora (quello dei ‘telefoni bianchi’) con il racconto di una cupa storia passionale ambientata in un contesto rurale. Ora, il neorealismo esprimeva i temi più attuali dell’Italia contemporanea, cercando di adottare nuovi strumenti comunicativi, ad iniziare da una lingua immediata e popolare, dove tornava la forza del dialetto (già bandito dalla scuola fascista). Talvolta il soverchiante impegno politico rendeva il neorealismo meno ‘realistico’ e piuttosto moralistico, sentimentale, mitico, con una visione troppo netta della divisione tra bene e male, tra buoni (i partigiani, il popolo) e cattivi (i fascisti, i tedeschi, i borghesi collaborazionisti o neutrali). Ma si trattava, in effetti, di una comunicazione pedagogica di massa, che si serviva anche e soprattutto del cinema. Parallela al neorealismo, negli anni in cui si fa più dura la lotta tra moderati (cattolici e conservatori della Democrazia Cristiana di De Gasperi) e sinistra (comunisti e socialisti del Fronte Popolare di Togliatti), si può riconoscere una narrativa satirico-popolare d’evasione, di segno politico moderato (se non qualunquista), il cui rappresentante più noto fu allora Giovannino Guareschi (Roccabianca 1902-Cervia 1969), che con i personaggi del parroco don Camillo e del sindaco comunista Peppone sapeva ricreare nel microcosmo di un immaginario paese della bassa padana la profonda spaccatura dell’Italia contemporanea. Accanto a Vittorini, l’altro grande scrittore e promotore culturale dell’immediato dopoguerra fu Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo 1908-Torino 1950), prima insegnante e poi collaboratore di Einaudi, vicino al gruppo antifascista torinese e condannato al confino in Calabria (1935-1936): una figura complessa e tormentata, che vive a lungo il dramma della solitudine e dell’incomunicabilità, raccontato nel diario postumo Il mestiere di vivere, e che infine muore suicida, dopo un’ultima delusione amorosa per l’attrice americana Constance Dowling, cui dedica le amare poesie di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Come Vittorini, Pavese si appassiona alla lettura degli scrittori americani (si era laureato con una tesi sul poeta americano Walt Whitman), e traduce Melville, Steinbeck e Dos Passos. Nella collana di Solaria pubblica le prime poesie di Lavorare stanca (1936), un notevole esempio di poesia-racconto basata sulla lingua di tutti i giorni e sul profondo legame con la terra piemontese. Pavese intende la poesia come racconto “chiaro e pacato”, secondo

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una poetica lontana dalla tradizione letteraria e dall’Ermetismo; una poesia affidata al verso libero lungo (quasi poesia in prosa) che parla della dialettica irrisolta tra città e campagna, civiltà e natura, infanzia ed età adulta, verità e finzione, mito e realtà, uomo e donna. È l’intero mondo di Pavese, oscillante in un conflitto di opposti, che non riesce mai a raggiungere l’equilibrio, anche se lo stesso scrittore dichiara: “Tutta l’arte è un problema di equilibrio fra due opposti”, fra la realtà e il simbolo. Nell’apparente monotonia del linguaggio parlato, appaiono minimi segnali di straniamento, di infrazione della norma (inversioni, ripetizioni, anafore), di elementi dell’oralità e della poesia popolare arcaica, che conferiscono a questa poesia il valore di costruzione del mito. Nella narrativa, Pavese preferisce la forma del romanzo breve, o del racconto lungo, ad iniziare dalla rievocazione dell’esperienza della prigionia e del confino (Il carcere 1938-1939, ed. 1949). Una storia terribile è narrata in Paesi tuoi (1939, ed. 1941), raccontata in prima persona dallo stesso protagonista, un operaio torinese ex-carcerato, Berto, che va a lavorare in campagna, e vi scopre un mondo quasi bestiale, per niente idillico, retto da rapporti di violenza, come quello tra il contadino Talino e sua sorella Gisella, alla fine sgozzata da Talino in un accesso di gelosia. Nel dopoguerra, neorealista e impegnato è il romanzo ‘resistenziale’ Il compagno (1947); ma subito dopo Pavese inizia un cammino di crisi interiore in cui, più che il racconto celebrativo e ottimista della Resistenza, emerge il tema della solitudine dell’intellettuale di fronte ad una scelta, quale essa sia. È questo il dilemma che affronta il protagonista de La casa in collina (1948), l’insegnante Corrado, rifugiatosi in collina per sfuggire alla guerra e all’impegno nella lotta partigiana. E il ripiegamento sulle illusioni della gioventù si ritrova in La bella estate (1949), che raccoglie tre racconti lunghi ambientati a Torino, La bella estate, Il diavolo sulle colline, e Tra donne sole. L’attenzione ai miti e alle illusioni (individuali e collettive) porta Pavese anche alla riscoperta del mito antico, riscritto con originalità e amarezza nei Dialoghi con Leucò (1947). L’ultimo romanzo, La luna e i falò (1950), si colloca oltre la guerra, con il ritorno di un orfano emigrante, Anguilla, dall’America al suo paese nelle Langhe: una narrazione epica, sempre in prima persona, percorsa dal mito dell’infanzia e del ritorno, che arriva alla tragica constatazione che, di quel mondo favoloso della memoria, non resta più nulla. Tutto sembra ormai miseria e desolazione e morte, anche l’immagine (quasi sacrale, mitizzata nel ricordo) dei falò notturni dei contadini, che si sovrappone al bagliore dell’incendio del vecchio casolare della Gaminella dove Anguilla aveva vissuto da bambino, o del rogo del corpo di una fanciulla uccisa dai



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partigiani. “Crescere – conclude amaro il protagonista – vuol dire andarsene, invecchiare, veder morire”. Una ricerca originale di stile compie Beppe Fenoglio (Alba 1922-Torino 1963), prima con l’epopea della Resistenza, ma raccontata senza toni celebrativi o moralistici (I ventitré giorni della città di Alba 1952), poi con La Malora (1954), storia in prima persona della dura vita di un bracciante delle Langhe, Agostino, ‘venduto’ da ragazzo a un altro contadino, Tobia, che lo sfrutta duramente. Il mondo narrativo di Fenoglio resta legato al tema della Resistenza anche oltre il neorealismo. In Una questione privata (1963) le vicende della guerra si intrecciano con quelle private dell’amore del partigiano Milton per Fulvia, complicate dai rapporti di entrambi con l’amico Giorgio, prigioniero dei fascisti. Il finale tragico è solo evocato, con una pagina di prosa straordinaria che descrive la corsa disperata di Milton inseguito dai proiettili. Il capolavoro di Fenoglio resta il grande romanzo incompiuto, frutto di un lungo lavoro di rielaborazione, Il partigiano Johnny (1955-1958, ed. parziale col titolo Primavera di bellezza 1959, ed. postuma 1968), dove si realizza uno sperimentalismo linguistico aperto al dialetto e agli influssi stranieri (in particolare l’inglese, quasi seconda lingua di Fenoglio). È il racconto della guerra partigiana dal 1943 al 1945, dal punto di vista di un giovane borghese, già studente e allievo ufficiale, che, in fuga dopo l’8 settembre, si trova a combattere con i partigiani col nome di battaglia di Johnny, prima nelle Brigate Garibaldi comuniste, poi in quelle badogliane. Evidente è la proiezione autobiografica dello scrittore, che eleva quelle vicende nella ricerca di uno stile ‘alto’, quasi epico. Su tutto domina il senso della morte e della tragedia collettiva. Ed è l’ombra della morte che attende il protagonista all’ultima battaglia: un’ombra evocata, presagita, non descritta, nelle ultime pagine rimaste del libro incompiuto. In ambito neorealista si colloca all’inizio anche il romanzo sociale di Vasco Pratolini (Firenze 1913-Roma 1991), scrittore di origini popolari passato (come Vittorini) dal fascismo ‘di sinistra’ alla Resistenza e al comunismo. Pratolini si concentra soprattutto sulla rappresentazione realistica di un mondo corale (i quartieri popolari e operai di Firenze), nei romanzi Il quartiere (1944) e Cronache di poveri amanti (1947), con l’eccezione del soliloquio di Cronaca familiare (1947), dialogo memoriale con il fratello morto. Lo scatto successivo di Pratolini portò alla crisi del neorealismo, e al suo superamento nella cultura italiana, con la pubblicazione del romanzo Metello (1955), che costituiva la prima parte di una trilogia intitolata Una storia italiana, continuata in Lo scialo

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(1960) e Allegoria e derisione (1966), descrizione della storia di una famiglia italiana, dalle umili origini proletarie all’imborghesimento e alla decadenza morale, a partire dalle lotte operaie di fine ’800. Metello Salani non è più il personaggio tipico del neorealismo, l’eroe popolare e ideale che lotta contro la borghesia, ma un uomo normale, con una sua vita anche intima e privata. Altro scrittore toscano che partecipa alla Resistenza è Carlo Cassola (Roma 1917-Montecarlo 1987), che con La ragazza di Bube (1960) torna alla narrativa resistenziale ma non al neorealismo: una sostanziale sfiducia nella storia gli fa infatti preferire, in questo e in altri suoi romanzi, il racconto della vita quotidiana e il ripiegamento nel privato, pur nella ricerca di oggettività e chiarezza nello stile. Grande amico di Cassola è Luciano Bianciardi (Grosseto 1922-Milano 1971), direttore della biblioteca di Grosseto, anarchico e ribelle, generoso promotore di cultura tra la povera gente, che fu profondamente segnato dalla tragedia umana dei minatori di Ribolla (Grosseto) morti nell’esplosione della miniera, alla base del libro-inchiesta I minatori della Maremma (1956). È il punto d’avvio di una violenta critica del capitalismo e della società dei consumi negli anni della ‘dolce vita’, definizione rovesciata (ad iniziare dal titolo provocatorio) nel suo libro più famoso, La vita agra (1962). Dopo la ventata di apparente ‘oggettività’ del neorealismo, si sentì sempre di più il bisogno di recuperare l’esperienza individuale degli eventi, per mezzo della loro registrazione con la scrittura. Era qualcosa di diverso dall’autobiografia o dalla memorialistica, perché più viva era l’esigenza di verità. Nasce così Se questo è un uomo (1947) di Primo Levi (Torino 19191987), uno dei più terribili resoconti dell’Olocausto. Levi, ebreo e deportato ad Auschwitz, sente un primario “bisogno di raccontare”, di spezzare il silenzio, di dare testimonianza e parola a chi è sparito nel nulla, di riportare nella Storia chi è stato cancellato dalla Storia, e soprattutto la memoria del delitto, che non può essere né dimenticato né perdonato. L’orrore è reso ancora più grande dal fatto che Levi lo racconta evitando ogni forma di coinvolgimento emozionale o di travestimento retorico: si tratta di una memoria ‘estrema’, che presenta le cose nella loro crudeltà oggettiva. E l’unico modo per sopravvivere è aggrapparsi a quanto resta dell’umanità: anche alla poesia, nel tentativo di ricordare a memoria il canto XXVI dell’Inferno dantesco. La figura di Ulisse segna anche l’opera successiva, La tregua, storia del ‘ritorno’ di Levi dopo la liberazione da Auschwitz, vera odissea tra le rovine di un’Europa distrutta. In seguito, Levi cercherà di approfondire il problema della chiarezza ‘scientifica’ della rappresentazione, in testi come Storie naturali (1966), Il sistema periodico (1975), La chiave a stella (1978). La



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tematica angosciosa dell’Olocausto tornerà con Se non ora, quando? (1982), vicenda di un gruppo di partigiani ebrei dalla Russia all’Italia; e infine con l’intenso saggio I sommersi e i salvati (1986). In prima persona, Carlo Levi (Torino 1902-Roma 1975), in Cristo si è fermato a Eboli (1945), più che la propria vicenda di antifascista finito al confino in un paesino della Lucania, racconta la scoperta di un Sud completamente al di fuori della Storia, immerso in una condizione senza tempo e senza speranza, tentativo di incontro tra l’intellettuale del Nord e il popolo del Sud, ancora separati da una distanza abissale. In effetti Levi riesce, anche nello stile, a raccontare i miti della gente contadina, guardandoli con i loro occhi, e non con i propri, ponendosi quasi nella posizione del ricercatore, dell’etnoantropologo. È lo stesso punto di vista che ci lascia il più importante autore di letteratura di viaggio del Novecento, Fosco Maraini (Firenze 1912-2004), grande etnologo e fotografo, protagonista di viaggi avventurosi: soprattutto in Asia, nel Tibet ancora quasi inesplorato dai viaggiatori occidentali (visitato insieme all’orientalista Giuseppe Tucci, e raccontato nel libro Segreto Tibet, 1951); o in Giappone durante la guerra, quando Maraini fu internato con la famiglia (e la figlia Dacia) in un duro campo di concentramento giapponese. Anche l’esperienza della guerra, segnata dalla disfatta dell’Italia e dalla sua tragica divisione, influenza la composizione di opere di rievocazione autobiografica. Nell’assoluta contemporaneità si muove la scrittura di Curzio Malaparte (pseudonimo di Kurt Erich Suckert, Prato 1898-Roma 1957), giornalista e inviato speciale, autore di Kaputt (1944), e soprattutto de La pelle (1949), ambientato nella Napoli affamata e stracciona del 1944, nelle retrovie e nella corruzione dell’esercito alleato. Ennio Flaiano (Pescara 1910Roma 1972), giornalista e sceneggiatore di alcuni dei più importanti film italiani del dopoguerra (in particolare con Rossellini e Fellini), e maestro della scrittura satirica e aforistica, è uno dei pochi scrittori a rievocare il periodo del dominio italiano in Africa Orientale e in Etiopia, in un inquietante romanzo (Tempo di uccidere 1947). La terribile ritirata di Russia è raccontata ne Il sergente nella neve (1953) di Mario Rigoni Stern (Asiago 1921-2008), cronaca di una disfatta collettiva in cui è ancora possibile trovare brandelli di umanità, anche nell’incontro con il nemico. Sulla guerra d’Africa si soffermano Mario Tobino (Viareggio 1910-Agrigento 1991) con Il deserto della Libia (1951); e Giuseppe Berto (Mogliano Veneto 1914-Roma 1978), che scrive un romanzo-diario sulla ritirata italiana in Libia dopo la battaglia di El Alamein (Guerra in camicia nera 1955), ripiegando poi sul monologo interiore della propria esperienza della malattia mentale (Il male oscuro 1964).

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Un grande romanzo memoriale, sostanziato di memoria storica e collettiva ma anche familiare, è Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Palermo 1896-Roma 1957), un principe siciliano che nella scrittura trovò il modo di rappresentare l’inarrestabile declino del mondo aristocratico siciliano dopo l’Unità d’Italia. Evidente è il legame con la tradizione storico-verista (soprattutto il De Roberto dei Viceré), che viene però decisamente superata da una concezione del tempo e della decadenza delle cose che avvicina Tomasi piuttosto a Mann e al grande romanzo europeo. Personaggio principale del romanzo è il principe don Fabrizio Salina, che assiste ai rivolgimenti dell’impresa dei Mille, del crollo del dominio borbonico e dell’Unità con lo scetticismo di chi è convinto dell’assoluta inutilità della Storia. I cambiamenti investono la sua stessa famiglia, al punto che don Fabrizio è costretto ad acconsentire al matrimonio del nipote Tancredi con Angelica, figlia di un tipico rappresentante della classe dei nuovi ricchi, il rozzo don Calogero Sedara. Nello stemma di famiglia dei Salina campeggia sempre l’emblema di un animale leggendario, esistente solo nei bestiari medievali, il Gattopardo, un felino maculato capace di cambiare aspetto. Degno erede del Gattopardo sarà allora il giovane Tancredi, che cinicamente affermerà la necessità di adeguarsi ai cambiamenti: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi”. Un unico romanzo memoriale può essere considerata tutta l’opera narrativa di Giorgio Bassani (Bologna 1916-Roma 2000), raccolta sotto il titolo complessivo Il romanzo di Ferrara. Di origini ebraiche e legato soprattutto alla città di Ferrara e alle sue atmosfere di nebbia e decadenza, Bassani vi proiettò la tragedia degli ebrei italiani durante la guerra, ad iniziare dalle Cinque storie ferraresi (1956). In Il giardino dei Finzi-Contini (1962) sono due ragazzi ebrei, Alberto e Micol, a vivere l’isolamento e l’emarginazione dalla vita degli ‘altri’ nella grande villa di famiglia, separata dal mondo esterno, illusorio rifugio dalla guerra e dalla violenza, ove si può ancora giocare, ad esempio, a tennis. Le mura di quel giardino separano ‘dentro’ e ‘fuori’, agghiacciante premonizione del ‘dentro’ e del ‘fuori’ che nei lager nazisti sarà separato dal filo spinato (e il ‘muro’ resta un elemento simbolico ricorrente nella narrativa di Bassani). È una rappresentazione quasi leopardiana di una ‘quiete prima della tempesta’, in cui sopravvivono i valori simbolici della giovinezza e delle sue speranze, della bellezza, dell’innocenza, del gioco. Un ‘mondo a parte’ su cui incombe un’immane tragedia, sottintesa e sottaciuta dal protagonista-narratore (che racconta in prima persona, e sarà l’unico sopravvissuto) e dal lettore. Il destino che attende tutti i personaggi, quasi senza eccezioni, sarà la deportazione e lo sterminio in Germania.



