Piccola storia della letteratura italiana
 9788820748197

Table of contents :
Indice......Page 581
Frontespizio......Page 3
Premessa......Page 11
Bibliografia......Page 15
Parte I - Il Medioevo......Page 21
1. La civiItà medievale......Page 23
Bibliografia......Page 32
2.1. Primi documenti in volgare......Page 35
2.2. La letteratura europea......Page 37
2.3. La poesia provenzale......Page 40
2.4. Primi testi letterari in Italia......Page 42
Bibliografia......Page 43
3.1. La poesia della corte imperiale......Page 45
3.2. Gli Ordini mendicanti......Page 50
3.3. La poesia comunale toscana......Page 55
3.4. La poesia lirica ‘nuova’ da Bologna a Firenze......Page 57
3.5. La poesia comica......Page 61
3.6. La poesia allegorica e didascalica......Page 63
3.7. La lauda......Page 66
3.8. La prosa......Page 69
Bibliografia......Page 74
4.1. La vita......Page 79
4.2. Rime della giovinezza......Page 81
4.3. Vita nuova......Page 82
4.4. Rime della maturità......Page 85
4.5. Convivio......Page 87
4.6. Le opere latine......Page 88
4.7. Commedia......Page 91
Bibliografia......Page 104
Parte II - Il Rinascimento......Page 109
1.1. Crisi del Medioevo......Page 111
1.2. La cultura veneta......Page 113
1.3. Lettori di Dante......Page 114
1.4. Le cronache......Page 116
Bibliografia......Page 118
2.1. La vita......Page 121
2.2. Rerum vulgarium fragmenta......Page 124
2.3. Triumphi......Page 129
2.4. Opere latine......Page 130
Bibliografia......Page 135
3.1. La vita......Page 139
3.2. Opere giovanili......Page 140
3.3. Decameron......Page 143
3.4. Opere della maturità......Page 152
Bibliografia......Page 155
4.1. La prosa......Page 157
4.2. La poesia......Page 161
Bibliografia......Page 163
5.1. Rinascimento e umanesimo......Page 165
5.2. I centri dell’umanesimo......Page 169
5.3. Valla......Page 175
5.4. Alberti......Page 176
Bibliografia......Page 180
6.1. La civiltà delle corti......Page 185
6.2. Pulci......Page 195
6.3. Lorenzo......Page 197
6.4. Poliziano......Page 198
6.5. Boiardo......Page 202
6.6. Sannazaro......Page 204
6.7. Bembo......Page 207
6.8. Castiglione......Page 210
6.9. Leonardo......Page 212
Bibliografia......Page 215
7.1. La vita......Page 219
7.2. Le scritture del “segretario”......Page 222
7.3. De principatibus......Page 223
7.4. Politica e storia......Page 226
7.5. Letteratura e teatro......Page 228
Bibliografia......Page 230
8.1. La vita......Page 233
8.2. Orlando Furioso......Page 234
8.3. Il teatro......Page 240
8.4. Le Satire......Page 242
Bibliografia......Page 243
Parte III - L’età moderna......Page 245
1.1. Un secolo difficile......Page 247
1.2. Guicciardini......Page 252
1.3. Dibattiti di lingua e di poetica......Page 255
1.4. La poesia......Page 258
1.5. La prosa......Page 264
1.6. La prosa narrativa......Page 272
1.7. Il teatro......Page 274
Bibliografia......Page 280
2.1. La vita......Page 285
2.2. Il poema......Page 287
2.3. Teatro......Page 293
2.4. Prose......Page 294
2.5. Poesie......Page 295
Bibliografia......Page 297
3.1. Moderno e barocco......Page 299
3.2. Galileo......Page 303
3.3. La poesia......Page 305
3.4. La prosa......Page 309
3.5. Il teatro......Page 314
Bibliografia......Page 316
4.1. L’età dell’Arcadia......Page 319
4.2. L’Illuminismo......Page 327
4.3. Parini......Page 334
4.4. Goldoni......Page 337
4.5. Alfieri......Page 341
Bibliografia......Page 344
5.1. Rivoluzioni e restaurazioni......Page 347
5.2. Il neoclassicismo......Page 349
5.3. Il romanticismo......Page 352
5.4. Foscolo......Page 359
5.5. Il Risorgimento......Page 365
Bibliografia......Page 378
6.1. La vita......Page 381
6.2. Prime prove letterarie......Page 384
6.3. Dallo Zibaldone ai Pensieri......Page 389
6.4. Le Operette morali......Page 391
6.5. La poesia satirica......Page 394
6.6. I Canti......Page 395
Bibliografia......Page 403
7.1. La vita......Page 405
7.2. La poesia......Page 407
7.3. Il teatro......Page 409
7.4. I promessi sposi......Page 411
7.5. Prose critiche......Page 420
Bibliografia......Page 423
Parte IV - L’età contemporanea......Page 425
1.1. Apogeo e crisi della civiltà europea......Page 427
1.2. La letteratura dell’Italia unita......Page 435
1.3. Carducci......Page 444
1.4. Verga......Page 447
1.5. Pascoli......Page 450
1.6. D’Annunzio......Page 453
Bibliografia......Page 458
2.1. La vita......Page 463
2.2. I romanzi......Page 464
2.3. Novelle per un anno......Page 467
2.4. Il teatro......Page 468
2.5. Il cinema......Page 473
Bibliografia......Page 474
3.1. Imperialismi e totalitarismi......Page 477
3.2. Società e cultura in Italia nel primo Novecento......Page 484
3.3. Svevo......Page 492
3.4. La prosa......Page 495
3.5. Moravia......Page 502
3.6. La poesia......Page 504
3.7. Ungaretti......Page 509
3.8. Saba......Page 511
3.9. Montale......Page 514
Bibliografia......Page 517
4.1. La società globale......Page 523
4.2. La cultura italiana nel secondo Novecento......Page 530
4.3. La prosa......Page 532
4.4. Gadda......Page 548
4.5. Calvino......Page 551
4.6. La poesia......Page 555
4.7. Teatro e cinema......Page 562
4.8. Pasolini......Page 566
Bibliografia......Page 573
Quarta di copertina......Page 580

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critica e letteratura 87

Carlo Vecce

Piccola storia della letteratura italiana

Liguori Editore

Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore (Legge n. 633/1941: http://www.giustizia.it/cassazione/leggi/l633_41.html). Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla registrazione analogica o digitale, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati, anche nel caso di utilizzo parziale. La riproduzione di questa opera, anche se parziale o in copia digitale, è ammessa solo ed esclusivamente nei limiti stabiliti dalla Legge ed è soggetta all’autorizzazione scritta dell’Editore. La violazione delle norme comporta le sanzioni previste dalla legge. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile al seguente indirizzo: http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=legal L’utilizzo in questa pubblicazione di denominazioni generiche, nomi commerciali e marchi registrati, anche se non specificamente identificati, non implica che tali denominazioni o marchi non siano protetti dalle relative leggi o regolamenti. Liguori Editore - I 80123 Napoli http://www.liguori.it/ © 2009 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Maggio 2009 Vecce, Carlo : Piccola storia della letteratura italiana/Carlo Vecce Napoli : Liguori, 2009 ISBN-13 978 - 88 - 207 - 4819 - 7 1. Critica letteraria, filologia italiana 2. Tradizione dei testi I. Titolo. Aggiornamenti: 18 17 16 15 14 13 12 11 10 09

10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

indice

Premessa Bibliografia

XIII XVIII

Parte I Il Medioevo 1. La civiltà medievale Bibliografia

3 12

2. Le origini della letteratura in volgare 2.1. Primi documenti in volgare 2.2. La letteratura europea 2.3. La poesia provenzale 2.4. Primi testi letterari in Italia Bibliografia

15 15 17 20 22 23

3. Il Duecento 3.1. La poesia della corte imperiale 3.2. Gli Ordini mendicanti 3.3. La poesia comunale toscana 3.4. La poesia lirica ‘nuova’ da Bologna a Firenze 3.5. La poesia comica 3.6. La poesia allegorica e didascalica 3.7. La lauda 3.8. La prosa Bibliografia

25 25 30 35 37 41 43 46 49 54

4. Dante 4.1. La vita 4.2. Rime della giovinezza 4.3. Vita nuova 4.4. Rime della maturità

59 59 61 62 65

viii

indice

4.5. Convivio 4.6. Le opere latine 4.7. Commedia Bibliografia

68 71 84

Parte II Il Rinascimento 1. Il primo Trecento 1.1 Crisi del Medioevo 1.2 La cultura veneta 1.3 Lettori di Dante 1.4 Le cronache Bibliografia

91 91 93 94 96 98

2. Petrarca 2.1. La vita 2.2. Rerum vulgarium fragmenta 2.3. Triumphi 2.4. Opere latine Bibliografia

101 101 104 109 110 115

3. Boccaccio 3.1. La vita 3.2. Opere giovanili 3.3. Decameron 3.4. Opere della maturità Bibliografia

119 119 120 123 132 135

4. Cultura volgare fra Tre e Quattrocento 4.1. La prosa 4.2. La poesia Bibliografia

137 137 141 143

5. L’umanesimo 5.1. Rinascimento e umanesimo 5.2. I centri dell’umanesimo 5.3. Valla 5.4 Alberti Bibliografia

145 145 149 155 156 160

6. L’apogeo del Rinascimento 6.1. La civiltà delle corti 6.2. Pulci

165 165 175



indice

6.3. Lorenzo 6.4. Poliziano 6.5. Boiardo 6.6. Sannazaro 6.7. Bembo 6.8. Castiglione 6.9. Leonardo Bibliografia

ix

177 178 182 184 187 190 192 195

7. Machiavelli 7.1. La vita 7.2. Le scritture del “segretario” 7.3. De principatibus 7.4. Politica e storia 7.5. Letteratura e teatro Bibliografia

199 199 202 203 206 208 210

8. Ariosto 8.1. La vita 8.2. Orlando Furioso 8.3. Il teatro 8.4. Le Satire Bibliografia

213 213 214 220 222 223

Parte III L’età moderna 1. Il Cinquecento 1.1. Un secolo difficile 1.2. Guicciardini 1.3. Dibattiti di lingua e di poetica 1.4. La poesia 1.5. La prosa 1.6. La prosa narrativa 1.7. Il teatro Bibliografia

227 227 232 235 238 244 252 254 260

2. Tasso 2.1. La vita 2.2. Il poema 2.3. Teatro 2.4. Prose 2.5. Poesie Bibliografia

265 265 267 273 274 275 277



indice

3. Il Seicento 3.1. Moderno e barocco 3.2. Galileo 3.3. La poesia 3.4. La prosa 3.5. Il teatro Bibliografia

279 279 283 285 289 294

4. Il Settecento 4.1. L’età dell’Arcadia 4.2. L’Illuminismo 4.3 Parini 4.4. Goldoni 4.5. Alfieri Bibliografia

299 299 307 314 317 321 324

5. Il primo Ottocento 5.1. Rivoluzioni e restaurazioni 5.2. Il neoclassicismo 5.3. Il romanticismo 5.4. Foscolo 5.5. Il Risorgimento Bibliografia

327 327 329 332 339 345 358

6. Leopardi 6.1. La vita 6.2. Prime prove letterarie 6.3. Dallo Zibaldone ai Pensieri 6.4. Le Operette morali 6.5. La poesia satirica 6.6. I Canti Bibliografia

361 361 364 369 371 374 375 383

7. Manzoni 7.1. La vita 7.2. La poesia 7.3. Il teatro 7.4. I promessi sposi 7.5. Prose critiche Bibliografia

385 385 387 389 391 400 403



indice

xi

Parte IV L’età contemporanea 1. Il secondo Ottocento 1.1. Apogeo e crisi della civiltà europea 1.2. La letteratura dell’Italia unita 1.3. Carducci 1.4. Verga 1.5. Pascoli 1.6. D’Annunzio Bibliografia

405 405 415 424 427 430 433 438

2. Pirandello 2.1. La vita 2.2. I romanzi 2.3. Novelle per un anno 2.4. Il teatro 2.5 Il cinema Bibliografia

443 443 444 447 448 453 454

3. Il primo Novecento 3.1. Imperialismi e totalitarismi 3.2. Società e cultura in Italia nel primo Novecento 3.3. Svevo 3.4. La prosa 3.5. Moravia 3.6. La poesia 3.7. Ungaretti 3.8. Saba 3.9. Montale Bibliografia

457 457 464 472 475 482 484 489 491 494 497

4. Il secondo Novecento 4.1. La società globale 4.2. La cultura italiana nel secondo Novecento 4.3. La prosa 4.4. Gadda 4.5. Calvino 4.6. La poesia 4.7. Teatro e cinema 4.8. Pasolini Bibliografia

503 503 510 512 528 531 535 542 546



Premessa

Tra le letterature dell’Europa e del mondo, la letteratura italiana presenta una ricchezza di voci, di culture, di lingue, straordinaria e difficilmente eguagliabile. I suoi ‘classici’ sono i classici della cultura mondiale, e basterebbe ricordare, solo per i primi secoli, i nomi di Dante, Petrarca, Boccaccio, Machiavelli, Ariosto, Tasso. Per la nostra tradizione, la loro voce, e quella di innumerevoli altri autori, ha avuto nel tempo un valore e un significato che spesso andavano oltre la specificità primaria del testo letterario. A differenza di altri paesi europei, infatti, l’Italia continuò a essere per secoli un sistema di stati regionali molto diversi tra loro per condizioni economiche, sociali, linguistiche, senza centro e senza unità, ma con molti centri e molte capitali. A loro volta, le realtà particolari delle città, delle corti, degli stati piccoli e grandi, dialogavano direttamente, senza mediazioni, su orizzonti internazionali, intrecciando profondamente le vicende della storia italiana con quelle della storia europea e mediterranea. Un patrimonio culturale condiviso permetteva comunque ad un’élite intellettuale, politica, sociale, di considerarsi a pieno titolo ‘italiana’, e di esibire il proprio senso di appartenenza ad una comunità operante al di là dei ristretti confini municipali o regionali. Questo patrimonio era, in larga misura, la letteratura. Una letteratura sicuramente polifonica, policentrica, plurilinguistica, ma anche, fin dalle origini (dalla corte di Federico II a Dante e Petrarca), con una forte vocazione unitaria, e unificante. È la letteratura che comincia a costruire l’immaginario collettivo degli italiani, che ne racconta le storie e le passioni, gli scontri, gli intrighi, le meschinità, le tensioni spirituali e le avventure di mercanti e chierici in giro per il mondo. Oggi, a cosa serve la letteratura italiana? Nella sua vicenda di lungo periodo, solo da centocinquanta anni essa è diventata anche la letteratura di una nazione più o meno unitaria. Nel momento più critico del suo processo di trasformazione si collocava uno dei prodotti più importanti della riflessione sulla sua storia secolare, la Storia della letteratura italiana di Francesco De

xiv

premessa

Sanctis. La letteratura diventava la colonna portante dell’insegnamento di italiano nella scuola e nell’università, con manuali e antologie che ne accentuavano il valore identitario fondante, proponendo nel canone degli autori, dei ‘classici’ e delle letture dei testi il bagaglio esemplare delle virtù laiche e moderne del nuovo stato unitario; ma forse cominciava anche a perdere quel carattere sostitutivo, compensatorio, ideale, di una realtà desiderata e che non c’era ancora, e che ora invece si chiamava, anche sulla carta politica d’Europa, Italia. L’evoluzione delle poetiche e delle teorie critiche del Novecento ci ha allontanato sempre di più dall’idea tradizionale di ‘storia della letteratura’, dalla ricostruzione orientata di periodizzazioni, percorsi, ‘correnti’, ‘gallerie’ di ritratti di autori (cosiddetti ‘maggiori’ e ‘minori’). La critica (e la crisi) del sistema letterario, nell’enorme complessità degli stimoli e degli indirizzi, ha comunque portato ad acquisizioni il cui valore mi sembra difficilmente revocabile: l’attenzione al testo e alle sue strutture formali, e all’opera ‘in movimento’ sullo scrittoio dell’autore e nel viaggio che essa intraprende nel mare della ricezione e dell’interpretazione; e quindi l’attenzione agli attori principali del processo della ricezione, il lettore e il pubblico, e alle modalità per mezzo delle quali, nel tempo e nello spazio, si attua il ‘contatto’. Ne deriva l’importanza degli strumenti della filologia, e del suo continuo interrogarsi: da dove, e come, giunge a noi questa voce? E poi ancora l’analisi del sistema della comunicazione in cui il testo letterario trova la sua naturale collocazione, le funzioni, i generi, i modi, i codici, la lingua; e infine il contesto, la società, le istituzioni politiche, sociali, culturali (le corti, la Chiesa, le accademie). La sensazione di crisi e disorientamento potrebbe venire piuttosto dalla sovrabbondanza degli strumenti, dei punti di vista, e ormai anche dei dati, che le moderne tecnologie dell’informazione ci mettono a disposizione, ma spesso senza adeguati supporti interpretativi: enciclopedie e biblioteche digitali, cataloghi, riviste. L’idea del labirinto, potenzialmente senza fine e senza senso, è immediatamente percepibile nella navigazione in rete, e nella trasformazione dello spazio letterario, che non è più solo parola scritta o detta, ma è contemporaneamente suono, immagine, movimento, luce. In un mondo in cui tutto sembra compresente e simultaneo, forse, varrebbe la pena di recuperare la possibilità di una navigazione ‘lineare’ nel tempo della storia, di una memoria puntuale dei testi, degli uomini, dei tempi, dei luoghi, anche (e soprattutto) in quello spazio particolare della comunicazione che è la didattica, la scuola, la trasmissione della conoscenza da una generazione all’altra. E allora, a cosa può servire ancora la letteratura, e in particolare la letteratura italiana? Esaurito il ruolo secolare di avatar di una nazione che non



premessa

xv

c’era, esaurito anche quello di pilastro della scuola nazionale postunitaria, resta probabilmente il valore che da sempre ci viene riconosciuto dagli altri, da ‘fuori di casa’, e di cui non sempre siamo consapevoli: la forte identità che la civiltà italiana ha saputo esprimere nella creazione e nell’elaborazione delle forme culturali (dalle lettere alle arti, dalla musica alla filosofia e alla scienza, e perfino nella moda e nella cucina), dal Medioevo al Rinascimento e oltre, nell’interazione continua con la storia della civiltà europea e cosiddetta ‘occidentale’, e ora col resto del mondo, con la società globale. Un’identità, naturalmente, in ‘contrappunto’, come indicava profeticamente Gramsci; e l’idea di ‘contrappunto’ è al nostro tempo ripresa da Said, che non a caso ricorda l’altro grande valore formativo (oltre che terapeutico) che letteratura e filologia possono avere oggi. Avvicinarsi al testo letterario è un’operazione straordinaria che ci consente di entrare in comunicazione con un mondo del tutto diverso dal nostro, e di vederlo con occhi che non sono i nostri. Abbiamo bisogno di ‘leggerlo’, cioè di attivare tutte le nostre competenze di analisi linguistica e formale, di decodificazione, di interpretazione; ma alla fine dobbiamo arrivare a una sintesi, che, per quanto personale e limitata, ci dirà cosa quel testo è ancora in grado di comunicarci, qui e ora. E, soprattutto, abbiamo bisogno di tempo. Tutto il contrario del mondo in cui viviamo, in cui la velocizzazione estrema dell’esperienza porta solo a modelli di comportamento imitativi, acritici, vuoti di senso; e ad una tragica perdita dell’humanitas. La filologia significa invece educazione alla critica, resistenza attiva alla dilatazione immensa della ‘memoria’ e dell’archivio collettivo, e di conseguenza alla manipolazione dell’informazione; resistenza all’attacco generale e globale alla stessa possibilità di esistenza di un libero pensiero, e quindi strumento di democrazia, di uguaglianza, perfino di difesa dell’ambiente e della natura. Un’educazione alla ‘lettura lenta’ di tutti i messaggi (dalle forme tradizionali del linguaggio verbale scritto, dal libro al cinema, alla televisione, a internet), opposta alla stessa velocità delle nuove tecnologie. E credo che la letteratura italiana, da Dante a Pasolini, abbia ancora molto da dire, in questo senso. Finisco di scrivere queste parole all’ultimo piano della Young Library dell’Università della California, a Los Angeles. Fuori, il vento porta via le nuvole verso la striscia azzurra dell’oceano. Sullo scaffale si allineano alcuni campioni della gloriosa tradizione anglosassone della short history dedicati alla letteratura italiana, da Garnett e Whitfield a Wilkins: a posteriori, mi piacerebbe pensare che anche queste pagine, con tutti i loro limiti, possano collegarsi a quella vecchia scuola. Nulla di più (e nulla di meno) di una ‘piccola storia’, espressione che potrebbe sembrare paradossale se applicata

xvi

premessa

ad una tradizione di lungo periodo così ampia, e apparentemente così pesante, paludata, massiccia, opaca. Una sintesi auspicabilmente chiara, leggibile, leggera, moderatamente ‘oggettiva’, con un po’ di autoironia e di consapevolezza che comunque una ‘storia della letteratura’ (breve o lunga che sia) è sempre anche un racconto (come ci ricorda Remo Ceserani), una cronaca dell’incontro (personale e diretto) con l’oggetto centrale e fondamentale della letteratura: il testo. Los Angeles, aprile 2009

La bibliografia finale presenta solo quelle indicazioni che possono guidare l’approfondimento nella lettura di un testo o di un autore (edizioni, strumenti, saggi critici, siti web). Per questa premessa, rinvio a Edward Said (Umanesimo e critica democratica, Milano, Il Saggiatore, 2007), Remo Ceserani (Raccontare la letteratura, Torino, Bollati Boringhieri, 1990), Stefano Jossa (L’Italia letteraria, Bologna, Il Mulino, 2006). Per il titolo (e non solo), dichiaro il mio debito all’esemplare Piccola storia della lingua italiana di Nicola De Blasi (Napoli, Liguori, 2008). Non riuscirei, in poche righe, a ricordare i nomi di chi mi ha aiutato ad elaborare e correggere il testo di questa ‘piccola storia’: il mio ringraziamento va a tutti loro, indistintamente, e con eguale affetto. Ricordo in particolare gli amici del Dottorato di Italianistica dell’Orientale di Napoli; e del Department of Italian di Los Angeles, dove ho potuto concludere (ma si conclude mai qualcosa?) un lavoro iniziato molti anni fa, nella pratica quotidiana dell’insegnamento, dal liceo all’università, e dedicato ora idealmente agli studenti che ho incontrato nel tempo, e che mi hanno sempre insegnato molto. E soprattutto a chi, nel tempo, con pazienza e amore, mi ha saputo seguire e comprendere e incoraggiare (e anche istigare, con la sua tanto più ampia esperienza di scuola e di comunicazione, la prima idea di scrivere una ‘storia’): a mia moglie, Mirella.



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Bibliografia Per un primo avviamento agli studi di area italianistica: L’italianistica. Introduzione allo studio della letteratura e della lingua italiana, a c. di G. Bárberi Squarotti e al., Torino, UTET, 1992; Guida allo studio della letteratura italiana, a c. di E. Pasquini, Bologna, Il Mulino, 1997; G. Zaccaria – C. Benussi, Per studiare la letteratura italiana, Milano, Bruno Mondadori, 2002; G. Baroni – M. Puppo, Manuale criticobibliografico per lo studio della letteratura italiana, Torino, SEI, 2002; M. Pozzi – E. Mattioda, Introduzione alla letteratura italiana. Istituzioni, periodizzazioni, strumenti, Torino, UTET, 2002; Manuale di italianistica, a c. di V. Roda, Bologna, Bononia University Press, 2005. Punto di partenza della moderna storia della letteratura italiana è F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Napoli, Morano, 1870-1871 (ed. recente a c. di G. Ficara, Torino, Einaudi-Gallimard, 1996). L’impostazione positivista della Scuola Storica, orientata all’accertamento rigoroso dei documenti e dei testi, ha prodotto la Storia letteraria d’Italia, Milano, Vallardi, I ed. 1898-1926, aggiornata e rielaborata nel corso del Novecento, con l’apporto di nuovi collaboratori (l’ultima edizione a c. di A. Balduino, Padova, Piccin Nuova Libraria, completata nel 2007). Dagli anni Sessanta sono apparse altre grandi storie ‘collettive’: Storia della letteratura italiana, diretta da E. Cecchi e N. Sapegno, Milano, Garzanti, 1965-1969 (ed. aggiornata 1987-1988); Letteratura italiana. Storia e testi, diretta da C. Muscetta, Bari, Laterza, 1970-1980 (con antologia di testi); Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1982-2000 (ai primi volumi, di carattere tematico e dedicati alle questioni fondamentali della civiltà letteraria italiana, si aggiungono le sezioni su Storia e geografia, Gli Autori. Dizionario bio-bibliografico e Indici, Le Opere, Dizionario delle opere); Storia della civiltà letteraria italiana, diretta da G. Bárberi Squarotti, Torino, UTET, 1990-1996; Storia generale della letteratura italiana, diretta da N. Borsellino e W. Pedullà, Milano, Motta, 1999; Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, Roma, Salerno, 1995-2005. Con diversi criteri di organizzazione è stata impostata la collana Orientamenti culturali. Letteratura italiana, Milano, Marzorati, 1956-1974, suddivisa in diverse sezioni: Le correnti, I minori, I contemporanei, I critici. Storie ‘sintetiche’ recenti, ad iniziare da quella ‘classica’ di N. Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Firenze, La Nuova Italia, 1956; G. Petronio, L’attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1979; G. Ferroni, Storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1991 (in 4 voll.), e Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1992 (vol. unico); The Cambridge History of Italian Literature, ed. P. Brand and L. Pertile, Cambridge, University Press, 1999; G.M. Anselmi, Profilo storico della letteratura italiana, Firenze, Sansoni, 2001; Storia della letteratura italiana, a c. di A. Battistini, Bologna, Il Mulino, 2005 (in 6 parti curate rispettivamente da L. Surdich, R. Bruscagli, E. Ardissino, A. Beniscelli, R. Bonavita, A. Casadei); U. Dotti, Storia della letteratura italiana, Roma, Carocci, 2007; M. Santagata – A.

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Casadei, Manuale di letteratura italiana medievale e moderna e Manuale di letteratura italiana contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2007; A. Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2009. Nella tradizione anglosassone delle storie ‘brevi’: G. Manacorda, Storia della letteratura e della lingua italiana, Roma, Newton Compton, 2001; G. Prezzolini, Storia tascabile della letteratura italiana, Palermo, Sellerio, 2002; G. De Rienzo, Breve storia della letteratura italiana, Milano, Bompiani, 2002. Utili percorsi di analisi testuale: il Breviario dei classici italiani. Guida all’interpretazione di testi esemplari da Dante a Montale, a c. di G.M. Anselmi, A. Cottignoli ed E. Pasquini, Milano, Bruno Mondadori, 1996; P.V. Mengaldo, Attraverso la prosa italiana e Attraverso la poesia italiana. Analisi di testi esemplari, Roma, Carocci, 2008; M. Santagata, La letteratura nei secoli della tradizione. Dalla «Chanson de Roland» a Foscolo, ivi 2007, e La letteratura nel secolo delle innovazioni. Da Monti a d’Annunzio, ivi 2009. I generi letterari erano già stati oggetto di studio della Storia dei generi letterari italiani, Milano, Vallardi, 1904-1952. Strumento aggiornato di analisi è oggi il Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi, a c. di F. Brioschi e C. Di Girolamo, Torino, Bollati Boringhieri, 1993-1996. Indagini approfondite su alcuni generi: S. Zatti, Il modo epico, Roma-Bari, Laterza, 2000; Il romanzo, a c. di F. Moretti, Torino, Einaudi, 2001-2004. V. inoltre Il mito nella letteratura italiana, a c. di P. Gibellini, Brescia, Morcelliana, 2004-2007. Sulla critica letteraria: Storia della critica letteraria in Italia, a c. di G. Baroni, Torino, UTET, 1997; Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, vol. XI, La critica letteraria dal Due al Novecento, a c. di P. Orvieto, Roma, Salerno, 2003; F. Suitner, La critica della letteratura e le sue tecniche, Roma, Carocci, 2004. Alcuni ‘grandi saggi’ che attraversano tutta la tradizione italiana. Innanzitutto, C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana (1967), Torino, Einaudi, 1994 (raccolta che comprende, oltre al fondamentale Geografia e storia, anche Tradizione classica e volgarizzamenti, e Chierici e laici). Sulle strutture della prosa, e sulla critica semiotica: C. Segre, Lingua, stile e società (1963), Milano, Feltrinelli, 1991; Id., Le strutture e il tempo, Torino, Einaudi 1974; Id., Semiotica filologica, Torino, Einaudi 1979. Enciclopedie e dizionari di letteratura (e di letteratura italiana): Dizionario Bompiani delle opere e dei personaggi di tutti i tempi e di tutte le letterature, Nuova ed., Milano, Bompiani, 2005; Dizionario Bompiani degli autori di tutti i tempi e di tutte le letterature, Nuova ed., Milano, Bompiani, 2006; Nuova Enciclopedia della letteratura (1972), Mi-



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lano, Garzanti, 1986; Dizionario critico della letteratura italiana, diretto da V. Branca (1974), Torino, UTET, 1999; Enciclopedia della letteratura italiana Oxford – Zanichelli, a c. di P. Hainsworth, D. Robey, P. Stoppelli, Bologna, Zanichelli, 2004; Encyclopedia of Italian Literary Studies, ed. G. Marrone, New York – London, Routledge, 2007. Sul teatro: Enciclopedia dello spettacolo, diretta da S. D’Amico, Roma, Le Maschere – Firenze, Sansoni, 1954-1962; M. Apollonio, Storia del teatro italiano (1938-1950), Firenze, Sansoni, 1981; C. Molinari, Storia del teatro, Roma-Bari, Laterza, 2003; Storia del teatro moderno e contemporaneo, diretta da R. Alonge e G. Davico Bonino, Torino, Einaudi, 2000-2003 (tre volumi di impostazione cronologica e un quarto di Trame per lo spettatore). Strumento indispensabile di aggiornamento sono le riviste di italianistica, tra le quali si segnalano il “Giornale Storico della Letteratura Italiana”, “Lettere italiane”, “La rassegna della letteratura italiana”, “Studi e problemi di critica testuale”, “Filologia e critica”, “Italianistica”, “Rivista di letteratura italiana”, “Esperienze letterarie”, “Critica letteraria”, “Aevum”, “Belfagor”, “Intersezioni”, “Lingua e stile”, “Linguistica e letteratura”, “Misure critiche”, “Nuovi argomenti”, “Paragone”, “Strumenti critici”, “Filologia italiana”, “Letteratura e arte”, “Per leggere”, “Studi italiani”, “Allegoria”, “Nuova rivista di letteratura italiana”. All’estero, “Italian Studies”, “The Italianist”, “Italica”, “Italian Quarterly”, “Modern Language Notes”, “Chroniques italiennes”, “Revue des Etudes Italiennes”, “Italique”, “Italienische Studien”. Specializzate su aspetti particolari di filologia e analisi testuale sono “Studi di filologia italiana”, “Autografo”, “Metrica”, “Ecdotica” (v. più avanti per altri periodici specializzati su periodi e autori specifici). In formato digitale (cui si stanno convertendo anche i periodici ‘tradizionali’) sono “Bollettino 900” (www.comune.bologna.it/iperbole/boll900) e “Griselda on line” (www.griseldaonline.it). Dal 2000 la schedatura di molte riviste di italianistica è realizzata da Italinemo (www.italinemo.it). Per la bibliografia della letteratura italiana, essenziale punto di riferimento è la Bibliografia generale della lingua e della letteratura italiana, Roma, Salerno, dal 1993 (anche in formato digitale). Cfr. Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, vol. XIV, Bibliografia della letteratura italiana, Roma, Salerno, 2004. Per il reperimento dei testi sono disponibili i cataloghi on line delle principali biblioteche italiane (OPAC, SBN: v. il sito dell’Associazione Italiana Biblioteche www.aib.it) e straniere (in particolare, la British Library di Londra, la Bibliothèque Nationale de France a Parigi, la Library of Congress a Washington). I testi della letteratura italiana sono in gran parte disponibili in formato digitale, a partire dai primi corpora prodotti in CD-ROM: la mitica LIZ (Letteratura Italiana Zanichelli), giunta alla versione 4.0, a c. di P. Stoppelli ed E. Picchi, Bologna, Zani-

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chelli, 2001; e l’Archivio Italiano, Roma, Lexis (Petrarca, Leopardi, Archivio della tradizione lirica da Petrarca a Marino, Commenti danteschi). In continua evoluzione il mercato dell’e-book, e la disponibilità delle biblioteche digitali. Tra le più ricche di testi letterari italiani: Liber Liber (Progetto Manuzio) (www.liberliber.it), Biblioteca della letteratura italiana (testi dalla Letteratura italiana Einaudi. Le Opere, ed. in CD-ROM) (www.letteraturaitaliana.net), Biblioteca Italiana (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”: l’archivio comprende anche la collezione completa degli Scrittori d’Italia Laterza) (www.bibliotecaitaliana.it), IntraText Digital Library (www.intratext.com), Biblioteca dei classici italiani (www. classicitaliani.it). Utile anche la consultazione di Gallica (Bibliothèque Nationale de France) (gallica.bnf.fr). I motori di ricerca offrono possibilità nuove alla ricerca, dalla visualizzazione completa del testo di un manoscritto o di un’edizione antica al reperimento di citazioni all’interno del libro: Google Book (ricerca tra milioni di libri, digitalizzati soprattutto nelle biblioteche pubbliche americane) (books.google.com), Europeana (biblioteca digitale europea) (dev.europeana.eu/home.php). Risorse di italianistica in rete: Bollettino 900 (www.comune.bologna.it/iperbole/ boll900), Griselda on line (www.griseldaonline.it), Italica – Rai International (www. italica.rai.it), Letteratura.it (www.letteratura.it), Italianistica Online (www.italianisticaonline.it) e Italianistica.info (www.italianistica.info). Associazioni di studi italianistici: Associazione degli italianisti italiani (ADI) (www. italianisti.it), Associazione Internazionale per gli Studi di lingua e letteratura italiana (AISLLI) (www.aislli.it), American Association for Italian Studies (AAIS) (www.aais. info), American Association of Teachers of Italian (www.aati-online.org). In formato cartaceo tradizionale, i testi sono ancora disponibili nelle collane di ‘classici’. Tra quelle ‘storiche’, la Biblioteca Nazionale di Le Monnier (Firenze dal 1843), e gli Scrittori d’Italia di Laterza (Bari), iniziati nel 1910 sulla base di un progetto di Benedetto Croce; e inoltre i Classici Italiani Sansoni (Firenze 1957-1968), Classici Rizzoli (Milano, dal 1935), Biblioteca di classici italiani Feltrinelli (Milano 1960-1967), Classici Italiani Mursia (Milano 1961-1969), Classici Italiani Zanichelli, Classici Mondadori (dal 1934). Tra le collane ancora attive: La letteratura italiana. Storia e testi, avviata dall’editore Ricciardi nel 1951 (Milano-Napoli); i classici della UTET (Torino), nella nuova serie iniziata nel 1948; la Nuova Raccolta di classici italiani annotati (Torino, Einaudi, dal 1939); la Biblioteca di scrittori italiani Guanda (Parma, dal 1990); la Biblioteca della Pléiade Einaudi – Gallimard; i Classici Bompiani. Un’ampia collezione con una sezione di letteratura italiana è quella dei Meridiani, Milano, Mondadori, dal 1969. Collane specializzate: Collezione di opere inedite o rare dei primi tre secoli, Bologna, Commissione per i testi di lingua, dal 1861, nuova serie dal 1944; Autori classici e documenti di lingua e Scrittori italiani e testi antichi, Firenze, Accademia della Crusca;



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Testi e documenti di letteratura e lingua, Roma, Salerno; Biblioteca dell’Ottocento Italiano, Bologna, Cappelli; Classici italiani minori, Ravenna, Longo; I novellieri italiani, Roma, Salerno, dal 1971; Il Parnaso Italiano, Torino, Einaudi; Diamanti, Roma, Salerno; Cento libri per mille anni, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato. Agli autori principali della letteratura italiana sono dedicate le edizioni nazionali. Per un quadro complessivo: Bibliografia delle Edizioni Nazionali, Milano, Bonnard, 1998. Un importante ruolo di diffusione culturale è stato svolto dalle edizioni economiche, a iniziare dalle collane di fine Ottocento e inizio Novecento: Sonzogno (Milano), Carabba (Lanciano), Biblioteca Universale Rizzoli (BUR), Biblioteca Moderna Mondadori (BMM), Oscar Mondadori, Grandi libri Garzanti, Universale Laterza, Piccola Biblioteca Einaudi (PBE), Einaudi Tascabili. Classici e Classici Moderni, Grande Universale Mursia (GUM), Biblioteca Economica Newton (Newton Compton). Tra le antologie: Antologia della poesia italiana, diretta da C. Segre e C. Ossola, Torino, Einaudi-Gallimard, 1997; Teatro italiano, a c. di S. D’Amico ed E. Possenti, Milano, Nuova Accademia, 1955-1956; Il teatro italiano, Torino, Einaudi, 1975-1985; Il teatro dal Medioevo all’Illuminismo, a c. di M. Scaparro, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1999; e le antologie dei Meridiani: Scrittori italiani di aforismi, a c. di G. Ruozzi, Milano, Mondadori, 1994-1996; La poesia in dialetto, a c. di F. Brevini, Milano, Mondadori, 1999; Scrittori italiani di viaggio, a c. di L. Clerici, Milano, Mondadori, 2008. Nella manualistica scolastica (legata allo schema tradizionale della storia-antologia: Salinari-Ricci, Giudice-Bruni ecc.) un importante ruolo di rinnovamento metodologico è stato svolto da R. Ceserani – L. De Federicis, Il materiale e l’immaginario, Torino, Loescher, 1978. Tra i manuali pubblicati negli ultimi anni: C. Segre e al., Testi nella storia. La letteratura italiana dalle origini al Novecento, Milano, Bruno Mondadori, 1991; G. Baldi e al., Dal testo alla storia, dalla storia al testo, Torino, Paravia, 1994; R. Luperini e al., La scrittura e l’interpretazione, Palermo, Palumbo, 1995; C. Riccardi e al., La memoria letteraria. Storia, testi e temi della letteratura italiana, Firenze, Le Monnier, 2003; G. Ferroni e al., Storia e testi della letteratura italiana, Milano, Mondadori Università, 2002; G.M. Anselmi e al., Tempi e immagini della letteratura, coordinamento di E. Raimondi, Milano, Bruno Mondadori, 2003; M. Santagata e al., Il filo rosso. Antologia e storia della letteratura italiana ed europea, Roma-Bari, Laterza, 2006. Per la teoria letteraria e l’analisi testuale: C. Segre, Avviamento all’analisi del testo letterario, Torino, Einaudi, 1985; R. Ceserani, Guida breve allo studio della letteratura, Roma-Bari, Laterza, 2005; F. Brioschi – C. Di Girolamo – M. Fusillo, Introduzione alla letteratura, Roma, Carocci, 2006.

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Sulla storia della lingua italiana e dei dialetti: G. Devoto, Profilo di storia linguistica italiana, Firenze, La Nuova Italia, 1953; B. Migliorini, Storia della lingua italiana (1963), Firenze, Sansoni, 2002; G. Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, Einaudi, Torino, 1966-1970; Storia della lingua italiana, a c. di F. Bruni, Bologna, Il Mulino 1992; Storia della lingua italiana, a c. di L. Serianni e P. Trifone, Torino, Einaudi, 1993-1994. A. Castellani, Grammatica storica della lingua italiana, Bologna, Il Mulino, 2000; N. De Blasi, Piccola storia della lingua italiana, Napoli, Liguori, 2008. Sulla filologia italiana: A. Balduino, Manuale di filologia italiana (1979), Firenze, Sansoni, 2001; F. Brambilla Ageno, L’edizione critica dei testi volgari, Padova, Antenore, 1984; A. Stussi, Introduzione agli studi di filologia italiana (1994), Bologna, Il Mulino, 2007; G. Inglese, Come si legge un’edizione critica. Elementi di filologia italiana, Roma, Carocci, 1999; B. Bentivogli – P. Vecchi Galli, Filologia italiana, Milano, Bruno Mondadori, 2002; P. Stoppelli, Filologia della letteratura italiana, Roma, Carocci, 2008. Per un quadro generale della tradizione dei testi della letteratura italiana: C. Bologna, Tradizione e fortuna dei classici italiani, Torino, Einaudi, 1993; Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, vol. X, La tradizione dei testi, a c. di C. Ciociola, Roma, Salerno, 2001. Sulla metrica: R. Spongano, Nozioni ed esempi di metrica italiana, II ed., Bologna, Pàtron, 1974; W.Th. Elwert, Versificazione italiana dalle origini ai giorni nostri, Firenze, Le Monnier, 1985; A. Menichetti, Metrica italiana: fondamenti metrici, prosodia, rima, Padova, Antenore, 1993; F. Bausi – M. Martelli, La metrica italiana: teoria e storia, Firenze, Le lettere, 1996; G. Lavezzi, Manuale di metrica italiana, Roma, NIS, 1996; F. De Rosa – G. Sangirardi, Introduzione alla metrica italiana, Firenze, Sansoni, 1996; G. Bertone, Breve dizionario di metrica italiana, Torino, Einaudi PBE, 1999; P.G. Beltrami, Gli strumenti della poesia, Nuova ed., Bologna, Il Mulino, 2002. Esemplari letture metriche in M. Fubini, Metrica e poesia: lezioni sulle forme metriche italiane, Milano, Feltrinelli, 1975; G.L. Beccaria, L’autonomia del significante: figure del ritmo e della sintassi: Dante, Pascoli, D’Annunzio, Torino, Einaudi, 1975. Sulla retorica: O. Reboul, Introduzione alla retorica, Bologna, Il Mulino, 1996; M.P. Ellero, Breve manuale di retorica, Firenze, Sansoni, 2001; H. Lausberg, Elementi di retorica, Bologna, Il Mulino, 2002; B. Mortara Garavelli, Manuale di retorica, Milano, Bompiani, 2003. Cfr. anche A. Battistini – E. Raimondi, Le figure della retorica, Torino, Einaudi, 1990.

Parte I Il Medioevo

1. La civiltà medievale

Come negli altri paesi europei, anche in Italia una civiltà nuova nasce alla fine del mondo antico. La grande unità politica, economica, culturale e linguistica dell’Impero Romano si disgrega in molte nuove realtà, in cui riemergono elementi (sia antropologici che linguistici) anteriori alla romanizzazione (il cosiddetto ‘sostrato’), e che si fondono con gli apporti di nuove popolazioni, giunte nei territori dell’Impero con stanziamenti pacifici o più spesso con invasioni distruttive. Dall’unità linguistica del latino si passa alla pluralità delle lingue volgari neolatine o romanze (dall’antico francese romans, a sua volta derivato dalla locuzione latina romanice loqui, ‘parlare alla romana’; e ‘volgari’ perché parlate dal vulgus, il popolo), nei paesi dove la popolazione latina resta maggioritaria (Italia, Francia, penisola iberica, Romania), mentre altrove prevalgono le nuove lingue germaniche (Germania, Inghilterra). Il passaggio da un’età ad un’altra non è avvenuto improvvisamente. Un tempo si indicava in una stessa data la fine dell’Antichità e l’inizio del Medioevo: il 476 dopo Cristo, l’anno in cui l’ultimo imperatore romano d’Occidente, Romolo Augustolo, venne deposto da Odoacre re dei barbari Eruli, e rinchiuso nella fortezza marina di Castel dell’Ovo a Napoli. È una data simbolica. In realtà il grandioso processo di dissoluzione dell’unità era iniziato molto prima, già con gli imperatori successori di Augusto, e si era accelerato nel III-IV secolo, in un periodo di anarchia politica e amministrativa, di divisione fra Oriente e Occidente (sancita dall’imperatore Diocleziano), e di prime invasioni barbariche. Un lungo periodo complesso, in cui il rapporto fra l’antico e il nuovo non è mai completamente interrotto. Il fatto veramente nuovo, dal punto di vista culturale e religioso, è piuttosto, nel IV secolo, l’affermazione di una nuova religione venuta dal Mediterraneo orientale, che, dopo molte persecuzioni, viene riconosciuta dall’imperatore Costantino (313), soppianta l’antica religione pagana, e di-



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venta addirittura la religione di stato: il cristianesimo. Gli insegnamenti di un giovane rabbi ebreo di nome Ieoshua (Gesù), detto in greco il Cristo, cioè il ‘consacrato’, crocifisso dai Romani a Gerusalemme sotto Tiberio perché si era proclamato Messia e Figlio di Dio, vengono messi per iscritto e tradotti dall’aramaico in greco, in brevi testi che raccontano la sua vita e riportano le sue parole. Quei testi vengono chiamati ‘vangeli’, cioè in greco ‘buona novella’. E da Roma, nell’unità declinante del mondo antico, quel messaggio si diffonde fino ai confini dell’impero, e conquista anche i barbari invasori. Roma non era più la capitale dell’impero: il suo posto era stato preso da Milano in Occidente, e da Bisanzio, ribattezzata Costantinopoli, in Oriente. Ma Roma restava il centro simbolico del mondo. A Roma erano venuti a morire (a essere ‘martiri’, che significa ‘testimoni’ della loro fede) i primi apostoli, i primi seguaci di Gesù, Pietro e Paolo. Sulle loro tombe erano state costruite, da Costantino in poi, grandiose basiliche, luogo d’attrazione dei fedeli della nuova religione, chiamati ‘cristiani’. E il vescovo di Roma continuerà da allora ad essere considerato il successore di Pietro. Nella grande ex-capitale del mondo, spopolata, ridotta a un enorme guscio vuoto dopo la fine dell’impero, quel vescovo diventa il papa, il vicario di Cristo, acquista il potere, anche politico, di un nuovo imperatore. Per l’Italia, la prima esperienza di un’entità politica e culturale limitata alla penisola si ha con il regno degli Ostrogoti, succeduti a Odoacre, e soprattutto con la grande figura di Teodorico (493-526). La capitale è ora Ravenna, già importante con gli ultimi imperatori del IV-V secolo, perché attivo porto e strategico centro di commerci con l’Oriente e con Bisanzio. Teodorico vi fa costruire splendidi edifici religiosi, e il proprio palatium, centro del potere civile. In particolare, persegue un suo utopico progetto di incontro con la grande cultura latina, con la collaborazione di due grandi intellettuali dell’epoca, Boezio e Cassiodoro. Purtroppo il progetto non riesce. Severino Boezio (ca. 480-526) viene perseguitato e ucciso: in carcere, prima di morire, scrive un testo straordinario, che sarà letto in tutto il Medioevo, il De consolatione Philosophiae (‘la consolazione della Filosofia’), in cui è la stessa Filosofia ad apparire all’autore, e a guidarlo negli ultimi momenti della sua vita. Aurelio Cassiodoro (ca. 490-575) si rifugia in una comunità monastica da lui fondata in Calabria, Vivarium, con la finalità di salvare le testimonianze della civiltà antica dalla loro completa distruzione, favorendo la trascrizione e la conservazione di molte opere letterarie e filosofiche. Un’altra forma di riorganizzazione e trasmissione del sapere poteva essere quella di tipo enciclopedico, come fa in Spagna Isidoro di Siviglia,



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nelle Etymologiae: altra opera fondamentale per la cultura medievale, in cui torna la divisione delle discipline ereditata dal mondo antico, presente in Boezio e Cassiodoro, e diventata canonica nei secoli successivi. Si tratta delle cosiddette ‘arti liberali’, ripartite in trivio (grammatica, retorica, dialettica) e quadrivio (matematica, geometria, astronomia, musica): un vero sistema di pensiero, basato sulla perfezione simbolica del numero sette, che diventa unico strumento di interpretazione del reale. Non tutto può essere salvato. Talvolta è necessario fare scelte dolorose, perché non c’è materiale scrittorio sufficiente. Bisognava distinguere fra autori di ‘prima categoria’, quelli considerati veramente importanti (per il loro posto nei programmi scolastici, o il loro valore formativo ed estetico), e quelli a cui si sarebbe anche potuto rinunciare. Fu allora che si diffuse la parola ‘classico’, dal latino classicus, ‘appartenente ad una classe’ (la prima attestazione è in Aulo Gellio, erudito romano del II secolo). Il ‘classico’ era uno scrittore ‘di prima classe’, e quindi degno di essere ‘salvato’, e imitato. Al livello dell’educazione grammaticale e retorica, i ‘classici’ divennero presto gli autori (in particolare i poeti) principali della letteratura latina, che furono oggetto di commenti. In primo luogo Virgilio, che con le sue tre grandi opere, le Bucoliche, le Georgiche e l’Eneide, forniva una guida a tre importanti generi letterari, la poesia pastorale, la poesia didascalica, e la poesia epica, e ai tre stili che nel Medioevo furono codificati come fondamentali: nell’ordine, lo stile umile (o elegiaco), lo stile medio (o comico), e lo stile sublime (o tragico). Di più, la celebre IV egloga, che profetizzava la nascita di un puer, fu interpretata come una profezia della nascita di Cristo. Gli altri ‘classici’, nella scuola medievale, furono Ovidio, Lucano, Stazio, Orazio, Terenzio, e, per la prosa, Cicerone e Seneca. Ma la loro conoscenza era molto imperfetta. Ovidio era conosciuto ampiamente, ma interpretato sempre secondo un’ottica cristiana, perché altrimenti testi come le Metamorfosi (con tutte le storie della mitologia e degli dèi pagani, e le loro infinite vicende di amori illeciti, stupri, violenze) o come l’Ars amandi non sarebbero mai stati tramandati da un copista cristiano in un monastero. Di Lucano si leggeva il poema Bellum civile, di Stazio la Tebaide, di Orazio le Satire e l’Ars poetica. Le commedie di Terenzio erano lette per i loro contenuti morali, mentre venivano quasi dimenticate quelle di Plauto. Di Cicerone si conosceva soprattutto lo scrittore di dialoghi filosofici e di opere retoriche, e si ignorava la produzione di orazioni e di lettere, cioè il suo reale coinvolgimento nella politica attiva. Seneca era apprezzato come maestro morale con i suoi Dialoghi e con le Epistole a Lucilio, ma non se ne conosceva il lato oscuro e sanguinario delle Tragedie. Molti altri autori



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antichi erano tramandati da pochissimi manoscritti (se non da uno solo): Livio, Catullo, Lucrezio, Apuleio. Altri scomparvero del tutto. All’epoca, la trasmissione della cultura scritta avveniva per mezzo della trascrizione su fogli di pergamena, o più raramente su rotoli di papiro, perché ormai il papiro non giungeva quasi più dall’Egitto. Era un’operazione lenta e difficile, nella quale il copista doveva fare molta attenzione a non introdurre errori nella sua copia. Ogni manoscritto (che da allora si cominciò a chiamare codex, ‘codice’, cioè fascicolo di fogli inseriti e legati uno dentro l’altro) era un unicum, e a sua volta poteva tramandare il suo testo ad un nuovo manoscritto. Qualche volta la pergamena era così poca che bisognava cancellare quello che c’era scritto prima (se considerato poco importante) e riscriverci sopra (il cosiddetto palinsesto, che significa ‘scritto di nuovo’). Mentre le grandi biblioteche cittadine andavano distrutte in incendi e saccheggi, cominciavano a formarsi nuove biblioteche in posti simili a quella Vivarium dove si era rifugiato Cassiodoro, cioè nei monasteri. Il monachesimo era una forma di vita eremitica, dedita alla spiritualità, sorta in Oriente, e riorganizzata nel VI secolo in Occidente da Benedetto da Norcia in una struttura comunitaria, retta sulla regola dell’ora et labora (‘prega e lavora’). Il centro del monachesimo occidentale divenne presto il monastero di Montecassino, fondato da Benedetto. E una parte della regola di Benedetto imponeva ai monaci proprio il compito di copiare i codici, sia antichi che cristiani, in uno spazio dedicato all’interno del monastero, chiamato scriptorium. I monasteri, d’altronde, non furono mai luoghi isolati dal resto del mondo, ma costituirono efficaci reti di collegamento per tutta Europa, favorendo lo scambio di uomini, libri, saperi, come dimostrarono in particolare i monaci inglesi e irlandesi che scesero nel continente, fondando importanti monasteri (in Italia, Bobbio). Dopo la morte di Teodorico, il regno degli Ostrogoti non resiste all’assalto di Bisanzio, dove l’imperatore Giustiniano vuole ristabilire l’unità dell’impero. Dopo una guerra lunga e catastrofica (535-553) l’Italia è riconquistata dai Bizantini. Le città sono distrutte o spopolate, le campagne incolte, i commerci e l’economia completamente rovinati. Ma è conquista di breve durata. Nel 568 nuovi invasori, i Longobardi, conquistano l’Italia, tranne l’area di Ravenna e alcuni territori dell’Italia meridionale che resteranno per molti secoli legati a Bisanzio (le fasce costiere della Campania, Gaeta, Napoli, il Salento, la Calabria, la Sicilia). Forse è con questa data che si rompe effettivamente la continuità col mondo antico, ed inizia, per l’Italia, il Medioevo.



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Che significa dunque Medioevo? Quando si cominciò a usare per la prima volta, questa parola aveva un forte significato negativo, e qualche volta lo ha ancora oggi, almeno nei suoi derivati (l’aggettivo ‘medievale’, che, fuori contesto, fa pensare a qualcosa di arretrato, di oscuro). Letteralmente significa ‘età di mezzo’. All’inizio dell’età moderna, fra Quattro e Cinquecento, gli intellettuali guardarono con grande ammirazione alla civiltà degli Antichi, e cercarono in tutti i modi di farla ‘rinascere’. Ai loro occhi, il lungo periodo che li divideva dall’Antichità non era stato altro che un lungo periodo di buio, di oscurità, di barbarie, di cui si dava la colpa soprattutto ai ‘barbari’ che avevano invaso e distrutto l’impero romano. Era stata un’‘età di mezzo’, un ‘medio-evo’, un momento transitorio che bisognava superare, e dimenticare. Qualcuno aveva spento la luce, bisognava solo riaccenderla. Gli uomini del Medioevo, ovviamente, non sapevano di vivere in una ‘età di mezzo’, e a lume spento. Al contrario, essi erano certo consapevoli che era avvenuto qualcosa di terribile, che aveva portato alla distruzione della civiltà di Roma. Ma davano a quell’insieme di eventi una interpretazione che permetteva di continuare il cammino degli Antichi, nonostante tutto. Il primo era stato Agostino da Ippona (354-430), un maestro di scuola africano che viene in Italia nel IV secolo, si converte al cristianesimo, segue il grande vescovo di Milano Ambrogio, e ritorna in Africa negli ultimi anni della sua vita. La sua opera più bella è, in parte, anche una autobiografia, le Confessioni, in cui Agostino ripercorre le tappe fondamentali della sua vita, nel graduale riconoscimento dei suoi errori, e in una ricerca costante di Dio che avviene attraverso lo scavo interiore, nel profondo della propria anima. Ma Agostino è anche testimone di terribili invasioni barbariche (quella dei Vandali, che culmina con il saccheggio di Roma), e si interroga, in altre opere come il De civitate Dei (‘la città di Dio’), sul senso della storia, e sul rapporto fra la città degli uomini e la città di Dio, fra l’imperfezione di quella (destinata sempre alla caduta, alla rovina) e la perfezione di questa, la Gerusalemme celeste. L’impostazione agostiniana sarà fondamentale per i secoli successivi, anche attraverso un’opera storica scritta da un seguace di Agostino, Paolo Orosio, le Historiae adversus paganos (‘storie contro i pagani’), in cui si rigettava l’accusa che Roma fosse decaduta a motivo dell’abbandono della religione dei padri, e dell’indebolimento che sarebbe stato causato dalla cristianizzazione. Al contrario, secondo Orosio, la decadenza era diretta conseguenza dei peccati del paganesimo, e le distruzioni segni tangibili dell’ira e della punizione divina.



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Il cristianesimo segna quindi, per l’uomo del Medioevo, non elemento di frattura, ma di continuità. L’elemento di salvezza della storia dell’uomo, a partire dalla morte di Cristo sulla croce, punto centrale di una storia che era concepita come divisa esattamente a metà: da una parte il tempo dell’attesa, dal Peccato Originale fino alla Croce, dall’altra il tempo della redenzione, dalla Croce fino alla fine della storia, il Giudizio Universale. una ripartizione che corrispondeva perfettamente al libro sacro dei cristiani, la Bibbia, che univa i libri sacri degli Ebrei (l’Antico Testamento) ai nuovi testi su Cristo: i Vangeli, le Lettere e gli Atti degli Apostoli, l’Apocalisse (il Nuovo Testamento). In questo tempo lineare, la civiltà e la letteratura degli Antichi potevano essere salvate, purché inserite in un sistema di interpretazione unitario e coerente. Autori pagani come Ovidio o Virgilio, che mettono in scena o descrivono anche divinità pagane come Venere o Apollo, devono essere reinterpretati. La descrizione di Venere rinvia non alla reale esistenza di una dea dell’amore, ma ad una realtà ‘altra’, a livello spirituale o morale. La letteratura e il mondo sono percepiti come un sistema di ‘segni’ che rinvia sempre a qualcos’altro, ad un livello più elevato (allegoria). Si sviluppa quindi un tipo di lettura allegorica (‘allegoria dei poeti’), simile a quella che veniva utilizzata per i testi sacri cristiani (‘allegoria dei teologi’). Nell’Europa del Medioevo la principale lingua di comunicazione, a livello religioso, politico e culturale, resta il latino. Ma non è più il latino ‘classico’, cioè quello utilizzato dagli antichi scrittori romani. Definito oggi ‘latino medievale’, è un latino che si apre a molteplici e nuove esperienze del mondo, agli spazi dell’immaginario e del meraviglioso, all’altezza del sacro, e col tempo alle necessità comunicative delle scienze e delle professioni. È un latino che conosce, nella sua vitalità, una grande diffrazione nelle sue differenti specializzazioni: il latino della filosofia scolastica, il latino della giurisprudenza, il latino della medicina. È il latino della Chiesa, soprattutto, debitore della lingua dei testi sacri, in particolare della traduzione della Bibbia condotta da san Girolamo (la cosiddetta Vulgata, ca. 385-404), e dei Padri della Chiesa; il latino dei documenti pontifici e curiali, delle decretali e dei concili, e della liturgia. È infine il latino dei poeti cristiani. Nel campo della poesia si avvertiva uno dei principali fenomeni di trasformazione della lingua latina, nel passaggio alle lingue romanze: la perdita definitiva del senso della ‘quantità’, secondo cui ogni sillaba poteva essere ‘lunga’ o ‘breve’, avere cioè una durata maggiore o minore. La poesia latina classica era ‘quantitativa’, e poeti come Virgilio e Orazio costruivano i loro versi su una sapiente successione



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di sillabe lunghe o brevi. Nelle lingue romanze le sillabe hanno invece tutte la stessa durata, e quindi la poesia ha bisogno di altri elementi per marcare il verso: il ritmo degli accenti naturali delle parole, e la rima, o ripetizione delle stesse sillabe alla fine del verso. I primi grandi poeti cristiani tentano di imitare la metrica classica, ma gradualmente diffondono, per mezzo della poesia liturgica (gli inni, a iniziare da quelli composti da sant’Ambrogio, il vescovo di Milano che guidò la formazione di Agostino; e le sequenze, testi cantati diffusi dopo l’anno Mille), forme di poesia in cui prevale il carattere ritmico. Nell’ambito della Chiesa svolgono la loro attività i primi grandi scrittori latini medievali in Italia: il papa Gregorio Magno (540-604), originario di un’antica famiglia romana, autore di lettere, dialoghi, e di un commento al testo biblico di Giobbe (Moralia in Iob); e un monaco di origine longobarda, Paolo Diacono (720-799), vissuto ormai alla fine del regno longobardo e stabilitosi a Montecassino, che conserva una viva testimonianza della sua epoca nell’Historia Langobardorum (‘storia dei Longobardi’). È un quadro di un’Europa frammentata e in continua disgregazione, cui fa da contraltare la straordinaria espansione dell’Islam, che travolge gran parte dell’impero bizantino, conquista l’Africa e la Spagna, e viene arrestata solo a Poitiers nel 732 da Carlo Martello. Un cambiamento decisivo avvenne con l’ascesa al trono dei Franchi di Carlo Magno, discendente di Carlo Martello, che riuscì alla fine dell’VIII secolo a ricreare una struttura unitaria di potere al centro del continente, superando il grande frazionamento dei regni e dei popoli romano-barbarici. Questa restaurazione di un potere di tipo imperiale culminò in un episodio di grande valenza simbolica, l’incoronazione di Carlo a Roma nella notte di Natale dell’anno 800 da parte di papa Leone III, e la sua acclamazione a ‘imperatore dei Romani’. I contemporanei credettero di vedere la rinascita dell’impero di Roma, in una forma che venne definita poi Sacro Romano Impero. Per l’Italia, l’azione di Carlo ebbe molteplici effetti: sul piano politico, la quasi scomparsa del dominio longobardo (ridotto ad alcuni principati del centro e del sud), e la diminuzione dell’influenza bizantina, e di converso una maggiore indipendenza del papato; sul piano culturale, il coinvolgimento di grandi intellettuali italiani in una vasta opera di recupero della tradizione antica, una vera e propria ‘rinascita’, la prima definibile con questo nome nel corso del Medioevo. La rinascita, detta appunto carolingia, avvenne principalmente con la rinascita delle istituzioni scolastiche, presso la corte imperiale (la ‘scuola palatina’, cioè di palazzo, ad Aquisgrana), e presso le principali cattedrali e abbazie di Francia e Germania (Lione, Orléans, Tours,

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Treviri, Corbie, Corvey), dove si ricominciò a copiare testi classici rari. E il processo, ormai avviato, continuò anche dopo la fine dei Carolingi, quando il centro politico dell’impero si spostò in Germania, con la dinastia di Sassonia (secolo X). Nello stesso periodo si comincia a prendere atto dell’esistenza delle lingue volgari, e a riconoscerne l’uso. Lo stesso Carlo Magno, secondo la tradizione, era inizialmente analfabeta, come in genere lo era la classe dirigente laica dei principi e dei feudatari. Nell’813 il Concilio di Tours stabilisce di fatto il bilinguismo, cioè l’uso del latino per i documenti ufficiali della Chiesa, e l’uso del volgare (in quel caso, l’antico tedesco e l’antico francese) per la predicazione, che altrimenti non sarebbe stata compresa dal popolo. La più antica attestazione dell’uso del volgare francese risale invece all’842. In quell’anno Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico, figli dell’imperatore Ludovico il Pio (successore di Carlo Magno), davanti ai loro eserciti, si giurano lealtà, ciascuno nella lingua dell’altro, cioè in antico francese Ludovico, e in antico tedesco Carlo (i cosiddetti Giuramenti di Strasburgo). La rinascita avviene comunque in un sistema sostanzialmente statico, quello della società feudale importata dai popoli invasori, e dominante nei confronti della civiltà urbana tardoantica (peraltro non del tutto scomparsa). Erano strutture che comportavano una visione gerarchica e immobile dei rapporti tra gli uomini, e che a loro volta riflettevano la visione del rapporto fra terreno e ultraterreno, fra creature e Creatore. Al vertice del potere l’imperatore, sotto di lui i principi, i regnanti di rango inferiore, i grandi e i piccoli feudatari inquadrati nel sistema del vassallaggio, e in basso i servi della gleba, privi di qualunque diritto. Poco dopo l’anno Mille il sistema sociale fu efficacemente rappresentato dal vescovo Adalberone di Laon secondo la teoria dei tre ordini: in alto gli oratores (‘coloro che pregano’), cioè gli ecclesiastici, poi i bellatores (‘coloro che combattono’), i feudatari, i cavalieri e i soldati, e infine i laboratores (‘coloro che lavorano’), i contadini, gli operai, gli artigiani. Col tempo si costruisce una dualità di poteri, con la graduale conquista di autonomia del papato, che rivendica la costituzione di un’identica piramide in ambito ecclesiastico. Gli strumenti della cultura sono comunque saldamente in mano alla Chiesa, che gestisce la quasi totalità delle scuole e delle biblioteche esistenti, presso le cattedrali o i monasteri, dove si svolge, con poche eccezioni, la produzione e la comunicazione letteraria. Dopo l’Anno Mille le strutture del mondo feudale cominciano ad entrare in crisi, in un lungo periodo di decadenza che si trascinerà per molti secoli. Il movimento è lento ma inarrestabile, e parte dalla ripresa dei commerci e delle relazioni economiche, sia all’interno del continente, sia all’esterno,



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nel Mediterraneo Orientale. Il processo storico culmina in vere guerre di conquista di territori del Medio Oriente (la Palestina e la Siria), le Crociate, che, pur avendo la motivazione primaria di liberare Gerusalemme e il Santo Sepolcro, portarono nei fatti alla riapertura delle rotte commerciali e alla fondazione di porti e basi marittime. Se i cavalieri crociati appartenevano alla nobiltà feudale europea, gli armatori e i marinai che li portavano in Palestina erano quasi tutti italiani, di alcune città costiere che ebbero allora un prodigioso sviluppo economico e sociale, costituendosi in città-stato libere e con reggimenti autonomi, le Repubbliche marinare, tra cui emersero soprattutto Amalfi, Venezia, Pisa e Genova. La ripresa di commerci e fiere si estende dall’Italia all’Europa, e in particolare a Francia, Fiandre, Borgogna, favorendo la rinascita delle città, che gradualmente si liberano da qualunque forma di sudditanza nei confronti dei feudatari. La città è un luogo ‘libero’, in cui tutto diventa possibile. Il potere viene gestito dal basso, con varie forme di assemblea e consultazione popolare (in cui comunque hanno peso maggiore le classi più importanti dal punto di vista economico, i mercanti, e i produttori delle merci lavorate più richieste dal mercato internazionale: la lana, la seta, i pellami, le armi), perché la civitas è communis, è ‘comune’. Nasce così il libero comune. In Italia il processo è più accentuato e avanzato che altrove: le città reclamano la loro libertà non solo nei confronti dei feudatari, ma addirittura nei confronti dell’imperatore, Federico Barbarossa, battuto dalla lega delle città del Nord nella battaglia di Pontida (1170). Nel Sud, invece, le strutture feudali riprendono vigore con la discesa dei cavalieri Normanni, che si impadroniscono dei residui principati longobardi e bizantini del Mezzogiorno, e della Sicilia (sotto dominio arabo nei secoli IX-XI), e fondano un grande regno che ha come capitale Palermo, e in cui per la prima volta nel continente europeo le tradizioni culturali e artistiche del Mediterraneo cominciano a dialogare, non con le armi dei Crociati, ma sui libri di filosofi e medici. La civiltà araba musulmana aveva infatti raggiunto in quei secoli livelli senz’altro superiori alla civiltà occidentale cristiana, soprattutto nei campi del sapere scientifico e filosofico: la medicina, l’astronomia, l’ottica, la geometria, la matematica (con la mediazione all’Occidente delle cifre indiane, che vennero chiamate ‘arabe’). Gli Arabi, con la conquista di gran parte dei territori che avevano fatto parte del mondo ellenistico (da Alessandria d’Egitto a Damasco di Siria), avevano anche raccolto la straordinaria eredità del mondo classico, e promosso la traduzione e la diffusione delle opere più importanti della filosofia antica, e soprattutto di Aristotele, che avrà tra i massimi interpreti medievali le figure di Ibn Sina (detto Avicenna, 980-1036), e Ibn Rushd (detto Averroé, 1126-1198).

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Uno degli effetti sul piano culturale fu la nascita delle prime scuole laiche di rango superiore, comunità di insegnanti e studenti autonome nei confronti della Chiesa, che vennero poi chiamate università. Fra i primi centri di studio si ricorda quello di Salerno (XI-XII secolo), specializzato nella medicina, grazie alla presenza di studiosi fortemente influenzati dalla scienza araba, come Costantino l’Africano. A Bologna si sviluppò invece nel XII secolo la scuola di diritto, che portò alla rinascita del diritto romano. Le facoltà principali furono allora, oltre alla teologia, quelle di diritto e di medicina, mentre le arti liberali (considerate propedeutiche alle altre discipline, più elevate, o più professionalizzanti) erano insegnate nella facoltà delle arti. Per la cultura europea le università significarono anche la possibilità di una grande circolazione di uomini e di idee, sia professori che passavano da una sede all’altra, sia studenti provenienti da nazioni diverse, e che confrontavano le loro diverse culture: una nuova classe di intellettuali, talvolta irregolari (i clerici vagantes), che trovava espressione nelle forme della poesia goliardica, centrata sui temi di una vitalità gioiosa, della riscoperta della corporeità e dell’eros, ma anche di una nuova coscienza della labilità della vita e del potere universale della fortuna (come appare nei Carmina Burana, così chiamati perché conservati in un manoscritto proveniente dal monastero tedesco di Benediktbeuren). Ma si trattava anche di una rivoluzione materiale dei mezzi di comunicazione. Nelle università professori e studenti avevano bisogno di una quantità di testi scritti molto maggiore rispetto a quanto era necessario nello scriptorium di un monastero o di una cattedrale. E fortunatamente dall’Oriente fu importata la tecnologia di produzione della carta, più conveniente e più economica della pergamena. Gradualmente, in un mondo in cui contavano sempre di più professori e giuristi e notai, la scrittura prese il sopravvento sull’oralità.

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2. Le origini della letteratura in volgare

2.1. Primi documenti in volgare Quando inizia la letteratura italiana? La risposta non è facile. Di solito, la si faceva cominciare con i primi testi documentati in lingua volgare (dal latino vulgaris, ‘la lingua parlata dal popolo’), e in cui fosse riconoscibile qualcuno di quei fenomeni che normalmente distinguono il testo letterario da altre tipologie di testo o di messaggio: ricerca di un certo ritmo, uso di figure retoriche, modifiche nell’ordine e nella disposizione delle parole, fino alla divisione in versi e in strofe per i testi poetici. Da questo punto di vista, era la storia di una letteratura di cui si riconosceva, come carattere dominante, il fatto che fosse stata espressa in volgare italiano: vale a dire, nei primi secoli, in uno dei molti dialetti della penisola (dal veneziano al siciliano, dal napoletano al milanese), tra i quali prenderà gradualmente il sopravvento il toscano, e in particolare il fiorentino; dal Quattro-Cinquecento in poi, in una lingua letteraria italiana più o meno comune alle classi colte, modellata sul fiorentino letterario, ed evolutasi in età contemporanea anche in lingua d’uso, l’italiano di oggi. In realtà, la letteratura italiana non si limita alla sola produzione di testi in lingua volgare, e in italiano, e quindi non inizia con i primi testi letterari in volgare del XIII secolo. Almeno fino all’inizio del Cinquecento è una letteratura plurilinguistica, che si serve di lingue diverse, con una straordinaria ricchezza nella possibilità d’uso di strumenti differenti. In quei secoli, in Italia si fa poesia o si scrivono testi letterari in latino, in antico francese, in provenzale, in greco, in ebraico, e perfino in arabo. Alcuni grandi scrittori passano senza difficoltà da una lingua all’altra, a seconda delle necessità di comunicazione. Eppure, si è parlato di un ‘ritardo’ della letteratura italiana rispetto alle altre letterature europee. Ritardo in che cosa? Solo nell’apparizione e nello sviluppo delle prime forme letterarie in volgare. Quando altrove

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erano già nati la Chanson de Roland, il Cid e i canzonieri provenzali, da noi non era stato composto un solo verso in volgare. Rare sono le prime attestazioni dell’uso del volgare. La più antica sembra il breve testo di un indovinello ritrovato in un manoscritto della Biblioteca Capitolare di Verona, e perciò chiamato Indovinello veronese, della fine dell’VIII secolo: “Se pareba boves, alba pratalia araba / albo versorio teneba et negro semen seminaba”. In una lingua intermedia fra latino e volgare (già distinto dalla caduta delle desinenze consonantiche, e dalla scomparsa della declinazione dei casi) l’amanuense, in una pausa del proprio lavoro, rappresenta la propria mano come un agricoltore, che spinge avanti i buoi (le dita), ara bianchi prati (la carta), impugna un bianco aratro (la penna) e sparge un nero seme (l’inchiostro). Molto significativi sono anche quattro documenti scritti a Capua fra 960 e 963, i cosiddetti Placiti campani, in cui un giudice Arechisi riconosce diritti di proprietà dell’abbazia di Montecassino, grazie alle dichiarazioni di alcuni testimoni che, di fronte al giudice, testano in volgare: “Sao ko kelle terre per kelle fini que ki contene trenta anni le possette parte Sancti Benedicti”. Il testo in volgare (di nuovo distinto dalla caduta delle desinenze flessive, e dalla subordinazione per mezzo della congiunzione ko; in più, è avvertibile la presenza di un parlato campano) è inserito all’interno del documento latino, per dare più forza (anche giuridica) alla registrazione della testimonianza. Sono voci del popolo, distinte dalla voce (latina) del giudice o degli ecclesiastici, come le frasi che, alla fine dell’XI secolo vengono scritte su un affresco della chiesa inferiore di San Clemente, a Roma. Vi si illustra un episodio prodigioso della vita del santo, che, sul punto di essere catturato, riesce a sfuggire e lascia che i suoi persecutori trascinino non lui legato ma una pesante colonna. La narrazione per mezzo delle immagini si fa comica, perché, nella medievale dottrina degli stili, entrano in scena personaggi ‘bassi’: e questi ‘popolani’ possono allora parlare la loro lingua, con le imprecazioni suscitate da quell’inutile fatica: “Fàlite dereto co lo palo, Carvoncelle! – Albertel, Gosmari, tràite! – Fili de le pute, tràite!”. Sotto il sorriso di san Clemente, la lingua italiana nasce anche con queste parole scritte sulla parete come se fossero dei fumetti, pronunciati da quei ‘fili de le pute’, espressione che, a quasi mille anni di distanza, non ha cambiato molto il suo valore semantico.



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2.2. La letteratura europea Il XII secolo vede una nuova grande ‘rinascita’ culturale, strettamente legata alla rinascita delle città e alla fioritura dell’economia e dei commerci. In Francia si sviluppano grandi centri di studio, specializzati nella ricerca filosofica: le scuole di San Vittore a Parigi e di Chartres promuovono la ripresa del platonismo, e si dedicano alla codificazione dell’interpretazione allegorica dei testi biblici, con Ugo e Riccardo di San Vittore. A livello europeo assistiamo allora al prodigioso sviluppo delle letterature in volgare. Dominante è l’interesse per la poesia epica: in Spagna il Cantar de mio Cid (1140), epopea della graduale reconquista della penisola iberica agli Arabi, e quindi momento simbolico della lotta fra Cristianità e Islam; e in Germania, la saga dei Nibelunghi (ca. 1200), che riprende le leggende fondative dei popoli germanici. Nella Francia settentrionale la produzione letteraria avviene nella lingua francese antica, chiamata Langue d’oïl. È soprattutto la storia del periodo carolingio a diventare mito, e a sostanziare la materia di poemi detti chansons de geste, come la Chanson de Roland (ca. 1080), celebrazione della lotta fra Carlo Magno e i Saraceni culminata nel celebre episodio della rotta di Roncisvalle e della morte di Orlando, testo di riferimento per gli altri poemi del ciclo carolingio, caratterizzato dall’esaltazione di valori come la forza e il coraggio del paladino, che integra in sé i caratteri dell’eroe dell’epica classica (Achille, Enea), del guerriero germanico, e del santo cristiano. Si tratta di testi che venivano cantati e recitati, e quindi trasmessi per mezzo dell’oralità, come testimonia anche lo stile poetico, distinto dall’uso di un verso molto cadenzato ritmicamente, il décasyllabe, e da frequenti ripetizioni di parole e frasi. Alla stagione dei poemi epici succede, nel XII secolo, un maggiore approfondimento dell’interiorità dei personaggi, della loro storia individuale e delle loro passioni. Prevale ora la forma del ‘romanzo’ (roman), dalla metrica più leggera e cantabile, basata sul verso octosyllabe. Le storie raccontate possono provenire dalle leggende del mondo antico (la guerra di Troia, e le vicende dei Troiani dispersi nel mondo dopo la distruzione della loro città, raccontate nel celebre Roman de Troie di Benoît de Sainte-Maure; le storie degli eroi di Tebe), o da figure storiche ormai trasformate in mito (Alessandro Magno); oppure dall’altra grande variante dell’epopea cavalleresca, il ciclo bretone, legato alle figure di re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda, e dominato dal tema dell’amore, incarnato nelle coppie di Lancillotto e Ginevra, e di Tristano e Isotta. Dall’unità lineare della chanson si passa nel roman alla molteplicità di una complessa struttura di intreccio, in cui le vicende dei diversi protagonisti si

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intersecano tra di loro, un elemento che rende difficile la memorizzazione e quindi la trasmissione orale, mentre viene privilegiata la scrittura. E per mezzo della scrittura si affermano allora le prime grandi individualità artistiche: in particolare Chrétien de Troyes, attivo nella seconda metà del XII secolo, nel Nord-Est della Francia, tra lo Champagne e le Fiandre, autore di un romanzo sugli amori di Lancillotto e Ginevra (Lancelot), e di un altro sulla ricerca del Santo Graal, condotta incessantemente dal cavaliere Perceval, simbolo di purezza spirituale (Perceval ). Amore e avventura, amore e ricerca, sono gli elementi nuovi di questa letteratura, che rappresenta in effetti il superamento della fissità statica del mondo feudale. I cavalieri dei romans sono in perenne movimento, appartengono alla feudalità ma in un certo senso sono esclusi dai privilegi e dalle ricchezze in quanto cadetti, per cui la loro ideologia finisce con l’esaltare la nobiltà d’animo (superiore a quella di sangue) e il distacco dai beni terreni, la dimostrazione pubblica della forza e del coraggio, la fedeltà e la lealtà, la difesa dei deboli e delle donne: tutti quei valori che sono fatti propri dagli ordini cavallereschi nati dalle Crociate, i Cavalieri del Santo Sepolcro, i Templari, l’Ordine Teutonico. Questa cultura viene definita cortese, perché si sviluppa in alcune corti feudali e principesche, come quella di Champagne, dove alla fine del XII secolo operano Chrétien de Troyes e Andrea Cappellano, autore del trattato De Amore, che codifica (anche grazie alla ripresa di Ovidio) l’amore cortese in dodici comandamenti, cioè le regole comportamentali alle quali gli amanti devono ubbidire (come ad esempio quello secondo il quale l’amata non può respingere un amante ispirato da un amore puro e totale). L’amore è un elemento di nobilitazione dell’anima, che però passa attraverso il desiderio concreto di una forma sensibile, percepita per mezzo della vista. L’amante si dispone nei confronti dell’amata come un servitore nei confronti della sua signora feudale, in rapporto di vassallaggio o sudditanza. E infine si afferma la superiorità dell’amore libero sull’amore sottoposto a vincoli sociali o religiosi. A questo codice si conformano cavalieri come Lancillotto o Tristano, per i quali la superiorità assoluta del sentimento d’amore spinge a contravvenire ai vincoli di fedeltà nei confronti del sovrano. Sicuramente la nuova concezione dell’amore porta alla rivalutazione della funzione della donna nella società dell’epoca. Nel Medioevo la donna (se non si consacrava alla vita religiosa, o diventava santa o martire) era sempre considerata con sospetto, non solo come essere socialmente e intellettualmente inferiore, ma anche strumento del demonio, e schiava del peccato (come sembrava indicare la figura biblica di Eva, unica figurazione ammessa, nell’arte cristiana, del corpo femminile nudo). Ma la donna ado-



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rata dal cavaliere non è una santa: è un essere umano che, pur vivendo fino in fondo la vicenda erotica, acquista un grado di supremazia feudale sul cavaliere, diventa cioè veramente ‘donna’, dal latino domina, ‘signora’. Così facendo, consente al cavaliere di attuare la sua più autentica esperienza di nobilitazione, considerata ormai superiore anche all’impresa guerresca. Emergono così alcune donne scrittrici, appartenenti ai livelli più alti dell’aristocrazia feudale, che mettono per iscritto le loro o altrui esperienze, in stile elevato e raffinato, come Maria di Francia, principessa normanna vissuta in Inghilterra, che compone tra 1170 e 1175 i suoi celebri Lais (‘canti’), brevi racconti in versi sull’amore cortese. La ‘cortesia’, da intendere come l’insieme di virtù che distinguono il cavaliere, si oppone alla ‘villania’ (dal francese vilain, ‘contadino’), che sembra indicare tutti i comportamenti percepiti come negativi dal mondo cortese: la viltà, l’ipocrisia, la falsità, l’astuzia, e soprattutto la ricerca di guadagno, di ricchezza, il desiderio di cambiare stato sociale ed economico, e, sul piano erotico, la riduzione del rapporto amoroso ad un fatto esclusivamente fisico, materiale. Atteggiamenti che erano invece particolarmente diffusi nelle classi mercantili allora emergenti nelle città europee. Il guadagno ricavato dai commerci e dall’attività artigianale di produzione di beni, disprezzato dal cavaliere, è per il borghese (dal francese bourgeois, ‘abitante del borgo’) un giusto e lecito strumento di affermazione sociale, abbinato a elementi che diventano dei valori positivi: l’astuzia e la falsità diventano intelligenza e prudenza. Il raggiungimento di un certo grado di benessere comporta anche la graduale acquisizione di strumenti intellettuali prima riservati solo alla Chiesa, la capacità di leggere e di scrivere, all’inizio concentrata sull’attività mercantile (la scrittura di libri di conti o di lettere di cambio, la possibilità di leggere un documento notarile), e poi applicata anche alla fruizione di testi letterari. Il mondo dei ‘villani’, opposto al mondo dei cavalieri, si rispecchia in una sua letteratura in volgare, contraddistinta da forme generalmente più brevi, più adatte quindi ad una fruizione episodica o irregolare, nelle pause tra un viaggio e l’altro, o in famiglia nelle lunghe sere d’inverno. Fra questi testi emergono, per vivezza di rappresentazione dell’ambiente cittadino e popolare, i Fabliaux, brevi racconti in versi in cui risalta la tematica erotica e giocosa, al centro di beffe giocate dalle donne ai danni di mariti ed amanti: e si tratta di figure di donne molto diverse da quelle idealizzate dalla letteratura cavalleresca o dalla lirica amorosa, donne reali che acquistano una loro libertà di giudizio e di azione, dimostrandosi superiori agli uomini. Alla licenziosità dei Fabliaux si accosta il genere delle favole degli animali, derivate dai modelli antichi (Esopo e Fedro), ma arricchite anche di

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influssi dal mondo orientale, indiano e arabo: e in questa produzione spicca una raccolta di storie legate alla figura di una volpe astuta, il Roman de Renart, che non è altro che il rispecchiamento delle vicende degli uomini, sotto il travestimento allegorico degli animali.

2.3. La poesia provenzale Nella Francia meridionale (la Provenza, la Linguadoca, l’Aquitania, l’Alvernia) la lingua dominante è il provenzale, detto Langue d’oc. Tra la fine dell’XI e l’inizio del XIII secolo in questa lingua si esprime una poesia di altissimo livello formale, proiezione nel genere lirico della stessa tematica cortese dei romanzi, e anch’essa elaborata (come nel Nord della Francia) nell’ambiente delle corti feudali. I poeti, chiamati trovatori (in provenzale trobadours, dal verbo trobar, comporre ‘tropi’ cioè poesie musicate), appartengono a livelli sociali diversi, ma tutti gravitanti intorno alla corte: dal menestrello (dal latino medievale ministeriale, ‘servitore’) al giullare (dal latino medievale ioculator), dal segretario del signore al chierico, al cavaliere, e perfino al principe o al feudatario, come nel caso di Guglielmo IX d’Aquitania conte di Poitiers (1071-1126), il poeta in cui la tradizione riconosce l’iniziatore della poesia provenzale. Gli stessi elementi dell’amore cortese presenti nei romanzi (l’amore come rapporto feudale, l’esaltazione idealizzata della donna-domina), svincolati ora dalla struttura narrativa, vengono riproposti in prima persona dai trovatori come momenti di una storia individuale. La tensione verso la perfezione dell’amore (il cui livello più alto viene definito fin’ amor, ‘amore perfetto’) non esclude gli aspetti più concreti dell’amore fisico, dell’eros, vissuti dal poeta e dalla sua donna (di solito di rango molto superiore, e sposata) in condizioni spesso difficili, di lontananza, o di pericolo. Caratteristica della poesia provenzale è sicuramente l’attenzione alla forma, con la sperimentazione continua di nuove possibilità nella lingua e nella metrica, cioè nelle strutture dei componimenti. In questo ambito probabilmente i trovatori subirono influenze di altre forme di poesia che circolavano nel Sud della Francia, provenienti dal mondo arabo, o da quello ebraico. Di più, erano poesie quasi sempre accompagnate dalla musica, e destinate ad essere ‘eseguite’ pubblicamente nelle feste della corte: la musica guidava quindi il trovatore nella composizione del verso, nella scelta di un ritmo e di una scansione degli elementi fonici (vocali e consonanti) che fosse il più possibile in armonia con la melodia, che era ancora di tipo monodico, come la forma contemporanea del canto religioso, il canto gregoriano. Il



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trovatore era come un cantautore, uno chansonnier di oggi, impegnato sul duplice versante della parola e della musica. Tale sperimentazione portò alla creazione di forme metriche del tutto originali, come la canzone (in provenzale canso), caratterizzata dalla suddivisione in strofe (chiamate coblas, di solito con rime che tendevano a ripetersi dall’inizio alla fine del componimento, e quindi dette unissonans), e da una conclusione, il congedo (o tornada), in cui il poeta prende appunto ‘congedo’ dal suo testo, e addirittura gli rivolge la parola, ad un livello metatestuale, indirizzandolo alla donna amata. Ogni strofa presenta una complessa architettura bipartita in ‘fronte’ e ‘sirma’, a loro volta divise in due parti (chiamate ‘piedi’ e ‘volte’). All’interno della canzone anche le tematiche seguono un ordine prestabilito: all’inizio di solito si presenta una descrizione della natura (spesso colta negli aspetti più belli e piacevoli della primavera: non è una descrizione realistica, ma un elemento letterario ricorrente, chiamato in retorica locus amoenus, ‘luogo piacevole’), collegata alla descrizione o alle lodi della bellezza della donna. L’amore può essere dichiarato pubblicamente, oppure nascosto, e protetto nei confronti dei malevoli e dei maldicenti. Il nome della donna amata si nasconde allora in segni enigmatici o allusivi, i senhals, basati su giochi etimologici o numerologici. I provenzali inventano anche un vero sistema di generi, in cui sono possibili escursioni e uscite dall’ortodossia lirica e dal tema dell’amore cortese. L’alba (aube)esprime il momento triste della separazione degli amanti dopo la notte d’amore. Il pianto (plahn) è il compianto in morte, spesso del signore feudale al cui servizio opera il menestrello. Il sirventese affronta tematiche politiche contemporanee: e sul tema della guerra (anche negli aspetti più cruenti) si specializzò il poeta Bertran de Born, mentre Guiraut de Bornhel preferì un più rigoroso impegno di poesia morale (Dante lo chiamerà cantor rectitudinis). Il contrasto (partimen) è una forma di poesia dialogata, in cui ad esempio l’amante dichiara il suo amore all’amata, che risponde in un primo momento con un netto rifiuto. In effetti la drammatizzazione della situazione amorosa può favorire il passaggio ad uno stile meno elevato, come avviene ad esempio nel genere leggero e raffinato della pastorella, rappresentazione convenzionale dell’incontro casuale del poeta con una pastorella (figura femminile agli antipodi sociali e culturali della ‘donna’, della principessa amata di fin’amor), incontro che approda quasi sempre alla conquista erotica della fanciulla (che, anche se di umile condizione, non è mai ‘villana’, mentre il tono non è comico, ma piuttosto fiabesco). Infine, su un registro comico-realistico potevano essere composti i due generi opposti del plazer (‘piacere’) e dell’enueg (‘noia’), che consistevano l’uno nella presentazione di aspetti piacevoli della vita cortese, e l’altro nel

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gioco retorico del loro completo rovesciamento in situazioni fastidiose e talvolta repellenti. Oltre ai generi, è possibile riconoscere anche due grandi partizioni di stile, il trobar leu (‘poetare leggero’, di facile comprensione e dalla forma lieve e cantabile) e il trobar clus (‘poetare chiuso’), caratterizzato da un arduo lavoro di elaborazione, dall’uso di parole difficili e di figure retoriche, e da una forma aspra e franta. Al trobar leu possono ascriversi poeti come Bernart de Ventadorn e Jaufré Rudel, che elabora soprattutto il tema dell’assenza dell’amata, della sofferenza della separazione, dell’amore nella lontananza (amor de lohn); al trobar clus, Raimbaut d’Aurenga, e soprattutto Arnaut Daniel, inventore della più difficile forma metrica provenzale, la sestina Lo ferm voler (‘la ferma volontà’), componimento di sei strofe di sei versi e un congedo di tre, basato sulla ripetizione ossessiva di sei sole parole-rima: e si tratta infatti di un canto angoscioso per un amore impossibile.

2.4. Primi testi letterari in Italia Per contiguità geografica e culturale, gli inizi della letteratura italiana sono strettamente legati all’area francese, e in particolare alla poesia provenzale. Uno dei testi più antichi, scoperto pochi anni or sono in una pergamena a Ravenna, e databile agli anni dopo il 1180, è appunto una canzone in cinque strofe di decasillabi, accompagnata dalla musica, Quando eu stava in le tu’ catene, in cui un innamorato si lamenta della propria condizione rivolgendosi direttamente alla personificazione di Amore. In effetti, nel Nord Italia la poesia provenzale circolò in modo naturale in ambienti simili a quelli in cui era stata prodotta, nelle corti signorili, ma anche in città culturalmente all’avanguardia, come Genova. Nel 1190 opera a Genova e in Lunigiana il trovatore Raimbaut de Vaqueiras, autore di un contrasto con la donna amata che, essendo genovese, gli risponde giustamente in dialetto genovese. E cantore politico è nel 1194 Pier de la Caravana, in un’esortazione ai comuni italiani a resistere alla discesa in Italia dell’imperatore Arrigo VI. I primi poeti italiani, nella seconda metà del XII secolo, sono per lo più dei giullari, al servizio di signori feudali o ecclesiastici, e i loro componimenti, probabilmente recitati con accompagnamento ritmico, non presentano troppe preoccupazioni formali nella misura dei versi e nella scelta delle parole: per questo si tratta di testi che vengono definiti ‘ritmi’. Ma evidentemente i modelli lontani (e ancora irraggiungibili) dovevano essere le poesie ascoltate fuori d’Italia, in Provenza o nella Francia del Nord. Potevano trattare temi non molto elevati, quasi comici, per far sorridere il potente destinatario: ad esempio, un



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giullare toscano, nel cosiddetto Ritmo laurenziano (perché ora conservato a Firenze, nella Biblioteca Laurenziana), chiede al vescovo di Iesi di gratificarlo del dono di un cavallo, per ricompensarlo dei suoi servigi poetici. Potevano essere testi che nascevano in ambito cittadino, e quindi finalizzati alla celebrazione del comune, come il Ritmo bellunese (1193) e il Ritmo lucchese (1213); oppure in ambito monastico, su temi religiosi (Ritmo cassinese, sul tema tradizionale del contrasto fra anima e corpo), o agiografici (Ritmo di sant’Alessio, composto nelle Marche). E sempre a Montecassino viene scritta una Passione in latino (XII secolo), che ospita uno straordinario inserto in volgare, il pianto della Madonna. La forma poetica in volgare può essere utilizzata anche dalla comunità ebraica, come espressione identitaria di uno stato di sofferenza legata alla diaspora e alla persecuzione, nell’elegia giudaica La ienti de Siòn plange e lutta, che, all’inizio del Duecento, è comunque tra le prime poesie in volgare italiano. Infine, nella pianura padana, fra Lombardia e Veneto, si diffonde un tipo di poesia proverbiale-moraleggiante (anch’essa ispirata a modelli francesi), di solito poemetti in versi chiamati alessandrini (composti da due settenari). In Veneto si registra ad esempio il testo arcaico dei Proverbia que dicuntur super natura feminarum (‘proverbi tramandati sulla natura delle donne’) (1156-1160), un piccolo concentrato di tutto quello che si poteva dire di male delle donne nel Medioevo. A Cremona, all’inizio del Duecento, un certo Gerard Pateg scrive lo Splanamento de li proverbii de Salamone, una sorta di commento poetico al testo biblico dei Proverbi attribuiti a Salomone, e le Noie, una canzone derivata dal genere provenzale dell’enueg, mentre il suo amico Uguccione da Lodi compone un poemetto morale intitolato Libro, in cui si tratta del confronto tradizionale tra virtù e vizio, e tra paradiso e inferno.

Bibliografia 2.1. Primi documenti in volgare. Sui primi testi in volgare: A. Castellani, I più antichi testi italiani, Bologna, Pàtron, 1976; La prosa italiana delle origini, I. Testi toscani di carattere pratico, a c. di A. Castellani, Bologna, Pàtron, 1982. Per lo studio linguistico, è fondamentale il Tesoro della Lingua Italiana delle Origini (TLIO), vocabolario storico dell’italiano antico (dall’Indovinello veronese fino alla fine del Trecento), diretto da P.G. Beltrami, e consultabile in rete (www.ovi.cnr.it).

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2.2. La letteratura europea. Un’antologia ‘classica’: Le più belle pagine delle letterature d’oc e d’oïl, a c. di A. Roncaglia, Milano, Nuova Accademia, 1961. Opera di studio complessivo: Lo spazio letterario del Medioevo, II. Il Medioevo volgare, a c. di P. Boitani, M. Mancini e A. Varvaro, Roma, Salerno, 1999-2005. Sulla letteratura cavalleresca: E. Köhler, L’avventura cavalleresca. Ideale e realtà nei poemi della Tavola Rotonda (1970), Bologna, Il Mulino, 1985. Altri studi: C.S. Lewis, L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale (1936), Torino, Einaudi, 1981; S. Battaglia, La coscienza letteraria del Medioevo, Napoli, Liguori, 1965; A. Varvaro, Struttura e forma della letteratura romanza del Medioevo, Napoli, Liguori, 1968. 2.3. La poesia provenzale. Un’antologia di testi in C. Di Girolamo, I trovatori, Torino, Bollati Boringhieri, 1989. Cfr. M.L. Meneghetti, Il pubblico dei trovatori. La ricezione della poesia cortese fino al XIV secolo, Torino, Einaudi, 1992; M. Mancini, Metafora feudale. Per una storia dei trovatori, Bologna, Il Mulino, 1993. 2.4. Primi testi letterari in Italia. Antologia di testi in Le origini, a c. di A. Viscardi e al., Milano-Napoli, Ricciardi, 1956. Sulla carta ravennate (Quando eu stava in le tu’ catene), con interpretazione musicale: Tracce di una tradizione sommersa: i primi testi lirici italiani tra poesia e musica, a c. di M.S. Lannutti e M. Locanto, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2005.

3. Il Duecento

3.1. La poesia della corte imperiale La poesia provenzale, che all’inizio del Duecento rappresentava forse il livello più avanzato di elaborazione letteraria sul continente europeo, finì in modo improvviso e tragico. Il diffondersi di movimenti ereticali nel Mezzogiorno francese (ispirati in particolare alle credenze dei Càtari, concentrati nella città di Albi) e la grande prosperità economica e indipendenza politica raggiunta dalle corti provenzali portarono alla convergenza di interessi politici e religiosi, miranti alla distruzione di quella civiltà. Sotto il pretesto della Crociata, bandita da papa Innocenzo III contro gli Albigesi per estirpare l’eresia (12081209), si scatenò una lunga e sanguinosa guerra di conquista che portò alla fine delle fiorenti corti feudali, e alla diaspora degli ultimi trovatori. Non pochi trovarono rifugio nelle corti dell’Italia del Nord, come Uc de Saint-Circ, che approda a Treviso, presso Alberico da Romano (1219-1220). Si trascrivono i testi provenzali, in manoscritti compositi dove accanto ai testi poetici si dispongono anche testi in prosa, con il racconto della vita del trovatore (la vida), e un commmento alle poesie (razo). E ora sono gli stessi italiani che iniziano a scrivere canzoni sul modello provenzale, e direttamente in lingua provenzale, apparendo a essi il volgare materno ancora troppo incerto o indegno di esprimere i sentimenti più alti dell’amore cortese o dei suoi valori morali. Nella Genova che aveva accolto Raimbaut si distinguono così trovatori come Percivalle Doria, Lanfranco Cigala, Bonifacio Calvo; nel Veneto, Bartolomeo Zorzi. E il mantovano Sordello da Goito (1200-1269), originario di una piccola nobiltà decaduta, divenuto giullare dalla vita errabonda e incerta, scrive uno dei più bei testi italiani in lingua provenzale, il compianto (Planh) per la morte del suo signore Blacatz (1236), in realtà un testo di forte valenza politica, in cui si rimprovera la decadenza morale e la viltà dei principi contemporanei, invitati sarcasticamente a mangiare il cuore

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del signore defunto, per assumerne la forza e il coraggio (parola derivata appunto dal provenzale coratge, ‘virtù del cuore’). Negli stessi anni la nostra penisola poteva assistere anche alla prima costituzione di un gruppo di poeti, che riprende direttamente l’eredità della poesia provenzale. L’impulso determinante per questa esperienza (fondativa della letteratura italiana) venne da Federico II di Hohenstaufen (dinastia tedesca della Svevia) (1194-1250), figlio dell’imperatore Arrigo VI e della principessa normanna Costanza d’Altavilla, e per questo chiamato ad assumere in sé la duplice eredità dei domini germanici dell’impero e del regno di Sicilia, che comprendeva, oltre alla Sicilia, l’intero Mezzogiorno d’Italia, fino ai confini dello Stato della Chiesa. Federico tra l’altro era nato in Italia, a Iesi, nel 1194, ed aveva vissuto l’adolescenza presso la corte pontificia, a Roma, dal momento che il papa Innocenzo III temeva la possibilità del costituirsi di un forte potere laico in Italia, antagonista della sovranità temporale della Chiesa. Cosa che puntualmente accadde, quando Federico salì al trono, nel 1220, e assunse poi anche il titolo imperiale, ingaggiando una lotta senza quartiere nei confronti della Chiesa, e della sua ingerenza nella politica terrena. La sua maggiore difficoltà fu però nei confronti dei liberi comuni italiani, che in maggioranza parteggiarono per il papa, temendo di perdere le loro autonomie, e tolsero all’imperatore l’appoggio determinante della loro potenza economica. Fu in quest’epoca che la distinzione fra guelfi e ghibellini, fra partigiani del papa e partigiani dell’imperatore, divenne ancora più acuta, determinando lacerazioni e lotte intestine in molte città italiane. Il sogno di Federico era quello della creazione di una struttura statale nuova e centralizzata, che superasse la staticità del mondo feudale. Per poterlo attuare, era necessaria una vera rivoluzione culturale, che l’imperatore cercò di sostenere con ogni mezzo. Bisognava formare una classe di funzionari, di uomini fedeli allo stato e all’imperatore, esperti di diritto e di diplomazia. Non bastava più, come luogo di formazione giuridica, l’università di Bologna, controllata dalla Chiesa, e allora Federico fondò l’università di Napoli nel 1224. Ma, al di là dell’immediato fine politico, Federico volle promuovere la rinascita culturale in ogni campo, filosofico e scientifico, basandola sulla conquista di una reale autonomia dalla religione. Alla corte imperiale vengono così invitati dotti e scienziati provenienti dal resto d’Europa, ma anche dal mondo arabo e bizantino: il matematico pisano Leonardo Fibonacci, l’astrologo Michele Scoto, Eustazio da Matera, Riccardo da Venosa. Pietro da Eboli scrive il De balneis puteolanis, poemetto latino sui bagni termali dei Campi Flegrei, che è tra l’altro importante per la modalità comunicativa di abbinamento di testi ed immagini, tipica di molti



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manoscritti prodotti in epoca fredericiana (dal trattato latino scritto dallo stesso Federico sulla caccia col falcone, De arte venandi cum avibus, a vari testi greci e arabi di ottica, geografia, medicina, botanica, scienze naturali). Insomma, una serie di attività che sembrarono confermare, da parte ecclesiastica, l’immagine di un Federico ‘eretico’, quasi un Anticristo, che doveva essere abbattuto ad ogni costo. Federico adolescente era stato testimone indiretto della contemporanea distruzione della civiltà provenzale. Educato probabilmente ad amare quei testi, ed i valori della civiltà cortese, coltivò il desiderio di salvare i frutti più elevati della poesia laica europea, e spinse le persone che lo circondavano a leggerli, e a imitarli. Essi non erano poeti di professione, menestrelli o giullari, e nemmeno cavalieri o nobili, ma erano comunque uomini di grande levatura intellettuale, cancellieri, giudici, notai, funzionari. Il fatto nuovo, rispetto alla ricezione della poesia provenzale avvenuta contemporaneamente nel Nord Italia, fu che alla corte imperiale si cominciò ad utilizzare sistematicamente il nostro volgare, e non il provenzale. Quale volgare? Naturalmente quello usato da quei dignitari, la loro lingua materna, elevata, nello stile e nei contenuti, al rango della corte, e del particolare livello di comunicazione e di circolarità dell’esperienza poetica, alla quale partecipava, con suoi componimenti, lo stesso imperatore, o qualche membro della sua famiglia (alcune poesie sono attribuite a Federico, e ai suoi figli Enzo e Manfredi, e non c’è ragione per dubitare di tale attribuzione). Non è possibile definire un luogo preciso, per l’elaborazione di questa poesia. Se è vero che la sede principale della corte imperiale, la cosiddetta Magna curia, fu Palermo (la vera capitale del regno dall’epoca dei Normanni), è anche vero che la politica imperiale di Federico lo costringeva a viaggi molto frequenti, e a dimore in altre sedi, in Italia e in Germania, ma soprattutto nella rete di castelli costruiti nell’Italia meridionale: Melfi, Venosa, Bari, e il mirabile sogno geometrico di Castel Del Monte. Tra questi siti e Palermo, in una corte itinerante, nacque il miracolo della poesia fredericiana. In gran parte i suoi rappresentanti erano siciliani, e la loro lingua materna era quindi il siciliano: ma accanto ad essi si riconoscono figure provenienti da altre regioni, dalla Campania, dalla Puglia, dalla Lucania, che contribuirono ampiamente con l’apporto delle loro lingue e della loro cultura. La ripresa della poesia provenzale appare abbastanza fedele nelle forme e nei temi, ma con alcuni significativi cambiamenti. Il tradizionale repertorio dell’amore cortese (la donna-domina, oggetto di un omaggio quasi feudale da parte dell’amato) viene rielaborato ad un certo grado d’astrazione, ed è facile capirne il perché: era una ripresa di maniera, da parte di poeti per così dire ‘dilettanti’, che vi aggiungevano tutti gli altri loro più vivi interessi culturali,

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estranei agli antichi trovatori: la speculazione filosofica e scientifica, e insieme il mondo dell’immaginario medievale, con tutti i suoi bestiari e lapidari, gli animali fantastici e le pietre preziose dotate di virtù magiche. In verità, è straordinario pensare che questo gruppo di poeti dilettanti sia riuscito non solo ad imitare molto bene i provenzali, ma addirittura a sperimentare nuove forme metriche, che saranno poi costitutive dell’intera letteratura italiana, e quindi della letteratura europea dei secoli a venire. Intanto, nella costituzione di regole metriche da seguire, ad esempio, nella composizione del verso, non si ammettono più le irregolarità arcaiche dei ‘ritmi’. Per rispettare la misura sillabica del verso, si impone la sinalefe, procedimento secondo il quale la sillaba finale di una parola (terminante in vocale) e quella iniziale della parola successiva (iniziante in vocale) contano per una sola sillaba. I testi sono composti esclusivamente di endecasillabi e settenari, i versi più vicini ai corrispettivi d’Oltralpe (decasyllabes e octosyllabes), ma tanto più leggeri e cantabili, grazie alla mobilità degli accenti tonici delle lingue italiane. La canzone, di struttura provenzale, la supera in varietà, perché rinuncia ad avere lo stesso sistema di rime in tutte le strofe, che diventano quindi autonome (singulars), appena legate dal gioco sottile del rinvio dalla fine dell’una all’inizio dell’altra (coblas capcaudadas o capfinidas). È evidente che, per questi poeti, esisteva un insieme di regole non scritte, una sorta di ‘codice’ a cui essi si conformavano, e che era il risultato di una attenta e non episodica riflessione sulle forme della poesia. Da osservare, inoltre, che questa sperimentazione tecnica fu motivata anche dal fatto che i testi, a differenza dei modelli provenzali, non erano musicati, cioè erano destinati principalmente ad una trasmissione scritta, e quindi ad una fruizione riservata ad un pubblico di elevato livello culturale, che vi accedeva per il mezzo solitamente individuale della lettura. Fra tutte le loro invenzioni, la più bella fu forse quella del sonetto (diminutivo di son, ‘canzone’), straordinaria forma metrica (forse derivata dalla stanza di una canzone) conclusa nel giro di quattordici endecasillabi, partiti in due quartine (la ‘fronte’) e due terzine (la ‘sirma’). Il probabile inventore fu il notaio Iacopo da Lentini, detto appunto il Notaro, l’autore più prolifico della corte, con ben 39 testi (di cui 14 canzoni, 24 sonetti e un discordo). È sua la poesia che apre uno dei più antichi manoscritti della poesia italiana, il Canzoniere Vaticano, la canzonetta Madonna, dir vo voglio; e forse più degli altri Iacopo approfondisce gli spunti teorici dell’amore cortese, riprendendo Andrea Cappellano nel sonetto Amor è uno desio che ven da core. Ma altrimenti l’appagamento erotico è raggiunto nella contemplazione della bellezza della donna, come se fosse un angelo del Cielo, ed anzi quasi ‘blasfemo’, capace



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di distogliere dalla visione di realtà più spirituali, nel sonetto Io m’aggio posto in core a Dio servire. Si tratta di una contemplazione tutta interiore, di una donna idealizzata e assente, di cui il poeta-amante costruisce un’immagine nel cuore, e la adora, come una pittura sacra, simile alle icone, alle madonne devozionali della pittura bizantina: quel che leggiamo nella leggerissima canzonetta in settenari Meravigliosamente, notevole anche per l’implicito rinvio alle contemporanee arti figurative. Fra gli altri scrittori della corte imperiale, Pier delle Vigne (ca. 11901249), segretario di Federico morto suicida per non essere riuscito a sopportare il peso della sua disgrazia politica, scrive importanti lettere in latino, in cui elabora un alto livello di stile. Il giudice messinese Guido delle Colonne (1210-ca. 1280), autore della Historia destructionis Troiae (rielaborazione latina del Roman de Troie di Benoît de Sainte-Maure), compone anche una canzone di stile ‘alto’, Ancor che l’aigua per lo foco lassi, ricca di riferimenti al mondo naturale, ed esempio di classico trobar clus. Ma è significativo il fatto che accanto alla poesia ‘alta’ non manchi un filone popolareggiante, rappresentato da poeti non siciliani, come Rinaldo d’Aquino, membro della grande feudalità campana, autore di un lamento per la partenza di un crociato, Giamai non mi conforto (1227); e Giacomino Pugliese, del quale la canzone Isplendïente / stella d’albore risulta già conosciuta in Italia settentrionale entro il 1234: segno di una diffusione che superò subito i confini della corte, e trasmise al resto d’Italia la nuova poesia. Il testo probabilmente più interessante è il contrasto Rosa fresca aulentissima (1231-1250), scritto da un giullare di Alcamo di nome Michele (in siciliano antico, Cielo): tradizionale dialogo fra amante e amata, trasferito in un contesto rurale, ad un livello stilisticamente ‘basso’, adeguato al livello sociale dei personaggi. In realtà, Cielo contamina consapevolmente lo stile ‘alto’ della lirica amorosa con lo stile ‘basso’ e crudamente realistico di tipo giullaresco, attuando un plurilinguismo simile ad altri contrasti, come quello provenzale-genovese di Raimbaut. L’amante non è un cavaliere ma un giullare, e la sua richiesta alla donna è mirata non alla nobilitazione per mezzo della fin’amor, ma all’immediata soddisfazione del desiderio sessuale. La contadina (affine alle pastorelle provenzali, caricatura e rovesciamento della domina cortese) resiste lungamente, fino a chiedere all’amante di giurarle il suo amore sul Vangelo. Con un imprevisto colpo di scena, il poeta malandrino estrae dalla camicia una copia del libro sacro, appena rubato al monastero, e ci giura sopra. Allora la donna si arrende, di fronte a quella consacrazione solo formale resa dall’amante ladro sacrilego; le parti si rovesciano, ed è ormai lei a guidare l’uomo verso la camera da letto: “A lo letto ne gimo a la bon’ora, / ché chissà cosa n’è data in ventura”.

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Di fronte a questa produzione aurorale della poesia italiana, la prima che sia possibile circoscrivere nei contorni di una ‘scuola’, cioè di una cerchia di persone che condividevano gli stessi orizzonti, e gli stessi mezzi linguistici e stilistici, resta un solo rimpianto. Il fatto che quasi nessuno di quei testi si possa leggere nella lingua originale, il siciliano illustre dei poeti di origine siciliana, o comunque l’elevata lingua di koiné meridionale utilizzata dagli alti dignitari, campani o pugliesi, alla corte imperiale. Perduti i primi manoscritti originali, ci restano solo le trascrizioni effettuate dai copisti toscani, ad esempio nel già ricordato Canzoniere Vaticano, eseguito a Firenze alla fine del Duecento. Un solo caso sembra sfuggire alla perdita generale: una canzone di Stefano Protonotaro, Pir meu cori alligrari (conservata, insieme ad altri frammenti di Guido delle Colonne e re Enzo, nel Cinquecento dal grammatico modenese Gian Maria Barbieri, nel Libro dell’arte del rimare). Si tratta di una lingua siciliana già abbastanza elevata, e per così dire ‘regolarizzata’, ‘illustre’ nella scelta del lessico (con forte presenza di latinismi, gallicismi, provenzalismi) e nella sintassi. I copisti toscani, insomma, non dovettero faticare molto. Il loro non fu un lavoro di ‘traduzione’, ma piuttosto di ‘trasposizione’ da un sistema fonetico-grafico ad un altro, ma in una sostanziale fedeltà ai testi che ci sono stati tramandati.

3.2. Gli Ordini mendicanti Gli inizi del Duecento sono caratterizzati da grandi fermenti religiosi, e da una nuova spiritualità, più vicina alle necessità delle popolazioni urbane. Nascono piccole comunità, che si sforzano di vivere autenticamente il Vangelo, rinunciando alle ricchezze e alla vanità terrene, ma senza ritirarsi al di fuori del mondo, come avveniva nei secoli precedenti nei monasteri. Sono i cosiddetti Ordini mendicanti, dei quali il primo fu quello dei frati predicatori, detti Domenicani dal nome del loro fondatore, lo spagnolo Domenico di Guzmán (ca. 1170-1221). L’Ordine Domenicano era basato soprattutto sull’apostolato da compiersi nelle moderne città europee, una sorta di nuova crociata, di milizia spirituale nella quale i frati si servivano dell’arma della parola, rivolta contro le moderne eresie (lo stesso Domenico era stato in Provenza per contrastare i Càtari), e contro la corruzione dei costumi. Il momento più intenso dell’azione dei Domenicani era quello della predica, del discorso svolto in occasione di particolari festività, o periodi dell’anno, come il tempo di Quaresima, dedicato all’approfondimento di tematiche penitenziali. Interamente giocata sul livello della comunicazione orale, la predica era naturalmente in volgare, affinché fosse intesa da tutti, e caratterizzata



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dall’uso di una retorica particolare, destinata a colpire l’immaginazione: metafore, forti immagini, racconti di episodi memorabili o di vite di santi, che servissero da esempio, da paradigma (i cosiddetti exempla). La formazione culturale del predicatore doveva essere di alto livello: bisognava imparare le tecniche dello stile e della retorica, conoscere perfettamente i testi sacri e i loro commenti medievali, ma anche la letteratura degli exempla, da richiamare per impressionare l’uditorio. Un prodotto tipico di questa mentalità fu la Legenda Aurea di Iacopo da Varazze (ca. 1267), che raccontava le vite dei santi attraverso la raccolta di aneddoti esemplari, che erano riutilizzati da predicatori famosi come Giordano da Pisa (1260-1311), nelle prediche del Quaresimale fiorentino (1305-1306), e Domenico Cavalca (1270-1342), autore delle Vite dei Santi Padri, e del Pungilingua. Una tradizione continuata da Iacopo Passavanti (Firenze 1302-1357), priore di Santa Maria Novella a Firenze dal 1345, autore dello Specchio di vera penitenza, in cui confluiscono numerose novelle esemplari, e un interessante trattato sui sogni. I più importanti conventi dei Domenicani si dotarono di scuole, che talvolta assursero alla dignità di ‘Studio’, cioè di facoltà universitaria di teologia, come accadde a Napoli. E domenicano fu il più grande filosofo dell’epoca, insegnante a Parigi e a Napoli, Tommaso d’Aquino (1225-1274), originario della stessa grande famiglia feudale che era stata al servizio di Federico II. Tommaso raccolse l’eredità di Alberto Magno, che propugnava la ripresa di Aristotele, e ne aveva commentato alcuni trattati, correggendo talvolta le interpretazioni radicali degli arabi, Avicenna e Averroé, soprattutto nei casi in cui quelle interpretazioni portavano a negare le verità della fede cristiana (ad esempio l’immortalità dell’anima, o il libero arbitrio). Bisognava cercare quindi di accedere al testo di Aristotele in lingua originale, in greco, e non nelle incerte traduzioni latine di traduzioni arabe, e così Tommaso fece eseguire nuove traduzioni direttamente dal greco. Tra le sue opere più importanti, oltre a vari commenti aristotelici, il Contra Gentiles (‘contro i pagani’, 1260); il trattatello De Pulchro (‘sul Bello’), importante sintesi dell’estetica medievale, del modo di concepire la bellezza, e quindi di rappresentarla nelle arti figurative; e soprattutto la Summa Theologica, testo fondativo della filosofia detta Scolastica, basata sull’autorità aristotelica, e soprattutto sul tentativo di accordare fede e ragione. L’altro grande ordine mendicante fu fondato da un giovane e ricco borghese dell’Italia centrale, Francesco di Pietro Bernardone (Assisi 11821226). Figlio di un agiato mercante, Francesco ne avrebbe dovuto continuare l’attività, nello schema tradizionale della ‘famiglia’, finalizzata alla prosperità economica e all’ascesa nel contesto cittadino nel tempo: e passò la sua

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giovinezza tra le occupazioni tipiche di un giovane del suo rango, non esclusa la partecipazione ad una delle frequenti e feroci guerre con i comuni vicini. Forse proprio l’esperienza della guerra, o la graduale insoddisfazione di quell’orizzonte esistenziale legato principalmente alla ‘roba’ e al denaro, portarono Francesco ad una conversione, che fu assolutamente radicale, e culminò nell’episodio in cui, trascinato sulla piazza di Assisi dal padre inferocito, di fronte al vescovo, Francesco si spogliò nudo, per significare la rinuncia alle ricchezze, e la dedizione totale a Dio. All’inizio visse da solo in assoluta povertà, senza un progetto preciso, poi a poco a poco intorno a lui si formò una piccola comunità, che ne condivise lo stile di vita: poveri, diseredati, ma anche i vecchi compagni di avventura e di piacere, che si convertivano al suo esempio. La storia di Francesco, raccontata dai suoi seguaci, è straordinaria e affascinante, e intimamente legata all’immaginario collettivo contemporaneo. Dio gli parla direttamente, dal crocifisso di una cappella diroccata a San Damiano, o per mezzo di sogni, tipica modalità di comunicazione col divino nel mondo medievale: e in uno di questi sogni Francesco vede un edificio pieno di armature, bandiere e strumenti per la guerra. Per lui, che è stato cavaliere e soldato, è il segno che, dopo gli inizi irregolari, quella comunità, quel movimento, deve diventare una milizia, simile a un ordine cavalleresco. E, dopo gli iniziali sospetti di eresia, la Chiesa approva l’ordine dei frati minori, che verrà detto dei Francescani. È lo stesso Francesco a dettare la regola, in latino; e in latino scrive altri testi devozionali, lettere, preghiere, segno di una cultura non trascurabile, in parte formata già prima della conversione. Francesco morirà, circondato dalla venerazione dei suoi discepoli, nell’umile capanna della Porziuncola, presso Assisi, nel 1226. Due anni prima, nel 1224, la sua vita, interamente dedicata alla conformazione all’esempio di Cristo (tanto da suscitare nei contemporanei la definizione di alter Christus), aveva conosciuto l’episodio più forte, sull’eremo appenninico della Verna, la comparsa miracolosa delle stimmate sul suo corpo. Nello stesso anno, secondo la tradizione, a San Damiano, Francesco compose nella sua lingua materna, un dialetto umbro appena innalzato ad un certo livello di letterarietà, un canto di lode al Signore, il Cantico delle creature (Laudes creaturarum o Cantico di frate Sole): appena 33 versi senza misura fissa e senza rima, basati su una scansione interna del ritmo, e sulla ripetizione del modulo di lode “Laudato si’, mi’ Signore” ad inizio di ogni strofa (secondo la figura retorica dell’anafora), una tipologia poetica che rinvia immediatamente alla poesia biblica (il cantico dei tre fanciulli nel libro di Daniele), e in particolare alla poesia dei Salmi (il Salmo 148).



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Il cantico di Francesco non è però una semplice ‘traduzione’ dei salmi di lode, gli ultimi del Salterio, quelli dedicati alle Laudes, in cui si esortano tutte le creature a lodare il Creatore. Alla generale esortazione biblica (Laudate Dominum omnes gentes) Francesco sostituisce un rapporto più diretto con Dio, gli si rivolge di persona, nel colloquio della preghiera, con quel “mi’ Signore”. E la sua preghiera passa attraverso il ringraziamento per l’opera del creato (con l’apertura di lode ai vv. 1-4). Il ‘laudare’ è motivato dalle creature che ci circondano (nella preposizione per andrà quindi letto un valore principalmente causale), e in cui prevale il segno positivo impresso dal Creatore. Nella seconda parte del cantico (vv. 5-22) l’uomo, creatura fra le creature, instaura con esse un rapporto di ‘fratellanza’, in quanto nate da un unico principio: fratelli e sorelle dell’uomo sono allora, nell’ordine, il sole, la luna e le stelle, il vento, il fuoco, la terra. Nella terza parte (vv. 23-26, probabilmente aggiunta da Francesco in un secondo momento), fra il tema del perdono e la conclusione salmistica compare l’ultima creatura, ‘sorella Morte’, che, intesa come morte corporale, non è figura spaventosa, ma ministra di Dio nell’ordine della creazione e della vita, a differenza della morte ‘vera’, che è quella dell’anima con il peccato. Dal punto di vista dei contenuti, il cantico di Francesco esprime in modo immediato una riflessione più ampia sulla ‘positività’ del mondo, che è tipica del tardo Medioevo, e che si contrappone alle ideologie religiose che tendevano a negarlo, per privilegiare esclusivamente l’aspetto spirituale: ad esempio i Càtari, che credevano in una dualità ontologica tra bene e male, e per i quali il mondo apparteneva senz’altro al dominio del male; ma anche, nel campo dell’ortodossia cattolica, la visione di Lotario da Segni (poi papa Innocenzo III, lo stesso che accolse Francesco la prima volta a Roma, e diede la prima approvazione al suo movimento), che nel trattato De contemptu mundi (‘disprezzo del mondo’) cerca di dimostrare la vanità del mondo per mezzo dell’esibizione violenta della corruzione della materia, ad esempio nella decomposizione del corpo dopo la morte. Un tema devozionale di indubbia presa popolare, che si tradurrà (in poesia, in musica, in pittura) nelle cosiddette ‘danze della morte’. In Francesco prevale invece l’aspetto della gioia, perché ogni creatura ‘significa’ Dio, cioè rinvia (in quell’immenso sistema di segni che è il mondo per l’uomo medievale) ad una realtà ‘altra’, al suo Creatore; e addirittura la morte corporale è sottratta all’imagerie macabra, per diventare nostra ‘sorella’, anch’essa creatura, compagna di strada al momento finale del nostro cammino. Gioia, letizia, e si potrebbe aggiungere allegria, quella dei giullari, per intenderci, perché nello stile (fatta salva la derivazione biblica) il modello di Francesco è ancora quello dei ritmi giullareschi. La forte ritmicità interna

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(svincolata dalla misura regolare del verso, e dalla rima) era legata (secondo la testimonianza antica della Legenda Perusina) alla musica, per cui il cantico era veramente un canto, probabilmente monodico e molto semplice, modulato su tre o quattro note (come i versetti della Bibbia durante la liturgia), ma pur sempre un canto, che poteva essere eseguito dalla comunità dei frati per esprimere il loro sentimento di gioia e di ringraziamento a Dio. La scelta delle parole è attenta, e raggiunge i risultati più espressivi nell’aggettivazione (come nell’indimenticabile frate Foco “robustoso et forte”), che danno agli elementi naturali una forte valenza umana, li trasformano in personaggi di una rappresentazione, ognuno con proprie qualità morali e fisiche. Ed in questo si avverte un altro aspetto rivoluzionario di Francesco: l’attenzione al teatro. Nel Medioevo si era del tutto perduta la tradizione del teatro classico, condannato moralmente dai Padri della Chiesa. Lentamente, la drammatizzazione era rinata in ambito religioso come esecuzione ‘vivente’ di testi biblici, in particolare del Vangelo, ad esempio il momento della Passione, della Morte e della Resurrezione di Cristo (il cui testo di solito veniva, e viene ancora, letto da più persone nella liturgia della Settimana Santa). La ‘sacra rappresentazione’ si sarebbe poi spostata dall’interno della chiesa all’esterno, sul sagrato; ma anche la predicazione di Domenicani e Francescani diventava una forma di ‘teatro’, con grande attenzione alla gestualità, alla mimica, al modo di parlare. Era in fondo un problema di comunicazione. Il messaggio doveva raggiungere le masse (spesso prive di cultura, e di accesso al mondo del testo scritto) nel modo più immediato ed efficace possibile. Anche in questo, Francesco fu tra i primi ad esplorare forme nuove di drammatizzazione, come nel celebre episodio del Presepe di Greccio, quando per la prima volta un intero paese fu guidato a trasformarsi in Betlemme, e a rappresentare la scena della Natività. E ‘visibile teatro’ fu il racconto della vita di Francesco, che i suoi confratelli cominciarono a fare subito dopo la sua morte. Ancor prima di approdare alla scrittura, esso fu resoconto orale, ed ebbe bisogno di una prima tradizione figurativa, consacrata dall’apporto dei più grandi maestri della pittura contemporanea, in particolare i Berlinghieri di Pisa, che realizzarono nel 1235 la grande tavola di San Francesco a Pescia. In questo archetipo della pittura francescana del Duecento la parte narrativa della vita del Santo (come nella tradizione orientale bizantina) è leggibile ai due lati della figura centrale, in riquadri (detti ‘istorie’) dedicati agli episodi più importanti: la conversione, le stimmate, la morte, e perfino la celebre predica agli uccelli. Dopo vennero i testi (in latino, per garantirne la diffusione alla Chiesa universale): l’anonima Legenda Perusina, poi la Vita Sancti Francisci di



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Tommaso da Celano († ca. 1260), in due redazioni, infine la Legenda maior scritta da Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274), generale dell’ordine, ma anche insigne filosofo, già professore a Parigi, autore dell’Itinerarium mentis in Deum (1259) in cui, in fondo, si espone, in forma filosofica, lo stesso ‘cammino’ a Dio seguito da Francesco, la via al Creatore per mezzo delle creature. Fu dopo Bonaventura che anche l’ordine francescano cominciò un’intensa attività culturale (originariamente non primaria per i ‘poverelli’ di Francesco), promuovendo la nascita di ‘studi’ come quelli dei Domenicani. Non mancarono allora scontri e divisioni con quanti volevano rifarsi ad un più radicale voto di povertà, come i ‘fraticelli’, o gli ‘spirituali’, perseguitati dalla Chiesa, e guidati dal mistico Ubertino da Casale, autore dell’Arbor Vitae crucifixus (‘l’albero della vita crocifisso’). La via mistica è seguita nello stesso periodo da altre importanti figure, soprattutto da alcune donne, come Angela da Foligno (1248-1309), terziaria francescana, le cui straordinarie esperienze sono scritte nel Memoriale, dettato a un frate e poi tradotto in latino. La prima letteratura francescana in volgare fu comunque molto vicina all’immaginario popolare. Le storie di Francesco e dei suoi confratelli, attinte alla tradizione orale e poi scritte in latino, sarebbero state rielaborate in volgare nei Fioretti di san Francesco (ca. 1380). Il frate Giacomino da Verona già pochi anni dopo la morte di Francesco compose il De Ierusalem celesti (1230), e poi il De Babilonia civitate infernali (1265): due poemetti in quartine di alessandrini (e quindi, anche per il metro, legati a quella tradizione di poesia morale che già era diffusa nell’Italia del Nord), che si distinguono per il bisogno di rendere immediatamente ‘visibili’, concreti da un punto di vista materiale e fisico, gli aspetti della vita delle anime dopo la morte, nei due regni ultraterreni dell’Inferno e del Paradiso. Un Paradiso in cui sembra possibile godere di ogni bene terreno (e in particolare cibi e bevande prelibate, in un Medioevo in cui carestie e gente affamata non mancavano mai), mentre l’Inferno segue la più classica rappresentazione di luogo popolato dei soliti diavoli osceni e repellenti, che uncinano e torturano per l’eternità i dannati. Una poesia da ‘vedere’, mentre la si ascolta, perché erano le stesse raffigurazioni del Giudizio Universale che si potevano vedere dipinte sulle mura delle chiese, ‘teatro’ visibile di una realtà morale a cui era più facile credere grazie alla mediazione sensibile.

