Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico. Compagni e antagonisti [Vol. 3] 978-88-399-0425-6

Compagni e antagonisti costituisce il terzo volume dell’opera monumentale del biblista cattolico nordamericano John Meie

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Italian Pages 717 Year 2003

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Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico. Compagni e antagonisti [Vol. 3]
 978-88-399-0425-6

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John P. Meier

UN EBREO MARGINALE Ripensare il Gesù storico

3. Compagni e antagonisti

QUERINIANA

Imprimatur

+ Mons. Robert A. Brucato, V.J. New York, 17 maggio 2001

Titolo originale

A Margina! ]ew. Rethinking the Historical ]esus. Vol. 3: Companions and Competitors Doubleday, a division of Random House, Inc., New York (NY, USA)

© 2001 by John P. Meier © 2003 by Editrice Queriniana, Bresci a via Ferri, 75 - 25123 Brescia (Itali a) tel. 030 2306925 fax 030 2306932 -

internet: www.queriniana.it e-mail: [email protected]

Tutti i d iritt i sono riservati. È pertanto vietata la riproduzione, l'archiviazione o la trasmissione, in qualsiasi fanna e con qualsiasi mezzo, comprese la fotocopia e la digitalizzazione, senza l'autorizzazione scritta dell'Editrice Queriniana. ISBN 88-399-0425-5

Traduzione dall'inglese-americano di: LUCA DE SANTIS LAURA FERRAR!

Edizione italiana a cura di FLAVIO DALLA VECCHIA Stampato dalla Tipolitografia Queriniana, Brescia

RINGRAZIAMENTI

In questo terzo �olwne di Un ebreo marginale innanzi tutto devo rin­ graziare i pazienti lettori che hanno atteso tanto a lungo questa terza par­ te della serie. Ringrazio poi anche i vari dottori e chirurghi che mi hanno visto attraversare diverse malattie serie e interventi, che hanno costituito un'importante ragione per cui la comparsa di questo volume è stata così a lungo differita. Con i dottori che hanno disposto e compiuto un impor­ tante intervento alla mia schiena ho contratto uno speciale debito di gra­ titudine. n fatto che io possa sedere al mio computer e scrivere queste parole comodamente è tutto merito loro. Come per i primi due volumi, una parola di ringraziamento è ugual­ mente dovuta ai miei colleghi, il cui numero si è felicemente moltiplicato per il mio passaggio dalla Catholic University of America a Washington, DC, all'University of Notre Dame nell'Indiana - il passaggio è stata un'altra ragione del ritardo nel completare questo volume. Tra i miei ami­ ci alla Catholic University, devo speciali ringraziamenti ai professori Chri­ stopher T. Begg, Joseph A. Fitzmyer, John P. Galvin, Francis T. Gignac, David W. Johnson, William P. Loewe e Frank]. Matera. Tra i miei nuovi colleghi a Notre Dame, che sono stati molto accoglienti e disponibili con un profugo del corridoio del Nord-Est, speciali ringraziamenti sono do­ vuti ai professori David E. Aune, Joseph Blenkinsopp, John C. Cavadini, Lawrence S. Cunningham, Josephine M. Ford, Mary Catherine Hilkert, Robert A. Krieg, Blake Leyerle, Hindy Najman, Jerome H. Neyrey, Tho­ mas F. O'Meara, Hugh R. Page, Michael A. Signer, Gregory E. Sterling, Robert E. Sullivan, Eugene C. Ulrich e James C. VanderKam. A loro van­ no aggiunti tutti gli amministratori, bibliotecari e ricercatori che, disinte­ ressatamente e talvolta anonimamente, hanno aiutato il mio lavoro. Tra i miei ex allievi e collaboratori, vorrei ringraziare in particolare Michael Anderson, David G. George, Sejin Park ed Eric C. Stewart. Ho anche tratto molto profitto dalle pubblicazioni e a volte dal consi­ glio personale di numerosi studi nell'ambito della ricerca su Gesù. Tra i

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Ringroziammti

molti che potrebbero essere.cibfti', vòtrHlnenzionare i professori Dale C. Allison, James D.G. Dunn, Bart D. Ehrman, Paula Fredriksen, Daniel J. Harrington, Elizabeth A . .Johnson, E.P. Sanders, Jacques Schlosser e N.T. Wright. Nell'anno 2000, ho avuto il privilegio di scambiare opinioni con i professori Dunn, Harrington, Johnson e Sanders durante un convegno tenuto presso il mare di Galilea in Israele. Come per i primi due volumi, ho approfittato immensamente degli scritti e del consiglio di insigni studiosi ebrei, specialmente i professori Shaye].D. Cohen, Louis H. Feldmann e Jacob Neusner, oltre ai miei due colleghi ebrei alla Facoltà teologica di Notre Dame, i professori Najman e Signer. Inutile dire che i miei ringraziamenti non devono essere inter­ pretati come l'affermazione che questi o altri studiosi citati prima neces­ sariamente concordano con i miei punti di vista. Devo assumere la piena responsabilità della posizione adottata qui, come di tutti gli errori di fatto o d'interpretazione. Come sempre, ho uno speciale debito di gratitudine con il direttore e­ ditoriale dell'Anchor Bible Reference Library, il professor David Noel Freedman, il cui instancabile occhio editoriale mi ha evitato di commet­ tere vari errori imbarazzanti. Tra i redattori di Doubleday, vorrei salutare specialmente Mark Fretz e Andrew Corbin. Per il loro semplice ma im­ portante sostegno personale, devo ringraziare il signor e la signora Ro­ bert McQuie. Un grato riconoscimento è dovuto per il permesso di ristampare gran parte del materiale originalmente pubblicato nelle seguenti riviste: «The Circle of the Twelve: Did lt Exist during Jesus' Public Ministry?», in JBL 1 16 (1997) 635-672; «The Debate on the Resurrection of the Dead: An lncident from the Ministry of the Historical Jesus?», in JSNT 77 (2000) 3 -24; «The Historical Jesus and the Historical Samaritans: What Can Be Said?», in Bib 81 (2000) 202-232; «The Historical Jesus and the Histori­ cal Herodians», in]BL 1 19 (2000) 740-746.

INTRODUZIONE AL TERZO VOLUME

LE RELAZIONI DELL'EBREO GESÙ CON ALTRI EBREI

l. L'argomento centrale del terzo volume: Le relazioni dell'ebreo Gesù con altri individui e gruppi ebraici

I lettori pazienti dei primi due volumi di Un ebreo marginale si sono imbarcati in un viaggio accuratamente tracciato da questioni preliminari e generali sul Gesù storico a conclusioni più particolari e concrete su questo enigmatico ebreo'. Con un passo imperturbabile sono passati da un'iniziale rassegna di metodi e fonti, attraverso gli inizi della vita e del ministero di Gesù, ai principali detti e azioni della sua vicenda pubblica. Dopo che il primo volume di Un ebreo marginale aveva delineato lo sfon­ do, la cronologia e i primi anni di Gesù, il secondo volume metteva a fuo­ co i detti chiave e i fatti di Gesù: la sua proclamazione del regno di Dio, futuro e presente, e la sua realizzazione di fatti sorprendenti che egli e i suoi discepoli consideravano miracoli. Questa concentrazione sul mes­ saggio e sui miracoli di Gesù è stata intensa ma limitata. Con l'unica ecce­ zione del mentore di Gesù, Giovanni Battista, il secondo volume puntava il riflettore in pieno su Gesù stesso, Gesù solo, Gesù riflesso nel suo mes­ saggio più tipico e nelle sue azioni più stupefacenti. Questa limitata messa a fuoco preliminare nel secondo volume era un passo necessario, perché il vero significato del simbolo centrale 'regno di Dio' è dibattuto e perché i supposti miracoli di Gesù sono i più contro­ versi di tutti i suoi fatti. Ma ora è tempo di allargare l'obiettivo intorno a Gesù. Nessun essere umano è adeguatamente compreso se è considerato in isolamento da altri esseri umani. Un essere umano diventa pienamente

' ].P. MEIER, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, vol. 1: Le radici del problema e della persona, Queriniana, Brescia 2001; Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, vol. 2: Mentore, messaggio e miracoli, Queriniana, Brescia 2002.

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Introduzion�

umano solo entrando in una relazione dinamica di amicizia e amore, ini­ micizia e odio, controllo, subordinazione e collaborazione con altri esseri umani'. Se questo è vero per gli esseri umani in generale, è certamente più vero per un leader religioso carismatico il cui status e il cui impatto sono de­ terminati dalle sue relazioni sociali. È specialmente vero per un particola­ re ebreo del sec. I, chiamato Gesù di Nazaret, la cui vita adulta è ampia­ mente defmita nei termini delle sue relazioni con altri individui e gruppi in Palestina'. L'adulto Gesù si presenta innanzi tutto unito a un particola­ re gruppo escatologico, caratterizzato da battesimo e penitenza, un grup­ po guidato da uno strano individuo, chiamato Giovanni il Battista. Attraendo alcuni discepoli da questo gruppo, ben presto Gesù partì in proprio, con un nuovo messaggio del regno di Dio imminente eppure presente, un messaggio rivolto a tutto Israele. Passando di città in città in un ministero itinerante, Gesù attrasse, tra gli ebrei, circoli ristretti e ampi di seguaci. Egli convinse almeno alcuni che aveva guarito le loro malattie ed espulso i loro demoni. Si impegnò in dispute religiose con altri ebrei devoti e pretese d'insegnare ai suoi correligionari come osservare pro­ priamente la legge mosaica. Nella sua cerchia insegnò ai suoi discepoli speciali forme di preghiera, pratiche e credenze che li contraddistingue­ vano come un gruppo identificabile nel giudaismo palestinese del sec. l . Il suo ministero era sorprendente anche perché attraeva un inusuale seguito tra donne di alta e bassa condizione sociale e comprendeva una condivisione di mensa con tipi socialmente e religiosamente 'spregevoli', come esattori delle imposte e 'peccatori'. Tuttavia, non tutti i contatti di Gesù ebbero esito positivo. Alla fine, le sue relazioni più negative si di­ mostrarono letali. L'aristocrazia sacerdotale in Gerusalemme, capeggiata da Caifa, decise che egli era pericoloso e Ponzio Pilato, il prefetto roma­ no, decise che egli era pericoloso abbastanza per crocifiggerlo. ' Quest'idea non è affatto esclusiva della ricerca sul Gesù storico. È un luogo comune, per esem­ pio, in fenomenologia; vedi, p. es., E. STEIN, On the Problem o/Empathy, ICS , Washington, DC 1989 (or. ted., 1917), 88.116 [trad. it.,ll problema dell'empatia, Studium, Roma 1998']. La Stein si basa sull'opera di M. ScHELER, The Nature o/Sympathy, Yale University, New Haven 1954 (5' ed. dell'or. ted., 1948). ' Su questo ha spesso insistito Ben Witherington m nei suoi vari libri. Vedi, p. es., The Christrr logy of ]esus, Fortress, Minneapolis 1990. 24-25; The Jesus Quest, lnterVarsity, Downers Grove, IL 1995, 35-36. Per una defmizione dei termini di 'gruppo' e 'movimento' da una prospettiva sociologi­ ca, vedi A.J. SALDARJN!, Pharisees, Scrtbes and Sadducees in Palestinian Society. A Sociological Approa­ ch, Glazier, Wilmington, DE 1988, 309-314. Data la natura limitata e frammentaria delle nostre fonti, tennini come 'gruppo' e 'movimento�, applicati ai seguaci di Gesù, devono inevitabilmente restare vaghi. Per il problema perenne della definizione di 'setta', vedi la n. 12 in/ra.

Le relazioni dell'ebreo Gesù con altri ebrei

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L'obiettivo di questi concisa descrizione del ministero pubblico di Ge­ sù è sottolineare una semplice verità. Raccontare la storia di Gesù signifi­ ca raccontare la storia delle sue varie relazioni: la sua relazione con indi­ vidui come Pietro o Giuda, con gruppi o seguaci come i discepoli o i do­ dici e con movimenti ebraici come i farisei e i sadducei. È questo tessuto determinante di relazioni che esamineremo nel terzo volume, un tessuto di relazioni che fin troppo spesso è stato trascurato nelle opere recenti sul Gesù storico. Probabilmente gli americani amano la storia di un eroe so­ litario che combatte contro le forze maligne di una società. Forse i mezzi di comunicazione semplicemente non possono occuparsi di tutte le com­ plessità del Gesù storico. O, forse lo spirito religioso popolare americano non apprezza Wl Gesù storico che crea strutture embrionali come la cer­ chia dei dodici. Qualilllque sia la ragione, l'intera gamma delle relazioni di Gesù con gruppi e individui ebrei non ha costituito un interesse cen­ trale per il tipo di ricerca su Gesù propugnato in anni recenti dai mezzi di comunicazione americani. Il terzo volume cerca di correggere lo squili­ brio. Inoltre, l'enfasi del terzo volume sulle relazioni di Gesù è necessaria­ mente connesso con un'altra sottilineatura fondamentale, ugualmente tra­ scurata in alcuni recenti lavori sul Gesù storico: la natura essenzialmente ebraica di queste relazioni. Strano a dirsi, in anni recenti, numerosi autori impegnati nella terza ricerca del Gesù storico si sono distinti per la man­ canza di focalizzazione sulla ebraicità di Gesù e sulle sue relazioni con al­ tri ebrei. Questo è estremamente singolare, considerando le origini della terza ricerca negli anni settanta e ottanta. Quando la terza ricerca fu av­ viata, una delle principali caratteristiche, che la distingueva dalla prima ri­ cerca del protestantesimo tedesco del sec. XIX e dalla seconda ricerca (esi­ stenzialista) degli allievi di Rudolf Bultmann negli anni cinquanta e ses­ santa, era la sua determinazione a considerare con assoluta serietà la e­ braicità di Gesù e a collocarlo in pieno entro il giudaismo palestinese del sec. I d.C. Sia Geza Vermes in Inghilterra, sia E.P. Sanders nell'America settentrionale hanno sottolineato questo con i titoli dei loro libri. Di fatto, la trilogia di Vermes suona - del tutto correttamente - come un manel­ lante coro ebreo: ]esus the ]ew, ]esus and the World o/]udaism e The Refi­ gian o/]esus the Jew'. Da parte sua, E.P. Sanders riepilogava il suo intero

fesus the few, Fonress, Philadelphia 1973 [trad. it., Gesù l'ebreo, Boria, Roma 1983]; fesus and the World ofludaism, Fortress, Philadelphia 1983; The Religiorr oflesus the Jew, Fortress, Minneapo­ •

lis 1993. Ci confona il fatto che i volumi sono apparsi a intervalli di dieci anni.

lO

progtamrtfa' ton la succinta èspressione ]esus and ]udaism, mentre James H. Charlesworth offriva l'amichevole correttivo di]esus within Judaism'. Tale era la promessa della terza ricerca ai suoi inizi. Essa ha continuato a essere onorata da alcuni studiosi come Dale C. Allison, Bart D. Ehr­ man, Paula Fredriksen e Bruce Chilton, su questo versante dell'Atlantico, e Ji.irgen Becker, N. T. Wright e Jacques Schlosser, sull'altro•. Tuttavia, specialmente tra alcuni autori, ora o precedentemente, connessi con il}e­ sus Seminar, l'attenzione alla ebraicità di Gesù raramente costituisce un interesse centrale. Se si guarda alle opere più scientifiche di studiosi co­ me John Dominic Crossan e Burton L. Mack, o alle opere divulgative sensazionalistiche di autori come Robert W. Funk, si trova il Gesù filo­ sofo cinico, o il generico Gesù contadino mediterraneo, o il Gesù rivolu­ zionario sociale, o il Gesù iconoclasta religioso, mettendo in ombra se non cancellando lo specifico ebreo palestinese del sec. I di nome Gesù'. Certo, parole come 'ebreo' e 'giudeo' spesso adornano titoli o sottotitoli di tali lavori e si fanno commenti politicamente corretti sull'importanza

'E.P SANDERS, }esus and }udaism, Fortress, Philadelphia 1985 [trad . it., Cesu c il gtudaùmo, Ma· rietti, Genova 1992]. Molte idee del suo massiccio studio judaism. Pra ctice & Belief 6) BCE · 66 CE,

SCM, London; Triniry, Philadelphia 1992 [trad. it.,

Il Grudaismo. Fede e prasri (63 a.C. · 66 d.C.),

Mor celliana. Brescia 1999] sono state incorponte nella sua presentazione più popolare, The Hi). Anche se akoiuthéO non è il verbo più comune usato nei LXX per tradurre que­ sta costruzione ebraica, è usaw qui in 3 Regni 19.20 (secondo la denominazione dei LXX per questo passo): kài okoluthlso opiso su. Questa costruzione è rara nei LXX, per disegnare la sequela entusia· stica di un essere umano che è positivamente considerato una figura religiosa. In maniera interessan­ te, quando Flavio Giuseppe racconta l'episodio in Ani. 8,13,7 S 354, usa il dativo semplice con il ver­ bo (ekolutheson Elio). In greco questo è più correno dell'uso del verbo con la preposizione op(ro ('dietro'), che invece rillene la costruzione ebraica. La costruzione con il dativo semplice è quella che regolarmente si trova nei vangeli; per rare eccezioni vedi Mc 8,34 (una lezione discussa); Mt 10,38. Non sorprende che nei vangeli i rari casi di akolulhéO come mero spostamento fisico non impli­ chino un movimento verso Gesù. In Mt 14,1J par., due discepoli ricevono da Gesù l'ordine di segui­ re un uomo che porta una brocca d'acqua. In Mt 9,19, abbiamo il caso speciale di Gesù che seguo qualcuno, precisamente, un capo che ha chiesto a Gesù di risuscitare alla vita la sua figlia morta. In Gv 1 1 ,3 1 , gli ebrei seguono Maria, la sorella di Lazzaro, quando lascia la sua casa per andare da Ge­ sù. In Gv 20,6, Pietro segue il discepolo amato alla tomba vuota. ' Per una rassegna schematica dei vari usi di okolu1héo nel NT, con l'elenco dei passi fondamenta�

Le folle

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ragionevole per noi selezionare il sostantivo 'seguace' come termine generico che include tutte le varie relazioni con Gesù che esploreremo in questo capitolo e nei tre seguenti. Quanto meno possiamo affermare che il nostro uso di 'seguaci' riflette i contorni generali dell'uso del NT. Sem­ plicemente come dato di fatto, nel NT, il verbo 'seguire' (akoluthéo) (l) è relativamente raro fuori dei vangeli (solo 1 1 delle 90 ricorrenze)•, (2) nei vangeli si riferisce quasi esclusivamente a Gesù come colui che è seguito e (3) comprende una gamma di atteggiamenti tra coloro che lo seguono. Conseguentemente, anche se 'seguaci' è la nostra definizione generica - e non degli evangelisti - ha una base nei testi del NT. In quale ordine investigheremo i vari tipi di 'sequela' nei vangeli? Si potrebbe pensare di partire innanzi tutto dalla cerchia più ristretta dei se­ guaci impegnati, per poi spostarsi all'esterno verso i meno impegnati. Dopo tutto, l'intento della Parte Prima di questo volume è di allargare il cerchio intorno a Gesù. Nondimeno, in questo capitolo e nei tre capitoli successivi, potrebbe essere più saggio invertire la procedura: cioè, partire dalla cerchia più esterna di seguaci e procedere verso l'interno. In altre parole, cominceremo con le 'folle' indistinte che si trovano talvolta intor­ no a Gesù (cap. 24), poi ci avvicineremo a esaminare i suoi 'discepoli' (cap. 25) nel cerchio intermedio o mediano e, infine, entro il cerchio dei discepoli ci concentreremo sulla cerchia intima dei dodici, prima come gruppo (cap. 26) e poi come singoli (cap. 27). ro

l i , vedi

A. ScHUU , Nach/olgen und Nachahmen, SANT 6,

Kosel, Miinchen 1962, 195-196. Per

di akoluthéo non è limitato alla relazione dei primi discepoli con il Gesù storico, ma invece si può appli­ care a tutti i cristiani, vedi H. ZIMMERMANN, Christus nachfolgen. Eine Studie xu den Nach/olge-Wor­ ten der synoptischen Evangelien, in TG/ 53 ( 1%3) 24 1-255. ' ll verbo akoluthéo ricorre 25 volte in Matteo, 18 volte in Marco, 17 volte in Luca e 19 volte in Giovanni; in quasi tutti i casi Gesù è colui che è seguito (per rare eccezioni, vedi Mc 14,13; Mt 9,19; Cv 1 1 3 1 ). Le ricorrenze di akoluthéO fuori dei vangeli sono At l2,8.9; 13,43; 2 1 ,36; l Cor 10,4; Ap 6,8; 14,4.8.9. 13; 19,14. Nessuno di questi undici casi si riferisce a Gesù durante il suo ministero pub­ blico. Ap 14,4; 19,14 si riferiscono al Cristo esaltato, celeste (l'Agnello, la parola di Dio). La quasi to­ tale assenza di akoluthéonelle lettere del NT è sorprendente; l'unico caso, l Cor 10,4, si riferisce alla roccia che seguiva gli israeliti nel deserto. At 12,8.9 si riferisce a Pietro che segue un angelo fuori dal­ la prigione, mentre 2 1 ,36 si riferisce a una folla ostile che segue Paolo fuori dal tempio di Gerusalem­ me e domanda la sua morte. Solo At 13.43 ha un'eco dell'uso che si trova nei vangeli: tenninato l'in­ un'interpretazione abbastanza differente dei dati, che affenna che, nella tradizione sinottica, l'uso

,

contro nella sinagoga ad Antiochia di Pisidia, «molti ebrei e proseliti seguirono Paolo e Barnaba». Per quanto riguarda i composti di okoluthéo nel NT: nessuna delle tre ricorrenze di exokoluthéo in 2 Pt ( 1 ,16; 2,2; 2,15) si riferisce a Gesù. Lo stesso è vero di parakoluthéO in Mc 16,17; u 1,3; l Tm 4,6; 2 Tm 3,10; e di epakoluthéoin Mc 16,20; l Tm 5,10.24; l Pt 2,2l. Solamente l Pt 2,21 si awicina al­ l'uso evangelico quando esorta i cristiani a seguire (epakoluthisete) le orme di Cristo, che soffrì per loro.

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I.:ebreo Gesù e i suoi seguaci ebrei

La ragione di questa procedura è che, mliOYendoci dalla cerchia ester• na a quella interna dei seguaci, potremo progredire in maniera ordinata da affermazioni più generali ad affermazioni più specifiche. Certe asser­ zioni che si possono fare per qualunque seguace, per quanto superficiale questo seguace possa essere stato, risulterebbero a fortiori vere per quelli impegnati, molti dei quali possono essere partiti proprio come membri della folla. In aggiunta, la nostra procedura ha una fondata piccola possi­ bilità di riflettere l'effettiva evoluzione dei seguaci di Gesù. E ammissibile che Gesù attraesse dapprima varie folle occasionali, dalle quali cominciò a trarre discepoli più stabili, dai quali poi, finalmente, selezionò un grup­ po abbastanza permanente di dodici seguaci. Tuttavia, anche se questo scenario presenta una certa verosimiglianza, dobbiamo ammettere che Marco e Giovanni, pur se in disaccordo tra lo­ ro, vanno entrambi contro questa ricostruzione. Pur differendo nei detta­ gli, sia Mc 1 ,16-20 sia Gv 1 ,35-5 1 indicano che Gesù dapprima attirò a sé almeno pochi discepoli decisivi, cioè Pietro e Andrea, prima di comincia­ re ad attrarre grandi folle'. In ogni modo, il nostro movimento dalle folle ai discepoli ai dodici almeno ha il vantaggio metodologico di passare len­ tamente dal generico allo specifico. In breve, quindi, passando da un gruppo all'altro, immaginiamo i se­ guaci di Gesù in termini di cerchi concentrici: le 'folle' costituiscono il cerchio esterno, i 'discepoli' il cerchio intermedio o mediano e i 'dodici' il cerchio interno. Come vedremo, tuttavia, i confini tra questi diversi gruppi difficilmente erano netti e non tutti si collocavano chiaramente in un gruppo o nell'altro. Per esempio, certi adepti impegnati di Gesù, per quanto sostenessero generosamente il suo movimento con ospitalità o da­ naro, non Io seguivano in giro per la Galilea. Di conseguenza, non sem­ bra siano stati classificati come 'discepoli' dai vangeli, anche se costituiva­ no una specie di 'gruppo di sostegno' per la cerchia mediana. Così, con l 'eccezione dei dodici, i confini fra questi gruppi erano probabilmente abbastanza fluidi. In particolare, il passaggio dalla cerchia intermedia alla cerchia esterna, o dalla cerchia esterna all'indifferenza o addirittura all'o­ stilità sarebbe stato facile e informale, dal momento che la scelta ricadeva

' Dicendo questo, sono ben consapevol� eh� sia Mc 1,16-20 sia Gv 1,3,·51 sono elaborati do Mar­ co e Giovanni in confonnità alle srrunure Jenerarie e ai programmi teologici dei loro rispettivi vange­ li. Ammettendo questo e le grandi differenze nei deuagli delle due narrazioni, è forse ancora più sor­ prendente che i due evangelisti concordino (molteplice attestazione di fonti) sul fallo che Gesù atti­ rasse a sé pochi discepoli preminenti prùna di cominciare ad attrarre grandi folle e sul fatto che que· sci discepoli preminenti fossero Pietro e Andrea.

Lefolk

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interllri!en�i singoli che non si sentivano più attratti Vé'ho Gesù. Pefo esempio, persone che una volta avevano offerto a Gesù ospitalità o dana­ ro potevano smettere di farlo senza alcuna notevole conseguenza, dal mo­ mento che il loro sostegno era interamente volontario. I dodici sarebbero stati l'unico gruppo abbastanza fisso a causa del numero prestabilito dei membri, dello speciale impegno che era richiesto e dell'iniziativa che ri­ cadeva interamente su Gesù. Cominciamo, dunque, in questo capitolo con la cerchia esterna, le folle amorfe.

2. La cerchia esterna: Le folle

La cerchia esterna dei seguaci di Gesù, normalmente designati 'le folle' (6chloz) dai vangeli", sarebbe stata il più ampio e il meno stabile dei grup­ pi che seguivano Gesù. Ma queste folle esistettero? Davvero Gesù attras­ se un gran numero di persone come uditorio durante il suo ministero? Oppure le folle sono semplicemente uno scenario degli evangelisti, di­ sposto sia come coro letterario sia come propaganda religiosa per accen­ tuare la popolarità e il successo di Gesù? Certo, nessun critico neghereb­ be che le folle nei vangeli sono al servizio degli scopi letterari e teologici degli evangelisti. Essendo senza volto e anonime, le folle sono recipienti convenientemente vuoti per essere riempiti con le idee degli evangelisti'.

' La traduzione abituale 'foUa' per il greco 6chlos sembra giustificata in quasi tutti i passi in cui la parola ricorre nei quattro vangeli. Come vedremo, la descrizione delle folle varia da contesto a conte· sto, ma la vaga traduzione 'folla' corrisponde bene alla vaghezza degli evangelisti. Una specifica sfu· matura del termine generico 'folla' in certi passi evangelici è degna di nota: 'il popolo' o 'la gente co­ mune' in quanto distinti dai capi o in opposizione a loro (p. es.,

Mc 1 1 ,18). Del tutto naturalmente, di

questo significato ricorre specialmente in scene ambientate in Gerusalemme. Due altri significati

6chlos sono a stento possibili in pochi passi: 'massa', 'marmaglia' (p. es., nel riferimento sprezzante in Gv 7,49) e 'truppe militari' (p. es., nella scena dell'arresto al Getsemani in Mc 14,43 parr.). ll signifi­ cato 'fastidio' o 'difficoltà' non ricorre nel NT.

' L'uso redazionaJe che ogni evangelista fa delle folle per i suoi scopi letterari e teologici non d in­

teressa qui.

È sufficiente dire che Marco fa una netta distinzione dall'inizio (4,10·12) tra (l) i membri

interni (quelli «intorno a Gesù con i dodici», un gruppo che forse include quei membri della folla che sono stati attirati più vicino a Gesù per porre ulteriori domande), ai quali è dato il mistero del re· gno del cielo e (2) gli esterni (che comprendono per la maggior parte la grande folla di 4,1, della qua­ le molti non sono srari artirati più vicino a Gesù per porre ulteriori domande), per i quali tutto avvie-

I:ebreo Gesù e i s�MJi seguaci ebrei

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Ma le folle riflettono pure, in qualche misura, la realtà storica durante il ministero di Gesù? Sia il criterio della molteplice attestazione di fonti e forme, sia il critene in parabole, per cui non possono vedere o comprendere. In Marco, comunque, mentre il racconto progredisce, emerge un processo inverso per il quale alcuni all'apparenza esterni diventano interni e gli interni privilegiati rischiano di diventare esterni. Anche se Matteo conserva e rafforza la fonda­ mentale distinzione marciana tra folle e discepoli (MI 13,10-17: i discepoli possono vedere e com­ prendere), Matteo presenta le folle che oscillano nella loro opinione su Gesù durante il ministero pubblico, solo per fondersi fatalmente con le autorità di Gerusalemme diventando >). Quest'uso di participi può essere do­ \'Uto alla redazione matteana. Se i participi fossero stati prescritti nella iorma Q del detto, sarebbe difficile capire perché Luca, che privilegia co­ struzioni participiali, avrebbe sostituito proposizioni relative («chiun­ yue>>). Comunque, si potrebbe sostenere che, scegliendo proposizioni re­ lative, Luca abbia semplicemente seguito Mc 8,35. Ma, poi si deve spiega­ re perché Luca, da una parte, renda 17,3 3 così differente nel vocabolario da Mc 8,35 quando, dall'altra parte, avrebbe presumibilmente modificato la sua fonte Q per renderla uguale a Marco nella struttura sintattica62• In sintesi, sembra più verosimile che la costruzione participiale provenga da Matteo. Certamente, la questione non è del tutto chiara, poiché anche la iorma giovannea dell'aforisma (Gv 12,25) utilizza participi sostantivi: ho philon («chi ama») e ho mison («chi odia>>). Un più chiaro segnale di redazione matteana è la sostituzione del ver­ bo 'trovare' (heuriskoin Matteo) in luogo del verbo 'salvare' o 'preserva­ re' (espressi da vari verbi in Marco, Luca e Giovanni). Secondo Ulrich Luz, il verbo 'trovare' appartiene alla lista delle parole preferite da Mat­ teo"'; conseguentemente non sorprende che qui lo abbia usato redazio­ nalmente. Inoltre, Luca usa 'trovare' quasi il doppio rispetto a Matteo 145 volte contro 27 volte, più 35 volte in Atti). Data la propensione di

ndla sua fonte. Conseguentc:mmte, nella mia retroversione

dd detto primitivo Marco/Q in aramai·

co, scelgo fez1b per tradurre l'idea di 'salvare' (preferendo, così, il so«>di Marco). l>l

È significativo che R. LAUFEN, Die Doppeliiberlie/erungen, 321, il quale in genere ritiene la fonna

marceana del detto più originale, ammetta che la costruzione di Luca con proposizioni relative condi­ D.C. ALLISON, }R., The Gospel According to Saint Mal· thew, l CC. 3 voli., Clark, Edinburgh 1988, 199 1 , 1997, 2,224. Diversi commentatori affermano che

zionali è più originale; così, W.D. DAVlES

-

�latteo è stato influenzato dai participi usati come sostantivi nei versetti circostanti (10,37.40.41). Questo è possibile, ma non sicuro, dal momemo che vari versetti circostanti contengano frasi relative 1 10,32.33.38.42). '' U. Luz, Matthew 1-7, Augsburg, Minneapolis 1989, 59.

I:ebreo Gesù e i suoi sep40 ehm

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Luca per il verbo 'trovare', ptrché non avrebbe 1!0!1!1ervato questo v�tbo in 17,33 se fosse stato presente in Q? Questo avrebbe soddisfatto il suo desiderio di variazione stilistica rispetto a Le 9,24 Il Mc 8,35. Un altro argomento a favore del carattere redazionale di 'trovare' in Mt 10,39 è che abbiamo un caso in cui certamente Matteo ha sostituito 'salvare' con 'trovare' - vale a dire nella redazione di Matteo di Mc 8,35 in Mt 16,25 (l'istruzione sul discepolato che segue la prima predizione della passione). Mentre Matteo ripete fedelmente la maggior parte di Mc 8,35 in Mt 16,25 (incluso il verbo 'salvare' nella prima metà dell'afori­ sma), improvvisamente alla fine dell'aforisma sostituisce 'salvare' con 'trovare'. A quanto pare fa la stessa cosa - ma più correttamente - nelle due parti di Mt 10,39. Come si è già indicato, l'influsso di Mt 16,25 (e in definitiva di Mc 8,35) su Mt 10,39 si vede anche nell'aggiunta di Matteo, «per causa mia» (héneken emu), che proviene da Mc 8,35 passando per Mt 16,25. Di conseguenza, ritengo che le peculiarità di Mt 10,39 siano attribuibi­ li alla redazione matteana e, perciò, che Le 17,33 sia probabilmente più vicino alla primitiva versione Q dell'aforisma64• n l6ghion Q, a sua volta, era abbastanza simile se non identico al detto pre-marciano: «Chiunque vuole [o: cerca di] salvare [o: preservare] la sua vita, la perderà [o: di­ struggerà]; chi perde la sua vita la salverà». Una possibile retroversione a­ ramaica di questo primitivo detto, presente in Mc e in Q, sarebbe: Chi cerca di salvare la sua vita

64

Tra i commentatori di Matteo che attribuiscono la costruzione panicipiale, il verbo 'trovare' e

GUNDRY, Matthew, 201. I.:opinione Q. Die Spruchquelle der Evangelisten, 444·445: Mt 10,39 rappresenta quasi perfettamente l'originale forma Q del lòghron, anche se resta non chiara la

l'espressione 'a causa mia' alla redazione matteana si trova RH. esattamente opposta è proposta da S. SCHULZ.

situazione dell'espressione 'a causa mia'. Per la sua tesi, Schulz si affida più ad affermazioni apoditti­ che che a una dettagliata argomentazione. Ancora più incerta è la questione dell'originaria colloca­ zione di questo

lòghron in Q. Anche se vari commentatori sostengono l'ordine di Matteo o di Luca Q Paral/e/s, 170; W. REBELL, 'Sein Leben ver/ieren', 207), P. HOFFMANN

(vedi ].S. KLDPPENBORG,

(Studien, 5, 42) ha probabilmente ragione a sostenere l'impossibilità di determinare il contesto origi­ nario in Q.

" Si potrebbe pensare che un verbo che si riferisce a 'volere' (Mc 8,35 par.) o 'cercare' (Le 17,33) sia un'aggiunta secondaria al detto primitivo, perché (!) sbilancia l'equilibrio tra le due metà dd­

l'aforisma e (2) manca nelle forme che si trovano in Mt 10,39 e Gv 12 ,25 . Questo può essere vero, ma

io propendo per l'opinione che, per quanto un verbo distinto di volere o cercare fosse dall'inizio as­ sente nella forma giovannea del detto, esso fosse presente neUa primitiva forma marciana-Q del det­ to. (l) Per come il deuo marciano o lucano è costruito, un verbo volitivo, come 'volere' o 'cercare', ha un posto essenziale nella prima metà dell'aforisma, mentre sarebbe fuori luogo nella seconda metà. 'Volere' o 'cercare' evocano l'egoistico, vile e, in definitiva, inutile attaccamento alla propria

vi-

l discepoli

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yéhObedinnah wbnan di yih6bed napfeh yifb.ibinnah"'

la perderà; e chi perde la sua vita la salverà.

Si deve ricordare, comunque, che è dubbio il fatto di poter parlare di una forma 'originale' del detto. Gesù potrebbe aver proclamato quest'in· segnamento con differenti parole in differenti momenti. Dobbiamo la­ sciare aperta la possibilità che qualcuna delle forme varianti del detto in greco risalga a forme varianti del detto in aramaico. La questione è com­ plicata ancora da un'ulteriore variante del detto che si trova in Giovanni. (c) Questa terza variante indipendente del detto ricorre in Gv 12,25, quando Gesù pronuncia le sue ultime parole alla folla di Gerusalemme prima della passione: «Chi ama (philfm) la sua vita la perde (apoll'jei), e

ta da parte di un dis�..·�..·polo che teme di perdere se stesso e, paradossalmence, realizza ciò che teme. Di conseguenza, il verbo volitivo gioca

un

ruolo importante nella prima metà dell'aforisma; il fano

che sbilanci un equilibrio perfetto tra le due metà è giustificato dal punto di vista retorico. Per la stessa ragione, un tale verbo sarebbe fuori luogo nella seconda metà. ll detto non mira a esonare di. scepoli masochisri a desiderare o a provocare la sofferenza e il martirio nelle loro vite; ma quelli che acce[[ano questo destino, qualora giungesse come prezzo del discepolato, preserveranno o salveran­ no le loro vite nel regno escatologico.

(2) Anche se non c'è uno specifico verbo volitivo in Gv 12,25,

un ceno elemento di volontà è già contenuto nei verbi 'amare' e 'odiare'. Nell'insieme, dunque, pre·

ferisco l'ipotesi che due differenti forme primitive dell'aforisma circolassero nella tradizione oramai·

ca, con la fanna giovannea strutturalmente meglio bilanciata rispetto alla forma marciana-Q. �ot.

Come ho precedentemente indicato, altri verbi aramaici potrebbero essere soggiacenti ai verbi

greci od detto: p. es., per 'volere' o 'desiderare',

b'h (propriamente, 'cercare', 'ricercare') è una possi­ 1946, 178); per 'salvare' o 'conservare', i?yh (all'hap'eD, n#, o forse anche yi'. Qualcuno potrebbe preferire l'hap'el del verbo aramaico 'vivere' (i?yh) perché aiuterebbe a spiegare spzo in Marco e z6ogoné6 in Luca; talvolta i due verbi traducono forme del verbo ebraico byh nei LXX. Per esempio, in Ez 13,18, dove l'ebraico usa la forma pi'el di byh con il plurale di rre/efnel senso di 'conservare in vita' o 'salva· re vite', i LXX rendono la frase lelii prychàs perieporimto. Significativo per l 'uso di phy/Jsso in Gv 12,25, invece di spzo come in Marco o di peripoiéomai come in Luca, è Ez 18,27, dove il pi'el di byh è reso nei LXX con hUtos tfn prychfrr autu ephy/Jxen («ha salvato [o: salverà] la sua vita»; vedi anche Es 1,16-17, dove peripoiéomai e z6ogoné6sono usati in versetti successivi per tradurre forme di 1?-yh. I LXX usano il verbo spzoper byh in Sa/ 29,4; Pr 15,27. Si osservi che, nei LXX, z6ogoné6, che ricorre undici volte, rende sempre qualche forma di byh. Per espressioni simili che veicolano l'idea di salvare bilità (vedi M. BLACK, Arr Ara,..ic Approach to the Gospels arrd Aas, Oarendon, Oxford

la propria vita nel TM, nei LXX, nel la letteratura ra.bbinica e nella letteratura pagana greca, vedi G. DAUTZENBERG, Sein Leben Bewharen, 53-56. Una debolezza di quest'approccio complessivo, comun· que, è la possibilità che i verbi periporéomai e zoogonéii siano risultati della redazione lucana. Per la congiunzione che unisce la due parti dell'aforisma, ho scelto wè, che riflette il kài ('e'l che si trova in Mt 10,39 e Gv 12,25; il kài rifletterebbe perfettamente lo stile semitico. (Scelgo wè anche prima della lettera mem, perché l'uso di u invece di wé prima della lettera mem è probabilmente un esempio del­ l'influsso dell'ebraico masoretico sull 'aramaico biblico.) Il

dé ('ma')

pospositivo che si trova nelle

tre forme dell'aforisma può riflettere l'adattamento a uno stile più grecizzato.

aJ.