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La prosa narrativa italiana del secondo dopoguerra, dopo il neorealismo, ha conosciuto una stagione di grande ricchezza creativa, favorita oggettivamente dalla ripresa economica e sociale della nazione (il ‘miracolo economico’), dall’allargamento del pubblico, del livello d’istruzione e delle condizioni complessive di benessere. Tra le linee più importanti e significative si può innanzitutto ricordare quella originata dal dibattito del “Menabò” su letteratura e industria, e che corrispondeva a una riflessione globale, a livello internazionale, sulla trasformazione del lavoro intellettuale nella società contemporanea. Sulle pagine della rivista, ad esempio, si iniziò a pubblicare un diario di Ottiero Ottieri (Roma 1924-Milano 2002), poi pubblicato col titolo La linea gotica (1963); e sempre Ottieri, che lavorava all’Olivetti di Pozzuoli, testimonia il difficile rapporto tra Nord e Sud, e le illusioni dei meridionali in cerca di lavoro e di riscatto sociale nel tentativo di essere assunti nella fabbrica venuta dal Nord (Donnarumma all’assalto 1959). Fra gli autori più rappresentativi di questo dibattito è Paolo Volponi (Urbino 1924-Ancona 1994), che ha vissuto una lunga esperienza del mondo industriale all’Olivetti e alla Fiat. Il marchigiano Volponi introduce il problema dell’alienazione sia nei romanzi che trattano direttamente del mondo della fabbrica e del capitalismo (Memoriale 1962: in prima persona, un contadino mezzo matto, Albino Saluggia, racconta l’alienazione della vita in fabbrica), sia in quelli più allegorici (La macchina mondiale 1965, utopia tracciata da uno strano contadino-filosofo marchigiano, nel tentativo di armonizzare civiltà industriale e natura). Un romanzo sperimentale è Corporale (1974), in cui un intellettuale, Gerolamo Aspri, vive ossessionato dall’incubo nucleare. Avvenuta la catastrofe, ed estinta ogni traccia di vita umana sulla Terra, il pianeta è percorso da un manipolo di strani animali parlanti, in una singolare favola fantascientifica, allegorica, apocalittica (Il pianeta irritabile 1978). Infine, Le mosche del capitale (1989) portano la satira del capitalismo agli albori dell’era digitale, criticando l’illusione tecnologica che provoca in realtà una alienazione ancora più terrificante dell’uomo. Formatasi già nel fertile ambiente delle riviste letterarie degli anni VentiTrenta (in particolare “Solaria”), la scrittura delle donne si afferma pienamente nel dopoguerra, anche attraverso il racconto di storie esemplari del passato, come l’Artemisia (1947) di Anna Banti (Firenze 1895-Ronchi di Massa 1985), ispirata alla figura di Artemisia Gentileschi, la grande pittrice del Seicento violentata giovanissima e poi umiliata in un pubblico processo. Lo stesso gusto di rievocazione storica è in Maria Bellonci (Roma 19021986), che dona una dimensione umana alle eroine del Rinascimento, Lucrezia Borgia e Isabella d’Este.

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È spesso una letteratura di memoria autobiografica, in cui la donna si racconta e si individua per mezzo della scrittura. Lalla Romano (1906-2001) racconta in particolare interni domestici, vicende di maternità ed affetti familiari, rivissuti nel tempo della memoria (La penombra che abbiamo attraversato 1964, Le parole tra noi leggere 1969, Una giovinezza inventata 1987). Di origine ebraica, Natalia Levi Ginzburg (Torino 1916-Roma 1991), giovane scrittrice di “Solaria” e traduttrice di Proust, in Lessico famigliare (1963) rivive la cronaca quotidiana e intima della famiglia Levi a Torino attraverso la rievocazione del linguaggio: la parola, anche quella più semplice, senza retorica o enfasi, acquista un valore nuovo e più alto di riconoscimento identitario, e di salvezza nel dramma della vita. Elsa Morante (Roma 1912-1985), moglie di Moravia dal 1941 al 1962, in Menzogna e sortilegio (1948) ripercorre il declino di una famiglia piccolo-borghese del Sud vista attraverso gli occhi di una donna. La scrittrice passa poi alla rievocazione quasi mitica dell’isola di Procida in L’isola di Arturo (1957), un romanzo di formazione in cui emerge il rapporto ambiguo tra padre e figlio, innamorato della nuova giovane sposa del padre. L’infanzia resta al centro della sua scrittura, dalle poesie de Il mondo salvato dai ragazzini (1968) al suo più impegnativo romanzo La Storia (1974). Nella ricerca di un “linguaggio comune e accessibile a tutti”, la Morante fa ruotare il vortice della Guerra e della Storia intorno alle ‘storie’ di personaggi umili e disagiati, una vedova e i suoi due figli, Nino e Useppe (il primo avuto dal marito morto, il secondo nato dalla violenza di un soldato tedesco, e destinati entrambi ad una fine tragica). Interessante è il tentativo di romanzo popolare, di racconto epico della vita (soprattutto nella figura del bambino Useppe). L’ultimo libro della Morante, Aracoeli (1982), affronterà invece il dramma dell’omosessualità, il dissidio di un uomo che cerca di rievocare il rapporto affettivo con la madre spagnola. Rosetta Loy (Roma 1931), con lo stile di una scrittura d’altri tempi, segue la strada del recupero memoriale, dal primo romanzo La bicicletta (1974) a Le strade di polvere (1987), romanzo storico ambientato nel Monferrato dell’Ottocento, in una terra legata alla vita della scrittrice. La Loy, di origini ebraiche, ricorda ancora la persecuzione degli ebrei a Roma all’epoca delle leggi razziali (La parola ebreo 1997), e racconta uno degli episodi più tragici della guerra, la strage di Sant’Anna (Nero è l’albero dei ricordi, azzurra l’aria 2004). Infine, Dacia Maraini (Fiesole 1936), figlia di Fosco Maraini, compagna di Moravia e collaboratrice di Pasolini, rende omaggio alla Sicilia, terra favolosa d’origine della madre Topazia Alliata di Salaparuta, aristocratica siciliana, in opere come La lunga vita di Marianna Ucrìa (1990) e Bagheria



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(1993); ed istituisce un intenso dialogo interiore con il padre, grande viaggiatore incantato, in Il gioco dell’universo (2007). Di fronte all’evanescenza progressiva dell’identità nazionale, e nonostante l’omologazione consumistica e il livellamento linguistico imposto dalla cultura televisiva, nella seconda metà del Novecento tornano di nuovo riconoscibili le aree regionali, le ‘piccole patrie’, non solo agli occhi del pubblico italiano, ma anche e soprattutto di quello straniero. Una storia e geografia (secondo la distinzione adottata da Carlo Dionisotti per la tradizione ‘classica’ della letteratura italiana, ma pienamente valida anche per l’interpretazione del presente) che, dopo oltre un secolo di ‘unità’ d’Italia, torna ad avere di nuovo valore, a livello di rappresentazione e ricezione. Nell’immaginario letterario si dipanano così percorsi legati a contesti locali e regionali. Alcuni di essi sembrano avere maggiore coerenza interna, forse perché legati a nuclei problematici forti e sostanzialmente irrisolti, e di radicale resistenza alla modernità e all’omologazione. Il primo è sicuramente Napoli, che vede nel secondo dopoguerra un momento di vivace dibattito culturale. Grande scrittrice legata alla città da un rapporto di odio-amore è Anna Maria Ortese (Roma 1914-Rapallo 1998), all’inizio influenzata dal realismo magico (Angelici dolori 1937). Il suo libro più celebre è Il mare non bagna Napoli (1953), provocatorio anche nel titolo, disincantato ritratto che raggiunge il culmine nel capitolo Il silenzio della ragione, critica dell’ambiente degli intellettuali napoletani, che le sembra chiuso e inefficace nei confronti dei problemi della città. La dimensione allegorico-fantastica torna nelle opere successive (L’iguana 1965, Il porto di Toledo 1975), fino alla cronaca di un misterioso viaggio nella Napoli del Settecento (Il cardillo addolorato 1993). Un simile rapporto di odio-amore porta Raffaele La Capria (Napoli 1922) al distacco dalla sua città, negli anni della speculazione edilizia e della corruzione politica raccontate dal film-denuncia Mani sulla città di Franco Rosi (alla cui sceneggiatura collaborò lo stesso La Capria). Tra le opere narrative, il romanzo Ferito a morte (1961) è sicuramente uno dei più belli del Novecento italiano: in parte autobiografico, è la rievocazione del periodo favoloso della giovinezza in una Napoli ancora bella e solare (prima della sua autodistruzione), e di una condizione del vivere che l’autore inscrive nella categoria dell’ “armonia perduta”. È un mondo sospeso tra il cielo e il mare di Posillipo, che sembra in fondo lo stesso delle Egloghe Piscatorie di Sannazaro. La più genuina tradizione antropologica di Napoli e della Campania, arcaica e popolare, cittadina e rurale, domina invece l’immaginario erotico

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e lo stile espressionista di Domenico Rea (Napoli 1921-1994), dai racconti di Spaccanapoli (1947) e Gesù, fate luce (1950) all’ultimo capolavoro di Ninfa plebea (1992). A Rea si può a ragione accostare un altro grande autore napoletano del passato, Giambattista Basile, con tutta la sua prorompente vivacità linguistica. Proveniente da un lungo impegno nel mondo della scuola (cui dedica racconti e romanzi), Domenico Starnone (Saviano 1943) riesce a ricostruire in Via Gemito (2000) la propria infanzia e il difficile rapporto col padre, diviso tra l’umile lavoro di ferroviere e l’ambizione frustrata di diventare un pittore. L’infanzia napoletana è anche il tema del primo libro, Non ora non qui (1989), di Erri De Luca (Napoli 1950), che torna alla sua città in Tu, mio e in Montedidio. Siamo ormai verso la fine del secolo, in un breve e illusorio periodo di ‘rinascimento’, seguito da un nuovo crollo morale e sociale, cui però la letteratura che sa farsi scrittura civile oppone ancora la sua voce. È il caso di Roberto Saviano (Napoli 1979) in Gomorra (2006), che, più che romanzo, è un libro-verità, un atto d’accusa al capillare sistema di potere economico e politico instaurato dalla camorra a Napoli e in Campania; e per questo motivo lo stesso scrittore è stato minacciato di morte. L’uso allegorico del nome biblico deriva da Pasolini, che aveva ribattezzato Gomorra una delle tappe del viaggio del suo ultimo progetto di film, Porno-teo-kolossal. Il richiamo a Pasolini non è casuale. La sua figura, nel libro, è oggetto di un commosso omaggio da parte di Saviano, che traccia così una linea di continuità tra passato e presente. Un altro contesto geografico ‘forte’ è quello della Sicilia, da Capuana, Verga, Pirandello e De Roberto a Tomasi di Lampedusa, Brancati e Sciascia. Alla fine del Novecento, anzi, la funzione ‘Sicilia’ diventa quasi indipendente rispetto al quadro nazionale, con scrittori conosciuti a livello internazionale, e riconosciuti come ‘siciliani’, prima ancora che italiani. Un commedia umana tutta siciliana e di ascendenza pirandelliana (il primo Pirandello dei romanzi ‘siciliani’), percorsa dall’ossessione del desiderio della donna, è quella realizzata da Vitaliano Brancati (Pachino 1907Torino 1954), insegnante, giornalista, sceneggiatore cinematografico, in Don Giovanni in Sicilia (1941), Il bell’Antonio (1949), e Paolo il caldo (1959). Nella commedia umana di Brancati è dominante il tema della sessualità come elemento di riconoscimento sociale e di genere, come maschera e finzione, in un’importante satira di costume che influenzerà profondamente il cinema del dopoguerra. A Pirandello guarda anche Leonardo Sciascia (Racalmuto 1921-Palermo 1989), maestro elementare, poi collaboratore editoriale, che cerca di dare una



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spiegazione razionale alle dinamiche della società siciliana, con un atteggiamento che potrebbe essere definito ‘illuministico’. E al rinnovamento della Sicilia vorrebbe almeno contribuire la cronaca-storia dei suoi primi racconti (Le parrocchie di Regalpetra 1956, Gli zii di Sicilia 1958). Di fronte però a fenomeni come la mafia il pessimismo della ragione, nonostante l’impegno civile, sembra prevalere, nei ‘romanzi di mafia’ come Il giorno della civetta (1961). Grande è il coraggio di Sciascia nel presentare un fenomeno allora quasi ignorato e sottovalutato dalla cultura ufficiale. La storia si basa sulla contrapposizione di personaggi emblematici, il capitano dei carabinieri, Bellodi, che viene dal Nord e dall’esperienza della Resistenza, e il suo grande antagonista, il padrino don Mariano Arena, in un confronto che culmina in alcuni illuminanti dialoghi, segno dello scontro fra mentalità completamente opposte, e fra Italie diverse. La struttura del giallo e la tematica della mafia tornano in A ciascuno il suo (1966), e Una storia semplice (1989), un episodio di collusione tra mafia e stato, in un labirinto di rapporti e di corruzione definito ironicamente ‘semplice’. Ma a questo punto il genere del giallo è solo un pretesto per l’avvicinamento a una realtà contemporanea che si fa sempre più aggrovigliata e incomprensibile, e il cui ‘male’ trova origine fuori dalla Sicilia, nell’intreccio dei poteri occulti. Il contesto (1971) offre infatti un inquietante affresco dell’Italia all’inizio del periodo delle stragi e del terrorismo (è la storia di un ispettore che scopre un complotto contro lo Stato, e che viene ucciso dai servizi segreti, nella connivenza tra partito al governo e partito d’opposizione). In Todo modo (1975) un albergo di lusso nel cuore della Sicilia, dietro il paravento di finti esercizi spirituali, ospita riunioni segrete di politici e affaristi affiliati al partito di governo, rese ancora più inquietanti da una misteriosa catena di assassinii; e il tutto viene raccontato in prima persona da un turista-pittore capitato per caso in quell’albergo. Nella scrittura di Sciascia resta strettissimo il rapporto con la storia. Il Settecento dell’Illuminismo e di Voltaire fa da sfondo a Il consiglio d’Egitto (1964), e a Candido ovvero Un sogno fatto in Sicilia (1977). La storia e la cronaca contemporanea ispirano alcuni dei saggi più impegnati, focalizzati su alcuni ‘misteri’ del nostro tempo (La morte dell’inquisitore 1967, La scomparsa di Majorana 1975, L’affare Moro 1979). Dopo Sciascia, la narrativa siciliana segue due strade principali. La prima è caratterizzata da una forte ricerca stilistica espressionista. All’inizio è Antonio Pizzuto (Palermo 1893-Roma 1976), un questore in pensione autore di romanzi con precoce influenza gaddiana (Signorina Rosina 1956, Si riparano bambole 1960, Ravenna 1962). Stefano D’Arrigo (Alì Terme 1919-Roma 1992) in Horcynus Orca (1975) dilata il ritorno di un pescatore

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siciliano sull’isola nel ’43 in un grandioso racconto di sapore mitologico e arcaico, affollato di bestiari ed archetipi ancestrali. Gesualdo Bufalino (Comiso 1920-1996), dopo una lunga vita di insegnante e preside, pubblica un sorprendente romanzo d’esordio, Diceria dell’untore (1981), che in prima persona (e quindi in forma di ‘diceria’) presenta le avventure di un malato terminale di un sanatorio palermitano, miracolosamente guarito dopo un’assurda fuga d’amore con una compagna di corsia. A questa linea, in fondo, si collega anche l’esperienza straordinaria di Goliarda Sapienza (Catania 1924-Gaeta 1996), attrice e anarchica, che nel capolavoro postumo L’arte della gioia (ed. 2000) esprime liberamente la pulsione erotica e il linguaggio della corporeità. La seconda via, più legata alla lezione di Sciascia, è proiettata verso la letteratura di consumo, nei generi del romanzo storico, e del giallo. Da un lato, quindi, l’opera di Vincenzo Consolo (Sant’Agata di Militello 1933), che arriva a restaurare anche la forma e la lingua del passato, nelle lettere e nei documenti antichi, come in Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), romanzo storico ambientato in Sicilia nel 1860; e in Retablo (1987). Dall’altro, Andrea Camilleri (Porto Empedocle 1925), che, dopo un lungo periodo di attività fra teatro e televisione, torna negli anni Novanta alla scrittura e in particolare al genere del giallo, creando una lingua ibrida e vivace, e il personaggio del commissario Montalbano, reso ancora più popolare dalla riduzione a serie televisiva. Ma Camilleri, come Sciascia e Consolo, resta appassionato della ricerca storica e archivistica, che è alla base di altri suoi esperimenti di scrittura e ricostruzione fantastica del passato. In Lombardia la narrativa testimonia le rapide trasformazioni della società industriale e post-industriale, nella dialettica tra la vita di provincia e il contesto urbano della grande metropoli. Un vero caso letterario, considerato con favore da Vittorini, Montale e Calvino, fu quello di un maestro di Vigevano, Lucio Mastronardi (Vigevano 1930-1979), che pubblicò sul “Menabò”, in una lingua mista tra dialetto e italiano, il romanzo Il calzolaio di Vigevano (1959), cui seguirono Il maestro di Vigevano (1962) e Il meridionale di Vigevano (1964). La ‘trilogia’ offriva un quadro critico della provincia italiana negli anni del ‘miracolo economico’ e dell’illusione del benessere materiale a portata di tutte le classi sociali, e anche degli immigrati meridionali, i cosiddetti ‘terroni’. Del tutto diversa la provincia lombarda di Piero Chiara (Luino 1913-Varese 1986), amico di Sereni e legato alle atmosfere avvolgenti dei laghi e delle colline prealpine, dove tra ironia ed eros scorrono storie come La stanza del Vescovo (1976) (Chiara era, tra l’altro, un appassionato lettore di Casanova).