3.3. La poesia comunale toscana L’esperienza della poesia della corte imperiale era finita tragicamente, dopo la morte di Federico II (1250), con il crollo del dominio svevo e del partito

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ghibellino in Italia, segnato dalla sconfitta del figlio ed erede Manfredi a Benevento (1266). A Napoli veniva incoronato Carlo d’Angiò, rappresentante della nuova dinastia venuta dalla Francia, ed era poi giustiziato l’ultimo Svevo, Corradino. L’eredità di quella poesia non andò però perduta. Essa fu trascritta in manoscritti toscani, in cui la primitiva veste linguistica siciliana o meridionale fu assimilata all’uso toscano. Fu un passaggio importante, perché significò la ricezione da parte di un pubblico molto più ampio, nei comuni toscani di metà Duecento: non più funzionari imperiali, ma borghesia mercantile, notai e giuristi di città, e magari di simpatie guelfe. Importante fu il ruolo di Bologna come centro di mediazione. Bologna era stata luogo di studio comune sia per i funzionari della Magna curia, sia per molti uomini ‘pubblici’ dei comuni dell’Italia centrale, punto d’incontro di guelfi e ghibellini, leggendario luogo di prigionia di re Enzo figlio di Federico. L’interesse per la poesia volgare si sviluppa nell’ambiente giuridico e notarile; e curiosamente le prime testimonianze manoscritte della poesia in volgare sono proprio alcuni ‘memoriali’, libri di trascrizioni di documenti, in cui (per non lasciare spazi bianchi alla fine della carta, e per evitare falsificazioni) il notaio scriveva il testo che casualmente, in quel momento, gli passava per la testa: un pezzo di una canzone, un proverbio, un sonetto. Non è un caso che sempre Bologna sia importante laboratorio (come vedremo più avanti) della prosa volgare (in particolare dell’arte di scrivere lettere, determinante per segretari e cancellieri cittadini), grazie ad autori come Guido Faba e il fiorentino Bono Giamboni. Da una prima formazione giuridica bolognese tornò infatti in Toscana, a Lucca, Bonagiunta Orbicciani (ca. 1220-ca. 1280), notaio come Iacopo da Lentini, autore di canzonette e ballate, che appare il primo mediatore, alla metà del Duecento, della poesia imperiale nella Toscana occidentale, culla di una ricca borghesia mercantile legata ai traffici marittimi sviluppatisi con le crociate. Bonagiunta segue lo stile del trobar leu, di una poesia piana e cantabile, e infatti predilige i metri delle canzonette e delle ballate, dette queste ultime ‘canzoni a ballo’ perché, accompagnate dalla musica, erano effettivamente eseguite nelle feste dell’epoca (anche il metro è simile a quello delle canzoni di oggi, una serie di strofe alternate ad un ritornello, detto ‘ripresa’). Nella Toscana orientale, percorsa da antiche vie di comunicazione fra Nord e Sud (la Valdarno), e quindi esposta in prima linea nelle lotte politiche contemporanee, opera ad Arezzo Guittone del Viva (ca. 1235-ca. 1294), personaggio singolare del suo tempo, che ne incarna tutte le possibilità, dalla passione politica municipale all’ansia di rinnovamento spirituale. Celebre, della sua biografia, è l’episodio della conversione improvvisa dalla vita del



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mondo a quella religiosa (1265), evento che lo portò ad abbandonare moglie e figli, e ad unirsi alla confraternita laica dei Milites Beatae Virginis Mariae, detti anche Frati godenti, appunto a Bologna. La sua ampia produzione poetica (quasi cinquanta canzoni, e 175 sonetti) si divide esattamente in due metà, che ne riflettono la dualità esistenziale, fra il versante amoroso-politico, e quello religioso-morale. Autore anche di lettere che sono documento di una raffinata prosa d’arte, Guittone preferisce lo sperimentalismo formale del trobar clus, in una poesia fortemente retorica, aspra, grave. Per questo si impegna anche in un campo estraneo ai poeti imperiali, ma non ai provenzali, quello politico, con il sirventese scagliato contro la corruzione dei concittadini aretini Gente noiosa e villana, che già nel titolo evidenzia l’antitesi moderna rispetto al mondo cortese; e soprattutto con la canzone scritta in occasione della sconfitta dei fiorentini guelfi a Montaperti nel 1260, Ahi lasso! or è stagion de doler tanto, in cui la denuncia delle rivalità e delle fazioni si unisce alla condanna sarcastica di Firenze, in un forte stile profetico. Dopo la conversione, segnata dalla canzone Ora parrà s’eo saverò cantare, Guittone si consacrerà alla poesia morale e dottrinaria, non sempre però ben intelligibile a causa dell’oscurità formale. Per chi avrebbe voluto essere ‘cantore della rettitudine’ come Guiraut de Bornhel, questo difetto di comunicazione avrebbe nuociuto alla ricezione e all’intelligenza della poesia guittoniana, dopo appena pochi anni. Ma intanto il suo stile fa ‘scuola’, proprio a Firenze, che fino ad allora sembrava essere rimasta ai margini della poesia volgare, e dove è possibile annoverare diversi ‘guittoniani’: l’abbondante Chiaro Davanzati (con ben 60 canzoni e 100 sonetti), Dante da Maiano (in contatto col giovane Dante), l’artificioso Monte Andrea; e finalmente una poetessa, la prima della nostra letteratura, chiamata nei manoscritti la Compiuta Donzella, vale a dire ‘fanciulla perfetta’.

3.4. La poesia lirica ‘nuova’ da Bologna a Firenze Torniamo a Bologna, dove soggiorna Guittone, dove è attivissima la scuola di retorica volgare, e dove sono ancora vivi gli echi dei poeti imperiali. È assolutamente coetaneo di Guittone il bolognese Guido Guinizzelli (Bologna ca. 1235-Monselice 1276), di parte ghibellina, e quindi costretto all’esilio in Veneto dal 1274. A differenza dei guittoniani, non produce molto (appena 5 canzoni e 15 sonetti), ma quel poco che scrive sarà determinante a cambiare un’epoca. All’inizio è ‘guittoniano’ pure lui, considera l’Aretino ‘maestro’ e addirittura gli si rivolge chiamandolo ‘padre’ (O caro padre meo, de vostra laude). Poi, però, una più attenta riflessione sulla poesia, e probabilmente

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una conoscenza di prima mano dei provenzali e dei poeti imperiali, lo porta a saltare la mediazione di Guittone, e a tornare alla poesia fredericiana, in particolare nel sonetto Io voglio del ver la mia donna laudare. La reazione degli ex-amici è immediata, ed è la prima querelle della nostra storia culturale: Guittone lo critica, e il più anziano Bonagiunta lo rimprovera di troppa ‘sottiglianza’ e ‘iscura parlatura’, di eccessiva densità filosofica e scarsa chiarezza di comunicazione (nel sonetto Voi, ch’avete mutata la mainera). Cosa era accaduto? Riprendendo lo stile del Notaro, Guinizzelli aveva lodato la donna ricorrendo ad una serie mirabile di similitudini (troppe forse in un solo sonetto), la rosa e il giglio, la ‘stella dïana’ (cioè Venere, che è anche la dea dell’amore), la verde campagna, l’aria, e tutti i colori dei fiori, concludendo con l’immagine della donna che saluta, e che quindi, etimologicamente, ‘dona salute’, cioè salvezza, all’innamorato in contemplazione. Sono gli stilemi inconfondibili della poesia provenzale, e della più recente mediazione fredericiana, con un’accentuazione del ricorso alla similitudine tratta dal mondo naturale (tipica del Notaro), forse per l’influenza dell’ambiente filosofico dell’università di Bologna. Il tema del ‘saluto’, in particolare, viene approfondito nel sonetto Lo vostro bel saluto e ’l gentil sguardo: vi si riprende la fenomenologia dell’amore, che passa attraverso la vista, mentre lo sguardo della donna (ancorché ‘gentile’, nobile) può sempre essere assassino, ferire e uccidere (e qui si avverte in filigrana la presenza del bestiario medievale, e della leggenda del basilisco, di cui si diceva che uccidesse col solo sguardo). Al di là del tema tradizionale, è interessante anche l’affiorare di una coscienza metapoetica, laddove il poeta-amante sa di essere, nonché protagonista e vittima, anche testimone e scrivano di quello che gli accade. La sua penna segue Amore, e si fa fedele interprete dei suoi movimenti. Ce n’era abbastanza per farne una poetica ‘nuova’. E il manifesto ne fu la celebre canzone Al cor gentil rempaira sempre amore. Fin dal primo verso vi si afferma il legame indissolubile fra amore e cuore nobile, del tutto svincolato dalle condizioni sociali (e si noti la significativa preferenza di Guinizzelli per gentile, al posto di cortese: passaggio che segna il definitivo abbandono dell’originario contesto feudale, a favore di quello cittadino). La tematica amorosa, liberata da ogni elemento contingente, viene innalzata fino all’assolutizzazione e alla sublimazione della donna-angelo, interpretata come immagine di Dio, suo messaggero inviato sulla terra a redenzione dell’umanità, e soprattutto del poeta suo amante. La densità filosofica e teologica (rimproverata da Bonagiunta) è tutta nel solito bagaglio di similitudini dal mondo naturale, che ha quindi bisogno di un pubblico ‘colto’, quasi di livello universitario: Guinizzelli opera infatti un restringimento selettivo del suo



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pubblico, e prepara la strada ad un tipo di poesia inizialmente elitaria, che circola all’interno di un gruppo omogeneo che partecipa degli stessi orizzonti culturali. A suo modo, questa canzone è come il Cantico delle creature di Francesco (testo forse conosciuto da Guinizzelli), ma con una differenza di fondo: la lode viene riservata alla donna, e non al Creatore. Assolutamente ‘laico’ è infatti il congedo del testo, in cui trova posto il rimprovero di Dio, a cui il poeta risponde di aver agito così, perché la donna ebbe sembianza d’angelo, di intermediario fra cielo e terra. Nuovo, oltre che la tematica, è lo stile, che insiste sul raffinamento del lessico ad un livello sovramunicipale: nel caso di Guinizzelli, questo significa tentare di formare un linguaggio ‘comune’ della poesia, senza troppi artifici e oscurità (che penalizzavano la poesia di Guittone e Monte Andrea). Un trobar leu, senz’altro, in cui la leggerezza si appaia alla dolcezza melodica. Risultato apparentemente spontaneo di una ricerca formale sofferta, perché Guinizzelli non era certo poeta monocorde. Nella sua non ampia produzione, lo dimostra la presenza anche di due sonetti ‘comici’, basati cioè sul rovesciamento, sull’inversione del tema della donna-angelo, e nell’uso di un vocabolario plebeo e di uno stile ‘basso’: Chi vedesse a Lucia un var capuzzo, e Volvol te levi, vecchia rabbiosa. La lezione di Guinizzelli viene ripresa e trasferita a Firenze, roccaforte dei ‘guittoniani’, proprio da un altro fiorentino, il giovane Guido Cavalcanti (Firenze ca. 1255-1300), che vuole così marcare la componente elitaria della sua poesia rispetto alla maniera attardata, e talvolta plebea, della generazione precedente. Cavalcanti apparteneva infatti ad un’importante famiglia nobile guelfa ‘bianca’ (a Firenze, dopo la cacciata dei ghibellini, i guelfi si erano a loro volta divisi in Neri, capeggiati dai Donati, e Bianchi, guidati dai Cerchi), e aveva sposato Bice di Farinata degli Uberti, che era stato il capo dello sconfitto partito ghibellino. Nel 1292 inizia un pellegrinaggio a Santiago di Compostela (una delle grandi mete della spiritualità medievale), ma si arresta a metà strada, a Tolosa. Tornato a Firenze, non potrebbe partecipare formalmente alla vita politica, in quanto una legge recente (gli Ordinamenti di giustizia di Giano della Bella, del 1293) ne esclude tutti i nobili; ma in realtà vi prende parte in modo violento, scontrandosi con Corso Donati, capo dei Neri. Viene così esiliato, insieme agli altri faziosi, il 24 giugno 1300 a Sarzana (il decreto è approvato anche da Dante!). Guido non tornerà mai più: sarebbe morto di febbri il successivo 29 agosto. Nei suoi anni migliori, Guido capeggia una ‘brigata’, un gruppo di giovani amici poeti, tra cui vi sono anche suoi parenti (Iacopo e Nerone Cavalcanti, Lapo di Farinata degli Uberti). All’inizio è un’elaborazione collettiva, un

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divertissement leggero sul filo del trobar leu, dell’imitazione di Guinizzelli, e oltre, fino ai provenzali e ai fredericiani: come appare nella fresca ballata di Calendimaggio Fresca rosa novella / piacente primavera. Col tempo Guido si distacca dai suoi amici, consapevole dell’approfondimento cui sottopone il tema che, in ogni caso, è l’unico tema del suo piccolo canzoniere (solo cinquanta testi, fra sonetti, ballate e canzoni): l’amore. Tema ossessivo, l’amore, esplorato in ogni aspetto di trascendenza, estasi, negatività. Sfuggendo al dominio della ragione, l’amore finisce col dominare l’anima, diventando una specie di malattia, e imponendo una serie di effetti patologici: il tremore, la paura, lo sbigottimento, lo svenimento, la malinconia, il pianto. Una complessa psicologia che Cavalcanti rappresenta, nella sua poesia, con la personificazione delle facoltà vitali e spirituali, definite ‘spiriti’ e ‘spiritelli’, travolti dalla potenza di Amore. E prendono vita e individualità anche i dettagli e gli oggetti coinvolti nella vicenda: a livello fisico, gli occhi, il cuore, gli organi interni; esternamente, le ‘cose’, e perfino gli strumenti di scrittura di cui si serve il poeta, che parlano in prima persona (nel sonetto Noi siàn le tristi penne isbigotite). Alla fine, anche il tema del saluto diventa distruttivo. Nel sonetto Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira (che riecheggia il biblico Cantico dei Cantici: “Quae est ista quae ingreditur?”) si esprime la sostanziale indicibilità della donna, in un accumularsi di interrogativi senza risposta e di negazioni. Nel sonetto Voi che per li occhi mi passaste ’l core Guido insiste su una serie di metafore, di immagini riprese dalla scena di una battaglia, in cui la donna, vista dal poeta, infierisce su di lui, fino al massacro e alla carneficina del cuore. Guido aveva raggiunto, probabilmente a Bologna fra anni Settanta e Ottanta, ampie conoscenze di filosofia naturale e medicina, restando suggestionato in particolare dalla dottrina di Averroé, che affermava la separazione fra anima sensitiva (che non sopravvive dopo la morte) e anima razionale (che comunica con l’intelligenza universale). L’amore investe l’anima sensitiva, irrazionale, ed è esperienza vitale e potenzialmente distruttiva. Su queste basi Guido scrisse la sua grande canzone dottrinale Donna me prega, che è in effetti una sorta di trattato sulla natura dell’amore: un testo difficilissimo (già allora fu necessario comporre dei commenti), lontano dallo stile delle altre poesie di Guido e dei suoi amici. Una corda nuova, rispetto a Guinizzelli, è provata da Guido nelle ballate, leggere e malinconiche, col presentimento della morte in Perch’i’ no spero di tornar giammai. Altri testi del suo canzoniere tornano al tema d’amore sotto un diverso segno stilistico: quello più basso della ‘pastorella’ provenzale (In un boschetto trova’ pasturella), con la variante della ‘forosetta’, della contadina (Era in penser d’amor quand’io trovai); fino al gioco comico del rovesciamento



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della donna-angelo (già tentato da Guinizzelli) nella visione malevola di una gobbetta, nel sonetto Guata, Manetto, quella scrignutuzza. Indubbiamente gli altri poeti della ‘brigata’ seguono da vicino il modello cavalcantiano, ma senza la stessa profondità. Lapo Gianni, incurante dell’impegno dottrinale, preferisce cantare l’atmosfera di gruppo, la vita raffinata dei giovani fiorentini del tempo. Più ‘osservanti’ nello stile sono Gianni Alfani, e Dino Frescobaldi, autore di venti poesie per una donna ‘sdegnosa’, sul tema dell’amore impossibile. Su tutti i seguaci di Guido emergerà il più giovane Guittoncino di Francesco de’ Sinibuldi, detto Cino da Pistoia (Pistoia 1270-Napoli 1337). Figlio di un notaio, e poi giurista anche lui, formatosi a Bologna e Orléans, avrebbe insegnato a Siena, Perugia, Napoli. Guelfo nero esiliato da Pistoia, appoggiò la discesa in Italia dell’imperatore Arrigo VII; e soprattutto, amico di Dante, sarebbe vissuto abbastanza a lungo da essere un importante anello di congiunzione con la generazione di Petrarca e Boccaccio. Suo sarà il compianto per la morte di Dante (Su per la costa, Amor, de l’alto monte), mentre Petrarca a sua volta ne avrebbe pianto la scomparsa (Piangete, donne, e con voi pianga Amore). Il suo canzoniere annovera ben 165 testi, dominati dall’amore per la sua donna, Selvaggia. Con Cino può dirsi superata la stagione dello sperimentalismo (che interessa ancora Cavalcanti e Dante): più che tentare forme nuove, gli basta ormai seguire le soluzioni stilistiche già tentate dai suoi amici (e Guido in un caso lo chiamerà addirittura ‘ladro’). Si assiste in effetti alla nascita di una ‘maniera’ basata su un linguaggio poetico selezionato, secondo un processo che anticipa Petrarca. In particolare, Cino elabora il tema del ricordo e della lontananza. Nella canzone (amata da Petrarca) La dolce vista e ’l bel guardo soave l’evocazione della partenza dell’amata porta il poeta a meditare sul dolore della separazione, della privazione della vista, come aveva fatto Jaufré Rudel nella definizione dell’amor de lohn.

3.5. La poesia comica Su un binario parallelo alla poesia lirica ‘alta’ (e quindi ‘tragica’, negli esiti stilistici dell’ultimo Cavalcanti) corre, secondo la ripartizione medievale degli stili, la poesia ‘comica’, ‘bassa’: uno spazio espressivo non popolaresco, né necessariamente ridicolo, ma basato sul rovesciamento e sulla parodia dei temi principali della poesia ‘alta’. La donna-angelo, modello di cortesia, diventa una popolana brutta e volgare: e vi confluisce la tradizione misogina, con il suo odio della donna e l’enumerazione dei suoi vizi.

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Che si tratti di un esercizio di stile, coesistente alla lirica amorosa ‘seria’, lo dimostrano i sonetti comici di Guinizzelli, Cavalcanti, Dante; e, prima di loro, soprattutto la figura di Rustico di Filippo (Firenze ca. 1230-ca. 1300), la cui produzione (58 sonetti) si divide esattamente in due metà, i testi amoroso-cortesi, e i testi comici. Si tratta per lo più di caricature, di ritratti grotteschi di tipi e personaggi della vita quotidiana: l’avaro, il soldato, la vecchia, la donna adultera. Anche se in forma convenzionale, il legame con la vita quotidiana del mondo comunale, con la cronaca, si fa più evidente. La definizione di tipologie grottesche potrà anzi servire all’elaborazione dei personaggi nelle prime forme narrative, dagli exempla alle novelle. Un altro filone di poesia ‘comica’, diffusa a livello europeo, in ambito universitario, era quello della poesia goliardica, legata ai motivi della vitalità giocosa, dissipata nell’eros, nel gioco, nella vita di taverna. Ne è influenzato il senese Cecco Angiolieri (Siena ca. 1260-ca. 1313), poeta dalla vita inquieta e irregolare, soldato nelle guerre di Siena contro Firenze, più volte processato per risse e debiti. Culturalmente non è affatto un isolato: deve aver avuto esperienza di vita universitaria, forse nella solita Bologna, conosce le poesie di Cavalcanti, e scrive tre testi giocosi a Dante. I suoi oltre cento sonetti si distendono fra le due polarità di letteratura e vita, al punto che è difficile distinguervi tra la verità del dato biografico e la ripresa di un luogo comune, come l’esaltazione dei tre principi della vita goliardica, la donna, la taverna e il dado, cantati in Tre cose solamente m’ènno in grado. La condizione economica e sociale è comunque un elemento determinante: Cecco, carico di debiti, è ormai al di fuori dell’ordine ‘regolare’ della società borghese, che privilegia il ricco mercante. Sente quindi tutto il potere della Fortuna, simbolo dell’irrazionalità e della vanità delle cose del mondo (e come tale cantata nei Carmina Burana, nell’inno O Fortuna); e vi si scaglia contro, così come attacca tutte le autorità costituite, a iniziare dal padre (che vorrebbe vedere morto). La sua rivolta lo porta a desiderare d’essere Dio, papa, imperatore, e tutti gli elementi naturali (compresa la Morte: eco rovesciata del Cantico francescano), per sconvolgere il mondo e l’intera umanità, nel celebre sonetto S’i’ fosse foco arderei ’l mondo. Anche Cecco ha la sua storia d’amore, ma ovviamente è un amore curvato sugli aspetti più bassi della sensualità. Irraggiungibile oggetto del desiderio è Becchina, la volgare figlia di un conciatore di pellami, tra l’altro già sposata (e si osservi il possibile gioco allusivo nei confronti del nome della donna amata da Dante: BEatrice – BEcchina). Un amore impossibile, solo perché Cecco è troppo povero per conquistarla. Di nuovo, quindi, il tema della povertà, contrapposta alla ricchezza, che porta il poeta a vivere in modo patologico il suo stato di privazione, fino alla malinconia, nel sonetto



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La mia malinconia è tanta e tale. Secondo la medicina medievale (ripresa da Cavalcanti), la malinconia era una condizione di alterazione dell’equilibrio psicofisico (basato sulla dottrina degli umori), in cui prevaleva l’umore nero (in greco melancholia): condizione di solito tipica della malattia d’amore (in cui l’amante soffre per la privazione dell’amata), e quindi dei poeti d’amore. La differenza è che, per Cecco, la malinconia nasce dalla privazione del denaro, non della donna; dall’emarginazione sociale, in un mondo dalle regole dure e senza possibilità di riscatto.

3.6. La poesia allegorica e didascalica Nella prima metà del Duecento, in Francia, Guillaume de Lorris aveva composto un poema allegorico intitolato Roman de la Rose (‘Romanzo della Rosa’) (ca. 1230), raffinata espressione della civiltà cortese, in cui si racconta la conquista della rosa (cioè della donna) da parte dell’amante, in uno splendido giardino primaverile. Il poema, incompiuto, fu continuato circa quaranta anni dopo da Jean de Meun (ca. 1270), che spostò l’attenzione sulla cultura filosofica e scientifica del suo tempo. Secondo gli schemi dell’allegoria, ogni elemento, ogni dettaglio della storia rinvia ad una complessa realtà intellettuale; e il poema diventa una sorta di enciclopedia, di summa del sapere medievale, comunicata in modo più leggero rispetto ad un trattato latino. Si tratta quindi di poesia ‘didascalica’, in cui prevale lo scopo dell’insegnamento. Il modello francese fu importante per la composizione di testi simili nella Toscana della seconda metà del Duecento. Alla cornice del giardino si preferisce lo schema allegorico del ‘viaggio’, in cui il poeta è anche pellegrino, e protagonista della propria narrazione, impegnato in una ricerca (della verità, della sapienza, o dell’amore) in cui appare spesso la figura di una guida, di un aiutante. L’autore più rilevante fu sicuramente ser Brunetto Latini (Firenze ca. 1220-1294), un notaio guelfo che ebbe modo di vivere quasi sette anni in Francia (in quanto esule dopo la sconfitta dei guelfi a Montaperti, 12601267), dove si dedicò alla pratica dei volgarizzamenti di classici latini, il De inventione e alcune orazioni di Cicerone. In prosa francese scrisse addirittura un’enciclopedia, il Trésor, che in tre libri affrontava tematiche di teologia e filosofia naturale, morale, retorica e politica. Abbinamento, quest’ultimo, decisivo per ser Brunetto, che promuove la formazione culturale di coloro che dovranno reggere le sorti della città, e che, nella sua attività di insegnamento, avrà tra i suoi allievi anche il giovane Dante.

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La composizione più significativa di Brunetto (oltre ad un poemetto in settenari sul tema dell’amicizia, il Favolello, indirizzato a Rustico di Filippo) è sicuramente il Tesoretto, poema allegorico di quasi tremila settenari a rima baciata. Il racconto inizia presentando Brunetto che vaga smarrito in una selva, dopo la sconfitta di Montaperti (1260); gli viene incontro la Natura, che lo guida nella conoscenza dell’uomo e del cosmo, e poi la Vertude, che lo inizia alla conoscenza delle virtù cardinali e delle virtù civili (Cortesia, Leanza, Larghezza, Prodezza). Il viaggio continua in luoghi diversi e lontani: nel Regno di Amore, dove s’incontra Ovidio, a Montpellier, sull’Olimpo dove s’incontra il geografo antico Tolomeo, e dove il racconto si interrompe. Testi simili vengono composti a Firenze nello stesso periodo. Nel Detto del gatto lupesco (poemetto in novenari-ottonari a rima baciata) un ‘gatto lupesco’ incontra due cavalieri e poi un eremita, e si avvia alla ricerca della croce. Il Mare amoroso (poemetto di 330 versi liberi) non è altro che una piccola enciclopedia sull’amore, costruita sul collage di luoghi comuni e figure retoriche. Un altro racconto allegorico di viaggio è l’Intelligenza (309 strofe in novenari), in cui un poeta segue in Oriente una donna bellissima, l’Intelligenza, che lo conduce in un palazzo affrescato con le storie di Cesare, di Alessandro, di Troia e della Tavola Rotonda. Nell’allegoria, il palazzo vorrebbe significare l’anima dell’uomo (nelle Confessioni, Agostino aveva descritto la memoria come un grande palazzo): ma in realtà è il pretesto per richiamare una serie di testi narrativi fondamentali nella cultura medievale, e per avviare il confronto con le arti figurative, nell’epoca in cui le figure di Cimabue e Giotto si imponevano all’attenzione dei contemporanei. Un caso particolare è costituito dal Fiore, composto intorno al 1280 da un notaio fiorentino di nome Durante. Era lo stesso nome di Dante, e si è quindi creduto che fosse lui l’autore del Fiore, anche a causa di una significativa serie di corrispondenze con altri testi danteschi (dalle rime alla Commedia): ma, più probabilmente, Dante ne fu non l’autore, ma un primo e attento lettore. La struttura del poema si basa su una serie di 232 sonetti (la cosiddetta ‘corona’), in una lingua intermedia tra il toscano e il francese, e in uno stile orientato verso il livello comico. Si tratta di una evidente imitazione della parte narrativa del Roman de la Rose, cioè il racconto della conquista erotica del Fiore da parte di Amante, in una rappresentazione che porta in scena, come personaggi, le personificazioni delle Virtù e dei Vizi: Franchezza, Pietà, Schifo, Bellaccoglienza, Malabocca, Falsembiante. La vicenda si conclude con il raggiungimento dell’oggetto di desiderio, culminante nella descrizione allegorica degli organi genitali della donna, addirittura assimilati alle sacre reliquie di un santuario, alla fine di un lungo pellegrinaggio. Ser Durante (che probabilmente dimorò in Francia, come Brunetto; e l’unico ma-



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noscritto si trova oggi a Montpellier) si dimostra esperto di poesia francese, e anche di filosofia, ricordando la figura del filosofo antiscolastico Sigieri di Brabante. Suo è anche un più breve poemetto in settenari (il metro preferito di Brunetto), il Detto d’Amore, sull’esperienza dell’amore, sempre derivato dal Roman de la Rose. Altre ‘corone’ di sonetti scrisse Iacopo di Michele detto Folgóre (San Gimignano ca. 1270-ca. 1332), un borghese guelfo di provincia che era riuscito a diventare nobile, con la nomina a cavaliere, e che dedicò tutta la sua poesia a cantare l’ammirazione sconfinata verso il mondo cortese. Folgóre è consapevole che si tratta di un mondo ormai in declino, come dice nel sonetto Cortesia cortesia cortesia chiamo, mentre invece la società contemporanea è dominata dall’ avarizia, cioè dalla ricchezza. Le ‘corone’ possono essere dedicate ai mesi dell’anno; ai giorni della settimana; o all’armamento di un cavaliere, con l’allegoria delle Virtù cortesi. Il modello di riferimento è quello del plazer provenzale. Ne emerge un mondo idealizzato (e forse ormai inesistente) fondato sul ‘diletto’ e la virtù, uno spazio protetto in cui si muove la ‘brigata’ dei giovani ‘cortesi’, con tutte le loro disimpegnate occupazioni: la caccia, la cavalcata, i tornei, il ballo, il gioco. Per quanto ideale, è uno spazio comunque importante, e se ne ricorderà Boccaccio, nella cornice del Decameron. Anche Francesco da Barberino (1264-1348), giurista fiorentino che aveva viaggiato fra Veneto, Provenza e Francia tra 1303 e 1313, riprende la tematica dell’amore cortese, e immagina che sia Amore in persona, per mezzo di Eloquenza, a dettarne gli insegnamenti (in latino documenta), alla presenza di dodici donne, e del poeta, nei Documenti d’Amore (1309-1313): un singolare prosimetro in cui le parti poetiche sono in volgare, accompagnate da traduzioni e commenti in latino. L’attenzione al mondo delle donne lo porterà poi alla composizione di un manuale di comportamento, Reggimento e costumi di donne (1320), altro prosimetro che è fonte preziosa per notizie di costume contemporaneo, e sulla condizione della donna. Al di fuori della Toscana, la poesia didascalica è maggiormente legata ad una fonte di ispirazione religiosa. A Milano, infatti, un maestro di scuola come Bonvesino da la Riva (Milano ca. 1250-ca. 1313), legato all’ordine religioso degli Umiliati, riprende il tema del mondo ultraterreno nel Libro delle tre scritture (1274), suddiviso in scrittura ‘negra’ (l’Inferno), ‘rossa’ (la Passione di Cristo), e ‘dorata’ (il Paradiso). Nel De quinquaginta curialitatibus ad mensam (‘cinquanta cortesie a tavola’) Bonvesino compone un altro manuale di buona educazione, mentre le Disputationes non sono altro che dialoghi, contrasti di gusto medievale, fra personificazioni di qualità morali (la rosa e la viola, la mosca e la formica), o fra l’anima e il corpo, o la Vergine

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e Satana. Tutti questi testi sono scritti in un vivace ed espressivo dialetto milanese. Ma il magister Bonvesino sa padroneggiare anche il latino, in un testo che applica alla sua città, Milano, lo schema della laudatio urbis, nel De magnalibus urbis Mediolani (‘meraviglie di Milano’) (1288). Infine a Genova, alla fine del Duecento (in un manoscritto ora all’Archivio Comunale di Genova) l’Anonimo genovese, di estrazione cittadinoborghese, compone poesie in volgare genovese (con preferenza per versi come l’ottonario e il novenario), e anche in latino, affrontando una pluralità di temi morali, politici, civili, e dimostrando un’ascendenza lontana dalla linea toscana.

3.7. La lauda Nel Medioevo la religiosità popolare si era frequentemente espressa contro la corruzione dei costumi, per un ritorno alla purezza e alla povertà evangelica. Nel Duecento si era diffuso inoltre un clima di attesa della fine dei tempi, di un grande rinnovamento, come quello annunciato dall’Apocalisse. Un monaco calabrese, Gioacchino da Fiore (1130-1202), aveva nutrito questa attesa di tempi nuovi con un libro di profezie, il Liber figurarum (diffuso in splendidi manoscritti illustrati), e annunciando che, dopo l’età del Padre (corrispondente all’Antico Testamento) e quella del Figlio (il periodo da Cristo in poi), era imminente l’età dello Spirito Santo. Nell’anno 1260 (indicato nelle profezie come anno di inizio della nuova età) l’Italia fu percorsa da cortei di penitenti e flagellanti, che si raccolsero intorno alla figura di Ranieri Fasani a Perugia, e al movimento dei Disciplinati. Era un movimento che nasceva in un contesto laico, e laici (borghesi, mercanti, artigiani) erano gli aderenti alle prime comunità, che, col tempo, diminuirono l’attività penitenziale, e si dedicarono principalmente alla preghiera in comune, in momenti di incontro collettivo che culminavano nella recitazione, o meglio nel canto, di testi poetici in volgare, strutturati in forma di antifona, di canto responsorio, dialogato tra un officiante e il gruppo dei fedeli. Nasceva così la lauda, cioè lode, inno cantato in queste confraternite (dette di ‘laudesi’), che raccoglievano con cura i loro testi in manoscritti (i laudari, localizzati soprattutto nell’Italia centrale, fra Umbria, Toscana, Marche; di grande rilevanza è quello di Cortona). I temi preferiti sono quelli della storia sacra, in particolare la Passione di Cristo, e poi le lodi della Vergine. La metrica della lauda è quella della ballata, cioè di un metro profano abbinato alla musica (e talvolta il testo religioso conserva lo stesso accompagnamento musicale di un coevo testo amoroso profano), caratterizzato dalla ripetizione



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del ritornello, cantato dal confratello che guidava la celebrazione, e dall’uso di versi fortemente ritmati, e popolareggianti, come l’ottonario (che sembrava riecheggiare il ritmo di inni e sequenze in latino). La lauda è un fenomeno collettivo, e nei laudari non emergono grandi individualità. Con una sola eccezione, che costituisce anche il solo caso di costituzione di un laudario privato, di una sorta di ‘canzoniere’ religioso, parallelo alla produzione profana dei poeti lirici contemporanei: quello di Iacopone da Todi (Todi ca. 1236-Collazzone 1306), al secolo un avvocato, Iacobo de Benedictis, di solida formazione culturale in latino e volgare, sposato con una nobildonna, e dedito in giovinezza ai piaceri della vita. Un evento tragico e improvviso, nel 1268 (la morte della moglie a causa di un crollo, durante una festa da ballo; ma soprattutto la scoperta che la donna praticava, a sua insaputa, l’aspra penitenza del cilicio) lo spinge ad una radicale conversione, alla totale rinuncia a quel mondo fino ad allora tanto amato. Dopo dieci anni di vagabondaggio, come un ‘bizzocco’ (una specie di sacro accattone), Iacopone aderisce al movimento francescano, ma, nella sua umiltà, vorrà restare sempre laico, senza mai prendere gli ordini sacerdotali. Per la sua buona formazione culturale, viene comunque incaricato di badare ai giovani novizi (per i quali scrive anche alcune opere latine). In quel tempo l’ordine francescano cominciava ad attraversare una grave crisi, dividendosi tra coloro che chiedevano un ammorbidimento della severa regola dettata da Francesco (i ‘conventuali’), e quelli che invece reclamavano un ritorno alla purezza delle origini, e ad un’assoluta povertà (gli ‘spirituali’, capeggiati da Ubertino da Casale). Ovviamente Iacopone parteggiò per gli spirituali. Si trovò con loro, quando fu eletto papa un umile eremita abruzzese, Pier dal Morrone, che prese il nome di Celestino V (1295) (Iacopone gli rivolse allora la lauda Que farai, Pier da Morrone?). L’illusione di un vero rinnovamento della Chiesa durò pochissimo. Appena pochi mesi dopo il potente cardinal Caetani spinse l’incerto Celestino alla rinuncia al pontificato, e ne prese il posto col nome di Bonifacio VIII, restaurando una politica di potenza teocratica. Iacopone lo attaccò come se fosse l’Anticristo nella lauda O papa Bonifazio, molt’ài iocato al mondo, si unì agli spirituali ribelli che, capeggiati dal cardinal Colonna, dichiararono il papa decaduto (manifesto di Lunghezza 1297), e fu catturato nell’assedio di Palestrina (1298). Condannato ad un carcere durissimo, descrisse la sua condizione nella straordinaria lauda autobiografica Que farai, fra Iacovone?, e chiese anche, invano, perdono al papa (O papa Bonifazio, eo porto tuo prefazio). Liberato solo nel 1303 dal nuovo papa Benedetto XI, morì nella quiete del convento di Collazzone, nella sua terra natale.

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Anche solo da un punto di vista quantitativo, la poesia di Iacopone si impone come l’esperienza individuale più importante del Duecento. I manoscritti restituiscono i testi di 92 laude sicure, più i testi attribuibili nel Laudario Urbinate. Nell’insieme, ne viene fuori l’immagine di un ‘laudario d’autore’, diverso dagli altri laudari collettivi. Una poesia che nasce non per i bisogni di una confraternita laica, ma per la cerchia ristretta delle scuole di novizi dei conventi francescani, come quello di San Fortunato a Todi, dove Iacopone aveva iniziato la sua attività; cerchia allargata poi agli altri conventi, e infine anche al pubblico laico, grazie alla fortuna della trasmissione manoscritta. Un laudario multiforme, in cui sono presenti molti diversi registri stilistici (tragico, comico, profetico, didascalico, allegorico), e diverse tematiche. Innanzitutto quella morale e religiosa, in laude dottrinali che servivano all’insegnamento di materie talvolta difficili per i giovani frati (il cammino di perfezione, il rapporto fra anima e Dio), e che Iacopone cerca di spiegare nel modo più diretto possibile, facendo spesso ricorso alle tradizionali personificazioni di virtù e vizi, e all’immaginazione visiva (in alcuni casi, i testi sono costruiti proprio su strutture simboliche ‘da vedere’: un albero, una scala, un letto). Le laude, già ricordate, a Celestino V e Bonifacio VIII sono espressione di un forte impegno religioso ma anche politico, e sono dominate dall’assunzione del registro biblico della profezia, con un linguaggio fortemente visivo. La rinuncia al mondo si basa sul disprezzo della fisicità, e sulla dimostrazione della vanità delle cose umane: dimostrazione che (come nel De contemptu mundi di Lotario da Segni) si avvale della descrizione di dettagli orridi o macabri. Netta è la condanna morale della donna, che è comunque rappresentata in modo vivacemente realistico (ad esempio, nella vanità del trucco, del vestiario, o dell’acconciatura dei capelli). Infine, la via di spiritualità scelta da Iacopone è quella della mistica, che passa attraverso il superamento di ogni esperienza sensibile, fino al momento in cui il divino entra nell’anima, la riempie al di là di ogni possibilità di comprensione (un ‘fuori di misura’ che Iacopone chiama esmesuranza), un’esperienza indicibile e non raccontabile con la parola umana: allo stesso modo, nel Medioevo, la teologia cosiddetta ‘negativa’ tentava di giungere a Dio per mezzo della definizione di ciò che Dio non è. L’estasi porta così al canto O iubelo del core, in cui Iacopone diventa ‘pazzo per Dio’. La sua ‘follia’ è il rovesciamento di tutto quello che al mondo sembra buono e desiderabile, la ricchezza, la prosperità, l’amore terreno. E la sua esmesuranza si oppone all’ideologia dell’equilibrio, propugnata dalla filosofia scolastica, e condivisa dalle classi borghesi delle città italiane. La lingua di Iacopone è il dialetto umbro, nobilitato nel lessico dal confronto con il latino (biblico, ecclesiastico, giuridico) e con gli altri volgari.



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Non manca l’influenza della poesia giullaresca, della poesia comica, e della poesia lirica profana, certo conosciuta dal giovane Iacopone: dai provenzali ai poeti della corte imperiale. Il suo stile tende alla brevitas, allo scorciamento, alla sintassi spesso spezzata, e questo per una consapevole e dichiarata ansia di comunicazione. Al ragionamento complesso e sillogistico preferisce l’enumerazione, l’elencazione, la giustapposizione di elementi come in un quadro. La stessa urgenza di comunicazione spinge Iacopone su un piano simile a quello di Francesco, la ricerca della drammatizzazione, della teatralità. Molte sue laude, anche dottrinali, sono dialogate, in modo da coinvolgere meglio l’ascoltatore. Nel Laudario Urbinate compaiono dei testi sulla Passione di Cristo, che rappresentano il dolore della Vergine di fronte alla morte del Figlio: testi anche visivamente forti (nella descrizione del corpo ferito di Cristo) che rinviano alla visione dei capolavori della pittura duecentesca, le grandi Croci di Giunta Pisano, Coppo di Marcovaldo, e Cimabue. Sono i primi esperimenti per quel capolavoro della nostra poesia delle origini che è Donna de Paradiso (rielaborato anche in forma di inno latino, lo Stabat Mater). Si tratta di una lauda drammatica, il cui testo viene recitato da diversi personaggi: un interlocutore della Vergine, che la chiama e la avverte della cattura di Cristo (nei testi del Laudario Urbinate si tratta di una donna, una ‘sorella’ di Maria); la Vergine, che si precipita presso Pilato e cerca di salvare il figlio, e poi vive tutta la sua sofferenza sotto la croce; il popolo ebraico, che coralmente chiede il supplizio; lo stesso Cristo, che dalla croce dialoga con sua madre, e le indica il ‘figlio novello’, Giovanni. Iacopone va oltre il racconto evangelico, e mette in scena il dolore autentico e umanissimo di una madre, di qualunque madre, che impazzisce al momento della morte del figlio, che ne abbraccia i piedi e chiede di morire insieme a lui.

3.8. La prosa Bologna fu centro importante anche per la genesi della prosa in volgare. Nel Medioevo la prosa latina medievale si era innalzata a mezzo di comunicazione ufficiale, nelle cancellerie del Papato e dell’Impero, nella scrittura di lettere e documenti ufficiali, che, per la loro solennità, dovevano essere composti in una forma molto elevata. Questa forma fu in particolare elaborata presso il monastero di Montecassino, ed era fondata sul ritmo delle clausole finali del periodo (chiamate cursus). I cursus erano essenzialmente quattro: l’ordinario planus (sèrvus / servòrum), il solenne velox (sècula / seculòrum), l’artificioso tardus (rìtus / exèquitur), il cadenzato trispondaicus (fìdes / sùpplemèntum). Il

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documento di una cancelleria poteva così essere riconosciuto anche dallo stile: alla Curia Romana, ad esempio, si usava lo stile detto “gregoriano” (da papa Gregorio VIII), elaborato dalla scuola cassinese, e caratterizzato dalla presenza di velox e tardus. La stessa tecnica usata in latino (ancora viva nella cancelleria imperiale di Federico II, come dimostrano le lettere di Pier delle Vigne) passò nel corso del Duecento al volgare, dal momento che i comuni italiani cominciarono a servirsi della lingua viva per i loro documenti. L’arte dello scrivere elegante, soprattutto lettere, fu chiamata ars dictandi o ars dictaminis, e i suoi specialisti, i dictatores. Ne era fondamento l’insegnamento della retorica, professato a Bologna dal maestro Boncompagno da Signa tra 1195 e 1215, autore di un importante trattato latino intitolato Rhetorica antiqua, o anche Boncompagnus. In volgare Guido Faba raccolse esempi di prosa e di lettere nella Gemma purpurea (1239), e nei Parlamenta et epistole (1243). Anche il giudice fiorentino Bono Giamboni (Firenze ca. 1235-ca. 1295) ebbe occasione di insegnare a Bologna, e di scrivere un Libro de’ vizi e delle virtudi, racconto allegorico di un viaggio di iniziazione, e della battaglia tra Vizi e Virtù (sul modello antico della Psychomachia di Prudenzio); ma soprattutto con Bono inizia quel laboratorio sperimentale della prosa volgare che furono i volgarizzamenti, traduzioni e rielaborazioni di testi latini come la Rhetorica ad Herennium (tradotta nel Fiore di Rettorica dedicato a Manfredi), le storie di Orosio, il De miseria humanae conditionis di Lotario da Segni. Prima che si giungesse all’elaborazione di testi originali, i volgarizzamenti furono una tappa fondamentale anche nella narrativa ‘lunga’, in una sostanziale contiguità fra storia antica, leggenda, mitologia, ed epopea cavalleresca: in fondo, personaggi come Giulio Cesare o Alessandro Magno erano percepiti come grandi cavalieri antichi, allo stesso livello di grandezza d’animo e di virtù di Lancillotto o Tristano. In questa forma si diffuse la letteratura romanzesca e cavalleresca francese, che era così importante nella definizione dell’immaginario ‘cortese’: il Roman de Troie di Benoît de Sainte-Maure fu prima tradotto in latino da Guido delle Colonne nell’Historia destructionis Troiae, e poi in fiorentino dal notaio Filippo Ceffi (1324); e sulla stessa materia fu composta un’Istorietta troiana alla fine del Duecento, e poi a Siena un altro volgarizzamento ad opera di Binduccio dello Scelto (1322). Li faits des Romains (sintesi di grandi autori antichi come Cesare, Sallustio, Svetonio, Lucano) furono tradotti nei Fatti di Cesare. Parallelamente si traducevano i romanzi del ciclo bretone, nel Tristano Riccardiano (in area umbro-aretina) e nella Tavola ritonda (Firenze). A Roma venne usato un vivace dialetto romanesco nella versione della Storia de Troia e de Roma,



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mentre Le miracole de Roma riprendevano la tradizione medievale dei Mirabilia Urbis, una specie di guida turistica del pellegrino che, giunto nella sede della Cristianità per venerare le reliquie di San Pietro, si lasciava affascinare anche dalle rovine grandiose della Roma antica. Solo in Veneto si continuò a usare, fino alla metà del Trecento, la lingua francese, per rielaborazioni e continuazioni di storie cavalleresche. La storia del passato poteva essere narrata, altrimenti, nella forma degli annali e delle cronache, originariamente in latino, in una forma di scrittura elaborata prima nelle grandi abbazie europee (Montecassino, Farfa, Novalesa ecc.), e poi promossa dai governi cittadini, per celebrare lo sviluppo delle nuove realtà urbane (ad esempio, Pisa e Genova). Vi si riflette la concezione medievale e cristiana della storia, come un processo lineare, guidato dalla Provvidenza divina, in cui si conoscono bene i punti di partenza (la Creazione prima, e la venuta di Cristo poi), e il punto di arrivo (il Giudizio Universale). Spazio e tempo sono contingenti, rispetto alla dimensione dell’eterno. L’annalista e il cronista, più che dare giudizi o tentare sintesi, si limitano a registrare gli eventi come essi si verificano, in linea progressiva. In genere la loro narrazione inizia sempre dall’origine biblica dei tempi, e si distende su un quadro universale, facendo riferimento anche ad eventi lontanissimi o leggendari, miracoli o fatti straordinari, giunti allo scrittore per tradizione orale. Nel quadro delle cronache latine del Duecento si distingue però la Chronica di Salimbene de Adam (Parma 1221-1288), un frate francescano che aveva sperato nella realizzazione delle profezie di Gioacchino, e che poi, disincantato, compose una cronaca contemporanea, in un latino molto personale, ‘grosso’, vicino al volgare, e allo stile dei giullari, in cui i personaggi del suo tempo vengono rappresentati con tratti realistici e talvolta ‘comici’. La cronaca municipale in volgare si sviluppa soprattutto in Toscana, con la Cronichetta lucchese e la Cronichetta pisana, La sconfitta di Monte Aperto, i Gesta florentinorum (1245), l’Istoria fiorentina di Ricordano Malaspina (1282), e la Cronica fiorentina (1303). Su tutti questi testi spicca la forte personalità di Dino Compagni (Firenze 1260-1324), un ricco borghese fiorentino di parte guelfa, membro della potente Arte della Seta, e fautore delle leggi antinobiliari di Giano della Bella. Travolto anche lui dalle lotte fra Bianchi e Neri, che portarono all’ingerenza esterna di Bonifacio VIII e alla vittoria dei Neri, il Compagni nutrì nuove speranze di riscatto (come Dante) con la discesa in Italia dell’imperatore Arrigo VII, e scrisse allora una specie di memoriale del suo tempo. Superando lo schema annalistico, la Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi (1310-1312) non era una cronaca impersonale e anonima, ma

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la testimonianza di eventi vissuti in prima persona, in uno stile diretto e talvolta violento che è espressione della passione politica dell’autore. La narrativa ‘breve’ nel Medioevo si basava sulla tradizione degli exempla: aneddoti della vita di grandi uomini, significativi per l’aspetto morale, e quindi considerati come paradigmi, come portatori di valori assoluti. Gli Antichi se ne servivano come bagaglio di luoghi comuni, nell’ambito della retorica, e tendevano alla compilazione di raccolte come quella di Valerio Massimo. Tra le più diffuse collezioni medievali era la Disciplina clericalis (‘ammaestramento del chierico’) dello spagnolo Pietro Alfonso (sec. XII). Anche la letteratura agiografica (le vite dei santi, come la Legenda aurea di Iacopo da Varazze) e la predicazione si fondavano sull’uso sistematico di exempla. Come per la narrativa ‘lunga’, anche per la narrativa ‘breve’ fu importante il ruolo dei volgarizzamenti. La destinazione ad un pubblico laico fa preferire, ai santi cristiani, le figure esemplari degli antichi filosofi (i Savi), di imperatori e cavalieri. Uno dei grandi serbatoi enciclopedici della cultura medievale, lo Speculum historiale (‘specchio della storia’) di Vincenzo di Beauvais (11901264), fu condensato nei Fiori e vita di filosafi e d’altri savi e d’imperatori (ca. 1270-1275). Testi classici e cavallereschi servirono alla compilazione delle venti storie dei Conti di antichi cavalieri (Arezzo, ca. 1290) in cui sono posti allo stesso livello eroi antichi, cavalieri moderni, e perfino eroi del mondo musulmano. Il testo più singolare è però il Libro dei Sette Savi (ca. 1290), volgarizzamento toscano di un testo francese a sua volta tradotto da un testo latino, derivato da un originale arabo. In una cornice di origine orientale, un principe viene accusato ingiustamente dalla perfida matrigna, che racconta sette storie sul tema del tradimento dei figli; le rispondono sette sapienti con altrettante novelle sulla falsità delle donne, fino a dimostrare l’innocenza del principe e a far condannare la donna. Da tutte queste esperienze fu elaborata, a Firenze alla fine del secolo, la più importante raccolta narrativa del Duecento, il Libro di novelle e di bel parlar gentile (così il titolo nel manoscritto più antico; ribattezzato Le ciento novelle antike nella prima edizione curata da Carlo Gualteruzzi nel 1525; e poi Novellino da Giovanni Della Casa). Già nel titolo compare il termine ‘novella’, che, derivato dal latino, poteva assumere il significato di ‘cosa nuova, recente’, ‘notizia’, e quindi di ‘racconto veritiero di qualcosa accaduto recentemente’. È la nascita di un nuovo genere, che comincia a superare la tradizione degli exempla. L’autore sintetizza il contenuto del ‘libro’ in questo modo: “Questo libro tratta d’alquanti fiori di parlare, di belle cortesie e di be’ risposi, di belle valentie e doni”. Gli episodi raccontati sono condensati intorno ad un nucleo



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in cui risaltano due aspetti: da una parte la manifestazione esteriore della ‘cortesia’, dall’altra l’uso della parola, in ‘fiori di parlare’, e in belle risposte, in motti in cui si dimostra l’intelligenza e la sagacia dei personaggi. I quali, a loro volta, possono appartenere all’orizzonte cavalleresco, sia leggendario che storico (Lancillotto e Tristano, Carlo Magno, e il moderno imperatore Federico II, il feroce Ezzelino da Romano, e perfino l’arabo Saladino, modello di virtù e magnanimità), ma anche a quello borghese-cittadino, di cui fanno parte l’autore e il suo pubblico. Virtù cortesi, dunque, e intelligenza borghese, espressi in una lingua media più vicina all’uso del parlato. Per dare velocità alla narrazione ‘breve’, la sintassi è dominata dalla paratassi, dalla sintesi, dall’ellissi, con un effetto di condensazione che permette ormai a questa prosa di scorrere leggera, senza la pesantezza latineggiante della prosa d’arte e dei volgarizzamenti. Altra forma di narratio brevis comune nel Medioevo è quella delle favole degli animali, anch’esse dotate di valore esemplare, proiezione della vita di relazione tra gli uomini. Nell’immaginario collettivo, il mondo degli animali rinvia allegoricamente al mondo morale, dal momento che ogni animale può simboleggiare una realtà morale: il leone il coraggio ma anche la prepotenza, la volpe l’astuzia, la colomba la lussuria, e così via. Alcuni animali avevano contorni incerti e favolosi, perché nessuno li aveva mai visti dal vivo, come gli elefanti o le tigri. Altri non esistevano affatto, ma la gente era comunque sicura della loro esistenza: il micidiale basilisco, che uccideva con la vista, la salamandra che si nutriva di fuoco, la fenice che moriva bruciando e risorgeva dalla cenere. Tutte queste note furono già raccolte, alla fine dell’antichità, nel testo greco del Physiologus, da cui si originarono i bestiari latini medievali, fino alle versioni volgari, nel Bestiario toscano, nel Libro della natura degli animali (1290), e nel Fiore di Virtù (Bologna, ca. 1320). La meraviglia nei confronti di un mondo che cominciava ad aprirsi alla conoscenza si avverte nel Libro della composizione del mondo di Ristoro d’Arezzo (1282), che si impegna nella divulgazione in volgare dei rudimenti di filosofia naturale contenuti nelle enciclopedie medievali. I primi grandi viaggi compiuti da Francescani in Oriente sono raccontati da Giovanni da Pian del Càrpine nell’Historia Mongolorum (1245-1247), e da Odorico da Pordenone nella Relazione del viaggio in Oriente e in Cina (1330). L’esperienza più significativa fu quella di un mercante veneziano, Marco Polo (Venezia 1254-1324), andato in Cina col padre Niccolò e lo zio Matteo all’epoca di Kublai Khan (1271-1295). Tornato in Italia, Marco fu catturato a Curzola dai Genovesi, che lo imprigionarono a Genova (1298). Lì ebbe la ventura

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di incontrare un altro prigioniero, Rustichello da Pisa (scrittore in lingua francese di un Roman de Roi Artus), che cominciò a scrivere sotto dettatura le straordinarie avventure vissute da Marco nel corso dei suoi viaggi. Ne scaturì uno dei libri più belli della letteratura italiana delle origini (in effetti opera di Rustichello), composto prima in francese col titolo Le divisament su monde o Livre des merveilles dou monde, e tradotto poi in veneziano, e in toscano, col titolo Milione (dal soprannome familiare dei Polo, Emilione). L’esperienza del meraviglioso è qui vissuta in presa diretta, rispetto alle cronache o ai romanzi. Marco passa attraverso mondi diversi, prima conosciuti solo in modo favoloso: il Medio Oriente, l’India, e soprattutto la Cina, la cui antica civiltà entrava per la prima volta in contatto con l’Occidente europeo.

Bibliografia 3.1. La poesia della corte imperiale. Testo di riferimento per la poesia del Duecento è stata nel secondo Novecento l’antologia curata da G. Contini, Poeti del Duecento, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960. I testi dei primi ‘canzonieri’ del Duecento sono ora pubblicati in edizione critica in Concordanze della lingua poetica italiana delle origini (CLPIO), a c. di d’A.S. Avalle, Milano-Napoli, Ricciardi, 1992; I canzonieri della lirica italiana delle origini, a c. di L. Leonardi, Firenze, SISMEL, 2000-2001. In generale, sull’esperienza poetica del XIII secolo: d’A.S. Avalle, Ai luoghi di delizia pieni. Saggio sulla lirica italiana del XIII secolo, Milano-Napoli, Ricciardi, 1977; M. Santagata, Dal sonetto al ‘canzoniere’. Ricerche sulla preistoria e la costruzione di un genere, Padova, Liviana, 1989; C. Giunta, Versi a un destinatario. Saggio sulla poesia italiana del Medioevo, Bologna, Il Mulino, 2002; Id., Codici. Saggi sulla poesia del Medioevo, Bologna, Il Mulino, 2005. Sintesi storica fino alla fine del Trecento: S. Carrai – G. Inglese, La letteratura italiana del Medioevo, Roma, Carocci, 2003. Altra antologia curata da Contini: Letteratura italiana delle origini, Firenze, Sansoni, 1970. Sui poeti della corte imperiale, basti ora rinviare alla nuova edizione dei Meridiani: Poeti della Scuola Siciliana, voll. I e II, a c. di R. Antonelli e C. Di Girolamo, Milano, Mondadori, 2008. Cfr. V. Formentin, Poesia italiana delle origini. Storia linguistica italiana, Roma, Carocci, 2007. 3.2. Gli Ordini mendicanti. Una raccolta di testi di predicazione in Racconti esemplari di predicatori del Due e Trecento, a c. di G. Varanini e G. Baldassarri, Roma, Salerno, 1993. Cfr. L. Bolzoni, La rete delle immagini. Predicazione in volgare dalle origini a Bernardino da Siena, Torino, Einaudi, 2002. Sulla figura di san Francesco: R. Manselli, San Francesco, Roma, Bulzoni, 1982; C.



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Frugoni, Vita di un uomo: Francesco d’Assisi, Torino, Einaudi, 2005. I testi di Francesco e della prima tradizione francescana in Francesco d’Assisi, Gli scritti e la leggenda, a c. di G. Petrocchi, Milano, Rusconi, 1983; Letteratura francescana, a c. di C. Leonardi, Milano, Mondadori, 2004-2005. Sulle origini del teatro medievale: A. D’Ancona, Origini del teatro in Italia. Studi sulle sacre rappresentazioni, Firenze, Le Monnier, 1891 (II ed.); P. Toschi, Le origini del teatro italiano. Origini rituali della rappresentazione popolare in Italia, Torino, Boringhieri, 1955; L. Allegri, Teatro e spettacolo nel Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 1988; Teatro medievale, a c. di J. Drumbl, Bologna, Il Mulino, 1989. Sulla letteratura mistica: Mistici del Duecento e del Trecento, a c. di A. Levasti, Milano, Rizzoli, 1935; Scrittrici mistiche italiane, a c. di G. Pozzi e C. Leonardi, Genova, Marietti, 1988. 3.3. La poesia comunale toscana. Per i testi, oltre all’antologia di Contini (cit. in 3.1), v. Poeti della Scuola Siciliana, vol. III, a c. di R. Coluccia, Milano, Mondadori, 2008. Cfr. C. Giunta, La poesia italiana nell’età di Dante. La linea Bonagiunta-Guinizzelli, Bologna, Il Mulino, 1998. 3.4. La poesia lirica ‘nuova’ da Bologna a Firenze. Una raccolta complessiva in Poeti del Dolce stil nuovo, a c. di M. Marti, Firenze, Le Monnier, 1969; un’antologia recente in I rimatori del Dolce stil novo, a c. di G. R. Ceriello, Milano, Rizzoli, 2003. Sul cosiddetto ‘Stil nuovo’: M. Marti, Storia dello Stil nuovo, Lecce, Milella, 1973; G. Favati, Inchiesta sul Dolce stil nuovo, Firenze, Le Monnier, 1975. - G. Guinizzelli, Rime, a c. di L. Rossi, Torino, Einaudi, 2002. Cfr. P. Pelosi, Guido Guinizelli: stilnovo inquieto, Napoli, Liguori, 2000; A. Gagliardi, Guinizzelli, Dante, Petrarca. L’inquietudine del poeta, Alessandria, Dell’Orso, 2003; Da Guido Guinizzelli a Dante. Nuove prospettive sulla lirica del Duecento, a c. di F. Brugnolo e G. Peron, Padova, Il Poligrafo, 2004; P. Borsa, La nuova poesia di Guido Guinizelli, Firenze, Cadmo, 2007. - G. Cavalcanti, Rime, a c. di D. De Robertis, Torino, Einaudi, 1986. Cfr. C. Calenda, Per altezza d’ingegno. Saggio su Guido Cavalcanti, Napoli, Liguori, 1976; E. Fenzi, La canzone d’amore di Guido Cavalcanti e i suoi commenti, Genova, Il Melangolo, 2000; A. Gagliardi, Guido Cavalcanti. Poesia e filosofia, Alessandria, Dell’Orso, 2001; M.L. Ardizzone, Guido Cavalcanti. L’altro Medioevo, Firenze, Cadmo, 2006. 3.5. La poesia comica. Per i testi: Poeti giocosi del tempo di Dante, a c. di M. Marti, Milano, Rizzoli, 1956; Rimatori comico-realistici del Due e Trecento, a c. di M. Vitale, Torino, UTET, 1956. Cfr. M. Marti, Cultura e stile nei poeti giocosi del tempo di Dante, Pisa, Nistri-Lischi, 1953.

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3.6. La poesia allegorica e didascalica. - B. Latini, Tresor, a c. di P. Squillacioti, P. Torri e S. Vatteroni, Torino, Einaudi, 2007; Id., Il tesoretto, Milano, Rizzoli, 1985. - Il Fiore e il Detto d’Amore attribuibili a Dante Alighieri, a c. di G. Contini, Milano, Mondadori, 1984; Il fiore – Detto d’Amore, a c. di L.C. Rossi, Milano, Mondadori, 1996. Cfr. Il Fiore in context, ed. Z.G. ����������������������������������������������� Baranski – P. Boyde, Nôtre Dame – London, University of Nôtre Dame, 1997. 3.7. La lauda. Edizioni di Laudari: R. Bettarini, Iacopone e il Laudario Urbinate, Firenze, Sansoni, 1969; Laude cortonesi dal secolo XIII al XV, a c. di G. Varanini, L. Banfi e A. Cerruti Burgio, Firenze, Olschki, 1981; Laudario di Cortona, a c. di C. Terni, Spoleto, CISAM, 1992; Il Laudario di Cortona, ed. crit. a c. di A.M. Guarnieri, Spoleto, CISAM, 1991. Altre edizioni di singoli Laudari sono pubblicate da Olschki (Firenze). Cfr. F. Mancini, Il tempo della gioia. Un’interpretazione del Laudario di Cortona, Roma, Archivio Guido Izzi, 1996. Edizioni di Iacopone: Iacopone da Todi, Laudi, Trattato e detti, a c. di F. Ageno, Firenze, Le Monnier, 1953; Id., Laude, a c. di F. Mancini (1974), Roma-Bari, Laterza, 2006; E. Menestò, Le prose latine attribuite a Jacopone, Bologna, Pàtron, 1979; Iacopone da Todi e la poesia religiosa del Duecento, a c. di P. Canettieri, Milano, Rizzoli, 2001. Sulla figura di Iacopone: F. Suitner, Iacopone da Todi. Poesia, mistica, rivolta nell’Italia del medioevo, Roma, Donzelli, 1999; Iacopone da Todi. Atti del XXXVII Convegno storico internazionale (Todi 8-11 ottobre 2000), Spoleto, CISAM, 2001; Iacopone poeta, a c. di F. Suitner, Roma, Bulzoni, 2007. 3.8. La prosa. Studio fondamentale sulla prosa d’arte delle origini, il cursus e gli ‘stili’: A. Schiaffini, Tradizione e poesia nella prosa d’arte italiana dalla latinità medievale a G. Boccaccio, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1943. Sulla lingua: M. Dardano, Lingua e tecnica narrativa nel Duecento, Roma, Bulzoni, 1969. Testi antologici: La prosa del Duecento, a c. di M. Marti e C. Segre, Milano-Napoli, Ricciardi, 1959; La prosa del Duecento e del Trecento, a c. di C. Bologna, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 2005. Cfr. C. Segre, Lingua, stile e società (cit. in 0); G. Folena, Volgarizzare e tradurre, Torino, Einaudi, 1994. Un’antologia recente delle cronache del Duecento in Cronisti medievali, a c. di G.E. Sansone, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 2003. Sulla novellistica e la letteratura esemplare: C. Bremond, J. Le Goff, J.-C. Schmitt, L’exemplum, Turnhout, Brepols, 1982; D. Delcorno, Exemplum e letteratura. Tra Medioevo e Rinascimento, Bologna, Il Mulino, 1989; S. Battaglia, Capitoli per una storia della novellistica italiana. Dalle origini al Cinquecento, a c. e con introduzione di V. Russo, Napoli, Liguori, 1993; “Favole parabole istorie”. Le forme della scrittura novelli-



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stica dal Medioevo al Rinascimento, a c. di G. Albanese, L. Battaglia Ricci e R. Bessi, Roma, Salerno, 2000. - Il Novellino, a c. di G. Favati, Genova, Bozzi, 1970; Il Novellino, a c. di A. Conte, Roma, Salerno, 2001; Il Novellino, a c. di V. Mouchet, intr. di L. Battaglia Ricci, Milano, Rizzoli, 2008. - M. Polo, Il Milione, a c. di G. Ronchi, intr. di C. Segre (1982), Milano, Mondadori, 2007.

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4.1. La vita Nel 1265 nasce a Firenze Durante di Alagherio, detto Dante (1265-1321). Appartiene ad una piccola nobiltà cittadina non tanto benestante: il titolo di ‘cavaliere’ se l’era conquistato il trisavolo Cacciaguida, insignito dall’imperatore Corrado III per la sua partecipazione ad una crociata. Ma alla metà del Duecento le condizioni economiche della famiglia non erano tra le più splendenti: il padre Alagherio si occupa di piccoli traffici finanziari (non convenienti ad un nobile), e qualcuno dice anche di usura. Il giovane Dante sposa una ragazza della potente famiglia dei Donati, Gemma, da cui avrà tre o quattro figli (due di essi, Pietro e Iacopo, saranno devoti alla memoria del padre anche dopo la sua morte, e si dedicheranno alla diffusione e al commento della Commedia; e la figlia Antonia diventerà una religiosa, col nome di suor Beatrice). È un periodo di studio e di formazione, legato da una parte alla figura autorevole, quasi paterna, di Brunetto Latini, e dall’altra al grande amico della giovinezza, il più maturo Guido Cavalcanti, esperto in pratica della poesia, e inserito nella raffinata vita delle classi dominanti a Firenze. In questi anni si colloca forse un soggiorno a Bologna tra 1286 e 1287, per studi di filosofia o medicina. Ma soprattutto, nel 1283, sarebbe avvenuto l’incontro con la diciottenne Beatrice di Folco Portinari, già sposa di Simone de’ Bardi (e allora Dante era già promesso sposo di Gemma): ne nasce, da parte di Dante, un amore intenso ma tutto interiore, che verrà raccontato, dopo la precoce scomparsa della donna (1290), nella Vita nuova. Dante cerca di conquistarsi un posto nella vita della sua città, andando anche a combattere, nella guerra contro gli aretini, alla battaglia di Campaldino l’11 giugno 1289, dove si batte come ‘feditore a cavallo’, e poi il 16 agosto a Caprona contro i pisani. Negli anni Novanta riprende gli studi dei classici e dei filosofi, frequentando i conventi di Santa Croce (Francescani) e

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Santa Maria Novella (Domenicani). Nel 1293 Giano della Bella promulga gli Ordinamenti di giustizia che escludono dalla partecipazione alla vita politica i nobili, in quanto estranei alle Arti, alle corporazioni di mercanti e artigiani che governavano di fatto la città. Ma Dante riesce ad eludere il divieto, facendo valere le sue competenze di ‘filosofo’ per iscriversi nel 1295 all’Arte dei medici e degli speziali. Può allora prendere parte a diverse assemblee cittadine, in una carriera che culmina con l’elezione a priore per il periodo 15 giugno – 15 agosto 1300. Negli scontri fra Bianchi e Neri Dante aveva cercato una politica d’equilibrio, e quando fu priore, di fronte a più gravi episodi di violenza, non esitò a firmare un decreto d’esilio per i più faziosi: il potente capo dei Neri, Corso Donati, e addirittura l’antico amico Guido, partigiano dei Bianchi, che morirà di febbri in esilio. Dante continua ad operare per la fine delle rivalità, e in particolare si scaglia contro le ingerenze esterne del papa Bonifacio VIII, che parteggia apertamente per i Neri. Nell’ottobre 1301 partecipa ad un’ambasceria al papa, che però, approfittando della situazione, invia il suo emissario Carlo di Valois a Firenze (1° novembre), che favorisce la vittoria dei Neri. È il momento delle vendette. Dante, che stava tornando a Firenze da Roma, è colpito da una condanna a due anni di esilio per ‘baratteria’ (17 gennaio 1302), cioè per corruzione nei pubblici uffici, amarissima accusa per chi aveva sempre operato con la massima rettitudine. Avendo pensato bene di non rientrare a Firenze, viene ulteriormente condannato a morte e alla confisca totale dei beni. È la catastrofe, umana ed esistenziale. Dante e la sua famiglia saranno costretti a vagabondare per l’Italia, cercando rifugio presso signori ospitali e benevoli, ma che comunque non possono surrogare all’esule la mancanza della sua vera patria, della sua casa. Il primo esilio si consuma forse alle porte di Firenze, nel Mugello, poi presso grandi signori ghibellini del Nord Italia, come Scarpetta Ordelaffi a Forlì, e Bartolomeo della Scala a Verona. Nell’illusione di una possibile pacificazione dopo la morte di Bonifacio VIII scrive nel 1304 al cardinale Niccolò da Prato; e si allontana dalla faziosità dei Bianchi, dopo la sanguinosa sconfitta di questi nella battaglia della Lastra. Riprende il peregrinare senza sosta: nel centro ghibellino di Treviso, in Lunigiana presso il guelfo Moroello Malaspina, in Casentino e a Poppi presso il conte Guido di Battifolle e i conti Guidi di Romena, a Lucca, forse a Parigi. La speranza di un riscatto si riaccende con la venuta in Italia del nuovo imperatore Arrigo VII di Lussemburgo (1310), ma crolla ben presto con la sua morte (1313). A Firenze, intanto, Dante era stato escluso dall’amnistia del 1311, ma incluso in quella del 1315, purché pagasse una multa. Per Dante, dopo tutto quello che aveva sofferto, era veramente troppo: il pagamento della multa



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avrebbe comunque significato un’ammissione di colpa, e quindi egli rispose sdegnosamente con una lettera ad un amico fiorentino (Epistola XII), lettera che ebbe come conseguenza la conferma della condanna a morte. Non restavano a Dante che gli ultimi rifugi di Verona, presso Cangrande della Scala (1312-1318); e di Ravenna, presso Guido Novello da Polenta, dove la morte lo colse, il 14 settembre del 1321.

4.2. Rime della giovinezza Il giovane Dante inizia a scrivere poesie sparse sotto l’influenza di Guittone prima, e di Guido Cavalcanti poi. Uno dei suoi primi testi, scritto in seguito all’incontro con Beatrice, il sonetto A ciascun’alma presa e gentil core (1283), è inviato agli altri rimatori fiorentini, una sorta di autopresentazione, alla quale, tra gli altri, risponde Guido, con un sonetto che segna l’accettazione di Dante nella cerchia elitaria degli amici di Guido. Dante è molto legato al ‘gruppo’, alla brigata dei giovani poeti, e vi predilige una leggerezza un po’ manierista. Nel sonetto Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io sogna ad esempio di trovarsi, per magia, su una barca, insieme agli amici Lapo Gianni e Guido e le loro tre donne, in un’atmosfera rarefatta e cortese, in un sogno di isolamento dalla realtà (simile a quello che avrebbe vagheggiato Folgòre). Ed una simile atmosfera si avverte nella ballata Per una ghirlandetta. Per le belle donne di Firenze scrive un sirventese (ora perduto) in cui il nome di Beatrice si trova singolarmente al nono posto. In ogni caso, l’adesione al club di Guido comporta l’adesione ai moduli della poesia ‘nuova’, e l’allontanamento da tentazioni guittoniane, o realistiche. È quanto si rende evidente nell’omaggio esplicito al Guinizzelli, “Amore e ’l cor gentil sono una cosa / sì come il saggio in suo dittare pone”, con la citazione di Al cor gentile, e la definizione del suo autore come ‘saggio’, sapiente nella dottrina d’amore (nel Purgatorio, trent’anni dopo, lo chiamerà “padre / mio e dell’altri miei miglior che mai / rime d’amor usar dolci e leggiadre”: Pg. XXVI, 97-99). Forse studente a Bologna, compone il sonetto Non mi poriano già mai fare ammenda, che compare in un memoriale bolognese già nel 1287. Il salto di qualità avverrà proprio con l’evoluzione delle poesie dedicate a Beatrice, che saranno ad un certo punto consacrate alla sua lode esclusiva, lode che da sola può appagare il poeta, anche in condizione di assenza della donna, o di rifiuto del suo saluto. Lo ‘stilo della loda’ viene inaugurato da una grande canzone, Donne ch’avete intelletto d’amore, che determina anche un primo allontanamento dalle posizioni di Cavalcanti. L’amore non è potenzialmente distruttivo o negativo, come fenomeno

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che interessa l’anima irrazionale, ma al contrario è nobilitante (secondo la tradizione cortese), e addirittura ‘beatificante’, via di beatitudine, di ascesa spirituale, di purificazione. A distanza di quasi trent’anni, un Dante maturo, alla fine del Purgatorio (nel canto XXIV), guardò indietro, alla sua vita e alle rime della sua giovinezza, e volle definire il momento preciso in cui la sua poesia cambiò, rispetto a quella di Guido e di tutti gli altri poeti che erano venuti prima di lui. Era un modo di chiudere i conti con una fase della sua esistenza, prima del nuovo incontro con Beatrice nel Paradiso Terrestre, e l’ascesa al Paradiso. Di più, ebbe l’idea geniale di far pronunciare questo giudizio proprio a colui che era considerato l’iniziatore della poesia toscana in volgare, anello di congiunzione con i poeti fredericiani e quindi con i provenzali, il lucchese Bonagiunta Orbicciani. Nel loro incontro, Bonagiunta riconosce Dante come colui che iniziò le “nove rime” con Donne ch’avete intelletto d’amore (vv. 50-51), e, dopo la dichiarazione di poetica di Dante, fondata su una poesia ispirata direttamente da Amore, e della quale il poeta si fa umile scriba ed interprete (vv. 52-54: “I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando”), erompe nel grido di agnizione: “O frate – diss’elli – issa vegg’io il nodo / che l’Notaro e Guittone e me ritenne / di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo” (vv. 55-57). Chiarissima è dunque l’idea di Dante, che la sua originale interpretazione della lirica cortese, inaugurata da Donne ch’avete intelletto d’amore, abbia segnato un netto superamento della tradizione precedente. Bonagiunta può parlare solo della sua generazione, e di quella a lui precedente (i fredericiani), ma è chiaro che il ‘dolce stil novo’ di Dante segna uno stacco stilistico incolmabile anche nei confronti di Guido e dei suoi amici. Un complesso di risultati formali giocati nella metrica e nella tessitura di immagini e figure (‘stile’), basato sulla ricerca di valori di musicalità ed equilibrio ritmico e fonico (‘dolce’), ma assolutamente rinnovato (‘nuovo’, in senso biblico, paolino) nell’ispirazione e nei contenuti, che guardano ad una Beatrice salvifica e spirituale. Il ‘dolce stil novo’ è dunque la fase della poesia dantesca che va dalla composizione della canzone-manifesto Donne ch’avete alla conclusione della Vita nuova. Una fase dalla quale, secondo Dante, Guido era definitivamente escluso.

4.3. Vita nuova Qualche anno dopo la morte di Beatrice (1290), e precisamente verso il 1293, Dante pensò di raccogliere quasi tutta la produzione poetica legata alla donna, e di farne un ‘libro’, di unire quei testi poetici in una struttura unitaria, che



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rendesse conto di una ‘storia’, la storia della sua giovinezza, del suo amore, e soprattutto della sua poesia. Quel ‘libro’ non poteva farsi nella semplice forma del ‘canzoniere’, del ‘libro’ di sole rime. Troppi erano gli elementi extratestuali che Dante voleva ancora comunicare, e talvolta sovrabbondante la stratificazione di significati che quei testi avevano ormai assunto per lui, da quando aveva iniziato le “nove rime”. In un certo senso, aveva bisogno di raccontare agli altri anche perché erano nati quei testi, in quali situazioni, in quali condizioni della sua anima e del suo corpo. Serviva un’esegesi, un’interpretazione autentica, simile a quella che i teologi applicavano sui testi sacri: e testi sacri erano, per Dante, le poesie per la sua Beatrice. Fu così che nacque la Vita nuova (che, nell’accezione dantesca, significa appunto ‘vita della giovinezza’). La struttura è quella del prosimetro, in cui 31 testi poetici dal 1283 al 1291 (25 sonetti, 4 canzoni, una stanza isolata, e una ballata) si dispongono in una cornice unitaria di testi in prosa, di solito tra una prosa narrativa, e una ‘divisione’, cioè una spiegazione scolastica delle parti del componimento. È evidente l’influenza del modello di Boezio (il De consolatione Philosophiae era un prosimetro, dal forte carattere autobiografico, ripreso ad esempio nella poesia latina medievale dall’Elegia de diversitate fortunae di Arrigo da Settimello, 1193), ma soprattutto dei manoscritti provenzali, in cui le poesie dei trovatori erano accompagnati da parti in prosa con il racconto della loro vita (vida) e l’interpretazione del testo (razo). Straordinaria, da parte di Dante, è la scelta di fare il racconto in prima persona. La scrittura autobiografica non era molto frequente nel Medioevo, perché il parlare di sé poteva essere segno di egoismo e superbia. Pure non mancavano esempi illustri, dalle Confessioni di Agostino all’Historia calamitatum mearum di Abelardo. In realtà, la Vita nuova non è né un’autobiografia di Dante, né un romanzo d’amore, ma un’opera molto più complessa, in cui si sovrappongono riferimenti alle scritture profetiche e apocalittiche, ai Vangeli (con l’insistita equivalenza Beatrice-Cristo), all’agiografia (tanto che si è potuto vedere in questo testo anche una Legenda Sancte Beatricis). E, in più, è anche l’occasione di esibire una cultura personale, faticosamente formata da Dante sui classici latini (gli stessi amati e insegnati da ser Brunetto: Cicerone, Virgilio, Ovidio) e sulla Bibbia (il Cantico dei Cantici, Geremia, l’Apocalisse); testi da cui si era allontanato Cavalcanti, che seguiva piuttosto i filosofi d’avanguardia. Dall’esegesi biblica medievale veniva infine il ricorso alla numerologia, che è strumento interpretativo profondo dei rapporti tra le cose e gli eventi, e non semplice simbologia. Beatrice è sempre associata al numero nove (segno di assoluta perfezione, perché prodotto del 3, numero della Trinità, per se stesso), perché, secondo Dante, è veramente quel numero, cioè un angelo, una manifestazione sensibile della potenza divina.

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Nel proemio, metatestuale e metaforico, Dante finge di aprire un libro immateriale, il ‘libro della memoria’, e quasi all’inizio trova una ‘rubrica’, una titolazione che dice “Incipit vita nova”, in cui ritrova tutte le ‘parole’ della ‘vita nova’, della giovinezza: più che i ricordi, si tratta proprio delle ‘parole poetiche’, cioè delle poesie che ha scritto in quegli anni; e il suo proposito è allora quello di ricopiarle in un altro ‘libello’, di farsi scriba di se stesso. La narrazione inizia con il ricordo del primo incontro con Beatrice fanciulla a nove anni, che provoca un totale sommovimento degli ‘spiriti’, cioè delle varie facoltà dell’anima. Nove anni dopo, nel 1283, Dante diciottenne incontra di nuovo la ‘gentilissima’, e il suo ‘saluto’ scatena la fenomenologia d’amore, e provoca il primo grande sogno di Dante: l’apparizione di Amore e della donna, con l’immagine del cuore mangiato, e un primo presagio di morte, la figura di lei che viene portata in cielo dagli angeli. Al risveglio Dante scrive il suo primo sonetto, A ciascun alma presa e gentil core, in cui racconta brevemente il sogno, e lo invia ai suoi amici (i “fedeli d’Amore”) per chiederne spiegazione, in particolare a Guido (che risponde con Vedeste, al mio parere, onne valore: ma secondo Dante nessuno di loro capisce il vero significato del sogno, che contiene anche la profezia della morte di Beatrice). La volontà di tenere segreto il suo vero amore spinge Dante a simulare amore per un’altra donna, la ‘donna dello schermo’, e poi per una seconda ‘donna dello schermo’, cosa che provoca lo sdegno di Beatrice e la negazione del suo saluto (che, in senso guinizzelliano, solo poteva dare ‘salute’, cioè salvezza). Profonda è la crisi di Dante, superata solo con l’erompere dello ‘stilo della loda’ (del ‘dolce stil novo’), con la prima grande canzone Donne ch’avete intelletto d’amore, recupero del valore positivo dell’esperienza amorosa in una dedizione totale all’amata, qualunque sia il suo atteggiamento. È il rifiuto della visione negativa di Cavalcanti. Il testo è solenne anche dal punto di vista formale, essendo una canzone formata da stanze di 14 versi tutti endecasillabi (che sembrano quasi un sonetto). E significativo è il cambio di destinatario. Non più la donna amata, ma le ‘donne che hanno intelletto d’amore’, cioè un pubblico elitario in grado di intendere questa dottrina d’amore, per esperienza diretta e per conoscenza teorica. Dante non presume di arrivare alla perfezione della lode, ma almeno potrà ‘isfogar la mente’, con funzione liberatoria della propria angoscia e dell’ossessione amorosa. Il superamento di Cavalcanti avviene anche nel sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare. Il ‘saluto’ di Beatrice innesca una vera epifania, un’apparizione miracolosa (pare), in cui si rivela l’eccellenza della sua nobiltà interiore (gentile) e del suo decoro (onesta). Gli effetti sull’amato sono all’inizio annichilanti (come in Guido): la lingua trema e non riesce a proferire suono, gli occhi si abbassano; l’esperienza della dolcezza è ineffabile, indicibile, non



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comunicabile a chi non la prova, ma resta poi intensamente reale, come lo erano le esperienze mistiche; non è distruttiva, ma beatificante. La storia continua tra continui presagi di morte, dalla morte del padre di Beatrice ad una visione tragica modulata su immagini apocalittiche. La morte di Beatrice non viene raccontata, ma la data precisa (l’8 giugno 1290) fornisce a Dante l’occasione di una straordinaria digressione sulla misurazione del tempo e del calendario, in cui, ancora una volta, emerge la presenza magica del numero 9. Eppure, la memoria di Beatrice non basta a Dante, che viene traviato da una ‘donna gentile’ due anni dopo, e richiamato all’ordine da una nuova visione di Beatrice, che alla fine gli appare in una ‘mirabile visione’. Qui Dante si interrompe, ripromettendosi di trattarne in una nuova e più degna opera.

4.4. Rime della maturità Probabilmente già con l’avvio delle “nove rime” Dante si allontanò da Guido, che lo criticò nel sonetto I’ vegno ’l giorno a te infinite volte. Ma anche l’esperienza di quel “dolce stil novo” era destinata a finire, con il ritorno di Dante allo stile comico, in uno scambio di sonetti con Cecco Angiolieri (non ci sono conservati i testi di Dante, ma tre interessanti sonetti di Cecco sì), e soprattutto nella tenzone con Forese Donati, cioè una giocosa sfida di tre sonetti di Dante e di tre risposte di Forese, fratello di Corso Donati: tenzone ‘per le rime’, perché Forese riprende le stesse rime dei testi danteschi. Dante attribuisce a Forese impotenza sessuale, povertà, gola e falsità; Forese risponde con le accuse di vigliaccheria e avarizia (e velatamente di usura). In realtà, si tratta di temi convenzionali: ma è comunque per Dante un importante momento di sperimentazione, nell’uso di un lessico ‘basso’ e plebeo, e di rime difficili. Su questa nuova base formale Dante torna a rileggere l’eredità provenzale, ma nel registro arduo del trobar clus, rappresentato per lui dal trovatore Arnaut Daniel. L’occasione si presenta fra 1296 e 1298, in margine ad un episodio di forte passione erotica per una donna ‘impossibile’, che lo respinge ed è insensibile come una ‘pietra’ (ma è del tutto incerto se l’episodio abbia una qualche realtà biografica). Dalla crudele ‘donna-pietra’ queste poesie prendono quindi il nome di rime petrose: appena quattro componimenti, che però portano ai massimi livelli lo sperimentalismo metrico dantesco. Nella prima canzone, Così nel mio parlar voglio esser aspro, si descrive l’amore per la ‘donna petra’, con l’espressione del desiderio di vendetta e di un

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vivace immaginario sadico. Nell’altra canzone, Io son venuto al punto della rota, la negativa condizione esistenziale si proietta su uno sfondo cosmicoastronomico, sulla natura ‘morta’ dell’inverno, su un mondo di gelo che è il correlativo oggettivo del gelo, della morte dell’anima. Il livello più alto è raggiunto in Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra, in cui (per la prima volta nella poesia italiana) Dante usa il difficile metro della sestina, riprendendolo da Lo ferm voler di Arnaut: sei stanze di sei endecasillabi l’una, e un congedo di tre versi, per un totale di 36 versi; e in ogni stanza sei parole-rima, che tornano uguali, ma cambiando di posto, seguendo uno schema ricorrente (la cosiddetta retrogradatio cruciata: ABCDEF > FAEBDC). Una ‘danza’ di rime, il cui movimento disegna mirabilmente, ancora una volta, il numero 6: una forma di poesia figurata, in cui la figura visiva, dinamica e non statica, appare nel suo farsi. Si tratta quindi di un componimento fondato sull’iterazione magica del numero 6, che ha un valore negativo, rovesciato, rispetto al 9 di Beatrice, e può ben significare il momento di crisi spirituale ed esistenziale, l’inverno e la ‘pietrificazione’ del cuore, la terra desolata, in cui Dante sente di essere arrivato, in questa fase della sua vita. L’uso della parola-rima si fa più difficile nella sestina doppia Amor tu vedi ben che questa donna, in cui le parole-rima sono solo cinque (donna, tempo, luce, freddo, petra). È evidente che il martellamento e la ripetizione della stessa parola porta ad un’esplorazione di tutte le sue possibilità semantiche, un esercizio che darà a Dante la padronanza di quegli strumenti formali necessari alla composizione della sua opera maggiore. Negli anni successivi Dante sarebbe tornato sporadicamente alla composizione di rime. Nel periodo iniziale dell’esilio, forse nel 1304, compose la canzone Tre donne intorno al cor mi son venute, in cui appaiono al poeta tre donne che sono altrettante personificazioni della Giustizia: ed il tema della giustizia si lega all’acuta sofferenza di chi è stato vittima di un’ingiusta accusa di baratteria, e di una condanna all’esilio e alla morte. Un Dante amaramente ferito nella propria vicenda umana, che si proietta comunque al di fuori della sua sfera individuale, e cerca di essere cantor rectitudinis, poeta di alto impegno morale, come era stato, fra i provenzali, Guiraut de Bornhel. Ultima canzone isolata di Dante, nel 1307, fu Amor, da che convien pur ch’io mi doglia, detta la ‘montanina’, perché rinvia ad un paesaggio montano, alle valli fra i monti del Casentino, fra Pratomagno e Camaldoli, nel periodo in cui l’esule era ospite dei Conti Guidi. La ‘montanina’ segna un ritorno inaspettato alle ‘petrose’: Dante avrebbe incontrato, in un castello dei Conti Guidi, una bellissima e giovanissima nobildonna (forse della stessa famiglia



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comitale), che, sedottolo, lo avrebbe respinto con la stessa crudeltà della ‘donna-petra’. Su quest’ultima storia erotica si interrompono le rime. Dante non penserà nemmeno, ormai, a raccoglierle, in quello che avrebbe potuto essere un ‘canzoniere’. Oltre gli errori del passato (e del presente), tutte le sue energie intellettuali erano dedicate ora ad un’unica impresa: la Commedia.

4.5. Convivio Intorno al 1304 (dopo due anni di febbrile e vano vagabondare) Dante dovette convincersi che l’esilio sarebbe diventato la condizione dominante della sua vita, e che doveva trovare un’occasione di riscatto morale, di fronte alla sua città, e di fronte al mondo. Questo riscatto non poteva avvenire né su un piano politico né sociale, ma sull’unica ricchezza che la confisca dei beni gli aveva lasciato: la sua vasta formazione culturale, straordinaria per un laico, per un ‘dilettante’ di discipline filosofiche, solitamente professate da chierici e professori universitari. Dante, che non era un chierico, si era comunque avvicinato ai testi più avanzati della cultura medievale: Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, i grandi commenti ad Aristotele (alla Fisica, alla Metafisica, all’Etica, e poi al De anima, al De generatione animalium ecc.), ma anche i testi di Platone diponibili in traduzione latina (come il Timeo), Avicenna e Averroé, i filosofi delle scuole di Chartres e San Vittore, e della Sorbona, fino a Sigieri di Brabante, gli scrittori di astronomia, ottica, medicina, e naturalmente la Bibbia, e i grandi esegeti medievali come Bernardo di Chiaravalle. A tutto questo si aggiungeva la vasta cultura letteraria, che andava dai classici latini ai testi delle moderne letterature europee in volgare. Il progetto di Dante è allora molto chiaro: comunicare tutto questo suo sapere, nel modo più immediato possibile (e quindi in lingua volgare), come se fosse un ‘convito’ di vivande offerto agli uomini desiderosi di conoscenza, in un’opera che si intitola appunto Convivio. L’architettura dell’opera segue lo schema dell’enciclopedia medievale, nella forma del prosimetro, e della scrittura esegetica: all’inizio un proemio, poi 14 grandi canzoni dottrinali, ognuna delle quali doveva essere seguita da un libro di commento. È una sorta di continuazione della Vita nuova, dal momento che si interpreta l’apparizione della ‘donna gentile’ come l’apparizione della Filosofia (come in Boezio), simbolo della ripresa dello studio della filosofia dopo la morte di Beatrice. Il primo libro definisce le finalità dell’opera, la scelta del pubblico e della lingua, il volgare fiorentino: scelta coraggiosa, da parte di Dante, perché era la prima volta che il volgare era utilizzato per un’opera di divulgazione

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filosofica, solitamente riservata al latino (o al limite al più ‘nobile’ francese, come aveva fatto Brunetto nel Trésor). Il secondo libro, partendo dall’esposizione della canzone Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete (rivolta cioè agli angeli che muovono il terzo cielo, quello di Venere, che influenza gli spiriti amanti), si diffonde sul sistema del sapere medievale, nella scansione delle arti liberali, in trivio e quadrivio; e soprattutto chiarisce il metodo di interpretazione allegorica (derivato da Riccardo di San Vittore), secondo i 4 sensi delle scritture (letterale, allegorico, anagogico, morale). Il terzo libro, aperto dalla canzone Amor che nella mente mi ragiona (sul tema dell’ineffabilità per insufficienza di comprensione da parte della mente), si rivolge alla lode della ‘donna gentile’, cioè della Filosofia. Il quarto libro, commento della canzone Le dolci rime d’amor ch’i’ solìa, affronta il tema (fondamentale nella civiltà cortese) della nobiltà, considerata non prerogativa ereditaria o di sangue, ma dono divino da confermare con l’esercizio della virtù; e il discorso si allarga al tema della nobiltà dell’essere umano nell’ordine del creato, in una crescente ammirazione per le meraviglie della natura (come la nascita della vita e il concepimento del feto, atto di partecipazione all’azione creatrice di Dio). E qui, intorno al 1308, Dante si interruppe. Una parte della materia già affrontata era passata ad un altro progetto di opera sul volgare e sulla poetica (il De vulgari eloquentia). Ma soprattutto l’ansia di comunicazione del suo mondo interiore ed umano era ormai confluita, interamente, nel nuovo cantiere della Commedia. Il Convivio restava incompiuto al quarto libro, segnando comunque una grande conquista nella prosa volgare, anche rispetto alla Vita nuova: una più ampia e articolata architettura della frase, una maggiore chiarezza comunicativa (anche nell’uso frequente di similitudini tratte dalle vita quotidiana o dal mondo animale e naturale), con uno spettro stilistico che va dalla lingua parlata ai linguaggi specialistici della filosofia, della scienza e della medicina.

4.6. Le opere latine Iniziando nel Convivio la riflessione teorica sull’uso del volgare, Dante volle estenderla in un altro trattato, più o meno contemporaneo (1304), il De vulgari eloquentia, dedicato in particolare alla lingua della poesia, e stavolta scritto in latino. Concepita inizialmente in più libri, l’opera rimase interrotta al secondo libro, anche in questo caso, probabilmente, per il totale assorbimento del poeta nella scrittura della Commedia.



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Il primo libro tratta del rapporto di netta separazione tra latino (considerato lingua artificiale, grammaticale, secondaria) e volgare (lingua materna, primaria). Nella storia dell’umanità, secondo la Bibbia, la pluralità delle lingue è nata all’epoca della Torre di Babele, mentre in origine esisteva un unico linguaggio, quello parlato da Adamo, riflesso nella lingua sacra dell’ebraico. Tutte le altre lingue sono soggette ad un processo di metamorfosi nel tempo, analizzato da Dante fino ai tre volgari romanzi più vicini a lui, la lingua d’oc, d’oïl e di sì. Nella lingua di sì è possibile distinguere ulteriormente 14 varietà di dialetti, di lingue regionali o municipali, nessuna delle quali veramente superiore alle altre. Per Dante il volgare illustre può nascere non da una singola parlata, ma da un processo di innalzamento che coinvolge la prima tradizione letteraria grazie all’uso degli scrittori migliori, fino ad essere definito come ‘illustre’ (‘che dà luce’ alla lingua, e alla cultura che esprime), ‘cardinale’ (‘cardine’ dei vari volgari), ‘aulico’ (degno di essere usata in un’aula, cioè una reggia) e curiale (degno di una curia, di una corte di grandi uomini come era stata la Magna curia di Federico). Quindi, una lingua ideale, non ancora esistente, in una visione che punta al superamento delle particolarità municipali o regionali. Nel secondo libro s’inizia la trattazione del volgare come lingua della poesia, trattazione che però resta incompiuta, limitandosi alla struttura più ‘alta’, la canzone, in stile tragico. È il primo tentativo consapevole di storia della letteratura italiana, di sistemazione delle esperienze poetiche precedenti in una scansione di ‘scuole’: un filo rosso che va dai ‘siciliani’ (mediatori dei provenzali) direttamente a Guinizzelli, Cavalcanti, Dante e Cino, saltando e svalutando Guittone e gli altri. I contenuti più degni dello stile ‘alto’ saranno allora salus, venus, virtus, cui corrispondono i generi dell’epica, della lirica e della poesia della rettitudine. All’epoca della rinnovata speranza imperiale, legata ad Arrigo VII (13101313) si può datare la Monarchia, importante approfondimento del pensiero politico dantesco, parallelo all’elaborazione della Commedia. Il trattato, in tre libri, ribadisce all’inizio la necessità della monarchia universale, che nel secondo libro viene fatta coincidere con Roma e il suo impero, voluto dallo stesso Dio. Nel terzo libro si tratta il punto più scottante, il rapporto tra Chiesa e Impero. Per Dante, entrambe queste autorità derivano da Dio, ma sono diverse per funzione e per ambito di azione, governando il papa sulle cose dello spirito, e l’imperatore su quelle del mondo. I due massimi poteri del mondo medievale sono quindi come due astri che brillano nello stesso cielo, come il sole (il papa) e la luna (l’imperatore). Ne deriva la condanna

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senza appello di ogni forma di potere temporale dei papi, in quanto contaminazione di sfera spirituale e sfera mondana; e viene parimenti criticata, e considerata nulla, la celebre Donazione di Costantino (un documento medievale apocrifo in cui Roma sarebbe stata donata al papa: ma Dante ancora lo credeva autentico). Inutile aggiungere che la Monarchia fu subito condannata da papa Giovanni XXII, e Dante considerato un eretico. Negli anni dell’esilio Dante si servì dello strumento di comunicazione delle lettere, scritte in latino, e di solito nella forma della lettera ‘pubblica’, rivolta a più destinatari, pezzo retoricamente elaborato (con ampio uso di figure retoriche e di cursus), nel solco della tradizione dell’epistolografia ufficiale (da Pier delle Vigne in poi); testi sparsi, che lo stesso Dante non si preoccupò di raccogliere (ci sono stati conservati grazie a Boccaccio). Sono tredici Epistole in latino, di alto livello morale, rivolte ai potenti della terra (principi, signori, cardinali, grandi signori feudali), oppure ai perfidi Fiorentini, bersaglio di una violenta invettiva (Ep. VI). Anche la lettera che sembra più ‘personale’, quella indirizzata ad un amico fiorentino (Ep. XII), è in realtà una sdegnosa risposta pubblica all’ignominiosa offerta di essere amnistiato, purché pagasse una multa, e ammettesse quindi una colpa che non aveva (1315). Un’ultima lettera (Ep. XIII: forse non autentica, ma comunque elaborata da qualcuno molto vicino all’ultimo Dante) dedica a Cangrande della Scala il Paradiso, fornendo la chiave di lettura allegorica dell’intera Commedia, secondo i già ricordati quattro sensi delle scritture. Nel 1319 il professore bolognese Giovanni del Virgilio (eccellente commentatore dei classici, e in particolare delle Metamorfosi di Ovidio) scrive a Dante (a Ravenna) un carme latino in cui lo rimprovera di non aver usato il latino per il suo poema, scritto invece nella bassa lingua del volgo. Dante non si arrabbia ma rilancia la posta, rispondendo al professore con un altro carme latino in cui trasforma l’intera vicenda in uno scenario di pastori, in un paesaggio agreste. È la prima egloga della letteratura italiana, il primo campione dell’umile genere bucolico, derivato da Virgilio: ed è una risposta ironica a chi riprendeva l’uso del volgare per una materia ‘alta’, dimostrando che la dottrina degli stili poteva essere applicata in piena autonomia in contesti linguistici diversi, come erano appunto latino e volgare. Giovanni imparò la lezione, e inviò una sua egloga, a cui Dante rispose ancora con un altro testo bucolico. L’ultimo testo latino di Dante (ma di non sicura attribuzione), infine, è la Quaestio de aqua et terra, lezione tenuta a Verona il 20 gennaio 1320,



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sul tema se vi fossero punti della superficie terrestre più bassi del livello dell’acqua. Una questione tutta scolastica, che poteva appassionare gli intellettuali dell’epoca perché coinvolgeva le loro conoscenze sul cosmo e sulla dottrina degli elementi. Che il vecchio Dante potesse essere coinvolto in questi dibattiti, non è da stupire. Dopo la pubblicazione dell’Inferno e del Purgatorio, il poeta (che diceva di aver viaggiato fino al centro della Terra, e di essere salito sulla montagna del Paradiso Terrestre) era universalmente considerato anche un esperto di cosmologia e geografia.

4.7. Commedia In un momento imprecisato del suo esilio, forse nel 1306, forse nella solitudine di un castello del Casentino, Dante cominciò l’opera che, da sola, sarebbe bastata a riscattare la catastrofe della sua esistenza. In una lettera del 1307 a Moroello Malaspina (Ep. IV), inviando in dono la canzone ‘montanina’, Dante dice di aver interrotto una grande opera, a causa della passione distruttiva per la ‘montanina’ (leggendaria sembra invece la storia secondo la quale Dante avrebbe iniziato il poema prima dell’esilio, tramandata da un lettera apocrifa di un tale Frate Ilaro copiata da Boccaccio). Superato l’ultimo traviamento, l’ultimo vero smarrimento nella ‘selva del peccato’, Dante avrebbe ripreso l’opera, che lo accompagnò in tutto il suo lungo esilio, con la scrittura dell’Inferno (1306-1309), del Purgatorio (1309-1315), e del Paradiso (1316-1321), preceduto dalla pubblicazione delle cantiche precedenti (Verona 1314-1315). Il titolo dell’opera è ricordato nell’Epistola a Cangrande (Ep. XIII), con il suo celebre incipit: “Incipit Comoedia Dantis Alagherii, florentini natione, non moribus”. Comoedia, e quindi in volgare Commedia, il suo vero titolo (sarà Boccaccio a definirla ‘divina’, aggettivo che fu unito al titolo solo in un’edizione veneziana del 1555). È evidente, nel titolo, un rinvio alla dottrina medievale degli stili, con la sua tripartizione in stile tragico, comico, elegiaco. Lo stile ‘comico’ si colloca in quello spazio intermedio fra tragico ed elegiaco in cui è possibile l’utilizzazione di diversi registri espressivi. Nella stessa Epistola a Cangrande si chiarisce la natura della ‘commedia’, in rapporto alla ‘tragedia’: la commedia rappresenta una vicenda che inizia male e finisce bene, mentre la tragedia ha un percorso opposto. Del resto, la stessa idea di ‘commedia’ porta con sé un carattere di drammatizzazione: un immenso teatro sul quale si muoveranno alcuni personaggi, ‘attori’ di una vicenda che rinvia all’intera storia dell’umanità. Dante chiama dunque

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la propria opera Commedia (If. XVI,128; XXI,2) anche in relazione al suo grande modello di poema epico, l’Eneide di Virgilio, definito ‘tragedia’ (If. XX, 113). È significativo comunque che nel Paradiso al termine ‘commedia’ subentri quello di ‘sacrato poema’ (Pd. XXIII,62) e ‘poema sacro’ (Pd. XXV,1), che riecheggiano proprio un’antica definizione dell’Eneide (chiamata da Macrobio “sacratum poema”). In realtà, non è facile dire che cosa sia esattamente la Commedia. Un poema didascalico-allegorico? Una summa del sapere medievale? Una visione? Si è tentato di rintracciare tutti i possibili antecedenti medievali di Dante: dalla Navigazione di San Brandano ad Alano da Lilla e al Roman de la Rose, dal Libro della scala di Maometto a Bonvesino, Giacomino, Brunetto ecc. In realtà, è lo stesso Dante, ad apertura dell’opera, ad additarci i suoi modelli, menzionando i due ‘eroi’ che, prima di lui, hanno osato viaggiare oltre il confine tra la vita e la morte: Enea, che scende agli Inferi pagani e ritrova le ombre del padre Anchise, e di Didone; e san Paolo, che secondo la tradizione cristiana fu assunto al terzo cielo (If. II, 32). Enea e Paolo rinviano ai due testi fondamentali di Dante: l’Eneide e la Bibbia. Sono le due polarità di tutta la sua formazione culturale, dall’epoca della Vita nuova. Da un lato l’humanitas dei classici, rappresentata dal personaggio che subito compare come guida del pellegrino, lo stesso Virgilio, simbolo del livello più alto al quale può arrivare la ragione umana nella sua autonomia. Dall’altro la luce della fede, il messaggio divino del cristianesimo, per il quale servirà una nuova e più alta guida, quella stessa Beatrice che nella Vita nuova era apparsa sensibilmente, nella realtà contingente di un corpo mortale, al giovane Dante. Punto di partenza della Commedia dovette comunque essere l’idea di un viaggio allegorico, simile a quello descritto dal maestro Brunetto nel Tesoretto: un viaggio in cui raccontare tutto, ma veramente tutto, quello che stava accadendo, in quel terribile inizio del Trecento, all’umanità, e a lui stesso, Dante, vittima dell’ingiustizia degli uomini. Il colpo d’ala di Dante fu quello di fondere, in un’unica opera, gli spunti che gli venivano da generi diversi, dalla visione del mondo dell’oltretomba al racconto di viaggio. Se bisognava raccontare un viaggio nell’oltretomba, bisognava naturalmente misurarsi col modello classico di Virgilio, dal quale viene ripresa una parte consistente dell’imagerie dell’Inferno: i fiumi infernali, l’antinferno, la città di Dite, i mostri mitologici e i guardiani, alcuni dei supplizi. Mentre il mondo pagano prevedeva, oltre la morte, un unico regno infernale governato da Ade, l’oltretomba cristiano si divideva nettamente in Inferno e Paradiso: due regni ai quali l’anima veniva destinata per l’eternità, in base alle azioni svolte nella vita terrena. Il Purgatorio (assente nei poemetti di Giacomino



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e Bonvesino) era una novità teologica dell’ultim’ora, proposto dal Concilio di Lione nel 1274, una sorta di regno intermedio, di passaggio, nel quale le anime dovevano espiare, per un tempo determinato, colpe più lievi. Dante ne accetta la realtà per gettare un ponte fra l’eterno e il contingente, e anche per completare la perfezione di una struttura ternaria: una Commedia scandita in tre cantiche, e in tre regni, l’Inferno, il Purgatorio, il Paradiso (If. I,112-29). La Commedia è fondata su un’idea di struttura morale, che deriva dall’Etica Nicomachea di Aristotele, filtrata dai commenti medievali, e dalla dottrina della Chiesa. Recependo la dottrina scolastica sul libero arbitrio, Dante riconosce maggiore o minore gravità al peccato a seconda del consentimento della volontà. Di conseguenza, i peccati meno gravi sono quelli in cui, più che la volontà, ha influito una predisposizione, un’inclinazione, una situazione (a questa categoria appartiene per esempio la colpa della lussuria, della concupiscenza carnale; ad un livello medio, perché considerata violenza contro natura, è l’omosessualità); i peccati più gravi sono invece quelli in cui la libera volontà e la stessa intelligenza si voltano consapevolmente verso il male, diventano ‘progetto’ di male (la corruzione, la falsità, l’ipocrisia, l’inganno, il tradimento). L’ordine morale viene tradotto da Dante in un ordine ‘fisico’, e cosmologico. Se il male è allontamento dal bene, allora questa gradualità può essere ‘vista’ nella stessa struttura dell’Inferno: un’immensa voragine causata, all’inizio dei tempi, quando Lucifero e gli angeli ribelli precipitarono dal cielo, e la terra, inorridita, si ritrasse. Le balze e le terrazze di questa enorme cavità ospitano i ‘gironi’ infernali, in un ordine rovesciato che va dal peccato più lieve a quello più grave. La parte di mondo ‘fuggita’ da Lucifero (solidamente conficcato al centro della terra) è finita agli antipodi, a formare l’immensa montagna del Purgatorio, al centro del mare Oceano, sormontata dal primordiale Paradiso Terrestre: e anche l’ascesa di questa montagna avviene per mezzo di ‘cornici’, che più o meno corrispondono ai sette peccati capitali. Intorno alla sfera terrestre girano le orbite dei pianeti (derivate dal sistema tolemaico), ad ognuna delle quali si collega un ordine angelico, e una categoria di spiriti beati, fino alla visione finale dell’empireo e della gloria divina. La struttura è a sua volta fondata su una grandiosa architettura tripartita. Ogni cantica conta trentatré canti (l’Inferno trentaquattro, perché il primo canto funge da proemio all’intera opera), per un totale di cento canti, e complessivi 14.233 versi endecasillabi (i canti non hanno misura fissa, ma oscillano tra i 115 e i 160 versi). La numerologia continua ad avere un

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grande valore per Dante. I cento canti sono un segno di perfezione, perché risultato del prodotto del numero perfetto 10 per se stesso. Spesso ripetuto è il numero 7, cifra delle Virtù ma anche dei Vizi, dei Doni dello Spirito Santo, delle Arti Liberali ecc. Il numero 9 (cifra dei cieli, e delle gerarchie angeliche) segna nuovamente il ritorno di Beatrice. Il centro esatto dell’opera (i canti XVI e XVII del Purgatorio) è dedicato ai temi fondamentali del libero arbitrio (da cui scaturisce l’intero ordine morale) e dell’amore. Di più, fra le tre cantiche, come se fossero tre navate di una cattedrale, o tre piani sovrapposti di un edificio, si instaurano alcune evidenti e non casuali corrispondenze di situazione (ad esempio, il canto VI affronta, in ogni cantica, il tema politico, perché il numero 6, nell’esegesi medievale, rinvia di solito alla sfera terrena), e di parole (ogni cantica si conclude con la parola ‘stelle’). Ma il numero assolutamente dominante è il 3, associato alla Trinità, che è il mistero di fede contenuto nell’ultima visione del Paradiso (Pd. XXXIII). In un certo senso, è lo stesso mistero che percorre la Commedia, dalla prima all’ultima parola, per mezzo del metro utilizzato da Dante, la terzina, modulo rimico basato sullo schema ABA BCB CDC, e così via: ogni gruppo di tre rime si ‘incatena’ al gruppo precedente e successivo, in un gioco potenzialmente infinito, e ‘aperto’ (a differenza della sestina, sistema ‘chiuso’, perché dopo la sesta strofa la struttura tornava al punto di partenza). Si tratta di una straordinaria invenzione formale di Dante, in parte spiegabile solo con il suo lungo sperimentalismo metrico, dalle prime rime fino alle ‘petrose’ (anzi, proprio nelle ‘petrose’ e nelle poesie ‘comiche’ si approfondisce lo studio della rima, in tutte le sue possibilità espressive, anche quelle più aspre e difficili). Schemi di terzine ‘chiuse’ erano già presenti nei sonetti, mentre poemi, poemetti, sirventesi, erano normalmente strutture ‘aperte’. Dante contaminò le tradizioni precedenti, e creò una forma praticamente perfetta, che superava qualunque altro esempio di versificazione fino ad allora tentato nelle letterature medievali. Il titolo Commedia non significa affatto, per Dante, un’opera in stile ‘comico’, ma piuttosto un’opera globale in cui siano rappresentati tutti gli stili. Continuo è il passaggio, lo switching, da uno stile ad un altro (basso e alto, comico, tragico, elegiaco), al di là delle frontiere dei generi e dei modi (romanzesco, fiabesco, lirico, didascalico, storico). Un pluristilismo globale (pur se con tonalità differenti nell’adattamento alla materia prevalente delle tre cantiche: l’Inferno ‘basso’, il Purgatorio ‘medio’, il Paradiso ‘alto’), a cui corrisponde un plurilinguismo di fatto, innestato sulla base fiorentina della lingua poetica dell’autore, ampliata a molteplici esperienze (dal latino agli altri volgari), e alla continua creazione di nuove parole.



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Visio o fictio? Già i primi commentatori si interrogavano sulla questione se Dante avesse visitato veramente l’oltretomba, o se si fosse trattato solo di una sublime invenzione letteraria. Per il lettore medievale, la domanda era seria, visto che all’epoca gente che giurava di aver visto cose straordinarie ce n’era tanta. Oggi, semmai, la domanda da porre è un’altra: come avrebbe voluto Dante che la sua opera fosse letta, indipendentemente dal fatto che quel viaggio fosse reale o inventato? La risposta è semplice: sicuramente come una visio, come il racconto di un’esperienza reale. Il livello di rappresentazione è tale da non lasciare dubbi. Il racconto procede incalzante, senza digressioni dell’autore (se digressioni dottrinali ci sono, sono sempre consegnate ai dialoghi fra i personaggi). Siamo dunque di fronte ad una struttura narrativa di straordinaria coerenza, in cui la focalizzazione tende al massimo livello di oggettività, nonostante l’intera vicenda sia narrata in prima persona, da un Dante su più livelli, in cui contemporaneamente è riconoscibile (nel tempo interno del racconto) il Dante personaggio e attore del viaggio, il pellegrino, il penitente, il discepolo, e poi (nel tempo esterno della scrittura) il Dante reale fra 1306 e 1321, il poeta e l’esule. La funzione emozionale, nella Commedia, non è cifra di soggettività, ma elemento di ‘certificazione’, come nelle scritture agiografiche e nella tradizione cristiana: è l’io del testimone, di chi dice: “Io ero lì, e ho visto”. Racconto di un viaggio, dunque, che è speculare al ‘viaggio’ esistenziale di Dante negli anni dell’esilio, una vera discesa all’Inferno prima, e un lungo cammino di sofferenza e privazione poi. Mentre Dante racconta il viaggio ultraterreno, cammina realmente nelle strade del mondo. Ogni viaggio avviene nello spazio e nel tempo. Il tempo ‘interno’ è idealmente fissato alla Settimana Santa dell’anno 1300: un anno importante nella storia della Cristianità, perché vi si celebrò il primo Giubileo, indetto a Roma da Bonifacio VIII. Mentre migliaia di pellegrini convergevano verso la Città Santa, Dante svolge un suo straordinario pellegrinaggio, simile però allo schema penitenziale del Giubileo, che prevede non solo la visita ‘fisica’ delle grandi Basiliche, ma anche la meditazione dei peccati commessi, e la loro purgazione. Il tempo del viaggio (come è stato evidenziato) corre in modo del tutto simbolico. Nell’Inferno, regno della notte del peccato e della privazione della luce, non c’è una percezione precisa del suo passaggio, se non con richiami al mondo di superficie. Diversa sarà la condizione del Purgatorio, vero regno della temporalità (perché è nel tempo che si svolge il processo di purificazione), dove anzi il succedersi di giorno e notte (allegoricamente, la luce della grazia, e il ritorno alla tenebra del peccato) dà modo a Dante di dipingere memorabili rappresentazioni di albe, crepuscoli, tramonti. Nel Paradiso, il tempo non sarà più il tempo dell’uomo, ma quello del cosmo,

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del movimento siderale, dell’armonia delle sfere, fino al suo annullamento nella visione di Dio. Lo scarto fra tempo interno (il tempo del viaggio, collocato nell’anno 1300, al “mezzo del cammin” della vita di Dante, che ha 35 anni) e tempo esterno (il periodo di composizione della Commedia, 1306-1321) ha come conseguenza la possibilità di raccontare anche eventi posteriori al 1300, in forma di profezie pronunciate dai personaggi incontrati lungo la strada. Il ‘futuro’ di Dante personaggio corrisponde al ‘presente’ di Dante autore. Il registro profetico è un’altra componente fondamentale della Commedia, e contribuisce ad elevarne il tono tragico. In questo la Commedia è ancora di più una visio, cioè una ‘visione’ di cose ultraterrene simile a quelle raccontate dai profeti biblici (Isaia, Ezechiele), dall’Apocalisse e dai profeti medievali (Gioacchino da Fiore). Le profezie vengono emesse con un linguaggio enigmatico, oscuro, soprattutto quelle che si riferiscono a Dante, e che saranno ‘aperte’, spiegate nel loro significato, solo nella parte finale del viaggio, nel Paradiso, da parte dell’avo Cacciaguida. La struttura narrativa della storia non è lineare, ma continuamente proiettata in avanti, verso un futuro ancora da venire, ma già passato per chi scrive (flashforward); oppure curvata all’indietro, nei racconti dei personaggi incontrati da Dante (flashback). Un fenomeno che complica l’interpretazione, perché moltiplica il senso storico-letterale, e rende quindi più mobile, sfuggente, quello allegorico, mai univoco (come invece accadeva nella letteratura allegorica medievale). È in questa terra di nessuno tra la lettera e l’allegoria che si attua il miracolo della poesia della Commedia, una poesia che illumina globalmente ogni singola parte della struttura. Una poesia che acquista carattere di modernità, e di apertura ad un nuovo orizzonte, quando si fa rappresentazione di vicende umane, attraverso l’invenzione di ‘personaggi’ che sono a tutti gli effetti i personaggi di un dramma universale, la storia dell’umanità. Quelle ‘figure’, dopo la morte, lasciano la mutevolezza del tempo umano, ed entrano nella condizione dell’eterno: non possono aggiungere più nulla a ciò che hanno fatto in vita, la loro ‘figura’ è ‘compiuta’ per sempre. Dante interpreta questo rapporto fra umano ed eterno inventando un procedimento di rappresentazione (definito ‘realismo figurale’) basato su elementi fortemente ‘realistici’ (la descrizione fisica, il movimento e lo stile, il modo di parlare, l’espressione di sentimenti e stati d’animo) ma proiettati sulla condizione eterna della ‘figura compiuta’. L’allegoria è allora qualcosa di più che una sovrastruttura culturale, è un costitutivo genetico della poesia dantesca. La descrizione fisica rinvia sempre ad una realtà spirituale, ed è per questo che, nella discesa dell’Inferno, le fattezze umane acquistano sempre più caratteri



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bestiali, o diventano del tutto irriconoscibili. Ma l’irriconoscibilità tornerà anche nel Paradiso, dove l’umano sarà soverchiato e abbagliato dalla luce del divino. Molti di questi personaggi sentono il bisogno di raccontare a Dante le loro storie individuali. Si trattava di gente famosa, e di storie (magari anche banali) che tutti, all’epoca di Dante, conoscevano, dalla cronaca nera a quella politica: l’assassinio di due amanti da parte del marito tradito (Francesca e Paolo), il crudele supplizio di un traditore (Ugolino della Gherardesca), la fine tragica (e, secondo l’opinione popolare, meritata) di alcuni ghibellini (Manfredi, Bonconte da Montefeltro). Dante non ha bisogno di raccontare di nuovo i fatti, lavora per ellissi, li lascia sottintesi. I suoi personaggi rivelano se stessi invece in dettagli segreti, come se fosse stato possibile spiarli dal buco di una serratura, o nella profondità imperscrutabile della loro anima, e del loro rapporto privato con Dio. Francesca racconta in modo mirabile il momento dell’innamoramento, del tremore dell’amante nel momento in cui sfiora le sue labbra nel primo bacio; il resto non conta. Manfredi e Bonconte, che tutti si aspettavano di trovare all’Inferno, si scoprono in Purgatorio, perché si sono pentiti all’ultimo momento. Si tratta, a tutti gli effetti, di ‘novelle’, spesso ‘tragiche’, quindi in stile alto, come si conveniva a personaggi di rango elevato. Lo schematismo esemplare (tipico della letteratura medievale, sacra e profana, e basato sulla ripetizione di exempla morali sovratemporali ed astratti) appare ormai superato grazie al realismo figurale, che dà autonomia e vita e passione reale al personaggio. La Commedia è quindi anche un ‘libro di novelle’, un testo narrativo che il lettore contemporaneo sentiva vicino alla narrativa storica, in quanto i fatti narrati erano veri; e quindi vicino alla cronaca, perché la Commedia, con tutta la passione politica di Dante, è anche il grande libro che racconta la storia italiana del Due-Trecento, la cronaca dell’oggi e di uno ieri appena trascorso, nello scontro fra papato e impero, e nelle convulsioni interne della civiltà comunale, su cui si staglia l’immagine di Firenze, odiata e sempre desiderata dal poeta esule. Inferno La narrazione inizia presentando Dante smarrito di notte in una selva oscura (allegoria del peccato), e che all’alba tenta di salire un colle per raggiungere la luce del sole, ma viene bloccato da tre fiere, una lonza, un leone e una lupa (allegoria di lussuria, superbia e avarizia). Ad aiutarlo appare un’ombra, che si rivela essere Virgilio, e che prospetta a Dante il viaggio da compiere per raggiungere la salvezza, attraverso l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso (I). Dante ha paura, vorrebbe rinunciare, ma Virgilio lo convince a seguirlo, ricordando di

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essere stato mandato addirittura da Beatrice, intermediaria della Vergine Maria (II). Terrificante è l’ingresso attraverso la porta dell’Inferno, oltre la quale è la prima visione degli ignavi, costretti a correre senza posa dietro ad una bandiera (secondo la regola del contrappasso, che prevede una pena rovesciata rispetto al peccato compiuto). Oltre il primo fiume infernale, l’Acheronte, attraversato a bordo della barca di Caronte (III), è il primo cerchio, il limbo, luogo esente dai supplizi, sede delle anime che non conobbero il messaggio di Cristo, grandi spiriti antichi, come Omero, Orazio, Ovidio, Lucano, e lo stesso Virgilio (IV). Il secondo cerchio, aperto da Minosse che giudica i dannati, è riservato ai lussuriosi, trascinati eternamente da una bufera, in cui Dante riconosce Francesca e Paolo; e Francesca racconta la tragica storia del suo amore (è il primo grande incontro di Dante)(V). Nel terzo cerchio, fra i golosi, tormentati da una pioggia ‘maledetta’ e dal mostro Cerbero, Dante trova il fiorentino Ciacco, che emette la prima oscura profezia sulle lotte fra Bianchi e Neri (VI). Il quarto cerchio, sorvegliato da Pluto, ospita i prodighi e gli avari, che spingono giganteschi pietroni in direzioni opposte; nel quinto cerchio sono invece iracondi e accidiosi, immersi nelle acque melmose dello Stige (VII). Il passaggio del fiume, sulla barca di Flegiàs, è movimentato dall’apparizione dell’iracondo Filippo Argenti; giunti alle mura della città di Dite, Dante e Virgilio vengono respinti dai diavoli (VIII), e riescono ad entrare solo grazie all’aiuto di un angelo (IX). Il sesto cerchio offre un macabro paesaggio di tombe scoperchiate, che ospitano gli eretici, tra i quali Dante incontra il ghibellino Farinata degli Uberti (che profetizza di nuovo) e Cavalcante Cavalcanti padre di Guido (X). Dopo una spiegazione della struttura dell’Inferno da parte di Virgilio (XI), attraverso una grandiosa frana (originata dal terremoto avvenuto alla morte di Cristo) si passa nel settimo cerchio, dove sono puniti i violenti, custoditi dal Minotauro e divisi in tre gruppi; il primo è quello dei violenti contro il prossimo, immersi nel fiume di sangue bollente Flegetonte e tormentati dai centauri (XII). Segue una strana boscaglia, le cui piante rinsecchite sono in realtà le anime dei suicidi, violenti contro se stessi: Dante se ne accorge spezzando un ramo, da cui escono “parole e sangue” del cancelliere imperiale Pier delle Vigne; due anime di scialacquatori (altra forma di violenza contro se stessi) sono invece dilaniate da cani infernali (XIII). Il terzo e ultimo gruppo di violenti si trova in una landa desertica, sotto una pioggia di fuoco: prima i violenti contro Dio (XIV), poi i violenti contro natura, cioè i sodomiti, tra i quali Dante riconosce la figura paterna del maestro Brunetto Latini, che profetizza ancora sul futuro di Dante (XV), e poi i guelfi fiorentini Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandi e Iacopo Rusticucci, cui Dante riferisce della decadenza di Firenze (XVI); infine i violenti contro arte, vale a dire gli usurai. Arduo è il passaggio all’ottavo cerchio, in sella al mostro volante Gerione, figura del peccato: un cerchio immenso, che ospita le dieci Malebolge (letteralmente, ‘bolgia’ significa ‘borsa’, ‘tasca’), riservate ai fraudolenti verso chi non si fida (XVII). Nella prima bolgia, dannati a procedere in due schiere opposte, sono i ruffiani, fra i quali emerge il bolognese Venedico Caccianemico, e i seduttori, ove si riconosce Giasone. Nella seconda bolgia degli adulatori, tuffati negli escrementi, Dante vede Alessio Inter-



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minelli da Lucca e la puttana Taide (XVIII). Nella terza bolgia, una groviera di pietra bucherellata, i simoniaci sono ficcati a testa in giù nei buchi: tra essi è addirittura papa Niccolò III, che sta aspettando l’arrivo dei suoi colleghi Bonifacio VIII e Clemente V (XIX). Gli indovini, maghi e astrologhi, nella quarta bolgia, presentano la testa voltata al contrario rispetto al corpo, stravolgimento della figura umana che commuove Dante (XX). Nella pece bollente della quarta bolgia sono i barattieri, arpionati dai diavoli (qui rappresentati secondo la tradizione medievale, e in modo quasi ‘comico’), con il cui capo Malacoda Virgilio cerca di stipulare un accordo per l’incolumità sua e di Dante (XXI). Dopo l’episodio comico di un dannato, Ciampolo di Navarra, che riesce a sfuggire agli uncini dei diavoli, facendo cadere anche loro nella pece (XXII), Dante e Virgilio cominciano a fuggire, temendo giustamente l’inganno dei demoni, e riescono ad arrivare alla sesta bolgia degli ipocriti, dove si trova Caifas gran sacerdote del Sinedrio che condannò Gesù, e i bolognesi ‘frati gaudenti’ Catalano dei Malavolti e Loderingo degli Andalò (XXIII). Segue la settima bolgia dei ladri, condannati alla perpetua metamorfosi con dei serpenti: uno di loro, Vanni Fucci, profetizza ancora contro Dante (XXIV), bestemmiando poi Dio, e venendo subito punito, mentre altri ladri si trasformano in serpenti, e viceversa, tra i quali i fiorentini Puccio Sciancato e Francesco Cavalcanti (XXV). È naturale allora per Dante erompere in un’invettiva contro Firenze, prima di scendere all’ottava bolgia dei consiglieri fraudolenti, uno strano paesaggio sparso di fiammelle, che si rivelano essere le anime dei dannati: uno di loro è il grande Ulisse, che racconta le vicende del suo ultimo tragico viaggio, e che è quasi controfigura dello stesso Dante (XXVI); prende poi la parola Guido da Montefeltro, punito per i consigli malvagi dati a Bonifacio VIII (XXVII). Nella nona bolgia i seminatori di discordie (Maometto, il romagnolo Pier da Medicina, il fiorentino Mosca de’ Lamberti, e perfino il trovatore Bertran de Born; e forse anche un parente di Dante, Geri del Bello) sono orrendamente feriti e squartati (XXVIII). Nella decima e ultima bolgia i falsari sono colpiti da terribili malattie, e tra essi Griffolino d’Arezzo e Capocchio da Siena (XXIX), azzannati da Gianni Schicchi e Mirra, mentre Dante si intrattiene con Maestro Adamo (XXX). Segue un immane fossato circolare sul cui contorno sembra di vedere delle torri: in realtà i Giganti che custodiscono il nono e ultimo cerchio dell’Inferno, riservato ai fraudolenti contro chi si fida, cioè i traditori, un livido paesaggio ghiacciato che imprigiona le anime. Uno dei Giganti è Nembrot, colpevole della Torre di Babele; un altro, Anteo, con la mano enorme depone i due pellegrini sul fondo (XXXI). La prima zona, la Caina, è quella dei traditori dei congiunti, soprattutto personaggi contemporanei, protagonisti delle tremende lotte intestine delle città italiane; nella seconda zona, detta Antenora, si trovano i traditori della patria, il fiorentino Bocca degli Abati, e uno strano personaggio intento a rodere il cranio di un altro (XXXII): il celebre conte Ugolino, condannato a morire di fame a Pisa, che racconta la parte più umana della sua vicenda, il supplizio patito insieme ai figli innocenti, di cui il padre, sconvolto dalla fame e dal dolore, finisce col cibarsi. Oltre sono i traditori degli ospiti (frate Alberigo e Michele Zanche), nella cosiddetta Tolomea (XXXIII).