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L'ebreo Gesù e i suoi segut:i ebrei

chi odia (mison) la sua vita [in questo mondo] }&' conserverà (phyltixet) [nella vita eterna]». Nei primi due volumi di Un ebreo marginale, ho seguito la tesi domi­ nante secondo la quale la tradizione del vangelo di Giovanni è indipen­ dente dai sinottici, e ancora una volta questa posizione sembra verificata, se esaminiamo Gv 12,25. Pur mostrando alcune somiglianze con le varie forme sinottiche del detto, Gv 12,25 non copia nessuna di esse e ha molte caratteristiche proprie"'. Le sole parole in comune con i sinottici sono «la sua vita» (tèn psychèn autu), «la» (autén, riferito a «la sua vita>>) e (in qualche modo) «perdere». Comunque, per il verbo 'perdere', viene usato il verbo greco apollyo (nel tempo presente) invece della sua più comune variante ap6llymi; quest'ultima è utilizzata (nel tempo futuro) in tutte le forme sinottiche68• Giovanni condivide queste poche parole con tutte le altre forme; le somiglianze non possono essere utilizzate per sostenere la sua dipendenza da qualche particolare passo sinottico. Effettivamente, se si smette di pensarlo, è difficile immaginare che Gv 12,25 possa essere ri­ conosciuto come un parallelo di Mc 8,35 parr. senza almeno queste poche parole. Invece, le restanti parole ed espressioni-chiave di Gv 12,25 («amare», «odiare», «in questo mondo», «nella vita eterna») non concordano con nessuna delle altre forme del l6ghion; queste parole sono tutte esclusive della forma giovannea••. La struttura grammaticale di Giovanni caratte­ rizzata da participi sostantivati è parallela alla struttura di Mt 1 0,39, e ambedue le forme collegano le loro due metà del detto con «e» piuttosto

" Per uno studio dettagliato di Gv 12,25 a confronto con le forme sinottiche del /Oghion, vedi C.H. Dooo, Some ]ohannine 'Herrenworte' with Parallels in the Synoptic Gospels, in NTS 2 (1955· 1956) 75·86, specialmente 78-81; ID., Historical Traditzon, 338-343 [trad. it., 406-4 13]; R. E. BROWN, The Gospel According lo fohn 1 ,473 -474 [trad. it., Giovanni. Cittadella, Assisi 1979, 615-617]; R ScHNACKENBURG, Das ]ohannesevangelium. II. Teil, 481 -482 [trad. it., Il Vangelo di Giovanni. Parte seconda, Paideia, Brescia 1977, 638-639]. " Nella tradizione testuale di Gv 12,25, la fonna apol/jei (un 'verbo in omega') è testimoniata da un grande numero di antichi e impananti manoscritti: p. es., papiro 66, papiro 75, e i codici Sinaiti­ co, Vaticano, di Washington. Correggono al futuro della forma classica del 'verbo in mi' ap61/ymi (cioè, apoléJei, che si trova in tutte le ahre forme del deuo), p. es., i codici Alessandrino, Bezae e Ko­ ridethi. Su questo, vedi BDR, 67 § 92. In maniera significativa, sebbene alcune forme del verbo ap61lymi ricorrano dieci volte nel quarto vangelo. quasi sempre sulla bocca di Gesù, questa è l'unica volta che appare la forma del verbo in omega. (In realtà, la forma in omega di questo verbo è rara nel NT; per un altro esempio, vedi Rom 14,15). Questo potrebbe essere un altro indizio di una tradizione pre-evangelica diversa dalla mano creativa dell'evangelista. " Anche se il vocabolario è differente, l'idea di Giovanni di 'custodire' (phyla:xez) la propria vita è simile all'idea di Luca di preservare (peripoilsasth•i, zoogonlsez) la propria vita.

l discepoli

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che con- «ma>> (una possibile eco di un sostrato semitico). Comunque, la struttura abbastanza elegante di Mt 10,39 non è riflessa in Giovanni. La seconda metà dell'aforisma giovanneo è appesantita da quelle che sem· brano due aggiunte giovannee, collocate una dietro l'altra, e utilizzano termini teologici tipicamente giovannei: «in questo mondo» e «nella vita eterna»'". Sovraccaricando in tal modo la seconda metà dell'aforisma con termini teologici caratteristici, Gv 12,25 è vagamente somigliante a Mc 8,35. Una più profonda differenza strutturale si coglie nel fatto che, mentre Gv 12,25 mostra un parallelismo antitetico, come fanno i sinottici, Gv 12,25 non usa invece la struttura chiastica presente nei sinottici. Indipen­ dentemente dai vocaboli usati, tutte le forme sinottiche invertono l'ordi­ ne dei loro verbi principali in un modello incrociato. In altre parole, tra­ sformano i verbi subordinati e principali della prima metà dell'aforisma nei verbi principali e subordinati della seconda metà dell'aforisma: salva­ re/perdere Il perdere/salvare (Mc 8,35 parr.l; preservare/perdere Il per­ dere/preservare (Le 17,33 ) ; trovare/perdere ll perdere/trovare (Mt

"' Non solo il sovraccarico della seconda metà dell'aforisma, ma anche la natura spei seguaci-ehm

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10,39). In�. Gv 12,25 ha lo schema;amare/perdere // odiare/conservi­ re. L'antitesi di fondo è conservata, ma i verbi non sono disposti in ma­ niera chiastica. Tenendo conto (l) delle massicce differenze di vocabolario e di strut­ tura tra Giovanni e i sinottici, (2) delle somiglianze minime che non colle­ gano decisamente la versione giovannea ad alcuna versione dei sinottici e (3) del contesto narrativo completamente differente del l6ghion in Gio­ vanni, l'unica conclusione plausibile è che la versione giovannea sia indi­ pendente da qualcuna o da tutte le forme sinottiche del detto". Senza le evidenti aggiunte giovannee, Gv 12,25 propone un semplice aforisma in due parti, simile ma non identico a quello che ho suggerito come fonte delle forme sia marciana che Q: «Chi ama la sua vita la per­ derà [o: distruggerà]", e chi odia la sua vita la conserverà [o: preser­ verà]». Certo, la forte opposizione tra 'amare' e 'odiare' è bene attestata nella letteratura greco-romana; ma corrisponde assai bene al dualismo giovanneo. Questo detto potrebbe anche rispecchiare una tipica locuzio­ ne semitica, che esprime la preferenza e la scelta dei termini categorici, assoluti, di amore e odio (cfr. Le 14,26 Il Mt 10,37)73• Una possibile forma aramaica di questo detto potrebbe presentarsi così:

man di riibem napfeh yéhObedinnah wéman di fiine' napseh y�tterinnah

Chi ama la sua vita la perderà, e chi odia la sua vita la conserverà.

'' A parere di C.H. Dooo (Historical Tradition, 341 [trad. it., 410]), «>. Invece G. DliUTZENBERG, Sein Leben Bewahren, 65, considera Gv 12,25 la forma più sviluppata del detto. Questo può va1ere per il detto come ora si trova nel quarto vange­ lo; la forma pre-evangelica facilmente discernibile sembra, comunque, abbastanza primitiva. Lavo­ rando sotto l'influenza di Dautzenberg, W. REBELL. Sein Leben verlreren', 2 10, trascura questo pun­ to e, così, troppo rapidamente scarta la forma giovannea come mezzo per ricostruire la forma primi­ tiva del detto. " Poiché il tempo futuro «perderà» (apo/iset) è attestato in tutte le forme sinoniche del detto (e nella lezione variante di Gv 12,25), poiché il tempo presente «perde» (apol/jer) è molto verosimil­ mente un mutamento redaziona1e derivante dall'escatoloRia realizzata di Giovanni e poiché il verbo corrisponde, (phyldxet), e al futuro, ritengo probabile che la forma pre·evongclica di Gv 12,25 avesse entrambi i verbi principali al tempo fururo. n Per l'uso di amare-odiare nella religione pagana greco-romana, vedi, p. es., Corpus Hermeticum 4,6. L'opposizione dei verbi 'amare' e 'odiare' ( 'iihab e fine') è comune nel TM deii'AT; nei LXX, 4g4plio ('amare') è più spesso opposto a mtréO ('odiare') che a philé6. Per 'amare' e 'odiare' usati per e­ sprimere preferenza piuttosto che emozioni diametralmente opposte, vedi, p. es., Dt 21,15-17; Gen 29,)0-33. Su questo, vedi C.H. Dooo, Hùtorical Tradition, 342 [trad. it., 41 1-412]. '

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Penso che ci fossero almeno due forme fondamentali d i questo detto che circolavano in aramaico: la versione Marco-Q e la versione giovan­ nea. In aggiunta, non posso escludere la possibilità che peculiarità di al­ tre varianti (p. es., Mt 10,39) - che preferirei spiegare con l'attività reda­ zionale - possano riflettere pure una forma aramaica distinta, risalente al ministero pubblico di Gesù. Riepilogando: specialmente se lasciamo da parte le parole che ho mes­ so tra parentesi come possibili aggiunte cristiane - che in ogni caso di­ sturbano lo stretto parallelismo nel nocciolo dell'aforisma - ci restano di­ verse varianti di un singolo proverbio (miisii[). TI proverbio commenta la relazione paradossale tra l'azione di preservare o perdere la propria vita e le conseguenze di una tale azione, conseguenze che sono l'esatto opposto di ciò che ci si potrebbe aspettare giudicando con criteri umani superfi­ ciali. Il conciso proverbio ha una fondamentale struttura antitetica in due parti, con ogni parte che a sua volta pure esprime un'antitesi: salvare/per­ dere Il perdere/salvare - o in alternativa, preservare/perdere Il perde­ re/preservare - o in alternativa, trovare/perdere Il perdere/trovare - o in alternativa, amare/perdere Il odiare/preservare. Tutte le forme veicolano un messaggio fondamentale: un discepolo che aderisce in maniera inte­ ressata o vile a questa vita presente come al bene definitivo, perderà il be­ ne definitivo della vera vita nel regno di Dio, mentre un discepolo che \"olontariamente rischia (o effettivamente soffre) la perdita di questa vita presente salverà/preserverà/troverà la vera vita nel regno. Per quanto il detto possa certamente includere la prospettiva di patire la morte come prezzo dell'essere discepolo di Gesù, la prospettiva è più ampia. Colloca­ to nel contesto del messaggio escatologico di Gesù, che abbiamo studiato nel secondo volume, il detto dice al discepolo che il discepolato significa l'abbandono della propria vecchia vita, con tutti i suoi legami, sicurezze e aspettative se si vuole trovare o preservare la naova forma di vita resa possibile dalla venuta del regno di Dio. Questo proverbio breve e paradossale, attestato in forme varianti in Marco, Q e Giovanni, ha una probabilità molto buona di risalire al Gesù storico. Raramente gli aforismi di Gesù sono attestati da questo singolare genere di 'sovrapposizione' Marco-Q-Giovanni. Inoltre, in questo caso il criterio della coerenza conferma la molteplice attestazione, dal momento che la predicazione di Gesù (p. es., nelle beatitudini, nei detti aforistici e nelle parabole) spesso prometteva un paradossale capovolgimento dei va­ lori e dei giudizi nell'ultimo giorno74• " Sulle beatitudini, vedi Un ebreo marginale 2,404-44 1.

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2. Rinnegare se stesso e prenJe,e la propria �

Un altro efficace detto di Gesù che inculca il costo del discepolato si trova sia in Mc 8,34 sia in Q (Mt 10,38 11 Le 14,27)". (a) Mc 8,34 recita: «Se qualcuno vuoi venire dietro di me (opiso mu akoluthhn) rinneghi se stesso, prenda (arato) la sua croce e mi segua

(akoluthéito moz)»76•

" Un testo risultante dalla conflazione di Mt 10,37-38 e L: 14,26-27, si trova nel Vangelo copto di Tommaso, detto 55: ..chi non odierà suo padre e sua madre non può diventare un discepolo per me; e chi non odierà i suoi frateUi e le sue sorelle e non porterà la sua croce come me, non sarà degno di me•>. Si tratta di un esempio evidente di come il Vangelo di Tammaro mescola espressioni tratte da vari vangeli sinottici per creare la propria forma di un detto evangelico. Sostanzialmente. il detto è più vicino a Luca che a Maneo. Le espressioni «non odierà [opposta ad 'amare' di Matteo]», «suo padre e sua madre [con i pronomi possessivi che riflettono heautù di Luca, assente in Matteo]», «fra­ telli e sorelle [Matteo ha provengono da Luca. Tuuavia. alla fine del deuo vediamo una chiara traccia della tendenza redazionale di Maueo o della sua tradizione M: >) al raggiungimento del traguardo (((mi segua>>)". Racchiusi tra i due riferimenti alla sequela ci sono i due mezzi o modi per arrivare al traguardo. In primo luogo, si deve «rinnegare se stesso», ((ripudiare totalmente i propri interessi>> (aparnesdstho heaut6n), in altre parole, dire 'no' a se stesso e al proprio ego come norma ultima e scopo della propria vita7'. Intensificando intenzionalmente l'idea negativa di questo primo mezzo, Gesù aggiunge l'immagine sconvolgente e ripugnante di un criminale nu­ do condannato che viene costretto a prendere su di sé il braccio orizzon­ tale della sua croce e a portarlo fino al luogo dell'esecuzione (dove il braccio verticale era fissato permanentemente). Nessun simbolo più or­ rendo e disgustoso del dover dire addio alla propria vita (inclusi il pro­ prio patrimonio e i mezzi di sostentamento), all'intero proprio passato (con tutti i legami alla propria famiglia) e all'intero proprio futuro (con tutti i suoi piani e progetti), poteva essere immaginato da un ebreo palerica

(inclusione e struth.lra chiastica nel versetto), insistendo si3 sullo scopo (seguire Gesù) sia sui

mezzi per raggiungere lo scopo (rinnegare se stessi, prendere la propria croce). Per i critici che si de­ dicano al Gesù storico, l'intera questione può essere discutibile, poiché sia 'seguire' sia 'venire dietro' potrebbero risalire alla stessa espressione semitica; di conseguenza la ridondanza potrebbe essere ori­ ginaria e inrenzionale da pane di Gesù. " U chiasmo è più evidente in greco che in molte traduzioni, perché nella frase condizionale inizia· le (protasi) l'espressione «dietro di me»

è collocata

prima del verbo «seguire», mentre nella frase

conclusiva del periodo (apodosi) «me» ricorre dopo «seguire» (opisò mu

akoluthéin . . akoluthéllo moz). Si ricordi che anche Mc 8,.35 parr. era caratterizzato da un chiasmo, benché la struuura antiteti­ ca in due parti là ricorrente non sia riprodotta in Mc 8 ,3 4 parr. " Su questo, vedi R.H. GUNDRY, Mark, 435. La perentorierà della 3' penona dell'imperativo greco è abbastanza attenuata dalla tradizionale traduzione «mi segua». Una traduzione come «deve seguir­ mi!» rende meglio il modo imperativo.

" È difficile indovinare quale espressione semitica stia aUa base di dpdmesasthò heauton. A p. 64 dell'Erganzungshe/t (Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen 1971') aUa sua Geschichte, Bultmann, mu· ruando un suggerimento da A. Fridrichscn, opina che «rinnegare se stesso» sia un sostitutivo di un più originale «odiare la propria vita [o: se stessi] h>. Il pronome riflessivo rappresencerebbe napieh, che può riflettersi nel più letrerale psychm autu di Mc 8,35 pare.; come abbiamo visto, il paraUelo gio· vanneo a Mc 8,35 ha ho mison tin psych in autu; miséi... tin psychin heautu ricorre anche in Le 14,26, ma la presenza di psychénella lista delle cose che bisogna odiare può essere dovuta aUa redazione lu­ cana. Altri suggerimenti per

il sottofondo aramaico includono il verbo képar ('rinnegare', 'rinuncia· + bé + napfeh come oggetto; per una forma leggermente differente di questa proposta, \"edi G. DALMAN, }esus·]eshua. Studies 1n the Gospels. Ktav, New York 1971 (or. 1929) 191. re') al pe'al

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I:ebreo Gesù e i suoi seguaci ebrei

stinese dd sec. I, che aveva anche troppa familiarità con questo tipo di e­ secuzione. La completa perdita di controllo sulla propria vita (di fatto, anche sulle proprie funzioni corporee in pubblico) era resa ancora più terrificante dalla vergogna e dallo scherno che accompagnavano questa morte lenta e dolorosa80• Spesso Gesù usava simboli sconvolgenti per imprimere il suo messag­ gio (p. es., Mt 19,12: «Vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli»; Mc 14,22: «Prendete, questo è il mio corpo»)"', ma nessun sim­ bolo poteva essere più sconvolgente di questo. Il senso è chiaro: quelli che pensano di voler seguire Gesù come discepoli devono considerarne i costi in anticipo con fredda serietà"'; non c'è una strada facile per il disce­ polato. Seguire Gesù significa dire no a se stesso come centro della pro­ pria esistenza («rinnegare se stesso») con una severità tanto radicale che quest'impegno potrebbe essere equiparato alla più orrenda e wniliante delle morti («prenda la sua croce») . Solo quando si apprezza l'intera for­ za di questi due 'mezzi' per il discepolato, racchiusi tra le due ricorrenze del verbo ' seguire', si può cogliere l'urto della seconda, e più incisiva, menzione di seguire, espressa ora come un comando perentorio: «Se qualcuno vuoi venire dietro di me [cioè, diventare mio discepolo] innan­ zitutto dica no alla sua intera vita e [metaforicamente] trascini la sua cro­ ce per la sua vergognosa esecuzione pubblica e [così, attraverso questa morte a tutta la sua vita passata] mi segua [come mio discepolo]»'J. Sia l'immagine sconvolgente, sia la molteplice attestazione di fonti (sul­ la forma Q vedi più avanti) indicano Gesù come la fonte del detto. In ag­ giunta, la formulazione del l6ghion non è quella che naturalmente aspet" Tratterò in dettaglio la crocifissione in un successivo capitolo. Per ora, vedi M. HENGEL, Croci­ finione ed espiazione, Paideia, Brescia 1988; J.A. FITZMYER, Crucifixion in Ancient Palestine, Qumran Literature, and the New Testament, in To Advance the Gospel, Crossroad, New York 1981, 125-146; G.G. O'COLLINS, Crucifixton, in Anchor Bible Dictionary l ,1207-121 O. " Per l'autenticità di Mt 19,12, vedi Un ebreo marginale 1,339-344. Per l'autenticità delle parole eucaristiche di Gesù, vedi J.P. ME!ER, The Eucharist at the ÙJst Supper: Did [t Happen?, in TD (Win­ ter, 1995-1996), 1 - 17. � Questo è il messaggio della coppia di parabole presente nella tradizione lucana speciale: la para­ bola dell'uomo che costruisce una torre (Le 14,28-30) e la parabola di un re che pianifica una campa­ gna militare (14,31-32): considera il costo tremendo prima di lanciarti nell'impresa. Non a caso, nella composizione di Luca, queste due parabole seguono i due Mghia Q sul discepolato in 14,26 + 27: l'obbligo di odiare padre e madre e l'obbligo di ponare la propria croce. Su tutto questo, vedi J.A. F'rrzMYER, The Gospel According to Luke 2,1060- 1063. 81 Alcuni commentatori considerano l'imperativo conclusivo «seguim.i>to come la sintesi dei primi due imperativi, mentre altri lo considerano lo scopo raggiunto compiendo le azioni descritte nei pri­ mi due imperativi. Data l'immagine brutale e retorica, intenzionalmente sconvolgente, questa è una sottile distinzione che probabilmente non interessava né Gesù né il suo uditorio.

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teremmo da un'enunciazione cristiana post-pasquale. Nel /Oghion non si dice nulla di esplicito sulla sequela di Gesù che ugualmente porta una croce; di fatto, l'aspirante discepolo è chiamato a prendere «la sua» (cioè, del discepolo) croce, non la croce di Gesù"'. Per quanto non impossibile in un detto inventato dopo il venerdl santo, questo modo di esporre le cose è almeno curioso se si considera Mc 8,34 una creazione totalmente cristiana. La metafora inquietante del portare la propria croce alla pro­ pria esecuzione non dovrebbe essere forzata, al di là della sua finalità re­ torica nella frase, in una sorta di reminiscenza storica dell'esecuzione di Gesù o in una dettagliata allegoria di come si debba seguire Gesù"'. Nonostante gli argomenti della molteplice attestazione e le metafore sconvolgenti, alcuni potrebbero voler escludere Mc 8,34 parr., ritenendo­ lo una creazione cristiana, perché usa il simbolo della croce, il simbolo cristiano per eccellenza. Ma questo significa dare ai cristiani del sec. I il monopolio su di uno strumento di tortura e morte che era applicato asso­ lutamente senza impedimenti ad abitanti non romani delle province peri­ feriche dell'impero. Prima e dopo Gesù, la Palestina fu costellata di cro­ ci, alcune issate da governanti locali in aggiunta a quelle piantate dagli occupanti romani. In effetti, Gesù non fu il solo maestro del sec. I o II nell'impero romano a usare la croce come simbolo efficace della sofferen­ za che sicuramente piomba sulle persone senza alcuna provocazione da parte loro. Nelle sue Diatribe (Discorsi 2,2,20) il filosofo stoico Epitteto (circa 55-135 d.C.) osserva per i suoi studenti: «Se desiderate essere croci­ fissi (staurothenai), attendete e la croce (ho staur6s) arriverà»86• Nel mon" Non vedo perciò la forza dell'obiezione di j.A. FITZMYER, The Gospel According lo Luke 1 ,785786, che preferisce una proposta che risale a D.F. Strauss per cui la forma originale del detto poteva fare riferimento al ponare il giogo di Gesù (cfr. Mt 1 1 ,29). Studiando la forma Q di questo 16ghion, S. SCHULZ. Q. Die Spruchquelle de. Evangelr!ten, 4 J I -433, trae conclusioni troppo ampie circa l'as­ senza della croce (salvifica) di Gesù in questo detto. Non ogni detto può dire ogni cosa, né dobbia­ mo supporre che il documento Q, nel complesso, dicesse tutto quello che poteva essere detto sulla lede cristiana di chi lo usava. �� I rentativi di vari commentatori di vedere la croce in questo detto come un'immagine popolare usata dagli zeloti, come una riformulazione dell'immagine di ponare un giogo (cfr.

Mt 1 1 .29), come

una palizzata di legno ponata dai seguaci di un comandante militare, come un segno cultuale con cui

un

seguace era segnaro, o come una richiesta che ogni e qualunque discepolo subisse alla lettera il

martirio, trascurano il valore della vigorosa, addirinura brutale, retorica. Su queste varie interpreta­

zioni e sulle ragioni per respingerle, vedi R. LAUFEN, Die Doppeliiberlie/erungen, J09-J I J . " Si veda il resto in W.A. OLDFAlliER (ed.), Eptdetur, LCL, 2 voll., Harvard Universiry, Cambrid­ ge, MA; Heinemann, London 1925, 1928, 1,229-2JO. Epittero non fu cenamenre il primo o l'unico filosofo dd mondo greco o romano a usare la croce in un contesto filosofico o retorico con fini d'in­ segnamento. Forse l'esempio più famoso viene dalla

Repubblica di Platone, 2,5,J61e-J62a, dove si so­

sriene che l'uomo complerameme giusto o innocente sarà flagellato, torturato con ogni mezzo e, alla

L'ebreo Gesù e i S�Wi segwu:i ebrei

96

do greco-romano, l'umiliazione della crocifissione dipendeva in parte dal fatto che si trattava di una punizione assai comune per persone marginali: p. es., schiavi, ladri, ribelli e, in genere, persone sottomesse quando di­ sturbavano la pace. Conseguentemente, questa veniva naturalmente in mente a persone socialmente marginali quali Gesù ed Epitteto, come simbolo appassionato e fin troppo realistico di sofferenza e morte. Come abbiamo visto, Mc 8,34 parr. è perfettamente coerente con la tendenza di Gesù a usare un linguaggio efficace, sconvolgente, che si sarebbe impres­ so nelle menti dei suoi discepoli"'. (b) Oltre a ripetere la forma marciana del detto (Mt 16,24 Il Le 9,23) con lievi variazioni, Matteo e Luca preservano pure una forma Q del 16ghion, benché i due evangelisti differiscano in parte nella formulazione88• Mt 10,38 dice: «Chi non prende Uambdnei) la sua croce e non mi segue (akoluthh opiso mu), non è degno di me». Le 14,27 ha la stessa struttura fondamentale ma un vocabolario parzialmente differente: «Chi non porta (bastdzei) la propria croce e non viene dietro di me (érchetai opiso mu), non può essere mio discepolo». Come al solito, non vi è accordo tra gli studiosi sulla formulazione che meglio riflette Q. Tenendo presente che ci interessa ciò che Gesù può a­ ver derto, questa discussione è per noi irrilevante. 'Seguirmi' e 'venire dietro di me' possono rendere la stessa frase aramaica: «chi va [o: viene] dietro di me». Similmente, 'prendere' e 'portare' potrebbero essere tra­ duzioni varianti dello stesso verbo aramaico. La differenza più importan­ te tra Matteo e Luca si trova alla fine del detto. L'espressione «non è de­ gno di me» giunge da ritornello nella composizione di Mt 10,37-38: «Chi

fine, attaccato a un palo (o crocifisso, dal momento che si usa il raro verbo anascbindy/éuii); per il te· P!.zto. The Republic, LCL, 2 voli ., Heinemann, Lon· don; Putnam's Sons, New York 1930, 1935), 1 . 124-125. Citazioni da autori pagani latini che usano simbolicamente e retoricamente la croce sono raccolte da M. H ENGEL Croa/issione, 101-105. Per la storia del segno della croce, con abbondanti fotografie, vedi J. FtNEGAN, The Archeology o/ the New Testament, ed. riveduta, Princeton University, Princeton 1992, 339-389. � Per un differente argomento a favore della storicità di questo wghion, vedi E. DINKLER, feru Wort vom Kreuztragen, in Neutestamentliche Studien /ur Rudo/f Bultmann, BZNW 21. ed. W. Elte· srer, TOpelmann, Berlin 1954, 1 10-129. Dink.ler propone una storia della tradizione piuttosro contor­ ta che mescola insieme materiale anteriore e posleriore aJ tempo di Gesù. Dinkler ritiene che il Gesù storico si riferisse al segno o al sigillo del tau profetizzato in Ez 9,4. Questa spiegazione, che io repu· to assai inverosimile, è preferita da R. PEscH, Das Markusroangelium 2,60 [trad. it . II, 102]. " Come nota J.S. KLOPPENBORG, Q Para/le/s. 170, molti commentatori accettano questo UJghion come un detto Q. R LAUFEN, Die Doppeluberlie/erungen, 546, n. 2, afferma che, a sua conoscenza, la sto greco e la traduzione, vedi P. SHOREY (ed.),

,

'

'

.

sua presenza in Q non è negata da nessuno studioso che accetti la teoria delle due fonti per l'origine dei sinottici.

l discepoli

97

ama il padre o la madre più di me non è degn() di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me>>. n ritornello «non è degno di me>> sembra, perciò, essere un espediente strutturale utilizzato da Matteo, o prima di lui da un tradente della tradizione M. Il vangelo di Matteo usa l'aggettivo 'degno' più di ogni altro libro del NT, e sette delle nove ricorrenze in Matteo sono concentrate nel discorso missionario del cap. 10. Conse­ guentemente il lucano >) . Se Marco abbia riformulato la primitiva forma di un detto negativo in modo positivo, o se la tradizione Q abbia fatto l'opposto, non è verificabile né decisamente importante. Ciò che conta è che abbiamo un'altra sovrapposizione Marco-Q. Così, u­ na volta ancora, la molteplice attestazione di fonti mostra che Gesù am­ moniva i suoi discepoli circa l'assoluta serietà del seguirlo e le tremende conseguenze che avrebbero affrontato.

" Simile è la ricostruzione di R LAUFEN, Die Doppeluberlie/erungen (vedi la sua argomentazione a

303-304) e di S. ScHULZ, Q. Die Spruchquelle der Evangeltsten, -00-4 3 1 . Occorre accogliere con cautela queste ricostruzioni, tanto più in questo caso, perché 'disce­ favore di questa formulazione a pp.

polo' è una parola relativamente rara in Q.

Das Markusevangelium 2,61 [trad. it., 103-104]) preferisce la forma di Marco come H. ScHORMANN, Das Lukasevangelium 1..542 [trad. it., Il vangelo dt Luca. Parte pnma, Paideia, Brescia 1 983, I, 848-849) preferisce la forma Q. R. LAUFEN, Die Doppeluberlieferun­ gen, 305-308, suggerisce wta forma primitiva che è fondamentalmente Mc 8,34 meno la frase «rinne­ ghi se stesso e . >>. � R PEscH.

più originale. mentre

. .

98 3.

I:ebreo Gesù e i suoi seguaci ebrei

A/frof1tare l'ostilità della propria famiglia

La sofferenza e l'opposizione di cui Gesù parlava provenivano non sol­ tanto da estranei o governanti. Una parte molto pratica della croce che Gesù prometteva ai suoi discepoli era costituita dal conflitto con la loro famiglia e i loro parenti, un conflitto provocato dal loro seguire letteral­ mente Gesù in giro per la Palestina. Nel mondo mediterraneo, sia antico che moderno, il governo a vasto raggio è usualmente il nemico, il male necessario da tenere a bada. Ciò in cui si confida, si fa affidamento e a cui si contribuisce volentieri è la propria famiglia allargata, la rete di prote­ zione primaria in una società contadina. L'antica società mediterranea era in larga misura una società di 'personalità diadica', in cui l'identità di cia­ scuno era costituita e mantenuta in relazione ad altri individui nella pro­ pria unità sociale - con l'unità abituale costituita dalla famiglia allargata91• Abbandonare per un periodo indefinito i legami che assicuravano il so­ stegno emotivo e finanziario, rigettare il solo 'gruppo d'opinione' la cui opinione quotidianamente influenzava la propria vita, prendere la via vergognosa di abbandonare la propria famiglia e il proprio lavoro in una società fondata su onore-vergogna - tutto questo non era una scelta facile per il comune contadino ebreo di Galilea o Giudea, maschio o (special­ mente) femmina. A priori, dunque, si potrebbe attendere che Gesù par­ lasse ai suoi seguaci di questo realistico costo del discepolato. In effetti, c'è una molteplice attestazione - una volta ancora in Marco e Q - che Gesù abbia parlato ai suoi discepoli del costo familiare della sequela. (a) In Mc 10,28-30 parr., Pietro è presentato mentre indica a Gesù, sen­ za giri di parole, il prezzo che lui e gli altri discepoli hanno pagato: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Gesù replica non con un diniego del suo dirompente impatto ma con una promessa di una ricom­ pensa (Mc 10,29-30 Il Mt 19,29 Il Le 18,29-30): «In verità vi dico: non c'è

" Sulla 'personalità diadica', vedi BJ. MALINA, The New Testament World. ln..

l discqKJli

103

zioné'tedazionale (3 ,2 1 ) , quando descrive i familiari di Gesù (hoi par'­ autu) disposti ad afferrarlo perché pensano che sia diventato matto98• Quest'idea inquietante di un contrasto nella famiglia di Gesù è corro­ borata dal criterio della molteplice attestazione, dal momento che una si­ mile visione negativa è proposta dal quarto evangelista in Gv 7 ,5. Dopo che i fratelli di Gesù slealmente lo avevano spinto a 'manifestare' il suo ministero in Gerusalemme, l'evangelista si rivolge mestamente al lettore, in una tipica osservazione parentetica, e fa notare: «Neppure i suoi fratel­ li infatti credevano in lui [Gesù]»99• Diversamente dalla madre di Gesù, che, benché presentata in una luce ambigua alle nozze di Cana (2, 1 - 12), riappare in una luce positiva sotto la croce ( 1 9,25-27) , i fratelli di Gesù scompaiono dal vangelo dopo 7,1- lO""'. lnvece, dalla croce Gesù morente implicitamente designa il discepolo amato come suo vero fratello, quan­ do affida sua madre alle cure del discepolo amato - perché, in un senso

" Su hoi p4r'dutit vedi V. TAYLOR, M4rk, 236. In greco classico, hoi parti tin6s si riferiva agli inviati o ambasciatori di una persona. Nel greco della koiné, l'espressione ampliò il suo significato riferen­ dosi a vari tipi di persone intimamente connesse con qualcuno; traduzioni possibili includono 'man­ datari', 'aderenti', 'amici', ·famiglia', 'parenti', o 'genitori'. Per 'famigliari' o 'famiglia', vedi LXX Pr 3 1,2 1; Sus 33 (sia LXX che Teodozione); Flavio Giuseppe, Ant. 1 , 10,5 S 193. Il significato 'famiglia' o 'parenti' appare corretto per Mc 3.2 1 , non considerando l'espressione in astratto, ma piuttosto in­ . Sui contatti tra maestri giudei (o i loro allievi) e le donne, ve-

donna studiassero [la Torah]

1 discepoli

1 17

Sembra che Luca, al di là dei suoi intenti redazionali, conservi una valida memoria storica in 8,1-3: certe donne seguaci accompagnavano Gesù nei suoi spostamenti in Galilea e infine a Gerusalemme, ed effettivamente so­ stenevano lui e il suo entourage con il loro danaro, cibo, o proprietà'2l. Se Luca è esatto su quest'ultimo punto, possiamo ricordare che, anche se Gesù si rivolgeva specialmente ai poveri (che comunque costituivano la grande maggioranza), tuttavia tale scelta non era esclusiva"'. Inoltre, an­ che se le donne di 8,1-3 avevano lasciato casa e famiglia per seguire Gesù, a quanto pare non si erano ritenute obbligate a spogliarsi immediatamen­ te di tutto il loro danaro e di ogni proprietà. Se l'avessero fatto, difficil­ mente avrebbero potuto «continuare ad assistere)) (diik6nun, tempo im­ perfetto) Gesù e i dodici «con)) (ek) il loro danaro e le loro proprietà"'.

di (da una fonte cristiana) Gv 4,27; e (da fonti rabbiniche) m. 'Abot 1,5; 2,7; m. So{o 3,4; cfr. B.T. VI­ \'IANO, Study os Worrhip, 1 1 .46. Sull'assenza di un'istruzione fonnale delle donne suDa Torah da par­

te dei rabbini. vedi L.J. ARCHER, Her Pni:e fs beyond Ruhiei The ]ewish Woman in Groeco-Romon Polestine, JSOTSup 60, JSOT, Sheffield 1990, 69-101; un tentativo di riprendere questa tradizione in un contesto moderno si può trovare in M. MEISELMAN, ]ewish Womon tn ]ewish Low, The Library of _lewish Lau• and Ethics 6, Ktav/Yeshiva Univer.lly, New York 1978, 34-42. Sulla questione degli spo­ radici riferimenti a donne istruite con un insegnamento rabbinico fonnale, D. GooDBLATI, The Be­ .-urioh Troditions. in Perso11s ond lnrtitutions in Eorly Robbinic ]udoism, Brown Judaic Srudies 3, ed. William Scott Green, Scholars, Missoula, MT 1977, 207-229, sostiene che aneddoti che menzionano l'elevata formazione rabbinica di Beruriah, la moglie di Rabbi Meir, ricorrono solo nello strato babi­ lonese amoraico della letteratura talmudica e, probabilmente, riflettono una situazione speciale in Babilonia nel sec. V d.C. circa. Anche se la Archer tratta con precisione la questione di Beruriah, il suo libro, talvolta, riflette un uso acritico delle fonti talmudiche in riferimento alle condizioni della Palestina nel sec. I d.C. Lo stesso si può dire dell'appendice di J. ]EREMIAS, Lo siluonone sociale delle donne, in Gerusalemme a/ tempo di Gesù, Dehoniane. Roma 1988, 539-563. Per quanto riguarda la leuerarura cristiana, non c'è un chiaro riferimento a donne devote discepo­ li! che seguono un maes[ro maschio celibe nella missione cristiana, prima dell'immaginifico (per non dire romantico) Atti di Paolo (e Tec/a), composto verso la fine del sec. I d.C.; vedi W. SCHNEEMEL· CHER, Taten des Pau/us und der Thek/a, in E. HENNECKE - W SCHNEEMELCHER (edd.), Neutestamen­ t/tl:he Apokryphen, 2 voll., Mohr [Siebeck), Tiibingen 1968, 1971, 243-25 1 . Questa penuria di dati non ha però impedito a qualcuno di proporre ipotesi fantasiose sul modo preciso in cui le donne presero pane alla missione cristiana della prima generazione; abbiamo qui un esempio eviden[e di ·immaginazione storica', che è quasi tutta immaginazione e per niente storia. '" Per i possibili scopi redazionali che questa tradizione assolve nel prog ramma teologico globale di Luca, vedi B. WITHERINGTON, o, the Road, 243-248. '" D.C. SIM, The Woman Followers of ]esus, 5 1 -62, ritiene che la benestante Giovanna non fosse rappresentativa del seguito femminile di Gesù. Secondo Sim, le seguaci donne di Gesù erano in ge· nere povere e, cosl, esse mettevano insieme il poco denaro che possedevano in un fondo comune per sostenere Gesù. Anche ammesso ques[o, le congetture di Sim sulla condizione socio-economica e co­ niugale delle seguaci donne (p. es., per la maggior pane le seguaci donne erano nubili) vanno ben ol­ tre gli scarsi dati che possediamo. '" Di conseguenza, va ben oltre le affennazioni effettive del testo, concludere, come fa Ricci (Ma-

1 18

I:ebreo Gesù e i suoi segiiiKI· ebrei

Ci si chiede se qualcuno dei discepoli maschi (p. es., Simon Pietro) si sia comportato allo stesso modo. (4) Così, la molteplice attestazione di fonti (Marco, Giovanni e la fonte speciale L di Luca) conferma l'esistenza di seguaci donne devote. Più specificamente, i vangeli ci presentano un quadro di donne che viaggiano insieme con Gesù, sostenendo e servendo Gesù con i loro mezzi e stando vicino a Gesù alla sua crocifissione, quando i più, se non tutti i suoi di­ scepoli maschi lo abbandonarono - e che cosa potrebbe qualificare il di­ scepolato se non questo costante servizio e questa fedeltà a Gesù fin sotto la croce? Nondimeno, siamo di fronte al fatto che la parola 'discepolo' non è mai applicata a qualcuna di queste donne o all'intero gruppo di donne seguaci, quando sono menzionate separatamente dai discepoli maschi. Perché questo? Alcuni potrebbero affermare che una tradizione storica ben conosciuta costrinse gli evangelisti, maschi sciovinisti, contrariamen­ te alle loro intenzioni teologiche, a menzionare le donne, anche se rifiuta­ rono caparbiamente di chiamarle discepole. Tuttavia, risulta strano che gli androcentrici evangelisti si siano dati molto da fare per presentare queste donne come equivalenti o superiori ai discepoli maschi eppure, al­ lo stesso tempo, abbiano negato loro il titolo di 'discepole'. Se gli evange­ listi erano tanto intenzionati a sopprimere la designazione, perché non soppressero anche le narrazioni che praticamente ne rivendicavano la de­ signazione? Alcuni studiosi tentano di risolvere il paradosso affermando che gli evangelisti non chiamarono le donne seguaci 'discepole' perché li­ mitarono l'uso del termine ai dodici. Ma un accurato esame dell'uso degli evangelisti mostra che non c'è questa ferrea restrizione126• Altre due con-

ri4 di Magda/4. 169), che le donne in Le 8,1-} «hanno messo il loro patrimonio a disposizione dd gruppo [di Gesù e dei dodici]».