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A Milano, il mondo precario e picaresco delle grandi periferie, della terra di nessuno tra città e campagna, è rappresentato da Giovanni Testori (Novate, Milano 1923-Milano 1993), a cominciare dal primo romanzo Il Dio di Roserio (1954), e poi nel ciclo I segreti di Milano (Il ponte della Ghisolfa, La Gilda del Mac Mahon, La Maria Brasca, L’Arialda, Il Fabbricone). Testori unisce ad una eccezionale competenza nelle arti figurative (era allievo di Longhi, e appassionato di Caravaggio e dell’arte barocca lombarda) un uso spregiudicato degli strumenti linguistici, che lo avvicina a Gadda, e che lo porterà, negli anni Sessanta-Settanta, al teatro sperimentale, con la riscrittura di Shakespeare nella Trilogia degli Scarrozzanti (1972-1977). La Milano delle banche e delle piccole nevrosi della vita quotidiana è invece l’ambiente preferito di Giuseppe Pontiggia (Erba, Como 1934-Milano 2003), che, autore di una tesi di laurea su Svevo, parte dalla propria esperienza autobiografica di bancario per il primo romanzo (La morte in banca 1959), ed arriva, attraverso una assidua frequentazione dei classici (antichi e moderni), ad una graduale rarefazione dello stile, nella forma breve delle Vite di uomini non illustri (1993), rivisitazione ironica del genere biografico applicato alle vicende quotidiane dell’uomo comune, in un indimenticabile ritratto della piccola borghesia italiana alle soglie della crisi e del declino di fine secolo. La provincia veneta fa da sfondo alla narrativa di Guido Piovene (Vicenza 1908-Londra 1974), che rinverdisce il genere del romanzo epistolare (Lettere di una novizia 1942), affrontando il tema delle contraddizioni interiori di una rigida educazione cattolica; e di Goffredo Parise (Vicenza 1929-Treviso 1986), autore de Il prete bello (1954), e dell’interessante esperimento di prosa breve in forma di apologo dei Sillabari (1972 e 1982). Luigi Meneghello (Malo, Vicenza 1922-Thiene 2007), a lungo docente di letteratura italiana all’università inglese di Reading, ricorda giocosamente il piccolo mondo del suo paese d’origine in Libera nos a Malo (1963), anche attraverso una sapiente operazione di recupero linguistico del parlato e del dialetto; e ne I piccoli maestri (1964) torna al tema della Resistenza, ma in modo decisamente antiretorico. Anche Gianni Celati (Sondrio 1937), docente alla Cornell University di Ithaca (New York) e poi al Dams di Bologna, torna al paesaggio della bassa e del delta padano della provincia ferrarese in Narratori delle pianure (1985), e Verso la foce (1988), in una ricerca stilistica che tende alla semplicità e alla chiarezza comunicativa. L’ultimo Novecento si apre con la rivoluzione formale del romanzo sperimentale, parallela all’esperienza francese del Nouveau roman e dell’Ecole

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du Regard. L’avvio è dato dalla nascita della neoavanguardia, con la pubblicazione dell’antologia dei Novissimi da parte della rivista “Il Verri” di Luciano Anceschi (1961), e la costituzione del Gruppo ’63. In quest’ambito si forma Alberto Arbasino (Voghera 1930), che pubblica subito uno dei più singolari romanzi del Novecento, Fratelli d’Italia (1963), gigantesco e destrutturato pastiche plurilinguistico che segue il viaggio di due intellettuali alla moda in un’Italia perduta nel mito del benessere e del miracolo economico, nel mondo del cosmopolitismo altoborghese. La scrittura segue la casualità dell’andare, nella narrazione in prima persona dominata dal tempo presente, e dalla registrazione del parlato. La lingua e lo stile rivelano l’ascendenza da Gadda, il grande modello di Arbasino (che aveva coniato la fortunata definizione di ‘nipotini dell’ingegnere’ per sé, Pasolini e Testori). La scrittura-fiume continua nel tempo, spingendo l’autore a continue rielaborazioni del romanzo (1976 e 1993), che seguono le profonde mutazioni storiche dell’Italia e dell’Europa negli anni dalla contestazione alla fine della Guerra Fredda. Anche Giorgio Manganelli (Milano 1922-Roma 1990) è legato alla neoavanguardia, sviluppando l’idea della letteratura come finzione e menzogna, da Hilarotragoedia (1964) ai “cento piccoli romanzi fiume” di Centuria (1979); e la sua satira dissacrante colpisce la corruzione politica dell’Italia contemporanea, e l’asservimento degli intellettuali al potere, in opere come l’Encomio del tiranno scritto all’unico scopo di fare i soldi (1990). Gli ultimi decenni hanno visto un ritorno della narrativa all’ambientazione storica, in quello che è stato definito il romanzo neostorico, in realtà distanziato ironicamente dai modelli della tradizione, in un gioco di allusioni, citazioni, intarsi di riferimenti culturali, scritture di secondo grado. Ricostruisce ad esempio un curioso e divertente Medioevo maccheronico Il pataffio (1978) di Luigi Malerba (Berceto, Parma 1927-Roma 2008), che ambienta altri suoi romanzi nell’antica Bisanzio (Il fuoco greco 1990), nella Roma rinascimentale (Le Maschere 1994), nella Grecia mitica della storia di Ulisse, rievocata dal punto di vista di Penelope (Itaca per sempre 1997). Storico antico di professione, Valerio Massimo Manfredi (Piumazzo di Castelfranco Emilia 1943) è autore di alcuni dei romanzi storici più letti nel mondo, ambientati nell’antichità greca e romana (Lo scudo di Talos 1988, la trilogia Aléxandros 1998, L’ultima legione 2002). Un interessante romanzo storico è la prima opera di Antonio Tabucchi (Pisa 1943), Piazza d’Italia (1975), in cui il Risorgimento italiano viene rivissuto dalla prospettiva di un villaggio toscano, tra vitalismo e ribellione anarchica. L’immaginario di Tabucchi viene poi influenzato dalla sua profonda lettura



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del poeta portoghese Fernando Pessoa, e dalle inquietudini identitarie che ne segnano la figura e l’opera. Ne deriva un piccolo capolavoro come Notturno indiano (1984), viaggio onirico nell’India profonda alla ricerca di se stesso. In Sostiene Pereira (1994), ambientato nell’amato Portogallo al tempo del regime salazariano (1938), sarà un vecchio intellettuale a scoprire la propria anima più profonda, nell’opposizione alla violenza morale della dittatura. Umberto Eco (Alessandria 1932), studioso di estetica e semiotica, autore di saggi importanti nel dibattito culturale degli anni Sessanta-Settanta, vicini ai temi della neoavanguardia e dello strutturalismo (Opera aperta 1962, Apocalittici e integrati 1964, La struttura assente 1968, Lector in fabula 1969), applica il principio della ‘collaborazione’ del lettore nella composizione di un romanzo scritto quasi per gioco, Il nome della rosa (1980), che ha avuto invece un enorme successo di pubblico. La struttura, basata sull’intreccio del giallo (una serie di misteriosi assassinii in un’abbazia medievale, nella cui biblioteca si cela un manoscritto della Poetica di Aristotele), si avvale di un metodo combinatorio di testi filosofici medievali e moderni, diventando il paradigma della letteratura detta ‘postmoderna’: una tecnica che invita lo stesso lettore al suo ‘riconoscimento’, e che continua nelle opere successive (Il pendolo di Foucault, Baudolino). Un senso ‘ampio’ alla letteratura, tra filosofia e musica, tradizione e nostalgia, dà Alessandro Baricco (Torino 1958). La sua scrittura ‘allusiva’ fatta di simbolismi, ambientazioni surreali e fuori del tempo e dello spazio richiede il coinvolgimento del lettore medio: Oceano mare (1993) rinvia così alla locanda di Almayer, l’inquieto protagonista del primo romanzo di Joseph Conrad, e a un celebre quadro di Géricault, Le radeau de la Méduse. In Novecento (1994) si svolge in forma di monologo teatrale la storia singolare di un uomo che ha vissuto tutta la sua vita lavorando come pianista a bordo di un transatlantico. La condizione giovanile negli ultimi vent’anni del Novecento è al centro di forme di scrittura narrativa che si caratterizzano per il grado elevato di sperimentalismo, di espressionismo, nel tentativo di avvicinare il racconto ad una registrazione in presa diretta della realtà: l’ambiente universitario, la contestazione, l’iniziazione sessuale, il dramma della droga ecc. Il linguaggio, crudo e immediato, si avvicina al parlato e alla lingua gergale giovanile, senza censure e tabù. È la realtà rappresentata da Pier Vittorio Tondelli (Correggio 1955-Reggio Emilia 1991) che nei racconti di Altri libertini (1980) fa rivivere le vicende di un gruppo di giovani dell’università di Bologna negli anni Settanta-Ottanta. Intensamente umana è la storia di Camere separate (1989), dal dolore per la separazione e la perdita dell’amante alla consapevolezza di una

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vita allo sbando, fino alla scoperta dell’AIDS (malattia di cui sarebbe morto lo stesso Tondelli, che aveva vissuto in modo sofferto la propria omosessualità). Nello stesso ambiente bolognese si forma poi la più giovane Silvia Ballestra (Porto San Giorgio 1969), autrice de La guerra degli Antò (1992) e Gli orsi (1994). Una narrativa giovanile esclusivamente curvata sugli aspetti negativi del presente, nella loro più cruda rappresentazione (la droga, la violenza, l’appiattimento morale, linguistico, culturale), è infine quella degli scrittori definiti ‘cannibali’ (Aldo Nove, Niccolò Ammaniti, Matteo Galiazzo). L’autore più significativo di una scrittura di provocazione e di satira del costume contemporaneo è Aldo Busi (Montichiari 1948). Il suo primo sorprendente romanzo, Seminario sulla gioventù (1984), racconto delle avventure del giovane Barbino, è sospeso tra il romanzo di formazione e il romanzo picaresco. Il ritratto impietoso del declino morale e sociale dell’Italia degli anni Ottanta torna nella Vita standard di un venditore provvisorio di collant (1985). Ma è una narrativa che, oltre le punte di verità ‘espressionistica’, si rivela legata a modelli illustri della tradizione italiana ed europea, come testimoniano alcune importanti traduzioni, e originali riscritture del Decameron (1991), e dei Dialoghi del Ruzante (2007).

4.4. Gadda Riconosciuto oggi come uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento, Carlo Emilio Gadda (Milano 1893-Roma 1973) arriva alla scrittura letteraria in modo assolutamente straordinario, elevandola a forma complessa di conoscenza e di rappresentazione della realtà. Proveniente da una famiglia di imprenditori lombardi che però, dopo la morte del padre, conosce il declassamento economico e sociale, si vede costretto a rinunciare ad una precoce vocazione letteraria per iscriversi alla facoltà di ingegneria. Volontario idealista, vive la dura esperienza della Prima Guerra Mondiale e della prigionia in un campo di concentramento tedesco: una delusione amara che si riflette nelle pagine del Giornale di guerra e di prigionia (ed. solo nel 1955). Tornato in Italia, si laurea in ingegneria elettrotecnica (1920) e inizia a lavorare in Italia, in Europa e in America Latina (Argentina). Già dagli anni Venti la letteratura torna ad essere il suo interesse predominante, fino ad allontanarlo gradualmente dall’attività di ingegnere. L’attenta lettura dei classici della narrativa italiana ed europea lo porta ai primi tentativi di romanzi, Racconto italiano di ignoto del Novecento (ca. 1924, ed. 1983), e La meccanica (ca. 1924-1928, ed. 1970). Risalta in particolare un’originale interpretazione di Manzoni, diversa dalla tradizione scolastica e



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cattolico-borghese, e che rivaluta gli aspetti tragici, grotteschi e ‘contaminatori’ dei Promessi sposi (a Manzoni è dedicato il primo saggio gaddiano sulla rivista fiorentina “Solaria”, intitolato Apologia manzoniana, 1927). Nel frattempo Gadda dilata enormemente i suoi orizzonti culturali approfondendo lo studio della filosofia tedesca fra Sette e Ottocento, da Leibniz a Kant, ma anche appassionandosi alle istanze più recenti della cultura europea contemporanea, da Bergson alla psicoanalisi di Freud e alla relatività di Einstein: gli interessa il problema della conoscibilità del reale, del rapporto sfuggente tra fenomeno e noumeno. In Meditazione milanese (1928), seguendo Leibniz, arriva all’idea che la stessa realtà è frutto del processo di conoscenza; oggetti e fenomeni sono inseriti in una rete infinita e pulviscolare di relazioni, che, ad ogni tentativo di decifrazione, diventa sempre più caotica e ingarbugliata. Con “Solaria” Gadda pubblica una parte della sua produzione di racconti (raccolti in La madonna dei filosofi 1931, Castello di Udine 1934, L’Adalgisa 1944) in cui la rivolta contro il vuoto borghese contemporaneo si attua soprattutto sul piano dello sperimentalismo linguistico, della “brutale deformazione dei temi”, come viene dichiarato in Tendo al mio fine, un manifesto di poetica pubblicato su “Solaria” nel ’31 e utilizzato poi come prefazione al Castello di Udine. Si tratta di un intenso e magmatico laboratorio di scrittura, in cui i testi vengono rielaborati, riscritti, riadattati a nuove strutture, come i ‘disegni milanesi’ che confluiscono nell’Adalgisa (Strane dicerie contristano i Bertoloni, Navi approdano al Parapagàl ). Sono di questi anni, tra i ‘disegni’ più importanti, il San Giorgio in casa Brocchi e L’incendio di via Keplero (che saranno pubblicati nelle Novelle dal ducato in fiamme, 1953), e l’abbozzo di romanzo Un fulmine sul 220 (1931), miniera di materiali riutilizzati nelle opere successive. Gadda giunge così all’incompiuta struttura romanzesca de La cognizione del dolore (in parte pubblicata sulla rivista “Letteratura” nel 1938-1941, poi in volume nel 1963), proiezione autobiografica sulla figura di un nevrotico “hidalgo ingegnere”, don Gonzalo Pirobutirro, precipitato in un’assoluta crisi di relazione col mondo e con la madre (che rinvia alla stessa madre di Gadda, Adele Lehr, morta nel 1936). Sullo sfondo, un mondo immaginario sudamericano, il Maradagàl, che altro non è se non un travestimento della Brianza lombarda, una parodia manzoniana di un Seicento spagnoleggiante dietro il quale è ben leggibile la realtà della Milano e della Lombardia contemporanea. Quasi inesistente la storia, dominata da una cupa atmosfera di incomunicabilità, soprattutto nel difficile rapporto con la madre, che Gonzalo troverà morta, probabilmente uccisa a seguito di un’aggressione, nella villa di famiglia: la composizione del romanzo non va oltre questo tragico episodio, lasciando aperte le ipotesi più inquietanti e inconfessabili