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Infine, nel fondo più fondo, è la Giudecca, dove i traditori di Dio e dell’impero, Giuda, Bruto e Cassio, sono dilaniati nelle tre bocche di Lucifero, immenso re dell’Inferno, che emerge per metà dal ghiaccio. Aggrappandosi al pelo di Lucifero Dante e Virgilio riescono a superare il centro della terra, e ad imboccare un lunghissimo budello che li porta dall’altra parte del mondo, finalmente “a riveder le stelle” (XXXIV). Purgatorio Dopo un’invocazione alle Muse, il racconto ricomincia con la visione del pianeta Venere e di quattro stelle; nell’alba compare il custode del Purgatorio, Catone l’Uticense, morto suicida per difendere la libertà al tempo di Cesare, e figura emblematica della dirittura morale. Sulla spiaggia Dante esegue un rito di purificazione (I). Giunge una barca, guidata da un Angelo, e ne scendono le anime che cantano il salmo In exitu Israel: tra esse, un amico di Dante, il musico Casella, che inizia a cantare proprio la canzone dantesca Amor che nella mente mi ragiona (II). Da un altro gruppo di anime, gli scomunicati, incontrato ai piedi di una parete insuperabile, si stacca la figura di Manfredi, figlio di Federico II, ucciso nella battaglia di Benevento nel 1266, ma salvato dal suo estremo pentimento (III). Per uno stretto sentiero si sale ad una piana che ospita gli spiriti negligenti, fra i quali è il fiorentino Belacqua (IV). Più avanti, tra i morti di morte violenta, raccontano la loro storia Iacopo del Cassero, il ghibellino Buonconte da Montefeltro morto alla battaglia di Campaldino, e la senese Pia de’ Tolomei (V). In disparte, da solo, il mantovano Sordello, la cui figura ispira a Dante il lamento sulle tristi condizioni politiche d’Italia, e di Firenze, “Ahi serva Italia, di dolore ostello” (VI). Guidati da Sordello, Dante e Virgilio raggiungono poi la valletta dei principi, anch’essi puniti per la loro negligenza nell’operare il bene: attraverso i loro nomi e le loro dinastie, Dante tratteggia un ampio quadro dell’Europa del suo tempo (VII). Mentre cala l’oscurità, due angeli scendono per mettere in fuga un malefico serpente; poi Dante ha ancora il tempo di parlare con il giudice pisano Nino Visconti, e Corrado Malaspina, che gli profetizza la parte dell’esilio che si svolgerà in Lunigiana; ma ormai è notte, e con l’oscurità (segno dell’assenza momentanea della grazia divina) è necessario fermarsi (VIII). Nel sonno, Dante ha un sogno di un’aquila d’oro che lo porta nella sfera del fuoco, e al risveglio, all’alba, apprende da Virgilio di essere stato effettivamente portato da Lucia in alto, alla porta del Purgatorio, dove un angelo con una spada scrive sulla fronte di Dante sette P, simboli dei sette peccati capitali dai quali bisognerà purificarsi (IX). Oltre la porta è il primo girone dei superbi (caricati di enormi massi) intorno ad una parete rocciosa intagliata a rilievo con tre episodi della storia sacra e profana, exempla legati al tema dell’umiltà (l’Annunciazione, la danza di David, e l’aneddoto dell’imperatore Traiano che rende giustizia ad una vedova), e momento di fusione di linguaggio verbale e linguaggio iconico, il “visibile parlare” (X). I superbi recitano il Pater noster, e tra essi prendono la parola Omberto Aldo-



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brandeschi, e il miniatore Oderisi da Gubbio, che afferma la vanità della gloria umana, con gli esempi di Cimabue e Giotto nella pittura, e Guido Guinizzelli e Guido Cavalcanti nella poesia, e additando infine l’anima di Provenzan Salvani (XI). Anche per terra si scorgono delle immagini, ma si tratta di esempi di superbia punita. Dopo l’angelo guardiano, i due pellegrini escono dal girone, e Dante si accorge di avere una P in meno sulla fronte, cosa che avverrà in tutti i successivi passaggi di girone, segno di progressiva purificazione (XII). Nel secondo girone sono gli invidiosi, vestiti come mendicanti cenciosi, i cui occhi sono cuciti col fil di ferro, e Dante ha modo di parlare con la senese Sapia (XIII); poi Guido del Duca se la prende con le città toscane della valle dell’Arno, e ricorda con nostalgia la propria terra, la Romagna; intanto i consueti esempi sono pronunciati da voci invisibili (XIV). Un altro angelo guardiano segna l’ascesa al terzo girone degli iracondi, in cui appaiono tre visioni di mansuetudine, poi un fumo nero avvolge tutto (XV), e a Dante parla, senza essere visto, Marco Lombardo, che espone la dottrina del libero arbitrio (XVI). Oltre il fumo, ancora tre visioni, ma di iracondia punita, e un altro angelo, mentre Virgilio discetta su questioni morali e sulla struttura del Purgatorio (XVII). Ormai è sera, nel quarto girone degli accidiosi, condannati a correre senza posa, gridando esempi di sollecitudine e di accidia punita, e tra essi l’abate di San Zeno di Verona, poi Dante si addormenta (XVIII). Alla fine della notte, poco prima dell’alba, Dante ha un secondo sogno, una donna balbuziente e orrenda che però, sotto la lente deformante del desiderio sessuale, sembra una bella ‘sirena’ che canta dolcemente, ma giunge un’altra donna che svela l’inganno: sogno che, secondo Virgilio, rappresenta l’inganno del peccato. Nel quinto girone di avari e prodighi, costretti a stare distesi a terra, Dante distingue il papa Adriano V (XIX), e poi pronuncia un’invettiva contro la ‘lupa’, simbolo dell’avarizia. Interviene Ugo Capeto, fondatore della dinastia reale francese, arrabbiato contro i suoi stessi discendenti; all’improvviso si sente un misterioso terremoto, le anime gioiscono, ma Dante è impaurito (XX). Compare un’anima, che spiega che la sacra montagna si ‘commuove’ quando qualcuno finisce il suo periodo di purgazione: appunto lui, il poeta latino Stazio (XXI), che racconta la storia della sua conversione cristiana, avvenuta proprio grazie alla lettura dei testi di Virgilio (in particolare la IV egloga). I tre arrivano al sesto girone dei golosi, condannati al desiderio insoddisfatto della fame e della sete (XXII), e ridotti a scheletriche larve umane, in cui è quasi impossibile riconoscere il viso di Forese Donati amico di Dante, che inveisce contro le sfacciate donne fiorentine (XXIII), o quello del poeta Bonagiunta Orbicciani, che riconosce in Dante l’autore di Donne ch’avete intelletto d’amore, avvio della poetica del ‘dolce stil novo’ (XXIV). Ripreso il cammino, Stazio spiega a Dante perché le anime, entità spirituali, possano sentire fame e sete (e quindi interagire col mondo fisico, dall’Inferno in poi): un pretesto per richiamare le dottrine scolastiche sull’anima umana e sulla generazione di Alberto Magno e Tommaso, contro Averroé (XXV). Il settimo e ultimo girone è riservato ai lussuriosi, tormentati dal fuoco, tra i quali Dante incontra Guido Guinizzelli, riconosciuto come ‘maestro’, e il trovatore Arnaut Daniel, “il miglior fabbro” della poesia volgare, che addit-

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tura gli parla in lingua provenzale (XXVI). L’ultima prova che Dante deve superare è l’attraversamento del muro di fuoco, oltre il quale i tre pellegrini si fermano, a dormire per l’ultima notte; Dante ha un terzo sogno, le figure bibliche di Lia e Rachele (la vita attiva e la vita contemplativa). All’alba ricomincia il cammino, e Virgilio preannuncia il prossimo cambio di guida: non più lui, ma Beatrice (XXVII). Dante entra nella meravigliosa selva del Paradiso terrestre, dove incontra Matelda (XXVIII), lungo il corso del fiume Lete, che toglie il ricordo del peccato (un altro fiume, Eunoé, riporta il ricordo del bene); ed ecco che appare una processione di sette candelabri, ventiquattro vegliardi, quattro animali straordinari, un carro trionfale tirato da un grifone, ai cui lati danzano sette donne, e infine altri sette vecchi (allegoria dei libri della Bibbia) (XXIX). In una nuvola di fiori, sul carro, è Beatrice, mentre Dante si accorge della scomparsa di Virgilio. In questo primo incontro Beatrice è durissima, e rimprovera a Dante i suoi passati traviamenti, per i quali chiede autentico pentimento (XXX). Dante, sopraffatto dai sentimenti, sviene e cade nel Lete, ma ne è tirato fuori, purificato, da Matelda (XXXI), e assiste poi alla metamorfosi del carro, assalito da un’aquila, da una volpe e da un dragone, e poi trasformato in un mostro a sette teste su cui siede una puttana, accompagnata da un gigante: complessa allegoria politica, derivata dall’Apocalisse, che rappresenta la storia dell’impero e della Chiesa (XXXII). Beatrice annuncia il prossimo arrivo di un imperatore (segnato dal numero magico 515) che restaurerà la giustizia. Infine Dante è immerso nelle acque dell’Eunoé, fiume che riporta la memoria del bene, ed è ormai pronto a salire in Paradiso, verso le “stelle” (XXXIII). Paradiso Dopo il proemio e l’invocazione ad Apollo, Dante riprende la narrazione. È mezzogiorno, e Dante comincia miracolosamente a salire verso l’alto, lo sguardo fisso negli occhi di Beatrice (I). Giunto nel primo cielo della Luna, ascolta Beatrice spiegare la causa delle macchie lunari, non fisica ma spirituale (II), e scorge poi alcuni visi sfocati, gli spiriti inadempienti per violenza altrui: tra essi, Piccarda Donati, sorella di Forese, che gli racconta la propria storia, e che presenta poi la sua compagna, l’imperatrice Costanza (III). Beatrice chiarisce a Dante alcuni dubbi: la differenza tra volontà assoluta e volontà relativa, la ragione per cui le anime appaiano nei diversi cieli, pur risiedendo in realtà solo nell’Empireo (IV), e la questione dell’inadempienza ai voti religiosi. Ma l’ascesa, rapidissima, continua. Dante e Beatrice giungono nel secondo cielo di Mercurio, in cui appaiono gli spiriti attivi per desiderio di gloria (V). Prende la parola lo spirito dell’imperatore Giustiniano, che presenta la storia dell’impero romano attraverso le vicende del suo simbolo supremo, l’Aquila, fino al tempo di Dante, e introduce poi Romeo di Villanova, la cui vicenda di triste esilio sembra alludere a quella dello stesso Dante (VI). Beatrice spiega a Dante un punto del discorso di Giustiniano relativo alla distruzione di Gerusalemme ad opera di Tito, come punizione del popolo ebraico a causa della morte di Cristo;



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e interviene anche sulla dottrina della corruttibilità del mondo fisico, a differenza di quello spirituale (VII). Intanto Dante e Beatrice sono ormai al terzo cielo di Venere, ove compare il primo degli spiriti amanti, citando la canzone dantesca Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete. Stupore di Dante: si tratta del principe Carlo Martello d’Angiò, che era stato a Firenze ed era addirittura diventato amico di Dante. Ora Carlo, riferendosi alla propria famiglia (i fratelli Ludovico e Roberto d’Angiò, dei quali il primo sarebbe divenuto vescovo di Tolosa e santo, e il secondo re di Napoli), spiega come mai da una buona origine possa nascere una cattiva progenie (VIII). Intervengono poi Cunizza da Romano, e il trovatore Folchetto, che si lancia in un’invettiva contro Firenze, ormai corrotta dalla cupidigia, come la stessa Chiesa (IX). Dante e Beatrice salgono al quarto cielo del Sole, tra gli spiriti sapienti emerge san Tommaso d’Aquino, che presenta gli altri filosofi e teologi medievali (X), e soprattutto illustra la straordinaria storia di san Francesco d’Assisi, focalizzata sul matrimonio mistico con Madonna Povertà (XI). Tocca poi a san Bonaventura fare il panegirico di san Domenico, trattando anche dell’attuale decadimento morale dell’ordine francescano, e indicando a Dante altri spiriti sapienti (XII). Interviene ancora Tommaso, con un discorso sulla sapienza di Salomone (XIII), che a sua volta spiega a Dante che la luce divina è eterna, e splenderà eternamente ai beati, anche quando essi risorgeranno col corpo glorioso. Dante e Beatrice salgono poi al quinto cielo di Marte, in cui gli spiriti combattenti si dispongono a formare una croce, nella quale si distingue la figura di Cristo (XIV). Dalla croce scende lo spirito di Cacciaguida, trisavolo di Dante crociato al tempo dell’imperatore Corrado III, che evoca prima con nostalgia la Firenze incorrotta dei suoi tempi (XV), poi ricorda a Dante la storia della sua famiglia, inveendo contro la Firenze attuale (XVI), e infine scioglie le varie profezie di esilio udite da Dante nel corso del suo viaggio, esortandolo a raccontare con coraggio le cose vedute (XVII). Continua l’ascesa al sesto cielo di Giove, tra gli spiriti giusti, che formano la frase Diligite iustitiam qui iudicatis terram, e poi, continuando la loro danza sulla ultima lettera M, la trasformano nella figura di un’Aquila, uccello sacro a Giove nell’antica mitologia, e simbolo di giustizia (XVIII). È l’Aquila stessa a parlare, affermando l’imperscrutabilità del giudizio divino nella salvezza delle anime (XIX). In essa si distinguono i grandi operatori di giustizia nella storia dell’umanità, da Davide a Traiano (XX). Dante e Beatrice salgono ancora al settimo cielo di Saturno, associato agli spiriti contemplativi, che salgono e scendono per una scala d’oro che si perde all’infinito verso l’alto (la stessa che apparve nel sogno biblico di Giacobbe): tra essi, san Pier Damiani, grande teologo medievale, che discetta sul tema della predestinazione (XXI); poi san Benedetto, che lamenta la decadenza degli ordini religiosi. Dante e Beatrice salgono rapidissimi la scala: Dante guarda in basso, contemplando le orbite degli astri, e giù, nel fondo, la Terra, che appare da tanta altezza una minuscola sfera: “l’aiuola che ci fa tanto feroci” (XXII). Nell’ottavo cielo delle stelle fisse gli appare ora la prima visione estatica, il trionfo di Cristo, circondato dalla miriade di luci dei beati (XXIII). In successione, i tre grandi Apostoli interrogano Dante sulle tre virtù teologali: san Pietro sulla Fede (XXIV), poi

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(dopo una digressione di Beatrice sugli angeli) (XXV) san Giacomo sulla Speranza, e infine san Giovanni sulla Carità (seguito dall’importante apparizione dell’anima del primo uomo, Adamo, che tratta anche dell’origine del linguaggio umano) (XXVI). I beati cantano il Gloria, ma san Pietro pronuncia una terribile invettiva contro la Chiesa corrotta. Continua l’ascesa al nono cielo, il Primo mobile, mentre Dante guarda per un’ultima volta la Terra (XXVII). Fissando gli occhi di Beatrice scorge un punto luminoso, si volta per guardarlo e ne è accecato: è un punto (Dio) intorno al quale girano nove cerchi concentrici di fuoco, che corrispondono, in un’immagine rovesciata, alla struttura concentrica del cosmo. Gli Angeli si dispongono su ogni cerchio, in tre ordini di tre gruppi ciascuno (XXVIII), in una complessa gerarchia spiegata da Beatrice (XXIX). Finalmente giunto nel decimo e ultimo cielo Empireo, Dante vede la gloria dei beati, come un immenso fiume di luce, che assume poi la forma di una Candida Rosa (XXX). Rapito dalla visione, Dante si volge verso Beatrice, e non la trova più. Al suo posto un vecchio vestito di bianco, il mistico medievale san Bernardo di Chiaravalle, che sarà sua guida alla fine del viaggio (XXXI), e che indica a Dante la Vergine Maria, le anime beate intorno a lei, tra cui Beatrice, e gli altri beati della Rosa (XXXII). Infine, san Bernardo si rivolge direttamente a Maria¸ “Vergine Madre”, affinché, grazie alla sua intercessione, Dante possa giungere alla visione finale di Dio. Visione in cui appare la ragione di tutte le cose, e lo stesso mistero della Trinità, nella forma cangiante di tre cerchi uguali ma di diversi colori. La visione è indicibile, ineffabile, non raccontabile, per l’insufficienza della ragione umana, e di ogni strumento linguistico. Dante torna sulla Terra purificato, ormai guidato da “l’amor che move il sole e l’altre stelle” (XXXIII).

Bibliografia Edizioni complessive delle opere: Le opere di Dante, a c. della Società Dantesca Italiana, Firenze, Bemporad, 1921; Opere minori, Milano-Napoli, Ricciardi, 1979-1988. Repertori enciclopedici: Enciclopedia Dantesca, diretta da U. Bosco, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1970-1978; The Dante Encyclopedia, ed. ���������������� R. Lansing, New York- London, Garland, 2000. Monografie: G. Padoan, Introduzione a Dante, Firenze, Sansoni 1995; E. Malato, Dante, Roma, Salerno, 2002; C. Ledda, Dante, Bologna, Il Mulino, 2008; G. Gorni, Dante: storia di un visionario, Roma-Bari, Laterza, 2008. Studi critici complessivi: F. De Sanctis, Lezioni e saggi su Dante, Torino, Einaudi, 1955; B. Croce, La poesia di Dante, Bari, Laterza, 1921; E. Auerbach, Studi su Dante (1963), Milano, Feltrinelli, 1988 (con i saggi fondamentali Dante poeta del mondo terreno, e Figura; la lettura di If. X è invece in Mimesis, cit. in I, 1); G. Contini, Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino, Einaudi, 1976 (con l’analisi del sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare).



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Sugli orizzonti culturali, politici e filosofici: E. Moore, Studies in Dante, Oxford, Clarendon Press, 1896-1917; E. Gilson, Dante e la filosofia (1939), Milano, Jaca Book, 1987; B. Nardi, Dante e la cultura medievale (1949), Roma-Bari, Laterza, 1990; G. Muresu, Dante politico, Torino, Paravia, 1979; P. Boyde, L’uomo nel cosmo. Filosofia della natura e poesia in Dante, Bologna, Il Mulino, 1984; C. Segre, Fuori del mondo. I modelli nella follia e nelle immagini dell’aldilà, Torino, Einaudi, 1990; M. Asín Palacios, Dante e l’Islam (1927), Parma, Pratiche, 1994; Dante e la scienza, a c. di P. Boyde e V. Russo, Ravenna, Longo, 1995; P. Dronke, Dante e le tradizioni latine medievali, Bologna, Il Mulino, 1990; M. Corti, Scritti su Cavalcanti e Dante, Torino, Einaudi, 2003 (ristampa dei saggi precedenti La felicità mentale. Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, 1983; e Percorsi dell’invenzione. Il linguaggio poetico e Dante, 1993, con un importante contributo su Ulisse); S. Debenedetti Stow, Dante e la mistica ebraica, Firenze, Giuntina, 2004. Su questioni di carattere filologico: M. Barbi, Problemi di critica dantesca (1893-1937), Firenze, Sansoni, 1975. Riviste specializzate: “Studi danteschi”, “Dante Studies”, “L’Alighieri”, “Dante”. Risorse in rete: Società Dantesca Italiana (www.danteonline.it), Italica – Rai International (www.italica.rai.it/principali/dante), The World of Dante, a c. di D. Parker, Virginia University, Charlottesville (www.worldofdante.org), Digital Dante, a c. di T. Barolini e R.O. McClintock, Columbia University (dante.ilt.columbia.edu), Danteworlds, University of Texas, Austin (danteworlds.laits.utexas.edu), The Princeton Dante Project (etcweb.princeton.edu/dante), Dartmouth Dante Project, database dei commenti della Commedia (dante.dartmouth.edu). 4.1. La vita. M. Barbi, Vita di Dante, Firenze, Sansoni, 1965; G. Petrocchi, Vita di Dante, RomaBari, Laterza, 1983; J. Risset, Dante. Una vita, Milano, Rizzoli, 1995. Cfr. anche C.T. Davis, L’Italia di Dante, Bologna, Il Mulino, 1988. 4.2. Rime della giovinezza. Edizioni: Rime della “Vita nuova” e della giovinezza, a c. di M. Barbi e F. Maggini, Firenze, Le Monnier, 1956; Rime, a c. di D. De Robertis, Firenze, Le Lettere, 2002. Cfr. P. Boyde, Retorica e stile nella lirica di Dante, Napoli, Liguori, 1979. 4.3. Vita nuova. Edizioni: Vita nuova, a c. di M. Barbi, Firenze, Bemporad, 1932; Vita nuova, a c. di D. De Robertis, in Opere minori, vol. I, parte I, Milano-Napoli, Ricciardi, 1984; Vita Nova, a c. di G. Gorni, Torino, Einaudi, 1996. Un’ed. economica con buon commento, a c. di L.C. Rossi, Milano, Mondadori, 1999. Studi: Ch.S. Singleton, Saggio sulla “Vita Nuova” (1958), Bologna, Il Mulino, 1968;

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Testo e contesto. Semiotica dell’arte e della cultura, Bari, Laterza, 1980 (con una lettura dell’Ulisse dantesco); V. Hollander, Il Virgilio dantesco: tragedia nella Commedia, Firenze, Olschki, 1983; V. Russo, Il romanzo teologico. Sondaggi sulla Commedia di Dante, Napoli, Liguori, 1984; R. Mercuri, Semantica di Gerione. Il motivo del viaggio nella Commedia di Dante, Roma, Bulzoni, 1984; G. Bárberi Squarotti, L’ombra di Argo. Studi sulla Commedia, Torino, Genesi, 1986; J. Freccero, Dante. La poetica della conversione, Bologna, Il Mulino, 1989; F. Ferrucci, Il poema del desiderio. Poetica e passione in Dante, Milano, Leonardo, 1990; G. Muresu, I ladri di Malebolge, Roma, Bulzoni, 1991, e Tra gli adepti di Sodoma, Roma, Bulzoni, 2002; G. Padoan, Il lungo cammino del “poema sacro”. Studi danteschi, Firenze, Olschki, 1993; T. Barolini, Il miglior fabbro. Dante e i poeti della Commedia, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, e La Commedia senza Dio. Dante e la creazione di una realtà virtuale, Milano, Feltrinelli, 2003; C. Bologna, Il ritorno di Beatrice. Simmetrie dantesche fra “Vita Nova” e “Commedia”, Roma, Salerno, 1998; Z.G. Baranski, Dante e i segni. Saggi per una storia intellettuale di Dante Alighieri, Napoli, Liguori, 2000; E. Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, Milano, Bruno Mondadori, 2001; U. Carpi, La nobiltà di Dante, Firenze, Polistampa, 2004. Introduzioni alla lettura della Commedia: U. Dotti, La Divina Commedia e la città dell’uomo. Introduzione alla lettura di Dante, Roma, Donzelli, 1996; G. Inglese, Dante. Guida alla Divina Commedia, Roma, Carocci, 2001.

Parte II Il Rinascimento

1. Il primo Trecento

1.1. Crisi del Medioevo All’inizio del Trecento le strutture fondamentali della civiltà medievale entrano in una crisi profonda. Il papato che con Bonifacio VIII sembrava aver raggiunto il livello di supremazia teocratica perseguito da quasi un secolo, dal pontificato di Innocenzo III, passa sotto la tutela interessata della monarchia francese, e trasferisce la propria sede da Roma ad Avignone (13081377); il ritorno dei papi a Roma avverrà solo con Urbano V (1370), e poi definitivamente con Gregorio XI (1377), ma questo avrebbe provocato il gravissimo Scisma d’Occidente, cioè la separazione di quanti continuavano a riconoscere un papa legittimo ad Avignone (1378-1412). L’impero, dopo la discesa di Arrigo VII e la sua morte improvvisa (1313), rinuncia gradualmente alla politica d’influenza in Italia e nell’Europa occidentale, orientando la sua sfera d’azione, con la dinastia di Boemia, e poi d’Asburgo, all’Europa centrale e orientale. Nuovi e più potenti soggetti politici stanno emergendo, i primi stati nazionali, la Francia e l’Inghilterra, che si fronteggiano nella lunga e sanguinosa Guerra dei Cento Anni (13371453). A Oriente, l’impero bizantino (già piegato dagli stessi occidentali con la Quarta Crociata del 1204) sta per crollare definitivamente sotto i colpi degli invasori Turchi. L’economia europea attraversa periodici momenti di crisi, determinati dalla coesistenza di sistemi ormai conflittuali: da una parte la residua società feudale, dall’altra la sempre più crescente circolazione di prodotti e di uomini, l’apertura di nuovi mercati, la nascita di strumenti finanziari, di capitali e di banche. Questo fenomeno interessa direttamente l’Italia, che nel corso dei secoli XII-XIII si era proiettata verso il Mediterraneo orientale, con le Crociate e le Repubbliche Marinare, e verso l’intera Europa, con i mercanti e gli agenti di cambio delle sue città, soprattutto della Toscana. Nella prima grande

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‘globalizzazione’ della società medievale, l’Italia risente in prima linea dei contraccolpi di quanto accade nel continente: la crisi della monarchia francese, la Guerra dei Cento Anni, e soprattutto grandi eventi collettivi che si manifestano a più riprese, come le carestie, e le pestilenze, culminate nella terribile Peste Nera, che spopola l’Europa tra 1347 e 1350. Falliscono le banche principali, come i Bardi e i Peruzzi a Firenze, per l’insolvenza dei loro debitori europei. Le città diventano ingovernabili, per le lotte tra le diverse fazioni politiche, e le prime rivolte di classe, delle maestranze e dei lavoratori sottoposti alle logiche sempre più stringenti del profitto, come accadde nel Tumulto dei Ciompi (Firenze 1378). In molte città le istituzioni politiche comunali, di tipo assembleare e repubblicano, lasciano il posto all’effettivo esercizio del potere da parte di una sola famiglia, più ricca o potente delle altre, nelle forme di governo della Signoria, e poi del Principato. Il fenomeno è più rapido al Nord, dove già dal Duecento grandi famiglie di origine feudale prendono stabilmente il potere nelle città più importanti, costituendo delle vere e proprie ‘corti’: prima in Veneto, a Treviso (i Da Romano), Verona (gli Scaligeri), Padova (i Da Carrara), poi a Milano (i Visconti), Mantova (i Gonzaga), Ferrara (gli Estensi). Il sistema italiano, in assenza di un’entità più forte delle altre, capace di unificare la penisola (come stava accadendo in altri paesi europei), tende a costituirsi come un sistema di stati regionali, cui corrisponde una sostanziale autonomia anche culturale e linguistica. Alla metà del Trecento, delle antiche repubbliche marinare, restano solo, come potenze marittime di rango mediterraneo, Genova e Venezia, entrambe con una fitta rete di domini e colonie in Oriente. Pisa sta per essere assorbita nell’orbita di Firenze, che espande la sua influenza sul resto della Toscana, contrastata da Lucca e soprattutto da Siena. Lo Stato della Chiesa versa in una situazione di grave anarchia, culminata nel tentativo di costituzione di una repubblica romana (1347) da parte del tribuno Cola di Rienzo (ucciso però nel 1353), e il suo controllo sarà recuperato solo dalla ferrea azione del cardinale Albornoz (1350-1370), in vista del ritorno dei Papi a Roma. Al Sud il regno di Napoli (anche dopo la perdita della Sicilia, ribellatasi con i Vespri siciliani, e diventata dominio aragonese) si configura, sotto il regno di Roberto d’Angiò, come un forte stato, di grande rilevanza europea e mediterranea, ma, dopo la morte del re (1343), viene coinvolto nella decadenza dinastica degli Angioini. Nel complesso, i contemporanei hanno l’impressione di vivere in un mondo profondamente cambiato rispetto al passato: un mondo dominato dalla mutevolezza, piuttosto che dalla stabilità, e in cui la Fortuna (comunque sempre presente nell’immaginario medievale) perde il carattere moralistico di



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strumento rivelatore delle vanità umane (dal potere mondano alla ricchezza), per diventare il segno enigmatico del caos, dell’irrazionalità. In questa graduale perdita del significato è coinvolto anche il senso della Morte, che può apparire, nelle grandi pestilenze, come un flagello universale e livellatore. Gli affreschi del Trionfo della Morte al Camposanto di Pisa (1336-1342) sono basati sul contrasto drammatico fra i piaceri illusori della vita terrena e la realtà macabra della dissoluzione fisica. Una nuova visione della vita, con maggiori inquietudini e minori certezze, ne scopre la profondità e l’altezza, e la posizione dell’uomo sotto un cielo che può essere autonomo da influenze metafisiche o spirituali. Tale visione si riflette, innanzitutto, nelle arti figurative, con Giotto, e con la scuola senese, da Duccio a Simone Martini. Lo spazio si è dilatato, e il mondo è diventato più piccolo. Il tempo scorre molto più velocemente, e diventa misurabile con maggior precisione, grazie all’invenzione degli orologi meccanici. Forse il cambiamento della percezione del tempo porta ad un radicale cambiamento della musica, con l’invenzione dell’Ars Nova (titolo di un trattato di Philippe de Vitry), che introduceva la tecnica della polifonia, della sovrapposizione di voci e linee melodiche diverse, una architettura di suoni analoga alle strutture verticali delle cattedrali gotiche.

1.2. La cultura veneta Il Veneto, nel corso del Duecento, rappresenta per più aspetti una regione d’avanguardia nella cultura italiana, laboratorio di esperienze culturali in cui si incrociavano le istanze delle nuove letterature volgari europee (in provenzale o in francese) e della cultura mediolatina, orientata sulla definizione di un primato della poesia, e del recupero della memoria degli Antichi. La presenza di insigni resti archeologici a Verona, e di importanti biblioteche come la Capitolare di Verona e quella della vetusta abbazia di Pomposa, favorisce un clima di ricerca di testi antichi, che in alcuni casi erano rimasti sconosciuti da secoli, o tramandati da manoscritti scorretti. È questo il caso delle tragedie di Seneca, ritrovate a Pomposa dal padovano Lovato Lovati (1241-1309), o dello stesso Livio, oggetto di una venerazione particolare nella città, Padova, che si vantava di avergli dato i natali. Fra questi intellettuali, emerge la figura del notaio padovano Albertino Mussato (1261-1329), attivo anche nella vita politica della sua città, come ambasciatore a Bonifacio VIII e poi ad Arrigo VII, avversario di Cangrande della Scala, ed esule a Chioggia nel 1328. Incoronato poeta nel 1315, il Mussato scrisse opere storiche in latino fortemente legate alla contempora-

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neità (Historia Augusta de gestis Henrici VII, e De gestis Italicorum post mortem Henrici VII); e soprattutto una tragedia latina, l’Ecerinis, sull’efferato tiranno di Treviso, Ezzelino da Romano. Apparentemente, si trattava di una tragedia ‘storica’, perché riferita ad eventi accaduti cento anni prima: in realtà, il vero bersaglio di Mussato era il nuovo tiranno di Verona, Cangrande, che minacciava la libertà di Padova. Nello stile, la tragedia (la prima nella letteratura italiana) si segnala per la consapevole imitazione delle tragedie di Seneca, appena riscoperte, e dalle quali deriva il gusto per una rappresentazione cupa e sanguinaria, basata sulla figura diabolica di Ezzelino. In latino nasceva anche la storiografia ufficiale veneziana, con le cronache scritte dallo stesso doge Andrea Dandolo, mentre la narrativa d’evasione del genere cavalleresco preferiva ricorrere alla lingua franco-veneta, per testi che ebbero grande fortuna di pubblico, soprattutto nell’ambiente raffinato delle corti padane, come quella degli Estensi: i Geste Francor, e l’Entrée d’Espagne (Padova 1320), racconto dell’innamoramento di Orlando per una bella saracena, continuato da Niccolò da Verona ne La prise de Pampelune (1343). La svolta decisiva verso la letteratura volgare veniva intanto preparata, oltre che dalle presenze di Dante e poi di Petrarca, dall’attiva opera di mediazione di poeti come Niccolò de’ Rossi, che a Treviso, entro la metà del Trecento, oltre ad una sua interessante produzione lirica, compilò un’importante antologia di poesia in provenzale, francese e toscano.

1.3. Lettori di Dante La pubblicazione della Commedia, e lo stesso peregrinare di Dante fra Italia centrale e settentrionale nei due primi decenni del Trecento, in città come Bologna e Verona, ebbero un impatto enorme sulla cultura contemporanea. Un primo, e più limitato, livello di ricezione è quello che si attuò nella produzione di testi che, in un modo o nell’altro, si richiamavano alla situazione strutturale della Commedia (il poema didascalico e allegorico, di solito racconto di un viaggio fantastico, o di una visione), riprendendone anche la più importante invenzione metrica, la terzina. Il primo episodio, in ordine cronologico, marca, in verità, non un’imitazione, ma un’opposizione, così radicale da individuare in quell’opera una sorta di anti-Commedia: si tratta dell’Acerba di Francesco Stabili, detto Cecco d’Ascoli (Ascoli 1269-Firenze 1327), medico e astrologo esperto della cultura scientifica araba, commentatore della Sfera di Giovanni Sacrobosco e dell’Alcabizio, e perciò considerato, nella società tardomedievale, un po’ stregone e un po’ mago, accusato di aver stretto un patto col Diavolo sui Monti Sibillini, e bruciato vivo a Firenze.



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Cecco non era così pericoloso, ma pagò di persona le superstizioni e le lotte politiche del suo tempo. Apertamente debitore nei confronti del progetto globale della Commedia, Cecco vorrebbe cantare la verità della Natura in modo diretto, e senza la finzione allegorica dantesca: “Qui non se canta al modo de le rane, / qui non se canta al modo del poeta / che finge imaginando cose vane”; e perfino nella metrica Cecco cerca di cambiare, mutando le terzine incatenate aperte in terzine ‘chiuse’ (in realtà stanze di sei versi, con rime ABACBC). Nonostante tutto, l’Acerba, incompiuto poema in quattro libri sul cosmo, l’uomo, e le meraviglie della natura (soprattutto quelle tramandate da bestiari e lapidari), è testimonianza preziosa del momento di passaggio dalla cultura medievale alla ricerca scientifica moderna, già avviata nel Duecento da filosofi come Ruggero Bacone e Alberto Magno. Più ristretta (e meno pericolosa per gli autori) opera compilativa sono gli altri poemi allegorici del Trecento, in terzine dantesche: il Dittamondo di Fazio degli Uberti (Pisa ca. 1305-ca. 1367), un viaggio erudito guidato dai geografi antichi Tolomeo e Solino; e il Quadriregio di Federico Frezzi (ca. 1390), un monaco di Foligno che crede di superare Dante, immaginando di viaggiare per ben quattro ‘regni’ (quelli di Amore, di Satana, dei vizi e delle Virtù), guidato da Minerva. La ricezione dantesca avvenne invece soprattutto sul piano della lettura e dell’esegesi della Commedia, segno di un rapido mutamento del contesto culturale tra la generazione di Dante e quelle immediatamente successive, per le quali diventava sempre più difficile capire la profondità dottrinale e teologica, e anche, in alcuni casi, i riferimenti storici e cronachistici. Erano quindi necessari dei commenti, e la Commedia fu il primo testo della letteratura italiana ad essere oggetto di spiegazione sistematica, in forma scritta, sui margini dei manoscritti, come si usava allora solo per i classici latini o i testi biblici; e poi in forma orale, nelle letture pubbliche di canti del poema (Lectura Dantis). Commenti non univoci, ma documento fondamentale della diffrazione interpretativa di un’opera che, in modi diversi, avrebbe comunque segnato per sempre la tradizione letteraria italiana ed europea. Tra l’altro, bisognerebbe osservare che la prima forma di ‘interpretazione’, in molti di quei manoscritti, fu costituita dalle miniature, dall’apparato illustrativo: le immagini permettevano al lettore di ‘vedere’ direttamente Dante e Virgilio, o le bolge dell’Inferno, e dimostravano anche il forte carattere ‘visivo’ della poesia di Dante. Scrissero commenti alla Commedia gli stessi figli del poeta, interessati alla riabilitazione morale e intellettuale del padre, Iacopo di Dante per il solo Inferno (1322), e Pietro di Dante, più attento all’individuazione delle fonti (1341-1348). A Firenze, Andrea Lancia, nel commento detto l’Ottimo

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(1333-1334), approfondì gli aspetti anche linguistici e intertestuali, mentre il frate carmelitano Guido da Pisa ebbe a insistere sulla lettura profetica e visionaria (1340). A Bologna, importante centro di cultura universitaria dove insegnava il corrispondente di Dante, Giovanni del Virgilio, scrissero i loro commenti Iacopo della Lana (1330), e in latino Graziolo de’ Bambagioli, per il solo Inferno (1323), e Benvenuto Rambaldi da Imola (1375): protagonista, quest’ultimo esegeta, di una pubblica lettura in cui l’esperienza di insegnamento dei classici (Virgilio, Lucano, Valerio Massimo, e anche le egloghe di Petrarca) si applicava ad un autore come Dante, percepito ormai come un ‘classico’. Il più grande cultore di Dante, nel Trecento, fu sicuramente Boccaccio, che ne fu lettore precoce (anche di testi che noi non conosciamo, come il sirventese per le belle donne fiorentine, imitato nella Caccia di Diana), imitatore della Commedia (nel poema allegorico Amorosa visione), e soprattutto copista delle opere dantesche, al punto da fissarne stabilmente il testo (la cosiddetta ‘vulgata’). Negli ultimi anni fu incaricato dalla Signoria di leggere la Commedia a Firenze (1373-1374), lettura interrotta però al canto XVII dell’Inferno. Oltre il testo di quelle Esposizioni, restava un’opera intera di ricostruzione della vita di Dante, il Trattatello in laude di Dante (iniziato nel 1351-52), ideato per precedere la raccolta delle sue opere, in intelligenti operazioni ‘editoriali’ predisposte dallo stesso Boccaccio, e testimoniate ancora da alcuni suoi manoscritti autografi.

1.4. Le cronache La cronaca, nel Trecento, diventa una delle forme di scrittura più adatte alla registrazione della contemporaneità. In questa operazione è determinante la posizione del cronista, il suo particolare punto di vista, e quindi l’io dello scrivente, come era già avvenuto per Dino Compagni. Apparentemente sembra fare un passo indietro, rispetto al Compagni, Giovanni Villani (Firenze ca. 1280-1348), perché la sua Nuova cronica ha all’inizio una struttura universalistica, e parte dalle origini del mondo. Poi, però, si concentra soprattutto sul periodo vissuto dallo stesso autore, e anzi identifica in un momento preciso l’ispirazione della scrittura storica, nell’anno emblematico del Giubileo del 1300, quando il giovane Villani si trovava a Roma, e veniva suggestionato dai resti imponenti della civiltà degli Antichi, come anche dalla lettura dei classici, Virgilio, Sallustio, Lucano, Livio. Giovanni non era uno scrittore di professione, o un letterato, ma un mercante, partecipe della vita politica di Firenze (era guelfo ‘nero’), coinvolto nella crisi economica del 1346, e morto



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di peste nel 1348. La sua cronaca (iniziata dopo il 1322), sospesa tra modernità e municipalismo, è così documento attento della società contemporanea, anche in aspetti fino ad allora trascurati, come l’economia e il commercio; e per di più, nella peculiare tradizione fiorentina basata sulla ‘famiglia’, diventa una specie di ‘libro di famiglia’, continuato dal fratello Matteo († 1363), e poi dal nipote Filippo († 1405, ormai anche umanista, autore del Liber de origine civitatis Florentiae et eiusdem famosis civibus). A Napoli la scrittura cronachistica è il prodotto non di un contesto familiare e borghese (come in Toscana), ma della registrazione degli eventi ad opera di funzionari della corte regia. Uno di loro compone la prima parte della Cronaca di Partenope (ca. 1326), primo testo letterario in volgare napoletano, denso di notizie favolose sulle origini della città, e sulla leggenda medievale di Virgilio mago, mentre le tre parti successive (compilate dal nobile Bartolomeo Caracciolo ed altri cortigiani) percorrono la storia contemporanea di Napoli (rapidamente decaduta dopo la morte di re Roberto, e insanguinata da diverse tragedie dinastiche), riprendendo la stessa cronaca del Villani. A Roma, negli stessi anni, il punto di vista del cronista è decisivo nella redazione di una Cronica, già detta dell’Anonimo Romano, e ora recentemente attribuita al medico Bartolomeo di Iacopo da Valmontone, al servizio del potente cardinale Ildebrandino Conti. Si tratta di un vivido affresco di Roma negli anni 1325-1354, teatro di grandi rivolgimenti in cui si stagliano le figure di eroi moderni ma tratteggiati ‘all’antica’, come il tribuno Cola di Rienzo. Il testo, composto prima in latino (perduto), fu poi tradotto in volgare romanesco, in uno stile fortemente rappresentativo, anche per l’asserzione di testimonianza autentica che l’autore vuole fornire: “E io le viddi e sentille”. In arcaiche quartine di alessandrini canta la giovane storia della sua città, L’Aquila (fondata nel 1254), Buccio di Ranallo (1295-1363) nella Cronaca aquilana. E affine, per ricezione di pubblico e per vicinanza temporale degli eventi trattati, anche se già mitizzati in un contesto cavalleresco, è la prosa narrativa romanzesca dell’Avventuroso Siciliano (1340) di Bosone da Gubbio, che racconta le avventure di cinque baroni siciliani, cavalieri erranti alla fine del Duecento.

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- Bosone da Gubbio, L’avventuroso siciliano, a c. di R. Gigliucci, Roma, Bulzoni, 1989.

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2.1. La vita Francesco di Petracco nasce ad Arezzo nel 1304 da un notaio fiorentino, ser Pietro di Parenzo di Garzo dell’Incisa, detto Petracco. Coinvolto negli stessi torbidi politici vissuti da Dante, come Dante Petracco era stato costretto alla fuga nella ghibellina Arezzo, con una condanna ad una multa e al taglio della mano. In realtà, il piccolo Francesco dimora con la famiglia, e soprattutto con la madre, Eletta Canigiani, e il fratello minore Gherardo, nella casa avita dell’Incisa, donde si sposta a Pisa, quando il padre vi raggiunge la corte dell’imperatore Arrigo VII. Alla morte di Arrigo (1313), la famiglia si trasferisce in Provenza, alla corte papale di Avignone, dove, tra esuli o mercanti fiorentini e grandi ecclesiastici, ser Petracco può tentare di ricostruirsi una vita. La famiglia risiede nella più economica e tranquilla Carpentras, dove Francesco inizia lo studio delle discipline del ‘trivio’ (grammatica, dialettica e retorica) con il maestro e poeta Convenevole da Prato, e svolge poi studi di diritto a Montpellier (1316-1320), dove lo raggiunge la notizia della morte della madre (1320). Il padre Petracco invia allora a Bologna i fratelli Francesco e Gherardo, per completare gli studi di diritto: proposito presto disatteso, perché il clima intellettuale bolognese (tra cultura universitaria latina e suggestioni della letteratura volgare: Dante era ancora vivo, e Giovanni del Virgilio spiegava i classici) orienta i due giovani allo studio appassionato delle lettere. Studio comunque non osteggiato dal padre, che dona al figlio i primi, costosi manoscritti di testi classici: soprattutto lo splendido Virgilio Ambrosiano, monumentale collezione delle opere virgiliane col commento di Servio. Il soggiorno bolognese finisce bruscamente nel 1326, con la morte del padre. Francesco torna ad Avignone (1326-1337), e entra a far parte della cerchia di una famiglia romana molto influente in curia, i Colonna, come

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familiare di Giacomo Colonna vescovo di Lombez (1327-1330), e cappellano del cardinale Giovanni Colonna (1330-1347). Francesco diventa quindi ‘chierico’, membro della struttura ecclesiastica ma senza gli ordini sacerdotali, e dai benefici economici legati a questa posizione avrà, negli anni successivi, quella libertà d’azione che potrà garantirne la piena libertà intellettuale. Nell’ambiente internazionale di Avignone, compie anche le sue esperienze culturali fondamentali: la conoscenza straordinaria dei classici latini (Virgilio, Orazio lirico, Ovidio, i poeti elegiaci e satirici), quale nessuno prima di lui, nel Medioevo, aveva raggiunto, anche grazie al ritrovamento di testi sconosciuti (le orazioni di Cicerone, trovate a Liegi nel 1333, tra cui la Pro Archia), o al restauro filologico di autori come Livio (nel manoscritto oggi a Londra, Harleiano 2493). Con quegli autori Francesco inizia un dialogo personale, serrato, fatto di appunti e postille sui margini dei manoscritti, il suo tesoro più prezioso (come ricorda nel 1333 nella prima lista dei “libri mei peculiares”, nel codice Parigino latino 2201). Allo stesso tempo approfondisce la lettura dei Padri della Chiesa, da Girolamo ad Agostino, da Ambrogio a Lattanzio, e la meditazione sulla condizione umana, favorita anche dalla frequentazione del monaco agostiniano Dionigi di Borgo San Sepolcro. Ad Avignone avviene l’evento fondamentale della sua vita: il 6 aprile del 1327, nella chiesa di Santa Chiara, l’incontro con una donna di nome Laura, forse della nobile famiglia de Sade. È un amore sconvolgente, per una donna irraggiungibile, oggetto del desiderio che scatena nel poeta un’intensa fantasia erotica, proiettata nelle sue prime poesie in volgare, e che lo porta a far dipingere un ritratto dell’amata al celebre pittore senese Simone Martini (che eseguirà anche una grande miniatura sul codice di Virgilio). Intorno a Laura Francesco costruisce il suo mito più grande, ripreso dal mito antico di Apollo e Dafne, la ninfa che si trasforma in ‘lauro’ nell’istante in cui viene toccata dal dio. Forse in questo periodo il poeta si inventò il suo classicheggiante ‘nome d’arte’, Petrarca, rinunciando al brutto Franciscus Petracchi, e richiamandosi invece al mito di Medusa. Alla donna che diventa ‘legno’ (Laura-Dafne-lauro) corrisponde infatti l’amante che si muta in ‘pietra’ (Petrarca-pietra). Dopo un primo, entusiasmante viaggio a Roma presso i Colonna (1337), vera scoperta personale del mito della classicità, Francesco torna ad Avignone (1337-1341), ma inizia anche a distaccarsene, in quella ricerca dialettica della solitudine che marcherà tutta la sua vita. Come rifugio personale, compra quindi una casa nella campagna sulle rive del fiume Sorgue, a Vaucluse (Valchiusa), dove gli nascono, da donne non identificate, i figli Giovanni (1337) e Francesca (1343), e dove comincia a scrivere le prime importanti opere letterarie in latino, il De viris illustribus e il poema Africa. Proprio la



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fama procurata dal poema gli fruttò la coronazione poetica a Roma, l’8 aprile 1341, in Campidoglio (dopo un esame sostenuto a Napoli presso re Roberto d’Angiò): un viaggio importante, che trattenne Petrarca in Italia fino al 1342, a Parma, presso l’amico e signore Azzo di Correggio, che gli consentì il ritiro in un nuovo rifugio, a Selvapiana. Tornato ad Avignone (1342-1343), Petrarca incontra il monaco calabrese Barlaam, con cui cerca di iniziare lo studio del greco, ma deve affrontare anche un momento di acuta crisi morale, di ripensamento della propria condizione esistenziale, sospesa tra vane attività mondane (la poesia e il desiderio di gloria, l’amore per Laura), e la tensione per una più alta spiritualità. Crisi acuita dalla conversione del fratello Gherardo, che diventa monaco certosino a Montrieux (1342); e riflessa poi nella composizione di opere come il De vita solitaria (1346), il De otio religioso e il Secretum (1347). Petrarca andrà a trovare Gherardo proprio nel 1347, dopo un altro turbolento viaggio in Italia (1343-45), che lo porta di nuovo a Napoli (1343), del tutto cambiata dopo la morte di re Roberto, e poi a Parma, assediata dalla guerra (1344-45), e finalmente nella pace degli studi a Verona, dove scopre un codice con le epistole Ad Atticum di Cicerone (1345). Il richiamo dell’Italia è fortissimo, soprattutto quando Cola di Rienzo (conosciuto da Petrarca nel 1342) sale al potere a Roma (1347). L’entusiasmo di Petrarca è di breve durata, ma intanto egli è tornato in Italia, a Verona (1347), e a Parma, dove lo raggiungono le notizie tragiche della peste che devasta l’Europa, e uccide i suoi più grandi amici: il poeta Sennuccio Del Bene, il cardinale Giovanni Colonna, e soprattutto, il 6 aprile 1348, Laura. Petrarca ormai resta in Italia. Raccoglie le sue lettere familiari, e rivede le opere precedenti. Andando a Roma per il Giubileo incontra a Firenze Boccaccio (1350), che lo visita poi a Padova, offrendogli una cattedra allo studio fiorentino, e restando a lui legato per sempre, in un comune sodalizio intellettuale: tra l’altro, sarà Boccaccio a mediare l’incontro con Leonzio Pilato, che insegnerà un po’ di greco a Petrarca, e gli tradurrà in latino i poemi di Omero. Dopo un ultimo breve ritorno a Valchiusa, e nella ormai odiata Avignone (1351-1353), Petrarca si stabilisce a Milano, presso l’arcivescovo e signore Giovanni Visconti (1353-1361), per il quale svolge importanti ambascerie europee, all’imperatore Carlo IV a Praga (1356) e al re di Francia Giovanni II a Parigi (1361). Si sposta poi a Padova (1361), Venezia, con passaggi a Pavia e Ferrara (1362-1367), e infine a Padova (1368), presso i Da Carrara, e nell’ultimo rifugio della villa di Arquà, nei Colli Euganei, dove muore nel 1374.

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2.2. Rerum vulgarium fragmenta Probabilmente la prima produzione letteraria di Francesco, tra Avignone, Montpellier e Bologna, avvenne sotto il segno della poesia, e in particolare della poesia in volgare. Era un apprendistato quasi inevitabile, per un giovane fiorentino ‘fuori di casa’, per marcare un recupero personale della lingua materna, e della cultura familiare. In famiglia, il bisnonno, Garzo dell’Incisa, era stato poeta in volgare, autore di laude. Sono gli anni della prima diffusione della Commedia, forse letta precocemente da Francesco, insieme ai testi della poesia lirica provenzale e italiana, con iniziale predilezione verso i campioni del trobar clus, di una poesia raffinata ed elitaria, molto attenta all’elaborazione formale (Arnaut, Cavalcanti, Dante petroso), e poi verso gli ultimi esponenti della poesia ‘nuova’ toscana, emigrati verso Napoli e la Provenza, Cino da Pistoia e Sennuccio Del Bene, che rinunciano allo sperimentalismo linguistico e stilistico, e lavorano alla formazione di una ‘maniera’, basata su una lingua poetica più ristretta e definita. Petrarca apportò, in questa tradizione, alcune novità radicali. Innanzitutto il peso di una personale e straordinaria formazione classica, di una profonda lettura dei poeti antichi (anche rari, come Orazio lirico, Properzio, Tibullo, e poi lo sconosciuto Catullo, riscoperto a Verona), che gli forniscono un nuovo repertorio di immagini e situazioni, in particolare nell’ambito della mitologia (studiata nelle Metamorfosi di Ovidio, ma anche in altri testi tardoantichi e medievali), per la prima volta utilizzata non in chiave allegorico-morale, ma come forte paradigma esistenziale. Petrarca sente la necessità di ‘vedere’ con occhi nuovi quei miti, di ricreare quelle ‘favole’ come se fossero attuali, e questo spiega anche il suo forte interesse per la loro ‘visualizzazione’, attraverso la tecnica della descrizione. Dai classici, più che dai moderni, deriva l’impulso a raccogliere le ‘cose volgari’ in una struttura unitaria, in un ‘libro’ di rime, in un ‘canzoniere’ individuale, operazione che nessuno dei precedenti poeti in volgare aveva tentato: i ‘canzonieri’ erano stati fino a quel momento manoscritti collettivi, e le eccezioni più cospicue erano costituite dal laudario di Iacopone, e dal prosimetro della Vita nuova di Dante. L’elemento di aggregazione fu l’innamoramento di Laura, nel 1327: e già nel 1330, in una postilla ad un codice di Orazio, Petrarca ricorda un suo primo ‘libello’, probabilmente di rime volgari, che dovevano essere relative alla storia d’amore per Laura. Tra 1336 e 1338 alcuni di quei testi sono ricopiati e rielaborati in un altro manoscritto (il Vaticano latino 3196, detto ‘codice degli abbozzi’): si tratta di ventidue sonetti, tra i quali spiccano i due testi sul ritratto di Laura eseguito da Simone



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Martini (R.V.F. 77-78), e dell’inizio della canzone Nel dolce tempo della prima etade (R.V.F. 23), basata su una serie di metamorfosi in parte derivate da Ovidio, ma già indicative della riscrittura ‘mitica’ della storia di Francesco e Laura, come la favola di Apollo e Dafne. È importante però notare come la prima poesia volgare di Petrarca non sia un esperimento solitario, ma presenti anche molti testi di corrispondenza, segno di una comunicazione costante con altri poeti contemporanei, e di formazione di un proprio pubblico, capace di comprendere i senhals del nuovo cifrario d’amore; e testi pubblici erano anche quelli non ‘amorosi’, ispirati a tematiche politiche e morali, dal lamento sulle tristi condizioni dell’Italia all’invettiva contro la corruzione della corte avignonese, chiamata ‘nuova Babilonia’. Una nuova raccolta del 1342 ci dà anche il primo testo proemiale, il sonetto Apollo, s’ancor vive il bel desio (R.V.F. 34), che insiste sulla cifra mitologica della storia, e che viene sostituito, nella posizione di apertura, solo verso il 1349-1350, con la composizione di Voi ch’ascoltando in rime sparse il suono. Il nuovo proemio si rivolge al pubblico del ‘libro’, indicando un possibile titolo (Rime sparse), e dando una chiave di lettura diversa, possibile solo dopo la morte di Laura (1348): non più la totalizzante storia d’amore Francesco-Laura, ma la storia dell’anima di Francesco, nei suoi movimenti dialettici di pulsione alle vanità della vita (il “primo giovanile errore”), e di pentimento spirituale. Il canzoniere attraversa allora fasi diverse: una raccolta (non pervenuta) fatta preparare per l’amico Azzo da Correggio (la cosiddetta ‘forma Correggio’, 170 testi: 1357); un manoscritto autografo di Boccaccio, col titolo Fragmentorum liber, e con divisione tra rime ‘in vita’ e ‘in morte’ di Laura (la ‘forma Chigi’, nel Vaticano Chigiano L.V.76, 215 testi: 1362-1366); e finalmente, nel 1366, l’inizio della trascrizione dell’opera completa, a cura del giovane copista Giovanni Malpaghini, nel codice Vaticano latino 3195, fonte di altre trascrizioni intermedie, e completato dallo stesso Petrarca fino al 1374 (anche con l’esclusione di molte rime giovanili, le cosiddette Extravaganti). Nella redazione definitiva il titolo latino voluto dall’autore fu Rerum vulgarium fragmenta (‘frammenti delle cose volgari’), un titolo simile a quello usato da Boccaccio nel codice Chigiano, e significativo più dal punto di vista morale che poetico, dal momento che richiama una delle espressioni conclusive del Secretum, in cui Petrarca si sforzava di raccogliere i fragmenta della sua anima, di ritrovare il significato perduto di quello specchio spezzato che era diventata la sua vita. Se guardiamo invece alla struttura, si tratta ben altro che di ‘frammenti’, ma di una costruzione dalla coesione interna fortissima, paragonabile, nelle

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letterature medievali europee, alla sola Commedia; un’opera che raggiunge il miracolo dell’unità solo alla fine, dopo un cammino di formazione di oltre cinquanta anni in cui è stata, invece, ‘opera in movimento’, mobile riflesso della ‘opera in movimento’ che era la stessa vita del poeta, senza centro e senza luogo. Un blocco di 366 testi, divisi in due parti, definite ‘in vita’ (1263) e ‘in morte’ (264-366) di Madonna Laura, ma che in realtà rispecchia non tanto l’evento biografico (molti testi della prima parte sono composti dopo il 1348, e in vari testi della seconda parte Laura appare ancora viva), quanto una vicenda di ‘metamorfosi’ interiore. Il numero stesso suggerisce un messaggio evidente, da parte dell’autore: 366 sono i giorni di un anno, e per analogia i giorni e le età di una vita intera, nella successione delle stagioni (la nascita, la pienezza, la senescenza e la morte). Ci dà l’illusione di un diario, che diario non è. Successione di giornate simile a un calendario liturgico, ma di una strana liturgia personale, dominata da un sentimento del tempo contraddittorio, sempre ambivalente tra la sensazione di una perdita irreparabile e la speranza dell’eterno. Elementi magici, che allontanano o esorcizzano quasi la presenza costante della morte, sono quelli legati ai segni fisici delle parole, dei nomi (innanzitutto il nome di Laura, oggetto di litania erotica nella sua ripetizione ossessiva e trasformazione in ‘lauro-l’auro-l’aura’), e dei numeri (in particolare il numero 6, associato alla perfezione terrena di Laura), che hanno per Petrarca significato del tutto diverso dal realismo metafisico di Dante: non entità perenni e stabili, ‘segni del divino’, ma numeri in movimento, segni del tempo, e quindi del contingente. Perpetua metamorfosi, instabilità della vita umana, malinconia, appaiono i temi dominanti, forse ancora più di quello dell’amore e della donna, che a sua volta è sottratta alla realtà fisica, e rivissuta all’interno di un mondo interiore. Laura-Dafne, a differenza della creatura del mito (che effettivamente Apollo riesce a sfiorare), è oggetto di un inseguimento senza fine. La sua irraggiungibilità ha bisogno quindi della focalizzazione sui ‘dettagli’, sul corpo (i capelli, gli occhi, le labbra, la mano), o sugli oggetti che potremmo definire ‘feticistici’ (le vesti, il velo, il guanto), fino agli stessi elementi della natura che entrano a contatto con il suo corpo divino (la brezza primaverile che porta il suo profumo, le ‘chiare fresche e dolci acque’ in cui si è bagnata nuda, l’erba del prato dove si è seduta). Per raggiungere questi risultati, Petrarca cercò di ridurre lo sperimentalismo dei poeti che l’avevano preceduto (Dante e Cavalcanti) ad un sostanziale unilinguismo, riducendo le escursioni della lingua poetica, e creando un lessico privo di asprezze ma dotato di una maggiore densità semantica. Se Dante ‘crea’, Petrarca ‘riscrive’, varia, ricombina i pezzi di una tradizione già esistente. Evitando, soprattutto nei sonetti, la complicazione sintattica,



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Petrarca preferisce la paratassi, la coordinazione, l’allineamento orizzontale di sostantivi, aggettivi, sinonimi o antonimi, in gruppi di due, tre, quattro elementi. Prevale di solito la struttura binaria, che dà l’idea del doppio, dell’alternanza, del movimento pendolare tra gli opposti, che poi è una delle condizioni genetiche della poesia petrarchesca. La medesima selezione formale avviene nella metrica, che si riduce a due soli tipi di verso, l’endecasillabo e il settenario, combinati in una gamma di solo cinque forme metriche: nell’ordine di frequenza, sonetti (317), canzoni (29), sestine (9), ballate (7) e madrigali (4) (per il madrigale, si trattava di un’interessante operazione compiuta sul genere della ‘pastorella’, ridotto ad un breve componimento di una sola stanza di endecasillabi, con rime ABABCBCC). Accanto alla selezione linguistica (la rimozione di ogni presenza vernacolare e popolare), era quella metrica la scelta decisiva da un punto di vista storico: la costituzione di un canone poetico, che avrebbe favorito l’assimilazione della poesia in volgare da parte degli ambienti intellettuali non toscani (e anche non italiani), non solo nella prospettiva di un’imitazione delle forme e dei contenuti della lirica petrarchesca (il cosiddetto petrarchismo), ma anche e soprattutto per la futura nascita di una letteratura ‘italiana’, sovramunicipale e sovraregionale. L’opera (e la prima parte ‘in vita’) si apre con un sonetto proemiale, Voi ch’ascoltando in rime sparse il suono (1), che presenta ad un pubblico ideale le vicende del “primo giovanile errore” e del suo cammino di pentimento. Segue una prima serie di testi giovanili, influenzati dalla poesia provenzale e fiorentina, e dalla lettura mitologica della storia d’amore, associata soprattutto al mito di Dafne, e al tema ovidiano della metamorfosi. L’inizio dell’amore per Laura si lega anche a elementi cristologici, come il Venerdì Santo (3, Era il giorno ch’al sol si scoloraro), o il pellegrinaggio alla Veronica, immagine di Cristo cui Petrarca oppone quasi l’idolatria del viso di Laura (16, Movesi il vecchierel canuto et bianco). La prima sestina, A qualunque animale alberga in terra (22), espressione di una negatività esistenziale opposta alla condizione naturale delle creature, deve molto ai modelli, Arnaut e Dante, anche nelle parole-rima. Ma la prima canzone delle metamorfosi, Nel dolce tempo della prima etade (23), è invece un vero manifesto di poetica, descrizione delle metamorfosi (derivate da Ovidio) di Petrarca in lauro, cigno, pietra, fonte, cervo. Il mito dell’eroe omerico Bellerofonte ispira il sonetto Solo et pensoso i più deserti campi (35), identificazione di uno stato di ‘malinconia’, di separazione dal consorzio umano, stato proprio dell’alienazione amorosa; e quello di Diana il madrigale Non più al suo amante Diana piacque (52), metamorfosi della pastorella ‘alpestra e cruda’, scorta da Petrarca nell’atto di lavare un velo nelle acque di un fiume, così come lo sventurato Atteone (poi tramutato in cervo) aveva osato vedere la nudità di Diana. Un deciso cambio di poetica avviene con la canzone delle citazioni, Lasso me (70), in cui Petrarca fa i conti con la tradizione, citando gli incipit di una canzo-

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ne attribuita ad Arnaut, di Donna me prega di Cavalcanti, di Così nel mio parlar di Dante (petroso, non ‘stilnovista’!), e de La dolce vista e ’l bel guardo soave di Cino (Cino sarà celebrato poi nel sonetto in morte, Piangete, donne, et con voi pianga Amore, 92, del 1337). È la premessa alle canzoni degli occhi (71-73), e ad una poesia della memoria, dell’evocazione, in grado di sostituire l’oggetto d’amore, irraggiungibile o lontano. La sostituzione di quel viso è operata infatti dal ritratto di Simone Martini (77-78), mentre il ricordo dei capelli biondi increspati dal vento viene trasfigurato in Erano i capei d’oro a l’aura sparsi (90), in un contesto metaforico in cui Laura diventa veramente “angelica forma”, “spirto celeste”, “vivo sole”. Dopo l’intermezzo di Mai non vo’ più cantar com’io soleva (105), unica ‘frottola’ del canzoniere (canzone con endecasillabi che ripetono a metà la rima del verso precedente), vero collage di proverbi e sentenze oscure, e del madrigale-pastorella Nova angeletta sovra l’ale accorta (106), breve e sospesa fabula erotica sulle rive di un fiume, si presenta un importante ‘blocco’ di cinque canzoni, recupero memoriale del fantasma di Laura assente: prima la coppia Se ’l pensier che mi strugge (125) e soprattutto Chiare, fresche et dolci acque (126), dialogo con gli elementi del paesaggio di Valchiusa che conservano la ‘memoria’ fisica di Laura, trasfigurata come una dea (Diana e Venere al tempo stesso); poi le canzoni di lontananza In quella parte dove Amor mi sprona (127) e Di pensier in pensier, di monte in monte (129) (probabilmente a Selvapiana, ca. 1344), con l’intermezzo della grande canzone politica Italia mia, benché ’l parlar sia indarno (128) (forse composta Parma nel 1345). Oltre la possibilità consolatoria della memoria e della poesia, resta l’angoscia del labirinto d’amore, espresso nei testi successivi, imperniati sulla non soluzione del contrasto morale, come in Pace non trovo, et non ho da far guerra (134). Un labirinto di perdizione morale, cui fa sponda la corruzione di Avignone, nuova Babilonia, contro cui si scagliano tre sonetti di intonazione biblica e profetica (136-138). Ne deriva l’ossessiva e non salvifica ripetizione del nome di Laura, nei sonetti de “l’aura” (194 e 196-98), in cui l’espressione “l’aura” è sempre in incipit e modulata da quattro aggettivi diversi (gentil, serena, celeste e soave); o l’insistenza sui dettagli feticistici della mano e del guanto (199-201). È un quadro in cui si insinua il presentimento della morte di Laura, anche in sogni premonitori (246-54), anche se la prima parte ‘in vita’ si conclude con l’apoteosi del lauro, Arbor victoriosa triumphale (263), segno di gloria di imperatori e di poeti, ed emblema dell’amata. La seconda parte ‘in morte’ si apre con la canzone I’ vo pensando, et nel penser m’assale (264), in realtà un testo di meditazione sulla vanità della vita, chiuso dal celebre verso “et veggio ’l meglio, et al peggior m’appiglio” (v. 136), derivato da Ovidio, “Video meliora proboque, / deteriora sequor” (Met. 7,20-21). Il primo testo in cui effettivamente si presenta la morte di Laura (1348) è invece il sonetto Oimè il bel viso, oimè il soave sguardo (267), seguito dalla canzone Che debb’io far? Che mi consigli, Amore? (268), e dal sonetto Rotta è l’alta colonna e ’l verde lauro (269), anche sulla morte di Giovanni Colonna, mentre la morte di Sennuccio (287) ispira l’idea di mandarlo come ‘messaggero’ in Paradiso ai poeti



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d’amore, nel cielo di Venere: nell’ordine, Guittone, Cino, Dante, Franceschino degli Albizzi, e tutti gli altri (e si noti che al nome di Dante non è dato alcun primato). Tornato a Valchiusa (1351-53), Petrarca comincia a sognare frequentemente Laura, che si ferma a conversare con lui, nel ciclo del sogno (278-86). Ma è illusione inutile, come quella del ritorno ciclico della primavera, opposta al ‘deserto dell’anima’ nel sonetto Zefiro torna e ’l bel tempo rimena (310). Petrarca riprende la giovanile canzone delle metamorfosi con la grande canzone delle visioni, Standomi un giorno solo a la finestra (323), in cui rivede la morte di Laura in sei visioni oniriche successive, in cui l’amata appare come animale, nave, lauro, fontana, fenice e bella donna (1365-68). In altri testi Laura continua a trasformarsi in figure del mito, positive ma anche negative (Proserpina, Euridice, la Fenice, Medusa, la Sirena), e continua a tornare in sogno (340-43), fino all’ultima canzone Quando il soave mio fido conforto (359), dialogo quasi familiare, con Laura seduta sulla sponda del letto, ma iconograficamente rappresentata come una santa, con i ramoscelli di palma e di lauro; e le sue ultime parole di conforto sono un arrivederci al Paradiso. C’è tempo ancora per fare il processo ad Amore nel Tribunale della Ragione, in Quel antiquo mio dolce empio signore (360); o di interrogare la propria immagine, il viso invecchiato e prossimo alla morte, nello specchio, “Dicemi spesso il mio fidato speglio / l’animo stanco, et la cangiata scorza” (361), e lo specchio gli dice, apertamente: “Non ti nasconder più”. Uno specchio che evoca un altro mito, e un altro peccato: quello di Narciso. Il finale del canzoniere ricorda quello della Commedia: una canzone alla Vergine, Vergine bella, che, di sol vestita, / coronata di stelle (366). È la più bella poesia religiosa di Petrarca, anche perché rielabora i moduli più puri della poesia religiosa medievale: la ripetizione litanica (la parola Vergine ripetuta due volte in ogni strofa, in anafora, all’inizio della fronte e della sirma) e la modulazione di aggettivi ed epiteti, come nelle Litanie Lauretane. Nella forte funzione conativa, ne deriva un ritmo di cantilena, con allusioni a testi liturgici. La conclusione è la preghiera di intercessione a Cristo, “ch’accolga il mio spirto ultimo in pace”, con quella parola, PACE, che conclude una storia dominata invece dalla GUERRA delle passioni e delle vanità umane. Ai vv. 111-112 Petrarca ricorda infatti il suo amore per Laura, ormai identificato con il mito di Medusa, che ha ‘pietrificato’ il poeta (Petr-arca): “Medusa et l’error mio m’àn fatto un sasso / d’umor vano stillante”; lo stesso errore che apre, in una perfetta figura circolare, il canzoniere (1, v. 3: “primo giovanile errore”).

2.3. Triumphi Forse all’epoca dell’ultimo soggiorno in Provenza, verso il 1352, su suggestione di Boccaccio (autore dell’Amorosa visione) e della Commedia di Dante, Petrarca concepì l’idea di un poema allegorico che raccontasse la vicenda del suo amore per Laura, i Triumphi, basati su una successione di sei visioni,

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che nella fictio sarebbero iniziate nel momento della prima apparizione di Laura e dell’innamoramento del poeta (6 aprile 1327). Da un lato si tratta di sogni-visioni di tipo medievale, dall’altra il titolo ‘trionfo’ allude ad una forma di iconografia ricavata dalla letteratura classica, il trionfo del condottiero, su un carro preceduto o seguito dai trofei e dai vinti (iconografia già utilizzata da Dante, nel finale del Purgatorio). Nel Trionfo d’Amore (in quattro canti) il poeta ha una visione del carro trionfale di Amore, e della processione degli dèi e degli uomini asserviti al suo dominio, tra i quali, quasi senza accorgersene, entra anche lui; la schiera giunge all’isola di Venere, Cipro, dove viene incarcerata da Amore. Nel successivo Trionfo della Pudicizia (in un solo canto) Laura sfida a battaglia Amore, lo vince e lo imprigiona nel tempio della Pudicizia a Roma. Nel Trionfo della Morte (in due canti) la Morte supera Laura, e ne spegne la vita, restando però soggiogata dalla sua bellezza, e perdendo i propri caratteri più orrendi: “Morte bella parea nel suo bel viso”. Nel Trionfo della Fama (in tre canti) i grandi uomini, condottieri militari, poeti, filosofi, continuano a vivere anche oltre la morte. Ma anche la Fama svanirà, nel corso dei secoli, con il Trionfo del Tempo (un canto). E infine, anche sul Tempo prevarrà il Trionfo dell’Eternità (un canto). In realtà, la complessa struttura del poema rimase incompiuta, ed alcuni canti (nel Trionfo d’Amore, Trionfo della Morte, Trionfo della Fama) ebbero redazioni molto diverse, e mai perfettamente adattate all’insieme: Petrarca comunque lavorò all’opera fino alla fine della vita, come dimostra la stesura autografa del Trionfo dell’Eternità nel codice degli abbozzi. L’imitazione dantesca, evidente in una serie di riprese testuali, è palese nell’uso dello stesso metro della Commedia, la terzina: ma per il resto il poema segue istanze di comunicazione completamente diverse. Il carattere di ‘visione’ fa privilegiare l’elemento visivo-descrittivo su quello narrativo, soprattutto nei lunghi elenchi di personaggi, mitologici e storici. La loro descrizione si serve di procedimenti di scorciamento, di tratteggio in pochi particolari, in pochi versi. Una tecnica simile a quella dei pittori, nella tradizione dell’iconografia sacra medievale. In un certo senso, Petrarca fonda l’iconografia laica e moderna degli eroi antichi, in un testo che cominciò ad essere ampiamente utilizzato nelle arti figurative del Rinascimento.

2.4. Opere latine Come poeta latino, Petrarca si lanciò subito nell’ardua impresa del poema epico, che lo portò a misurarsi direttamente con Virgilio. Doveva essere un



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poema epico fondato sulla storia di Roma antica, ispirato dall’entusiastica riscoperta degli autori antichi, e dal primo commosso viaggio nell’Urbe, nel 1337. In particolare, un autore come Livio suggeriva la ripresa dello scontro epocale con Cartagine, tra Scipione ed Annibale. Nella quiete di Valchiusa, verso il 1338, Petrarca iniziò così l’Africa, poema sulla seconda guerra punica. La diffusione dei primi brani composti gli generò una tale fama poetica, da guadagnargli l’incoronazione di lauro in Campidoglio nel 1341. Ma l’opera, dopo molti rimaneggiamenti, rimase incompiuta. Ne restano nove libri, in cui emergono alcuni episodi di intensa rappresentazione drammatica, con la creazione di personaggi di grande complessità interiore, e di eroi malinconici. I primi due libri sono quasi interamente occupati da un sogno di Scipione, squarcio profetico sulla storia di Roma, ripresa del Somnium Scipionis di Cicerone. Il quinto libro, da solo, costituisce una specie di romanzo d’amore, concluso tragicamente, tra Sofonisba e Massinissa, mentre il sesto libro presenta la figura di Magone, destinato alla morte precoce. Nel finale, sulla nave di Scipione vittorioso che torna a Roma dopo Zama, al poeta Ennio appare in sogno Omero, poeta fondatore della musa epica. Infine, un’interessante dimostrazione di cultura mitologica (così importante per Petrarca) si ha nel terzo libro, con la descrizione delle decorazioni della reggia di Siface, che presentano appunto tutti gli dèi pagani: un brano così ben costruito (sulle fonti classiche e medievali, ma anche sulla personale fantasia di Petrarca), che sarà alla base dell’iconografia mitologica dell’età moderna. Prima dell’Africa, Petrarca aveva già scritto alcuni carmi latini, che per lo più erano nella forma dell’epistola in versi (come quella che Giovanni del Virgilio aveva inviato a Dante), testimonianza viva di una rete di rapporti intellettuali, testi paralleli alle epistole vere e proprie, ma filtrati dalla comunicazione poetica: 66 di questi testi, databili tra 1333 e 1354 furono raccolti nei tre libri delle Metrice, in cui sono notevoli il proemio all’amico Marco Barbato da Sulmona (I,1: 1350), e la riflessione su se stesso di Ad se ipsum (I,14). Un altro genere di poesia latina, la poesia bucolica, era rinato da poco proprio in un contesto epistolare, lo scambio tra Dante e Giovanni del Virgilio. Petrarca intese riprendere quello spunto, ma ricollegandosi direttamente a Virgilio, nelle 12 egloghe del Bucolicum Carmen (‘carme pastorale’). Siamo tra 1346 e 1348: il travestimento pastorale allude ad un momento di crisi, personale e collettiva, dalla morte di re Roberto (chiamato Argus) alla monacazione del fratello Gherardo (nella prima egloga, Parthenias, dialogo tra Petrarca-Silvius e Gherardo-Monicus), dal distacco definitivo dal cardinal Colonna

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(Divortium) fino al racconto allegorico della morte di Laura, nella descrizione dello sradicamento di un lauro (nella decima egloga, Laurea occidens). Parallelamente all’Africa (poema epico, ma di forte ispirazione storica) erano nate le opere storiche, iniziatrici di importanti generi della letteratura umanistica. Innanzitutto il genere biografico, con il De viris illustribus (‘uomini illustri’)(iniziato nel 1338-1343, ripreso nel 1351-1353 e oltre), 36 ritratti di grandi uomini, un quadro cominciato con i grandi condottieri romani, e poi esteso a figure bibliche (Adamo) e mitologiche (Ercole, Giasone). Poi quello aneddotico con i Rerum memorandarum libri (‘libri di fatti memorabili’) (1343-1345), debitori di Valerio Massimo e della tradizione esemplare antica e moderna. Un ultimo testo di erudizione storico-geografica fu l’Itinerarium Syriacum (1358), una guida di viaggio per un pellegrino in Terrasanta: viaggio mai compiuto da Petrarca, ma immaginato a partire dalle sue ampie letture, e in cui trova posto anche il ricordo nostalgico di luoghi visti e amati, come Napoli e i Campi Flegrei. L’inquietudine morale di Petrarca trovava invece espressione nelle opere che, alla fine degli anni Quaranta, affrontarono il tema, filosofico (da Cicerone e Seneca) e religioso, della solitudine e della tranquillità dell’anima. Il De vita solitaria (‘vita solitaria’)(1346-1371), dedicato all’amico Filippo di Cabassoles vescovo di Cavaillon, promuove la solitudine come valore, e presenta Valchiusa come l’eremo laico per eccellenza, il luogo dell’elaborazione intellettuale, contrapposto alla vita tumultuosa della città. Influenzato dall’esperienza monastica del fratello è invece il De otio religioso (‘tranquillità della vita religiosa’)(1347), mentre il desiderio di pentimento, e di legame diretto con Dio, emerge nell’esperienza di poesia di ispirazione biblica dei sette Psalmi penitentiales (‘salmi penitenziali’)(1348), nell’anno della morte di Laura. Petrarca fu ancora riconosciuto in tutta Europa maestro di moralità grazie al De remediis utriusque fortune (‘rimedi dell’una e dell’altra fortuna’)(1356-1357, e poi 1366), trattato di struttura scolastica sulla Fortuna, sia favorevole che sfavorevole: un serrato dialogo tra le personificazioni morali, diviso in due parti (Ragione, Gaudio, Speranza; e poi Ragione, Dolore, Timore), applicato a tutti gli aspetti della vita. Petrarca interpretò la propria avventura intellettuale come una sorta di battaglia contro la barbarie e l’oscurità, e in alcuni casi si servì del violento strumento comunicativo delle invettive per colpire aspetti negativi della cultura contemporanea. Poteva trattarsi della scienza medica, accusata di falsità e ciarlataneria, nelle Invective contra medicum (‘invettive contro un



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medico’)(1352-53, e 1355); oppure della deriva della filosofia aristotelica, ingessata dal principio d’autorità, nel De sui ipsius et multorum ignorantia (‘l’ignoranza propria e di molti altri’)(1367), contro quattro filosofi averroisti veneziani. Altre volte poteva essere la risposta ad un attacco personale, come quello subìto ad opera del potente cardinale Jean de Caraman, rintuzzato nell’ Invectiva contra quendam magni status hominem sed nullius scientie et virtutis (‘invettiva contro un uomo potente ma ignorante e sciocco’)(1355), o infine l’appassionata difesa della civiltà italiana, contro chi (il frate francese Jean de Hesdin) voleva che i papi restassero ad Avignone, con l’Invectiva contra eum qui maledixit Italie (‘invettiva contro un tale che sparlò dell’Italia’)(1373). Nonostante la ricerca della solitudine, tutta l’opera di Petrarca è percorsa da un modernissimo bisogno di dialogo con l’altro, di comunicazione delle proprie inquietudini, e dei propri orizzonti, ad una cerchia di amici, e poi a un pubblico di lettori. Per questo, l’opera latina a cui furono dedicate più cure, e che attraversò tutta la vita dell’autore, parallelamente alla composizione dei Rerum vulgarium fragmenta, furono gli epistolari, anch’essi fragmenta dell’esperienza vitale, ma in forma di prosa, di lettere sparse per il mondo, a destinatari diversi; e quindi di un dialogo ininterrotto con gli altri, anche se consumato in absentia, a distanza di spazio e di tempo, come avviene con una lettera. Grandezza di Petrarca fu quella di fondare il genere moderno dell’epistolario, guardando ai modelli antichi delle Epistulae ad Lucilium di Seneca, e delle Ad Atticum di Cicerone, scoperte nel 1345. Certo, le lettere venivano, nel tempo, profondamente rielaborate. La scrittura diventava anche autobiografica, perché riscriveva l’esperienza a posteriori, cercando di costruire, per i posteri, una figura ideale, uno ‘specchio’ morale dell’autore. La prima grande raccolta epistolare fu quella dei 24 libri delle Familiares, 350 lettere dal 1325 al 1366, aperte da una prefatoria all’amico ‘Socrate’, cioè il fiammingo Ludovico Santo (1350). Vi trovano posto alcuni testi fondamentali, come la celebre lettera a Dionigi di Borgo San Sepolcro, sull’ascensione al Monte Ventoso (Fam. IV,1, datata 26 aprile 1336, ma in realtà rielaborata anni dopo), o quella a Boccaccio in cui Petrarca fa finta di non aver mai letto la Commedia (donatagli appunto da Boccaccio), e afferma di non essere invidioso della fama universale di Dante (Fam. XXI,15). L’ultimo libro, il XXIV, è il più singolare: Petrarca sente gli Antichi così vicini a lui, così ‘contemporanei’, che inizia a inviare lettere anche a loro, a Cicerone, Virgilio, Orazio, Omero. E anzi, a Cicerone, non risparmia aspre critiche, quando scopre (dalle lettere private Ad Atticum, o dalle orazioni) che il grande autore latino non era solo un grande filosofo o retore (come

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credeva il Medioevo), ma anche uomo politico, coinvolto nella vita del suo tempo, non immune dalle bassezze della politica. Scartate diverse lettere (raccolte postume col titolo di Varie), e riunite senza nome d’autore le lettere violentissime contro il papato avignonese (intitolate appunto Sine nomine, 1342-58), Petrarca continuò l’opera dell’epistolario anche con lettere della vecchiaia, nei 17 libri delle Seniles, 120 lettere dal 1361 al 1374, in cui predomina, come interlocutore, la figura di Boccaccio, di cui Petrarca traduce in latino l’ultima novella del Decameron, la Griselda. L’ultima lettera della raccolta è destinata a superare il tempo, perché si rivolge a un destinatario ignoto, nel futuro, l’ideale lettore dell’opera petrarchesca, nell’epistola Posteritati, estremo autoritratto del poeta. Di tutte le opere di Petrarca, una sola era rimasta gelosamente chiusa nel cassetto. Un’opera ‘segreta’, privata, intima, il cui titolo era appunto Secretum, o meglio De secreto conflictu curarum mearum (‘intima battaglia delle mie preoccupazioni’), in tre libri. Francesco l’aveva iniziata nel 1347 (e rivista poi nel ’49 e nel ’53), in un periodo di riflessione sulla propria esistenza che stava per culminare nella morte di Laura, ma preferì adottare, nell’opera, la finzione di un’ambientazione a qualche anno prima, al 134243, cioè al ritorno dal momento di gloria mondana, vissuto a Roma con l’incoronazione poetica. Nel primo libro, partendo dalla situazione medievale della visione, Francesco inizia descrivendo l’apparizione di una donna, la Verità, e poi di un personaggio che si rivela essere addirittura sant’Agostino. Il santo rimprovera l’attaccamento di Francesco alle cose terrene, il suo vano inseguire i phantasmata, le immagini esterne, le apparenze, gli inganni del mondo, svela le illusioni della vita umana, anche attraverso una macabra contemplatio mortis. Francesco vorrebbe rinunciare ai suoi ‘errori’, ma è trattenuto da una forza superiore alla sua volontà e alla sua ragione. Nel secondo libro, dopo l’analisi dei peccati capitali, si evidenzia il senso di perenne insoddisfazione, e poi il vizio peggiore, l’accidia, che porta alla non azione, alla malattia fisica e morale della malinconia. Nel terzo libro finalmente emergono le due più forti ‘catene’ di Francesco, amore e gloria, che coinvolgono la sua stessa attività di scrittore. Francesco difende la purezza e il valore nobilitante dell’amore per Laura, segno terreno della luce divina, ma Agostino dimostra invece la sua caduta verso il basso, verso il compiacimento della concupiscenza, nell’ossessione amorosa diventata follia, idolatria per un corpo fisico e la sua caduca bellezza, e per il suo stesso nome. E vana è anche la ricerca della gloria terrena. Alla fine, i dubbi di Petrarca restano irrisolti, ed egli non riesce a rinunciare totalmente alle sue ‘catene’, pur rendendosi conto della loro sostanziale negatività.



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In questo profondo scavo interiore, molto forte è il rapporto con le Confessioni di Agostino. In realtà, nel Secretum, Francesco e Agostino sono non due personaggi distinti, ma due aspetti dello stesso io, in conflitto tra loro. La straordinaria modernità del dialogo sta nella sua non-conclusione, nel dissidio consapevole ma irrisolto fra vanitas e spiritus. La vita continua, nella ricerca e nella sofferenza, nell’attesa della morte, della pace, dell’incontro con un Dio misterioso e misericordioso. Resta il valore della conoscenza dell’io, con i suoi movimenti, vera conquista del cammino di introspezione che si fa carico di raccogliere gli sparsi frammenti dell’anima (“sparsa anime fragmenta”), e di definirne, di nuovo, l’unità.

Bibliografia Edizioni complessive delle opere: Rime, Trionfi e poesie latine, a c. di F. Neri, MilanoNapoli, Ricciardi, 1951; Prose, a c. di G. Martellotti e al., Milano-Napoli, Ricciardi, 1955; Opere, a c. di E. Bigi e G. Ponte, Milano, Mursia, 1963; Opere, a c. di M. Martelli, Firenze, Sansoni, 1975. V. anche Petrarca, a c. di P. Stoppelli, CD-ROM, Roma, Lexis, 1997. Monografie: U. Bosco, Francesco Petrarca (1946), Bari, Laterza, 1961; V. Pacca, Petrarca, Roma-Bari, Laterza, 1998; M. Ariani, Petrarca, Roma, Salerno, 1999; E. Fenzi, Petrarca, Bologna, Il Mulino, 2008. Lo studio di Petrarca in età contemporanea è stato profondamente rinnovato dal contributo della filologia medievale e umanistica, che ha permesso di ricostruire la sua straordinaria biblioteca, e la rete di rapporti intellettuali dai quali è nato l’umanesimo. Cfr. in particolare P. De Nolhac, Pétrarque et l’humanisme, Paris, Champion, 1892; G. Billanovich, Petrarca letterato, I. Lo scrittoio del Petrarca, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1947; Id., La tradizione del testo di Livio e le origini dell’umanesimo, Padova, Antenore, 1981; Id., Petrarca e il primo umanesimo, Padova, Antenore, 1996; G. Martellotti, Scritti petrarcheschi, Padova, Antenore, 1983. Studi critici: F. De Sanctis, Saggio critico sul Petrarca (1869), Torino, Einaudi, 1983; C. Calcaterra, Nella selva del Petrarca, Bologna, Cappelli, 1942; B. Martinelli, Petrarca e il Ventoso, Bergamo, Minerva Italica, 1977; U. Dotti, Petrarca e la scoperta della coscienza moderna, Milano, Feltrinelli, 1978; L. Marcozzi, La biblioteca di Febo. Mito e allegoria in Petrarca, Firenze, Cesati, 2002; E. Fenzi, Saggi petrarcheschi, Firenze, Cadmo, 2003; A. Quondam, Petrarca, l’italiano dimenticato, Milano, Rizzoli, 2004; K. Stierle, La vita e i tempi di Petrarca. Alle origini della moderna coscienza europea (2003), Venezia, Marsilio, 2007. Riviste specializzate: “Studi petrarcheschi”, “Quaderni petrarcheschi”. Bibliografia aggiornata e risorse in rete: L. Marcozzi, Bibliografia petrarchesca 19892003, Firenze, Olschki, 2005; Comitato Nazionale del VII Centenario della nascita di Francesco Petrarca (www.franciscus.unifi.it).

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2.1. La vita. E.H. Wilkins, Vita del Petrarca, a c. di R. Ceserani, Milano, Feltrinelli, 1970 (con il saggio La formazione del Canzoniere, 1951); nuova ed. a cura di L.C. Rossi, Milano, Feltrinelli, 2003. V. anche U. Dotti, Vita del Petrarca, Bari, Laterza, 1987; A. Foresti, Aneddoti della vita di Francesco Petrarca, a c. di A. Tissoni Benvenuti, Padova, Antenore, 1977. Sull’importante vita scritta da Boccaccio: G. Boccaccio, Vita di Petrarca, a c. di G. Villani, Roma, Salerno, 2004. Una biografia per immagini: Itinerari con Francesco Petrarca, a c. di G. Frasso, Padova, Antenore, 1974. 2.2. Rerum vulgarium fragmenta. Edizioni recenti: a c. di G. Contini (1964), Torino, Einaudi, 1992; a c. di M. Santagata (1996), Milano, Mondadori, 2004; a c. di R. Bettarini, Torino, Einaudi, 2005. Edizioni commentate, importanti per la ricezione moderna del Canzoniere: a c. di G. Leopardi (1826), G. Carducci e S. Ferrari (1899), E. Chiorboli (1924). Studi critici: G. Contini, Preliminari sulla lingua del Petrarca, e Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare, in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970, pp. 169-92 e 5-31; M. Fubini, La metrica del Petrarca, in Metrica e poesia, Milano, Feltrinelli, 1975, pp. 236-327; F. Suitner, Petrarca e la tradizione stilnovistica, Firenze, Olschki, 1977; P. Trovato, Dante in Petrarca, Firenze, Olschki, 1979; M. Santagata, Dal sonetto al ‘canzoniere’ (cit. in I, 3.1); Id., Per moderne carte. La biblioteca volgare di Petrarca, Bologna, Il Mulino, 1990; Id., I frammenti dell’anima. Storia e racconto nel Canzoniere di Petrarca (1992), Bologna, Il Mulino, 2004; C. Berra, La similitudine nei Rerum vulgarium fragmenta, Lucca, Pacini Fazzi, 1992; M. Vitale, La lingua del Canzoniere (Rerum vulgarium fragmenta) di Francesco Petrarca, Padova, Antenore, 1996; G. Capovilla, “Sì vario stile”. Studi sul Canzoniere del Petrarca, Modena, Mucchi, 1998; R. Bettarini, Lacrime e inchiostro nel canzoniere di Petrarca, Bologna, CLUEB, 1998; N. Tonelli, Varietà sintattica e costanti retoriche nei sonetti dei Rerum vulgarium fragmenta, Firenze, Olschki, 1999; M. Zenari, Repertorio metrico dei Rerum vulgarium fragmenta, Padova, Antenore, 1999; La metrica dei Fragmenta, a c. di M. Praloran, Roma-Padova, Antenore, 2003; P. Cherchi, Verso la chiusura: saggio sul Canzoniere di Petrarca, Bologna, Il Mulino, 2008. Introduzione alla lettura: S. Fornasiero, Petrarca. Guida al Canzoniere, Roma, Carocci, 2001. Sul petrarchismo: D. Alonso, La poesia di Petrarca e il petrarchismo (1959), in Saggio di metodo e limiti stilistici, Bologna, Il Mulino, 1965, pp. 305-58. 2.3. Triumphi. Edizioni: I Triumphi, a c. di M. Ariani, Milano, Mursia, 1988; a c. di V. Pacca, in Trionfi, Rime estravaganti, Codice degli abbozzi, a c. di V. Pacca e L. Paolino, Milano,



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Mondadori, 1996. Cfr. I Triumphi di Francesco Petrarca, a c. di C. Berra, Milano, Cisalpino, 1999; M.C. Bertolani, Il corpo glorioso. Studi sui Trionfi del Petrarca, Roma, Carocci, 2001. 2.4. Opere latine. Edizione completa delle opere latine: Opera quae extant omnia, Basilea, Petri, 1554. Edizioni di singole opere: - Africa, a c. di N. Festa, Firenze, Sansoni, 1926. Cfr. V. Fera, La revisione petrarchesca dell’Africa, Messina, Centro di studi umanistici, 1984, e Antichi editori e lettori dell’Africa, ivi 1984. - Il Bucolicum carmen e i suoi commenti inediti, a c. di A. Avena, Padova 1906; Il ‘Bucolicum carmen’ di F. Petrarca, a c. di D. De Venuto, Pisa, ETS, 1990; Laurea occidens, a c. di G. Martellotti, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1968. - De viris illustribus, a c. di G. Martellotti, vol. I, Firenze, Sansoni, 1964; De viris illustribus, vol. I, a c. di S. Ferrone, Firenze, Le Lettere, 2006; vol. II: Adam – Hercules, a c. di C. Malta, Firenze, Le Lettere, 2007 (nuova ed. Messina, Centro di Studi Umanistici, 2008); vol. IV, Compendium, a c. di P. de Capua, Firenze, Le Lettere, 2007. Cfr. anche De gestis Cesaris, a c. di G. Crevatin, Pisa, Scuola Normale Superiore, 2003. - Rerum memorandarum libri, a c. di G. Billanovich, Firenze, Sansoni, 1945. - Itinerario in Terra Santa 1358, a c. di F. Lo Monaco, Bergamo, Lubrina, 1990. - De vita solitaria, a c. di G. Martellotti, in Prose (cit. in 2.2), pp. 286-590; a c. di M. Noce, Milano, Mondadori, 1992. - De otio religioso, a c. di G. Rotondi, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1958; a c. di G. Goletti, Firenze, Le Lettere, 2006. - Invective contra medicum. Invectiva contra quendam magni status hominem sed nullius scientie aut virtutis, a c. di F. Bausi, Firenze, Le Lettere, 2005; Contra eum qui maledixit Italie, a c. di M. Berté, Firenze, Le Lettere, 2005. Cfr. F. Bausi, Petrarca antimoderno. Studi sulle invettive e sulle polemiche petrarchesche, Firenze, Cesati, 2008. - Familiares, a c. di V. Rossi e U. Bosco, Firenze, Sansoni, 1933-1942; trad. it. di E. Bianchi in Opere 1975 (cit. in 2.2). Cfr. Motivi e forme delle Familiari di Francesco Petrarca, a c. di C. Berra, Milano, Cisalpino, 2003; L. Chines, Lettere dell’inquietudine, Roma, Carocci, 2004. - Lettere disperse, a c. di A. Pancheri, Parma, Guanda, 1994. - Sine nomine. Lettere polemiche e politiche, a c. di U. Dotti, Bari, Laterza 1974. - Res seniles. Libri I-IV, a c. di S. Rizzo e M. Berté, Firenze, Le Lettere, 2006. - Lettera ai posteri, a c. di G. Villani, Roma, Salerno, 1990. - Secretum. Il mio segreto, a c. di E. Fenzi, Milano, Mursia, 1992; a c. di U. Dotti, Roma, Archivio Guido Izzi, 1993. Cfr. F. Rico, Vida u obra de Petrarca, I. Lectura del “Secretum”, Padova, Antenore, 1974.

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Un aspetto importante dell’attività intellettuale di Petrarca è costituito dall’imponente sistema di postille che attraversa i suoi manoscritti. Tra le edizioni recenti più rilevanti: Il codice parigino latino 7880.1. Iliade di Omero tradotta in latino da Leonzio Pilato con le postille di Francesco Petrarca, a c. di T. Rossi, Milano, Edizioni Libreria Malavasi, 2003; L. Refe, Le postille del Petrarca a Giuseppe Flavio (codice parigino Lat. 5054), Firenze, Le Lettere, 2004; F. Santirosi, Le postille del Petrarca ad Ambrogio (codice parigino Lat. 1757), Firenze, Le Lettere, 2004; Le postille del Virgilio Ambrosiano, a c. di M. Baglio, A. Nebuloni Testa e M. Petoletti, Roma-Padova, Antenore, 2006.

3. Boccaccio

3.1. La vita Giovanni Boccaccio nasce nel 1313, probabilmente a Firenze. È figlio illegittimo, ma presto riconosciuto, di Boccaccino di Chelino, un uomo ben introdotto nel mondo delle banche e del commercio, socio del potente banchiere Bardi. Il padre lo porta con sé a Napoli nel 1327, con la prospettiva di un inserimento nella stessa attività lavorativa, al banco, ma, di fronte al disinteresse di Giovanni, cerca almeno di orientarlo allo studio del diritto canonico, all’università (1330-1331). È tutto inutile. Il giovane si lascia attrarre dalla raffinata vita della corte angioina, con l’amico Niccolò Acciaiuoli, e si appassiona di studi letterari, forse anche grazie ad uno dei professori di diritto all’università, il celebre poeta Cino da Pistoia, amico di Dante e Petrarca. È una formazione vasta e tumultuosa, che va dai classici (Virgilio, Ovidio, Livio) ai romanzi medievali e alla novellistica, alla poesia medievale latina e volgare, e che è documentata dai suoi zibaldoni, manoscritti privati in cui Boccaccio raccoglie testi di letture giovanili e prime prove letterarie. Scrive le prime poesie in latino (una Elegia di Costanza è del 1332), e in volgare, ad imitazione di Dante e Cino. Al 1333 risale un evento che assimila la sua biografia a quella di Dante e Petrarca: nella chiesa di san Lorenzo si innamora di una fanciulla, chiamata Fiammetta, forse una Maria d’Aquino figlia naturale di re Roberto, e per lei nascono le prime opere in volgare. Il felice e spensierato periodo napoletano finisce nel 1341. Il padre era rientrato a Firenze, per un dissidio con i Bardi. È un momento difficile. Mentre a Napoli muore re Roberto (1343), Firenze è attraversata da una grave crisi finanziaria, che culmina con il fallimento dei Bardi (1345). Giovanni cerca una sua indipendenza fuori Firenze, il che significa tentare di ritrovare una collocazione cortigiana simile a quella che aveva conosciuto a Napoli: e si tratta delle stesse corti padane dove era passato Dante, trenta-

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quaranta anni prima, la Ravenna dei Da Polenta (1345-1346) e la Forlì degli Ordelaffi (1347). È una vita un po’ irregolare e libertina, quella di Giovanni, a cui nascono in questo periodo ben cinque figli da donne diverse. Nella peste del 1348 muore il padre, Giovanni ne eredita il non cospicuo patrimonio, e si dedica all’opera più grande, il Decameron. Nel 1350 Petrarca passa a Firenze: è solo il primo dei loro incontri (a Padova nel ’51, a Milano nel ’59, a Venezia nel ’63, a Padova nel ’68), l’inizio di una grande amicizia, destinata a segnare il futuro della civiltà italiana. Grazie a Petrarca, Boccaccio approfondirà lo studio dei classici, ponendosi alla guida, a Firenze, di un circolo di intellettuali che farà della rinascita degli Antichi la propria missione principale. In questa ottica si inserisce anche lo studio del greco, per la prima volta insegnato allo Studio fiorentino da un maestro calabrese, Leonzio Pilato, fatto venire da Boccaccio (1360-1362), e traduttore in latino di Omero per Petrarca. Boccaccio riprende a viaggiare, stavolta con incarichi ufficiali del comune: a Ravenna nel ’50, dall’anziana figlia di Dante, suor Beatrice; nel ’51-52 in Tirolo da Ludovico di Baviera; nel ’54 ad Avignone dal papa Innocenzo VI. Ha modo di tornare a Napoli, nel 1355 (e poi ancora nel ’62 e nel ’70), ma è un mondo ormai mutato, rispetto alla fiabesca vita cortese dell’adolescenza: ne approfitta almeno per visitare l’abbazia di Montecassino, e per scoprirvi (e sottrarvi) alcuni manoscritti di testi classici sconosciuti (Varrone, Tacito, Apuleio). Nel frattempo, attraversa un periodo di allontamento dalla vita pubblica, e di disgrazia politica, ritirandosi a Certaldo, paese d’origine del padre (13611365), e accettando di diventare ‘chierico’ come Petrarca, con un beneficio concesso dal papa. Dopo gli ultimi viaggi ad Avignone (1367), Venezia e Roma (1367), Padova (1368) e Napoli (1370), accetta l’incarico di leggere pubblicamente Dante a Firenze nel 1373, ma è costretto a smettere pochi mesi dopo, nel 1374, per l’aggravarsi della malattia che l’anno successivo, a Certaldo, lo porterà alla morte (1375).

3.2. Opere giovanili Ad appena vent’anni, a Napoli, Boccaccio si cimenta nella sua prima opera letteraria, la Caccia di Diana (1333-1334), un poemetto allegorico in 18 canti in terzine dantesche, imitazione di un perduto sirventese di Dante sulle belle donne di Firenze. Sotto il travestimento della favola mitologica (le cacciatrici di Diana finiscono col diventare seguaci di Venere, quando la dea dell’Amore trasforma le loro prede ferine in amanti; quel che accade allo



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stesso autore, mutato da cervo in uomo, al contrario di Atteone) Boccaccio presenta le donne della Napoli contemporanea, principesse e aristocratiche della corte angioina, rappresentanti del mondo cortese vagheggiato e idealizzato dal giovane figlio di banchiere, che fingeva di essere nato a Parigi da una nobildonna francese. È lo stesso mondo che emerge sullo sfondo del Filocolo (1336), ampio romanzo in prosa, in cinque libri, derivato dal poemetto francese Flore et Blanchefleur. Si tratta della storia dell’amore contrastato di due giovani, il principe Florio (detto Filocolo, che, secondo le incerte conoscenze di greco di Boccaccio, avrebbe significato ‘fatica d’Amore’), figlio di Felice re di Spagna, e di Biancifiore, fanciulla cristiana che re Felice, per impedire il loro amore, fa vendere schiava. Florio attraversa mari e monti (soprattutto mari, il favoloso scenario mediterraneo dell’epoca di Boccaccio), fino a ritrovare e sposare l’amata, e diventare anche lui cristiano. L’esile vicenda di questi due ‘promessi sposi’ diventa, per la fantasia narrativa di Boccaccio, un incredibile intreccio di avventure, tra parti narrative e parti descrittive, con prevalenza del gusto per il meraviglioso e l’esotico. Un ruolo importante ha, nella struttura, il racconto dei sogni, che hanno la duplice funzione di aprire squarci profetici sul futuro della storia, e di rivelare la psicologia profonda dei personaggi. Fondamentale è anche, nel IV libro, la tappa di Florio a Napoli, occasione per una lunga digressione nell’ambiente cortese contemporaneo, in cui Florio viene invitato a partecipare ad una ‘corte d’amore’, un simposio dove un gruppo di donne propongono tredici ‘questioni d’amore’, sul modello del trattato di Andrea Cappellano. Con il Filocolo (vero laboratorio stilistico del giovane Boccaccio) si confermano anche i caratteri principali di questa produzione giovanile: la sperimentazione di nuovi generi letterari, e il forte autobiografismo, per cui l’autore si proietta sempre nei personaggi principali. Evidente è il debito nei confronti della letteratura francese, né poteva essere altrimenti nella Napoli angioina, capitale cosmopolita orientata verso la Provenza e il Nord Europa. Dai romanzi del ciclo troiano proviene infatti lo spunto narrativo per il poemetto Filostrato (‘vinto da Amore’)(1339), storia dell’amore infelice di Troiolo per la prigioniera greca Criseida. Nonostante l’ambientazione nella guerra di Troia, il Filostrato è un testo più lirico che epico-narrativo, con frequenti effusioni sentimentali del disperato Filostrato, che alla fine muore ucciso da Achille: una situazione tragica che avrà notevole fortuna nel teatro europeo, fino al Troylus and Cressida di Shakespeare. Ma la grande novità dello sperimentatore Boccaccio è l’invenzione di una nuova forma metrica che si rivelerà particolarmente adatta alla narrazione poetica, l’ottava, strofa di otto endecasillabi con rime ABABABCC.

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Il nuovo metro dell’ottava è infatti subito usato nel Teseida (1339-1340), poema epico in dodici libri derivato dal ciclo tebano, con la vicenda di due amici tebani, Arcita e Palemone, innamorati della stessa donna, l’amazzone Emilia, finché Arcita muore in una giostra, e lascia l’amata all’amico: sullo sfondo una Atene che si rivela in realtà la Napoli frequentata da Boccaccio, con i tornei cavallereschi a cui partecipavano i giovani aristocratici della corte. Tornato a Firenze, Boccaccio sperimenta ancora un altro genere, quello bucolico, appena inaugurato in latino da Dante, scegliendo però la forma del prosimetro, derivato dalla Vita nuova, e un titolo che adombra sempre Dante: Comedia delle ninfe fiorentine (1341), detta poi Ameto. In un paesaggio pastorale alle porte di Firenze, tra l’Arno e il Mugnone, il rozzo pastore Ameto ha la visione di sette bellissime ninfe (figure delle Virtù) e si innamora di una di loro, Lia (la Fede); ogni ninfa racconta la sua storia, e canta un canto in terzine, mentre l’amore di Lia finisce per elevare spiritualmente il pastore. Oltre il pretesto allegorico, Boccaccio sembra ora affascinato dalle possibilità descrittive della natura e della bellezza fisica, che acquista caratteri sensuali (anche se molto letterari, alla maniera di Ovidio) nella descrizione delle ninfe. Di nuovo Dante ispira la composizione di un vero poema allegorico, l’Amorosa visione (1342), in 50 canti in terzine, che formano anche un immenso ‘acrostico’ (struttura tipica della poesia medievale, in cui le lettere iniziali di ogni terzina formano le parole di un nuovo testo poetico). L’avvio è quello solito del sogno-visione, in cui l’autore viene guidato da una ‘donna gentile’ nella visita di un castello che ricorda il Castello Angioino di Napoli, in due sale decorate da pitture (nell’una, il trionfo di Sapienza, Fama, Ricchezza e Amore; nell’altra il trionfo della Fortuna), per le quali si evoca il nome di Giotto; alla fine, in un giardino, avviene l’atteso incontro con l’amata Fiammetta. Il legame con la Commedia, in realtà, è molto labile: l’opera di Boccaccio è soprattutto descrittiva, giocata sull’erudizione e l’iconografia (come l’Intelligenza), e finirà con l’essere imitata da Petrarca nei Trionfi. Altra opera con cui Boccaccio torna alla memoria degli anni napoletani, e all’amore per Fiammetta, è l’Elegia di Madonna Fiammetta (1343-1344), lunga lettera in prosa indirizzata alle ‘donne innamorate’. Il genere epistolare denuncia subito il grande modello classico delle Eroidi di Ovidio, finte lettere scritte da eroi ed eroine mitologiche, straordinaria invenzione letteraria soprattutto in quelle lettere che si fingono scritte da donne, e in cui Ovidio lasciava parlare le eroine in prima persona, nell’espressione immediata del loro dolore e dei loro sentimenti. È questo l’aspetto rivoluzionario che recepisce Boccaccio, rovesciando il racconto della ‘sua’ storia d’amore, e facendola raccontare alla stessa Fiammetta, innamorata del giovane fiorentino



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Panfilo che poi la abbandona, lasciando per sempre Napoli. Un esperimento importante, che mette al centro dell’attenzione un personaggio femminile, con una profondità di analisi psicologica che non era mai arrivata a questo livello, nella letteratura medievale. Ma perché elegia? Per Dante, il genere elegiaco era un genere molto basso, stilus miserorum: per Boccaccio, invece, è forma di espressione della sofferenza intrinseca di una storia d’amore, non coronata dal lieto fine (comoedia), ma nemmeno conclusa tragicamente (tragoedia). In questo senso, è la prova più rilevante della ricerca di uno ‘stile mezzano’ da parte di Boccaccio. L’ultima opera ‘giovanile’ rappresenta un altro tentativo di genere ‘medio’, il Ninfale fiesolano (1344-1345), poemetto in 473 ottave sulle origini mitiche di Firenze (e quindi detto poema ‘eziologico’, cioè sulle ‘origini’), ma che narra essenzialmente l’amore tra il pastore Africo e la ninfa Mensola, consacrata a Diana. I loro nomi sono i nomi di due corsi d’acqua in cui i due giovani si tramutano, dopo la punizione del loro amore da parte di Diana. Dovrebbe trattarsi quindi di una tragoedia, ma l’ambientazione rusticale, il carattere della fabula mitologica, tra sensualità erotica e metamorfosi, rendono all’insieme una felice leggerezza narrativa, sospesa tra realtà e sogno.

3.3. Decameron Al “mezzo del cammin” della sua vita, a trentacinque anni, Giovanni Boccaccio poteva guardare con soddisfazione alla sua produzione letteraria. Aveva sperimentato molti generi diversi, e in alcuni casi se ne poteva addirittura considerare l’inventore. Nella letteratura in volgare, e in volgare fiorentino, nessuno era andato così avanti. Nessuno, tranne Dante, con la Commedia. Giovanni (che tra l’altro ne ha composto una pallida imitazione, l’Amorosa visione) sa bene che non può misurarsi direttamente con quell’opera che lui chiama ‘divina’. Il campo in cui si sente veramente bravo è quello del racconto, lungo o breve, in prosa o in poesia, ma comunque racconto. Negli anni, ha lavorato sul duplice versante dell’esperienza personale della vita, e della riscrittura di storie altrui, e ha accumulato molti materiali, embrioni narrativi, aneddoti esemplari, novelle antiche e moderne, spunti di cronaca contemporanea, tragica o grottesca, di tradizione scritta o anche orale. Un magazzino di ‘storie’ che probabilmente dovevano servirgli per altre opere di stampo tradizionale (romanzi, poemetti ecc.), e che invece, a un certo punto, si coagulano intorno ad un grande evento storico, occasione scatenante per la prima opera narrativa della letteratura occidentale moderna in cui il racconto ha, come finalità principale, non l’ammaestramento morale o religioso, ma

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il piacere intrinseco dell’essere detto e ascoltato, e la conoscenza della vita umana nel suo svolgersi reale e concreto. L’evento è la grande Peste del 1348, che, come nel resto d’Europa, scuote in modo durissimo anche la città di Firenze, mietendo migliaia di vittime. Boccaccio è colpito soprattutto dall’improvviso effetto di ‘sospensione delle regole’, umane, civili, morali e religiose, che un fenomeno collettivo così grandioso sembra provocare. Tutte le certezze del mondo medievale sembrano crollare, e i predicatori dal pulpito annunciano l’Apocalisse e interpretano l’evento come una diretta punizione divina per i peccati degli uomini: ma Boccaccio, educato alla lezione dei classici e anche alla lettura di Dante, cerca spiegazioni umane e terrene. La natura umana è per se stessa negativa, macchiata dal peccato originale, e da reprimere con l’ascetismo? Le pulsioni più naturali, l’amore anche fisico, il desiderio, la bellezza terrena, sono, per se stesse, da condannare? La risposta di Boccaccio è no. E inizia così a scrivere, qualche tempo dopo la pestilenza, nel 1349, il Decameron, concluso probabilmente entro il 1351: un tempo relativamente breve per un’opera così ampia, complessa e rivoluzionaria, e che dimostra un’applicazione unitaria e continuata da parte dell’autore. Il titolo, composto da due parole greche (déca, ‘dieci’, e emeròn, ‘giorni’), indica esattamente un periodo di dieci giorni, e riprende titoli simili della letteratura medievale (come ad esempio l’Hexaemeron di Ambrogio, sui sei giorni della Creazione). Ma, come una persona reale (che, all’epoca di Boccaccio, si cominciava a chiamare con ‘nome’ e ‘cognome’), così anche quest’opera presenta ‘nome’ e ‘cognome’, come avverte all’inizio lo stesso autore: “Comincia il libro chiamato Decameron cognominato prencipe Galeotto, nel quale si contengono cento novelle in diece dì dette da sette donne e da tre giovani uomini”. Galeotto era un personaggio della storia di Lancillotto e Ginevra, a cui si attribuiva anche la composizione di quel romanzo: il libro d’amore per eccellenza, leggendo il quale Paolo e Francesca si innamorano (If. V, 137: “Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse”). Boccaccio rinvia dunque alla letteratura cavalleresca di ispirazione erotica (il ciclo bretone) e a Dante (anche per il numero delle novelle, cento come i canti della Commedia), come modelli iniziali del Decameron, presenta esattamente la struttura dell’opera (cento novelle raccontate in dieci giorni da sette donne e tre giovani), e poi nel proemio si rivolge direttamente al suo pubblico, le donne, a cui le novelle sono dedicate, oltre che per ammaestramento, soprattutto per diletto, per evasione, per alleggerimento e sollievo della difficoltà del vivere, delle sue tristezze e sofferenze. Un messaggio già chiaro nell’incipit: “Umana cosa è aver compassione degli afflitti”.



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I testi raccontati sono definiti “cento novelle o favole o parabole o istorie”, ma è il primo termine, novella (già utilizzato nel Libro di novelle e di bel parlar gentile) quello che conta, e che riduce gli altri non a possibilità alternative di genere (come erano nelle letterature medievali), ma a semplici sinonimi. Superata l’esemplarità, e anche il vincolo della brevitas, la novella diventa una forma narrativa autonoma, capace di dilatarsi in intrecci complicati quasi come un romanzo, o di restringersi alla secchezza di pochi elementi. Le novelle, a loro volta, sono inserite in una struttura globale, che è essa stessa un racconto, la cornice, la vicenda dei dieci giovani che, per sfuggire la peste, si sono rifugiati in una villa fuori Firenze, e passano il tempo raccontandosi storie. A questo livello bisogna aggiungerne un altro, anche se più sfuggente, e quasi mai dichiarato: quello dell’autore stesso, che trasferisce le novelle (‘raccontate’, e quindi trasmesse nell’oralità) all’universo della scrittura, e che nell’opera (oltre al Proemio e alle Conclusioni   ) interviene in prima persona solo una volta, all’inizio della quarta giornata, per difendere il proprio stile “umilissimo e rimesso”, e le proprie scelte tematiche e morali. La cornice è una struttura narrativa autonoma, e deriva dalle raccolte di novelle orientali, arabe, persiane, indiane (ad esempio, le Mille e una notte). Di più, in Boccaccio, ha un forte valore di contemporaneità, e quindi di ‘verità’ del racconto, rinviando a quel tragico 1348 che tutti avevano vissuto. L’introduzione, quindi, è la descrizione della peste, un brano di vera cronaca contemporanea (anche se richiama storici medievali come Paolo Diacono), con particolari macabri che lo fanno definire “orrido cominciamento”. Più che la manifestazione visibile del Trionfo della Morte, a Boccaccio importa la percezione di una ‘sospensione’ della civiltà, in tutti i suoi aspetti, e quindi di sospensione delle regole: i legami familiari, i freni morali e religiosi, l’assoluta anarchia. Nell’ottica ristretta dell’ideologia familiare e borghese dell’epoca, era la catastrofe. Ma Boccaccio, più freddamente, vede l’evento come una grande e paradossale possibilità di ‘libertà’: libertà di azione (anche negativa), di giudizio, di parola (su tutto e tutti). I suoi eroi sono allora dieci giovani che sono protagonisti di una libera scelta: la fuga dalla ‘città’, per sfuggire non tanto il contagio (i loro cari sono morti, e anch’essi potrebbero essere già condannati), ma l’epidemia di ‘disumanizzazione’ che sembra aver colpito tutti gli altri. Al di fuori della ‘città’ si realizza il miracolo di un’altra sospensione: quella del tempo storico reale, e quindi della Morte (si ricordi che simile sospensione avveniva nelle Mille e una notte, in cui Sheherazade riusciva ad allontanare indefinitamente la morte grazie alla magia del racconto). Il tempo ricomincia a scorrere in modo a-storico ma ‘naturale’, segnato da albe e tramonti, e dalle ‘oneste’ occupazioni dei giovani; lo spazio è quello chiuso

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e protetto della ‘villa’, del ‘giardino’, sintesi armoniosa di natura e ragione, di piacere e decoro, di bellezza e di equilibrio. È necessario ricostruire la civiltà umana, per mezzo di nuove regole, di volta in volta affidate ad un re o ad una regina, a turno uno dei dieci giovani. È all’interno delle novelle che si torna al tempo della Storia, ed è in gran parte la storia contemporanea, in ambientazioni che si estendono dall’Italia all’Europa, sul Mediterraneo e fino al favoloso Oriente, ma con prevalenza della Toscana, e di Firenze. Anche i personaggi rinviano a tutte le classi sociali e a tutte le corporazioni: principi e nobili, ricchi mercanti e pirati, banditi di strada, pittori, avvocati, giuristi, medici, artigiani, contadini, cuochi. Due categorie della società contemporanea spiccano su tutte le altre. La prima, in chiave negativa, è quella degli ecclesiastici, una lunga galleria di preti, vescovi, frati, monaci, di volta in volta ipocriti, avari, e per lo più lussuriosi, oggetto di una satira impietosa, parallela alla condanna morale della corruzione della Chiesa, lanciata da Dante nella Commedia. La seconda categoria, invece, prevalentemente positiva, è quella delle donne, che conquistano una piena libertà d’espressione, con doti di sentimenti e intelligenza che spesso le portano a primeggiare sugli uomini: aristocratiche, popolane, prostitute, monache, le donne, ricorda Boccaccio, devono affrontare difficoltà di vita superiori a quelle degli uomini, collocate ad un rango subalterno nella società. E l’ultimo eroe del Decameron è appunto una donna, Griselda, che contrasta la ‘matta bestialità’ dell’uomo con la propria virtù e la propria coerenza. Come ‘vedeva’ Boccaccio le sue storie e i suoi personaggi? Ci restano due documenti eccezionali, inimmaginabili per altri autori, come Dante e Petrarca. Boccaccio, si sa, era ottimo amanuense, ma anche buon disegnatore. Quando un suo amico fiorentino, Giovanni Capponi, si copiò il Decameron (nel codice Parigino italiano 482, ca. 1360), lasciò in bianco le parti iniziali dell’opera e di ogni giornata, e Boccaccio le riempì con dei bellissimi disegni, che di solito rappresentavano la prima novella della giornata (Cepparello, Masetto, ecc.), un esempio straordinario di ‘traduzione’ in immagini. Quasi dieci anni dopo, lo stesso Boccaccio trascrisse tutta l’opera (nel codice Berlinese Hamilton 90, ca. 1370), e lì invece inserì i ritratti di alcuni personaggi, in piccoli disegni che evidenziano, anche in forma di caricatura, il loro carattere di analisi psicologica. Gli elementi fondamentali del Decameron sono essenzialmente due: natura e ragione. Da un lato l’insieme delle pulsioni ‘naturali’ dell’individuo, l’eros, il desiderio, il principio di piacere al suo livello primario e irrazionale, ma insopprimibile in sé; dall’altra il lungo cammino della civiltà, per mezzo dell’ingegno, che rende possibile il passaggio dallo stato ferino all’umanità,



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che eleva l’eros in amore, il desiderio di possesso in virtù positiva delle classi mercantili. Per Boccaccio l’humanitas (rappresentata nella cornice) sta nel mezzo, nell’equilibrio di eros e ingegno. L’eros è il motore primario, quello che dà la prima scintilla (come nella novella di Cimone), poi è necessario l’ingegno. L’assolutizzazione dell’uno o dell’altro elemento porta alla disumanizzazione, alla deformazione grottesca: gran parte dell’universo rappresentativo del Decameron serve appunto a rendere evidenti queste escursioni estreme dell’umanità, senza nessuna censura morale, dando pieno diritto di cittadinanza alle rappresentazioni del basso materiale e corporeo, della giocosità e della vitalità. Al di fuori dell’individuo è il potere della fortuna, non più elemento morale (in un mondo comunque guidato dalla Provvidenza), ma emblema dell’insieme inconoscibile della globalità in cui siamo immersi, dell’universo della possibilità, che può sconvolgere disegni lungamente preparati, ma anche risolvere positivamente situazioni apparentemente chiuse e tragiche. Alla lunga, l’ingegno può rivelarsi anche superiore alla fortuna, quando impara dall’esperienza, e riesce a prevedere lo sviluppo degli eventi. A differenza della Commedia di Dante, il Decameron non ha affatto una struttura morale ‘ascensionale’ dalla prima all’ultima giornata. La struttura è piuttosto di tipo circolare. Griselda non è l’antitesi di Cepparello. Anche nella cornice, simbolicamente, i giovani non sono impegnati in un ‘viaggio’, ma si fermano a novellare in ‘cerchio’, in luoghi circoscritti (anche se una delle novelle più significative, quella di Madonna Oretta, è raccontata in itinere, come avverrà poi per i Canterbury Tales di Chaucer). Conta di più, per Boccaccio, il criterio classico della variatio, dell’alternanza di situazioni e di stili: un criterio che non è solo estetico, ma che serve anche a rappresentare la realtà nella sua pienezza, e nella sua varietà, come è, e non come dovrebbe essere. Dal punto di vista stilistico, Boccaccio riesce a realizzare pienamente, nella prosa, quello stile mezzano che aveva cominciato ad elaborare già dal Filocolo, mistione di tragico-epico, leggendario-favoloso, e comico-realistico. I passaggi attraverso tutti questi ‘stili’ sono facilitati dal fatto che ogni novella può essere letta anche come testo autonomo, e che quindi vi sono novelle tragiche, comiche, favolose ecc.: ma è necessario osservare che l’unità strutturale dell’opera fa sempre evitare a Boccaccio gli estremi, in ogni direzione. È quel che si nota a livello linguistico: viene evitata una connotazione vernacolare o popolare troppo forte, il fiorentino è comunque elevato, nel lessico e soprattutto nella sintassi, lingua scritta e non parlata (in particolare nelle parti narrative), esemplata sul modello dei classici latini (Cicerone, Quintiliano, Livio). I periodi presentano spesso strutture sintatti-

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che molto ampie, basate su diversi gradi di subordinazione, ma bilanciano la complessità di pensiero con una forte musicalità del ritmo e dei valori fonici, soprattutto nelle clausole di fine periodo. Non è più la tecnica della prosa medievale: si tratta proprio di una conquista espressiva maturata in una lunga lettura dei classici, anche nel laboratorio del volgarizzamento. In ogni caso, lo stile tende sempre ad adattarsi alle situazioni e ai personaggi della novella: la sintassi si semplifica nei dialoghi tra popolani o contadini, e si complica retoricamente nelle grandi ‘orazioni’, il plurilinguismo dei dialetti italiani affiora ogni tanto (ma senza eccessi) a marcare le differenze regionali di un cuoco veneto o di una prostituta siciliana. Il risultato complessivo è quello di un nuovo realismo, che inizia a superare la secolare divisione degli stili (alto, medio, basso), finora legati a classi sociali diverse. Eros e ingegno, ci ricorda Boccaccio, appartengono a tutta l’umanità, senza alcuna discriminazione di classe, razza, religione, lingua, genere. Dopo il Proemio (in cui l’autore dedica l’opera alle donne), la narrazione inizia subito con l’introduzione alla I giornata, anch’essa rivolta alle “graziosissime donne”. Siamo nel 1348, e la Peste sta devastando Firenze. Un martedì mattina, nella chiesa di Santa Maria Novella, si ritrovano sette ragazze fra i 18 e i 28 anni, amiche e parenti tra loro (Pampinea, Elissa, Lauretta, Neifile, Fiammetta, Filomena ed Emilia: sono nomi fittizi, ripresi dalle altre opere di Boccaccio). La più matura, Pampinea, le convince a lasciare Firenze, cosa che è resa possibile dall’arrivo di tre ragazzi, che si uniranno a loro (Panfilo, Filostrato e Dioneo). Il giorno dopo, all’alba, il gruppo, con servi e vettovaglie, lascia Firenze, e raggiunge una villa con corte e giardino, su una collinetta a tre chilometri dalla porta della città, verso Fiesole (forse Poggio Gherardi). Le occupazioni della prima giornata scorrono tra passeggiata, pranzo, danza, musica, canto, poi, di pomeriggio, in un prato, Pampinea, eletta ‘regina’, propone di passare il tempo ‘novellando’, a turno, ciascuno di loro; il tema delle future giornate verrà scelto dal re o dalla regina, mentre questa prima giornata sarà a tema libero. Alla regola si sottrae solo Dioneo, che si riserva totale libertà tematica (di solito orientata a racconti comici o erotici). Panfilo racconta la prima novella, ambientata in Borgogna: protagonista è un malvagio notaio, ser Cepparello, che in punto di morte sembra beffare addirittura Dio, rilasciando una falsa confessione, così pia che, dopo la sua morte, viene santificato come san Ciappelletto (I,1). È un racconto ‘estremo’, ma in realtà Boccaccio insiste sul tema dell’imperscrutabilità del giudizio divino (un tema simile a quello della Commedia dantesca), ironizzando sulla superstizione popolare. Cepparello è figura eroica, anche se negativa. Altre critiche della corruzione ecclesiatica compaiono nelle novelle di Abraam giudeo (I,2), e di un licenzioso monastero di Lunigiana, dove monaco e abate si godono la stessa fanciulla (I,4). Alla sera i giovani tornano nella villa, cenano e danzano, e concludono la giornata cantando una ballata: un rituale che verrà ripetuto nelle giornate successive.