·� B. WITHERINGTON, Women, 122, suggerisce, in riferimento .Ue donne presso la croce in Mc 15,40, che Marco non usa hoi mothittii per queste donne «perché normalmente riserva questo tenni­

ne per i testimoni ufficiali o per la cerchia più ristretta di Gesù, cioè, i dodici». U limite di quest'ap­ proccio

è indicato dalla clausola «normalmente». Di fatto, Marco, che fino a },13-19 non narra la

scelta di Gesù di dodici uomini per costituire il gruppo più ristretto, usa 'discepoli' per i seguaci di Gesù in 2,15-16.18.23; 3,7.9. A meno di rigettare turco quanto l'analisi narrativa ci ha insegnato su Marco come racconto, i riferimenti ai 'discepoli' in questi verseni non possono riferirsi a un gruppo che ancora non esiste nel racconto. Inoltre, venendo subito dopo la chiamata di Levi (che non è uno dei dodici) a seguire Gesù in 2,13-14, i riferimenti ai 'discepoli' in 2.15·16 difficilmente dimostrano una limitazione deJla parola ai dodici, tanto più che quesd discepoli sono descritti come «mold»

(2,15), benché solo quattro dei dodici (Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni) siano stati menzionati fino a questo punto. La stessa osservazione fondamentale rimane vera anche per la narrazione di Lu­ ca. Matteo, piuttosto che Marco, ha una notevole tendenza a equiparare i discepoli ai dodici (Levi

è

I dis�/i

119

siderazioni possOno aiutare a spi�-questa presentazione apparente­ mente contraddittoria delle donne seguaci. In primo luogo, può essere che gli evangelisti siano abbastanza inibiti dalla mancanza di specifici racconti di vocazione che presentano Gesù che chiamava singole donne a seguirlo_ Che Gesù abbia chiamato certe donne a seguirlo in senso letterale, fisico, non è mai affermato nei vange­ li. Però, pur tralasciando l'abitudine di Gesù di rivolgere esplicite chia­ mate a potenziali discepoli maschi, sembra difficilmente plausibile che donne giudee-palestinesi possano aver fatto l'inusuale, per non dire scan­ daloso, passo di seguire Gesù e i suoi discepoli maschi in giro per la Gali­ lea per un buon periodo di tempo senza l'invito previo di Gesù, o almeno il suo chiaro assenso dopo il fatto. Il caso singolare di Maria Maddalena, che Gesù liberò dal tormento con un esorcismo, può suggerire che talvolta le donne curate da Gesù consideravano le cure ricevute come un equivalente della chiamata a se­ guire Gesù, un'interpretazione che Gesù accettava. Un parallelo appros­ simativo si può vedere nel racconto di Gesù che cura il cieco Bartimeo (Mc 10,46-52), in cui non un'esplicita chiamata da parte di Gesù, ma il semplice fatto della guarigione porta Bartimeo a seguire Gesù «sulla stra­ da [del discepolato]»'". Qualcosa di simile può essere accaduto a Maria Maddalena, ma bisogna riconoscere che si tratta solo di una congettura. In ogni caso, la verità è che alcune donne seguirono Gesù per un tem­ po considerevolmente lungo durante il suo ministero galilaico e il suo ul­ timo viaggio a Gerusalemme. Questa sequela devota, di lunga durata, è inspiegabile senza l'iniziativa di Gesù o almeno la sua attiva accettazione e cooperazione con le donne che cercavano di seguirlo. Nondimeno, per una ragione qualunque - inclinazione androcentrica o solo fluttuazioni casuali nella tradizione orale - nelle tradizioni da loro accolte, gli evange-

trasformato

in Matteo cosi che possa apparire nell'elenco dei dodici). Comunque, poiché Maneo

non narra mai l'episodio della scelta dei dodici. l'esatta estensione del gruppo chiamato 'discepoli' ri­ mane assai imprecisa prima deU'elenco dei dodici in Mt 10.2-4. Giovanni, che quasi mai menziona i dodici durante il ministero pubblico (soltanto in 6,67.70- 7 1 , dove solo Pietro e Giuda sono chiara­ mente membri del gruppo), non mosua una [endenza a equiparare 'i discepoli' con 'i dodici', spe­ cialmente perché il discepolo ideale di Giovanni, «il discepolo che Gesù amava», non sembra essere un membro dei dodici. Insomma, non si può spiegare l'assenza di riferimenti a seguaci come donne

'discepole' sulla base di una ipotetica, ma assai dubbia, equiparazione dei 'discepoli' con i 'dodici' da

parte degli evangelisti. "' Sulla storicità dell'episodio, vedi

Un ebreo morginole 2,810-821. Qualsiasi conclusione deve es­ Mc 10,52 («e lo seguiva lungo la

sere prudente su questo caso, perché l'affermazione conclusiva di

strada [o: via]») potrebbe essere un commenco interpretativo di Marco.

120

I:ebreo Gesù e i suoi seguaci ebrei

listi non �'11 disposizione racconti di vocazione riguardanti donne.

Questo può averli indotti a non applicare il titolo 'discepolo' alle donne seguaci (proprio come non è applicato a Bartimeo) poiché una delle prin­ cipali componenti del discepolato - una componente verificata nel caso di un certo numero di discepoli maschi - era evidentemente assente. Una seconda considerazione che può aiutare a spiegare perché le don­ ne seguaci non siano chiamate discepole poggia su di un semplice dato fi­ lologico, compreso nella più ampia verità dei vincoli della storia. Ogni lo­ cutore, scrittore e pensatore, per quanto immaginativo o innovativo, è li­ mitato dai vincoli del suo tempo e del suo luogo e, in particolare, dai vin­ coli del suo linguaggio. Se chi insegna o chi scrive non vuole impegnarsi in una giocosa conversazione interiore con se stesso, ma piuttosto vuole comunicare e convincere una più ampia società, allora si devono usare, per quanto creativamente, i concetti e le parole comunemente accettati di questa società - altrimenti non avrà luogo alcuna comunicazione. Come profeta e maestro, Gesù ovviamente voleva comunicare e convincere i suoi seguaci, e tutto Israele. Di conseguenza, anche lui fu soggetto ai vin­ coli storici come ogni altro maestro'21• Certo, c'era molto d'innovativo nel caso di Gesù. Il Gesù itinerante e il suo gruppo di discepoli costituivano un fenomeno relativamente nuovo nella tradizione giudeo-palestinese della relazione maestro-studente, un fenomeno che rifletteva in qualche grado l'esperienza di Gesù nella cer­ chia dei discepoli del Battista. Proprio l'uso della parola 'discepolo' per i seguaci itineranti impegnati di Gesù fu probabilmente un'applicazione abbastanza nuova di una parola scarsamente attestata nelle Scritture giu­ daiche o apocrife prima del tempo di Gesù"'. Ammessa tutta questa novità, forse è eccessivo aspettarsi che una nuo­ va forma della parola 'discepolo' fosse coniata durante i circa due anni del ministero di Gesù. Al tempo di Gesù - e ugualmente durante il perio­ do rabbinico - le parole 'discepolo' e 'discepoli' esistevano in ebraico e in aramaico solo nelle forme maschili: talmid e talmidim in ebraico, talmidii'

"' Su questo, vedi A.E. HARVEV, Jesus ond the Cons,.oints o/ History, Westminster, Philadelphia

1982, specialmente 1 -10. 129 Come è stato precedentemente notato, i vangeli offrono una molteplice attestazione dell'uso della parola 'discepoli' per i seguaci del Battista. Comunque, non si possono escludere possibili ana­ cronismi nella presentazione cristiana del Battista; talvolta, termini usati da Gesù o dai primi cristiani

possono essere stati retroproiettati sul Battista e sui suoi adepti. Tuttora, ammessi i riferimenti ai 'di­ scepoli' del Battista in Marco, Q,

L e Giovanni, considero verosimile che il Battista usasse ta/midayyd' per i suoi seguaci più intimi.

l discepoli

12 1

e talmi'dayyii' (con articolo determinativo) in aramaico. Conseguentemen­ te il problema: durante il suo ministero pubblico, Gesù di fatto ebbe donne seguaci, ma non c'era un vocabolo femminile che potesse essere u­ sato per descriverle; non c'era un nome che indicasse 'discepola(e)'. Non si dimentichi però il rischio di fare storia o teologia semplicemen­ te attraverso lo studio delle parole. Nuove realtà emergono sulla scena storica prima che ci siano nuove parole per descriverle e, talvolta, lo scar­ to temporale tra la nuova realtà e il neologismo è lungo. Di conseguenza, la mancanza di ogni forma femminile per il nome greco mathetés ('disce­ polo') nei nostri quattro vangeli può essere dovuta, almeno in parte, alla tenacia e alla natura conservatrice della tradizione evangelica. Durante il ministero pubblico, Gesù e i suoi discepoli non usarono mai una parola specifica aramaica per designare le donne discepole - per la semplice ra­ gione che non esisteva - e così i vangeli greci, che dipendono da quella tradizione, non usarono una tale parola. Non è probabilmente per caso che Luca, l'evangelista più interessato alle donne"", sia il solo autore del NT a usare la forma femminile ma­ thétria (discepola), una parola relativamente rara della koiné greca. Signi­ ficativamente, però, non la usa nel suo vangelo, dove le sue affermazioni su Maria Maddalena e altre donne seguaci quasi la richiedono, ma invece in At 9,36 per descrivere Tabita, una devota cristiana della chiesa primiti­ va. A quanto pare, Luca non si sentì autorizzato a introdurre la forma femminile nella tradizione evangelica, relativamente fissata, mentre si sentì libero di farlo nel suo nuovo genere di composizione, gli Atti degli Apostoli, in cui non era così strettamente vincolato da una tradizione normativa e dall'uso di precedenti documenti cristiani (p. es., Marco e Q). A dire il vero, il nome mathétria non è usato per una discepola donna che aveva seguito Gesù durante il suo ministero, finché non arriviamo al­ l'apocrifo Vangelo di Pietro del sec. II, dove in 12,50 è applicato, non sor­ prendentemente, a Maria Maddalena, una perenne preferita della lettera­ tura apocrifa e gnostica"'. Ma anche nel Vangelo di Pietro (per quel che

110

Sull'interesse lucano per le donne, che può

essere

verificato semplicemente su base statistica,

vedi C. Ricci,

Marid di Magdd/4, 69-70. In ogni dato statistico, egli supera qualunque altro vangelo canonico. Ricci ritiene (pp. 77-79) che questo interesse si spieghi non tanto con il temperamento e la cultura sociale di Luca, quanto con una fonte o una tradizione speciale a sua disposizione, una tradi­ zione trasmessa da donne. Come altrove nel suo libro, qui la Ricci si abbandona a una congettura

piuttosto fantasiosa. Il!

Le opere apocrife o gnostiche del periodo pauisrico, che contengono riferimenci a Maria Mad­

dalena, spesso presentata come una seguace prediletta di Gesù, includono il

Vangelo copto di Tom-

I:ebreo Gerù e i suoi seguaci «wei

122

possianm·dire), è usato solo nd racconto dell'apparizione di Gesù risorto a Maddalena la mattina della domenica di pasqua - dunque, fuori del mi­ nistero pubblico"'. Restiamo, dunque, con una specie di paradosso. Il Gesù storico ebbe delle discepole? Di nome, no; in realtà - a parte la questione di una chia­ mata implicita invece di una esplicita - sì. Certamente la realtà, piuttosto che l'etichetta, deve aver catturato l'attenzione della maggior parte della gente. La vista di un gruppo di donne - a quanto pare, almeno in alcuni casi, senza mariti che le accompagnassero - che viaggiava per la regione della Galilea con un maschio non sposato che esorcizzava, guariva e inse­ gnava loro come insegnava ai suoi discepoli maschi, non poteva aiutare, ma poteva far inarcare pii sopraccigli e provocare commenti irriverenti. In effetti, Gesù fu bollato dai suoi critici come un gaudente, un ghiottone ;

moso, il Vangelo segreto di Marco, il Vangelo di Mano, Pistis Sophia, la Sophia di Gesù Cristo, il Drak>­ go del Salvatore, il Vangelo di Filippo e gli Alli di Filippo; su tutto questo. vedi RF. COLLINS, Mary (Magdalene), in Anchor Bible Dictionary 4,579-581. "' ll testo greco del Vangelo di Pietro 12.50·5 1 afferma in parte: orthru dè ter kyriakés Maniim be Magdalene mathetna tù kyriu ... elthen epì tò mnemeion («la mattina presto nel giorno del Signore [! ], Maria Maddalena, una discepola del Signore... si recò alla tomba>>). Per il testo critico con com· mentario, vedi M.G. MARA (ed.), Evangile de Pimv!, SC 201, Cerf, Paris 1973, 62. Owiamente, si può parlare solo dei frammenti del Vangelo di Pietro che possediamo. Se l'opera usasse mathitria nel· la sua narrazione del ministero pubblico - in realtà, se ci fosse una narrazione dd ministero pubblico nel Vangelo di Pietro

-

non può essere conosciuto a questo stadio della ricerco. Da notare che, anche

].D. CROSSAN, The Cross That Spoke, Harpcr & Row, San Francisco 1988, 412, il quale pensa che

il

nucleo primitivo del Vangelo di Pietro (un ipotetico 'Vangelo della croce') risalga ai primi giorni della chiesa, non include il riferimento a Maria Maddalena come discepola nel suo ipotetico 'Vangelo della croce'. Per la mia opinione che

il Vangelo di Pietro provenga interamente dal sec. II e dimostri di co·

noscere qualcuno dei vangeli canonici (in particolare Matteo), vedi Un ebreo marginale 1 , 1 14-117; dr. M.G. MARA. Evangile de Pierre, 2 1 3-215; F. NEIRYNCK, The Apocryphal Gorpels and the Gospel of Mark, in Evangelica, BETL 60 e 99, 2 voli., ed. F. van Segbroeck, Leuven Universiry/Peeters, Leuven 1982, 1991, 2,715-772, specialmente 732·749; R.E. BROWN, The Death o/ the Messiah 2,13 17-1349 [trad . it., 1489-1526]. Non sorprende che le relativamente rare ricorrenze di mathltria nella koiné greca si trovino principalmente in testi filosofici. Nella sua Biblioteca storica 2,52,7, Diodoro Siculo (sec.

I

a.C.) usa la parola una volta in un senso metaforico, quando dice che le arti umane diventano

'discepole' (mathitrias) della natura nell'attribuire vari colori agli oggetti; per il testo greco, vedi C.H. OLDFATHER ET AL. (edd.), Diodorus o/ Sù:ily, LCL, 12 voli., Harvard University, Cambridge; Heinemann, London 1933-1967, 2,56. Nelle sue Vite deifiloso/i 4,2 e 8,42, Diogene Laerzio (sec. III d.C.) si riferisce alle allieve di Platone e Pitagora; per il testo greco, vedi R.D. HICKS (ed.), Diogme1

Loertius. Lives o/ Eminent Philosophers, LCL, 2 voli., Harvard University, Cambridge, MA; Heine· mann, London 1925, 1,374; 2,358. La forma alternativa del nome femminile, mathé'tris, è altrettanto rara e non ricorre mai nel NT o nella letteratura cristiana primitiva. Comunque. nella sua L'immuta­ bilità di Dio, 2(5], Filone scrive di Anna, la madre di Samuele: tutu ghìnetai mathttris kài diddochos Anna («di lui [cioè, Abramo] Anna diviene discepola e succeditrice»). In questo contesto, Filone in· terpreta Anna allegoricamente come il dono della sapienza di Dio.

l discepoli

123

beone, un amico degli esattori delle tasse e dei peccatori (Mt 1 1 , 19 par.), un indemoniato o un pazzo (Mc 3,20-30 parr.; Gv 8,48). Una comi­ tiva itinerante di sostenitrici donne senza marito, alcune delle quali prima erano indemoniate e ora davano a Gesù danaro o cibo, poteva solo inten­ sificare il sospetto e lo scandalo che Gesù affrontava già in una società contadina tradizionalista. Tuttavia, scandalo o non scandalo, Gesù con­ cesse loro di seguirlo e servirlo. Nonostante i problemi di vocabolario, la conclusione più probabile è che Gesù considerasse e trattasse queste donne come discepole. e un

4. I confini incerti del discepolato:

Sostenitori di Gesù che non lasciarono le loro case

Oltre ai discepoli maschi che lasciarono casa, famiglia e occupazione per seguire Gesù fisicamente, i vangeli presentano parecchi maschi ade­ renti al movimento di Gesù, che sostenevano Gesù offrendo cibo e allog­ gio quando egli visitava la loro città o il loro villaggio. Pensiamo a Zac­ cheo, in Le 19, 1 - 10; Lazzaro, in Gv 12, 1-2; l'anonimo ospite dell'ultima cena, in Mc 14,13-15 e, forse, Simone il lebbroso, in Mc 14,3 - si tratta in ogni caso di una molteplice attestazione di fonti. Esattamente nello stesso modo - di nuovo un paralldo tra adepti maschi e femmine - troviamo nei vangeli descrizioni di donne devote che, invece di unirsi al ministero itinerante di Gesù, mostrano la loro fedeltà a lui sostenendolo con la loro ospitalità. Tali donne non sono chiamate discepole, ma in questo caso non lo sono neppure gli adepti maschi, dal momento che tutti, maschi e femmine, mancano delle condizioni (chiamata perentoria di Gesù a se­ guire, abbandono di casa e famiglia, esposizione al pericolo e all'ostilità viaggiando attraverso Israele) necessarie per essere considerati discepoli. Non tutti gli adepti impegnati erano discepoli impegnati, e questo valeva per le donne come per gli uomini. C'è un singolare tipo di molteplice attestazione di fonti (Luca e Gio­ vanni) circa l'esistenza di queste donne aderenti senza essere discepole. ll memorabile quadro di Marta e Maria che ospitano Gesù è presentato in contesti molto differenti, in Le 10,38-42 (dove Gesù ha di recente comin­ ciato il suo viaggio dalla Galilea a Gerusalemme) e in Gv 1 1 , 1 -45 + 12,1-

124

L:ebreo Gesù e i suoi seguaci ebrei

8 (dove Maria e Marta sono sorelle di Lazzaro e risiedono in una casa a

Betania, presso Gerusalemme). Qualunque sia la realtà storica, tanto Lu­ ca quanto Giovanni usano Maria e/o Marta per rappresentare certi ideali della fede cristiana che devono essere imitati"'. In Le 10,38-42, Maria, proprio perché rifiuta di essere distratta da qua­ lunque attività pratica come preparare un banchetto, precisamente per"' R BULTMANN, Geschichte, 33 .58·'9 considera l'episodio un apoftegma biografico e una 'scena i· deale' (di conseguenza, non storica). Invece, M. DIBELIUS, Formge.>, come in Gio·

vanni, nessun singolo discepolo è nominato o messo in evidenza da Matteo al di fuori dell'elenco dei dodici. (3) Omettendo un racconto distinto della scelta dei dodici (presente in Mc 3,13· 19 11 Lc6,12·

130

I.:ebreo Gesù e i suoi seguaci ebrei

abbiamo già visto nel nostro studio sui discepoli di Gesù, l'uso dei 'dodi­ ci', come del tutto equivalente ai 'discepoli', non riflette la situazione sto­ rica del ministero di Gesù. Per esempio, Levi, l'esattore delle tasse, è chiamato discepolo (Mc 2,13-15), ma non appare mai nell'elenco dei do­ dici (Mc 3, 16-19). Similmente, l'esemplare «discepolo che Gesù amava» di Giovanni - che molto probabilmente è una presentazione idealizzata di qualche seguace storico di Gesù in o nei pressi di Gerusalemme' - non sembra aver fatto parte dei dodici. Di conseguenza, in questa iniziale ras­ segna dei dati, evito regolarmente l'espressione matteana «i dodici disce­ poli», in quanto esposta all'equivoco. A maggior ragione evito la tradizionale espressione cristiana 'i dodici apostoli', che è esposta a una confusione sia concettuale sia storica'. Du­ rante il ministero pubblico di Gesù, 'apostolo' (aramaico JeliJ�, greco ap6stolos) probabilmente non fu usato né da lui né dai suoi discepoli, co­ me termine fisso per un gruppo particolare di suoi seguaci. Al massimo, una parola aramaica come féli�in ('messaggeri', 'inviati') può essere stata usata in una situazione specifica, cioè quando Gesù inviò i dodici per una missione temporanea. Questo è probabilmente il senso della parola nelle sue rare ricorrenze in Marco e Matteo (Mc 6,30; Mt 10,2). È solo quando i dodici tornano dalla missione temporanea per cui Gesù li ha inviati che, per l'unica volta nel suo vangelo, Marco usa la parola: «E gli apostoli si riunirono intorno a Gesù» (6,30)6• Il significato di 'apostoli' qui è sempli-

16), Maneo evita di dover presentare Gesù che chiama i dodici da un più ampio gruppo, presumihil­ menre di discepoli. Tuttavia, Matteo conserva il racconto marciano della vocazione fallita dell'uomo ricco; di conseguenza, il quadro in Matteo non è assolucamente chiaro. Forse si può dire che Matteo presenta la cerchia dei dodici come de facto coincidente con la cerchia dei discepoli. Su tutta la que­ stione, vedi K. STOCK, Boten aus dem Mit-Ihm-Sein. ' A sostegno della tesi secondo la quale dietro al «discepolo che Gesù amava» di Giovanni vi sia qualche figura storica, vedi O. CULLMANN, Derjohanneische Kreis, Mohr [Siebeck], Tiibingen !9n, 67-88 [trad. it., Origine e ambiente dell'Evangelo secondo Giovanni, Marietti, Casale Monf. 1976, 83!03]; R.E. BROWN, The Community of the Beloved Dzsciple, Paulist, New York/Ramsey, NJ/Toronto 1979, 3 1-34 [trad. it., La comunità del discepolo prediletto, Cittadella, Assisi 1 979, 3 1-36]. ' Non si intende qui fare una rassegna completa dell'uso di 'apostolo' nel NT; voglio s.mplicemen­ te spiegare perché scelgo di parlare dei 'dodici' e non dei 'dodici apostoli'. Tra coloro che pensano che, durante il suo ministero rerreno, Gesù non abbia dato ai dodici il titolo di 'apostoli', nel senso di una designazione specifica per loro, vi sono J. DuPONT, Le nom, !017-!018; J. RoLOFF, Apostolat, 144-145; B. RlGAUX, The Twelve Apostles, 8. Per la posizione abbastanza ambigua di Karl Heinrich Rengstorf, vedi il suo articolo «apostoloS», in GLNT l, l l47 - 1 148. 11 A mio parere, la frase «che chiamò anche apostoli», che alcuni impananti manoscritti (Sinaitico, Vaticano, Koridethi) leggono in Mc 3 , 1 4 dopo «e costituì dodici», non è originaria; piuttosto, rappre­ senta un'armonizzazione con Le 6,13, dove la frase discussa si trova alla lettera (a parte 3,14, il verbo usato per 'chiamare' [onomdzO] non ricorre mai in Marco, mentre Luca lo usa tre volte nei suoi due

I:esistenVJ e la niiiUra dei dodici

13 1

cemente '«qUelli inviati in missione che -ora fanno ritorno da quella mis­

sione>>. Una volta conclusa la missione, il termine scompare in Marco. Così pure, l'unica volta che Matteo usa il termine nel suo vangelo è all'i­ nizio del discorso missionario, quando Gesù prepara l'invio dei dodici per la loro missione limitata a Israele ( 1 0,2)7• Così, in entrambi i vangeli, 'apostolo' è un termine usato in un'occasione specifica, per indicare una funzione temporanea che i dodici assolvono; sono apostoli solo quando sono effettivamente in missione. Fu nella chiesa primitiva che 'apostolo' (ap6stolos, 'ambasciatore', 'messaggero') fu usato dapprima come designazione fissa per un gruppo specifico - benché i diversi autori usassero la designazione in differenti modi'. È fuor di dubbio che nei primi decenni cristiani, 'apostolo' ha as­ sunto una gamma di significati che si estendeva ben oltre i dodici. Il cre­ do pre-paolino che Paolo cita in 1 Cor 15,3 -7 presenta una lista di varie persone che avevano sperimentato le apparizioni di Gesù risorto: «Cefa, poi i dodici, poi... più di cinquemila fratelli ... poi Giacomo, poi tutti gli a­ postoli>> - dove tutti gli apostoli è, ovviamente, una categoria più ampia rispetto ai dodici. Questo era il modo di parlare della chiesa primitiva pre-paolina e, fon­ damentalmente, Paolo lo fece suo'. Benché chiaramente non fosse uno dei volumi). Quest'armonizzazione, evidenziata dalla goffa collocazione della frase in Mc 3 , 14, difficil· mente sorprende. dal momento che la tradizione manoscritta greca manifesta vari tentativi di armo­ nizzare il racconto della scelta dei dodici di Marco con Mt 10,1-4 e Le 6,12-16. Qui concordo con V. TAYLOR, The Gospelaccording lo St. Mark, 230; RP. MEYE, Jesus and the Twelve, 190; R PESCH, Das Markusevangelium 1,203 [trad. it., H l ] e M.D. HOOKER, The Gospel according to Saint Mark, 1 1 01 1 1 , e sono in disaccordo con B. METZGER, TCGNT (2' ed.), 69, il quale ritiene la prova esterna troppo fone per poter giustificare l'omissione della frase. Comunque, anch'egli con il suo comitato ammette la condizione incena della frase, ponendola tra parentesi e assegnandole una valutazione ·c, per indicare che il comitato nel comporre il testo deli'UBSGNT aveva difficoltà a decidere quale variante collocare nel testo. La posizione di RA. GUEUCH, Mark 1-8:26, 154, è simile a quella di Metzger; decisamente a favore della lezione disputata è RH. GUNDRY, Mark, 164. 1 Curiosamente, è in Mt 10,2, e non nel vangelo di Luca, che lroviamo la locuzione, estremamente rara, > dopo il nome di Andrea per bilanciare la stessa frase usata dopo il no­ me di Giovanni, il fratello di Giacomo. Forse Luca non utilizza pienamente questa procedura di bi­ lanciamento (cioè, non aggiunge «Suo fratello)) dopo il nome di Giovanni) perché Giacomo e Gio­ vanni sono trattati differentemente da Andrea nel vangelo di Luca. Giacomo e Giovanni sono già stati introdotti come figli di Zebedeo (e quindi come fratelli) prima in Le 5,10. Ma Andrea è assente da questa versione lucana della chiamatd. iniziale di Pietro, Giacomo e Giovanni dopo la miracolosa cattura di pesci (Le

5,1- 1 1 ). Perciò, quando Luca menziona Andrea, per la prima e unica volta nel (6,14), fornisce la spiegazione che necessariamente aveva omesso quando rinunciò alla versione marciana della chiamata dei primi quattro discepoli (Mc 1 ,16-20): An­

suo vangelo, nell'elenco dei dodici drea era il fratello di Pietro.

I.:esistenxa e la natura dei dcdici

143

Maneo. Invece di Taddeo, menzionato da Marco e Matteo al secondo po­ sto nel terzo blocco di nomi, Luca ha «Giuda di Giacomo» al terzo po­ sto, avendo spostato Simone al secondo posto. Questo stesso . (Poiché i cristiani

sono già presenti nelle città che Pietro visita, la sua visita è tanto 'pastorale' quanto 'missionaria'; Conzelmann parla di «un giro d'ispezione»). Non è certo che il vago dùì

pdnt6n intenda riprendere

quanto precede e includere la. Galilea del v. 3 1 , specialmente perché non c'è un legame diretto tra i due racconti di miracolo in Giudea e il sommario precedente. Nella sua divisione delle pericopi, per osempio,

E. HAENCHEN, Die Apostelgeschichte, 280, unisce il v. 3 1 al racconto di Paolo nel cap. 9

t dopo la persecuzione viene la pace), mentre con il v. 32 inizia una nuova sezione. G. ScHNEIDER, Die

Apostelgeschzchte 2,50 [trad. it., 64] lascia apena la possibilità che dià pàntan si riferisca alle regioni menzionate nel v. 3 1 o a tuue le comunità cristiane che Pietro come 'ispettore di Gerusalemme' sta visitando. In aggiunta, H. CoNZELMANN, sia

a.

persone sia a luoghi.

Acts o/ the Apostles, 76, nota che pàntan potrebbe riferirsi

L:ebreo Gesù e i suoi seguaci ebrei

188

rinto ma neppure qui si iJarla di Galilea. Ciò che è ancora più decisivo è che non si parla mai nel NT di viaggi missionari degli altri membri dei dodici dopo pasqua'", e per niente affatto di una missione coordinata in­ trapresa dai dodici come gruppo. Di qui il problema della teoria della 're­ troproiezione': questa teoria elimina un viaggio missionario dei dodici presente in tutti i tre vangeli sinottici, a favore di un viaggio missionario dei dodici durante i primi giorni della chiesa, per il quale non c'è uno straccio di prova. La spiegazione più semplice e più facile del racconto della missione dei dodici durante il ministero pubblico è che le sue origi­ ni realmente risalgono al tempo della vita di Gesù. Una spiegazione basa­ ta sulla retroproiezione dai primi giorni della chiesa crea più problemi di quanti ne risolva'". (3) Un'ultima considerazione è altrettanto indiretta e solo allusiva, e probabilmente non ha molto peso per alcuni studiosi. Tuttavia, ritengo che sollevi una questione degna di riflessione. Nella prima narrazione marciana, immediatamente dopo l'iniziale proclamazione del regno da parte di Gesù (Mc 1 , 14-15 ) , Gesù chiama al discepolato due coppie di fratelli, prima Pietro e Andrea e poi Giacomo e Giovanni (Mc 1 , 16-20 I l Mt 4,18-22). I n larga misura, le due chiamate sono narrate in maniera pa­ rallela, ma c'è una differenza evidente116• La prima coppia di fratelli, Pie-

'" Molti esegeti interpretano l Cor 9,5 nd senso che Paolo sta menzionando i viaggi (a quanto pa­ re a spese della chiesa) . (Altri esege­ ti, comunque, interpretano il verseuo in riferimento alla siruazione coniugale di alrri missionari con­ frontata con il celibato di Paolo). In ogni caso, come abbiamo già visto, Paolo non dà mai alcuna e­ splicita indicazione di considerare tutti i dodici come 'apostoli'. Di conseguenza, appare discutibile considerare i dodici inclusi qui nel gruppo detto >, o «il

' Alcuni studiosi hanno sviluppato ampie ipotesi a partire dal nome 'Lebbeo', che ricorre in alcuni manoscritti di Marco e Matteo al posto o accanto a 'Taddeo'. È stata suggerita ogni sorta di teoria di equivalenze o sostituzione (o dei nomi semplicemente, o delle reali persone storiche); vedi, p. es., V. TAYLOR, The Gospel According to St. Mark, 233-234; W.D. DAVIES - D.C. ALusoN, The Gospel Ac­ cording to Saint Matthew 2,156; J.F. WATSON, Thaddeus (Person), in Anchor Bible Dictionary 6,435. A mio parere, 'Taddeo' (in se stesso) è la lettura originale di Marco e Matteo. ( l ) In Mc 3,18, 'Lebbeo' si trova solo nel codice di Beza e in alcuni manoscritti della Vetus Latina; dunque, è limitato a una sola parte della cosiddetta tradizione testuale occidentale. Del tutto correttamente, la UBSGNT (4' ed.) assegna alla lezione 'Taddeo' un giudizio 'l'> (certo). (2) In Mt 10,3, le lezioni sono più varie: 'Taddeo', 'Taddeo, chiamato Lebbeo', 'Lebbeo chiamato Taddeo', ecc. Anche se l'attestazione te­ stuale è più confusa, la UBSGNT (4' ed.) giustamente preferisce 'Taddeo' e assegna un giudizio 'B' (quasi certo). A favore del disadorno 'Taddeo' in Mt 10,3, penso si possa argomentare sulla base del­ le conclusioni raggiunte circa le fonti delle liste dei dodici: tranne il caso presente, non c'è ragione per supporre che la lista dei dodici di Maneo derivi da qualche altra fonte oltre quella marciana. Di conseguenza, una volta deciso a favore del semplice 'Taddeo' in Marco, è difficile vedere quale ragio­ ne redazionale abbia condotto M11tteo, senza nessun'altra fonte di fronte a sé, a cambiare •Taddeo' in 'Lebbeo'. È difficile dire se 'Lebbeo' derivi meramente da una confusione scribale nella copia di cerri manoscritti o se difficoltà esegetiche nel conciliare i vari elenchi dei dodici nel NT abbiano portato alcuni amanuensi cristiani a cambiare di proposito il nome. Per la teoria che 'Lebbeo' derivi dal ten­ tativo di introdurre Levi nell'elenco dei dodici (essendo 'Lebbeo' un latinismo per 'Levi'), vedi B. LINDARS, Matthew, Levi, Lebbaeus and the Value of the Westem Text, in NTS 4 ( 1957 -1958) 220-222. In ogni caso, 'Lebbeo' non è originale né nel testo di Marco, né in quello di Matteo; conseguente­ mente non ha rilevanza per la nostra trauazione sull'esistenza storica dei dodici durante il ministero di Gesù. La confusione su Lebbeo nacque tra amanuensi cristiani, non tra ebrei che seguivano Gesù e neppure tra i primi cristiani giudei palesrinesi.

I singoli membri del gruppo dei dodici

203

piccolo», qualunque cosa significhi tU mikrit in Mc 15,40)9• Un'ipotesi più allettante mostra che pure Levi, l'esattore delle tasse, è chiamato «il (fi­ glio) di Alfeo» in Mc 2,14. È, perciò, possibile, benché non dimostrabile, che Levi (chiamato a diventare un discepolo) e Giacomo (chiamato a di­ ventare non solo un discepolo, ma anche uno dei dodici) fossero fratelli. Anche se così fosse, questo non ci dice niente di più, a meno che indulgia­ mo nell'acritica identificazione di Levi, l'esattore delle tasse, con Matteo.

D. MATIEO Come ho sottolineato varie volte, sia il vangelo di Marco sia il vangelo di Luca distinguono tra Levi, un esattore delle tasse che Gesù chiama a diventare discepolo (Mc 2,14 Il Le 5,27), e Matteo, che ricorre negli elen ­ chi dei dodici, che non ha alcuna descrizione oltre al suo nome e del qua­ le non si sa nient'altro (Mc 3,18 Il Le 6,15). È il vangelo di Matteo che crea un riferimento incrociato e un'identificazione, innanzi tutto cam­ biando il nome di Levi in Matteo nel racconto della chiamata da parte di Gesù di un esattore delle tasse (Mt 9,9) e poi aggiungendo al nome di Matteo, nell'elenco dei dodici, la descrizione «l'esattore delle tasse» (Mt 10,3 ). Indipendentemente dai motivi che hanno spinto il primo evangeli­ sta ad attuare le sue alterazioni editoriali, il cambio di nomi è un inter­ vento redazionale di un evangelista cristiano verso la fine del sec. I e non ci dice nulla circa un membro originario dei dodici di nome Matteo10•

' Tutto quanto sappiamo su «Giacomo il minore» è riassunto in un venetto del NT, vale a dire Mc 15,40: una delle donne che stavano a una certa distanza dalla croce di Gesù era «Maria la madre di Giacomo il minore e Ioses [= Giuseppe]�). «Giacomo il minore e Ioses» non sono da identificare con Giacomo e !oses menzionati come fratelli di Gesù in Mc 6,3. In base alla critica della redazione e del­ la narrazione, ci si deve chiedere perché Marco attribuisca l' appelladvo distintivo 'il minore' al Gia como di 15,40. I:unica risposta ragionevole è: per distinguerlo da altre persone di nome Giacomo già menzionate nella narrazione, vale a di re Giacomo, il figlio di Zebedeo, e Giacomo, il fratello di Ge­ sù. Dato che Marco ha già artribuito a quest'ultimo Giacomo un'identità chiarissima e solenne (il fra­ tello di Gesù), come si può supporre che il lettore del vangelo di Marco sapesse che il Giacomo di 6,3 doveva essere idemificato con un Giacomo che, in 15 ,40, è designato con un titolo completamen­ te differente? E quale sarebbe stato lo scopo di Marco nell'introdurre un titolo nuovo e poco chiaro per la stessa persona? Piuttosto, per chiarire al lettore che in 15,40 si intendeva lo stesso Giacomo di 6�, Marco avrebbe dovuto usare l'espressione «il frateUo di Gesù» in 15,40, oppure ripetere i nomi di tutti i quattro fratelli elencati in 6,3. Sull'intera questione, vedi Un ebreo margino/e 1,308, n. 21. " Su questo, vedi J.P. MEIER, The Vision o/ Motthew, Theological lnquiries, Paulist, New York!Ramsey, NJ!Toronto 1979, 23-25. ­

.