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(fino a quella che l’assassino possa essere proprio lui, Gonzalo, vittima di un ossessivo dominio affettivo da parte della madre). La lingua è caratterizzata dal plurilinguismo, nell’uso contemporaneo di dialetto, lingua parlata e aulica, gergo, lingue speciali e tecniche, forestierismi, e nel continuo gioco linguistico di creazione lessicale e risemantizzazione. La retorica si avvale della metafora, della deformazione grottesca, dell’accumulazione iperbolica, che sembra avvicinare lo stile gaddiano alla poetica del barocco. In questa dialettica tra ordine e caos, il tentativo disperato dello scrittore è quello di afferrare le cose che ci circondano, di isolarle nel vortice di sensazioni, odori, suoni, per mezzo della loro ‘nominazione’. Questo spiega la prevalenza della descrizione, nel passaggio vertiginoso dall’universale al particolare, al dettaglio, anche microscopico (le pulci, gli insetti), e nella discesa continua dall’alto verso il basso (verso il basso materiale e corporeo, il metabolismo, gli umori del corpo umano, gli escrementi). Abbandonata intanto la professione e trasferitosi a Firenze, Gadda comincia a pubblicare nell’immediato dopoguerra, sulla rivista “Letteratura” (1946), un nuovo romanzo, ambientato stavolta nella Roma fascista alla fine degli anni Venti, Quer pasticciaccio brutto di via Merulana (ed. 1957). È un altro romanzo incompiuto, quasi nel genere del giallo, sullo scenario di un orrendo delitto avvenuto in un palazzo signorile di via Merulana, e di un’assurda indagine poliziesca condotta dal commissario Ciccio Ingravallo. In realtà l’inchiesta tende ad aggrovigliarsi in modo inestricabile, allontanando sempre di più la soluzione, e la scoperta del colpevole: e anche in questo caso la composizione del romanzo si interrompe senza che sia possibile arrivare a scoprire la ‘verità’ dei fatti, anzi, insinuando il dubbio che tale verità non esista, e non sia mai esistita, nell’assoluta confusione morale ed esistenziale del mondo (il ‘pasticciaccio’, appunto). Confusione mirabilmente riflessa nella babele linguistica, che, nella dialettica tra la lingua nazionale e i dialetti, fa emergere ora la parlata romanesca, che dopo pochi anni sarà alla base del recupero linguistico di Pasolini, da Ragazzi di vita ad Accattone e Mamma Roma. Passato a Roma, Gadda lavora nel 1950-1955 alla programmazione culturale della RAI, un’esperienza importante anche per l’avvicinamento alle più moderne forme della comunicazione radiofonica, e per la consapevolezza delle variazioni diamesiche. Sono anni fecondi anche per la prosa saggistica, e in particolare per gli appunti di viaggio, le cronache artistiche e letterarie, da Le meraviglie d’Italia (1939) a Verso la certosa (1961). La raccolta I viaggi la morte (1958) trae il proprio titolo da un saggio del ’27 sul simbolismo del viaggio in Baudelaire e Rimbaud. Viene pubblicato ora anche Il primo libro delle favole (1952), un singolare esperimento di condensazione aforistica,



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contaminato con modelli antichi, tra i quali spicca quello delle favole di Leonardo da Vinci. Fino a questi anni l’opera gaddiana, poco conosciuta, era stata svalutata dalla critica, con l’eccezione di Gianfranco Contini, che già dagli anni Trenta aveva individuato l’ascendenza di una linea linguistico-stilistica che risaliva fino alla Scapigliatura lombarda (Carlo Dossi) e alla poesia maccheronica rinascimentale (Folengo), coniando la definizione di pastiche per la peculiarità del suo stile. La fortuna di pubblico (paradossale, e sorprendente per lo stesso autore) comincia improvvisamente con l’edizione del Pasticciaccio nel ’57, perché coincide anche con le trasformazioni in atto nella cultura italiana ed europea, più aperta a forme d’arte sperimentali. A Gadda guardano, come modello, sia Pasolini che i giovani scrittori della neoavanguardia: Alberto Arbasino conia per sé, Pasolini e Testori l’etichetta di ‘nipotini dell’ingegnere’ (1960), e dedica a Gadda alcuni dei suoi saggi più belli, arrivando a scrivere: “la derisoria violenza della sua scrittura esplodeva esasperata, contestando insieme il linguaggio e la parodia, tra il ron-ron rondesco-neoclassico-fascistello e il pio-pio crepuscolare-ermeticopretino, in schegge di incandescente (espressionistica) espressività” (Genius loci 1977). Ma il vecchio ingegnere trascorrerà gli ultimi anni sostanzialmente appartato, circondato (come Montaigne) dai suoi libri e dalle sue carte private e ancora inedite. Ne emergerà Eros e Priapo (1967), violenta satira contro il fascismo, tra psicoanalisi e politica; l’ultimo atto di uno scrittore che al labirinto della parola ha sempre accostato una profonda esigenza morale (come nella più nobile tradizione lombarda, da Verri e Parini a Manzoni).

4.5. Calvino Italo Calvino (Santiago de Las Vegas, Cuba 1923-Siena 1985) nasce a Cuba, dove lavorava il padre agronomo e ricercatore botanico, ma rientra subito in Italia con i genitori, e passa infanzia e giovinezza a Sanremo. Dopo la partecipazione alla Resistenza, entra in contatto con Pavese e Vittorini, comincia a collaborare al Politecnico, e con la casa editrice Einaudi. Nel clima neorealista nasce il suo primo romanzo, di ambientazione resistenziale, Il sentiero dei nidi di ragno (1947), visione della storia dei ‘grandi’ dal punto di vista del bambino Pin, e la raccolta di racconti sulla guerra partigiana Ultimo venne il corvo (1949). Dopo la metà degli anni Cinquanta, nella progressiva crisi dell’ideologia comunista alla quale Calvino aveva inizialmente aderito, nascono altri racconti ‘realistici’, che affrontano la vita problematica nell’Italia

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contemporanea (La speculazione edilizia 1957, La nuvola di smog 1958, La giornata di uno scrutatore 1963). Ma è una linea alla quale Calvino preferisce presto un modo di raccontare divertito ed ironico che guarda molto più lontano, ai modelli del romanzo filosofico settecentesco (il cosiddetto conte philosophique) e della favola popolare, attentamente studiata nella raccolta antologica delle Fiabe italiane (1956). Viene così alla luce la trilogia de I nostri antenati: Il Visconte dimezzato (1952), Il Barone rampante (1957), Il Cavaliere inesistente (1959), un’escursione originale, nella narrativa contemporanea, in un mondo senza tempo che riesce comunque a rappresentare alcuni caratteri fondamentali della crisi esistenziale dell’uomo moderno, dal senso di divisione dell’Io a quello dell’inutilità dell’esistere. Il primo atto, Il Visconte dimezzato, inizia in un tempo favoloso, in una battaglia fra Turchi e Cristiani in cui il visconte Medardo di Terralba resta tagliato a metà da una palla di cannone; le sue due metà (la buona e la cattiva) continuano mirabilmente a vivere, e a lottare ferocemente l’una contro l’altra, finché non tornano di nuovo unite; per Calvino, è la rappresentazione anche visiva, concreta, del tema del ‘doppio’, del dissidio tra identità diverse e compresenti, che percorre tutta la sua opera. Nel Barone rampante, ambientato nel Settecento, è un altro aristocratico, il barone Cosimo Piovasco di Rondò, che a dodici anni fugge dalla società a causa del conflitto col padre, e resta a vivere per sempre sugli alberi pur continuando ad avere rapporti con il resto del mondo, in una singolare metafora della posizione ambigua dell’intellettuale moderno. Il Cavaliere inesistente ci riporta infine al tempo di Carlo Magno, con il personaggio del cavaliere Agilulfo che, privo di sostanza corporea, si rende visibile agli altri solo grazie all’armatura vuota in cui vive, distruggendo la quale alla fine si suicida: simbolo amaro della nullità e dell’inconsistenza della vita umana. Dagli ‘antenati’ di un favoloso passato all’umile antieroe di un favoloso presente, e poi alla dimensione infinita di un lontanissimo futuro. È questo il passaggio al ‘comico’ di Marcovaldo ovvero Le stagioni in città (1963), avventure di un ‘semplice’ in una Milano allucinata e surreale, dove il tema dell’alienazione della civiltà industriale e della città contemporanea viene affrontato con la leggerezza ironica della favola; e poi l’approdo alla parodia fantascientifica delle Cosmicomiche (1965) e di Ti con zero (1967), situazioni grottesche e paradossali e dialoghi tra extraterrestri in un universo ormai privo della presenza umana, testimonianza di un avvicinamento di Calvino al pensiero scientifico del Novecento (dalla relatività alla teoria del Big Bang), in un contesto sempre ‘comico’ che sembra rinviare anche alle Operette morali di Leopardi.



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Negli anni Sessanta, e in particolare dopo il trasferimento a Parigi (1967), la poetica di Calvino evolve verso importanti cambiamenti, anche per influenza dello strutturalismo, di autori come Barthes e Borges, e dell’Oulipo guidato da Raymond Queneau (sigla dell’Ouvroir de Littérature Potentielle, ‘opificio di letteratura potenziale’), che individua gli strumenti più efficaci e creativi della letteratura nelle contraintes, le ‘costrizioni’, le regole (metriche, strutturali, linguistiche, numeriche, visive ecc.) all’interno delle quali lo scrittore sceglie (o non sceglie, lasciando la scelta al lettore, o al caso) tra milioni di combinazioni possibili. Di più, questo atteggiamento mentale consente un avvicinamento migliore ad una realtà la cui interpretazione ha bisogno sempre di più delle categorie di molteplicità, complessità, pulviscolarità, indeterminazione. È una rivoluzione formale per Calvino, che può così andare anche oltre lo sperimentalismo della neoavanguardia italiana, e progettare opere sistematicamente basate sulla tecnica combinatoria, in uso presso gli autori francesi dell’Oulipo. La prima struttura di questo tipo è offerta da Il castello dei destini incrociati (1969)(seguito poi da La Taverna dei destini incrociati, 1973), i cui personaggi non sono altro che le figure di un mazzo di tarocchi, che interagiscono tra di loro nel sistema di combinazioni delle carte; fortissima è la suggestione dell’Ariosto, autore molto amato da Calvino, che ne riscrive il Furioso in un testo destinato alla recitazione radiofonica (Orlando furioso raccontato da Italo Calvino 1970). Simile la struttura combinatoria e potenzialmente ‘aperta’ de Le città invisibili (1972), che si presenta come una raccolta di descrizioni di cinquantacinque città fatte da Marco Polo all’imperatore cinese Kublai, in realtà una successione vertiginosa di città immaginarie, metafore di tutte le possibili condizioni dell’esistenza e della vita e della follia dell’uomo. Non è un gioco intellettuale fine a se stesso. Il libro si conclude con la bellissima esortazione a lottare contro la città disumana e alienata che ormai ci sta avvolgendo tutti: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Sia nelle favole dei Nostri antenati, di Marcovaldo e delle Cosmicomiche, sia nella complessità strutturale delle Città invisibili, l’impegno di Calvino non viene mai meno, e nonostante tutto anche una sua illuministica fiducia nella ragione. Compito dell’intellettuale deve essere quello di non annegare nel “mare dell’oggettività”, ma di condurre fino in fondo la “sfida al labirinto”

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(dai titoli di due suoi saggi, rispettivamente del ’59 e del ’62). Il labirinto è ora la stessa letteratura, senza più distinzione tra realtà e finzione. Il romanzo diventa ‘metaromanzo’ in Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979), storia che inizia in dieci modi diversi, dieci incipit che rinviano a generi e stili diversi; e intanto nella cornice si dipana la storia parallela del Lettore e della Lettrice, che alla fine si innamorano, scoprendo di aver letto nient’altro che la propria storia (come avevano fatto Francesca e Paolo sulle pagine del Lancelot). Ma è anche un labirinto di fronte al quale si può registrare il fallimento del tentativo umano di conoscere l’essenza del reale, oltre la cangiante apparenza dei fenomeni. È quanto avviene nelle brevi prose di Palomar (1983), un enigmatico personaggio nel quale la perdita di senso delle cose porta ad un tentativo ossessivo e frustrante di descrizione e catalogazione minuziosa e assurda (come quella di due celebri personaggi di Flaubert, Bouvard e Pécuchet), e a una sostanziale incomunicabilità con il resto del genere umano: “Devo pensare non solo a quel che sto per dire o non dire, ma a tutto ciò che se io dico o non dico sarà detto o non detto da me o dagli altri”. Ultima opera di Calvino, esito dell’altro importante versante della sua prosa, la saggistica (di cui si ricorderanno almeno le raccolte Collezione di sabbia e Una pietra sopra), le Lezioni americane (pubblicate postume nel 1988) erano i testi di cinque conferenze (le Norton Lectures) che Calvino avrebbe dovuto tenere all’università americana di Harvard nel 1985, e che non furono mai lette, a causa della sua morte improvvisa. Arrivate a uno stato quasi definitivo, le ‘lezioni’ erano passate attraverso un magmatico processo di composizione testimoniato dai quaderni autografi. Calvino vi individua i valori fondamentali che la letteratura dovrebbe conservare nel millennio prossimo venturo (il nostro): leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità. Forse mille anni sono un po’ troppi, ma l’invito di Calvino è pienamente valido per il nostro presente, di fronte ai cambiamenti radicali che investono l’arte e la letteratura, soprattutto in relazione al mondo della comunicazione. Sempre di più la produzione letteraria risponde a logiche di massa, di consumo e di mercato, e sembra perdere la capacità originaria di immaginare, di sognare, di ‘vedere’ e ‘far vedere’ le cose con la sola potenza evocativa della parola. Sempre più risulta difficile un processo di riflessione critica sui contenuti e sulle forme, di individuazione di linee o di percorsi. Alle soglie del trionfo della civiltà dell’immagine, Calvino ci lascia con un ultimo avvertimento: “Se ho incluso la visibilità nel mio elenco dei valori da salvare è per avvertire del pericolo che stiamo correndo di perdere una facoltà umana fondamentale: il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme dall’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di pensare per immagini”.



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4.6. La poesia Mentre la prosa narrativa del dopoguerra, col neorealismo, si proponeva di tagliare radicalmente con il passato, la poesia presenta una più evidente linea di continuità con l’eredità dell’ermetismo, dalla cui ‘scuola’ (pur distaccandosene) emergono alcuni dei poeti più rappresentativi della nuova generazione. Singolare è la figura di Leonardo Sinisgalli (Montemurro 1908-Roma 1981), che fu ingegnere e lavorò come creativo e pubblicitario nell’industria italiana dagli anni Trenta agli anni Sessanta (dall’Olivetti all’Alfa Romeo e all’AGIP), incarnando quasi il problema contemporaneo del confronto tra cultura scientifico-tecnologica e cultura umanistica, tra letteratura e civiltà delle macchine. La sua formazione poetica nasce sotto il segno di Ungaretti, nell’elaborazione di un ermetismo concreto, sostanziato del ricordo del paesaggio della sua terra lucana, nei miti archetipici della Terra e della Madre (Vidi le Muse 1943). Accanto alla scrittura poetica è notevole la composizione di Furor mathematicus (1950), un libro ‘aperto’ sospeso tra scienza e arte, che guarda soprattutto al modello intellettuale di Leonardo da Vinci. Vittorio Sereni (Luino 1913-Milano 1983) risente dell’influenza ermetica nella prima raccolta Frontiera (1941), e proietta poi nella sua poesia il dramma esistenziale legato alla guerra e alla prigionia (Diario d’Algeria 1947). Il superamento dell’ermetismo (del quale si continua comunque l’uso di alcuni strumenti stilistici) avviene così con il ricorso alla componente diaristica, trasfigurata nel passaggio dalla realtà individuale all’allegoria della vita. È una visione esistenziale caratterizzata da una sorta di pessimismo storico, applicato agli ultimi sviluppi della moderna società industriale (Gli strumenti umani 1965). Per questo motivo Sereni partecipa al dibattito su letteratura e industria, con l’importante poemetto Una visita in fabbrica, che presenta “dal fondo di questi asettici inferni” il dramma dell’alienazione della vita in fabbrica, e in generale dell’alienazione dell’uomo nella società contemporanea. Lo stile si amplia alla forma lunga e al verso ampio, in un periodare difficile che tenta di rendere (non senza reminiscenze dantesche) l’inferno dell’alienazione. L’ultima raccolta, Stella variabile (1982), ne conferma il confronto diretto con la realtà, che era già stato interpretato da Anceschi come punto d’arrivo di una “linea lombarda” risalente fino alla lezione di Parini e Porta. Un impegno di tipo morale, esteso ad una sofferta religiosità di tipo agostiniano, è infine quello che percorre la poesia di Mario Luzi (Firenze 1914-2005), nella sua lunga attività poetica, dal primo libro La barca (1935) alle raccolte complessive Il giusto della vita (1960) e Nell’opera del mondo

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(1979). Luzi si forma nell’ambiente dello spiritualismo ermetico fiorentino, collabora alle riviste Frontespizio e Campo di Marte, e insegna poi letteratura francese a Urbino, l’università di Carlo Bo, il critico che aveva difeso i valori dell’ermetismo criticati da Flora. Il suo primo libro, La barca, è considerato dallo stesso autore “emozione di un primo contatto consapevole con la vita”, ricerca dei valori assoluti, delle “indelebili verità” nascoste sotto la superficie mobile e cangiante delle cose. La loro ‘scoperta’ avviene (come in Ungaretti e Quasimodo) con la poesia dell’illuminazione nell’attimo (si veda la lirica L’immensità dell’attimo, e poi la raccolta Avvento notturno, 1940). Nel dopoguerra Luzi matura una nuova concezione esistenziale e religiosa, per cui il mondo intero diventa un sofferto deserto, che riesce ormai difficile ‘illuminare’ con l’analogia ermetica (Un brindisi 1946, Quaderno gotico 1947, Primizie del deserto 1952). Prevale uno stile colloquiale (talvolta ‘epistolare’), più consono a raccontare un’esistenza definita una “vicissitudine sospesa”, in una realtà che sembra sempre immutabile e indifferente (Notizie a Giuseppina dopo tanti anni ). Dagli anni Sessanta Luzi (come l’ultimo Montale) critica il vuoto della società dei consumi, con uno stile discorsivo ma franto, segno della frantumazione definitiva di un esistere ormai privo di significato (Nel magma 1963, Dal fondo delle campagne 1965, Su fondamenti invisibili 1971, Al fuoco della controversia 1978, Per il battesimo dei nostri frammenti 1985). La linea portata avanti da Saba (definita poesia antinovecentesca da Pasolini, nel senso della sua lontananza dalla linea ermetica) si rivelò particolarmente feconda dopo il declino dell’ermetismo, dopo la seconda guerra mondiale, con poeti che mettono al centro della loro scrittura l’autenticità e l’esperienza della vita. Straordinaria e solitaria è l’esperienza di Sandro Penna (Perugia 1906Roma 1977), che rappresenta la propria condizione omosessuale in una poesia gioiosa e fresca, di grande valore ritmico e cantabile, quasi un canto di innocenza legato alla riscoperta di una bellezza corporea primitiva, la “strana gioia di vivere”: luci e odori, sensazioni semplici e profonde. Alla “vita difficile” Penna cerca di rispondere con la “rima facile”, rifiuta l’analogia, si pone al di fuori dell’ermetismo, e cerca di raccontare la propria sofferta vicenda esistenziale, ma sempre con leggerezza: “La vita [...] è ricordarsi di un risveglio / triste in un treno all’alba”. Le liriche sono brevi e solari come epigrammi, e viene talvolta da pensare ai poeti antichi dell’Antologia Palatina, o al moderno poeta greco Costantino Kavafis. Penna fa uso di versi tradizionali, come gli endecasillabi, con una cantabilità nuova. Le sue visioni sono fortemente vitali, come l’immensità del mare calmo, simbolo dell’Amore assoluto nel Simposio di Platone: “Il mare è



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tutto azzurro. / Il mare è tutto calmo. / Nel cuore è quasi un urlo / di gioia. E tutto è calmo”. Giorgio Caproni (Livorno 1912-Roma 1990), dopo le prime suggestioni dall’ermetismo e della tradizione ‘ligure’ di Sbarbaro e Montale (Come un’allegoria 1936, Ballo a Fontanigorda 1938, con il ricordo della fanciulla amata e precocemente scomparsa, come la Silvia leopardiana o l’Annetta montaliana; Finzioni 1941, Cronistoria 1943), caratterizza la propria poetica con una ripresa della tradizione metrica italiana (e anche del sonetto). Un piccolo capolavoro è 1944, la tragedia della guerra ‘fotografata’ in una scena enigmatica fatta di sensazioni che alludono ad una fucilazione di partigiani (come quella avvenuta a Milano nell’agosto 1944). Ed è straordinaria la memoria della fresca bellezza di Annina, la madre popolana a Livorno (Non c’era in tutta Livorno), una “canzonetta” che sembra “scritta per gioco”, e alla quale il poeta (come i poeti medievali nei congedi delle loro canzoni) chiede d’andare in giro per la città. La raccolta Seme del piangere (1959), nell’apparente facilità del verso e della rima, rappresenta l’incontro di poesia e vita, sempre nel ricordo innamorato della madre scomparsa (“Per lei voglio rime chiare”). Il titolo è apertamente derivato da Dante (Pg. XXXI, 46, quando Beatrice invita Dante a non pianger più), e segna il passaggio dal dolore per la morte della madre alla rievocazione della sua leggerezza vitale per mezzo della poesia, che spesso ricorda A Silvia di Leopardi (“Come scendeva fina / e giovane le scale Annina!”). La poesia di Caproni si evolve poi verso la forma lunga del poemetto nel Congedo del viaggiatore cerimonioso (1966), prefigurazione della morte in un viaggiatore che prende congedo dai suoi compagni di scompartimento in treno, giunto “alla disperazione / calma, senza sgomento”; e nelle Stanze della funicolare (1952), sul tema del viaggio dell’esistenza e dell’inquietudine della morte, trattato però con leggerezza quasi settecentesca. Una graduale conquista di strutture poetiche narrative, tra discorsività ed epigrammaticità, pervase dal senso dell’inconoscibilità del reale (Muro della terra 1975, Il franco cacciatore 1982, Il conte di Kevenhüller 1986). Poeta della vita quotidiana è Attilio Bertolucci (San Lazzaro, Parma 1911-Roma 2000), in Viaggio d’inverno (1971), e nell’importante poema familiare La camera da letto (1984-1988). Bertolucci attua il recupero di una linea pascoliana e crepuscolare, tra autobiografismo e narratività, distinguendosi per l’elaborazione di una metrica scorrevole, dominata dall’endecasillabo e dal verso lungo. Un caso a parte resta quello di Amelia Rosselli (Parigi 1930Roma 1996), la figlia di un antifascista (Carlo Rosselli) assassinato a Parigi nel ’37, figura di ampi orizzonti europei (scrive anche in inglese e francese), che riflette nella sua poesia (caratterizzata dalla forte tensione musicale del

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verso lungo) il carattere drammatico e ‘privato’ della sua vita e della sua malattia, culminata col suicidio. S’è visto che sia la linea ermetica (Quasimodo, Gatto) che quella ‘antinovecentesca’ (Saba), di fronte alla tragedia della guerra e all’urgenza morale e materiale della ricostruzione del paese, si erano evolute verso forme di poesia civile e morale, un’istanza vivissima nel dopoguerra. L’impegno politico si fa poesia-testimonianza in Franco Fortini, pseudonimo di Franco Lattes (Firenze 1917-Milano 1994), in un pessimismo storico che sembra legare il poeta alla consapevolezza dell’impossibilità del cambiamento (“La poesia / non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi”). Le lotte dei braccianti del Sud vengono elevate a grido poetico da Rocco Scotellaro (Tricarico 1923-Portici 1953), intellettuale attivo nelle lotte dei contadini della Lucania, e ingiustamente incarcerato. Roberto Roversi (Bologna 1923), fondatore di “Officina” con Pasolini nel ’55, denuncia la “stagione vile” del presente in Dopo Campoformio (1965), continuando a essere grande promotore di nuove e molteplici esperienze culturali nella sua Bologna, a iniziare dalla composizione dei testi di alcune delle più celebri canzoni di Lucio Dalla. Come Roversi, anche Giovanni Giudici (Le Grazie, La Spezia 1924), si scaglia contro la mediocrità dell’Italia contemporanea, illusa dal benessere del miracolo economico. In continuità con Saba e i crepuscolari, Giudici usa le armi dell’ironia e della leggerezza (La vita in versi 1965, Autobiologia 1969), nell’autobiografismo di una poesia quasi in prosa. Una poesia di grande incisività morale, lontana dall’ermetismo e dal sublime, apparentemente povera, in lunghi versi irregolari. Rinasce la poesia dialettale, come forma di espressione immediata delle classi popolari, anche grazie alla contemporanea poetica del neorealismo, in letteratura e nel cinema: e uno dei primi libri importanti è Poesie a Casarsa (1942) di un ventenne Pasolini. Con un’operazione quasi filologica Albino Pierro (Tursi, Matera 1916-Roma 1995) ricostruisce l’arcaico e quasi estinto dialetto tursitano, la parlata del suo paese (Tursi, in provincia di Matera), in toni non realistico-campagnoli ma memoriali ed espressionisti, incarnando uno strano ruolo di antico cantastorie popolare (’A terra d’u ricorde 1960, Metaponto 1963). Cantastorie, ma cittadino, è Franco Loi (Genova 1930), milanese d’adozione e ‘portiano’ di cuore, testimone di una nuova lingua degli ‘umili’, quella originata dall’intenso inurbamento delle classi rurali lombarde e padane, in una poesia di forte impegno sociale (I cart 1973, Stròlegh 1975) e anche ecologico (Umber 1992); esito importante è l’approdo al poema narrativo nel dialetto emiliano di Colorno, paese della madre (L’angel 1994).



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Infine, Franco Scataglini (Ancona 1930-Numana 1994), poeta e pittore, si crea una sua lingua poetica personale, magicamente sospesa tra dialetto anconetano e memoria antica della poesia medievale (da Iacopone ai poeti popolari marchigiani come Olimpo da Sassoferrato), con predilezione per il verso breve popolare, il settenario e la quartina rimata (E per un frutto piace tutto un orto 1973, Rimario agontano 1986, El Sol 1995). Ma intanto il dibattito innescato negli anni Cinquanta sul rapporto tra letteratura e meccanismi della civiltà di massa aveva portato ad una critica sempre più forte nei confronti delle strutture tradizionali della lingua e della poesia. Nel 1961 la rivista di Anceschi “Il Verri” fa pubblicare l’antologia I Novissimi, poesie per gli anni ’60, a cura di Alfredo Giuliani. È l’atto di nascita di una neoavanguardia (guidata dal critico Angelo Guglielmi), che intende superare regole ed ideologie, e diventare “poesia dell’alienazione” in opposizione al conformismo contemporaneo. Umberto Eco, con Opera aperta (1962), avvia la riflessione sulla semiotica e sulle nuove forme letterarie e poetiche. I poeti della neoavanguardia si raccolgono nel cosiddetto Gruppo ’63, e pubblicano la loro produzione nell’Antologia del Gruppo ’63 (1964). Una funzione di guida è riconosciuta a Edoardo Sanguineti (Genova 1930), che aveva già prodotto opere caratterizzate dallo sperimentalismo e dal plurilinguismo, come Laborintus (1956) ed Erotopaegna (1960). Anche dopo lo scioglimento del gruppo Sanguineti continuerà a esplorare le possibilità sperimentali dell’avanguardia, in testi tesi sempre alla demistificazione, dissacrazione, denuncia del mondo globale (nelle raccolte complessive Triperuno 1964 e Segnalibro): operazioni compiute per mezzo della consapevole distruzione del linguaggio della comunicazione, e delle istituzioni stilistico-retoriche della tradizione letteraria. Tra gli altri (Nanni Balestrini, Antonio Porta), è rilevante la figura di Elio Pagliarani (Viserba 1927), autore del poemetto La ragazza Carla (1960), pubblicato sul “Menabò”, esempio di pastiche sperimentale di linguaggi diversi, in cui la lingua della scrittura professionale e burocratica, precipitata all’interno della struttura poetica, rivela tutta il suo vuoto. Nel panorama poetico contemporaneo si distingue l’opera di un maestro come Andrea Zanzotto (Pieve di Soligo 1921), una lunga vita dedicata all’insegnamento, appartata nell’orizzonte operoso della provincia veneta. Zanzotto risente all’inizio dell’influenza dell’ermetismo, che viene vissuto però nel riannodare i legami con la tradizione poetica italiana, in particolare con Petrarca, e il suo particolare senso del ‘paesaggio’ (Dietro il paesaggio 1951, Elegia e altri versi 1954, Vocativo 1957). È un paesaggio in cui emerge il senso dell’angoscia e del mistero della vita umana, in una Storia che troppo spesso è vicenda di lutto e distruzione. Stridente è allora il contrasto tra una

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serena memoria ‘bucolica’ e agreste (il locus amoenus della collina veneta e dei boschi del Montello), e la coscienza delle ferite del passato (la guerra, le trincee, gli ossari, tutti segni della presenza della morte) e del presente (la selvaggia e barbara aggressione consumista della natura). Tale contrasto si esprime anche attraverso il recupero di forme e stilemi antichi, come l’elegia bucolica delle IX ecloghe (1961) e di Galateo in bosco (1978), e il sonetto nella macrostruttura dell’Ipersonetto. Il rinnovamento formale viene attuato per mezzo della scomposizione ironica del linguaggio, alla ricerca delle sue radici primordiali, incorrotte, come nella celebre poesia Al mondo: “Mondo, sii, e buono; / esisti buonamente” (La beltà 1968). Si passa così dal recupero del dialetto di Filò (1976), composto per il film Casanova di Fellini, all’invenzione di una lingua infantile pregrammaticale chiamata petèl. L’impegno civile di Zanzotto è tutto ‘dentro’ la sua poesia (Fosfeni 1983 e Idioma 1986), fino all’evocazione di figure emblematiche di un mondo scomparso, come il vecchio amico contadino Nino. La poesia contemporanea, dopo lo sperimentalismo della neoavanguardia, sembra oggi caratterizzata dal ritorno alla metrica e alla tradizione, all’autobiografismo, a tematiche orfiche, simboliche, mitiche. Ne rappresenta bene le istanze Giovanni Raboni (Milano 1932-2004), autore dei Versi guerrieri e amorosi (1990), che anche nel titolo richiamano una celebre raccolta di madrigali di Monteverdi: il dialogo con la poesia antica, nella scelta di campo per la versificazione regolare e l’uso della rima, va dalla tradizione provenzale fino a Montale, con importanti suggestioni straniere (Raboni traduce ad esempio autori ‘difficili’ come Baudelaire e Proust). Paolo Ruffilli (Rieti 1949) dedica il poemetto La gioia e il lutto (2001) a una giovane vittima dell’Aids, con un’elaborazione metrica e retorica in versi brevi che si dipanano come pensieri, e danno luogo a una teatralità tragica a più voci. La metrica tradizionale torna in Patrizia Valduga (Castelfranco Veneto 1953), in una poesia di forte sensualità e concretezza, dalla memoria del padre morto (Requiem 1994) all’erotismo (Cento quartine e altre storie d’amore 1997, Quartine. Seconda centuria 2001); e in Valerio Magrelli (Roma 1957), artefice di una raffinata rarefazione stilistica, contro la poesia contemporanea troppo ‘spontanea’, ma con un fortissimo radicamento nel presente (Ora serrata retinae 1980, Nature e venature 1987, Poesie e altre poesie 1996). La linea ‘orfica’ è seguita da Milo De Angelis (Milano 1951), nell’illuminazione poetica della realtà quotidiana (Somiglianze 1976, Terra del viso 1985, Tema dell’addio 2005). Esponente principale di un ritorno al mito come elemento primario della poesia è infine Giuseppe Conte (Porto Maurizio 1945), autore de L’Oceano e il ragazzo (1983), intenso canto di natura ed eros.



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La poesia sperimentale continua nell’esperienza di Maurizio Cucchi (Milano 1945), che rappresenta la frammentazione del reale in un quadro di autobiografismo (Il disperso 1976, Donna del gioco 1987, Poesia della fonte 1993, L’ultimo viaggio di Glenn 1999). Sul versante di un moderato sperimentalismo resta anche Gabriele Frasca (Napoli 1953), attraverso lo studio attento delle forme metriche della tradizione (la sestina) e del mondo della comunicazione (Rame 1984, Lime 1995, Rive 2001, Prime 2007). La ‘poesia spontanea’ è invece il marchio della produzione di Alda Merini (Milano 1931), strettamente legata al dramma della malattia dell’autrice, costretta a vivere lunghi anni nell’internamento del manicomio (come Dino Campana); per la Merini la poesia diventa forma di espressione interiore e di liberazione per mezzo della parola, in una condizione di dominio dell’oralità e di tensione aforistica. Una materia quotidiana e privata è anche alla base della poesia di Patrizia Cavalli (Todi 1947), caratterizzata da ironia, umorismo, leggerezza, nel trattamento della tematica erotica, e nella ricerca della semplicità. Oggi, la comunicazione poetica prevalente, fra le giovani generazioni, passa per modalità diverse da quelle tradizionali del ‘libro di poesia’, del ‘canzoniere’, e in generale della parola poetica affidata al solo linguaggio verbale. Uno dei canali più importanti è ormai diventata la canzone d’autore, portata ad alto livello artistico già in America da Bob Dylan e David Bowie, e in Francia dalla scuola degli chansonniers e di Jacques Brel. Sull’esempio francese, in Italia sono state determinanti all’inizio le canzoni di Luigi Tenco, e poi di Gino Paoli, nel segno di quella che è stata identificata come una vera ‘scuola genovese’, proseguita con Fabrizio de André, Paolo Conte e Ivano Fossati. Innestandosi sulla lunga tradizione della canzone popolare, i cantautori (Lucio Dalla, Francesco De Gregori, Roberto Vecchioni, Francesco Guccini) rinnovano profondamente il rapporto tra parola e musica, scrivendo testi di grande suggestione anche dal punto di vista poetico; un rapporto che sembra tornare alle origini della poesia italiana ed europea, quando nel Medioevo i trovatori lavoravano simultaneamente alla poesia e all’accompagnamento musicale. E in alcuni cantautori come Guccini è rilevante anche la ricerca metrica, con la ripresa di forme antiche di canzone o di ballata. Per altri è determinante la collaborazione con poeti (chiamati ‘parolieri’) come Giulio Rapetti detto Mogol (per Lucio Battisti) e il filosofo Manlio Sgalambro (per Franco Battiato). La canzone d’autore in dialetto, infine, è rappresentata soprattutto a Napoli da Pino Daniele ed Enzo Gragnaniello. Questo tipo di poesia, ritrovato in Italia e nel mondo l’originario contatto con la musica, torna così ad una vasta

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fortuna di pubblico, perfino nel contesto dell’odierna società dei consumi e della comunicazione globale di Internet.

4.7. Teatro e cinema Il teatro italiano cominciò a trovare nuove strade di espressione solo dopo la seconda guerra mondiale, con l’opera di grandi registi come Giorgio Strehler, che si fecero tra l’altro mediatori delle più importanti esperienze europee contemporanee, da Brecht a Beckett. L’autore più grande del dopoguerra è sicuramente Eduardo De Filippo (Napoli 1900-Roma 1984), figlio d’arte (del commediografo Edoardo Scarpetta), ed erede della tradizione del teatro dialettale napoletano di Roberto Bracco e Raffaele Viviani. Dopo le prime commedie, Eduardo fa una precisa scelta di campo ponendosi negli anni Trenta sulla scia di Pirandello, incontrato nel 1933, in particolare con L’abito nuovo (1936), tratto da una novella pirandelliana. Abbandona quindi il teatro popolare e la maschera di Pulcinella, ma anche il mondo degli ‘umili’ di Viviani. La sua è l’amara realtà piccolo-borghese di una Napoli che, tra il fascismo e il dopoguerra, sembra attraversare un irrimediabile processo di decadenza. Anzi, la guerra diventa una specie di grande spartiacque simbolico ed esistenziale, tra un tempo sereno (i ‘giorni pari’), ed uno angoscioso (i ‘giorni dispari’), spartiacque ripreso dallo stesso Eduardo quando nel 1975, pubblicando l’intera sua produzione teatrale, la divise in due parti: la Cantata dei giorni pari, le prime commedie dal 1920 al 1942, tra le quali appaiono i primi capolavori come Natale in casa Cupiello (1931); e la Cantata dei giorni dispari, che presenta le opere dal 1945 al 1973, da Napoli milionaria a Gli esami non finiscono mai, passando per i temi della crisi familiare (Mia famiglia 1955) e sociale (De Pretore Vincenzo 1957, Il sindaco del rione Sanità 1961), ma anche del rapporto con una realtà sfuggente, immaginata o solo sognata (Questi fantasmi 1946, Le voci di dentro 1948). Utilizzando un dialetto napoletano depurato dei suoi caratteri più espressivi, bassi e popolari (e quindi talvolta anche della sua forza primigenia), ma reso più comprensibile e comunicabile, De Filippo dà voce ad un mondo di piccole tragedie quotidiane, legate all’esperienza della guerra (dalla paura dei bombardamenti al ritorno del deportato a casa in Napoli milionaria 1945), ma anche alla condizione femminile, nella storia di una prostituta che lotta per riscattare se stessa, la sua dignità di essere umano e di madre, e i suoi tre figli (Filumena Marturano 1946).



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Sempre da Napoli parte la carriera di Giuseppe Patroni Griffi (Napoli 1921-Roma 2005), regista legato a La Capria e a Francesco Rosi, autore del dramma borghese Metti, una sera a cena (1967). Ma è anche il tempo della riscrittura di capolavori del passato calati nell’attualità del nostro tempo, con l’esercizio di rielaborazione parodica e plurilinguistica di Shakespeare operata da Giovanni Testori (Novate, Milano 1923-Milano 1993) nella Trilogia degli Scarrozzanti, composta da Ambleto (1972), Macbetto (1974), Edipus (1977); oppure con la dirompente forza interpretativa di Carmelo Bene (Campi Salentina 1937-Roma 2002) in Pinocchio (1961), Nostra Signora dei Turchi (1966), Romeo e Giulietta (1976). Dario Fo (San Gano, Varese 1926), premio Nobel (1997), partendo con la moglie Franca Rame da un teatro di forte impegno politico e sociale, ha avuto il merito straordinario di riscoprire l’antica e ininterrotta tradizione del teatro popolare, giungendo all’invenzione di Mistero buffo (1973), un eccezionale pastiche teatrale definito “giullarata popolare”. Si tratta di una singolare ‘sacra rappresentazione’ laica, parodia del teatro medievale ma anche satira della società contemporanea, in cui emerge la voce degli oppressi ‘da sempre’, i contadini, gli analfabeti, i perseguitati e gli esclusi. Nonostante il taglio comico-satirico, è al centro il senso profondamente umano dei testi evangelici della Passione, il dolore straziante della Madre per la morte del Figlio, come in Donna de Paradiso di Iacopone. Gli strumenti fondamentali di Fo sono due: da un lato la lingua, basata sulla contaminazione totale dei linguaggi, dalla lingua medievale alle parlate dialettali settentrionali, dal latino maccheronico al gergo giullaresco e al pavano di Ruzante, fino alla creazione di una lingua inesistente chiamata grammelot; dall’altro l’eccezionale capacità interpretativa e gestuale del ‘giullare’ Fo, che rende la fase dell’esecuzione (come nell’antico teatro di piazza) assolutamente insostituibile. Molte delle funzioni comunicative svolte un tempo dal teatro sono nel corso del Novecento passate al cinema, che si è affiancato pienamente alla letteratura come forma narrativa, anche con la collaborazione di alcuni tra i più grandi scrittori italiani contemporanei, da D’Annunzio e Pirandello a Pasolini. L’Italia fu anche all’avanguardia dal punto di vista tecnico. Le prime sale cinematografiche aprirono a Roma, Milano, Napoli, nel 1896, appena pochi mesi dopo la prima proiezione dei fratelli Lumière a Parigi (28 dicembre 1895). Nacquero le prime case produttrici, come Ambrosio a Torino, Cines a Roma, Milano Film a Milano, e Partenope Film a Napoli. Il primo genere di successo del cinema muto fu il kolossal ambientato nell’antichità, come Gli ultimi giorni di Pompei in addirittura quattro remakes (uno nel 1908, due nel 1913, un altro nel 1926), Quo vadis di Enrico Guazzoni

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(1912), e Cabiria di Giovanni Pastrone, ideato da Gabriele D’Annunzio, che scrisse i testi delle didascalie (1914): tutte ricostruzioni storiche grandiose, di gusto estetizzante e decadente, che incontrarono il favore del pubblico contemporaneo. Immediato il successo cinematografico delle grandi opere della letteratura come la Commedia di Dante, oggetto di una interessante riduzione nell’Inferno di Giuseppe De Liguoro (1911). Ma nasceva anche il fenomeno del divismo, trasferito dal teatro al cinema da grandi figure di donne come Eleonora Duse e Francesca Bertini. Mentre Pirandello collaborava alla realizzazione cinematografica di alcune sue opere, con l’avvento del cinema sonoro il pubblico italiano degli anni del fascismo preferiva ormai la commedia d’evasione dei cosiddetti ‘telefoni bianchi’, rappresentata negli anni Trenta da registi come Alessandro Blasetti e Mario Camerini, in storie d’amore di grande semplicità narrativa, ambientate nel mondo dell’alta borghesia, in cui potevano proiettarsi i sogni di innalzamento sociale delle classi subalterne. Solo nel 1937 il regime fascista, nel suo programma di controllo della comunicazione di massa (che passava già attraverso la fondazione della radio di stato, l’EIAR, e il controllo della stampa), decise di prendere anche la guida del cinema, affidando le produzioni nazionali più importanti all’Istituto LUCE e fondando presso Roma una specie di Hollywood italiana, Cinecittà. Il cinema, definito da Mussolini “l’arma più forte”, divenne strumento di propaganda, nel genere documentaristico e informativo (i famosi cinegiornali LUCE), e in film retorici e celebrativi del regime e del valore italico. In tutt’altra direzione lavorava, già durante la guerra, un intellettuale a metà tra letteratura e cinema come Mario Soldati, che portò sul grande schermo i capolavori di Fogazzaro, a iniziare da Piccolo mondo antico (1939), con la giovane attrice Alida Valli. E poi soprattutto Luchino Visconti, che in Ossessione (1943) raccontava una storia di gelosia passionale e tragica ambientata in un contesto contadino. Quel film fu allora definito ‘neorealista’, e il termine neorealismo passò a designare il potente bisogno di raccontare la realtà contemporanea che attraversò l’Italia del secondo dopoguerra, dalla letteratura al cinema. È un cambiamento profondo dell’immaginario, che viene subito capito da un grande uomo di cinema che era già stato attore di successo nella stagione dei ‘telefoni bianchi’, e che ora diventa regista, Vittorio De Sica, autore di capolavori come Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948) che rappresentano bene il dramma dell’Italia della ricostruzione. La rievocazione della guerra e della rovina del continente percorre anche il cinema di Roberto Rossellini (Roma città aperta 1945, Paisà 1946, Germania anno zero 1947), con grandi interpreti come Anna Magnani.



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L’impegno civile e sociale lascia però presto il campo ad un cinema realistico di evasione, in un’escursione dal genere tragico al comico, verso il cosiddetto neorealismo rosa di Luigi Comencini (Pane, amore e fantasia 1953), De Sica (L’oro di Napoli 1954), Dino Risi (Poveri ma belli 1957), e Mario Monicelli (I soliti ignoti 1958), con attrici come Gina Lollobrigida e Sofia Loren. È una stagione felice del cinema italiano, che si avvale dell’opera (anche come sceneggiatori) di grandi scrittori come Moravia, Pasolini, Vitaliano Brancati, Cesare Zavattini. Il passaggio successivo fu la commedia all’italiana (inaugurata da Divorzio all’italiana di Pietro Germi nel ’61), in cui si affermano, più che i registi, grandi interpreti come Alberto Sordi, Vittorio Gassmann, Marcello Mastroianni, Nino Manfredi, Ugo Tognazzi, Monica Vitti, Stefania Sandrelli, Claudia Cardinale, e, nel genere comico, l’ineguagliabile maschera di Totò (Antonio De Curtis). Il cinema d’autore continua con Visconti, che affronta il problema dell’emigrazione meridionale in Rocco e i suoi fratelli (1953), ed esplora poi il rapporto con la grande letteratura portando sullo schermo classici come I Malavoglia (col titolo La terra trema, 1948), Senso di Camillo Boito (1960), Il Gattopardo (1963), Morte a Venezia di Thomas Mann (1971). La crisi morale e intellettuale dell’esistenzialismo si riflette nel cinema di Michelangelo Antonioni, in film celebri come L’avventura (1960), Blow up (1966), Professione: reporter (1972). Federico Fellini, vincitore dell’Oscar con La strada (1954), interpreti Giulietta Masina e Anthony Quinn, racconta all’inizio la società italiana del miracolo economico che sembra avviarsi ad un illusorio benessere, da I vitelloni (1953) al capolavoro La dolce vita (1960), con Mastroianni e l’icona femminile Anita Ekberg. In seguito la sua immaginazione segue i percorsi dell’onirico e della rappresentazione degli archetipi collettivi dell’eros (Satyricon, Casanova), in quello che appare un amaro e ironico circo della vita (8 e 1/2, 1963). Straordinario è anche il recupero memoriale dell’infanzia e del passato, in film come Amarcord (1973), E la nave va (1983), Ginger e Fred (1985). Una produzione che si colloca ai livelli più alti del cinema italiano anche per lo stretto rapporto con la musica delle colonne sonore, composta dal grande musicista Nino Rota. Alla lezione di Pasolini si collega infine Bernardo Bertolucci, figlio del poeta Attilio Bertolucci, autore di capolavori come Ultimo tango a Parigi (1972), Novecento (1976) e L’ultimo imperatore (1987). Nei ‘generi’ affermatisi negli anni Sessanta, oltre alla commedia all’italiana, si distingue il cinema sociale-politico di Francesco Rosi (Salvatore Giuliano, Mani sulla città, Il caso Mattei ) e Gianni Amelio (Il ladro di bambini

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1992); il fortunato western all’italiana o spaghetti-western di Sergio Leone (Per un pugno di dollari 1964, Per qualche dollaro in più 1965, Il buono, il brutto, il cattivo 1966, C’era una volta il West 1968), con le celebri musiche di Ennio Morricone; l’horror di Dario Argento (L’uccello dalle piume di cristallo 1970, Profondo rosso 1975, Suspiria 1977); e infine il comico, con Paolo Villaggio inventore della maschera grottesca del ragionier Fantozzi, Massimo Troisi (Ricomincio da tre 1981), Roberto Benigni (Non ci resta che piangere con Troisi 1984, Il piccolo diavolo 1988, e il grande film sull’olocausto La vita è bella 1997). Alla fine del secolo, scomparse le figure più grandi degli anni Cinquanta-Sessanta, il cinema italiano sembra avviato ad un declino che è parallelo a quello che investe la società, l’economia e la cultura. Un declino che non dipende tanto da problemi settoriali (di investimenti e risorse), ma proprio da una generale mancanza di idee forti sulla vita e sui problemi del nostro tempo, e dall’evanescenza progressiva di quello che era stato, nei decenni precedenti, il suo vero punto di forza, anche di fronte al cinema americano e francese: il rapporto profondo con la letteratura, nella creazione e nella scrittura, che aveva reso possibile la formazione di un immaginario ‘italiano’ negli anni difficili del dopoguerra, riconosciuto a livello internazionale.

4.8. Pasolini Figlio di un ufficiale dell’esercito e di una maestra friulana (Bologna 1922Ostia 1975), Pier Paolo Pasolini, oltre a Bologna (dove si laurea nel ’45 con una tesi su Pascoli, poeta che segna la sua formazione, assieme ad una precoce lettura di Freud), trascorre i periodi più belli dell’infanzia e della giovinezza nel paese della madre, Casarsa in Friuli, dove inizia a scrivere le prime poesie in dialetto friulano, le Poesie a Casarsa (1942), giudicate positivamente da Gianfranco Contini. La tempesta della guerra porta con sé la tragedia della morte del fratello partigiano Guido, ucciso da altri partigiani comunisti (1945), e il dramma della graduale scoperta della propria omosessualità, vissuta da Pier Paolo all’inizio in modo angoscioso, a causa della sua originaria formazione religiosa cattolica. Nell’immediato dopoguerra Pasolini si impegna nella ricostruzione morale del suo paese, diventando insegnante nella scuola media di Valvasone, presso Casarsa: ma lì emerge anche lo scandalo della sua diversità, per una denuncia di corruzione di minorenni e la perdita del posto di insegnante (1949). Sono gli anni più duri, anche per le ristrettezze economiche. Pasolini fugge a Roma con la madre, e lì comincia ad essere attratto dalla vita primitiva



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delle borgate, Primavalle e Pietralata, dove ritrova, pur nella degradazione e nell’emarginazione, un’umanità ancora autentica. Amico di Penna, Caproni, Bassani, Gadda e Bertolucci, continua a scrivere le sue poesie, e i romanzi iniziati in Friuli, pubblicando da Garzanti Ragazzi di vita (1955), che segna l’inizio di una lunga persecuzione giudiziaria (per questa e altre opere) per denunce di pornografia e immoralità. Mentre fonda la rivista “Officina” con i vecchi amici Francesco Leonetti e Roberto Roversi, si inserisce anche nel mondo del cinema, prima come sceneggiatore, poi come regista in proprio, a iniziare da Accattone (1960), in un’avventura di creazione artistica che sarebbe durata fino alla morte. Con Alberto Moravia ed Elsa Morante cominciava allora a effettuare una serie di viaggi in paesi dell’Asia e dell’Africa, entrando a contatto con l’atroce realtà della povertà e dello sfruttamento postcoloniale, ad iniziare dall’India (1961). I suoi film erano sempre più discussi, e suscitavano scandalo nella società borghese benpensante. La sua era una figura scomoda anche per la cultura di sinistra, dopo le critiche rivolte ai giovani contestatori del ’68; ma Pasolini era allora forse la più alta coscienza critica del paese, nei suoi articoli giornalistici e nei suoi saggi politici, ideologici e culturali, pubblicati in celebri raccolte come Passione e ideologia (1960) e Scritti corsari (gli articoli usciti sul “Corriere della Sera”, 1975). Pasolini è l’unico intellettuale italiano del Novecento ad avere attraversato tutte le forme dell’espressione artistica, dalla poesia alla narrativa, dalle arti figurative al teatro e al cinema. Da questo punto di vista, la sua figura è sicuramente una di quelle che rappresentano meglio l’evoluzione della cultura contemporanea verso modalità di comunicazione ed interazione dei linguaggi. All’inizio del suo percorso è la poesia, nata a stretto contatto con il paese della madre, Casarsa, e con la sua lingua, il dialetto, in una riscoperta dei valori di una vita semplice e quotidiana, preborghese e preindustriale, che per certi aspetti avvicina Pasolini a Pascoli, anche nella sperimentazione linguistica. La prima raccolta dialettale è Poesie a Casarsa (1942), riprese nel volume La meglio gioventù (1954)(il titolo, attribuito in un primo momento a un abbozzo di romanzo che poi Pasolini completò col titolo Il sogno di una cosa, derivava dal verso di una triste canzone di guerra). Accanto alla tradizione italiana (Leopardi, Pascoli, Ungaretti) risulta evidente un orizzonte europeo di ascendenza francese e spagnola (da Verlaine a Garcia Lorca). Il dialetto è anche un atto di rivolta contro la cultura ufficiale, contro l’italiano del regime fascista, contro la tradizione novecentesca dell’ermetismo, e contro la lingua del padre; ma non esclude, naturalmente, la possibilità di

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una poesia in lingua, che viene recuperata soprattutto dopo il passaggio a Roma, e la continuazione della ricerca sul dialetto su altri piani espressivi (racconti, romanzi, sceneggiature e film). In lingua uscirà L’Usignolo della Chiesa Cattolica (1958), raccolta di poesie risalenti fino al ’43, struggente dichiarazione poetica dell’ideologia di un eretico moderno (ostile a tutti, e scomodo per tutti), che si richiama contemporaneamente a Cristo e a Marx, come portatori di un messaggio di umanità e di liberazione. La stessa prospettiva, curvata verso il sottoproletariato delle borgate romane, al di fuori della Storia e della lotta di classe, è ne Le ceneri di Gramsci (1957), importante raccolta di poemetti in terzine (ma con notevoli irregolarità metriche), sul modello pascoliano, che giunge al vertice del Pianto della scavatrice, che rovescia il celebre inizio dei Pisan Cantos di Pound: “Solo l’amare, solo il conoscere / conta, non l’aver amato, / non l’aver conosciuto”. La tensione è tutta nel presente, la Storia è giunta al suo termine in una notte d’estate romana che si conclude con l’antropizzazione simbolica di una vecchia scavatrice, con il suo “urlo improvviso, umano”, grido di dolore universale. In seguito, la poesia di Pasolini si sarebbe avvicinata sempre di più a forme di prosa diaristica, di denuncia del male della società contemporanea, in La religione del mio tempo (1961), Poesia in forma di rosa (1964), fino a Trasumanar e organizzar (1971), poesia della ribellione del privato e del corpo contro i meccanismi dell’alienazione. Come nel primo tempo della sua poesia era forte la presenza di Pascoli (e Saba, Penna, Caproni), così in questo secondo e ultimo tempo torna la lezione di Dante, che ispira il viaggio infernale (in una Roma allucinata del ’63) del poema in prosa Divina mimesis (1975). Fin dagli anni friulani Pasolini aveva guardato alla prosa narrativa come alla possibilità di comunicare la propria esperienza individuale di vita, legata soprattutto alla sofferta scoperta dell’omosessualità, nei postumi racconti autobiografici Atti impuri e Amado mio. Un vero e proprio romanzo di ispirazione neorealista, racconto della vita contadina friulana, composto tra ’48 e ’49, sarebbe stato pubblicato solo col titolo Il sogno di una cosa (1962). Ma un radicale cambiamento sarebbe intervenuto a Roma, con la conoscenza diretta della vita di borgata, anche nei suoi aspetti più violenti e turpi, dalla prostituzione alla criminalità. Il settentrionale Pasolini aderisce alla lingua dei suoi personaggi con uno studio attento del dialetto e del gergo, vicino all’espressionismo gaddiano; e in questa operazione lo aiutano alcuni ‘ragazzi’ di borgata, come Sergio e Franco Citti. Il primo romanzo romano, Ragazzi di vita (1955), in effetti non è neanche un romanzo, ma un insieme di otto racconti, tenuti insieme dall’identità di alcuni protagonisti, bambini e



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ragazzi di borgata “di vita”, cioè dediti a piccoli traffici o alla prostituzione per sopravvivere. Se in Ragazzi di vita prevale la dimensione corale, nel romanzo successivo, Una vita violenta (1959), il punto di vista diventa quello di un unico protagonista, Tommasino, in quello che è un vero ‘romanzo di formazione’, di crescita morale del ‘ragazzo di vita’ dall’inconsapevolezza all’impegno politico e al sacrificio della vita per salvare una prostituta. In seguito, il coinvolgimento sempre più intenso di Pasolini nell’avventura del cinema avrebbe influenzato anche la sua narrativa, nella composizione di testi che, in parte, rappresentano un ritorno alla scrittura dopo l’esperienza del racconto per immagini nel film, una modalità di composizione estremamente moderna, e del tutto nuova nella letteratura italiana. Appartiene a questo periodo Alì dagli occhi azzurri (1965), grande raccolta di testi degli anni precedenti, e in particolare della ‘forma narrativa’ di film come Accattone, Mamma Roma e La ricotta. Lo stesso processo compositivo si registra per la versione narrativa di Teorema (1968), in originale struttura di prosimetro, scrittura autonoma rispetto alla sceneggiatura e al film. Infine, l’ultima opera narrativa di Pasolini è l’incompiuto e postumo Petrolio (1993). La struttura è aperta e sperimentale: Pasolini finge che sia l’edizione critica di un testo inedito, di cui sopravvivono “quattro o cinque manoscritti concordanti o discordanti”, e che si tratti di un’opera di ricostruzione filologica che si serve anche di altri materiali (lettere, appunti, testimonianze orali). Ne risulta un terribile ed enigmatico romanzo autobiografico, in cui, accanto alla cruda descrizione di esperienze vitali, si manifesta il radicale pessimismo dello scrittore nei confronti della società dei consumi. S’è visto come, a partire dagli anni Cinquanta, la scrittura narrativa di Pasolini si sia gradualmente avvicinata al cinema (forma di espressione amata fin dall’adolescenza) per mezzo della composizione di sceneggiature. La sceneggiatura è una forma di scrittura ‘orientata’ (come la scrittura di un’opera teatrale), che tende ad una compiutezza raggiungibile solo nella realizzazione del film; ed era quindi considerata un’attività di second’ordine da parte di scrittori e intellettuali. Non così da Pasolini, che pubblicherà tutte le sceneggiature dei suoi film come opere autonome, testi da ‘leggere’ come testi, oltre che da ‘ascoltare’ e ‘vedere’. Pasolini si rivela perfettamente consapevole della differenza e dell’interdipendenza di letteratura e cinema; per lui la letteratura rappresentava la realtà per mezzo di un processo di “traduzione per evocazione”, mentre il cinema operava per mezzo di “traduzione per riproduzione”, con una “lingua scritta della realtà”, molto più diretta di quella verbale, che passa attraverso fasi di codifica e decodifica del messaggio.

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La ‘scuola’ frequentata da un Pasolini autodidatta a Roma era assolutamente eccezionale, accanto ad altri scrittori come Bassani e Brancati, e a registi come Soldati, Fellini e Bolognini, che aiutarono lo scrittore a trovare un produttore e a fare i primi passi nel mondo del cinema. Pasolini all’inizio non sapeva assolutamente nulla della tecnica cinematografica, come si realizzano le riprese, quali sono i campi, quali gli obiettivi. Si propose dunque di iniziare da una poetica di assoluta semplicità, con una fotografia nitida e primitiva e con prevalenza di primi piani, con una composizione della scena nell’inquadratura che ricorda la suggestione antica delle arti figurative (Pasolini era stato allievo di Longhi a Bologna, e aveva conservato una predilezione per pittori come Giotto, Masaccio, Pontormo; e spesso quadri celebri vengono ‘ricostruiti’ sulla scena, dall’Ultima cena di Leonardo alla Deposizione di Pontormo). Per aiutarsi nella ripresa delle sequenze filmiche di Accattone e Mamma Roma, Pasolini (che era anche pittore e grafico) si preparò addirittura dei quaderni in cui disegnava, con schizzi veloci e nervosi, la composizione delle singole scene. Con mezzi tecnici poverissimi, in bianco e nero, con un uso straniante della musica (Bach sullo sfondo della Roma popolare, o di una scena di violenza), Pasolini realizza così i suoi primi capolavori, i film sulla vita del sottoproletariato romano, vicini alla narrativa di Ragazzi di vita: Accattone (1961) con Franco Citti, Mamma Roma (1962), con la straordinaria interpretazione di Anna Magnani, e La ricotta (1963), con Orson Welles, che per la scena della crocifissione portò alla condanna del regista per vilipendio alla religione. Al contrario, la ricerca di Pasolini, nonostante il suo rifiuto della religione tradizionale, aveva radici profondamente religiose, che lo avvicinarono al testo del Vangelo secondo Matteo (1964). Il film fu girato nei paesaggi assoluti e scabri del Sud Italia e dei Sassi di Matera, coinvolgendo la vecchia madre nel ruolo della Madonna che piange straziata di fronte alla passione e alla morte di Cristo. Pasolini era stato intanto attratto dalla figura umanissima di Totò, fino ad allora degradata ad una sorta di marionetta in una serie infinita di film di consumo, e l’aveva nobilitata in un grande film comico-ideologico, Uccellacci e uccellini (1966), accanto al giovane attore Ninetto Davoli, compagno del regista in questi anni, simbolo di innocenza e vitalità, e in altri cortometraggi: Cosa sono le nuvole e La terra vista dalla luna (1967). Purtroppo la morte del grande attore napoletano impedì di proseguire questa linea. E intanto Pasolini si era anche appassionato al teatro, dopo la rilettura dei dialoghi di Platone, con la composizione di sei tragedie in versi (1966), rivedute in seguito (Calderòn, Affabulazione, Pilade, Porcile, Orgia, Bestia da stile), tentativo di un nuovo teatro chiamato “teatro di parola”, opposto al “teatro della



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Chiacchiera e al teatro del Gesto e dell’Urlo”. Alle basi c’era una profonda conoscenza del teatro classico, dalla tragedia greca alla commedia latina (si ricordino le traduzioni dell’Orestiade di Eschilo 1960 e del Miles gloriosus di Plauto 1963), rivisitato ora in un rinnovato interesse per il mito e per l’antropologia. Accanto al dramma allegorico di Teorema (1968), quindi, Pasolini si dedicò ai grandi film mitologici dell’Edipo re (1967), e di Medea (1970), interpretata magistralmente da Maria Callas: due capolavori che portano l’immaginario pasoliniano per la prima volta sugli scenari assoluti del Marocco e della Cappadocia, nella rappresentazione di riti primordiali di sangue e purificazione. Nell’estate del 1970, un nuovo grande cambiamento, prodotto dalla lettura di un grande testo letterario, l’archetipo della tradizione narrativa europea, il Decameron di Boccaccio. Pasolini si innamora dell’immaginario boccacciano, del suo messaggio di vita e di libertà, progetta un film di quasi tre ore, ma poi è costretto a ridurre la scelta a solo dieci novelle, che rappresentano tutte le variazioni della vita, dall’avventura e dal potere della fortuna (Andreuccio da Perugia) alla malvagità assoluta (ser Ciappelletto), dall’amore tragico (Lisabetta da Messina) alla scoperta gioiosa del sesso (Masetto, Caterina, donno Gianni). Come in Boccaccio, c’è anche una cornice, che racchiude tutte le altre novelle, come episodi visti o ‘sognati’ da un artista: la novella di Giotto, diventato nel film un ‘allievo di Giotto’, e interpretato dallo stesso Pasolini, che alla fine dirà: “Perché realizzare un’opera, quando è così bello sognarla soltanto?”. Atto ‘rivoluzionario’, nei confronti della tradizione letteraria, fu la trasposizione del Decameron nel Sud, e soprattutto a Napoli, con la traduzione dei dialoghi dal toscano originario al dialetto napoletano. Un’operazione di straniamento che serviva a Pasolini a dimostrare la continuità del mondo descritto da Boccaccio molti secoli prima con una realtà umana che, nonostante tutto, continuava a resistere all’omologazione del capitalismo, del consumismo, della ‘modernità’. Questa realtà, rappresentata emblematicamente a Napoli e nel Sud, era presente in tutti i Sud del mondo, in tutte le condizioni di vita ancora legate ai bisogni primari, incorrotti, della vita. Pasolini decise quindi di continuare il Decameron (1971) in due film (tratti da altri due capolavori letterari, i Racconti di Canterbury di Chaucer, e le Mille e una notte), che vennero a formare così La trilogia della vita, in realtà interpretabile come un’unica opera narrativa in tre tempi, globale e multimediale, leggibile contemporaneamente nei testi delle sceneggiature e nelle immagini dei film. Lo scrittore-regista lavorò attentamente sulle migliori traduzioni esistenti, e ne ricavò due ampie sceneggiature. I racconti di Canterbury (1972) conservarono la struttura del

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Decameron, con una cornice narrativa in cui lo stesso Pasolini vestiva i panni del narratore Chaucer. Il terzo film, Il fiore delle Mille e una notte (1974), riprendeva la tecnica orientale delle ‘scatole cinesi’, con novelle che si inserivano in altre novelle, in un gioco narrativo potenzialmente infinito. È un film straordinario e fiabesco, che fu girato in meravigliosi paesaggi esotici, dagli altopiani etiopici ai deserti iraniani, dalla magica Sana’a nello Yemen all’India e al Nepal. Ma è anche una delicata favola di liberazione sessuale, in cui l’utopia è quella di un mondo in cui l’eros si libera dai rapporti di dominio, violenza e sopraffazione, e dalla differenza di genere (“la verità non sta in un solo sogno, ma in molti sogni”). Angosciato dalla lettura deformante che i contemporanei diedero invece alla Trilogia, Pasolini pubblicò una drammatica Abiura della trilogia della vita, parallela all’incupimento della sua riflessione sul “male radicale” dell’uomo, così come si era manifestato nelle epoche più buie della storia umana. L’amico Sergio Citti stava lavorando allora a una sceneggiatura su un film da Sade, e chiese consiglio a Pasolini, che ebbe l’idea di ‘attualizzare’ Sade nel nostro tempo, di leggere quella discesa nella perversione e nel male (negazione della natura e dell’innocenza) nella violenza morale che la moderna società capitalista esercita su ogni essere umano. La scelta non poteva non cadere, allora, sul periodo in cui il volto brutale del potere si era manifestato con più ferocia, l’oppressione nazista durante la seconda guerra mondiale. Il terribile romanzo di Sade, Le centoventi giornate di Sodoma, diventa così il film terribile e allegorico di Pasolini, Salò o le centoventi giornate di Sodoma (1975), che trasporta in una villa dell’Italia settentrionale l’inferno descritto da Sade, adottando una struttura a gironi ‘danteschi’, che scende ineluttabilmente verso il basso. Con Salò, Pasolini aveva in un certo senso esorcizzato i suoi fantasmi più neri, la pulsione di morte e la disperazione seguita all’abbandono da parte dell’amato Ninetto, e si preparava a tornare alla lotta politica e culturale. Pensava già ad un nuovo film con Eduardo De Filippo e Ninetto Davoli, Porno-teo-kolossal, in cui due improbabili re magi napoletani, Epifanio e Nunzio, avrebbero seguito la Cometa in cerca del Messia, trovando invece città infernali come Sodoma (Roma), Gomorra (Milano) e Numanzia (Parigi), e approdando ad una singolare conclusione: “Come tutte le Comete, anche la Cometa che ho seguito io è stata una stronzata. Ma senza quella stronzata, Terra, non ti avrei conosciuta”. Non resta altro, di quell’estremo messaggio di Pasolini, che avrebbe dovuto essere pronunciato dalla voce pacata di Eduardo. Nella notte tra il 1° e il 2 novembre 1975, all’Idroscalo di Ostia, Pasolini fu ucciso, come uno dei suoi ragazzi di vita, o come una delle vittime di Salò.



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y Marcos, 2006; G. Isotti Rosowsky, Giorgio Manganelli. Una scrittura dell’eccesso, Roma, Bulzoni, 2007. Sulla narrativa contemporanea: R. Ceserani, Il romanzo sui pattini, Ancona, Transeuropa, 1990; F. La Porta, La nuova narrativa italiana, Torino, Bollati Boringhieri, 1995; W. Pedullà, La narrativa italiana contemporanea. 1940-1990, Roma, Newton Compton, 1995; M. Sinibaldi, Pulp. La letteratura nell’età della simultaneità, Roma, Donzelli, 1997; M. Barenghi, Oltre il Novecento, Milano, Marcos y Marcos, 1999; A. Casadei, Romanzi di Finisterre, Roma, Carocci, 2000; La narrativa italiana degli anni Novanta, a c. di E. Mondello, Roma, Meltemi, 2004. - P.V. Tondelli, Opere, a c. di F. Panzeri, Milano, Bompiani, 2001.  4.4. Gadda. Testi: Opere, a c. di D. Isella e al., Milano, Garzanti, 2007-2008. Biografia: G.C. Roscioni, Il duca di Sant’Aquila, Milano, Mondadori, 1997. Monografia: A. Pecoraro, Gadda, Roma-Bari, Laterza, 1998. Studi: G.C. Roscioni, La disarmonia prestabilita. Studio su Gadda, Torino, Einaudi, 1969; C. Benedetti, Una trappola di parole. Lettura del “Pasticciaccio”, Pisa, ETS, 1980; G. Contini, Quarant’anni d’ amicizia, Torino, Einaudi, 1989; D. Isella, I lombardi in rivolta. Da Carlo Maria Maggi a Carlo Emilio Gadda, Torino, Einaudi, 1984; G. Lucchini, L’istinto della combinazione. Le origini del romanzo in C.E. Gadda, Firenze, La Nuova Italia, 1986; A. Pecoraro, Gadda e Manzoni. Il giallo della “Cognizione del dolore”, Pisa, ETS, 1996; F.P. Botti, Gadda o la filologia dell’Apocalisse, Napoli, Liguori, 1996; F. Bertoni, La verità sospetta. Gadda e l’invenzione della realtà, Torino, Einaudi, 2001; R.S. Dombroski, Gadda e il barocco, Torino, Bollati Boringhieri, 2002; G. Bonifacino, Il groviglio delle parvenze. Studio su Carlo Emilio Gadda, Bari, Palomar, 2002; E. Raimondi, Barocco moderno. Roberto Longhi e Carlo Emilio Gadda, Milano, Bruno Mondadori, 2003; M. Gaetani, Lo sguardo di Giano. «Il tempo e le opere» di Carlo Emilio Gadda, Bari, Pensa, 2006; R. Donnarumma, Gadda modernista, Pisa, ETS, 2006. Punto di riferimento per aggiornamento e bibliografia è The Edinburgh Gadda Studies of Gadda Studies, a c. di F.G. Pedriali (www.arts.ed.ac.uk/italian/gadda/index. php). 4.5. Calvino. Testi: Opere, a c. di C. Milanini e al., Milano, Mondadori, 1991-2005. Monografie: G. Baroni, Italo Calvino. Introduzione e guida allo studio dell’opera calviniana. Storia e antologia della critica, Firenze, Le Monnier, 1988; S. Perrella, Calvino, Roma-Bari, Laterza, 1999; D. Scarpa, Calvino, Milano, Bruno Mondadori, 1999; C. Benussi, Introduzione a Calvino, Roma-Bari, Laterza, 2002; F. Serra, Italo Calvino, Roma, Salerno, 2006. Studi: C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, Milano, Garzanti,



il secondo novecento

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1990; M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, Torino, Einaudi, 1996; A. Asor Rosa, Stile Calvino. Cinque studi, Torino, Einaudi, 2001; M. Lavagetto, Dovuto a Calvino, Torino, Bollati Boringhieri, 2001; M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, Bologna, Il Mulino, 2007; M. Martelli, La storia fuori dalla storia. Saggio su Italo Calvino, Città di Castello, Edimond, 2007. 4.6. La poesia. Antologie: Poesia degli anni Settanta, a c. di A. Porta ed E. Siciliano, Milano, Feltrinelli, 1979; Poeti italiani del Secondo Novecento, a c. di M. Cucchi e S. Giovanardi, Milano, Mondadori, 1996. Studi: G. Raboni, Poesia degli anni Sessanta, Roma, Editori Riuniti, 1976; F. Fortini, I poeti del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1977, e Saggi italiani, Milano, Garzanti, 1987; W. Siti, Il neorealismo nella poesia italiana, Torino, Einaudi, 1980; L. Anceschi, Gli specchi della poesia, Torino, Einaudi, 1989; N. Lorenzini, Il presente della poesia 1960-1990, Bologna, Il Mulino, 1990; A. Berardinelli, La poesia verso la prosa, Torino, Bollati Boringhieri, 1994; S. Agosti, Poesia italiana contemporanea, Milano, Bompiani, 1995; V. Bagnoli, Contemporanea, Padova, Esedra, 1996; E. Testa, Per interposta persona. Lingua e poesia nel secondo Novecento, Roma, Bulzoni, 1999; R. Galaverni, Dopo la poesia, Roma, Fazi, 2001; G. Simonetti, Dopo Montale, Lucca, Pacini Fazzi, 2002; M. Merlin, Poeti nel limbo, Novara, Interlinea, 2004; A. Bertoni, Trent’anni di Novecento, Castel Maggiore, Book, 2005; P. Giovannetti, Modi della poesia contemporanea, Roma, Carocci 2005; G. Mazzoni, Sulla poesia moderna, Bologna, Il Mulino, 2005. - V. Sereni, Poesie, a c. di D. Isella, Milano, Mondadori, 1996; La tentazione della prosa, a c. di G. Raboni, ivi, 1998. Cfr. L. Barile, Sereni, Palermo, Palumbo, 1994, e Il passato che non passa. Le «poetiche provvisorie» di Vittorio Sereni, Firenze, Le Lettere, 2004. - M. Luzi, Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 1998; L’opera poetica, a c. di S. Verdino, Milano, Mondadori, 1998. Cfr. G. Fontana, Il fuoco della creazione incessante. Studi sulla poesia di Mario Luzi, Lecce, Manni, 2002; S. Verdino, La poesia di Mario Luzi. Studi e materiali, Padova, Esedra, 2006. - S. Penna, Poesie, Milano, Garzanti, 2000. Cfr. C. Garboli, Penna papers, Milano, Garzanti, 1996; P. Bruni, La poetica e il linguaggio di Sandro Penna. Tra sogno, grecità ed eros, Cosenza, Pellegrini, 2008; L. Tassoni, L’ angelo e il suo doppio. Sulla poesia di Sandro Penna, Bologna, GEDIT, 2004. - G. Caproni, L’opera in versi, a c. di L. Zuliani, Milano, Mondadori, 1998; Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 1999. Cfr. L. Surdich, Giorgio Caproni: un ritratto, Genova, Costa e Nolan, 1990; G. Rensi, La filosofia dell’assurdo, Milano, Adelphi, 1991; A. Dei, Giorgio Caproni, Milano, Mursia, 1992; B. Frabotta, Giorgio Caproni. Il poeta del disincanto, Roma, Officina, 1993; G. Leonelli, Giorgio Caproni, Milano, Garzanti, 1997; F. Moliterni, Poesia e pensiero nell’opera di Giorgio Caproni e Vittorio Sereni, Bari, Pensa, 2002. - Gruppo 63. Critica e teoria, a c. di R. Barilli e A. Guglielmi, Milano, Feltrinelli, 1976;

558

piccola storia della letteratura italiana

Gruppo 63. L’antologia, a c. di A. Giuliani e N. Balestrini, Torino, Testo e Immagine, 2002. Cfr. R. Barilli, La neoavanguardia italiana, Bologna, Il Mulino, 1995. - A. Zanzotto, Le poesie e prose scelte, a c. di S. Dal Bianco e G.M. Villalta, Milano, Mondadori 1999. Cfr. S. Dal Bianco, Tradire per amore. La metrica del primo Zanzotto 1938-1957, Lucca, Pacini Fazzi, 1997; L. Tassoni, Caosmos. La poesia di Andrea Zanzotto, Roma, Carocci, 2002. - G. Raboni, L’opera poetica, a c. di R. Zucco, Milano, Mondadori, 2006. Su poesia e musica nella canzone d’autore: G. Borgna, Storia della canzone italiana, Milano, Mondadori, 1996; P. Jachia, La canzone d’autore italiana, Milano, Feltrinelli, 1998; A. Cardillo, Il verso cantato. Da Cavalcanti a Battiato, Cava de’ Tirreni, Avagliano, 2002. 4.7. Teatro e cinema. M. De Marinis, Il nuovo teatro (1947-1970), Milano, Bompiani, 1987; P. Puppa, Teatro e spettacolo nel secondo Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1990; G.P. Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano, Torino, Einaudi, 2003. - E. De Filippo, Teatro, a c. di N. De Blasi e P. Quarenghi, Milano, Mondadori, 2007. Cfr. A. Barsotti, Eduardo drammaturgo, Roma, Bulzoni, 1988. - D. Fo, Teatro, Torino, Einaudi, 2000; Mistero buffo, ed. integrale, Torino, Einaudi, 2005. Cfr. A. Bisicchia, Invito alla lettura di Dario Fo, Milano, Mursia, 2003. Su cinema e letteratura: Cinema e letteratura del Neorealismo, a c. di G. Tinazzi e M. Zancan, Venezia, Marsilio, 1983; C. Bragaglia, Il piacere del racconto. Narrativa italiana e cinema (1895-1990), Firenze, La Nuova Italia, 1993; R. Cavalluzzi, Cinema e letteratura, Bari, Graphis, 1997; S. Cortelazzo – D. Tomasi, Letteratura e cinema, Roma-Bari, Laterza, 1998; G. Manzoli, Cinema e letteratura, Roma, Carocci, 2003. 4.8. Pasolini. Testi: Opere, a c. di W. Siti e al., Milano, Mondadori, 1998-2006. Biografie: E. Siciliano, Vita di Pasolini, Firenze, Giunti, 2000; N. Naldini, Pasolini. Una vita, Torino, Einaudi, 1989. Monografie: M.A. Bazzocchi, Pier Paolo Pasolini, Milano, Bruno Mondadori, 1998; C. Jori, Pasolini, Torino, Einaudi, 2001; L. Martellini, Ritratto di Pasolini, Roma-Bari, Laterza, 2006. Studi: G. Borghello, Il simbolo e la passione. Aspetti della linea Pascoli-Pasolini, Milano, Mursia, 1986; F. Fortini, Attraverso Pasolini, Torino, Einaudi, 1993; C. Benedetti, Pasolini contro Calvino, Torino, Bollati Boringhieri, 1998; C. Marazzini, Il linguaggio poetico di Pier Paolo Pasolini: sublime volgar eloquio, Modena, Mucchi, 1998; P. Voza, Tra continuità e diversità. Pasolini e la critica, Napoli, Liguori, 2000; E. Golino, Pasolini. Il sogno di una cosa, Milano, Bompiani, 2005; A. Tricomi, Sull’opera mancata di Pasolini. Un autore irrisolto e il suo laboratorio, Roma, Carocci, 2005; M.A. Bazzocchi,



il secondo novecento

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I burattini filosofi. Pasolini dalla letteratura al cinema, Milano, Bruno Mondadori, 2007; N. Novello, Il sangue del re. L’opera di Pasolini, Cesena, Il Ponte Vecchio, 2007; G. Nisini, L’ unità impossibile. Dinamiche testuali nella narrativa di Pier Paolo Pasolini, Roma, Carocci, 2008. Rivista specializzata: “Studi pasoliniani”. Risorsa in rete: Pasolini.net (www.pasolini.net).

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Frontespizio Premessa Bibliografia

Parte I - Il Medioevo 1. La civiItà medievale Bibliografia 2. Le origini della letteratura in volgare 2.1. Primi documenti in volgare 2.2. La letteratura europea 2.3. La poesia provenzale 2.4. Primi testi letterari in Italia Bibliografia 3. Il Duecento 3.1. La poesia della corte imperiale 3.2. Gli Ordini mendicanti 3.3. La poesia comunale toscana 3.4. La poesia lirica ‘nuova’ da Bologna a Firenze 3.5. La poesia comica 3.6. La poesia allegorica e didascalica 3.7. La lauda 3.8. La prosa Bibliografia 4. Dante 4.1. La vita 4.2. Rime della giovinezza 4.3. Vita nuova 4.4. Rime della maturità 4.5. Convivio 4.6. Le opere latine 4.7. Commedia Bibliografia

3 11 15

21

23 32 35 35 37 40 42 43 45 45 50 55 57 61 63 66 69 74 79 79 81 82 85 87 88 91 104

Parte II - Il Rinascimento

109

Parte III - L’età moderna

245

1. Il Primo Trecento 1.1. Crisi del Medioevo 1.2. La cultura veneta 1.3. Lettori di Dante 1.4. Le cronache Bibliografia 2. Petrarca 2.1. La vita 2.2. Rerum vulgarium fragmenta 2.3. Triumphi 2.4. Opere latine Bibliografia 3. Boccaccio 3.1. La vita 3.2. Opere giovanili 3.3. Decameron 3.4. Opere della maturità Bibliografia 4.Cultura volgare fra Tre e Quattrocento 4.1. La prosa 4.2. La poesia Bibliografia 5. L’umanesimo 5.1. Rinascimento e umanesimo 5.2. I centri dell’umanesimo 5.3. Valla 5.4. Alberti Bibliografia 6. L'apogeo del rinascimento 6.1. La civiltà delle corti 6.2. Pulci 6.3. Lorenzo 6.4. Poliziano 6.5. Boiardo 6.6. Sannazaro 6.7. Bembo 6.8. Castiglione 6.9. Leonardo Bibliografia 7. Machiavelli 7.1. La vita 7.2. Le scritture del “segretario” 7.3. De principatibus 7.4. Politica e storia 7.5. Letteratura e teatro Bibliografia 8. Ariosto 8.1. La vita 8.2. Orlando Furioso 8.3. Il teatro 8.4. Le Satire Bibliografia 1. Il Cinquecento 1.1. Un secolo difficile 1.2. Guicciardini 1.3. Dibattiti di lingua e di poetica

111 111 113 114 116 118 121 121 124 129 130 135 139 139 140 143 152 155 157 157 161 163 165 165 169 175 176 180 185 185 195 197 198 202 204 207 210 212 215 219 219 222 223 226 228 230 233 233 234 240 242 243 247 247 252 255

1.4. La poesia 1.5. La prosa 1.6. La prosa narrativa 1.7. Il teatro Bibliografia 2. Tasso 2.1. La vita 2.2. Il poema 2.3. Teatro 2.4. Prose 2.5. Poesie Bibliografia 3. Il Seicento 3.1. Moderno e barocco 3.2. Galileo 3.3. La poesia 3.4. La prosa 3.5. Il teatro Bibliografia 4. Il Settecento 4.1. L’età dell’Arcadia 4.2. L’Illuminismo 4.3. Parini 4.4. Goldoni 4.5. Alfieri Bibliografia 5. Il Primo Ottocento 5.1. Rivoluzioni e restaurazioni 5.2. Il neoclassicismo 5.3. Il romanticismo 5.4. Foscolo 5.5. Il Risorgimento Bibliografia 6. Leopardi 6.1. La vita 6.2. Prime prove letterarie 6.3. Dallo Zibaldone ai Pensieri 6.4. Le Operette morali 6.5. La poesia satirica 6.6. I Canti Bibliografia 7. Manzoni 7.1. La vita 7.2. La poesia 7.3. Il teatro 7.4. I promessi sposi 7.5. Prose critiche Bibliografia

258 264 272 274 280 285 285 287 293 294 295 297 299 299 303 305 309 314 316 319 319 327 334 337 341 344 347 347 349 352 359 365 378 381 381 384 389 391 394 395 403 405 405 407 409 411 420 423

Parte IV - L’età contemporanea

425

Quarta di copertina

580

1. Il Secondo Ottocento 1.1. Apogeo e crisi della civiltà europea 1.2. La letteratura dell’Italia unita 1.3. Carducci 1.4. Verga 1.5. Pascoli 1.6. D’Annunzio Bibliografia 2. Pirandello 2.1. La vita 2.2. I romanzi 2.3. Novelle per un anno 2.4. Il teatro 2.5. Il cinema Bibliografia 3. Il Primo Novecento 3.1. Imperialismi e totalitarismi 3.2. Società e cultura in Italia nel primo Novecento 3.3. Svevo 3.4. La prosa 3.5. Moravia 3.6. La poesia 3.7. Ungaretti 3.8. Saba 3.9. Montale Bibliografia 4. Il Secondo Novecento 4.1. La società globale 4.2. La cultura italiana nel secondo Novecento 4.3. La prosa 4.4. Gadda 4.5. Calvino 4.6. La poesia 4.7. Teatro e cinema 4.8. Pasolini Bibliografia

427 427 435 444 447 450 453 458 463 463 464 467 468 473 474 477 477 484 492 495 502 504 509 511 514 517 523 523 530 532 548 551 555 562 566 573