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La II giornata, di giovedì, regina Filomena, presenta le avventure dominate dalla fortuna, ma a lieto fine. Non conta solo la fortuna, ma anche l’ingegno, perché i personaggi subiscono una sorta di metamorfosi, diventano più savi o prudenti. Nella prima novella (che rinvia a quella di Cepparello) il giullare Martellino si finge prima paralitico e poi miracolato dalle reliquie del Beato Arrigo, a Treviso, ma poi, smascherato, rischia il capestro (II,1). Tre novelle creano un piccolo ciclo napoletano, con le storie di Landolfo Rufolo da Ravello (II,4), il giovane mercante Andreuccio da Perugia, derubato da una cortigiana (II,5), e la nobile Beritola Caracciola (II,6). Se Andreuccio si muove nel labirintico (e pericoloso) scenario cittadino di Napoli, con i suoi vicoli e i suoi luoghi reali, Landolfo e Beritola vengono trascinati dalla fortuna in giro per i mari, e la donna addirittura, finita da sola nella natura selvaggia di Ponza, diventa una specie di Robinson Crusoe: tutta abbronzata e pelosa vive in una grotta e allatta due caprette, “gentil donna divenuta fiera”. Incredibili avventure erotiche saranno quelle della saracena Alatiel, posseduta da otto uomini diversi prima di venire maritata al re del Garbo, che la crede ancora vergine (II,7), il tutto sullo sfondo di un Mediterraneo meraviglioso, tra esotismo ed erotismo, piccolo romanzo da ‘leggere’ sulla mappa di un portolano, di una carta marina dell’epoca. Ma anche Alatiel è un’eroina che “con altezza d’animo propose di calcare la miseria della sua fortuna”; concupita suo malgrado, domina il corso degli eventi, che invece travolgono i suoi malcapitati spasimanti; di più, la bella Alatiel non riesce a comunicare con i suoi amanti cristiani con le parole (perché è saracena), ma solo con il linguaggio del corpo. Dopo la pausa di venerdì e di sabato, prescritta per adempiere a funzioni religiose, e a pratiche igieniche, la III giornata, di domenica, vede il passaggio ad un’altra villa, con un bel prato e una fontana di marmo (forse sul poggio di Camerata). Regina Neifile, si tratterà del potere dell’ingegno nell’acquistare o recuperare qualcosa di fortemente desiderato. Il tema viene subito interpretato in chiave di desiderio sessuale, di dominio dell’eros a cui si piega anche l’ingegno, e con la solita satira dell’ipocrisia dei religiosi. Masetto da Lamporecchio si finge muto per lavorare l’orto di un convento, e finisce col diventare l’amante di tutte le monache: anche qui, come Alatiel, parlando il solo linguaggio del corpo (III,1). Alla fine della giornata, Dioneo racconta l’incredibile storia della semplice fanciulla Alibech, che, infiammata di santo ardore, viene convinta dall’eremita Rustico che mettere “lo diavolo in inferno” (trasparente metafora sessuale) è cosa buona e giusta, e vorrebbe dedicarsi unicamente a questa santa occupazione (III,10). L’ambientazione è nella mitica Tebaide egiziana, ed è evidente, da parte di Boccaccio, il rovesciamento parodico della santità di quegli eremiti (personaggi di una vasta letteratura esemplare, come le Vite dei Santi Padri, dove spesso il demonio compariva in forma di femmina seducente). Al di là del tema morale, però, qui emerge la rappresentazione dell’ingenua freschezza e della potenza dell’eros, forza primitiva anteriore ad ogni convenzione sociale. La medesima situazione di Alibech è in fondo nella centounesima novella, che Boccaccio stesso racconta alle “carissime donne”, fuori cornice, all’inizio della IV giornata, la storia del figlio di Filippo Balducci che, educato in totale

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isolamento e prevenzione dai mali del mondo, desiderando fortemente le belle donne da lui viste nella ‘prima uscita’ a Firenze, ne viene dissuaso dal padre, che, non osando nemmeno dirne il nome, le definisce ‘papere’. È l’esempio della forza incoercibile dell’amore, con il quale Boccaccio difende le sue “novellette”, scritte in “fiorentin volgare” e in “istilo umilissimo e rimesso”. Riprende la narrazione. È lunedì, re Filostrato, e il tema quello dell’amore tragico, l’aspetto nero e distruttivo dell’eros, sui grandi esempi letterari di Francesca, o di Isotta. Così è, infatti, la prima novella, con la grande ed eroica figura di Ghismunda, che, di fronte al padre Tancredi che le ha fatto avere il cuore dell’amante in una coppa, si uccide bevendo senza timore il veleno (IV,1); una situazione simile a quella di Guglielmo da Rossiglione, che fa mangiare alla moglie il cuore dell’amante, ma stavolta cotto a puntino, e ne provoca il suicidio (IV,9). Interessa notare che lo stile tragico (di solito riservato a personaggi di alto livello sociale) può ora servire a raccontare la storia di personaggi borghesi, come la sventurata Lisabetta da Messina, cui i fratelli uccidono l’amante Lorenzo; dal fatto di cronaca nera Boccaccio passa al racconto fantastico, quando fa apparire Lorenzo in sogno a Lisabetta, che riesce a trovarne il corpo, e, segatane la testa, nella follia amorosa continua a tenerla presso di sé, nascosta in un vaso, sotto una rigogliosa pianta di basilico (IV,5). Nel complesso, la quarta giornata è abbastanza cupa, e allietata dal solo intermezzo comico di frate Alberto, che, per godersi una bella e ingenua veneziana, si traveste da Angelo Gabriello, ma finisce con l’essere ignominiosamente scoperto (IV,2). Nella V giornata, di martedì, la regina Fiammetta rovescia il tema in amore a lieto fine, grazie all’aiuto della fortuna, o meglio ancora dell’ingegno, come appare nel primo esempio, quello del rozzo Cimone che, a Cipro, per amore di Ifigenia trasforma completamente se stesso, diventando un giovane di grande cultura e ‘cortesia’(V,1). Altra rappresentazione di un eros fresco e ingenuo è nella novella di Ricciardo e Caterina, giocata tutta sulla metafora sessuale dell’usignuolo (V,4). Più complessa, anche per la rete di riferimenti alla letteratura medievale, è la storia di Nastagio degli Onesti che, respinto ingiustamente dalla sua amata, riesce a farle cambiare idea proponendole lo spettacolo terrificante e soprannaturale di una caccia infernale nella pineta di Classe, giusta punizione per chi nega l’amore (V,8). Ultimo esempio è ancora di ‘cortesia’, ma anche di ‘miseria e nobiltà’, col nobile decaduto Federigo degli Alberighi che dà da mangiare all’amata Monna Giovanna il suo falcone prediletto, senza sapere che la donna era venuta da lui per avere in dono proprio quel bel falcone, e regalarlo al figliolo ammalato (V, 9). Nella VI giornata, di mercoledì, la regina Elissa propone come tema i motti di spirito. È il dominio della parola, dell’espressione dell’ingegno e dell’arguzia. La prima novella, al centro del Decameron, è addirittura una ‘metanovella’, cioè un testo il cui soggetto è l’atto stesso del narrare, con una Madonna Oretta, moglie di Geri Spina, che nel corso d’un viaggio, condividendo la cavalcatura con un insopportabile e maldestro novellatore, gli chiede finalmente di scendere da cavallo, cioè, metaforicamente, di finirla con quello strazio (VI,1). L’ambientazione è di solito in Toscana, con personaggi borghesi, o del tutto popolari,



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come Cisti fornaio, che dà un’arguta risposta al servo di Geri Spina (VI,2), o il cuoco veneziano Chichibio, che al padrone Corrado Gianfigliazzi s’inventa la favola che le gru hanno una sola zampa (V,4). Tra gli altri personaggi, spicca il pittore Giotto, famoso per la sua bruttezza (V,5); monna Filippa di Prato, che, colta in flagrante con l’amante, con un suo discorsetto riesce a far cambiare la legge cittadina che condannava a morte le adultere (V,7); e soprattutto la figura di Guido Cavalcanti, considerato filosofo ‘epicureo’ e campione di leggerezza esistenziale (V,9). Alla fine, Dioneo racconta la storia di frate Cipolla, “il miglior brigante del mondo” e “gran rettorico”, ambientata proprio a Certaldo, dove il buon frate avrebbe dovuto mostrare alla gente credula la penna dell’Angelo Gabriello (in realtà la variopinta penna di un pappagallo), e invece, trovati nella cassettina delle reliquie solo dei carboni inseriti da due burloni, dichiara solennemente che sono le braci su cui fu arrostito san Lorenzo (V,10). Qui Boccaccio raggiunge il vertice espressivo della parodia delle prediche contemporanee, una straordinaria prova mimetica anche nell’invenzione geografica, degna di testi come il Milione. La giornata si conclude con un’escursione nella Valle delle Donne, dove i giovani si bagnano piacevolmente nelle acque di un fiume, forse la Mensola. La VII giornata, di giovedì, vede i giovani tornare nella Valle delle Donne. Il re Dioneo chiede di raccontare le beffe delle donne ai mariti, un tema ancora dominato dall’ingegno e dall’eros. Le beffe sono strutturate di solito sullo schema del ‘triangolo’ donna-marito-amante, ma con prevalenza assoluta della donna nell’azione. Una novella riporta la scena a Napoli, e in un contesto molto popolare, con Peronella che riesce a beffare contemporaneamente marito ed amante, su uno spunto che deriva addirittura da Apuleio, autore latino appena riscoperto da Boccaccio (VII,2). Estranea al tema è l’ultima novella dei senesi (per il fiorentino Boccaccio, sempliciotti per antonomasia) Tingoccio e Meuccio, che si fanno reciprocamente la promessa che chi morirà per primo tornerà in sogno all’altro, a raccontargli come vanno le cose dall’altra parte. Il che puntualmente avviene: ma la grande sorpresa è la rivelazione che, nell’oltretomba, il peccato di lussuria non è poi tanto punito. Come diceva anche Dante, c’è ben di peggio, nella malvagità degli uomini, e quindi nelle punizioni dell’Inferno. Per l’amico superstite, è una grande rivelazione (veritiera, perché ottenuta grazie a una visio): l’eros non è peccato (VII,10). Dopo la pausa di venerdì e sabato, l’VIII giornata, di domenica, regina Lauretta, resta sul tema delle beffe, ma di vario genere, e sempre con il coinvolgimento di eros e ingegno. Tra quelle erotiche spicca l’“amorazzo contadino” del Prete di Varlungo, importante per il basso linguaggio espressivo messo in campo da Boccaccio (VIII,2). Appare poi una vera brigata di ‘beffatori’, Maso, Bruno e Buffalmacco, con la figura dell’eterno beffato, Calandrino, cui i compari fanno credere l’esistenza della magica pietra dell’elitropia che rende invisibili, e poi gli rubano un porco e due capponi (VIII, 3 e 6); Maso e compagni invece riescono a sottrarre le brache del giudice marchigiano Nicola da Sant’Elpidio proprio mentre il malcapitato sta sentenziando (VIII,5), mentre i soliti Bruno e Buffalmacco fanno finire il tronfio medico Mastro Simone in un bel bagno di

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escrementi (come era successo ad Andreuccio)(VIII,9). La fine della giornata arriva al racconto della ‘beffa al quadrato’, cioè del ‘beffatore beffato’ o della ‘beffa vendetta di beffa’: uno studente di Parigi che si vendica atrocemente della perfida burla di una vedova (VIII,7), o la cortigiana ‘ciciliana’ Iancofiore superata in astuzia dal mercante Salabaetto (VIII,10). La IX giornata, di lunedì, regina Emilia, torna sul tema libero, che però diventa prevalentemente la rappresentazione comica e liberatoria dell’eros, con l’immagine di una badessa che, nella fretta, si riveste mettendosi in testa le brache del prete con cui giaceva (IX,2). Di nuovo in Toscana, torna il personaggio di Calandrino, prima convinto di essere ‘incinto’ (IX,3), e poi innamorato e bastonato dalla moglie (IX,5); ma compaiono anche personaggi dell’epoca di Dante, come lo scapestrato Cecco Angiolieri (IX,4), e il goloso Ciacco (IX,8). Apoteosi della giornata è la novella campagnola di Donno Gianni, un prete licenzioso che fa credere a una donna di potersi trasformare in cavalla, e se la gode mentre organizza il finto rituale magico, ovviamente alla presenza del marito (IX,10). Per la X giornata, di martedì, il re Panfilo propone esempi di liberalità e magnificenza, cortesia e virtù, grandezza d’animo che trionfa sulla fortuna, e che si dimostra superiore anche ad eros e ingegno. Si tratta di personaggi appartenenti di solito ad elevato rango sociale e culturale. L’ultima novella, raccontata da Dioneo, presenta invece una donna di umili origini, addirittura la “figlia d’un villano”, sposata da Gualtieri marchese di Saluzzo senza amore, ma solo per dimostrare la vanità delle donne. Il suo nome è Griselda, e nonostante tutte le prove, anche crudeli, che ella deve sopportare a causa della ‘matta bestialità’ del marito, riesce a mantenere costante la sua forza d’animo, e la sua virtù, al punto da ottenere, alla fine, il pentimento completo di Gualtieri, e il suo amore (X,10). Il tempo del novellare si è ormai concluso. La mattina del giorno dopo i giovani tornano a Firenze, dove l’epidemia sembra aver attenuato la sua forza mortifera. L’autore riprende per un’ultima volta la parola, nella Conclusione rivolta alle “nobilissime giovani”, con un’apologia dell’opera contro le accuse di oscenità o di imperfezione linguistica o formale.

3.4. Opere della maturità Gli anni di composizione del Decameron furono fondamentali, per Boccaccio, anche per confermare l’importanza che, nella sua formazione intellettuale, aveva avuto l’eredità di Dante, amato fin dalla giovinezza, e poi, dopo il ritorno a Firenze, diventato il centro di una vera politica culturale di esaltazione di Firenze nel panorama italiano. È questo, infatti, il senso profondo dell’incontro con Petrarca, con la continua insistenza, da parte di Boccaccio, affinché il più anziano amico e maestro leggesse la Commedia. L’opera di trascrizione del poema, da parte di Boccaccio, fu decisiva per la costituzione



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di quella che si definisce una ‘vulgata’, cioè un testo più o meno stabile, che dalla metà del secolo si continuò a copiare in tutta Italia, livellando le differenze che prima esistevano, tra le diverse tradizioni. Boccaccio era riuscito a ritrovare testi rari di Dante, come le egloghe o le lettere, e a salvarli nei suoi Zibaldoni, e per rispondere ad alcuni dubbi irrisolti (Dante aveva iniziato la Commedia prima o dopo l’inizio dell’esilio? e l’aveva iniziata in latino o in volgare?) non aveva esitato a fabbricare qualche piccolo ‘falso’: una curiosa lettera attribuita a un misterioso Frate Ilaro, che avrebbe incontrato l’esule Dante. Boccaccio copiò ancora Vita nuova, Commedia e canzoni del Convivio in un codice ora a Toledo, e la Vita nuova in un codice Chigiano (Biblioteca Vaticana). Come introduzione a questi suoi manoscritti, compose allora una biografia di Dante, il Trattatello in laude di Dante (iniziato nel 1351-1352, e oggetto di varie rielaborazioni), intessuta di dati biografici reali (ad esempio, sull’identità di Beatrice) e leggendari (il sogno della madre di Dante), finalizzati alla costruzione del mito del ‘poeta teologo’, autore della ‘divina’ Commedia (epiteto non dantesco che compare per la prima volta proprio con Boccaccio). Una ‘lettura’ dell’opera di Dante, più orientata all’esegesi retorica e storico-mitologica, che sarebbe culminata nelle Esposizioni della Commedia, lettura pubblica di cui Boccaccio fu incaricato a Firenze, nella Chiesa di Santo Stefano di Badia, nel 1373, ma interrotte, nel 1374, sul canto XVII dell’Inferno. Dante, come s’è visto, era stato il grande modello del capolavoro di Boccaccio, nella tensione continua ad una rappresentazione realistica del mondo degli uomini, nelle loro vicende e nelle loro passioni. Un realismo che (forse ancora su influsso dantesco) è presente nell’ultima opera volgare di Boccaccio, il Corbaccio (1355), originato dalla vicenda di un amore non ricambiato per una vedova (è lei il nero e malefico ‘corvo’ adombrato nel titolo), la cui perfidia è rivelata al poeta-amante in un sogno-visione dal fantasma dello stesso defunto marito della donna. L’autore finisce quindi col rinnegare tutta la sua opera di esaltazione della nobiltà e dell’intelligenza della donna, dalla Caccia di Diana al Decameron, nel segno ora della più bieca e tradizionale misoginia medievale. È una palinodia tardiva, e credibile fino a un certo punto. Importa piuttosto, al di là dei contenuti (che oggi potrebbero sembrare politically incorrect), il risultato di grande espressività realistica raggiunta da Boccaccio, con uno stile veloce, e una sintassi talvolta scorretta, ma molto più moderna e vicina alle ‘cose’, rispetto all’equilibrio del Decameron. È singolare che tali risultati siano stati raggiunti quando la principale attenzione di Boccaccio, dopo l’incontro con Petrarca, era ormai rivolta agli

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studi classici, e alla produzione di opere in latino, molto vicine a quelle del suo grande amico. Ad esempio, nel genere bucolico, dopo aver trascritto nello Zibaldone Laurenziano le egloghe di Dante, e l’egloga Argus di Petrarca, anche Boccaccio volle iniziare a scrivere testi pastorali, inizialmente in forma epistolare (come Dante), e poi nella raccolta delle sedici egloghe del Buccolicum carmen (‘poema pastorale’)(1350-1368), dedicato al pastore Appennino, in realtà un amico del Petrarca, Donato degli Albanzani, che aveva appunto commentato le egloghe petrarchesche. Ma, a differenza di Petrarca, Boccaccio preferisce cantare, sotto il travestimento pastorale, il suo personale mondo di amori (nella prima egloga, Galla, la storia di Fiammetta e Panfilo), e di affetti familiari (nell’egloga Olympia, la dolcissima riapparizione della figlia Violante, morta ad appena sei anni). La straordinaria vena narrativa di Boccaccio (con accentuazione di caratteri già presenti nel Decameron, come il potere della Fortuna o dell’Eros, e l’importanza della donna) si riflette anche in latino, in opere come il De casibus virorum illustrium (‘disgrazie di uomini illustri’)(1355-73) e il De mulieribus claris (‘le donne famose’)(1361-1375), compilazioni erudite da testi classici e medievali, che ebbero però fortuna enorme nella cultura europea, attraverso una serie di traduzioni, ad iniziare da quelle in francese. Nel genere dell’agiografia, cioè della biografia sacra, fu composta anche una Vita sanctissimi patris Petri Damiani (‘vita di san Pier Damiani’)(1362), mentre opera di erudizione geografica fu il De montibus, silvibus, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus, et de nominibus maris (‘monti, selve, fonti, laghi, fiumi, stagni o paludi, e nomi del mare’)(1355-57), derivato dai geografi antichi (Plinio, Solino, Pomponio Mela, e soprattutto Vibio Sequestre). L’opera latina che appassionò Boccaccio fino alla fine (e che ebbe anch’essa ampia ricezione in Europa) fu però la Genealogia deorum gentilium (‘genealogia degli dèi pagani’)(iniziata nel 1350, ripresa nel 1363-66, e continuata fino al 1374), grande trattato di mitologia in 15 libri (di cui gli ultimi due dedicati alla riflessione poetica). Era un tema ‘originario’, per Boccaccio. La sua poesia era cominciata con una favola su Venere e Diana, e si era sempre nutrita delle favole antiche. L’incontro con Petrarca (1350), studioso attento di mitologia, collezionista di rari testi mitografici (nel codice Parigino latino 8500), e autore di un compendio iconografico degli dèi pagani (il terzo libro dell’Africa, ripreso in tutta Europa tramite una rielaborazione di Ovidio, l’Ovide moralisé  ), spinse Boccaccio a scrivere la prima enciclopedia moderna del mito, un testo fondativo in cui si superava definitivamente la tradizione medievale di attualizzazione e allegorizzazione morale-religiosa. Era un ritorno deciso agli Antichi, che preparava ormai la ‘rinascita degli dèi’, e l’alba di una nuova civiltà.



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Bibliografia Edizione completa delle opere: Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, a c. di V. Branca, Milano, Mondadori, 1964-1999. Cfr. anche Opere, a c. di C. Segre, Milano, Mursia, 1966. Monografie: C. Muscetta, Boccaccio (1972), Bari, Laterza, 1990; F. Tateo, Boccaccio, Roma-Bari, Laterza, 1988; L. Surdich, Boccaccio, Roma-Bari, Laterza, 2001; L. Battaglia Ricci, Boccaccio, Roma, Salerno, 2002. Studi critici: G. Billanovich, Restauri boccacceschi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1947; V. Branca, Boccaccio medievale e nuovi studi sul “Decameron” (1956), Firenze, Sansoni, 1986; G. Padoan, Il Boccaccio, le Muse, il Parnaso e l’Arno, Firenze, Olschki, 1978; P.G. Ricci, Studi sulla vita e sulle opere di Giovanni Boccaccio, MilanoNapoli, Ricciardi, 1983; F. Bruni, Boccaccio. L’invenzione della letteratura mezzana, Bologna, Il Mulino, 1990. Sulla tradizione manoscritta: V. Branca, Tradizione delle opere di Giovanni Boccaccio, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1958-1991. Sull’importante aspetto della tradizione figurativa: V. Branca, Boccaccio visualizzato. Narrare per parole e per immagini fra Medioevo e Rinascimento, Torino, Einaudi, 1999. Rivista specializzata: “Studi sul Boccaccio”. Risorse in rete: Decameron Web, Brown University (www.brown.edu). 3.1. La vita. V. Branca, Giovanni Boccaccio. Profilo biografico, in Tutte le opere, vol. I (1967), pp. 3-203. Sugli zibaldoni: Gli Zibaldoni di Boccaccio. Memoria, scrittura e riscrittura, a c. di M. Picone e C. Cazalé Bérard, Firenze, Cesati, 1998. Lo Zibaldone Laurenziano è consultabile in rete (rmcisadu.let.uniroma1.it/boccaccio/). Per la produzione giovanile di rime, lettere ed esercizi poetici in latino, v. il vol. V, parte I, di Tutte le opere (1992): Rime, a c. di V. Branca (con Appendici di G. Padoan); Carmina, a c. di G. Velli; Epistole e lettere, a c. di G. Auzzas (con un contributo di A. Campana); Vite, a c. di R. Fabbri; De Canaria, a c. di M. Pastore Stocchi. 3.2. Opere giovanili. - Caccia di Diana, a c. di A.E. Quaglio, in Tutte le opere, vol. I (1967). - Filocolo, a c. di A.E. Quaglio, in Tutte le opere, vol. I (1967). - Filostrato, a c. di V. Branca, in Tutte le opere, vol. II (1964). - Teseida, a c. di A. Limentani, in Tutte le opere, vol. II (1964). - Comedia delle Ninfe fiorentine, a c. di A.E. Quaglio, in Tutte le opere, vol. II (1964). - Amorosa visione, a c. di V. Branca, in Tutte le opere, vol. III (1974).

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- Elegia di Madonna Fiammetta, a c. di C. Delcorno, in Tutte le opere, vol. V, t. II (1994). - Ninfale fiesolano, a c. di A. Balduino, in Tutte le opere, vol. III ����������� (1974). 3.3. Decameron. Ed. crit. a c. di V. Branca, Firenze, Accademia della Crusca, 1976; con commento a c. di V. Branca (1980), Torino, Einaudi, 1992. Studi critici: G. Getto, Vita di forme e forme di vita nel Decameron, Torino, Petrini, 1958; V.B. Sklovskij, Lettura del Decameron, Bologna, Il Mulino, 1969; T. Todorov, Grammatica del Decameron (1969), in Poetica della prosa, Roma-Napoli, Theoria, 1989; M. Baratto, Realtà e stile nel “Decameron”, Roma, Editori Riuniti, 1980; Il testo moltiplicato, a c. di M. Lavagetto, Parma, Pratiche, 1982 (diverse letture della novella di Lisabetta da Messina); G. Bárberi Squarotti, Il potere della parola. Studi sul Decameron, Napoli, Federico e Ardia, 1983; C. Cazalé Bérard, Stratégie du jeu narratif. Le Décaméron, une poétique du récit, Paris, CRLLI, 1985, e Métamorphoses du récit, Paris, CRLLI, 1987; P.D. Stewart, Retorica e mimica nel «Decameron» e nella commedia del Cinquecento, Firenze, Olschki, 1986; L. Battaglia Ricci, Ragionare nel giardino. Boccaccio e i cicli pittorici del Trionfo della morte, Roma, Salerno, 1987; F. Fido, Il regime delle simmetrie imperfette. Studi sul “Decameron”, Milano, Angeli, 1988; Lessico critico decameroniano, a c. di R. Bragantini e P.M. Forni, Torino, Bollati Boringhieri, 1995; P. Cherchi, L’onestade e l’onesto raccontare del Decameron, Firenze, Cadmo, 2004; S. Marchesi, Stratigrafie decameroniane, Firenze, Olschki, 2004; G. Alfano, Nelle maglie della voce. Oralità e testualità da Boccaccio a Basile, Napoli, Liguori, 2006; M. Picone, Boccaccio e la codificazione della novella. Letture del Decameron, Ravenna, Longo, 2008. 3.4. Opere della maturità. - Trattatello in laude di Dante, a c. di P.G. Ricci, in Tutte le opere, vol. III (1974). - Esposizioni sopra la Commedia di Dante, a c. di G. Padoan, in Tutte le opere, vol. VI (1965). - Corbaccio, a c. di G. Padoan, in Tutte le opere, vol. V, t. 2 (1994). - Buccolicum carmen, a c. di G. Bernardi Perini, in Tutte le opere, vol. V, t. 2 (1994). - De casibus virorum illustrium, a c. di P.G. Ricci e V. Zaccaria, in Tutte le opere, vol. IX (1983). - De mulieribus claris, a c. di V. Zaccaria, in Tutte le opere, vol. X (1967). - De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus, et de nominibus maris, a c. di M. Pastore Stocchi, in Tutte le opere, voll. VII-VIII, tomo 2 (1998). - Genealogia deorum gentilum, a c. di V. Zaccaria, in Tutte le opere, voll. VII-VIII, t. 1-2 (1998). Cfr. in generale sulle tarde opere latine: V. Zaccaria, Boccaccio narratore, storico, moralista e mitografo, Firenze, Olschki, 2001.

4. Cultura volgare fra Tre e Quattrocento

4.1. La prosa Dopo la metà del Trecento la fortuna sovraregionale della Commedia dantesca e l’intensa rete di relazioni culturali intessuta da Petrarca e Boccaccio contribuiscono alla graduale creazione di un pubblico della letteratura in lingua fiorentina e toscana, ormai recepita come lingua media della comunicazione letteraria anche al di fuori della Toscana. Grazie al Decameron il genere che gode di maggior fortuna è quello della narrativa breve, della novellistica, che ora veramente comincia a configurarsi come ‘genere’, come spazio di composizione in cui si riconoscono elementi di continuità formale da un autore all’altro, e si crea nel pubblico un preciso orizzonte di attesa. Ed è in questo contesto che matura l’episodio più importante di ricezione del Decameron a livello europeo: la sua lettura da parte di un letterato inglese di nome Geoffrey Chaucer, figlio di un mercante di vini di Londra al servizio di principi di sangue reale, che venne in Italia nel 1372 e nel 1378, e che scrisse i Canterbury Tales (‘racconti di Canterbury’) nella cornice di un pellegrinaggio a Canterbury. L’autore italiano più significativo è senza dubbio il fiorentino Franco Sacchetti (Firenze 1332-1400), appartenente ad una famiglia di mercanti di parte guelfa (e forse nato non a Firenze ma a Ragusa in Dalmazia). Vicino al Boccaccio, il giovane Sacchetti partecipa dell’atmosfera giocosa del Decameron nella Battaglia delle belle donne (1353), poemetto in ottave in cui le vecchie invidiano la bellezza e la freschezza delle giovani, in uno stile vicino alla lingua parlata, con dialoghi, giochi linguistici e bisticci; e si collega alla tradizione lirica fiorentina nel Libro delle rime (1363-1400), raccolto in un manoscritto autografo (ora a Firenze, Biblioteca Laurenziana), con una predilezione particolare per alcuni generi più ‘leggeri’ e cantabili, come le ballate derivate dalle ‘pastorelle’ (celebre, fra tutte, O vaghe montanine pasturelle), o alcuni originali

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componimenti ambientati in un contesto cacciatorio e boschivo, intitolati appunto ‘cacce’. Molti dei testi poetici del Sacchetti erano strettamente legati alla musica, e venivano eseguiti nelle occasioni festive della società borghese dell’epoca. A questa produzione giovanile seguì, dopo la pestilenza del 1374 ed un’acuta crisi religiosa, una stagione di impegno religioso (testimoniato dalla composizione di nuove poesia religiose, e delle Sposizioni dei vangeli, 1381) e politico, con il coinvolgimento diretto nel governo fiorentino. Da questa esperienza di vita cittadina, tutta fiorentina e toscana, nacque una raccolta di novelle, intitolata Trecentonovelle (1392-1397), che anche nel titolo sembrava esprimere una volontà di superamento del capolavoro di Boccaccio (in realtà, ne furono scritte molte di meno, 223). La differenza maggiore, rispetto al Decameron, è, a livello macrostrutturale, l’eliminazione della cornice. L’opera sembra più vicina ad un ‘libro di ricordi’, o a una ‘cronaca’, con una maggior importanza del punto di vista (sociale e morale) dell’autore-novellatore, che tiene talvolta a precisare che si tratta di storie ‘vere’, o di cui egli stesso è testimone. Le novelle sono narrate direttamente dall’autore, che di solito aggiunge una sua conclusione moralistica, legata allo sfondo borghese e mercantile a cui appartengono quelle vicende e quei personaggi (artigiani, mercanti, bottai, speziali), nel superamento definitivo dei miti cortesi che erano ancora compresenti in Boccaccio. Di più, le novelle tendono a condensarsi in forme sempre più brevi, e meno complesse, in cui stilisticamente prevale il dialogo, e di nuovo una lingua vicina al parlato. Gli altri novellieri contemporanei sentono invece tutti il bisogno di una cornice di tipo boccacciano. Il giullare Giovanni da Firenze (soprannominato Malizia Barattone, interessante figura che gira tra le varie corti italiane, in particolare nella Napoli angioina), nel Pecorone (1380) fa raccontare le sue novelle, alternatamente per venticinque giorni, a un frate Auretto e una monaca Saturnina, che comunicano castamente tra loro attraverso le grate di un parlatorio di un monastero di Forlì (singolare situazione di ‘luogo chiuso’ che reinventa in uno spazio sacro il ‘giardino’ decameroniano): in tutto cinquanta novelle (e venticinque ballate), che derivano dalla precedente tradizione narrativa, ma anche dall’attualità, e soprattutto dalla cronaca (molte novelle sono in realtà capitoli della Cronica di Giovanni Villani, trasferiti di sana pianta in forma novellistica). Il lucchese Giovanni Sercambi (1348-1424), autore anche di una cronaca della sua città, dà alle sue 155 Novelle un punto d’avvio simile al Decameron, l’epidemia di peste del 1374: una brigata di giovani cerca di sfuggirle lasciando la propria città, e continuando a novellare nel corso di un viaggio per l’Italia (una struttura quindi ‘itinerante’, come in Chaucer). E anche il senese Gentile Sermini racconta di essere sfuggito ad una pestilenza, per raccogliere



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in ‘villa’ le sue quaranta Novelle (ca. 1426), che un amico a sua volta aveva ascoltato nel centro termale di Petriolo, presso Siena. La Firenze del primo Quattrocento, raffinato luogo d’incontro di umanisti ed artisti, è invece il soggetto principale del Paradiso degli Alberti dell’eclettico notaio Giovanni Gherardi (Prato 1367-1442), per il quale la ‘cornice’ (ambientata nel 1389) diventa l’elemento autoreferenziale della scrittura; ancora nello scenario di una ‘villa’, quella del Paradiso, a Firenze, appartenuta alla famiglia Alberti. All’opposto, la novella può acquistare un’autonomia tale, come forma narrativa, da circolare da sola, nella forma detta ‘spicciolata’. Ad esempio, Antonio di Tuccio Manetti (Firenze 1423-1497), amico del Brunelleschi (ne scrive una bella e vivace Vita, inaugurando il genere letterario della biografia d’artista), compone la celebre Novella del Grasso legnaiuolo, storia di una beffa ideata proprio dal Brunelleschi, che fa credere al Grasso di essere un’altra persona. La novella si trasforma in una specie di ‘commedia’ della vita rappresentata sulla scena cittadina di tutti i giorni, in una situazione che ricorda una vera commedia di Plauto, i Menaechmi; proprio in quel periodo l’autore latino (sconosciuto da secoli) veniva riscoperto, in una biblioteca tedesca, da Poggio Bracciolini, e riportato in Italia. Infine, la struttura ampia e onnicomprensiva (dal punto di vista stilistico e narrativo) del Decameron poteva originare fenomeni di specializzazione in sottogeneri letterari, destinati ad avere uno statuto autonomo. Dalla sesta giornata, ad esempio, derivò la ricca tradizione di motti e facezie, raccolte di novelle di solito brevi o brevissime, giocate su un motto di spirito che risolve una situazione difficile, o mette in burla un avversario, dimostrazione di intelligenza o astuzia di personaggi appartenenti ad un ceto umile e popolare. In un caso, si tratta di una raccolta legata ad un unico personaggio, la cui vita diventa il filo unitario (la ‘cornice’): Motti e facezie del Piovano Arlotto, dal nome di un longevo prete di campagna, Arlotto Mainardi (ca. 1396-1484). Il genere aveva già avuto, del resto, un riconoscimento ufficiale, anche nella letteratura umanistica latina, con il Liber facetiarum di Poggio Bracciolini; e lo stesso Poliziano vi si esercitò in volgare, con il Bel libretto di detti piacevoli (1477-1482). Molti manoscritti del Decameron, e dei novellieri fra Tre e Quattrocento, appaiono vergati da ‘lettori’ appartenenti alle classi sociali di mercanti e borghesi che maggiormente potevano vedersi rispecchiati in quelle storie. Non è un caso che fra quei mercanti si sviluppi sempre di più anche un’abitudine alla scrittura, che è soprattutto una scrittura di ‘memoria’, di ‘ricordi’, di registrazione dell’esperienza individuale, proiettata oltre il confine esistenziale del singolo, nella prospettiva della ‘famiglia’. Anche da un

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punto di vista ideologico, la ‘famiglia’ è il perno di questa società, e chi vi appartiene sente anche la responsabilità di trasmettere il suo bagaglio di conoscenze (della vita, del mondo, degli uomini, e, perché no, anche dei trucchi e dei segreti per fare fortuna negli affari) ai figli, e ai figli dei propri figli, in una catena che si prolunga nel tempo. Nascono così i libri di famiglia, o libri di ricordi, singolari forme di scrittura dell’io, codificate da un preciso rapporto di comunicazione da mittente (il mercante) a destinatario (il figlio del mercante, o i suoi discendenti), e chiuso comunque nel privato della famiglia. Nei casi in cui lo scrivente appartiene alle famiglie dominanti della città, la storia della famiglia si confonde con la storia cittadina: così è per la Cronica domestica di Donato Velluti (Firenze 1313-1370), o per i Ricordi di Bonaccorso Pitti (Firenze 1354-1430), che fu attivo su un vasto scenario europeo. Più ripiegato verso l’intimo familiare appare Giovanni di Pagolo Morelli (Firenze 1371-1444), mercante dell’Arte della Lana, che nei suoi Ricordi (1393-1411) racconta ad esempio il grande dolore provato per la morte del figlioletto, apparso poi in sogno al padre. Un ‘libro di famiglia’ in presa diretta possono essere considerate le lettere che Alessandra Macinghi Strozzi (1406-1471) scrisse ai propri figli, esiliati da Firenze, esempio di grande forza morale ed espressiva, che è testimonianza del livello culturale raggiunto dalle donne del ceto medio-alto nel corso del Quattrocento, e, allo stesso tempo, campione significativo di una scrittura ‘al femminile’, di una madre che, nel disastro politico della ‘famiglia’, si fa carico del valore ideologico, e ne garantisce la trasmissione. Un livello altissimo di espressione aveva già raggiunto, nel secolo precedente, un’altra donna, che per mezzo delle proprie lettere si era fatta ascoltare dai potenti di tutta Europa, papi e sovrani: santa Caterina da Siena (Siena 1347-Roma 1380). Figlia di un tintore, e poi terziaria domenicana, Caterina aveva imparato a scrivere, ma, per la composizione dei suoi testi (il Dialogo della Divina Provvidenza, e l’ampio Epistolario), si serviva di solito della dettatura. La principale forma di comunicazione di Caterina era la lettera, che in molti casi (considerata l’importanza del destinatario) aveva un valore pubblico. Per mezzo della lettera Caterina ammoniva, esortava, spingeva; e poi manifestava con immagini straordinarie il suo mondo interiore, fondato su una mistica dell’unione con Cristo, di un eros spirituale che si esprime con un linguaggio molto forte di ‘cose’ anche fisiche (il fuoco, il sangue). Sempre a Siena, dopo Caterina, la comunicazione religiosa continuò ad avere grande importanza, con la figura del francescano san Bernardino da Siena (1380-1444), che rinnovò il genere della predicazione, coinvolgendo l’uditorio in modo diretto, e con un linguaggio semplice ed efficace (definito



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da lui stesso “chiarozzo chiarozzo”!), ma anche con un’attenzione costante ai problemi concreti della gente: i rapporti sociali, la possibilità di una compiuta vita cristiana pur restando nel mondo, e operando onestamente nella mercatura e nella politica.

4.2. La poesia Anche nella poesia si registra il graduale allargamento della sfera d’influenza di Firenze e della Toscana al resto d’Italia. Nella poesia lirica, la lezione petrarchesca si accompagna ad una certa libertà di sperimentazione, che riporta i poeti, oltre i confini di un’esclusiva tematica d’amore, all’impegno politico, all’attualità, all’autobiografismo, alla poesia occasionale o celebrativa. Luoghi importanti, nella produzione e nella fruizione della poesia, sono ora le corti signorili dell’Italia del Nord, dove operano Antonio Beccari da Ferrara (1315-ca. 1374), Francesco di Vannozzo da Padova (ca. 1340-ca. 1390), e Simone Serdini da Siena detto il Saviozzo (ca. 1360-ca. 1420), che elabora la canzone ‘alla disperata’, lamento del poeta per un amore impossibile, concluso di solito con un desiderio di morte (e lo stesso Saviozzo morì suicida). Si tratta di una poesia che recupera un rapporto organico con la musica, in un’epoca in cui si diffonde l’Ars Nova, e che si riavvicina alle forme della poesia popolare, come si nota nelle canzonette del patrizio veneziano Leonardo Giustinian (Venezia 1388-1446), in dialetto veneto, chiamate appunto giustiniane dal nome del loro inventore. Al medesimo ambiente cortigiano appartiene infine Giusto de’ Conti (Valmontone ca. 1390-Rimini 1449), che nel suo canzoniere, intitolato La bella mano, opera per primo una consapevole riduzione della libertà espressiva, tentando di imitare più fedelmente il modello petrarchesco nelle tematiche e nelle forme, e iniziando di fatto il petrarchismo. A Firenze, a fronte di una nutrita ma non brillante produzione lirica, estesa a tutte le classi sociali (e testimonianza interessante, comunque, di una larga e non episodica alfabetizzazione), spicca invece la figura singolare di Domenico di Giovanni detto il Burchiello (1404-1449), un barbiere molto vicino alla vita culturale della sua città, inventore di una poesia basata su immagini surreali, su accostamenti improbabili di parole e oggetti. Ma si tratta di assurdità solo apparenti. A metà strada tra il gioco linguistico popolare e il riuso parodico del lessico della cultura ‘alta’ (dalla Chiesa alla filosofia universitaria e alla poesia lirica ‘seria’), Burchiello in realtà mette in campo una satira feroce delle forme esteriori, per mezzo delle ‘parole’:

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dalle superstizioni religiose (“E vidi le lasagne / andare a Prato a vedere il Sudario”) alla vuota maniera poetica di stampo cavalcantiano o petrarchesco (“Sospiri azzurri di speranze bianche / mi vengon nella mente e tornan fuori / seggonsi a pie’ dell’uscio con dolori, / perché dentro non son deschetti o panche”). La poesia popolare veniva affidata a una trasmissione prevalentemente orale, nelle piazze delle città, in occasione di importanti feste religiose o cittadine. Per i cantastorie (chiamati canterini) fu determinante l’invenzione boccacciana della nuova forma metrica dell’ottava, che permetteva di memorizzare più facilmente le strofe, ed eventualmente di cambiarle, o di aggiungerne durante la recitazione, senza modificare la storia, ma integrando descrizioni di luoghi fantastici, di personaggi, di battaglie. Uno dei primi poemi narrativi in ottave, i cantari, è appunto un Cantare di Fiorio e Biancifiore (1343), derivato dal francese Flore et Blanchefleur, fonte del Filocolo di Boccaccio. Le storie sono soprattutto quelle del filone cavalleresco (nei due cicli principali, carolingio e bretone), ma non mancano vicende derivate dalla storia (antica e moderna), dall’attualità, dall’agiografia e dalla Bibbia, come indicano i titoli di alcuni tra i cantari più diffusi: Liombruno, Ponzela Gaia, La donna del Vergiù. All’inizio, i testi erano tutti anonimi, e spesso rielaborati da canterini diversi. Una forte individualità di autore si riconosce solo con Antonio Pucci (Firenze ca. 1310-1388), appartenente al ceto artigiano, e che, in qualità di ‘banditore’ del comune, si sentiva coinvolto nella vita pubblica fiorentina, con la scrittura di poesie appunto ‘pubbliche’, sirventesi politici, testi morali e satirici, e cantari: Apollonio di Tiro, Brito di Brettagna, Gismirante, Guerra di Pisa. È interessante, in Pucci, il valore dato alla figura della donna, come si vede nel cantare La Reina d’Oriente, e soprattutto in Madonna Leonessa, che riesce a salvare il marito condannato a morte dal re di Francia, dimostrando la propria superiorità per intelligenza e astuzia. Un caso unico, nel panorama dei cantari in ottave, è costituito dal fortunato Geta e Birria di Domenico da Prato, curiosa riscrittura di una commedia elegiaca medievale, il Geta di Vitale di Blois: nient’altro che il canovaccio dell’Anfitrione di Plauto, commedia degli errori e degli scambi in cui Mercurio si trasforma in Geta, e convince Geta di non essere nessuno. Affine al mondo dei cantari, per il carattere di recitazione pubblica e per il metro dell’ottava, è quello della sacra rappresentazione, che si sviluppa soprattutto a Firenze, con Feo Belcari (1410-1484): una forma embrionale di teatro (derivata dalla lauda drammatica), messa in scena nelle piazze e sui sagrati nel corso delle festività religiose, importante per la nascita delle



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prime ‘compagnie’ specializzate nell’allestimento teatrale, con attori e comparse, macchine sceniche, costumi, strumenti musicali. Feo, in particolare, dedito alla divulgazione di scritti sacri (tradusse ad esempio i Quattro gradi della Carità di Riccardo di San Vittore), rappresentò episodi biblici come Abram e Isaac, o l’Annunciazione, con una visualità parallela a quella dei pittori contemporanei. E sempre dalla narrazione potenzialmente infinita dei cantari derivano i romanzi di Andrea da Barberino (Firenze ca. 1370-ca. 1432), che, dopo un’esperienza di canterino, scrive in prosa il Guerrin Meschino (la storia di un fanciullo venduto schiavo che, dopo molte peripezie, diventa cavaliere, scopre una sua nobile origine, ed è infine incoronato re), e la saga dei Reali di Francia, compendio del ciclo carolino che è rimasta nella tradizione popolare fino al nostro tempo.

Bibliografia 4.1. La prosa. Cfr. in generale P. Salwa, La narrativa tardogotica toscana, Firenze, Cadmo, 2004. - F. Sacchetti, Il libro delle rime, a c. di F. Brambilla Ageno, Firenze, Olschki, 1990; Il trecentonovelle, a c. di V. Marucci, Roma, Salerno, 1996; a c. di D. Puccini, Torino, UTET, 2008. Cfr. L. Caretti, Saggio sul Sacchetti, Bari, Laterza, 1951; L. Battaglia Ricci, Palazzo Vecchio e dintorni. Studio su F. Sacchetti e le fabbriche di Firenze, Roma, Salerno, 1990. - Mercanti scrittori. Ricordi nella Firenze tra Medioevo e Rinascimento, a c. di V. Branca, Milano, Rusconi, 1986. Cfr. M. Guglielminetti, Memoria e scrittura. L’autobiografia da Dante a Cellini, Torino, Einaudi, 1976; A. Cicchetti – R. Mordenti, I libri di famiglia in Italia, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1985-2002; V. Branca, Narrar di mercanti fra Boccaccio e Machiavelli, Venezia, Marsilio, 1996. 4.2. La poesia. Antologie della poesia del Trecento: Poeti minori del Trecento, a c. di N. Sapegno, Milano-Napoli, Ricciardi, 1952; Rimatori del Trecento, a c. di G. Corsi, Torino, UTET, 1969; Poesie musicali del Trecento, a c. di G. Corsi, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1970. Cfr. A. Balduino, Boccaccio, Petrarca e altri poeti del Trecento, Firenze, Olschki, 1984; E. Pasquini, Le botteghe della poesia. Studi sul Tre-Quattrocento italiano, Bologna, Il Mulino, 1991; M. Santagata – S. Carrai, La lirica di corte nell’Italia del Quattrocento, Milano, Angeli, 1993. Su Giusto de’ Conti: I. Pantani, L’amoroso messer Giusto da Valmontone. Un protagonista della lirica italiana del XV secolo, Roma, Salerno, 2006; Giusto de’ Conti di Valmontone. Un protagonista della poesia italiana del ’400, a c. di I. Pantani, Roma, Bulzoni, 2008.

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Su Burchiello: Domenico di Giovanni, I sonetti del Burchiello, a c. di M. Zaccarello, Torino, Einaudi, 2004. Cfr. G. Crimi, L’ oscura lingua e il parlar sottile. Tradizione e fortuna del Burchiello, Manziana, Vecchiarelli, 2005. Sui cantari: Fiore di leggende. Cantari antichi, a c. di E. Levi, Bari, Laterza, 1915; A. Pucci, Cantari della Reina d’Oriente, a c. di A. Motta e W. Robins, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 2007. Cfr. I cantari. Struttura e tradizione, a c. di M. Picone e M. Predelli, Firenze, Olschki, 1984; M.C. Cabani, Le forme del cantare epicocavalleresco, Lucca, Pacini Fazzi, 1988; Firenze alla vigilia del Rinascimento. Antonio Pucci e i suoi contemporanei, a c. di M. Bendinelli Predelli, Firenze, Cadmo, 2004. Su sacra rappresentazione e teatro: C. Molinari, Spettacoli fiorentini del Quattrocento. Contributi allo studio delle Sacre Rappresentazioni, Vicenza, Neri Pozza, 1961; Sacre rappresentazioni del Quattrocento, a c. di L. Banfi, Torino, UTET, 1963; Il teatro italiano. Dalle origini al Quattrocento, a c. di E. Faccioli, Torino, Einaudi, 1975.

5. L’umanesimo

5.1. Rinascimento e umanesimo Col termine Rinascimento si intende comunemente il periodo storico che interessò l’Italia e l’Europa tra XIV e XVI secolo, caratterizzato dal passaggio dalle strutture economiche e sociali del mondo feudale a quelle dell’età moderna. In varie accezioni (ad esempio, renascentia studia), il concetto prese corpo proprio in quell’epoca, e appartenne alla consapevolezza storica degli intellettuali di allora. Era la percezione che qualcosa, dopo un lungo periodo di oscurità e barbarie, ‘rinasceva’, tornava alla luce: la lezione di civiltà degli Antichi, intesa globalmente nel suo valore di visione del mondo, e di concezione dell’uomo. Era una lezione che in realtà, nel corso del Medioevo, non era mai stata dimenticata: i classici antichi erano stati trascritti negli scriptoria dei monasteri, ed in gran parte continuavano ad essere letti nelle scuole. Cambiava però radicalmente il modo di leggerli. All’interpretazione allegorica, finalizzata all’individuazione di un sovrasenso religioso o morale, si sostituiva una ricerca indipendente della realtà umana, si cercavano risposte a domande nuove: le forme della convivenza civile e sociale, i rapporti tra lo stato e i cittadini, l’educazione, le relazioni politiche, l’affermazione delle libertà individuali di pensiero e di azione. Un’idea di ‘rinascita’ era naturalmente collegata anche al fatto che, tra la fine del Duecento e gli inizi del Cinquecento, fu possibile riscoprire, nelle biblioteche di antiche abbazie e cattedrali europee, un certo numero di testi classici quasi del tutto dimenticati. Gli intellettuali padovani di fine Duecento avevano trovato le tragedie di Seneca nell’abbazia di Pomposa, alle foci del Po; Petrarca aveva arricchito la sua biblioteca di nuove orazioni e raccolte epistolari di Cicerone e del più completo manoscritto di Livio, e Boccaccio aveva fatto altrettanto con autori come Tacito, Apuleio, Varrone, scoperti a Montecassino. Nel più celebre episodio di scoperte dei codici l’umanista

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Poggio Bracciolini ritrovò nell’abbazia di San Gallo nel 1416 un manoscritto integro di Quintiliano (autore fondamentale per l’educazione stilistica e retorica), e raccontò la vicenda come se si fosse trattato dell’eroica liberazione di un vero prigioniero dalla torre in cui era incarcerato. I classici ‘rinascono’ quindi come se fossero persone vive, come aveva dimostrato già Petrarca nel suo ininterrotto dialogo con essi, continuato anche simbolicamente nelle lettere conclusive delle Familiari, indirizzate direttamente a Cicerone e Omero. Non sono solo gli scrittori latini a ‘rinascere’. Per secoli l’Europa occidentale e il Mediterraneo orientale erano rimasti divisi anche per ragioni linguistiche. Nell’Occidente latino si era persa la conoscenza del greco, tranne in poche aree geografiche di tradizione bizantina (il Salento e la Calabria). I grandi filosofi antichi, Platone e Aristotele, erano letti in traduzioni incerte, spesso mediate da traduzioni arabe. Il cambiamento, ancora una volta, fu promosso da Petrarca e Boccaccio, che si sforzarono di imparare il greco con Barlaam e Leonzio Pilato, e di introdurne brevemente l’insegnamento a Firenze: cosa che divenne possibile solo a partire dalla fine del Trecento, quando il dotto bizantino Manuele Crisolora iniziò nel 1396 le sue lezioni di greco allo Studio fiorentino. Fu un evento rivoluzionario. Nel giro di pochi anni gli umanisti più importanti impararono la lingua greca, anche nel corso di viaggi a Costantinopoli e in Grecia; e la stessa caduta di Costantinopoli (1453), conquistata dai Turchi, favorì l’arrivo in Italia di intellettuali greci, e soprattutto di libri. Il sogno di Petrarca, di poter leggere Omero e gli altri poeti greci nella lingua originale, si era finalmente avverato. Il panorama della letteratura classica si era enormemente esteso, e questo finiva col mettere in crisi le vecchie strutture dell’insegnamento. Nel Medioevo la lettura dei principali classici latini avveniva nelle prime classi elementari, dedicate alle arti del Trivio (grammatica, retorica e dialettica), e considerate propedeutiche alle arti del Quadrivio (matematica, geometria, astronomia, musica), e agli studi universitari professionalizzanti (diritto e medicina) e superiori (filosofia e teologia). Ora quei contenitori didattici non bastavano più. Con una forte componente ideologica, la battaglia culturale si combatteva nel rinnovamento dell’educazione. La gerarchia tradizionale di trivio e quadrivio veniva letteralmente rovesciata, e le materie prima ritenute inferiori, la grammatica e la retorica, erano ora considerate le più importanti per una formazione globale: le arti della parola e dell’eloquenza, sulle quali si basa la comunicazione umana, e la trasmissione del sapere. Alcuni maestri cominciarono allora a fondare scuole in cui si dava rilevanza assoluta alla lettura dei classici, come fondamento di quel programma pedagogico: a Padova Gasparino Barzizza (Bergamo 1360-Pavia 1431), entusiasta inteprete di Cicerone; a Ferrara Guarino da Verona (Verona 1374-



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Ferrara 1460), che aveva studiato greco a Costantinopoli, e basava il suo insegnamento su basi grammaticali e retoriche; a Mantova Vittorino da Feltre (Feltre ca. 1373-Mantova 1446), che, protetto da Gianfrancesco Gonzaga, poté fondare una scuola, chiamata Ca’ Zoiosa, e aperta ad una formazione globale, che prevedeva anche l’esercizio fisico e la cura del corpo. Erano scuole estranee al sistema tradizionale, anche se in seguito (per esempio a Ferrara, dove insegnava Guarino) finirono per influenzare anche l’università, che era ancora legata alla trasmissione dei saperi medievali, e che, rinnovata, sarà centro di diffusione della nuova cultura al resto d’Europa (non bisogna dimenticare che nelle università italiane, Bologna, Ferrara, Padova, erano molto numerosi gli studenti provenienti dagli altri paesi europei). Manifesto programmatico della nuova pedagogia furono i trattati sull’educazione, che ebbero una fortuna enorme in tutta Europa: innanzitutto il De ingenuis moribus et liberalibus studiis adolescentiae libellus (‘libretto dei nobili costumi e degli studi liberali dell’adolescenza’) di Pietro Paolo Vergerio (Capodistria 1370-Buda 1444), umanista istriano che si formò a Padova, e che poi viaggiò per l’Europa centrale al servizio dell’imperatore Sigismondo. Come spiega Vergerio, quegli studi sono detti ‘liberali’ perché si convengono ad un uomo ‘libero’; ed è lo studio che rende veramente ‘liberi’. Il complesso di discipline e di testi che costituivano il curricolo di queste scuole cominciò ad essere chiamato (con un’espressione già presente in Cicerone e Gellio) studia humanitatis, e col tempo chi si occupava in modo specialistico di tali studi fu definito humanista, cioè un professionista di humanae litterae, di cultura greca e latina. Il termine ‘umanista’ nacque tardi, solo nel Cinquecento, e con un’accezione ristretta ad un ambito scolasticouniversitario, mentre noi oggi tendiamo a riferirla anche al secolo precedente, a tutti quegli intellettuali (anche al di fuori del circuito dell’insegnamento) che si riconoscevano nel più ampio movimento della ‘rinascita’; e questo perché utilizziamo una parola moderna, umanesimo (coniata nel primo Ottocento nell’ambito della pedagogia), che oggi indica convenzionalmente quel periodo del Rinascimento in cui si pongono al centro dell’esistenza i valori dell’humanitas, sulla falsariga dell’insegnamento degli Antichi. Al centro degli studia humanitatis era la lettura dei classici, e quindi l’acquisizione delle migliori competenze linguistiche, per poter intendere quei testi, e utilizzare poi in maniera originale lo stesso strumento comunicativo. La lingua dell’umanesimo era il latino. Non più il latino medievale, specialistico, della Chiesa o delle università, ma il latino classico, la lingua di Cicerone e Virgilio, restituita alla sua forma antica per mezzo di una nuova disciplina, la filologia. Da Petrarca in poi si comincia ad essere consapevoli che, nel tempo e nella tradizione manoscritta, i testi sono soggetti ad un continuo

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processo di corruzione: un processo che è possibile risalire al contrario, riscoprendo i codici più antichi, o cercando di interpretare l’origine di certi errori. La filologia è un difficile esercizio intellettuale, che abitua allo spirito critico nei confronti dei testi, privilegiando la libertà di interpretazione e di ricerca, e in questo senso sarà alla base delle future rivendicazioni di libertà religiosa (nell’ambito dell’interpretazione individuale dei testi sacri), e della libertà della ricerca scientifica. L’uso del latino come lingua della comunicazione culturale e letteraria aveva il vantaggio evidente dell’universalità, a livello europeo. Ma lo sforzo enorme di riportare in vita il latino classico si rivelò, alla fine, un’illusione. Da secoli il latino non era più la lingua parlata dal popolo, e il suo uso era limitato alle ristrette élites che avevano accesso alla cultura. Rigettato il latino medievale (avvertito come una lingua ‘barbara’, ma ancora pienamente vitale), bisognava tornare ai modelli antichi, e cercare di imitarli. L’imitazione divenne così uno dei problemi principali per gli umanisti, fonte di dibattiti accesi tra chi proponeva l’imitazione fedele di un solo modello (ad esempio Cicerone, all’origine del fenomeno del ‘ciceronianismo’), e chi invece era favorevole ad una maggiore libertà di espressione individuale. La letteratura umanistica latina crea dunque un nuovo sistema di generi, che sarà fondamentale per le letterature moderne europee. È un sistema in parte già riconoscibile nell’opera di Petrarca, e in larga misura derivato dalla letteratura antica. Nella prosa, si dà grande valore alla storiografia, che si distacca dalla tradizione medievale di cronache ed annali, e riprende i grandi disegni storiografici di Livio, o lo stile di altri storici, come Cesare, Sallustio, Tacito. Vastissima fortuna ha il genere inaugurato da Petrarca, l’epistolario, in cui si proietta la fitta rete di relazioni intessuta dagli umanisti; e da Petrarca l’epistolario conserva anche il carattere di specchio autobiografico, dell’esperienza individuale dell’umanista, seppure filtrata dallo sguardo retrospettivo dell’opera pubblica. Di più, l’epistola è sempre una sorta di ‘dialogo a distanza’: e l’altro grande genere umanistico è sicuramente il dialogo, derivato dai modelli antichi (Cicerone, Seneca, Platone), e in cui la ricerca della verità è sempre condotta insieme dagli interlocutori, nel libero confronto di tesi anche discordanti, ma aperte al reciproco superamento. La poesia conoscerà un momento di grande splendore, e darà veramente l’impressione di una ‘rinascita’ dei generi degli Antichi, imitati e rielaborati con una freschezza nuova: l’epigramma, l’elegia, la poesia erotica, l’epica, la bucolica. Infine, si cominciarono a comporre le prime commedie umanistiche, ad imitazione di Plauto e Terenzio, atto di nascita del teatro europeo moderno. Il carattere dominante dell’umanesimo è, come si è detto, la riscoperta della civiltà classica, riscoperta che inizia sul piano del recupero dei testi



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(letterari, filosofici, scientifici), e prosegue poi nel sogno di una restituzione globale, estesa a tutti gli ambiti della vita: le istituzioni politiche e civili, le arti figurative e l’architettura, e perfino la moda. Nelle arti, la ‘rinascita’ fu resa visibile dall’opera di artisti come Brunelleschi, Masaccio, Donatello, che, studiando direttamente le testimonianze dell’arte classica, rinnovarono radicalmente i linguaggi artistici. Non si trattava di un semplice ritorno all’indietro, di un erudito restauro antiquario. La concezione dello spazio, ad esempio, era completamente diversa da quella degli Antichi (legati alla concezione dell’ottica di Euclide), grazie all’invenzione della prospettiva, attribuita a Brunelleschi: un procedimento matematico-geometrico che permetteva di stabilire con precisione le grandezze apparenti degli oggetti, e di riprodurle in pittura con sorprendente realismo. La grandezza eroica dell’umanesimo è forse nella ‘globalità’ di questa ‘rinascita’: nel procedere simultaneo di tante ricerche e tante indagini, che danno veramente la coscienza che l’uomo sia ‘misura di tutte le cose’, e che la sua ragione sia in grado di interpretare la realtà nellle sue diverse forme. Un ottimismo di fondo, che, anche oltre il Rinascimento e il crollo di molte delle sue illusioni, sarebbe rimasto come eredità alle età successive, nella spinta propulsiva che avrebbe portato la civiltà europea ad uscire dai confini del proprio continente, per mezzo delle grandi esplorazioni, da Cristoforo Colombo in poi.

5.2. I centri dell’umanesimo Anche se legato al sistema degli stati regionali e delle corti signorili dell’Italia di fine Trecento, l’umanesimo nasce come un fenomeno sovraregionale imperniato su alcuni centri propulsori, ma rapidamente diffuso in tutta la penisola. Era determinante, anche in questo, l’eredità di Petrarca, che aveva vissuto in città diverse, e che soprattutto aveva creato un vero network intellettuale che sopravvisse alla sua morte, una ‘repubblica delle lettere’ in cui i primi umanisti potevano riconoscersi, con orgoglio e senso di appartenenza. Un’ulteriore proiezione verso l’Europa fu inoltre favorita dall’appartenenza di molti umanisti alle strutture di governo della Chiesa Cattolica, che in quegli anni, per attraversare e superare la grave crisi dello Scisma d’Occidente, promosse i grandi concili di Costanza e di Basilea, che furono una straordinaria occasione di confronto tra i curiali italiani e quelli europei. Un’area geografica determinante, come luogo di incontro e di formazione, fu all’inizio il Veneto: a Padova si conservavano i libri di Petrarca (poi trasferiti nella biblioteca viscontea di Pavia), e presso la giovane università

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o le scuole cittadine si incontrarono Vergerio, Guarino, Barzizza, Vittorino, cioè i primi grandi maestri dell’umanesimo. Venezia, al massimo della sua potenza economica e politica, era anche la principale porta di accesso da e per l’Oriente greco, luogo d’arrivo dei primi manoscritti greci, e sede di importanti scuole umanistiche. Il rappresentante più significativo della nuova cultura fu il patrizio veneziano Francesco Barbaro (1390-1454), autore di un importante epistolario, e del trattato De re uxoria, che esalta il valore del matrimonio, e della donna, contro una precedente tradizione misogina, che preferiva vedere il ruolo dell’intellettuale come una missione esclusiva, a cui poteva nuocere una vita ‘normale’, e la formazione di una famiglia. A Firenze la nuova cultura era stata preparata soprattutto da Boccaccio, che aveva educato i suoi concittadini al culto di Dante e Petrarca, e aveva lasciato i suoi libri al convento agostiniano di Santo Spirito, vero cenacolo spirituale e umanistico, animato dal frate Luigi Marsili († 1394). L’umanesimo fiorentino si sviluppò subito con una forte caratterizzazione ideologica e politica. Uscita stremata da un secolo di pestilenze, carestie, disastri finanziari, alluvioni, divisioni politiche e sociali, la città credette nel sogno di una repubblica retta da filosofi, da intellettuali, come era stata descritta idealmente da Platone, e percorse un cammino inverso a quello che seguirono allora molti altri stati regionali, evolutisi in signorie e principati. Conservò le proprie istituzioni comunali, ma ripensandole come una repubblica di stampo antico, sul modello della città-stato greca (Atene) o della Roma repubblicana. Questo significò il coinvolgimento diretto degli umanisti nel governo cittadino: non in funzione subalterna, di consiglieri di un principe, o di un capo politico, ma come primi attori della vita civile, come cancellieri, segretari, reggenti. Era il cosiddetto umanesimo civile, un progetto ideale, un mito, se vogliamo, che comunque, nella realtà, doveva mediare con i continui problemi sociali e politici. Le lotte per il potere (così sanguinose nel Trecento) si erano solo sopite, e a Firenze il vero potere era sempre nelle mani delle famiglie degli ‘ottimati’, le antiche e ricche famiglie di mercanti (Pazzi, Pitti, Strozzi, Ridolfi, Velluti, Capponi) che ora si erano ‘nobilitate’ e infeudate, con l’acquisto di grandi proprietà terriere, e a cui interessava solo una sostanziale stabilità di governo, per frenare le spinte e le rivendicazioni del ‘popolo minuto’, gli artigiani e le classi più umili, ferocemente represse nel Tumulto dei Ciompi. Si continuava a mandare in esilio gli avversari politici, o i capi di quelle famiglie che sembravano emergere più delle altre, e potevano diventare pericolose, come toccò agli Alberti, e anche a Cosimo de’ Medici, che però, al ritorno dal suo esilio (1434), instaurò definitivamente il dominio dei Medici sulla città, pur conservandone formalmente le istituzioni repubblicane.



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Il vero anello di congiunzione tra l’età di Petrarca e Boccaccio e l’umanesimo civile fu il notaio Coluccio Salutati (Stignano Valdinievole 1331Firenze 1406), cancelliere della repubblica fiorentina a partire dal 1375, che si richiamò esplicitamente all’eredità petrarchesca, con la composizione di un importante epistolario (e anche con la riscoperta delle Familiari di Cicerone, nel 1392), e l’affermazione della superiorità degli studia humanitatis sulle discipline professionali (diritto e medicina), nel trattato De nobilitate legum et medicinae (‘la nobiltà delle leggi e della medicina’)(1390). In un punto però Coluccio si distacca da Petrarca: nell’affermazione del primato della vita attiva sulla vita contemplativa, e del diretto coinvolgimento dell’intellettuale nell’attività politica e mondana. Coluccio difese la concezione di un libero stato repubblicano, rispetto alla deriva signorile contemporanea, in opere come il De tyranno (‘sul tiranno’)(1400), e in una Invectiva (1403) contro un umanista al servizio dei Visconti, signori di Milano, Antonio Loschi, ostile a Firenze. Alla sua attenta rilettura dei classici si deve infine il De laboribus Herculis (‘fatiche di Ercole’), che testimonia il successo del mito umanistico di Ercole (dopo il contributo dato da Petrarca nel De viris illustribus): Ercole non è più simbolo di forza sovrumana, ma figura eroica che sembra rappresentare pienamente l’aspirazione del primo umanesimo di combattere vittoriosamente contro i mostri della barbarie e dell’ignoranza. Non tutti, però, erano d’accordo con Coluccio: il domenicano Giovanni Dominici (Firenze 1356-Buda, Ungheria 1419) attaccò infatti, nella Lucula noctis (1405), la possibilità di conciliare cultura classica e fede cristiana. Allievo di Coluccio, e suo successore al cancellierato fiorentino dal 1427, fu Leonardo Bruni (Arezzo ca. 1370-Firenze 1444), che celebrò la figura del Salutati nell’importante Laudatio Florentinae urbis (‘lode della città di Firenze’), ma fu poi fautore di Cosimo de’ Medici. Studioso di greco (a lui si debbono decisive traduzioni dell’Etica Nicomachea e della Politica di Aristotele, del Fedone di Platone, del De tyranno di Senofonte, e di un’epistola di san Basilio sull’utilità degli studi), ed umanista latino, non gli sfuggì comunque l’importanza della tradizione letteraria in volgare, e fu tra i promotori del culto delle cosiddette ‘tre corone’ (Dante, Petrarca, Boccaccio); dei primi due scrisse infatti la vita (in volgare), e trattò della loro eccellenza nei Dialogi ad Petrum Histrum (‘dialoghi a Pietro Paolo Vergerio’), dedicati al Vergerio, di cui condivise sempre l’ansia pedagogica (anche con la composizione di un trattatello in forma di epistola a una donna, Battista Malatesta, il De studiis et litteris, ‘degli studi e delle lettere’). Grande fu soprattutto la sua opera di storico, che lo fa riconoscere come il fondatore della storiografia umanistica, e padre della storiografia moderna con l’Historia florentini populi (‘storia del popolo fiorentino’)(1439), in nove libri dalle origini della città fino al 1407,

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grande affresco dell’ascesa di un ‘popolo’, a cui si aggiunsero, negli ultimi anni di vita, i Rerum suo tempore gestarum commentaria (‘commentari di storia contemporanea’), e il De bello italico adversus Gothicos (‘la guerra in Italia contro i Goti’). Bruni influenzò molto la cultura contemporanea, e a lui si collegarono umanisti come Niccolò Niccoli (Firenze ca. 1365-1437), uno degli interlocutori dei Dialogi bruniani (in cui tra l’altro finge di criticare aspramente Dante e Petrarca, per poi rovesciare le accuse in elogio), appassionato della civiltà antica in tutte le sue forme (si racconta che anche a tavola e nella vita quotidiana cercasse di atteggiarsi ad antico romano), e soprattutto grande collezionista di libri (per conto di Cosimo de’ Medici), che formarono il nucleo della libreria del convento domenicano di San Marco a Firenze, la prima biblioteca pubblica dell’umanesimo. Nella scrittura in volgare, subalterna a quella latina, bisogna ricordare Matteo Palmieri (Firenze 1406-1475), uno speziale che si dedicò alla divulgazione degli ideali politici bruniani nel trattato Della vita civile, mentre nel poema dantesco Città di vita espose oscuramente le proprie concezioni religiose, in odore di eresia. Nell’Italia del Nord lo sviluppo delle corti signorili diede all’umanesimo un carattere diverso rispetto a Firenze. L’umanista era in funzione subalterna rispetto al principe, e poteva al massimo diventarne il segretario, il cancelliere, lo scrittore delle sue lettere ufficiali, il responsabile dell’ufficio che oggi chiameremmo PR, public relations. Si tratta comunque di un ruolo importante. Con gli strumenti che gli sono propri (l’arte della parola, la retorica, la conoscenza della storia e delle lettere, oltre che del diritto e dell’arte del governo), l’intellettuale contribuisce alla costruzione di un’immagine pubblica positiva del principe e del suo sistema di governo: e questo è evidente soprattutto nella storiografia, ideologicamente orientata. Non è un caso che la principale polemica umanistica, in questo periodo, fosse sul tema delle forme politiche, e dell’interpretazione delle grandi figure della Roma antica, Cesare e Scipione. Naturalmente gli umanisti fiorentini erano favorevoli alle libertà repubblicane e ostili alla tirannia, mentre gli umanisti al servizio delle corti settentrionali difendevano il governo signorile. Al di là degli usi strumentali della cultura, è un fatto che, in ogni caso, i principi delle grandi famiglie del Nord furono subito consapevoli dei valori intrinseci dell’umanesimo, e ne divennero i principali promotori. Quasi tutti i trattati pedagogici sono dedicati ai principi di allora, e non si tratta solo di dediche formali. L’umanesimo era una cultura elitaria, e le scuole miravano alla formazione di una nuova e più dinamica classe dirigente, in grado di affrontare le sfide di un mondo radicalmente mutato.



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Un primato politico ed economico, tra le corti settentrionali, acquista la Milano dei Visconti, che, dopo aver ospitato addirittura Petrarca, attira grandi umanisti come Uberto e Pier Candido Decembrio, e Antonio Loschi; merito dei Visconti, nella promozione della cultura, è la costituzione di una grande biblioteca nel castello di Pavia, e la fondazione dell’università, sempre a Pavia. Le altre corti si sviluppano in città più piccole, come Mantova con i Gonzaga, Ferrara (importante sede universitaria, ora anche per la presenza di Guarino) con gli Estensi, e Rimini con i Malatesta. In realtà, l’umanesimo è un fenomeno policentrico, che interessa simultaneamente gran parte della penisola: una rete di molti centri, e nessun ‘centro’. Spesso l’umanista non resta legato al suo luogo d’origine, ma gira tra diverse città, in cerca di una migliore sistemazione al servizio di un principe, o di un miglior incarico di insegnamento in un’università. È questo il caso di Francesco Filelfo (Tolentino 1398-Firenze 1481), che, dopo una prima formazione in Veneto, e addirittura a Costantinopoli (per studiare il greco, e sposare anche la figlia del suo maestro, Teodora Crisolora), insegnò a Bologna, Firenze, Siena, Pavia, Roma, oscillando tra lo status del cortigiano (in particolare a Milano) e quello del professore. Oltre alle sue numerose opere latine (spesso di carattere encomiastico), spicca nella produzione del Filelfo un imponente epistolario, specchio della vita dell’umanista, e della sua epoca, tra luci e ombre, grandezze e meschinità. Né sfuggiva al Filelfo l’importanza della letteratura in volgare, alla quale dedicò una pubblica lettura della Commedia dantesca a Firenze (1431-32), e un commento del Canzoniere petrarchesco (pubblicato nel 1476). Dopo il ritorno dei papi da Avignone, e la composizione dello Scisma d’Occidente, Roma acquista un ruolo crescente fra i centri dell’umanesimo. Nella prima metà del Quattrocento molti umanisti appartengono alla curia pontificia, e le vicende ancora incerte del papato, nella contemporanea coesistenza di papi e antipapi, e durante lo svolgimento dei concili di Costanza e Basilea (continuato, quest’ultimo, a Ferrara e Firenze), li portano in giro per l’Italia e per l’Europa, con delicate funzioni diplomatiche e politiche. L’esempio più emblematico è quello di Poggio Bracciolini (Terranova Valdarno 1380-Firenze 1459), per molti anni segretario nella corte pontificia, e infine cancelliere a Firenze (1453), anche lui autore di un grande epistolario, importante testimonianza di vita e costume contemporaneo, con la descrizione dei luoghi visitati in Europa, e il racconto delle vicende che diedero fama maggiore all’umanista, le scoperte di codici di autori latini ancora sconosciuti, o letti in testi scorretti, attuate nelle biblioteche dei monasteri europei: tra le più rilevanti, le orazioni di Cicerone a Cluny in Francia (1415); Quintiliano,

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autore fondamentale per l’educazione e la retorica, e le Argonautiche di Valerio Flacco a San Gallo in Svizzera (1416); il De rerum natura di Lucrezio, Silio Italico e le storie di Ammiano Marcellino a Fulda in Germania (1417); e poi ancora Plauto, le Silvae di Stazio, una parte del Satyricon di Petronio. Tra le sue opere emerge la forma, tipicamente umanistica, del dialogo, su temi morali e civili, tra i quali si possono ricordare il De avaritia (‘l’avarizia’)(1428-1429), il De varietate fortunae (‘la varietà della fortuna’)(1448), e il De miseria humanae conditionis (‘miseria della condizione umana’)(1453), oltre al fortunatissimo Liber facetiarum (‘libro di facezie’)(1452), che nobilitava in latino il genere volgare dei motti e delle facezie. Nella storia della civiltà Poggio ha un ruolo singolare: quello di ‘inventore’ della scrittura umanistica. Dal XII secolo la scrittura in uso in Europa, nelle università e nella produzione libraria, aveva caratteristiche molto elaborate, e risultava talvolta illeggibile. Già Petrarca e Salutati cominciano ad adottare una scrittura più chiara, con i caratteri distinti e ben leggibili, e considerano quell’altra scrittura come un segno di decadenza: una scrittura ‘barbarica’, che sarà appunto definita ‘gotica’. La scrittura umanistica nasceva però da un malinteso. Poggio imitava la scrittura dei codici che aveva appena scoperto, e che credeva originali del tempo di Cicerone e Virgilio. Essi erano invece tutt’al più dell’epoca carolingia, e la loro era una scrittura ‘carolina’, e non ‘romana antica’. Nonostante l’errore, la scrittura inventata da Poggio sarà l’espressione grafica della rivoluzione culturale dell’umanesimo, e, con qualche piccolo cambiamento, è alla base della scrittura che usiamo ancora oggi. Poggio fu a lungo un ‘curiale’, cioè un umanista al servizio della corte pontificia, ma restò sempre un ‘laico’, senza prendere gli ordini religiosi, e divenire un ‘chierico’. Come si è visto, l’umanesimo nasce in un rapporto stretto con le strutture della Chiesa Cattolica. Grandi scrittori come Petrarca e Boccaccio erano addirittura stati ‘chierici’, cioè partecipavano a quelle strutture fruendo di benefici ecclesiastici. Nel corso dell’umanesimo, i papi favorirono la cultura umanistica e la libertà di ricerca intellettuale. Uno di loro era stato un grande umanista, Enea Silvio Piccolomini, papa col nome di Pio II (Corsignano di Siena 1405-Ancona 1464), straordinaria figura di respiro europeo, partecipe del movimento conciliare e segretario dell’imperatore Federico III. Piccolomini scrisse un’importante opera storica (i Commentarii ) e un diffuso trattato pedagogico, ma anche, in gioventù, belle poesie latine, una commedia Chrysis, e un romanzo amoroso, l’Historia de duobus amantibus (‘storia di due amanti’), che mette in scena la relazione tra una gentildonna senese e un cavaliere tedesco. Al di là dell’effettivo rapporto fra chierici e laici, restava vivo il dibattito su quale dovesse essere il ruolo della nuova cultura in una società e in un



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mondo che restavano comunque intimamente cristiani. In effetti (nonostante una moderna mitizzazione dell’umanesimo lo abbia voluto interpretare in funzione di opposizione al cristianesimo), gli umanisti conservarono nella loro formazione profonde radici cristiane. La loro battaglia contro quello che chiamavano il ‘medio evo’ era una battaglia contro la ‘barbarie’, non contro la spiritualità, e anzi è questa l’epoca di maggior attenzione, e di maggior ritorno, alla voce dei Padri della Chiesa, dei grandi intellettuali cristiani che per primi si erano posti il problema del rapporto tra cultura classica e cristianesimo (Lattanzio, Ambrogio, Girolamo, Agostino), risolvendolo positivamente, non nella direzione del rigetto o del conflitto, ma della continuazione di una tradizione fondata su un condiviso ideale di humanitas. Nella loro poesia, e nel loro immaginario, da Petrarca in poi, potevano tornare gli dèi della mitologia antica, non come elementi di un nuovo paganesimo, ma come grandi valori simbolici dell’esistenza umana. Nel cambiamento epocale del rapporto dell’uomo col mondo, mutano piuttosto gli interrogativi, e le risposte, e il modo di porsi di fronte al divino.

5.3. Valla L’umanista che più di ogni altro avvertì il senso della battaglia contro la barbarie fu Lorenzo Valla (Roma 1405-1457). Dopo un’iniziale formazione tra Firenze, Roma e Venezia, Valla insegnò all’università di Pavia (1431-1433), dove compose un singolare dialogo, il De voluptate (‘sul piacere’), difesa del principio di piacere, pulsione naturale dell’uomo, contro l’ascetismo medievale, in un quadro che rievocava l’antico epicureismo (poi attenuato nelle successive rielaborazioni, intitolate De vero bono, e De vero falsoque bono), ma che, dopotutto, non era molto lontano dal riconoscimento della positività della vita nel Decameron di Boccaccio. Dopo varie peregrinazioni, entrò al servizio del principe Alfonso d’Aragona (1435), impegnato in una lunga guerra per la conquista del regno di Napoli, e seguì Alfonso nel momento del suo trionfo, l’ingresso a Napoli nel 1443 (tra l’altro, la collocazione cortigiana spinse Valla anche alla storiografia, con una biografia di Ferrante d’Aragona, padre di Alfonso). Sono questi gli anni di maggior attività intellettuale, in opere che hanno come bersaglio principale i fondamenti della cultura medievale: la tradizione filosofica aristotelica, demolita nel dialogo De libero arbitrio (‘sul libero arbitrio’), e nella Dialectica (‘dialettica’)(1439); e in particolare la cosiddetta Donazione di Costantino, un documento col quale l’imperatore Costantino avrebbe ceduto la città di Roma al papa, e che fondava il presupposto del

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potere temporale dei papi, ma che Valla dimostrò falso nel De falso credita et ementita Constantini donatione (‘la donazione di Costantino, ritenuta falsamente autentica, e smentita’)(1440). Tale dimostrazione fu possibile soprattutto grazie ad argomenti di filologia e di storia della lingua latina, la cui approfondita conoscenza portò l’umanista alla composizione della sua opera più importante, le Elegantiae latinae linguae (‘eleganze della lingua latina’)(1441-1449), rifondazione della grammatica latina e del suo lessico riportata sul rigoroso studio dei classici. È uno dei testi chiave dell’umanesimo. Nella prefazione Valla afferma che la vera grandezza di Roma antica fu nella diffusione della lingua latina, attraverso la quale aveva educato i popoli nelle arti liberali e nelle leggi, liberandoli dalla barbarie. La sua decadenza aveva coinciso con la decadenza della civiltà, che però ora tornava a rinascere, e per la quale bisognava lottare generosamente, come avevano fatto i Romani per liberare Roma dai Galli. Tra gli autori antichi maggiormente studiati fu Livio, che Valla poté leggere anche sul codice di Petrarca, ma che fu causa di gravi dissidi con altri umanisti alfonsini, Bartolomeo Facio e Antonio Beccadelli detto il Panormita, attaccati in scritti violentemente polemici in cui si evidenziava l’imperizia filologica dei suoi avversari. Valla abbandonò allora Napoli (1448), per la più tranquilla collocazione alla corte pontificia, a Roma, presso il papa-umanista Niccolò V, dove attese alla rielaborazione delle sue opere, e alla conclusione di una Collatio Novi Testamenti (‘studio comparativo del Nuovo Testamento’), applicazione della critica testuale e linguistica al testo della traduzione latina del Nuovo Testamento (la cosiddetta Vulgata attribuita a san Girolamo), anche grazie al ricorso ai testi greci originali. L’opera passò quasi inosservata, e fu riscoperta solo nel 1504, da Erasmo da Rotterdam, in un’abbazia presso Lovanio, nelle Fiandre. Un evento capitale, che segnò il passaggio della filologia da scienza ‘neutrale’ (ma lo era mai stata?) dei testi antichi a strumento di indagine sui testi sacri, per i quali si rivendicava libertà di studio ed interpretazione.

5.4. Alberti L’umanesimo ebbe l’aspirazione di rinnovare tutti gli aspetti dell’attività umana, in nome di un’interpretazione globale dell’humanitas, ma gli umanisti furono più spesso degli specialisti del campo che era a loro più congeniale, quello della parola, dell’eloquenza. Fa eccezione la figura di Leon Battista Alberti (Genova 1404-Roma 1472), paradigma dell’uomo universale del Rinascimento, specialista di molte discipline diverse, e tra l’altro compiuta-



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mente bilingue, scrittore in latino e in volgare, in un’età in cui l’umanesimo tendeva ad essere esclusivamente latino. Battista (questo il suo vero nome, a cui fu premesso in seguito il soprannome Leone) nacque da una famiglia mercantile fiorentina, allora in esilio a Genova, perché aveva lottato invano per una maggiore democratizzazione della società fiorentina: una condizione originaria, quindi, di nascita in esilio (come Petrarca), di incerta appartenenza, che lo accompagnò per tutta la vita, passata tra i centri principali dell’umanesimo. Negli anni di studio a Padova e Bologna, tra l’apprendistato letterario e la laurea in diritto canonico, Battista esordì appena ventenne con una commedia umanistica latina, Philodoxeos fabula (‘favola dell’amante della verità’)(1424), allegoria della ricerca della conoscenza, e poi con un’acuta riflessione sulla posizione sociale e umana dell’intellettuale, il De commodis litterarum et incommodis (‘vantaggi e svantaggi delle lettere’)(1428); e le prime rime e operette in volgare, dedicate soprattutto al tema amoroso, tra cui risalta la Deifira, dialogo in cui un innamorato deluso e disperato decide di abbandonare il consorzio umano, e l’illusione d’amore. Risalta subito, anche nei testi poetici, un’attitudine sperimentale, che porta l’Alberti a creare nuove forme metriche e nuovi generi: determinante, tra l’altro, l’apporto che diede al giovane genere bucolico con la composizione di due egloghe. Importante fu la collocazione presso la curia pontificia, con l’incarico di abbreviatore apostolico, che lo portò a Roma (1432), e poi finalmente a Firenze, al seguito del papa Eugenio IV. In questo periodo l’Alberti compilò una raccolta di favole a sfondo morale, gli Apologi, mentre la propria vicenda individuale veniva raccontata in una singolare scrittura autobiografica in terza persona, la Vita (1438). È un momento felice, per Battista, che stringe fecondi contatti con gli esponenti dell’umanesimo fiorentino, e nutre l’illusione di un suo pieno inserimento nel panorama culturale della città originaria della sua famiglia. Forse proprio questo vagheggiamento di una famiglia che più non esisteva, dispersa nei suoi rami, sradicata dalla patria, lo portò alla composizione di un’opera che era il punto d’arrivo, e di fusione, delle istanze dell’ideologia ‘familiare’ della tradizione toscana del Trecento, e dell’umanesimo civile del primo Quattrocento, i quattro libri Della famiglia (1433-1440). Si tratta di dialoghi, che si fingono avvenuti tra i membri della famiglia degli Alberti, e in cui si affrontano le tematiche della vita e dell’organizzazione di una famiglia ideale, basata sulla virtù, ma attenta anche al mantenimento della sua ricchezza, della ‘roba’ o della ‘masserizia’, del suo status sociale, e della sua dignità; ma anche quella, tutta umanistica, dell’amicizia (nel quarto libro). Nel solco dell’umanesimo pedagogico si colloca, strategicamente, il primo libro dedicato all’educazione, il cui fondamentale livello, prima ancora che

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nella scuola, si attua nella famiglia. Rispetto però alla famiglia tutta ‘urbana’ del Trecento, quella ‘rinascimentale’ dell’Alberti manifesta nuove aspirazioni, che si rendono evidenti, ad esempio, nel vagheggiamento della vita in ‘villa’: molte delle grandi famiglie borghesi si erano ormai ‘infeudate’, con l’acquisto di terre, e con il passaggio dalla vivace incertezza della mercatura e della finanza ad una più tranquilla amministrazione fondiaria e domestica. Un segno di ripiegamento, di cui Alberti fornisce la prima testimonianza. Ma la sua opera è importante anche perché scritta in volgare, nel momento di massimo splendore dell’umanesimo latino a Firenze. La novità sostanziale è che si tratta di prosa volgare, uno strumento comunicativo che fino ad allora non si era particolarmente sviluppato, fatta eccezione per il genere novellistico, grazie al Decameron di Boccaccio. Ora, il rinnovamento attuato dall’Alberti è proprio nei confronti del modello boccacciano. Non più l’ampio periodo classicheggiante, basato su una complessa architettura di subordinazione sintattica (l’ipotassi), ma una prosa più agile, grazie anche alla finzione del dialogo, più vicina ad un registro colloquiale, e comunque nobilitata dal costante confronto (soprattutto nel lessico) con il latino. Uno stile adatto non solo a ‘raccontare’, ma anche a ‘descrivere’ e ad ‘argomentare’, più aderente alle ‘cose’, in generi che potevano andare dalla trattatistica morale a quella tecnica e scientifica, come aveva provato a fare per primo Dante con il Convivio. Ne sarebbero scaturite le opere successive, sempre nella forma del dialogo morale: il Theogenius (1440), i Profugii ab aerumna (‘coloro che fuggono le preoccupazioni’) o Della tranquillità dell’animo (1441-1442), e il tardo De iciarchia (‘amministrazione domestica’)(1468). L’attenzione consapevole dell’Alberti per il volgare si tradusse nei primi scritti di riflessione linguistica dopo il De vulgari eloquentia: innanzitutto il proemio del terzo libro Della famiglia, dedicato appunto alla difesa dell’uso del volgare; e poi addirittura una piccola grammatica della lingua toscana, la prima che fosse mai stata elaborata, segno che anche il volgare (considerato da Dante lingua ‘primaria’ in opposizione funzionale rispetto al latino, lingua ‘secondaria’ e ‘grammaticale’) poteva avere la dignità di una sua ‘grammatica’, di sue ‘regole’, da applicare all’uso. Un episodio importante dimostra la battaglia condotta dall’Alberti per convincere gli umanisti fiorentini (in primo luogo il Bruni) della nobiltà del volgare: una vera gara di poesia, il Certame coronario (così chiamato perché al vincitore sarebbe toccata una corona d’argento), indetto nel 1441 sul tema dell’amicizia, che concludeva i libri Della famiglia. Non era una gara qualsiasi. Battista aveva proposto una sorta di regola a cui i poeti dovevano attenersi: le poesie volgari, basate sugli accenti naturali delle parole, dovevano imitare la metrica classica, basata sulla ‘quantità’, cioè sulla ‘durata’ delle sillabe (metrica quantitativa); una tecnica



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che secoli dopo il Carducci avrebbe definito ‘poesia barbara’. L’effetto dei testi proposti da Battista e dai suoi amici era però un po’ comico (basti l’esempio del verso iniziale dell’Alberti, che vorrebbe imitare un esametro latino: Dite, o mortali, che sì fulgente corona), e fu ovviamente disdegnato dagli umanisti fiorentini, provocando l’ira dell’Alberti, e un nuovo concorso (anch’esso concluso in insuccesso, l’anno seguente) sul tema non casuale dell’invidia. L’amarezza e le disillusioni portarono gradualmente l’Alberti (nel frattempo allontanatosi da Firenze, e residente soprattutto a Roma) ad una forte consonanza con un autore greco appena riscoperto, Luciano, i cui dialoghi ironici e sarcastici, in situazioni talvolta surreali in cui si proietta l’assurdità irrazionale della vita umana, influenzarono la composizione dei dialoghi latini dell’Alberti intitolati Intercoenales: apparentemente, come vorrebbe il titolo, componimenti giocosi, festivi, da leggersi nel corso dei conviti, e in realtà riflessione amara sull’uomo e sulla vita, sulle sue follie, sulle pulsioni oscure e negative. Alberti è il primo umanista che ribalta l’ottimismo dominante in un realismo pessimista, che fa vedere l’altra faccia della medaglia, il lato oscuro dell’umanesimo. Le Intercoenales, per la loro violenza ideologica, restarono un testo quasi ‘segreto’, con una circolazione sotterranea in pochi manoscritti. E la stessa visione del mondo affiora nel Momus, o De principe (1443-1450), strana favola mitologica in cui un ‘dio minore’ e dispettoso, Momo, mette a soqquadro l’ordine costituito degli uomini e degli dèi, denudando le loro meschinità, e la vacuità del potere. Il periodo fiorentino aveva però messo a contatto l’Alberti con il mondo degli artisti del Rinascimento, e in particolare con Brunelleschi e Donatello. Da allora Battista (che aveva compiuto anche studi tecnici e matematici, riflessi nella composizione di opuscoli latini come i Ludi matematici) consacrò una parte importante della propria attività alle arti figurative, e soprattutto all’architettura, con la realizzazione di alcuni tra i più importanti edifici del Quattrocento: a Firenze la facciata di Santa Maria Novella e Palazzo Rucellai; a Rimini il Tempio Malatestiano; a Mantova la chiesa di Sant’Andrea. L’Alberti volle contribuire alla nobilitazione di quelle arti che, nella gerarchia disciplinare alla fine del Medioevo, erano considerate ancora ‘meccaniche’, perché legate ad operazioni ‘materiali’, e quindi inferiori rispetto alle arti ‘liberali’. I grandi maestri da Giotto in poi avevano dimostrato una straordinaria autonomia intellettuale degli artisti, che si formavano non in scuole regolari, ma nell’ambiente vivacissimo delle ‘botteghe’, punto d’incontro di esperienze diverse, dalla tecnologia alla metallurgia, dall’alchimia alle scienze naturali, dall’ottica alla geometria e alla meccanica. Quello che mancava ancora era l’approdo alla tradizione scritta di quel grande complesso di conoscenze

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pratiche accumulate dagli artisti in poco più di centocinquant’anni (fatta eccezione per pochi e non elevati scritti per ‘addetti ai lavori’, come il Libro dell’arte di Cennino Cennini). Battista cominciò così a scrivere per i suoi amici artisti, e non smise più. In prima istanza la pittura, il De pictura (‘sulla pittura’)(1435), in latino, poi tradotto dallo stesso autore in volgare, per l’amico Brunelleschi: un importante trattato, che espone chiaramente la rivoluzionaria teoria della prospettiva, e fonda la rappresentazione pittorica su basi matematiche, e cioè profondamente ‘oggettive’, misurabili. Poi la scultura, con il De statua (‘sulla statua’) e il De equo animante (‘sul cavallo animato’), sulla rappresentazione viva del cavallo nei monumenti equestri (si pensi al Gattamelata di Donatello, a Padova). Infine, l’architettura, il campo praticato dallo stesso Alberti, con il trattato De re aedificatoria (‘sull’arte del costruire’)(1452), che superava l’antico e talvolta oscuro trattato romano di Vitruvio, proponendo una nuova terminologia, e segnando la definitiva acquisizione dello stile classico nelle costruzioni pubbliche e private. Non è solo un libro sull’arte del costruire. Per l’Alberti, la casa e la villa, il tempio, il teatro, e così via, sono veramente i luoghi in cui si svolge la vita umana, in cui si attua l’ideale dell’humanitas. La città albertiana è così un progetto di armonia, di equilibrio, modello della città ideale vagheggiata dagli umanisti e dagli artisti del Rinascimento.

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Stocchi, vol. III, parte I, Vicenza, Neri Pozza, 1980; V. Branca, La sapienza civile. Studi sull’umanesimo a Venezia, Firenze, Olschki, 1998. Sull’umanesimo e la cultura a Firenze: H. Baron, La crisi del primo Rinascimento italiano. Umanesimo civile e libertà repubblicana in un’età di classicismo e di tirannide (1955), Firenze, Sansoni, 1970; C. Bec, Cultura e società a Firenze nell’età della rinascenza, Roma, Salerno, 1981. – C. Salutati, Epistolario, a c. di F. Novati, Roma 1891-1911; De laboribus Herculis, a c. di B.L. Ullman, Padova, Antenore, 1951; De fato et fortuna, a c. di C. Bianca, Firenze, Olschki, 1985. Cfr. B.L. Ullman, The humanism of Coluccio Salutati (1963), Padova, Antenore, 2000; D. De Rosa, Coluccio Salutati. Il cancelliere e il pensatore politico, Firenze, La Nuova Italia, 1980. - L. Bruni, Opere letterarie e politiche, a c. di P. Viti, Torino, UTET, 1996; Historiarum florentini populi libri XII e Rerum suo tempore gestarum commentarium, a c. di E. Santini e C. Di Pietro, Città di Castello, Lapi-Bologna, Zanichelli, 1914-1926; Laudatio florentine urbis, a c. di S.U. Baldassarri, Firenze, Sismel-Edizioni del Galluzzo, 2000. Cfr. P. Viti, Leonardo Bruni e Firenze. Studi sulle lettere pubbliche e private, Roma, Bulzoni, 1992. - M. Palmieri, Vita civile, a c. di G. Belloni, Firenze, Istituto nazionale di studi sul Rinascimento, 1982. Cfr. A. Mita, Matteo Palmieri tra storia, letteratura e politica, Napoli, Name, 2005. Sulle corti centro-settentrionali: Storia di Milano, Milano, Fondazione Treccani, 1953-1962; C. Mozzarelli, Mantova e i Gonzaga, Torino, UTET, 1987; La corte e lo spazio. Ferrara estense, a c. di G. Papagno e A. Quondam, Roma, Bulzoni, 1982; V.L. Gundersheimer, Ferrara estense: lo stile del potere, Modena, Panini, 2005; Le Signorie dei Malatesta, Rimini, Chigi, 1990. Un’ed. recente di F. Filelfo, Satyrae, vol. I, a c. di S. Fiaschi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2005. Su Roma: A. Pinelli, Roma del Rinascimento, Roma-Bari, Laterza, 2007. Edizioni di testi: - Poggio Bracciolini, Opera omnia, a c. di R. Fubini, Torino, Bottega d’Erasmo 19641969; Lettere, a c. di H. Harth, Firenze, Olschki, 1984-1987; Facezie, a c. di S. Pittaluga, Milano, Garzanti, 1995; La controversia di Poggio Bracciolini e Guarino Veronese su Cesare e Scipione, a c. di D. Canfora, Firenze, Olschki, 2001; De infelicitate principum, a c. di D. Canfora, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1998; De vera nobilitate, a c. di D. Canfora, ivi, 2002; Contra hypocritas, a c. di D. Canfora, ivi, 2008. - Enea Silvio Piccolomini, Historia de duobus amantibus, a c. di D. Pirovano, Alessandria, Dell’Orso, 2001; Il dialogo su un sogno, a c. di A. Scafi, Roma, Aragno, 2004; I commentarii, a c. di L. Totaro, Milano, Adelphi, 2008. Cfr. A.M. Corbo, Pio II Piccolomini un papa umanista (1458-1464), Roma, Edilazio, 2002.



l’umanesimo

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5.3. Valla. Un’edizione complessiva è in L. Valla, Opera omnia, a c. di E. Garin, Torino, Bottega d’Erasmo, 1962. Fondamentale la serie di edd. critt. promossa da G. Billanovich presso l’editore Antenore di Padova: Gesta Ferdinandi Regis Aragonum, a c. di O. Besomi (1973); Antidotum in Facium, a c. di M. Regoliosi (1981); Repastinatio dialectice et philosophie, a c. di G. Zippel (1982); Epistole, a c. di O. Besomi e M. Regoliosi (1984); De professione religiosorum, a c. di M. Cortesi (1986); Le postille all’«Institutio oratoria», a c. di L. Cesarini Martinelli e A. Perosa (1996). Nell’Edizione Nazionale sono uscite le Raudensiane note, a c. di G.M. Corrias, Firenze, Polistampa, 2007. Cfr. anche Collatio Novi Testamenti, a c. di A. Perosa, Firenze, Sansoni, 1970. Edizioni con trad. it.: Scritti filosofici e religiosi, a c. di G. Radetti, Firenze, Sansoni, 1953; L’arte della grammatica, a c. di P. Casciano, Milano, Mondadori, 1990; La falsa donazione di Costantino, a c. di G. Pepe, Firenze, Ponte alle Grazie, 1992; Falsa donazione di Costantino, Milano, Rizzoli, 1994. Studi critici: F. Gaeta, Lorenzo Valla. Filologia e storia nell’umanesimo italiano, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Storici, 1955; Lorenzo Valla e l’umanesimo italiano, a c. di O. Besomi e M. Regoliosi, Padova, Antenore, 1984; M. Regoliosi, Nel cantiere del Valla. Elaborazione e montaggio delle «Elegantiae», Roma, Bulzoni, 1993, e Pubblicare il Valla, Firenze, Polistampa, 2008; S. Camporeale, Lorenzo Valla. Umanesimo, Riforma e Controriforma. Studi e testi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002. 5.4. Alberti. Edizioni recenti di testi: - Opere volgari, a c. di C. Grayson, Bari, Laterza, 1960-1966; De vera amicitia. I testi del primo Certame Coronario, a c. di L. Bertolini, Modena, Panini, 1993; I libri della famiglia, a c. di R. Romano e A. Tenenti, Torino, Einaudi, 1994; “Grammatichetta” e altri scritti sul volgare, a c. di G. Patota, Roma, Salerno, 1996; Rime, a c. di G. Gorni, Paris, Les Belles Lettres, 2002. - Opere latine: L’architettura, a c. di G. Orlandi, Milano, Il Polifilo, 1988; De statua, introd., trad. e note a c. di M. Spinetti, Napoli, Liguori, 1999; Intercenali, a c. di I. Garghella, Napoli, ESI, 1999; Id., a c. di F. Bacchelli e L. d’Ascia, Bologna, Pendragon, 2003; Apologhi, a c. di M. Ciccuto, Torino, Aragno, 2003; Momus, a c. di F. Furlan, Milano, Mondadori, 2007; Studi critici: G. Ponte, Leon Battista Alberti umanista e scrittore, Genova, Tilgher, 1981; P. Marolda, Crisi e conflitto in Leon Battista Alberti, Roma, Bonacci, 1988; R. Cardini, Mosaici. Il nemico dell’Alberti, Roma, Bulzoni, 1990; C. Grayson, Studi su Leon Battista Alberti, Firenze, Olsckhi, 1998; L. Boschetto, Leon Battista Alberti e Firenze. Biografia, storia, letteratura, Firenze, Olsckhi, 2000; R. Rinaldi, “Melancholia Christiana”. Studi sulle fonti di Leon Battista Alberti, Firenze, Olschki 2002; A. Grafton, Leon Battista Alberti: un genio universale, Roma-Bari, Laterza, 2003; M. Paoli, Leon Battista Alberti,

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Torino, Bollati Boringhieri, 2007; Leon Battista Alberti umanista e scrittore. Filologia, esegesi, tradizione, a c. di R. Cardini e M. Regoliosi, Firenze, Polistampa, 2008. Rivista specializzata: “Albertiana”. Bibliografia on line: Leon Battista Alberti (alberti. wordpress.com)

6. L’apogeo del Rinascimento

6.1. La civiltà delle corti Intorno alla metà del Quattrocento il policentrismo dinamico dell’umanesimo si stabilizzò in un grande sistema politico, destinato a durare almeno fino alla fine del secolo, e che può essere definito civiltà delle corti: sistema peculiare della civiltà italiana del Rinascimento, che la differenzia dallo sviluppo di tutti gli altri paesi europei, proiettati invece verso processi di unificazione interna, e di formazione delle monarchie nazionali. I principali centri italiani ebbero in questo periodo, come polo di aggregazione delle attività culturali e artistiche, una ‘corte’, da intendersi non in senso tradizionale (come lo erano state le corti feudali nel Medioevo), ma come prototipo di organizzazione moderna del potere, schema piramidale che aveva al vertice il ‘principe’, e poi, a diversi livelli, la cancelleria, i consiglieri, i funzionari, in simbiosi con la vita quotidiana, privata e pubblica, della stessa ‘corte’: matrimoni e feste, committenze artistiche, relazioni. Altro polo di aggregazione diventa, al di fuori della corte ma in rapporto organico con essa, l’accademia, all’inizio libera associazione di umanisti e intellettuali che si richiama ad antichi modelli greci, luogo d’incontro e di discussione che gradualmente stabilisce un suo rituale di accesso e di organizzazione. Il sistema, dopo una fase di lotte feroci, conobbe un periodo di stabilità, quasi un quarantennio, a partire dal 1454 (l’anno della pace di Lodi), favorito poi dalla politica di equilibrio e diplomazia di Lorenzo il Magnifico. Ma fu una stabilità breve e illusoria: nel 1494 scese in Italia il re di Francia, Carlo VIII, per conquistare il regno di Napoli, e la facilità della sua effimera conquista dimostrò la debolezza intrinseca degli stati italiani. Pochi anni dopo il crollo fu inevitabile: tra 1499 e 1501, Francia e Spagna conquistarono due fra gli stati più ricchi e potenti, il ducato di Milano e il regno di Napoli, e dopo le alterne vicende delle cosiddette guerre d’Italia (culminate nella bat-

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taglia di Pavia nel 1525), la Spagna impose il suo predominio alla penisola, destinato a durare quasi due secoli. La storiografia tradizionale ha di solito indicato nel decennio anteriore al 1500 un forte punto di svolta, segnato dalla coincidenza di alcune date significative: nel 1492, la morte di Lorenzo il Magnifico, la conquista di Granada ad opera dei Re Cattolici, Ferdinando e Isabella (momento finale della storia secolare della reconquista), e la scoperta di un nuovo mondo a opera di Cristoforo Colombo; nel 1494, la discesa di Carlo VIII, e la caduta dei Medici a Firenze. Per la civiltà italiana fu svolta, ma non cesura. Inizio di una crisi profonda, e non più rimediabile, ma anche continuità del sistema, almeno per i successivi trent’anni. Dal punto di vista culturale, la seconda metà del Quattrocento vede un evento rivoluzionario, che cambia tutte le dinamiche di comunicazione del sapere: l’invenzione della stampa a caratteri mobili, operata in Germania grazie a Johann Gutenberg, con la prima pubblicazione di una Bibbia a Magonza intorno al 1455. Mentre prima un libro doveva essere scritto a mano, ed era quindi un prodotto unico, ora il libro poteva essere stampato in cento, duecento, mille copie tutte uguali. I costi di produzione e vendita scendevano, e i libri sarebbero stati presto alla portata di un pubblico più ampio. In Italia, la prima stamperia fu impiantata dai tedeschi Schweinheim e Pannartz a Subiaco, con l’edizione della grammatica latina di Donato (ca. 1465), e poi a Roma, dove, protetti dai papi, essi produssero le prime importanti edizioni dei classici latini, e dei commenti umanistici. E furono chiamati, quei primi libri che sembravano neonati in fasce in una culla, incunaboli (dal latino cuna, ‘culla’). Un altro evento significativo è la netta ripresa della letteratura in volgare, dopo la stagione del dominio quasi assoluto dell’umanesimo latino. L’allargamento del pubblico di lettori al di fuori degli ambiti specifici del mondo dell’insegnamento, e l’impulso dato dalle corti principesche alla produzione di testi più agevolmente fruibili sia all’interno che all’esterno del circuito cortigiano, spinsero molti intellettuali, anche di formazione umanistica, alla sperimentazione di nuovi generi letterari in volgare, e al rinnovamento di quelli già esistenti. Non era una semplice ‘rivincita’ del volgare contro il latino. Molti grandi scrittori di quest’epoca erano scrittori bilingui, in latino e in volgare, e portarono nella giovane tradizione volgare (già basata sul riconosciuto culto delle Tre Corone) l’altezza della cultura umanistica, con tutte le sue conquiste testuali, le riflessioni sul sistema dei generi, i nuovi e rivoluzionari orizzonti antropologici e spirituali. I risultati furono di enorme valore per la fondazione di una letteratura compiutamente ‘italiana’, che



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si riconoscesse cioè in valori e forme condivise, al di là delle specifiche declinazioni regionali. Le corti assicurarono dunque anche una importante possibilità di circolazione di esperienze letterarie, resa ancora più intensa dall’invenzione della stampa. Nel sistema della civiltà delle corti, i centri più importanti saranno quelli retti da principi ‘nuovi’, non provenienti dall’antica aristocrazia feudale, o da precedenti esperienze di governo signorile. Il caso più significativo è quello di Firenze, che passa dalla repubblica dell’umanesimo civile ad uno stato retto dalla famiglia dei Medici, pur nel rispetto formale delle istituzioni comunali e repubblicane. Dopo il governo di Cosimo, e poi di suo figlio Piero, il potere passò al giovane figlio di questi, Lorenzo (1469), e subì un ulteriore irrigidimento dopo la fallita Congiura dei Pazzi (1478). Dopo la sua morte (1492), il potere dei Medici sopravvisse solo due anni: il figlio Piero fu cacciato da una rivolta popolare che portò al potere fra Girolamo Savonarola (Ferrara 1452-Firenze 1498), grande predicatore e fautore della riforma della Chiesa, condannato al rogo per l’opposizione al papa Alessandro VI. La repubblica, non più teocratica, continuò sotto la guida di Pier Soderini, e con l’apporto di un segretario chiamato Niccolò Machiavelli, ma dovette di nuovo cedere al ritorno dei Medici, nel 1513. Lorenzo diede uno straordinario sviluppo alle arti e alla cultura, favorendo con il suo mecenatismo l’aggregazione di numerosi intellettuali e artisti, evidentemente anche per finalità di strategia politica di ampio respiro. Nelle arti, attraverso il rapporto con la bottega di Andrea del Verrocchio, emergono le figure di Sandro Botticelli e Leonardo da Vinci, e poi del giovane Michelangelo Buonarroti. Nelle lettere, resta basilare lo studio del greco, insegnato all’università dal maestro bizantino Giovanni Argiropulo. Una vivace rappresentazione contemporanea degli intellettuali e degli artisti dell’epoca è nelle Vite di Vespasiano da Bisticci (Bisticci 1421-Antella 1498), un libraio al servizio dei Medici. Più che l’università, conta adesso il circolo che si riunisce attorno a Lorenzo, e spesso nelle ville medicee presso Firenze, a Careggi, a Castello o a Poggio a Caiano, circolo chiamato allora ‘accademia’, e guidato da un sacerdote, Marsilio Ficino (Figline 1433-Firenze 1499), promotore dello studio di Platone e della tradizione neoplatonica ed ermetica, per mezzo di importanti traduzioni, e di trattati come la Theologia platonica de immortalitate animae (‘teologia platonica sull’immortalità dell’anima’) e il De amore (‘l’amore’). Il revival platonico nell’umanesimo, cominciato con Petrarca, e ripreso con l’arrivo del filosofo bizantino Giorgio Gemisto Pletone (a Firenze nel 1439-1440), non era l’unica componente della cultura laurenziana. Quella

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aristotelica si riconosceva in Giovanni Pico della Mirandola (Mirandola 1463-Firenze 1494), che comunque, grazie alla propria vastissima formazione culturale e linguistica (estesa fino alla conoscenza diretta dell’ebraico e dell’arabo), andava oltre i confini della scolastica, con l’affermazione piena della libertà intellettuale e della grandezza dell’uomo, nell’Oratio de hominis dignitate (‘discorso sulla dignità dell’uomo’)(1486). E una posizione ancora più radicale sarebbe stata quella di Michele Marullo Tarcaniota (Costantinopoli 1453-Volterra 1500), umanista e soldato greco, autore di Epigrammata e Hymni naturales, in cui giunge alla definizione di una religione della natura influenzata dalla lettura di Lucrezio. Figura di raccordo tra umanesimo latino e volgare fu Cristoforo Landino (Firenze 1424-Borgo alla Collina 1498), che, professore allo Studio, pose allo stesso livello l’insegnamento di Virgilio e di Dante e Petrarca, considerati ormai ‘classici’ moderni, ai quali furono dedicati importanti commenti a stampa. Scrittore latino delle Disputationes Camaldulenses (‘dialoghi di Camaldoli’) e delle poesie della Xandra, Landino contribuì alla diffusione del volgare anche con la traduzione di classici latini, come l’enciclopedia naturale di Plinio il Vecchio. Del resto, al volgare guardano lo stesso Lorenzo, con la propria produzione poetica, e gli scrittori della sua cerchia, da Luigi Pulci ad Angelo Poliziano. Ancora più di Firenze, la vera new entry, nella cultura dell’umanesimo, fu Napoli. Dopo il periodo di crisi legato alla decadenza della dinastia angioina, Napoli era rientrata a pieno titolo nel sistema delle corti del Rinascimento grazie ad un principe straniero, Alfonso d’Aragona, un condottiero che aveva avuto l’intelligenza di circondarsi dei migliori umanisti contemporanei. Re di Napoli dal 1442 al 1458, Alfonso continuò a servirsi del loro aiuto, anche come consiglieri nell’attività di governo. La sede del potere e del governo, il castello già chiamato (dai suoi fondatori) Maschio Angioino, fu quasi completamente ricostruito, come simbolo e manifestazione della regalità, ma anche della vittoria della civiltà umanistica, nello straordinario arco di trionfo realizzato dallo scultore dalmata Francesco Laurana, memoria del trionfo ‘all’antica’ con il quale Alfonso era entrato vittorioso a Napoli nel 1443; castello che sarà anche foyer culturale, in quanto sede della ricchissima Biblioteca Reale. L’umanesimo alfonsino fu tutto latino, dal romano Lorenzo Valla all’esule fiorentino Giannozzo Manetti (Firenze 1396-Napoli 1459), autore del De dignitate et excellentia hominis (‘dignità ed eccellenza dell’uomo’)(1451-53), importante trattato che, dopo Salutati e prima di Pico, afferma la dignità dell’uomo, e la bontà intrinseca e la bellezza della vita e delle gioie terrene,



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contro la tradizione ascetica medievale. Avversario di Valla nella questione delle correzioni al testo di Livio (ma in realtà nei rapporti di potere all’interno della corte) fu Antonio Beccadelli detto il Panormita (Palermo 1394Napoli 1471), autore del più licenzioso e divertente libro di poesia erotica dell’umanesimo, l’Hermaphroditus, ma anche segretario regio, e fondatore di un’accademia chiamata, dal suo nome, Porticus Antoniana (‘portico d’Antonio’, dal porticato antistante la sua casa nel centro antico di Napoli). L’eredità del Panormita, e l’abitudine dell’accademia, fu continuata da un giovane umanista umbro, Giovanni Pontano (Cerreto di Spoleto 1429Napoli 1503), che fu a sua volta segretario del successore di Alfonso al trono di Napoli, Ferdinando d’Aragona. Pontano fu soprattutto poeta, forse il più grande dell’umanesimo latino, capace di ricreare i generi antichi come se fossero del tutto contemporanei: l’epigramma celebra l’amore sensuale e la vita gioiosa degli stabilimenti termali dei Campi Flegrei negli Hendecasyllabi seu Baiae (‘endecasillabi o Baia’), ma anche la dolcezza dell’amore coniugale e degli affetti domestici nel De amore coniugali (‘amore coniugale’), fino alla malinconica rievocazione degli amici e familiari scomparsi nei Tumuli (‘sepolcri’), in cui sono i morti a parlare in prima persona, attraverso le loro epigrafi tombali (alcune realmente scolpite, nella bella cappella costruita da Pontano a Napoli, presso la propria casa); suprema forma di rielaborazione di un genere poetico antico, quello della poesia epigrafica, in una chiave moderna che giungerà fino alla Spoon River Anthology di Edgar Lee Masters. Esperienza politica e cultura filosofica portarono invece alla composizione di un’opera storica, De bello Neapolitano (‘la guerra di Napoli’), e di diversi trattati morali e politici, tra i quali risaltano quelli dedicati a tematiche importanti della riflessione umanistica: De prudentia (‘sulla prudenza’), De fortuna (‘sulla fortuna’), De sermone (‘sul discorso’). Nel De principe (‘sul principe’) si definisce un modello ideale di principe, basato però sulle esperienze reali del Pontano ‘segretario’, riflesse anche nelle belle lettere in volgare, scritte per conto di re Ferdinando. Sulla linea di Luciano (e dell’Alberti delle Intercoenales) Pontano si dedicò anche alla scrittura di alcuni dialoghi, che sono tra le migliori prose dell’umanesimo (Charon, Antonius, Asinus, Actius, Aegidius). Intorno al Pontano si raccolse l’accademia degli umanisti napoletani (detta Pontaniana), continuata dopo la sua morte dalla figura più rappresentativa della cultura meridionale, Iacopo Sannazaro. Era ormai un gruppo di intellettuali che si erano formati sotto il regno di Ferdinando, e ne avevano visto i progressi (la modernizzazione dello stato, le ripresa delle città e dei commerci, l’attività edilizia e urbanistica), ma anche le ombre morali, che ne segnarono il declino: la cosiddetta Congiura dei Baroni, episodio della lunga lotta tra i grandi feudatari del regno e il sovrano, che eliminò i suoi

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avversari con il tradimento, e la negazione di tutti gli ideali di humanitas predicati dai suoi umanisti (1486). Il crollo della dinastia (già colpita da Carlo VIII nel 1494, e poi definitivamente abbattuta da Francesi e Spagnoli nel 1501), ebbe un testimone d’eccezione in un medico e umanista di periferia, Antonio De Ferrariis detto il Galateo (Galàtone 1448-Lecce 1516), autore di vivaci epistole latine, e di un surreale dialogo Eremita in cui l’anima di un eremita, dopo la morte, si conquista con la forza l’ingresso in Paradiso, litigando con gli stessi santi; di un opuscolo in volgare Esposizione del Pater noster; e soprattutto di un De educatione (‘sull’educazione’)(1505), apparentemente un trattatello pedagogico per l’ultimo principe Ferdinando in esilio in Spagna, in realtà un’impietosa rappresentazione della crisi dell’umanesimo italiano, nel confronto con le altre culture del continente. Nonostante il primato dell’umanesimo latino, l’età di re Ferdinando segnò anche a Napoli la riscossa del volgare, favorito dal sovrano nella formazione di una classe di funzionari regi, incaricati dell’amministrazione dello stato. Il nobile umanista Diomede Carafa (Napoli 1406-1487) scrive in volgare una serie di realistici Memoriali sull’agire politico e la vita di corte. Parallelamente all’accademia umanistica nasce un gruppo di poeti legati in varia misura alla corte, e distinti dalla duplice appartenenza ad una piccola nobiltà provinciale o cittadina, o alla classe dei funzionari statali; piccoli ‘poeti gentiluomini’, insomma, autori di personali canzonieri di ispirazione petrarchista, mediata anche dalla lettura della Bella mano di Giusto de’ Conti: il Naufragio di Giovanni Aloisio (Aversa ca. 1450-Sant’Agata dei Goti 1519), gli Amori di Gianfrancesco Caracciolo (Napoli ca. 1437-1506), il Colibeto di Francesco Galeota (Napoli ca. 1446-1497), il Perleone di Giuliano Perleoni detto Rustico Romano. La loro poesia, segnata da un certo sperimentalismo talvolta dilettantesco, oscilla tra la cultura alta e quella popolare, da cui si riprendono talvolta, in forma parodica, le cadenze dialettali, nelle forme metriche dello strambotto, e in particolare di un tipo di frottola dialettale di endecasillabi con rima al mezzo, che viene chiamato gliòmmero, cioè ‘gomitolo’. Ne scrissero, tra gli altri, Sannazaro, e un suo amico degli anni giovanili, Pietro Iacopo De Iennaro (Napoli 1436-1508), autore di un altro canzoniere, e di una Pastorale intessuta di prose ed egloghe ad imitazione dell’Arcadio di Sannazaro. Ma su tutti questi poeti emerge il nome del catalano (ma stabilimente residente a Napoli) Benet Gareth detto il Cariteo (Barcellona 1450-Napoli 1514), che elabora, soprattutto nella raccolta Endimione (1506), una forma nuova di imitazione petrarchesca, meno sperimentale e più selettiva, basata su immagini e metafore nuove, che sembrano preludere alla poetica del secolo successivo.