I.:ebreo Gesù e i suoi seguaci ebrei

204 E. FILIPPO

Filippo ci presenta un modello interessante. Nei sinottici e in Atti, non ricorre mai come singola persona fuori dalle liste dei dodici. È, invece, u­ no dei più distinti discepoli nel vangelo di Giovanni, e appare general­ mente in compagnia di Andrea. Filippo è probabilmente il compagno a­ nonimo di Andrea nell'episodio in cui Giovanni Battista indica Gesù a due suoi discepoli (Gv 1 ,35 -40.43-44)". Se è così, Filippo insieme con Andrea è presentato come un ex discepolo del Battista, che si lega poi a Gesù. Di Filippo si dice che è di Betsaida, «la città di Andrea e Pietro» ( 1 ,44) spiegando così perché Filippo sarebbe stato regolarmente un compagno di Andrea". Filippo e Andrea insieme svolgono un ruolo nella versione di Giovanni - e solo nella versione di Giovanni - del nutrimento dei cinquemila (6,6-9). Poiché entrambi portano nomi greci, e non ebrai­ ci o aramaici, Filippo e Andrea si distinguono nel gruppo dei dodici. Questo può spiegare perché alcuni pellegrini greci (cioè, non ebrei), arri­ vando a Gerusalemme per la pasqua, si fossero avvicinati a Filippo per chiedere un colloquio con Gesù e perché Filippo avesse preso con sé An­ drea per presentare la richiesta a Gesù (12,20-22). All'ultima cena, Filip­ po appare brevemente come interlocutore quando dice a Gesù (14,8): «Signore, mostraci il Padre e questo ci basta>� . Quest'ultimo passo ci mette in guardia che Filippo, come chiunque al­ tro nel vangelo di Giovanni, può fungere da portavoce o simbolo della teologia giovannea. Filippo sembra convenientemente e strategicamente collocato nei punti chiave durante il ministero pubblico, apparendo con Andrea al suo inizio (cap. 1), nel mezzo (cap. 6) e alla fine (cap. 12). Non si può fare a meno di percepire qui l'abile mano teologica dell'evangeli­ sta. Di conseguenza, è difficile sapere quanto dello speciale materiale gio-

" Su questa possibilità, vedi Un ebreo marginak 2, 162, n. 68; anche R SCHNACKENBURG, Il vange­ lo di Gùwanni. Parte prima, 433 -444. " Sui problemi geografici e politici nella localizzazione della Betsaida del NT, vedi Un ebreo margi­ n4/e 2,822-827; sugli scavi a Betsaida, vedi H.- W. KUHN - R. ARAV, The Bethsaùia Excavations: Histo­ rical and Archaeologù:al Approaches, in The Future of Early Christiamty, Helmut Koester Festschrift, Fortress, Minneapolis 1991, 77-106. Poiché Plinio nella sua Naturalis historia, Eusebio e Girolamo,

tutti si riferiscono a Betsaida come se fosse in Galilea, anche se, strettamente parlando, era appena fuori della Galilea, sul versante nord-est del Mare di Galilea, leggermente a est del fiume Giordano, Giovanni non può essere accusato con troppa severità per aver usato un modo impreciso, popolare, di riferirsi alla città. Sul problema della tradizione giovannea di Betsaida come la città di Pietro, ri­ spetto alla tradizione marciana di Cafamao, vedi la successiva tranazione di Pietro.

I singoli membri del gruppo dei dodici

205

vanneo su Filippo possa risalire a un'informazione attendibile su di lui, circolante nella chiesa primitiva. Poiché nessun dato teologico particolare sembra motivare le asserzioni che Filippo era di Betsaida e che era com­ pagno di Andrea, possono essere notizie interessanti di una tradizione storica. Alcuni studiosi sono propensi tuttora ad ammettere che Filippo, insieme con Andrea e Pietro, possa aver incontrato Gesù per la prima volta nella cerchia dei discepoli del Battista. Data la rivalità tra i cristiani giovannei e i seguaci del Battista, esistente verso la fine del sec. I, l'idea che alcuni dei discepoli più vicini a Gesù (e implicitamente Gesù stesso) fossero precedentemente discepoli del Battista, sarebbe una strana tradi­ zione del quarto evangelista, senza alcun fondamento". Anche se accettassimo questi dati come storici, ci direbbero molto po­ co sulla persona di Filippo. Nulla sappiamo della sua attività nella chiesa primitiva. Non è da identificare con il Filippo, uno dei sette capi degli el­ lenisti (At 6,5; 8,4-13 .26-40; 2 1 ,8-9). Una confusione tra i due Filippo può aver avuto inizio al tempo di Papia, un Padre della chiesa, nel sec. II.

f. ANDREA

La nostra trattazione su Filippo nel vangelo di Giovanni includeva le tre volte che appare con Andrea; di conseguenza è conveniente discutere qui Andrea. Questo può sorprendere il lettore che avrebbe potuto atten­ dersi che Andrea fosse trattato successivamente accanto a suo fratello Pietro. Strano a dirsi, comunque, il NT non colloca regolarmente Andrea in compagnia di Pietro". È Marco che più frequentemente congiunge Andrea a Pietro, ma anche in Marco i casi sono relativamente rari. Gesù chiama insieme Pietro e Andrea a diventare «pescatori di uomini» in Mc 1,16- 18 Il Mt 4,18-20. Comunque, non c'è un simile accoppiamento nella

" Su tutta la questione, vedi Un ebreo 111/Jrgina/e 2, 155-178.

14

Se si considera che nella tradizione sinottica Pietro è raramente associato ad Andrea dopo la loro iniziale vocazione e non è mai legato a lui in nessuna informazione che abbiamo dalla chiesa primiti· va, proprio questo silenzio può essere il miglior argomento a favore della storicità dell'affermazione che Andrea fosse collegato a Pietro, nella vocazione iniziale, da parte di Gesù - sia che si segua Mc l o Gv

l. Per Andrea, vedi D.R. MACiloNALD, Andrew (Perron), in Anchor Bible Dich(mary 1,242·244. Brother o/ Simon Pet" Hir Hùtory and Legends, NovTSup

Come osserva P.M. PETERSON, Andrew,

l , Brill, Leiden 1958, 17·23, la tradizione cristiana orientale che collega Andrea a Bisanzio (successi· vamente Costantinopoli) non è più antica del sec. VIII

o

IX. Peterson ritiene anche che i riferimenti

ad Andrea nel vangelo di Giovanni siano leggendari (p. 47).

206

I:ebreo Gesù e i suoi seguaci ehm

storia equivalente di Luca della pesca miracolosa (5, 1 - 1 1 ) , dove Andrea è vistosamente assente quando Giacomo e Giovanni sono designati come soci di Sirnone (Pietro), in Le 5 , 10 . Marco - e solo Marco - menziona pu­ re Andrea in compagnia di Pietro, Giacomo e Giovanni all'inizio della guarigione della suocera di Pietro (1,29). Ad eccezione della lista dei no­ mi dei dodici (Mc 3 ,18), Andrea scompare dal resto del ministero pubbli­ co in Marco. Alla fine del ministero pubblico, Marco riporta Andrea (13,3 ) in compagnia di Pietro, Giacomo e Giovanni all'inizio del discorso escatologico di Gesù nel cap. 13, creando così un'inclusione con il rac­ conto di vocazione iniziale. A parte pochi paralleli alle pericopi marciane in Matteo e Luca e a parte le quartro liste dei dodici, Andrea non figura da nessun'altra parte nei si­ nottici e in Atti. Data la preminenza di Pietro e Giovanni nei primi capitoli di Atti (dr. Gal 2,9), nonché il racconto del martirio di Giacomo, il fratello di Giovanni, in At 12,2, è degno di nota che Andrea sparisca completa­ mente da Atti e, conseguentemente, dalla storia della chiesa primitiva do­ po che il suo nome è elencato tra gli undici in At 1,13. Così, diversamente dai due figli di Zebedeo, che sono regolarmente menzionati insieme, Pie­ tro normalmente appare nel NT senza alcuna menzione di Andrea. Di fat­ to, eccetto che nel vangelo di Giovanni, Andrea è in pratica ignorato.

G. TOMMASO Tommaso riflette lo stesso strano modello che abbiamo osservato con Filippo (e, a un grado minore, con Andrea): nei sinottici non ricorre mai fuori delle liste dei dodici, mentre riceve una certa preminenza nel vange­ lo di Giovanni. Diversamente da Filippo, comunque, affiora relativamen­ te tardi nel quarto vangelo, quasi alla fine del ministero pubblico. Non è mai menzionato prima della narrazione della risurrezione di Lazzaro, nel cap. 1 1 . Anche poi, appare solo in un singolo versetto. In risposta all'an­ nuncio di Gesù che, nonostante il pericolo, maestro e discepoli torneran­ no in Giudea, Tommaso fa la tragica e involontariamente ironica osserva­ zione ( 1 1 , 16): «Andiamo anche noi a morire con lui». Tommaso, poi, scompare dalla narrazione, per riaffiorare solo nell'ultima cena, come u­ no degli interlocutori di Gesù. Nello stile lamentoso che sembra proprio di Tommaso nel vangelo di Giovanni, Tommaso obietta alla misteriosa af­ fermazione che i discepoli conoscono la via che Gesù sta per prendere. Tommaso protesta (14,5): «Signore, non sappiamo dove vai. Come pos-

I si,go/i membri del gruppo dei Jcdici

207

siamo conoscere la via?». Questo fornisce la 'situazione' perfetta per una delle grandi dichiarazioni 'lo sono' di Gesù (14,6): «lo sono la via, la ve­ rità e la vita>>. Tommaso scompare di nuovo fino alle narrazioni delle ap­ parizioni dopo la risurrezione. Qui incontriamo la famosa storia del dub­ bioso Tommaso che, avendo perso la prima apparizione di Gesù risorto ai suoi discepoli, ostinatamente domanda una prova sensibile della risur­ rezione. Quando il risorto Gesù gli offre proprio quella, Tommaso ri­ sponde con la confessione cristologica, posta al vertice della narrazione e­ vangelica (20,28): «Mio Signore e mio Dio!>>. Dopo questo vertice teolo­ gico, la menzione di sfuggita di Tommaso in 2 1 ,2 è anticlimatica - com'è, di fatto, una buona parte dell'epilogo nel cap. 2 1 . Ancora più di quanto accada con Filippo, tutti i passi nel quarto van­ gelo che coinvolgono Tommaso hanno tutta l'aria di essere a servizio del­ la teologia dell'evangelista. Questo è il caso di 1 1 , 16, che l'analisi lettera­ ria ha mostrato essere un'aggiunta redazionale a un racconto primitivo della risurrezione di Lazzaro". Soprattutto in 14,5 emerge chiaramente che interventi di Tommaso fungono da spunti ironici o introduzioni alle affermazioni rivelatorie di Gesù. Quanto alla grande dichiarazione cristo­ logica in 20,28, essa rappresenta il coronamento della cristologia alta del­ la preesistenza e dell'incarnazione, caratteristiche del quarto vangelo. A modo di inclusione, 20,28 si ricollega al prologo del vangelo, che per due volte chiama la Parola «Dio>> ( 1 , 1 . 18). Così, tutte le apparizioni di Tom­ maso nel vangelo di Giovanni sono ampiamente modellate, se non total­ mente create, dall'evangelista. Il solo dettaglio interessante che potrebbe contenere un'utile notizia d'informazione storica su Tommaso è collegato al nome di Tommaso. Tre volte ( 1 1 , 16; 20,24; 2 1 ,2 [redattore finale] ), il quarto vangelo traduce la parola ebraica (team) o aramaica (te'ama') per 'Tommaso' nell'equiva­ lente greco didymos, che significa 'gemello'. Nel sec. I d.C., queste parole ebraiche e aramaiche erano nomi comuni che non erano regolarmente u­ sati come nomi personali; il greco didymos, invece, era utilizzato come nome proprio'". (Questo aiuta a spiegare il riferimento ridondante, negli scritti cristiani, a 'Didimo Tommaso') . Può essere, dunque, che la desi-

" Vedi l'analisi del racconto di Lazzaro in Un ebreo marginale 2. 971- 1005; per il v. 16, vedi p. 982. 16 L a questione è ulteriormente complicata dal fatto che, mentre •Tommaso' non era regolarmente usato come nome proprio in ebraico o in aramaico, il greco ThOmcir era usato come nome proprio in regioni di lingua greca. Forse, come suggerisce R.E. BROWN, The Gospel Acrording to fohn 1,424 [trad. it 5501. il nome greco ThOmas, per la sua somiglianza al nome semitico, era adottato da ebrei in regioni in cui parlavano greco. ..

208

I.:ebreo Gesù e i suoi segUIICi ebrei

gnazione ebraica o aramaica 'Tommaso' fosse in effetti il secondo nome Q il soprannome di una persona di cui non conosciamo il nome effettivo. Strano a dirsi, nonostante l'insistenza di Giovanni nel tradurre il nome tre volte, non ci viene mai detto chi fosse il gemello di Tommaso. L'imma­ ginazione cristiana, stimolata dalla triplice traduzione e dal misterioso si­ lenzio, ben presto rimediò alla svista. Diventando un preferito di gruppi gnosticizzanti, l'enigmatico Tommaso, identificato con Giuda, fu dichia­ rato fratello gemello di Gesù stesso - un'identificazione abbastanza sem­ plice per un movimento religioso che aveva cara un'identificazione misti­ ca, o addirittura panteistica, del salvato con il salvatore. Nei circoli gno­ stici sorse una vera e propria 'scuola' di Tommaso, generando numerosi libri, di grande interesse, ma totalmente privi di dati storici sul membro dei dodici chiamato Tommaso". Infme, se mettiamo da parte la teologia giovannea e le successive leggende gnostiche, non sappiamo quasi niente del Tommaso storico, per non parlare del suo gemello storico.

" D materiale di Nag Hammadi su Tommaso comprende il

Vangew copto di Tommaso dd sec. II e

Il libro di Tommaso il contendente dd sec. III: entrambi riflettono un'opinione negativa della materia

e della sessualità e favoriscono, perciò, un ascetismo radicale. Le stesse caratterizzazioni ricorrono negli Atti di Tommaso del sec. III, originariamente composti in siriaco. Sulla 'scuola di San Tomma· ' so , vedi B. LAYTON, The Gnostic Scriptures, Doubleday, Garden City. NY 1987, 359-365. Che «Giu· da Tommaso (chiamato anche Didimo)» sia il fratello gemello di Gesù è chiaramente asserito in Tom. Cont. 138,7-19; Atti di Tommaso, capp. I l , H e 39. Invece, l'idea è al massimo soltanto insinuata nel Vangelo copto di Tommpso che, piunosto, presuppone la •consustanziale' identità di ogni persona sal­ vata (sicuramente, includendo Tommaso) con il salvatore, poiché l'essere imeriore di ogni persona salvata è divino. È singolare che nell'unica opera della 'scuola di San Tommaso', datata chiaramente

al sec. II, il Vangelo copto di Tommaso, Tommaso sia in effetti una figura periferica che non sembra far parte dd materiale tradizionale nel libro. Egli è introdotto come l'autore dell'opera nella frase di apertura chiaramente redazionale, ma ha un ruolo preminente in un solo altro /6ghion, il lungo detto 13, in cui sono menzionati anche Simon Pietro e Matteo, ma Tommaso è esaltato come il possessore della conoscenza segreta della natura di Gesù. Questo lòghion contrasta con il lòghion immediata­ mente precedente, il detto 12, in cui Giacomo il giusto (il fratello di Gesù) è esaltato come il leader dei discepoli dopo la morte di Gesù. Su questo contrasto, vedi G. QUISPEL, 'The Gospel o/ Thomas' and the 'Gospel of the Hebrew', in NTS 12 (1%5-1966) 371·382, specialmente 380. Di conseguenza, il Vangelo di Tommaro, l'opera apocrifa più antica e gnosticizzante che fu posta sotto il nome di Tom­ maso, non presenta una tradizione realmente radicata in quella persona e non inculca chiarameme l'idea che Tommaso sia il fratello gemello di Gesù. Come è già stato notato, la lettura 'Giuda Tom· maso' in alcuni testi siriaci di Cv 14,25 può riflettere anche lo sviluppo della leggenda di Tommaso come fratello gemello di Gesù, se il 'Giuda' menzionato nel testi è da intendere come Giuda fratello di Gesù. Come fa notare Quispel (ibid., p. 380), è sorprendente vedere uno studioso attento come H KoESTER, Gn6mai diaphoroi. The Origin and Nature of Diversrfication in the History of Early Chri­ stianity, in HTR 58 ( 1%5) 279-318, specialmente 2%-297 , favorire l'idea che il cristianesimo giun· gesse a Edessa attraverso l'opera di Tommaso, che era, in realtà, Giuda, il fratello gemello di Gesù. È incredibile come si possa essere tanto scettici sul Gesù storico e, poi, così creduloni sul fratello ge· mello di Gesù, Giuda Tommaso.

I singoli membri del gruppo dei dodici

209

H. S!MONE

Simone il Cananeo (o lo Zelota) ha una somiglianza con Tommaso: tut­ to quanto si può sapere di lui è nascosto in un enigmatico secondo nome o appellativo1'. Infatti, Simone il Cananeo non appare mai al di fuori dd­ le liste dei dodici, replicando, così, la rarità di Tommaso nei vangeli sinot­ tici e in Atti. La nostra sola speranza d'imparare qualcosa su Simone de­ riva dalla descrizione di lui come ho Kananaios (usualmente tradotto co­ me «il Cananeo») in Mc 3,18 Il Mt 10,4 e come ho zelotés (usualmente tra­ dotto come «lo Zelota») in Le 6,15 Il At 1 , 1 3 . Praticamente tutti gli stu­ diosi concordano che Simone «il Cananeo» e Simone «lo Zelota» siano la stessa persona, dato che 'Zelota' è una traduzione greca (zelotés) della pa­ rola aramaica per 'zelante' o 'geloso' (qan'iinii'), rappresentato dalla tra­ slitterazione 'Cananeo'. Questa differenza nel presentare la designazione in greco rispecchia abbastanza bene la normale pratica degli evangelisti quando hanno a che fare con parole semitiche. Qui, come altrove, Marco e Matteo non evitano di traslitterare una parola aramaica in greco. Secon­ do il suo solito, Luca evita la parola semitica legata al nome di Simone e fornisce, invece, una traduzione in greco, una traduzione che forse già e­ sisteva nella tradizione L della lista dei dodici. Senza dubbio, entro la cerchia dei dodici, la designazione qan'iinii' ave­ va lo scopo pratico di distinguere questo Simone dal capo del gruppo, l'altro Simone, che pure portava un secondo nome aramaico, ki!pii' (= Ce­ fa, Pietro). Ma, più precisamente, che significava in origine qan'iinii', uni­ to al nome di Simone «il Cananeo»? Ci si imbatte talvolta nella tesi, più spesso affermata che dimostrata, che Simone fosse o fosse stato un mem­ bro degli zeloti, un gruppo organizzato di ultranazionalisti, combattenti per la libertà, che combatteva contro le forze di occupazione romane. 18

n primo nome, 'Simone (greco SimOn]' era un nome greco ordinario, usato dagJi ebrei che parla­

vano greco intorno al volgere deU'era, per rendere il nome semitico Sim'On, che aveva un suono simi­

Symeon, benché alcuni libri 2 Maccabei) usino l'originaria fonna greca Simon. La tendenza è esattamente opposta nel NT: regolannente ricorre nel NT la fonna greca Simon, mentre l'uso di Sy­ meOn è relativamente raro, e ricorre solo in libri recenri del NT e solo in riferimenri all'AT o in passi dal tono solenne o semitizzante: Le 2.25.34; 3,30; At lJ,I; 15,14; 2 Pt 1 , 1 ; Ap 7,7. L'ebraico Sim'6n e la sua traslitrerazione greca Syme&n sono resi con 'Simeone' in molte traduzioni, mentre il greco Sim6n è reso con 'Simone'. Seguo questa convenzione nei miei riferimenti a Simone lo Zelota e a Si· mon Pietro. Vedi J .A. FiTzMYER, AramtJic Kepha' and Peter's Name in the New Testament, in Text and Interpretation, Matthew Black Festschrift, edd. Emest Best e R MeL. Wilson, Cambridge Uni­ versity, Cambridge 1 979, 121-132 (= To Advance tbe Gospel, Crossroad, New York 1981, 1 12- 124). le. I LXX rendono nonnalmente il nome semitico con la fonna greca

deuterocanonici recenti (Siracide. l

e

210

I.:ebreo Gesù e i suoi seguaci ebrei

Talvolta questa dubbia interpretazione, poi, è stata sfruttata per�ggerire che Gesù fosse uno zelota, o almeno avesse simpatia per la causa degli ze­ loti, pur senza impegnarsi forse nella lotta armata19• Benché popolare per la sua 'attualità', questa tesi è assai discutibile. Come hanno correttamen­ te dimostrato Morton Smith e Shaye Cohen, la fazione rivoluzionaria or­ ganizzata, che Flavio Giuseppe chiama gli 'zeloti', si costituì solo durante la prima guerra giudaica, specificamente durante l'inverno del 67-68 d.C. a Gerusalemme". Considerare Simone il Cananeo uno 'zelota' nel senso

" Uno dei più famosi sostenitori di quest'opinione fu S.G.F. BRANDON, ]esus and the Zealots. A Study of the Politica! Factor in Primitive Christianity, Manchester University, Manchester 1967. Sulla relazione di Gesù con la situazione politica della Palestina ebraica, vedi i saggi raccolti in ]esus and the Politics of His Day, edd. Emsr Bammel e C.F.D. Moule, Cambridge University, Cambridge 1984. In particolare, si veda ].P.M. SWEET, «The Zealors and Jesus», pp. 1 -9; E. BA MMEL, «The Revolurion Theory from Reimarus to Brandon», pp. 1 1-68; G.M. STYLER, «Argumentum e silenrio», pp. 101107; E. BAMMEL, «The Poor and the ZealotS», pp. 109- 128. In alcuni di questi saggi si nora l'assenza di una esorta defmizione di chi fossero precisamente gli zeloti. "' Su questo, vedi M. SMITII , Zealots and Sicarii. Their Origllrs and Relatron, in HTR 64 (1971) 1 19; S.J.D. CoHEN, ]osephus in Galilee and Rome, Columbia Srudies i n the Classica! Tradition 8, Brill, Leiden 1979; Io., From the Maccabees lo the Mishnah, Library of Early Chrisrianity 7, Westminster, Phi1adelphia 1987, 164-166; vedi anche j.A. FITZMYER, The Gospel According to Luke 1,619. Una uri­ le rassegna sull'intera questione degli zelori e le altre fazioni coinvolte nella prima guerra giudaica (il governo provvisorio sorro l'aristocrazia sacerdotale e laica, i sicari. il gruppo guidato da Giovanni di Giscala, e quello guidalo da Simone bar Giora) e sul più ampio problema dei movimenri rivoluziona­ ri ebraici in Palestina, vedi D. RHOADS, Zealots, in The Anchor Bible Dictionary 6,1043-1054, con un'utile bibliografia. Le opere principali sulla questione, che rappresentano un ampio spettro di opi­ nioni, includono F.J. FOAKES }ACKSON - K. LAKE, The Zealots, in The Beginmngs of Christianity. Part I. The Acts of the Apostles. Voi I, edd. F.J. Foakes Jackson e Kirsopp Lake, Baker, Grand Rapids 1979 (or. 1920) 42 1 -425; W.R FARMER, Maccabees, Zealots, and ]osephus. An Inquiry into ]ewish Na­ tionalism in the Greco-Roman Period, Greenwood, Westport, CT 1973 (or. 1956); S.G.E BRANDON, ]esus and the Zealots; O. CULLMANN, ]esus and the Revolutionaries, Harper & Row, New York 1970; M. HENGEL, Was ]esus a Revolutionist?, Fortress, Philadelphia 1971; ID., Victory over Violence, For­ tress, Philadelphia 1973; ID., The Zealots, Clark, Edinburgh 1989 [trad. it., Gli Zeloti. Paideia, Bre· scia 1996]; D. RHOADS, Israel in Revolution: 6-74 C.E., Fortress, Philadelphia 1976; J.-ALFRED Mo­ RIN, Les deux derniers des Douze: Simon le Zélote et ]udas Iskarioth, in RB BO ( 1 973) 332-358; D. Hll.L, ]esus and ]osephus 'MessriJnic Prophets', in Text and Interpretation, Matthew Black Festschrift, edd. E. Best e R. MeL. Wilson, Cambridge University, Cambridge 1979, 143-154; E. ScHORER, The History o/ the ]ewùh People in the Age o/]esus Christ, 4 voll., riveduti ed editi da Geza Vermes, Fer· gus Millar e Matthew Black, Clark, Edinburgh 1973-1987, 2,598-606 [trad. it., II, 7 14-722] ; S. FREY· NE. Galilee /rom Alexa,der the Greot lo Hadria,.· 323 B.C. E. lo 135 CE., Center for the Srudy of Ju· daism and Christianiry in Antiquity 5, Universiry of Notre Dame, Notre Dame, IN; Glazier, Wil­ mington, DE 1980; T. RAJAK, ]osephus. The Historian and His Soczety, Fortress, Philadelphia 1983; RA. HORSLF.Y - ].S. HANSON, Bandits, Prophets, and MewiJhs, Seabury, Minneapolis 1985 [rrad. ir., Banditi, profeti e messia, Paideia, Brescia 1995]; R. A. HORSLEY, ]esus and the Spirai o/ Violence, Har· per & Row, San Francisco 1987; M. GooDMAN, The Ruling Class o/]udaea, Cambridge University, Cambridge 1987 [trad. it., ]udaea capta. Il ruolo dell'élite ebraica nella rivolta contro Roma, ECIG, Genova 1995]; L.L. GRABBE, ]udaism /rom Cyrus lo HadniJn. Volume Two: The Roman Penod, For-

l singoli membri del gruppo dei dcdici

211

stretto di un membro di questo gruppo organizzato di ribelli armati è del tutto anacronistico. L'attribuzione degli evangelisti del nome 'Zelota' o 'Cananeo' a Simone riflette, invece, un più antico e più ampio uso del termine qan 'iinii': un e­ breo assai zelante nella pratica della Legge mosaica e impegnato affinché i suoi fratelli ebrei osservassero con rigore la Legge come mezzo per di­ stinguere e separare Israele, il popolo santo di Dio, dall'idolatria e dal­ l'immoralità praticata dai vicini pagani. A parere di studiosi come J.-Al­ fred Morin, 'zeloti' agli inizi del sec. I d.C. erano ritenuti giudei rigoristi, disposti a usare la violenza per imporre la separazione d'Israele dai paga­ ni. A imitazione di eroi israeliti come il sacerdote Finees, il profeta Elia, il re Jeu e il sacerdote Mattatia, questi rigoristi punivano o addirittura giu­ stiziavano quegli ebrei che, ai loro occhi, erano infedeli alla Legge mosai­ ca21. Finees fu, probabilmente, il modello più significativo per questa tra­ dizione 'zelota'; oltre a Simone il Cananeo, nel giudaismo pre-rabbinico, il solo caso di un singolo israelita che portasse anche il nome di 'Zelota' si trova in 4 Mac 1 8, 12 , dove Finees è chiamato «lo zelota Finees» (tòn

zilotèn Phinees). Anche se singoli zeloti sostenitori della Legge potevano, a volte, sfoga­ re la loro collera contro i pagani, specialmente con gli odiati dominatori romani, la loro 'via della giustizia' era orientata principalmente contro gli ebrei 'apostati'. Filone di Alessandria parla di miriadi di ebrei che sono attenti «zeloti delle leggi [zilotài n6miin] , senza pietà nei confronti di quelli che cercano di annullarle» (De specialibus legibus 2,46 § 253 ) . Que­ sta tensione all'interno verso altri ebrei, piuttosto che una spinta all'ester­ no verso Roma, deve essere stata specialmente forte in Galilea durante il ministero di Gesù, perché la Galilea non era governata direttamente da un governatore romano ma da un principe ebreo, il tetrarca Erode Anti­ pa, che fu in genere sufficientemente intelligente da non offendere le sen­ sibilità religiose dei suoi sudditi ebrei. Inoltre, Erode Antipa possedeva un proprio esercito e imponeva proprie tasse. Di conseguenza, non ha senso parlare di galilei zeloti al tempo del ministero di Gesù, che presero

tress, Minneapolis 1992, 457 -459; M. BOI-IRMANN, Flavius ]osephus, the Zealots and Yavne, Lang, Bern 1994. " Pure Simeone e Levi, i figli di Giacobbe, sono menzionati in questa tradizione !cfr. Gew 34,2531 e il giudizio negativo in Gen 49,5-7); su questo vedi W.R. FARMER, Zealot, in IDB 4,936-939. Testi importanti, che fanno esplicito riferimento allo 'zelo' nelle azioni violente di questi eroi, includono Nm 25,10-13 (Finees); Sir 45,23-24 (Finees); l Mac 2,54 (Finees); I Mac 2,15-28 (Mauatia); Sir 48,2 (Elia); Giubilei 30,5-20 (Levi); Gdt 9,2-4 (Simeone).

2 12

L'ebreo Gesù e i suoi seguaci ebrei

le anni contro le legioni romane che occupavano il loro paese. Tranne che in periodi di crisi militare, non c'erano legioni romane nella Galilea di Erode alle quali Simone o altri supposti 'zeloti' dovessero opporsi22• In realtà, non è necessario supporre che tutti gli ebrei 'zeloti' si costi­ tuissero come giudici, servendosi della legge per punire gli ebrei 'aposta­ ti'. Quest'idea di giustizia cenamente non è l'unico significato di 'zelo' o 'zelota' che ricorre in vari passi del NT. Per esempio, del sommo sacerdo­ te e delle altre autorità di Gerusalemme si dice che sono «pieni di zélos>> (qui, nel senso di 'gelosia' ), quando arrestano gli apostoli (At 5,17). Così un racconto autobiografico: due volte nelle sue lettere (Ga/ 1 , 13-14; Fil 3 ,6), Paolo designa se stesso come 'zelante' o come uno 'zelota' (zélotés) nella sua osservanza della tradizione ancestrale giudaica. In ciascun caso, il contesto menziona la sua persecuzione della chiesa primitiva". Anche Luca riecheggia questo tema nella sua presentazione di Paolo, infatti il Paolo lucano chiama se stesso «uno zelota di Dio» (At 22,3 ) , che perse­ guitava la chiesa (22,19) . Se il resoconto lucano sul periodo pre-cristiano di Paolo presenta una qualche aderenza alla realtà storica, la persecuzio­ ne di Paolo nei confronti degli ebrei cristiani consistette nell'osservanza di un mandato legale da lui ricevuto e non nella giustizia sommaria di un giudice auto-nominato (At 9 , 1 -2). In ogni caso, è chiaro che il fanatismo nel NT non sempre significava una ribellione armata contro Roma o una giustizia esercitata al di fuori della legalità. Di fatto, non sempre compor­ tava qualche sona di violenza. Per esempio, in At 2 1 ,20, Giacomo e gli anziani di Gerusalemme informano Paolo che molti ebrei cristiani nella città santa sono «zeloti della Legge» (zélotài tu n6mu). In termini ancora più generali, Paolo può affermare che gli ebrei, nell'insieme, hanno zelo (zélon) per Dio (Rom 10,2), il che difficilmente significa che tutti gli ebrei vogliono prendere le armi contro compatrioti ebrei o contro Roma. Ma, per tornare al caso particolare di Simone lo Zelota: all'inizio del sec. I d.C., qualunque pio ebreo che fosse zelante della stretta osservanza

" Spesso collegato con un'erronea idea di 'zeloti', è il quadro assai dubbio della Galilea al tempn di Gesù, come un calderone costantemente uaboccante di fervore rivoluzionario. Contro cale opinio­ ne è S. F'REYNE, Galilee /rom Alexander the Greal lo Hadrian, 208-255; cfr. Un ebreo marginale 1,293-

294. " Sullo 'zelo' sul modello di Finees e sul Paolo pre-cristiano, vedi M. HENGEL, Lz storiografi;J pro­ tocristiana, Paideia, Brescia 1985. 1 13-1 15; T.L. DoNALDSON, Zealot and Converl: The Origin o/ Pau/'s Christ-Torah Antithesis. in CBQ 5 1 ( 1 989) 655-682; J. BECKER, Paolo l'apostolo dei popoli, Queriniana, Brescia 1996 (or. ted. 1989), 74-77. Uno studio che passa troppo rapidamente dalle tra· dizioni zelote in senso ampio al movimento zelota è M.R. FAIRCHILD, Paul's Pre-Chnstian Zealot As· sociations: A Re-examination o/ Gal l. /4 and Acts 22.3, in NTS 45 (1999) 5 14-532.

I singoli membri del gruppo dei dodici

213

della Legge mosaica, che pubblicamente assillasse gli ebrei non osservanti e tentasse di costringerli o di riportarli all'osservanza e che fosse tenace­ mente contrario ad accogliere influenze pagane nella vita degli ebrei pale­ stinesi, poteva ben meritare il titolo di 'zelota' dai suoi correligionari esti­ matori. Di fronte ai vari significati di 'zdo' e 'zdota' nel NT, non possia­ mo determinare con esattezza come Simone abbia manifestato il suo zelo e fino a che punto il suo zelo implicasse la violenza; tuttavia possiamo certamente escludere l'ipotesi anacronistica di una sua appartenenza al gruppo organizzato degli zeloti descritto da Flavio Giuseppe. In un certo senso, la natura precisa dello zelo di Sirnone non ci riguar­ da. Ciò che è importante per la nostra comprensione dei gruppi intorno a Gesù è il fatto che la chiamata di Simone al discepolato e, poi, la parteci­ pazione al gruppo dei dodici richiese un cambiamento fondamentale nel suo modo di vedere e nelle sue azioni. Senza dubbio, questo valeva, in un modo o in un altro, anche per il resto dei dodici. Nondimeno, il cambia­ mento nel caso di Simone deve essere stato specialmente stridente. Dopo tutto, Gesù insisteva nel frequentare persone religiosamente 'sconvenien­ ti' del giudaismo palestinese, «gli esattori delle tasse e i peccatori» (Mc 2,15-17). Gesù stava a tavola con loro tanto regolarmente e apertamente al punto da essere deriso da alcuni ebrei rigidamente osservanti come «un mangione e un beone, amico degli esattori delle tasse e dei peccato­ ri» (Mt 1 1 ,19 par.). Oltre a condividere la stessa mensa, Gesù chiamò al­ meno un esattore delle tasse, Levi, al discepolato (Mc 2 , 14; cfr. Le 19, 1 10), proprio come aveva chiamato Simone lo Zelota al discepolato2'. Il seguito di Gesù, costituito da esattori delle tasse, peccatori e Simone lo Zelota ci rivela qualcosa su Gesù e sui suoi seguaci. L'evidente 'miscu­ glio' di seguaci di Gesù rispecchia perfettamente l'estensione della chia­ mata del Nazareno a tutto Israele, il popolo di Dio che stava per essere raccolto e ricostituito nelle dodici tribù della fine del tempo. Non c'era spazio per un angusto settarismo o un esclusivismo puritano in questa prospettiva escatologica. La chiamata inclusiva di Gesù alla comunità, corrispondentemente, richiedeva un nuovo atteggiamento da parte di quanti accettavano la sua chiamata: Simone doveva accettare l'ex esattore delle tasse, Levi, come suo condiscepolo, proprio come Levi e gli altri do­ vevano imparare a vivere con Simone. La proclamazione del regno da parte di Gesù, che intendeva abbracciare tutto Israele, non lasciava spa-

" Sulla documentazione relativa alla condivisione di mensa da pane di Gesù con gli esanori delle tasse e i peccatori, vedi Un ebreo marginale 2. 1225- 1226, n. 3 17.

2 14

L:ebreo Gesù e i suoi seguaci ebrei

zio per il separatismo di Qumran del sec. I - o, a tale riguardo, per la ten­ denza alla discriminazione di alcune forme della teologia della liberazio­ ne del sec. XX. Alla fine, la designazione di Simone come «lo Zelota>> e la presenza di Simone tra i dodici indicano esattamente l'opposto di ciò che propongo i sostenitori di un Gesù rivoluzionario violento o combattente per la libertà. Gesù non favorì una guerra settaria che avrebbe opposto e­ brei contro ebrei o contro chiunque altro. Egli cercò di riunire tutto I­ sraele in vista della venuta finale di Dio come re. Era per questa causa e­ scatologica che Simone lo Zelota, come il resto dei dodici, doveva impa­ rare a essere zelante_

l. GrunA ISCARIOTA Di Giuda Iscariota si è già parlato nel precedente capitolo, poiché il suo destino tragico consente di determinare l'esistenza dei dodici prima di pasqua. Durante i secoli, Giuda è stato una calamita per l'immagina­ zione artistica dei cristiani. La letteratura e le arti figurative hanno svilup­ pato la sua storia e la sua personalità in proporzioni tali che è difficile rammentare, perfino ai lettori più attenti, che conosciamo solo due fatti fondamentali che lo riguardano: (l) Gesù lo scelse come uno dei dodici e (2) egli consegnò Gesù alle autorità di Gerusalemme, precipitando, così, l'esecuzione di Gesù. Questi due fatti, nettamente contrastanti, sono le pietre focaie che hanno infiammato la fantasia cristiana". In effetti, si può notare l'espansione midrashica dei fatti fondamentali all'opera già nelle presentazioni evangeliche di Giuda. Per citare un solo esempio: Marco austero, cupo, laconico, non ci dà alcun motivo per il tradimento di Giuda. Il denaro è menzionato e dato a Giuda solo dopo che egli si è offerto spontaneamente di consegnare Gesù ai sommi sacer­ doti (Mc 14,10-1 1 ) . Come al solito, Matteo non è soddisfatto dell'enigma­ tica narrazione di Marco che lascia tante domande senza risposta. Qui, come altrove nella sua redazione di Marco, Matteo introduce un motivo chiarificatore (26, 15): Giuda avvia la sua offerta di tradire Gesù con la domanda: «Quanto mi volete dare?>>. Matteo, così, chiarisce ogni cosa: Giuda era avido; tradì Gesù per danaro. ' Il motivo dell'avidità è sviluppato in modo un po differente nella tra" Per una rassegna dei probl>, 67-

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Marco (seguito da Luca) rispetta più accuratamente la successione temporale del racconto. Marco usa sempre 'Simone' fin quando Gesù co­ stituisce i dodici in 3,13- 19. È a quel punto che viene menzionato il con­ ferimento da parte di Gesù del nuovo nome (3 ,16). Da allora in poi, con l'unica eccezione del rimprovero di Gesù a 'Simone' che dorme nel Get­ semani ( 14,3 7 ) , Marco usa sempre 'Pietro'. Luca imita questo schema: dopo la designazione dei dodici (6, 12-16), Luca non usa mai 'Simone' per Pietro durante il ministero pubblico. Solo all'ultima cena, quando Gesù promette di pregare per Pietro durante la crisi della passione (22,3 1 ) riappare il nome 'Simone'. Come in Mc 14,37, è sulle labbra di Gesù in un discorso diretto". Matteo non differisce da Giovanni nell'insistere sul nome Pietro fin dall'inizio, benché collochi il conferimento (o l'interpretazione?) formale del nome oltre la metà del ministero. Mentre Marco parla solo di 'Simo­ ne' nella vocazione dei primi quattro discepoli ( 1 , 16), Matteo (4,18) si­ gnificativamente cambia in «Simone, chiamato Pietro». Matteo continua a parlare regolarmente di 'Pietro' durante il ministero pubblico e il rac­ conto della passione. A volte, comunque, viene usato 'Simone' - usual­ mente in connessione con 'Pietro' (1 0,2; 16,16-17), però una volta da so­ lo ( 17,25). Piuttosto strana, poi, è la collocazione relativamente tardiva ( 16,13 -20) della proclamazione di Gesù di una beatitudine formale su Simone e l'e­ vidente conferimento del nome 'Pietro'. Matteo è più interessato a ordi­ nare ampi blocchi di materiale tematico (i capp. 14-18 si concentrano su interessi ecclesiologici) che a presentare una trama logica o una cronolo­ gia. In effetti, poiché Matteo parla di 'Simon Pietro' che fa la sua profes­ sione di fede in 16, 16, prima che Gesù dica a 'Simone Bar-Jona' (v. 17): «tu sei Pietro» (v. 18), ci si domanda se Matteo intenda la dichiarazione di Gesù come il conferimento di un nome nuovo o semplicemente come l'autorevole interpretazione teologica di un secondo nome che Simone portava già. Questa ipotesi può sembrare strana a molti lettori cristiani del famoso passo Mt 16, 13-20. Tecnicamente, comunque, Matteo non dice mai espii72. I paralleli con Abram, Sarai e altri racconti di cambio di nome in Genesi indicano cbe il narratore intende che il cambio del nome di Simone in Cefa!Pietro diviene operativo non appena Gesù annun· eia il nuovo nome. " Cfr. Le 24,34, dove 'Simone' è usato dai discepoli dopo pasqua, in quella che sembra essere una primitiva formula kerigmatica. SuUe tendenze redazionali di ogni evangelista neU'uso di 'Simone', 'Pietro' e 'Cefa, vedi ].K. ELLIOT, «Kiphar>>, 24 1 -256 - benché le opinioni di Elliot sulle relazioni si­ nottiche e le sue vaJutazioni di critica testuale non incontrino un consenso unanime.

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citamente che, presso Cesarea di Filippo, Gesù conferisca a Simone un nome nuovo che Simone precedentemente non portava. Mt 4,18 e 10,2 parlano semplicemente di «Simone, chiamato Pietro», senza la spiegazio­ ne marciana che Gesù «impose a Simone il nome Pietro» (Mc 3 , 16). Di fatto, se si leggesse Matteo isolatamente, si potrebbe avere l'impressione che, in 16,18, il Gesù matteano dia semplicemente un'interpretazione teologica a un nome che Simone portava anche prima d'incontrare Gesù. Comunque, se si legge Matteo alla luce della critica della redazione, sem­ bra abbastanza chiaro che Matteo intende le sue affermazioni in 4,18 e 10,2, espresse con il participio passivo leg6menos ('chiamato'), nel senso di Mc 3 , 16: Simone era chiamato Pietro, perché Gesù gli aveva imposto (già nell'avvenimento cui allude Mt 10,2) o gli avrebbe imposto (in Mt 16,18) quel nome. Insomma, anche se è assai probabile che Simone fosse chiamato Pietro durante il ministero pubblico e che questo nome gli fosse dato da Gesù, non si può conoscere il tempo esatto o l'occasione del conferimento del nome. Inoltre - per quanto paradossale possa sembrare - Gesù può aver voluto intendere che il nome Kepii' fosse usato per Simone solo da altre persone, non da Gesù stesso. Bisogna riconoscere che questa ipotesi ri­ sulta abbastanza strana, ma è documentata da un singolare dettaglio che gode di molteplice attestazione. In diverse scene, in tutti i quattro vange­ li, quando Gesù si rivolge direttamente a Pietro, regolarmente usa, al vo­ cativo, il nome 'Simone', non 'Pietro' o 'Cefa'". Quest'uso, che si adatta con difficoltà al conferimento del nome 'Pietro' da parte di Gesù, è testi­ moniato dalle tradizioni speciali di tutti i quattro vangeli: il rimprovero nel Getsemani (Mc 14,37); la beatitudine che Gesù indirizza a Pietro (Mt 16,17); la domanda sul pagamento della tassa del tempio (Mt 17 ,25); la promessa di Gesù di pregare per Simone (Le 22,3 1 ) ; e la triplice doman­ da sull'amore di Pietro per Gesù (Gv 2 1 , 15-17). ll nome che Gesù confe­ risce non è il nome che Gesù usa: è difficile dire come interpretare que­ sto paradosso. Una possibilità è che Gesù volesse con il nuovo nome Kepii ' indicare la relazione di Simone con gli altri discepoli, non con Ge-

" Dico «regolarmente» perché la regola non è rigida. NeU'ultima cena lucana, Gesù, dopo aver premesso il suo avvertimento su di una crisi imminente e la sua promessa di preghiera con un iniziale «Simone, Simone» (Le 22,3 1), prosegue predicendo il rinnegamento di Pietro con il vocativo «Pie· tro» (22,34). Molti studiosi vedono qui un indizio che segnala due distinte fonti; è dubbio che il cam· bio di nome significhi veramente questo. Le 22.31·34 contrasta comunque con l'affermazione che l'u· so di 'Simone' per Pietro, negli ultimi capitoli dd vangelo, necessariamente designi il faUimento di Pietro quale vero discepolo.

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sù. Di nuovo, comunque, ·dobbiamo ammettere che possiamo solo for­ mulare opinioni. (b) La questione del conferimento del nome 'Cefa' ('Pietro') a Simone ha già toccato la famosa, e molto dibattuta, scena presso Cesarea di Fi­ lippo in Mt 16,13-20. In questo passo, un secolare terreno di scontro tra cattolici e protestanti, Pietro proclama Gesù Messia e Figlio di Dio (v. 16). Gesù, a sua volta, proclama che Simone porta (o porterà) il nome Pietro e che su questa roccia Gesù costruirà la sua chiesa (v. 18); inoltre, Gesù darà a Pietro le chiavi del regno dei cieli, cioè, il potere di legare e sciogliere (v. 19). Nei limiti della nostra ricerca non possiamo trattare la storia dell'uso di questo testo nella chiesa cristiana nel corso dei secoli76•

" Per una nossegna sulle opinioni nei vari periodi deU'interpretazione, vedi J. LUDWIG, Die Pri­ matworte Mt 16,18. 19 in der altkirchlù:hen Exege (Mt 19,28 par.), una partecipazione al governo di quest'Israele del tempo finale. In questo contesto di una missione del profeta escatologico centrata sul popolo, era del tutto naturale per Gesù parlare più specifica­ mente dei suoi piani per l'organizzazione e il governo di quest'Israele che Dio chiamava all'esistenza. Concentrandosi sul leader e portavoce dei dodici, che aveva appena proclamato la sua fede, Gesù, che molto spesso giocava con parole e im­ magini, giocò con il soprannome di Simone. Simone era, di fatto, kepii', 'roccia' , perché su questa roccia, questo fondamento nel gruppo fondazio­ nale dei dodici, Gesù avrebbe costruito la sua assemblea o riunione esca­ tologica (Mt 16, 1 8ab: ekklesia in greco, forse qahala' o kènifta' in aramai­ co)80. Non si dovrebbe leggere l'ecclesiologia cristiana nel significato origi­ nario di ekklésia qui. Sulla bocca di Gesù, la parola non significa la suc­ cessiva chiesa cristiana, locale o universale, ma piuttosto il popolo d'Israe­ le riunito per ascoltare e adorare Dio, come aveva fatto nel deserto dopo l'esodo (p. es., LXX Dt 4,10; 9, 10; 18,16; 23,2-3 ; 3 1 ,30). Nel sec. I d.C., i cristiani non avevano affatto il monopolio della parola greca ekklesia - o delle parole ebraiche e aramaiche che sarebbero soggiacenti. La parola ekklesia ricorre circa 96 volte nei Settanta"'. Nei passi che traducono un testo ebraico in nostro possesso (inclusi i frammenti di Ben Sira), l'ekklesia dei Settanta traduce una forma della radice qhl, più spesso del nome qahiil ('raduno', 'incontro', 'convocazione', 'assemblea', 'riunione'). È in questo senso che Pietro doveva essere la roccia per la riunione escato-

10 R PEscH, Simon-Petrur, 29-32, che preferisce 'pietra' come significato originario dd nome Pé­ tros, ritiene che Gesù vide Pietro come la pietra preziosa, sia nel senso di pietra di fondazione, di pie­

tra d'angolo o di pietra decorativa, nella struuura che stava creando, vale a dire, la cerchia dei dodici. che, a sua volta, simboleggiava le dodici tribù d'Israele restaurate. " È opportuno dire 'circa' a causa delle lezioni varianti. Si ricordi che per certi libri dei LXX (p. es., Giuditta, l Maccabel) non disponiamo di un originale ebraico.

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logica d'Israele. Forse c'era anche nell'immagine un'allusione al patriarca Abramo, che fu la roccia da cui Israele in principio fu tagliato Us 5 1 , 1 -2). L'ulteriore metafora della costruzione di una comunità non riflette ne­ cessariamente un interesse specificamente cristiano per l'organizzazione. La costruzione della comunità del tempo finale era una metafora usata tanto a Qumran quanto nella chiesa primitiva. Per esempio, in 4QpSal37 3 , 1 6, Qumran interpretava Sa/ 37 ,23-24 nel senso che Dio «lo ha stabilito [il maestro di giustizia] per costruirgli [a Dio] un'assemblea ... [libnot lo 'àdat]>>82• Questo testo ebraico si può agevolmente tradurre in greco con oikodomein heauto ekklesian, fondamentalmente le stesse parole presenti in Mt 16,18. I rotoli della setta di Qumran ci ricordano che, intorno al volgere dell'era, una comunità giudaica, tenacemente apocalittica, poteva essere anche intensamente interessata all'organizzazione del popolo di Dio sia prima, sia dopo la vittoria finale sul male. Nel suo ruolo di guida, Pietro, la roccia, doveva costituire una solida difesa contro tutti i poteri distruttivi del peccato e della morte (il greco hddes, l'ebraico se'o{) che avrebbero assalito l'assemblea del popolo di Dio nella battaglia finale tra bene e male (Mt 1 6 , 1 8c)8'. Qui c'è forse un'eco di tradizioni giudaiche che parlavano della roccia cosmica su cui si riteneva fosse costruito il tempio di Gerusalemme; questa roccia dd tempio era la via di accesso sia al cielo, sia all'oltretomba sotterraneo"'. In ogni caso, come leader designato da Gesù e partecipe dell'autorità di Ge­ sù, Pietro doveva essere come Eliakim, il maggiordomo del palazzo rega­ le del re di Giuda, Ezechia (ls 22,20-25) . li profeta Isaia promise a E­ liakim che YHWH avrebbe posto sulla spalla di Eliakim «la chiave di Davide)) (il potere amministrativo sul palazzo): «Egli aprirà e nessuno potrà chiudere; chiuderà e nessuno potrà aprire (v. 22) ... e sarà un trono di gloria per la casa di suo padre)) (v. 23). L'autorità di Pietro, tipica della chiave, doveva essere esercitata spe­ cialmente nell'insegnare all'Israele del tempo finale la vera volontà di

" Su questo, vedi J. )EREMIAS, Teologid del Nuovo Testamento, 195. Altri significativi passi di Qum­ ran che usano metafore simili includono 4QFlor 1 ,6; 1QH 6,24-26; vedi J . GNILKA, 'Tu er, Petrus', 12-13. 0 Probabilmente il riferimmto all'Ade è innan zi rutto riferimento al potere deUa morte; ma, intor­ no al volgere dell'era, il regno della morte e il regno del peccato o del male erano talvolta coUegati nell'escatologia giudaica e cristiana. Vedi, p. es., Le 10,15; 16,23; Ap 20, 1 3- 15; cfr. Flavio Giuseppe, Ant. 18,1,3 § 14. Nonostante le sottili distinzioni che possiamo fare lra peccato e morte, Paolo, in

particolare (p. es., Rom 5-8), e i primi cristiani, in genenale, vedevano sia il peccato sia la morte come poteri distruttivi che Dio avrebbe sconfitto nel tempo finale. " Vedi]. GNILKA, 'Tu

es,

Petrus', 12.

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I.:ebreoGesù e i suoi seguaci ebrei

Dio, cioè, ciò che &t ammissibile o inammissibile fare secòndo la Legge di Dio. Questo potere è riassunto nelle metafore collegate di legare (di­ chiarare un'azione illecita o non valida) e sciogliere (dichiararla lecita o valida). L'insegnamento autoritativo di Pietro, indirizzato a Israele qui sulla terra, sarebbe stato ratificato da Dio in cielo e, così, sarebbe stato u­ na difesa sicura contro i poteri ostili del peccato e della morte che cerca­ no di distruggere l'assemblea escatologica. Così, è plausibile ritenere che Mt 16,17-19 sia un incarico che il Gesù storico conferì al leader dei dodici durante il ministero pubblico. Certo, Mt 16,17-19 manca di molteplice attestazione di fonti, ma gli studiosi tal­ volta accettano altri detti di Gesù che mancano di molteplice attestazio­ ne, quando i detti sono perfettamente coerenti con il nucleo del messag­ gio e della missione di Gesù (p. es., la preghiera del Signore, o il detto di Gesù sul «dito di Dio» in Le 1 1 ,20 par.). A parere di vari esegeti conser­ vatori, Mt 16,17-19 dovrebbe essere accettato su queste basi. Quanto me­ no, questi argomenti mostrano che il passo non può essere semplicemen­ te accantonato con un gesto della mano. Nondimeno, seri argomenti militano fortemente a favore della prove­ nienza del passo da una situazione post-pasquale nella chiesa. Concordo sul fatto che Mt 16, 17-19 non possa essere respinto semplicemente per­ ché manca di molteplice attestazione. Ma si deve affrontare onestamente la specifica storia della tradizione e della redazione in cui Mt 16,17-19 è radicato. ll passo non appare come un'unità completamente isolata nel vangelo di Matteo. Esso è parte della redazione complessiva di Matteo e dell'espansione della versione di Marco della confessione di Pietro a Ce­ sarea di Filippo. Molti esegeti, per esempio, ammettono che «Figlio del Dio vivente» sia un'aggiunta propria di Matteo alla confessione più con­ cisa di Marco del 'Messia', in Mc 8,29. Dobbiamo, dunque, prendere se­ riamente in considerazione i chiari segni dell'intensa redazione di Matteo di questa pericope, che può includere anche tutto il v. 17. Per di più, specialmente l'affermazione che 16, 18 risalga al Gesù stori­ co è difficile da difendere a causa della speciale situazione della parola ekklesia ('chiesa', 'assemblea') nei vangeli, in particolare, e nel NT, in ge­ nerale. La parola ekklesia ricorre 1 14 volte nel NT. Ad eccezione di tre ri­ correnze in Matteo ( 16,18; 18,17 bis), la parola non ricorre mai nei van­ geli. Piuttosto, ricorre lungo gli Atti, in quasi tutte le lettere paoline, in Eb, Gc, 3 Gv e nel libro dell'Apocalisse. Con pochissime eccezioni"',

m Nei pochi passi del NT in cui la parola assume un altro significato, il testo in questione è spesso

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ekklesia si riferisce- sempre alla chiesa cristiana, locale

universale. Nd NT, sembra esserci una tacita regola per cui il linguaggio che ha a che fa­ re con 'chiesa' ha il suo posto dopo pasqua, non prima. Luca, considerato a volte il primo storico della chiesa, è un caso sor­ prendente a questo riguardo. È ammirevolmente accurato nella sobria di­ stinzione che fa nd suo uso di ekklesia. Nonostante sia tanto interessato alla storia della chiesa primitiva da scrivere un volume per accompagnare il suo vangelo (gli Atti degli apostoli) e nonostante intenda evidenziare e­ lementi di continuità fra il tempo di Gesù e il tempo della chiesa, Luca è, nondimeno, scrupoloso nel non retroproiettare il vocabolario di ekklesia nd suo vangdo. Varie parole per 'popolo' (compreso il popolo di Dio), 'gente' o 'folle' sono usate nel suo vangelo, ma ekklesia non è utilizzato prima che Luca inizi a presentare in Atti un gruppo chiaramente organiz­ zato di credenti in Gerusalemme, tenuto insieme dalla guida di Pietro e de&li altri apostoli (vedi 5 , 1 1 , la prima ricorrenza). E sullo sfondo di questo forte uso post-pasquale del resto del NT che si devono giudicare le tre ricorrenze di ekklesia in Matteo. La tesi secon­ do la quale ekklesia in Mt 16,18 proviene dall'uso della chiesa primitiva, e non dal Gesù storico, è rafforzata dal fatto che molti esegeti ammettono facilmente che le altre due ricorrenze, in Mt 1 8, 1 7 , riflettono la disciplina della chiesa primitiva"'. In realtà, l'intera pericope di Mt 18, 15-20 sembra essere un'istruzione su come amministrare la disciplina nella chiesa locale quando un membro peccatore della chiesa si mostra ribelle. Se la corre­ zione fraterna privata e anche la sollecitazione di due o tre correligionari si dimostra inutile ( 18,15- 1 6) , la persona accusata deve essere deferita alla chiesa (te ekklesia, 18,17). Se il membro peccatore rifiuta di ascoltare an­ che la chiesa, deve subire l'ostracismo o l'emarginazione da parte della comunità ( (che si può ritenere sia la identificazione oppure no con «il discepolo che Gesù amava») non svolge nessun ruolo ulteriore - teologico o puramente narrativo Pietro. Come giustamente osserva RE.

-

nd racconto del rinnegamento di

BROWN, The Gorpel According to fohn 2,841 [trad. it., 1034]),

«inventare un discepolo di Gesù che inspiegabilmente era ammesso nd palazzo del sommo sacerdote significa creare una difficoltà dove non ce n'era nessuna». Perciò R. ScHNACKENBURG, Das Johanne­

revangelium. III. Teil, 266-267 [trad. it., III, 370-372]) conclude che l'altro discepolo era già presente nella fonte (non sinottica) del quarto evangelista; lo stesso vale probabilmente per il curioso dettaglio (v. 18) del fuoco con il 'carbone' (anthrakidn). Queste considerazioni portarono M. DIBELIUS, Form­ geschichte, 217, addirittura a concludere che quest'altro discepolo fosse un personaggio storico. In o­ gni caso, alla luce di tutte queste considerazioni, è molto difficile vedere l'altro discepolo semplice­ mente come un 'aggiunta redazionale del quano evangelista alla versione marciana del racconto.

"" RT. FoRTNA, Jerur and Peter, 378-379, p. es., sostiene che la versione marciana porti a conclu­ dere che vi fu un unico rinnegamento, successivamente ampliato in tre rinnegamenti; ma Fortna so­

Peter'r Curre and Curred Peter, in The Parrion in Mark, ed. Wemer H. Kelber, Fortress, Philadelphia 1976, 96-114 - che, se un tale ampliamento ebbe

stiene pure - giustamente, credo, contro K. DEWEY,

luogo, era già presente negli strati pre-marciano e pre-giovanneo del racconto della passione.

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zione della passione. Inoltre, la storia è piena di casi in cui leader come Abramo Lincoln, Martin Luther King, Jr., o Oscar Romero hanno avuto in anticipo la sensazione della possibilità di un'imminente morte violenta o di un tradimento. Di fronte alla eventualità di un arresto legale o di una illegale 'giustizia sommaria' in Gerusalemme, Gesù conosceva fin troppo bene la debolezza dei suoi stretti seguaci, specialmente Pietro. Non a­ vrebbe avuto bisogno di grande immaginazione per prevedere come i va­ cillanti discepoli avrebbero potuto reagire di fronte a una crisi. Alla fine, comunque, se la profezia del rinnegamento di Pietro sia stata effettiva­ mente pronunciata da Gesù o sia stata creata secondariamente al di fuori della storia del rinnegamento, è una questione che può essere insolubile e che io intendo accantonare. Nondimeno, dai due criteri d'imbarazzo e di molteplice attestazione, concludo che l'avvenimento fondamentale del rinnegamento di Gesù, da parte di Pietro, dopo il suo arresto intorno alla pasqua del 30 d.C. circa, è effettivo, fornendo una sconvolgente conclusione alla sequela di Pietro del Gesù storico. Umanamente parlando, il ministero pubblico finì in un disastro, per il discepolo come pure per il profeta che egli seguiva. In realtà, riconsiderando tutto quanto abbiamo visto di Pietro, possiamo os­ servare uno schema interessante. Pur ammettendo ampliamenti leggenda­ ri successivi, siamo probabilmente giustificati nel percepire in Pietro una tendenza a cambiare continuamente idea, ad agire con impetuosa audacia solo per tirarsi indietro all'insorgere delle difficoltà. Resistenza e capitola­ zione tessono un doppio filo che percorre la carriera di Pietro, estenden­ dosi dal suo ruolo come seguace nel ministero pubblico al suo ruolo co­ me leader nella chiesa primitiva. Nonostante tutta la retorica omiletica su peccato e penitenza, cambiamento e trasformazione, ciò che è notevole è come Pietro rimanga lo stesso in varie fonti del NT, sia prima sia dopo pasqua. Alcuni possono trovare questo consolante, altri deprimente. Tuttavia, nonostante tutta la sua debolezza, Pietro rimane, dopo Gesù, la figura più affascinante nella tradizione evangelica; infatti egli collega, in modo singolare, il ministero del Gesù storico con la missione della chiesa primitiva. In definitiva, né il suo ruolo preminente tra i discepoli durante il ministero pubblico, né la convinzione che egli fosse stato il pri­ mo a vedere Gesù risorto, possono spiegare completamente il suo posto speciale nella storia della chiesa primitiva. Fu precisamente la combina­ zione dei due ampiamente-differenti-ma-sorprendentemente-simili stadi della sua vita a creare il suo impatto unico nella storia cristiana e la sua perdurante tenuta nell'immaginazione cristiana.

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). Conclusione: Gesù e i suoi seguaci

Negli ultimi quattro capitoli, abbiamo delineato i contorni dei vari tipi di persone di cui si potrebbe dire, in un modo o in un altro, che hanno seguito Gesù. Usando 'seguaci' come termine generico, abbiamo trovato i lineamenti approssimativi di tre cerchi concentrici di seguaci intorno a Gesù: le folle, i discepoli e i dodici. Si deve sottolineare l'aggettivo 'ap­ prossimativo' nel nostro schizzo, poiché, specialmente nel cerchio più e­ sterno delle folle, ma anche nel cerchio intermedio dei discepoli, la rela­ zione di un individuo con Gesù durante i due anni o più del suo ministe­ ro pubblico potrebbe essere stata abbastanza fluida. Alcune persone pos­ sono essere entrate o uscite da un cerchio determinato, o possono essere passate da uno all'altro. Considerazioni pratiche, come pure gradi d'im­ pegno, potrebbero aver dettato i cambiamenti. Per esempio, mentre Gesù e i dodici, a quanto pare, avevano una cassa comune, rifornita dalle donazioni dei simpatizzanti, e mentre essi facevano affidamento sull'ospitalità di sostenitori sedentari durante i loro itinerari di predicazione, questo sistema di sostegno non poteva sostenere le folle. Dopo un periodo di sequela entusiastica, molti avranno dovuto far ritorno al loro normale lavoro, per sostenere se stessi e le loro famiglie. Anche i vangeli non presentano Gesù che sfama le moltitudini ogni giorno. Probabilmente, fu proprio questa fluidità di relazione che portò Gesù, sul piano pratico, distinto dal livello teologico della sua missione, a fissare la cerchia più intima dei dodici. Durante un periodo di due anni, il profe­ ta e maestro avrebbe voluto una cerchia stabile più intima con la funzio­ ne di uditorio regolare per la sua predicazione e il suo insegnamento e come fonte regolare di assistenza nella sua missione. Insomma, dobbiamo considerare il nostro schema di tre cerchi come un modello euristico in movimento, non esattamente come una fotografia. Passando brevemente in rassegna ogni cerchio: (l) I criteri di molteplice attestazione delle fonti e del destino finale di Gesù confermano che Gesù, in realtà, attirò grandi folle. Le folle erano abbastanza grandi e seguirono Gesù abbastanza a lungo da persuadere le autorità allora in carica, Caifa e Pilato, che sarebbe stata saggia una re­ pressione preventiva contro un possibile agitatore. La loro decisione, do­ po due anni di attività da parte di Gesù, suggerisce che non c'era stato al­ cun massiccio ritiro di seguaci in un certo momento durante il ministero.

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Allo stesso tempo, dobbiamo'=ltinmenere che possiamo parlare solo vilga­ mente di 'grandi' folle, senza poter specificare il numero o il tipo di per­ sone che costituivano le folle. Senza dubbio, la grande maggioranza pote­ va definirsi 'povera' in un senso o in un altro, dal momento che la grande maggioranza della popolazione della Palestina avrebbe potuto definirsi così. Tuttavia, racconti più specifici riguardanti individui che interagiva­ no con Gesù mostrano che alcuni dei suoi sostenitori erano o erano state persone benestanti. Come l'Elia escatologico inviato per iniziare la rac­ colta di tutto Israele, Gesù, diversamente dagli ebrei residenti a Qumran, non limitò la sua attenzione a una fascia particolare d'israeliti. Pur potendo fare alcune generalizzazioni sulle folle, ci sono altre gene­ ralizzazioni che dovrebbero essere evitate. I vangeli non equiparano le folle ai 'peccatori', quegli ebrei che in pratica avevano rigettato i coman­ damenti di Dio e adottato le abitudini dei pagani. Né i vangeli equipara­ no le folle al 'popolo della terra', una qualifica attribuita nella letteratura rabbinica posteriore a ebrei ordinari che non erano puntigliosi nell'osser­ vanza delle leggi di purità e del pagamento delle decime. In effetti, diver­ samente dalla qualifica 'peccatori', i vangeli non usano mai l'espressione 'popolo della terra' per qualche gruppo. Dovremmo avere la saggezza di seguire la loro guida. (2) Qualcosa di più si può dire sulla cerchia intermedia di discepoli, per la quale c'è un'abbondante molteplice attestazione. I discepoli di Ge­ sù devono essere accuratamente distinti da altri adepti, come i sostenitori sedentari, che tecnicamente non si possono definire discepoli. Questo ci rammenta che non dovremmo dare per scontato il titolo di 'discepolo' o usarlo in maniera approssimativa. Con poche eccezioni, la parola 'disce­ polo' manca nei libri proto- e deuterocanonici dell'AT, negli apocrifi del­ l'AT e nei libri non biblici a Qumran. La parola ricorre in Filone e Flavio Giuseppe, ma è relativamente rara. Flavio Giuseppe è il primo importan­ te autore ebreo a usare il vocabolario del 'discepolo' per descrivere rela­ zioni maestro-discepolo nell'AT, incluse quelle dei seguaci dei profeti E­ lia ed Eliseo. Può darsi che la terminologia del discepolato rifletta l'influenza della cultura greco-romana e fosse relativamente nuova nel giudaismo palesti­ nese quando Gesù - forse a imitazione dei farisei o del Battista - la ripre­ se e la utilizzò per descrivere un tipo speciale di seguace. Di fatto, il signi­ ficato che Gesù diede al termine 'discepolo' era tanto speciale che, ad eccezione di Luca nei suoi Atti degli apostoli, non fu adottato dai cristia­ ni del sec. I come loro normale auto-designazione.

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L:elweo Gesù e i suoi seguaci ebrei

Riflettendo la tradizione di Elia che chiama Eliseo a ttguirlo, Gesù chiamò alcuni adepti a seguirlo come discepoli in un senso molto specifi­ co. Tre fattori concorrevano a costituire un genuino discepolo di Gesù: (a) Gesù prendeva l'iniziativa pronunciando un comando perentorio a se­ guido, un comando che non ammetteva opposizione o ritardo. (b) Con la parola 'seguire' Gesù intendeva, alla lettera, accompagnarlo fisicamente nei suoi itinerari di predicazione e, dunque, abbandonare la propria casa, i genitori e i mezzi di sostentamento - senza alcuna indicazione di un li­ mite geografico o temporale per l'impegno. (c) Quest'impegno senza li­ miti, che richiedeva di abbandonare casa e mezzi di sostentamento, pote­ va comportare non solo rischio, ma anche ostilità e sofferenza, addirittura per mano della propria famiglia, come Gesù sapeva per esperienza diret­ ta. Così, le richieste di Gesù ai suoi discepoli erano radicali e assolute; se­ guido come discepolo era abbastanza differente dal seguirlo facendo par­ te della folla. Nonostante tutte queste esigenze radicali che creavano una netta identità con confini netti, Gesù e i suoi discepoli regolarmente an­ davano al di là dei confini spirituali, associandosi e mangiando con tipi di dubbia fama sociale e religiosa, come 'esattori delle tasse e peccatori'. Se la frequentazione di Gesù con esattori delle tasse e peccatori scon­ volgeva i pii rigorosi, la comitiva di viaggio di Gesù costituita da donne seguaci, particolarmente Maria Maddalena, probabilmente li disturbava ancora di più - specialmente perché alcune, se non tutte le donne, a quanto pare, seguivano Gesù senza avere i mariti che le accompagnasse­ ro. Stranamente, queste donne che seguivano Gesù in un senso letterale, fisico, non sono mai esplicitamente chiamate 'discepole' dagli evangelisti. Alcuni studiosi potrebbero attribuire questo fatto al punto di vista an­ drocentrico degli evangelisti. Ma sono possibili anche altre spiegazioni: (a) Gli evangelisti non avevano a disposizione narrazioni su singole don­ ne chiamate da Gesù a seguirlo. Oppure (b) gli evangelisti riflettono pe­ dissequamente le loro fonti aramaiche, in cui mancava una forma femmi­ nile della parola 'discepolo' (talmfda'). Al di là della situazione linguisti­ ca, le donne si dimostrarono discepole nei fatti, se non nelle parole, non solo per il sostegno economico che diedero a Gesù durante i suoi viaggi ma anche per la loro sequela fino alla croce, dopo che i discepoli maschi lo avevano tradito, rinnegato o abbandonato. Oltre a quello dei discepoli, Gesù poté awalersi del sostegno di altri a­ depti, uomini e donne, che accettarono il suo messaggio, ma non lascia­ rono le loro case e le loro famiglie per seguirlo. Quando era possibile, es­ si esprimevano il loro sostegno offrendogli ospitalità durante i suoi viaggi

I singoli membri del gruppo dei dodici

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- e forse anche con contributi economici. Senza dubbio, alcune delle per· sone guarite da Gesù dovrebbero essere considerate tra questi sostenitori sedentari, anche se qualcuno, come Maria Maddalena, corrispose alla guarigione seguendo Gesù alla lettera. Forse, potremmo considerare i so­ stenitori sedentari come 'ausiliari' o 'gruppi di sostegno' dei discepoli che costituivano la cerchia intermedia. (3) Le relazioni di Gesù con le folle e con i suoi discepoli derivàvano e riflettevano la sua fondamentale proclamazione della venuta del regno di Dio e della raccolta dell'Israele escatologico alla luce di quella venuta. Come con i suoi miracoli, così con le sue relazioni con le folle e i disce­ poli, il messaggio di Gesù sul futuro imminente (regno di Dio e raccolta d'Israele) era anche il programma che egli iniziò a realizzare nel presen­ te. In altre parole, come con la sua proclamazione del regno di Dio e con i suoi miracoli, così con la formazione di gruppi di discepoli, l' escatolo­ gia futura e l'escatologia realizzata erano inestricabilmente interconnesse. In nessun'altra parte questo vale di più né la sua visione escatologica ap­ pare più chiaramente che nella formazione della cerchia più intima dei dodici. È con la sua scelta dei dodici che Gesù sottolinea decisamente che il dominio definitivo di Dio sul mondo è impensabile senza il compimento delle speranze tanto spesso pronunciate durante e dopo l'esilio babilone­ se: tutto Israele, tutte le dodici tribù, saranno riunite alla fine del tempo. Il messaggio di Gesù sul regno di Dio non è una vaga affermazione sulla vita eterna. È una proclamazione profetica che Dio sta per compiere le sue promesse a Israele, ricreando il suo popolo eletto così in linea con ta­ li promesse. Il regno di Dio è, dall'inizio alla fine, un messaggio centrato sul popolo, centrato su Israele, rivolto ai connazionali ebrei di Gesù. Co­ me con le sue guarigioni e i suoi esorcismi, così costituendo i dodici, Ge­ sù incarna questo messaggio nel momento presente, in un'azione dram­ matica che non solo preannuncia ma anche inizia a realizzare la promes­ sa futura. I dodici uomini israeliti scelti da Gesù evocano i dodici pa­ triarchi (i figli di Giacobbe/Israele) e le dodici tribù - Israele com'era al­ l'inizio e come sarà alla fine, soltanto migliore (una tipica speranza apo­ calittica). Nonostante i dubbi di alcuni studiosi, la molteplice attestazione di fon­ ti e forme sostiene, convincentemente, che i dodici furono di fatto una creazione di Gesù durante il suo ministero, e non una retroproiezione della chiesa primitiva nel racconto evangelico. Marco, Giovanni e la tra­ dizione speciale di Luca, tutti parlano dei dodici. In aggiunta, un detto Q

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L'ebreo Gesù e i suoi seguaci ebrei

di Gesù (Mt 19,28 par.) conferma che Gesù collegò i dodici al destino e· scatologico d'Israele. Alla fine del tempo, i dodici saranno seduti su dodi­ ci troni, a governare o giudicare le dodici tribù restaurate d'Israele. ll nome e la funzione dei dodici erano così fissati che, anche quando Giuda Iscariota tradì Gesù e, così, si mise fuori dal gruppo, la chiesa pri­ mitiva parlava ancora dell'apparizione di Gesù risorto ai dodici ( l Cor 15,5). In effetti, il tradimento di Gesù da parte di Giuda, uno dei dodici, aggiunge il criterio dell'imbarazzo al criterio della molteplice attestazio­ ne, come un argomento forte per l'esistenza dei dodici durante il ministe­ ro di Gesù. Inoltre, mentre pochi membri dei dodici, specialmente Pietro e i figli di Zebedeo, furono leader preminenti della chiesa primitiva in Gerusalemme, la maggior parte dei dodici e i dodici come gruppo scom­ parvero molto presto dopo pasqua. L'idea che fossero un gruppo tanto si­ gnificativo e dominante nella chiesa primitiva al punto da essere massic­ ciamente retroproiettati nelle tradizioni marciana, Q, L e giovannea è contraddetta dal reale andamento e declino della loro carriera. I dodici ebbero talune funzioni durante il ministero pubblico. Incarna­ vano in una maniera piuttosto permanente ciò che significava essere di­ scepolo di Gesù. Cosa più importante, costituivano un simbolo profetico collettivo che profetizzava e, contemporaneamente, iniziava a realizzare la raccolta delle dodici tribù nel tempo finale. A mio parere, la realizza­ zione di questa futura raccolta delle tribù fu ulteriormente simboleggiata e iniziata da una breve missione a Israele che Gesù affidò ai dodici (e for­ se anche ad altri discepoli). Che i dodici fossero importanti principalmente come un gruppo che simboleggiava l'Israele restaurato, e non come individui, emerge dal fatto che molti dei dodici sono per noi poco più che nomi. Possiamo solo rica­ vare scarsi dettagli dai loro soprannomi, dai patronimici e dai luoghi d'o­ rigine. Anche Giuda lscariota si distingue solo alla fine del racconto, quando si stacca dai dodici con il suo tradimento. È difficile dire se Pie­ tro, Giacomo e Giovanni costituissero un gruppo speciale di tre, entro i dodici, durante il ministero pubblico. In ogni caso, si distinguono come i tre membri dei quali si può conoscere un po' di più. Soltanto Pietro, co­ munque, emerge come quello che i critici letterari chiamerebbero un per­ sonaggio 'a tutto tondo', opposto a un personaggio ' piatto'. Questo può essere dovuto in parte al fatto che i vangeli preservano della sua storia - e forse anche del suo carattere - più di quanto preservino per ogni altro membro dei dodici. L'interesse speciale dei vangeli per Pietro è dovuto, a sua volta, al ruolo di guida che esercitò sia durante il ministero, sia agli i­ nizi della chiesa.