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Al petrarchismo lirico corrisponde, nella prosa, un ‘boccaccismo’ narrativo, con la composizione del Novellino di Tommaso Guardati detto Masuccio Salernitano (Salerno ca. 1410-1475), raccolta di cinquanta novelle senza cornice, ma con dediche a personaggi illustri contemporanei. Nonostante il richiamo esplicito a Boccaccio, il mondo di Masuccio è molto lontano da quello del Decameron. Intanto, la satira antireligiosa e misogina è portata, soprattutto nella prima parte, a situazioni estreme. Si avverte una perdita di equilibrio, che conduce al dominio dell’irrazionalità, dell’oscenità e della violenza. Uno scenario cupo, che tornerà, agli inizi del Cinquecento, nelle Novellae latine del giurista Girolamo Morlini. Dove invece dilaga il gusto del racconto, a Napoli, è nella cronachistica e memorialistica, che, dopo la fortunata Cronaca di Partenope, vede la vivacissima scrittura autobiografica del vecchio Loise de Rosa (Pozzuoli 1385ca. 1475), dignitario della corte angioina che testimonia del passaggio dai vecchi ai nuovi padroni, in una girandola di divertenti avventure personali. E poi le grandi rappresentazioni, a metà tra il realismo dei fatti e la trasfigurazione leggendaria, dei cosiddetti Diurnali del Duca di Monteleone, epopea cavalleresca dell’ultimo re angioino di Napoli, Renato d’Angiò, detto il bon roi René; o della Cronica del Ferraiolo, conservata in un manoscritto figurato che anche nelle illustrazioni manifesta lo stupore popolare per l’avvento di Carlo VIII; fino alle più tarde cronache di Silvestro Guarino d’Aversa, e di Notar Giacomo. Anche Ferrara conosce un periodo di splendore, sotto il duca Ercole I d’Este (al potere dal 1471 al 1505), mecenate delle arti e delle lettere. L’università, promossa a centro di eccellenza con Guarino da Verona, continua sulla stessa linea di insegnamento umanistico col figlio Battista Guarino e altri importanti maestri aristotelici, e ospita un gruppo numeroso di studenti europei, che riporteranno nei loro paesi i semi dell’umanesimo italiano. La poesia umanistica latina raggiunge i livelli più alti con Tito Vespasiano Strozzi (1424-1505). La corte, però, favorisce ora la letteratura in volgare, con poeti cortigiani come Antonio Cornazzano, già al servizio degli Sforza (Piacenza ca. 1429-Ferrara ca. 1483), Niccolò da Correggio (Ferrara 14501508) e Antonio Tebaldi detto il Tebaldeo (Ferrara 1463-Roma 1537). E al duca Ercole risulta dedicata anche la raccolta delle Porretane novelle di Sabadino degli Arienti, rappresentazione del raffinato ambiente cortigiano della Bologna dei Bentivoglio, trasferito nella cornice dei bagni termali della Porretta. Tra i generi di punta, nella cultura ferrarese, sono sicuramente la bucolica, con ampia produzione di egloghe in latino e in volgare, travestimento

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pastorale di situazioni di corte e personaggi contemporanei, utilizzato soprattutto da Matteo Maria Boiardo; il genere cavalleresco (sempre con il Boiardo) da sempre lettura prediletta degli Estensi e dei loro cortigiani, come rivelano gli antichi cataloghi della biblioteca signorile, ricchissima di testi cavallereschi francesi e italiani; e infine il nuovo genere teatrale. Il teatro profano era una riscoperta tutta umanistica, e si era finora espresso in qualche commedia umanistica latina confinata ad un ristretto contesto scolastico o universitario. Merito della corte estense fu di promuovere le prime rappresentazioni di commedie di Plauto e Terenzio (a iniziare dai fortunatissimi Menaechmi, 1486), tradotte in volgare, ed eseguite nel cortile di palazzo ducale in occasione delle feste del carnevale. Alle traduzioni successero presto le opere originali: la ovidiana Fabula di Cefalo (1487) di Niccolò da Correggio, e la rielaborazione del Tebaldeo della Fabula di Orfeo di Poliziano. Il fenomeno della poesia cortigiana, al quale partecipavano il Correggio e il Tebaldeo, era comunque un fenomeno sovraregionale, che interessava in maniera circolare tutte le corti, per le quali si trovavano a passare alcuni dei più famosi poeti dell’epoca, contesi dal loro pubblico per l’abilità versificatoria, e in particolare la capacità di comporre ‘all’improvviso’, come faceva il celeberrimo Serafino Cimminelli detto Serafino Aquilano (L’Aquila 1466-Roma 1500). Poeti toscani non eccelsi come Antonio Cammelli (Pistoia 1436-Ferrara 1502), o Bernardo Bellincioni (Firenze 1452-Milano 1492, autore di una Festa del Paradiso messa in scena da Leonardo nel 1491), potevano fare la loro fortuna al Nord, semplicemente perché vi giungevano in un’epoca di grande ammirazione per la letteratura toscana, a iniziare dai grandi esempi di Dante, Petrarca e Boccaccio. A Milano, all’antica dinastia dei Visconti era succeduto un ‘uomo nuovo’, un condottiero che aveva sposato la figlia dell’ultimo Visconti, Francesco Sforza. Alla fine del Quattrocento il potere era passato ad un principe spregiudicato, Ludovico il Moro, che si era circondato di artisti come Leonardo da Vinci e Bramante da Urbino, e per il quale la cultura restava uno strumento del potere, o un gradevole passatempo. Ne furono testimoni gli umanisti latini al suo servizio, Giorgio Merula e Tristano Calco. E soprattutto gli scrittori volgari, nobili cittadini o funzionari di corte (una situazione simile a quella napoletana), come Gasparo Visconti (Milano 1461-1499), amico di Bramante, autore di un canzoniere petrarchesco e di un poema narrativo De Paulo e Daria, variazione sul tema degli amanti infelici; ma anche autore teatrale della Pasitea, insieme al cortigiano Baldassarre Taccone, compositore di una Danae (1495) che ebbe l’onore di essere allestita addirittura da Leonardo.



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Il mecenatismo a Mantova si identificò soprattutto con l’opera di Isabella d’Este, principessa estense andata sposa al marchese di Mantova, Francesco Gonzaga, ma presto protagonista di un’autonoma politica culturale, che andava dalla sponsorizzazione del grande pittore Andrea Mantegna all’ospitalità data a umanisti come Mario Equicola (Alvito 1470-Mantova 1525). L’Equicola, proveniente dal regno di Napoli come cortigiano dell’esule duca di Sora Sigismondo Cantelmo, fu uno di coloro che maggiormente furono consapevoli della dimensione ‘cortigiana’ della loro attività, in un’opera in volgare come il Libro de natura de Amore (1525), in cui si comincia a tracciare un bilancio critico della tradizione della poesia volgare italiana. Nelle Marche Urbino, piccola città provinciale, era stata proiettata nel cuore del Rinascimento da Federico da Montefeltro, che promosse la costruzione di uno straordinario palazzo ducale, ad opera anche del Laurana, che aveva lavorato a Napoli per l’arco di trionfo di Alfonso d’Aragona. Nei primi anni del Cinquecento, sotto il duca Guidubaldo, e la principessa Elisabetta Gonzaga, Urbino accolse un eccezionale circolo intellettuale, di cui avrebbe lasciato memoria Baldassar Castiglione nel suo Cortegiano, curatore tra l’altro nel 1513 della rappresentazione della Calandra di Bernardo Dovizi (Bibbiena 1470-Roma 1520), vivace commedia di travestimenti derivata più da Boccaccio che da Plauto, e ambientata nella Roma contemporanea. A Roma, la stabilizzazione della residenza dei papi dopo lo Scisma d’Occidente coincide con la ‘rinascita’ della città, tanto più significativa perché essa stessa simbolo del Rinascimento, luogo di formazione privilegiato degli artisti, che vi giungevano per studiare i resti dell’Antico: le rovine del Foro, del Colosseo, dei templi e degli archi di trionfo, e le nuove sensazionali scoperte archeologiche, dalla Domus Aurea al Laocoonte. A Roma nasce dunque, come disciplina propria dell’umanesimo, l’archeologia moderna, nelle collezioni di antichità presso le grandi famiglie nobili, e il palazzo dei papi. La restitutio antiquitatis è così un fenomeno globale: mentre Valla lavora sulla lingua, l’umanista Biondo Flavio (Forlì 1392-Roma 1463) si dedica alla celebrazione della vitalità dell’antichità classica in opere come Roma instaurata e Italia illustrata, scrivendo anche il primo manuale archeologico moderno, Roma triumphans. La ricerca antiquaria sarà un elemento caratteristico dell’umanesimo romano, continuato dalla generazione successiva di umanisti, raccolti in un’accademia guidata da Pomponio Leto (Teggiano 1428-Roma 1497). Presso la corte pontificia nasceva anche la Biblioteca Vaticana, la più grande e ricca dell’epoca. L’ideologia umanistica dominante vedeva nella Roma papale mo-

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derna l’effettiva rinascita della Roma antica, e nei papi la guida non solo spirituale della Cristianità. Le strutture ecclesiastiche diventavano un sistema amministrativo moderno, come dimostra il De cardinalatu (‘il cardinalato’) di Paolo Cortesi (Roma 1465-San Gimignano 1510), l’umanista che codifica l’imitazione classicista, in polemica con Poliziano. La corte romana non era un ambiente facile: sospettata di congiura, la stessa accademia fu dispersa da papa Paolo II e i suoi membri incarcerati (1468). Di più, dopo i grandi papi umanisti (Niccolò V, Pio II), si impose una politica di potenza militare, e di ingerenza nel sistema italiano ed europeo (oltre che di interesse privato della stessa famiglia del papa, chiamato ‘nepotismo’), culminante con papa Alessandro VI Borgia, che favorì l’ascesa del figlio Cesare, detto il Duca Valentino, nella conquista di uno stato che si sarebbe potuto estendere a tutta Italia. Il progetto dei Borgia fallì miseramente con la morte del papa (1503), ma la politica temporale continuò con il papa guerriero Giulio II Della Rovere, e anche con i papi medicei Leone X e Clemente VII. La Roma del Rinascimento era giunta allora all’apice del suo splendore, Bramante, Raffaello e Michelangelo vi avevano realizzato le loro opere più grandi, ed era in costruzione la nuova basilica di San Pietro. E proprio allora giunse la catastrofe: il terribile Sacco di Roma, perpetrato dall’esercito imperiale nel 1527. Un grande episodio simbolico, che sembrava portare la punizione divina sulla corte pontificia che già alcuni anni prima un monaco agostiniano tedesco, Martin Lutero, aveva accusato di corruzione, e di essersi allontanata dalla purezza originaria del Vangelo. Il segno di una crisi morale profonda, da cui la Chiesa doveva ormai risollevarsi. Infine, nel sistema delle corti italiane, costituisce un caso particolare Venezia, che, conservando nei secoli le proprie strutture di repubblica oligarchica, non divenne mai un ‘principato’, e non ebbe mai una ‘corte’. L’intera area veneta, come si è visto, era stata determinante nello sviluppo dell’umanesimo, e alla fine del Quattrocento il dominio di terraferma della Serenissima si estendeva dall’Isonzo fino alle porte di Milano, con Bergamo e Brescia. Ogni città aveva un suo vivace circolo umanistico, e sue istituzioni scolastiche, e Padova annoverava la celebre università, centro soprattutto di studi aristotelici. Venezia era stata la vera ‘porta dell’Oriente’, accogliendo i dotti bizantini, in particolare il cardinal Bessarione, che donò la sua straordinaria biblioteca greca (1468), base della Biblioteca Marciana. In nessun’altra area italiana l’umanesimo assolse di più alla sua funzione originaria di formazione delle classi dirigenti, che nella repubblica si saldavano strettamente agli esponenti dell’antico patriziato. Una concezione alta ma strumentale della cultura, che portava a vedere con sospetto chi, proveniente dal patriziato,



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decideva di dedicarsi esclusivamente agli studi e alle lettere, come fece Ermolao Barbaro (Venezia 1453-Roma 1493), nipote di Francesco, grande traduttore e commentatore di testi greci (soprattutto Aristotele), e maestro di filologia nelle Castigationes Plinianae (‘correzioni a Plinio’)(1492-93). Venezia divenne soprattutto la capitale dell’editoria, nell’età degli incunaboli e oltre. La rete di intensi scambi commerciali europei e mediterranei, la disponibilità di maestranze artigiane specializzate, la produzione di carta, la forte richiesta di testi dalle scuole venete e dall’università di Padova: sono solo alcuni dei motivi che possono spiegare l’assoluta preminenza di Venezia nella rivoluzione di Gutenberg. Il vero cambiamento avvenne quando, per la prima volta, editore divenne un umanista, Aldo Manuzio (Bassiano Romano 1450-Venezia 1515), che applicò la filologia umanistica all’attività editoriale. Non bastava più riprodurre il testo di un manoscritto qualsiasi. Bisognava interrogarsi sul suo valore testuale, sulla sua correttezza, e confrontarlo con altri. Aldo fu una figura decisiva per la cultura europea: stampò quasi tutti i classici greci in lingua originale, e molti classici latini, inventando un nuovo formato (cosiddetto ‘in ottavo’) per i suoi libri, non più grandi e costosi come i primi incunaboli, ma quasi ‘tascabili’, con il solo testo e senza pesanti commenti, destinati ad un pubblico ampio di lettori, e non solo di specialisti. Tra quei classici antichi, anche i classici moderni, Dante e Petrarca, stampati con la collaborazione di Pietro Bembo. E anche testi contemporanei singolari, come l’Hypnerotomachia Poliphili (‘battaglia d’amore di Polifilo in sogno’)(ed. 1499), il più bel libro illustrato del Rinascimento, racconto allegorico di una storia d’amore sospesa tra realtà e sogno (anche con una forte venatura erotica), frutto della fantasia antiquaria e umanistica di un frate del convento di San Giovanni e Paolo a Venezia, Francesco Colonna (Venezia ca. 1434-1527).

6.2. Pulci Luigi Pulci (Firenze 1432-Padova 1484) apparteneva a una famiglia nobile decaduta, e con i fratelli Luca e Bernardo conobbe tutta la difficoltà di vivere in una società chiusa come quella fiorentina, dominata dalle grandi famiglie oligarchiche. Legati alla cultura popolare non umanistica, i tre fratelli si dedicarono ai vari generi di letteratura volgare: il maggiore, Luca, banchiere fallito, ricreò con le Pístole (‘epistole’) il genere delle lettere d’amore (anche in persona di donna), inventato da Ovidio con le Eroidi, mentre Bernardo e la moglie Antonia si dedicarono alla poesia religiosa e alle sacre rappresentazioni (ma anche, Bernardo, alla traduzione in terzine delle

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Egloghe virgiliane, episodio importante per la diffusione del genere bucolico). Luigi riuscì a entrare nella cerchia di Lorenzo il Magnifico verso il 1461, e lì divenne facilmente, con la sua arguzia e vivacità d’ingegno, l’animatore della ‘brigata’ laurenziana, anche grazie al favore della madre del Magnifico, Lucrezia Tornabuoni. Giocò con Lorenzo all’invenzione di un genere di parodia campagnola, e ne celebrò la vittoria in un torneo del 1469 con un poemetto in ottave, la Giostra. Le cose cambiarono per i dissidi col Ficino, e per i suoi atteggiamenti talvolta irriverenti e irreligiosi. Alla fine, prevalsero i cortigiani, e Luigi cambiò signore, seguendo dopo il 1473 il condottiero Roberto Sanseverino, soprattutto nel Nord Italia. Capolavoro del Pulci fu un poema cavalleresco in ottave, iniziato, sembra, ad istanza della Tornabuoni, dopo il 1460. Luigi trovò il manoscritto di un rozzo cantare di materia carolingia, destinato alla recitazione (il cosiddetto Orlando Laurenziano), e lo riscrisse radicalmente, in una forma quasi parodica delle modalità di narrazione popolare. Apparentemente la storia e i personaggi erano sempre i soliti: l’imperatore Carlo Magno (che qui non brilla per troppa intelligenza politica) e l’eterno traditore Gano di Maganza, e i paladini senza macchia e senza paura Orlando e Rinaldo. Luigi dilatò invece il ruolo di un personaggio minore, un gigante di nome Morgante che, vinto da Orlando, si converte e comincia a battagliare per la parte cristiana. Morgante è il simbolo più significativo del mondo immaginario di Pulci: un mondo che raggiunge gli effetti del comico e del grottesco grazie all’esagerazione e alla deformazione. La sua figura diventa così importante che finisce col dare il nome all’intero poema: il Morgante (pubblicato in 23 cantari nel 1481, e poi in 28 cantari nel 1483, il cosiddetto Morgante Maggiore, che continua la narrazione insistendo sulla malvagia figura di Gano e sulla rotta di Roncisvalle). E sembra che il titolo sia stato imposto dal pubblico, e non scelto dall’autore. Morgante è proprio il contrario dell’ideale di equilibrio predicato dagli umanisti (con cui Pulci si troverà spesso in polemica), protagonista di azioni distinte sempre dall’eccesso: sanguinosissime battaglie, ed epiche mangiate. E completamente originale è un altro personaggio, inventato da Pulci: un semigigante di nome Margutte, furfante, ladro, libertino, goloso, che in un suo discorsetto paradossale rovescia tutti i valori dell’umanesimo. Comiche saranno anche le circostanze della morte dei due giganti: il grande e invincibile Morgante morirà punto da un granchiolino, e l’astutissimo Margutte morirà dal troppo ridere, nel vedere una scimmietta calzare i suoi stivali. Ma la vera grandezza comica del Pulci sta nel linguaggio, nella deformazione a cui sottopone la parola. Luigi aveva un gusto innato per il gioco linguistico, e in generale per il linguaggio: aveva studiato il gergo e il codice furbesco,



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e si era anche dato da fare per la compilazione di un piccolo vocabolario personale di parole rare, e latinismi, chiamato Vocabulista. Il Morgante raggiunge così un vertice espressivo molto alto, grazie ad uno stile basato sull’enumerazione e sulla parodia linguistica. Anche questa, se vogliamo, una dimostrazione della posizione antiumanistica dell’autore, più vicino alla cultura irregolare delle botteghe degli artisti del suo tempo.

6.3. Lorenzo A soli vent’anni, nel 1469, Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico (Firenze 1449-1492), figlio di Piero di Cosimo, prende le redini della famiglia, e di Firenze, dopo la morte del padre. Educato da umanisti come Ficino e Landino, Lorenzo segue anche le indicazioni della madre, Lucrezia Tornabuoni, e di Luigi Pulci, nella promozione della letteratura in volgare. In sintonia col Pulci, compone poemetti come il Simposio (che, ad onta del titolo platonizzante, mette in scena una vera brigata di ubriaconi), e la realistica Uccellagione di starne, e in particolare una parodia linguistica della parlata rusticale del Mugello nelle venti ottave della Nencia da Barberino, celebrazione della bellezza ruspante della contadinotta Nencia, evidente ripresa della novella decameroniana dell’“amorazzo contadino” del Prete di Varlungo: un testo che avrà grande fortuna di rifacimenti, e a cui rispose lo stesso Pulci, con una sua Beca da Dicomano. Ai giocosi anni giovanili seguì un forzato rappel à l’ordre, quando Lorenzo assunse funzioni di governo, e sposò la nobildonna romana Clarice Orsini (1469), lasciando il primitivo amore per Lucrezia Donati. L’influenza del Ficino riprese vigore nel poemetto dantesco e neoplatonico in terzine Altercazione (o De summo bono, dialogo tra Lorenzo e Marsilio sul tema del sommo bene)(1473), e nella rilettura allegorico-morale di alcune sue poesie nel prosimetro del Comento sopra alcuni dei suoi sonetti. Al di là dell’impianto platonizzante, l’itinerario di Lorenzo è significativo anche per i richiami espliciti a Dante e a Cavalcanti. Inizia ora una riflessione storica sulla letteratura italiana, sulla tradizione della poesia lirica, che va oltre la ricezione vulgata del petrarchismo quattrocentesco, e tende al recupero della poesia delle origini, e soprattutto alla definizione di una ‘storia’, di un filo che lega passato e presente. Episodio importante di questa strategia culturale fu l’allestimento di un manoscritto di poesia italiana delle origini, imperniato su Dante (Vita nuova e Rime), e poi Guinizzelli, Guittone, Cavalcanti, Cino, fino ai testi dello stesso Lorenzo. Il manoscritto fu donato al principe Federico d’Aragona, incontrato da Lorenzo a Pisa nel 1476, e fu

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chiamato allora Raccolta Aragonese. E non era un caso che collaboratore di Lorenzo in questa prima prova della filologia volgare (e probabile estensore della lettera di dedica) fosse il più grande filologo umanista contemporaneo, Angelo Poliziano. Tra la dotta poesia di Poliziano e l’immaginario mitologico di artisti come Botticelli e Piero di Cosimo, ora Lorenzo rappresenta il suo sogno personale di rinascita delle favole antiche, nelle egloghe Corinto e Amori di Venere e Marte, e nel raffinato poemetto eziologico Ambra, che riecheggia anche il Boccaccio del Ninfale Fiesolano. Ma è ormai finito il clima di ‘festa mobile’ della Firenze laurenziana. Nel 1478 Lorenzo sfugge miracolosamente alla congiura dei Pazzi, nella quale muore invece il fratello Giuliano. Si scatena una feroce repressione, che segna anche la fine delle ultime, esteriori libertà repubblicane. Negli ultimi anni, sempre di più Lorenzo utilizzerà la propria produzione letteraria in senso ‘impegnato’, cioè come strumento di comunicazione di massa, di legame tra il principe e il suo popolo, nell’occasione delle feste religiose e laiche, in primo luogo il carnevale. Da una lato le laude, e le sacre rappresentazioni, come la Rappresentazione di san Giovanni e Paolo (1491); dall’altro (ma è sempre la stessa medaglia) i ‘canti carnascialeschi’ (cioè ‘carnevaleschi’), cantati dalle brigate nelle sfilate del carnevale, basati sul metro della ballata, testi di particolare violenza espressiva, e soprattutto giocati sul doppio senso osceno. In occasioni simili furono composti anche alcuni ‘trionfi’ mitologici, come la Canzona di Bacco (1490), nei cui versi leggeri traspare tutta la malinconia dell’ultimo Lorenzo, che avvertiva ormai tutta la fragilità della vita umana, e del suo mondo declinante: “Quant’è bella giovinezza / che si fugge tuttavia! / Chi vuol esser lieto, sia: / di doman non c’è certezza”.

6.4. Poliziano Angelo Ambrogini detto il Poliziano dal nome della sua città (Montepulciano 1454-Firenze 1494) entrò giovanissimo al servizio dei Medici (1473), diventando in breve il precettore dei figli di Lorenzo (1475), ma abbracciando allo stesso tempo anche lo stato ecclesiastico (più che altro, inteso come fonte di benefici economici). Si distinse subito per le straordinarie competenze umanistiche, nella conoscenza del greco (con la traduzione parziale dell’Iliade), e la composizione di raffinate poesie in latino (la celebre elegia In violas), e perfino in greco. Nella cerchia laurenziana era però naturale anche l’uso del volgare, adottato da Poliziano in una serie di ballate, canzonette e ‘rispetti’ (cioè ottave),



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che alludono a forme della poesia popolare e per musica, nella ripresa dello stile più leggero di certo Cavalcanti. Ne derivano dei piccoli capolavori poetici, celebrazione della primavera della vita (la ballata Ben venga maggio), della giovinezza e dell’eros, di irripetibile e trasognata freschezza (la ballata I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino), forse incomprensibile se non si tiene conto che il loro autore ha già rielaborato, dentro di sé, l’esperienza dei lirici greci e degli elegiaci latini. E, di più, è di quegli anni il primo recupero filologico della poesia delle origini, promosso da Lorenzo nella Raccolta aragonese (1476) proprio con l’aiuto di Poliziano, che ne scrive la dedicatoria a Federico d’Aragona. Nel 1475 Giuliano de’ Medici vince un torneo, che fornisce a Poliziano una ghiotta occasione celebrativa. Già ne aveva approfittato Pulci nel 1469, con la sua Giostra in onore di Lorenzo. Ora Poliziano scrive (sempre nella forma del poemetto in ottave) le Stanze per la giostra del Magnifico Giuliano, in cui lo spunto originario (la vittoria di Giuliano) si salda alla tematica amorosa, l’amore di Giuliano per una Simonetta Cattaneo. In uno scenario allegorico il giovane cacciatore Iulo (cioè Giuliano), sprezzatore delle donne e amante della fiera vita selvaggia, viene per vendetta fatto innamorare dal dio Amore: la ninfa prescelta è ovviamente la bellissima Simonetta. Amore svolazza poi fino all’isola di Cipro, per riferire della sua gran vittoria alla madre Venere. A questo punto, Poliziano interrompe l’esile filo narrativo, e si lancia in una grande digressione descrittiva del palazzo e del giardino di Venere, con spunti che influenzeranno direttamente gli artisti laurenziani, come Botticelli nella Nascita di Venere e in Venere e Marte. E qui si interrompe il primo libro delle Stanze. Sono evidenti, sin da ora, alcuni elementi che derivavano dall’archetipo dei poemetti allegorici umanistici, i Trionfi di Petrarca, giocati naturalmente in ordine diverso rispetto al modello: all’iniziale ‘trionfo di castità’ di Iulo succede il ‘trionfo d’Amore’, mentre in seguito Iulo avrebbe dovuto conquistare Simonetta, dimostrando il suo valore e il suo coraggio in un torneo: un vero ‘trionfo di Virtù’, sia umanistica che cavalleresca, che sarebbe stato eternato dalla poesia, in un ‘trionfo della Fama’. Quel che Poliziano non aveva previsto, è che era in agguato anche il ‘trionfo della Morte’. Nel 1476 morì improvvisamente Simonetta. Il poeta riprese faticosamente il secondo libro, giungendo fino alla quarantaseiesima ottava. E a quel punto morì anche Giuliano, ucciso dai pugnali dei Pazzi (1478). Il poema incompiuto rimase comunque testimonianza di una sintesi felice tra cultura umanistica e tradizione volgare, lettura profonda dei classici e loro ricreazione nel ritmo veloce dell’ottava. La lingua è il frutto di una sperimentazione continua, di fusione tra la parlata popolare e il preziosismo latineggiante. Lo stile

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si avvale soprattutto della tecnica combinatoria di citazioni esplicite e di allusioni ad un vastissimo panorama di ‘classici’, antichi e moderni, fino a Dante, Petrarca e Boccaccio. Se nelle Stanze la concezione dell’amore è ancora legata ad una prospettiva platonica, di nobilitazione dell’anima (la stessa percorsa da Ficino, e da Lorenzo nel suo Comento), nelle opere successive Poliziano si spostò su un’idea dell’amore come furor, come improvvisa e devastante alterazione della natura umana, che non può non portare a morte e rovina. Anche nelle Stanze, in fondo, la Morte si era invitata da sola. Siamo nel 1480. Poliziano ha lasciato Firenze l’anno precedente, dopo oscuri dissapori con Lorenzo, o con la moglie Clarice Orsini. Ma forse la causa principale è il clima cupo e sanguinario che si respira a Firenze, dopo la Congiura dei Pazzi. Ospite dei Gonzaga a Mantova, Poliziano compone allora (“in due giorni, infra continui tumulti”, scrive egli stesso) uno spettacolo teatrale, la Favola di Orfeo, che mette in scena la storia di amore e morte di Orfeo ed Euridice, già raccontata nelle Georgiche di Virgilio e nelle Metamorfosi di Ovidio: Euridice, amata da Orfeo, muore per un morso di serpente, mentre fugge lo spasimante pastore Aristeo; il divino cantore scende all’Ade, e con la forza del suo canto riesce a commuovere le divinità infernali, che concedono il ritorno di Euridice alla vita, ma ad un patto: lungo il percorso di risalita Orfeo non dovrà mai voltarsi a guardare la donna. Cosa che invece puntualmente avviene, e fa scomparire di nuovo Euridice nelle tenebre. Orfeo disperato rinuncia per sempre all’amore delle donne (e anzi, singolarmente, esalta quello tra maschi), e incappa in una banda di sfrenate e ubriache Baccanti che provvedono a dilaniare il digraziato poeta. È un testo eccezionale (pur nell’imperfezione di una composizione di getto), che contamina generi, stili, metri, linguaggi diversi: l’egloga bucolica e il genere nenciale (negli iniziali dialoghi tra pastori), la poesia lirica volgare e quella umanistica latina (Orfeo), il canto carnascialesco (nella finale ballata delle Baccanti); il latino, il volgare elevato del petrarchismo lirico, il vernacolo fiorentino, la parlata rusticale dei pastori, e addirittura il dialetto padanoveneto delle Baccanti; la polimetria, corrispondente agli stili diversi (ottave, stanze liriche, terzine, ballata); l’escursione dalla sacra rappresentazione al teatro classico, e forse addirittura al dramma satiresco greco. Un’opera complessa, nella sua brevità, portatrice (come le Stanze) di messaggi diversi: innanzitutto, il mito classico di Orfeo, tradizionalmente interpretato come simbolo della superiorità della poesia, sembra qui a sua volta superato dalle pulsioni irrazionali della natura, e dell’eros, che diventano pulsioni di morte. Ma anche grande opera di teatro, la prima completamente autonoma nella civiltà moderna europea. Il testo viene rappresentato con accompagnamento



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musicale (alcuni pezzi sono improvvisati alla lira dal fiorentino Baccio Ugolini), e con un abbozzo di scenografia, che prevede il passaggio dal paesaggio primaverile e sereno del locus amoenus alle profondità infernali, dalla vita alla morte. Leonardo da Vinci, autore di un successivo allestimento, avrebbe risolto il problema con la costruzione di una macchina scenica, una finta montagna che, aprendosi, avrebbe rivelato al suo interno l’Ade e le divinità infernali, in una repentina mutazione di luci e di suoni. Al suo ritorno a Firenze, Poliziano cambiò il corso della sua vita. Più che il legame con la brigata laurenziana, lo attrassero gli studi classici e umanistici, legati ora all’insegnamento di eloquenza greca e latina all’università. Ne scaturirono importantissimi corsi su Stazio, Quintiliano, Virgilio, e Aristotele, fondati sulla rigorosa analisi filologica dei testi e dei manoscritti: analisi spesso documentata dagli stessi libri utilizzati da Poliziano, e che ci hanno conservato le sue preziose postille, o dai suoi quaderni di appunti, o ‘zibaldoni’. I corsi si aprivano con prolusioni poetiche in esametri latini intitolate (come in Stazio) Sylvae (Manto, Rusticus, Ambra, Nutricia), importanti documenti di poetica e di critica letteraria, che vanno dalle questioni di genere (la bucolica o l’epica) alla stessa storia della poesia come storia della civilizzazione umana. La testimonianza più alta del metodo di Poliziano, una raccolta di cento brevi saggi di filologia applicata, vero manifesto della nuova filologia come metodo di indagine scientifica e di mentalità critica (di lì a poco trasferibile ad ogni disciplina umana, dalla lettura dei testi sacri alle scienze naturali e alle tecnologie), apparve nel 1489: la Miscellaneorum centuria prima, cui seguì l’abbozzo di una seconda centuria, rimasta manoscritta alla morte dell’autore. Il metodo intellettuale di Poliziano era sostanzialmente basato su un’idea forte di libertà, di studio e di creazione. Ne derivava, nel dibattito umanistico sull’imitazione, la difesa dell’individualità e originalità dello stile, elaborato dallo scrittore moderno nel confronto con una pluralità di modelli antichi, in un rapporto non di sudditanza ma di parità, e se possibile di emulazione: concetti esposti in un’importante epistola al giovane curiale Paolo Cortesi, rimproverato per la rigida imitazione ciceroniana (ca. 1488). Il Cortesi difese invece, nella sua risposta, la necessità di imitare un solo modello antico, identificato come il migliore. Il classicismo, linea portante e contraddittoria dell’umanesimo, si avviava a diventare sistema generale di retorica e stile, e base imprescindibile della formazione nella cultura dell’età moderna.

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6.5. Boiardo Massimo rappresentante dell’umanesimo cortigiano alla corte di Ferrara fu Matteo Maria Boiardo (Scandiano 1441-Reggio Emilia 1494), conte di Scandiano e familiare del duca Ercole, coinvolto anche in incarichi amministrativi, come capitano di Modena (1480-1483) e poi di Reggio (dal 1487). La sua formazione umanistica, che ascendeva alla figura del grande poeta latino Tito Vespasiano Strozzi (fratello di sua madre), lo porta inizialmente alla composizione di poesie latine, e in particolare (nella moda bucolica che appassionava Ferrara) delle dieci egloghe dei Pastoralia (ca. 1464), genere ripreso vent’anni dopo in volgare, in dieci Pastorali, che ora alludevano alle vicende storiche contemporanee, e alle preoccupazioni per la guerra con Venezia (1482-1484). La dimensione cortigiana mantiene Boiardo in un territorio di confine tra latino e volgare, con una vera e propria officina di volgarizzamenti dei classici, eseguiti anche con l’aiuto di suoi segretari (Cornelio Nepote, Senofonte, Apuleio, Erodoto). Il dialogo con gli Antichi proseguì anche nella collaborazione alla rinascita teatrale promossa dal duca Ercole, riflessa in un’operetta rappresentata in occasione delle nozze di Alfonso d’Este (1491), il Timone, rielaborazione del dialogo Timone o Misantropo di Luciano, che metteva in burla il malcostume cortigiano di parassiti e adulatori. Al centro del mondo poetico del Boiardo è fin dall’inizio il tema dell’amore, declinato simultaneamente su orizzonti culturali diversi: il petrarchismo lirico e l’antica poesia erotica ed elegiaca, da Catullo a Ovidio. Il risultato fu il più coerente e compatto libro di rime del Quattrocento, gli Amorum libri III (1476), dall’eloquente titolo classicheggiante e ovidiano, vicino però a Petrarca nel racconto di una ‘storia’ d’amore per un’unica donna, storicamente e concretamente determinata (al contrario di tante evanescenti fantasmi femminili del petrarchismo): una Antonia Caprara di Reggio Emilia. Il canzoniere è organizzato regolarmente in tre libri, di sessanta poesie ciascuno (e a sua volta ogni libro presenta cinquanta sonetti, e dieci altre forme metriche, anche rare e sperimentali, dal madrigale al rondò). La ‘storia’ ha una scansione dialettica: prima l’innamoramento, poi il tradimento di lei, la disillusione, il proposito di pentimento, il ritorno dell’illusione d’amore. Un ciclo non chiuso, ma potenzialmente infinito, come nel Secretum petrarchesco, e nella Bella mano di Giusto de’ Conti: l’amore è (come in Ovidio, e nell’Orfeo di Poliziano) una forza irresistibile, una sorta di malattia inguaribile, una “smisurata ed incredibil voglia”. È questo allora il tema dominante del capolavoro del Boiardo, un poema cavalleresco di materia carolingia, contaminata però con il filone erotico-



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sentimentale del ciclo bretone: l’Inamoramento de Orlando (chiamato poi, impropriamente, Orlando Innamorato, dalla seconda ottava del poema: “Non vi par già, signor, meraviglioso / odir cantar de Orlando inamorato”, I,1,2). L’azione inizia a Parigi, nella solita corte di Carlo Magno, turbata dall’arrivo della misteriosa e bellissima principessa Angelica, pronta a concedersi a chi batterà il fratello Argalia in torneo. Tra i paladini è il finimondo: il desiderio erotico prevale su tutti i doveri morali e militari, e Angelica fugge, inseguita dai cugini rivali Ranaldo e Orlando. È l’inizio di una serie infinita di avventure, in cui ha una parte fondamentale anche l’elemento magico, ad iniziare dalle fontane incantate, le cui acque fanno innamorare o disamorare: sempre, ovviamente, della persona sbagliata, che riprende a fuggire, inseguita dal suo spasimante. Orlando è solo uno dei moltissimi personaggi: paladini come Ranaldo, Astolfo e Baiardo; saraceni nobili e magnanimi come Ferraù, o feroci come Agricane, Agramante, Mandricardo, Rodamonte; maghe e stregoni, come Malagigi, Atlante, Morgana, Alcina. La magia è elemento di metamorfosi continua, e cambio di condizione. Acquistano così valore due personaggi creati dal Boiardo, anche in funzione encomiastica della casa estense: Ruggiero (leggendario capostipite degli Estensi), che all’inizio è un pagano, tenuto prigioniero dal mago Atlante; e la sua amata Bradamante, sorella di Ranaldo, vergine guerriera, travestita da maschio paladino, e quindi oggetto di non richieste attenzioni erotiche della bella Fiordispina. Scritto per la corte estense, affamata di letteratura cavalleresca, l’Inamoramento ne proietta il tradizionale vagheggiamento del mondo ‘cortese’ dei cavalieri antichi in una società ormai molto diversa. Le avventure di Orlando, più che militari, acquistano la tensione dell’eros, per il raggiungimento di un oggetto (Angelica) assolutamente irraggiungibile. La ricerca è quindi infinita, come anche la struttura narrativa, che Boiardo complica straordinariamente, privilegiando il dominio assoluto dell’intreccio sulla fabula: le vicende dei personaggi si svolgono tutte contemporaneamente, e lo scrittore passa di continuo dall’una all’altra, lasciando in sospeso i fili narrativi precedenti, e riprendendoli in seguito. L’impressione, per il lettore (o l’ascoltatore, se pensiamo alla fruizione orale originaria), è quello di un ritmo vertiginoso, di un vortice narrativo labirintico in cui è meglio, in fondo, abbandonarsi all’incanto della favola, più che conservare una memoria cartesiana della storia. Come rivela già il primo verso, “Signori e cavallier che ve adunati”, il primo destinatario del poema è la corte ferrarese. L’immediata ricezione cortigiana porta Boiardo ad adottare le forme tipiche della recitazione orale, nella misura dei singoli cantari, e nelle modalità linguistiche (il volgare padano e ferrarese) e stilistiche (moduli di ripetizione ed enumerazione), nobilitate comunque al livello della raffinata corte estense. La composizione

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dell’opera lo accompagnò per molti anni, probabilmente dopo la stagione degli Amorum libri. Una prima redazione in due libri fu pubblicata a Reggio nel 1483. Il poema rimase poi interrotto alla morte dell’autore, al canto IX del terzo libro, su un’ultima ottava che registrava, con amarezza, la discesa di Carlo VIII in Italia, vero momento di crisi della civiltà umanistica italiana. Destino paradossale, quello dell’Inamoramento: essere conosciuto nei secoli successivi solo a prezzo di un totale travestimento. Il titolo vulgato divenne Orlando Innamorato, anche a causa del contemporaneo influsso del capolavoro dell’Ariosto, che si proponeva come la sua continuazione, l’Orlando Furioso. La metamorfosi più forte fu quella linguistica. La vivace patina ferrarese sarebbe apparsa arcaica e illeggibile nel corso del Cinquecento, e un poeta toscano, Francesco Berni, tradusse in lingua fiorentina il poema, pubblicato a Venezia nel 1541, e da allora letto fino all’Ottocento solo nella traduzione bernesca.

6.6. Sannazaro Appartenente ad una famiglia di piccola nobiltà di origine lombarda, per Iacopo Sannazaro (Napoli 1458-1530) fu naturale trovare la propria collocazione, come intellettuale, presso la corte aragonese. Ad una raffinata formazione umanistica (testimoniata da un giovanile ‘zibaldone’) accompagnò la pratica della poesia in volgare, in sodalizio con poeti ‘jentelomini’ come il Caracciolo e il De Iennaro: e quest’ultimo doveva iniziarlo alla scrittura di egloghe, secondo una moda che ormai da anni era diffusa in ambito cortigiano, e che, nel 1482, ebbe nuovo impulso con la pubblicazione a Firenze, presso l’editore Miscomini, di un’importante antologia di poeti bucolici contemporanei (tra i quali spicca il senese Francesco Arzochi) più le bucoliche virgiliane tradotte da Bernardo Pulci. Le prime egloghe di Sannazaro, influenzate dall’Arzochi e da Giusto de’ Conti, mettono in campo situazioni bucoliche tradizionali, che da un punto di vista formale seguono uno sperimentalismo simile a quello dei suoi modelli, e anche dell’Orfeo di Poliziano, contaminando diversi metri (la frottola di endecasillabi con rima al mezzo, le terzine a rima sdrucciola, le stanze liriche) e linguaggi (dalla parodia rusticale e comica all’effusione lirica). Il vero e rivoluzionario cambiamento avvenne quando Sannazaro decise di raccogliere le sue egloghe sciolte in un ‘libro’, che prese (sull’esempio della Vita nuova di Dante e dell’Ameto di Boccaccio) la forma del prosimetro: una regolare scansione di prose e di egloghe, dove la prosa fa da tessuto narrativo e da cornice delle vicende dei pastori che, di volta in volta, cantano i testi



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poetici. In prima redazione (subito diffusa in ampia tradizione manoscritta), l’opera è strutturata in un prologo, dieci prose e dieci egloghe, col titolo Arcadio (o, più precisamente, Libro pastorale nominato Arcadio)(1486). Nasce così il romanzo pastorale, su un’esile trama ambientata nella mitica regione di Arcadia, nel Peloponneso, dove un personaggio che parla in prima persona, Sincero (controfigura dello stesso autore, che aveva assunto il nome umanistico di Actius Sincerus), partecipa alla vita e alle occupazioni quotidiane dei pastori. La sua individualità soggettiva emerge dopo la VI prosa, con un commosso ricordo di Napoli, “famosa e nobilissima città, e di arme e di lettere felice forse quanto alcuna altra che al mondo ne sia”. Sincero ne sarebbe fuggito a causa di un suo amore disperato per una fanciulla (che i commentatori antichi identificavano in una Carmosina Bonifacio, realmente esistita al tempo di Iacopo); la vicenda si salda ad una serie di segnali, che rivelano la stessa cifra autobiografica anche in altri pastori: Selvaggio, ed Ergasto, che nella X prosa guida le onoranze funebri al sepolcro di Massilia (evocazione della stessa madre di Sannazaro, di nome Massella). È un mondo incantato, in cui il tempo del mito sembra scorrere lentissimo, malinconico, al di fuori della storia, in gare poetiche, rituali e cerimonie. Un teatro in cui l’onnipresente paesaggio naturale si rivela una costruzione artificiosa, letteraria, come i giardini del Rinascimento, con i monumenti ‘all’antica’ e le finte rovine sparse tra la vegetazione: obelischi, piccole piramidi, tempietti, grottini. Su quelle scenografie di cipressi e salici, di fonti e prati, si muovono gli attori-pastori, travestimenti più o meno riconoscibili della società intellettuale contemporanea, e del mondo della corte: Cariteo, Caracciolo, lo stesso Sannazaro. Ma si tratta anche di uno straordinario patchwork culturale, leggibile a livelli diversi, mosaico di citazioni, allusioni, tra la tradizione classica e umanistica e quella volgare, oltre i confini dei generi letterari, e dello stesso genere bucolico. Le egloghe arcaiche (I, II, VI, IX), polimetriche e sperimentali, sono già fortemente corrette, con l’eliminazione di troppo marcati elementi linguistici napoletani, e la diffusa toscanizzazione; e vi si aggiungono nuove egloghe che segnano l’ingresso del petrarchismo lirico nel mondo bucolico, con i metri della sestina (IV Chi vuole udire i miei sospiri in rime, VII Come notturno ucel nemico al sole) e della canzone petrarchesca (III Sovra una verde riva; V Alma beata e bella ). Le prose, di grande musicalità e scorrevolezza, influenzate da Boccaccio (ma più dalle opere giovanili che dal Decameron) e anche da Dante, si arricchiscono di una tensione lirica nuova, dovuta alla particolare forma del prosimetro, e avvertibile soprattutto nei territori di ‘confine’, nelle ‘soglie’ tra prosa e poesia, prima e dopo ogni egloga. Naturalmente, su tutto, l’imitazione dei classici, latini (Virgilio e gli elegiaci, ma

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anche i testi chiave dell’erudizione umanistica, Plinio il Vecchio e Varrone), e anche greci, con l’utilizzazione degli idilli di Teocrito, che si rivela nella filigrana dell’ultima prosa, descrizione di un orto estivo in cui si distendono i pastori (derivato dal VII idillio teocriteo, le Talisie). Il numero 10 è lo stesso della bucolica virgiliana, e la struttura si apre e si chiude circolarmente con descrizioni di paesaggio e ambiente naturale. Anche se sospeso nel mito, non è un mondo felice. Forte è la presenza della morte (come nei bucolici antichi, Teocrito e Virgilio), che giunge a romperne l’equilibrio (nella V e nella X prosa, con i compianti funebri per Androgeo e per Massilia). E costante è la sensazione che, dietro la scenografia teatrale di Arcadia, si agiti una realtà ben più dura, spietata, sanguinaria: quella della lotta politica della Napoli aragonese, tra la monarchia e la grande feudalità, conclusa tragicamente con la cosiddetta Congiura dei Baroni e l’uccisione dei suoi principali aderenti, compreso il segretario regio Antonello Petrucci, valente umanista allievo del Valla, ma ora bersaglio polemico di poeti come De Iennaro e Sannazaro. E il disagio di Iacopo affiora frequentemente, dalle egloghe più antiche fino alla decima egloga, in cui mette in bocca all’amico poeta Caracciolo un oscuro canto profetico sull’iniquità dei tempi. La posizione di Sannazaro era comunque allineata alla corte aragonese. Fin dai primi anni Ottanta il giovane poeta e umanista era entrato al servizio di Alfonso d’Aragona duca di Calabria, figlio del re ed erede al trono. L’aveva seguito in campagne militari, a Otranto (1481, per liberare la città dai Turchi), e a Ferrara per la guerra contro Venezia (incontrando forse il Boiardo, impegnato nella composizione delle Pastorali ) (1483-84). E soprattutto, in quel decennio, si era avvicinato al nuovo segretario regio, il Pontano, che ne celebrò l’amicizia nel dialogo Actius. Su questo nuovo orizzonte, prevalentemente umanistico, Sannazaro riprende in mano il suo romanzo, aggiungendo due prose, due egloghe e un congedo, e un nuovo titolo: Arcadia (1494, ed. 1504). L’atmosfera sospesa ma unitaria dell’Arcadio viene infranta, e nell’ultima prosa, dopo sogni e presagi di morte, Sincero lascia l’Arcadia e torna a Napoli, in un viaggio sotterraneo dal mito alla storia, che si conclude proprio nel centro cittadino, accanto alla cappella Pontano, con due umanisti travestiti da pastori, Barcinio e Summonzio (Cariteo e Pietro Summonte), che nell’ultima egloga riportano il lamento funebre di Meliseo (Pontano) per la propria amata (la moglie Adriana, morta nel 1490). Con l’edizione del 1504 per l’Arcadia iniziava una straordinaria fortuna europea, che l’avrebbe resa una delle opere italiane più lette ed imitate nel corso del Cinquecento. Nello stesso periodo di composizione dell’Arcadia Sannazaro aveva portato avanti una raccolta di Rime, in cui l’elaborazione del codice formale del



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petrarchismo raggiunge un livello superiore a quello dei contemporanei. E si era dedicato anche al teatro, nell’allestimento di spettacoli chiamati Farse e rappresentati nella corte aragonese tra 1488 e 1492, testi giocosi vicini ad un curioso esperimento linguistico di parodia del dialetto napoletano (probabilmente anch’esso recitato a corte), che, per la struttura metrica della frottola con rima al mezzo, prese il nome napoletano di Gliómmero, cioè ‘gomitolo’. Ma sono esperienze cortigiane che ormai Iacopo sente superate. Nel congedo dell’Arcadia pronuncia il suo addio definitivo alla poesia bucolica, e possiamo intenderlo in generale come un addio alla poesia volgare, e cortigiana. Al suo posto, si afferma un’attenzione crescente e sempre più esclusiva alla poesia umanistica latina, nei libri delle Elegiae e degli Epigrammata, che presentavano testi come la malinconica elegia De ruinis Cumarum; e di nuovo alla poesia bucolica, ma in latino, e con un singolare trasferimento di scenario, dalle selve d’Arcadia al paesaggio marino del Golfo di Napoli, le Eclogae Piscatoriae. Nel frattempo, il mondo di Sannazaro era completamente cambiato. Napoli aveva perso la sua indipendenza, e l’ultimo re aragonese, Federico, era andato in esilio in Francia (1501). Iacopo fu tra i pochi che lo seguirono, e il viaggio francese fu un’occasione eccezionale per entrare in contatto con gli ambienti culturali e spirituali europei; di più, l’umanista ebbe la fortuna di scoprire testi classici (da Ausonio a Marziale, e alcuni del tutto sconosciuti, come Rutilio Namaziano e i poeti cinegetici), che lo fecero tornare all’esercizio della filologia. Tornato a Napoli, Sannazaro si ritirò nella villa di Mergellina, avuta in dono da re Federico, e lì iniziò a costruire una chiesa, Santa Maria del Parto, che avrebbe dovuto ospitare il suo mausoleo. C’era un ultimo grande progetto da portare avanti: l’idea di un poema religioso in latino sulla nascita di Cristo, il De partu Virginis (‘il parto della Vergine’)(1526), che doveva rappresentare l’incontro delle aspirazioni ideali dell’humanitas degli antichi con il messaggio del Cristianesimo. Messaggio declinato, non a caso, sul momento dell’Incarnazione e della Passione, cioè della manifestazione più completa dell’umanità di Cristo.

6.7. Bembo Pietro Bembo (Venezia 1470-Roma 1547) era figlio di uno degli esponenti più in vista del patriziato veneziano, Bernardo Bembo, ambasciatore e umanista, collezionista di preziosi manoscritti antichi, come un codice di Terenzio sul quale il giovane Pietro esercitò la propria filologia insieme a un maestro d’eccezione, allora in visita a Venezia: Angelo Poliziano (1491).

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Poco dopo, al fine di perfezionare la propria conoscenza del greco, partì per Messina, per ascoltare le lezioni del maestro bizantino Costantino Lascaris (1492-1494): un periodo di studi entusiastici, che portò Pietro addirittura alla composizione di testi in greco, e che gli diede occasione per una prima opera letteraria, la rievocazione di una gita sull’Etna, il De Aetna (1496), dialogo latino tra Pietro e suo padre, in cui la trattazione della materia naturalistica è ingentilita dallo strumento (umanistico e pontaniano) del dialogo. Dopo aver seguito studi di filosofia aristotelica a Padova e Ferrara (14961499), Bembo matura probabilmente nell’ambiente ferrarese, laboratorio e luogo d’incontro di cultura latina e volgare, l’idea di scrivere un’opera in volgare, che segna anche la sua conversione al neoplatonismo, gli Asolani (1505), dialogo-prosimetro in tre libri ambientato nell’idealizzata cornice della piccola corte di Caterina Cornaro ad Asolo. Tema dominante dei dialoghi è quello tipico della filosofia ficiniana: l’amore. Due degli interlocutori, i giovani Perottino e Gismondo, ne danno un’interpretazione diametralmente opposta: per l’uno l’amore è fonte di eterno dolore, per l’altro è motivo di piacere. La sintesi conclusiva viene fatta dal terzo giovane, Lavinello, grazie all’incontro con un eremita, che rivela la vera essenza di amore: desiderio sì della bellezza, ma di quella vera, che è solo (secondo Platone, e i contemplativi) la bellezza spirituale. È una conclusione più ideale che reale: nella vita del Bembo, l’amore è qualcosa di molto concreto, testimoniato da lettere d’amore appassionate, come quelle alla nobildonna veneziana Maria Savorgnan (1500-1501), e addirittura alla celebre e bellissima Lucrezia Borgia, duchessa di Ferrara (1502-1503). Prima opera volgare del Bembo, la debolezza degli Asolani è però proprio nell’eccessiva ambizione stilistica, che punta all’imitazione della prosa di Boccaccio, e all’emulazione del migliore dei contemporanei, Sannazaro, con risultati non sempre all’altezza degli obiettivi. La vera dimensione del Bembo era piuttosto quella di uno straordinario operatore culturale, mediatore di esperienze diverse, e fino ad allora separate. Le sue competenze di filologia classica e umanistica lo avvicinarono ad Aldo Manuzio, di cui divenne uno dei principali collaboratori. Aldo gli stampò l’Aetna e gli Asolani, ma anche la grammatica greca di Lascaris (portata da Messina proprio da Pietro), e soprattutto la Commedia di Dante (1502) e il Canzoniere di Petrarca (1501), tratti da manoscritti bembiani: addirittura, nel caso di Petrarca, gli stessi codici originali (Vat. lat. 3195 e 3196). Era l’atto di nascita della filologia italiana, in edizioni che mettevano i classici moderni della letteratura volgare sullo stesso piano dei classici latini e greci. E sempre in ambito filologico Bembo cominciò ora la stesura di un dialogo latino, il De Virgilii Culice et Terentii fabulis (‘sulla Zanzara di Virgilio



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e sulle commedie di Terenzio’)(pubblicato solo nel 1530), in cui conduce un’attenta analisi testuale di testi di Virgilio e Terenzio, sulla scorta di antichissimi manoscritti della sua biblioteca. Il metodo è apparentemente quello di Poliziano: ma in realtà segna il definitivo distacco dal maestro, in nome di una filologia ‘orientata’ all’individuazione di valori stilistici, alla ricostruzione del ‘bello’ più che del ‘vero’. Nel frattempo si matura anche il distacco da Venezia: dopo infruttuosi tentativi di entrare nella carriera politica, Bembo trascorre gli anni successivi nella splendida corte di Urbino, celebrata nel dialogo ciceroniano (poi tradotto anche in volgare) De Guido Ubaldo Feretrio deque Elisabetha Gonzagia Urbini ducibus (‘su Guidubaldo da Montefeltro ed Elisabetta Gonzaga duchi di Urbino’, 1509-1510); e sempre a Urbino si dedica alla composizione di poesia volgare, le cortigiane Stanze, e soprattutto un consistente gruppo di Rime (pubblicate poi nel 1530, e rapidamente assurte a modello di petrarchismo). Intraprende la carriera ecclesiastica, destinata a segnare tutta la sua vita (diventerà cardinale nel 1539), e che non gli impedirà tuttavia di convivere con la Morosina (Ambrogina Faustina Della Torre), madre dei suoi figli. E approda nella Roma di Giulio II e poi Leone X (1512), diventando segretario pontificio. Nella capitale del classicismo umanistico conferma le sue idee sul ciceronianismo in uno scambio di epistole sull’imitazione con il filosofo Gianfrancesco Pico, fautore della libertà espressiva e dello stile eclettico (1512-1513). Per Bembo, l’imitazione è un processo di assimilazione organica da un solo autore, individuato come il migliore nel suo genere (Cicerone per la prosa e Virgilio per la poesia): un modello empirico, non ideale, cui ci si avvicina per lunga pratica di studio. Conseguenza diretta e profonda di questa idea, sugli sviluppi della letteratura italiana, fu il suo trasferimento agli autori volgari, in un’opera elaborata soprattutto nella Roma ciceroniana, ma completata e pubblicata in Veneto (dove l’autore risiedette più stabilmente dopo il 1521), le Prose della volgar lingua (ed. 1525), dialogo in tre libri, ambientato a Venezia nel 1502, tra il fratello Carlo Bembo e altri intellettuali e principi, come l’umanista ferrarese Ercole Strozzi e Giuliano de’ Medici. Se è possibile assimilare i classici moderni ai classici antichi, allora valgono le stesse regole di imitazione, in una formula che propone Petrarca come modello per la poesia, e Boccaccio per la prosa (Dante comincia ad essere escluso dal canone, per critiche di oscurità ed arcaicità della lingua). Le Prose avranno nel Cinquecento un fortissimo valore normativo (soprattutto per il lessico, la grammatica, l’ortografia, oggetto d’analisi minuziosa nel terzo libro), per esempio per gli sviluppi futuri del petrarchismo, e per la costituzione di una lingua della poesia, modellata soprattutto sul Petrarca lirico, che avrebbe influenzato i secoli successivi,

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fino quasi alla poesia contemporanea. Opera di un umanista veneziano, non toscano e non fiorentino, esse servirono alla fondazione di una ‘volgar lingua’ letteraria che non era più ‘fiorentina’ o ‘toscana’ (anche se modellata sui grandi autori fiorentini), ma autenticamente ‘italiana’, patrimonio comune degli scrittori di aree culturali e linguistiche diverse, dalla Sicilia al Veneto. Oltre le varietà regionali, nasceva ora la ‘letteratura italiana’.

6.8. Castiglione Se Bembo fonda la lingua letteraria delle classi colte italiane dal Cinquecento in poi, un altro gentiluomo fonda i modelli comportamentali delle classi dirigenti, italiane ed europee, dell’età moderna, proiettando l’esperienza cortigiana oltre i confini delle stesse corti del Rinascimento. In quelle corti svolse tutta la sua esistenza il nobile mantovano Baldassar Castiglione (Casatico, Mantova 1478-Toledo 1529), dopo un periodo di formazione umanistica tra Milano e Mantova, al servizio dei Gonzaga fino al 1504, poi di Guidubaldo da Montefeltro e di Francesco Maria della Rovere a Urbino fino al 1516, e di nuovo a Mantova dove sposò Ippolita Torelli. Dopo la morte della donna (1520) divenne chierico a Roma, nella corte di Leone X, frequentata anche negli anni precedenti, in una lunga relazione di amicizia con il sommo artista Raffaello (per conto del quale scrisse anche una bella lettera a Leone X sulle antichità di Roma). Ambasciatore in Spagna per il nuovo papa mediceo Clemente VII (1525), assistette da quella specola internazionale al crollo della civiltà umanistica italiana, con il terribile Sacco di Roma (1527), e morì a Toledo (1529), compianto dallo stesso imperatore Carlo V, che si dolse della perdita del “mejor caballero del mundo”. Autore di raffinate poesie latine e volgari (talvolta anche, come nel Pontano, espressione di un mondo interiore di affetti e sentimenti), Castiglione fu coinvolto in una delle grandi novità della vita culturale contemporanea, l’attività teatrale, tipica appunto delle corti. Di ambito bucolico è l’egloga in ottave Tirsi, che lo stesso Baldassarre attore-regista rappresentò e recitò a Urbino nel 1506; e sempre a Urbino nel 1513 curò l’allestimento della Calandra di Bernardo Dovizi da Bibbiena, manifesto della nuova commedia italiana. Ma la grande opera fu quella in cui la sua lunga vita da ‘cortigiano’ trovò compiuta modalità di comunicazione, Il libro del Cortegiano (elaborato in tre redazioni successive dal 1513 al 1524, e stampato a Venezia nel 1528). Si tratta, ancora una volta, di un dialogo, in quattro libri, ambientato a Urbino nel 1507. Nella cerchia eletta di Elisabetta Gonzaga, e nelle stanze



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del meraviglioso palazzo ducale eretto da Federigo da Montefeltro, si ritrova un gruppo di illustri personaggi: Giuliano de’ Medici, Cesare Gonzaga, Ludovico da Canossa, Ottaviano e Federico Fregoso, il Bibbiena, lo stesso Bembo. Oggetto delle conversazioni, la definizione del modello ideale del “perfetto cortegiano”, dell’uomo completo, dotato di tutte le qualità necessarie per vivere, nel migliore dei modi, in quel microcosmo sociale e politico che è la corte. Nel primo libro tocca soprattutto a Ludovico delinearne gli aspetti fisici e morali, per cui il ‘cortegiano’ si rivela erede dell’ideologia cavalleresca medievale: il gentiluomo, come l’antico cavaliere, deve essere ancora valente uomo d’armi, coraggioso e leale, fisicamente prestante. Nel secondo libro, per bocca di Federico, è la civiltà umanistica (e l’eredità pedagogica dei suoi grandi maestri) a individuarne il carattere fondativo della conversazione e dei comportamenti civili, mentre il Bibbiena riprende il De sermone del Pontano con la tematica della ‘facezia’: ed è qui che vengono registrati, con straordinaria finezza di analisi, i nuovi dominanti elementi della ‘grazia’ e della ‘sprezzatura’, atteggiamenti che iniziano a privilegiare l’aspetto esteriore della ‘cerimonia’ (sul modello della desenvoltura importata in Italia dagli spagnoli). Un’importante discussione è quella del terzo libro, guidata da Giuliano, sul tema della donna, che riconosce ormai la decisiva funzione, sociale e intellettuale, assunta dalle donne nella vita contemporanea delle corti. Infine, nel quarto libro, vengono affrontate le questioni del rapporto intellettuale-potere, esemplificato nel rapporto ‘cortegiano-principe’ (Ottaviano), e dell’amore platonico (Bembo). Il Cortegiano dà anche un apporto fondamentale al dibattito linguistico dell’epoca, sostanzialmente diverso da quello delle Prose del Bembo. L’intellettuale di corte parla una lingua moderna e mutevole, che non è più il dialetto regionale, ma che non si vuole nemmeno limitare ad una troppo stretta imitazione del fiorentino letterario. Essa resta aperta agli apporti degli altri linguaggi: quello che conta è la varietà diastratica, cioè il contesto socialmente e intellettualmente elevato della corte. Una corte che, comunque, è percepita nella forma di un rapporto equilibrato, armonioso, con la società civile che da essa è guidata, come sembra dimostrare il ricordo di Urbino, della “città in forma di palazzo”. Ma si tratta purtroppo del vagheggiamento di un mondo ormai scomparso. Quando Castiglione scrive, la maggior parte dei personaggi del dialogo sono morti, e lo stessa dinastia urbinate sembra travolta da un colpo di mano mediceo, segno di una politica cinica e per nulla ispirata a valori elevati. Con sublime distacco, fingendo che la cosa non lo riguardi più, con ‘sprezzatura’, appunto, Baldassarre vede il suo mondo declinare, e sparire, e tenta di salvarne almeno un ritratto ideale, da consegnare al resto d’Europa.

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6.9. Leonardo Figlio illegittimo di un notaio fiorentino, Leonardo da Vinci (Vinci 1452Amboise, Francia 1519) fu avviato, ancora ragazzo, alla bottega di Andrea del Verrocchio, a Firenze. Era, questa, una formazione alternativa a quella che poteva avvenire nella scuola umanistica, e poi nell’accademia o nella corte. Le botteghe artistiche del Quattrocento erano realmente diventate dei laboratori intellettuali, aperti ad ogni tipo di esperienza. E, nella Firenze laurenziana, quella del Verrocchio era sicuramente una delle più avanzate. Il giovane Leonardo ha modo di imparare non solo l’arte della pittura (realizzando le sue prime opere: l’Annunciazione, il ritratto di Ginevra de’ Benci eseguito per Bernardo Bembo, l’Adorazione dei Magi), ma anche le altre arti, le tecnologie e le scienze applicate. Di più, la bottega ha rapporti stretti con Lorenzo, e quindi con i suoi umanisti, dal Ficino a Poliziano. La concezione che si forma dell’uomo e della natura non deriva però solo dal platonismo, ma è una sintesi originale di molti spunti diversi, magari avvicinati in modo tumultuoso e provvisorio (Leonardo non aveva avuto un’educazione regolare, e non sapeva il latino, per cui poteva essere definito “omo sanza lettere”): dalla filosofia naturale degli antichi (Seneca, Plinio il Vecchio) all’ermetismo (tràdito da allievi del Ficino, come Tommaso Benci), dalla scienza meccanica medievale, prevalentemente aristotelica (Alberto Magno, Alberto di Sassonia, Giordano Nemorario), all’ottica araba (Alhazen). Il tutto sovrapposto ad una lettura personale delle Metamorfosi di Ovidio (in traduzione italiana), da cui si ricavava il senso del rivolgimento universale, di una legge di natura basata sul perpetuo movimento, sulla metamorfosi, e sul rapporto analogico tra microcosmo (l’uomo) e macrocosmo (il mondo). Ne derivò una delle sue pagine più antiche, e intense, una descrizione di un mostro marino e di una caverna (Codice Arundel, ca. 1478), in cui al simbolo della smisurata forza della natura succede l’immagine dell’ingresso tenebroso di una caverna (rovesciamento del mito platonico), custode dei segreti della natura, che incute “paura e desiderio”. Dopo anni difficili, in cui non riesce a ‘sfondare’ nel mercato artistico fiorentino e subisce anche un processo per sodomia, nel 1482 Leonardo lascia Firenze per Milano, dove cerca di entrare al servizio di Ludovico il Moro, con una singolare lettera di presentazione in cui elenca, come sue competenze, solo quelle di ingegnere militare, e solo alla fine, quasi di sfuggita, quelle di artista. Collabora con il pittore milanese Ambrogio De Predis alla Vergine delle Rocce, e inizia a lavorare per il Duca al grande progetto del monumento equestre di Francesco Sforza (che però non sarà mai completato), e al Cenacolo di Santa Maria delle Grazie. Nel 1499 Leonardo



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lasciò Milano (conquistata dai Francesi), e incominciò una vita errabonda, che lo portò al servizio di Cesare Borgia, e poi a Firenze, di nuovo a Milano, a Roma, e infine ad Amboise, dove morì al servizio del re di Francia Francesco I; gli anni degli ultimi capolavori, dalla Sant’Anna alla Gioconda e al San Giovanni. Torniamo però al primo periodo milanese, determinante per un altro evento: la decisione di Leonardo di diventare uno scrittore. Non era, questa, una scelta usuale, anche se nel Rinascimento diversi artisti avevano preso questa strada: Lorenzo Ghiberti, Filarete, Piero della Francesca, Francesco di Giorgio Martini, e soprattutto l’Alberti. La composizione di trattati sulla pittura, sulla prospettiva, sull’architettura assicurava la comunicazione di un sapere prevalentemente pratico al di fuori del mondo delle botteghe, verso la cultura umanistica o di corte. Leonardo, “omo sanza lettere”, comincia dall’apprendistato più umile: prendendo appunti e derivando disegni dai libri degli altri (Codice B, ca. 1486), ricopiando lunghe liste di vocaboli ‘difficili’, da autori come Pulci, Masuccio, Valturio (Codice Trivulziano, ca. 1488), e cercando di imparare il latino, lui autodidatta quarantenne, con l’aiuto di una grammatica per bambini. Si avvia così una pratica della scrittura, che accompagnerà tutta la sua vita, diventando probabilmente attività prevalente, anche nei confronti di quella artistica. Una scrittura soprattutto ‘progettuale’, perché Leonardo (a differenza dei suoi contemporanei, anche artisti) non completò mai alcun libro, alcun trattato. I testi sono tutti consegnati alle pagine dei suoi manoscritti, quaderni resi ancora più privati dal carattere particolare della scrittura inversa di Leonardo (che era mancino), leggibile solo allo specchio, e chiamata perciò ‘speculare’; non ordinati in nessuna gerarchia, ma potenzialmente collegabili gli uni agli altri, in una rete di relazioni che sembra prefigurare un moderno ipertesto, con i suoi links e i suoi frames. Leonardo inventa dunque, per suo uso personale, una forma testuale estremamente moderna, finalizzata ad ‘inseguire’ la realtà nel suo divenire, e ad accompagnare il processo della ricerca scientifica, che, di per sé, è potenzialmente infinito, e sempre ‘aperto’. Questa forma di ‘scrittura aperta’, è bene ricordarlo, aveva comunque dei precedenti: i ‘libri di ricordi’ dei mercanti, gli ‘zibaldoni’ degli umanisti, e naturalmente i quaderni di appunti e disegni degli artisti. Ogni manoscritto è, per se stesso, un documento individuale di un momento del cammino intellettuale di Leonardo, e, in alcuni casi, presenta una maggiore convergenza verso tematiche unitarie, verso poli di aggregazione che possono essere assimilati alla forma rinascimentale del ‘trattato’. È possibile riconoscere così un insieme di materiali per un ‘libro di pittura’ (soprattutto nel Codice A, 1492), che sarebbe stato messo assieme, dopo la

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morte del maestro, dal suo allievo Francesco Melzi (e pubblicato in forma ridotta, col titolo Trattato della pittura, solo nel 1651, a Parigi). Vi emergono, per intensità espressiva e forza polemica, alcuni scritti (forse destinati all’introduzione del ‘libro’, e chiamati in seguito Paragone) in cui Leonardo afferma la superiorità della pittura sulle altre arti (scultura e musica) e sulle altre forme di speculazione e di espressione umana (filosofia, poesia, oratoria, storiografia); e anche alcune straordinarie ‘descrizioni’ di tempeste e di battaglie, basi di esercitazione per allievi pittori, ma anche vere e proprie ‘visioni’ (come quelle terribili dei diluvi). Oltre ai vari trattati scientifici e naturalistici, dispersi nei vari codici (sull’acqua, sulle scienze della terra, sulla meccanica ecc. ecc.), Leonardo perseguì in particolare il sogno di un grande trattato di anatomia (Quaderni di Windsor), il primo della civiltà moderna, basato sulle sue personali osservazioni, e sugli eccezionali disegni del corpo umano, ‘inseguimento’ del miracolo della vita nei suoi minimi particolari. A questi filoni ‘maggiori’ la scrittura di Leonardo accosta altri testi più specificamente letterari, collegati alle opere volgari da lui più amate: la Commedia di Dante, l’Acerba di Cecco d’Ascoli, il Decameron di Boccaccio, il Morgante di Luigi e le Pístole di Luca Pulci, il Novellino di Masuccio. Scrive così favole di animali e piante, facezie anche erotiche, un bestiario allegoricomorale, strane lettere in cui finge di essere andato in Oriente, e di descrivere l’arrivo di un feroce gigante (come Morgante), o un immane cataclisma. Per la corte sforzesca inventa finte profezie apocalittiche che si rivelano banali indovinelli, e raffinati giochi di società basati su quelli che oggi definiremmo rebus: associazioni di parola e immagine, che sono parallele alla moda rinascimentale delle ‘imprese’, esplosa poi nel Cinquecento. Non bisogna dimenticare infine che Leonardo fu tra gli artefici della rivoluzione del teatro del Rinascimento, ideando le prime importanti macchine scenografiche per gli spettacoli contemporanei, con vari trucchi scenici ed ‘effetti speciali’ di luci e suoni. In particolare, curò gli allestimenti, a Milano, della Festa del Paradiso di Bernardo Bellincioni (1491), della Danae di Baldassarre Taccone (1496), e soprattutto dell’Orfeo di Poliziano (ca. 1507). Forse solo Leonardo fu in grado di realizzare la fantasia scenica di Poliziano, costruendo una grande montagna che all’inizio serviva da sfondo al dialogo bucolico e all’inseguimento di Euridice, e che poi, aprendosi su se stessa con una serie di complessi meccanismi, lasciava vedere al suo interno l’Inferno. Nell’immaginario leonardesco, era ancora la ‘caverna’, in cui la discesa di Orfeo portava, con la forza del canto e della poesia, la vittoriosa ma illusoria sfida al potere della Morte.



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Bibliografia 6.1. La civiltà delle corti. Cfr. in generale i volumi pubblicati nella collana Biblioteca del Cinquecento (Roma, Bulzoni, dal 1978), a cura di Europa delle Corti, Centro Studi sulle società di Antico Regime, Ferrara (www.europadellecorti.it); C. Vasoli, La letteratura delle corti, Bologna, Cappelli, 1980. Sull’invenzione della stampa: E.L. Eisenstein, La rivoluzione inavvertita. La stampa come fattore di mutamento, Bologna, Il Mulino, 1985, e Le rivoluzioni del libro. L’invenzione della stampa e la nascita dell’età moderna, ivi 1997. Sulla produzione e circolazione libraria: Libri, scrittura e pubblico nel Rinascimento, a c. di A. Petrucci, Bari, Laterza, 1977. Sul genere cavalleresco: M. Villoresi, La letteratura cavalleresca, Roma, Carocci, 2000; R. Bruscagli, Studi cavallereschi, Firenze, SEF, 2003 Sul rapporto latino-volgare: C. Dionisotti, Gli umanisti e il volgare fra Quattro e Cinquecento, Firenze, Le Monnier, 1968; M. Tavoni, Latino, grammatica, volgare. Storia di una questione umanistica, Padova, Antenore, 1984. Su Firenze nell’età laurenziana: - Vespasiano da Bisticci, Le vite, a c. di A. Greco, Firenze, Sansoni, 1970. - Marsilio Ficino, El Libro de l’Amore, a c. di S. Gentile, Firenze, Olschki, 1987; Lettere, vol. I, a c. di S. Gentile, ivi 1990; Sopra lo amore ovvero Convito di Platone, a c. di G. Rensi (1914), Milano, SE, 2003. Cfr. Marsilio Ficino e il ritorno di Platone, a c. di S. Gentile e P. Viti, Firenze, Le Lettere, 1984; P.O. Kristeller, Il pensiero filosofico di Marsilio Ficino, Firenze, Le Lettere, 2005. - Giovanni Pico della Mirandola, Discorso sulla dignità dell’uomo, a c. di F. Bausi, Parma, Guanda, 2007. Risorsa on line: Progetto Pico, Brown University (www.brown.edu/ Departments/Italian_Studies/pico). - M. Marullo, Carmina, a c. di A. Perosa, Padova, Antenore, 1951; Inni naturali, a c. di D. Coppini, Firenze, Le Lettere, 1995. - C. Landino, Comento sopra la Comedia, a c. di P. Procaccioli, Roma, Salerno, 2001. Cfr. R. Cardini, La critica del Landino, Firenze, Sansoni, 1973. Sulla Napoli aragonese: Storia di Napoli, vol. IV, Napoli, SEN, 1974. Sui singoli autori: - G. Manetti, De dignitate et excellentia hominis, a c. di E.R. Leonard, Padova, Antenore, 1974 - Antonio Panormita, Hermaphroditus, a c. di D. Coppini, Roma, Bulzoni, 1990. - Giovanni Pontano, Antologia di carmi, a c. di L. Monti Sabia, Perugia, Effe, 2003; I libri delle virtù sociali, a c. di F. Tateo, Bulzoni, 1999; De sermone, a c. di A. Mantovani, Roma, Carocci, 2002; De principe, a c. di G.M. Cappelli, Roma, Salerno,

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2003. Cfr. G. Parenti, Poeta Proteus alter. Forma e storia di tre libri di Pontano, Firenze, Olschki, 1985. - A. De Ferrariis il Galateo, Vituperatio litterarum, a c. di P. Andrioli Nemola, Galatina, Congedo, 1991; De educatione, a c. di C. Vecce, Leuven, Peeters, 1993; La Iapigia, a c. di D. Defilippis, Galatina, Congedo, 2005; Puglia neolatina. Un itinerario del Rinascimento fra autori e testi, a c. di F. Tateo, M. De Nichilo e P. Sisto, Bari, Cacucci, 1994. - Diomede Carafa, I memoriali, a c. di F. Petrucci Nardelli, Roma, Bonacci, 1988. - lirici aragonesi: M. Santagata, La lirica aragonese, Padova, Antenore, 1979. Edizioni e studi: P.I. De Iennaro, Rime e lettere, a c. di M. Corti, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1956; F. Galeota, Le lettere del Colibeto, a c. di V. Formentin, Napoli, Liguori, 1987; G. Parenti, Benet Garret detto il Cariteo. Profilo di un poeta, Firenze, Olschki, 1993. - Masuccio Salernitano, Il Novellino, a c. di S.S. Nigro, Bari, Laterza, 1979. Cfr. S.S. Nigro, Le brache di San Griffone. Novellistica e predicazione tra Quattro e Cinquecento, Bari, Laterza, 1989; L. Reina, Masuccio Salernitano. Letteratura e società del «Novellino», Salerno, Edisud, 2002. - Loise de Rosa, Ricordi, a c. di V. Formenti, Roma, Salerno, 1998. - Ferraiolo, Cronaca, a c. di R. Coluccia, Firenze, Accademia della Crusca, 1987. Sulla Ferrara estense: La corte e lo spazio: Ferrara estense, a c. di A. Quondam, Roma, Bulzoni, 1982; R. Alhaique Pettinelli, L’immaginario cavalleresco nel Rinascimento ferrarese, Roma, Bonacci, 1983. Sulla corte dei Montefeltro a Urbino: Federico di Montefeltro. Lo Stato, Le Arti, La Cultura, a c. di G. Cerboni Baiardi, G. Chittolini e P. Floriani, Roma, Bulzoni, 1986. 6.2. Pulci. Testi: Morgante, a c. di F. Ageno, Milano – Napoli, Ricciardi, 1955; a c. di D. Puccini, Milano, Garzanti, 1989; Morgante e opere minori, a c. di A. Greco, Torino, UTET, 2006. Studi: P. Orvieto, Pulci medievale. Studio sulla poesia fiorentina del Quattrocento, Roma, Salerno, 1978; C. Marinucci, L’ intertestualità nel «Morgante» di Luigi Pulci. Dante, Petrarca, Boccaccio, Roma, Aracne, 2006. 6.3. Lorenzo. Testi: Tutte le opere, a c. di P. Orvieto, Roma, Salerno, 1992; Opere, a c. di T. Zanato, Torino, Einaudi, 1992. Studi: M. Martelli, Studi laurenziani, Firenze, Olschki, 1964; P. Orvieto, Lorenzo de’ Medici, Firenze, La Nuova Italia, 1976; Lorenzo il Magnifico e il suo mondo, a c. di G.C. Garfagnini, Firenze, Olschki, 1994.



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6.4. Poliziano. Testi: Stanze. Fabula di Orfeo, a c. di S. Carrai, Milano, Mursia, 1988; Rime, a c. di D. Delcorno Branca, Venezia, Marsilio, 1990; L’ Orfeo del Poliziano con il testo critico dell’originale e delle sue successive forme teatrali, a c. di A. Tissoni Benvenuti, Roma-Padova, Antenore, 2000; Stanze. Orfeo. Rime, a c. di D. Puccini, Milano, Garzanti, 2004. Studi: V. Branca, Poliziano e l’Umanesimo della parola, Torino, Einaudi, 1983; M. Martelli, Angelo Poliziano. Storia e metastoria, Lecce, Conte, 1995; P. Orvieto, Poliziano e l’ambiente mediceo, Roma, Salerno, 2009. 6.5. Boiardo. Testi: Orlando innamorato, a c. di R. Bruscagli, Torino, Einaudi, 1995; Inamoramento de Orlando, ed. crit. a c. di C. Montagnani e A. Tissoni Benvenuti, Milano-Napoli, Ricciardi, 1999; Amorum libri tres, a c. di T. Zanato, Torino, Einaudi, 1998; Pastorali, a c. di S. Carrai e M. Riccucci, Parma, Guanda, 2005. Studi: P.V. Mengaldo, La lingua del Boiardo lirico, Firenze, Olschki, 1963; A. Franceschetti, L’Orlando innamorato e le sue componenti tematiche e strutturali, Firenze, Olschki, 1975; M. Praloran – M. Tizi, Narrare in ottave (metrica e stile dell’Innamorato), Pisa, Nistri-Lischi, 1988; Il Boiardo e il mondo estense nel Quattrocento, a c. di G. Anceschi e T. Matarrese, Padova, Antenore, 1998; F. Cossutta, Itinerarium mundi ac salutis: gli «Amorum libri» di Matteo Maria Boiardo, Roma, Bulzoni, 1999; C. Dionisotti, Boiardo e altri studi cavallereschi, Novara, Interlinea, 2003. 6.6. Sannazaro. Testi: Opere volgari, a c. di A. Mauro, Bari, Laterza, 1961; Arcadia, a c. di F. Erspamer, Milano, Mursia, 2002; Il parto della Vergine, a c. di S. Prandi, Roma, Città Nuova, 2001. Studi: G. Folena, La crisi linguistica del Quattrocento e l’Arcadia del Sannazaro, Firenze, Olschki, 1952; F. Tateo, Tradizione e realtà nell’Umanesimo italiano, Bari, Dedalo, 1967; M. Corti, Metodi e fantasmi, Milano, Feltrinelli, 1969; C. Vecce, Iacopo Sannazaro in Francia, Padova, Antenore, 1988, e Gli zibaldoni di Iacopo Sannazaro, Messina, Sicania, 1998; M. Riccucci, Il “neghittoso” e il “fier connubbio”. Storia e filologia nell’Arcadia di J. Sannazaro, Napoli, Liguori, 2001. Sul genere bucolico: E. Carrara, La poesia pastorale, Milano, Vallardi, 1938; La poesia pastorale nel Rinascimento, a c. di S. Carrai, Padova, Antenore, 1998. 6.7. Bembo. Testi: Prose e rime, a c. di C. Dionisotti, Torino, UTET, 1966; Prose della volgar lingua. L’editio princeps del 1525, a c. di C. Vela, Bologna, CLUEB, 2001; Le rime, a c. di A. Donnini, Roma, Salerno, 2008; Gli Asolani, a c. di G. Dilemmi, Firenze, Accademia della Crusca, 1991.

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Studi: P. Floriani, Bembo e Castiglione, Roma, Bulzoni, 1976; G. Dilemmi, Dalle corti al Bembo, Bologna, CLUEB, 2000; C. Dionisotti, Scritti sul Bembo, Torino, Einaudi, 2002; E. Curti, Tra due secoli. Per il tirocinio letterario di Pietro Bembo, Bologna, GEDIT, 2006. 6.8. Castiglione. Testi: Il cortigiano, a c. di A. Quondam, Milano, Mondadori, 2002. Studi: La corte e il “Cortegiano”, a c. di C. Ossola e A. Prosperi, Roma, Bulzoni, 1980; C. Ossola, Dal “Cortegiano” all’“Uomo di mondo”, Torino, Einaudi, 1987; P. Burke, Le fortune del Cortegiano. Baldassarre Castiglione e i percorsi del Rinascimento europeo, Roma, Donzelli, 1998; A. Quondam, “Questo povero cortegiano”. Castiglione, il libro, la storia, Roma, Bulzoni, 2000; U. Motta, Castiglione e il mito di Urbino. Studi sulla elaborazione del «Cortegiano», Milano, Vita e Pensiero, 2003. 6.9. Leonardo. Testi: Scritti scelti, a c. di A.M. Brizio, Torino, UTET, 1952; Scritti letterari, a c. di A. Marinoni, e Scritti artistici e tecnici, a c. di B. Agosti, Milano, Rizzoli, 1974-2002; Scritti, a c. di C. Vecce, Milano, Mursia, 1992; Libro di pittura, a c. di C. Pedretti e C. Vecce, Firenze, Giunti, 1995. Studi: C. Scarpati, Leonardo scrittore, Milano, Vita e Pensiero, 2001; C. Vecce, Leonardo, Roma, Salerno, 2006.

7. Machiavelli

7.1. La vita Niccolò Machiavelli nasce a Firenze nel 1469, da un notaio di modeste condizioni economiche ma vivaci interessi culturali, Bernardo, che lo inizia alle prime letture dei classici latini (Livio, Lucrezio, Terenzio) e degli autori volgari (Dante, Boccaccio). È una formazione non umanistica (manca il greco), ma più vicina agli ambienti borghesi e mercantili della città (dove lo scapestrato Niccolò è soprannominato “il Machia”), e comunque nobilitata dalle lezioni dell’umanista Marcello Virgilio Adriani. Dai grandi rivolgimenti del ’94-95 (caduta dei Medici e ascesa di Savonarola) Niccolò è quasi assente. Non favorevole al governo del Savonarola, esce improvvisamente dall’ombra quando, dopo il supplizio del frate (1498), viene nominato segretario della seconda cancelleria, alle dipendenze del suo maestro, l’Adriani, a capo della prima cancelleria. È l’inizio di un prodigioso periodo che vedrà Niccolò impegnato soprattutto su un fronte diplomatico e internazionale, per garantire alla sua città-stato un margine di autonomia e di sopravvivenza, nel turbinare delle Guerre d’Italia. Dopo una missione a Forlì presso la forte principessa Caterina Sforza (1499), è subito proiettato nel gran teatro della politica europea, nel primo viaggio in Francia, alla corte di Luigi XII, per ottenerne aiuto nella guerra contro Pisa (1500), che si arrenderà solo nel 1509, proprio grazie alla mediazione di Machiavelli. Nel 1501 sposa Marietta Corsini, da cui avrà prole numerosa, e a cui sarà sempre legato da forte affetto, nonostante molte altre avventure passionali. Dal 1502 diventa il principale consigliere del nuovo reggitore della repubblica fiorentina, il Gonfaloniere a vita Pier Soderini. Con il fratello di Piero, Francesco Soderini, svolge nel 1502-1503 la sua missione più difficile e forse per lui più istruttiva, presso Cesare Borgia, detto il duca Valentino, che, approfittan-

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do dell’appoggio del padre, il papa Alessandro VI, stava ampliando un forte stato personale tra le Marche e la Romagna, con una politica spregiudicata. Machiavelli lo raggiunge nel 1502 a Urbino (dove il Valentino aveva appena spodestato il legittimo duca Guidubaldo da Montefeltro), ed è poi, nel gennaio 1503, testimone del feroce massacro di Senigallia, in cui vengono attirati con l’inganno e poi uccisi i principali nemici del Valentino. Come ne era stata rapida l’ascesa, favorita dalla fortuna, altrettanto veloce ne fu però la rovina, dopo la morte del papa. Niccolò è inviato a Roma per il conclave che elegge il papa guerriero Giulio II (1503), torna diverse volte in Francia (1504, 1510, 1511), poi a Mantova, Siena (1505), al seguito del papa (1506) e dell’imperatore Massimiliano d’Asburgo a Innsbruck (1508) e a Verona (1509). L’esperienza di quegli anni drammatici gli ha insegnato che una delle prime cause della debolezza degli stati italiani è nella mancanza di un esercito di leva: i principi si servono di mercenari, pronti a cambiare bandiera da un momento all’altro, e di condottieri malfidati. Nasce quindi l’idea (derivata dal modello della Roma repubblicana) che perseguirà generosamente negli anni successivi: la costituzione di una milizia della repubblica fiorentina, formata dagli stessi popolani e contadini, adeguatamente istruiti all’uso delle armi e alla formazione militare. È un progetto difficile, osteggiato o ridicolizzato dai suoi stessi concittadini. Niccolò, di estrazione ‘popolare’, è malvisto dai ‘grandi’, dagli esponenti delle famiglie ricche e patrizie che da sempre dominano Firenze; ma non sente ragioni, e riesce, tra 1505 e 1507, a costituire i primi reparti del ‘suo’ esercito. Tanto lavoro, per salvare la libertà e l’integrità di Firenze, sembra improvvisamente crollare nel 1512, quando, nel consueto rovesciamento delle alleanze, il papa Giulio II guida una lega per cacciare i Francesi (da lui ora chiamati ‘barbari’) dall’Italia. Verso Firenze, tradizionalmente alleata della Francia, si muove un minaccioso esercito spagnolo, che a Prato annienta proprio la milizia ordinata da Machiavelli. Pier Soderini fugge, i Medici rientrano a Firenze, e Niccolò è subito congedato dalla cancelleria, confinato, e addirittura incarcerato e torturato, con l’accusa di aver partecipato a una congiura antimedicea (1513). Per fortuna, il cardinal Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, è eletto papa Leone X, e l’amnistia rimette in libertà Niccolò, che si ritira nella quiete della sua casa di campagna, l’Albergaccio a San Casciano, presso Firenze. Tempo di amarezza, di solitudine, ma anche (per la prima volta nella sua vita, dopo tanti anni di straordinaria operosità) di riflessione, di meditazione sulle vicende contemporanee, e sulla propria vita, da cui nasce il capolavoro del De principatibus. Eppure Niccolò non riesce a stare ozioso in villa, e vorrebbe tornare ad essere utile alla sua città, in qualunque incarico, anche il più piccolo. Vani



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sono i primi tentativi di riguadagnare la fiducia dei Medici. E allora si avvicina ad un circolo di giovani patrizi fiorentini, Zanobi Buondelmonti, Luigi Alamanni, Iacopo Diacceto, infiammati agli ideali repubblicani, e ammiratori del ‘Machia’, di quel che ha fatto negli anni della repubblica, a livello europeo, e della sua vivace conversazione, che sa fondere la sapienza degli antichi con l’esperienza diretta del presente. Ci si riunisce nel giardino della famiglia Rucellai (detto appunto gli Orti Oricellari), alle porte di Firenze, sotto la guida di Cosimo Rucellai, nipote del grande umanista Bernardo, autore di opere importanti sulla civiltà di Roma. E proprio a Roma, al suo modello politico, guarda Machiavelli in questa stagione, con la composizione dei Discorsi sulla Prima Deca di Tito Livio. Dopo il 1519 riprendono finalmente i contatti con i Medici, che apprezzano le sue scritture letterarie: la commedia Mandragola, la Vita di Castruccio Castracani, e il trattato De re militari (‘arte della guerra’). Gli si chiedono pareri sul modo di riformare la costituzione di Firenze, e Machiavelli coraggiosamente propone la restaurazione della repubblica, nel Discursus florentinarum rerum (‘discorso sullo stato di Firenze’)(1520). Gli si dà qualche incarico, ma sempre di poco conto, se non umiliante, come quello di inviato al capitolo generale dei frati minori a Carpi (1521), a quella che il Machia (sempre insofferente nei confronti dell’ipocrisia clericale) chiama con scherno “la Repubblica degli Zoccoli”. La missione è comunque importante, da un punto di vista umano, perché conferma l’amicizia (testimoniata da bellissime lettere) di Niccolò con il più giovane Francesco Guicciardini, allora governatore di Modena, con cui architetta una beffa ai danni dei frati (in pratica, le lettere di Guicciardini venivano recapitate al Machia da un balestriere armato, e il Machia faceva credere che si trattasse di documenti segreti di vitale importanza, lasciando i frati a bocca aperta). A Firenze, intanto, l’oppressione è sempre in agguato. I giovani degli Orti Oricellari sono accusati di congiura, alcuni di loro decapitati (il Diacceto), e altri costretti alla fuga e all’esilio (il Buondelmonti e l’Alamanni). Niccolò, per fortuna, non è coinvolto, e si concentra nella scrittura della sua grande opera storica, le Storie fiorentine, che presenta ufficialmente a Roma al nuovo papa mediceo Clemente VII (1525). La politica del papa, ostile all’impero di Carlo V e favorevole alla Francia, addensa però pericolosi scenari di guerra sull’Italia. Machiavelli, non più giovane, torna attivissimo, per cercare di riorganizzare la milizia, in Romagna, con Guicciardini. Viene nominato cancelliere dei Procuratori delle Mura a Firenze, per curare le difese della città. Ma è tutto inutile. Nel 1527 l’esercito imperiale arriva a Roma e la saccheggia, mentre a Firenze torna la repubblica, che però guarda con sospetto a questo ex-segretario che, in tutti gli anni precedenti, sembra

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non aver fatto altro che cercare di riguadagnare il favore dei Medici. Deluso e amareggiato, escluso da ogni incarico, Niccolò muore il 21 giugno 1527, mentre la sua città si prepara a vivere l’ultima resistenza repubblicana.

7.2. Le scritture del “segretario” Il periodo in cui Machiavelli fu segretario della prima cancelleria (14981512) coincide anche con l’inizio della sua attività di scrittore. In questi anni è quasi esclusivamente compositore di scritture politiche, direttamente legate all’occasionalità: la relazione di una missione appena compiuta, le lettere diplomatiche (magari scritte dal Machia, e firmate dall’ambasciatore), la ‘memoria’ ai Signori di Firenze, o al Soderini, sulle decisioni da prendere su una determinata situazione politica, strategica, militare, economica. La responsabilità finale di tali decisioni non competeva a Machiavelli, ma la sua influenza, come ‘segretario’, fu spesso decisiva. Per questo, le scritture del ‘segretario’ riescono a innovare notevolmente l’ambito della ‘scrittura professionale’. Il loro stile è secco, la lingua si avvicina al parlato (in alcuni casi si sarà anche trattato di testi esposti oralmente ai Signori), ma si nota un’elaborata cura retorica, con un’attenta disposizione degli argomenti, e uso di linguaggio figurato. Anche un’esposizione apparentemente oggettiva dei fatti, Niccolò lo sa bene, può non essere neutrale. Al ‘segretario’, come ad ogni politico, non interessa solo ‘esporre’, in modo freddo e impersonale, ma anche ‘orientare’, suggerire soluzioni, che saranno poi prese da altri. È una retorica ‘effettuale’, non puramente esornativa. Una prima serie di scritti riguarda i rapporti di Firenze con le città vicine, rapporti che rivelano che l’egemonia fiorentina deve reggersi anche sulla forza e la violenza: il Discorso sopra Pisa (1499), che affronta uno dei nodi della politica fiorentina, quello della conquista della libera e pericolosa concorrente, che continuò a resistere per altri dieci anni, mettendo spesso in difficoltà l’esercito assediante; il De rebus Pistoriensibus (‘dei fatti di Pistoia’)(1502), la prima memoria per il Soderini; Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati (1502), sulla città di Arezzo sempre ribelle (e in questo caso su istigazione del Valentino), e per la quale si chiede un castigo esemplare. A questioni amministrative e di governo sono dedicate le Parole da dirle sopra la provisione del danaio (1502), mentre il sogno della milizia repubblicana viene caldamente promosso ne La cagione dell’ordinanza (1506). Un’ultima categoria di scritture si rivolge all’orizzonte più ampio della politica europea: sono le memorie stese da Machiavelli al ritorno dei suoi



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viaggi diplomatici, vividi ritratti di uomini, costumi, cose, che rivelano la sua straordinaria capacità di osservazione, e il suo realismo, scevro da ogni condizionamento ideologico: il De natura Gallorum (‘la natura dei Francesi’)(1503) e il Ritracto di cose di Francia (1510), il Rapporto di cose della Magna (1508), il Discorso sopra le cose della Magna (1509), e il Ritracto di cose della Magna (1512). A differenza di scritti consimili di umanisti contemporanei (ad esempio la Pro Gallis apologia, ‘difesa dei Francesi’, di Mario Equicola), Machiavelli supera la struttura tradizionale dei luoghi comuni, e registra ciò che ha effettivamente veduto. Ne emergono così vividi ritratti psicologici dei personaggi storici incontrati, come l’ombroso Luigi XII, il cardinale Georges d’Amboise, l’impenetrabile imperatore Massimiliano d’Asburgo. Alle scritture politiche il ‘segretario’ aggiunge le sue prime scritture letterarie, che sono naturalmente legate al filone della letteratura popolare fiorentina del Quattrocento, e che continuano a riflettere comunque le contemporanee esperienze politiche. Ad esempio, le vicende dei dieci anni dal 1494 al 1504, decisivi per la storia d’Italia (la discesa di Carlo VIII, il crollo di Milano e Napoli e guerre tra Francesi e Spagnoli, potenza e caduta di papa Borgia e Valentino), sono raccontate in un poemetto in terzine dantesche, intitolato appunto Decennale (1504)(un secondo Decennale rimase invece incompiuto, fino al 1509). Alcune vicende particolari ispirarono invece, negli anni successivi, la composizione di alcuni Capitoli, sempre in terzine, di tono satirico e morale: Di Fortuna (1506), dopo l’esperienza al seguito di Giulio II; Dell’Ingratitudine (1508), quando, per la missione all’imperatore, fu inizialmente sostituito da Francesco Vettori, perché malvisto dai ‘grandi’; Dell’ambizione (1509), al tempo della guerra contro Venezia; Dell’occasione (1512).

7.3. De principatibus La rovina della repubblica (1512) segna una cesura netta nella vita di Machiavelli. Come era accaduto a Cicerone, anche Niccolò può ora dedicarsi alla riflessione sulla storia appena passata, cercando di comprendere i motivi di quei grandi e terribili rivolgimenti, della caduta di stati che sembravano forti e invincibili, e in generale della crisi che sembrava travolgere la civiltà del Rinascimento, i suoi valori e le sue speranze. Suo rifugio, dopo il carcere e la tortura, è la villa fuori Firenze, l’Albergaccio. Lì sembra quasi inselvatichire, a contatto con i rozzi villani. La sera però (come racconta in una splendida lettera al Vettori, il 10 dicembre 1513), tornato a casa, riveste idealmente gli

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abiti “curiali”; in quella sala rustica dell’Albergaccio i grandi Greci e Romani tornano a rivivere, e a conversare con Niccolò. È il senso, tutto umanistico, del dialogo con gli antichi (iniziato in chiave moderna dal Petrarca), che continuano, con le loro opere e i loro esempi, ad ammaestrare, ad ammonire, a far comprendere lo stesso presente. Di cosa parlava Niccolò con quei fantasmi? La risposta ce la dà lo stesso Niccolò, nella lettera al Vettori: sono i temi di un’opera che lui sta scrivendo, e che vorrebbe dedicare a Giuliano de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico e fratello del papa, reggitore di Firenze, principe illuminato, amico e mecenate di Bembo, Castiglione e Leonardo (forse è proprio Giuliano che l’ha tirato fuori dal carcere): “uno opuscolo De principatibus, dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitationi di questo subbietto, disputando che cosa è principato, di quale spezie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono”. È la prima testimonianza del De principatibus (‘i principati’)(1513), rivisto nel 1514 con nuova dedica a Lorenzo di Piero de’ Medici, detto Lorenzino († 1519), successore di Giuliano nel governo di Firenze, e pubblicato solo postumo nel 1532. Il titolo sarebbe divenuto (impropriamente) Il principe, perché, sull’orizzonte della ricezione, se ne sarebbe privilegiata la parte dedicata al ‘ritratto’ del principe (capitoli XV-XXIII), più che l’insieme dell’opera, che in realtà è un breve trattato sulle varie forme di governo monarchico, e sulle modalità di gestione e conservazione. Scandita da capitoli non troppo lunghi, la prosa si distende in uno stile veloce, incalzante, che supera la retorica esornativa per raggiungere una massima aderenza alle ‘cose’; e la lingua è il fiorentino vivo, parlato. Non dimentichiamo che il De principatibus nasce da un laboratorio già maturato nelle scritture politiche precedenti, memorie, legazioni, e ne resta debitore, nell’orizzonte comunicativo. Scritto probabilmente di getto, nel corso del 1513, subito dopo la scarcerazione, il De principatibus riflette il momento più cupo della vita di Machiavelli, e del suo orizzonte politico. Tutto intorno a lui sembra crollato: la repubblica, il sogno di una milizia popolare, l’utopia di una città prospera e giusta. Al contrario, i grandi modelli europei delle monarchie nazionali (profondamente conosciuti da Niccolò nel corso delle sue legazioni) sembrano assolutamente vincenti, con i loro forti eserciti, e il moderno sistema amministrativo. È possibile allora che l’Italia si riprenda dallo stato di decadenza in cui è improvvisamente precipitata, dopo gli splendori del Rinascimento? La risposta di Machiavelli è sì. Ma per dare questa risposta sembra necessario dimenticare il sogno repubblicano dell’umanesimo civile, e considerare coraggiosamente e realisticamente una forma di governo ‘forte’ in grado di superare le divisioni tra gli stati italiani. Il ‘principato’, appunto, o la forma



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monarchica. È un doppio salto mortale, quello di Machiavelli, ex-segretario di una repubblica, e ora teorico dei principati. Ma ancora una volta lo aiuta la grande capacità di analisi della realtà che lo circonda. La prima parte dell’opera esamina quindi le varie tipologie di principato (ereditario, nuovo, o misto: il ‘principe nuovo’, che si conquista da solo il principato, è quello che attrae di più Machiavelli, che ha conosciuto il Valentino), e le modalità di acquisto (per virtù, fortuna, delitto, e favore: l’ultimo caso, che è quello che prevede un ampio consenso popolare all’ascesa del principe, è il cosiddetto principato ‘civile’, che sembrava realizzato nei momenti più felici della signoria dei Medici); a parte si collocano i principati ecclesiastici, come quello del papa, il cui potere temporale si avvale (talvolta in modo improprio) anche dell’immensa autorità morale e spirituale della Chiesa (capitoli I-XI). Sempre di carattere generale è l’analisi delle “offese e difese” del principato, che si concretizzano nel modo di organizzare le proprie milizie, in quattro tipologie diverse (mercenarie, ausiliarie, proprie, miste)(capitoli XII-XIV); e qui Machiavelli riprende tutte le sue riflessioni precedenti sul tema della milizia. La seconda parte (capitoli XV-XXIII) è quella più sconvolgente, e dimostra che, forse, in un primo momento (e prima dell’idea di dedica a Giuliano), in quel fatale 1513, il De principatibus nacque come forma di scrittura privata (a differenza di tutte le altre scritture politiche del ‘segretario’), come meditazione e sfogo personale del Machia, quasi esule e rinnegato, ma sostanzialmente libero di dire, a se stesso e ai fantasmi degli antichi, al chiuso dell’Albergaccio, tutto quello che voleva. La verità delle cose, o come la chiama lui, la “verità effettuale”, e non l’ “imaginazione di essa”, o un’utopia ideale o morale. Tutta la tradizione medievale e umanistica sul tema del principe, il cosiddetto speculum principis (‘specchio del principe’), rappresentata da intellettuali illustri come il Pontano, autore del De principe, presuppone un destinatario primario, che è lo stesso principe; e si collega in fondo con la stessa tradizione pedagogica dell’umanesimo, che si serve di solito della forma dell’epistola parenetica. Machiavelli no. In questi capitoli è come se non avesse destinatario, come se parlasse a se stesso. E guai se qualcuno lo ascoltasse, con le cose terribili che dice. Il suo scritto ha la forma del tractatus, dell’opuscolo tecnico, come avrebbe potuto scriverlo un ingegnere (Francesco di Giorgio Martini) o un artista (Leonardo). Bisogna descrivere un oggetto e il suo meccanismo di funzionamento, senza tanti fronzoli. E l’oggetto è il principe. Non più quello buono, giusto, leale dello speculum principis, campione di ideali classici, cristiani e cavallereschi, ma quello reale che Machiavelli ha visto in azione (ancora una volta, il Valentino), e che d’altronde è sempre esistito; il principe che

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non esita ad usare l’inganno, la violenza, la ferocia, se tutto ciò è necessario al mantenimento dello stato. Un principe, compendia Machiavelli, che ha l’astuzia della volpe e la forza e la crudeltà del leone. Domina, è vero, nelle pagine di Machiavelli un pessimismo di fondo sulla natura degli uomini. E forse fu contemporanea la composizione di queste pagine, e di quelle in cui si rievocavano le gesta più efferate del Valentino a Senigallia nel 1503, nella memoria intitolata Tradimento del Duca Valentino al Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo et altri. Ma le sue affermazioni non sono contro gli ideali di humanitas classici e umanistici, né esplicitamente contro la morale cristiana. Quegli ideali, e quella morale, sono semplicemente sospesi, perché il momento politico contemporaneo esige uno sforzo eccezionale di pensiero e azione. Una sospensione simile, ricordiamo, era avvenuta per la genesi di un altro capolavoro, il Decameron di Boccaccio. Ed è questa la grande prospettiva della parte finale del trattato, che negli ultimi capitoli riprende tutte le argomentazioni precedenti, svelando un fine, una speranza, e introducendo ormai anche un possibile destinatario. Nel capitolo XXIV si esaminano le cause della rovina dei principi italiani, travolti per la debolezza militare (basata su eserciti mercenari), il disamore del popolo, e l’intervento delle potenze straniere. Il capitolo XXV si solleva alla considerazione del potere immenso della fortuna nelle vicende umane, potere al quale però è possibile opporre la forza della virtù, almeno in fase di previsione degli eventi, così come alle inondazioni dei fiumi si pone riparo alzando per tempo gli argini. E ‘virtù’ significa anche la ripresa della fiducia umanistica nella capacità della ragione di misurare il mondo e giudicare gli eventi. Machiavelli torna ottimista, e nell’ultimo capitolo (XXVI) si rivolge ai Medici, esortandoli a difendere l’ideale della libertà italiana, con la citazione conclusiva della canzone All’Italia di Petrarca: “Virtù contro a furore / prenderà l’arme, e fia el combatter corto; / ché l’antico valore / nell’italici cor non è ancor morto” (R.V.F. CXXVIII, 93-96). Un’esortazione alla quale, forse, il cuore di Giuliano de’ Medici avrebbe saputo rispondere, ma non quello dell’inetto Lorenzino.

7.4. Politica e storia Sperimentata l’inanità dei suoi sforzi nel rendersi accetto ai Medici, Machiavelli mette il De principatibus nel cassetto e torna a Firenze, dove trova ad accoglierlo il circolo degli Orti Oricellari. La conversazione con quei giovani brillanti, appassionati di ideali repubblicani, lo fa rinascere. E rinasce la sua



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meditazione sulla repubblica, in un contesto molto più vasto rispetto a quello fiorentino, umanisticamente rapportato all’epopea dell’ascesa di Roma, così come raccontato nei primi dieci libri delle Storie di Livio. Machiavelli si trova così a scrivere, in margine agli incontri degli Orti Oricellari, i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1515-1517), dedicati a Cosimo Rucellai e Zanobi Buondelmonti, pubblicati postumi solo nel 1531. Modello di riferimento è quello del commento umanistico ai classici, una forma di scrittura di secondo grado che però Machiavelli trasforma in un vero dialogo con l’autore, attualizzando fortemente il suo messaggio. Nel I libro, sulle diverse forme di repubblica, è poi decisivo il ricorso ad un testo ancora poco conosciuto, il VI libro della Storia di Roma dello storico greco Polibio, tradotto in latino dal dotto bizantino Giano Lascaris incontrato da Machiavelli in Francia, e in cui si espone la teoria dell’‘anaciclosi’, interpretazione ciclica della Storia. Lo stato è come un organismo vivente, che nasce, cresce, e poi decade; ogni forma di governo è relativa, rispecchia uno stato evolutivo: il governo di uno solo, il principato, può diventare una tirannide, abbattuta dal governo degli ottimati che può degenerare in oligarchia, a sua volta rovesciata dal governo del popolo in una repubblica democratica. Nel II libro Machiavelli ricostruisce le tappe dell’ascesa di Roma, e ritorna sul tema (a lui caro) della milizia, dell’organizzazione militare, che fu il vero punto di forza dell’espansione romana, mentre nel III libro conclusivo passa in rassegna varie tematiche, dalle grandi azioni dei Romani alla loro politica interna, dalla guerra alla fortuna. Rispetto al De principatibus, acquista maggiore importanza il tema della ‘durata’ di una forma di governo. Non conta l’acquisto, più o meno efficace e rapido, di uno stato da parte di un ‘principe nuovo’, bisogna anche saperlo mantenere nel tempo e nelle generazioni, secondo un progetto che va oltre il confine biologico del singolo individuo. E, oltre il singolo, è il ‘popolo’ che conta, nelle istituzioni repubblicane, quel Populus Romanus così ammirato da Machiavelli per la pluralità di forze in esso presenti, talvolta dialettiche e conflittuali, ma sempre necessarie alla costruzione della grandezza di Roma, dal patriziato alla plebe. Un mondo in cui conta, per il suo forte valore civile, anche la religione. Ed è allora impressionante il passo in cui Machiavelli, lodando la religione degli antichi Romani, evidenzia che una delle cause della decadenza dell’Italia sia da imputare proprio alla Chiesa Romana, ai suoi cattivi esempi morali, e soprattutto al suo esercizio del potere temporale, che ha tenacemente impedito nei secoli la formazione di un forte stato nazionale. Il tema della milizia di leva, che percorre come un filo rosso tutte le opere di Machiavelli, trova la sua espressione più alta nel De re militari (‘arte della guerra’), in cui le argomentazioni già esposte nelle antiche scritture

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politiche o nel De principatibus o nei Discorsi vengono riprese nella forma, letterariamente elevata, del dialogo, fra alcuni interlocutori molto cari a Machiavelli (e di lì a poco scomparsi, o dispersi da eventi tragici): Cosimo Rucellai, il Buondelmonti, l’Alamanni, e il vecchio condottiero Fabrizio Colonna. L’opera, composta nel 1520, fu una delle poche pubblicate in vita, a Firenze nel 1521, e diede subito all’autore una meritata fama, anche in ambiente mediceo. Intanto, il confronto continuo con gli storici antichi avrebbe portato Machiavelli alla scrittura storica, naturale punto di arrivo del processo evolutivo della sua prosa che, nata dalle scritture di servizio delle memorie e delle legazioni e maturata nella trattatistica del De principatibus, si propone addirittura in un genere che era peculiare della letteratura umanistica, la biografia, con la Vita di Castruccio Castracani (1520), legata a una piccola missione a Lucca (riflessa in un Sommario delle cose di Lucca). Machiavelli era maturo per l’incarico ufficiale più importante, quello di scrivere la storia della sua città, sulle orme di grandi umanisti come Leonardo Bruni, ma finalmente in volgare: le Istorie fiorentine, personalmente presentate nel 1525 a Roma al papa Clemente VII. È un quadro grandioso, che va dalle origini fino alla morte di Lorenzo il Magnifico (1492). Alla base, la concezione antica della storia magistra vitae, intesa da Machiavelli con una valenza ideologica nuova, che lo porta talvolta a ‘orientare’ l’interpretazione dei fatti come dimostrazione delle tesi per le quali Niccolò aveva lottato tutta una vita: il valore intrinseco del governo repubblicano, e la spiegazione della crisi di Firenze come allontanamento dalle sue originarie istituzioni, e dal culto delle virtù civili.

7.5. Letteratura e teatro Machiavelli era tornato alla ‘vita’, e alla sua città, dopo gli Orti Oricellari. Era tornato alle consuetudini che gli erano proprie, ai costumi scherzosi e satirici della sua origine mezzo popolana. Era tornato, in fondo, a sorridere. Questo nuovo ‘sorriso’ di Machiavelli si fa ora letteratura, nelle forme e nei generi della letteratura volgare contemporanea. Eccezionale è l’incontro con l’Asino d’oro di Apuleio (l’autore latino scoperto da Boccaccio, che racconta le avventure di un giovane trasformato in asino), che suggerisce la composizione di un incompiuto poemetto satirico in terzine, L’Asino (1517-1518), che si sarebbe dovuto concludere, appunto, con la metamorfosi di Niccolò in asino. Nella tradizione della novella ‘spicciolata’ rientra una novella intitolata Favola. Ne è protagonista addirittura l’arcidiavolo Belfagor, che, travestito,



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sale sulla terra e si sposa, poi, per colpa della moglie, finisce in un mare di debiti, e viene salvato dal villano Gianmatteo, che però alla fine lo fa fuggire di nuovo all’inferno, facendogli credere imminente l’arrivo della moglie. Conclusione morale implicita e pessimistica: l’inferno è forse meglio della vita che viviamo quassù. Ma il campo nel quale si dispiega veramente l’interesse di Machiavelli, in questi anni, è quello del teatro: e non a caso, per lui che da giovane aveva letto e amato Plauto e Terenzio, e che aveva poi sperimentato in profondità il teatro della vita e della politica. Che il De principatibus fosse anche un’opera di base per il teatro tragico, l’avrebbe capito, ad esempio, Shakespeare. Ora, invece, Machiavelli traduce l’Andria di Terenzio (1517), e rielabora la Casina di Plauto nella sua commedia Clizia (1525), satira della contesa amorosa tra un vecchio padre e suo figlio per una bella schiava, in cui la figura del vecchio adombra ironicamente proprio quella di Machiavelli, allora coinvolto in una delle sue ultime avventure. Ma prima aveva composto il suo capolavoro teatrale, la Mandragola (1518), forse rappresentata a Firenze per la festa di nozze di Lorenzino, poi a Roma davanti a Leone X, e poi a Venezia (1522), in un crescente successo. Rispetto ai modelli antichi, non è una commedia troppo complicata. Il giovane Callimaco concupisce Lucrezia, ingenua sposa dello sciocco Nicia, che si dispera per non riuscire a ingravidarla. Per vincere l’onestà di Lucrezia, Callimaco inventa la storia di un’erba magica, la Mandragola, che rende feconda la donna, ma fa morire colui che giace con lei. Con l’aiuto di vari mezzani come il parassita Ligurio, la stessa madre di Lucrezia Sostrata, e il corrotto frate Timoteo, Callimaco riesce a finire nel letto di Lucrezia che, scoperto l’inganno nel corso della notte d’amore, decide comunque di tenersi l’amante. Con la Mandragola il sorriso di Machiavelli diventa più amaro, e torna al pessimismo del De principatibus. Lo scenario cupo è quello della vita reale degli uomini, che sembrano mossi solo da interessi particolari. Anche se quell’erba è solo una finzione, e nessuno morirà nella commedia, pure una tragedia si consuma, ed è nell’anima della semplice ma onesta Lucrezia, per cui è inaccettabile non solo la perdita dell’onestà, ma anche il fatto che una vita umana debba essere sacrificata, che un giovane debba morire per renderla feconda: evento sul quale sembrano tutti diabolicamente d’accordo, anche l’inetto Nicia. Il fine, si potrebbe dire, giustificherebbe il mezzo. È questa la vera tragedia: la metamorfosi di Lucrezia, da semplice a consapevole, da onesta a disonesta. E non è una conclusione da ridere. Machiavelli guarda qui ai moderni, non agli antichi. Riprende il Boccaccio delle sostituzioni di persona (ad esempio, la novella di Ricciardo

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Minutolo, Dec. VI,3); l’azione si svolge a Firenze, sullo scenario cittadino contemporaneo, e non nell’antica Atene; e il linguaggio è il fiorentino parlato. Un punto importante, questo, per Machiavelli ‘letterato’ nei suoi ultimi anni, quando altrove si dibatteva la questione della lingua migliore, se si dovesse preferire il toscano letterario di Petrarca e Boccaccio, o la lingua cortigiana. Per Niccolò non vi sono dubbi. La lingua più efficace, per lui, è quella che gli è servita per tutta una vita di scrittura e di comunicazione, il fiorentino vivo: una posizione affermata in un tardo Dialogo intorno alla nostra lingua (1524), in cui compare addirittura Dante, criticato per la teoria del volgare illustre nel De vulgari eloquentia (riscoperto proprio nel primo Cinquecento dal Trissino, e oggetto di discussione negli Orti Oricellari intorno al 1515).

Bibliografia Edizioni complessive: Opere, a c. di L. Blasucci e al., Torino, UTET, 1989; a c. di C. Vivanti, Torino, Einaudi, 1997-2005. Monografie: G. Sasso, Niccolò Machiavelli, Bologna, Il Mulino, 1993; E. Cutinelli Rendina, Introduzione a Machiavelli, Roma-Bari, Laterza, 2002; F. Bausi, Machiavelli, Roma, Salerno, 2005; R. Bruscagli, Machiavelli, Bologna, Il Mulino, 2008. Studi complessivi e raccolte di saggi: L. Russo, Machiavelli, Bari, Laterza, 1965; F. Gilbert, Machiavelli e il suo tempo, Bologna, Il Mulino, 1977; C. Dionisotti, Machiavellerie. Storia e fortuna di Machiavelli, Torino, Einaudi, 1980; G. Skinner, Machiavelli, Bologna, Il Mulino, 1999; G. Ferroni, Machiavelli, o dell’incertezza (1981), Roma, Donzelli, 2003; G. Inglese, Per Machiavelli. L’arte dello stato, la cognizione delle storie, Roma, Carocci, 2006. Risorsa in rete: Bibliografia machiavelliana del Novecento, Università di Zurigo (fmpserver.ital.unil.ch/ital/machiavel). 7.1. La vita. O. Tommasini, La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli, Firenze, Sansoni, 1978; R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Firenze, Sansoni, 1981; M. Viroli, Il sorriso di Machiavelli. Storia di Machiavelli, Bari, Laterza, 1988. 7.2. Le scritture del “segretario”. J.J. Marchand, I primi scritti politici (1499-1512). Nascita di un pensiero e di uno stile, Padova, Antenore, 1975. 7.3. De principatibus. Edizioni: De principatibus, ed. crit. a c. di G. Inglese, Roma, Istituto Storico Italiano



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per il Medio Evo, 1994; Il principe, a c. di M. Martelli, Roma, Salerno, 2006; Il principe, a c. di R. Ruggiero, Milano, Rizzoli, 2008. Studi: F. Chiappelli, Studi sul linguaggio di Machiavelli, Firenze, Le Monnier, 1952, e Nuovi studi sul linguaggio di Machiavelli, ivi 1969; G. Bárberi Squarotti, La forma tragica del “Principe” e altri saggi sul Machiavelli, ivi 1966, e Machiavelli o la scelta della letteratura, Roma, Bulzoni, 1987; E. Raimondi, Politica e commedia. Dal Beroaldo a Machiavelli, Bologna, Il Mulino, 1972. 7.4. Politica e storia. Testo: Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, a c. di C. Vivanti, Torino, Einaudi, 2000. Cfr. G.M. Anselmi, Ricerche sul Machiavelli storico, Pisa, Pacini, 1979. 7.5. Letteratura e teatro. Testi: Teatro, a c. di G. Davico Bonino, Torino, Einaudi, 1979; Mandragola, a c. di P. Stoppelli, Milano, Mondadori, 2006. Studi: G. Ferroni, “Mutazione” e “riscontro” nel teatro di Machiavelli e altri saggi sulla commedia del Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1972; F. Grazzini, Machiavelli narratore, Bari, Laterza, 1990; Il teatro di Machiavelli, a c. di G. Barbarisi e A.M. Cabrini, Milano, Cisalpino, 2005; P. Stoppelli, La “Mandragola”: storia e filologia, Roma, Bulzoni, 2005, e Machiavelli e la commedia di Belfagor, Roma, Salerno, 2007.

8. Ariosto

8.1. La vita Da nobile famiglia al servizio degli Estensi, Ludovico Ariosto nasce nel 1474 a Reggio Emilia, dove il padre Nicolò era capitano della rocca. La sua giovinezza si svolge nel raffinato ambiente della corte di Ferrara, che lo attira molto di più degli studi giuridici avviati presso l’università, e finalizzati, secondo le intenzioni del padre, all’inserimento del giovane tra gli alti funzionari del duca. Ludovico preferisce invece le attrattive della vivace cultura umanistica, rappresentata da poeti latini come Ercole Strozzi, e dalla lettura dei classici, mediata dall’insegnamento del maestro Gregorio da Spoleto: ne deriva una prima produzione di poesia latina, di notevole elaborazione formale, sospesa fra i temi erotici e quelli occasionali ed encomiastici. Il carattere proprio della cultura ferrarese, tra latino e volgare, porta però il giovane poeta subito alla lirica volgare, anche grazie all’incontro e all’amicizia con Pietro Bembo (che studia filosofia proprio a Ferrara nel 1496-1499): una poesia che si distacca dallo sperimentalismo cortigiano contemporaneo, in un tentativo di avvicinamento ‘medio’ al modello petrarchesco. La vita di Ludovico è interamente proiettata su una dimensione cortigiana. Già ‘familiare’ del duca Ercole I (1498) e capitano della rocca di Canossa (1501-1503), entra nel 1503 al servizio del cardinale Ippolito d’Este, un vero principe del Rinascimento più che un uomo di chiesa. In ogni caso, come cortigiano di un cardinale, Ludovico deve diventare ‘chierico’, e prende gli ordini minori, pur senza abbandonare gli amori della giovinezza, dai quali ha i due figli Giambattista (1503) e Virginio (1509). Ippolito è padrone esigente, che tratta Ludovico quasi come un segretario, costringendolo a frequenti incarichi che allontano il poeta dagli studi e dalla letteratura. Si alternano viaggi a Bologna, Mantova, e soprattutto nella Roma del battagliero papa Giulio II (spesso in conflitto con gli Estensi); missioni anche pericolose, come

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quella col duca Alfonso a Roma nel 1512, quando l’ira del papa costrinse l’Ariosto a fuggire travestito. La sua vita privata cominciò a cambiare profondamente quando nel 1513 incontrò una donna (allora sposata, ma presto divenuta vedova), destinata a diventare il suo grande amore: Alessandra Benucci, sposata ‘segretamente’ solo nel 1528 (per non perdere i benefici ecclesiastici). La necessità di una maggiore tranquillità di vita, da dedicare ai figli e agli affetti familiari, ma anche all’impegno letterario, cresciuto negli anni con la composizione dell’Orlando furioso (stampato per la prima volta nel 1516), lo portò all’inevitabile rottura col cardinal Ippolito, consumata al rifiuto di accompagnare il cardinale in Ungheria (1517). Negli anni successivi l’Ariosto mantenne sempre un certo grado di indipendenza nei confronti della corte del duca Alfonso d’Este, tranne che nel periodo in cui accettò il difficile incarico di commissario della Garfagnana, tumultuosa terra di confine sottoposta al dominio estense (1522-1525): incarico che il poeta, tornato a mansioni di governo, seppe svolgere con giustizia ed equilibrio, in un’esperienza umanamente importante, testimoniata dalle sue lettere. Rientrato a Ferrara, trascorse gli ultimi anni alla cura delle proprie opere letterarie, e alle successive edizioni del Furioso, spegnendosi nel 1533.

8.2. Orlando Furioso La morte del Boiardo, nel 1494, aveva lasciato incompiuto il suo poema, l’Inamoramento di Orlando. L’Ariosto, che giovane aveva conosciuto Boiardo, e in parte ne ripercorreva la stessa carriera all’interno della corte ferrarese, cominciò a lavorare intorno al 1505 ad una continuazione dell’Inamoramento, venendo incontro ad una probabile aspettativa dei suoi primi destinatari, i principi estensi. Nel 1507 alcuni testi di questa ‘giunta’ erano recitati dallo stesso autore di fronte a Isabella d’Este, a Mantova. Nell’arco di un decennio l’opera fu completata, e pubblicata a Ferrara nel 1516, in una prima redazione in 40 canti dedicata al cardinal Ippolito, con il titolo che riprendeva il titolo ormai più diffuso del poema boiardesco (Orlando innamorato), cioè Orlando furioso, scritto in una lingua ancora vicina al Boiardo e alla cultura volgare ‘padana’ e ferrarese. Ma l’Ariosto lasciò aperto per tutta la vita il ‘cantiere’ del Furioso, nello sforzo di allargarne gli orizzonti ad un più vasto pubblico italiano (e non più solo di corte), sforzo già testimoniato dalle correzioni di lingua e di stile della seconda redazione (anch’essa in 40 canti) pubblicata nel 1521; e soprattutto dalla terza redazione in 46 canti, edita nel 1532, che attua in modo sistematico



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la revisione linguistica in direzione del toscano letterario, sulla base dello spirito normativo delle Prose del Bembo. Già nell’incipit si avverte la forte distanza dalla precedente tradizione cavalleresca (di cui resta un pallido, ironico residuo nella frequente ‘finzione’ di oralità): “Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto”. Dopo tanti cantari spesso anonimi, emerge ora la forte presenza dell’autore, dell’io del narratore, che dipana e sovrappone i fili del racconto come un tessitore intreccia la sua tela, o come un musico ricerca l’armonia di voci diverse in una polifonia (e si tratta di metafore suggerite dallo stesso Ariosto nella sua opera, assimilata appunto a una ‘tela’ o a una ‘musica’). Figura quasi divina nel creare e muovere i suoi personaggi, il poeta riprende la tecnica dell’intreccio narrativo (già presente nei romanzi francesi medievali, fino al Boiardo), e la porta alle sue massime possibilità espressive: tutti i personaggi, tutte le vicende, si muovono sulla dimensione della contemporaneità, e, per essere raccontate, devono alternarsi tra loro, essere lasciate in sospeso e poi riprese anche a grande distanza testuale. Nonostante il titolo suggerisca un prevalere della storia di Orlando, in realtà nessun filo è dominante sugli altri, in questa polifonia in cui veramente gli stili e i generi si rispondono tra loro, in relazioni armoniche di tipo musicale: il tragico e il comico, il favoloso e l’ordinario, l’erotico e il sublime. Nel suo carattere di contenitore ‘plurimo’ di generi letterari, il Furioso contiene anche delle digressioni novellistiche, di derivazione boccacciana, come la storia di Fiammetta condivisa contemporaneamente da due amici-amanti (c. XXVIII). Ma quell’io canto richiama anche, apertamente, il primo verso dell’Eneide virgiliana, Arma virumque cano, e quindi la consapevole fusione del genere cavalleresco con le istanze classiche della cultura umanistica: dai modelli dell’epica classica (Virgilio e Omero) alla riflessione sulla tragedia antica, conosciuta principalmente attraverso le Tragedie di Seneca. Forse proprio da una tragedia di Seneca, l’Hercules furens (‘Ercole furioso’), poteva venire lo spunto principale per il titolo, Orlando furioso. Non dimentichiamo che nell’umanesimo (da Petrarca a Salutati) Ercole incarnava il mito positivo dell’eroe fortissimo ma anche saggio, ideale dell’umanista che lotta vittoriosamente contro i mostri della barbarie. La riscoperta della tragedia senecana, già dal Trecento, comincia a illuminare la sua figura di una luce fosca, per l’epilogo tragico della follia che lo spinge ad atti di inconcepibile disumanità, come l’uccisione dei figli. Se la follia di Ercole era il risultato della vendetta di una donna, il tema, nel Medioevo, si saldava a quello della follia d’amore, che conduce a morte e rovina, con gli esempi di Tristano, Lancelot, e perfino del personaggio di Fileno nel Filocolo di Boccaccio.

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Per i cavalieri dell’Ariosto, dunque, i valori cortesi dell’amore, dell’eroismo e della nobiltà, e quelli umanistici della ragione e della virtù, vengono sopravanzati dalla presenza della follia, la negazione assoluta della ragione, del cortese e dell’onesto, che travolge proprio il paladino più forte e invincibile, Orlando, controfigura cristiana e medievale del pagano Ercole. Orlando, tra l’altro, entra in scena con un sogno, che, presentandogli Angelica in pericolo, diventa il vero motore della sua azione. E diventa pazzo quando scopre le prove dell’amore di Angelica per un oscuro fante nemico. Di fronte alla realtà crolla l’illusione, e ogni ideale cavalleresco. Qualcosa si spezza dentro quella macchina perfetta di guerriero, e lo trasforma in un essere selvaggio, che, tornato a uno stato ferino e precivilizzato, vaga completamente nudo. Ma la follia è ovunque già prima di Orlando, e attorno a Orlando. È la follia di disumani eroi pagani come Mandricardo e Rodomonte, è la follia momentanea della gelosa Bradamante, è la follia ordinaria degli uomini accecati dalle illusioni della vita: il desiderio di potere e di ricchezza, la meschinità, il tradimento, la lussuria. Per l’Ariosto, è in filigrana la critica morale dell’intera società del Rinascimento, critica parallela a quella del contemporaneo Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam. E, paradossalmente, la più grande follia umana appare ora la guerra, che non è più la competizione ‘onesta’ tra due leali cavalieri, ma la guerra ‘sporca’ delle armi da fuoco, definite “scelerata e brutta invenzion” (XI, 26,1-2) che distrugge la gloria e toglie onore al “mestier de l’arme”. È la crisi degli ideali militari della cavalleria. Un ignobile fantaccino, armato di colubrina, può ferire mortalmente il più forte e nobile cavaliere, senza che il cavaliere si accorga nemmeno della provenienza della pallottola. Non è più la ragione ‘misura di tutte le cose’. Il mondo torna a essere non misurabile, dominato da forze irrazionali, come il caso e la fortuna, rappresentate visivamente in grandi scenari e architetture simboliche, come la labirintica foresta del I canto, o il magico castello di Atlante. Una nonmisurabilità che corrisponde all’improvvisa e inaspettata dilatazione delle frontiere dello spazio conosciuto, all’epoca dell’Ariosto, con la scoperta di un nuovo mondo da parte di Cristoforo Colombo e Amerigo Vespucci. Vastissima è allora la geografia fantastica del Furioso, spazi immensi percorsi dall’inesausta ‘ricerca’ dei paladini, dagli scogli remoti delle isole britanniche ai regni magici e sensuali dell’Oceano Indiano. Per superare quegli spazi, Ariosto inventa l’Ippogrifo, un fantastico e riottoso cavallo alato, che viene utilizzato da Astolfo in uno straordinario viaggio sulla Luna, dove è possibile ritrovare ciò che si perde sulla Terra, e dove appunto viene recuperata l’ampolla con il senno perduto di Orlando (secondo uno spunto derivato dalle Intercenali dell’Alberti). Astolfo, a sua volta, è uno dei personaggi più



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originali del Furioso: appare all’inizio trasformato in pianta dalla perfida maga Alcina, e poi si lancia in una serie di avventure vorticose in paesi lontani ed esotici, avventure dominate dal senso del magico ma anche da un desiderio di conoscenza. Non è un caso che tocchi a lui, il più ‘leggero’ dei paladini, il più mobile e curioso, il compito di ‘domare’ l’Ippogrifo. Tra gli altri personaggi, spicca la figura di Ruggiero, che (come in Boiardo) conserva una funzione encomiastica nei confronti dei principi estensi, in quanto considerato mitico capostipite della famiglia. In Ruggiero, principe pagano che poi, per amore di Bradamante, diventa cristiano, si osserva il processo di metamorfosi che Ariosto applica a molti dei suoi personaggi, non più le statiche marionette della tradizione canterina, divise tra buoni (i Cristiani) e cattivi (i Mori), ma figure umane a tutto tondo, che soffrono e si disperano, e cambiano non per magia, ma per un interiore processo di formazione, e talvolta di elevazione. Ruggiero passerà dalla condizione di effeminato schiavo erotico di Alcina a quella del guerriero cristiano che riesce a battere la forza smisurata di Rodomonte. La novità più significativa è costituita dai personaggi femminili. Le donne (la prima parola del poema) acquistano una funzione nuova, non più (o non solo) oggetto del desiderio, concupite e inseguite da paladini e saraceni. La bellissima Angelica, sempre inseguita e sempre in fuga, si serve dell’intelligenza e della seduzione per piegare ai suoi voleri i cavalieri che incontra; e alla fine si innamora di un amore intenso e compassionevole per un umile soldato ferito, Medoro. La maschia Bradamante, vergine guerriera sorella di Rinaldo, batte in duello vari guerrieri maschi (Sacripante, Rodomonte), lasciandoli nella vergogna più nera. Esse sono proiezione delle donne che cominciano a diventare le protagoniste della vita di corte del primo Cinquecento, da Isabella d’Este a Lucrezia Borgia, fino a Vittoria Colonna, elogiata nelle ottave del poema; e anche in questo il Furioso (apparentemente una storia fantastica ambientata in un leggendario Medioevo) rivela i suoi forti legami con la contemporaneità, espressi nei frequenti ‘squarci’ profetici, e nell’allargamento dall’orizzonte ferrarese, cortigiano e nobiliare, a quello italiano ed europeo, borghese e cittadino. Ma lo stesso senso della contemporaneità, nel difficile periodo della crisi della civiltà delle corti (1518-1527: la fine del papato di Leone X, la riforma di Lutero, la battaglia di Pavia, il Sacco di Roma), ispirò anche la composizione dei cosiddetti Cinque Canti, che poi restarono al di fuori del poema: una lunga digressione che doveva ritardare il lieto fine del matrimonio tra Ruggiero e Bradamante con una trama di sospetti e inganni orditi dal traditore Gano di Maganza (assente nel Furioso). Uno scenario cupo, simile a quello della Mandragola di Machiavelli o delle tragedie di Seneca, animato

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da potenze oscure e infernali, e in fondo estraneo alla solarità del Furioso. Solarità cui concorre l’eccezionale lavoro stilistico per mezzo del quale l’Ariosto, nel corso delle tre diverse redazioni, cerca di affinare la propria lingua poetica, eliminando elementi troppo marcatamente settentrionali o dialettali, e raggiungendo un equilibrio di componenti diverse, anche latine e umanistiche, in un impianto generale ispirato ai modelli toscani, Petrarca e anche Dante. E il Petrarca lirico è anche spesso il modello metrico negli endecasillabi dell’ottava, il metro della tradizione canterina che nel Furioso diventa una forma nuova, non più un modulo meccanicamente ripetitivo, ma calibrato sul perfetto equilibrio di parole e ritmi (sarà infatti definito ‘ottava d’oro’). Il senso della ‘misura’ (perduto dai paladini, e dai contemporanei dell’Ariosto) appare allora pienamente recuperato nella globalità del Furioso, nella dialettica fra microstrutture e macrostruttura, nel delicato bilanciamento di opposti sul cui filo si regge (come un equilibrista) l’ultimo capolavoro del Rinascimento. Il poema inizia nel punto in cui si era interrotto quello del Boiardo: a Parigi re Carlo è assediato dai Mori di Agramante e Marsilio. La bellissima Angelica fugge dal campo cristiano, Rinaldo la insegue in una selva dove si scontra col saraceno spagnolo Ferraù, poi fa tregua e cavalca insieme a lui (“Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!”). Un altro spasimante di Angelica, il circasso Sacripante, fa la pessima figura d’essere disarcionato da una donna, la guerriera Bradamante, sorella di Rinaldo (I), poi duella con lo stesso Rinaldo; e Angelica continua sempre a fuggire. Mentre Rinaldo è inviato in Bretagna da Carlo, Bradamante è fatta precipitare dal traditore maganzese Pinabello in una grotta (II), che non è altro che la grotta magica di Merlino, in cui dallo spirito del mago e dalla buona fata Melissa la donna apprende la profezia del glorioso futuro della stirpe estense che nascerà da lei e dal suo innamorato, il pagano Ruggiero (III). Ruggiero, tenuto prigioniero dal mago Atlante in un castello sui Pirenei, è allora liberato da Bradamante, grazie al potere di un anello magico che, rubato al ladro saraceno Brunello, le consente di battere Atlante. Il mago, senza le sue arti magiche e senza il destriero alato Ippogrifo, le sembra un innocuo vecchierello, e la guerriera allora lo risparmia: ma l’Ippogrifo le rapisce di nuovo Ruggiero (IV). Mentre Rinaldo, in Scozia, difende da false calunnie Ginevra sorella del paladino Zerbino (V), Ruggiero finisce in India nell’isola incantata della maga Alcina, che avviluppa i suoi amanti in dolci piaceri erotici, e poi li trasforma in piante o animali, come rivela una pianta parlante di mirto, che si rivela essere il paladino inglese Astolfo (VI). Ruggiero amoreggia con Alcina, finché non giunge Melissa a salvare lui e gli altri cavalieri, e a svelare che in realtà Alcina, senza l’illusione della magia, è una vecchia bruttissima (VII). E Angelica? Fuggendo fuggendo, viene insidiata da un lascivo ma inconcludente eremita, e rapita da un popolo crudele, che l’incatena nuda all’isola di Ebuda, per farla divorare dall’Orca. Entra finalmente in scena Orlando, che sogna la



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sua amata in terribile pericolo, e parte subito da Parigi al suo soccorso (VIII), non senza prestare aiuto a donzelle indifese lungo il cammino, come Olimpia in Olanda (IX). Il caso vuole che Ruggiero, a cavallo d’Ippogrifo, arrivi prima di lui a salvare Angelica (X), che poi sfugge alle sue comiche avances rendendosi invisibile. Orlando, che sopraggiunge e finalmente uccide l’Orca, trova incatenata non Angelica, ma la solita sfortunata Olimpia (XI). Ruggiero resta nuovamente in potere di Atlante, in un castello incantato nel cui labirinto di stanze ognuno vede il fantasma del suo amore e lo insegue invano. Ci finisce anche Orlando, che però ne esce per continuare l’inseguimento della vera Angelica (XII), e per salvare da una grotta la bella saracena Isabella, amante di Zerbino; e cade nell’incantesimo di Atlante anche Bradamante (XIII). Al campo dei Mori arriva il feroce tartaro Mandricardo, e rapisce la bella Doralice donna del fortissimo Rodomonte (XIV), prima impegnato nel sanguinoso assedio di Parigi, dove per fortuna torna Rinaldo con i rinforzi inglesi (XVI), e poi furibondo per l’offesa patita da Mandricardo. Nella notte dopo la battaglia, due fanti saraceni, esempio di perfetta amicizia, Cloridano e Medoro, decidono di effettuare una sortita per dare sepoltura al corpo del loro re Dardinello (XVIII), ma sono scoperti dai Cristiani: Cloridano è ucciso, e Medoro gravemente ferito. Lo trova nella capanna di un pastore la bella Angelica, e, sorprendentemente, se ne innamora, e se lo porta in Catai (XIX). Con perfetto parallelismo si dipanano le avventure straordinarie di Astolfo in Oriente, con la cattura del gigante Caligorante e l’uccisione del mostro Orrilo (XV), e di altri paladini come Grifone e Aquilante figli di Oliviero, e Sansonetto (XVII), e soprattutto della valorosa guerriera pagana Marfisa (XVIII). La loro nave approda nella città delle ‘femmine omicide’ (XIX), dove Marfisa duella con Guidon Selvaggio, e da cui riescono a fuggire in Francia (XX). Dopo qualche avventura di Zerbino (XXI), Astolfo arriva finalmente al castello di Atlante, ne libera tutti, e tiene per sé l’Ippogrifo; finalmente Ruggiero e Bradamante potrebbero restare insieme, ma sono subito divisi dalla sorte; e Bradamante ha la possibilità di uccidere il perfido Pinabello (XXII). La svolta della storia avviene nel momento in cui Orlando trova nel bosco i segni dell’amore tra Angelica e Medoro, e diventa ‘furioso’, cioè completamente pazzo, spogliandosi nudo e abbandonando le sue armi (XXIII). Ne approfitta Mandricardo, che gli ruba la spada Durindana, uccide il povero Zerbino, e duella col geloso Rodomonte, finché non li ferma Doralice (XXIV), mentre si svolgono altre avventure di Ruggiero (XXV-XXVI). Ormai a Parigi stanno per vincere i Mori, ma per fortuna la Discordia ne allontana Rodomonte (XXVII), che in Provenza ascolta da un oste una pepata novella misogina (Astolfo e Iocondo che si godono insieme una Fiammetta), e poi incontra la sventurata Isabella, in lutto per Zerbino. Rodomonte se ne innamora (XXVIII), ma la donna, per non cedergli, si fa uccidere; allora il pagano resta a guardia del suo sepolcro e imprigiona chiunque passi sul ponte d’accesso. Solo un pazzo potrebbe sfidarlo: e infatti sopraggiunge proprio Orlando, nudo e furibondo, e i due, lottando insieme, cascano nel fiume (XXIX). Orlando poi ne combina molte altre delle sue, passando a nuoto lo stretto di Gibilterra, mentre Ruggiero uccide il catti-

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vo Mandricardo (XXX). A Parigi i Mori, senza Rodomonte, sono ricacciati in Provenza da Rinaldo (XXXI), e la sorella Bradamante diventa anche lei ‘furiosa’ per gelosia, alla notizia che Ruggiero si sposa con Marfisa; dopo insani propositi di suicidio, giunge nel castello di Tristano (XXXII), nella cui sala dipinta vede rappresentate tutte le guerre future, fino al tempo di Ariosto. Continuano intanto le mirabolanti avventure di Astolfo sull’Ippogrifo, che in Etiopia sconfigge le Arpie (XXXIII), scende all’Inferno, sale al Paradiso Terrestre: vi incontra san Giovanni, che lo accompagna sulla Luna, dove si può ritrovare ciò che si perde sulla Terra; e infatti vi trova l’ampolla con il senno di Orlando (XXXIV). Dopo aver devastato i regni dei Mori in Africa (XXXVIII), trova finalmente Orlando, e aprendo l’ampolla gli ridona il senno, e lo guarisce (XXXIX). Nel frattempo, Bradamante, sempre più ‘furiosa’, batte diversi cavalieri, tra cui Rodomonte (XXXV) e Marfisa, e sta per prendersela con l’innocente Ruggiero, quando lo spirito di Atlante rivela che in realtà Marfisa è sorella di Ruggiero (XXXVI); riappacificati, ripartono tutti e tre insieme verso Arles in Provenza (XXXVII). Ruggiero, per tenere fede al suo re, va al campo di Agramante, mentre Marfisa va al campo cristiano e viene battezzata. Si decide che la guerra sia conclusa dal duello di Ruggiero e Rinaldo (XXXVIII), ma durante il duello Agramante rompe i patti e provoca un finimondo (XXXIX), nel quale i Mori hanno la peggio, e ripiegano in Africa, fino all’estremo ridotto dell’isola di Lipadusa (XL). Grande duello finale, tra i mori Agramante, Gradasso e Sobrino, e i cristiani Orlando, Brandimarte e Oliviero (XLI): Gradasso uccide il povero Brandimarte, ma viene a sua volta ucciso, con Agramante, dalla furia di Orlando, mentre Oliviero e Sobrino restano gravemente feriti. La terribile guerra, iniziata con l’invasione della Francia, è finita. E finisce anche l’ossessione amorosa per Angelica da parte di Rinaldo, che ne viene liberato bevendo alla fontana del Disamore (XLII). Resta solo una storia da chiudere, quella di Bradamante e Ruggiero. I paladini seppelliscono ad Agrigento Brandimarte, pianto dall’inconsolabile Fiordiligi, e trovano presso un eremita Ruggiero, che intanto si è convertito alla fede cristiana (XLIII). Ultimo ostacolo al suo amore: i genitori di Bradamante, Amone e Beatrice, la promettono sposa al principe bizantino Leone. Ruggiero vorrebbe sfidarlo a duello mortale, ma invece i due diventano amicissimi (XLIV). Leone rinuncia alla donna per l’amico (XLV), e quando ormai a Parigi si festeggiano le nozze tra Ruggiero e Bradamante, ricompare il solito cattivone, Rodomonte, che viene ucciso in un duello finale da Ruggiero (XLVI).

8.3. Il teatro Il teatro, come abbiamo visto, era una delle componenti fondamentali della vita di corte a Ferrara, e il giovane Ludovico vi fu coinvolto già quasi a vent’anni, partecipando ad una delle ‘compagnie’ che mettevano in scena le prime rappresentazioni ferraresi. Lavorò allora sicuramente su testi di Plauto e Terenzio, preparando delle traduzioni destinate alla recitazione (e oggi



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perdute), ma anche scrivendo un’originale Tragedia di Tisbe (1493, anch’essa perduta). A un’occasione scherzosa del carnevale doveva essere destinato l’Erbolato, una prosa di medicina popolare recitata da un finto ciarlatano. E finalmente, nel carnevale del 1508, l’Ariosto mise personalmente in scena una sua commedia, la Cassaria, con una scenografia dipinta di Pellegrino Prisciani che rappresentava la prospettiva di una città del Rinascimento, con le sue vie e i suoi palazzi: un fondale in cui non era difficile, per il pubblico ferrarese, vedere il rispecchiamento della propria città. Quella commedia (solita storia plautina di amori contrastati, intorno a una ‘cassa’ che custodisce il denaro utile al riscatto di due belle schiave) si distingue subito per la novità del linguaggio: non più in poesia (come nella commedia latina, e anche nell’Orfeo di Poliziano) ma in prosa volgare e moderna, resa ancora più vivace dal colorito ferrarese e da frequenti giochi di parole. Carnevale del 1509: Ariosto replica il successo dell’anno prima con i Suppositi, che significa letteralmente gli ‘scambiati’, commedia degli errori e degli inganni, degli scambi di persona, ambientata stavolta esplicitamente a Ferrara, e sempre in prosa volgare. Per molti anni però gli incarichi al servizio del cardinal Ippolito gli impediranno di coltivare questa vera e propria passione per il teatro, che aveva necessità di tempo ed energia, per il coordinamento della ‘compagnia’, degli attori, degli scenografi, dei costumi. Le commedie ariostesche godevano intanto di meritata fortuna, e gli stessi Suppositi ebbero la gloria di essere rappresentati a Roma nel 1519, con la straordinaria scenografia architettonica di Raffaello, che proprio allora si occupava con Castiglione del recupero antiquario della Roma antica. Il ritorno al teatro avverrà solo negli ultimi anni, quando Ariosto si occuperà di nuovo del teatro di corte, dirigendo anche una compagnia inviata dal Ruzzante. La grande novità, e la grande sfida, sarà ora di scrivere teatro in versi, ma tali da sembrare lingua viva, seppur nobilitata ad un livello letterario. È quello che avviene con la Lena (1528, ma già iniziata nel 1509) e il Negromante (1528, ma già inviata al papa nel 1520), che presentano pezzi di grande profondità psicologica nei monologhi di personaggi come la disincantata ruffiana-prostituta di mezza età (sulla scena cittadina di Ferrara) o lo stregone imbroglione (a Cremona). Oltre a un’ultima commedia incompiuta, gli Studenti (ambientata all’università di Pavia), l’Ariosto riscrive in versi anche le sue prime due commedie, Cassaria e Suppositi (1531). Versi strani e difficili, quelli delle commedie dell’Ariosto: gli endecasillabi sdruccioli sciolti (simili al ritmo del senario giambico, verso dominante nella commedia latina antica), che però vengono trattati con grande perizia, con un ritmo quasi naturale nel parlato e nei dialoghi tra i personaggi, che talvolta rende riconoscibile la struttura in versi solo nella pagina scritta.

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8.4. Le Satire La ‘satira’, nella letteratura latina antica, era un genere letterario dedicato alla critica morale di costumi e atteggiamenti della società contemporanea (Persio e Giovenale), e poi, nella originale declinazione di Orazio, alla riflessione personale su temi morali, esposta nella forma media e colloquiale di un’epistola. A questo genere, rinato nella letteratura umanistica, guarda l’Ariosto nel momento di maggiore svolta della sua vita, il distacco dal servizio cortigiano e dal cardinal Ippolito. Gli serve un mezzo di espressione nuovo, con cui comunicare il proprio disagio esistenziale, ma anche la difficoltà e il coraggio di certe scelte. Nascono così le Satire, in terzine, il metro delle egloghe, dei capitoli e delle epistole poetiche: e infatti si tratta di vere e proprie epistole, legate al genere epistolare classico e umanistico, una sorta di piccolo libro di Familiari (sul modello petrarchesco), i cui destinatari sono tutti parenti (i fratelli Alessandro e Galasso e il cugino Annibale) o amici stretti (Pietro Bembo). Si forma un genere praticamente nuovo nella letteratura italiana, segnato dalla cifra dell’ironia e della comicità garbata, in cui la struttura epistolare si apre a digressioni anche di tipo narrativo-favolistico: forse uno degli elementi più belli delle Satire (come l’apologo dell’asino che deve vomitare ciò che ha mangiato per recuperare la libertà, nella I Satira), collegati al modello oraziano, ma anche alla tradizione delle favole antiche e umanistiche. Apre la serie la I Satira (1517), sulla rottura col cardinale che voleva portarlo in Ungheria; e vi si lega strettamente la II Satira sulla corte romana e sul rifiuto della carriera ecclesiastica. Identico atteggiamento critico è espresso nei confronti della vita cortigiana nella III Satira (1518), mentre varie considerazioni sul matrimonio (con spunti anche violentemente misogini) sono riportate nella V Satira (1519). Tutti gli altri testi sono databili al periodo trascorso in Garfagnana (1523-1525), e la IV Satira fa riferimento esplicito ai problemi a cui è esposto il poeta-commissario in quelle terre turbolente, preso dalla nostalgia dell’amata Alessandra. La VI Satira, al Bembo, con la richiesta di un precettore per il figlio Virginio, è in realtà il pretesto per un piccolo testo pedagogico, in cui emerge il valore civilizzatore della poesia e delle lettere. Infine, la VII Satira racconta del rifiuto della nomina ad ambasciatore al papa. Le Satire dell’Ariosto sono il documento più vivo della crisi del ‘cortigiano’ negli anni Venti del Cinquecento. Il primo livello di comunicazione avviene in un ‘piccolo mondo’ familiare, più ristretto di quello della corte, e poi si allarga ad un pubblico potenzialmente più vasto, col quale condividere valori che cominciano a non essere più quelli del ‘cortigiano’. Il tema principale è infatti un tema morale di altissimo valore, presente in



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Orazio (maestro del ‘giusto mezzo’) ma soprattutto nelle opere filosofiche di Seneca, e in Petrarca: il tema del ‘rifiuto’, della rinuncia all’eccessivo coinvolgimento nella vita di corte, agli onori e alle ricchezze del mondo, in nome di un superiore principio di libertà di ricerca intellettuale. L’otium letterario e poetico non è isolamento egoistico, ma ricerca dell’humanitas, in un mondo che sembra aver dimenticato gli ideali dell’umanesimo. Ed echi di grandi dibattiti (e ‘generi’) umanistici appaiono continuamente nelle satire, piccoli trattati dalla forma colloquiale e leggera sui temi, ad esempio, de educatione (‘dell’educazione’) e de re uxoria (‘del matrimonio’). Quel che può allora apparire come un ripiegamento verso il privato, verso il ‘particulare’, nel momento più acuto di crisi del Rinascimento, è invece una profonda meditazione sui rapporti tra intellettuale e potere.

Bibliografia Edizioni complessive: Opere minori, a c. di C. Segre, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954. Monografia: G. Sangirardi, Ariosto, Firenze, Le Monnier, 2006; G. Ferroni, Ariosto, Roma, Salerno, 2008; S. Jossa, Ariosto, Bologna, Il Mulino, 2009. 8.1. La vita. M. Catalano, Vita di Ludovico Ariosto ricostruita su nuovi documenti, Ginevra, Olschki, 1930-1931. 8.2. Orlando Furioso. Ed. crit. a c. di S. Debenedetti e C. Segre, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1960 Altre edizioni notevoli: a c. di L. Caretti, Milano, Mondadori, 1954; a c. di C. Segre, Milano, Mondadori, 1976; a c. di E. Bigi, Milano, Rusconi, 1982. V. anche Cinque canti, a c. di L. Firpo, Torino, UTET, 1964. Studi: P. Rajna, Le fonti dell’Orlando furioso (1876), Firenze, Sansoni, 1900; B. Croce, Ariosto, Bari, Laterza, 1919; A. Momigliano, Saggio sull’ “Orlando Furioso”, Bari, Laterza, 1932; W. Binni, Metodo e poesia di Ludovico Ariosto (1947), Firenze, La Nuova Italia, 1996; C. Segre, Esperienze ariostesche, Pisa, Nistri-Lischi, 1966; N. Borsellino, Lettura dell’ “Orlando Furioso”, Roma, Bulzoni, 1972; L. Caretti, Ariosto e Tasso (1961), Torino, Einaudi, 1977; D. Delcorno Branca, L’Orlando furioso e il romanzo cavalleresco medievale, Firenze, Olschki, 1973; E. Saccone, Il “soggetto” del Furioso e altri studi tra Quattro e Cinquecento, Napoli, Liguori, 1974; G. Savarese, Il Furioso e la cultura del Rinascimento, Roma, Bulzoni, 1984; A. Gareffi, Figure dell’immaginario nell’Orlando

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furioso, Roma, Bulzoni, 1984; G. Dalla Palma, Le strutture narrative dell’Orlando furioso, Firenze, Olschki, 1984; M. Santoro, Ariosto e il Rinascimento, Napoli, Liguori, 1987; M.C. Cabani, Tra omaggio e parodia. Petrarca e petrarchismo nel Furioso, Pisa, Nistri-Lischi, 1990; S. Zatti, Il Furioso tra epos e romanzo, Lucca, Pacini Fazzi, 1990; W. Moretti, Ariosto narratore e la sua scuola, Bologna, Pàtron, 1993; G. Sangirardi, Boiardismo ariostesco. Presenza e trattamento dell’Orlando innamorato nel Furioso, Lucca, Pacini Fazzi, 1994; C. Bologna, La macchina del “Furioso”. Lettura dell’ “Orlando” e delle “Satire”, Torino, Einaudi, 1998; D. Javitch, Ariosto classico. La canonizzazione dell’Orlando furioso, Milano, Bruno Mondadori, 1999; M. Praloran, Tempo e azione nell’“Orlando furioso”, Firenze, Olschki, 1999; A. Casadei, Il percorso del “Furioso”, Bologna, Il Mulino, 2001. 8.3. Il teatro. Testi: Commedie, a c. di A. Casella, G. Ronchi e A. Stella, Milano, Mondadori, 1984; a c. di A. Gareffi, Torino, UTET, 2007. Cfr. G. Coluccia, L’ esperienza teatrale di Ludovico Ariosto, Lecce, Manni, 2001. 8.4. Le Satire. Testi: Satire, a c. di C. Segre, Torino, Einaudi, 1987; a c. di A. D’Orto, Parma, Guanda, 2002. Cfr. P. Floriani, Il modello ariostesco. La satira classicistica nel Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1988; Fra satire e rime ariostesche, a c. di C. Berra, Milano, Cisalpino, 2000.

Parte III L’età moderna

1. Il Cinquecento

1.1. Un secolo difficile Nel 1525 la battaglia di Pavia sembra risolvere la contesa tra la Francia di Francesco I e l’Impero di Carlo V d’Asburgo a favore di quest’ultimo. Le ultime velleità di politica autonoma del papato sono stroncate col Sacco di Roma, nel 1527, ad opera di truppe imperiali in cui è preponderante la presenza di milizie luterane tedesche: le fiamme che avvolgono i palazzi romani, mentre papa Clemente VII si rifugia in Castel Sant’Angelo, sono il segno tangibile della crisi del Rinascimento italiano. Tre anni più tardi, nel convegno di Bologna (1530), sarà lo stesso pontefice a consacrare imperatore Carlo V, riconoscendo un predominio spagnolo che, confermato dalla pace di Cateau Cambrésis (1559), sarebbe durato quasi due secoli. Sono governati direttamente dalla Spagna, per mezzo di viceré e governatori, i territori più ricchi e strategicamente rilevanti della penisola, Milano, Napoli, la Sicilia e la Sardegna, che acquistano un ruolo importante nella politica mediterranea della Spagna e nello scontro con l’impero Ottomano, la cui espansione viene fermata con la battaglia di Lepanto (1571). In realtà, l’asse politico ed economico dell’Europa non gravita più intorno al Mediterraneo o all’Italia, ma si è spostato verso Occidente, con la scoperta dell’America e la corsa delle potenze europee (all’inizio Spagna e Portogallo, e poi Francia, Paesi Bassi, Inghilterra) a conquistare il Nuovo Mondo, e a stabilire relazioni commerciali dirette con le Indie e l’Oriente, per via marittima, saltando le vie tradizionali del Mediterraneo orientale e delle carovane del Medio Oriente. L’afflusso di nuove merci e di ingenti quantitativi di metalli preziosi porta ad una inarrestabile rivoluzione dei prezzi, che mette in ginocchio la rete dei mercanti e banchieri italiani, prima egemoni in Europa. Per Venezia (che è riuscita a restare indipendente) è l’inizio di una lunga decadenza, che coinvolge comunque l’intero sistema produttivo

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e commerciale italiano, marginalizzato rispetto all’Europa, ripiegato sulla proprietà fondiaria e su forme di immobilismo sociale. Eppure, proprio il Cinquecento è il secolo in cui gli ideali e le forme del Rinascimento passano dall’Italia all’Europa, in un veloce e straordinario momento di trasformazione che vede, ad esempio, la fine dell’architettura gotica e l’avvento del classicismo, da un’estremità all’altra del continente, dalla penisola iberica alla Polonia e perfino alla Russia, grazie all’emigrazione di artisti italiani, richiamati dalle corti straniere. Alla diffusione di uomini e di libri nel periodo dell’umanesimo, favorita dall’invenzione della stampa e dalla rete di relazioni internazionali di editori come Aldo Manuzio, succede ora la formazione di scuole umanistiche, che raccolgono l’ideale di humanitas fondato sullo studio degli antichi, e lo coniugano con le nuove istanze politiche e religiose della società europea, spesso in polemica con gli ultimi umanisti italiani, visti come attardati esponenti di un classicismo ciceroniano basato sulla sterile imitazione. Tale era, ad esempio, la posizione di Erasmo da Rotterdam, che fu tra i principali difensori della libertà di ricerca intellettuale, in un tempo in cui gli spazi di libertà andavano sempre più restringendosi, nello scontro delle opposte ideologie. La posizione di Erasmo univa una formazione iniziale di intensa cultura spirituale (legata alla tradizione nordica della Devotio Moderna, una forma di religiosità interiorizzata e individuale) alla conoscenza approfondita della cultura classica e dell’umanesimo italiano (in particolare Valla). Tra le sue opere più importanti si ricordano l’Encomio della Follia e gli Adagia, e il dialogo Ciceroniano, che critica ferocemente il ciceronianesimo italiano ridotto ad una sterile imitazione formale. In rapporto anche d’amicizia con Erasmo fu l’inglese Tommaso Moro, grande figura di uomo politico al servizio di Enrico VIII, autore di un testo celebre, Utopia, in cui si descrive un paese fantastico (in greco, appunto, u-topia, ‘non-luogo’, ‘luogo che non c’è’), i cui abitanti sono riusciti a regolare la propria vita, e l’intero sistema di rapporti sociali, politici, economici, in modo armonioso ed equilibrato, eliminando guerre e contese, realizzando il regno dell’amore e della fratellanza. Esattamente il contrario di quel che avveniva ai tempi del Moro (che finì giustiziato per l’ irriducibile rifiuto di accettare il divorzio del suo re), e in generale nella storia dell’umanità. Nonostante l’ideale di unità tra gli uomini nel segno della ragione, il Cinquecento fu soprattutto un secolo di divisioni, di lotte feroci, di guerre sanguinose, rese ancora più terribili dalle recenti invenzioni delle armi da fuoco (che rendevano tristemente ‘fuori



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moda’ gli ideali militari della cavalleria). Gran parte delle guerre fu giustificata dall’etichetta della ‘guerra di religione’, ideologicamente promossa come ‘guerra giusta’, contro un nemico che andava non sottomesso ma sterminato, da parte di chi si riteneva detentore della ‘verità assoluta’. La divisione principale, destinata a segnare i secoli successivi della storia europea, fu quella originata dalla ribellione di un monaco agostiniano tedesco, Martin Lutero, nei confronti della decadenza morale e della corruzione evidenti nella corte pontificia romana, e nella Chiesa tedesca del primo Cinquecento. Lutero, che propose la Riforma della Chiesa e il suo ritorno agli originari precetti evangelici, non fu un ‘profeta disarmato’ (come disse Machiavelli di Savonarola), ma la sua protesta fu appoggiata dal desiderio di maggiore indipendenza dei principi tedeschi nei confronti dello strapotere dell’Impero. La Chiesa Cattolica all’inizio non seppe comprendere il reale bisogno di rinnovamento e si limitò a scomunicare il monaco ribelle, poi, di fronte all’ingigantirsi della ‘protesta’ (da cui il termine ‘Protestanti’, adottato per i cristiani che si staccarono dall’obbedienza al papa), dovette correre ai ripari, con un vasto movimento di restaurazione dell’ordine, che è stato definito dagli storici Controriforma, o Riforma cattolica, a seconda che se ne vogliano cogliere gli aspetti repressivi nei confronti delle devianze dall’ortodossia, o quelli propositivi di cambiamenti nella vita della Chiesa, di moralizzazione dei costumi e di riforma della liturgia. Il momento più intenso di confronto fu il Concilio di Trento, indetto da papa Paolo III Farnese nel 1545, e concluso da papa Paolo IV Carafa nel 1563, concilio in cui furono dettate le regole di riorganizzazione della Chiesa Cattolica nell’età moderna, con attenzione particolare al rapporto di vescovi e sacerdoti con i fedeli, e alle forme della comunicazione, anche artistica. Come era avvenuto alcuni secoli prima con la fondazione degli Ordini Mendicanti, anche ora la Chiesa poté contare sull’aiuto di nuovi ordini religiosi che si impegnarono a fondo nella battaglia culturale e religiosa: i Teatini, i Barnabiti, e in primo luogo i Gesuiti, o Compagnia di Gesù, fondata nel 1534 dallo spagnolo Ignazio di Loyola. Organizzati quasi in forma militare, i Gesuiti si concentrarono sul problema dell’educazione delle classi dirigenti, raccogliendo l’eredità della scuola umanistica (dallo studio delle letterature classiche alle esercitazioni retoriche e stilistiche, in un curricolo di studi chiamato Ratio Studiorum), e ponendola al servizio della militanza religiosa. Per due secoli essi furono l’arma più potente al servizio della Chiesa Cattolica, incaricati di delicati rapporti diplomatici in tutta Europa, formatori ed educatori delle classi nobiliari e borghesi, zelanti missionari alle frontiere del mondo, per diffondere la fede cattolica: e dall’istituto allora fondato a Roma, De propaganda Fide (‘istituto per la diffusione della Fede’), nacque

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la parola moderna ‘propaganda’, con valore semantico talvolta negativo. In realtà, proprio in Oriente i Gesuiti scrissero le pagine più belle della loro storia, nell’incontro di civiltà lontane, dall’India alla Cina e al Giappone, nei cui confronti seppero, ad un certo punto, deporre l’urgenza evangelizzatrice e la pretesa di superiorità ‘occidentale’, per cercare di comprendere veramente l’umanità degli ‘altri’, come fece padre Matteo Ricci, che alla corte imperiale di Pechino giunse addirittura alla conoscenza della lingua cinese, e alla composizione di opere letterarie e filosofiche in cinese. Le ombre della Controriforma furono evidenti soprattutto nella politica di repressione a cui fu sottoposta la metà dell’Europa che restava fedele alla Chiesa Cattolica, con l’abolizione della libertà di pensiero, la persecuzione non solo degli aderenti alle chiese ‘protestanti’, ma anche di liberi intellettuali, e addirittura di scienziati e filosofi che osavano contraddire opinioni filosofiche o scientifiche approvate dalla Chiesa, anche se del tutto irrilevanti nei confronti dei dogmi religiosi: come ad esempio la disputa sul sistema cosmologico, che vedeva contrapposte le teorie del geografo antico Tolomeo (la terra è immobile al centro dell’universo) a quelle dell’astronomo umanista polacco Niccolò Copernico (la terra gira, con gli altri pianeti, intorno al sole). Fu rafforzato il tribunale dell’Inquisizione, e istituito un organismo apposito, il Sant’Uffizio, per individuare e reprimere i casi sospetti di eresia e di allontanamento dall’ortodossia cattolica; di più, nei territori soggetti alla dominazione spagnola, l’attività inquisitoria si svolse nelle forme terribili dell’Inquisizione spagnola. Molte di queste battaglie furono combattute con uno degli strumenti principali di comunicazione, che era ormai diventato il libro a stampa, disponibile a costi accessibili a strati sempre più larghi di popolazione: la Chiesa adottò allora un sistema capillare di controllo della produzione e della diffusione libraria, sancito dalla pubblicazione dell’Index librorum prohibitorum (‘indice dei libri proibiti’)(1559), in cui finirono anche molti testi della letteratura italiana, da Dante a Boccaccio e a Machiavelli. Nel giro di appena una generazione, dunque, intellettuali e letterati italiani si trovarono a fronteggiare una drammatica chiusura di orizzonti. Proprio quando lo stile di vita del ‘cortegiano’ assurge a modello e si diffonde in tutta Europa, grazie al trattato del Castiglione, entra in crisi il suo sistema di riferimento, una crisi avvertita già pienamente nelle Satire dell’Ariosto. L’intellettuale cerca disperatamente di ritrovare da un lato spazi di libertà individuale, dall’altro la tranquillità economica e sociale di una sistemazione stabile presso le strutture del potere: due obiettivi che sono quasi sempre disgiunti, mentre diventa più difficile l’impiego presso le corti superstiti (Ferrara, Mantova, Urbino), e la Chiesa, nella sua opera moralizzatrice, non



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può consentire più di stipendiare o concedere lauti benefici economici a letterati che non si assumano l’impegno concreto della vita religiosa e della cura pastorale. L’umanista tende allora a rinchiudersi nel recinto protetto della scuola e dell’università, dove coltiva in modo specialistico la lettura dei classici greci e latini, e lì gradualmente la sua scienza libresca si isterilisce e si estingue. Il ‘cortigiano’ si trasforma in segretario, in esperto fidato di composizione di lettere per conto del principe o dell’autorità ecclesiastica, mettendo la sua retorica e la sua eloquenza al servizio del potere, del quale si fa consigliere e servitore, in cambio di uno stipendio fisso. Figura assolutamente nuova, nella società dell’epoca, è quella di chi inizia a vivere a stretto contatto con il mondo editoriale, che dagli inizi del secolo comincia ad avere i caratteri di organizzazione industriale che avrà nell’età moderna: una vita incerta e irregolare, talvolta pericolosa (non sono infrequenti i casi di scrittori finiti sul patibolo), con un mestiere ancora tutto da inventare, tra il ‘poligrafo’ (autore che passa da un genere all’altro, inseguendo gli umori del pubblico: dalle ‘lettere’ alle ‘rime’, dal ‘trattato’ alla ‘commedia’) e l’editore, tra il curatore editoriale e il correttore di bozze. Anche se non esiste ancora un vero sistema di diritti d’autore, i libri più fortunati possono fruttare buoni compensi da parte degli editori agli autori, e ne possono consacrare la fama presso un pubblico nazionale, se non addirittura europeo. Dopo il periodo avventuroso ed ‘eroico’ degli incunaboli, l’editoria entra ora nella fase di produzione industriale, e di stabilizzazione dei mercati e delle reti di distribuzione, a livello europeo. Dopo l’esperienza fondamentale di Aldo Manuzio, la stampa dei testi in volgare ebbe il suo fulcro soprattutto a Venezia, in particolare con l’editore Gabriele Giolito de’ Ferrari. L’espansione della stampa e l’allargamento del pubblico segna allora il definitivo trionfo del volgare sul latino, ridotto ormai alla produzione di una letteratura raffinatissima ma destinata ad un pubblico di nicchia. Un’ultima sua vana autocelebrazione avvenne a Bologna nel 1529, quando l’umanista Romolo Amaseo pronunciò davanti al papa l’orazione De linguae latinae usu retinendo. A metà del Cinquecento, i luoghi di aggregazione degli intellettuali non sono più la corte, o l’università, ma quelle forme di associazione libera chiamate Accademie, già nate in età umanistica, e ora rifondate nel segno della regola e del rituale, mondi più chiusi che aperti verso l’esterno, in posizione difensiva, che però garantiscono in alcuni casi quello spazio di libera discussione e di confronto che era stato fondamentale nell’età precedente. Le Accademie si diffondono un po’ in tutta Italia, con statuti diversissimi tra loro, e finalità anche molto lontane, dalla promozione dell’attività teatrale al dibattito filosofico e scientifico: tra le più importanti, quella degli Infiam-

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mati a Padova dal 1540, molto attiva su tematiche poetiche e retoriche; e a Firenze quella degli Umidi, chiusa e sostituita dall’Accademia Fiorentina; e alla fine del secolo, specializzata su questioni linguistiche e sulla difesa della purità del fiorentino letterario, l’Accademia della Crusca. Sullo sfondo dell’incertezza e dell’inquietudine politica e religiosa, la cultura, la letteratura, la lingua tentano di ritrovare regole stabili su cui fondare le proprie istituzioni, e lo fanno con un’ampia produzione di trattati, poetiche, testi teorici, grammatiche, vocabolari, enciclopedie, prontuari, formulari, mentalità che guida anche la composizione del fondamentale Catechismo Tridentino, che detta le regole della vita spirituale ad ogni fedele, individualmente, distogliendolo da eventuali e pericolose indagini personali sulle Scritture o sulla fede. È una pratica collettiva e inconscia dell’imitazione, diffusa a tutti i livelli, e in tutti gli strati della popolazione, più che una teoria consapevolmente condivisa da qualche umanista. Il fenomeno è ben riconoscibile nelle arti figurative: dopo l’apogeo toccato dalle figure di Leonardo, Raffaello e Michelangelo, gli artisti del Cinquecento si trovano di fronte al difficile dilemma di non sapere più su cosa basare la propria arte, incerti tra l’imitazione diretta della natura (che oltretutto appare essa stessa ‘artificiosa’, creatrice di forme strane e terribili, che contraddicono i canoni di perfezione proporzionale del Rinascimento), l’imitazione degli Antichi (sempre presenti, e anzi ossessivi, dopo il recupero antiquario promosso nella Roma di Bramante e Raffaello), e l’imitazione dei Moderni (che, in modo indubitabile, hanno superato gli Antichi). È l’ultima strada quella che, fondendosi alle altre due, gradualmente si impone, con il nome di Maniera: un vocabolo allora di uso comune, col significato di ‘modo’, ‘comportamento’, e utilizzato dal pittore e storico Giorgio Vasari per indicare quegli artisti che si rifanno coerentemente a una ‘scuola’, a un codice riconoscibile di forme e di colori, a una ‘grammatica’ e ad una ‘poetica’ non individuale ma collettiva, e che appunto dipingono ‘alla maniera di’. Ne sarebbe derivata, nei secoli successivi, la definizione negativa di Manierismo, che, nell’ambito particolare della critica e della storia dell’arte, sarebbe stata applicata in generale allo sviluppo delle arti in Italia intorno alla metà del Cinquecento, e (in tempi più recenti, ma priva di connotazione negativa) anche alla produzione letteraria e poetica.

1.2. Guicciardini Di famiglia aristocratica vicina ai Medici, Francesco Guicciardini (Firenze 1483-Santa Margherita in Montici, Firenze 1540), oltre ad un’iniziale for-



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mazione umanistica con Marcello Virgilio Adriani (figura importante anche per Machiavelli), ha modo di compiere regolari studi universitari di diritto a Firenze, Ferrara e Padova (1498-1505), e di esercitare poi la professione di avvocato. La sua posizione politica è quella delle altre famiglie patrizie fiorentine, ostili alla repubblica del Soderini, e favorevoli al ritorno dei Medici, che avviene nel 1512, mentre Guicciardini sta svolgendo un incarico diplomatico in Spagna (1512-1514). Da quel momento le fortune di Guicciardini saranno sempre legate ai Medici: consigliere di Lorenzo reggitore di Firenze (il dedicatario del De principatibus di Machiavelli), governatore di Modena e Reggio per conto di papa Leone X (1516), presidente di Romagna (1524). Consigliere di papa Clemente VII, ne promuove l’adesione alla lega di Cognac, ma, in qualità di luogotenente generale delle truppe pontificie, assiste impotente alla catastrofe della sua politica, col Sacco di Roma e la ribellione di Firenze che torna a proclamarsi repubblica popolare (1527). È un momento difficile per Guicciardini, che si ritira in villa, e attende a opere apologetiche (come le orazioni Accusatoria, Consolatoria, Defensoria), e alla rielaborazione delle Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli e dei Ricordi. La restaurazione medicea (1530) lo riporta di nuovo vicino alle stanze del potere, prima con il duca Alessandro (ucciso nel 1537), poi con Cosimo, ma sempre di più in una condizione subalterna, senza reale incidenza sulla politica di accentramento del potere in chiave assolutistica, opposta all’ideale di repubblica oligarchica che era stato del giovane Guicciardini. Quell’ideale, ispirato al modello di Venezia, era stato espresso, ad esempio, nel Dialogo del reggimento di Firenze (ca. 1525), un dialogo ambientato alla fine del Quattrocento, e al quale prendevano parte, tra gli altri, il padre Piero Guicciardini, Pier Capponi, e lo sventurato Bernardo del Nero, fatto decapitare dal Savonarola nel 1497. Il dialogo evidenziava inoltre il rapporto stretto che Guicciardini ebbe sempre con Machiavelli, dal punto di vista sia della conoscenza personale (testimoniata da alcune bellissime lettere), che della lettura e dell’attenta riflessione sugli scritti del ‘segretario’. Riflessione che ne marcava però l’incolmabile distanza, nel superamento definitivo dell’orizzonte umanistico di fiducia nella lezione della storia e degli Antichi che ancora animava Machiavelli. Ritiratosi in villa nel 1527, Guicciardini scrisse infatti le penetranti Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli, che negavano la possibilità di trarre dall’analisi degli eventi storici (e in particolare dalla storia romana, secondo il racconto di Livio, oggetto dell’analisi di Machiavelli) valutazioni applicabili anche a situazioni contemporanee. Ogni evento costituisce un caso a sé stante, sostanzialmente irripetibile. Il medesimo orizzonte è sullo sfondo dei Ricordi, oltre duecento pensieri composti, rielaborati e ordinati in un progetto di ‘libro’ tra il 1512 e il

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1530. La tradizione fiorentina dei ‘libri di ricordi’, destinati primariamente alla circolazione privata entro la cerchia familiare dei destinatari (i figli o gli eredi, a cui lo scrivente cerca di trasmettere la sua esperienza della vita), viene superata dal fatto che si tratta di scrittura privatissima, quasi senza destinatario se non lo stesso autore, che se ne serve come amaro specchio di se stesso e dell’umano. Un intenso esercizio di stile, che tende verso la condensazione del pensiero in periodi brevi e densissimi, indipendenti e autonomi, nella forma dell’aforisma, come lo erano stati molti pensieri di Leonardo, o di grandi autori antichi (Marc’Aurelio). Le idee critiche che affiorano nella lettura dei Discorsi di Machiavelli qui si fanno principi negativi, contro il giudicare “per gli essempli” e l’imitazione degli antichi: “Quanto si ingannono coloro che a ogni parola allegano e Romani!” (Ricordi CX). È una posizione che si colloca consapevolmente al di là della civiltà umanistica, e del classicismo retorico ancora imperante. Non più l’ottimismo della ragione ‘misura di tutte le cose’, ma il pessimismo sulla possibilità di previsione degli eventi. Le variabili che sfuggono alla comprensione umana sono così tante e imponderabili che il caso acquista una dimensione enorme, e si vanificano gli sforzi della virtù per porre riparo al potere della fortuna. Resta allora, in Guicciardini, il principio della discrezione, termine che indica precisamente la capacità di discernimento, di valutazione di ogni situazione per se stessa, nell’insieme delle circostanze che la determinano. Un ‘saper vedere’, che scende in profondità, analizza l’oggetto (la vita degli uomini e il loro agire politico) con l’aiuto di una lente d’ingrandimento, che ingigantisce il dettaglio, il ‘particulare’. È nell’analisi del ‘particulare’ (inteso sia come ‘dettaglio’ di una situazione, che come interesse privato dell’osservatore) che trova allora piena espressione la prudenza (ora preferita alla ‘virtù’ di Machiavelli), capacità di sopravvivere all’imprevedibile mutabilità dei tempi e delle condizioni politiche. Il pessimismo critico nei confronti del reale non impedì però al Guicciardini di cimentarsi nella storiografia, genere importante nella tradizione umanistica e civile fiorentina, fino a Machiavelli. Abbandonata l’esemplarità degli Antichi, prevale il forte interesse per il contemporaneo, nelle giovanili e incompiute Storie fiorentine (1508-1511) dedicate al periodo 1494-1509; e soprattutto nel capolavoro della Storia d’Italia (1537-1540, pubblicata a Firenze nel 1561-64). La Storia si distende in venti libri su appena quarant’anni (1492-1534, dalla morte di Lorenzo il Magnifico a quella di Clemente VII), grandioso affresco della rovina d’Italia raccontata da un testimone diretto che ricerca minuziosamente le cause degli errori degli uomini. Il suo stile, ampio e grave, si eleva al livello di quella tragedia, nella definizione psicologico-morale dei personaggi e degli attori, nell’impostazione retorica dei



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grandi discorsi. Era, in definitiva, la cronaca di un fenomeno epocale, la crisi e la fine del Rinascimento italiano, la cui eredità, però, si diffondeva ormai a tutta l’Europa.

1.3. Dibattiti di lingua e di poetica La scuola umanistica, nel momento della crisi e della metamorfosi, trasmette il suo insegnamento anche alla letteratura in volgare, che fino ad allora si era sviluppata con una certa libertà di sperimentazione linguistica e stilistica. Nasce allora una questione della lingua, da intendere soprattutto come il problema di definire uno strumento di comunicazione in ambito letterario e culturale, condiviso in tutte le regioni della penisola, e quindi compiutamente ‘italiano’, e non più solo ‘toscano’, ‘fiorentino’, ‘napoletano’ o ‘lombardo’. Una lingua letteraria comune, con un suo vocabolario, una sua grammatica, e anche con le sue regole di grafia e interpunzione. Sembrerà strano, ma la richiesta più forte per l’elaborazione di questa lingua ‘media’ non veniva da Firenze, o dalla Toscana, che aveva comunque fornito i modelli linguistici e stilistici di fondo (soprattutto Petrarca e Boccaccio). Le città in cui si era perseguito con maggior insistenza questo obiettivo erano Napoli (con Sannazaro), e Venezia, capitale dell’editoria italiana ed europea, dove l’edizione dei testi letterari in volgare esigeva anche la fissazione di regole grafiche e ortografiche stabili e accettate da un più ampio pubblico di lettori a livello sovraregionale. In area veneta, e in contesto umanistico, nascono quindi i primi tentativi di dare ‘regole’ alla lingua volgare, riprendendo i metodi della filologia umanistica, con Giovan Francesco Fortunio, autore delle Regole grammaticali della volgar lingua (1516). L’articolazione però più coerente fu quella proposta da Pietro Bembo, con le Prose della volgar lingua (1525), che in certo senso ‘fondarono’ la lingua letteraria italiana sulla base della lingua letteraria fiorentina del Trecento, ricostruita nell’imitazione dei grandi modelli toscani del Trecento, soprattutto Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa (assimilati a quel che veniva proposto per la letteratura latina con Virgilio e Cicerone). La soluzione bembiana era destinata a vincere nel tempo perché più rispondente all’orizzonte di attesa di un’epoca di inquietudine (politica, culturale, religiosa) che chiedeva certezze e regole; e anche perché sostanzialmente astorica, astratta, recepibile anche in contesti lontani o radicalmente mutati. All’inizio le si opposero quanti erano ancora legati al mondo cortigiano, in cui si utilizzava una sorta di lingua mista comune, di elevato livello sociale, segno identitario di riconoscimento di quanti vivevano nelle corti italiane del tardo Rinascimento, principi, funzionari, intellettuali, umanisti,

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funzionari e segretari di diversa estrazione regionale. È la cosiddetta lingua cortigiana, difesa nella variante ‘romana’ (la lingua volgare parlata nella corte pontificia) da Mario Equicola, o in quella più ampia ed equilibrata, sovraregionale, adottata da Baldassar Castiglione nel Cortegiano. Un aiuto insperato alla soluzione ‘cortigiana’ sembrò darlo addirittura la voce del ‘padre’ della letteratura volgare, Dante Alighieri (in parte svalutato dal Bembo come modello linguistico e stilistico), grazie alla riscoperta del trattato De vulgari eloquentia, che venne interpretato (non correttamente) come la proposta di un “italiano illustre”, di una “lingua italiana” cioè “cortigiana e commune” basata sui principali dialetti regionali, e non sul solo fiorentino letterario. Fu questa la posizione di Giovan Giorgio Trissino (Vicenza 1478-Roma 1550), esposta nella curiosa Epistola de le lettere nuovamente aggiunte ne la lingua italiana (1524, rivoluzionaria ma fallimentare proposta di inventare nuovi segni grafici, tratti dal greco, per indicare i diversi valori fonetici della lingua italiana), e nel dialogo Il Castellano (1529). Il Trissino ebbe comunque il merito di allargare la sua riflessione dalla lingua al dibattito poetico e sui generi letterari, come dimostrano la sua Poetica (1529), e i generosi tentativi di inaugurare nella letteratura italiana nuovi generi non ancora provati, come il poema epico storico L’Italia liberata dai Goti, in endecasillabi sciolti, sulle antiche vicende della Guerra Gotica del VI secolo, ma con allusione alla realtà contemporanea dell’Italia invasa da Francesi e Spagnoli; e la tragedia Sofonisba (1524), tratta dalla storia d’amore narrata da Petrarca nell’Africa e nei Trionfi e ambientata nella Seconda Guerra Punica, tragedia del conflitto universale fra l’amore e il senso del dovere. Paradossalmente (ma non tanto) i principali avversari di questa nuova lingua ‘italiana’ (sia essa derivata dal fiorentino letterario, sia essa ‘cortigiana’) sono all’inizio proprio i fiorentini, che propugnano la difesa ad oltranza della lingua fiorentina viva, della parlata contemporanea del popolo fiorentino, con tutte le sue caratteristiche fonetiche e grammaticali: posizione assunta da Machiavelli, e ribadita poi da Giambattista Gelli. Quando ormai, dopo gli anni Quaranta, la proposta bembiana prevale su tutte le altre, è possibile arrivare ad una forma più equilibrata, in cui alla ormai riconosciuta imitazione dei modelli letterari si accosta la nuova dimensione moderna del volgare toscano, depurata da ogni eccesso popolare o vernacolare negli importanti Dialoghi (1542, e in particolare nel Dialogo delle lingue) del professore padovano Sperone Speroni (Padova 1500-1588). La sintesi della linea fiorentina e bembiana è attuata nell’Hercolano (ed. 1570) di Benedetto Varchi (Firenze 1503-1565), che torna a dare valore alla lingua d’uso e al fiorentino, osteggiato però ferocemente da Girolamo Muzio nelle Battaglie in



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difesa dell’italica lingua (1582): e si potrebbe dire che la lingua italiana nasca veramente quando le ragioni del Bembo sono fatte proprie anche da Firenze. I tempi sono allora maturi perché, nella seconda metà del Cinquecento, a Firenze, cominci una grande stagione di filologia, per stabilire su solide basi testuali quale sia la tradizione letteraria fiorentina e toscana su cui basare la lingua italiana. La filologia italiana nasce soprattutto nel Cinquecento, con il recupero dei manoscritti della poesia e della prosa delle origini (si pensi alla riscoperta del Libro di novelle e di bel parlar gentile, ribattezzato Le ciento novelle antike e poi Novellino), ma anche di Dante e Petrarca. Uno dei più grandi filologi fu il monaco benedettino Vincenzo Maria Borghini (Firenze 1515-1580), che però, influenzato dai principi di censura morale della Chiesa Cattolica, realizzò un’incredibile edizione del Decameron (1573, la cosiddetta “rassettatura”), in cui il testo risultava molto più corretto, sulla base di autorevoli manoscritti, ma anche ‘purgato’ delle novelle e delle situazioni erotiche più licenziose. Poco dopo la sua morte, ad opera dell’amico Lionardo Salviati (Firenze 1540-1589), venne fondata l’Accademia della Crusca (1583), così chiamata perché finalizzata a separare la ‘farina’ dalla ‘crusca’, cioè la lingua letteraria eccellente (ricavata dai migliori autori toscani “dall’aureo milletrecento fino al millequattrocento”) dai prodotti dialettali, popolari, regionali, contaminati, considerati comunque deteriori. Un grande lavoro di spoglio degli ‘autori’, che approdò alla prima edizione del Vocabolario (1612): fondazione di un canone linguistico e letterario, di una norma sovratemporale destinata a durare nei secoli successivi. La formazione del canone avveniva non solo su basi filologiche, ma anche interpretative. Il Cinquecento vede estendersi la pratica dei commenti, desunta dalla scuola umanistica, e applicata sempre di più ai grandi classici moderni in volgare (seguendo una tradizione comunque già quattrocentesca): in particolare (rispetto a un graduale declino di Dante), Petrarca, fondamentale modello stilistico, oggetto di molteplici commenti, da Alessandro Vellutello (1525) a Bernardino Daniello (1541, sulle fonti classiche), dal meridionale Giovan Andrea Gesualdo (1533, sulla lingua e lo stile) a Ludovico Castelvetro (1576, sulla morale e l’estetica). Su tutto, un’attenzione nuova e vivissima ai problemi della poetica. Innanzitutto sulla questione dell’imitazione, retaggio delle polemiche umanistiche tra Poliziano e Cortesi, e tra Bembo e Gianfrancesco Pico. L’opposizione di fondo è tra classicismo-ciceronianismo da una parte, e difesa della libertà di composizione dall’altra. Ad un certo punto, questa opposizione fu avvertita quasi come uno scontro tra la civiltà umanistica italiana, ancorata ai Classici pagani e alla dottrina dell’imitazione, e l’Europa moderna, nel

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violento dialogo di Erasmo intitolato Ciceroniano, che diede l’avvio ad una lunga serie di scritti sul tema dell’imitazione, fino alla Poetica di Giulio Cesare Scaligero (1561). Un altro tema comune fu quello della definizione del sistema dei generi, radicalmente mutato dopo il Rinascimento, e affrontato nell’Arte poetica di Antonio Minturno. In quest’ambito ad esempio si accende la discussione sul genere romanzesco ed epico-cavalleresco, nella quale si registra l’importante opera critica di Giambattista Giraldi Cinzio (Ferrara 1504-1573, scrittore di teatro e di novelle), Discorso intorno al comporre dei romanzi (1549), decisivo riconoscimento dell’eccellenza dell’Ariosto.

1.4. La poesia Nel Cinquecento cambiano completamente gli orizzonti della produzione e della fruizione della poesia. Non più la circolazione ‘protetta’ della poesia cortigiana, ma l’allargamento del pubblico, favorito dalla diffusione del libro a stampa, ad un mondo di lettori gentiluomini e soprattutto borghesi, da un capo all’altro della penisola. Per la poesia lirica, questo avviene soprattutto grazie alla diffusione del petrarchismo ‘regolare’, iniziato da Cariteo e Sannazaro a Napoli e Ariosto a Ferrara, e canonizzato dal Bembo con le Prose della volgar lingua (1525): e un vero momento di svolta (quasi un anno di nascita del petrarchismo italiano moderno) i contemporanei avvertirono nel 1530, con la pubblicazione simultanea di due importanti raccolte di rime, quelle di Sannazaro e del Bembo. Nell’ambito della dottrina dell’imitazione, i nuovi strumenti dei petrarchisti furono anche i rimari e i vocabolari della lingua poetica, mentre la diffusione dei loro testi veniva assicurata, oltre che dalla pubblicazione di canzonieri individuali, soprattutto dalla compilazione di antologie, di raccolte di rime, curate dagli intelligenti editors veneziani che lavoravano per Giolito (Lodovico Dolce, Girolamo Ruscelli). Un segno importante del fatto che il petrarchismo, più che un fatto individuale (a parte alcune isolate e grandi personalità), è un grande fenomeno collettivo. Un grado particolare di elaborazione formale raggiunse Giovanni Della Casa, l’autore del Galateo, che nelle sue Rime approfondì l’analisi del ritmo interno del verso, e l’uso di figure come l’enjambement (allora detto ‘inarcatura’), che lega un verso all’altro in un’unica onda musicale: in particolare il sonetto appare modellato in una forma nuova, come se fosse un epigramma moderno. Tra petrarchisti come Giovanni Guidiccioni (Lucca 1500-1541) e Bernardo Cappello (Venezia 1498-1565, ortodosso imitatore di Petrarca) si distinse poi Bernardo Tasso (Venezia 1493-Ostiglia 1569), padre di Torquato, di origine bergamasca, che fu anche cortigiano al servizio di



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Ferrante Sanseverino principe di Salerno (tra 1532 e 1554), e che raccolse la sua ampia produzione lirica nelle Rime (1560), esempio di un cammino che va oltre il petrarchismo, nei territori dell’ode e dell’inno. Ne sono prova anche i tentativi tassiani per il rinnovamento dell’epica cavalleresca, con lo smisurato poema Amadigi, in cento canti, ripresa dell’Amadís de Gaula dello spagnolo García Rodríguez de Montalvo, archetipo della tradizione del cavaliere errante che arriverà al Don Chisciotte di Cervantes. Alla lunga presenza di Bernardo Tasso a Napoli e alla tradizione di Sannazaro si lega una sorta di ‘scuola napoletana’ (sancita dall’edizione giolitina curata dal Dolce nel 1552, Rime di diversi illustri signori napoletani ), a cui appartengono Luigi Tansillo (Venosa 1510-Teano 1568), sensibile e vivace cantore anche del mondo georgico e agreste nei poemetti Il Vendemmiatore e Il Podere, e Berardino Rota (Napoli 1509-1575), imitatore di Sannazaro nelle sue Egloghe piscatorie. Isolato invece nella sua condizione di barone calabrese, violento antagonista delle rivendicazioni del suo popolo ma anche ribelle all’autorità spagnola e perciò incarcerato a Napoli, è Galeazzo Di Tarsia (Napoli 1520-1553), che elabora un suo personale e intellettualistico petrarchismo, sintatticamente e linguisticamente difficile, sfogo della propria condizione esistenziale. Un fenomeno nuovo e importante, anch’esso consacrato da un’edizione collettiva (Rime diverse d’alcune nobilissime donne, a cura di Lodovico Domenichi, Lucca 1559), è quello della produzione poetica di donne scrittrici, da interpretare però non come ‘gruppo’ o ‘scuola’, ma come categoria riflessa di un’età che comincia a riconoscere alla donna un valore e un peso crescenti nella società e nella cultura (come avviene già nel Cortegiano). La loro poesia si colloca all’interno di un petrarchismo formalmente ortodosso, ma con l’approfondimento di tematiche che ne individuano (agli occhi dei lettori contemporanei) la categoria ‘femminile’: il senso dell’attesa nei confronti di una realtà ‘altra’ (l’uomo, il marito o l’amante, o il Divino), il rapporto amoroso (naturalmente vissuto dal punto di vista femminile), la consapevolezza della propria non sempre facile condizione umana, e anche economica e sociale (in particolare per quelle scrittrici che esercitavano la professione ‘più antica del mondo’). Una tipologia frequente, dal punto di vista formale, è quella dell’epistola poetica, della poesia che ha bisogno di rivolgersi ad un interlocutore (di solito l’uomo, lontano o assente): l’evidente modello era quello delle Eroidi ovidiane, che Boccaccio aveva per la prima volta ricreato in volgare nell’Elegia di Madonna Fiammetta. All’inizio si tratta di grandi signore feudali, che si sono trovate (per la morte del marito) in una precoce condizione di vedovanza e solitudine, e

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che hanno dovuto amministrare direttamente e con singolare energia i propri beni, come nel caso di Veronica Gambara (Brescia 1485-Correggio 1550), signora di Correggio dopo la morte del marito Gilberto da Correggio (1518); e soprattutto di Vittoria Colonna (Marino 1490-Roma 1547), marchesa di Pescara, vedova del condottiero Francesco Ferdinando d’Avalos e perciò a lungo dimorante in Ischia e a Napoli, nelle dimore degli Avalos, e poi tornata a Roma, a stretto contatto con gli ambienti riformisti italiani (Reginald Pole, Bernardino Ochino, Juan de Valdés). Con Vittoria si assiste al passaggio dalla lirica amorosa cortigiana alla poesia spirituale e platonizzante, sempre nelle forme del petrarchismo, ma con la forte presenza di tematiche tipiche della ‘scrittura femminile’: l’amore e il tempo dell’attesa, declinate, nella poesia religiosa, in una serie di intense riprese dal Cantico dei Cantici, nel rapporto tra la Sposa e il suo Amato. Spicca comunque in Vittoria (cantata anche dai contemporanei come esempio di una virtù più ‘virile’ di quella degli uomini) il senso del superamento delle barriere di genere, ripreso anche nella sua continuatrice Laura Terracina (Napoli ca. 1510-ca. 1577), che, tra sperimentalismo metrico e intenso uso di un linguaggio metaforico, si distinguerà nella scrittura delle proprie rime utilizzando per se stessa il genere maschile. Platonizzanti animatrici di circoli culturali saranno Chiara Matraini (Lucca 1514-ca. 1597), e Laura Battiferri Ammannati (Firenze 1523-1589), eternata in un ritratto del Bronzino col piccolo libro di rime in mano. Ispiratrici di letterati, ed ‘etere’ moderne, saranno anche le grandi cortigiane veneziane, come Gaspara Stampa (Padova 1523-Venezia 1554, una giovane nobile che diventa “cortigiana onesta”, e che racconta nella propria poesia la sua relazione erotica con il conte Collatino di Collalto), e Veronica Franco (Venezia 1546-1591), rinomata prostituta che frequentava il circolo letterario del nobile Domenico Venier. Un caso unico, nella storia delle poetesse del Cinquecento, è infine quello di Isabella di Morra (Valsinni di Matera 1520-1546), sventurata secondogenita del barone di Favale, che fu spietatamente uccisa dai fratelli a causa del suo amore clandestino col nobile spagnolo Diego Sandoval de Castro (ucciso poi anche lui). In una vicenda così crudele (e purtroppo non infrequente, tra Medioevo ed età moderna, espressione di un mondo di violenza e di sopraffazione in cui spesso la donna era vittima innocente), Isabella lascia una testimonianza straordinaria, in appena dieci sonetti e tre canzoni, del suo desiderio di amore e libertà, che, grazie alla poesia, sopravvive all’odio dei suoi carnefici. Un altro caso a parte è dato dalla produzione poetica di uno dei più grandi artisti della storia, Michelangelo Buonarroti (Caprese 1475-Roma 1564), che trovò fin da giovane nella poesia un fondamentale strumento di espressione, autonomo rispetto alle arti figurative. Ma era uno strumento difficile, per chi



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come lui era tormentato da una difficile condizione esistenziale, nel rapporto con gli altri uomini, e con l’arte stessa. C’è sì imitazione delle forme di Petrarca, e anche del visionarismo di Dante, ma secondo un cammino del tutto individuale: è una faticosa conquista, una continua battaglia con le ‘cose’ che si fanno ‘parole’, segni intelligibili, così come la pietra, il blocco di marmo, è con fatica scolpito affinché ne emerga una forma perfetta interiore, un’idea, in senso platonico. Michelangelo tratta quindi di tematiche vicine alla sua vita di artista, come in Non ha l’ottimo artista alcun concetto, o addirittura guardandosi con ironia, al tempo in cui dipingeva gli affreschi della volta nella Cappella Sistina (1512), nell’autocaricatura I’ ho già fatto un gozzo in questo stento; ma è anche pronto a sdegnarsi per la corruzione della Chiesa, e il tradimento degli ideali evangelici da parte del terribile papa guerriero Giulio II in Qua si fa elmi di calici e spade. Per lui (omosessuale, e preso dallo slancio erotico verso il bellissimo giovane patrizio romano Tommaso de’ Cavalieri) fu allora decisivo il nuovo incontro con il ‘femminile’, nella persona di Vittoria Colonna (idealizzata non a caso nel mirabile madrigale Un uomo in una donna, anzi uno idio), con cui attuò, nella maturità, un eccezionale scambio poetico e spirituale, nell’interrogazione di un’oscura Divinità dalla quale l’artista sentiva un angoscioso senso di separazione e dannazione. “Tacete unquanco, pallide viole, / e liquidi cristalli e fiere snelle; / e’ dice cose, e voi dite parole”. Questi versi di elogio della poesia di Michelangelo, e di critica di un petrarchismo di sole ‘parole’, furono scritti da Francesco Berni (Lamporecchio 1497-Firenze 1535), che passò la sua vita al servizio di vari cardinali, soprattutto a Roma dal 1517 in poi, esponente di un antipetrarchismo (celebre il sonetto Chiome d’argento fino, irte e attorte, rovesciamento del canone della bellezza ideale, e parodia del sonetto del Bembo Crin d’oro crespo; o il Dialogo contra i poeti ) che si esprime soprattutto nella forma del capitolo satirico in terzine, nei modi dell’erotismo e dell’oscenità burlesca, che venne appunto in seguito definita ‘bernesca’; ma il Berni, nonostante il suo apparente ribellismo, lavorò comunque all’interno di un sistema culturale che tendeva a rendere omogenee le diversità (suo fu ad esempio il rifacimento toscaneggiante dell’Orlando Innamorato che girerà poi a nome suo, e non del Boiardo), e a non capire alcuni autentici tentativi di rinnovamento morale (come nell’ingeneroso capitolo contro il papa straniero Adriano VII). Altre modalità diverse dalla lirica petrarchesca erano quelle della poesia didascalica, di ispirazione virgiliana, genere che fu percorso con i poemetti Le api di Giovanni di Bernardo Rucellai (1524), La coltivazione di Luigi Alamanni (1530), la Ninfa Tiberina di Francesco Maria Molza (1537), fino al Tansillo.

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Di fronte al trionfo della poesia in volgare, la poesia latina raggiunse nello spazio di una generazione il suo apogeo, e il suo velocissimo tramonto, con i grandi poemi sacri di Sannazaro (De partu Virginis) e Marco Girolamo Vida (Christias, 1527), e il poema scientifico del medico veronese Girolamo Fracastoro (Syphilis sive de morbo gallico, 1530), sull’attualissimo tema dell’origine e della diffusione della terribile epidemia di sifilide che aveva devastato l’Europa dopo la scoperta dell’America. Non mancarono raffinatissimi autori di elegie ed epigrammi, cantori di un eros sensuale, ad imitazione degli antichi (Catullo, Marziale, i lirici greci). Ma la forza espressiva del latino, coniugata felicemente con la lingua viva degli studenti universitari e con i dialetti popolari del Nord, diede origine ad un eccezionale esperimento linguistico, che sorprende per la sua libertà d’invenzione e di risultati, sullo sfondo di questo secolo di ‘regole’. È la cosiddetta poesia maccheronica, chiamata così dal titolo di un poemetto di un certo Tifi Odasi, Macaronea (1490), scritto nel vivace ambiente dell’università di Padova, e i cui personaggi sono ghiotti di un tipo particolare di gnocchi detti ‘macaroni’. La lingua utilizzata non è il latino, ma uno strano linguaggio artificiale, che utilizza su una base grammaticale latina parole volgari o dialettali, e talvolta anche i costrutti sintattici. Ne nasce un irresistibile effetto comico, di parodia della lingua ‘alta’ dei pedanti e dei preti. L’autore più grande fu Girolamo Folengo (Mantova 1491-Bassano 1544), poi monaco benedettino col nome di Teofilo Folengo, e autore maccheronico col nome di Merlin Cocai. Teofilo, oltre a operette minori maccheroniche (Moschaea, poemetto omerico sulla guerra di mosche e formiche; e le egloghe della Zanitonella), latine (Varium poema) e italiane (il curioso Orlandino sull’infanzia del celebre paladino, e lo strano dialogo del Chaos del Triperuno), attese al suo capolavoro, il Baldus, poema eroicomico sulle gesta di Baldo, figlio del paladino Guidone e di Baldovina figlia del re di Francia, ma fatto nascere in realtà nell’oscuro villaggio di Cipada presso Mantova. Prevale quindi lo sfondo contadino, nel contrasto comico fra ideale cavalleresco e banalità quotidiana che sarà poi tipico di Cervantes (ad esempio il fanciullo Baldo legge solo libri di cavalleria, come don Chisciotte, e di tutti gli altri fa scartozzos e ci cuoce le salsiccie). Si susseguono avventure incredibili in mari e paesi esotici, scontri con pirati, epiche abbuffate, e perfino la discesa all’inferno. Più che una compagnia di cavalieri erranti, sembra una banda di ribaldi, come in Pulci e Rabelais (anch’essi cantori del grottesco e dell’immane), con personaggi memorabili come il gigante Fracasso, il diabolico semigigante Cingar, il mezzo uomo Falchetto, che nell’ultima parte (purtroppo incompiuta) finiscono tutti travolti dalla follia nella casa della Fantasia, una zucca vuota (come in certi



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quadri di Hieronymus Bosch) in cui viene punito anche l’autore del poema, e di tutti i suoi vaneggiamenti. Oltre la metà del Cinquecento il petrarchismo sembra ingaggiare una battaglia formale col modello, in una sorta di scrittura di secondo grado, combinatoria e artificiosa, in cui i poeti cercano di esaurire tutte le possibilità espressive all’interno di un codice ristretto e definito; in modo, tutto sommato, non dissimile dall’ardua sperimentazione dei colori e delle forme che, nella stessa epoca, tentano i pittori italiani che si richiamano alla ‘maniera’ dei grandi artisti del primo Cinquecento (Leonardo, Raffaello, e soprattutto Michelangelo), e che vengono perciò detti ‘manieristi’. Il manierismo, in letteratura, porta ad un’estenuazione degli artifici formali, come nell’immenso Nuovo Petrarca (1560) del napoletano Ludovico Paterno (Napoli 1533-ca. 1575). Un esito paradossale è addirittura l’a-petrarchismo, di cui è un esempio significativo Ferrante Carafa marchese di Sanlucido (Napoli 1509-1587), autore dell’Austria (1573) sulla battaglia di Lepanto, vero stravolgimento della forma metrica del sonetto, e della religiosa Carafé (1580). In effetti, tra le forme metriche prevale ora il madrigale, modulato con grande libertà di soluzioni che tendono soprattutto alla fusione di poesia e musica, alla creazione di testi il più possibile aperti ad una eventuale esecuzione musicale di tipo polifonico. Ma emergono anche, nello scenario inquieto dell’Europa della Riforma e della Controriforma, nuove preoccupazioni religiose e morali, e un persistente senso della caducità delle cose, della morte, come nelle poesie di Celio Magno (Venezia 1536-1602), anch’egli, come Veronica Franco, partecipante al circolo del Venier, ma poi piegato sull’espressione di temi funebri e lugubri, di un trionfo del tempo e della morte che prelude a ben altri temi del secolo successivo. Una via personale al superamento del petrarchismo, all’interno del classicismo, seguì infine l’aristocratico ligure Gabriello Chiabrera (Savona 15521638), che si avvalse di un’intensa educazione gesuitica sui classici latini e greci e di un forte rapporto con la cultura francese, dove la scuola umanistica e il classicismo greco avevano favorito la nascita della nuova poesia di Ronsard e della Pléiade. Era una poesia basata sulla rigorosa imitazione dell’antica metrica greca, ad esempio degli inni di Pindaro, con scansione strofica e misure dei versi intentate nella poesia italiana, spesso brevissimi o parisillabi, con sorprendenti rime baciate, e invenzione di nuovi ritmi. Una poesia ‘classicheggiante’ e ‘alla greca’, non classicista o manierista, singolare esperimento che, nella ricerca di un nuovo registro eroico, e talvolta teatrale, avrebbe anch’essa consentito di guardare al futuro, nell’evoluzione delle forme poetiche.

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1.5. La prosa Nelle intenzioni del Bembo la prosa avrebbe dovuto conformarsi al modello di Boccaccio, e in parte egli stesso aveva cercato di seguire quel modello nella scrittura degli Asolani. Per fortuna, l’evoluzione successiva della prosa italiana non seguì quelle indicazioni, ma cercò di attuare un compromesso equilibrato tra periodare boccacciano, influenze latineggianti, e lingua parlata, viva. Un esempio importante è dato, a metà del secolo, da monsignor Giovanni Della Casa (Firenze 1503-Roma 1556), un ecclesiastico che fece prima carriera nella corte di Paolo III Farnese, poi a Venezia come nunzio apostolico, e infine a Roma come segretario di stato di Paolo IV Carafa; personaggio emblematico del suo tempo, che si formò nell’ambiente licenzioso e ancora umanistico della Roma di Clemente VII, mentre alla fine della sua vita mise la sua opera al servizio della Controriforma, contribuendo alla prima stesura dell’Indice dei libri proibiti. Le sue operette latine sono legate a tematiche etico-comportamentali ancora in voga nelle corti contemporanee: l’An uxor sit ducenda (‘se bisogna sposarsi’) è un trattatello misogino in cui si dimostra che per l’intellettuale è meglio non prender moglie, mentre il De officiis inter potentiores et tenuiores amicos affronta il problema dei rapporti tra i signori e i loro subalterni. Più che a questi testi, e alle sue celebrate rime petrarchiste, il Della Casa deve la sua fama all’opuscolo Il Galateo (1553-1555), così chiamato dal nome del dedicatario, Galeazzo Florimonte vescovo di Aquino. Nel testo l’autore si finge un “vecchio idiota” che cerca di educare un giovane ai buoni costumi, e si rivolge in realtà ad un pubblico borghese medio, con un linguaggio di facile comunicazione. Dominante è l’influenza dell’Etica aristotelica, nel senso che la ricerca di un comportamento adeguato ha valore non per se stessa, per un vuoto formalismo, ma perché si tratta di un elemento distintivo del vivere civile, per mezzo del quale l’uomo si rende accetto all’altro uomo, cercando di evitare al suo prossimo ogni occasione di fastidio o dispiacere. L’enorme fortuna dell’opera a livello europeo corrispose quindi al bisogno delle nuove classi dominanti di riconoscersi in un manuale moderno di comportamento, leggibile più agevolmente di un ponderoso trattato filosofico, e riducibile all’occorrenza in una minuta precettistica, da utilizzare nell’educazione domestica dei fanciulli. L’esito estremo, se vogliamo, della parabola della pedagogia umanistica, alle soglie dell’età moderna. Il Galateo costituiva anche un ottimo esempio della nuova prosa italiana. Ne aveva dato già alcune prove un altro religioso toscano gravitante intorno alla corte romana, Agnolo Firenzuola (Firenze 1493-Prato 1543),



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negli incompiuti Ragionamenti d’amore, un prosimetro strutturato come una cornice decameroniana, in giornate; e nella curiosa Prima veste de’ discorsi degli animali (1540), favole moraleggianti del mondo degli animali che addirittura derivavano (tramite un’avventurosa vicenda di traduzioni) dall’antica raccolta indiana del Panciatantra. Sempre a Firenze, ma più vicino alle forme della letteratura popolare, è l’artigiano e calzolaio Giovan Battista Gelli (Firenze 1498-1563), che, familiare del granduca Cosimo, farà addirittura parte dell’Accademia Fiorentina. Gelli è autore dei Capricci del bottaio (finti monologhi moralistici di un bottaio di nome Giusto, controfigura dell’autore), e della Circe (1549), in cui (riprendendo la leggenda narrata nell’Odissea, secondo la quale la maga Circe tramutava gli uomini in animali) si immagina che le bestie di Circe rifiutino di tornare uomini. Il rovesciamento comico (come nell’Elogio della follia di Erasmo) dimostra non l’eccellenza ma la pazzia e la sventura dell’uomo. Per fortuna, alla fine, il solo elefante accetta di tornare ciò che era un tempo, richiamando gli argomenti umanistici (Manetti e Pico) sul primato e sulla dignità dell’essere umano. Chi veramente rinnova l’espressione in prosa, trascorrendo da un genere all’altro, contaminando poesia e teatro, libellistica ed epistolografia, ed esercitando un’influenza profonda sulla cultura contemporanea è Pietro Aretino (Arezzo 1492-Venezia 1556), intellettuale irregolare che, dopo un soggiorno a Roma tra 1517 e 1524, trascorrerà la sua vita soprattutto a Venezia. Venezia era la capitale di quell’editoria dalla quale l’Aretino è il primo intellettuale italiano a trarre regolari mezzi di sostentamento, utilizzando i nuovi strumenti di comunicazione come potente cassa di risonanza delle sue opere, e delle sue prese di posizione, culturali e politiche. Uomo di scandalo fu l’Aretino, fin dai primi licenziosissimi Sonetti lussuriosi (1524), stampati con eloquenti incisioni di Marcantonio Raimondi, e dalle Sei giornate (1534-1536), dialoghi fra le cortigiane Nanna, Antonia e Pippa, in cui si descrive il vivace mondo delle prostitute d’alto bordo e s’insegna il mestiere alla più giovane. Ma fu soprattutto stratega della comunicazione, con le sue scritture teatrali, e con le sue lettere, straordinarie nello stile e nella vivacità linguistica, finzione di realismo e naturalezza che colpì moltissimo il pubblico, come dimostra il successo clamoroso del Primo libro de le lettere (1538). L’Aretino era però accorto a non infastidire troppo i potenti, cosa che non seppe imparare troppo bene il suo allievo e amicissimo (e poi inimicissimo) Niccolò Franco (Benevento 1515-Roma 1570), che sarebbe finito schiacciato dalle lotte di potere seguite alla morte di papa Paolo IV, e impiccato dall’Inquisizione. Nonostante i suoi estremismi e il suo stile mordace, Niccolò è un attento testimone dei suoi tempi, in opere come le Pìstole volgari e i Dialoghi piacevoli,

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e soprattutto nel dialogo Il Petrarchista (1539), satira dell’idolatria petrarchista contemporanea. L’epistolografia è uno dei generi più fortunati, nella prosa del Cinquecento, e lo provano le innumerevoli raccolte collettive di lettere prodotte a Venezia. Ma è anche il tempo dei ‘poligrafi’, cioè di quegli scrittori che, legati a qualche impresa editoriale, si mettono a pubblicare e a scrivere di tutto, come Anton Francesco Doni (Firenze 1513-1574), autore di opere singolari (anche per la non comune intelligenza delle correnti artistiche contemporanee) come I Marmi, La Zucca, I Mondi, Libraria prima e Libraria seconda, oltre che di molte Lettere. O ancora come Francesco Sansovino (Venezia 1521-1583), che identifica ne Il Segretario il nuovo ruolo del moderno uomo di lettere, non più ‘umanista’ o ‘cortigiano’: tematica poi ripresa da Giulio Cesare Capaccio e Tommaso Costo, Angelo Ingegneri e Battista Guarini. Infinite sono ormai le ‘professioni’ e i ‘mestieri’ ai quali deve adattarsi il letterato, nella complessità e nell’insicurezza della vita moderna. Sempre più ampio è l’enciclopedismo, con i suoi moduli ripetitivi e seriali, di accumulazione infinita delle informazioni, e un esempio illuminante ne sono le compilazioni di Tommaso Garzoni, La piazza universale di tutte le professioni del mondo (1585), e L’Hospidale de’ pazzi incurabili (1586), grandi affreschi della vita quotidiana dell’epoca. La trattatistica è il contenitore multiforme adattabile a qualunque forma di contenuto, e in genere strutturato nella modalità del dialogo, che consentiva una ricezione migliore, e in cui la ricerca della verità veniva presentata come un processo di incontro tra interlocutori diversi, senza dogmatismi o pregiudizi. In generale, i modelli di comportamento di questa civiltà del ‘dialogo’ e della ‘conversazione’, ereditati dalla pedagogia umanistica per il tramite del Cortegiano e del Galateo, arriveranno fino all’importante trattato del nobile Stefano Guazzo (Casale Monferrato 1530-Pavia 1593), La civil conversazione (1574), che segnerà il punto di riferimento delle classi dirigenti nella società di antico regime. Dopo Ficino, Bembo e l’Equicola, sulla fortunata tematica de amore scrive Leone Ebreo (Lisbona ca.1460-Napoli dopo il 1521), un ebreo portoghese rifugiatosi a Napoli per sfuggire alle persecuzioni, autore dei platonizzanti Dialoghi d’Amore (ed. 1535) che si svolgono tra l’autore-amante (Filone) e la donna amata allegoria della Sapienza (Sofia); e poi la cortigiana Tullia d’Aragona (Venezia 1510-1556), autrice del Dialogo della infinità di amore (1547). La lingua della filosofia resta il latino, anche se adattato a contesti diversi: ad esempio, il latino vivo e irregolare di Pietro Pomponazzi, il filosofo



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aristotelico radicale che a Padova dimostra la non immortalità dell’anima; o ancora il latino multiforme e complesso dei trattati del medico e scienziato (e, per molti, mago-stregone e astrologo-ciarlatano) Girolamo Cardano (Milano 1501-1576), indagatore dei misteri della Natura, e soprattutto autore di una originale e affascinante autobiografia, il De vita propria; fino alla figura coraggiosa del filosofo Bernardino Telesio (Cosenza 1509-1588), che ingaggia nel suo De rerum natura iuxta propria principia una lotta senza quartiere contro l’aristotelismo dominante, preparando la strada a Giordano Bruno. Un ambito del tutto speciale della trattatistica del Cinquecento è quello delle scritture legate al mondo delle arti figurative. Verso la metà del secolo è tutto un fiorire di trattati sulla pittura (ad esempio quelli di Paolo Pino, Lodovico Dolce, Michelangelo Biondo), sulla scultura, sull’architettura, sulle arti cosiddette minori, e si traducono e si pubblicano quelli di Leon Battista Alberti; opere che riflettono l’interesse enorme che, presso il pubblico colto, ha ormai il dibattito sull’arte, nella nuova consapevolezza che veramente il Rinascimento aveva raggiunto e superato, nelle sue realizzazioni, gli Antichi. La grande novità è che alcuni di questi scritti sull’arte sono ora opera degli stessi artisti, che, considerati un tempo ‘illetterati’ o ‘omini sanza lettere’ (si pensi a Leonardo), ora si prendono la loro rivincita culturale: e in questa rivincita gioca un ruolo importante lo stesso Leonardo (scomparso nel 1519), di cui si copiano gli scritti sull’arte in un manoscritto intitolato Libro di pittura, e poi in una redazione abbreviata che ebbe grande fortuna, il cosiddetto Trattato della pittura, stampato a Parigi nel 1651, con illustrazioni disegnate dal pittore francese Nicolas Poussin. Il più grande artista-scrittore è sicuramente Giorgio Vasari (Arezzo 1511Firenze 1574), che scrive le Vite dei grandi artisti italiani, dal Duecento al Cinquecento (I edizione Firenze, Torrentino, 1550; II edizione Firenze, Giunti, 1568, molto arricchita di notizie, ma sbilanciata nella struttura generale). Soprattutto nella prima edizione, le Vite sono una specie di grande ‘romanzo’, di storia di ‘lungo periodo’ non solo dell’arte, ma di tutta la civiltà del Rinascimento (ed è il Vasari il primo a utilizzare in modo sistematico e puntuale questa parola, così come è lui, fondatore del lessico artistico moderno, a introdurre il termine ‘maniera’). La concezione storica è organicistica ed evolutiva, nelle fasi della prima rinascita delle arti dopo il periodo di oscurità del ‘medio evo’ (Giotto), dell’augumento, dello sviluppo della tecnica e dello stile nel Quattrocento (Masaccio, Donatello, Brunelleschi), dell’avvento della maniera moderna (Leonardo e Raffaello), e di un’età della perfezione (Michelangelo), che sembra superare perfino l’arte classica. È un’opera composita, sospesa su generi letterari diversi: la storia, la biografia, la descrizione delle opere d’arte, la

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trattatistica tecnica, ma addirittura anche la novellistica esemplare. Gli artisti sono in fondo gli ‘eroi’ del Rinascimento. L’apoteosi è nella figura di Michelangelo, superiore agli Antichi e ai Moderni, massimo punto di perfezione, oltre la quale Vasari percepisce l’inizio, forse, di una lunga decadenza. Altri trattati sulle arti scrisse Benvenuto Cellini (Firenze 1500-1571): ma qui la scrittura si fa prepotente scrittura dell’io, autobiografia, perché l’opera più grande di Cellini è sicuramente la sua Vita. La Vita fu scritta tra 1558 e 1562, e anzi in parte ‘dettata’ (a un giovane scrivano), il che spiega il forte carattere di oralità che si avverte nel testo, l’irregolarità della sintassi, il flusso del periodo che talvolta si complica o si perde, senza un’ulteriore revisione. Era un Benvenuto ormai vecchio, ed il suo è uno sguardo retrospettivo, non la cronaca diaristica che si stratifica giorno per giorno. Quasi un romanzo, in cui l’io dell’autore (certo preponderante) costruisce a posteriori la propria immagine, i propri momenti di gloria eroica (artistica e umana: la fusione del mirabile Perseo) ma anche quelli di difficoltà nei rapporti tempestosi con i grandi committenti (il papa Clemente VII, Francesco I re di Francia, il granduca Cosimo), e di disperazione assoluta, come quelli vissuti nel carcere, o nella tentazione del suicidio. Una grande e commovente scrittura dell’io, anche se tanto meno elaborata, troviamo nel quaderno-diario che uno dei più grandi pittori manieristi, Iacopo Carucci detto il Pontormo (Pontormo 1494-Firenze 1556), tenne aperto negli ultimi due anni della sua vita, annotando gli eventi minimi della sua vita, le visite degli amici, il menu della cena, le indisposizioni di ventre, l’umore e i fatti atmosferici, microscopia malinconica di un mondo inviduale in attesa della morte. Infine, il pittore lombardo Giovanni Paolo Lomazzo (Milano 1538-1600) fu autore di bizzarri ‘dialoghi dei morti’ alla maniera di Luciano (Li sogni ), e di vivaci poesie in lingua italiana (Grotteschi ) e in una curiosa lingua ‘facchinesca’ derivata dal dialetto ticinese della Val di Blenio (Rabisch, ‘arabeschi’), gergo giocoso usato nell’estroversa Accademia dei Facchini cui Lomazzo partecipava insieme ad altri artisti e poeti. Lomazzo raccolse poi le sue importanti riflessioni di teoria artistica (con molti spunti tratti direttamente dai manoscritti di Leonardo) nel Trattato dell’arte della pittura (1584), e nell’Idea del tempio della pittura (1591). Un’altra storia che appassiona il pubblico del Cinquecento è quella che si può leggere nelle pagine della letteratura di viaggio. Dopo che Colombo aveva aperto le vie di navigazione occidentale, e Vespucci aveva dimostrato che si trattava di un ‘mondo nuovo’, le relazioni e descrizioni di viaggio (già genere fortunato di scrittura dal Medioevo, da Marco Polo in poi) conoscono un successo senza pari. Si può trattare di realtà vicine, come quelle oggetto della Descrittione di tutta Italia del domenicano Leandro Alberti (Bologna



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1479-1552), o non troppo lontane, come nel vivace Viaggio in Alamagna di Francesco Vettori (Firenze 1474-1539), destinatario di una celebre lettera di Machiavelli. Ma per il resto sono soprattutto racconti di mondi esotici, di popoli mai visti prima, di usanze e costumi incredibili per gli europei, come quelli che affiorano nel gustosissimo Itinerario di Ludovico da Varthema, che affronta un lunghissimo viaggio nei paesi orientali, assimilandone i costumi, vestendone gli abiti, imparandone la lingua, e restando anche coinvolto in impreviste situazioni erotiche; o nel drammatico diario di Antonio Pigafetta, compagno di Magellano nella prima epica circumnavigazione del globo. Tutti questi testi furono infine raccolti in una monumentale edizione della letteratura di viaggio, le Navigazioni e viaggi (1550-1559) curate da un nobile veneziano amico del Bembo, Giambattista Ramusio (Venezia 1485-1557). L’intellettuale che, nella prima metà del Cinquecento, sembra compendiare tutti gli interessi della cultura contemporanea, dalle arti figurative alla storia e alla cosmografia, è l’umanista Paolo Giovio (Como 1483-Firenze 1552), che è grande cronista del suo tempo negli Historiarum sui temporis libri e nelle Vitae degli uomini illustri contemporanei, dai condottieri ai letterati e agli artisti. Secondo la tradizione fu Giovio a spingere Vasari alla composizione delle vite degli artisti; e sempre Giovio ebbe l’idea di comporre una serie di brevi testi biografici, gli Elogia, concepiti per accompagnare i ritratti dei grandi uomini che adornavano la sua villa di Como, denominata Museo. Un’illustrazione di grande modernità, che si serviva contemporaneamente della parola e dell’immagine, secondo nuove modalità di comunicazione che affiorano anche in un’altra moda del Cinquecento, diffusa in tutta Europa: la moda delle imprese, brevi motti in latino o in volgare, sintesi di qualità morali, rappresentate allo stesso tempo da un emblema talvolta enigmatico, e codificate dallo stesso Giovio nel suo Dialogo dell’imprese militari e amorose (1551). Ampia è la storiografia cinquecentesca, soprattutto a Firenze, in continuazione di Machiavelli e Guicciardini, con le opere di Benedetto Varchi e di Iacopo Pitti; e a Napoli con Angelo Di Costanzo e Camillo Porzio, che cercano di comprendere le ragioni della crisi del Rinascimento, e in particolare della fine del regno di Napoli, preparata dalla crisi del rapporto tra la dinastia aragonese e le strutture di potere della società meridionale (efficacemente trattata nella Congiura dei Baroni del Porzio). La riflessione storica contemporanea si fa spesso riflessione politica, come in Donato Giannotti (Firenze 1492-Roma 1573), strenuo avversario dei Medici e perciò destinato a un lungo esilio, autore di un’esaltazione del modello politico di Venezia nel dialogo Della repubblica de’ Viniziani (1530).

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Sempre di più, però, nel corso del secolo, si diffonde un certo pessimismo sulle possibilità di influire su una realtà nella quale l’esercizio del potere acquista i connotati della tirannia, talvolta oscura e incomprensibile, coperta, come diceva Guicciardini, da una ‘nebbia’ che ormai divideva il ‘palazzo’ dalla ‘piazza’, il principe dal popolo. In questo contesto, la lettura di un autore latino come Tacito, storico dei momenti più cupi dell’impero romano (i tempi di Tiberio e Nerone), acquista un’attualità nuova, configurandosi anzi come una moda intellettuale, il cosiddetto tacitismo, che si accompagna alla straordinaria fortuna dei testi di Machiavelli. Contro ‘tacitismo’ e ‘machiavellismo’ si muove un ex-gesuita come Giovanni Botero (Cuneo 1544-Torino 1617), legato a grandi figure della spiritualità cattolica come Carlo e Federigo Borromeo, e autore del trattato Ragion di stato (1589), che fonda la scienza politica moderna come scienza autonoma, individuando uno dei princìpi dell’azione politica nello stato moderno. Alla fine del secolo la riforma cattolica si produce in un enorme sforzo di propaganda e di scrittura storica e religiosa, con potenti personalità come i cardinali Cesare Baronio e Roberto Bellarmino. L’educazione umanistica e classicista deve essere integrata in un nuovo curricolo ispirato rigorosamente a princìpi religiosi: i Gesuiti la codificano nella Ratio studiorum, che regge i programmi dei loro collegi per quasi due secoli, e punta soprattutto alla formazione delle classi dirigenti laiche. La predicazione torna ad essere potente strumento di comunicazione, nei confronti delle masse, e la retorica si mette al suo servizio, come dimostra la sperimentazione stilistica e il linguaggio figurato del frate minorita Francesco Panigarola (Milano 1548-Asti 1594). Si tratta di una vera e propria ‘guerra’, dichiarata contro le eresie e le divisioni dell’Europa cattolica e contro il pericolo incombente dell’Islam, e fuori di metafora la intende il gesuita Antonio Possevino (Mantova 1533Ferrara 1611), legato pontificio nei Paesi Scandinavi e nell’Europa orientale, fino alla Russia di Ivan IV il Terribile. Ne Il soldato cristiano (1569) Possevino promuove l’ideologia della ‘guerra giusta’, e della licenza di sterminare tutti gli eretici e gli infedeli, con l’affermazione: “Nella morte del Pagano il Cristiano si gloria”. In seguito, il battagliero gesuita avrebbe spostato i suoi propositi bellicosi sul piano culturale, componendo un contributo fondamentale al sistema ideologico della Riforma Cattolica con la bibliografia universale della Bibliotheca selecta (1593), estesa a tutti i campi del sapere, dalla teologia e dalla filosofia alle scienze, la letteratura e le arti. In questi tempi di terribili divisioni politiche e religiose, e di asservimento delle libertà individuali alla ‘ragion di stato’ e ai dogmi religiosi, sullo sfondo di



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un nefasto incrociarsi di interessi di potere, sono proprio le voci di alcuni religiosi a difendere la libertà spirituale e intellettuale a rischio della propria vita. A Venezia un frate servita, Paolo Sarpi (Venezia 1552-1623), prende le parti della Repubblica colpita dall’interdetto lanciato dal papa (1606), dimostrando l’illegittimità dell’atto pontificio. Sarpi rievoca poi la vicenda del Concilio di Trento nell’Istoria del concilio tridentino (stampata a Londra nel 1619, e subito messa all’Indice), individuando le ragioni della grande occasione mancata di riconciliazione dei Cristiani e di effettiva riforma morale della Chiesa. Il martirio per la difesa delle proprie idee sarebbe stato patito da Filippo Bruno (Nola 1548-Roma 1600), figlio di un soldato, frate domenicano col nuovo nome di fra Giordano a 17 anni nel convento napoletano di San Domenico (1565). Costretto a fuggirne con l’accusa di possedere libri proibiti, come quelli di Erasmo (1576), Bruno cominciò allora una vita di lunghi vagabondaggi per l’Europa (Ginevra, Francia, Inghilterra, Germania, Praga), abbandonando la chiesa cattolica ma senza mai aderire del tutto al protestantesimo, conservando una propria assoluta indipendenza di pensiero. Nel 1591 giunse a Venezia, ospite del patrizio Giovanni Mocenigo, e si illuse di una pacificazione con la Chiesa, ma fu invece arrestato a tradimento (1592), incarcerato a Roma dal Sant’Uffizio (1593), e, dopo un lungo processo, bruciato vivo a Campo de’ Fiori il 17 febbraio 1600. Bruno è straordinaria figura europea, e le sue opere più importanti nascono e sono pubblicate in un contesto che va oltre i confini italiani. Il latino è la lingua universale della comunicazione filosofica, negli scritti di mnemotecnica, o in quelli come il De Magia, in cui la magia naturale, in questo tempo di formazione della scienza rinascimentale, viene interpretata come il tentativo di entrare in comunicazione con l’anima del mondo. Ma altrimenti Bruno utilizza tutta la forza espressiva del volgare, in testi finalizzati a scardinare le basi della filosofia tradizionale e dell’autorità religiosa. A Parigi, pochi anni dopo la fuga dall’Italia, viene pubblicata una strana commedia in volgare, il Candelaio (1582), in cui si presenta un mondo alla rovescia e senza speranza dominato dal male, memoria cupa e lontana della Napoli in cui s’era formato fra Giordano (che nel frontespizio si definisce “Accademico di nulla Accademia detto il Fastidito”). Nel fecondo periodo inglese (1583-85) nascono invece alcuni importanti dialoghi. In ambito cosmologico, dominati dal tema del relativismo e piccolezza dell’uomo nell’infinito, si collocano La cena de le ceneri, De la causa, principio et uno, e De l’infinito, universo e mondi, che affermano apertamente la libertà di ricerca scientifica e intellettuale nello studio della natura condotto nei suoi propri princìpi originari (iuxta propria principia),

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contro ogni tipo di pregiudiziali astratte o metafisiche. Sulla poetica si distende il dialogo Degli eroici furori, che, partendo dal commento ad alcuni testi poetici (soprattutto dell’altro grande nolano, il poeta Tansillo), riporta il messaggio di libertà antiaristotelica anche nel campo della poesia, che “non nasce da le regole, se non per leggerissimo accidente: ma le regole derivano da le poesie”: più importanti delle ‘regole’, per Bruno, sono il ‘furore’ e l’‘entusiasmo’ che guidano l’ispirazione del poeta, che giunge ad un’elevazione quasi divina. Posizioni di netta critica del cristianesimo si presentano nello Spaccio della bestia trionfante, in cui Giove, malcontento del disordine e della corruzione del mondo, vuole restaurarvi la Giustizia e scacciarne i ‘mostri’, generati dal ‘sonno della ragione’; e nella Cabala del Cavallo Pegaseo, grottesco elogio dell’asino che rivela l’influsso della tradizione antica e umanistica (da Luciano ad Erasmo) del ‘paradosso’. Ma soprattutto Bruno reinventa il genere umanistico e rinascimentale del dialogo come una forma di vera e propria comunicazione ‘teatrale’ del sapere e della filosofia. La libera trasmissione delle idee diventa qualcosa di militante, di impegnato, “dove sa di dialogo, dove di comedia, dove di tragedia, dove di poesia, dove d’oratoria”.

1.6. La prosa narrativa Nella prosa d’invenzione narrativa del Cinquecento prevale sicuramente la novellistica (anche se la più ampia conoscenza della letteratura greca consente già gli inizi della forma del romanzo). Il genere trova una sua consacrazione in operazioni culturali come quella delle Prose del Bembo, che indicano nel Decameron del Boccaccio il principale modello stilistico e strutturale. Ma è anche un tempo di recuperi filologici e testuali, dal cosiddetto Novellino alla ‘rassettattura’ del Decameron. Insomma, il modello boccacciano non è avvertito in maniera altrettanto normativa di quello petrarchesco nella poesia lirica, e lo dimostra la pluralità di soluzioni adottate nella ricca produzione novellistica cinquecentesca: libri con o senza cornice, tradizione di novelle spicciolate, incroci di tradizioni e culture diverse e lontane. Una novella isolata, e di importanza fondamentale per la letteratura europea, è quella che compone il nobile veneziano, amico del Bembo, Luigi da Porto (Vicenza 1485-1529), l’Historia di due nobili amanti, che, nell’ambientazione veronese della faida medievale tra Capuleti e Montecchi, racconta l’immortale storia di Giulietta e Romeo, dei due amanti tragicamente divisi dall’ostilità delle rispettive famiglie: vicenda già prefigurata in alcune novelle ‘tragiche’ del Decameron e nel Paulo e Daria di Gasparo Visconti.



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La storia, com’è noto, giunse a Shakespeare, passando attraverso la riscrittura presente nelle Novelle (1554) di Matteo Bandello (Castelnuovo Scrivia 1485-Bassens 1561), un frate domenicano che finirà vescovo di Agen in Francia. La sua raccolta sostituisce alla ‘cornice’ narrativa boccacciana un macrosistema di ampie lettere dedicatorie che costituisce anch’esso un tessuto narrativo, dal momento che quelle lettere raccontano l’origine della novella, e l’universo sociale e culturale delle declinanti corti del tardo Rinascimento, soprattutto dell’Italia del Nord. Bandello, cronista del suo tempo, predilige spesso vicende contemporanee, e spesso tragiche, come quella di Giulietta e Romeo; e di più difende il proprio essere (culturalmente e linguisticamente) ‘lombardo’ e non ‘toscano’, in un’età in cui molti correvano a porre il proprio stile e la propria lingua al riparo delle nuove sicurezze precettistiche del Bembo. Sempre di area lombarda, ma legato a un contesto più popolare, è Giovan Francesco Straparola, autore delle Piacevoli notti (1550-1553), nella cui esile cornice notturna sono raccontate novelle e fiabe in cui prevale l’aspetto del sogno, della magia e della superstizione. A Venezia ci porta invece il musico e madrigalista Girolamo Parabosco, organista a San Marco e anche commediografo, che nei Diporti (1550) fa raccontare una serie di novelle patetiche e tragiche ad alcuni gentiluomini isolati dalla tempesta in mezzo alla laguna per tre giornate. E anche Sebastiano Érizzo (Venezia 1525-1585) immagina per le novelle delle Sei giornate (1567) la cornice di una brigata di studenti, mantenendosi all’interno di un’imitazione formale di Boccaccio che ne livella ogni carattere plurilinguistico. Il cortigiano ferrarese Giambattista Giraldi Cinzio (1504-1573), autore di teatro e di poetica, raccoglie oltre cento novelle negli Ecatommiti (1565), in cui da un lato la temperie controriformistica riduce la componente erotica più esplicita e ancora importante in Boccaccio, dall’altro alcune vicende diventano proiezione di psicologie morbose e perverse, come quella di Otello, il Moro di Venezia, anch’essa ripresa da Shakespeare. Più sotterranea resta la novellistica proprio nella regione di Boccaccio, la Toscana. Il senese Pietro Fortini (Siena 1500-1562) ci lascia due raccolte manoscritte (edite solo nell’Ottocento), le Giornate delle novelle de’ novizi e le Piacevoli ed amorose notti de’ novizi, di ambientazione senese ed imitazione boccacciana, nella cornice di un giardino in cui i giovani si ritrovano a novellare e a raccontare situazioni anche molto licenziose, e sempre meno accette nel clima moralistico del secondo Cinquecento. A Firenze invece Anton Francesco Grazzini detto il Lasca (Firenze 1503-1584), espulso e poi riammesso nell’Accademia Fiorentina, e tra i fondatori della Crusca, in quanto anche autore di teatro esplora le possibilità ‘teatrali’ delle novelle, raccolte nelle postume Cene (ed. 1756), giocate nello spazio chiuso cittadino

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come se fosse una scena di teatro in cui si svolgono memorabili e grottesche beffe ai danni della vittima di turno, come lo era stata, nel Quattrocento, la Novella del Grasso legnaiuolo. Il genere novellistico sembra avviarsi ad una diminuzione d’interesse verso la fine del secolo. Ma c’è ancora tempo perché a Napoli Tommaso Costo (Napoli 1545-1620), accademico e cruscante segretario di svariati principi napoletani, componga Il fuggilozio (1596), un’opera che in effetti inscrive in una pretestuosa cornice decameroniana quello che è un grande ‘zibaldone’ (definito appunto dall’autore “insalata”) di 422 racconti, soprattutto arguzie e motti. Infine, il mondo popolare e dialettale trova la sua voce più alta a Bologna, con Giulio Cesare Croce (San Giovanni in Persiceto 1550-Bologna 1609), un figlio d’un fabbro che diventa geniale cantastorie, buffone, organizzatore di spettacoli di piazza, tra lingua e dialetto. Le sue invenzioni (in parte tratte da un curioso testo medievale, il Dialogus Salomonis et Marcolphi ) girano tutte intorno alla figura del popolano Bertoldo che, con la sua arguzia, riesce a prevalere sui potenti, e in particolare sullo sciocco re longobardo Alboino, nell’ambientazione di un alto Medioevo fantastico e straccione. Bertoldo non è un rivoluzionario, certo, e le sue trovate d’ingegno servono soprattutto a trovargli una posizione stabile nella corte del re, e un pasto sicuro (spesso massima aspirazione ideale delle classi popolari in quell’epoca di carestie e privazioni): ma egli resta, nell’uso spregiudicato dello strumento linguistico, l’erede diretto degli eroi umili di Boccaccio, il cuoco Chichibio e Cisti fornaio, che riescono a manifestare la propria intelligenza nel genere del ‘motto-facezia’. Le sue avventure furono pubblicate ne Le sottilissime astuzie di Bertoldo, continuate con quelle dell’insipiente figlio di Bertoldo, Bertoldino, Le piacevoli e ridicolose semplicità di Bertoldino, cui il letterato secentesco Adriano Banchieri aggiungerà ancora la Novella di Cacasenno figlio del semplice Bertoldino (1641).

1.7. Il teatro Dopo i primi passi del teatro umanistico latino e del teatro profano in volgare, dall’Orfeo di Poliziano alle rappresentazioni dei volgarizzamenti di Plauto e Terenzio a Ferrara, il teatro si afferma nel Cinquecento a partire da alcune grandi prove d’autore, le commedie di Ariosto e Machiavelli. Nel medioevo era scomparsa del tutto l’idea del teatro profano, e le sacre rappresentazioni avvenivano all’aperto, sul sagrato delle chiese, o al massimo all’interno di luoghi di culto; e nel Quattrocento le prime rappresentazioni ‘laiche’ trova-



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vano posto nei cortili o nelle sale o nei giardini dei grandi palazzi signorili. Era necessario creare un vero ‘teatro’, uno spazio come quello che avevano gli antichi, e di cui era possibile leggere la descrizione nel trattato di architettura di Vitruvio. Un primo esempio ne fu l’effimera architettura lignea allestita da Raffaello nel 1513 a Roma in Campidoglio per festeggiare il papa Leone X, e in cui fu rappresentato il Poenulus di Plauto, a cura dell’umanista Fedra. Dopo più di settant’anni sarebbe stato completato il primo grande teatro del Rinascimento su modello classico: il Teatro Olimpico di Vicenza, progettato da Andrea Palladio, e completato da Vincenzo Scamozzi (1585). Una splendida cornice architettonica, anche se poi i massimi capolavori del teatro europeo sarebbero nati in malandati e rumorosi e popolari teatri di legno come l’Old Vic di Londra, la scena preferita di Shakespeare. Nello stesso anno 1513 a Urbino il Castiglione fece rappresentare la Calandra del Bibbiena, commedia degli equivoci e dei travestimenti, in cui lo sciocco Calandro si innamora di Lidio amante della moglie, travestito da donna. Un tema, quello del travestimento, dello scambio dei ruoli tra uomo e donna, del superamento dell’identità di genere, che costituirà il filo rosso di tutto il teatro del Cinquecento, come se, nel tempo della prima importante emergenza della dimensione femminile nella cultura moderna, fosse necessario anche nella proiezione teatrale della realtà riprodurre visivamente i meccanismi dello ‘scambio’. Una città che agli inizi sembra restare ai margini della rinascita teatrale è proprio Venezia, dove l’unica commedia rappresentata con successo di pubblico nel 1499 è scritta in un vivace latino plautino da un frate crocifero, Giovanni Armonio: e sorprende che la sua Stephanium metta in scena la storia di una prostituta proprio in una sala di un convento (quello dei Crociferi), aperta a un pubblico pagante. Grande però era la tradizione del teatro popolare e di piazza a Venezia, soprattutto per i travestimenti del Carnevale, le feste e le pantomime (chiamate momarie) organizzate da vere e proprie compagnie (prima di dilettanti, e poi di professionisti), come la Compagnia della Calza. È in questo contesto, sospeso tra la capitale lagunare e l’ambiente rurale di terraferma, tra raffinato divertissement aristocratico e teatro popolare, che nasce l’esperienza geniale di Angelo Beolco detto Ruzante (Padova ca. 1496-1542), prima al servizio del nobile Alvise Cornaro come amministratore, poi impresario teatrale e attore e autore in proprio, e chiamato Ruzante dal più significativo dei suoi personaggi, un contadino della campagna padovana (in dialetto ‘ruzar’ significa giocare). L’operazione culturale di Ruzante è veramente straordinaria dal punto di vista linguistico: mentre tutte le forme di espressione letteraria contemporanea tendono verso un sostanziale uni-

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linguismo, nell’assimilazione del toscano e del fiorentino letterario, Ruzante torna al dialetto della bassa padovana (il cosiddetto ‘pavano’), e ricrea un mondo rurale nei confronti del quale supera il livello di comica parodia, presente ancora nel genere rusticale e nenciale (Pulci e Lorenzo). All’inizio è un’idealizzazione bucolica, nel dramma La Pastoral (1517), in cui però già compare il personaggio Ruzante, che poi acquista una fisionomia propria, e domina la scena dei drammi succcessivi: il Parlamento di Ruzante qual era stato in campo (1530), la triste storia del contadino che, arruolato per miseria, scampa ai pericoli della guerra e torna dalla moglie Gnua, solo per scoprire che la sua donna è nel frattempo diventata puttana e donna di un bullo di provincia che finisce col bastonare il disgraziato reduce; e il Dialogo secondo (1531), una sorta di riscrittura del Parlamento con personaggi diversi, ma con un finale tragico, in cui l’ex-soldato lasciato dalla moglie uccide a coltellate il ricco rivale. Alla fine, l’orizzonte di Ruzante non è più ‘comico’. I suoi personaggi vivono drammi veri, come quello della guerra, della violenza, dello sfruttamento sociale, del dominio perverso della ‘roba’, che inquina i rapporti tra gli esseri umani. Il mondo della campagna, degli umili e dei contadini, non ha più nulla di idillico, di vagheggiamento di vita semplice e incontaminata. Le loro sofferenze sono reali, e non fanno più ridere. La critica sociale e morale di Ruzante resta un unicum nel teatro veneziano del Cinquecento, mentre la componente dialettale continua a fecondarne la lingua. In dialetto veneziano è una grande commedia anonima, La Venexiana (1536), spettacolare contesa erotica tra un’esperta vedova (Angela) e una giovane sposa (Valeria) per la conquista di un bel giovane lombardo di passaggio (Iulio). Va anche oltre Andrea Calmo (Venezia 1510-1571), inventando nelle sue commedie una lingua mescidata e sperimentale, in cui col veneziano si confrontano gli altri dialetti italiani, e le varianti ‘alte’ della lingua avvertita ormai come ‘italiana’. Riprende la commedia classica il poligrafo Ludovico Dolce, mentre il musico e novelliere Girolamo Parabosco diverte il suo pubblico col tema del travestimento, dello scambio tra uomo e donna. Figura importante del teatro è anche l’Aretino, con le sue cinque commedie: Il marescalco, ambientato a Mantova, in cui un maniscalco misogino viene costretto da un intenso pressing collettivo a sposarsi, per scoprire sull’altare che la sposa non è altro che un paggio travestito, e l’intero matrimonio una terribile beffa; La cortigiana (1525), quasi una ‘controcommedia’, satira della corte romana ma anche della ‘cortigianeria’, ripresa poi nei dialoghi delle Sei giornate; la Talanta, altra commedia di travestimenti che ruota intorno alla cortigiana romana Talanta; l’Ipocrito (1542); e infine Il filosofo (1544), notevole anche perché è la riscrittura teatrale della novella di Andreuccio da Perugia, nella commedia ribattezzato addirittura ‘Boccaccio’.



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Negli altri centri italiani il teatro è collegato all’attività delle accademie. A Siena opera prima una Congrega dei Rozzi, e poi l’Accademia degli Intronati, che organizza l’importante recita de Gli Ingannati (1532), commedia esemplare, e rappresentata anche nel resto d’Italia, il cui successo fu garantito dalla fusione di comico e patetico e dall’azione vivace, dominata dal solito gioco del travestimento: la fanciulla, Lelia, travestita da maschio col nome Fabio per conquistare l’amore di Flaminio, a sua volta innamorato di Isabella, a sua volta innamorata del finto Fabio. A Firenze il Lasca promuove nelle sue sette commedie una sorta di ribellione contro la ripetitività convenzionale della commedia ‘regolare’, introducendo l’elemento nuovo del magico (La Strega, e La Spiritata), e riprendendo nel Frate (1540) il modello boccaccesco del triangolo amoroso moglie-marito-frate. Napoli (dove nasce anche un vivace teatro di parodia popolare e rusticana, le Farse cavaiole, così chiamate per la satira degli abitanti di Cava de’ Tirreni) tiene a battesimo le sue prime commedie in una sala dello splendido palazzo del principe Sanseverino, il protettore di Bernardo Tasso, negli anni Quaranta: un’esperienza che però viene presto interrotta, con l’esilio del principe (1547), e la chiusura delle accademie napoletane ad opera del sospettoso viceré spagnolo don Pedro di Toledo. Solo a partire dagli anni Settanta tornò a scrivere commedie un curioso rappresentante della cultura filosofica e scientifica, astrologo e un po’ mago, Giambattista Della Porta (Napoli 1535-1615), noto per il trattato Magia naturalis (1558) e gli interessanti studi di fisiognomica e di arte della memoria. In fondo, anche nelle sue opere teatrali, come la Fantesca (1592) o il Trappolario (1596), emerge, tra erotismo e vivacità linguistica, la particolare visione di un mondo ‘magico’, ricco di corrispondenze inaspettate e sorprendenti, che prelude ormai ad un’epoca che sarà dominata dal senso della ‘meraviglia’. Fin qui il panorama della commedia del Cinquecento. Ma dall’inizio è intenso il dibattito su una rinascita teatrale ‘globale’, tale da riportare in vita tutti i generi teatrali sperimentati dagli Antichi, e quindi anche e soprattutto la tragedia. Le poetiche cinquecentesche, oltre la tradizionale ricezione della Ars poetica di Orazio (commentata da Aulo Giano Parrasio, Marco Girolamo Vida, e ripresa dal Daniello), erano state infatti rivoluzionate dalla riscoperta della Poetica di Aristotele, il cui testo greco fu pubblicato dall’umanista Giorgio Valla (1498), e la traduzione latina curata da Alessandro de’ Pazzi (1536). Era un testo, com’è noto, giunto mutilo, nella sola parte dedicata alla tragedia, e quindi utilizzato da questo momento in poi come base normativa delle regole del genere tragico, e anche di quello epico. Delle indicazioni aristoteliche, una ebbe una rilevanza precettistica eccezionale, e influenzò

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il teatro europeo dell’età moderna: le cosiddette tre unità (di azione, di tempo e di luogo), secondo le quali la tragedia (a differenza di altre opere letterarie e narrative) doveva presentare lo svolgersi di un’azione unitaria, concentrata in un tempo breve e determinato, e nello stesso luogo. Momenti fondamentali della ricezione della Poetica furono il commento di Francesco Robortello (1548), e la traduzione e il commento di Ludovico Castelvetro (1570), inclinante ad un’estetica antiplatonica, e alla distinzione fra il ‘vero’ (storia) e il ‘verisimile’ (poesia). Molti furono i letterati che allora provarono a far risorgere la tragedia: il Trissino con la Sofonisba, il Rucellai con la Rosmunda, il Pazzi (traduttore della Poetica) con traduzioni di Sofocle ed Euripide. Ma furono tutti tentativi senza grande successo. Insieme alla predilezione per le eroine femminili, la tendenza era quella di rappresentazioni un po’ astratte e meccaniche, troppo ‘letterarie’, su scenari troppo cupi e sanguinari, e insomma troppo ‘tragici’ e disumani. Un esempio lampante, l’Orbecche di Giraldi Cinzio (1541; autore anche di drammi su Didone e Cleopatra), in cui un ferocissimo tiranno Sulmone offre in dono alla figlia Orbecche la testa del marito di lei e i corpi dei suoi figlioletti, e la giustamente vendicativa Orbecche finisce con l’uccidere il padre e se stessa. La Canace dello Speroni (1542) raccontava invece una storia di incesto priva del senso del destino e della catarsi. Oltre queste prove isolate, bisogna aspettare la fine del secolo per incontrare veri tragediografi. Pomponio Torelli (Parma 1539-1608) scrive drammi ‘politici’ (la Merope, il Tancredi, il Polidoro, la Vittoria) che iniziano a rispecchiare la complessità del tempo presente (come accadeva contemporaneamente nel teatro elisabettiano, da Marlowe a Shakespeare). E l’attualità in presa diretta emerge per la prima volta con Federigo Della Valle (Asti ca. 1560-ca. 1628), autore de La reina di Scozia (prima stesura 1591), sulla vicenda di Maria Stuarda decapitata nel 1587 per ordine di Elisabetta I, eroina e martire dal punto di vista cattolico, in un’opera che è soprattutto rappresentazione della violenza esercitata sull’individuo dalla ragion di stato e dal potere politico. Il Della Valle si rivolse invece alla materia biblica per altre due tragedie, l’Ester, e la Iudit: notevole la seconda (oltre che per la tematica, che gode di grande fortuna nell’arte contemporanea), per il principio del fine onesto ottenuto per mezzo della dissimulazione, dell’inganno, con cui Giuditta si serve della propria bellezza, per farsi concupire dal condottiero nemico Oloferne, e sgozzarlo a tradimento nell’intimità della sua tenda. Tra la commedia e la tragedia nasce col tempo l’esigenza di un genere intermedio, il cosiddetto ‘terzo genere’, la tragicommedia, che però, in un contesto di sostanziale divisione degli stili (l’alto e tragico riservato a vicende mitologiche o storiche e a personaggi di elevato livello sociale; il



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comico invece proiettato su una scena urbana, con personaggi borghesi o popolari), può realizzarsi solo nell’evasione della favola pastorale, portando a compimento lo sviluppo di tutta la tradizione bucolica, che nelle sue egloghe dialogate, e soprattutto nell’Arcadia di Sannazaro, aveva una fortissima dimensione teatrale, con personaggi reali semplicemente travestiti da pastori. Un primo tentativo è del solito Giraldi Cinzio, attento alle mutazioni dei generi e delle poetiche nel Cinquecento, e che a Ferrara compone la “favola di satiri” Egle (1545); e sempre a Ferrara viene rappresentata l’Aminta (1573, ed. 1580), capolavoro giovanile di Torquato Tasso, vagheggiamento della felicità innocente dell’età dell’oro. Ma non mancano gli attacchi degli aristotelici, come il professore padovano Giasone de Nores, che denuncia la ‘mostruosità’ della favola pastorale (1586). La risposta migliore alle critiche viene di nuovo da Ferrara, con Battista Guarini e il suo Pastor fido (1590), che è quasi il manifesto e la consacrazione del genere, a livello europeo, anche grazie alla fortuna di alcune sue parti musicate da Claudio Monteverdi. La storia si apre con una situazione difficile: la maledizione di Diana, che potrà essere placata solo col matrimonio di Silvio (discendente di Ercole) ed Amarilli (discendente di Pan), che però ama l’umile pastore Mirtillo, mentre il misogino Silvio concupisce tutte le altre donne, ed è amato disperatamente dalla infelice ninfa Dorinda, e dalla perfida e sensuale ninfa Corisca. Amarilli, sorpresa in una grotta con Mirtillo, viene condannata a morte per adulterio, ma Mirtillo si offre di morire al suo posto. Quando tutto sembra ormai perduto, ecco l’agnizione risolutiva: è Mirtillo il vero discendente di Ercole, e quindi è lecito il suo amore per Amarilli, mentre Dorinda può unirsi al suo Silvio. Torna la serenità in Arcadia, si ristabilisce l’ordine dell’onore, superiore al disordine del piacere, come aveva affermato il coro del quarto atto: “piaccia, se lice”. Nonostante il lieto fine, domina però un diffuso senso di malinconia, di morte, anche nell’idillico mondo dei pastori (sentimento già forte in Sannazaro, e poi nel Seicento rappresentato visivamente in un celebre quadro di Nicolas Poussin, intitolato Et in Arcadia ego, in cui è proprio la Morte che sembra parlare ai pastori, e rivelare la sua ineludibile presenza). Non più quindi l’Arcadia libera dell’Aminta, il regno di un piacere innocente e incorrotto. Vi sono penetrate ormai le leggi e le regole della società del Cinquecento, anche se poi la favola non ha finalità educativa, perché per Guarini la poesia “non ha per fine l’insegnare, ma il dilettare”.

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a c. di G. Masi, Milano, Mursia, 1994; Storia d’Italia, a c. di E. Pasquini, Milano, Garzanti, 1988; Storie fiorentine, a c. di A. Montevecchi, Milano, Rizzoli, 1998. Studi: F. Gilbert, Machiavelli e Guicciardini. Pensiero politico e storiografia a Firenze nel Cinquecento (1965), Torino, Einaudi, 1970; E. Lugnani Scarano, La ragione e le cose. Tre studi sul Guicciardini, Pisa, ETS, 1980; M. Palumbo, Gli orizzonti della verità. Saggio su Guicciardini, Napoli, Liguori, 1984, e F. Guicciardini, ivi 1988. 1.3. Dibattiti di lingua e di poetica. Testi: Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, a c. di B. Weinberg, Bari, Laterza, 1970-1974; Trattatisti del Cinquecento, a c. di M. Pozzi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1993. Studi: M. Pozzi, Lingua e cultura del Cinquecento, Padova, Liviana, 1975; G. Mazzacurati, Misure del classicismo rinascimentale, Napoli, Liguori, 1990; G. Belloni, Laura tra Petrarca e Bembo. Studi sul commento umanistico-rinascimentale al “Canzoniere”, Padova, Antenore, 1992. 1.4. La poesia. Antologie: Lirici del Cinquecento, a c. di L. Baldacci (1957), Milano, Longanesi, 1984; Lirici del Cinquecento, a c. di D. Ponchiroli, Torino, UTET, 1958; Poeti del Cinquecento, a c. di G. Gorni e al., Milano-Napoli, Ricciardi, 1998; Manieristi e irregolari del Cinquecento, a c. di M. Mari, Roma, Ist. Poligrafico dello Stato, 2004. Studi: B. Croce, Poesia popolare e poesia d’arte. Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento, Bari, Laterza, 1946; S. Carrai, L’ usignolo di Bembo. Un’idea della lirica italiana del Rinascimento, Roma, Carocci, 2006. Sulla formazione e la tradizione del ‘libro di poesia’: Il libro di poesia dal copista al tipografo, a c. di M. Santagata e A. Quondam, Modena, Panini, 1989; R. Fedi, La memoria della poesia. Canzonieri, lirici e libri di rime nel Rinascimento, Roma, Salerno, 1990; «I più vaghi e i più soavi fiori». Studi sulle antologie di lirica del Cinquecento, a c. di M. Bianco ed E. Strada, Alessandria, Dell’Orso, 2001. Sul petrarchismo: M. Guglielminetti, Il petrarchismo italiano nel Cinquecento, Padova, Liviana, 1971, e Petrarca e il petrarchismo. Un’ideologia della letteratura, Alessandria, Dell’Orso, 1994; L. Baldacci, Il petrarchismo del Cinquecento, Padova, Liviana, 1974; I territori del petrarchismo. Frontiere e sconfinamenti, a c. di C. Montagnani, Roma, Bulzoni, 2005; Il Petrarchismo. Un modello di poesia per l’Europa, a c. di L. Chines, F. Calitti e R. Gigliucci, Roma, Bulzoni, 2006. Testi: G. Della Casa, Le Rime, a c. di S. Carrai, Torino, Einaudi, 2003; Michelangelo Buonarroti, Rime, a c. di E.N. Girardi, Bari, Laterza, 1967; Poetesse italiane del Cinquecento, a c. di S. Bianchi, Milano, Mondadori, 2003. Sul manierismo napoletano: G. Ferroni – A. Quondam, La “locuzione artificiosa”. Teoria ed esperienza della lirica a Napoli nell’età del Manierismo, Roma, Bulzoni, 1973; A. Quondam, La parola nel labirinto. Società e scrittura del Manierismo a Napoli, Bari, Laterza, 1975.

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Sull’epica: G. Baldassarri, Il sonno di Zeus. Sperimentazione narrativa e tradizione omerica nel poema rinascimentale, Roma, Bulzoni, 1982; A. Casadei, La fine degli incanti. Vicende del poema epico-cavalleresco nel Rinascimento, Milano, Angeli, 1997. - T. Folengo, Baldus, a c. di M. Chiesa, Torino, UTET, 2006; Macaronee minori. Zanitonella, Moscheide, Epigrammi, a c. di M. Zaggia, Torino, Einaudi, 1987; Teofilo Folengo e i macaronici, a c. di G. Ferroni, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1996. Studi: I. Paccagnella, Il fasto delle lingue, Roma, Bulzoni, 1984, e Le macaronee padovane. Tradizione e lingua, Padova, Antenore, 1979; M. Chiesa – S. Gatti, Il Parnaso e la Zucca. Testi e studi folenghiani, Alessandria, Dell’Orso, 1995; A. Capata, Semper truffare paratus. Genere e ideologia nel Baldus di Folengo, Roma, Bulzoni, 2000; M. Scalabrini, L’incarnazione del macaronico. Percorsi del comico folenghiano, Bologna, Il Mulino, 2003. - G. Chiabrera, Maniere, scherzi e canzonette morali, a c. di G. Raboni, Parma, Guanda, 1998; Opera lirica, a c. di A. Donnini, Torino, RES, 2006; Poemetti sacri 1627-1628, a c. di L. Beltrami e S. Morando, intr. di F. Vazzoler e S. Morando, Venezia, Marsilio, 2007. 1.5. La prosa. - G. Della Casa, Galateo overo de’ costumi, a c. di E. Scarano, Modena, Panini 1990. Cfr. M.A. Cortini, “Et in udendo il silentio”. Una lettura del Galateo, Roma, Bulzoni, 2004. - P. Aretino, Sei giornate, a c. di G. Aquilecchia, Bari, Laterza, 1980; Lettere, a c. di F. Erspamer, Parma, Guanda, 1995-1998; a c. di G.M. Anselmi, Roma, Carocci, 2000; a c. di P. Procaccioli, Roma, Salerno, 1997-2002 (Edizione Nazionale); Pietro Aretino, a c. di G. Ferroni, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 2002; Tutte le commedie, a c. di G.B. De Santis, Milano, Mursia, 2009. Studi: M. Cottino Jones, Introduzione a Pietro Aretino, Bari, Laterza, 1993; P. Larivaille, Pietro Aretino, Roma, Salerno, 1997. Sui libri di lettere: Le “carte messaggiere”. Retorica e modelli della comunicazione epistolare: per un indice dei libri di lettere del Cinquecento, a c. di A. Quondam, Roma, Bulzoni, 1981. - G. Vasari, Le opere, Firenze, Le Lettere, 1998; Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, a c. di L. Bellosi e A. Rossi, Torino, Einaudi, 2005. Cfr. G. Pozzi – E. Mattioda, Giorgio Vasari storico e critico, Firenze, Olschki, 2006. - B. Cellini, La vita, a c. di L. Bellotto, Parma, Guanda, 1996. Cfr. Benvenuto Cellini artista e scrittore, Roma, Accademia dei Lincei, 1972. - P. Giovio, Elogi degli uomini illustri, a c. di F. Minonzio, Torino, Einaudi, 2006; Dialogo dell’imprese militari e amorose, a c. di M.L. Doglio, Alessandria, Dell’Orso, 1978. Cfr. B. Agosti, Paolo Giovio. Uno storico lombardo nella cultura artistica del ‘500, Firenze, Olschki, 2008. - Paolo Sarpi, a c. di C. Vivanti, Roma, Ist. Poligrafico dello Stato, 2000. Cfr. G.



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Ruzante e la letteratura pavana, Padova, Antenore, 1964; P. Sambin, Per le biografie di Angelo Beolco, il Ruzante, e di Alvise Cornaro, Padova, Esedra, 2002; P.M. Vescovo, Da Ruzante a Calmo. Tra «signore comedie» e «onorandissime stampe», Padova, Antenore, 1996, e Il villano in scena. Altri saggi su Ruzante, Padova, Esedra, 2007. - G.B. Della Porta, Teatro, a c. di R. Sirri, Napoli, ESI, 2000-2003; Opere, a c. di M. Durante, Messina, Sicania, 2005. - B. Guarini, Pastor fido, a c. di E. Selmi, Venezia, Marsilio, 1999.

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2.1. La vita Torquato Tasso nacque a Sorrento nel 1544, dalla nobile napoletana Porzia de’ Rossi e dal poeta Bernardo, segretario e uomo di fiducia del principe di Salerno Roberto Sanseverino, che, dichiarato ribelle dal viceré spagnolo di Napoli don Pedro di Toledo, fu costretto all’esilio in Francia, portandosi dietro anche Bernardo. L’infanzia di Torquato si svolse dunque tra Salerno e Napoli, con la madre, e in parte godendo di una prima educazione presso i Gesuiti, che allora stavano stabilendo le loro importanti scuole a Napoli. Ritrova a Roma il padre, che nel frattempo si era staccato dal gravoso seguito del Sanseverino (1554), e da allora lo segue in giro per alcune importanti corti e città italiane: ad Urbino, presso Guidubaldo II Della Rovere (1557), e a Venezia (1559). Sono anche gli anni degli studi classici e universitari, a Padova, dove segue all’inizio le lezioni di diritto a cui preferisce poi quelle di filosofia ed eloquenza, e a Bologna, donde fugge per una inopportuna satira sull’ambiente universitario (1560-1562). Ma è anche il tempo della prima produzione poetica, all’ombra del padre Bernardo, celebrato autore di rime, e del poema Amadigi: a Venezia Torquato inizia un poema storico sulla Prima Crociata, Il Gierusalemme (1559), lo lascia incompiuto e si sposta sulla materia cavalleresca del Rinaldo (1562), dedicato al cardinale Luigi d’Este. Nell’ambiente universitario di Padova, dopo la lettura della Poetica di Aristotele stende un primo abbozzo dei Discorsi dell’arte poetica, et in particolare del poema heroico (1562). E intanto continua una fertile produzione di rime, legate a motivi occasionali o agli amori giovanili per donne come Laura Peperara e Lucrezia Bendidio. Nel 1565 la vita del ventenne Torquato sembra arrivare all’esito programmato, quello dell’inserimento organico in una corte rinascimentale, che è quella splendida della Ferrara estense al tramonto. Il giovane ne condivide

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in pieno gli obblighi (un viaggio in Francia al servizio del cardinale d’Este nel 1570) e le opportunità di libertà creativa, come la rappresentazione della favola pastorale Aminta (1573, ed. 1580). Comincia a comporre una tragedia di argomento nordico, il Galealto re di Norvegia, insegna allo Studio rudimenti di fisica aristotelica, e diventa anche storiografo ufficiale (1576). Ma soprattutto, in questi anni di entusiasmi collettivi per la rivincita cristiana contro i Turchi nella battaglia di Lepanto (1571), continua la sua passione per il poema cavalleresco, che torna alla materia storica (e non favolosa) della Prima Crociata, con un poema in venti canti, il Goffredo, intitolato all’eroe di quella crociata, Goffredo da Buglione, e letto al duca Alfonso d’Este (1575). Eppure, proprio all’apice del successo mondano e letterario, cominciano a manifestarsi i primi segni del disagio esistenziale e psichico di Torquato, che avverte in modo acutissimo le inquietudini religiose del suo tempo, fra i timori dell’Inquisizione e di possibili sospetti di eresia nei confronti delle sue opere. Uno strisciante complesso di persecuzione, che lentamente gli fa apparire nemica anche la corte ferrarese, e che culmina nel 1577 con l’aggressione ad un servitore. Dopo una prima breve prigionia, Torquato fugge e vagabonda per l’Italia, giungendo fino a Sorrento, dove si presenta travestito da frate alla sorella Cornelia, facendosi riconoscere solo in un secondo momento. Nel 1579 torna a Ferrara, in occasione delle nozze tra il duca Alfonso e Margherita Gonzaga, e dà in escandescenze di fronte alla corte, facendosi rinchiudere, come pazzo furioso, nell’isolamento dell’ospedale di Sant’Anna per ben sette anni. Il periodo più terribile della sua vita, in cui però l’esercizio della scrittura continua in modo prodigioso, consentendogli una via di liberazione almeno morale, per mezzo della comunicazione letteraria, oltre le mura della cella di Sant’Anna, con il mondo che l’aveva dichiarato folle. Compone centinaia di lettere e rime, e importanti Dialoghi su tematiche di grande attualità nel dibattito contemporaneo (la poesia, la nobiltà, la donna, la funzione del letterato ecc.). Intanto vengono pubblicate le sue opere del periodo cortigiano: l’Aminta (1580), e il poema Goffredo (1580), ribattezzato Gerusalemme liberata nell’edizione curata dall’amico Angelo Ingegneri (1581). L’enorme e immediata fortuna del poema, con il nuovo titolo (mai accettato dall’autore), ne consacrò definitivamente la fama, accendendo anche le discussioni sulla poesia epica, concentrate sul confronto fra Ariosto e Tasso: l’Italia letterata si divide in sostenitori del primo (la Crusca, che accusa Tasso di oscurità stilistica), e partigiani del secondo (Camillo Pellegrino, che ne Il Carrafa ovvero dell’epica poesia, del 1584, ne celebra la modernità patetica e sentimentale), e nell’agone scende lo stesso



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Tasso, con una Apologia (1585) che è anche difesa dell’Amadigi del padre Bernardo, rivendicazione della libertà di utilizzare la materia storica, della coesistenza di verità storica e invenzione poetica, della legittimità delle voci non toscane e della creatività linguistica. Un poeta così celebre era diventato intanto un prigioniero scomodo nell’ospedale di Sant’Anna. Dopo la liberazione (1586), Tasso iniziò l’ultimo decennio della sua vita, trascorso in un inquieto peregrinare tra i più importanti centri della cultura contemporanea, a cominciare dalla Mantova degli ultimi Gonzaga (1586 e 1591), dove riscrive la tragedia Galealto col titolo Re Torrismondo. Nella splendida Napoli vicereale (la città che l’aveva accolto fanciullo) soggiorna a più riprese, ospite del convento di Monteoliveto (1588), dove scrive il poemetto Monteoliveto sulla solitudine contemplativa, e il poemetto bucolico Il rogo amoroso; viene poi accolto con entusiasmo dai giovani intellettuali e patrizi napoletani, Matteo Di Capua e Giambattista Manso, Carlo Gesualdo principe di Venosa e Giambattista Marino, e compone un poema sulla creazione, Le sette giornate del Mondo Creato (1592); e risiede infine presso i Benedettini, dove inizia un poema Della vita di san Benedetto (1594). Ma è Roma, la rinnovata capitale del cattolicesimo controriformista, che lo attira nelle residenze più lunghe, a partire dal 1587. Qui il Tasso attende alla lunga e impegnativa revisione della Liberata, pubblicata col titolo (definitivo e approvato dall’autore) di Gerusalemme Conquistata (1593). E qui muore, nel 1595, nel convento di Sant’Onofrio al Gianicolo.

2.2. Il poema In fondo, tutta l’opera di Tasso, dall’adolescenza fino alla morte, ruota intorno alla scrittura di un grande poema, un testo che risolvesse le aporie e le difficoltà strutturali che il genere cavalleresco aveva sempre avuto, nel rapporto contraddittorio tra originaria tradizione orale e popolare ed elaborazione scritta cortigiana e letteraria, contraddizioni ingigantite dalla comparsa di un capolavoro non imitabile e non ‘continuabile’ come il Furioso. Il poema ariostesco costituiva una specie di sfida permanente, raccolta ad esempio da Bernardo Tasso con l’Amadigi, e quindi con il ricorso ad una tradizione straniera, europea. Di più, il tema del confronto tra Cristianità e Islam sembrava diventare giorno dopo giorno più urgente, con il pericolo costituito dai Turchi che ormai dilagavano nel Mediterraneo orientale, travolgendo i Cavalieri Gerosolimitani a Rodi, conquistando l’Ungheria, Cipro, i domini veneziani nel Peloponneso, e assediando Malta. Allo stesso giovane Torquato giungevano le notizie della devastazione di Sorrento e Capri, prese

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d’assalto dal feroce pirata saraceno Kair-ed-Din, detto il Barbarossa. Va detto però che questo pericolo era percepito da un punto di vista prevalentemente italiano e centroeuropeo, perché il resto del continente era già proiettato sulla conquista delle Americhe. L’idea di piegare la letteratura al servizio di questo scontro di civiltà nasce a Venezia, nel 1559. La materia non è più la vicenda favolosa del ciclo carolingio (ripresa dagli ultimi grandi autori, Pulci, Boiardo, Ariosto), ma quella storica, reale, del momento in cui l’Europa cristiana aveva battuto l’Islam, riconquistando i luoghi santi della Palestina, la Prima Crociata guidata da Goffredo di Buglione nel 1099. Tasso inizia così il suo primo poema, intitolato Il Gierusalemme, il cui contenuto è già descritto nei versi iniziali che segnano l’appartenenza ad un genere epico-eroico, più che ‘romanzesco’ o ‘avventuroso’: “L’armi pietose io canto e l’alta impresa / di Gotifredo e de’ cristiani eroi / da cui Gierusalem fu cinta e presa / e n’ebbe impero illustre origin poi”. Un progetto già grandioso, per un ragazzo di soli quindici anni, e quindi lasciato incompiuto dopo sole 116 ottave. Dopo l’intermezzo di un poema cavalleresco in dodici canti intitolato Rinaldo (1562), che sostituisce alla varietà ariostesca una sola storia d’amore tra il paladino Rinaldo e la bella Clarice (anche in ossequio alla regola aristotelica dell’unità d’azione), Tasso torna alla sua epopea della Prima Crociata, e termina il poema, stavolta intitolato col nome dell’eroe cristiano per eccellenza, Goffredo, in venti canti, finito nel 1575 e letto al duca Alfonso: un poema epico regolare che riprende con coerenza i grandi modelli del genere, Omero e Virgilio. Abbandonate le leggende medievali, prevale una struttura di fondo basata sulle fonti storiche medievali, e coniugata con episodi ‘verisimili’. Alla poliedrica complessità dell’Ariosto si sostituisce l’unità strutturale del racconto. La revisione del poema, anche troppo attenta e talvolta maniacale, coadiuvata dal giudizio di recensori e celebri letterati, avrebbe contribuito ad alimentare le paure e il senso di persecuzione dell’autore, secondo una tradizione biografica forse un po’ leggendaria. Fatto sta che quel processo di revisione trovò il suo punto di arrivo proprio nel periodo terribile del carcere di Sant’Anna, nella liberazione spirituale del capolavoro che, uscito dalle mura della prigione, fu stampato nelle prime edizioni non autorizzate, col titolo Goffredo (1580, edizione parziale in 12 canti), e poi Gerusalemme liberata (Parma 1581: titolo dato dal letterato e amico Angelo Ingegneri, forse su memoria del poema del Trissino, L’Italia liberata dai Goti, e mai accettato dal poeta). La Liberata conserva l’idea iniziale del Gierusalemme e del Goffredo, la centralità della figura dell’eroe cristiano, il personaggio storico di Goffredo



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di Buglione, su cui si proietta l’ideale del condottiero e del principe moderno: e i primi versi sembrano la riscrittura di quelli che già iniziavano il Gierusalemme: “Canto l’armi pietose e ’l capitano / che ’l gran sepolcro liberò di Cristo”. Resta anche l’aspirazione a superare l’Ariosto in nome dell’unità strutturale di marca aristotelica. Ma ora questa unità (di luogo, di azione, di tempo: Gerusalemme, la Crociata, il 1099) è più apparente che reale. Il mondo della Liberata non è affatto statico, ma mobile e inquieto, e giocato su una inaspettata molteplicità di luoghi e di personaggi. Al personaggio storico Goffredo si affianca così la figura di Rinaldo, il campione cristiano che svolge anche funzione encomiastica nei confronti degli Estensi, in quanto inserito nella genealogia dei signori di Ferrara come lo era stato il Ruggiero dell’Ariosto: e come Ruggiero è eroe ambivalente, temporaneamente vinto dalle dolcezze erotiche della maga Armida nelle isole della Fortuna, donde viene ritrovato e riportato al dovere dai cavalieri Carlo e Ubaldo. L’altro campione è Tancredi, guerriero generoso, impulsivo, fortissimo, destinato a uccidere l’amata Clorinda (vergine guerriera del campo saraceno) senza riconoscerla; e oggetto del desiderio della bella Erminia, che per lui abbandona Gerusalemme, e alla fine riesce a coronare il suo amore. Dall’altro lato gli eterni nemici, i ‘cattivi’ dell’epica cavalleresca, i Mori, i Saraceni, gli Infedeli: Argante e Solimano, entrambi però presentati come due eroi magnanimi, malinconici e consapevoli di un proprio destino di morte, e non esempi di immanità come gli ariosteschi Rodomonte e Mandricardo. Da Virgilio proviene un più diffuso senso della pietas, di una umanità comune al cristiano e all’infedele, al vincitore e al vinto; e la guerra, lungi dall’essere una gloriosa pompa, mostra l’orrore del suo vero volto, la strage e il massacro. Dalle scene corali Tasso passa continuamente al dettaglio individuale, in cui l’approfondimento della psicologia del singolo personaggio consente di volta in volta di esplorare gli aspetti patetici e sentimentali, alternativi a quelli eroici e religiosi. Un mondo di dubbi, di incertezze, di sospensioni, al quale corrisponde sempre la scenografia paesaggistica e naturale, in ‘consonanza’ con le situazioni descritte e lo stato d’animo dei personaggi. Il tempo dell’azione (come nell’Arcadia di Sannazaro) si dipana in una successione mirabile di notturni e di albe. La ‘simpatia’ con la Natura è anzi uno degli elementi fondamentali della poetica tassiana, collegata a quella di Virgilio e di Sannazaro, il punto d’incontro più evidente di una poesia che si colloca a metà tra il genere epico e il genere lirico. Ma anche premonizione delle più moderne forme teatrali, quelle che tenderanno alla fusione con la musica e alla compiuta manifestazione del patetico, come in uno degli episodi più intensi e ‘teatrali’ del poema, la morte dell’eroina Clo-

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rinda, scandita, in un commosso rallentamento temporale, dal ritmo franto delle sue ultime parole a Tancredi, suo amante e suo assassino: “Amico hai vinto: io ti perdon... perdona / tu ancora” (XII, 66,1-2). Lo stile, allora, è il luogo di suprema elaborazione di questa poesia, così lontana dalla tradizione canterina e cavalleresca, strettamente legata al laboratorio della poesia lirica, soprattutto la madrigalistica e la poesia per musica. Non si riuscirebbe a spiegare altrimenti la natura intimamente musicale dell’ottava tassiana, lungo i cui endecasillabi scorrono onde ritmico-musicali aperte, in un fluire ininterrotto che presenta l’enjambement spesso in chiusura di strofa. E la lingua realizza il miracolo di precipitare all’interno del genere epico-eroico parole popolari, puntando alla sonorità del verso, alla forma del significante più che ai significati, in un effetto di magnificazione epica. Più che poesia destinata all’oralità, una poesia di lettura interiore, che contiene dentro di sé tutte le cifre della propria musica. Il senso generale del poema, dunque, va ben oltre la celebrazione di un episodio glorioso della storia della Cristianità, e dell’impegno a rinnovare quella storia nel presente. Nell’immaginario di Tasso si accampa il quadro grandioso di una lotta tra il bene e il male, che diventa anche, nelle dicotomie drammatiche dell’età della Controriforma, la lotta tra dovere e piacere, tra norma e disordine, tra unità e varietà. È una sostanziale dualità di fondo, e il movimento irrisolto di Tasso da un polo all’altro è il movimento eterno della sua poesia, il dato che la fa grande, e tragica. Nell’unità del classicismo rinascimentale è entrato il sentimento dell’ignoto, dell’infinito, della rovina, della solitudine. Dopo la protasi, l’invocazione alla Musa, e la dedica al duca Alfonso, la narrazione inizia con la presentazione dell’esercito crociato in Palestina, indebolito da divisioni interne, e alla cui testa si pone finalmente, per ispirazione divina, Goffredo di Buglione, che passa in rassegna l’armata, e gli eroi cristiani: l’impetuoso Tancredi (innamorato della pagana Clorinda), e il giovane Rinaldo (antenato degli Estensi) (I). Intanto a Gerusalemme il re Aladino, consigliato dal mago Ismeno, ordina la strage dei cristiani, incolpati del furto di una sacra icona della Madonna: se ne accusa una vergine cristiana, Sofronia, ma anche il suo innamorato Olindo, ed entrambi sono salvati dal supplizio per l’intercessione generosa di Clorinda. Dopo un’inutile ambasceria dei pagani Alete e Argante (II), i crociati giungono in vista di Gerusalemme: prima battaglia con i saraceni, dominata dallo scontro tra Clorinda e Tancredi, che le dichiara comunque il suo amore, e dalla morte di Dudone ucciso da Argante (III). Anche le potenze infernali parteggiano per i pagani, mentre il mago Idraote, signore di Damasco, invia la bellissima nipote e maga Armida nel campo cristiano a fingere una richiesta di aiuto, e distrarre così i cavalieri più forti dall’impresa: cosa che puntualmente avviene, anche per la seduzione di Armida, nonostante la contrarietà di Goffredo



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(IV). E tra i cristiani le cose non vanno più tanto bene: in una lite Rinaldo uccide Gernando e poi abbandona il campo, mentre giungono pessime notizie dell’arrivo di un immenso esercito egiziano (V). Terribile ma inconcluso duello fra Argante e Tancredi, di cui si innamora pazzamente la principessa saracena Erminia, che fugge di notte da Gerusalemme, travestita con l’armatura di Clorinda e inseguita vanamente da Tancredi (VI), fino a giungere alle rive del Giordano, dove il dolce contesto bucolico la convince a restare. Intanto Tancredi, attirato con l’inganno, è imprigionato per magia nel castello incantato di Armida; ad Argante, che vuole riprendere il duello, si oppone il vecchio Raimondo, ma la tenzone si trasforma in una sanguinosa battaglia, a cui prendono parte anche le potenze infernali, con un terribile temporale (VII). Nel deserto l’esercito di Solimano ha sterminato i Danesi di Sveno, e si crede morto ormai anche Rinaldo: il demone Aletto semina la discordia tra italiani e francesi, sobillati da Argillano (VIII). Attacco a sorpresa dei saraceni, Solimano uccide Argillano, ma Goffredo riesce a capovolgere le sorti dello scontro, grazie all’inaspettato ritorno dei cinquanta cavalieri già sedotti da Armida, e liberati da Rinaldo (IX). Solimano, entrato a Gerusalemme grazie alle arti magiche di Ismeno, convince Aladino alla resistenza (X). Processione dei cristiani al Monte degli Ulivi alla vigilia del grande assalto, che avviene il giorno dopo con l’ausilio di una grande torre d’assedio (XI). Sortita di Clorinda e Argante, che riescono a incendiare la torre; ma Clorinda, rimasta fuori le mura, ingaggia un tremendo duello con Tancredi, senza mai togliersi l’elmo e rivelargli la propria identità, finché non viene colpita a morte, e solo allora, spirando tra le sue braccia, si fa riconoscere, chiedendo il battesimo (XII). I démoni infestano la selva di Saron, spaventando i cristiani, e impedendo la raccolta del legno necessario alle riparazioni delle macchine d’assedio, e la siccità infierisce sui crociati, finché non giunge provvidenzialmente la pioggia, inviata da Dio dopo le preghiere di Goffredo (XIII). Goffredo, perdonato Rinaldo, invia i cavalieri Carlo e Ubaldo a riportarlo al campo di battaglia. I due scendono nel palazzo sotterraneo del mago di Ascalona, che riferisce della seduzione amorosa operata da Armida sull’eroe, tenuto prigioniero delle sue delizie in un palazzo labirintico nelle Isole Fortunate, nell’Oceano Atlantico (XIV). L’isola di Armida è raggiunta subito attraversando il Mediterraneo su un’imbarcazione fatata guidata proprio dalla Fortuna (XV). Rinaldo, inebriato dai piaceri del giardino di Armida, si vergogna di sé specchiandosi nello scudo di Ubaldo, e fugge; Armida giura di vendicarsi (XVI), e raggiunge l’esercito egiziano guidato dal califfo Emireno, mentre i cavalieri cristiani hanno presso il mago di Ascalona la visione profetica della gloria di casa d’Este, discendenza di Rinaldo, e tornano infine da Goffredo (XVII). Solo Rinaldo, dopo la confessione con Pietro l’Eremita e la preghiera di purificazione sul Monte degli Ulivi, può ora vincere la selva incantata; viene ricostruita la torre d’assedio, e nel nuovo assalto Rinaldo è il primo a salire sulle mura nemiche, e Goffredo vi pianta la bandiera cristiana (XVIII). Conquista e spietato sacco di Gerusalemme, ultima resistenza di Solimano nella Torre di Davide. In una valletta duello finale di Argante, che muore, e Tancredi, che resta gravemente ferito, e viene soccorso dall’amorevole Erminia; cavallerescamente Tancredi fa dare sepoltura anche al

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nemico Argante (XIX). Arriva finalmente l’esercito egiziano per l’ultima battaglia, in cui muoiono Aladino e Solimano. Armida sta per suicidarsi, ma Rinaldo la salva, e ne favorisce l’inopinata conversione. Infine Goffredo uccide in duello Emireno, e va al Santo Sepolcro a deporre le armi (XX).

La Liberata, completata nell’orrore esistenziale di Sant’Anna, non fu però mai riconosciuta dal suo autore, che si sforzò, per tutta la parte rimanente della sua vita, di riscriverla secondo i principi di una poetica che, nel frattempo, anelava a ridurre la molteplicità e la dualità in unità, il movimento in stabilità, l’inquietudine nella massima coerenza stilistica e religiosa, secondo una “tessitura più ampia e magnifica” (come scrisse lo stesso Tasso in Del giudizio sovra la sua Gerusalemme da lui stesso riformata). Un destino paradossale, per il poema che in realtà era l’opera ‘in movimento’ di tutta una vita: un testo che aveva cambiato più volte titolo, ma che sembra quasi acquistare, davanti agli occhi dell’autore, una sua vita, fino all’ultima metamorfosi, l’unica ‘autorizzata’, la Gerusalemme Conquistata (1593) che dilata il testo in 24 libri, passando dalle 1927 ottave della Liberata a ben 2739 ottave; ma che, soprattutto, sul piano qualitativo della revisione linguistica, porta al dominio del tono tragico, e del sublime nella sfera religiosa ed eroica, per mezzo di amplificazioni, perifrasi, epiteti, parole solenni e arcaiche, rime interne, onomatopee. Oltre al diverso incipit, “Io canto l’arme e ’l cavalier sovrano / che tolse il giogo a la città di Cristo”, cambiano gli stessi nomi dei personaggi (l’eroe Rinaldo diventa Riccardo, la bella Erminia si chiama ora Nicea), e alcune parti scopertamente erotiche o troppo digressive, romanzesche, avventurose, vengono semplicemente eliminate (Olindo e Sofronia; Erminia tra i pastori). Si riduce la pietas nei confronti del nemico: ad Armida non si concede possibilità di redenzione, ma solo una crudele punizione, e i Saraceni sono in genere manichini disumani, che è giusto uccidere. Libri interamente nuovi sono ora il XVIII (l’incendio delle navi crociate e la disperata difesa dei cristiani), il XIX (la battaglia, e l’uccisione di Ruperto che veste le armi di Riccardo), il XX (visione profetica di Goffredo: la storia umana, dalle figure bibliche ai pontefici e agli imperatori, fino all’età contemporanea, agli Asburgo e ai principi italiani), e il XXI (funerali di Ruperto, lutto e purificazione di Riccardo, rivestito da Pietro l’Eremita con una nuova armatura): tutti episodi che rivelano l’insistenza sul registro epico alto, e l’influenza del modello dell’Iliade, più di quello dell’Eneide. La Conquistata perde irrimediabilmente quegli elementi di mobilità che aveva la Liberata, ma bisogna anche riconoscere che acquista, nei suoi momenti più alti, vette inarrivate di spettacolarità e terribilità. Il suono fragoroso delle trombe riempie ormai di sé una grande macchina finalizzata a comunicare, prima d’ogni altra cosa, il ‘magnificente’, il ‘maraviglioso’.



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2.3. Teatro Tasso aveva dimostrato, nella lunga storia del suo poema, un’intelligenza non comune delle forme di spettacolarizzazione della vita e della letteratura contemporanea. A quasi trent’anni, nel momento di più serena integrazione con il mondo cortigiano di Ferrara, si cimentò con il ‘terzo genere’, scrivendo di getto lo straordinario successo dell’Aminta (1573, ed. 1580), messa in scena nell’isoletta di Belvedere presso Ferrara. Si tratta di una favola pastorale in cinque atti, rappresentazione dell’amore non ricambiato del pastore Aminta per la ninfa Silvia: Aminta, credendo morta la ninfa, tenta il suicidio gettandosi da una rupe, e Silvia, fino ad allora irremovibile, ne prova finalmente pietà, ed amore; e allora ecco il colpo di scena, Aminta si è salvato, Silvia non può più tornare indietro, e i due convolano a giuste nozze e felicità. Lo sviluppo è molto semplice, con pochi personaggi, ridotti quasi al rango di consiglieri-comparse, oltre la coppia principale. Non ci sono, nella favola, veri antagonisti, oppositori, al progetto di felicità di Aminta, se non gli stessi protagonisti: Aminta, perché incapace di confessare il suo amore, se non col gesto estremo del suicidio; Silvia, perché ostile e negatrice dell’amore. Importante è allora la funzione (teatrale e comunicativa) del coro, in particolare nel I atto, quando viene celebrato il canto “O bella età dell’oro”: vagheggiamento di un’utopia di piacere senza peccato, di eros collettivo privo di angosce e paure, regolato dall’unica legge del diletto: “S’ei piace, ei lice”. Su tutto, una poetica del vago, dell’indefinito, fatta più di sensazioni e di atmosfere, che di situazioni nette e distinte. Il lieto fine dell’Aminta ha rovesciato a sorpresa quella che sembrava una tragedia, la morte di Aminta, e l’ingresso della Morte nell’idilliaco mondo dei pastori. Questa, in fondo, era la caratteristica del ‘terzo genere’, intermedio tra la commedia e la tragedia. Ma Tasso sperimentò anche, con particolare intensità, la tragedia, cercando in questo caso di seguire i principi della poetica di Aristotele. Novità radicale, rispetto agli altri primi tragediografi italiani, fu quella di scegliere una tematica del tutto originale: una storia del profondo e tenebroso Nord del mondo, la Scandinavia, a quest’epoca terra ancora del tutto leggendaria, dai mari popolati di mostri marini, e a stento illuminata da un‘opera bizzarra e fantastica che Tasso aveva letto con grande curiosità, l’Historia de gentibus septentrionalibus (‘storia dei popoli del Nord’) del vescovo svedese Olao Magno. Da quel mondo venne l’abbozzo di tragedia intitolato Galealto re di Norvegia, e poi compiuto come Re Torrismondo (1586, nella Mantova dove Tasso si era rifugiato dopo la liberazione, e dove forse nasce anche la commedia Intrichi d’amore). È una storia che ha il senso di un destino ineluttabile, contro cui è inutile lottare. Torrismondo re dei Goti, intermediario fra Germondo re di

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Svezia e il re di Norvegia, deve portare in sposa a Germondo Alvida, figlia del re di Norvegia. Durante il viaggio, però, Torrismondo possiede Alvida, e lei crede che sia lui il promesso sposo. Torrismondo vorrebbe allora, in cambio di Alvida, offrire in sposa a re Germondo sua sorella Rosmonda, ma scopre con orrore che in realtà Alvida è sua sorella, e che l’atto d’amore che hanno consumato è in realtà un incesto. Non resta altro che il doppio suicidio di Torrismondo e di Alvida. Oltre la trama, colpisce il nuovo immaginario ‘nordico’ di Tasso, in gran parte desunto da Olao, e contaminato con il mondo tragico di Sofocle e di Seneca: un presentimento di cieli lividi, mari tempestosi, terre inospitali e desertiche, proiezione dello stato d’animo dell’homo melancholicus che contempla l’estremo punto di arrivo dell’humanitas rinascimentale.

2.4. Prose Un giovanissimo Tasso, a Padova nel 1562, nel fervido contesto universitario delle lezioni dello Speroni e di Carlo Sigonio, si era cimentato con il dibattito sulle poetiche, con la stesura del primo abbozzo dei Discorsi dell’arte poetica, et in particolare del poema heroico, ripresi e completati nel 1587. Si trattava di una tematica fondamentale per il poeta che, dal Gierusalemme alla Liberata, si era misurato con la composizione di un poema che superasse le difficoltà strutturali della tradizione cavalleresca. Il poema epico va quindi ricondotto alle prescrizioni della Poetica di Aristotele, il che implica uno stretto rapporto con il genere della tragedia. La sua materia si colloca tra il vero storico e il ‘verisimile’, e lo stile eroico deve avere la giusta escursione tra la gravità del tragico e la vaghezza del lirico. In una successiva redazione, i Discorsi del poema heroico (1594) avrebbero rispecchiato di più la poetica della Conquistata, con una nuova teoria della ‘magnificenza’ di stile e di linguaggio che comporta anche una straordinaria coscienza della nuova funzione del poeta. L’unità strutturale del poema va perseguita con ogni mezzo, perché il rapporto fra autore e opera si inscrive in un sistema che vede sullo stesso piano il rapporto fra Dio e mondo, e fra macrocosmo e microcosmo. Il poema è realmente “un picciolo mondo”, un organismo vitale in cui si rispecchia l’intero universo. Non basta più, per raccontare il mondo, il verisimile, ma serve ora il meraviglioso: una strada aperta per tutta la generazione di giovani poeti che, a Roma e soprattutto a Napoli (Giambattista Marino), ebbero modo di eleggere il vecchio Tasso a loro maestro. Nel carcere di Sant’Anna, a partire dal 1579, Tasso aveva coltivato anche un altro genere di prosa, il dialogo, che viene piegato ad esiti originali rispetto



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alla tradizione rinascimentale (come del resto avrebbe fatto Giordano Bruno). I ventisei Dialoghi affrontano temi comuni del dibattito contemporaneo, di derivazione umanistica: il gioco, l’educazione, la famiglia, la nobiltà di sangue e di costumi, la posizione della donna nella società e nella cultura, la poesia, la moda delle ‘imprese’ (consacrata da Giovio), la funzione dell’intellettuale e del letterato cortigiano (sempre più ridotto a mansioni di ‘secretario’) ecc. ecc. Non manca la riflessione sulla ‘corte’, ne Il Malpiglio, overo della corte, che, a partire dal Castiglione, insiste sulla doppia polarità corte-accademia, e riconosce nella prudenza la dote principale del cortigiano moderno, quella che gli consente di sopravvivere in un mondo in cui prevale la doppiezza e l’ipocrisia. Tra i personaggi dei dialoghi compare talvolta anche la figura del Tasso, col nome enigmatico di Forestiero Napolitano: lui, che era nato nel Regno di Napoli, e che ora, dichiarato folle ed escluso dal consorzio umano, con ironia poteva dirsi veramente ‘straniero’. Infine, la prosa tassiana si stende su un vasto corpus di circa 1300 lettere, solo una parte delle quali sarebbe dovuta confluire in una raccolta epistolare sulla genesi del poema, espressione continua dei dubbi del poeta sulla sua opera, talvolta piccoli trattati, lettere ‘aperte’ su tematiche di rilievo, e che avevano una larga circolazione pubblica. Ne emerge un dialogo continuo con i contemporanei, un’immagine del Tasso che contraddice completamente il mito romantico del poeta isolato, sdegnoso, dichiarato folle, vittima del destino e dell’incomprensione dei contemporanei. In realtà, il suo era un mondo di grandi amicizie intellettuali, e di ininterrotti affetti familiari, come quello per la sorella Cornelia, anche negli anni più tardi legame con la famiglia originaria, con il ‘nido’ sorrentino e napoletano sempre evocato con nostalgia. Ed è proprio in una lettera alla sorella che si dichiara il senso altissimo della libertà intellettuale, eccezionale in un’epoca di persecuzioni e di conformismi: “Padrone non ho né vorrei averne” (lettera del 14 novembre 1587).

2.5. Poesie Si è visto che il registro lirico del poema non sarebbe stato possibile senza un ininterrotto laboratorio di abbondante produzione lirica, che attraversa tutta la vita del Tasso. Le Rime furono raccolte nel 1591, con una divisione tra amorose ed encomiastiche; ed una terza parte era prevista di rime spirituali. Il segno dominante è però quello dell’occasionalità, cortigiana o accademica, e la prima raccolta di 42 testi appare appunto in un’antologia degli Accademici Eterei di Padova (1567). La tematica d’amore dei primi anni si divide tra le rime per una dama estense, Lucrezia Bendidio, e una mantovana, Laura

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Peperara: ma, al di là di una superficiale cronistoria amorosa, è in realtà il pretesto di una modulazione della lirica erotica petrarchesca lungo il filo di una sperimentazione che va oltre l’imitazione cinquecentesca. La nuova frontiera di Tasso è quella dell’espressione musicale, del gusto per una acuta percezione sensoriale, per la descrizione di atmosfere indefinite e sensuali: sono i fantastici paesaggi sonori che torneranno nella Liberata, la Natura viva e ‘artificiosa’, il senso di sospensione panica di pomeriggi affocati o di notti senza vento: “Tacciano i boschi e i fiumi, / e ’l mar senza onda giace”. Ne risultano testi sempre scorrevoli, naturalmente cantabili, pronti ad accogliere senza alcun problema l’intonazione della musica contemporanea. Nella metrica questo segna il passaggio dal sonetto al madrigale, e alla trasformazione di quest’ultimo in una forma quasi libera con prevalenza di settenari e rime baciate, preludio al recitativo del futuro teatro per musica, come da soli rivelano questi versi per Laura Peperara (col classico gioco petrarchesco sul nome della donna, l’aura-Laura): “Ecco mormorar l’onde / e tremolar le fronde / e l’aura mattutina e gli arboscelli, / e sovra i verdi rami i vaghi augelli / cantar soavemente / e rider l’oriente”. Oltre le Rime, Tasso compose anche, negli anni tardi, i suoi ultimi poemetti, che esploravano territori di poetica in parte nuovi: a Mantova, il poemetto encomiastico Genealogia della Casa Gonzaga (1591); e soprattutto a Napoli, alcune composizioni di forte ispirazione religiosa (eccezion fatta per il testo bucolico Il rogo amoroso). Il poemetto Il Monte Oliveto, composto nella quiete del convento di Monteoliveto a Napoli (1588), celebrava la vita solitaria, e la fondazione di quel cenobio. Le Stanze per le Lagrime di Maria Vergine e per le Lagrime di Gesù Cristo (1593) erano due variazioni sul genere del pianto religioso (già frequentato in latino da Sannazaro), ispirato dal culto delle immagini sacre e dalla pietas controriformistica, mentre il poemetto Della vita di san Benedetto era direttamente legato ad un soggiorno presso l’abbazia benedettina di Napoli (1594). Fra tutti questi testi, il più significativo resta forse Il Mondo Creato (1592), poema in endecasillabi sciolti sulla storia della Creazione, basato naturalmente sulla Genesi e sulla Bibbia, espressione di vera poesia cosmica, che passa in rassegna gli elementi naturali, le creature e gli animali, fino alla creazione dell’uomo, “quasi un picciol mondo” (VII,599). Un poema che trascorre dall’origine alla fine, in uno scenario apocalittico in cui viene rappresentata l’inarrestabile senescenza delle cose, “lo stanco e veglio / Mondo” (VII,1124-25).



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Bibliografia 2.1. La vita. Edizioni complessive: Opere, a c. di B. Maier, Milano, Rizzoli, 1963-1965; a c. di B.T. Sozzi, Torino, UTET, 1974. Monografia: C. Gigante, Tasso, Roma, Salerno, 2007. Rivista specializzata: “Studi tassiani”. 2.2. Il poema. Edizioni: Gerusalemme liberata, a c. di L. Caretti (1957), Milano, Mondadori, 1988; Gerusalemme conquistata, a c. di L. Bonfigli, Bari, Laterza, 1934; Rinaldo, a c. di M. Sherberg, Ravenna, Longo, 1990. Studi: E. Donadoni, Torquato Tasso, Firenze, La Nuova Italia, 1936; B.T. Sozzi, Studi sul Tasso, Pisa, Nistri-Lischi, 1954; F. Chiappelli, Studi sul linguaggio del Tasso epico, Firenze, Le Monnier, 1957, e Il conoscitore del caos. Una vis abdita nel linguaggio tassesco, Roma, Bulzoni, 1981; F. Ulivi, Il manierismo del Tasso e altri studi, Firenze, Olschki, 1966; G. Getto, Interpretazione del Tasso, Napoli, ESI, 1967; Id., Nel mondo della “Gerusalemme”, Firenze, Vallecchi, 1968; Id., Malinconia di Torquato Tasso, Napoli, Liguori, 1986; L. Caretti, Antichi e moderni, Torino, Einaudi, 1971; G. Petrocchi, I fantasmi di Tancredi, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1972; G. Baldassarri, “Inferno” e “cielo”. Tipologia e funzione del “meraviglioso” nella “Liberata”, Roma, Bulzoni, 1977; E. Raimondi, Poesia come retorica, Firenze, Olschki, 1980; S. Zatti, L’uniforme cristiano e il multiforme pagano. Saggio sulla “Gerusalemme liberata”, Milano, Il Saggiatore, 1983; P. Larivaille, Poesia e ideologia. Letture della “Gerusalemme liberata”, Napoli, Liguori, 1987; G. Scianatico, L’armi pietose. Studio sulla “Gerusalemme liberata”, Venezia, Marsilio, 1990; A. Di Benedetto, Con e intorno a Torquato Tasso, Napoli, Liguori, 1996; E. Ardissino, L’aspra tragedia. Poesia e sacro in Torquato Tasso, Firenze, Olschki, 1996; Torquato Tasso e la cultura estense, a c. di G. Venturi, Firenze, Olschki, 1999; M. Residori, L’idea del poema. Studi sulla «Gerusalemme conquistata» di Torquato Tasso, Pisa, Scuola Normale Superiore, 2005. 2.3. Teatro. Teatro, a c. di M. Guglielminetti, Milano, Garzanti, 1983; Aminta, a c. di C. Varese, Milano, Mursia, 1985. Cfr. C. Varese, Torquato Tasso. Epos-Parola-Scena, MessinaFirenze, D’Anna, 1976; G. Da Pozzo, L’ambigua armonia. Studio sull’Aminta di T. Tasso, Firenze, Olschki, 1983. 2.4. Prose. Prose, a c. di E. Mazzali, Milano-Napoli, Ricciardi, 1959; Dialoghi, a c. di B. Basile, Milano, Mursia, 1991. Cfr. M. Rossi, Io come filosofo era stato dubbio. La retorica dei «Dialoghi» di Tasso, Bologna, Il Mulino, 2007.

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2.5. Poesie. Rime, a c. di B. Basile, Roma, Salerno, 1994. Cfr. L. Caretti, Studi sulle rime del Tasso (1950), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1973; G. Santarelli, Studi sulle rime sacre del Tasso, Bergamo, Centro Tassiano, 1974; B. Basile, Poëta melancholicus. Tradizione classica e follia nell’ultimo Tasso, Pisa, Pacini, 1984.

3. Il Seicento

3.1. Moderno e barocco Nel Seicento il grande scontro tra le potenze europee per il dominio del continente raggiunge il culmine nella Guerra dei Trent’anni, che termina con il Trattato di Westfalia (1648), e l’inizio del declino della Spagna e dell’Impero, ancora retti da dinastie degli Asburgo. È il tempo della prodigiosa proiezione commerciale e coloniale di Olanda, Inghilterra e Francia sulle rotte oceaniche, dall’Asia al Nuovo Mondo, eventi nei cui confronti il Mediterraneo comincia a essere un teatro ‘marginale’, con conseguenze negative soprattutto per Venezia. L’Italia è saldamente inserita nel sistema imperiale spagnolo, con alcuni importanti stati dominati direttamente da viceré e governatori (Sicilia, Napoli, Milano), e gli altri impossibilitati ad una politica veramente autonoma; un sistema che può avere momenti di crisi, come la guerra e la pestilenza che interessano il Milanese intorno al 1630, o la grande rivolta di Masaniello a Napoli (1647), ma che riesce comunque a sopravvivere fino all’inizio del secolo successivo. Luci e ombre si alternano al tempo del predominio spagnolo: da un lato la diffusione di un sistema di amministrazione burocratica centralizzata, che si accompagnava spesso a fenomeni di malgoverno e corruzione; dall’altro l’accelerazione delle dinamiche di trasformazione sociale, che portarono alcune città (soprattutto Napoli) ad uno straordinario (e talvolta incontrollabile) sviluppo demografico, alla modernizzazione dei sistemi di produzione di massa e di commercio, con i primi stabilimenti industriali a Milano e Napoli. Il sistema delle corti principesche di antico regime, se non viene spazzato via (come i Gonzaga di Mantova), resiste in una dorata decadenza (gli Estensi trasferiti a Modena, i Medici granduchi di Toscana, e gli emergenti Savoia a Torino). La ‘corte’ più importante è forse proprio quella di Roma,

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la splendida Roma che i papi della Controriforma avevano riportato ad essere capitale del Cattolicesimo, promuovendo la magnificenza artistica (in particolare sotto il pontificato di Paolo V Borghese e Urbano VIII Barberini) con la presenza di figure come Bernini e Borromini, e anche di un geniale irregolare come il Caravaggio; ma è anche la Roma sede della pesante censura morale del Sant’Uffizio, e capitale dell’educazione cattolica, con il grande Collegio dei Gesuiti, centro di irradiazione missionaria nel mondo, e con lo sviluppo di altri importanti ordini religiosi come gli Oratoriani (così chiamati dall’Oratorio del fondatore San Filippo Neri), i Barnabiti e gli Scolopi, che si rivolgeranno, nella loro missione educativa, alle classi sociali più indigenti. L’attenzione e spesso la censura della Chiesa non può impedire l’incremento continuo del mondo della comunicazione. La cultura si diffonde presso un pubblico più ampio, per mezzo di edizioni economiche e dei primi fogli periodici, antesignani delle gazzette e dei giornali, e il passaggio alle prime modalità di produzione di massa porta gli stessi letterati a cercare di seguire il gusto del pubblico al quale si rivolgono, ad attribuire maggior valore all’opera d’arte che incontri il gradimento dei ‘moderni’, dei contemporanei, più che a quella che risponda a pregiudiziali estetiche assolute, o all’imitazione dei ‘classici’. Si afferma la superiorità dei Moderni rispetto all’autorità degli Antichi, resa possibile anche dal fatto che l’intero processo di scoperte geografiche e scientifiche avviato nel Rinascimento (Toscanelli, Colombo, Copernico, Vasco de Gama) è arrivato ormai a livelli prima impensabili, mettendo in crisi i fondamenti stessi del classicismo. Le accademie, se continuano la loro attività, sono dedite principalmente alle scienze naturali e alla promozione del metodo sperimentale, come l’Accademia dei Lincei, fondata a Roma dal principe Federico Cesi (1603), o quella degli Investiganti a Napoli, o del Cimento a Firenze. Le ultime conquiste sono quelle di Galileo, con l’invenzione del cannocchiale, la scoperta di nuovi corpi celesti, e la dimostrazione matematica e astronomica del sistema cosmologico già proposto da Copernico. Una fondazione razionale della scienza della natura, che viene attuata contemporaneamente dal filosofo francese Cartesio, con il suo Discours de la méthode (‘discorso sul metodo’)(1637). Le frontiere del mondo conosciuto sono ormai molto più ampie di quelle conosciute da Aristotele o Tolomeo. Nuovi popoli, nuove lingue, nuovi continenti si affacciano alla storia, e al confronto, talvolta dialettico o tragico, con la civiltà europea. Si sgretolano certezze millenarie, e il sentimento che domina i Moderni, nei confronti di questo mondo ‘dilatato’, è sicuramente quello della meraviglia, dello stupore per le cose viste per la prima volta, per le grandi scoperte scientifiche, per il trascorrere dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande, per mezzo di uno strumento come il cannocchiale.



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L’espressione più significativa di questo atteggiamento è nell’intenso collezionismo di oggetti che vengono appunto chiamati “meraviglie”, in piccoli musei di principi o di accademici (le cosiddette Wunderkammern, ‘camere delle meraviglie’): tentativo di racchiudere in un’unica ‘stanza’, nello spazio definito della catalogazione dell’enciclopedismo, un cosmo immenso che non è più a misura d’uomo. È il sentimento inquietante di un mondo instabile, mobile, non più al centro dell’Universo, un piccolo pianeta sperduto in un infinito universo, tra altri infiniti mondi (Bruno), in un relativismo che costringe l’uomo a ripensare criticamente il proprio rapporto con la Storia e con la Natura. Il Seicento rende così l’idea di un secolo ‘in rivolta’. Ribellione contro i Classici, contro gli Antichi, contro i sistemi tradizionali del pensiero, della società, della religione, contro la stessa morale (da parte dei filosofi detti Libertini), contro le norme e le ‘regole’ che avevano fornito la struttura fondante del Cinquecento, dell’età del Classicismo e del Manierismo, e all’interno delle quali si era consumata l’inquieta parabola di Tasso. Una parte importante di questa ‘rivolta’ avviene proprio in campo linguistico, con la reazione alle pretese dell’Accademia della Crusca di dare fondamento normativo alla lingua italiana, sulla base del toscano letterario fissato nel Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612): reazione che vide gli interventi autorevoli di Alessandro Tassoni (che considerava il Trecento, definito ‘aureo’ dai Cruscanti, solo l’infanzia della lingua italiana), e di Paolo Beni, autore addirittura di un’Anticrusca, in cui si afferma una sorta di principio di non-imitazione dei modelli. Dopo una seconda edizione senza sostanziali innovazioni (1623), la Crusca dovette in seguito procedere a un grande ampliamento del lessico, fino a Tasso e altri autori ‘moderni’, accettati nella terza edizione del Vocabolario (1691). Ed intanto i dialetti avevano iniziato la loro rivincita sulla letteratura in lingua, dal Basile al teatro popolare veneziano. Il nuovo prevale sul vecchio, e la meraviglia nasce dalla scoperta continua di inconosciute associazioni tra le cose, in un mondo retto da una rete potenzialmente infinita di analogie e di corrispondenze. Dal momento che tali corrispondenze profonde sono percepibili a partire dall’analogia delle forme esteriori, il meccanismo che rende possibile la scoperta agisce a livello soprattutto linguistico, retorico, formale, per mezzo di una figura retorica che diventa un vero e proprio strumento conoscitivo, la metafora, analizzata in tutte le sue possibilità comunicative nell’opera (dal titolo emblematico, che evoca sia Galileo che Aristotele) del gesuita torinese Emanuele Tesauro, Il cannocchiale aristotelico (1654). Lo “spirito vitale della poetica elocuzione”, secondo Tesauro, è però l’argutezza, o acutezza, la capacità di raffinare la ‘vista interiore’ delle cose, per coglierne il senso profondo, che suscita meraviglia

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e fonda l’essenza dell’arte. Una poesia fatta di concetti (donde la definizione di ‘concettismo’), di idee ingegnose ed argute, di inediti accostamenti di immagini, che rinnova profondamente la retorica degli Antichi, come teorizza il bolognese Matteo Peregrino nel trattato Delle acutezze (1639). Non è un caso, allora, che la misteriosa parola che definisce l’arte e la poesia del Seicento sembri derivare dall’ambito semantico della filosofia e della logica: il barocco, un tipo di sillogismo della tarda scolastica, arzigogolato ed ingegnoso (oppure, secondo un’altra etimologia, il barroco, che in portoghese significa una perla rara di forma irregolare e bizzarra). Il termine fu utilizzato nel Settecento in senso del tutto spregiativo, per condannare le forme artistiche bizzarre, abnormi, anticlassiche, del Seicento, e solo in età contemporanea è stato assunto in modo neutro, per indicare prima le arti figurative, e poi la letteratura e la musica di quell’età, che viene oggi chiamata, appunto, ‘barocca’. La cultura cosiddetta ‘barocca’ presenta alcuni caratteri di fondo, che talvolta (de-storicizzandoli) alcuni studiosi hanno creduto di riconoscere in momenti molto lontani della storia della civiltà, ad esempio nell’Ellenismo, o nel Tardo Antico, o addirittura nel Novecento. Possiamo dire però che, nella sua realtà storica, l’età barocca si distingue per la prevalenza del ‘vedere’, portando a compimento un processo di trasformazione nel sistema della comunicazione che passava dal dominio dell’udito (civiltà antiche e Medioevo) a quello della vista (età moderna). Sono gli occhi di Galileo aperti sull’universo, grazie alle lenti del cannocchiale. È l’affermazione di una spettacolarità globale, che tende a trasformare tutto in un ‘teatro’ (in senso etimologico, cioè luogo in cui si attua e si fruisce una visione): il gran teatro del mondo, in cui ognuno di noi è attore e protagonista, e in cui gli eventi storici acquistano una dimensione spettacolare, contorni patetici o eroici o melodrammatici, rappresentati davanti al pubblico dei contemporanei, o davanti al tribunale della Storia. È sicuramente questa una delle ragioni per cui, tra le forme dell’espressione artistica e letteraria del Seicento a livello europeo, il teatro raggiunse un suo indiscutibile primato, nelle sue forme alte come in quelle popolari. Reciproco il rispecchiamento (dal teatro della vita alla vita come teatro): e anche l’assunzione della maschera, della dissimulazione, al più alto e conveniente grado di convivenza sociale, quello della civile conversazione. Lo teorizzerà un accademico segretario di aristocratici napoletani, Torquato Accetto (Trani 1590-Napoli ca. 1650), che nel trattato Della dissimulazione onesta (1641) definisce la dissimulazione “industria di non far vedere le cose come sono”. Un nascondersi, come forma estrema di autodifesa nei confronti della violenza dei poteri (politico e religioso): l’altra faccia della medaglia dell’esibizionismo barocco.



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L’arte barocca predilige le forme in movimento, la velocità, la metamorfosi, il bizzarro, il mostruoso, perché attraverso la poetica delle forme raggiunge uno dei suoi scopi principali: il godimento estetico. È un’arte edonistica, fondata sul piacere. Si serve degli strumenti dell’illusionismo e della sensualità, anche a livello sensoriale immediato: nelle sculture del Bernini, le membra di marmo che sembrano ancora vive di Dafne appena sfiorata da Apollo; nelle architetture di Borromini, le volute di pietra che sembrano muoversi ed avvolgersi in vortici; nella poesia barocca, il compiaciuto gioco dei significanti, delle onomatopee, della sonorità musicale, dello sperimentalismo metrico e stilistico. E il tutto sempre oltre le regole, le norme costituite del Classicismo. Una poesia piena e vitale, erotica, che, nell’esuberanza e nell’esibizionismo della carne (come in certi quadri di Rubens), maschera il suo opposto: un profondo sentimento della Morte, rappresentata nei momenti più orridi e macabri, in ‘trionfi’ di scheletri e analisi microscopiche del disfacimento dei corpi, eventi ‘spettacolari’ che il Seicento poté vedere più volte, nelle terribili pestilenze che spopolarono città come Milano e Napoli.

3.2. Galileo Figlio d’arte, Galileo Galilei (Pisa 1564-Arcetri 1642) era figlio di un celebre musico fiorentino, Vincenzo, che aveva partecipato al rinnovamento culturale e artistico nella Firenze di fine Cinquecento. Tra Medioevo e Rinascimento la musica era ancora una delle arti liberali, vicina alla matematica nel quadrivio, e in un certo senso era naturale per il giovane Galileo intraprendere studi di matematica allo Studio di Pisa, donde però tornò a Firenze senza conseguire il titolo. E a Firenze prevale il forte interesse per le lettere, le arti, la musica, fino allo svolgimento di due Lezioni circa la figura e grandezza dell’Inferno di Dante all’Accademia Fiorentina (1588), e ad intense letture, che lo portano ad esaltare la poesia dell’Ariosto, e a svalutare quella di Tasso, avvertita troppo oscura e patetica. Ripresa la carriera universitaria a Pisa (1589), e poi a Padova (1592), sempre come professore di matematica, Galileo rifonda i principi della fisica e della meccanica per mezzo di osservazioni sperimentali, come quelle sull’oscillazione del pendolo e sulla caduta dei gravi. Si avvicina al sistema copernicano e si costruisce da solo un cannocchiale (1609): esegue le prime osservazioni ravvicinate della Luna (sulla cui superficie scopre valli e monti simili alla Terra), scopre nuovi astri, le nebulose, le macchie solari, e in particolare i quattro satelliti di Giove (chiamati “pianeti medicei” in onore

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del granduca di Toscana Cosimo II). La grande scoperta è comunicata con toni entusiastici al mondo scientifico per mezzo di un trattato latino, il Sidereus Nuncius (‘annuncio astrale’)(1610), e lo stesso Granduca lo richiama in Toscana, come suo ‘filosofo personale’. Galileo è convinto ormai della giustezza del sistema copernicano, più capace di spiegare la realtà di un mondo in movimento e in trasformazione, a differenza di quel che affermava la filosofia aristotelica, basata sulla dottrina dell’immutabilità dei corpi celesti oltre il cielo della Luna, nel sistema tolemaico. Va addirittura a Roma, e aderisce ai Lincei (1611), per ottenere appoggio alle sue ricerche, e proporre una separazione funzionale tra scienza e fede. Ma inizia allora, con le cosiddette Lettere copernicane, una battaglia feroce con i Gesuiti, che osteggiano fermamente il sistema copernicano, facendolo condannare come contrario alla teologia e alla Sacra Scrittura (1616). Galileo non si dà per vinto, e, attaccato dal gesuita Orazio Grassi in un trattatello sulle comete (1618), lo demolisce duramente nel Saggiatore, edito dai Lincei a Roma nel 1623 e dedicato al papa Urbano VIII, che sembra allora favorevole a Galileo. È in quest’opera che si apre la visione galileiana dell’universo come “un grandissimo libro”, scritto “in lingua matematica”, e che va letto e compreso interpretando appunto le parole di quella lingua; una grande lezione di pensiero critico, in cui l’affermazione del metodo sperimentale si accompagna al netto rifiuto del principio di autorità. Ma anche uno straordinario esempio di una nuova prosa volgare, l’atto di fondazione della prosa scientifica, in cui, accanto ad un accorto uso della retorica dell’ironia, prevale la precisione del linguaggio ‘medio’, la ricerca della misura e dell’esattezza nello sforzo di massima aderenza alle cose. Una posizione stilistica nettamente distinta dalle intemperanze formali della contemporanea prosa barocca. L’iniziale vittoria del Saggiatore fece nascere in Galileo l’illusione di poter vincere la battaglia contro l’aristotelismo e il dogmatismo, con il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano (1632), dedicato al granduca Ferdinando II. L’affermazione del sistema copernicano viene qui attuata con la ripresa dello strumento principe della civiltà del Rinascimento, il dialogo, cammino di ricerca della verità attraverso il confronto di opinioni contrapposte. Gli attori sono il nobile Giovanfrancesco Sagredo, e i due veri contendenti, Filippo Salviati (controfigura di Galileo), e il vacuo aristotelico Simplicio (satireggiato anche nel nome, oltre che negli inconsistenti ragionamenti). Galileo tenta un difficile gioco di simulazioni per difendere la verità scientifica, gioco definito da Campanella “comedia filosofica”, e addirittura finge, nella prefazione, di aver scritto il dialogo e aver discusso la teoria copernicana solo per fini dialettici.



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Ma si tratta di accortezze del tutto inutili. Stavolta l’Inquisizione non si fa sorprendere in contropiede, fa convocare Galileo a Roma, lo processa e lo condanna all’abiura delle ‘dottrine erronee’ (1633), sottoponendo il vecchio scienziato all’umiliazione di inginocchiarsi di fronte al tribunale. Piegandosi all’abiura Galileo scampa il supplizio e la morte, ma viene condannato al confino nella sua villa di Arcetri, presso Firenze, isolamento totale reso ancora più duro dalla morte della figlia suor Virginia e dalla cecità completa (1637), e superato solo dalla vasta rete di relazioni intellettuali con i giovani scienziati e filosofi d’Italia e d’Europa (a iniziare dagli allievi Benedetto Castelli, Evangelista Torricelli, Vincenzo Viviani), testimoniata dalle sue splendide lettere.

3.3. La poesia Nel sistema dei generi letterari del Seicento, la poesia è quello che avverte di più l’ansia di superamento dei modelli, e degli Antichi, con l’incessante ricerca di nuove strutture e nuove forme di espressione, e nell’esplicita dichiarazione di una finalità edonistica. “È del poeta il fin la meraviglia”, afferma il più rappresentativo poeta dell’epoca, Giambattista Marino (Napoli 15691625). Il Marino si era formato nella magnifica Napoli aristocratica di fine Cinquecento, segretario del principe Matteo di Capua, e a stretto contatto con Torquato Tasso. Da Napoli passò nel 1600 alle altre corti italiane (in particolare la Roma dei papi, e la Torino dei Savoia, dove fu addirittura oggetto di un tentativo di assassinio da parte del poeta rivale e invidioso Gaspare Murtola, da lui sbeffeggiato nella Murtoleide), e infine a quella francese di Maria de’ Medici (1615), dove pubblicò le sue opere più importanti, e conquistò una gloria veramente europea, prima di tornare definitivamente a Napoli. La prima, vasta produzione di Marino è nella poesia lirica, erotica e d’occasione, pubblicata nelle raccolte delle Rime (1602), divise in due grandi partizioni metriche (da una parte i sonetti, dall’altra madrigali, canzoni e canzonette), e della Lira (1614), in cinque parti ‘tematiche’ intitolate Amori, Lodi, Lagrime, Divozioni, Capricci; titoli che esprimono aspetti caratteristici della cultura contemporanea, dall’invenzione ‘bizzarra’ e ‘barocca’ del ‘capriccio’ alla sfera religiosa e devozionale (che spinse Marino anche alla composizione di tre esercizi di oratoria sacra, le cosiddette Dicerie sacre, 1614, e di un poema religioso La strage degli innocenti). Vi si riconosce ancora l’influenza tassiana, declinata sempre di più in direzione della musicalità del verso, e della densità metaforica. Oltre i confini della poesia lirica, la bucolica viene rinnovata con i dodici idilli della Sampogna (1620); un’originale creazione,

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a gara con modelli ellenistici, è la Galeria (1619), ideale passeggiata in una ‘galleria’, in un moderno museo di arti figurative, le cui opere sono descritte in una catena di componimenti, secondo il principio oraziano dell’Ut pictura poesis. L’aspirazione più grande del Marino era però quella di superare il più grande poeta della generazione precedente, il Tasso, e perciò egli si industriò subito alla composizione di una Gerusalemme distrutta, abbandonata la quale si volse interamente ad una favola mitologica, quella di Adone, il bellissimo fanciullo amato da Venere, e ucciso da un cinghiale aizzato dal geloso Marte. L’esilissima storia viene dilatata in un enorme poema mitologico-allegorico in venti canti, l’Adone (ed. Parigi 1623), in cui ogni minuscolo dettaglio è pretesto di digressioni infinite, dalla descrizione del Giardino del Piacere all’analisi dei Cinque Sensi, passando per i cieli della Luna, di Mercurio, di Venere. Le digressioni narrative diventano veri poemi nel poema, come la favola di Amore e Psiche, o gli altri vari racconti mitologici, seguendo i modelli strutturali delle Metamorfosi di Ovidio e delle Dionisiache del poeta ellenistico Nonno di Panopoli. La scrittura mariniana è estremamente sensuale, e si compiace degli accostamenti fonici e musicali che produce (celebre la virtuosistica descrizione del canto di un usignuolo, che sembra riprendere la partitura di un madrigale di Monteverdi), come anche dell’immenso bagaglio enciclopedico utilizzato nelle parti allegoricodidascaliche, un enciclopedismo esibito, ostentato. Il sistema si regge su meccanismi di ripetizione e dilatazione, e di ricombinazione del già detto. In questa smisurata macchina testuale, l’elemento dominante resta quello distintivo del suo tempo: la meraviglia per la vitalità travolgente della Natura, la curiosità per un mondo potenzialmente infinito, vorticoso, che si risolve in una fondamentale attenzione alle scoperte della scienza contemporanea, con l’altissima lode a Galileo e all’invenzione del telescopio, inteso come mirabile strumento del ‘vedere’. L’opera del Marino influenzò profondamente la poesia dei contemporanei, e della generazione successiva, suscitando anche dibattiti di poetica e fenomeni di imitazione che hanno fatto quasi pensare a due correnti letterarie contrapposte, i ‘marinisti’ e gli ‘antimarinisti’, guidati da quel Tommaso Stigliani che ne L’Occhiale (1627) aveva pesantemente criticato l’Adone, denunciandone l’assenza di unità, la viltà della lingua, e l’immoralità. In realtà, proprio Stigliani aveva tentato di superare l’Adone con un suo sconclusionato poema sulla scoperta dell’America, il Mondo Nuovo; e un altro poema di esaltazione dell’età dell’oro e di ritorno alla Natura, lo Stato rustico, aveva scritto il nobile genovese Giovan Vincenzo Imperiali (Genova ca. 1570-ca.1645).



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Più che all’artificiosa distinzione tra ‘marinisti’ e ‘antimarinisti’, giova però risalire alle ‘scuole’ che, nei principali centri culturali della penisola, presentano un filo continuo di tradizione ed elaborazione. In primo luogo a Napoli, dove l’eredità tassiana, petrarchista, classicista, è tenuta ancora viva da Giovan Battista Manso (Napoli 1569-1645), autore di una importante Vita del Tasso, e delle Poesie nomiche che ispirano la produzione di Pirro Schettini, Torquato Accetto, Giuseppe Battista, Antonio Muscettola. Lo sperimentalismo barocco, il concettismo, il metaforismo trionfano invece in Girolamo Fontanella (Napoli 1612-1644), autore delle Elegie in terzine, dei Nove cieli e delle Ode; e soprattutto nelle Scintille poetiche del gesuita Giacomo Lubrano (Napoli 1619-ca. 1692), che rappresentò nella sua poesia gli eventi più terribili del secolo, segni di un mondo sull’orlo dell’apocalisse: la rivolta di Masaniello, le eruzioni del Vesuvio e i terremoti, le pestilenze. Al furore del barocco napoletano Bologna e l’Emilia rispondono con l’equilibrio poetico del petrarchista Claudio Achillini (Bologna 1574-1642), e di Fulvio Testi (Ferrara 1593-Modena 1646), che nella decadente corte estense si distinse come cantore di poesia civile, di contenuti politici e morali altrove assenti, con un certo grado di consapevolezza della realtà politica e civile anche contemporanea (riflessa anche nell’importante epistolario). A Roma, nel classicismo promosso da papa Urbano VIII, emerge il giovane Virginio Cesarini (Roma 1595-1624), allievo dei Gesuiti ma anche Linceo e amico di Galileo, notevole poeta in latino e in volgare che torna alla lezione di Petrarca e dei classici. A Genova si riconosce una scuola che segue le orme di Chiabrera, fino ad Anton Giulio Brignole Sale (Genova 1605-1662), che con gli epigrammi grecizzanti del Satirico innocente fa anche prova di poesia satirica, contro la corruzione dei costumi contemporanei; e importanti satire scrisse anche il pittore napoletano Salvator Rosa (Napoli 1615-Roma 1673). Un posto a parte lo conquista il friulano Ciro di Pers (Pers 1599-San Daniele 1663), ossessionato dalla presenza della Morte, e dallo scorrere inesorabile del Tempo, rappresentato per mezzo degli strumenti di misurazione, la clessidra, la meridiana, l’orologio. Dopo le altezze inarrivabili della Liberata del Tasso, e del poema epico-eroico, alla crisi della tradizione cavalleresca non c’era altro rimedio se non la poesia eroicomica, basata su un meccanismo mimetico di parodia e di rovesciamento: un altro modo, se vogliamo, di declinare la ‘rivolta’ del Seicento contro i modelli. Vi si cimentò il nobile modenese Alessandro Tassoni (Modena 1556-1635), impegnato peraltro, nel corso della sua vita, su posizioni generalmente critiche nei confronti delle convenzioni politiche

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e poetiche (dalle anonime Filippiche contra gli Spagnoli alle antipetrarchiste Considerazioni sopra le rime del Petrarca). Gli antecedenti erano illustri: da Pulci a Rabelais e Teofilo Folengo. Il grande e nobile obiettivo della guerra santa nel poema eroico (la liberazione di Gerusalemme) diventa (nel passaggio dalla macrostoria epica alla microstoria comica) un insignificante episodio della guerra tra guelfi e ghibellini, intorno alla battaglia di Fossalta e alla cattura di re Enzo da parte dei bolognesi (1249): il furto di un secchio di legno, perpetrato dai modenesi ai danni dei bolognesi. Nasce così La secchia rapita (1630), incredibile poema che narra in dodici canti gli scontri delle due armate di cittadini sgangherati, caricatura delle descrizioni militari della poesia epica, e rappresentazione comica di memorabili antieroi come il Conte di Culagna. Sotto il registro comico, però, emerge l’allusione al difficile presente dell’Italia, dominata dagli stranieri. Il successo della Secchia diede l’avvio ad una produzione straripante di poemi eroicomici, tra i quali basti ricordare L’Eneide travestita di Giovan Battista Lalli (1633), Il Lambertaccio di Bartolomeo Bocchini (1641), l’Avinavoliottoneberlinghieri di Piero de’ Bardi (1643), L’Iliade giocosa di Giovan Francesco Loredano (1653), la Nobiltà dei maccheroni di Francesco de Lemene (1654), La Troia rapita di Loreto Vittori (1662), fino allo sperimentalismo linguistico e gergale del Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi. Al di fuori dei generi tradizionali, la poesia sembra porsi ancora al servizio del divertissement e della divulgazione scientifica con il capolavoro del Bacco in Toscana di Francesco Redi (Arezzo 1626-Pisa 1698), uno scienziato al servizio del granduca nell’Accademia del Cimento e membro della Crusca, studioso degli insetti e delle vipere: il Bacco è definito un ‘ditirambo’, sul modello di antichi testi greci in onore del dio del vino, ed esprime, nella struttura mobile dei suoi versi, un senso giocoso della vita, nell’esaltazione della bevanda degli dèi che libera dalla sofferenza e dalla tristezza. Infine, la poesia dialettale, particolarmente viva a Napoli con il geniale Giulio Cesare Cortese (Napoli ca. 1570-ca. 1640), una sorta di cantastorie che nei suoi poemi in ottave rappresenta gli aspetti più veri della vita popolare a Napoli tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento: Micco Passaro ’nnamorato; Lo Cerriglio ’ncantato, sulla celebre taverna napoletana oggetto di un epico assalto dei famelici plebei guidati da Sarchiapone; La Rosa, favola pastorale di una fanciulla rapita dai Turchi e travestita da uomo; e Il viaggio di Parnaso. Ma la sua opera più grande è sicuramente La Vaiasseide, celebrazione delle ‘vaiasse’, donne umili e serve della città, di cui si raccontano tutte le esperienze, dagli amori al matrimonio, dalla prostituzione alla morte: una straordinaria rappresentazione sociale dalla parte delle donne



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degli strati più bassi della società, in una delle più tumultuose e moderne città dell’Europa del tempo. Sempre a Napoli è attivo Filippo Sgruttendio, autore di un poemetto che esalta lo strumento musicale della ‘tiorba’, De la Tiorba a taccone (1646). A Venezia invece si colloca La carta del navegar pitoresco (1660) di Marco Boschini (1613-1678), dialogo poetico sull’eccellenza di Venezia e delle sue scuole pittoriche.

3.4. La prosa “Il più bel libro italiano barocco” (secondo Benedetto Croce) è stato scritto da Giambattista Basile (Napoli ca. 1575-1632), il più importante rappresentante della multiforme cultura napoletana tra Cinque e Seicento, accanto a Marino, Manso, Cortese. Il Basile (che nelle sue opere si firmava con lo pseudonimo-anagramma di Gian Alesio Abbattutis), dopo la formazione napoletana, era stato cortigiano a Mantova con la sorella cantante Adriana, soldato al servizio dei veneziani a Creta, e perfino governatore di piccole città del Sud. Ma la sua vera dimensione era quella del fine letterato, e anche del filologo. Dopo un’ampia produzione poetica in lingua italiana, decise negli ultimi anni di consacrarsi al dialetto napoletano, componendo le nove egloghe de Le Muse napolitane, fresca rappresentazione di realtà cittadine e di scene di costume, più che di utopie bucoliche. Il suo capolavoro è Lo cunto de li cunti overo lo tratteniemento de li peccerille, detto anche Pentamerone (a imitazione di Boccaccio) perché i suoi cinquanta racconti vengono raccontati in cinque giornate (come nel Decameron, dieci al giorno; e le prime quattro giornate si chiudono con un’egloga). Perché ‘lo cunto de li cunti’? Perché l’ultima novella, raccontata dalla protagonista della cornice, è la sua stessa storia: novella e cornice, realtà e finzione finiscono col coincidere, in un gioco di specchi e di contenitori progressivi che ricorda la novellistica orientale. La principessa Zoza, figlia del re di Vallepelosa, incapace di ridere, riesce a farlo solo assistendo alla buffa caduta di una vecchia strega, che la maledice: potrà sposare solo un principe eternamente addormentato in una tomba, e che può essere risvegliato riempiendo di lacrime una brocca. Dopo lunghe ricerche, Zoza trova il principe, e piangendo piangendo sta per colmare la brocca, quando sul più bello si addormenta, e una schiava nera di passaggio compie facilmente il sortilegio e sposa il principe. Zoza però rovescia la situazione facendo intrattenere i due da dieci vecchie e orrende novellatrici, per cinque giornate, fino all’ultima favola, narrata da lei stessa travestita: non

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è una favola, ma il racconto reale di quel che le è capitato, che fa scoprire la verità al principe, eliminare la perfida rivale, e convolare a giuste nozze. Grazie a Basile, la tradizione novellistica italiana si rinnova, esplorando i territori della fiaba e del meraviglioso (ad esempio, nella bellissima fiaba della Gatta Cenerentola, ripresa poi da Perrault e dai Grimm), e inventandosi una lingua che eleva il dialetto napoletano a strumento linguistico barocco per eccellenza, sovrabbondante, ricchissimo. Ma Lo cunto è anche testimonianza eccezionale di emergenza della cultura popolare, di ricezione della tradizione orale, del substrato antropologico del Mezzogiorno d’Italia, dell’incrocio di magia e superstizione. Il confronto col Basile non lo regge nessun altro novelliere del Seicento. La novellistica acquista anzi una connotazione accademica, sociale, ‘collettiva’, e per così dire di costume, con le veneziane Cento novelle amorose dei Signori Accademici Incogniti raccolte da Giovan Francesco Loredano (16411651); o con il predominio dell’ambientazione della ‘cornice’, specchio di una civiltà della conversazione che annovera il bolognese Adriano Banchieri (il continuatore di Croce con la novella di Cacasenno), Trastulli in villa in sette giornate (1627), e il veneto Giovanni Sagredo, Arcadia in Brenta (1667). Un genere quasi del tutto nuovo, e quindi libero dal confronto con regole e modelli, è il romanzo, che riesce a esprimere alcuni caratteri profondi dell’età barocca: il gusto del fantastico e dell’esotico, la componente erotica e libertina, il senso dell’avventura come dominio del caso nelle vicende della vita e la creazione di personaggi che abdicano a ogni principio di ragione e si lasciano trasportare dalla fortuna, tra pirati, briganti, pìcari, furfanti, avventurieri di ogni risma e paese. La geografia è spesso quella mobilissima del Mediterraneo e dell’Oriente, fra feroci saraceni e sensuali schiave: ma presto lo scenario diventa quello più familiare della laguna veneta, e della contemporaneità galante. Gli intrecci complicatissimi sono macchine testuali non dissimili dai contemporanei poemi barocchi. Ma la vera novità è la lingua. Destinati a un pubblico medio-borghese, se non addirittura popolare, in ampia tiratura di edizioni di consumo (e quindi vero genere ‘di consumo’), questi romanzi operano un cambiamento sensibile nella prosa italiana, fino ad allora legata all’imitazione di moduli classicisti, toscani, boccacciani, aprendo ad apporti dialettali, e all’evocazione delle lingue europee e mediterranee. La capitale del romanzo barocco, per la presenza di una grande industria editoriale, è sicuramente Venezia, dove operano Giovan Francesco Biondi, autore dell’Eromena, della Donzella desterrada e del Coralbo, e di



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Girolamo Brusoni, autore della Fuggitiva e dell’Orestella, inventore del romanzo veneziano di costume contemporaneo con l’importante trilogia La gondola a tre remi, Il carrozzino alla moda e La peota smarrita. Pace Pasini scrive un’intricatissima Istoria del Cavalier perduto (che sembra anticipare la struttura narrativa dei Promessi Sposi), mentre il veronese Francesco Pona ne La lucerna fa raccontare ad uno spirito magicamente imprigionato in una lampada tutte le sue vite precedenti, in una sorta di ‘romanzo di romanzi’ aperto a ogni possibilità. L’altro grande centro di produzione romanzesca è Genova: qui Anton Giulio Brignole Sale compone il romanzo religioso Maria Maddalena peccatrice e convertita (1636), e Giovanni Ambrosio Marini il fortunato Calloandro fedele (1640-1641), mentre Bernardo Morando descrive nella Rosalinda le peripezie di una giovane inglese cattolica in fuga dal suo paese. Infine, il frate genovese Francesco Fulvio Frugoni crea ne Il Cane di Diogene (1689) una specie di opera-mondo, di letteratura di secondo grado, di ipertesto aperto a ogni genere di scrittura, dalla narrativa alla critica e alla satira, dalla filosofia alla storia: il tutto nella storia del viaggio all’Inferno di Saetta, il cane del filosofo cinico Diogene. Un caso a parte è quello di un altro grande irregolare (come Aretino), destinato (come Niccolò Franco) ad una fine tragica (la morte per decapitazione), Ferrante Pallavicino (Piacenza 1616-Avignone 1644), vissuto in un contesto libertino e quasi rivoluzionario, insofferente delle norme, e divulgatore intemerato dei propri costumi in una serie di romanzi e libri scandalosi: La pudicizia schernita, Il principe ermafrodito, Le due Agrippine; addirittura Il divorzio celeste (tra la Chiesa e Cristo); e la Retorica delle puttane, in quindici lezioni che condannano vivacemente l’ipocrisia religiosa. Ma Pallavicino è anche attento alle nuove possibilità di strategia narrativa, in un’opera come Il corriero svaligiato, che simula il furto di 49 lettere a un ‘corriere’, e ricostruisce una serie di microstorie attraverso la lettura di quelle lettere: un attentato contro la privacy, certo, ma che consente al narratore di entrare nell’intimità delle vicende, quasi per caso, come tranches de vie. Fin qui la prosa d’invenzione. Ma il Seicento è anche il secolo dell’eccezionale sviluppo della prosa scientifica e filosofica (Galileo), che inizia ad affrancarsi da retaggi espressivi, scolastici, classicistici, per aderire più da vicino alle cose, e giungere ad un livello di comunicazione più efficace. L’urgenza della comunicazione è anzi il carattere distintivo di Giovan Domenico Campanella (Stilo 1568-Parigi 1639), frate domenicano col nome di fra Tommaso (1583), predicatore a Napoli, Roma e Firenze, e filosofo antiaristotelico e telesiano nella Philosophia sensibus demonstrata. Professore a Padova, viene arrestato dall’Inquisizione (1595), e confinato in Calabria. Tornato nella sua

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terra, unisce allora la sua originaria rivolta intellettuale contro le autorità filosofiche e i dogmi del pensiero ad un vero progetto di rivoluzione sociale e civile contro l’oppressione spagnola, particolarmente dura in quelle aree del Mezzogiorno dove da secoli perdurava anche un feroce dominio feudale. La rivolta è sventata, e Campanella rinchiuso nel Castelnuovo di Napoli, per ben ventisette anni di carcere durissimo (1599-1626), in cui il filosofo si finge addirittura pazzo per evitare la morte. Uscirà da Castelnuovo solo per andare in un’altra cella, quella del Sant’Uffizio a Roma (1626-1629), donde sarà però liberato dalla benevolenza di Urbano VIII. Le opere migliori di Campanella nacquero nelle più terribili condizioni della prigionia napoletana. Contro ogni difficoltà, si procurava la carta, la penna, l’inchiostro, e scriveva di nascosto, continuando a fingersi pazzo. Una vera ‘opera di libertà’, che gli consentiva di uscire con lo spirito dalle mura in cui lo avevano rinchiuso. Sono opere filosofiche e poetiche, scritte ora in latino ora in volgare, con un’escursione tra le due lingue che lo avvicina a Bruno e a Galileo: Del senso delle cose e della magia (1604, poi in latino 1620), espressione di un’idea del mondo ‘animato’ e dotato di sensibilità, di una concezione ‘magica’ sospesa tra gli Antichi e la nuova scienza sperimentale; la Poetica (prima stesura in volgare 1596, poi in latino 1612); le poesie filosofiche influenzate da Lucrezio, da Dante e dalla Bibbia, aperte a infiniti orizzonti cosmici; e addirittura un testo latino in difesa di Galileo, l’Apologia pro Galilaeo (1616), che il recluso di Castelnuovo sentiva di dover scrivere per sostenere la battaglia galileiana per la libertà intellettuale. La più grande visione di Campanella è quella di un’umanità che riesce finalmente a superare la necessità, la violenza, la sopraffazione; una ‘città’ dalla quale le tenebre sono bandite per sempre, cacciate dalla luce del Sole: la Città del Sole (prima stesura in volgare 1602, poi in latino 1623, rifatta a Parigi 1637), un testo ‘utopico’, direttamente legato da un lato all’Utopia di Tommaso Moro (simile è la struttura del dialogo con un marinaio genovese, già al servizio di Colombo, che racconta della scoperta di quella città straordinaria), dall’altro all’ideale platonico della Repubblica, fondata sul comunismo, sull’uguaglianza e sull’abolizione della proprietà privata, dell’individualismo e della violenza. L’utopia campanelliana si collocava in un contesto in cui la prosa politica e storica era percorsa dal dibattito sul tacitismo: da un lato, nettamente critico, Traiano Boccalini (Loreto 1556-Venezia 1613), che nei Ragguagli di Parnaso mette in scena una finzione satirica del mondo degli dèi in cui si proietta il mondo di quaggiù, e in cui si svela il lato anche oscuro dell’azione dei principi; dall’altro lato il bolognese e ‘tacitista’ Virgilio Malvezzi



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(1595-1653), considerato all’epoca il più grande prosatore del secolo, autore di biografie e trattati politici in stile laconico, talvolta involuto e oscuro; di romanzi storico-politici come Romulo, Tarquinio Superbo, Davide perseguitato; e del significativo Ritratto del privato politico cristiano (1635), sulla figura del Conte Duca d’Olivares, ministro del re di Spagna, nel cui elogio si rivela il fiancheggiamento della politica spagnola. Suo nipote, il gesuita Pietro Sforza Pallavicino (Roma 1607-1667), scriverà la Storia del Concilio di Trento (1656-1657), concepita come una risposta alle critiche dell’Istoria del concilio tridentino di Paolo Sarpi; e un Trattato dello stile e del dialogo (1662) in cui si tratta dell’importanza della scrittura “insegnativa” e della comunicazione, che si serve soprattutto dello strumento rinascimentale del dialogo, evitando gli eccessi formali del barocco. Un forte elemento di rinnovamento e di sperimentalismo affiora comunque negli scritti dei Gesuiti, che, nonostante la posizione retriva assunta nel caso Galileo, dimostrano in altre occasioni un’inesausta curiosità intellettuale e scientifica, favorita anche dalla propagazione della Compagnia a livello planetario, dalle Americhe all’India e alla Cina, con la fondazione di missioni in cui le popolazioni native vengono educate anche a valori derivati dalla civiltà umanistica, alle arti e alla musica: una vicenda grandiosa celebrata nella Storia della Compagnia di Gesù (1650-1673) da Daniello Bartoli (Ferrara 1608-Roma 1685), con uno stile vivido che coniuga l’enfasi barocca e la meraviglia per quei nuovi mondi con la precisione descrittiva. Lo stesso stile il Bartoli l’utilizza, d’altronde, in una serie di scritti morali, in cui si legge anche un ripensamento della funzione dell’intellettuale: L’uomo di lettere difeso ed emendato (1645); L’uomo al punto cioè l’uomo in punto di morte (1657); La ricreazione del Savio (1659). Una linea di sobrietà che torna nelle prediche e negli scritti del gesuita Paolo Segneri (Roma 1624-1694), a differenza del vero e proprio ‘teatro’ barocco che pervade il resto della predicazione secentesca, in particolare il Quaresimale del cappuccino Emanuele Orchi (Como 1600-1649). Infine, il senso del nuovo e del meraviglioso che pervade l’età barocca continua ad essere vivissimo nella letteratura di viaggio, praticata, come s’è visto, dagli stessi missionari gesuiti. Nel corso del Seicento vi si distinguono autori come Pietro Della Valle (Roma 1586-1652), avventuroso viaggiatore che, partito per un pellegrinaggio in Palestina, finì col vagare per quasi dodici anni in giro per l’Asia, dall’impero turco fino alla Persia e all’India; e Francesco Negri (Ravenna 1623-1698), che nel suo Viaggio settentrionale descrive le terre desolate del Nord Europa, fino a Capo Nord.

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3.5. Il teatro Il Seicento segna indubbiamente il trionfo del teatro come mezzo di espressione, e il suo successo di comunicazione presso tutti i livelli sociali, dalla Corte e dall’Accademia alla fruizione popolare della piazza, della fiera, del mercato: e sono proprio i contesti medio-bassi a favorire la costruzione di nuovi edifici teatrali, e a diffondere la pratica del pubblico pagante (soprattutto a Venezia, il San Cassiano viene fondato nel 1636, e si arriva a ben 15 teatri pubblici alla fine del ’600). In molti casi, è il trionfo dell’effimero, in una diffusa spettacolarizzazione della vita pubblica, in cui la manifestazione del potere avviene per mezzo di grandi macchine scenografiche, con il concorso di ingegnosi mezzi scenici, musiche e effetti di luci, finalizzati a suscitare la ‘meraviglia’. La musica, già accompagnata al teatro del Cinquecento nella forma dell’interludio o dell’intermezzo, cerca ora di avvicinarsi il più possibile al testo, superando la complessità della polifonia e adottando schemi di canto monodico più adatti alla recitazione, o, come si disse allora, al ‘recitar cantando’. Il genere più adatto alla fusione di parola e musica sembrava quello che già si era posto come genere d’avanguardia, di confine tra commedia e tragedia, cioè la tragicommedia di ambientazione pastorale o mitologica, come l’Aminta o il Pastor fido, i cui testi furono a lungo una fonte importante per i musicisti dell’epoca, e che influenzarono la fortunata Filli di Sciro di Guidubaldo Bonarelli (Ferrara 1607). Il primo dramma musicale, o melodramma, sembra essere stata la Dafne di Ottavio Rinuccini, rappresentata a Firenze nel 1598, e seguita dall’ Euridice, con musiche di Iacopo Peri, nel 1600, nelle feste per il matrimonio di Maria de’ Medici. Dello stesso Rinuccini, l’Arianna fu rappresentata a Mantova nel 1608 con la musica del più grande musicista contemporaneo, Claudio Monteverdi, autore dei fondamentali libri dei Madrigali, e responsabile di un’altra memorabile rappresentazione dell’Orfeo (Mantova 1607). A Roma, nell’ambiente dell’Oratorio dei Filippini di San Filippo Neri, era nata invece la forma dell’oratorio, un insieme di testi recitati e di testi cantati di argomento sacro, con la celebre Rappresentazione di Anima e Corpo (1600), su testo di Agostino Manni e musiche di Emilio de’ Cavalieri. Un fenomeno quasi spontaneo di trasformazione della commedia regolare in una forma di teatro popolare, aperto al rispecchiamento della realtà contemporanea in tutti i suoi aspetti, è la commedia dell’arte, nata già nel Cinquecento grazie all’opera di compagnie di attori girovaghi, di cui facevano parte anche le donne (una novità sostanziale, considerato che le leggi civili e religiose vietavano alle donne di calcare le scena, e le loro parti



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erano prima interpretate da travestiti professionisti, il che spiega anche la grande diffusione di situazioni en travesti nella commedia del primo ’500). Talvolta erano vere e proprie compagnie ‘familiari’, come la compagnia dei Gelosi, guidata da Francesco Andreini (specializzato nella parte di Capitan Spavento) e sua moglie Isabella, e continuata dal figlio Giambattista (detto Lelio, perché specializzato nel tipo del damerino innamorato). A Napoli furoreggiava Silvio Fiorillo, celebre nella parte del Capitan Matamoros, considerato il geniale creatore di Pulcinella, o meglio adattatore, all’interno della commedia dell’arte, di un tipo antropologico antichissimo, risalente alle origini pagane e sensuali del popolo napoletano. Il fondamento della commedia dell’arte era l’improvvisazione. Gli attori girovaghi non avevano il tempo di imparare a memoria le commedie antiche, anche se le tenevano presenti per ricavarne gli intrecci fondamentali (all’inizio sempre l’amore, un desiderio erotico lecito o meno lecito, ostacolato da altri pretendenti o da vincoli sociali o morali, poi il consueto gioco di scambi, travestimenti, riconoscimenti ecc. ecc.). Bastava loro solo il canovaccio o ‘scenario’ (come quelli raccolti da Flaminio Scala nel Teatro delle favole rappresentative nel 1611), lo scheletro dell’azione e delle entrate, su cui essi improvvisavano le battute, tratte da un repertorio comune. Per questo motivo ogni attore si specializzava su un tipo particolare, e di solito solo su quello: un personaggio della commedia regolare che col tempo perde ogni profondità psicologica, e diventa nient’altro che una maschera, come quelle in uso nei carnevali tardomedievali, in particolare a Venezia. Ma le maschere, a loro volta, riproducono tipi universali, ben riconoscibili nella società contemporanea: il vecchio mercante veneziano (Pantalon), il ‘dottore’ bolognese, avvocato o medico o pedante (Balanzone), i servi furbi, dal tipo del facchino veneziano o bergamasco (Arlecchino e Brighella), il popolano napoletano famelico, sfaccendato e filosofo (Pulcinella), i furbi e disinibiti servi veneziani o zanni (da Zanni, ‘Giovanni’), specializzati nei ruoli plebei e nella gestualità. Una riconoscibilità che è assicurata anche dalla connotazione linguistica dialettale, che produce effetto comico anche grazie al confronto con la varietà ‘alta’ dei personaggi che rappresentano la cultura borghese e aristocratica. Per sua natura, la commedia dell’arte è plurilinguistica. Tra i primi ad avvalersi delle potenzialità espressive del dialetto in ambito teatrale fu il filosofo e professore milanese Carlo Maria Maggi (Milano 1630-1699), autore di Rime (1688), e soprattutto di una serie di commedie in dialetto milanese, in cui s’inventa il tipico personaggio di Meneghino. Ma anche Francesco de Lemene (Lodi 1634-1704), interessante poeta tardobarocco che si richiama ancora allo stile di Marino, compone una commedia in dialetto lodigiano, La sposa Francesca (1694), in cui si mette in scena una

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vedova (Francesca) che ha da maritare la figlia senza dote: una notevole rappresentazione del mondo lombardo degli ‘umili’ che poi arriverà fino al Manzoni. Di fronte alle novità rivoluzionarie del melodramma e della commedia dell’arte e del teatro dialettale, le forme tradizionali di teatro perdono terreno, e si isteriliscono. Ipertrofico esito della commedia cortigiana è ancora La fiera (1619) di Michelangelo Buonarroti il Giovane, in realtà un insieme di cinque commedie. La tragedia diventa più che altro una forma letteraria, destinata alla lettura più che alla recitazione. Nell’Aristodemo (1657) di Carlo de’ Dottori (autore anche di un’interessante autobiografia, le Confessioni, e di un poema eroicomico tassoniano L’Asino del 1652) trionfa il pessimismo totale, nella vicenda di un re dell’antica Grecia che finisce con l’uccidere la figlia innocente Mérope, e se stesso.

Bibliografia 3.1. Moderno e barocco. Sull’età e la letteratura barocca: B. Croce, Storia dell’età barocca in Italia (1929), Milano, Adelphi, 1993; Id., Saggi sulla letteratura italiana del Seicento (1911), Bari, Laterza, 1962; Id., Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento (1929), Napoli, Bibliopolis, 2003; C. Calcaterra, Il Parnaso in rivolta. Barocco e Antibarocco nella poesia italiana (1941), Bologna, Il Mulino, 1961; G. Getto, Il Barocco letterario in Italia, a c. di M. Guglielminetti, Milano, Bruno Mondadori, 2000; F. Croce, Tre momenti del Barocco letterario italiano, Firenze, Sansoni, 1966; E. Raimondi, Anatomie secentesche, Pisa, Nistri-Lischi, 1966, e Letteratura barocca. Studi sul Seicento italiano, Firenze, Olschki, 1991; J.A. Maravall, La cultura del Barocco. Analisi di una struttura storica (1975), Bologna, Il Mulino, 1999; P. Guaragnella, Gli occhi della mente. Stili nel Seicento italiano, Bari, Palomar, 1997; A. Battistini, Il Barocco, Roma, Salerno, 2000; M. Fumaroli, L’età dell’eloquenza. Retorica e “res literaria” dal Rinascimento alle soglie dell’epoca classica (1980), Milano, Adelphi, 2002. Su filosofia e scienza: C. Vasoli, L’enciclopedismo del Seicento, Napoli, Bibliopolis, 1978; G. Olmi, L’inventario del mondo. Catalogazione della natura e luoghi del sapere nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 1992; G. Baffetti, Retorica e scienza. Cultura gesuitica e Seicento italiano, Bologna, CLUEB, 1997. Rivista specializzata: “Studi secenteschi”. Risorsa in rete: Archivio Barocco, a c. di M. Pieri, Università di Parma (www2.unipr. it/~pieri).



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3.2. Galileo. Testi: Opere, edizione nazionale diretta da A. Favaro con la consulenza filologica e letteraria di I. Del Lungo, Firenze, Barbèra, 1890-1909; Opere, a c. di F. Brunetti, Torino, UTET, 2005; Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano, ed. crit. a c. di O. Besomi e M. Helbing, Padova, Antenore, 1998; Il saggiatore, ed. crit. a c. di O. Besomi e M. Helbing, ivi 2005. Studi: A. Battistini, Introduzione a Galilei, Roma-Bari, Laterza, 1989; S. Drake, Galileo, Bologna, Il Mulino, 1998; M. Di Giandomenico – P. Guaragnella, La prosa di Galileo. La lingua, la retorica, la storia, Roma, Argo, 2006. Risorsa in rete: Portale Galileo, Istituto e Museo di Storia della Scienza, Firenze (brunelleschi.imss.fi.it/portalegalileo/indice.html) 3.3. La poesia. Antologie: Lirici marinisti, a c. di G. Getto, Torino, TEA, 1990; Il Barocco, Marino e la poesia del Seicento, a c. di M. Pieri, Roma, Ist. Poligrafico dello Stato, 1996; Opere scelte di Giovan Battista Marino e dei Marinisti, a c. di G. Getto, Torino, UTET, 1996. - G.B. Marino, L’Adone, a c. di G. Pozzi, Milano, Adelphi, 1988; La Galeria, a c. di M. Pieri, Padova, Liviana, 1979; La sampogna, a c. di V. De Maldé, Parma, Guanda, 1993. Cfr. P. Cherchi, La metamorfosi dell’Adone, Ravenna, Longo, 1996. - A. Tassoni, La Secchia rapita, ed. crit. a c. di O. Besomi, Padova, Antenore, 19871990. - F. Redi, Bacco in Toscana, a c. di G. Bucchi, Roma-Padova, Antenore, 2005. Cfr. Francesco Redi, un protagonista della scienza moderna. Documenti, esperimenti, immagini, Firenze, Olschki, 1999. 3.4. La prosa. Antologie: Trattatisti e viaggiatori del Seicento, a c. di E. Raimondi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960; Scienziati del Seicento, a c. di M.L. Altieri Biagi e B. Basile, MilanoNapoli, Ricciardi, 1980; Prosatori e narratori barocchi, a c. di G. Bárberi Squarotti, Roma, Ist. Poligrafico dello Stato, 2002; Scrittori politici dell’età barocca, a c. di R. Villari, ivi, 1998. Studi: A. Mancini, Romanzi e romanzieri del Seicento, Napoli, SEN, 1981; M.A. Cortini – L. Mulas, Selva di vario narrare. Schede per lo studio della narrazione breve nel Seicento, Roma, Bulzoni, 2000; La novella barocca, a c. di L. Spera, Napoli, Liguori, 2001; A. Colombo, Lo sguardo che s’interna. Personaggi e immaginario interiore nel romanzo italiano del Seicento, Roma, Aracne, 2002. - Giambattista Basile, a c. di S. Strati, Roma, Ist. Poligrafico dello Stato, 1997; Lo cunto de li cunti, a c. di M. Rak, Milano, Garzanti, 2007. Cfr. M. Rak, Da Cenerentola a Cappuccetto rosso. Breve storia illustrata della fiaba barocca, Milano, Bruno Mondadori, 2007.

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- T. Campanella, Le poesie, a c. di F. Giancotti, Torino, Einaudi, 1998; La Città del Sole, a c. di L. Firpo, Roma-Bari, Laterza, 2006; Del senso delle cose e della magia, a c. di G. Ernst, ivi 2007; Apologia pro Galileo, a c. di M.P. Lerner, Pisa, Scuola Normale Superiore, 2006. Cfr. G. Ernst, Tommaso Campanella, Roma-Bari, Laterza, 2002; S. Zoppi Garampi, Tommaso Campanella. Il progetto del sapere universale, Milano, Vivarium, 1999. 3.5. Il teatro. R. Tessari, La Commedia dell’Arte: la maschera e l’ombra, Milano, Mursia, 1980; Alle origini del teatro moderno. La Commedia dell’Arte, a c. di L. Mariti, Roma, Bulzoni, 1980; F. Taviani – M. Schini, Il segreto della Commedia dell’Arte, Firenze, La Casa Usher, 1982.

4. Il Settecento

4.1. L’età dell’Arcadia Alla fine del Seicento, le cosiddette ‘guerre di Successione’ portano al graduale declino della Spagna, e all’ascesa della Francia a livello continentale, e dell’Inghilterra a livello globale. Continua la marginalità dell’Italia, che passa dalla sfera d’influenza spagnola a quella austriaca, negli importanti stati di Milano e Napoli; ma comincia ad imporsi l’autonomia della dinastia dei Savoia, che con Vittorio Amedeo giunge al titolo regio, con l’acquisto del Regno di Sicilia (1714), scambiato poi con l’Austria per quello di Sardegna (1720). Agli occhi degli stranieri (testimoni di un grande sviluppo economico e culturale che, in Inghilterra, porta all’avvio della cosiddetta rivoluzione industriale) l’Italia di allora, ancorata al classicismo e alle sue tradizioni, ma anche culla della retorica e degli splendori del barocco, poteva apparire in un certo senso ‘attardata’, rispetto alle conquiste dei ‘moderni’. Nel 1687, a Parigi, nel corso di una vivace seduta dell’Académie, Claude Perrault (il celebre scrittore di favole) affrontò polemicamente il tema della ‘querelle des anciens et des modernes’ (‘confronto degli antichi e dei moderni’), dichiarando che finalmente il ‘grand siècle’ aveva superato la ‘belle antiquité’. Un superamento che, per gli stranieri, significava anche il ‘sorpasso’ della civiltà italiana, di quella civiltà che con Dante, Boccaccio, Petrarca, il Rinascimento, l’umanesimo, il manierismo, il barocco, aveva fino ad allora guidato l’intera civiltà europea, e ispirato i suoi orizzonti culturali, le sue aspettative, il suo stesso gusto. In quello stesso 1687 esce infatti un testo di Dominique Bouhours, De la manière de bien penser dans les ouvrages d’esprit (‘come ben procedere nelle opere dello spirito’), polemico contro un’Italia poco ‘moderna’, caratterizzata dalla poca verità e dalla troppa retorica. La risposta degli italiani (con Giovanni Giuseppe Orsi e Ludovico Antonio Muratori) fu di rivendicare il valore della loro tradizione letteraria e

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poetica, il loro ‘classicismo’, che andava semmai depurato dalle intemperanze formali del Seicento barocco. Un ritorno all’ordine, alla chiarezza stilistica, ispirato ai grandi classici antichi (Orazio) e moderni (Petrarca, Ariosto, Tasso), come chiede Benedetto Menzini nella sua Poetica (1688). Ma fu una risposta che si concretizzò soprattutto in una rinascita dell’accademia, di quell’istituzione che, nata nel Rinascimento, era stato uno degli strumenti più efficaci e stabili di aggregazione degli intellettuali nell’Antico Regime, possibilità di circolazione di idee e di poesia che poteva godere di una certa autonomia dalle strutture del potere politico. In particolare, un circolo di letterati aveva cominciato a riunirsi dal 1674 intorno ad un personaggio quasi leggendario della Roma barocca, Cristina di Svezia, exregina dello stato scandinavo, protagonista di una spettacolare conversione dal protestantesimo al cattolicesimo e giunta a Roma nel 1655, donna indipendente e talvolta spregiudicata, protettrice delle lettere e delle arti, morta nel 1689. Un anno dopo (1690), tra quei letterati, riunitisi per commemorare la regina, sorse quasi spontanea l’esclamazione: “Egli mi sembra che noi abbiamo oggi rinnovata l’Arcadia”. Era la nascita dell’Accademia dell’Arcadia, formalizzata il 15 ottobre 1690 a San Pietro in Montorio sul Gianicolo (luogo sacro per la memoria della poesia, perché accanto alla tomba del Tasso). Vi parteciparono da subito poeti e intellettuali come Vincenzo da Filicaia, Alessandro Guidi, Francesco Redi, Giovan Battista Zappi, Benedetto Menzini, e soprattutto Giovan Mario Crescimbeni (Macerata 1663-Roma 1728), che ne fu il primo ‘custode’, cioè segretario. Il gesuita maceratese Crescimbeni, a Roma dal 1679, avrebbe un giorno rappresentato in forma allegorica la nascita e lo sviluppo dell’accademia nel romanzo pastorale L’Arcadia (1709); ma intanto era stato il principale animatore della sua poetica, con alcuni scritti importanti che sono in effetti le prime storie della letteratura italiana, cioè i primi bilanci della tradizione dei ‘classici’ che esigeva il ripensamento critico di fine Seicento: L’istoria della volgar poesia (1698), La bellezza della volgar poesia (1700) e i Comentari intorno alla storia della volgar poesia (1702). L’Arcadia rinviava naturalmente al mito pastorale dell’Arcadia, la regione del Peloponneso nella quale la tradizione bucolica antica e moderna aveva ambientato le proprie raffinate finzioni poetiche (come aveva fatto Sannazaro). Per questo motivo i ‘soci’ dell’accademia si travestivano idealmente da ‘pastori’, e prendevano un nuovo nome accademico, desunto dal mondo bucolico. Ma la sua produzione letteraria non era limitata al solo genere pastorale, anzi, l’ampiezza degli interessi andava verso l’intero sistema dei generi, con una netta preferenza per l’effusione lirica e amorosa. Quel che ne distingueva la poetica era la ricerca della chiarezza d’espressione, l’abban-



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dono del concettismo e dell’arguzia del Seicento barocco, il ritorno al ‘vero’ e al ‘buon gusto’: una riforma che agisce soprattutto nella retorica, e nella metrica, nella quale si impongono le forme poetiche brevi, le canzonette di settenari basate prevalentemente sulle strofe di quartine, e caratterizzate da una nuova sensibilità musicale. Nelle arti, invece, è ancora imperante il tardobarocco, che tende però a perdere i caratteri della monumentalità e della grandiosità per diventare una pratica soprattutto decorativa, raffinata, chiamata ‘barocchetto’ o ‘rococò’. Un altro aspetto importante dell’Arcadia è sicuramente costituito dalla sua ampia dimensione sociale e istituzionale. L’Accademia non rimase confinata a Roma, ma ebbe una larga e capillare diffusione nazionale, per mezzo di sedi distaccate chiamate ‘colonie’, dotate di autonomia propria. Di più, la sua poesia era spesso una poesia ‘collettiva’, affidata a pubblicazioni come le raccolte delle Rime degli Arcadi, che cominciarono a uscire nel 1716, a cura del Crescimbeni. Non è perciò facile isolare, nella produzione poetica del primo Settecento, delle personalità ben individuate: ma vi si distinguono almeno quelle di Giovan Battista Felice Zappi (Imola 1667-Roma 1719), definito ‘inzuccheratissimo’ dal Baretti, autore di sonetti che rappresentano l’assoluta leggerezza di quadretti galanti contemporanei; o di Paolo Rolli (Roma 1687-Todi 1765), celebrato per le sue canzonette meliche, molto cantabili (e spesso musicate), come Solitario bosco ombroso o La neve è alla montagna, e importante diffusore della cultura italiana in Inghilterra, a Londra dal 1716 al 1744, dove produsse diverse edizioni dei nostri classici, libere dalle costrizioni morali e religiose che ancora vigevano nella penisola (ad esempio, l’edizione del Decameron integro, senza gli assurdi tagli controriformistici). Non era ambiente pacifico e idilliaco, quello dell’Arcadia, ma anzi talvolta luogo di scontro feroce tra diverse idee della poesia. Il nome più prestigioso dell’accademia, dal punto di vista culturale e filosofico, era quello di Gian Vincenzo Gravina (Roggiano 1664-Roma 1718), grande giurista, filosofo e critico letterario di origine calabrese che, dopo gli studi condotti a Scalea sotto la guida del cugino filosofo Gregorio Caloprese, approdò a Roma nel 1689 e aderì all’Arcadia. Provenendo dal Sud e da Napoli, il Gravina aveva una formazione classicistica e umanistica molto più profonda degli altri Arcadi, e la sua meditazione poetica si basava su ragioni di ordine filosofico e storico, e non retorico-formale. Nel trattato Della ragion poetica (1708), ad esempio, la poesia è strettamente legata al potere di creazione e finzione della fantasia, e questo gli consente di recuperare il valore del mito, e anche di indicare, per la prima volta, in poeti come Omero e Dante (svalutati dalla tradizione classicistica, a favore di Virgilio e Petrarca), una sorta di primato ‘immaginativo-poetico’, di ‘furore’ primitivo e quasi divino. Ne derivava una

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critica serrata della tradizione lirico-amorosa in volgare, dal vuoto formalismo petrarchista agli ultimi poeti dell’Arcadia; e quindi anche l’inevitabile scontro col Crescimbeni, che portò il Gravina a uscire dall’accademia (1711), e a fondarne una propria, chiamata Accademia dei Quirini, dove avrebbe approfondito la riflessione sul teatro tragico, con la composizione di cinque tragedie di ispirazione classica, e di un trattato Della tragedia (1715). Aveva ragione il Gravina a vedere nel teatro il genere più vitale e nuovo del suo tempo. Ma non erano certo le sue tragedie, o quella pur celebrata del contemporaneo ed erudito Scipione Maffei (Verona 1675-1755), la Merope, a infiammare il pubblico. Ormai l’attività teatrale aveva perso del tutto quel carattere di provvisorietà e marginalità che aveva agli inizi della Commedia dell’Arte. Esistevano in ogni città teatri e compagnie stabili, in cui erano ben definiti tutti i ruoli e tutte le funzioni: l’impresario, l’autore, il librettista, il musicista, gli attori e le attrici, i cantanti e i virtuosi, i ballerini, i musici, artigiani e operai, manovali, scenografi, pittori, falegnami, costumisti, fin giù alle ‘maschere’, ai venditori di biglietti, ai banditori. Un mondo variegato e affascinante, specchiato e preso garbatamente in giro dal musicista veneziano Benedetto Marcello nel suo bellissimo Il teatro alla moda (1720). Tra i più importanti scrittori di libretti per il melodramma si impose Apostolo Zeno (Venezia 1668-1750), vivace animatore di cultura anche grazie ad una pubblicazione periodica, il “Giornale dei letterati d’Italia” (dal 1710), poi poeta cesareo a Vienna (1718-1729), sostenitore di una riforma del teatro musicale, dal quale si sarebbe dovuta eliminare l’esuberante commistione dei generi comico e tragico. Ma chi veramente contribuì alla piena diffusione europea del teatro e della musica italiana fu Pietro Trapassi detto Metastasio (Roma 1698-Vienna 1782), formatosi nell’orbita del Gravina, che si era accollato l’educazione del giovane Pietro, umile apprendista orafo. Per garantirsi una conveniente sistemazione sociale il Metastasio prese gli ordini minori e divenne abate (1714). Dopo un primo dramma storico intitolato Giustino, passa a Napoli, uno dei più importanti centri europei per il melodramma e per la musica, con istituzioni come la Pietà dei Turchini, e musicisti come Alessandro e Domenico Scarlatti e Leonardo Leo. A Napoli stringe amicizia con la Romanina (il grande soprano Marianna Benti Bulgarelli) e con il celebre cantante castrato Farinelli (Carlo Broschi)(vigeva all’epoca la crudele usanza di operare i fanciulli più promettenti nel canto, per conservarne la meravigliosa vocalità). Al teatro San Bartolomeo di Napoli Metastasio rappresenta la sua prima opera, la Didone abbandonata (1724), con musica di Domenico Sarro, la Romanina nei panni di Didone, e un altro famoso castrato, il



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Nicolino, nel ruolo di Enea. Il successo di questa e delle opere successive è immediato ed enorme, e porta Metastasio in giro per l’Italia e l’Europa; fino alla sistemazione definitiva come poeta cesareo presso la corte imperiale di Vienna, al servizio di Carlo VI d’Asburgo e poi di Maria Teresa, dal 1730 fino alla morte. Nell’immensa produzione librettistica, la Didone restò quasi l’unica sua tragedia. Metastasio preferì infatti scrivere drammi eroici come il Demofoonte o La clemenza di Tito (che sarà musicata anche da Mozart), e drammi ‘patetici’ come l’Olimpiade. Quasi sempre opere a lieto fine, anche se percorse da un’elevata conflittualità tra principi contrapposti (il piacere e l’amore contro il dovere, il cuore contro la ragione, gli affetti umani e familiari contro l’inflessibilità di leggi ingiuste), che sembra precipitare i protagonisti in una catastrofe senza rimedio, e poi invece solo in extremis si risolve per mezzo di un’agnizione, di un grande gesto di magnanimità. È, di solito, la vittoria delle ragioni del cuore, contro quelle della convenienza e del sociale, all’interno però di un quadro equilibrato e armonico dei valori. Nella caratterizzazione dei personaggi e nell’invenzione delle situazioni più ‘patetiche’ è fortissima l’influenza del Tasso, avvertibile anche nello stile e nella lingua. Fedele ai dettami dell’Arcadia, Metastasio cerca di evitare le intemperanze barocche, e di comunicare per mezzo della sua poesia insegnamenti utili, esempi di valore, di virtù, e anche di impegno politico. Come in Tasso, si tratta di una lingua già molto musicale, basata su un lessico ridotto e semplificato, e articolata su una metrica fortemente comunicativa, sia nei recitativi che nelle ‘arie’, cantate dai protagonisti dell’opera, momento alto di effusione sentimentale, marcato dalla ritmica della canzonetta arcadica di versi brevi (ottonari, settenari, senari, quinari, e spesso versi tronchi in fine di strofa). Uno stile che ispira anche la produzione poetica extrateatrale, nella quale si distinguono le poesie dedicate all’incostante figura femminile di Nice: La libertà, Palinodia, e La partenza (con i versi celeberrimi “E tu chi sa se mai / ti sovverrai di me”). S’è detto dell’importanza di Napoli per la formazione di Gravina e Metastasio. In effetti, gli ultimi anni del Seicento, e del dominio spagnolo, sono per la grande capitale meridionale un momento di intensa rinascita culturale, anche grazie all’azione degli ultimi illuminati viceré spagnoli (il duca di Medinacoeli, che sostiene l’Accademia Palatina). Gli interessi prevalenti sono di ambito storico, politico, filosofico e giuridico, in collegamento con i circoli culturali del Nord Europa; ma è anche il momento di una ‘riscoperta’ del Rinascimento e dell’umanesimo. Grandi biblioteche di giuristi come Gaetano Argento e Giuseppe Valletta vengono aperte alla consultazione pubblica,

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riprende l’attività editoriale con Antonio Bulifon, e Napoli è meta di grandi eruditi europei (Mabillon, Montfaucon). E nel mondo dei giuristi coinvolti nell’amministrazione e nella giustizia si sviluppa una diffusa coscienza dello Stato come entità autonoma, laica e moderna, tra le più avanzate d’Europa. Questa nuova idea politica diventa presto ansia di riforma sociale e politica, a partire da quelle strutture che nei secoli avevano sempre impedito la formazione di un potere laico stabile e indipendente, o addirittura esteso fino ad unificare l’intera penisola: le istituzioni ecclesiastiche, la cui influenza nell’economia e nella società del Mezzogiorno era diventata addirittura soffocante, con l’accumularsi di benefici, la costituzione di immensi latifondi, il controllo esercitato sulla vita intellettuale. Fu questa l’azione coraggiosamente intrapresa da Pietro Giannone (Ischitella 1676-Torino 1748), che nell’Istoria civile del Regno di Napoli (1723) affermò l’autonomia del sovrano nei confronti della Chiesa, disegnando per la prima volta una “istoria tutta civile”, cioè basata sulla vicende politiche e strutturali, senza tutti quegli elementi (ritratti psicologici dei grandi personaggi, dinastie, battaglie, aneddoti, ‘discorsi’ ecc.) che rendevano di solito la storiografia tradizionale un genere di bella esercitazione retorica più che analisi realistica dei fatti. La reazione dei poteri ‘forti’ fu durissima. Giannone fu scomunicato, e andò in esilio a Vienna (1723-1734), dove scrisse ancora il Triregno (rimasto inedito fino al 1895!), violento attacco contro il “regno papale” che aveva tradito la Chiesa di Cristo originaria e spirituale. Catturato a tradimento (1736), finì i suoi giorni nelle carceri savoiarde e piemontesi, dove (come Campanella) cercò nella scrittura consolazione alle sue avversità, con la composizione di una bellissima Vita scritta da lui medesimo (1736-1741), estrema apologia di una vita spesa nella testimonianza delle proprie idee. Nel medesimo ambiente classicistico e giuridico si forma, quasi da autodidatta, Giambattista Vico (Napoli 1668-1744), per alcuni anni precettore in una famiglia nobile (i marchesi Rocco di Vatolla, nel Cilento), ma poi stabilmente impiegato (dopo la laurea in diritto come si diceva allora in utroque, cioè civile e canonico) all’università di Napoli, come professore di retorica (1699). Coltiva anche la poesia, con gusto tardobarocco (favorito dall’incontro col vecchio gesuita Lubrano), e poi arcadico. Partecipa alla vita delle accademie, entra in Arcadia, e nell’Accademia Palatina. I primi scritti rientrano in questa prima fase della sua vita, tutta legata all’insegnamento universitario, e sono perciò in latino: la prolusione, o lezione inaugurale, De nostri temporis studiorum ratione (‘il metodo di studio del nostro tempo’)(1709), difesa degli studi umanistici in cui si riprende il tema, di grande attualità, del confronto fra antichi e moderni, e si comincia a proporre un sistema



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educativo basato su sensazione e fantasia più che sulla ragione; e il trattato De antiquissima Italorum sapientia (di cui fu pubblicato solo il primo libro, 1710), ardita rievocazione degli antichi filosofi della Magna Grecia. La vera maturità di pensiero Vico la raggiunse dopo un momento difficile della sua vita, il fallito tentativo di essere nominato all’importante cattedra di Diritto Civile, cui aveva puntato con una grande opera in latino sul Diritto universale (1720-1721). Da quell’opera, e dalle grandi questioni che vi si affrontavano per la prima volta (le origini della civiltà, delle religioni, della poesia, delle istituzioni, nel passaggio dal mito alla storia) sarebbe nato, in volgare, il suo capolavoro, la Scienza nuova (col titolo Principi di una scienza nuova intorno alla natura delle nazioni)(1725); una straordinaria ‘opera in movimento’, perché rielaborata in due successive edizioni, definite la Scienza nuova seconda (col titolo Cinque libri de’ principi d’una scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni)(1730), e la Scienza nuova terza (col titolo Principi di scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni)(1744). La ‘scienza nuova’ era in realtà un’idea di Cartesio, che intendeva applicare un principio unificante all’interpretazione del reale. Ma mentre Cartesio trovava questo principio nell’astrattezza della ragione matematica, Vico lo cerca nella concretezza della Storia. Ed è la Storia la grande scoperta di Vico, la storia fatta dagli uomini, e che diventa quindi oggetto di conoscenza da parte degli stessi uomini. Come la filosofia era stata e continua ad essere la ‘scienza del vero’, nella storia lo strumento interpretativo, ermeneutico, è la filologia, ‘scienza del certo’: ma entrambi gli strumenti devono sempre restare congiunti nell’analisi. Ne deriva l’individuazione di alcune costanti nella genesi e nello sviluppo delle civiltà umane, applicate da Vico, con il suo metodo unificante (la ‘scienza nuova’), a tutte le possibili manifestazioni di quelle civiltà, dalla poesia e dalle arti figurative alle istituzioni politiche, giuridiche e religiose. In sintesi, ogni civiltà umana passa attraverso tre ‘età’, quella degli dèi (caratterizzata dal dominio della sensazione, dalla “natura poetica” e dai “poeti teologi”, come Omero e Dante), quella degli eroi (regno della fantasia e dell’immaginazione), e quella degli uomini (o della ragione): un processo che può ripetersi più volte, quando una civiltà decade e un’altra sorge (i cosiddetti ‘corsi e ricorsi storici’), e che viene mirabilmente sintetizzato in uno dei 114 aforismi (chiamati ‘degnità’) in cui Vico condensa tutto il suo pensiero con stile poetico e talvolta solennemente oscuro: “Gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura”. Vico portò avanti una coraggiosa battaglia intellettuale, testimoniata anche dall’importante Autobiografia (1728), raccontata in terza persona; ma fu all’inizio quasi ignorato dai contemporanei. Nel corso del Settecento le sue

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opere si diffusero però in tutta Europa, e influenzarono profondamente le vicende successive della storia e della cultura moderna e contemporanea. Una particolare influenza vichiana si riconosce nella poetica e nella critica letteraria, con la rivalutazione delle forme poetiche caratteristiche delle età ‘primitive’, primordiali, dominate da un diffuso senso del divino e da sensazioni forti; autori appunto come Omero e Dante, svalutati dal classicismo (e Dante addirittura incompreso e dimenticato nel corso del Seicento), e ora invece additati a modelli di poesia ‘sublime’ (come anche i libri profetici e i Salmi nella Bibbia). Con la riscoperta di Dante cominciava anche la riscoperta di quell’epoca che gli umanisti avevano considerato ‘età di tenebre’, il Medioevo. In questo Vico, a livello europeo, non era isolato. La ricerca erudita era cominciata in ambito ecclesiastico, con Jean Mabillon e la congregazione dei Padri Maurini, impegnati alla revisione delle vite dei Santi e all’eliminazione di credenze e superstizioni leggendarie, per mezzo dello studio filologico delle fonti e dei manoscritti medievali. In Italia questa istanza filologica fu rappresentata soprattutto da Ludovico Antonio Muratori (Vignola 1672-Modena 1750), un sacerdote che fu lungamente al servizio degli Estensi, e che dedicò gran parte della sua vita al grandioso progetto di ricostruzione della storia d’Italia attraverso la pubblicazione e lo studio delle fonti storiche, nelle collane dei Rerum italicarum scriptores (‘gli storici italiani’)(1723-1751) e delle Antiquitates Italicae Medii Aevi (‘le antichità italiane del Medioevo’)(1738-1742), approdando infine agli Annali d’Italia (1744-1749), sintesi storica che andava dall’anno zero al 1749, inglobando quindi l’intero periodo medievale. Il Muratori fu anche profondo studioso di poesia, concentrando le sue attenzioni al Petrarca. La sua difesa della tradizione poetica italiana (contro gli attacchi, ad esempio, del Bouhours) non era chiusa e provinciale, ma aperta, critica nei confronti delle intemperanze formali del barocco (Della perfetta poesia italiana, 1706), e orientata all’alto ideale di una ‘repubblica delle lettere’, di libera comunicazione intellettuale (I primi disegni della repubblica letteraria d’Italia, 1703). Ed è col Muratori, e con intellettuali come Crescimbeni, Francesco Saverio Quadrio, Giovanni Maria Mazzucchelli, Carlo Denina e Girolamo Tiraboschi che nasce quella riflessione critica sulla poesia e la letteratura d’Italia che si pone alle basi della moderna storia della letteratura italiana. L’esigenza di chiarezza e di comunicazione, promossa dall’Arcadia e dalle accademie contemporanee, risalta infine anche nella prosa, e in particolare in quella di divulgazione scientifica, in cui si distinsero grandi figure come il medico Marcello Malpighi (Bologna 1628-1694), fondatore dell’anatomia comparata; e Lorenzo Magalotti (Roma 1637-1712), scienziato e viaggia-



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tore, poeta e poligrafo molto attento anche al mondo del teatro, e autore teatrale in proprio, scrittore celebrato al suo tempo per i Saggi di naturali esperienze, e le Lettere sui buccheri (1695).

4.2. L’Illuminismo La rapida evoluzione economica e civile delle società dell’ancien régime si trova a fronteggiare, alla metà del Settecento, strutture politiche e istituzionali ancora saldamente ancorate al sistema dell’assolutismo, delle grandi monarchie europee di diritto divino. Solo l’Inghilterra, con l’inizio della rivoluzione industriale, e con le rivoluzioni borghesi che hanno segnato il definitivo tramonto del potere assoluto del sovrano, vede la nascita di una vera democrazia parlamentare, e di una nuova concezione politico-economica che favorisce il libero commercio e la libera concorrenza, considerati elementi di prosperità e benessere: quel che verrà definito ‘liberalismo’, e teorizzato nel trattato dello scozzese Adam Smith, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations (‘studio sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni’)(1776). Ma altrove gli intellettuali, filosofi, storici, economisti, scienziati, dovevano interrogarsi su come intervenire sul sistema, come riformarlo dall’interno senza sovvertirlo o distruggerlo. La riforma dello stato moderno portava, ad esempio, ad una separazione funzionale dei poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario), affermata in Francia da Montesquieu con l’opera fondamentale Esprit des lois (‘lo spirito delle leggi’)(1748). Tra i primi bersagli dei riformatori era l’insieme di privilegi feudali ancora detenuti dalle classi aristocratiche, che frenavano il processo di sviluppo; e soprattutto l’ingerenza della Chiesa Cattolica nella vita dello stato, già lucidamente evidenziata dal Giannone: una battaglia, quest’ultima, che avrà dei toni durissimi, in particolare contro l’ordine religioso che aveva garantito negli ultimi due secoli la propaganda cattolica e il sistema dell’educazione, i Gesuiti, che vengono espulsi da diversi paesi europei a partire dal Portogallo (1759), e infine soppressi dallo stesso papa Clemente XIV (1773). Il movimento intellettuale sarà così definito illuminismo, perché si richiama alla metafora dei ‘lumi’, della luce della ragione e della scienza che comincia a rischiarare il cammino dell’uomo dopo un lungo periodo di oscurità, di barbarie, di superstizione religiosa. Nella scienza, le sue premesse erano costituite dalle ricerche di Isaac Newton, che dimostrarono la validità del modello copernicano per mezzo della teoria della gravitazione universale, che portava a concepire l’universo come un sistema infinito fondato su basi

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meccanicistiche e matematiche; e in tutti i campi si registravano continue scoperte, dagli studi sull’elettricità naturale alla scomposizione degli elementi primari e alla nascita della chimica moderna, dalla botanica alle scienze naturali. Contemporaneamente, in filosofia, il razionalismo cartesiano era sopravanzato dalla critica empirica di Locke, Berkeley, Hume, che tornava a dare pieno valore alla percezione sensoriale come base di ogni forma di conoscenza. Ne derivava il sensismo di Condillac, e il materialismo meccanicista, che giungeva a considerare l’uomo nient’altro che una macchina, con La Mettrie, d’Olbach e Helvétius. La fiducia eccessiva nelle capacità della ragione porta a una critica radicale del cristianesimo, e alla proposizione di una nuova religione della natura. L’illuminismo era sicuramente un movimento di élite, ma si serviva di nuove forme di comunicazione e di aggregazione, che permettevano la diffusione delle sue idee a tutti i livelli, dalle classi aristocratiche e dirigenti ai ceti medi, borghesi e mercantili, fino a quelli artigiani e operai, che si affacciavano all’alfabetizzazione per mezzo di istituzioni scolastiche e filantropiche. Nuovi ‘spazi’ di elaborazione culturale sono ormai i ‘salotti’, in cui si riunisce periodicamente la società intellettuale, le dame, i poeti e i filosofi, gli avventurieri e i libertini; i ‘clubs’ (dalla parola inglese che designava questo tipo di associazione-ritrovo, originariamente molto esclusiva e riservata ai soli uomini), le biblioteche pubbliche e private e le librerie, i teatri, e infine i caffè, locali creati per la degustazione della celebre bevanda, in concorrenza con le più anglosassoni sale da té. È il trionfo della civiltà della conversazione, che si estende anche nella sala ‘virtuale’ di un caffè allargato all’Europa intera, nell’ideale ‘repubblica delle lettere’, definizione resa celebre dallo spregiudicato periodico pubblicato in Olanda alla fine del Seicento da Pierre Bayle, le Nouvelles de la République des lettres (‘notizie della repubblica della lettere’). La comunicazione culturale e letteraria, ma anche mondana e sociale, era infatti assicurata dalla nascita e dallo sviluppo immediato della stampa periodica, ad iniziare dal francese Journal des Savants (‘giornale degli studiosi’)(1665): un fenomeno stabilitosi a livello industriale soprattutto in Inghilterra, con Joseph Addison e il suo The Spectator (‘lo spettatore’)(17111712). Basti pensare che perfino Vico pubblicò la sua autobiografia a puntate su una rivista veneziana. In Francia, l’illuminismo raggiunge il suo punto più alto con la pubblicazione di un’enorme impresa collettiva, l’Encyclopédie (1751-1766) di Diderot e d’Alembert, uscita tra grandi difficoltà, censure ed opposizioni, monumento di una nuova sistematica interpretazione del mondo e dell’uomo che si estendeva a tutti gli aspetti della vita, dalle arti all’economia, dalla filosofia alle scienze, dall’industria ai commerci. Sostenitore dell’Encyclopédie



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fu François-Marie Arouet detto Voltaire (1694-1778), il filosofo e scrittore più rappresentativo dell’illuminismo europeo, autore di opere come il Traité de la Tolérance (‘trattato della tolleranza’) o l’Essai sur les moeurs et l’esprit des nations (‘saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni’), assertore dell’idea del progresso della civiltà come passaggio dalla barbarie ai Lumi della ragione: un’idea che verrà sviluppata ancora dal Condorcet nel senso di ottimistica fiducia in uno sviluppo progressivo e illimitato dell’umanità. Ma non tutti erano così ottimisti sulle sorti dell’umanità. Lo stesso Voltaire aveva preso in giro il facile ottimismo di Leibniz (che affermava che noi viviamo nel migliore dei mondi possibili) con il romanzo filosofico Candide. Un grande intellettuale ginevrino, Jean-Jacques Rousseau (1712- 1778) criticò profondamente l’illusoria prospettiva del progresso, e anzi affermò che la civiltà finiva con l’allontanare l’uomo dall’originaria purezza dello stato di natura. La storia umana, dunque, è una vicenda di corruzione e di decadimento, e compito della filosofia e della pedagogia dovrebbe essere quello di purificare e ‘liberare’ l’umanità dalle forme corrotte della civiltà. Un ideale che Rousseau comunicò all’Europa anche attraverso un altro romanzo filosofico, Julie ou la Nouvelle Héloïse (‘nuova Eloisa’), in cui il racconto della passione amorosa tra Julie e il precettore Saint-Preux serve a mettere in scena il contrasto tra la purezza dell’amore naturale e le corruzioni e le convenzioni della società circostante; e fu un testo importante per i contemporanei anche per la novità della forma, il romanzo epistolare, strutturato sulla fittizia raccolta di lettere, sul modello della Pamela e della Clarissa dell’inglese Samuel Richardson (Julie è una ‘nuova Eloisa’, perché ricorda l’eroina medievale protagonista della storia d’amore con il filosofo Abelardo, raccontata in celebri lettere). Nel trattato pedagogico Emile viene proposto un nuovo sistema di educazione, basato sulla libertà e creatività del fanciullo, senza schemi e imposizioni. Rousseau contribuì infine alla diffusione del genere autobiografico con le sue importanti Confessions (‘confessioni’), che riprendevano nel titolo l’immortale opera di sant’Agostino, gettando un ponte tra l’introspezione religiosa di matrice agostiniana e la nuova conoscenza dell’io percorsa dai moderni, da Petrarca a Montaigne. L’Italia partecipò al movimento illuministico soprattutto dal punto di vista delle riforme politiche ed economiche, temperandone gli aspetti più radicali della critica anticristiana e del materialismo libertino. Questo anche perché l’illuminismo italiano fu sostenuto da alcuni prìncipi, che vedevano in un cauto processo di riforma una possibilità di controllo migliore delle masse e degli intellettuali (quel che sarebbe stato definito “dispotismo illuminato”).

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A Napoli il nuovo re Carlo III di Borbone (sul trono di Napoli dal 1734 al 1759) promosse un grande rinnovamento statale, urbanistico e architettonico, con l’ausilio del ministro toscano Bernardo Tanucci, che guidò il governo anche nel periodo della reggenza del suo successore, Ferdinando IV. Gli intellettuali napoletani furono sicuramente, in Italia, quelli più vicini all’illuminismo francese. Il sacerdote Antonio Genovesi (Castiglione 1713Napoli 1769), che aveva conosciuto Vico ed insegnava economia politica all’università, diffuse le idee nuove sul progresso economico e sociale nelle sue Lezioni di commercio o sia di economia civile, mentre il suo allievo più brillante, l’abate Ferdinando Galiani (Chieti 1728-Napoli 1787), autore di un importante trattato Della moneta (1751), sarebbe addirittura approdato a Parigi nell’ambiente dell’Encyclopédie. Il giovane principe Gaetano Filangieri (Cercola 1752-Vico Equense 1788) nella sua Scienza della legislazione (17801785) ci lascia l’opera più importante dell’illuminismo italiano, l’ideale di uno stato basato sulla giustizia e l’eguaglianza dei diritti, che avrà un’immediata eco in Europa, e sarà ripreso anche nella Costituzione Americana (1787). Favorevoli alle riforme furono anche gli Asburgo, nel granducato di Toscana (ove s’erano estinti i Medici), e soprattutto a Milano, sotto Maria Teresa e Giuseppe II, e l’opera del plenipotenziario austriaco il conte Carlo di Firmian. Centro del rinnovamento è l’Accademia dei Trasformati, cui si aggiunge il circolo costituito da alcuni giovani aristocratici milanesi, l’Accademia dei Pugni. Ne fecero parte Pietro Verri (Milano 1728-1797), principale animatore dell’accademia e della rivista Il Caffè (1764-1766), seguace delle tendenze sensistiche della filosofia francese contemporanea nel suo Discorso sull’indole del piacere e del dolore; il fratello Alessandro Verri (Milano 1741Roma 1816), celebrato romanziere e scrittore di teatro, che avrebbe concluso la sua carriera intellettuale nella Roma del primo Ottocento, testimoniando l’adesione alle nuove poetiche neoclassicistiche nelle Notti romane al sepolcro degli Scipioni (1792-1804); e soprattutto Cesare Beccaria (Milano 1738-1794), autore di un breve trattato Dei delitti e delle pene (1764) che, per il coraggio con cui si denunciava la barbarie della tortura e della pena di morte, divenne presto uno dei testi più letti in Europa. Gli intellettuali milanesi, in questo serrato confronto con la cultura illuministica europea e in particolare con la lingua francese (vera lingua internazionale dell’epoca), sentirono molto il problema del rinnovamento anche degli strumenti comunicativi, e in particolare della lingua italiana, che nei loro testi (dagli articoli del Caffè ai saggi e ai trattati) tende a imitare talvolta la sintassi e lo stile dei philosophes d’oltralpe, nella ricerca di una chiarezza e di un’immediatezza che di solito la prosa italiana (per secoli fondata sul-



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l’imitazione di Boccaccio) non aveva. Una posizione radicale fu quella di Alessandro Verri, nella celebre Rinunzia avanti notaio al Vocabolario della Crusca (1764). Ma in generale, tra varie polemiche, ne derivò un influsso positivo a collegare maggiormente le parole alle cose, e a curare la comprensibilità dei testi, soprattutto quelli destinati alla divulgazione scientifica e filosofica. Tra l’altro, è in questo quadro linguistico che rinasce l’interesse per il dialetto, frequentato a Milano da poeti come Domenico Balestrieri e Carl’Antonio Tanzi (entrambi Accademici Trasformati); e in Sicilia da Giovanni Meli (Palermo 1740-1815), accademico e poeta di ispirazione arcadica le cui egloghe e canzonette in fresco dialetto siciliano sapranno far rivivere la declinante poesia dell’Arcadia, e avranno una notevole diffusione anche fuori d’Italia. Le istanze dialettali e della rappresentazione realistica della vita contemporanea erano vivissime a Venezia, che, anche se nell’inarrestabile decadenza della Serenissima e delle sue istituzioni politiche e civili, restava comunque una delle capitali culturali della penisola, soprattutto per l’editoria e il teatro. Gasparo Gozzi (Venezia 1713-Padova 1786) si fece carico di una reazione ‘conservatrice’ a quelle istanze, in una Accademia dei Granelleschi (1747) che avrebbe voluto richiamarsi alla tradizione letteraria e linguistica toscana. Costretto dalle necessità economiche a vivere dei proventi della propria attività intellettuale, Gasparo lavorò anche, ma in modo fallimentare, come gestore di uno dei più importanti teatri veneziani, il Sant’Angelo (1746). Si dedicò poi quasi esclusivamente all’attività giornalistica, in periodici scritti quasi interamente da lui, come la “Gazzetta Veneta” (1760-61) e “L’Osservatore Veneto” (1761-62), importanti per la critica letteraria e di costume (ad esempio, memorabile fu la sua difesa della poesia di Dante contro le accuse di rozzezza del gesuita Saverio Bettinelli). Il fratello di Gasparo, Carlo Gozzi (Venezia 1720-1806), ne riprese la polemica antirealistica (in particolare contro Goldoni), impegnandosi nella composizione di opere teatrali che riprendevano in modo originale i modi del fiabesco e del magico, anche dalla tradizione favolistica popolare e dal Cunto di Basile: L’amore delle tre melarancie (1761), la celebre Turandot (1762), e l’Augellin belverde (1765); e ripercorrendo infine le tappe di una vita lunga e avventurosa nelle sue Memorie inutili. Un altro celebre periodico pubblicato a Venezia, e vicino alle posizioni dei Gozzi, fu “La frusta letteraria”, in cui un certo Aristarco Scannabue esercitava una severa critica militante nei confronti della letteratura contemporanea: il suo vero nome era Giuseppe Baretti (Torino 1719-Londra

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1789), instancabile viaggiatore europeo, che avrebbe trascorso la parte finale della sua vita a Londra (come il Rolli), diffondendovi la conoscenza della letteratura italiana. Allo stesso ambiente apparteneva Pietro Chiari (Brescia 1712-1785), un ex-gesuita bresciano che a Venezia fece la sua fortuna come prolifico scrittore di commedie, anche lui in competizione con Goldoni, di cui riprendeva i soggetti e perfino i titoli delle commedie più fortunate (ad esempio, La scuola delle vedove, in risposta alla goldoniana Vedova scaltra). Chiari è però più importante come autore di una quarantina di romanzi, genere di grande fortuna nella letteratura del Settecento, vera letteratura di consumo. Vi si legge il rispecchiamento di una società mutevole, erotica, libertina, in cui la condizione femminile contemporanea emerge pienamente nelle figure delle protagoniste, eroine moderne che si raccontano in prima persona, e conquistano una loro indipendenza lungo percorsi ai limiti (o al di là) della morale corrente, come sembrano suggerire gli stessi titoli dei romanzi più famosi: La filosofessa italiana, La cantatrice per disgrazia, Le memorie di Madama Tolot ovvero la giocatrice di lotto, La bella pellegrina, La francese in Italia. Era un mondo reale, non inventato, popolato di molte donne scrittrici, poetesse all’improvviso (come la celebre e scandalosa Corilla), attrici, cantanti, giocatrici, cortigiane. Lo stesso mondo attraverso il quale passa, con sublime leggerezza, il più grande avventuriero del secolo, celebre per le sue infinite vicende amorose, Giacomo Casanova (Venezia 1725-Dux, Boemia 1798), che nel malinconico tramonto della sua vita, passato nel castello di Dux in Boemia, dedicò le sue estreme energie intellettuali alla composizione di una grande autobiografia, l’Histoire de ma vie (in francese, naturalmente, la lingua universale del suo tempo), ricca di pagine memorabili (dal racconto di una drammatica fuga dal terribile Carcere dei Piombi di Venezia alle testimonianze degli incontri con i sovrani dell’epoca, dagli intrecci erotici alle avventure del gioco d’azzardo). L’ideologia dell’avventuriero è, per così dire, rivoluzionaria, ma in senso individuale: di fronte alle strutture apparentemente statiche e immutabili dell’Antico Regime, l’avventuriero sfida la fortuna (nell’amore, nel gioco, nella guerra, nelle relazioni sociali), e può cambiare in modo subitaneo il proprio stato sociale, diventare aristocratico, o precipitare nuovamente nella miseria, in un carcere, sul patibolo. Ma l’Histoire è soprattutto un’autobiografia, e in questo rappresenta uno dei generi nuovi del Settecento, un secolo (aperto dalle autobiografie di Vico e Giannone) in cui la scrittura dell’io trova (in particolare con Rousseau, e con la letteratura francese) una dimensione del tutto nuova, attuata per mezzo di un ‘patto autobiografico’ tra l’autore che



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racconta se stesso e il suo pubblico, consapevole che quanto leggerà non è la ‘verità’ biografica assoluta e sincera, ma la sua rilettura a posteriori, uno sguardo retrospettivo allo specchio della memoria della propria vita, talvolta un suo ultimo ‘travestimento’. L’altro grande genere di consumo restava il melodramma, in cui imperava il vecchio Metastasio, e, col Metastasio, la poesia e la musica italiana continuavano ad avere un’influenza profonda in tutta Europa, al punto che la stessa lingua internazionale della musica, il suo lessico tecnico, divenne allora (e lo è ancor oggi) l’italiano. Il confronto tra poesia e musica sembrava risolto a favore della prima, grazie al librettista Ranieri de’ Calzabigi, che aveva scritto il celebre Orfeo musicato da Christoph Willibald Gluck (1762). Ma l’orizzonte ‘serio’ e patetico del melodramma metastasiano viene ora incrinato dalla straordinaria fortuna di un nuovo modello, la commedia musicale, l’opera buffa, spesso dialettale, elaborata soprattutto dalla scuola napoletana (Giambattista Lorenzi, Pietro Trinchera), con musicisti grandissimi come Pergolesi, Cimarosa e Paisiello. Proveniente dal vivace ambiente veneziano, Lorenzo Da Ponte (Ceneda 1749-New York 1838), in origine un ebreo convertito (il suo vero nome era Emanuele Conegliano), tipico avventuriero del Settecento, prete e poi libertino, divenne il più grande librettista del tempo, ed ebbe la fortuna di lavorare a Vienna con Mozart, scrivendo i testi di Le nozze di Figaro (1786), Don Giovanni (1787), e Così fan tutte (1790); ma, dopo la gloria raggiunta con quelle opere, la mutevole fortuna l’avrebbe costretto all’emigrazione prima a Londra e infine a New York, dove cercò di promuovere l’insegnamento della lingua e della cultura italiana, e dove scrisse anche lui il suo grande libro autobiografico, le Memorie. Gran nemico di Da Ponte, ma per certi aspetti non molto dissimile da lui, fu l’altro grande librettista del tempo, Giovan Battista Casti (Acquapendente 1724-Parigi 1803), curiosa figura di sacerdote libertino (“Un prete brutto, vecchio e puzzolente”, lo dileggiò il Parini), poeta di corte a Firenze e poi in giro per l’Europa, fino a diventare poeta cesareo a Vienna; autore di un’ultima opera, il poema Animali parlanti (1803), che, raccontando in forma di allegoria satirica la storia della rivoluzione francese, avrà una notevole fortuna di pubblico nel primo Risorgimento italiano.

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4.3. Parini Era di modeste origini Giuseppe Parini (Bosisio 1729-Milano 1799), ultimo di dieci figli di un piccolo negoziante, costretto a sperimentare di persona, nel corso della sua vita, le disparità sociali del suo tempo. Appassionato fin da ragazzo di letteratura e poesia, coltivata nella lettura dei classici antichi e moderni, per continuare i suoi studi dovette frequentare la scuola dei Barnabiti, e poi anche diventare sacerdote (senza alcuna vocazione religiosa) (1754), per poter fruire di un lascito testamentario di una vecchia e ricca zia, che aveva appunto condizionato l’eredità a quell’assurda clausola. L’importante era almeno conquistare una certa indipendenza economica, e in questo modo Parini poté anche prendersi carico degli anziani genitori. Il resto della sua vita operosa Parini la trascorse quasi interamente a Milano, prima come precettore presso famiglie aristocratiche, impegnate nel rinnovamento istituzionale e culturale (i Serbelloni e gli Imbonati), poi come professore nelle Scuole Palatine (1773), benvoluto dai governanti austriaci (il Kaunitz e il Firmian), sempre impegnato in un’importante attività pedagogica. Le sue lezioni, in parte pubblicate nei Principi generali e particolari delle belle lettere (1773-75), promuovevano l’idea di una poesia socialmente utile, di una letteratura che non si compiace di se stessa ma si fa maestra, avvalendosi anche di una innovativa concezione dell’unità delle arti, che, in particolare nel teatro, portano alla fusione di diversi linguaggi e di diverse istanze comunicative: la poesia, la musica, la pittura e la scultura. Alla fine del secolo Parini ebbe modo di assistere al crollo dell’Antico regime, con la Rivoluzione Francese e l’arrivo di Bonaparte a Milano (1796), criticando gli eccessi sanguinari del Terrore, ma rendendosi disponibile alla partecipazione al governo della Repubblica Cisalpina. Un brevissimo impegno, prima del ritorno degli Austriaci e della sua morte (1799), che però consegnò il suo esempio di dirittura e d’integrità morale alle nuove generazioni. Le sue prime poesie, pubblicate nella raccolta Alcune poesie di Ripano Eupilino (1752), gli consentirono l’ingresso nell’Accademia dei Trasformati e nei circoli intellettuali milanesi. Vi si riconosceva il saldo legame con la tradizione classicistica e arcadica, che però portava il giovane Parini alla sperimentazione di vari generi e metri (lirico, bucolico, georgico ecc.), e alla ricreazione originale dei modi raffinati della poesia ellenistica, da Mosco ad Anacreonte. Un importante laboratorio formale, al quale si unisce subito il forte richiamo della realtà, della vita, innanzitutto attraverso il rinnovamento della lingua della poesia. Senza essere un poeta dialettale, Parini amò i suoi colleghi ‘meneghini’ (Maggi, Balestrieri, Tanzi), e li difese contro le critiche



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di padre Onofrio Branda (1760). Inizia così l’esercizio di una letteratura sempre ‘impegnata’ nella satira morale o nell’insegnamento. In prosa, le Lettere del conte N.N. ad una falsa divota, contro la religiosità ipocrita, e il Discorso sulle caricature (1759), divertita finzione di un viaggiatore che, giunto come Gulliver su un’isola fantastica, ne descrive le incredibili bizzarrie, specchio però delle follie della società contemporanea. Importante soprattutto il Dialogo sopra la nobiltà (1757), dialogo tra un Poeta e un Nobile morti e finiti nello stesso sepolcro, in cui il Poeta dimostra al Nobile, che protesta per la vicinanza del ‘plebeo’, che di fronte alla morte si è tutti uguali: un testo in cui, con leggerezza, si affrontano alcuni temi fondamentali dell’epoca, la disuguaglianza e l’ingiustizia sociale. Infine il Discorso sopra la poesia (1761) afferma esplicitamente l’utilità morale e sociale della poesia, secondo i dettami oraziani dell’utile dulci. Del tutto conformi al programma di questo Discorso sono le prime Odi (1757-1766), all’inizio ancora in strofette arcadiche di settenari, poi caratterizzate da una metrica meno cantabile ma più ragionativa. Le Odi erano di solito lette nelle riunioni dei Trasformati, e subito pubblicate, e affrontavano le grandi tematiche del dibattito contemporaneo: dalle condizioni di vita nelle campagne (La vita rustica) a quelle della grande città, in cui già si ponevano problemi di inquinamento ambientale e di precarietà sanitaria, che colpiva principalmente le classi più indigenti (La salubrità dell’aria); dalla denuncia della crudele usanza dei ‘castrati’ nel melodramma (La musica) a quella della povertà e dell’ingiustizia sociale (Il bisogno), e perfino la pratica della vaccinazione contro il vaiolo (L’innesto del vaiuolo). Una di esse, La educazione (1764), si presenta indirizzata al giovane allievo Carlo Imbonati, ed è tutta ispirata al tema dell’educazione virtuosa della nobiltà, della formazione di una nuova classe dirigente capace di affrontare le sfide del cambiamento, nella società d’Antico Regime. Negli stessi anni Parini rovescia ironicamente la sua funzione di precettore, e inizia a scrivere alcuni poemetti satirici, fingendo che siano testi pedagogici indirizzati ad un aristocratico allievo, un Giovin Signore, ben diverso dal virtuoso Imbonati. Come se dovesse insegnare al suo discepolo tutte le minute attività della vita, Parini passa in rassegna i costumi più corrotti e insulsi. La satira di una vita vuota e inutile non si ferma al primo risultato di una facile poesia comica, ma arriva ad essere un atto d’accusa terribile nei confronti di quelle classi dominanti che perdono completamente il contatto con la realtà, e vivono da parassiti a spese di un intero sistema sociale ed economico che lavora al loro servizio. I poemetti dovevano essere tre, in modo da coprire l’arco temporale di un’intera giornata di vita del Giovin Signore (mattino, mezzogiorno e sera),

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ma Parini ne pubblicò solo due, Il Mattino (1763), in 1083 versi, preceduto da una dedica in prosa Alla Moda (trionfatrice sulla Ragione, sul Buonsenso e sull’Ordine); e Il Mezzogiorno (1765), in 1376 versi. Il progetto, ripreso negli anni Ottanta, divenne un vero e proprio poema in quattro parti, chiamato Il Giorno dallo stesso autore in una lettera del 1791, e suddiviso in Mattino (1166 versi, senza la dedica e i versi iniziali: lunghissima descrizione del risveglio del giovane e della sua ‘preparazione’ alla giornata che lo aspetta), Meriggio (1178 versi: l’incontro con la dama e le vicende dal pranzo alla passeggiata in carrozza), Vespro (un frammento di 349 versi, con la toilette degli amanti, e le loro futili visite ad altri personaggi) e Notte (un frammento di 673 versi, con l’arrivo al “gran palazzo”, dove si passa in rassegna un’incredibile ‘galleria degli imbecilli’ che si preparano al rituale collettivo del gioco d’azzardo; secondo altri appunti in prosa la notte doveva poi proseguire e forse terminare a teatro). In realtà, il progetto rimase incompiuto, e consegnato ad alcuni manoscritti, nella forma provvisoria di una grande ‘opera in movimento’ che oggi è possibile riconoscere in tutta la sua pienezza nelle più recenti edizioni critiche. Insomma, la descrizione di un giorno del Giovin Signore per oltre tremila versi porta necessariamente al rallentamento dei tempi (soprattutto nel Mattino), alle microscopie spaziotemporali, ad una descrittività che fa risaltare in modo abnorme il dettaglio (il particolare fisico, gli accessori del vestiario, la parrucca, la polvere di cipria, la tazzina, la tabacchiera, il ninnolo), glorificato secondo i modi della poesia eroicomica (non solo italiana ma anche inglese, ad esempio il celebre Ricciolo rapito di Alexander Pope, satira sociale che racconta in tono epico lo scontro di due famiglie aristocratiche a causa del ‘rapimento’ di un ricciolo di una fanciulla da parte del suo amante). Ma fortissima è anche la dimensione teatrale, con l’impressione che tutti i gesti compiuti dal Giovin Signore e da tutti gli altri personaggi non siano altro che atti di una recita che si ripete uguale a se stessa, ogni giorno, senza che gli stessi protagonisti (alienati ormai dalla loro umanità, ridotti a burattini, a marionette, a pedine o a carte di un gioco più grande di loro) se ne rendano conto. L’elemento che, in fondo, rende un esito tragico a quel che avrebbe potuto essere reso solo da una commedia. Sempre presenti i classici antichi, in particolare Virgilio, Orazio e Ovidio, e anche la mitologia, ricreata in favole del tutto originali, di tipo ‘eziologico’, cioè di spiegazione dell’origine di qualcosa (la disuguaglianza del Piacere, la cipria, il gioco del tric-trac, il Canapé). La tradizione poetica italiana viene profondamente rinnovata con l’uso sistematico dell’endecasillabo sciolto, che diventa un mobile e moderno strumento espressivo, quasi a metà tra la poesia e la prosa. Ma è importante anche notare i forti cambiamenti che



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investirono l’opera nelle ultime due parti frammentarie, e soprattutto nella Notte, che si allontana dall’originaria chiarezza e leggerezza classicistica e oraziana, per giungere a risultati stilistici che risentono di una nuova sensibilità poetica, la stessa avvertita dai primi romantici europei: l’avvio di una poesia ‘notturna’, caratterizzata da uno stile più cupo, e che riflette probabilmente l’esito fondamentalmente tragico del Giorno. Nuovi orizzonti di stile che appaiono anche nelle contemporanee ultime Odi (1774-1795): scenari invernali e tempestosi, nel malinconico tramonto di Parini, che corrispondono alla fine di un’epoca di relativa tranquillità, con la minaccia dei radicali cambiamenti riformatori di un imperatore come Giuseppe II (La tempesta), o con gli orrori della Rivoluzione Francese (A Silvia, o Sul vestire alla ghigliottina). Con nobile piglio oraziano, il vecchio poeta, che si rappresenta malandato e povero, malfermo e traballante, ha ancora l’orgoglio di rispondere con sdegno al passante che l’aiuta a rialzarsi da una caduta invitandolo però a essere più accondiscendente con i potenti (La caduta). Ai toni malinconici si accompagnerà però, fino alla fine, il vagheggiamento della bellezza femminile, dipinta ora con un gusto neoclassico (Per l’inclita Nice, o Il messaggio); una poesia ancora più struggente, perché le si affida il compito estremo di cogliere quell’ideale di bellezza e di vita, di fissarlo nel momento in cui la vita svanisce per sempre.

4.4. Goldoni Nato a Venezia, città con la quale manterrà sempre un forte legame, Carlo Goldoni (Venezia 1707-Parigi 1793) non può definirsi veramente ‘veneziano’. La sua era una famiglia di professionisti di origine modenese, abituati a cambiare residenza tra varie città italiane. Il nonno e lo zio erano notai, il papà medico, che mette Carlo a studiare presso i Gesuiti a Perugia, e poi dai Domenicani a Rimini, da dove il giovane fugge, verso Chioggia, sul barcone di una compagnia di attori girovaghi. Carlo studia legge a Pavia, ne viene espulso per una satira sulle belle fanciulle pavesi (1725), e completa gli studi a Padova (1731). Da allora alla professione di avvocato, esercitata saltuariamente, preferirà sempre più la passione per il teatro, favorita dall’incontro con Giuseppe Imer, capocomico del Teatro San Samuele a Venezia (1734), dove vengono rappresentate le sue prime opere teatrali: la tragicommedia Belisario, e varie tragedie e opere ‘serie’, ma di non grande successo, come Rosmonda e Griselda (tratte da novelle del Boccaccio), e l’interessante Don Giovanni Tenorio o sia il dissoluto, sulla figura del libertino don Giovanni, tipica della società contemporanea.

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Dopo una fuga da Venezia (per sfuggire ai debiti e alla minaccia di un matrimonio), Goldoni vi torna sposato, con una moglie genovese, e nei panni singolari di console della Repubblica di Genova presso la Serenissima. Diventato direttore di un altro teatro veneziano, il San Giovanni Grisostomo (1737-1741), Goldoni può cominciare a mettere in opera la sua originale riforma teatrale (criticata dai Gozzi e dal Chiari), che prevedeva il superamento degli schematismi e della ripetività della Commedia dell’Arte, l’abbandono dell’improvvisazione, e delle ‘maschere’. L’autore di commedie afferma l’autonomia del testo scritto, non più strumentale nella stesura di canovacci e scenari, ma elevato alla dignità di forma d’arte. Certo, il testo teatrale è sempre sospeso tra oralità e scrittura, e molti dialoghi delle commedie goldoniane risentono di una forte oralità: ma l’importanza della scrittura è segnata anche dalla cura particolare che Goldoni diede all’attività editoriale, in grandi edizioni complessive che, vivente l’autore, fissavano il testo delle sue opere, lo privavano talvolta della freschezza irripetibile delle prime rappresentazioni (ancora improvvisate), ma comunque lo ‘salvavano’ dall’incessante mobilità della ricezione, delle scene e degli interpreti. Goldoni comincia a togliere la maschera a Pantalone nel Momolo cortesan (rappresentato nel 1738), una commedia ancora ‘a soggetto’ sulla figura di un vecchio mercante veneziano. E continua con la prima commedia scritta interamente, La donna di garbo (1743, ma rappresentata solo nel ’46), in cui una coltissima Rosaura si traveste da cameriera per recuperare l’amante Florindo: la prima di una lunga serie di eroine contemporanee che con la loro intelligenza, astuzia, fascino, riescono ad avere ragione di condizioni avverse e di pregiudizi sociali e morali. Dopo una nuova fuga per debiti, e una lunga residenza a Pisa (per l’ultima volta come avvocato), Goldoni lascia Imer e avvia la collaborazione con l’impresario Medebac, facendo rappresentare al San Samuele un canovaccio di grande successo, Il servitore di due padroni (1747): poche scene scritte, e quasi tutto affidato all’abilità scenica e gestuale di Truffaldino, l’attore napoletano Giovanni Antonio Sacchi; personaggio che in seguito (con la riscrittura integrale della commedia) diventerà Arlecchino. Al Sant’Angelo si rappresenta contemporaneamente La vedova scaltra (1748), storia di un’astuta vedova contesa da ben quattro spasimanti. E nasce il personaggio di Bettina, la giovane bella popolana che resiste alle lusinghe libertine nella Putta onorata (1749), e diventa perciò, nella commedia successiva, La buona moglie: illuminante esempio di come Goldoni e il suo pubblico vedevano le possibilità di mobilità sociale, all’interno di un sistema che poteva essere corretto ma non stravolto. Gli ultimi successi di pubblico portano alla stesura di un contratto col Medebac che addirittura impegna l’autore a sfornare dieci opere teatrali



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all’anno, per un totale di quattro anni! Nonostante la straordinaria velocità di composizione, i risultati si mantengono sempre a livelli altissimi, e sono spesso autentici capolavori, come La bottega del caffè (1750), affresco di uno dei luoghi più caratteristici della vita e della società del Settecento, la locanda dove, intorno al rito della degustazione del caffè, si intrecciano relazioni sociali, economiche, culturali, erotiche. Sotto lo sguardo del gestore, il caffettiere Ridolfo, e del suo garzone Trappola, si complicano e poi si sciolgono le vicende di due giovani (Eugenio e Flaminio), dediti al gioco e ai divertimenti, ma recuperati dalle legittime consorti; nell’happy end l’unico a non gioire è l’aristocratico napoletano, Don Marzio, sempre pronto a pensare e parlar male degli altri, e quindi, alla fine, costretto a lasciare un mondo che sembra ritrovare una sua armonia. Nella prima rappresentazione erano ancora presenti in scena le maschere di Brighella e Arlecchino, che parlavano in dialetto veneziano, ma Goldoni poi li trasformò in personaggi reali, e ne uniformò anche la veste linguistica sulla lingua italiana, per farla più “universale”. Era una novità quasi rivoluzionaria, la ‘commedia di carattere’, rispetto alla Commedia dell’arte, e presentava un tale rispecchiamento della realtà da far credere agli spettatori che quella scena non fosse più una scena, ma una vera bottega del caffè, come scrisse lo stesso Goldoni: “Questa Commedia ha caratteri tanto universali, che in ogni luogo ove fu ella rappresentata, credevasi fatta sul conio degli originali riconosciuti”. Il ‘realismo’ goldoniano mirava essenzialmente a questo: a portare nel teatro il mondo, ad annullare la distanza tra la finzione e la realtà, a superare sia gli schemi della commedia dell’arte che di quella letteraria tradizionale. In questo modo entrava in scena, con una freschezza nuova e originale, tutta la vita quotidiana, con i problemi, le speranze, le aspettative reali dei suoi personaggi. Tra quei personaggi emerge ancora di più l’importanza della donna, l’affermazione della sua indipendenza e autonomia, di una dignità che non deriva dalla classe sociale o dal censo ma dall’intelligenza, l’onestà, la sensibilità. È questo il caso dell’altro capolavoro di questi anni, La locandiera (1752), in cui la locandiera Mirandolina, impegnata a portare avanti la gestione economica della locanda, riesce a far innamorare di sé l’aristocratico misogino Cavaliere di Ripafratta, per poi preferirgli il cameriere Fabrizio, il suo vero spasimante, col quale convola a giuste nozze. In un certo senso, la seducente Mirandolina, finta libertina, trionfa sul libertinismo del suo tempo: e allo stesso tempo dimostra la persistente simpatia di Goldoni per le classi ‘medie’ in ascesa, borghesi e artigiane, che vivono del loro lavoro e non di rendite terriere e feudali, come gli aristocratici, o di improvvise fortune o vincite al gioco, come gli avventurieri. La critica delle classi nobiliari è comunque sempre garbata, e non presuppone alcun moto violento di rivol-

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ta sociale. Vicino all’ideologia dell’illuminismo, Goldoni ne segue anche la prospettiva riformatrice, ostile alle rivoluzioni traumatiche. Importante in queste commedie è anche la dimensione corale, la tendenza a rappresentare un gruppo, un contesto, una comunità, più che una singola marcata individualità; una dimensione che diventa ancora più spiccata negli anni successivi, quando, lasciato il Medebac, Goldoni lavora per il teatro di San Luca, con una certa tranquillità economica (grazie a una pensione concessagli dal Duca di Parma nel 1756). Dopo alcune tragicommedie e alcuni drammi giocosi, non sempre di alto livello, Goldoni ritorna al dialetto, utilizzato ai suoi inizi, e ritrovato ora come efficace strumento linguistico, non più alternativo alla lingua italiana, ma addirittura compresente, in una condizione di sostanziale plurilinguismo, anche accanto ad altre parlate venete, o regionali del resto d’Italia. È un altro, fondamentale elemento del suo ‘realismo’: ogni personaggio parla con la sua lingua, conservando tutta la sua varietà di stile, di luogo e provenienza geografica, di classe sociale. Si passa così dallo spazio chiuso della bottega del caffè o della locanda a quello aperto de Il campiello (1756), sempre comunque un luogo d’incontro, di socializzazione, di civile conversazione tra classi e culture diverse, in cui i singoli personaggi contano meno dell’insieme, dell’azione collettiva; e soprattutto delle Baruffe chiozzotte (1762), eccezionale affresco del mondo dei pescatori di Chioggia (la cittadina al limite meridionale della laguna di Venezia, legata ad un favoloso ricordo dell’adolescenza di Goldoni, la fuga da Rimini in compagnia di attori girovaghi), basato anche sullo studio attento del dialetto chiozzotto, diverso da quello veneziano. Al tema dell’incontro sociale e del libero rapporto umano si oppongono invece I rusteghi (‘i rustici’)(1760), quattro burberi mercanti nemici della moda, del carnevale e del teatro, in una parola della ‘leggerezza’ del secolo, e perciò carcerieri delle loro mogli e figlie, che però non mancheranno di trionfare sull’ottusità dei ‘rusteghi’, e di fare tutto quel che vogliono; e Sior Tòdero brontolon o sia il vecchio fastidioso (1762), il vecchio mercante che per squallido interesse vuole costringere la bella nipote ad un matrimonio da lei non voluto. All’opposto, la satira sulle classi medie che vorrebbero imitare i costumi di vita più esteriori e inutili di quelle aristocratiche affiora nella cosiddetta Trilogia della villeggiatura (Le smanie per la villeggiatura, Le avventure della villeggiatura, Il ritorno dalla villeggiatura)(1761), rappresentazione della moda della vacanza ‘in villa’. Era giunto il momento del congedo dall’Italia. Goldoni accetta l’invito della Comédie Italienne a Parigi (1762), dove il suo nome era diventato famoso, e addirittura esaltato da Voltaire e dagli illuministi. Non è un



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cambiamento facile, perché il pubblico francese vuole ancora quella che lì si chiama ‘commedia all’italiana’, cioè proprio la Commedia dell’Arte, improvvisata a soggetto, che Goldoni aveva mandato in soffitta con la sua ‘riforma’. Il vecchio autore torna così a riscrivere i vecchi scenari di Arlecchino, e intanto è onorato anche alla corte di Versailles, dove è precettore di lingua italiana delle principesse: ma accetta le nuove sfide confrontandosi con Molière e la tradizione della commedia francese, e scrivendo addirittura una commedia in lingua francese di grande successo, Le bourru bienfaisant (‘il burbero benefico’)(1771). Dopo l’omaggio della visita del più grande autore contemporaneo del teatro tragico, il più giovane Vittorio Alfieri (1784), Goldoni rivolse negli ultimi anni un ampio sguardo retrospettivo alla sua vita, operosa e infaticabile, dominata dall’unica, immensa, divorante passione per il teatro e per la sua magia, e scrisse gli importanti Mémoires (1787), naturalmente in francese, la lingua ‘universale’ del suo tempo. Testimone della Rivoluzione Francese e del crollo dell’Antico Regime, morì a Parigi nel 1793, quasi povero e dimenticato.

4.5. Alfieri Appartenente alla vecchia aristocrazia piemontese, Vittorio Alfieri (Asti 1749-Firenze 1803) vive con insofferenza e insoddisfazione l’iniziale formazione riservata ai membri del suo ceto, del tutto priva di orizzonti culturali, in particolare presso la severa accademia militare a Torino. Quando inizia, giovanissimo, a viaggiare per l’Italia e l’Europa (1766-72), il viaggiare è qualcosa di più della moda sociale che attraversa l’Europa contemporanea, e che porta soprattutto inglesi e francesi in visita in Italia, nel cosiddetto Grand Tour (‘il grande giro’). È per lui un profondo bisogno interiore, una fuga dalla ristretta realtà provinciale e conservatrice del Piemonte savoiardo che a poco a poco diventa una vera fuga dal consorzio umano, alla ricerca delle solitudini del Nord, in un tentativo di contatto primordiale con la Natura, oltre la corruzione della civiltà moderna (come in Vico e Rousseau). È questo il tempo delle prime intense letture, dai classici greci (le Vite parallele di Plutarco, fonte di esempi magnanimi di forza e di virtù) agli illuministi francesi: e della prima metamorfosi di un aristocratico in uno scrittore, che trova il suo migliore campo d’espressione nell’ambito del teatro. Naturalmente, nella tragedia, in cui Alfieri si cimenta già con una prima opera (perduta), la Cleopatra (1775). Decisivo è il definitivo abbandono di Torino (1778), in favore di lunghi e fecondi soggiorni a Siena, Firenze, Roma, nel corso dei quali nasce e si

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cementa la relazione amorosa con la donna che lo accompagnerà per tutta la vita, ne ispirerà alcune scelte poetiche, e ne curerà la fortuna delle opere anche dopo la sua morte: Luisa Stolberg contessa d’Albany, che, moglie del principe Carlo Stuart pretendente al trono inglese, preferisce all’augusto marito l’errabondo poeta, anche negli anni difficili in cui la loro relazione li costrinse a lasciare Roma e a vagare per l’Europa, dall’Inghilterra all’Alsazia. Nascono così le prime tragedie, in un quadro di relativa difficoltà compositiva da parte dell’autore, per il quale l’italiano era quasi una lingua straniera, rispetto al più familiare francese. Per questo motivo, Alfieri si inventa un suo personale laboratorio di scrittura, che passa attraverso tre fasi, “ideare, stendere, verseggiare”: l’invenzione della storia, la sua prima stesura in prosa, la riscrittura poetica in endecasillabi sciolti. È un processo di grande impegno formale, nel corso del quale Alfieri si forgia una nuova ‘lingua della tragedia’, fatta di un lessico rarefatto, stilisticamente ‘alto’ e quindi ‘tragico’, con parole rare, arcaiche, nella direzione di una nobilitazione espressiva. La difficoltà era piuttosto nel rapporto con la precedente tradizione italiana della tragedia: Alfieri sentiva di dover ricreare completamente il genere, di non poter seguire nessuno dei suoi antecessori, dal Trissino al Maffei. Certo, ne rispetta le regole, che erano quelle delle unità aristoteliche: ma vi introduce una tematica tutta sua, l’affermazione della libertà dell’individuo, contro tutto e contro tutti. Una libertà che è proiezione del desiderio di libertà dell’autore, e che coinvolge anche il tema dei rapporti fra intellettuale e potere, portandolo, nel trattato Del principe e delle lettere (1778), a preferire decisamente i poeti che sdegnarono ogni forma di compromesso, anche pagando con l’esilio la loro libertà (Dante) a quelli che, in un modo o nell’altro, furono cantori dei loro principi (Virgilio, Orazio, Ariosto). Erano tragedie ‘aristocratiche’, non solo dal punto di vista linguistico. Convinto dell’altezza ideale della poesia, Alfieri era indifferente al giudizio del pubblico: le sue rappresentazioni di solito non avvenivano in teatro, ma in contesti ristretti, privati, di fronte a un uditorio che condivideva gran parte dell’ideologia dell’autore. Soprattutto l’ideologia della libertà, che in termini politici equivaleva ad esaltare la lotta contro i governi ingiusti e tirannici, teorizzata nel trattato Della tirannide (1777), e rappresentata nelle cosiddette ‘tragedie della libertà’, ambientate nell’antica Grecia e nell’antica Roma (Timoleone, Virginia), o nella Firenze del Rinascimento (Congiura de’ Pazzi). Dal teatro antico vengono due coppie di tragedie, ispirate alla vicenda dei figli di Edipo e Giocasta (Polinice, Antigone), e a quella dell’assassinio di Agamennone tornato dalla guerra di Troia (Agamennone, Oreste). Ma un capolavoro è già la prima di queste tragedie, il Filippo (rappresentato ancora



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a Torino, Palazzo Carignano, 1775), ambientato in una cupa Spagna di fine Cinquecento, in cui il terribile padre-tiranno (Filippo II re di Spagna) finisce con l’uccidere il figlio Carlo, suo rivale nell’amore di Isabella. Già nel Filippo emerge il lato oscuro di questa ideologia. Le più alte e intense tragedie alfieriane ruotano infatti intorno a nuclei profondi, inconfessabili e indicibili dell’animo umano: il sospetto, la vendetta, l’amore perverso e incestuoso. Ma la catarsi può essere raggiunta nella morte, spesso per suicidio, estremo atto di eroismo e di purificazione. Così è nel Saul (1782), il vecchio re d’Israele ròso dal sospetto verso il purissimo e innocente eroe David, sospetto che lo porta alla rovina in quella che è sostanzialmente la tragedia della sua solitudine. E così è nella Mirra (1784-86), figura della mitologia antica celebre per l’amore incestuoso col padre Ciniro, ricreata in modo originale dall’Alfieri perché l’eroina vive il suo amore proibito esclusivamente dentro di sé, senza mai comunicarlo all’esterno fino alla fine, quando, costretta dal padre, confessa appena la sua colpa, uccidendosi. È un incredibile crescendo di angoscia trattenuta, una tragedia dell’incomunicabilità, basata sulle figure della sospensione e della reticenza, del non detto e del non vissuto. Solitudine e angoscia che poi sono le stesse vissute dall’autore, ed espresse nella contemporanea composizione delle Rime, una raccolta poetica che, nella ripresa della tradizione anche metrica (ad esempio, il sonetto), riesce a rinnovare il petrarchismo in chiave soprattutto autobiografica e tragica, in uno scenario naturale che predilige gli aspetti sovrumani, orridi, tempestosi delle foreste e delle montagne alpestri, proiezione di un’anima tempestosa e sofferente. L’Alfieri teorico e cantore del tirannicidio non poteva non approdare a Parigi negli anni della Rivoluzione Francese (1788-1792), all’inizio favorevole alla Rivoluzione con l’ode Parigi sbastigliato (1789), poi addirittura costretto ad una fuga rocambolesca da una città in cui si stava per instaurare il Terrore, e ghigliottinare Luigi XVI e tutti gli aristocratici che capitavano a tiro, fra i quali c’era anche il conte Vittorio Alfieri. Dalla cocente delusione nacque il prosimetro satirico contro la Rivoluzione, il Misogallo (‘odiatore dei Francesi’), che però esprimeva la speranza che gli Italiani potessero un giorno trovare una loro unità e libertà; alcune satire, e tre commedie contro le illusioni della ‘democrazia’ (L’uno, I pochi, I troppi ). Tra l’altro, non deve stupire il passaggio del più grande autore tragico al genere comico-satirico: alla tragedia di un grandioso passato eroico, ideale e ‘aristocratico’, si contrappone, per Alfieri, la meschinità di un presente dominato dai disvalori ‘borghesi’ e materialistici del denaro e dell’interesse; un presente rappresentabile solo con con un amarissimo stile comico.

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Giunto a Firenze, l’ultima città della sua vita, continuò ad attendere all’ultima grande opera, la Vita scritta da esso, iniziata nel 1790 anche per la forte impressione delle autobiografie di Goldoni e di Rousseau: un testo di grande potenza espressiva, che consegna alle generazioni successive il vero e grande ‘romanzo’ scritto dall’Alfieri in prima persona giorno per giorno, nel corso della sua esistenza, il ritratto ideale del poeta che lotta per la propria libertà contro le strutture dell’Antico Regime, l’esempio di una grandiosa e solitaria individualità che si salda ormai alla temperie culturale europea che prende il nome di romanticismo.

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4.2. L’Illuminismo. F. Venturi, Settecento riformatore, Torino, Einaudi, 1969-1990; Che cos’è l’illuminismo: i testi e la genealogia del concetto, a c. di A. Tagliapietra, Milano, Bruno Mondadori, 1997; T. Todorov, Lo spirito dell’illuminismo, Milano, Garzanti, 2007. V. anche F. Arato, La storiografia letteraria nel Settecento italiano, Pisa, ETS, 2002. Testi: Illuministi italiani, a c. di F. Venturi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1958-1965; Illuministi e riformatori, a c. di L. Villari, Roma, Ist. Poligrafico dello Stato, 1997; Prosatori e narratori del Settecento, a c. di A. Battistini, ivi 2006. Sull’autobiografia: Ph. Lejeune, Il patto autobiografico (1975), Bologna, Il Mulino, 1986; G. Nicoletti, La memoria illuminata. Autobiografia e letteratura tra la Rivoluzione e il Risorgimento, Firenze, Vallecchi, 1989; A. Battistini, Lo specchio di Dedalo, Bologna, Il Mulino, 1990; B. Capaci, Le impressioni delle cose meravigliose, Venezia, Marsilio, 2002. Su narrativa e romanzo: S. Calabrese, Intrecci italiani, Bologna, Il Mulino, 1995; L. Clerici, Il romanzo italiano del Settecento, Venezia, Marsilio, 1997; T. Crivelli, “Né Arturo né Turpino né la Tavola rotonda”. Romanzi del secondo Settecento italiano, Roma, Salerno Editrice, 2002. 4.3. Parini. Testi: Opere, a c. di E. Bonora, Milano, Mursia, 1969; Il Giorno, a c. di D. Isella, Parma, Guanda, 1996, e Alcune poesie di Ripano Eupilino, a c. di D. Isella, ivi 2006; Prose, ed. crit. a c. di P. Bartesaghi e S. Morgana, Milano, LED, 2003-2005. Studi: R. Spongano, La poetica del sensismo e la poesia del Parini, Bologna, Pàtron, 1964; L. Poma, Stile e società nella formazione del Parini, Pisa, Nistri-Lischi, 1967; D. Isella, L’officina della “Notte” e altri studi pariniani, Milano-Napoli, Ricciardi, 1968; G. Savarese, Iconologia pariniana, Firenze, La Nuova Italia, 1973; E. Bonora, Parini e altro Settecento, Milano, Feltrinelli, 1982; R. Leporatti, Per dar luogo a la notte. Sull’elaborazione del “Giorno” del Parini, Firenze, Le Lettere, 1990; Interpretazioni e letture del “Giorno”, a c. di G. Barbarisi ed E. Esposito, Milano, Cisalpino, 1998; C. Annoni, La poesia di Parini e la città secolare, Milano, Vita e Pensiero, 2002. 4.4. Goldoni. Testi: Le opere, Venezia, Marsilio, dal 2000; Memorie, a c. di P. Bosisio, Milano, Mondadori, 1993. Biografie e monografie: F. Angelini, Vita di Goldoni, Bari, Laterza, 1993; H. Ginette, Carlo Goldoni. Biografia ragionata. Vol. 1: 1707-1744, Venezia, Marsilio, 2007; C. Alberti, Goldoni, Roma, Salerno, 2004. Studi: M. Dazzi, Carlo Goldoni e la sua poetica sociale, Torino, Einaudi, 1957; M. Baratto, Tre studi sul teatro, Venezia, Neri Pozza, 1964; F. Fido, Da Venezia all’Europa. Prospettive sull’ultimo Goldoni, Roma, Bulzoni, 1984; Id., Le inquietudini di Goldoni, Genova, Costa e Nolan, 1995; Id., Nuova guida a Goldoni, Torino, Einaudi, 2000; I.

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Crotti, Libro, Mondo, Teatro. Saggi goldoniani, Venezia, Marsilio, 2000; Carlo Goldoni in Europa, a c. di I. Crotti, Pisa, IEPI, 2007; F. Fido, L’ avvocato di buon gusto. Nuovi studi goldoniani, Ravenna, Longo, 2008. Rivista specializzata: “Problemi di critica goldoniana”. Risorsa in rete: Carlo Goldoni, Drammi per musica, a c. di A.L. Bellina e C. Tessarolo, Casa di Goldoni, Padova (www.carlogoldoni.it/carlogoldoni). 4.5. Alfieri. Testi: Opere, Edizione nazionale, Asti, Casa d’Alfieri, 1951-2004; Tragedie, a c. di L. Toschi, Torino, Einaudi, 1993. Studi: M. Fubini, Vittorio Alfieri. Il pensiero, la tragedia, Firenze, Sansoni, 1953; V. Branca, Alfieri e la ricerca dello stile, Bologna, Zanichelli, 1981; S. Costa, Lo specchio di Narciso: autoritratto di un “homme de lettres”. Su Alfieri autobiografo, Roma, Bulzoni, 1983; A. Di Benedetto, Vittorio Alfieri. Le passioni e il limite, Napoli, Liguori, 1987, e Il dandy e il sublime. Nuovi studi alfieriani, Firenze, Olschki, 2003; G. Debenedetti, Vocazione di Vittorio Alfieri. Tra biografia e scrittura, alla ricerca dello «sconosciuto sé stesso» (1977), Milano, Garzanti, 1995; W. Binni, Studi alfieriani, Modena, Mucchi, 1995; Alfieri tragico, a c. di E. Ghidetti e R. Turchi, Firenze, Le Lettere, 2003; P. Luciani, L’autore temerario. Studi su Vittorio Alfieri, Firenze, SEF, 2005. Rivista specializzata: “Annali alfieriani”. Risorsa in rete: Centro di Studi Alfieriani, Asti (www.fondazionealfieri.it).

5. Il primo Ottocento

5.1. Rivoluzioni e restaurazioni Il processo di rinnovamento avviato dall’illuminismo aveva messo in movimento forze economiche e sociali che, per lungo tempo trattenute nelle società di Antico Regime, divennero presto incontrollabili all’interno delle strutture tradizionali di dominio. La circolazione di beni era notevolmente aumentata nel corso del Settecento, anche grazie all’espansione degli imperi coloniali, soprattutto di quello britannico, che cominciava a penetrare in India e in Cina, e che dopo la metà del secolo era riuscito a impadronirsi dei territori francesi del Nord America, la Nuova Francia e il Canada. Un predominio di breve durata, quello sul Nuovo Mondo, perché di lì a poco la potenza coloniale più forte del pianeta fu battuta dalla rivolta dei coloni americani, insofferenti delle vessazioni fiscali della madrepatria. In realtà la rivoluzione americana (1776) può essere considerata l’avvio dell’età delle rivoluzioni che scossero il vecchio continente, determinando la caduta definitiva dell’Antico Regime: fin dall’inizio essa fu percorsa da alti valori ideali che derivavano direttamente dall’influenza del pensiero illuministico europeo, il progetto di una società nuova basata sulla libera associazione di uomini liberi ed eguali, senza discriminazioni religiose o politiche. Questo progetto cominciava a essere elaborato, in America e in Europa, anche in ristretti clubs di intellettuali che, costretti talvolta dal contesto politico a riunirsi in forma segreta, presero il carattere di società segrete, chiamate massoneria (dal francese maçon, ‘muratore’, perché gli adepti si servivano di una simbologia tratta dal campo del ‘costruire’, intendendo la costruzione di un società più giusta e tollerante): un aspetto fondamentale per l’indipendenza americana, e che sarebbe stato determinante per tutta la storia contemporanea. In Europa il movimento rivoluzionario iniziò in Francia, il paese in cui maggiori erano le tensioni tra l’aspirazione al nuovo (le punte più avanzate

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dell’illuminismo e della civiltà urbana, tecnologica e scientifica) e l’arretratezza delle strutture politiche e sociali, basate ancora sul dominio assoluto dell’aristocrazia feudale fondiaria e della Chiesa. La rivoluzione francese cominciò il 14 luglio 1789, con la presa della fortezza-prigione parigina della Bastiglia, simbolo di un potere che si riteneva basato sull’oppressione e la disuguaglianza, e divenne rapidamente un vortice incontrollabile che travolse la monarchia, e poi addirittura gli stessi rivoluzionari, al tempo del Terrore (1793-1794). Le classi medie, borghesi e mercantili, conquistato il potere, avevano ora bisogno di un ritorno all’ordine: e questo fu assicurato da un uomo forte che conquistò il potere assoluto in Francia, fondando un impero personale esteso a gran parte dell’Europa conquistata dalle sue armate: Napoleone Bonaparte. L’impatto della rivoluzione sull’Italia fu enorme. Il vecchio sistema di stati regionali, che risaliva addirittura al Medioevo e al Rinascimento, fu travolto da Napoleone nel 1796-1797: Venezia fu ceduta all’Austria col trattato di Campoformio, al Nord si formò prima la Repubblica Cispadana, poi la Cisalpina, al Centro la Repubblica Romana che poneva fine al millenario potere temporale dei Papi, al Sud la Repubblica Napoletana al posto del regno borbonico. Fu una breve illusione di libertà, perché le repubbliche italiane caddero al ritorno di austriaci e Borboni (1799), e la successiva rivincita di Napoleone avrebbe portato alla costituzione di un Regno d’Italia di fatto annesso all’Impero, e di un Regno di Napoli, governato prima da Giuseppe Bonaparte, poi da Gioacchino Murat. Il dominio napoleonico crollò nel 1814-1815, e il Congresso di Vienna sancì la Restaurazione, cioè il ripristino della situazione prerivoluzionaria, e il ritorno dei ‘legittimi’ sovrani. Non era possibile però far andare all’indietro l’orologio della storia. Le nuove idee di libertà e partecipazione politica delle classi borghesi si erano ormai diffuse in Italia, dove per la prima volta si era sperimentata la possibilità di strutture statali sovraregionali, cioè l’embrione di uno stato ‘nazionale’, compiutamente ‘italiano’. L’illuminismo aveva preparato il terreno alle rivoluzioni, ma era stato poi superato dall’evolversi di eventi che sembravano sfuggire ad ogni possibilità di pianificazione razionale. La critica all’ottimismo illuminista, oltre che nella filosofia, affiora in opere come il Candide di Voltaire, e il Tristram Shandy dello scrittore inglese Laurence Sterne, un incompiuto romanzo umoristico e sperimentale che, nella sua forma frammentaria e provvisoria, eserciterà una grande influenza sulle generazioni successive. Lo stesso Sterne prese in giro la moda più diffusa nelle classi aristocratiche e altoborghesi europee, quella del Grand Tour, del viaggio di ‘formazione’ che spingeva molti giovani



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in giro per l’Europa e soprattutto in Italia, alla scoperta delle vestigia delle civiltà antiche, e in fondo alla scoperta di se stessi, in A Sentimental Journey through France and Italy (‘viaggio sentimentale attraverso la Francia e l’Italia’) (1768), reso celebre in Italia dalla traduzione di Foscolo. L’aspetto più evidente della crisi dell’illuminismo si vede nell’esito estremo del libertinismo, che nato nel Seicento come manifestazione di libertà intellettuale e morale contro le costrizioni della religione e del potere, rischia di portare alla più terribile disumanizzazione. È quello che emerge, ad esempio, ne Les liaisons dangereuses (‘le relazioni pericolose’)(1782) di Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos, un romanzo epistolare (molto moderno nella struttura, a focalizzazione zero) che racconta i misfatti criminali di una coppia di libertini, il visconte di Valmont e la marchesa di Merteuil. E soprattutto nelle opere del marchese Donatien-Alphonse-François de Sade (1740-1814), che pagò di persona la fama di libertino passando gran parte della sua vita in prigione, in particolare alla Bastiglia, donde venne liberato il fatidico 14 luglio 1789. Alla Bastiglia Sade scrisse il suo libro più terribile, Les 120 Journées de Sodome (‘le 120 giornate di Sodoma’)(1784-1789), nel cupo scenario di un castello in cui quattro libertini (seguendo un perverso ordine geometrico-matematico) si dilettano di sevizie e torture indicibili. In seguito compose l’epopea di due sorelle, due eroine contemporanee, l’una l’opposto dell’altra, la virtuosa Justine e la libertina Juliette, a dimostrazione (in quello che in fondo è un romanzo filosofico, come in Voltaire, Diderot o Rousseau) che la virtù porta alla rovina, e il vizio alla prosperità: La nouvelle Justine ou les malheurs de la vertu suivie de l’histoire de Juliette, ou les prospérités du vice (‘la nuova Giustina o le disgrazie della virtù, seguita dalla storia di Giulietta, o le prosperità del vizio’)(1797). Era il rovesciamento totale della morale corrente: ma anche la lucida analisi del fallimento dell’utopia illuministica, e del pericolo che una futura civiltà di massa, con l’asservimento dell’individuo, del suo corpo, della sua anima, dei suoi bisogni, avrebbe potuto di lì a poco arrecare.

5.2. Il neoclassicismo Nella prima metà del Settecento avvenne la più sensazionale scoperta archeologica della storia: il rinvenimento di due città romane sepolte dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., Ercolano e Pompei (1738 e 1748). Dopo secoli di umanesimo e di classicismo, in cui si era sognato di far rinascere l’antichità classica a partire dai testi classici e dallo studio delle rovine di Roma, era addirittura possibile passeggiare per le strade di una città antica, entrare nelle

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sue botteghe e nei suoi templi, nell’intimo della vita quotidiana di una casa o di un lupanare, scoprire i segni di una vita che sembrava appena trascorsa, cancellata dalla furia distruttrice del vulcano: il pane carbonizzato sul bancone del fornaio, i graffiti sul muro, le tracce d’olio nella lucerna. Mentre Ercolano, esplorata per mezzo di profondi cunicoli, non fu allora portata alla luce, Pompei invece fu gradualmente dissepolta, e Carlo III di Borbone favorì la nascita del primo grande museo europeo finalizzato alla conoscenza dell’Antico, unificando le vecchie raccolte dei principi Farnese con le nuove scoperte. Il rinnovato entusiamo per l’Antico, unito al movimento di reazione per gli eccessi leziosi del rococò, porta alla nascita, nelle arti figurative, di un nuovo classicismo, soprattutto per opera dell’archeologo tedesco Johann Joachim Winckelmann (1717-1768). Il movimento, definito neoclassicismo, propugna il ritorno alla purezza delle forme classiche, da imitare secondo modalità non dissimili da quelle utilizzate nel corso del Rinascimento italiano, o del Seicento francese, chiamato Age Classique (‘età classica’). Cambia però la coscienza interna di questo classicismo, ed è un cambiamento impensabile senza eventi come la scoperta di Pompei ed Ercolano, o senza le conquiste intellettuali di pensatori come Vico. L’Antico, infatti, a differenza del Rinascimento, è sentito ora come qualcosa di separato, ‘altro’, assolutamente lontano e irraggiungibile. C’è un’idea della ‘distanza’, della definitiva alterità dei Moderni rispetto agli Antichi, che rende alla bellezza di quei modelli da imitare una vena di malinconia, di nostalgia per un mondo perduto e in fondo irrecuperabile: l’età degli dei e degli eroi, della mitologia classica e degli artisti sublimi come Fidia, Mirone, Policleto. Non è più possibile, dunque, un ‘rinascimento’, perché la civiltà degli Antichi non può rinascere, ma tutt’al più ispirare quella dei Moderni. Per i neoclassici, la bellezza di una statua greca è una bellezza ideale, assoluta, al di fuori del tempo, al riparo dai processi di corruzione, trasformazione e morte. Essi tendono quindi verso la forma statica, verso l’armonia immobile, definita da Winckelmann con le espressioni “nobile semplicità” e “quieta grandiosità”. Non è però un’arte astratta dal reale, ma raccoglie ancora le istanze illuministiche di ragione e di utilità sociale, fortemente impegnata e legata ad aspetti celebrativi ed occasionali, come s’avverte nella poesia delle odi di Parini, e nei contemporanei artisti neoclassici, dall’architettura (Andrea Appiani) alla scultura (Antonio Canova) e alla pittura (Jean-Louis David). I grandi modelli saranno quelli della Roma delle origini e della repubblica (e poi dell’impero per Napoleone), e della Grecia, della civiltà guerriera di Sparta e del mito dell’età d’oro delle arti e della filosofia nell’Atene di Pericle. In poesia, il gusto neoclassico si salda bene con quello dell’ultima Arcadia, come rivelano due pallidi continuatori del Parini, Ludovico Vitto-



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rio Savioli (Bologna 1729-1804), autore di canzonette che rendono piccoli quadri di vita galante con una mitologia spicciola e quotidiana, e dell’ode Il mattino per il risveglio di una bella dama; e Iacopo Andrea Vittorelli (Bassano 1749-1835), cui si ascrivono poemetti pariniani in ottave come Il tupé e Lo specchio, e il genere delle Anacreontiche che sembrava riprendere l’antica poesia ellenistica. Il rappresentante più celebre del neoclassicismo in Italia fu Vincenzo Monti (Fusignano di Romagna 1754-Milano 1828), un arcade nella Roma di Pio VI, dove si distinse per una serie di testi come la Prosopopea di Pericle (1779) e l’ode Al signor di Montgolfier (1784), celebrazione dei primi sensazionali voli di palloni aerostatici. Ma la tranquillità romana di fine secolo era ormai incrinata dalle notizie che giungevano da Parigi, e Monti si fece cantore controrivoluzionario nel poema dantesco Bassvilliana (1793), in cui l’anima di un diplomatico francese trucidato a Roma ha la visione degli orrori della rivoluzione, culminanti nell’esecuzione capitale del re Luigi XVI. Di lì a poco, però, lo stesso Monti, simpatizzante per il nuovo ordine portato da Napoleone in Italia, fuggì da Roma e approdò a Milano (1797), che sarebbe stata in seguito sua residenza principale. A Milano Monti, poeta ufficiale e professore all’università di Pavia, avrebbe celebrato Napoleone in opere come il poemetto Mascheroniana, in memoria dello scienziato Lorenzo Mascheroni (1802); e si sarebbe soprattutto impegnato in lavori di traduzione dai classici, le Satire di Persio e l’Iliade (senza però conoscere il greco, per cui il suo lavoro, basato sull’assemblaggio di traduzioni altrui, gli valse la sprezzante definizione di Foscolo, “gran traduttor dei traduttor di Omero”). Alla caduta di Napoleone Monti non mancherà di omaggiare i nuovi padroni, gli austriaci (1815), col poemetto Il ritorno di Astrea, in cui Astrea, la mitica dea della Giustizia, simboleggiava evidentemente l’auspicato ritorno all’ordine e alla legalità della Restaurazione. Nonostante tutto, la figura di Monti rappresentò un importante punto di riferimento nella cultura del suo tempo, un termine ‘medio’ di impegno civile della poesia, né rivoluzionaria né retriva. Il suo sforzo di elaborazione formale, nelle poesie come nelle traduzioni (lungamente famosa, anche nelle scuole, quella dell’Iliade), continuò a fornire un modello di lingua poetica ‘moderna’ per le generazioni successive. E anche nell’ambito della lingua la sua posizione ‘media’ contribuì a frenare le istanze più radicali del purismo, la corrente che, guidata dall’abate Antonio Cesari (Verona 1760-1828) e dall’Accademia della Crusca, voleva, dopo la relativa libertà settecentesca e l’influenza francese, un anacronistico ritorno alla lingua letteraria toscana del Trecento. Monti e il genero Giulio Perticari reagirono a tale oltranzismo con la Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca

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(1817-1826). Certo, vi si trattava ancora di lingua letteraria ‘illustre’ e non popolare, ma il fatto che essa non fosse più confinata nell’imitazione degli ‘scrittori di lingua’ apriva nuovi orizzonti di formazione di una lingua che fosse veramente la lingua d’uso degli Italiani: quel che aveva capito, con grande lungimiranza, Melchiorre Cesarotti (Padova 1730-1807), nel Saggio sulla filosofia delle lingue (1785), in cui si affermava l’importanza della lingua d’uso, e la necessità di una lingua nazionale italiana che non fosse solo quella ‘letteraria’.

5.3. Il romanticismo Contemporaneamente al neoclassicismo si diffonde in Europa un gusto estetico apparentemente opposto alla solare staticità dell’arte classica, ed invece ad essa profondamente vicino, come se fosse l’altra faccia di una stessa medaglia. Il viaggiatore straniero che vagava tra le rovine di Roma antica o tra le mura di Pompei si lasciava prendere dalla malinconia della poesia delle rovine, meditando sull’azione invincibile e distruttrice del tempo e della morte, che travolgono tutte le opere dell’uomo, anche le realizzazioni più grandiose. Mentre l’artista neoclassico cercava di scorgere, al di là di questo incessante processo di trasformazione dell’essere, una bellezza ideale e incorruttibile, ora il nostro viaggiatore avvertiva la straordinaria consonanza tra quel paesaggio di morte e la sua propria condizione esistenziale, anch’egli frammento di vita ai piedi del simbolo del potere distruttivo della Natura, il Vesuvio. Di fronte agli spettacoli di una Natura sovrana, immensa, disumana, orrida (le riviere oceaniche, le Alpi, le desolazioni nordiche, i paesaggi del Nuovo Mondo), si fa strada il sentimento del sublime, di una percezione estetica congiunta alla paura, al timore, alla smisurata distanza tra gli abissi cosmici e la infinita piccolezza dell’individuo. Anzi, in un rovesciamento soggettivistico, sembra che quei paesaggi riflettano l’orrido e il tempestoso che sono dentro l’animo umano, che la Natura esterna non sia altro che la proiezione di una Natura interna, di un Io in perpetua metamorfosi. A sua volta, l’Io, così ingigantito fino ad abbracciare tutto l’universo, può credere di potersi opporre alla forza della Natura, di rovesciare eroicamente la sua condizione di inferiorità, sfidandola come gli antichi Titani sfidavano il potere degli Dèi, con un atteggiamento che viene definito titanismo. Nasce così uno degli elementi fondamentali di questa nuova sensibilità, già avvertita da un autore come Tasso: il profondo legame tra paesaggio e stato d’animo, tra Natura e Io.



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In Italia questo gusto comincia a percorrere in modo sotterraneo la cultura del Settecento, dalle Visioni dantesche macabre e tenebrose del ferrarese Alfonso Varano (Ferrara 1705-1788) a certi spunti del Parini nel Vespro e nella Notte. In Inghilterra è l’epoca della poesia sepolcrale, che si diffonde sul compianto elegiaco delle vicende umane, nella contemplazione di cimiteri e paesaggi notturni, con Edward Young, The Complaint, or Night Thoughts (‘compianto o pensieri notturni’, tradotto in Italia col titolo Le Notti)(1745), e Thomas Gray, Elegy written in a Country Churchyard (‘elegia scritta in un cimitero di campagna’)(1751); e un’ambientazione sepolcrale o notturna avranno anche le già ricordate Notti romane al sepolcro degli Scipioni di Alessandro Verri; le Notti clementine (1775) di Aurelio de’ Giorgi Bertola (1753-1798); e le Poesie campestri (1788) di Ippolito Pindemonte (Verona 1753-1828), traduttore dell’Odissea, poeta della malinconia e dell’elegia cui un giorno Foscolo avrebbe dedicato i Sepolcri. Nella seconda metà del secolo il caso Ossian fa emergere tutti i caratteri di questa nuova letteratura. Uno scrittore scozzese, James Macpherson, traduttore di testi gaelici medievali, compone una serie di poemi imitandone lo stile arcaico, con la finta attribuzione a un bardo leggendario di nome Ossian, The Poems of Ossian (‘i poemi di Ossian’) (1765), tradotto subito in Italia da Melchiorre Cesarotti. È un testo fortunatissimo, anche perché creduto autentico, una specie di Omero medievale, esempio di una civiltà primordiale nelle terre più estreme delle isole britanniche. La sua finta patina ‘primitiva’ è data anche dall’uso della prosa lirica (resa dal Cesarotti in versi endecasillabi sciolti). Mentre si diffonde sempre più in Europa la conoscenza di Vico, si fa strada il mito di un Medioevo ‘positivo’, in cui l’uomo era più vicino allo stato di natura, e in cui lo spirito creatore agisce in tutto un popolo, e non nel singolo individuo. La poesia è dominata dalla forza potente della fantasia, e non dalla ragione, il verso erompe libero e spontaneo, senza obbedire a regole e costrizioni classicistiche. Il tutto in uno scenario che sostituisce alla mitologia classica e mediterranea la mitologia nordica, germanica e scandinava, ai paesaggi italiani quelli tempestosi o nebbiosi del Mare del Nord. In sintesi, tutti gli elementi che concorrono nel movimento poetico che di lì a poco in Germania fu promosso dai poeti tedeschi Johann Gottfried Herder e Goethe, lo Sturm und Drang (‘tempesta e impeto’)(dal titolo di un dramma di Friedrich Maximilian Klinger, 1776). Esso si basava su idee rivoluzionarie come la poesia manifestazione del genio popolare (Volksgeist), la Natura fonte del Sublime, e la stessa idea di Nazione, naturalmente declinata nei termini della nazione tedesca, di un patriottismo che dopo secoli di divisioni ambiva a ritrovare un’identità unitaria. L’artista, il poeta, è un

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genio creatore, libero, individualista, che nel suo contrapporsi alla società, alla Storia, alla Natura, acquista un carattere eroico, titanico, anche quando è destinato a soccombere. Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) ne fu all’inizio l’esponente più rilevante, con la composizione di un romanzo che diede all’Europa il ‘modello’ dell’eroe moderno, tanto più ‘imitabile’ rispetto a quelli aristocratici dell’Alfieri perché è per la prima volta un eroe ‘borghese’: Die Leiden des jungen Werther (‘i dolori del giovane Werther’)(1774). Werther è un intellettuale cittadino, appassionato di Omero e Ossian, che fugge in campagna per ritrovare la Natura, e trova invece l’amore per un’irraggiungibile Carlotta, passione disperata cui pone fine solo il suicidio, con un colpo di pistola. La forte proiezione autobiografica continua nel grande romanzo ciclico successivo, il Wilhelm Meister, un vero ‘romanzo di formazione’ (Bildungsroman) che racconta diffusamente la vita di Wilhelm, la sua adolescenza, i suoi amori, i suoi viaggi. E fu proprio un importante viaggio in Italia (1786-1788), raccontato nell’Italienische Reise (‘viaggio italiano’), a portare Goethe a stretto contatto con la civiltà antica e a convertirlo al classicismo. Salvo poi tornare alla rappresentazione delle tempeste dell’anima umana in Die Wahlverwandtschaften (‘le affinità elettive’)(1809), in cui l’unione apparentemente idilliaca di una coppia di sposi, Eduard e Charlotte, si rompe con l’arrivo di un’altra coppia, il Capitano e Ottilie, e con lo scatenarsi dell’attrazione fatale tra Eduard e Ottilie, che porta entrambi alla morte. E restava, dell’impeto giovanile, anche la pulsione al titanismo, evidente soprattutto nel Faust, l’opera di tutta una vita, paradigma dell’intera civiltà umana, mirabile riscrittura del mito rinascimentale dello scienziato che vende la sua anima al diavolo in cambio di sapienza, ricchezza, potere, amore. Accanto a Goethe, per molti anni, è Friedrich Schiller (1759-1805) che traduce le stesse istanze nelle forme della tragedia, sullo sfondo della Rivoluzione e delle prime aspirazioni del patriottismo tedesco. Schiller scrive capolavori come Die Räuber (‘i masnadieri’)(1782), terribile storia di odio tra fratelli; Don Carlos (1787), simile per ambientazione al Filippo dell’Alfieri, ma con una maggiore apertura allo scenario politico (il principe don Carlos è anche un eroe di libertà, e non solo la vittima della nefanda gelosia del padre); la trilogia di Wallenstein (1796-99), sul grande Capitano della Guerra dei Trent’anni vincitore sui campi di battaglia e assassinato a tradimento; e infine il Guglielmo Tell (1804), epopea della lotta degli Svizzeri per l’indipendenza. Ma a questo punto una nuova generazione di intellettuali e poeti tedeschi adotta per la prima volta, per definire la propria poesia e la propria sensibilità, la parola che segnerà l’intera cultura europea contemporanea:



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romantico, da cui deriva la più generale categoria di romanticismo. Siamo nel 1798, in piena età rivoluzionaria. Sulle pagine della rivista “Athenäum” Friedrich Schlegel esalta la poesia tedesca moderna, chiamandola appunto ‘romantica’ (in tedesco romantik). La parola non l’aveva inventata lui: compare nel Seicento, in Inghilterra, con valore spregiativo e il significato di ‘irreale e assurdo’, per designare il mondo immaginario e improbabile dei romanzi cavallereschi medievali (in inglese romances), già parodiati nel Don Quixote di Cervantes. Quando però Rousseau (e prima di lui Vico) riscopre tutto il valore positivo della fantasia come elemento creativo della poesia, non trova parola migliore del francese romantique per designare, col significato di ‘piacevole e suggestivo’, quel paesaggio naturale altrimenti definito pittoresque, che con il suo mistero, la sua potenza misteriosa e sublime, è capace di rapire l’anima umana, e di farla sentire consonante con l’anima della Natura. Romantic, romantique, romantik: nella storia semantica di una parola si coglie dunque il passaggio all’autocoscienza di una poesia, di una letteratura, di un’arte, di una sensibilità che si era in gran parte già sviluppata nel corso del Settecento in opposizione all’impero della ragione, dell’empirismo, del sensismo, del materialismo, del libertinismo. Un’arte che riportava con forza le ragioni del cuore, della passione, del sentimento, della spiritualità, e anche del senso religioso della vita, sia all’interno della religione tradizionale (il Cristianesimo), sia nel quadro di una più vasta religione della Natura, di un nuovo panteismo che aspira alla fusione dell’uomo con il mondo che lo circonda. Una spinta in cui è prepotente lo spazio vitale del soggetto, dell’Io che pensa, immagina, e in un certo senso si ‘crea’ la realtà: una strada che, nella grande filosofia tedesca, è aperta dal criticismo di Immanuel Kant (che nella Critica della ragion pura aveva dimostrato l’insopprimibile presenza del soggetto nella conoscenza della realtà), e confermata dalla nascita dell’idealismo, con Fichte, Schelling ed Hegel, evolutosi fino alle posizioni estreme del pessimismo volontaristico di Schopenhauer, e all’esistenzialismo di Kierkegaard. Schlegel, che è il primo a chiamare ‘romantica’ la poesia moderna, ne definisce con grande lucidità l’opposizione con la poesia antica, e quindi con il classicismo che alla tradizione degli Antichi è sempre stato legato. Mentre il classicismo vive dell’imitazione degli Antichi, consapevole che tutto è già stato detto e fatto, e che i modelli ideali e assoluti di bellezza sono già stati raggiunti, per sempre, nella Classicità, la poesia romantica moderna vuole non imitare ma creare, ed è quindi ‘progressiva’, perché sempre tesa in avanti, verso l’infinito, verso l’assoluto. Sempre in movimento, l’arte è dinamica, come la vita, opposta alla staticità formale del neoclassicismo. Un altro

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carattere che sarà presto evidente è la ricerca di identità tra letteratura e vita. Non più una letteratura disimpegnata che tende ad una bellezza ideale e astratta, ma un profondo coinvolgimento esistenziale del poeta in ciò che scrive, che è espressione diretta e spontanea di ciò che sente. Dal punto di vista del sistema dei generi, questo significa dare un’importanza nuova a forme letterarie come la lirica (momento primario dell’effusione libera dei sentimenti), il romanzo e l’autobiografia (entrambi legati in questa fase alla scrittura dell’io). Il poeta è il primo testimone della sua tragedia, insieme protagonista e autore del romanzo della sua vita, vissuta e anzi ‘bruciata’ senza risparmio di mezzi e di energie, fino ad epiloghi spesso tragici (il suicidio, la malattia, la morte in giovanissima età). Una nuova figura di ‘martire’, non cristiano ma laico, modello morale per la classe che trova primariamente nel romanticismo la proiezione delle sue aspirazioni ideali: la borghesia mercantile e imprenditoriale che, emersa vittoriosa nella Rivoluzione francese sia sull’Antico Regime dell’aristocrazia, sia sulle spinte della plebe e del proletariato, guida ora la rivoluzione industriale e l’economia globale. La rivista “Athenäum”, pubblicata a Jena, fu il primo strumento di comunicazione dei romantici tedeschi. Ne furono direttori i fratelli Friedrich e August Wilhelm Schlegel, che continuarono ad avere un’importanza decisiva per indirizzare la nuova critica e storiografia letteraria europea, con il Corso sulla letteratura drammatica di August (1808), e la Storia della letteratura antica e moderna di Friedrich (1815). Nella sua pur breve attività (1798-1800) “Athenäum” pubblicò anche una serie di testi letterari degli autori più rappresentativi, ad esempio Friedrich Leopold von Hardenberg detto Novalis (morto giovanissimo di tisi), autore di straordinari Inni alla Notte (1800) in cui si rendeva evidente questa funzione quasi magica della poesia di tracciare una rete di analogie simboliche tra realtà esterna e realtà interiore, al punto da far diventare il poeta una specie di sacerdote. E sempre Novalis era l’autore del primo grande e incompiuto romanzo romantico, l’Enrico di Ofterdingen, una vera summa della nuova sensibilità, infinita peregrinazione del protagonista alla ricerca di un misterioso fiore azzurro, simbolo della poesia e visto in sogno. Vi domina il tema del viaggio e della tensione infinita del desiderio, definita ora Sehnsucht (‘male del desiderio, nostalgia’), lo stato d’animo struggente e malinconico tipico di tutto il romanticismo europeo. L’ambientazione medievale-fantastica del romanzo si inseriva in quella diffusa rivalutazione positiva del Medioevo che fu caratteristica del romanticismo: un Medioevo visto come culla originaria della civiltà europea, un’età ancora dominata dall’immaginazione, dal sentimento, dalle forti passioni, dalla religiosità e dall’eroismo, non corrotta dal cinismo e dalla ragione.



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La lirica, con la possibilità di esprimere al meglio questa sensibilità, è il genere principale del primo romanticismo tedesco, soprattutto in un poeta come Friedrich Hölderlin, cantore della poesia cosmica e dell’amore assoluto per l’amata Diotima. Ma si torna anche a guardare con interesse alla tradizione della poesia e dell’immaginario del popolo, che per i romantici è dotato di spirito creatore collettivo: ed è dall’immaginario popolare che i fratelli Grimm (come aveva già fatto Basile nella Napoli del Seicento) traggono le loro favole, e che rinasce il genere delle ballate (come Il cacciatore feroce e l’Eleonora di Gottfried August Bürger), un genere di grande musicalità espressiva e metrica, e quindi particolarmente adatto anche allo sviluppo della musica romantica, in quella speciale fusione di parola e melodia che si realizzò nei Lieder (‘canti’) di Schubert e Schumann. Accanto alla poesia, infatti, è forse proprio la musica l’arte romantica per eccellenza, ancor più delle arti figurative, per la sua capacità di rendere le profondità inesprimibili dell’anima umana, delle sue armonie e delle sue tempeste, per mezzo di un puro linguaggio di suoni, profondamente rinnovato rispetto alla tradizione musicale precedente, ‘barocca’ e ‘classica’, con autori come Beethoven, Mendelssohn, Schubert, Schumann, fino a Chopin, Liszt, Brahms. Anche in Inghilterra la sensibilità romantica era stata preparata da diversi autori che avevano abbandonato il razionalismo e la leggerezza divertita e satirica del Settecento illuminista, soprattutto nella narrativa, dove si era diffusa la moda del cosiddetto romanzo gotico, da Il castello di Otranto di Horace Walpole (1764) all’Italiano di Ann Radcliffe (1797): un mondo tenebroso, misterioso, popolato di presenze demoniache e soprannaturali. Nella poesia, invece, era stato un grande e isolato poeta e pittore visionario, William Blake, nei suoi poemi di ispirazione dantesca, Songs of Innocence (‘canti dell’innocenza’)(1789), e Songs of Experience (‘canti dell’esperienza’)(1794), a guidare l’evoluzione della poesia verso forme quasi ‘profetiche’, in cui la parola sembrava riacquistare un potere incorrotto, primordiale, fondendosi continuamente con le immagini della fantasia. I tempi, insomma, sono maturi perché anche in Inghilterra si chiami ‘romantica’ questa nuova letteratura, con un manifesto poetico premesso dai poeti inglesi Samuel Taylor Coleridge e William Wordsworth alle loro Lyrical Ballads (‘ballate liriche’)(1800), affermazione della poesia come forma di manifestazione della Verità, per mezzo della fusione del quotidiano con lo straordinario, del corto circuito del reale con il fantastico, che ci permette di cogliere l’essenza profonda e indicibile delle cose. Quel che poi viene realizzato nei loro testi, e in particolare nella più celebre ballata di Coleridge, La ballata del vecchio marinaio, descrizione visionaria di un viaggio terrificante ai confini del mondo, reso

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maledetto dall’assurda uccisione di un albatros che guidava la nave, che da allora sembra condannata a vagare senza speranza, fino alla morte di tutti i marinai, ad eccezione dell’unico sopravvissuto, destinato a raccontare l’orrore. La generazione successiva dei poeti romantici inglesi sembrò incarnare veramente l’equivalenza letteratura-vita, in grandi figure accomunate dalla spinta alla ribellione e dal desiderio infinito del viaggiare (attratti dalla solarità del Sud dell’Italia e del Mediterraneo), del conoscere, del vivere, e dalla morte precoce, in circostanze drammatiche: George Byron, il celebrato autore del Childe Harold’s Pilgrimage (‘pellegrinaggio del cavaliere Harold’)(1812), archetipo del Grand Tour romantico, viaggiatore solitario e malinconico che instaura il mito del dandy, e che se ne va a morire per la libertà della Grecia (1824); Percy Bysshe Shelley, l’immortale poeta dell’Ode to the West Wind (‘ode al vento dell’Ovest’), mirabile rappresentazione simbolica della forza infinita e incessante della vita, morto sulle rive del mare di Lerici (1822); e John Keats, morto giovanissimo a Roma, accanto alla scalinata di Trinità dei Monti (1821), autore del poema Endimione, pervaso dal presentimento malinconico e pessimista della morte, e dell’Ode su un’urna greca, che, attraverso la raffinata descrizione delle scene rappresentatevi, sembra far rivivere l’illusione della vita morta per sempre, fino alla rivelazione finale: “Beauty is Truth, Truth Beauty” (‘la Bellezza è la Verità, la Verità è la Bellezza’). Abbastanza isolato, all’inizio, nella cultura francese ancora dominata dal classicismo napoleonico, sarà invece l’antesignano del romanticismo francese, François-René de Chateubriand, aristocratico promotore di un ritorno alla spiritualità cristiana nel Génie du Christianisme (‘genio del Cristianesimo’)(1802), e autore del romanzo René, ritratto dell’eroe romantico solitario e malinconico che cerca la purificazione dai suoi tormenti nella selvaggia natura americana. La presenza di un pubblico ormai avvezzo agli scenari del romanzo gotico, caratterizzato da ricostruzioni d’ambiente storico spesso del tutto fantasiose, e la diffusione di un orizzonte culturale nel quale la riflessione storica è ormai un dato importante favoriscono la nascita di un vero e proprio romanzo storico, con lo straordinario successo editoriale dei romanzi di Walter Scott, di solito ambientati nella Scozia del Settecento, a partire dal primo romanzo Waverley (1814), ma anche nel romantico Medioevo di maniera del celebre Ivanhoe (1819), avventurosa vicenda del tempo di Riccardo Cuor di Leone e di Robin Hood. Dal filone ‘gotico’ nasce invece il racconto fantastico, inaugurato dalla moglie di Shelley, Mary Godwin Shelley, autrice di Frankenstein or the modern Prometheus (‘Frankenstein o il moderno Prometeo)(1818), in un certo senso il primo libro moderno di ‘fantascienza’, in cui lo scenario tenebroso di un castello gotico si fonde con



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quello, altrettanto inquietante, delle conquiste tecnologiche della scienza contemporanea, dalla scoperta dell’elettricità alla medicina: era in fondo il sospetto con cui l’immaginario popolare vedeva lo scienziato moderno, un misto di stregone e di negromante, capace, come il folle dottor Frankenstein, di dare la vita ad un essere ‘costruito’ in laboratorio con pezzi di diversi cadaveri, e misteriosamente animato con l’energia del fulmine. Paradossale segno della modernità, questo binomio scienza e soprannaturale, favorito anche dalla moda contemporanea del ‘magnetismo’, della ricerca di misteriose forze della natura. Un binomio genetico nello sviluppo successivo del racconto fantastico, soprattutto col tedesco Ernst Theodor Hoffmann, creatore di storie dominate dal sogno, dall’irrazionale, dal demoniaco.

5.4. Foscolo Nato a Zante nel 1778 col nome di Niccolò (solo nel ’97 gli preferirà quello di Ugo), Foscolo era figlio del medico veneziano Andrea e di una donna greca, Diamantina Spathis. Un’origine dunque eccezionale, rispetto agli altri letterati italiani, in territori dell’impero mediterraneo di Venezia ormai in decadenza, in una condizione di lontananza e differenza, rispetto alla madrepatria, che ne segnerà per sempre il carattere esistenziale di mobilità e di inquietudine, così consonante con la sensibilità che di lì a poco si sarebbe definita romantica: e sulla stessa lunghezza d’onda si collocava l’assoluta identità tra letteratura e vita, che il giovane Foscolo leggeva soprattutto nel grande modello alfieriano. Ma di lì derivava anche, nella lingua e nello stile, un sostanziale sperimentalismo, e plurilinguismo, basato sulla conoscenza di greco moderno, italiano letterario, dialetto veneziano, greco antico e latino. Orfano di padre e approdato a Venezia con la madre (1793), viene lanciato nel gran mondo galante e intellettuale dalla relazione amorosa con la più matura e nobile Isabella Teotochi Albrizzi, e in quei salotti compone e diffonde le prime opere, la tragedia alfieriana Tieste (1795), e compie anche la precoce meditazione su se stesso, sulle acerbe e generose speranze, sui grandi progetti di poesia e di gloria, nei frammenti autobiografici del Sesto tomo dell’io. Identificandosi in un eroe alfieriano, pronto a uccidere i tiranni e a immolarsi per la libertà, Foscolo non può non entusiasmarsi per Napoleone, esaltato nell’ode A Bonaparte liberatore, salvo poi restarne disilluso per la pace di Campoformio, che cedeva la repubblica di Venezia all’Austria (1797). È la prima grande crisi esistenziale, proiettata nella finzione autobiografica delle Ultime lettere di Iacopo Ortis. Nonostante tutto, Foscolo continuerà a

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impegnarsi per la Repubblica Cisalpina e per la Francia, abbracciando la vita militare, e combattendo coraggiosamente sui campi di battaglia. Risiede saltuariamente a Milano, ma viaggiando continuamente, tra infiniti amori (da quello per l’inglese Fanny Hamilton, nel Nord della Francia, nascerà una figlia, Mary, detta Floriana). Nominato professore di eloquenza latina e italiana a Pavia (1808), ne viene subito escluso perché critico del regime napoleonico, ma fa in tempo a tenere alcune lezioni, precedute da una memorabile prolusione, in cui, al grido “Italiani, io vi esorto alle storie”, indicava nella ripresa della memoria storica nazionale la via più sicura per la formazione di una nuova e consapevole identità italiana. Contro gli intellettuali asserviti al potere scrive l’Hypercalypseos liber singularis (‘libro unico dell’Ipercalissi’) (1810), opera eccentrica in uno strano latino biblico e profetico. Continua ad essere inviso al regime, e una sua seconda tragedia, l’Aiace (1811), viene censurata, perché ritenuta anch’essa antinapoleonica. Foscolo si sposta allora a Firenze, nella dimora della Villa di Bellosguardo (1812-1813) che costituirà una breve pausa di serenità nella sua vita errabonda e tormentata: e in quella serenità nasce la terza tragedia, Ricciarda, e si svolge gran parte dell’attività compositiva del poema Le Grazie. Al crollo del dominio napoleonico, dopo un’iniziale esitazione Foscolo fugge da Milano (1815), e finisce in un triste esilio in Inghilterra (1816), caratterizzato da precarie condizioni di vita (finisce addirittura in prigione per debiti), ma anche da un’intensa attività intellettuale, che si distende ora, più che sul versante creativo, su quello critico, con la composizione di saggi che segnano veramente la nascita della critica letteraria italiana moderna: il Saggio sulla letteratura contemporanea in Italia, gli Essays on Petrarch (‘saggi su Petrarca’)(1823) e gli studi su Dante e Boccaccio; un esercizio critico in cui la conoscenza erudita e storica si salda alla stessa sensibilità del poeta che dialoga con gli altri poeti. Infine, amorevolmente assistito dalla figlia Floriana, Foscolo muore in un sobborgo di Londra (Turnham Green, 1827) e viene sepolto in un cimitero di periferia. Solo molti anni dopo (1871) l’Italia unita avrebbe reso omaggio al grande poeta esule, traslando i suoi resti nel sepolcro della chiesa di Santa Croce a Firenze, accanto alle tombe degli altri grandi italiani. La prima grande opera foscoliana, quella a cui arrise un immediato successo di pubblico e ne consacrò la fama per generazioni di lettori, fino a oggi, è sicuramente le Ultime lettere di Iacopo Ortis (1798, pubblicata a cura dell’autore a Milano nel 1802). Si tratta di un romanzo epistolare, la forma di moda nella letteratura contemporanea, da Rousseau a Goethe: e proprio Goethe fornisce a Foscolo il modello più importante, il Werther, da



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cui però l’Ortis si distacca, tentando di raggiungere una dimensione eroica più alfieriana e meno ‘borghese’, più ispirata ai grandi modelli antichi (di nuovo Plutarco), anche nell’atto finale del suicidio (Werther usa una pistola, Ortis un più ‘classico’ pugnale). Sono lettere di un unico mittente, il giovane patriota Iacopo Ortis, ad un unico destinatario, l’amico Lorenzo Alderani, che nella parte finale (quella della morte di Iacopo) assume il compito di narratore. La storia segue un filo molto semplice, simile a quella di Werther. Ortis si ritira sui Colli Euganei, sdegnato per la pace di Campoformio, ma lì si innamora della bella Teresa, promessa sposa al ricco e ottuso Odoardo. La duplice situazione di angoscia (la crisi collettiva della patria, e la crisi individuale dell’amore), e la consapevolezza che tutte le aspirazioni dell’anima umana non sono altro che illusioni, lo costringono ad un inquieto viaggio-fuga per l’Italia (importanti l’incontro con il vecchio Parini a Milano, ultimo esempio di virtù civile e poesia incorrotta, e la visita delle tombe di Santa Croce a Firenze), fino alle Alpi, e a Ventimiglia. Lì, ai confini dell’Italia, Ortis raggiunge una concezione pessimistica della vita conseguente al crollo definitivo di tutte le illusioni (patria, amore, gloria, poesia), e decide di tornare indietro, presso Teresa ormai sposata, e lì di suicidarsi. Evidente è, in tutta l’opera, il forte autobiografismo, che porta la figura di Ortis a coincidere spesso perfettamente con quella del giovane Foscolo. La finzione epistolare e l’assoluta contemporaneità (la vicenda si svolge nel biennio 1797-1799) danno al lettore l’avvicente impressione della storia ‘in presa diretta’, un senso di realismo che i romanzi italiani precedenti non avevano. Ma qual era il contesto nel quale era nata l’opera? Già nel 1796 Foscolo annotava, in un piano di studi, il titolo Laura, lettere, forse corrispondente alla vicenda di un primo amore che compare nella prima parte dell’opera, per una sfortunata fanciulla di nome Laura. Sicuramente il suo laboratorio formale era quello delle lettere reali, quelle che Foscolo scriveva giorno dopo giorno, un epistolario ricchissimo che, lungo tutta la sua vita, è lo specchio nel quale si riflette il suo spirito multiforme. Molte pagine dell’Ortis corrispondono a vere lettere di Foscolo, semplicemente rielaborate o riscritte all’interno del romanzo. La rapidità di scrittura lasciò alcuni elementi irrisolti nella struttura e nello stile (vicino all’immediatezza dello stile epistolare, e talvolta addirittura all’oralità), segni di imperfezione che dovettero spiacere a chi (come Manzoni) lavorerà per tempi lunghissimi al proprio romanzo. Ma proprio quella rapidità darà all’Ortis il carattere di freschezza sperimentale che più piacerà ai lettori. Un’opera, in fondo, che è molte opere, in una continua tensione strutturale che corrisponde alla stessa tensione dell’esistenza dell’autore, attraverso generi letterari diversi: il romanzo, l’autobiografia, l’epistolario, la tragedia alfieriana, il diario di viag-

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gio, l’invettiva politico-patriottica, il saggio filosofico, la stessa poesia lirica (vicina alla temperie romantica), evidente in alcuni squarci di consonanza tra paesaggio e stato d’animo. Dalla prosa alla poesia. Nel 1803 Foscolo pubblicò un’edizione delle sue poesie migliori degli ultimi anni. Innanzitutto, le due odi di ispirazione pariniana e neoclassica, A Luigia Pallavicini caduta da cavallo (1799), e soprattutto All’amica risanata (1802), dedicata ad Antonietta Fagnani Arese ristabilitasi dopo un periodo di malattia, delicata rappresentazione di una sensualità vitale che sembra andare anche oltre l’ideale della bellezza neoclassica, nella visione del corpo femminile che suona l’arpa o danza dolcemente: ed è la poesia che ha la funzione di eternare gli aspetti sublimi di una realtà che altrimenti è continuamente insidiata dalla contingenza, dalla malattia, dalla morte. Accanto alle odi, dodici sonetti, che testimoniano la particolare predilezione di Foscolo per questa antica forma metrica, riconosciuta ai massimi livelli in poeti come Petrarca, Della Casa, Alfieri. Foscolo, con sapiente lavoro formale sulle strutture metriche, sintattiche e retoriche, supera quei modelli, giungendo a comporre alcuni piccoli capolavori. Fra gli otto sonetti più antichi emerge l’attitudine all’autoritratto di stampo alfieriano (Non son chi fui ; perì di noi gran parte; Solcata ho fronte, occhi incavati incerti ). I quattro sonetti più recenti (1802-1803) raggiungono invece i vertici della poesia foscoliana, nell’instabile equilibrio tra l’intuizione della verità, il ritorno del mito, e le più drammatiche istanze esistenziali dell’autore. Alla Musa, “Pur tu copia versavi alma di canto”, afferma la poesia al di sopra delle vicende individuali e della storia. In Alla sera, “Forse perché della fatal quïete”, la sera è ‘immagine’ della morte, momento di sospensione della lotta e della sofferenza, di breve serenità che porta la meditazione ad innalzarsi fino alla contemplazione del nulla eterno: una condizione di energie contrapposte comunque irrisolta e non pacificata, nella quale torna, nel verso finale, “quello spirto guerriero ch’entro mi rugge”. Condannato dunque all’erranza infinita, Foscolo, nel sonetto In morte del fratello Giovanni (suicidatosi nel 1801), “Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo”, vede solo nella morte la conclusione delle sofferenze umane. Per sé, però, prefigura una morte priva del conforto di una sepoltura ‘lacrimata’ in A Zacinto, “Né più mai toccherò le sacre sponde”, mirabile testo che, con un meccanismo di compensazione, gli fa rivivere la luminosa memoria della propria isola natale, Zante, rivista attraverso le immagini del mito antico. È il mito della nascita in una primordiale isola-madre, le cui acque feconde hanno abbracciato il “corpo fanciulletto” del poeta; ed è la progressiva triplice identificazione con la dea Venere (anch’essa nata da



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quelle acque), con il poeta Omero (anch’egli cantore ramingo), con l’eroe Ulisse (anch’egli condannato a peregrinare all’infinito “di gente in gente”). Su tutto, l’isotopia dell’acqua, simbolo della vita, continuamente ripetuto e riecheggiato nel testo. Il tema della sepoltura, ampliato dalla propria vicenda individuale a quella universale a seguito dell’editto napoleonico di Saint-Cloud (1804) che ordinava l’istituzione dei cimiteri fuori le mura delle città, torna nel poemetto Dei sepolcri (1807), dedicato a Ippolito Pindemonte, e preceduto da un’epigrafe di sapore arcaico, tratta dalle antiche leggi delle Dodici Tavole: “Deorum Manium Iura Sancta Sunto”. In 295 endecasillabi sciolti, in un serrato ragionamento poetico sui sepolcri e le onoranze date ai defunti nelle varie fasi della storia della civiltà, Foscolo individua il senso di una continuità nella storia umana che va oltre la vicenda biologica del singolo individuo. Alle prime angosciose domande (“All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne / confortate di pianto è forse il sonno / della morte men duro?”) la filosofia materialista e sensista del Settecento dava una risposta netta e impietosa (la morte è la fine della vita, della sensibilità, della vita, e a nulla serve la sepoltura al defunto). Ma Foscolo invita a guardare oltre, alla comunicazione che s’instaura, oltre la morte, tra passato e presente e futuro, per mezzo della memoria storica e poetica, individuale e collettiva: la sepoltura comunica un valore civile e morale, e non è giusto che una comunità si privi di tali valori (come sarebbe accaduto, ricorda Foscolo, nel caso del Parini, confuso dopo la morte in una fossa comune). Con un’evidente ripresa vichiana, lo sviluppo delle onoranze funebri rientra in un più generale quadro di evoluzione della civiltà umana, segnato dalla progressione “nozze e tribunali ed are” (v. 91). Certo, andrebbe recuperata una concezione della morte più serena e naturale, com’era presso gli antichi Greci e Romani, o in età contemporanea in Inghilterra, e rigettare quella di matrice religiosa e cattolica, che sembra a Foscolo basata sulla paura e l’angoscia. L’esempio dei grandi del passato può continuare così ad agire sui contemporanei, come viene affermato, al centro del poema, dal verso lapidario che sintetizza l’intero discorso foscoliano: “A egregie cose il forte animo accendono / l’urne de’ forti, o Pindemonte” (vv. 151-52). E il tema viene ora declinato in un contesto di rinnovamento nazionale e identitario, simboleggiato nelle tombe dei grandi italiani a Santa Croce (Machiavelli, Michelangelo, Galileo, Alfieri), e nel ricordo anche di Dante “ghibellin fuggiasco” e di Petrarca. Nel finale Foscolo si lascia trasportare dalla visione degli antichi eroi greci di Maratona, e del mitico Aiace, sulla cui tomba il mare pietoso depone le armi di Achille. Ancora una volta, spetterà alla forza eternatrice della poesia, simboleggiata dal vecchio e cieco

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Omero, consentire la sopravvivenza della Storia, “finché il Sole / risplenderà su le sciagure umane”(vv. 294-96). A dispetto del titolo, c’è ben poco di ‘sepolcrale’ in questo poemetto, privo di ogni sentimentalismo elegiaco e malinconico, e invece più vicino alle forme della poesia filosofica, didascalica e ragionativa, ma anche, talvolta, dell’inno antico. Nella metrica e nello stile è evidente la lezione del Parini, con una prevalenza dell’apparato argomentativo su quello descrittivo o narrativo, come rivela la stessa sintassi: grandi interrogazioni, complesse architetture del periodo, improvvisi cambi di marcia e di tono. Nell’unità strutturale, una pluralità di stili: dal notturno-tenebroso (l’immagine delle ossa di Parini insozzate dal contatto con quelle di un malfattore, con una chiara allusione al Dialogo della nobiltà) al classicismo luminoso delle rievocazioni mitologiche, dalla canzone morale e politica (Petrarca) alla poesia didascalico-ragionativa. Col passare degli anni, mentre si diffondeva in Europa il romanticismo, Foscolo sembrava prendere sdegnoso le distanze dalle moderne mode intellettuali, rifugiandosi in un suo personale classicismo, nutrito dal confronto diretto con i classici, anche in intensi esercizi di traduzione (dalla catulliana Chioma di Berenice, a sua volta derivata da Callimaco; e dall’Iliade, a gara col rivale Monti). Il risultato più alto fu raggiunto con il poema Le Grazie, elaborato soprattuto durante il felice soggiorno fiorentino (1812-1813), ma lasciato incompiuto e frammentario, un progetto di grande inno in endecasillabi sciolti diviso in tre parti, ciascuna delle quali intitolata ad una grande divinità della mitologia classica, Venere, Vesta, Pallade, e con dedica all’artista principe del neoclassicismo, il Canova, autore di un celebre gruppo scultoreo delle Grazie. Dell’opera in movimento restano solo frammenti, che comunque si pongono ai livelli più alti della poesia europea contemporanea. Nel primo inno, Venere nasce tra le onde del mare della Grecia (le stesse che bagnavano le sponde di Zante, l’isola natale del poeta), e per mezzo della bellezza eleva gli uomini dallo stato ferino alla civiltà. Il secondo inno, intitolato a Vesta, segna il passaggio della civiltà a Roma e all’Italia, con la descrizione di un moderno rito pagano in onore delle Grazie organizzato dallo stesso Foscolo a Bellosguardo, e l’esaltazione del sogno di armonia del Rinascimento. Il terzo inno, intitolato a Pallade, avrebbe dovuto riportare invece alla difficoltà e alla crisi presente della civiltà, cui sovviene la dea dell’intelligenza e dell’industria; e ne resta un celebre frammento, quello del ‘velo delle Grazie’, che le proteggerà dagli sguardi indegni, e sul quale, con un procedimento di ekphrasis, sono rappresentati i grandi valori umani (l’umanità, la compassione, la nobiltà, il pudore).



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A poco più di trent’anni Foscolo sentiva di aver vissuto e provato tutto, disincantato e disilluso dalla vita, cui guardava ormai con l’ironia e il distacco di un autore come Sterne, di cui aveva tradotto il Sentimental Journey, pubblicato col titolo di Viaggio sentimentale di Yorick lungo la Francia e l’Italia, e con lo pseudonimo di Didimo Chierico (1813). In appendice, una curiosa Notizia intorno a Didimo Chierico, autoritratto ironico e paradossale, testimonianza della caduta delle illusioni e delle passioni di cui resta però “calore di fiamma lontana”. La critica e lo scetticismo coinvolgono l’impegno politico e poetico degli anni passati. Eppure restano memorabili i suoi giudizi letterari, straordinariamente sintetici: Dante è “un gran lago circondato di burroni e di selve sotto un cielo oscurissimo”, mentre la poesia dell’Ariosto è assimilata al movimento ciclico delle onde che si frangono su una spiaggia nordica: “Un giorno mostrandomi dal molo di Dunkerque le lunghe onde con le quali l’Oceano rompea sulla spiaggia, gridò: Così vien poetando l’Ariosto”. Didimo Chierico è l’ultimo travestimento dell’Io foscoliano, dopo l’Ortis, e le diverse finzioni erudite di raffinate imitazioni della poesia classica. Ma è anche un modello importante e modernissimo di prosa ‘franta’ e asciutta, collegabile a grandi esempi antichi, da Epitteto alla tradizione plutarchiana di fatti e detti memorabili.

5.5. Il Risorgimento La cosiddetta età della Restaurazione fu in realtà in Europa l’età dell’assestamento e del consolidamento del potere delle classi borghesi, imprenditoriali e finanziarie, nella formazione di potenti stati nazionali che favorissero lo sviluppo dell’economia industriale, la diffusione del libero mercato, l’estensione dell’imperialismo coloniale al mondo intero. L’ideologia romantica saldava questo sviluppo ad una particolare idea di nazione, che ebbe la massima importanza in quelle aree del continente in cui ancora non c’era un’identità fra nazione, stato, popolo: la Grecia e gran parte dei Balcani dominati dall’Impero Ottomano, i popoli dell’Europa centrale soggetti all’Impero Asburgico, la Germania e l’Italia divise in stati e staterelli, e anch’esse in parte legate all’influenza austriaca. In Italia, dunque, il periodo che va dal Congresso di Vienna (1815) all’Unità (1861) fu dominato dalla tensione verso l’unificazione della penisola, da un patriottismo che si univa alle aspirazioni ideali del romanticismo, in un unico grande movimento storico chiamato il Risorgimento. Il Risorgimento passò prima attraverso alcune rivolte che, ispirate dalle società segrete di matrice massonica ereditate dal periodo napoleonico e

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definite Carboneria, miravano alla concessione di libertà costituzionali (a Napoli nel 1820-1821) e poi alla libertà dal dominio austriaco (1831), e che furono sempre duramente represse. In questi anni, l’apostolo della libertà italiana sembrava l’esule genovese Giuseppe Mazzini (Genova 1805-Pisa 1872), animatore e istigatore di continui tentativi di insurrezione finalizzati ad uno stato di tipo repubblicano, promotore di reti associative di intellettuali e patrioti dalla Giovine Italia alla Giovine Europa, convinto assertore della necessità di un’integrazione europea che superasse un’interpretazione ristretta e imperialistica dell’idea di nazione. All’ideologo Mazzini si affiancava la popolare figura di Giuseppe Garibaldi (Nizza 1807-Caprera 1882), un marinaio coinvolto quasi per caso nei moti mazziniani, costretto all’esilio in Sudamerica, e laggiù diventato rivoluzionario, guerrigliero, condottiero invincibile, tanto da creare attorno a sé il mito dell’eroe dei due mondi. Se unitario sembrava lo scopo supremo, la libertà e l’indipendenza della patria, infinite erano però, e talvolta inconciliabili, le possibilità, le soluzioni proposte: dall’idea di una confederazione repubblicana di tipo svizzero, promossa dall’economista milanese Carlo Cattaneo (Parabiago 1801-Castagnola 1869), a quella di una confederazione di stati presieduta dal papa, sostenuta dal sacerdote piemontese Vincenzo Gioberti (Torino 1801-1852), autore del manifesto Del primato morale e civile degli Italiani, e capofila del cattolicesimo liberale e patriottico, il cosiddetto neoguelfismo. Nel 1848 il movimento di riforma costituzionale, sorprendentemente avviato dal nuovo pontefice Pio IX, divenne addirittura, dopo la rivolta antiaustriaca di Milano nelle cosiddette Cinque Giornate, una guerra degli stati italiani contro l’Austria: la prima guerra di indipendenza, nella quale però rimase da solo il Regno di Sardegna, sconfitto nel 1849, mentre negli altri stati, dopo gli eroici episodi di resistenza di Roma e Venezia, infieriva la reazione. La lungimirante guida del nuovo ministro piemontese, Camillo Benso conte di Cavour, seppe nel decennio successivo creare una convergenza di interessi internazionali intorno alla questione italiana, per cui la seconda guerra di indipendenza (1859), con l’appoggio della Francia di Napoleone III, fu un successo, e portò alla conquista o all’annessione di lì a poco di tutto il Nord Italia (tranne il Veneto, Trento e Trieste), e della Toscana. Era un’Italia a metà. Mancavano il Regno delle due Sicilie e lo Stato Pontificio. Fu allora Garibaldi, con l’appoggio segreto del Piemonte, a prendere da solo l’iniziativa, e a conquistare l’intero regno meridionale con l’impresa dei Mille, condotta all’inizio con poco più di mille volontari sbarcati a Marsala, un’armata eterogenea di poeti romantici, ufficiali e soldati irregolari, avventurieri e patrioti, idealisti e affaristi, che a poco a poco in Sicilia divennero un esercito popolare (favorito dall’aristocrazia siciliana ostile ai



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Borboni di Napoli) che travolse l’esercito regolare borbonico (1860). A Garibaldi trionfatore e dittatore a Napoli accorsero Mazzini e Cattaneo. Tutto era stato troppo veloce, e tutto sembrava ancora possibile: la repubblica, la libera confederazione di stati in cui lo sviluppo di parti così diverse del paese fosse possibile senza lo sfruttamento delle risorse di una parte a favore di un’altra. Ma così non fu. Il re di Sardegna, Vittorio Emanuele, invadendo Marche e Abruzzi scese precipitosamente nel Sud, per farsi salutare re d’Italia da Garibaldi (nel leggendario incontro di Teano), mentre Cavour affrettava il processo dei plebisciti popolari che decretavano l’annessione. Il 17 marzo 1861, a Torino, nasceva il Regno d’Italia. Il secolo era iniziato con le pagine dell’Ortis, e quelle altrettanto intense del Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 (1800) di Vincenzo Cuoco (Civitacampomarano 1770-Napoli 1823), coinvolto nella rivoluzione napoletana del 1799 e scampato al massacro dei patrioti giacobini dopo il ritorno dei Borboni. Con uno stile talvolta lapidario Cuoco traccia una lucida analisi del fallimento rivoluzionario. Negli anni successivi si interroga sulla questione dell’identità italiana, e del primato della sua civiltà, nel Platone in Italia (1806), curioso romanzo epistolare che segue un viaggio immaginario del filosofo greco in un’Italia antica che rispecchia l’Italia contemporanea. In effetti, il tema del confronto fra italiani e stranieri era vivissimo in un tempo in cui per la prima volta il sistema degli stati regionali, con i suoi confini che sembravano immutabili, era stato superato, e si tornava a parlare di una possibile unificazione della penisola. Ma la cultura italiana sembrava, ai contemporanei e soprattutto agli stranieri, inglesi e francesi, già profondamente immersi nella temperie del romanticismo, ‘attardata’, legata ancora ai modi del classicismo e dell’ultima Arcadia. Fu così che all’indomani della Restaurazione, nel 1816, un’intelligente intellettuale ginevrina, grande animatrice di cultura nei salotti europei, Germaine Necker madame de Staël (1766-1817) decise di intervenire sulla questione del ‘ritardo’ italiano, pubblicando un articolo sulla rivista milanese “Biblioteca italiana” intitolato Sulla maniera e utilità delle traduzioni, in pratica un’esortazione agli italiani a ‘svecchiare’ la propria poesia cominciando a tradurre la poesia romantica contemporanea, inglese e tedesca. La de Staël non era nuova a questo tipo di interventi ‘interculturali’. Il suo interesse per l’Italia era fortissimo, a seguito del solito Grand Tour nel nostro paese, e della composizione del romanzo Corinne ou de l’Italie (‘Corinne, o dell’Italia’)(1807), la cui eroina Corinne allude ad una celebre figura femminile dell’Italia del Settecento, la spregiudicata poetessa improvvisatrice Corilla. Ma non era inferiore la passione per la cultura tedesca, espressa nelle tradu-

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zioni da Schlegel e nel De l’Allemagne (‘della Germania’)(1813), affermazione del primato contemporaneo della nazione tedesca e del romanticismo. In genere, gli interventi della de Staël ebbero vasta eco in Europa: ne fu influenzato soprattutto il suo compatriota ginevrino Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi, che nella grande Histoire des républiques italiennes du Moyen Age (‘storia delle repubbliche italiane del Medioevo’)(1807-1818) cercò di approfondire le cause della ‘decadenza’ italiana, individuandole nella presenza della Chiesa Cattolica e nella perdita della libertà politica alla fine del Rinascimento. La rivista che accolse l’articolo della de Staël, la “Biblioteca italiana”, era nata nello stesso anno 1816, favorita dal governo austriaco, per raccogliere gli intellettuali che erano stati talvolta critici contro il precedente regime, soprattutto in nome di un recupero dell’italianità contro l’eccessiva ingerenza francese. Diretta da Giuseppe Acerbi, ebbe all’inizio la collaborazione di illustri letterati come Monti e il classicista Pietro Giordani (Piacenza 1774Parma 1848), e proprio il Giordani guidò la riscossa dei classicisti fedeli alla tradizione italiana (significativa ad esempio la difesa della mitologia classica, ripresa ancora dal Monti nel più tardo sermone Della mitologia, 1825), e sicuri del suo primato contro la nuova moda romantica. Fu proprio il tono eccessivo di quella risposta a spingere alcuni giovani intellettuali a prendere le difese della de Staël, e a riconoscere la giustezza delle sue osservazioni, e a riconoscersi anch’essi in quella definizione di ‘romantici’. La simultanea pubblicazione, in quel decisivo 1816, di diversi interventi contro e a favore della de Staël e della poesia romantica può essere considerato (quasi vent’anni dopo la pubblicazione di “Athenäum” in Germania) l’inizio del dibattito fra classici e romantici in Italia. La poesia romantica come espressione vera e sincera del sentimento viene così subito difesa dall’aristocratico piemontese Ludovico Di Breme (Torino 1780-1820), nel saggio Intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani (1816), e da Pietro Borsieri (Milano 1788-Belgirate 1852) nelle Avventure letterarie di un giorno (1816). Giovanni Berchet (Milano 1783-Torino 1851) raccolse immediatamente l’invito della de Staël, tradusse due celebri ballate di Bürger, il Cacciatore feroce e l’Eleonora, e le accompagnò ad una Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo (1816), in cui presentava (con un tono ironico che ricorda Sterne e un certo Foscolo, ma anche con grande chiarezza divulgativa) i caratteri fondamentali della poesia moderna, che deve essere “popolare”, cioè espressione del vasto ceto medio borghese a metà strada tra la barbarie del selvaggio ‘ottentotto’ e l’eccessiva civilizzazione del ‘parigino’. Berchet ha una precisa coscienza del rapporto tra intellettuale e pubblico, ed è questo che gli fa definire senza appello il classicismo “poesia de’ morti” (“imitazio-



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ne dell’imitazione”), e il romanticismo “poesia de’ vivi” (“imitazione della natura”): fino a farsi egli stesso poeta romantico, con il poema I profughi di Parga (1820), e con una vita errabonda di carbonaro esule per l’Europa. Una letteratura dunque non sganciata dalla realtà politica e sociale, o perduta nella contemplazione dell’infinito o del sublime, ma intensamente impegnata nella lotta patriottica. È questo uno dei caratteri fondamentali del romanticismo italiano: l’impegno morale e politico, che comporta in fondo una sorta di continuità con le istanze più elevate dell’illuminismo lombardo, in particolare con il magistero di Parini. E non è un caso che la guida del movimento romantico in Italia sia assunta proprio da Milano, erede di quella tradizione. Sicuramente è un romanticismo ‘moderato’, rispetto agli eccessi irrazionalistici e sentimentali di quello tedesco, come si rileva nelle Idee elementari sulla poesia romantica (1818) di Ermes Visconti (Milano 1784-Crema 1841). La sua attenzione alla realtà, al ‘vero’, all’insegnamento morale, lo rendono naturalmente portato alla conoscenza storica, orientata da un’ideologia ottimistica di sviluppo della civiltà, che corrisponde alla contemporanea idea di progresso. L’articolo del Visconti era stato pubblicato su un’altra rivista milanese, “Il Conciliatore” (1818-1819), che era diventata rapidamente l’organo di comunicazione culturale rivale della conservatrice “Biblioteca italiana”, e che intendeva ricollegarsi idealmente alla celebre rivista degli illuministi lombardi del Settecento, “Il Caffè”. Il suo indirizzo politico era di tipo liberale, e questo contribuì all’identificazione, nelle generazioni successive, di patriottismo e romanticismo. Con la direzione di Silvio Pellico e l’appoggio di Luigi Porro Lambertenghi e Federico Confalonieri, vi collaborarono i vari ‘romantici’ come Borsieri e Di Breme. Ma fu illusione di breve durata. La censura austriaca sospese le pubblicazioni, e nel 1820 molti dei suoi collaboratori furono arrestati con l’accusa di cospirazione. Silvio Pellico (Saluzzo 1789-Torino 1854) fu addirittura condannato a morte (1822), pena commutata nel carcere duro scontato nella terribile fortezza boema dello Spielberg, fino al 1830. Dopo la liberazione, Pellico raccontò le sue vicende nel memoriale Le mie prigioni (1832), che divennero il libro italiano più diffuso in Europa. Lo stile era volutamente semplice, asciutto, spogliato d’ogni enfasi retorica. Pellico non chiedeva vendetta, ma manifestava l’accettazione cristiana della vittima innocente, senza alcun astio o risentimento contro i carnefici, vittime anche loro di un sistema perverso di oppres