I singoli membri del gruppo dei dodici

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Cori questo esauriamo ciò che si può dire dei vari seguaci di Gesù. Ari­ che se i tre cerchi concentrici devono restare approssimativi, almeno la nostra ricerca sui seguaci storici del Gesù storico ha prodotto alcune in­ tuizioni. Contrariamente ad alcune presentazioni contemporanee di Ge­ sù, abbiamo potuto concludere che i seguaci non erano Wla massa amor­ fa intorno a lui. Egli stesso scelse di distinguere tra quelli che lo seguiva­ no in una maniera meramente fisica (le folle) un gruppo speciale di per­ sone (i discepoli), che volevano seguirlo con un impegno costoso, che ri­ velava una profonda adesione personale al suo messaggio e alla sua per­ sona. Da questo cerchio, poi, prese l'iniziativa di separare i dodici, come simbolo profetico dell'Israele del tempo finale. Proprio con queste scelte, Gesù, nonostante tutti gli elementi 'carisma­ tici' della sua condotta, diede in realtà una forma specifica al suo ministe­ ro fornendolo di alcune strutture, per quanto vaghe e fluide possano es­ sere state. Queste strutture, per quanto certamente non così complesse come quelle descritte a Qumrar;�, derivavano dallo stesso fondamentale interesse di Qumran: l'Israele escatologico. Di per sé, le une e le altre era­ no concentrate sul popolo d'Israele, che non era mai stato sperimentato storicamente e mai sarebbe stato immaginato escatologicamente come u­ na massa amorfa. Questo dovrebbe essere ricordato quando alcuni ricercatori contem­ poranei applicano a Gesù l'aggettivo 'egalitario', anche se spesso senza fornire definizioni precise del termine121• Se si considera l'invito senza li­ miti di Gesù rivolto agli israeliti, compresi gli esattori delle tasse e i pec­ catori, la sua disinvolta partecipazione a tavola con questi paria sociali o religiosi, il suo messaggio di buone notizie per i poveri in particolare (per quanto senza escludere i benestanti che erano ben disposti nei suoi con­ fronti), la sua accettazione di seguaci donne, la sua mancanza d'interesse

"' Vedi, p. es., ].D. CROSSAN, The Hi.rtorical ]erus, Harper, San Francisco 1991, 261-264.341. Di­ verumente da altri autori, Crossan presenta una defmizione; vedi il suo ]esus. A Revolutionary Bio­ graphy, Harper, San Francisco 1 994, 71 [trad. it., Gesù. Una biografia rivoluzionaria, Ponte alle Gra­ zie, Firenze 1994, 98]: "·-· egalitarismo radicale... [significa] assoluta uguaglianza di persone che nega la validità di qualsiasi discriminazione e la necessità di qualsiasi gerarchia)). Questo, a sua volta, ri­ chiede un'accurata definizione di ciò che s'intende con 'radicale' e 'assolmo' - oltre che di 'discrimi­ nazione' e 'gerarchia', termini che sono spesso usati ai giorni nostri per qualunque aspeuo non sradi­ to della società. Più precisamente, Crossan stesso (ibzd.) avverte l'immediata obiezione comro «un'a­ nacronistica retroproiezione>> di una moderna ideologia nella Palestina giudaica del sec. I. Nonostan­ te tutti i suoi tentativi di risposta, penso che l'obiezione rimanga. Si dovrebbe prestare bene artenzio­ ne alle cautele metodologiche esposte da M.D. GoooMAN, The Ruling Class o/Judaea [trad. it., Iu­ daea Capta, cit.].

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Vebreo Gesù e ; sl«1i seguaci ebrei

per ciò che i potenti o le persone influenti potevano pensare di lui o dei suoi discepoli e la sua insistenza sul fatto che i suoi discepoli dovevano mostrare amore, compassione e perdono nei confronti di tutti, 'egalitario' esprime bene l'influenza livellante che il suo messaggio avrebbe dovuto avere sulla società israelita dd tempo. Ma ciò che uno storico contempo­ raneo non deve fare è retroproiettare il pensiero moderno circa classi so­ ciali, rivoluzione, egalitarismo utopico e anarchia teoretica nella mente di un ebreo palestinese dd sec. I, per il quale Israde era sempre stato e sem­ pre sarebbe stato, in un modo o in un altro, una società ordinata. Il profeta escatologico che portava il mantello di Elia, a quanto pare, pensava di avere qualcosa a che fare con l'ordinamento dell'Israele del tempo finale. In maniera significativa, quando Gesù istituì la particolare struttura dei dodici per l'Israele del tempo finale, scelse di restare distin­ to dalla cerchia dei dodici come suo fondatore, invece di essere uno dei suoi membri, nemmeno forse il suo leader e portavoce alla maniera di Pietro. Come i profeti Geremia ed Ezechiele restavano distinti dall'Israe­ le cui si rivolgevano, per quanto essi stessi fossero israeliti appassionata­ mente impegnati per il futuro del loro popolo, così anche Gesù rimase distinto dalla cerchia di dodici uomini che aveva costituito, i dodici uo­ mini che impersonavano l'Israele che egli era stato inviato a raccogliere. Diede loro una struttura alla quale egli stesso non apparteneva. In realtà, la cerchia dei dodici non fu l'unico incipiente elemento strut­ turale che Gesù provvide per quelli che lo seguivano sulla strada del di­ scepolato. Come ho sostenuto nel secondo volume, senza creare una setta separatista, Gesù usò certe pratiche distintive per formare e dare identità ai discepoli che lo seguivano'". La pratica del battesimo, il rigetto del di­ giuno volontario collegato con banchetti festivi celebrati con gli emargi­ nati d'Israele, il rigetto del divorzio (e forse l'uso di giuramenti e voti), la preghiera speciale che chiamiamo preghiera del Signore, le dure richieste fatte a quelli che lo seguivano alla lettera nel suo ministero itinerante, la cerchia più intima dei dodici che simboleggiava l'Israele escatologico, la missione dei dodici e forse di altri discepoli a Israele - tutti questi inci­ pienti elementi strutturali modellavano i contorni di un gruppo di disce­ poli chiaramente distinto, proprio mentre Gesù cercava con loro e me­ diante loro di raggiungere tutto Israele m. Quest'apertura a tutto Israele

"' Un ebreo marginale 2)83-,85. "' Su rutto questo, vedi J.P. MEIER, Dividing Lines in ]esus Research Today, in lnt 50 (1996) 355372, spec. 366-367. Non menziono qui le parole e le azioni di Gesù sul pane e sul vino all'ultima ce-

I singoli membri del gruppo Jei dodici

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eMil�nava di fatto una cena spinta egalitaria. Però, come ci ricordano sia la cerchia più intima dei dodici sia George OJ:Well, in una società ega­ litaria tutti sono uguali, ma alcuni sono più uguali di altri. Il programma escatologico di Gesù non immaginava l'Israele del futuro totalmente pri­ vo di strutture e di ordine, non diversamente dall'Israele del passato. Queste considerazioni su elementi strutturali incipienti nel ministero del Gesù storico vanno accuratamente distinte da una questione molto più complicata che mescola prospettive storiche e teologiche: Gesù fondò o intese fondare una (o: la) chiesa? Qualunque tentativo di rispon­ dere a questa domanda deve necessariamente occuparsi degli elementi storici del ministero pubblico di Gesù che ho elencato precedentemente. È un fatto storico che certi personaggi e certe pratiche provenienti dal ministero del Gesù storico continuarono a essere o diventarono perso­ naggi e pratiche chiave nella chiesa primitiva. Dall'insegnamento sul di­ vorzio alla leadership di Pietro entro la cerchia dei dodici, esistono troppi legami per negare una qualunque connessione tra il ministero di Gesù e la nascita della chiesa primitiva. Allo stesso tempo, si devono onestamente affrontare i profondi ele­ menti di discontinuità. Gesù, l'ebreo, si rivolgeva ai suoi compatrioti i­ sraeliti e cercava di raccogliere tutto Israele nella comunità del tempo fi­ nale. A quanto pare, pensava che solo alla fine della consumazione della storia d'Israele i pagani sarebbero stati introdotti nel regno (vedi, p. es. , Mt 8 , 1 1 - 12 par.)"'. Non era interessato a creare una setta separatista o un resto santo, alla maniera di Qumran, e non inviò mai i suoi discepoli in u­ na missione formale tra i pagani"'. L'idea che la sua speciale comunità re­ ligiosa entro Israele avrebbe lentamente intrapreso un processo di sepa­ razione da Israele in quanto perseguiva una missione tra i pagani in que­ sto mondo presente - con la conseguenza, a lungo termine, che la sua co­ munità sarebbe diventata essa stessa prevalentemente pagana - non trova posto nel messaggio o nella prassi di Gesù.

na, perché questa panicolare pratica simbolica, benché sia perdurata e sia divenuta molto imponante nella chiesa primitiva, non modellò le vite dei discepoli durante

il ministero pubblico. Per la storicità articolo, The Eu­ chanst al lhe Lost Supper: Did /t Happen?, in 1D 42 (1995) 335-35 1. ' " Vedi Un ebreo marginale 2,388-404. "' Anche se affermazioni come Mt 10,5-6 («Non andate fra i pagani e non entrate in una cinà dei samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d'Israele») e 15,24 (hus on the Phar�·

sees, 1 16- 1 19. "' Flavio Giuseppe include Saddok il fariseo come compagno di Giuda il Galileo nel suo (più re­ cente) resoconto della rivolta contenuto in Ant. 18,1 , 1 §4, ma tace sul coinvolgimento del fariseo nd­ la rivolta nel suo (precedente) resoconto parallelo in Bel/. 2,8,1 § 1 1 8 (cosi quando riprende la sua narrazione su Giuda in Ant. 18,1,6 §23). L'omissione di Saddok nel resoconto della Guerra si potreb­ be spiegare semplicemente con il fano che in quest'opera la rivolta di Giuda è trattata più in breve, dato che si tratta di un'opera assai più breve delle Antichità. Peraltro è possibile che, in tale resocon­ to della rivolta di Giuda, Flavio Giuseppe stia perseguendo lo scopo apologetico che pervade la Guerra: la rivolta fu opera di briganti, di teste calde e di irresponsabili gruppi marginali; nessuno dei più importanti gruppi ebraici fu responsabile di essa. Nelle Antichità, un'opera molto più lunga, scritta circa due decenni più cardi. quando la crisi era ormai lontana, Flavio Giuseppe ammette il coinvolgimento dei vari gruppi, compresi i farisei, nella rivolta. (In ogni caso, i ritralti di figure di spicco presentati nelle Antichità tendono a produrre un quadro più variegato). Questo può forse spiegare perché, in Bel/. 2,8,1 §1 18, Flavio Giuseppe insista sul fatto che Giuda avesse una propna (idias hazréseos) scuola di pensiero, del tutto diversa dalle altre scuole, mentre in Ant. 18,1,6 §23 egli dice esattamente il contrario: la Quarta Filosofia di Giuda, nella sua dottrina, concorda interamente con le concezioni dei farisei, eccetto per la passione quasi indomabile della prima per la libertà nazio­ nale.

I farisei

343

così la guerra, i cittadini preminenti si riunirono in assemblea con i prin­ cipali sacerdoti e con i più stimati farisei per tentare di impedire il disa­ stro (Be/l. 2,17,3 §4 1 1 ; cfr. Vita 5 §2 1). Dopo l'inizo della rivolta, alcuni farisei furono coinvolti nelle sue prime fasi (p. es., Simeone I, fariseo e membro del governo provvisorio, e i tre farisei che facevano parte della delegazione inviata a esonerare Flavio Giuseppe dal suo comando in Ga­ lilea)"'. Per di più, è difficile capire perché i romani, abili politici, abbia­ no scelto come loro possibili collaboratori nella Giudea postt:riore al 70 esponenti di un circolo quietista di commensali che, in base a tale ipoetsi, non aveva avuto alcuna esperienza o alcun interesse in campo politico dal 37 a.C. in poi. Una ventina d'anni circa dopo il 70 d.C., i romani fecero la mossa di riconoscere Gamaliele II, discendente di un'eminente famiglia farisaica, come rappresentante degli ebrei della Giudea nei rapporti tra questi e gli stessi romani. Questo non depone certo a favore di una totale estraneità dei farisei dalla vita politica della Giudea durante il secolo pre­ cedente.

B.

UNA BREVE DESCRIZIONE MINIMALISTA IN SEI PUNTI

Forse, parte del problema sollevato da questi approcci sociologici e politici ai farisei consiste nel fano che gli studiosi che li impiegano cerca­ no di sapere, intorno ai farisei del periodo antecedente al 70, più di quan­ to permettano le fonti attualmente disponibili. Qui di seguito, userò le fonti e i metodi più sopra descritti non per fornire una descrizione com­ pleta dei farisei, che non è affatto possibile, ma piuttosto, per abbozzare un profilo essenziale, che sia suffragato da più di una fonte. ( l ) Cominciamo anzitutto da ciò che è ovvio: i farisei (così come i sad­ ducei) erano un gruppo ebraico con interessi sia politici che religiosi, atti­ vo in Palestina precedentemente alla prima guerra giudaica. Questo pun­ to basilare, che non è disputato e non necessita dunque di una ampia di­ mostrazione, è abbondantemente suffragato da tutte e tre le fonti. '" M. HENGEL, Der vorchnstlicbe Paulus, 247, pensa che queste varie indicazioni del coinvolgi­ mento politico dei farisei dimo st rino che, dal 6 al 66 d.C., i farisei erano politicamente divisi a favore e contro la rlvolt::t. Anche se quesro in realtà non si deduce necessariamente Uai dari che possediamo,

è molto probabile che, in campo politico oltre che religioso, i farisei non costituissero un blocco mo·

nolitico. Per esempio, le credenze escatologiche e messianiche che furono a quanto pare abbracciate dal fariseo Paolo di Tarso non erano necessariamente condivise da tutri i farisei del tempo.

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Gesù l'ebreo e i suoi antagonisti ebrei

(a) Negli anni 50 del I secolo, Paolo di Tarso, �fariseo; dà in effetti una testimonianza autobiografica dell'esistenza dei farisei, in Fi/ 3 ,5. Poi­ ché Paolo è diventato cristiano nei primi anni 30 o verso la metà di questi ultimi, e che a quanto pare egli ritiene che nel momento in cui egli scrive ai Filippesi i farisei continuino a esistere come gruppo ben noto"', Paolo fornisce una prova diretta dell'esistenza dei farisei nella prima metà del I secolo d.C. (b) Parallelamente, Flavio Giuseppe asserisce di essere stato un ade­ rente del movimento farisaico da quando aveva 19 anni (Vita 2 § 12), cioè circa dal 56 d.C. (proprio intorno all'epoca in cui Paolo scrive ai Filippe­ si ! ) . Benché io abbia sostenuto precedentemente che Flavio Giuseppe sta mentendo riguardo all'essere stato un fariseo a 19 anni, la sua affermazio­ ne, quantunque non vera, sarebbe una pura sciocchezza e non gli servi­ rebbe assolutamente a nulla se non fosse stato generalmente noto che una 'scuola di pensiero' (hdiresis) denominata i 'farisei' era veramente esistita in Palestina negli anni 50 e aveva continuato a esistere fino alla prima guerra giudaica e durante quest'ultima (come risulta chiaro da Simeone I e dai tre farisei presenti nella delegazione inviata a esonerare Flavio Giu­ seppe dal suo comando in Galilea). (c) Infine, quando le posteriori fonti rabbiniche fanno riferimento a controversie giuridiche tra due gruppi chiamati perufin e �adduqin e al­ cune di queste controversie si riferiscono a condizioni che perdurarono solo fino a quando il tempio di Gerusalemme rimase in esistenza - gli u­ nici gruppi antitetici che potrebbero ragionevolmente venire identificati con i partecipanti alla disputa menzionati in questi testi sono i farisei e i sadducei. In tal modo, almeno sulla fondamentale verità dell'esistenza dei farisei nel periodo antecedente al 70, tutte e tre le fonti concordano. (2) I farisei godevano di grande reputazione per la loro esatta o precisa (akribés) interpretazione della Legge mosaica. L'uso di vocaboli inerenti a 'esattezza' o 'precisione' è un punto su cui Luca e Flavio Giuseppe con­ cordano manifestamente'". Le esatte opinioni su punti di osservanza le-

'" Si noti come tutti gli altri elementi dell'autodescrizione elencati da Paolo nel v. 5, anche se radi· cati nel suo passato, si riferiscano a realtà religiose e sociali che si potrebbero dire valide per tutti o almeno per diversi uomini ebrei del [empo in cui Paolo scriveva la sua lettera ai Filippesi: circonciso l'ottavo giorno, della stirpe di Israele e della tribù di Beniamino, e «ebreo figlio di ebrei>> (riferendosi probabilmente alla sua conoscenza dell'ebraico e/o dell'aramaico, pur appartenendo a una famiglia ebraica della diaspora, che parlava greco). Non c'è morivo di pensare che l'espressione «fariseo quanto alla legge» analogameme non si riferisca a una realtà socio·religiosa presente come pure a una realtà socio·religiosa passata del giudaismo. '" Per Luca, vedi okribera in At 22,3; okr�bis in At 26,5 (dove il Paolo di Luca definisce il farisei·

Ifarisei gale rdativammte 'seCondari presenti nelle dispute tra farisei e saddtrt:ei nella letteratura rabbinica suffragano questo quadro. Flavio Giuseppe sottolinea, forse come parte del suo ritratto negativo dei farisei, che essi godevano di una reputazione (espressa col verbo dokéo) per l'esatta conoscenza della Legge mosaica e dei costumi ance­ strali. Forse deliberatamente Flavio Giuseppe ha fatto in modo che le sue narrazioni sui farisei lascino l'impressione che il gruppo non fosse sempre altrettanto puntiglioso ed esigente quando si trattava di agire secondo la Legge o la morale"'. Turtavia, il ritratto che Paolo ha fatto di se stesso co­ me uno 'zelota' quando si trattava di preservare le «tradizioni dei padri» (Ga/ 1,14), al punto di perseguitare la chiesa nascente, così come la sua insistenza sul suo essere «irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall'osservanza della legge» (Fi/ 3,6, il che ha senso solamente se egli sta facendo riferimento alla sua condotta) 1 16, mostra che i farisei erano inte­ ressati a un corretto comportamento oltre che a una corretta interpreta­ zione. L'ardente polemica dei vangeli contro i farisei, per quanto esagera­ ta e unilaterale, presuppone che si trattasse di un gruppo che si esprime­ va sia nella precisa enunciazione di regole che nella puntigliosa osservan­ za di esse. Nello stesso tempo, questa precisione non va intesa come sin­ tomo di durezza nel giudicare. Piuttosto, tanto il Nuovo Testamento (il consiglio di Gamaliele in At 5,33-40) quanto Flavio Giuseppe (Ant. 13,10,6 §294; cfr. 20,9,1 §199.201) mostrano - e il trattato Sanhedrin del­ la Mishnà suggerisce - che i farisei erano inclini alla clemenza nel giudi­ zio'". smo hus, in JQR 49 ( 1958-59) 53-62; B. V!VIA­ NO, Study os Worshrp, 18. Sulle diverse opinioni in merito a questa identificazione, vedi H.L. STRACK - G. STEMBERGER, lntroduction to the Tolmud ond Midrosh, 71. Contro l'identifica:zione di Pollione con Abralion è J. NEUSNER, The Rabbinic Traditions i , 159. Neusner segnala le discutibili argomenta­ zioni storiche implicate in questa identificazione. Inolcre, le tradizioni rabbiniche non contengono nulla su Shema'iah e Abralion che alluda al coinvolgimento con Erode; tale coinvolgimento è al cen­ tro dei racconti su PoUione e/o Samaia in Flavio Giuseppe. Un'ulteriore difficoltà è che, in Flavio Giuseppe, Samaia è il discepolo di Pollione, mentre, neUa letteratura rabbinica, Shema'iah non viene mai rappresentato come discepolo di Abralion, ma piuttosto come suo collega. "' Su questo punto, vedi J. NEUSNER, The Robbùtic Traditions obout the Pharisees be/ore A.D. 70,

l farisei

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che qUeste tradizioni non siano solo da o5sè!I4tak ma costituiscano anche

una Torah orale che aveva la stessa dignità e importanza della Torah scrit­ ta di Mosè. Questi due argomenti (catena orale ininterrotta a partire dal Sinai e di­ gnità uguale a quella della Torah scritta) non compaiono finché non si giunge alla Mishnà e agli scritti rabbinici successivi. Anche nella stessa Mishnà, la teoria rimane embrionale; la dottrina pienamente sviluppata della Torah orale (tora febeal peh) che sta accanto alla Torah scritta (tora febiktab) ed è stata tramandata a memoria attraverso una recitazione co­ stantemente ripetuta si sviluppa durante il periodo rabbinico. Ritengo quindi che sarebbe anacronistico retroproiettare la dottrina completa della duplice Torah nelle più semplici asserzioni dei farisei riguardo alle loro tradizioni ancestrali. Nondimeno, ( l ) il fatto che m. 'Abot l parli, in un modo o in un altro, di tradizioni che provengono per successione dagli 'anziani' e (2) il fatto che m. 'Abot l concluda questa linea di tradizione con due eminenti figu­ re del I secolo d.C. che vengono definite come farisei in altre fonti (Ga­ maliele I e suo figlio Simeone I) indicano una probabile storia della tradi­ zione. L'idea relativamente semplice dei farisei secondo la quale essi, ac­ canto alla Torah mosaica scritta, possedevano delle tradizioni normative non presenti nella Torah mosaica, tradizioni che erano state tramandate dai loro avi, fu ulteriormente sviluppata nel secondo secolo d.C. e nei successivi fino a giungere alla dottrina rabbinica della duplice Torah. Ciò che conta per noi è che la Mishnà e altri scritti rabbinici in tal mo­ do attestano indirettamente (attraverso una sorta di argomentazione fon­ data su valutazioni a posteriori) il precedente stadio di pensiero farisaico riportato da Paolo, Marco, Luca e Flavio Giuseppe. Sia pure per vie e­ stremamente oblique, la Mishnà conferma la molteplice attestazione dei nostri autori del I secolo riguardo allo zelo dei farisei per le tradizioni dei padri, alle quali i farisei stessi attribuiscono uno status normativo per tut­ to Israele. Un altro punto molto utile risultante da questa investigazione sulla storia della tradizione a proposito della duplice Torah è che abbia­ mo un esempio lampante di come la tradizione farisaica tanto preceda

155·172. Neusner rifiuta come anacronistica la teoria di Birger Gerhardsson esposta nel suo Memory and Manuscript, ASNU 22, Gleerup, Lund; Munksgaard, Copenhagen 1961, secondo la quale i fari· sei antecedenci al 70 usavano il sistema di esposizione e trasmissione strettamente orale della rradizio· ne usuale in seguito tra i rabbini. ll Nuovo Testamento, Flavio Giuseppe e la letteratura rabbinica at­ testano che i farisei avevano tradizioni extra-bibliche; ma non sappiamo come esattamente le conser· vassero e le uasmeuessero. I farisei possono aver usato mezzi sia orali che scritti.

Gesù l'ebreo e i suoi antagonisti ebrei

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quanto confluisca entro la Mishnà; mlr'pttre di come la Mishnà e le suc­ cessive opere rabbiniche trasformino in modo sostanziale la tradizione fa­ risaica che esse hanno ricevuto. (4) Considerando l'importanza di queste tradizioni dei padri, sarebbe assai utile per il nostro tentativo di descrivere i farisei determinare qual e­ ra l'argomento o su che cosa si focalizzavano in genere queste tradizioni. Un modo per tentare di identificare la natura di queste tradizioni è appli­ care il criterio della molteplice attestazione delle fonti. Da un lato, varie tradizioni evangeliche, spesso derivanti da differenti fonti evangeliche, te­ stimoniano certi interessi dei farisei. Dall'altro lato, interessi simili sono ri­ specchiati dallo strato più antico della Mishnà (o, in alcuni casi, della To­ se/tà), il quale trasmette tradizioni sui farisei in generale o su Gamaliele I e Simone I in particolare (identificati come farisei rispettivamente da Lu­ ca e Flavio Giuseppe). Questo agglomerato di interessi, attestato dalle più antiche tradizioni sia evangeliche che mishnaiche, include quanto segue"': a.

regole di purità riguardanti il cibo e i recipienti contenenti cibo e liqui­ di: Mc 7,1-23; Mt 23,25-26; dr. Gamaliele l, m. 'Or. 2,12; Gamaliele l, t. 'Abod. Zar. 4,9. Collegato a questo è l'interesse affine riguardo alle mani pulite e non pulite: Mc 7, 1-5; dr. i farisei in m. Yad. 4,6. b. regole di purità riguardanti i cadaveri e le tombe: Mt 23 ,27-28; dr. i farisei in m . Yad. 4,7. c. purità o sacralità degli strumenti del culto presenti nel tempio di Ge­ rusalemme, e modo appropriato di praticare il culto e offrire sacrifi­ ci nel tempio: Mt 23, 16-22; dr. i farisei in t. lfag. 3 ,35; Gamaliele l, m. Seqal. 6,1; Simeone I, m. Ker. 1,7; anche (indirettamente) Flavio Giuseppe in Ant. 1 8, 1 ,3 §15 e 18, 1 ,4 §17.

m

Si tratta di

un

elenco a puro scopo esemplificativo, non esaustivo. I:denco non intende mostra·

re che i testi evangdici e i passi della Mishnà o della

Tose/tà discutono esattamente la stessa questione

o adouano lo stesso approccio all'argomento; semp1icemente evidenzia simili interessi legali o con­ creti, attribuiti in maniera indipendente in entrambi i

corpora ai farisei. Così pure non asserisco che

possiamo sapere con certezza che, in qualche specifica occasione, Gamalide I o Simeone I abbiano

pronunciare le parole esatte o compiuto le specifiche azioni che sono attribuite loro nella MiJhnà o ne

Ua Tose/tà. È sufficiente che certi interessi halakici siano stati collegati dai rabbini più antichi con

le due grandi figure che sappiamo con buone probabilità essere state farisaiche nel periodo antece­ dente al 70.

( l ) Il fano che il numero di detti o racconti attribuiti a Gamaliele I e a Simeone I sia sor·

prendentemente piccolo nonostante essi siano i predecessori dei leader rabbinici Gamaliele II e Si·

meone II e (2) la probabilità che alcuni dei loro insegnamenti possano essere stati eliminati perché Gamahde I e Simeone I propendevano per le opinioni degli shammaiti fanno pensare che gli inse· gnamenti che sono sopravvissuti, nonostante il trionfo finale degli hillditi, possano benissimo riflette­ re le opinioni di questi due farisei antecedenti al 70.

Ifarisei d. pagtihtento delle decime, quote da ricevere e versare da parte dei .race�: doti: Mt 23,23 ; cfr. Gamaliele l (indirettamente), m. Pe'a 2,5-6; Ga­ maliele I, t. Sanh. 2,6; anche Hillel e Shammai, m. 'Ed. 1 ,2. e. corretta osservanza del sabato e delle festività religiose, specialmente a proposito del lavoro e dei viaggi: Mc 2,23-28; 3 , 1 -6; Le 1 3 , 1 0-17; 14,1 -6; Gv 5,1-18; 9,1-34; cfr. Gamaliele I, m. Ro!. Hai. 2,5; Simeone I, m. 'Erub. 6,2; m. Be$11 2,6 (indirettamente). f. matrimonio e divorzio, incluse la stesura dell'atto di divorzio e le ra­ gioni di divorzio: Mc 10, 1-12 par. (cfr. Le 16,18 par. ) ; cfr. i farisei in m. Yad. 4,8; Gamaliele I, m. Yeham. 16,7; Gamaliele I, m. Git. 4,2-3; ed anche le Case di Hillel e Shammai, m. Git. 9,10. In base alle attestazioni dei racconti e dei detti di Gamaliele I e Simeo­ ne I, si possono ampliare i dati disponibili includendo molte attestazioni di questi interessi contenute negli insegnamenti della Casa (= Scuola) di Hillel e della Casa di Shammai, le due 'scuole' principali del giudaismo palestinese dei secoli I e II d.C. Come sottolinea Neusner, vi sono motivi per pensare che tanto Gamaliele I quanto Simeone I non solo fossero fa­ risei ma stessero anche nell'ambito della tradizione degli shammaiti. Per associazione, dunque, la Casa di Shammai si qualificherebbe come parte della tradizione farisaica; e tale, per associazione, risulterebbe anche la correlativa Casa di Hillel. Come mostra chiaramente la lunga tavola re­ datta da Neusner alla fine del suo secondo volume di The Rabbinic Tradi­ tionr, entrambe le Case testimoniano gli interessi legali elencati in prece­ denza'". Si deve ammettere che tutto questo ragionamento è un po' invo­ luto e indiretto. Nondimeno, la correlazione esistente tra queste tradizio­ ni tannaitiche riguardanti Gamaliele I e Simeone I - ampliate fino a in­ cludere le Case di Hillel e Shammai - e gli analoghi interessi attribuiti ai farisei nei vangeli rende probabile che abbiamo qui una costellazione di preoccupazioni legali tipiche dei farisei, anche se non necessariamente e­ sclusive di tale gruppo. A questo punto è opportuno chiarire in quale modo utilizzo il criterio della molteplice attestazione. Sto parlando, in termini generali, delle principali attenzioni e dei principali interessi dei farisei così come sono >M

Sul collegamento tra Gamaliele I e Simeone

I con la tradizione della Casa di Shammai, vedi ].

NEUSNER, The Rabbllric Traditiom, 344-345.386-387. L'elenco completo degli argomenti discussi dal­

le due Case è fornito da}. NEUSNER, ibid. , 2, 345-353. Sebbene questo elenco contenga molti altri ar· gomenti, esso attesta abbondantemente gli interessi giuridici che ho ricovato dalle tradizioni su Ga­ maliele l e Simeone.

Gesù l'ebreo e i suoi antagonisti ebrei

358

documentati da due ò tre differenti corpora di letteratura religiosa · e/o storica che risalgono in definitiva alla Palestina del I secolo. In particola­ re, va sottolineato che non sto asserendo, a questo punto della discussio­ ne, che il Gesù storico abbia effettivamente pronunciato qualcuno dei detti compresi nell'elenco di cui sopra. Fortunatamente, questa asserzione non è necessaria a questo punto della discussione. Per questa descrizione degli interessi farisaici attraver­ so la molteplice attestazione delle fonti è sufficiente mostrare che varie o­ pere cristiane, molte delle quali riflettono tradizioni che risalgono al pe­ riodo antecedente al 70 (sicuramente almeno Marco e Q), testimonino certi interessi farisaici che sono documentati anche in Flavio Giuseppe o in uno strato assai antico della letteratura rabbinica. Finora ho cercato solo di dimostrare che certe pratiche e credenze fossero caratteristiche dei farisei antecedenti al 70 e non che il Gesù storico abbia effettiva­ mente dibattuto con i farisei di queste pratiche o credenze. (5) Non sorprende che gran parte di ciò che nel Nuovo Testamento e nella Mishnà è attribuito all'insegnamento farisaico si riferisca a decisioni od opinioni giuridiche riguardanti comportamenti concreti (hdltikot). Tali opinioni giuridiche costituiscono quasi sempre l'oggetto di una disputa tra Gesù e i farisei, come riferiscono i vangeli. Questo è ben poco sor­ prendente, e gode in effetti di un certo grado di verosimiglianza, dato che il giudaismo antico, così come il giudaismo più tardo, insisteva più sul­ l' ortoprassi che sull'ortodossia. Nondimeno, il giudaismo non era privo di dottrine. ll monoteismo e la speciale condizione di Israele come popolo eletto sono due esempi di ar­ ticoli di fede accolti dalla maggioranza, se non dalla totalità, degli ebrei palestinesi nel periodo di passaggio da un'era all'altra. Non stupisce quindi che, nell'ambito del giudaismo palestinese, i farisei ritenessero va­ lide particolari dottrine. Qui è Flavio Giuseppe, piuttosto che la Mishnà, che conferma direttamente le affermazioni del Nuovo Testamento',.. -

'" Neusner s� evidenzia la grande differenza tra il quadro dei farisei che emerge nel materiale rabbinico, dove essi sono associati a particolari sentenze e opinioni giuridiche (htiltikOt) e il quadro dei farisei in Flavio Giuseppe, dove essi sono un'influente scuola filosofica (oltre che una fazione po­ litica) che insegna dottrine specifiche come l'immortalità dell'anima, la risurrezione del corpo e la Provvidenza di Dio (espressa col termine filosofico greco 'fato') che tuttavia lascia spazio alla decisio­ ne e alla cooperazione umana; vedi, ad esempio, From Politics lo Piety, 66.80; ID., The Use o/ Later Rabbimc Evtdence, 486-487 (dove anche i vangeli sono messi a confronto con il ritratto rabbinico). Secondo me, le differenze tra Flavio Giuseppe e il materiale rabbinico si spiegano forse almeno in parte con le grandi differenze di genere letterario, di scopo e di destinatari di ciascun complesso di scritti; per spiegare tali differenze non serve postulare che, all'inizio, i farisei furono Wl& fazione poli-

I farisei

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(a) Tutti e tre i vangeli sinottici, così come gli Atti, distinguono i sad­ ducei come un caso speciale perché negano la risurrezione dei morti. Quando Marco introduce i sadducei - essi compaiono una volta sola nel suo vangelo, nella disputa sulla risurrezione dei morti (12,18-27) verso la fine del ministero di Gesù - fa qualcosa che non fa in nessuno degli altri passi in cui presenta per la prima volta un particolare gruppo di opposi­ tori di Gesù. Egli aggiunge una proposizione relativa che definisce con precisione la caratteristica distintiva dei sadducei ( 12,18): «Vennero a lui [Gesù] dei sadducei, i quali dicono che non c'è risurrezione». Ciò impli­ ca naturalmente che questa posizione dottrinale differenzia i sadducei dalla maggioranza, se non dalla totalità, degli altri ebrei o gruppi ebraici. In effetti, si può forse specificare meglio tale implicazione, sulla base del­ la collocazione che Marco assegna alla disputa sulla risurrezione all'inter­ no della sua raccolta d i racconti di dispute a Gerusalemme (Mc 1 1 ,20-12,37). Marco pone la disputa sulla risurrezione tra Gesù e i sad­ ducei subito dopo il racconto di una disputa che coinvolge i farisei (insie­ me con &li erodiani), i quali pongono una domanda riguardo al tributo a Cesare. E possibile che questa collocazione implichi almeno - anche se non lo dice esplicitamente - che il tratto distintivo dei sadducei, la loro negazione della risurrezione, li distingue in particolare dai farisei"0• Luca

tica ma =sarono di esserlo dopo eh� Erode il Grande sall al pot�re. In una certa misura, il Nuovo Testamento rappresenta uno stadio intennedio fra Flavio Giuseppe e la M.Shnà, in quanto il Nuovo Testamento presenta i farisei sia come fautori di certe dottrine (ad esempio, la risurrezione dei morti) sia come osservanti certe nonne speciali (riguardanti ad esempio il mangiare detenninati cibi e le d�­ cime). '" Questa tesi contrasta l'ipotesi di ].D. KINGSBURY, The Religious Authorities i" the Gospel o/ Mark, in NTS 36 ( 1 990) 42-65, il quale sostiene che Marco presenta i vari gruppi di autorità ebraiche come costituenti un fronte unito contro Gesù; Marco non insiste sulle differenze tra i vari gruppi. A me sembra, tuttavia, che la distinzione tra i sadducei e i farisei sia per lo meno suggerita da Marco dal modo in cui egli in 12,18 introduce i sadducei, dopo aver riferito in 12,13·17 il racconto della di­ sputa in cui sono coinvolti «alcuni farisei ed erodiani». Iniziando la disputa successiva con l'afferma­ zione «Vennero a lui [Gesù] dei sadducei, i quali [h6rtines, precisamente perché sono sadducei] dico­ no che non c'è risurrezione» ( 12,18), Marco implica che questa sia la caratteristica distintiva dei sad­ ducei, che li differenzia dai suddetti farisei (e presumibilmente dagli erodianil. Diversamente da quanto avviene in Luca, che di solito trascura la distinzione tra il pronome relativo semplice h6r e il relativo composto h6stis, è possibile che Marco in 12,18 stia usando h6itines con la sua connotazione qualitativa o addirittura causativa; vedi M. ZERWlCK, Graecitas Biblica, Pontificio Istituto Biblico, Ro­ ma 1966', 70-72 (#215-220). Si osservi inoltre che, subito dopo la disputa sulla risurrezione, Marco affenna che «uno degli scribi» ammette che Gesù ha confutato efficacemente la tesi dei sadducei (12,28). Questo scriba (che potrebbe essere un fariseo, anche se la cosa non è detta) viene distinto chiaramente dai sadducei, sconfitti. La conseguenza più probabile è che egli, come Gesù, accetti la dottrina della risurrezione dei morti.

Gesù l'ebrn� � i suoi antagonisti ebrei

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prosegue affermando chiaramente questa differenza tra sadducei e farisei in At 23,6-9 (cfr. At 4,1-2; 5 , 17)"'. Pure Flavio Giuseppe riferisce che i farisei differiscono dai sadducei su questo punto. Parla di questo in due dei passi in cui egli presenta il fari­ seismo come una specie di scuola filosofica greca, simile a quelle familiari ai lettori greco-romani (Bel!. 2.8,14; Ant. 18, 1 ,3 § 14). In particolare i fari­ sei sono paragonati agli stoici (cfr. Vita 2 § 12). In questi due passi, Flavio Giuseppe afferma chiaramente che i farisei, diversamente dai sadducei, credono nell'immortalità dell'anima, in un luogo di premio e punizione dopo la morte, e - si afferma almeno in un passo - nella risurrezione del corpo (Bel!. 2 ,8, 14 § 163; sebbene sia possibile che i suoi lettori pagani abbiano interpretato l'ambiguo linguaggio di Flavio Giuseppe come rife­ rito invece alla reincarnazione)"'. La Mishnà non oppone direttamente i farisei e i sadducei su questo te­ ma. È tuttavia possibile che essa contenga un vago riflesso di questa con­ troversia. In m. Sanh. 10, 1, la Mishnà esclude da una partecipazione al mondo futuro chiunque dica che non vi è risurrezione dei morti - o, in u­ na variante (probabilmente posteriore) del testo, chiunque affermi che la risurrezione dei morti non è insegnata nella Torah mosaica (o non è de­ ducibile da essa) '". Se quest'ultima è la forma originaria del testo, il rife-

141

In At 23,8, Luca riferisce che i sadducei negano non solo la risurrezione ma anche l'esistenza

di

angeli o spiriti, mentre i farisei affermano tutte queste realtà. Non abbiamo nessun'altra testimonian­ za nel Nuovo Testamento, in Flavio Giuseppe o nell'amica letteratura rabbinica sul rifiuto di angeli e spiriti da parte dei sadducei; ed è difficile capire come i sadducei possano aver negato in maniera as­ soluta l'esistenza degli angeli, dal momento che 'l'angelo del Signore' ha un ruolo importante in certe parti del Pentateuco. Su questo, vedi E. HAENCHEN,

Die Apostelgeschichte, 567

n.

l . Forse Luca ri·

flette, aherandola, l'idea che i sadducei rifiutassero l'enorme diffusione di speculazioni su angeli e demoni che proliferava nei circoli di apocalittici, mistici e magici ebraici intorno all'inizio dell'era cri­ stiana, mentre aLneno alcuni farisei erano aperti a tali sviluppi. Sull'intera questione, vedi la traua­ zione sui sadducei nel prossimo capitolo. "' Vedi S. MASON,

f'lavius }osephus on the Pharisees, 156- 169. In tealtà, il confine tra cene conce­

zioni della risurrezione del corpo e certe concezioni della reincamazione è piuttosto labile. Tuttavia, la successione dei pensieri in

Bel/ 2,8,25 §163 fa pensare ad un passaggio definitivo, una volta per

tutte, dell'anima del giusto in un corpo nuovo come una forma di premio eterno (contrapposto al

·castigo eterno' che 'i malvagi subiscono'). Questo è decisamente diverso da almeno alcune idee sulla reincamazione, che spesso implicano la possibilità di un passaggio attraverso una lunga successione di molti corpi come parte di un processo di purificazione o di punizione progressivo verso il deside­ rato traguardo di una esistenza incorporea o di una totale estinzione della persona umana con la sua

coscienza individuale.

"' In ebraico, la forma più lunga del testo di rn. Sanh. 10,1 ri porta a questo punto: hii'omifr 'én tél;iyyat harnrnétim min-hattorti ( Pmso che ciò descriva con maggiore esanezza ciò che Flavio Giuseppe afferma, rispetto alla resi

Flavius }orephur on the Phorireer, 293, secondo la quale. nella sua terza esposizione, (tino... tino) che aveva usato in Ant. 13 e torna al modello della 'cooperazione' di Beli. 2. Piuttosto, egli sembra tentare consapevolmente una 'fusio­ di S. MASON,

Flavio Giuseppe abbandona il modello dell'equilibrio ne' delle due esposizioni precedenti.

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della storia di Israele come inesorabilmente diretta da Dio verso un com­ pimento cosmico, nel quale egli risusciterà e giudicherà i morti. L'accento posto sulla libera scelta nell'arena del bene e del male corrisponde bene all'insistenza farisaica sulla responsabilità di Israele di obbedire alla santa volontà del Dio santo quale è rivelata nella Legge e spiegata nelle tradi­ zioni dei padri, una responsabilità che si esprime nella rigorosa e detta­ gliata osservanza di tutti i comandamenti. Infine, comunque, resta da chiedersi se la giustapposizione tra una affermazione sul totale controllo di Dio e un accento posto sulla responsabilità umana differenziasse real­ mente così tanto i farisei dalla maggioranza degli altri ebrei"'. La nostra lista di tutti i sei punti fondamentali a proposito dei farisei e, in particolare, la natura problematica del sesto punto, dovrebbero ren­ derei cauti nel concludere che l'uno o l'altro di questi punti rendesse fari­ seo un fariseo. Quello che caratterizzava i farisei in quanto tali non era un credo o una pratica. Si possono descrivere i farisei solamente creando u­ na Gesta/t, una configurazione di credi e pratiche che convergono a for­ mare un tutto organico che chiamiamo fariseismo. Era questo tutto orga­ nico che faceva sì che i farisei si distinguessero nell'ambito dell'ebraismo antecedente al 70 ma non esclusi da esso. Questo è ciò che i sei punti, presi assieme, intendono significare. E tuttavia anche una tale configurazione non descrive pienamente i fa­ risei, che non costituivano una conventicola separatista come Qumran. Assieme a quasi tutti gli altri ebrei palestinesi i farisei facevano parte di quello che potremmo chiamare la corrente principale del giudaismo, o giudaismo 'comune'"': la convinzione che Israele fosse il popolo scelto di -

"' Non è da escludere che, sia in Be/l. 2 che in Ant. n, sia lo stesso Flavio Giuseppe a far diventa· re il fato e il libero arbitrio la questione centrale che distingue i farisei dai sadducei; su questo, vedi S. MASON, Flavius ]osephus on the Pharisees, 1)2. Questo semplicemente ci ricorda che non dobbia· mo passare con troppa rapidità e ingenuità dal ritratto che Flavio Giuseppe dà dei farisei alla realtà storica dei farisei. Vedi anche E.P. SANDERS, ]udllism. Practice & Be/ie/. 418-419 [trad. it. cit., 553· 555]. Come esempio della credenza farisaica circa il fato e il libero arbitrio, si cita spesso il celebre detto di m. 'Abot 3,15: hakkol �apuy wehiirisut netund (>, ubin 'en-/0) è tradotto liberamente in Mc 12,19 con «e non lascia fi­ glio» (kài mè aphe téknon); i LXX traducono il costrutto ebraico più esauamente con spérma dè mèé auto («e non c'è per lui discendenza»). Tuttavia, Mc 12,19 è più vicino all'ebraico nell'uso di téknon ('figlio') per ben ('figlio maschio' o genericamente 'figlio/a') rispetto alla resa dei LXX con spérma ('discendenza'). Mc 12,19 differisce da Dt 25,5 dei LXX anche in altri dettagli e non può essere con­ siderato semplicemente una ripresa della forma del testo dei LXX. Come per Gen 38,8, Mc 12,19 usa il verbo composto exanastise, 'suscitare' invece del semplice andstison dei LXX. La sceha di Marco è curiosa, dato che il verbo semplice corrisponderebbe meglio al sostantivo antistasis ('risurrezione') e al verbo anistamai ('risorgere') nei vv. 18.23.25. Questo può essere un segno che Marco sta invece u­ tilizzando una citazione che era già stabilita nella tradizione e non attinge diretcamente ai LXX né propone una sua traduzione. '00 Si potrebbe argomentare che tutto questo corrisponde perfettamente alle conclusioni di R.H. GUNDRY, The Ure o/ the 0/d Testament l , 28.147-150, il quale osserva che le citazioni marciane del­ l'AT che sono introdotte da una formula (ossia, 'citazioni formali') sono quasi interamente tratte dai LXX, mentre tutti i tipi di schemi di confonnità e diffonnità con i LXX e il TM si trovano in citazio­ ni allusive di Marco (cioè, quelle che non hanno un'introduzione formale e che appaiono qua e là nel contesto). In realtà, anche se Gundry pone Mc 12,19 tra le citazioni allusive, l'introduzione «Mosè ci ha lasciato scritto che . . . », insieme alla chiara indicazione che il riferimento è alla legge dd [evirato nel Deuteronomio, indurrebbe a concludere che Mc 12,19 sia una citazione formale Ji Dt 25,5. Dopo tutto, (l) i sadducei intendono chiaramente citare la Scrittura normativa di Mosè, (2) l'hòti nel v. 19 è ritenuto da alcuni esegeti l'equivalente di un indicatore di citazione (vedi, P- es., RH_ GUNDRY, Mark, 701; ].-G. Mumso MBÀ MUNDLA, ]eru.< und die Fuhrer, 75), (3) il v. 20 chiaramente conclude la citazione e riprende proponendo a Gesù un caso ipotetico che esemplifica la legge dd !evirato. (Tra l'altro la fusione con un altro testo veterotestamentario non impedisce a un testo di essere una citazione fonnale; cfr. Mc 1,2). Se ammettiamo che Mc 12,19 sia una citazione formale - come io ri­ tengo -, allora essa diverge assai dalla forma pura dei LXX che si trova quasi sempre in simili citazio­ ni in Marco. Questa può essere un 'indicazione, fra le tante, che Marco stesso non ha creato il raccon­ to di sana pianta.

I sadducei

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niera ingegnosa una tesi in tutto quesi�arlare di 'risurrezione' (andsta­ sis) e dell"essere risuscitati (dai morti)' (anistamai). Se lo scopo della leg­ ge del levirato è 'suscitare una progenie' per il fratello defunto (come il testo interpolato da Gen 38,8 dice), l'implicazione è che un'azione tanto estrema è necessaria in questa vita perché questa è l'unica vita che c'è, e qualsiasi 'risurrezione' deve essere compiuta qui. Questo estremo, dispe­ rato tentativo di creare una discendenza, anche mediante l'invenzione giuridica di considerare il primo figlio del secondo matrimonio come il fi­ glio del marito defunto, implica che avere discendenti di sangue per dare continuità al nome di un uomo è l'unico genere di immortalità che il fra­ tello morto potrà mai avere, e così il suo fratello che gli è sopravvissuto deve garantire che egli l'abbia. (b) La seconda sottosezione (vv. 20-23) della prima parte propone un ca­ so fittizio e intenzionalmente bizzarro che ricade sotto la legge del levirato e che ha lo scopo di illustrare quale effetto assurdo e che imbarazzo insolu­ bile qualsiasi risurrezione dei morti produrrebbe nel caso di )evirato. La te­ si potrebbe benissimo essere sostenuta con un semplice esempio che impli­ chi due fratelli, uno dei quali muoia senza lasciare figli. Ma secondo lo stile tipicamente popolare e anche biblico, il numero dei fratelli è dilatato a set­ te, il numero della totalità e della completezza'01, per sottolineare il contro­ senso dello stato di risorto in una situazione del genere. È una vecchia mos­ sa teologica: vincere la disputa teorica ridicolizzando i propri avversari. Il tema è espresso nei vv. 20-21 menzionando i primi tre fratelli indivi­ dualmente (il tre, insieme al sette, è un numero prediletto nei racconti o­ rali, comprese le barzellette). Poi, dopo che sono stati elencati i primi tre, si riassume l'esito finale dell'intero processo, dato che il problema è stato chiarito abbondantemente: «E nessuno dei sette [fratelli] lasciò discen­ denza [v. 22a]. Infine, dopo tutti, morì anche la donna [v. 22b]». La tesi è formulata e sottolineata anche dalla ripetizione sia all'inizio che alla fine della domanda-trabocchetto nel v. 23: «Nella risurrezione, quando risorgeranno, a chi apparterrà la moglie?». Per mettere in eviden­ za l'inesorabile assurdità della situazione, creata esattamente dalla scru­ polosa osservanza della Legge mosaica, i sadducei aggiungono come loro stoccata finale: «Poiché i sette [fratelli tutti] l'hanno avuta come moglie

'" È possibile che vi sia qui una vaga allusione ai sette successivi mariti di Sara in Tb 3,8.15; 6,13; 7,11. Meno probabile è un'allusione ai sette fratelli martirizzati da Antioco IV in 2 Mac 7,I-4I; il te· ma della risurrezione è presente in questo passo, ma non il tema dd matrimonio. Su questo, vedi R.H. GUNDRY, Mark, 705.

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[durante la loro vita terrenah�. Di conseguenza tutti e sette hanno un di­ ritto su di lei e sulla sua attività sessuale nel loro stato di risorti'"'. Ora, per apprezzare tutta la forza della situazione ridicola dipinta dai sadducei, bisogna comprendere un'importante distinzione nella società giudaica tra poliginia e poliandria. Da un lato, la poliginia (un marito con molte mogli nello stesso tempo) era conosciuta ed ammessa tra gli israeli­ ti dei tempi biblici antichi, era ancora praticata tra i capi politici durante il periodo monarchico e sopravvisse in casi isolati al tempo di Gesù fino al periodo rabbinico'0'. Dall'altro, l'idea della poliandria (una sola moglie con molti mariti nello stesso tempo) sarebbe sembrata sia gravemente of­ fensiva sia supremamente sciocca per degli ebrei del I secolo inseriti in u­ na società patriarcale - a maggior ragione se essi contemplavano la condi­ zione ultima della salvezza umana al di là di questo mondo presente. Pertanto, è probabile che non per caso i sadducei cerchino di screditare l'idea della risurrezione non ponendo il problema di un marito con molte mogli - alcuni antichi giudei potrebbero aver considerato il ripristino di un matrimonio poliginico come parte delle beatitudini dello stato di risor­ ti - ma piuttosto rievocando la prospettiva culturalmente ripugnante di un matrimonio poliandrico. Dal momento che la risurrezione dei morti po­ tenzialmente comporterebbe la poliandria per tutte le donne ebree che hanno contratto un matrimonio di )evirato, l'unica alternativa logica, seICI2 Il caso invemato dai sadducei presuppone che i giudei che credono in una risurrezione dei mor­ ti ritengano che in quello stato i rapporti sessuali saranno ristabiliti. Al clini commentatori (p. es.,].­ G. Mumso MBA MUNDLA, ]esus und die Fiihrer, 87) fanno ricorso alla letteratura rabbinica posterio· re sia per illustrare sia per menere in discussione questa idea, ma l'intero approccio è problematico: (l) ci troviamo di frome al solito problema dell' utilizzazione di resti composti secoli più tardi in un comesro culturale diverso per spiegare un resto del l secolo. (2) Anche se vengono usati dci testi rab· binici, non è sempre chiaro se questi testi si riferiscano al regno intermedio del Messia. alla risurre­ zione ftnale dei morti o all'esistenza delle anime dei giusti in paradiso. La prosecuzione delle attività fisiologiche come il mangiare e la procreazione è comprensibilmente negata per l'ultima delle ue condizioni menzionate, mentre almeno alcuni testi sembrano considerare tali attività fisiologiche nel­ le alcre due condizioni di esistenza. Tuttavia, nella situazione molto fluida del giudaismo palestinese degli inizi del I secolo, è sbagliato cercare una concezione normativa sulle esatte condizioni dell'esi­ stenza umana dopo la risurrezione. La contestazione dei sadducei evidentemente presuppone che, al­ meno a livello popolare, si riteneva che l'attività sessuale - e probabilmente molte altre attività cor· porali proprie di questo mondo - riprendesse dopo la risurrezione. '"' Vedi V.P. HAMilTON, Marriage (O/d Testament and Ancient Near East), in Anchor Bible Dictio­ nary 4, 559·569, spec. 565. Sulla poligamia (sempre poliginia) tra gli ebrei della Palestina a cavallo dell'epoca di Gesù, vedi ]. ]EREMIAS, Jerusalem in the Time o/ ]esus, 90.93.369 [rrad. ir., 1 5 1 . 157158.553·554]. Nel suo articolo Polygamy, in The Ox/ord Dictionary o/ the Jewish Reltgion, edd. R.J. Zwi Werblowsky e Geoffrey Wigoder, Oxford Universiry, New York!Oxford 1997, 540, Daniel Sin­ clair sostiene che i rabbini ritenevano lecita la poligantia, anche se pochissimi rabbini ebbero di farro più di una moglie.

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condo i sadducei, è n�are l'idea globale della risurrezione come implicita­ mente esclusa dalla legge di Mosè, specificamente dalla legge del levirato. Poiché la poliandria è impossibile, la risurrezione è impossibile"". È un' ar­ gomentazione ingegnosa, anche se contorta e grottesca. Non c'è dubbio che, nel raccontare questa storia, i sadducei si siano molto compiaciuti della propria ingegnosità e acutezza. Pensano di aver vinto con l'arguzia. (2) Invece, all'inizio della seconda parte (w. 24-27), Gesù immediata­ mente risponde a tono con la sua domanda beffarda e retorica. In uno stile autenticamente rabbinico, Gesù contrattacca eludendo la domanda dei sadducei con un'altra domanda. Quello che è assurdo, dice Gesù, non è l'idea della risurrezione, ma la vostra ignoranza, sadducei, che vi vantate delle vostre argomentazioni ingegnose ma erronee, tratte dalla Scrittura: «Non siete voi forse in errore dal momento che non conoscete le Scritture, né la potenza di Dio?»'0'. Menzionando il duplice oggetto

'M

Si potrebbe intendere il dilemma posto dai sadducei in modo alquanto diverso: vale a dire, dato

che la poliandria è impossibile, la moglie può essere la moglie di uno solo dei suoi sette mariti. Ma in vita la donna era stata egualmente e legalmente la moglie di tutti e sette i fratelli, senza nessuna di­ scendenza che possa dare a un matrimonio una condizione privilegiata rispetto ag]i altri. Di conse­ guenza, non esiste alcun criterio per assegnarla a uno piuuosto che a un altro fratello. (Alcuni com­ mentatori citano l'opera mistica giudaica medievale intitolata Zohar per l'idea che una donna sposata due vohe sarebbe restituita al suo primo marito; ma quest'opera tarda non può essere usata per spie­ gare un dibattito del I secolo). Alla fine, questa linea argomentativa sembra ridursi allo stesso proble· ma da me rilevaw: lo stato di poliandria rimane, senza alcuna possibilità di soluzione. Pertanto, pren­ derei la domanda dei sadducei nel v. 23 non come la richiesta sana di un criterio per scegliere Ira i seue frateUi, ma piuttosto come un modo per far rilevare l'assenza di un qualsiasi criterio e quindi la perdurante unione poliandrica - una situazione che è considerata ridicola e inaccettabile da pane di tutti, non solo adesso sulla terra, ma ancor più in cielo nella risurrezione.

'M In questa traduzione del v. 24, ritengo che l'iniziale dià tùto ('poiché') regga il participio (mi eidOtes, 'non conoscendo', cioè 'poiché voi non conoscete'. A. SuHL, Die Funktion, 69, e R.H. GUN­ DRY, Mark, 705-6, ritengono invece che dià tUto si riferisca a quello che i sadducei hanno detto nei versetti precedenti. Le cose non stanno necessariamente così. ( l ) Di per sé, il tUto dimostrativo può riferirsi sia a quanto precede sia a quanto segue. (2) Suhl e Gundry obienano che l'espressione dià tUto si riferisce a quanto segue solo quando è seguita da una proposizione introdotta da h6ti, bina, da Wla frase infinitiva o da un sostantivo. (Chiari esempi di dià tUlo riferito a quanto segue mediante u­ na proposizione causale introdotta da hoti si trovano in Gv 5 , 16+18). Ma l'espressione panicipiale mi eidotes in Mc 12,24 ha, per consenso unanime degli esegeti, un significato causale ('perché non conoscete') e quindi è l'equivalente funzionale di una proposizione causale introdotta da h6ti. Il fatto

che in Marco non ricorra un altro esempio di questo costrutto non sorprende; il vangelo di Marco è pieno di locuzioni e strutture grammaticali inconsuete che compaiono una sola volta nella sua opera. In ogni caso, la discussione sul preciso riferimenro di dià tUto non invalida la constatazione che Gesù menziona due realtà che i sadducei non conoscono (la Scrittura e la potenza di Dio) e che Gesù pro­ segue trattando queste due realtà in ordine chiastico. Come osserva J.·A. MUDISO MoA MUNDLA, ]e­ sus und die Fiihrer, 90, 1'uso del verbo plantio nei LXX mostra che si tratta di una trasgressione colpe­ vole della volontà di Dio, e non solo e semplicemente di errore intellettuale.

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della loro ignoranza, le Scritture e la potenza di Dio, la domarida di Gesù introduce le due sottosezioni della seconda parte (v. 25 e w. 26-27 ). Da un lato, non comprendendo correttamente le Scritture, i sadducei non sono riusciti ad afferrare che queste Scritture - in realtà, proprio la Torah di Mosè di cui essi hanno tanta venerazione - insegnano il /atto della ri­ surrezione. Dall'altro, non comprendendo che la potenza di Dio nell'ulti­ mo giorno trasformerà radicalmente l'esistenza umana, essi non sono riu­ sciti a cogliere la maniera o la modalità della vita nuova e diversa che Dio creerà per il suo popolo. Gesù poi prosegue, nelle due sottosezioni, trattando di questi due er­ rori in ordine chiastico (invertito): primo, la maniera della risurrezione, poi, il fatto della risurrezione. Quest'ordine rovesciato ha senso, dal mo­ mento che Gesù deve prima dissipare l'idea erronea sulla natura o la ma­ niera della risurrezione, che per i sadducei esclude a priori qualsiasi seria considerazione dell'argomento. Solo a questo punto Gesù può prosegui­ re fornendo una prova scritturistica positiva del fatto della risurrezione. (a) Di conseguenza, la prima sottosezione (v. 25) riguarda la maniera della risurrezione - o, più specificamente - la potenza trasformante di Dio, che si manifesta nelle condizioni di vita nuove e del tutto diverse che la risurrezione crea",.. Gesù riprende anzitutto la frase dei sadducei dal v. 23 : «quando risusciteranno». Egli non solo afferma ma inoltre rafforza l'espressione: «quando risusciteranno dai morti». Posta all'inizio della re­ plica di Gesù, la frase evidenzia che egli sta parlando di una risurrezione reale di persone che precedentemente erano morte; l'identità personale di coloro che una volta erano morte con coloro che ora risorgono è affer­ mata implicitamente. E tuttavia l'identità personale non significa identità o totale continuità ''" C.K. Barren probabilmente ha ragione quando afferma che dY,amin ('potenza') nel v. 24 signi­ fica in particolare la potenza escatologica di Dio. Più incerto è il ricorso che egli fa alla celebre pre­ ghiera sinagogale delle Diciotto benedizioni (Amidah o Shemoneh Esreh). NeUa struttura tradizionale di questa preghiera, la prima benedizione (Aboth) loda il Dio di Abramo, il Dio di !sacco, il Dio di Giacobbe, che è lo 'scudo (cioè, il protenore) di Abramo' (stabilendo in tal modo, dice Barrett, un paraUelo con la prova di Gesù da Es 3,6 nel v. 26). La seconda benedizione (Geburoth) loda Dio CO· me il 'potente' e 'forte', che manifesta la sua potenza escatologica 'facendo vivere i morti' (stabilendo in tal modo un paraUelo con l'argomento teologico di Gesù nel v. 25). Anche se il parallelo è affasci­ name, incontra un problema notevole: la data in cui furono fissati l'ordine e il testo deiJe Diciotto be­ nedizioni. Neii'Enc]ud 2, 839-840. la voce 'Amidah' dice che l'ordine esatto e la formulazione dcUe Diciotto benedizioni non erano probabilmente fissi nel periodo pre 70 «l tentativi di ricostruire il te­ sto 'originale' deU'Amidah o di determinare la data in cui ogni sezione fu 'composta' sono inutili . . . F u probabilmente solo agli albori del periodo geonico (cioè, post-talmudico) che le fanne defmitiv< dcU'Amùiah furono stabilite e messe per iscritto . . .». -

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tra la precededt� modalità di esisteninerrerla di una persona e il modo in cui quella persona esisterà dopo che sarà risuscitata dai moni. Insieme alla continuità della persona c'è una grande discontinuità nella modalità dell'esistenza di quella persona. La relazione fondamentale tra maschio e femmina, sancita in questo mondo dal matrimonio, dall'attività sessuale e dalla procreazione, è completamente e definitivamente mutata e trascesa nello stato di risoni. Gli uomini non prenderanno moglie e le donne non prenderanno marito. Piuttosto, dice Gesù, usando una similitudine per indicare la trasformazione fondamentale nella maniera dell'esistenza u­ mana, sia gli uomini che le donne saranno «come [hos] angeli nei cieli». Ora, dobbiamo intendere questa affermazione ponendoci nella pro­ spettiva del giudaismo del I secolo, non del cristianesimo posteriore. L'i­ dea che gli angeli sono 'puri spiriti', privi di qualsiasi componente mate· riale, corpo o sessualità, divenne comune nella teologia cristiana solo ver­ so la fine del periodo patristico107• Come risulta evidente dal racconto dei 'figli di Dio' (cioè, esseri angelici) che hanno un'attività sessuale e pro­ creano unendosi alle 'figlie degli uomini' (cioè, donne appartenenti al ge­ nere umano) in Gen 6,1-6, nell'AT e nel giudaismo antico si pensava che gli angeli avessero corpi molto rarefatti o sottili (fatti, p. es., di fuoco), compresi gli organi sessuali. Pertanto, i serafini nella visione di Isaia in Is 6,1-3 si coprono «i piedi» (un eufemismo per indicare gli organi genitali) con due delle loro sei ali per rispetto del Dio «tre volte santo» che essi proclamano. U racconto in Gen 6,1-6 di alcuni angeli («i figli di Dio» che si unisco­ no con donne «figlie degli uomini» divenne argomento di grande specu­ lazione a cavallo dell'era cristiana, come l Enoch 6-1 1 mostra chiaramen­ te"'". Tale attività sessuale è del tutto inaccettabile perché, come Dio spie­ ga in l Enoch 15,6-7, egli ha creato gli angeli perché fossero immonali. Poiché essi abitano nei cieli e possiedono la vita eterna, Dio non ha crea­ to mogli per loro, benché siano esseri sessuati109• Essi sono destinati a re>m Alla voce «Angels», I' Ox/ord Dictionory ofthe Chrirti4n Church, edd. F.L. Cross e E.A. Living­ stone, Oxford University, Oxford 1997', 61-63, si sottolinea che la natura spirituale e immateriale de­ gli angeli non fu pienamente ammessa fino a Dionigi lo Pseudo-Areopagita (ca. 500 d.C.) e a Grego­ rio Magno (540-604 d.C.). Origene riteneva che gli angeli avessero corpi eterei, una tesi che pare condivisa da Agostino d'lppona. Sul significato di «come angeli» in Mc 12,25, vedi D. H. VAN DM­ LEN, Some Observationr, 241. "" Vedi anche Giubilei 5 , 1 -2 (cfr. 10,1-14); CD 2,16-2 1 ; 4Q 180. "' Nel contesto di l Enoch 15,1-7, questo è espresso mediante il contrasto con i Vigilanti (gli angeli ribelli), che cedettero ai propri desideri sessuali ed ebbero rapporti con donne. Come conseguenza di questa perversione dell'originario piano divino, Dio, che in precedenza non aveva crearo mogli

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stare celibi, dal momento che non hanno altrin bisogno di riprodurre la propria specie. Idee di purità cultuale possono pure aver giocato un ruo­ lo nella descrizione degli angeli come celibi, dal momento che si credeva che essi adempissero a funzioni sacerdotali nel santuario celeste. Tali con­ cezioni sono particolarmente radicate a Qumran e possono in parte spie­ gare perché almeno alcuni esseni in un certo periodo della storia di que­ sta setta praticassero il celibato. Essi credevano che il loro culto nella co­ munità settaria partecipasse al culto celeste degli angeli; pertanto essi, co­ me gli angeli, dovevano essere celibi. Tale celibato, praticato sulla terra, può anche essere stato ritenuto come una preparazione alla loro unione con l'assemblea degli angeli dopo la morte110• All'interno di questo sfondo teologico dobbiamo intendere l'afferma­ zione di Gesù secondo la quale gli esseri umani nella risurrezione saranno «come angeli nei cieli». Gesù non sta dicendo che gli esseri umani saran­ no trasformati in angeli, che diventeranno immateriali, o che cesseranno di essere creature sessuate. Piuttosto, nella risurrezione, la potenza di Dio farà sì che gli esseri umani subiscano una trasformazione radicale della loro esistenza; essi riceveranno corpi sottili come agli angeli. Come gli an­ geli, questi esseri umani risorti saranno resi immortali dalla potenza di Dio. Pur essendo esseri sessuati, non praticheranno alcuna attività sessua­ le né si sposeranno, dal momento che, come gli angeli, non avranno biso­ gno di riprodursi in considerazione della morte. La tesi di Gesù è chiara: una volta che si è compresa la modalità o ma­ niera dell'esistenza umana dopo la risurrezione, determinata unicamente dalla potenza di Dio, che trascende tutte le deboli concezioni umane, l'intera obiezione dei sadducei crolla. Invece di essere coloro che beffa­ no, i sadducei diventano i beffati, poiché la loro madornale ignoranza di quella che sarà la modalità della vita da risorti rivela un'ignoranza ancor più grave: quella della potenza illimitata di Dio. La fede nella risurrezio-

per loro nel loro stato di immortalità. ora provvede loro mogli e figli evidentemente come parte della sua intenzione di permettere che le loro azioni peccaminose abbiano i loro pieni e naturali - o piutto­ sto innaturali - effetti. Questo, a sua volta, contribuirà ad accrescere il castigo finale dei Vigilanti e della. loro progenie. "" Idee simili si rrovano anche in 1 Enoch 104,1-6: il giusto esulterà «come gli angeli»; 2 Apoc. Bar. 5 1 ,10: il giusto . Segue l'attraversamento del Mar Rosso. Neppure in que­ sto brevissimo riferimento alla teofania nel roveto si specifica quando «il Signore Dio dei nostri pa­ dri» diede il suo comando a Mosè. (6) Flavio Giuseppe presenta una lettura libera della teofania di

Es 3 in Ani. 2,12,1-4 §264-276. La maggior parte delle parole di Dio, pronunciate direttamente da Dio in Es 3, Ì! narrata alla terza persona. Es 3,6 non compare affatto. In sintesi, nei principali autori giudaici che, verso gli inizi dell'era cristiana, riscrivono il racconto dell'esodo, l'autorivelazione di

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mula piena (con «lo [sono] il Dio di Abramo.·:�•�t"ecc.), citata da Gesù in

Mc 12,26, non ricorre più nell' AT'". E neppure è citata comunemente per esteso nelle varie nuove versioni del racconto del roveto ardente nei maggiori autori ebraici agli inizi dell'era cristiana. Nel NT, la formula ri­ corre solo nel discorso di Stefano in At 7,32, entro un'ampia sintesi della storia di Israele. Una forma più breve si trova nel discorso kerygmatico di Pietro in At 3,13, quando Pietro comincia a proclamare la morte e risur­ rezione di Gesù. Ma anche nel Nuovo Testamento, come nell'AT, nessun altro passo oltre a Mc 12,26 usa questo testo per dimostrare la risurrezio­ ne generale dei morti.

Dio in Es ),6 è ignorata o abbreviata o parafrasata o addirittura denigrata. Non costituisce mai og­ getto di una riflessione teologica positiva Oa ritltssione di Filone è decisamente negativa), e nessuno collega il versetto con la dottrina della risurrezione. Come vedremo in seguito, tutto ciò contrasta nettamente con l'uso di questo versetto da parte di Gesù per dimostrare la risurrezione; la disconti­ nuità depone molto bene a favore della staticità della disputa riportata in Mc 12,18-27. In effetti, se passiamo poi in esame i commentari rabbinici successivi sul libro deH'Esodo, non troviamo mai un'interpretazione di Es J,6 simile a quella di Gesù. Dato che la Mekilta (Il-III sec. d.C.) inizia solo con Es 1 2 , non ha un commento dettagliato del nostro testo. In Exodus Rabbah (ca. X sec. d.C.), il commento a Es 3,6.15 non ha nulla in comune con l'interpretazione di Gesù. Commentando Es 3,6, questo midrash dice che Dio rivelò se stesso con la voce del padre di Mosè. Mosè, pensando che fos­ se suo padre, rispose: «Eccomi. Che cosa desidera mio padre?». Dio risponde: «Io non sono tuo pa­ dre, ma il Dio di tuo padre. Sono venuto a te con dolcezza, affinché non ti spaventassi. [Io sono] il Dio di Abramo, il Dio di !sacco e il Dio di Giacobbe... Mosè esultò e disse: «Guarda, mio padre è annoverato tra i patriarchi. E per di più, deve essere grande, dato che viene addirittura menzionato per primo». Più tardi, nel commentare Es 3 , 1 5 , il midrash afferma che a questo punto Mosè si accor­ ge che il nome di suo padre non viene più menzionato con quello dei patriarchi. Dio spiega: «Da principio ho usato ogni genere di pen;uasione, ma d'ora innanzi dirò solo parole di verità con te». Ovviamente, questo interesse per il padre di Mosè non ha nience a che fare con l'appropriazione di Es 3,6 da pane di Gesù. In realtà, la menzione del padre di Mosè è proprio la frase che Gesù omette daUa sua citazione. 1'7 Con 'formula piena' intendo le citazioni di E.r 3,6, che iniziano con (do [sono],. (il verbo 'sono' nel testo ebraico è sottinteso; neUe traduzioni greche a volte è espresso, a volte no). In realtà, la cita· zione in Mc 1 2 ,26 non è la forma più piena possibile, dato che omette «il Dio di tuo padre» prima di «il Dio di Abramo» ecc. Questa omissione può essere intenzionale da parte di Gesù o ùi Marco, poi­ ché non combacia con l'argomentazione di Gesù. La sua dimostrazione si basa sul legame che il testo stabilisce tra il Dio dei viventi e gli uomini che sono moni. Ma il testo dell'Esodo non dice che il pa­ dre di Mosè fosse già mono al tempo della teofania nel roveto ardente. Supponendo che fosse ancora vivo, la. sua presenza nella formula accanto a persone mone avrebbe sminuito il valore del ragiona­ mento. (Si noti che la lezione originale di Es 3,6 non è affatto sicura su questo punto; il Pentateuco samaritano, alcuni mss. dei LXX, At 7,)2 e Giustino Martire nella sua Pnma apologia 6),7 [ma in forma parafrasata] hanno il plurale «tuoi padri»). Non solo la formula piena di Es ),6 in effetti non appare in nessun altro passo veterotestamentario, ma anche il titolo «il Dio di Abramo, di !sacco e di Giacobbe» è raro nell' AT. Al di fuori del contesto della teofania del roveto (che comprende quindi Es 3 , 1 5 . 1 6; 4,5), ricorre nella forma variante può sottintendere implicitamente «se dawero risorgeranno>>. La seconda possibile aggiunta di Marco si trova alla fine del v. 23 . Su­ bito dopo aver posto la domanda trabocchetto («a chi di loro apparterrà la donna?>>), il testo aggiunge la frase apparentemente superflua e banale: . .

"' Su queste due espressioni, vedi J.·G. MUDISO MBA MUNDLA, ].sus und die Fuhrer, 72; O. ScHwANKL, Die Saddu:liier/rage, 420-421 .

118 Alcuni commentatori pensano che 4per definizione, ri­ guardava i morti, non i vivi. Questa risurrezione al di là del tempo e dello spazio sarebbe stata l'ultimo passo per entrare nel regno per coloro che erano già morti, non per quelli che erano ancora vivi quando il regno di Dio sarebbe venuto in tutta la sua pienezza. Di conseguenza, la risurre­ zione era una questione che riguardava Dio, non Gesù. Gesù era comple­ tamente interessato a «questa generazione)). Non dobbiamo meravigliar­ ci, allora, se la risurrezione universale o fu menzionata solo en pa.uant da Gesù, o rimase implicita nella sua proclamazione del regno. Tuttavia Ge­ sù di fatto la menzionò o comunque vi alluse. (i) Come abbiamo già visto nell'esegesi di Mc 12,26, un importante detto di Gesù della fonte Q implica la risurrezione dei morti'". Parlando dd pellegrinaggio escatologico dei pagani nel regno di Dio, Gesù profe­ tizza (Mt 8 , 1 1 par.): « . . . molti verranno dall'oriente e dall'occidente e sie­ deranno a mensa con Abramo, !sacco e Giacobbe nel regno dei cieli)). Quindi, nel suo ruolo di profeta escatologico, Gesù preannuncia che, nel­ l'ultimo giorno, i pagani siederanno con i patriarchi, morti da tanto tem­ po (si noti: gli stessi tre che in Mc 12,26) al banchetto celeste, la metafora della salvezza definitiva. Pertanto, la fase ultima del regno non è sempli­ cemente una prosecuzione di questo mondo, perfezionato o trasformato da qualche prodigio. La presenza di Abramo, !sacco e Giacobbe, che sie­ dono a banchetto insieme ai pagani nel regno, indica che, in qualche mo­ do, il regno finale non ha continuità con questo mondo e lo trascende. Più precisamente, la stessa rappresentazione dei patriarchi ormai morti da lungo tempo, che ora si uniscono ai pagani (tra i quali, presumibil­ mente, quelli ancora viventi quando giunge il tempo finale) a un banchet­ to, sottintende un qualche tipo di risurrezione. È caratteristico di Gesù, tuttavia, usare simboli, metafore e allusioni. A Gesù non interessa presen­ tare scenari dettagliati dell'ultimo giorno. Egli è un profeta e un poeta, non un teologo sistematico. Tuttavia, se Gesù espone in tutta serietà tale profezia, l'ultimo giorno sembra implicare un qualche tipo di risurrezio­ ne. Ma questo tema è ai margini, non al centro, della sua visione. (ii) In alcuni casi, tuttavia, sembra che Gesù abbia parlato en passant e però in modo diretto - della risurrezione. All'interno di una 'raccolta -

mitiva o degli evangelisti, la molteplice attestazione delle fonti (Marro, Q, M e Giovanni) dimOlltra che questo era uno dei modi consueti di Gesù di parlare della salvezza. Vedi, p. es., Mc 9,43.45.47; 10,15.23-25; Mt 5,20; 7 , 1 3.21; 19, 17: Cv 3,5. "' Vedi Un ehreo marginale 2, 402-403.

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lucana', formatasi da vari detti riuniti da Luca intdl'nt> al "tema di un ban­ chetto, troviamo un detto L in cui Gesù esorta il suo ospite a essere gene­ roso e ad estendere l'ospitalità anche a coloro che non possono contrac­ cambiarlo in questa vita. Usando una formula di beatitudine simile al modello che si trova all'inizio del discorso della montagna/pianura, Gesù fornisce la motivazione della sua esortazione, promettendo un premio fu. turo oltre questo mondo terreno (Le 14,14): « . . . e sarai beato, perché . . . riceverai la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti». Come nelle beati­ tudini del discorso della montagna/pianura, Gesù proclama il rovescia­ mento di tutti i valori e la richiesta radicale di amore gratuito alla luce dell'ultimo giorno, inteso in 14,14 nei termini della risurrezione''". (iii) Abbiamo già esaminato brevemente i «guai» che Gesù - il profeta escatologico - pronunciò contro le città della Galilea che lo avevano re­ spinto (un detto Q)''". Si è visto che la menzione di Corazin, accanto a Betsaida e a Cafarnao, come città in cui Gesù operò depone a favore del­ la storicità. Questo detto non deriva da altro materiale evangelico - infat­ ti, Corazin non è mai menzionata altrove nel NT - e non c'è alcuna prova di alcuna attività missionaria del cristianesimo primitivo a Corazin. Ana­ logamente, nonostante che Mt 1 1 ,2 1 par. presupponga un grande nume­ ro di miracoli compiuti da Gesù a Betsaida, ci resta un solo testo che nar­ ra un miracolo isolato operato da Gesù a Betsaida (Mc 8,22-26). Quindi, questo detto Q è probabilmente una reliquia che riflette attività di Gesù che il resto della tradizione evangelica non ha conservato. Il detto corri­ sponde anche al ritratto di Gesù come il profeta escatologico che esorta Israele al pentimento in vista del giudizio imminente. Risuona l'eco del veemente mentore, Giovanni il Battista, che continua a parlare attraverso il suo ex discepolo. In questo detto Q (Mt 1 1 ,2 1 -24 Il Le 10,13-15), Gesù proclama: «Guai a te, Corazin ! Guai a te, Betsaida. Perché, se a Tiro e a Sidone [archetipi veterotestamentari di città pagane nemiche di Dio e del suo popolo lsrae-

'" Ritengono che la beatitudine di 14,14 derivi dal Gesù storico: I.H MARsHALL, Luke, 583; ]. ERNST, Lukas, 440 [trad. it. cit.l. Ci si può chiedere se la disinvoltura con cui alcuni esegeti negano l'autenticità di questo deno dipenda in parte dall'imbarazzo nel vedere Gesù esortare alla generosità sulla base di una sicura ricompensa nell'ultimo giorno. R. BULTMANN, Geschichte, 108, nega l'autenti·

cità di 14,14 perché non corrisponde alla «nuova pietà individuale» predicata da Gesù, «che superò di gran lunga il giudaismo». Il materiale in Le 14,12-14 è e subiranno un destino meno terribile, presuppone qualche ge­ nere di vita ultraterrena o di ritorno alla vita. Entro il tradizionale scena­ rio apocalittico del raduno di gruppi sparsi, compresi i morti, al giudizio finale, l'implicazione più probabile è che «il giorno del giudizio>> inclu­ derà un qualche genere di risurrezione dei morti. (iv) Un'analoga profezia di Gesù sul giudizio finale ricorre nella tradi­ zione Q sul 'segno di Giona'. In Mt 12,4 1 -42 Il Le l l ,3 1-32, Gesù sferza i suoi indifferenti contemporanei paragonandoli di nuovo ai più disponibi­ li pagani. In un detto bipartito, in parallelismo perfetto, Gesù preannun­ cia: «La regina del sud [cioè, la regina di Saba] sorgerà nel giudizio insie­ me con gli uomini di questa generazione e li condannerà; perché ella ven­ ne dalle estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone. Ed ecco, qui vi è qualcosa di più grande di Salomone! Quelli di Ninive sor­ geranno nel giudizio insieme con questa generazione e la condanneranno; perché essi alla predicazione di Giona si convertirono. Ed ecco, qui vi è qualcosa di più grande di Giona!». Tipico dello stile indiretto, enigmati­ co di Gesù è il suo riferimento a 'qualcosa' (non 'qualcuno') che ora è presente davanti agli occhi dei suoi uditori. Com'è sua consuetudine, egli indica direttamente non se stesso, ma il regno di Dio, già presente nelle sue parole e nelle sue opere ('qui'). Questo non è il modo in cui la chiesa post-pasquale proclamò la propria cristologia nelle sue varie forme. Come nel caso del detto precedente, ci troviamo di fronte a uno scena­ rio del giorno del giudizio, con i pagani del passato che sono migliori de­ gli ebrei contemporanei di Gesù. Qui a differenza degli esempi di Tiro e Sidone, i pagani hanno accolto il grande maestro di saggezza di Israele (Salomone) e uno dei suoi grandi profeti della penitenza (Giona). Si po­ trebbe scorgere qui un autoritratto del Gesù storico (maestro di saggezza e profeta escatologico della penitenza); ma, come al solito, questo è nella migliore delle ipotesi un riferimento indiretto, allusivo. Il detto insiste in­ vece sul fatto che la regina di Saba e gli abitanti di Ninive, tutti pagani, non solo nel giudizio finale avranno un esito migliore degli ebrei contem-

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poranei di Gesù, ma prenderanno anche parte artiva alla testinmnianza contro di loro e alla loro condanna. La scena è chiaramente quella del giudizio universale. Poiché sia la regina di Saba che gli abitanti di Ninive sono morti ormai da molti secoli e tuttavia compaiono accanto ai contem­ poranei di Gesù (alcuni dei quali si presume saranno ancora vivi quando awerrà il giudizio finale), se ne può concludere che il giudizio finale im­ plica un qualche tipo di risurrezione"". (v) In Mc 9,43-47 I l Mt 18,8-9 I l Mt 5,29-30, troviamo varie fonne di u­ na sequenza di detti riguardanti la gravità dello 'scandalo' (nel significato teologico di qualcosa che porterà a un peccato grave o all'apostasia) . In Mc 9,43-47, Gesù mette in guardia i suoi discepoli: «Se la tua mano ti scandalizza, tagliala: è meglio per te entrare nella vita monco, che con due mani andare nella Geenna, nel fuoco inestinguibile. Se il tuo piede ti scandalizza, taglialo: è meglio per te entrare nella vita zoppo, che essere gettato con due piedi nella Geenna. Se il tuo occhio ti scandalizza, cava· lo: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, che essere gettato con due occhi nella Geenna»1". In Mt 5 ,29-30, all'interno del Discorso della montagna, ricorrono solo due di questi detti, sull'occhio e sulla mano, probabilmente con una spe­ cifica applicazione agli sguardi e al toccare impuri, dato che il contesto più ampio è la seconda antitesi sull'adulterio. Una forma abbreviata dei tre detti di Marco si trova in Mt 18,8-9. n v. 8 combina i detti sulla mano e sul piede (i primi due detti di Marco) nell'unico detto: «Se la tua mano o il tuo piede ti è occasione di scandalo. . . ». n v. 9 continua con il detto marciano separato sull'occhio. Gli studiosi sono divisi tra coloro che ri­ tengono che alcune forme matteane del detto riprendano la tradizione Q o M e quelli che vi vedono invece la rielaborazione delle fonti marciane151•

(egherthlsett�ilanastisontai metd a cui soggiace un'e· 'im) non va ritenuta un riferimento direuo alla risurrezione universa·

·� Nondimeno, l'espressione •si alzeranno' spressione aramaica come qUm

le. Il significare primario di questa espressione semitica è 'comparire innanzi a un tribunale con qual· CWlo'. Tuttavia, dato il contesto, non si può escludere una velata allusione alla risurrezione finale; su questo, vedi u•

O. SclfWAN!a., Die Saddu;Ber/rage. 543-544.

Per la Geenna come metafora del castigo escatologico degli empi median te il fuoco, vedi

D.F.

WATSON, Gehenna, in Anchor Bib/e Dictionary 2, 926-928. Nelle 12 ricorrenze di questo termine nel NT, in tutti i casi tranne uno (Gc 3 ,6) è direttamente usato da Gesù nei vangeli sinottici. Inoltre, ri­ corre in Marco, Q e M: la molteplice attestazione delle fonti depone a favore dell'uso di questo ter· mine da pane del Gesù storico. '" W.D. DAVIES - D.C. ALLISON, Matthew l , 523 e 2, 765, pensano che Matteo rielabori la sua fon· te marciana in due modi diversi; così anche RH. GUNDRY, Matthew, 88-89.363. Tuttavia i doppioni in Matteo a volte sono il segnale di una sovrapposizione di Marco e Q; R. PEscH, Markusevangelium

I sadducei

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Ad ogni modo, abbiamo nella fonte di Marco (Mc 9,42-50 è chiaràrnerift! una raccolta eterogenea di detti isolati) e probabilmente nel documento Q alcuni detti di Gesù che parlano nei termini efficaci e concreti dell'in­ gresso di una persona con il suo corpo nel regno o nella dannazione eter­ na. Si presuppone una risurrezione del corpo. Le immagini forti usate in questi detti e la richiesta categorica di una decisione radicale in vista del giudizio imminente concordano con lo stile e con il contenuto del messaggio autentico del Gesù storico. È interessan­ te osservare che, mentre si trovano alcuni paralleli a queste suggestive im­ magini nella letteratura rabbinica posteriore, nel resto del NT e nei Padri apostolici non c'è alcun esatto parallelo. (vi) Nel secondo volume ho dedicato molto spazio a dimostrare l'au­ tenticità della profezia di Gesù nell'ultima cena sul suo destino ultimo (Mc 14,25): «In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fi­ no al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio»"'. Di fronte all'ap­ prossimarsi della morte e all'apparente fallimento della sua missione ri­ volta a tutto Israele, Gesù conforta se stesso (molto più dei suoi discepo­ li) con la speranza che Dio gli farà giustizia dopo la morte e lo renderà partecipe del banchetto finale nel regno. L'immagine qui tracciata resta decisamente indefinita: non ci sono titoli cristologici, non si dice in ma­ niera diretta o indiretta che la morte di Gesù è una morte sacrificale o salvifica, non ci sono riferimenti alla risurrezione o alla parusia, non si di­ ce che Gesù sarà ospite al banchetto o che egli sarà qui ricongiunto con i suoi discepoli. Le idee cristiane sulla glorificazione ultima sono del tutto assenti. Piuttosto, in questo detto il Gesù storico esprime la sua speranza che Dio lo strapperà dalla morte quando il regno verrà in pienezza e lo farà sedere al banchetto finale, presumibilmente accanto ai grandi pa­ triarchi e persino ai pagani (cfr. Mt 8,1 1 - 12 par.). Di nuovo, le immagini della partecipazione al banchetto celeste dopo la morte sottintendono, ma non proclamano apertamente, l'idea di una risurrezione universale nell'ultimo giorno - ma non una risurrezione straordinaria di Gesù nel corso della storia umana. Come il lettore avrà osservato, non ho dedicato molto tempo all'analisi delle espressioni dei sei testi appena esaminati; né ho discusso estesamen­ te la questione se questi detti risalgano al Gesù storico. In alcuni casi,

2, 1 16 [trad. it. cit. 2,183] preferisce l'idea che Mt 5,29-30 derivi da Q. Anche U. Luz, Mallhew 1-7, Augsburg, Minneapolis 1989, 291-292, ritiene che Matteo si sia basato su una ve111ione Q dei detti. "' Un eb"o marginale 2, 374-388.

482

Gesù l'ebreo e i suoi antagonisti ebrei

l'ho già fatto; in altri casi, ritengo che p-er il mom�ttto ·��lho bastare le brevi indicazioni a sostegno dell'autenticità dei detti. Nell'esame di questi sei detti non ci interessano tanto i dettagli di ciascun l6ghion quanto il lo­ ro effetto cumulativo. Essi ci forniscono un argomento fondato sul crite­ rio della molteplice attestazione delle fonti e delle forme per affermare fondamentalmente che Gesù parlò in momenti diversi, in vari modi e u­ sando varie immagini, di un giudizio finale nell'ultimo giorno, e che, a volte apertamente, ma più spesso in maniera indiretta, egli si riferì alla ri­ surrezione universale dei morti come parte di questo evento escatologico. In un modo o nell'altro, questa idea è espressa o supposta nei detti pre­ senti in Marco, Q, L e forse in M. Sebbene pure la tradizione da cui dipende il vangelo di Giovanni con­ tenga l'idea di una risurrezione universale (p. es., Gv 5,28-29), la com­ plessa natura dell'escatologia giovannea e le varie fasi della tradizione e della redazione nel quarto vangelo rendono estremamente difficile far ri­ salire al Gesù storico un detto singolo sull'escatologia futura. Basti dire che la tradizione giovannea, nonostante tutte le sue differenze dai Sinotti­ ci, concorda con le altre fonti evangeliche nell'attribuire a Gesù riferi­ menti alla risurrezione universale"'. In ogni caso, la molteplice attestazio­ ne delle fonti e delle forme rende assai probabile che il Gesù storico a volte abbia parlato en passant o abbia alluso alla risurrezione universale dei morti nell'ultimo giorno, anche se non era usuale per lui fare di que­ sto argomento l'oggetto diretto della sua predicazione. Quest'ultimo punto, a prima vista, potrebbe rappresentare un ostacolo a riconoscere un episodio storico alla base del dibattito con i sadducei in Mc 12,18-27. In realtà, è vero l'esatto contrario. Se Gesù generalmente parlava solo en passant o allusivamente di una risurrezione universale, quale sarebbe stato l'occasione che lo avrebbe indotto a trattare diretta­ mente la questione? Precisamente quella descritta in Mc 12, 18-27: l'unico

'" Per esempio, penso che Gv 5,28-29 («Non vi meravigliate di questo, perché verrà l'ora in cui

rutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usciranno: quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna))) non sia un 'invenzione

del redattore finale del quano vangelo, che corregge l'escatologia realizzata dell'evangelista. Piutto­ sto, questo passo rappresenta una fase più antica della dottrina escatologica nella tradizione giovan­ nea. Secondo me, il quarto evangelista reinterpretò questa escatologia futura tradizionale nei termini della propria escawlogia realizzata. Pertanto, 5,25 (« . . . è venuto il momento, ed è questo, in cui i mor­

ti udranno la voce del Figlio di Dio, e quelli che l'avranno ascoltata, vivranno») rappresenterebbe la rielaborazione da parte dell'evangelista della più antica tradizione presente in 5,28-29 (vedi

R.E. BROWN, The Go.rpel According lo fohn 1,2 18·221 [trad. it. cit., 286]). Ma trattare estesamente questo punto ci porterebbe troppo lontano.

l sadducei

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movimento giudaico che negava esplicitamente qualsiasi risurrezione fu­ tura o giudizio finale oltre questo mondo presente fu sollecitato dai riferi­ menti allusivi di Gesù a confrontarsi con lui su questo tema, costringen­ dolo a esplicitare e a difendere la sua posizione implicita. Quindi non a caso, ma piuttosto in coerenza con tutto quello che abbiamo visto, l'unica occasione in cui Gesù punta il 'riflettore' teologico direttamente sul tema della risurrezione universale è quando viene provocato direttamente sul­ l'argomento dall'unico gruppo giudaico che probabilmente criticava le sue concezioni, vale a dire, i sadducei. In breve, anche se l'argomento fondato sul principio della coerenza va costruito gradualmente, analizzando i singoli detti, nel caso della disputa con i sadducei il suo impatto cumulativo è impressionante. Di conse­ guenza, ritengo che, collegando le prove fondate sul criterio della discon­ tinuità con quelle fondate sul criterio della coerenza, la conclusione più probabile sia che il dibattito con i sadducei sulla risurrezione in Mc 12,18-27 effettivamente rifletta un episodio reale durante il ministero del Gesù storico, avvenuto con buona probabilità a Gerusalemme'". Non siamo in grado di sapere se Gesù abbia avuto altri dibattiti con i saddu­ cei"''. Questi scontri, forse avvenuti durante vari soggiorni a Gerusalem­ me (come informa il quarto vangelo) potrebbero contribuire a spiegare la crescente avversione «dei sommi sacerdoti e degli anziani», che alla fine

"' Quelli che ritengono che la ""rsione lucana del racconto, specialmente L: 20,34-36, rappresenti una variante della tradizione primitiva potrebbero sostenere l'autemicità ricorrendo al criterio deUa

molteplice attestazione deUe fonti (Marco + LJ. Tuttavia, con molti altri commentatori di Luca, io ri­ tengo che 20,34-36 si possa spiegare in modo convincente come una redazione creativa da pane di Luca della sua tradizione marciana, forse con un occhio alla letterarura ma.ccabaica dei LXX; su que­ sto, vedi O. SCHWANKL,

Die Sadduziier/rage, 442-461; per l'opinione opposta, vedi].-G. Mumso MBA ]esus und die Fuhrer, 79; e, più generalmente, D.E. AUNE, Luke 20:34-36: A 'Gnosticized' Logion o/]esus?, in Geschrchte - Tradition - Reflexion. Band III. Fmhes Christentum, Martin Hengel Festschrift, ed. Hennann Lichtenberger, Mohr [Siebeck], Tubingen 1996, 187-202. Argomenti a fa­ MUNDLA,

vore deUa storicità suDa base di considerazioni filologiche (neUa migliore deUe ipotesi, di natura con­ fennativa) si possono trovare in Die Sadduziier/rage, 579. Forse l'obiezione più curiosa aDa storicità di Mc 12,18-27 è queUa di E. HAENCHEN, Der Weg Jesu, 4 1 1: se avesse conosciuto il detto di Gesù in Mc 12,25, Paolo lo avrebbe citato scrivendo la sua apologia della risurrezione in l Cor 15. Dato che non lo fa, il detto e, di conseguenza, l'intera pericope sono un prodotto della chiesa primitiva. La ri·

sposta all'obiezione di Haenchen è owia: la conoscenza che Paolo aveva dei detti di Gesù fu, per quanto sappiamo, piuttosto limitata. Quindi, penso che l'onere della prova spetti a chi ritiene che, nonostante la sua limitata conoscenza, Paolo avrebbe comunque conosciuto questa particolare peri· cope marciana che si trova isol�ta nella tradizione sinottica. '" A favore di questa opinione è G. BAUMBACH, Das Sadduziierverstiindnis, 3 1 -35; K. MOLLER, Jesus und die Sadduziier, 8-ll. I loro tentativi di attribuire certi detti evangelici e certi racconti di disputa ai contrasti di Gesù con i sadducei sono molto ipotetici.

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Gesù l'ebreo e i suoi antagonisti ebrei

portò all 'arresto di Gesù. Ma dobbiamo ammettere che no!f ptlssediamo alcuna prova decisiva: queste affermazioni restano solo pura congettura. In ogni caso, Mc 12,1 8-27 è una 'reliquia' unica e preziosa che ci per­ mette di comprendere meglio le idee di Gesù sul significato dell'avvento futuro del regno. ll Gesù storico credeva che, ad una certa fase del dram­ ma escatologico, le generazioni passate sarebbero risuscitate dai morti e che gli israeliti fedeli avrebbero partecipato a un nuovo tipo di vita simile a quella degli angeli, in cui le precedenti relazioni istituite dal matrimonio e dall'attività sessuale sarebbero cessate. La condizione definitiva del re­ gno, pertanto, avrebbe comportato una trascendenza di questo mondo, e non semplicemente un suo miglioramento. Nel realizzare questo mondo nuovo, il Dio della creazione e dell'alleanza, il Dio eli Abramo, lsacco e Giacobbe, adempirà le sue promesse più solenni al popolo di Israele eli essere il suo salvatore e protettore, anche oltre la morte. Infine, Gesù an­ nuncia questa concezione particolare sia della modalità della risurrezione sia della prova scritturistica della risurrezione non sulla base di una qual­ che tradizione sacra, ma semplicemente sulla base della sua propria auto­ rità"'. Egli sa che è così, egli insegna che è così, e in tal modo la questione è chiusa. Abbiamo qui lo stile perentorio, autorevole, è-così-perché-io-eli­ co-che-è-così, tipico del leader carismatico. Non c'è , vedi anche J. MAIER, Theories of Qumran, in ]udaism in Late Antiquity. Part Three. Where We Stand: Issues and Debates in Ancient ]udaiJm. Volume One, Handbook of Orientai Studies, Pan: One, The Near and Middle East 40, Brii!, Leiden 1999, 81-98; A.l. BAUMGARTEN, The Current State o/ Qumran Studies: CrisiJ in the SO"OIIery. A Dying Consensus, ibid., 99- 1 19. Sui com· plessi problemi fùosofici e metodologici legati ai reperti archeologici di Qumran e di Ain Feshkha, vedi F. ROHRHIRSCH, Wùsenscha/tstheorie und Qumran, Novum Tesramentum et Orbis Antiquus 32, Universitiitsverlag Freiburg, Freiburg; Vandenhoeck & Ruprecht, Goningcn 19%. 2 Per essere esatti, qui bisognerebbe fare una distinzione. Come vedremo, il nome 'esseni' è usato in varie fonti antiche (p. es., Flavio Giuseppe). 'Qumran' non ricorre nelle fonti antiche per designa· re una comunità ebraica senaria solitamente associata agli esseni. In realtà, questo uso è successivo alle scoperte archeologiche effettuate nei pressi di uno wadi che gli arabi chiamavano Qumran (da cui il nome delle rovine: Khirbet Qumran) negli anni '40 e '50 del XX secolo.

Gli esseni e altri gruppi

487

che, i documenti di' Qumran 'non menzionano nè alludono mai a Gesù di Nazaret. Quindi, se la domanda a cui si deve rispondere in questa sezio­ ne è semplicemente: >) può avere lo scopo di distogliere da se stesso l'attenzione e puntarla su Dio, come colui che in definitiva compie queste azioni escatologiche. È significativo che entrambi gli elenchi di prodigi escatologici culmina­ no in un'allusione a ls 61,1, in cui il profeta parla della propria missione del tempo finale a Israele: «Lo spirito del Signore Dio [è] su di me per­ ché il Signore mi ha consacrato con l'unzione; mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai poveri>>. Questa allusione al culmine di ciascuno dei due elenchi evoca naturalmente l'immagine del profeta escatologico in en­ trambi i testi. Nel testo di Qumran si potrebbe, perciò, leggere l'accosta­ mento delle immagini del Messia (esplicitamente menzionato all'inizio del frammento) e del profeta escatologico (cui forse si allude verso la fine del frammento, in quanto l'annuncio della lieta novella ai poveri presumi­ bilmente implica un qualche portavoce umano). Sulla base di testi rabbi­ nici più recenti, John J. Collins pensa addirittura che il testo possa sottin" Inoltre, si potrebbe intendere il riferimento al rialzare chi è caduto come più o meno equivalente camminano)>, " Vedi J.]. COLLINS, Apocalypticism in the Dead Sea Scro/ls, 88 [trad. it. cit.].

a «gli storpi

Gli esseni e altri gruppi

501

tendere che Dio risusciterà i morti per mezzo del profeta escatologico si­ mile a Elia". Questa idea del profeta escatologico simile a Elia (se è presente in 4Q52 1 ) corrisponderebbe perfettamente con quanto abbiamo illustrato circa l'immagine di sé che il Gesù storico volle presentare. Nel caso di Mt 1 1 ,2-6, il contesto globale del ministero del Gesù storico induce natural­ mente a vedere in questo testo un riferimento al profeta escatologico che indossa il manto dell'operatore di miracoli Elia. Certamente, il titolo di Messia non ricorre in Mt 1 1 ,5 par., ma ciò non significa che il concetto sia assente dal testo. In realtà, dato che la figura profetica di Is 61,1 affer­ ma che la sua missione profetica dipende dal fatto che «YHWH mi ha consacrato [md'fab] », si può anche, in un certo senso, considerarlo una fi­ gura messianica, anche se non in senso davidico regale. In sintesi, i paralleli sono impressionanti. Poiché 4Q52 1 probabilmen­ te non fu composto a Qumran, ma si tratterebbe di un documento prove­ niente da fuori, conservato nella biblioteca di Qumran11, possiamo azzar­ dare un'ulteriore ipotesi. Può darsi che Gesù abbia preferito rispondere alla domanda del Battista con il tema del compimento delle profezie di guarigione e di consolazione di Isaia perché questo tema era caro a vari gruppi di pii giudei intorno alla svolta dell'era cristiana. Questa speranza escatologica può aver incluso anche la figura di un profeta escatologico, operatore di miracoli (nella forma di Elia?). Come minimo, 4Q521 dimo­ stra che la risposta di Mt 1 1 ,5 è del tutto comprensibile in bocca all'ebreo Gesù nella Palestina del I secolo e non ha bisogno di essere attribuita alla creatività della chiesa primitiva.

2. Atteggiamento verso il tempio

Agli inizi dell'era cristiana, il tempio di Gerusalemme e la legge mosai­ ca erano i due simboli religiosi centrali del giudaismo palestinese. Essen'' Ibid., 89 [trad. il. cit.]. li testo più citato da Collins è proprio alla fino di m. Sofa 9,1,: uté/!iyyat htJmmitim ba� 'al yede 'e1iyytihU ztikUr l!,tOb («La risurrezione dei morti avviene per mezzo di Elia di

venerata memoria») . " Si deve ammettere che gli scarsi dati a nostra disposizione non consentono di stabilire se questo ponsiero sia peculiare di Qurnran. G. VERMES, The Dead Sea Scrolls in English, 244, sostimo che non c'è niente di chiaramente settario nel resto. In panicolare, al ·Messia' ci si riferisce chiaramente al sin­ golare (senza le aggiunte 'di Aronne' o 'di Israele'), e la risurrezione fa una delle suo ra,.., apparizioni a Qurnran. Tunavia J.J. COLLINS, Apocalyptiasm in the Dead Sea Scrolls, 89 [lrad. il. cii.] segnala aJ. cuni contarti con la letteratura settaria di Qumran, lasciando così apena la questione.

502

Gesù l'ebreo e i suoi antagonisti ebrei

do così fondamentali nella vita giudaica, essi furono anche i due grandi terreni di scontro per il potere e il controllo. Intesi inizialmente come simboli unificanti, essi divennero le maggiori cause di divisione. Forse an­ cor più che la legge mosaica, il tempio di Gerusalemme, insieme alla sua classe dirigente sacerdotale, ai rituali liturgici e al calendario liturgico, di­ venne il punto focale del conflitto di Qumran con il resto del giudaismo palestinese e della sua separazione da esso'". Tuttavia, bisogna essere pru­ denti quando si parla del rifiuto da parte di Qumran del tempio di Geru­ salemme allora esistente o della sua opposizione ad esso. In definitiva la vera opposizione di Qumran al tempio era determinata dal fatto che non ne aveva il controllo e non lo poteva gestire in conformità con le proprie regole. Questo conflitto sul tempio probabilmente risale al periodo in cui gli asmonei si appropriarono della carica di sommo sacerdote, nella metà del II secolo a.C.". Non essendo sadociti, gli asmonei, agli occhi dei qumrani­ ti, non avevano alcun diritto a rivendicare la carica di sommo sacerdote. In effetti, alcuni studiosi hanno avanzato l'ipotesi che il Maestro di giusti­ zia fosse un sacerdote sadocita che riteneva di avere il diritto di ricoprire la carica di sommo sacerdote, non asmoneo; altri pensano addirittura che egli di fatto avesse ricoperto la carica di sommo sacerdote durante il pe­ riodo caotico che va dalla morte del sommo sacerdote Alcimo ( 159 a.C.), nel corso della rivolta maccabaica, fino a che Gionata, fratello di Giuda Maccabeo, divenne sommo sacerdote (ca. 150 a.C.). Non solo i sommi sacerdoti asmonei erano illegittimi agli occhi di Qumran, ma pure il ri­ tuale che seguivano era scorretto. E quel che è peggio, il calendario ]uni­ solare introdotto nel tempio nella prima metà del II secolo era considera­ to un calendario falso dai residenti a Qumran, che seguivano il più antico 11'

Ovviamente non si può creare una dicotoffiia tra il tempio di Gerusalemme e la legge mosaica. Tuttavia, non bisognerebbe dimenticare che il tempio di Gerusalemme come tale, diversamente dal suo surrogato, la tenda del convegno nel deserw al tempo di Mosè, non è descritto o regolamentato nel Penrateuco. Anche le nonne liturgiche prescritte nel Pentateuco e la cui applicazione è chiara· mente intesa per il tempio posteriore sono generiche e solo abbozzate. U Pentateuco non offre una tranazione completa di disposizioni liturgiche per regolare fm nei minimi dettagli la vita liturgica quoridiana nel tempio. Spettava ai sacerdoti di Gerusalemme sviluppare la propria hi/o1eJ da appli­ care a rali questioni. Alla luce di questo, è sorprendente osservare quanra parte, per esempio, della Lettera halakica di Qumran sia dedicata ai deccagli riguardanti i sacerdoti, il tempio, il suo calendario e la sua liturgia (specialmente i sacrifici). le nonne di purità relative al tempio, anche in quegli ambiti in cui il Pentateuco non dà regole - anche se, naruraJmente, i qumraniti ritengono che le loro opinio­ ni siano l'interpretazione autentica del «>. (Per un'opinione diversa sull'iscrizione dell'ossario, vedi A.I. BAUMGARTEN, Korban, 7; E.P. SANDERS, ]ewish IAw, 55). Anche la fonnulazione della frase (che parla di ciò che può essere di profitto per un'altra persona - e quindi c'era probabilmente qualcosa di valore nell'ossario oltre alle ossa) fa veni­ re in mente

Mc 7 , 1 1 : «Qualunque [sostegno) tu possa aver ottenuto da me è Corban, cioè, un dono Ned.

[a Dio] . . . ». Un'espressione simile si può trovare nell.o letteratura rahbinica (per esempio, m.

6,7). Nella letteracura rabbinica. i termini qorhin e qOna-m ricorrono con l'idea di un'offerta a Dio che perciò diviene interdetta agli uomini; vedi, per esempio, m.

cibo che è proibito a una persona (un caso simile a CD

Ned. 1,4, dove è usato per indicare il

16,14-15). In alcuni passi, il senso della con­ sacrazione a Dio sfuma, lasciando semplicemente il senso di qualcosa che è proibito a un altro. In m.

Ned. 4,6, vediamo svilupparsi un ulteriore significato di q6ntim: una lamentela o anche una maledi­ zione espressa o invocata su una persona. Tali sviluppi evidentemente superano i limiti cronologici di

Mc 7 ,9· B. Il problema di coloro che usano il sofisma e il sotterfugio per sottrarsi ai voti che hanno fatto ricorrendo a qorbin ed altre parole simili è discusso in m. Ned. 2,5. Occorre osservare un demento interessante circa questo materiale. I testi di Flavio Giuseppe e l'i­ scrizione dell'ossario usano leorbJnlqorbtin non in modo assoluto, ma con una costruzione genitiva o dativa, indicando così che il dono è offerto o appartiene a Dio. Anche se non usa il tennine korb4n,

Filone in Hypothetica 7,3 sostiene

la stessa idea: il voto che consacra un oggetto dona quell'oggetto a

Dio in maniera irrevocabile e quindi lo esclude da tutti gli usi comuni. Di conseguenza, forse si po­ trebbe distinguere tra i doni che erano effettivamente votati al tempio (e quindi a Dio) e i doni che e­ rano in un senso più vago consacrati a Dio e perciò sonrani all'uso comune. Quest'ultimo tipo - che includerebbe l'iscrizione dell'ossario - implicherebbe una vera consacrazione religiosa a Dio, ma non al tempio. In tal caso, la tipologia di A.I.

BAUMGARTEN, Korban, 6·7, necessita di

un ulteriore perfe.

fonnula di effettiva consacrazione al tempio (qui egli colloca il testo tratto dalle

Antichità di Flavio

zionamento qualora la si applichi al periodo pre-rabbinico. Baumganen salta dall'uso di qorbtin come

Giuseppe) all'uso di qorba-n come formula di voto in virtù della quale un oggetto era proibito a chi pronunciava la fonnula o a un'altra persona nello stesso modo in cui era interdetto un animale con­ sacrato (kéqorbiin, 'come se fosse qorbin'; qui egli colloca l'iscrizione dell'ossario). Mi sembra che l'e· splicita espressione sull'ossario (qrbn'/h, 'un'offerta a Dio'), alla luce delle affermazioni di Flavio Giuseppe e di Filone, richieda un'interpretazione più esplicitamente leo-logica di qorbiin in questo testo.

Gli essmi e altri gruppi

523

mtmianza di alcuna fonte che una tale astrusa questione sul t/Mban abbia impegnato i giudeo-cristiani della Palestina nei decenni successivi alla morte di Gesù ed abbia costituito una linea di demarcazione tra loro e al­ tri gruppi giudaici. Come indicano sia le lettere di Paolo che gli Atti degli Apostoli, questioni importanti come la circoncisione, le norme alimenta­ ri, le lotte per la leadership all'interno della chiesa, e i rapporti con i cri­ stiani provenienti dal paganesimo costituirono i temi caldi dei sempre più assillati giudeo-cristiani di Palestina tra il 40 e il 66 d.C. Di conseguenza, ritengo più probabile che la disputa sul qorban abbia avuto origine in un dibattito tra Gesù e certi altri ebrei palestinesi (pro­ babilmente di idee farisaiche) che dissentivano da lui sulla validità o la re­ vocabilità di un voto che privasse i genitori di sostegno economico'". L'o­ biezione dei primi critici delle forme, come Bultmann, che questa unità presenta Gesù che cita la Scrittura e discute di una particolare questione di hdliika, vale solo per coloro che conservano la strana immagine di un

1,}76 [trad. it. l, 584-585]; (apparen­ Korhan, 16-17; R.P. Boorn , fesus and the Laws o/ Purity, 94-%; RA.

" A favore della storicità sono R PEscH, Markusevangelium

temente) A.l. BAUMGARTEN,

Marie 1-8:26, 362. Talvolta si obietta che i farisei non avrebbero permesso un sotterfugio qorhiin, dal momento che nella Mishnà si insegna l'idea opposta sul qorbiin. Come al solito,

GUELICH, come il

bisogna fare attenzione a non mettere automaticamente gli insegnamenti dei farisei anteriori al 70 sullo stesso piano delle idee espresse nella

Mrshnà. Inoltre, il materiale mishnaico è complesso, e ri­ m. Ned.

flette varie fasi e opinioni contrastanti di un dibattito in atto nel giudaismo. Per esempio, in

9 , 1 , si espongono varie idee riguardo alle ragioni che giustificherebbero l'annullamento di un voto che un uomo aveva fatto a danno di suo padre e di sua madre.

U fatto che idee eterogenee su questa

questione potessero coesistere al tempo della composizione della Mishnà fa pensare che prima que­ sto tema fosse ancora insoluto. Si potrebbe ossetvare che, anche i.n questo passo mishnaico, si tratta di stabilire quale ragione autorizzerebbe un uomo ad annullare il proprio voto; non si dice niente

è l'aneddoto riportato Ned. 5,6. Un uomo aveva fatto un voto che impediva a suo padre di ricevere qualsiasi alimento

dell'eventualità di un obbligo perentorio di annullarlo. Ancor più significativo in

m.

da lui. Per fornire gli alimenti al padre, l'uomo escogitò un macchinoso sotterfugio tramite una fin­ zione legale. Questo raccomo presuppone che ( l ) vmi come questi venivano fatti realmente e (2) non era praticabile alcuna via semplice per annullarli. Sul racconto, vedi A.I. BAUMGARTEN, Korban, 10-

12. Una situazione simile è presupposta dalla trattazione di Filone sui giuramenti e sui voti nel suo HypothetictJ 7,3-5. Filone assume una posizione rigida riguardo alla irrevocabilità di un voto, anche quando va a danno di membri della propria famiglia. Nella trattazione di Filone, i modi per annulla­

re un voto sono molto limitati (il rifiuto dd dono da pane del sacerdote o - espressa in termini vaghi da Ft.lone - una dichiarazione da parte di qualche governante). U rigore delle sue idee si avvicina al­

Markusevange­ lium 1)75 [trad. it. 1,584], m. Ned. 5,6 rappresenti la prima fase della casistica intorno all'epoca di Gesù, quando l'opinione che Gesù stigmarizza era realmente possibile. CD 16, Filone, Mc 7 , l i e m. Ned. 5,6 indicano che, inromo ajitli inizi dell'era cristiana, c'era almeno un dibattito molto vivace sui l'opinione respinta da Gesù. Di conseguenza, può darsi che, come pensa R. PEscH,

voti che potevano privare i genitori di una persona o il prossimo dd sostegno economico vitale e sul­ lo possibilità di annullare tali voti. In breve, il materiale mishnaico non esclude la possibilità che la sostanza di Mc 7,9-13 risalga a Gesù.

524

Gesù l'ebreo e i suoi antagonisti ebrei

maestro ebreo dd I secolo in Palestina che non citava mai le Scritture e­ braiche nelle sue argomentazioni, né discuteva il comportamento morale e rituale concreto con gli altri ebrei". Le idee diverse e a volte contrastan­ ti su giuramenti e voti espresse nel Documento di Damasco, in Filone, in Flavio Giuseppe e nella letteratura rabbinica posteriore indicano che questo tema era oggetto di un vivace dibattito nel giudaismo agli inizi dell'era cristiana". Che un maestro popolare come Gesù esprimesse le proprie idee sull'argomento, specialmente se ciò aiutava in una disputa a segnare un punto a proprio favore contro un avversario, corrisponde per­ fettamente a quanto conosciamo sia di Gesù che del giudaismo palestine­ se del tempo. In effetti, il problema dell'annullamento di un giuramento o un voto e­ merge anche nel Documento di Damasco. Certamente, il termine qorban non ricorre come tale in CD 16, 1 -20, un testo frammentario che prose­ gue la trattazione sui giuramenti e sui voti iniziata nella colonna 15. Tut­ tavia, trattando di diversi casi di annullamento di un giuramento o di un voto, si menziona un caso simile alla dichiarazione di Gesù sul qorban". In due righe frammentarie (CD 16,14-15) si legge: «Nessuno dichiari san­ to [cioè, dedichi a Dio e così destini ad altro] il cibo della [sua bocca], perché questo è ciò che egli [cioè, Dio attraverso il profeta Michea in Mi 7 ,2] ha detto: 'Ciascuno in trappola il suo prossimo con un anatema [perem, la consacrazione di qualcosa all'uso esclusivo di Dio]'»".

" Vedi, p. es., R. BVLTMANN, Geschichte, 5 1 (che esamina testi come Mc 7,9-13). Anche Bultmann, tuuavia, ammette la possibilità che «di tanto in tanto» l'uso di un testo scrinuristico potrebbe risalire a Gesù, anche se egli afferma che tale caso non può essere accertato dagli studiosi odierni. lo ritengo che l'approccio più saggio sia ammenere che, in teoria, la citazione biblica in una data pericope po­ trebbe derivare sia da Gesù che dalla chiesa primitiva e che ciascun caso deve essere valutato in ma­ niera indipendente, non in base a un giudizio aprioristico contro l'origine delle citazioni bibliche nel­ la bocca del Gesù storico. " Questo è un punto importante dell 'articolo di A.l. BAUMGAKTEN, Korban; vedi spec. pp. 8-10. " Così K.H. RENGSTORF, korban, korbanas, 867-868. " Come spesso accade con l'uso della Scrittura a Qumran (e nel NT), il significato originario del testo viene 'distorto' per servire allo scopo deU'interprete successivo. Il significato originario di Mi 7,2 è piuttosto generico: fa parte di un lamento sul trionfo apparentemente universale del male nella società. Mi7,2 nel suo complesso, secondo il TM, dice: «L'uomo pio è scomparso dalla terra; non c'è più un giusto fra gli uomini; tutti stanno in agguato per spargere sangue; ognuno dà la caccia con una rete [/J (I QSa 2,11-21) e l'accento che Gesù invece pone sul prendere spontaneamente il posto più modesto e lasciare che sia il padrone di casa (Dio nel banchetto escatologico?) ad invitare a «passare più avanti•> (Le 14,10). Tuttavia, prendo questo contrasto solo come un simbolo della differenza che c'è nello spirito dei due movi·

menti perché. nel suo contesto storico originario, il consiglio espresso in

Le 1 4, 1 0 era probabilmente

un frammento di prudente saggezza pratica inteso a insegnare qual era il componamento più oppor·

È piuttosto la redazione di Luca (vedi 14,7.11) a dargli un The Gospel According lo Luke 2,1043-1048. Questa di· e la redazione lucana è ignorata da !.H. MARsHAll., Luke, 581·

runo da tenere ad un comune banchetto.

significato escatologico; vedi J.A. FITZMYER, stinzione tra la tradizione di Gesù

583.

Gli esseni e altri gruppi

553

tempo, tenda ad istituzionalizzarsi, a darsi una stutturà e a razionalizzarsi; tali tendenze si possono osservare anche nella chiesa primitiva"". Ma, a parte forse la costituzione dei dodici da parte di Gesù, sembra ci sia stato molto poco di questo nel suo ministero pubblico. Ed è superfluo dire che l'accento che Qumran pose sul controllo da parte dei sacerdoti non trova alcuna eco nel movimento laico guidato dal laico ebreo di nome Gesù. Forse questo contrasto tra l'autocoscienza settaria di Qumran come la comunità fortemente organizzata della 'nuova alleanza' (CD 6,19; 19,33) e il libero e spontaneo movimento escatologico di Gesù che si rivolgeva a tutto Israele può aiutare a spiegare perché il vocabolo 'alleanza' sia un termine importante per Qumran e perché, eccettuate le parole pronun­ ciate da Gesù sul calice durante l'ultima cena (probabilmente: