The Weird and the Eerie. Lo strano e l inquietante nel mondo contemporaneo 9788875219345

The Weird and the Eerie è l’ultimo libro pubblicato in vita da Mark Fisher, scrittore e critico culturale inglese che an

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The Weird and the Eerie. Lo strano e l inquietante nel mondo contemporaneo
 9788875219345

Table of contents :
Indice......Page 5
Introduzione. Weird e eerie (oltre l’unheimlich)......Page 8
Il weird......Page 14
/ Dallo spazio e dal tempo. Lovecraft e il weird......Page 15
/ Weird vs mondano. H.G. Wells......Page 24
/ «Il corpo un caos di tentacoli». Grottesco e weird: i Fall......Page 30
/ Prigioniero delle spire di Ouroboros. Tim Powers......Page 36
/ Simulazioni e demondificazione. Rainer Werner Fassbinder e Philip K. Dick......Page 41
/ Sipari e buchi. David Lynch......Page 48
L’eerie......Page 54
/ Approccio all’eerie......Page 55
/ Qualcosa dove non dovrebbe esserci niente, niente dove dovrebbe esserci qualcosa. Daphne du Maurier e Christopher Priest......Page 59
/ On Vanishing Land. M.R. James e Brian Eno......Page 69
La Thanatos di Quatermass......Page 75
Il tempo mitico di Red Shift......Page 82
/ Dentro-fuori/fuori-dentro. Margaret Atwood e Jonathan Glazer......Page 89
/ Tracce aliene. Stanley Kubrick, Andrej Tarkovskij e Christopher Nolan......Page 100
/ «...l’eeriness rimane». Joan Lindsay......Page 111
Postfazione di Gianluca Didino......Page 118
Libri......Page 137
Film......Page 142
Produzioni televisive......Page 143

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Indi / 51

Mark Fisher The Weird and the Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo titolo originale: The Weird and the Eerie traduzione di Vincenzo Perna © Mark Fisher, 2016 Pubblicato originariamente nel 2016 da Repeater Books, an imprint of Watkins Media Ltd www.repeaterbooks.com per la postfazione: © Gianluca Didino, 2018 © minimum fax, 2018 Tutti i diritti riservati Edizioni minimum fax via Giuseppe Pisanelli, 2 – 00196 Roma tel. 06.3336545 / 06.3336553 [email protected] www.minimumfax.com I edizione: agosto 2018 Edizione digitale: agosto 2018 ISBN 9788875219901

MARK FISHER / THE WEIRD AND THE EERIE LO STRANO E L’INQUIETANTE NEL MONDO CONTEMPORANEO traduzione di Vincenzo Perna postfazione di Gianluca Didino

INDICE

Introduzione. Weird e eerie (oltre l’unheimlich) Il weird / Dallo spazio e dal tempo. Lovecraft e il weird / Weird vs mondano. H.G. Wells / «Il corpo un caos di tentacoli». Grottesco e weird: i Fall / Prigioniero delle spire di Ouroboros. Tim Powers / Simulazioni e demondificazione. Rainer Werner Fassbinder e Philip K. Dick / Sipari e buchi. David Lynch L’eerie / Approccio all’eerie / Qualcosa dove non dovrebbe esserci niente, niente dove dovrebbe esserci qualcosa. Daphne du Maurier e Christopher Priest

/ On Vanishing Land. M.R. James e Brian Eno / Eerie Thanatos. Nigel Kneale e Alan Garner / Dentro-fuori/fuori-dentro. Margaret Atwood e Jonathan Glazer / Tracce aliene. Stanley Kubrick, Andrej Tarkovskij e Christopher Nolan / «...l’eeriness rimane». Joan Lindsay Postfazione di Gianluca Didino Bibliografia

a Zöe, costante fonte d’incoraggiamento, e ragione per cui qui c’è qualcosa invece che niente

INTRODUZIONE WEIRD E EERIE (OLTRE L’UNHEIMLICH)

È strano che mi ci sia voluto tanto tempo per fare i conti con il weird e l’eerie. Anche se le origini immediate di questo libro risalgono a eventi piuttosto recenti, sono affascinato e ossessionato da una vita da casi di weird e eerie. Ma non avevo mai identificato concretamente le due diverse modalità, e meno che meno chiarito i loro tratti definitori. Ciò senza dubbio dipende in parte dal fatto che i più importanti casi culturali di weird e eerie si collocano al margine di generi come horror e fantascienza, e che queste associazioni di genere hanno oscurato le specificità dei due concetti. Ho messo a fuoco per la prima volta il concetto di weird una decina d’anni fa, in seguito a due convegni sull’opera di H.P. Lovecraft tenuti al Goldsmiths College di Londra. L’eerie invece è stato il tema centrale di On Vanishing Land, un audiosaggio prodotto nel 2013 insieme a Justin Barton. Neanche a farlo apposta, la nozione di eerie ci ha colti tutt’e due di sorpresa: in origine non era affatto al centro della nostra indagine, ma alla fine del progetto ci siamo resi conto che gran parte della musica, del cinema e della letteratura di cui da sempre eravamo appassionati possedeva questa qualità. Il tratto comune di weird e eerie è un’ossessione per ciò che è strano. Strano, non raccapricciante. Il fascino di weird e eerie non è sintetizzabile nell’idea che «ricaviamo piacere da ciò che ci spaventa». Ha piuttosto a che vedere con l’attrazione per l’esterno, per ciò che sta al di là della percezione, della conoscenza e dell’esperienza comune. Quest’attrazione comporta di solito una certa dose d’inquietudine, magari anche timore – ma sarebbe sbagliato sostenere che weird e eerie siano per forza spaventosi. Non intendo certo affermare qui che ciò che sta al di fuori sia sempre benevolo. L’esterno

ci mette a disposizione un’abbondante dose di terrori. Ma questi terrori non esauriscono tutto ciò che c’è da dire sull’esterno. Forse il ritardo con cui sono approdato all’idea di weird e eerie è dipeso dal fascino proiettato dal concetto freudiano di unheimlich (perturbante). Com’è noto, tale concetto è stato tradotto in inglese con il termine inadeguato di uncanny (misterioso, soprannaturale). Il termine inglese che descrive meglio il senso attribuito da Freud è invece unhomely (non familiare, estraneo). L’unheimlich viene spesso fatto coincidere con weird e eerie (lo stesso scritto di Freud tratta i due termini in maniera intercambiabile). Ma l’influenza del grande saggio di Freud ha fatto sì che l’unheimlich finisse per escludere le altre due modalità. Il saggio sull’unheimlich ha esercitato un’enorme influenza sullo studio dell’horror e della fantascienza – forse alla fine più a causa delle esitazioni, congetture e tesi respinte da Freud che della definizione da lui effettivamente fornita. Gli esempi di unheimlich riportati da Freud – doppi, entità meccaniche dall’apparenza umana, protesi – evocano un particolare tipo d’inquietudine. Ma la spiegazione finale dell’enigma dell’unheimlich da parte di Freud – l’affermazione che esso si può ricondurre all’ansia da castrazione – è deludente quanto la soluzione di routine fornita dall’investigatore in un thriller mediocre. Ciò che invece resta affascinante è il grappolo di concetti che circolano nel saggio di Freud, e il modo in cui essi spesso esemplificano ricorsivamente il meccanismo cui si riferiscono. Ripetizione e doppio – essi stessi coppia di concetti misteriosi che si sdoppiano e ripetono a vicenda – sembrano essere al centro di tutti i fenomeni «misteriosi» identificati da Freud. Concetti come weird, eerie e unheimlich hanno senza dubbio qualcosa in comune. Indicano tutti tipi diversi di sensazione, ma anche di modalità: modalità del cinema e della narrativa, della percezione, e in definitiva dell’essere, potremmo persino affermare. Nonostante ciò, non costituiscono dei veri generi. Forse la differenza più importante tra l’unheimlich da un lato e il weird e l’eerie dall’altro, sta nel loro modo di trattare ciò che è strano. L’unheimlich di Freud riguarda lo strano all’interno del familiare, lo stranamente familiare, il familiare come strano – il modo in cui il mondo domestico non coincide con se stesso. In questo concetto ritroviamo tutte le ambiguità della psicoanalisi di Freud. Stiamo parlando di rendere il familiare – e il famigliare

– strano? Oppure di ricondurre lo strano al familiare, al famigliare? È qui possibile cogliere il doppio movimento caratteristico della psicoanalisi freudiana: in primo luogo, lo straniamento di numerose nozioni comuni che riguardano la famiglia; questo movimento è però accompagnato da una mossa compensativa, in cui l’esterno diventa leggibile in chiave di dramma familiare modernista. La psicoanalisi stessa è un genere unheimlich: ossessionata da qualcosa che sta al di fuori, intorno a cui essa ruota ma che non è mai in grado di riconoscere o affermare appieno. Molti commentatori hanno riconosciuto che lo stesso saggio sull’unheimlich somiglia a un racconto, con Freud nei panni dell’inaffidabile narratore jamesiano. E se Freud è un narratore inaffidabile, perché dovremmo accettare che il suo racconto venga classificato nei termini della categoria proposta dal saggio? E se il vero dramma del saggio consistesse invece nei continui tentativi da parte di Freud di circoscrivere i fenomeni che esplora nell’ambito dell’unheimlich? Il ricondurre il weird e l’eerie all’unheimlich è sintomatico di un ripiegamento secolare dall’esterno. La predilezione generale per l’unheimlich è commisurata alla compulsione verso un certo tipo di critica, che opera analizzando sempre l’esterno attraverso gli interstizi e le impasse di ciò che si trova all’interno. Il weird e l’eerie muovono da una direzione opposta: ci permettono di osservare l’interno da una prospettiva esterna. Come vedremo, il weird è ciò che è fuori posto, ciò che non torna. Il weird apporta al familiare qualcosa che normalmente si trova al di fuori di esso, e che non si riconcilia con il «casalingo» (neppure come sua negazione). La forma artistica che è forse più appropriata al weird è quella del montaggio – la combinazione di due o più elementi che non appartengono allo stesso luogo. Da qui la predilezione per il weird da parte del surrealismo, che interpretava l’inconscio come una macchina per il montaggio cinematografico, un generatore di accostamenti bizzarri. Da qui anche la ragione per cui Jacques Lacan – raccogliendo la sfida lanciata dal surrealismo e dal resto del modernismo estetico – ha potuto muovere in direzione di una psicoanalisi weird, dove pulsione di morte, sogni e inconscio si sono svincolati da ogni naturalizzazione o senso di familiarità. A prima vista l’eerie potrebbe sembrare più vicino all’unheimlich che al weird. Eppure, esattamente come il weird, anche l’eerie riguarda in modo fondamentale l’esterno, e qui possiamo intendere l’esterno in un senso immediatamente empirico, oltre che in uno trascendente più astratto. Il senso

dell’eerie è di rado ancorato a spazi domestici circoscritti e abitati: lo incontriamo più di frequente in paesaggi parzialmente svuotati della presenza umana. Che cos’è avvenuto per originare quelle rovine, quell’assenza? Che genere di entità è coinvolta? Che tipo di essere ha prodotto quel grido inquietante?1 Come questi esempi indicano con chiarezza, l’eerie è fondamentalmente legato a questioni di agentività (agency). Che tipo di agente opera in questo caso? Ed esiste veramente un agente? Sono domande che possono essere riformulate in un registro psicoanalitico – se non siamo chi crediamo di essere, che cosa siamo allora? – ma che si applicano anche alle forze che governano la società capitalista. Il capitale è ad ogni livello un’entità eerie: comparso dal nulla, esercita cionondimeno maggiore influenza di qualsiasi entità che sulla carta dovrebbe essere concreta. Lo scandalo metafisico del capitale ci conduce alla questione più ampia dell’agentività dell’immateriale e dell’inanimato: il ruolo di pietre e paesaggi in autori come Nigel Kneale e Alan Garner, e il modo in cui «noi stessi» ci troviamo invischiati in ritmi, pulsioni e modelli di forze non umane. Non esiste interno salvo che come ripiegamento dell’esterno: lo specchio s’infrange, io sono un altro, e lo sono sempre stato. Il fremito qui è il fremito dell’eerie, non dell’unheimlich. Il romanzo The White Hotel di D.M. Thomas ci offre uno straordinario esempio di destituzione dell’unheimlich da parte dell’eerie. Sulle prime l’argomento del romanzo sembra essere un caso di studio simulato riguardante una paziente immaginaria di Freud, una certa «Anna G». La poesia di Anna G che apre il romanzo appare a prima vista satura d’isteria erotica, come il Freud di Thomas dichiara nel caso di cui scrive nel libro. L’analisi di Freud minaccia di dissipare l’atmosfera onirica della poesia di Anna G, e anche di stabilire una direzione d’interpretazione: dal presente verso il passato, dall’esterno verso l’interno. Poi però si scopre che l’apparente erotismo è esso stesso un offuscamento e una deflessione dal punto di riferimento più profondo della poesia, che non si trova nel passato di Anna G, bensì nel suo futuro – la sua morte nel massacro di Babij Jar nel 1941. I problemi di chiaroveggenza e fato qui ci conducono a una forma scioccante di eerie. Le streghe profetiche di Macbeth, dopotutto, in inglese sono conosciute con il nome di Weird Sisters, e uno dei significati arcaici di weird è «fato». Il concetto di fato è weird nel senso che implica forme

contorte di tempo e causalità estranee alla percezione ordinaria, ma è al tempo stesso eerie perché solleva questioni di agentività: chi è o cos’è l’entità che ha ordito il fato? L’eerie riguarda le più fondamentali domande metafisiche che si possano porre, domande che riguardano l’esistenza e la non esistenza: Perché qui c’è qualcosa quando non dovrebbe esserci niente? Perché qui non c’è niente quando dovrebbe esserci qualcosa? Gli occhi spenti di un morto, lo sguardo smarrito di un individuo colpito da amnesia – tutti elementi che generano un senso di eerie, esattamente come un villaggio abbandonato o un antico cerchio di pietre. Fin qui non ci siamo ancora liberati dall’impressione che weird e eerie riguardino soprattutto ciò che è sconvolgente o terrificante. Concludiamo allora queste osservazioni preliminari indicando esempi di weird e eerie che danno origine a un differente insieme di sensazioni. Le opere moderniste e sperimentali al primo incontro spesso ci appaiono weird. Il senso di noncorrettezza associato al weird – la convinzione che questa cosa non torni – è spesso segno che ci troviamo in presenza del nuovo. Il weird è qui un segnale del fatto che i concetti e i sistemi di riferimento di cui ci siamo serviti in precedenza sono ormai obsoleti. Se l’incontro con l’insolito qui non è immediatamente gradevole (il gradevole si riferisce sempre a forme precedenti di soddisfazione), non è neppure del tutto sgradevole: esiste un appagamento nel vedere il familiare e il convenzionale divenire antiquati – appagamento che, nella sua miscela di piacere e sofferenza, ha qualcosa in comune con quella che Lacan definiva jouissance. Anche l’eerie comporta un disimpegno dai nostri legami ordinari. Con l’eerie, però, questo disimpegno di solito non genera l’effetto di shock tipico del weird. La tranquillità tanto di frequente associata all’eerie – si pensi all’espressione «calma inquietante» (eerie calm) – ha a che vedere con il distacco dalle urgenze del quotidiano. La prospettiva dell’eerie ci può dare accesso alle forze che governano la realtà ordinaria ma che sono normalmente nascoste, così come a spazi del tutto al di là della realtà ordinaria. È questa liberazione dall’ordinario, questa fuga dai confini di ciò che normalmente consideriamo realtà che spiega almeno in parte il fascino speciale dell’eerie.

1. Eerie cry in originale. Si tratta di un’espressione che per un lettore inglese possiede un’evidenza immediata, perché convoglia la sensazione di un grido (o verso di animale) che ha qualcosa di pauroso, misterioso, non umano, forse soprannaturale. Vedi, più avanti, i commenti di Fisher in «Approccio all’eerie». [n.d.t.]

IL WEIRD

DALLO SPAZIO E DAL TEMPO LOVECRAFT E IL WEIRD

Che cos’è il weird? Quando diciamo che qualcosa è weird, a quale genere di sensazione ci riferiamo? Intendo qui sostenere che il weird è un particolare genere di perturbazione. Chiama in causa un senso di non-correttezza: un’entità o un oggetto weird è talmente inusuale da generare la sensazione che non dovrebbe esistere, o perlomeno non dovrebbe essere qui. Eppure, se l’entità oppure l’oggetto è effettivamente qui, allora le categorie utilizzate finora per dare senso al mondo non possono essere valide. La cosa weird non è sbagliata, dopotutto: dovranno per forza essere inadeguate le nostre concezioni. Le definizioni date dai dizionari non aiutano granché a definire il weird. Alcune rimandano direttamente al soprannaturale, anche se non è affatto detto che entità soprannaturali siano necessariamente weird. Sotto molti aspetti un fenomeno naturale come un buco nero è ben più weird di un vampiro. Per quanto riguarda la fiction, l’assoluta riconoscibilità di genere preclude a creature come vampiri e lupi mannari qualsiasi possibilità di generare una sensazione di weirdness. In questo caso esiste già una tradizione pregressa, un insieme di protocolli che ci permettono d’interpretare e riconoscere il vampiro e il lupo mannaro. E in ogni caso si tratta di creature che risultano mostruose da un punto di vista puramente empirico: il loro aspetto si limita a ricombinare elementi del mondo naturale già noto. Nello stesso tempo, il fatto che siano entità soprannaturali significa che ogni loro stranezza viene ora attribuita a una sfera che sta al di là della natura. Confrontiamo queste entità con un buco nero: le bizzarre modalità con cui un buco nero curva spazio e tempo sono del tutto estranee all’esperienza

comune, eppure il fenomeno appartiene all’universo naturale-materiale – un universo che quindi dev’essere ben più strano di quanto l’esperienza comune sia in grado di abbracciare. È stato questo genere d’intuizione a ispirare la weird fiction di Lovecraft. «Tutti i miei racconti si fondano sulla premessa fondamentale che leggi, interessi ed emozioni umane comuni non abbiano alcuna validità e significato generale nell’universo», scriveva Lovecraft nel 1927 all’editore della rivista Weird Tales. «Per conquistare l’essenza dell’autentica esternalità, sia essa riferita a tempo, spazio o dimensione, è necessario dimenticare che elementi come la vita organica, il bene e il male, l’amore e l’odio e altri attributi limitati di una razza irrilevante e transitoria chiamata umanità abbiano qualunque tipo di esistenza». È questa qualità di «autentica esternalità» a risultare cruciale nel weird. Qualunque dibattito sulla weird fiction deve partire da Lovecraft. Con i suoi racconti pubblicati sulle riviste pulp Lovecraft ha praticamente inventato la weird tale, sviluppando una formula che è possibile distinguere sia dalla narrativa fantastica che da quella dell’orrore. Le storie di Lovecraft si concentrano in maniera ossessiva su ciò che sta al di là: un esterno che irrompe per mezzo d’incontri con entità anomale provenienti dal remoto passato, stati alterati di coscienza, bizzarri contorcimenti nella struttura del tempo. L’incontro con l’esterno si conclude spesso con il crollo e la psicosi. Le storie di Lovecraft prevedono di frequente l’integrazione catastrofica di ciò che è esterno in un interno che si rivela in retrospettiva soltanto un involucro illusorio, un inganno. Prendiamo ad esempio il racconto «La maschera di Innsmouth», dove alla fine scopriamo che il personaggio principale è lui stesso un Essere-degli-Abissi, un’entità acquatica aliena. Io sono Lui – o meglio, Io sono Loro. Benché spesso classificata come horror, in realtà l’opera di Lovecraft evoca di rado una sensazione di orrore. Nell’illustrare i motivi che lo hanno spinto a scrivere il saggio breve «Note su come scrivere racconti fantastici», Lovecraft non cita immediatamente l’orrore. Parla invece di «vaghe, elusive, frammentarie impressioni di meraviglia, di bellezza e avventurosa attesa». L’enfasi sull’orrore, prosegue Lovecraft, è una conseguenza dell’incontro con l’ignoto dei suoi racconti. Per cui non è l’orrore, quanto piuttosto l’attrazione – ancorché spesso mescolata con una certa dose di trepidazione – a risultare essenziale nella resa

del weird da parte di Lovecraft. Ma direi che ciò è essenziale anche al concetto stesso di weird: il weird non può soltanto respingere il lettore, ma deve anche imporsi alla sua attenzione. Così, se l’elemento di attrazione fosse del tutto assente in un racconto e questo si limitasse a essere semplicemente orribile, non sarebbe più weird. Tale sentimento di attrazione è l’elemento che accomuna i personaggi e i lettori di Lovecraft. Paura e terrore non sono invece ripartiti in ugual misura tra loro: mentre i personaggi di Lovecraft appaiono spesso terrorizzati, i suoi lettori lo sono ben di rado. In Lovecraft la fascinazione è una forma di jouissance lacaniana: un appagamento che comporta un legame inestricabile tra piacere e dolore. Gli scritti di Lovecraft spumeggiano letteralmente di jouissance. Spumeggiare, schiumare e brulicare sono verbi che Lovecraft utilizza di frequente, ma che si possono ugualmente applicare con successo alla «gelatina oscena» della jouissance. Con ciò non intendo affatto sostenere l’idea assurda che nell’opera di Lovecraft non esista negatività – ripugnanza e disgusto non sono certo nascosti – ma soltanto che la negatività non ha l’ultima parola. Un’eccessiva preoccupazione per oggetti «ufficialmente» negativi indica sempre l’azione della jouissance: una modalità di appagamento che non «riscatta» in alcun modo la negatività, ma la sublima. In altre parole, che trasforma un oggetto comune che provoca dis-piacere in una Cosa che è al tempo stesso terribile e affascinante, che dal punto di vista libidinale non può più essere classificata come soltanto positiva o negativa. La Cosa prende il sopravvento, non può essere arginata, ma è affascinante. È l’attrazione, sopra ogni cosa, a rappresentare il motore della fatalità nei racconti di Lovecraft, un’attrazione che trascina i suoi personaggi libreschi verso la dissoluzione, la disintegrazione o la degenerazione che noi, in quanto lettori, vediamo sempre in anticipo. Dopo aver letto uno o due racconti di Lovecraft, il lettore sa perfettamente cosa aspettarsi dagli altri. In realtà è difficile credere che persino quando il lettore incontra per la prima volta un racconto di Lovecraft resti del tutto sorpreso dall’esito della storia. Ne consegue che la suspense – così come l’orrore – non è un carattere definitorio della fiction di Lovecraft. Ciò significa che l’opera di Lovecraft non si adatta alla definizione strutturalista di fantastico offerta da Tzvetan Todorov. Secondo tale definizione, il fantastico è costituito da una sospensione tra lo straordinario (storie che alla fine si risolvono in modo naturalistico) e il meraviglioso

(storie che si risolvono in modo soprannaturale). Sebbene le storie di Lovecraft implichino ciò che lui stesso in «Note su come scrivere racconti fantastici» ha caratterizzato come «l’illusione di una misteriosa sospensione o violazione degli irritanti limiti di tempo, spazio e leggi naturali che da sempre ci imprigionano, frustrando la nostra curiosità riguardo agli infiniti spazi cosmici al di là del campo di ciò che possiamo vedere e analizzare», non compare mai alcuna suggestione del coinvolgimento di esseri soprannaturali. I tentativi umani di trasformare le entità aliene in divinità sono chiaramente visti da Lovecraft come vani atti di antropomorfismo, tentativi magari nobili ma in ultima analisi assurdi d’imporre significato e senso all’«autentica esternalità» di un universo in cui preoccupazioni, prospettive e concetti umani giocano un ruolo soltanto limitato. Nel suo libro Lovecraft: A Study in the Fantastic, Maurice Lévy colloca lo scrittore americano all’interno di una «tradizione fantastica» che comprende il romanzo gotico, Poe, Hawthorne e Bierce. Ma l’enfasi di Lovecraft sulla materialità delle entità anomale che compaiono nei suoi racconti rende l’autore di Providence assai diverso da Poe e dai romanzieri gotici. Sebbene alla fine di ogni racconto ciò che potremmo definire il naturalismo ordinario – il mondo normale, empirico, del senso comune e della geometria euclidea – venga fatto a pezzi, esso è rimpiazzato da un ipernaturalismo: una percezione espansa di quanto si trova nell’universo materiale. Il materialismo di Lovecraft è una ragione per cui ritengo che si debba distinguere la sua narrativa – e in generale il weird – dal fantasy e dal fantastico. (Si noti che Lovecraft stesso, in «Note su come scrivere racconti fantastici», identifica senza problemi weird e fantastico.) Il fantastico è una categoria piuttosto ampia che può comprendere gran parte della fantascienza e dell’horror. Non è che tale identificazione sia fuor di luogo nell’opera di Lovecraft, ma il punto è che non chiarisce ciò che c’è di unico nel suo metodo. Il fantasy, ad ogni modo, denota un insieme più specifico di proprietà di genere. Lord Dunsany, il primo ispiratore di Lovecraft, e Tolkien sono modelli esemplari di scrittori fantasy, e il confronto con loro ci permetterà di cogliere la differenza con il weird. Il fantasy è ambientato in mondi del tutto diversi dal nostro – il Pegana di Dunsany o la Terra di Mezzo di Tolkien. O piuttosto, questi mondi sono lontani dal nostro in termini spaziali e temporali (troppi mondi fantastici alla fine si rivelano fin troppo

simili al nostro, in senso ontologico come politico). Il weird, per contrasto, è notevole per il fatto che apre un passaggio da questo mondo verso altri. Esistono naturalmente racconti e serie – come il ciclo di Narnia di C.S. Lewis, la Oz di Frank Baum, la trilogia di Covenant scritta da Stephen Donaldson – in cui si verifica un passaggio da questo mondo verso un altro, e che pure appaiono privi di una percepibile carica weird. Ciò accade perché le parti di tali vicende ambientate in «questo mondo» fungono più o meno da prologo ed epilogo a normali racconti fantastici. I personaggi di questo mondo passano in un altro mondo, ma il secondo non esercita alcuna influenza sul primo, salvo l’effetto prodotto sulla mente dei personaggi che tornano indietro. In Lovecraft invece si verifica un’interazione, uno scambio, un confronto, e anzi un conflitto tra questo e gli altri mondi. Ciò spiega la suprema importanza della collocazione nel New England di così tanti racconti di Lovecraft. Il New England di Lovecraft, scrive Lévy, è un mondo la cui «realtà – fisica, topografica, storica – dev’essere messa in evidenza. Com’è noto, il vero fantastico esiste soltanto dove l’impossibile può irrompere, attraverso spazio e tempo, all’interno di un’ambientazione fattualmente familiare». La mia proposta, dunque, è che nel suo allontanamento dalla tendenza a inventare mondi alla maniera di Dunsany, Lovecraft ha cessato di essere uno scrittore fantasy ed è diventato uno scrittore weird. Una prima caratteristica del weird, perlomeno nella versione di Lovecraft, sarebbe – per adattare la frase di Lévy – una narrativa in cui non l’impossibile, ma l’esterno «può fare irruzione, attraverso spazio e tempo, in un’ambientazione fattualmente familiare». I vari mondi possono essere del tutto estranei al nostro, in termini di luogo e persino di leggi fisiche che li governano, senza essere per forza weird. È l’irruzione in questo mondo di qualcosa che proviene dall’esterno a fare da marcatore del weird. Ora comprendiamo perché il weird implica un certo rapporto con il realismo. Lo stesso Lovecraft ha avuto spesso parole sprezzanti per il realismo. Ma se l’avesse respinto in blocco non si sarebbe mai allontanato dai mondi fantasy di Lord Dunsany e Walter de la Mare. Forse si può dire con più esattezza che Lovecraft ha circoscritto o localizzato il realismo. Nella sua lettera del 1927 al direttore di Weird Tales lo afferma esplicitamente: Soltanto le scene e i caratteri umani devono possedere qualità umane.

Queste devono essere trattate con spietato realismo (invece che dozzinale romanticismo), ma quando oltrepassiamo il confine con l’infinito e orrido ignoto – l’Esterno infestato dall’ombra – dobbiamo ricordarci di lasciare sulla soglia la nostra umanità e il nostro essere terrestri.

La forza delle storie di Lovecraft nasce dalla differenza tra terrestreempirico ed esterno. È una delle ragioni per cui i suoi racconti sono scritti così spesso in prima persona: se l’esterno usurpa gradualmente un soggetto umano, i suoi contorni alieni diventano riconoscibili; mentre il tentativo di afferrare «l’infinito e orrido ignoto» senza fare alcun riferimento al mondo umano rischia di naufragare nel banale. Lovecraft ha bisogno del mondo umano per una ragione del tutto simile a quella per cui un pittore, quando ritrae un grande edificio, ci piazza davanti una figura umana: per conferirgli un senso delle proporzioni. Una definizione provvisoria del weird può quindi prendere le mosse dall’espressione strana e sottilmente ambigua out of, che Lovecraft impiega nei titoli di due suoi racconti, «Il colore venuto dallo spazio» e «L’ombra fuori del tempo». Al livello più banale, out of significa evidentemente «da». Eppure, specie nel caso dell’«Ombra fuori del tempo», non è possibile eludere un secondo significato, un accenno a qualcosa di distaccato, di separato. L’ombra è qualcosa al di fuori del tempo. Quest’idea di entità «staccate» dal luogo in cui dovrebbero trovarsi è uno degli aspetti in cui Lovecraft mostra un’affinità con le tecniche del collage modernista. Esiste però anche un terzo significato di out of, e cioè l’oltre. L’ombra out of time è in certa misura un’ombra che sta al di là del tempo così come noi solitamente lo intendiamo e sperimentiamo. Per ottenere il sentore di ciò che sta oltre, per invocare ciò che è esterno, l’opera di Lovecraft non può fare affidamento su figure o tradizioni preesistenti. Deve contare in modo sostanziale sulla produzione del nuovo. Come osserva China Miéville nella sua introduzione all’edizione inglese di Le montagne della follia, «Lovecraft si colloca radicalmente al di fuori di qualsiasi tradizione popolare: la sua non è la modernizzazione del solito vampiro o lupo mannaro (o garuda o rusalka, o qualsiasi altro genere simile di tradizionale babau). Il pantheon e il bestiario di Lovecraft sono assolutamente sui generis». C’è però un’altra, importante dimensione della novità delle creazioni di Lovecraft, una novità negata e dissimulata dallo

stesso autore. Come prosegue Miéville: «Esiste [...] un paradosso nella narrativa di Lovecraft. Sebbene il suo concetto di mostruoso e il suo approccio al fantastico siano assolutamente nuovi, lui finge che non sia così». Quando incontrano entità weird, i personaggi di Lovecraft scoprono paralleli in mitologie e tradizioni da lui stesso inventate. La proiezione retrospettiva effettuata da Lovecraft di un mito di recente invenzione in un passato arcaico dà origine a ciò che Jason Colavito definisce il «culto di divinità aliene» da parte di scrittori come Erich von Däniken e Graham Hancock. La «retroinumazione» del nuovo da parte di Lovecraft è anche ciò che colloca le sue storie weird «al di fuori» del tempo – esattamente come nel racconto «L’ombra fuori del tempo», dove il personaggio principale di Peaslee scopre dei testi scritti di suo pugno tra alcuni resti archeologici. Miéville sostiene che l’origine del nuovo in Lovecraft era stata prodotta dall’impatto della prima guerra mondiale: il distacco traumatico dal passato aveva permesso al nuovo di emergere. Ma può essere anche utile guardare a tutta l’opera di Lovecraft come a un’opera sul trauma, nel senso che riguarda certe rotture nel tessuto stesso dell’esperienza. Alcune osservazioni di Freud nel suo Al di là del principio di piacere («Sulla base di alcune scoperte psicoanalitiche, oggi la tesi kantiana che il tempo e lo spazio sono forme necessarie del nostro pensiero può esser messa in discussione») indicano che Freud era convinto che l’inconscio operasse al di là di ciò che Kant definisce le strutture «trascendenti» di spazio, tempo e causalità che governano il principio percettivo-cosciente. Un modo per comprendere le funzioni dell’inconscio, e il suo distacco dai modelli dominanti di tempo, spazio e causalità, fu lo studio delle vite psichiche di coloro che soffrivano di traumi. Il trauma può essere dunque concepito come una sorta di shock trascendente – un’espressione assai evocativa se riferita all’opera di Lovecraft. L’esterno non è «empiricamente» esteriore: è esteriore dal punto di vista trascendente, ossia non è semplicemente qualcosa di distante nello spazio e nel tempo, ma al di là dell’esperienza e della concezione ordinaria di spazio e tempo stessi. In tutta la sua opera, Freud ha più volte sottolineato che l’inconscio non conosce né negazione né tempo. Da qui l’immagine alla Escher dell’inconscio offerta nel Disagio della civiltà, come di una Roma «in cui nulla di ciò che un tempo ha acquistato esistenza è scomparso, in cui accanto alla più recente fase di sviluppo continuano a sussistere tutte le fasi precedenti». Le geometrie weird di Freud trovano chiari paralleli nelle storie

di Lovecraft e nelle loro ripetute evocazioni di spazi non euclidei. Prova ne sia la descrizione della «geometria del luogo del sogno» nel «Richiamo di Cthulhu»: «anormale, non euclidea, e disgustosamente rievocativa di sfere e dimensioni diverse dalle nostre». È anche importante non riconsegnare troppo in fretta Lovecraft all’idea di irrappresentabile. Lovecraft viene troppo spesso preso alla lettera quando chiama le sue entità «innominabili» e «indescrivibili». Come nota Miéville, non appena l’autore definisce un’entità come «indescrivibile», inizia a descriverla in dettagli tecnici molto precisi. (Né, a dispetto della sua predilezione per l’uso del termine «innominabile» – da lui stesso deriso eppure difeso nel racconto «L’innominabile» – Lovecraft appare esitante nell’attribuire nomi alle Cose.) Ma questa sequenza contiene anche un terzo momento. Dopo (1) la dichiarazione di indescrivibilità, e (2) la descrizione, ecco sopraggiungere (3) l’invisualizzabilità. Nonostante tutti i dettagli, o forse proprio a causa di questi, le descrizioni di Lovecraft non permettono al lettore di condensare la sua logorroica schizofonia di aggettivi in un’immagine mentale coerente, spingendo così Graham Harman a paragonare l’effetto di tali passaggi al cubismo, parallelo corroborato dall’evocazione di «grappoli di cubi e di piani» in «La casa delle streghe». Tecniche e motivi cubisti e futuristi compaiono in una serie di racconti di Lovecraft, di solito come (supposti) oggetti di disgusto. Pur guardandola con ostilità, Lovecraft riconosceva all’arte visiva moderna la possibilità di essere riadattata come risorsa per invocare l’esterno. Fin qui la mia discussione di Lovecraft si è concentrata su ciò che accade all’interno delle sue storie, ma uno dei più importanti effetti weird prodotti da Lovecraft è quello che si verifica tra i suoi testi. La sistematizzazione dei testi di Lovecraft in un «mito» in realtà è stata opera del suo seguace August Derleth, ma l’interrelazione dei racconti, il modo in cui essi generano una realtà coerente, è cruciale per comprendere gli aspetti singolari dell’opera di Lovecraft. A prima vista può sembrare che il modo con cui Lovecraft produce questa coerenza non sia poi molto diverso da quello sfruttato da Tolkien per ottenere un effetto simile, ma ancora una volta si rivela cruciale il rapporto con questo mondo. Collocando le sue vicende nel New England piuttosto che in qualche mondo remoto e incontaminato, Lovecraft riesce a scompaginare la relazione gerarchica tra realtà e finzione. L’interpolazione presente nei racconti di Lovecraft di fatti storici ed

esempi di finta erudizione produce anomalie ontologiche simili a quelle della narrativa «postmoderna» di Robbe-Grillet, Pynchon e Borges. Ponendo fenomeni realmente esistenti sullo stesso piano ontologico delle sue invenzioni, Lovecraft derealizza il fattuale e realizza il fittizio. Graham Harman dichiara di attendere con ansia il giorno in cui Lovecraft spodesterà Hölderlin dal suo trono di oggetto supremo di studio letterario dei filosofi. Magari possiamo persino immaginare il giorno in cui il modernista pulp Lovecraft rimpiazzerà il postmoderno Borges come massimo esploratore fittizio di enigmi ontologici. Lovecraft esemplifica ciò che Borges si limita ad «affabulare»: nessuno potrebbe mai credere che la versione del Don Chisciotte di Pierre Menard esista davvero al di fuori del racconto di Borges, mentre più di un lettore ha contattato la British Library richiedendo una copia del Necronomicon, il testo fittizio di antiche dottrine cui molti racconti di Lovecraft fanno riferimento. Lovecraft genera un «effetto di realtà» limitandosi a mostrare pochi frammenti del Necronomicon. E proprio la qualità del tutto frammentaria delle sue citazioni del terribile testo induce il lettore a crederlo un oggetto reale. Proviamo a immaginare cosa sarebbe successo se Lovecraft avesse realmente prodotto un testo completo del Necronomicon: il libro apparirebbe assai meno reale di quanto risulta attraverso le sue citazioni occasionali. Lovecraft sembra aver intuito il potere della citazione, la capacità di un testo di apparire reale più sotto forma di citazione che di originale. Uno degli effetti prodotti da questi dislocamenti ontologici è che Lovecraft finisce per non avere più l’autorità finale sui propri testi. Se i testi hanno raggiunto una certa autonomia dall’autore, allora il ruolo di Lovecraft come loro presunto creatore passa in secondo piano. Lovecraft diventa piuttosto l’inventore di entità, personaggi e formule. L’aspetto più importante diventa la coerenza del suo sistema fittizio – una coerenza che invita alla partecipazione collettiva tanto i lettori quanto altri autori. Com’è noto, non solo Derleth, ma anche Clark Ashton Smith, Robert E. Howard, Brian Lumley, Ramsey Campbell e vari altri autori hanno scritto storie ispirate al mito di Cthulhu. Collegando le storie tra loro, Lovecraft perde il controllo delle proprie creazioni a favore di un nuovo ordine emergente, governato da regole che i suoi seguaci sono in grado di determinare con la stessa facilità dell’autore.

WEIRD VS MONDANO H.G. WELLS

Vorrei ora affrontare il weird da un’angolazione differente per mezzo di una lettura del racconto «La porta nel muro» di H.G. Wells. Anche se piuttosto diverso dall’opera di Lovecraft, ritengo che questo racconto possegga una forte carica weird. Il narratore qui è Redmond, e la storia riguarda un suo amico, il politico Lionel Wallace. Wallace racconta a Redmond del suo ricordo infantile di una porta verde che ha visto lungo il muro di una via di West Kensington, a Londra. Per qualche ragione quel giorno aveva avvertito l’impulso di aprire la porta. All’inizio era stato timoroso, pensando che si trattasse di un gesto «incauto o sbagliato», ma poi, «sopraffatto dall’emozione», aveva superato le proprie paure e varcato la Porta nel Muro. Nel racconto di Wallace il giardino che si spalanca al di là della porta ha qualcosa di un quadro surrealista di Delvaux o Ernst – un’atmosfera di languida gioia, e un diffuso senso di gentilezza che sembra emanare da ogni persona lì incontrata. Il luogo presenta alcuni elementi anomali: il protagonista incontra una coppia di pantere e sfoglia un tipo di libro le cui figure «erano non illustrazioni ma realtà». Non è chiaro se questo libro sia un oggetto magico, un esempio di tecnologia avanzata o l’effetto di qualche sostanza inebriante. Dopo un po’, tuttavia, mentre scorre le pagine del libro, Wallace si ritrova di colpo a osservare «una lunga strada grigia di West Kensington, in quell’ora fredda del pomeriggio prima che si accendano i lampioni, e là c’ero io, povera derelitta figura, che piangevo forte». In ogni caso, per ragioni non del tutto chiare – come mai il protagonista non varca di nuovo la Porta nel Muro? – Wallace non fa ritorno immediatamente in quel luogo. E una volta

riconsegnato alla realtà mondana, è sopraffatto da una sensazione di «dolore del tutto incontrollabile». Wallace ritrova la Porta nel Muro soltanto alcuni anni dopo, la prima volta per caso. Persosi «fra le misere viuzze oltre Campden Hill», all’improvviso avvista il lungo muro bianco e la porta che conduce al giardino. Stavolta però non la oltrepassa. Pensa che arriverà tardi a scuola, e che quindi tornerà lì in seguito, quando avrà più tempo a disposizione. Commette l’errore di parlare della porta e del giardino ad alcuni compagni di scuola. Questi costringono Wallace a condurli laggiù, ma lui non è più in grado di ritrovarla. Rivede la porta ancora un paio di volte nel corso della sua gioventù – una volta mentre è diretto a ritirare la borsa di studio per Oxford – ma anche stavolta, preso dalle urgenze della quotidianità, ci passa davanti senza varcarla. Negli anni più recenti, ormai entrato nella mezza età, Wallace è di nuovo ossessionato dal pensiero della porta e teme di non incontrarla più: Seguirono anni di duro lavoro, senza che la porta mi apparisse più. Non è che poco che è tornata. E insieme a essa è sopravvenuta una sensazione come di un pulviscolo nero che si sia depositato sul mio mondo. Ho cominciato a considerare l’idea di non dover più vedere la porta come una condanna amara e dolorosa. Forse ero un po’ sofferente per il troppo lavoro, forse è quella che si suol chiamare la crisi dei quarant’anni. Fatto sta che negli ultimi tempi quell’acuta lucidità che mi rendeva facile lo sforzo ha cominciato ad abbandonarmi.

Nonostante ciò, il protagonista rivede la porta ancora tre volte. Ma ogni volta evita di fermarsi: la prima perché è impegolato in un’importante questione politica; la seconda perché è diretto a casa del padre in fin di vita; e la terza perché è preso da una conversazione riguardo alla sua carriera. Quando Wallace racconta la vicenda a Redmond, è ormai consumato dal rimorso di non avere più aperto la porta. Non ci sorprende di leggere che da lì a poco Redmond scopre che Wallace è morto. Il suo corpo è stato ritrovato «in un profondo scavo nei pressi della stazione di East Kensington». Perché classificare «La porta nel muro» come weird tale? La questione dei mondi – del contatto tra mondi incommensurabili – è chiaramente un punto in comune con Lovecraft, e ci riconduce ancora una volta al nucleo del

weird. Come abbiamo cominciato a vedere nel capitolo precedente, la weird fiction ci presenta costantemente una soglia tra mondi. «La porta nel muro» è chiaramente focalizzato su una soglia di questo tipo. Gran parte della sua forza deriva dalla contrapposizione tra la prosaicità dell’ambientazione londinese e dei suoi dettagli quotidiani – «una serie di negozietti miseri e sporchi, e in particolare quello di un idraulico e decoratore, in mezzo a un caos polveroso di tubazioni di terracotta, valvole a sfera in piombo [...], campionari da tappezziere e latte di smalto» – e il mondo che esiste al di là della porta. I racconti di Lovecraft abbondano di soglie tra mondi: spesso il passaggio avviene attraverso un libro (il temutissimo Necronomicon), mentre altre volte, come ad esempio nel caso del ciclo di racconti della «Silver Key» («chiave d’argento») che hanno per protagonista Randolph Carter, il passaggio avviene letteralmente attraverso un portale. Porte e portali compaiono di routine nelle storie intimamente lovecraftiane del Dottor Strange, il personaggio della Marvel Comics. L’opera cinematografica e televisiva di David Lynch è parimenti ossessionata da soglie, sipari e porte: come vedremo più avanti, Inland Empire si presenta come uno «spazio bucherellato» costituito da soglie tra mondi, un groviglio ontologico di gallerie. Altre volte invece la soglia che conduce a un altro mondo ha semplicemente a che fare con questioni di scala: il romanzo di Richard Matheson Tre millimetri al giorno2 mostra che se si diventa piccoli a sufficienza anche il soggiorno di casa può trasformarsi in un luogo ricco di meraviglie e terrori weird. La centralità di porte, soglie e portali significa che l’idea dell’in mezzo risulta cruciale per il weird. È evidente che se la vicenda di Wells si fosse svolta unicamente nel giardino al di là del muro non avrebbe posseduto alcuna carica weird (ecco perché un senso di weird contraddistingue il lampione isolato al margine delle storie di Narnia di C.S. Lewis, ma non in senso stretto la vicenda di Narnia). Se la storia si svolgesse tutta al di là della porta ci troveremmo nel regno del fantasy. Questa modalità naturalizza altri mondi. Ma il weird de-naturalizza tutti i mondi, mettendo in mostra la loro instabilità, la loro apertura verso l’esterno. Un ovvio punto di distacco tra «La porta nel muro» e la formula del racconto lovecraftiano è la completa assenza di entità non umane. Quando

Wallace attraversa la porta incontra degli strani esseri, che però gli appaiono umani. Il senso di weird cui la storia dà origine deve ben poco alla presenza di queste creature languide e gentili; e il weird qui non richiede alcuna delle «abominevoli mostruosità» che risultano tanto centrali nei racconti di Lovecraft. Una seconda differenza tra Lovecraft e «La porta nel muro» riguarda il problema della sospensione della certezza. Come abbiamo già visto, le storie di Lovecraft sono di rado caratterizzate da un senso d’incertezza: l’autore non lascia dubbi sul fatto che l’esterno sia reale o meno. Alla fine della «Porta nel muro», invece, Redmond si ritrova con la mente piena di «enigmi e quesiti». Non può escludere la possibilità che Wallace soffrisse di una «sconosciuta forma di allucinazione». Wallace era un pazzo oppure uno «di questi sognatori, di queste persone immaginative e visionarie». «Vediamo un mondo [sereno e abituale]», dichiara alla fine Redmond in modo vago, «una staccionata, una fossa. [Volendolo giudicare secondo i nostri standard, alla luce del sole, Wallace ha abbandonato la sicurezza per il buio, il pericolo e la morte.] Ma fu questo che lui vide?» Ciò ci conduce a una terza differenza tra Lovecraft e il racconto di Wells: il problema della pazzia. Nelle storie di Lovecraft, qualunque pazzia sperimentata dai personaggi è una conseguenza dello shock trascendente causato dal loro incontro con l’esterno: non si parla mai della pazzia come causa che spinge i personaggi a percepire quelle entità (il cui status, se così fosse, risulterebbe comprensibilmente sminuito, perché sarebbero soltanto il prodotto di un delirio). «La porta nel muro» invece lascia aperto il sospetto della psicosi: è possibile – anche se Redmond ne dubita, dato che si dice che questa non è la sua «convinzione più profonda» – che Wallace sia pazzo, che deliri, o che abbia inventato la storia ricombinando frammenti di ricordi infantili (che, per riprendere una distinzione introdotta da Freud nel saggio «Ricordi di copertura», sarebbero i ricordi dell’infanzia, non i ricordi provenienti dall’infanzia). Lo stesso Wallace avanza il dubbio che l’amico abbia esagerato un ricordo dell’infanzia – lo abbia ri-sognato – al punto da distorcerlo completamente. Ma forse la differenza più decisiva tra «La porta nel muro» e Lovecraft sta nella qualità del desiderio che appare centrale nel racconto di Wells. In Lovecraft, il richiamo positivo dell’esterno dev’essere represso e invertito, trasformato in avversione e paura. Ma nella «Porta nel muro» l’attrattiva del

mondo che sta oltre la porta splende dall’inizio alla fine del racconto. L’opposizione-chiave che struttura il racconto non è naturale/soprannaturale – pochi elementi qui suggeriscono che il mondo oltre il muro sia soprannaturale, anche se è certamente «incantato» – ma quotidiano/sacro. La descrizione fatta da Wallace di un’«indescrivibile realtà traslucida, della distanza dall’esperienza comune che ne spirava» ricorda la caratterizzazione del sacro fornita da Rudolf Otto nel suo celebre Il sacro. Per Wallace come per Otto, tuttavia, un’«indescrivibile realtà traslucida» caratterizza gli incontri con qualcosa che è più reale dell’«esperienza comune». Il Reale non sembra reale: implica un intensificarsi della sensazione, supera i parametri dell’esperienza comune, ma per Wallace «almeno [...] la Porta nel Muro era una porta reale, che attraverso un muro reale conduceva a realtà immortali». Michel Houellebecq ha intitolato il suo libro su Lovecraft Contro il mondo, contro la vita, ma è possibile che l’avversione di Lovecraft fosse in realtà diretta contro il mondano, contro i meschini confini dell’ordinario che le sue storie demoliscono senza sosta. La critica all’inadeguatezza del mondano è certo uno degli imperativi centrali della «Porta nel muro». «Oh! La desolazione di quel ritorno!», lamenta Wallace quando si ritrova di nuovo «in questo mondo grigio». Wallace sente di essere precipitato nella depressione perché ha ceduto alle tentazioni del quotidiano. Quando Wallace descrive la propria afflizione, sembra un giocattolo nelle mani della pulsione di morte psicoanalitica. «Il fatto è che... non si tratta di fantasmi o apparizioni, ma... pare strano a dirsi... sono ossessionato. Sono ossessionato da qualcosa... che si direbbe sottragga luce a tutto il resto, che mi riempie di una brama insaziabile...» Riflettendo sul primo incontro di Wallace con la porta, Redmond immagina «la figuretta di quel bambino al tempo stesso attratto e respinto» (corsivo mio). Freud descrive la pulsione di morte negli stessi termini di ambigua attrazione per ciò che è sgradevole. Sono stati Lacan e i suoi seguaci a mettere in luce le strane geometrie della pulsione di morte, il modo in cui il desiderio perpetua se stesso mancando sempre il suo oggetto ufficiale di soddisfazione – esattamente come succede a Wallace, che evita ripetutamente di attraversare la porta anche se questo sembra il suo desiderio più profondo. L’attrazione per la porta e per il giardino priva di ogni gusto tutte le sue soddisfazioni e i suoi successi terreni:

Ora che ne ho la chiave, tutto ciò mi sembra scritto palesemente sul suo viso. Ho una fotografia che coglie intensificandola quest’aria di distacco, e che mi fa venire in mente ciò che disse una volta di lui una donna che lo aveva molto amato. «All’improvviso», diceva, «si svuota di ogni interesse. Vi dimentica. Gli siete davanti al naso e non gli importa un fico di voi...»

La porta era sempre una soglia che conduceva al di là del principio di piacere, e dentro il weird.

2. Dal quale è stato tratto il film del 1957 Radiazioni BX: distruzione uomo (The Incredible Shrinking Man) diretto da Jack Arnold. [n.d.t.]

«IL CORPO UN CAOS DI TENTACOLI» GROTTESCO E WEIRD: I FALL

Il termine grottesco deriva da un genere di motivo ornamentale romano scoperto nel quindicesimo secolo durante lo scavo delle Terme di Tito. Tale motivo, così chiamato per le grotte in cui fu ritrovato, consisteva di forme umane e animali mescolate a foglie, fiori e frutti in motivi fantastici, che non avevano nessuna relazione con le categorie razionali dell’arte classica. Incontriamo una descrizione contemporanea di tali forme nell’opera dell’autore latino Vitruvio. Funzionario incaricato di ricostruire Roma sotto Augusto, a cui dedicò il trattato De architectura, Vitruvio usa la mano pesante per commentare la «moda depravata» del grottesco: «...queste figure non esistono, non possono esistere, non sono mai esistite», scrive l’autore nella sua descrizione di forme che mescolano elementi vegetali, animali e umani. «Come può infatti un calamo sostenere davvero un tetto o un candelabro gli ornamenti di un frontone o un piccolo stelo tanto gracile e flessibile reggere una figurina seduta, o come è possibile che dalle radici e dai piccoli steli nascano ora fiori ora figurine divise in due? Eppure la gente vede queste finzioni e lungi dal criticarle ne trae diletto, senza riflettere se qualcuna di esse sia possibile nella realtà o no». Patrick Parrinder, James Joyce

Se il racconto di Wells esemplifica un tipo di weird malinconico, possiamo apprezzare un’altra dimensione del weird osservando il suo rapporto con il grottesco. Così come il weird, il grottesco evoca qualcosa che si trova fuori posto. La reazione alla comparsa di un oggetto grottesco genererà riso ma anche ripugnanza, e nel suo libro su questo tema Philip Thomson afferma che il grottesco è stato spesso caratterizzato dalla compresenza di ridicolo e di ciò che è incompatibile con il ridicolo. Questa capacità di provocare il riso significa che il grottesco può forse essere interpretato come una particolare

forma di weird. È difficile immaginare un oggetto grottesco che non possa essere visto anche come weird, sebbene esistano fenomeni weird che non inducono affatto al riso – per esempio le storie di Lovecraft, dove l’unico umorismo presente è del tutto accidentale. Nulla esemplifica meglio la convergenza di weird e grottesco quanto l’opera del gruppo post punk The Fall. I pezzi dei Fall – specie quelli pubblicati nel periodo 1980-82 – traboccano di riferimenti al grottesco e al weird. Il metodo del gruppo all’epoca è illustrato vividamente dall’immagine di copertina di «City Hobgoblins», un singolo del 1980 in cui si parla di uno scenario urbano invaso da «esuli da antiche paludi verdi»: una casa popolare fatiscente dietro a cui incombe un folletto lascivo e maligno. Invece che integrata con cura nell’immagine fotografica, la figura del folletto appare incisa in modo rozzo sullo sfondo. Si tratta di una guerra tra mondi, di un combattimento ontologico, di una lotta sui mezzi di rappresentazione. Dal punto di vista della cultura ufficiale borghese e delle sue categorie, un gruppo come i Fall – proletario e sperimentale, popolare e modernista – non avrebbe potuto né dovuto esistere, e l’eccezionalità della formazione sta proprio nel modo in cui fa emergere una politica culturale del weird e del grottesco. I Fall hanno prodotto quello che potremmo definire un weird modernista di massa, dove il weird plasma tanto la forma quanto il contenuto dell’opera. La weird tale entra in sintonia con la weirdness del modernismo – la sua assenza di familiarità, la sua combinazione di elementi in precedenza ritenuti incompatibili, la sua compressione, la sua sfida ai normali modelli di leggibilità – e con tutte le difficoltà e costrizioni del suono post punk. Gran parte di tutto ciò confluisce, seppure in modo enigmatico e obliquo, nell’album Grotesque (After the Gramme), pubblicato nel 1980. Riferimenti altrimenti indecifrabili come «maschere di mirtillo», «un uomo con le farfalle sul viso», «un’acconciatura di struzzo» e «teste d’insalata azzurre» iniziano a risultare comprensibili quando ci si accorge che, secondo la descrizione di Parrinder citata sopra, il grottesco si riferiva in origine a «forme umane e animali mescolate a foglie, fiori e frutti in motivi fantastici, che non avevano nessuna relazione con le categorie razionali dell’arte classica». Le canzoni contenute in Grotesque sono dei racconti, ma dei racconti narrati soltanto a metà. I testi sono frammentari, come se pervenissero a noi attraverso una linea di trasmissione incerta che continua a cadere. I punti di

vista appaiono confusi; le distinzioni ontologiche tra autore, testo e personaggio ambigue e spezzate. È impossibile differenziare in modo certo le parole del narratore dal discorso diretto. I pezzi sono canovacci, volutamente mal registrati per il rifiuto dell’estetica «da salotto» che il leader del gruppo Mark E. Smith deride nelle sue sibilline note di copertina. Il procedimento di registrazione, invece che camuffato, è sbattuto in primo piano, con il fruscio di superficie e il rumore di cassette illeggibili branditi come un rammendo improvvisato sopra un mostruoso Frankenstein della Hammer. Il brano «Impression of J. Temperance» è tipico del gruppo, una vicenda alla Lovecraft in cui il «sosia ripugnante» di un allevatore di cani («occhiaie marroni... occhi viola... nutrito con immondizia dalle chiatte dei rifiuti...») si aggira per Manchester. Si tratta di una weird tale, in questo caso però sottoposta a tecniche moderniste di compressione e collage. Il risultato è talmente ellittico che si ha l’impressione che il testo – mezzo cancellato da limo, muffa e alghe – sia stato ripescato dal canale marittimo di Manchester che il suono del basso di Steve Hanley sembra dragare. Il pezzo suscita sicuramente il riso, in una forma ribelle di parodia e beffa che esitiamo a definire satira, specie quando paragonata alla forma esangue e priva di mordente che la satira ha assunto nella cultura britannica degli ultimi anni. Con i Fall, invece, è come se la satira fosse tornata alle sue origini nel grottesco. La risata dei Fall non emana dal buonsenso mainstream, ma da un altrove psicotico. È satira alla maniera onirica di Gillray, in cui invettiva e presa in giro si fanno deliranti, in un’eruzione (psico)tropologica di associazioni mentali e rancori, il cui vero oggetto non è certo il venir meno dell’onestà, ma l’illusione che la dignità umana sia ancora possibile. Non sorprende l’accenno appena avvertibile all’Ubu re di Jarry presente nel testo di «City Hobgoblins»: «Ubu le Roi è un folletto maligno». Per Jarry come per Smith, l’incoerenza e l’incompletezza dell’osceno e dell’assurdo dovevano essere contrapposte alle false simmetrie del buonsenso. Si potrebbe addirittura sostenere che è la condizione umana stessa a risultare grottesca, visto che l’animale umano è l’unico che non si integra, lo scherzo di natura che non trova posto nell’ordine naturale ed è capace di ricombinare i prodotti della natura in nuove forme spaventose. Il sound di Grotesque è una combinazione apparentemente assurda di caos e disciplina, di cerebral-letterario e demenziale-fisico. L’album è strutturato intorno all’opposizione quotidiano/weird-grottesco. È come se

l’intero album fosse costruito in risposta a un’ipotetica congettura. E se, invece che nel delta del Mississippi, il rock fosse emerso nel cuore industriale dell’Inghilterra? Il rockabilly di «Container Drivers» e di «Fiery Jack» è appesantito dal sugo e dai pasticci di carne, i sogni di fuga fatalmente avvelenati da pinte di birra amara e tazze di tè scadente. È il rock come cabaret dei circoli operai, suonato a Prestwich da un imitatore mediocre di Gene Vincent. La congettura dell’«e se...?» fallisce. Il rock aveva bisogno di strade vuote e sconfinate, non sarebbe mai potuto nascere nelle intasate circonvallazioni e claustrofobiche conurbazioni inglesi. Il conflitto tra l’ordinarietà asfissiante dell’Inghilterra e il grottesco-weird si gioca soprattutto nel brano «The N.W.R.A.» (cioè «The North Will Rise Again»). Tutti i temi dell’album convergono in questo pezzo, una vicenda di intrighi politico-culturali che suona come un’improbabile accumulo di T.S. Eliot, Wyndham Lewis, H.G. Wells, Philip K. Dick, Lovecraft e Le Carré. È la storia di Roman Totale, medium ed ex artista di cabaret dal corpo coperto di tentacoli. Si è detto spesso che Roman Totale è uno degli «alter ego» di Smith, anche se in realtà Smith ha con Totale lo stesso rapporto che Lovecraft aveva con Randolph Carter. Totale è una maschera piuttosto che un personaggio. Inutile dire che non somiglia affatto a un individuo «a tutto tondo», quanto piuttosto a un vettore del mito, a una connessione intertestuale di frammenti pulp: Perciò R. Totale dimora sottoterra / Lontano dall’insulso sgobbare / Con un’acconciatura di struzzo / La faccia impresentabile, coperto di piume / Rosso-arancio a strisce blu scuro/ Che scendevano sul petto / Il corpo un caos di tentacoli / e teste d’insalata azzurre.3

La forma di «The N.W.R.A.» è aliena all’integralità organica quanto l’orribile corpo tentacolare di Totale. È una miscela grottesca, un collage di frammenti che appartengono a mondi diversi. Il modello è qui il romanzo breve piuttosto che il racconto, e la vicenda è narrata in maniera episodica, da punti di vista molteplici, facendo ricorso a un’orgia eteroglossa di stili e toni: comico, giornalistico, satirico, romanzesco, come un «Richiamo di Cthulhu» di Lovecraft riscritto dal Joyce dell’Ulisse e condensato in dieci minuti. Da quanto riusciamo ad afferrare, Totale è al centro di una congiura – infiltrata e

tradita fin dall’inizio – che mira a riportare il Nord alla sua antica gloria, forse al suo culmine vittoriano di supremazia economica e industriale; forse a qualche altro tipo di preminenza più antica, o forse a una nuova grandezza che eclisserà tutto quanto è venuto prima. Più che un problema d’invettiva regionale contro la capitale, nella visione di Smith il Nord diventa il simbolo di tutto ciò che è soffocato dal buongusto civile: il misterioso, l’anomalo, il sublime di cattivo gusto, in altri termini il weird e il grottesco stessi. Totale, ammantato nel suo folle costume di «acconciatura di struzzo», «piume rossoarancio a strisce blu scuro» e «teste d’insalata azzurre», è l’aspirante Re delle Fate di quest’assurda rivolta di cui finisce per diventare il Re Pescatore, abbandonato come una dozzinale Miss Havisham4 modernista tra i relitti di un carnevale che non avrà mai luogo, totem delirante di un mancato assalto al realismo sociale, leader visionario ridotto, quando la psicotropia sfuma e il fervore sbollisce, a tornare a essere un artista fallito di cabaret. Smith torna con i Fall alla forma della weird tale nell’album del 1982 intitolato Hex Enduction Hour, altro disco carico di riferimenti al weird. Nel brano «Jawbone and the Air-Rifle» un bracconiere danneggia involontariamente una tomba, dissotterrando una mandibola che «porta il germe di una maledizione / della Broken Brothers Pentacle Church». Il pezzo è una fitta trama di allusioni a testi come «Avvertimento ai curiosi» e «Fischia e verrò da te, ragazzo mio» di M.R. James, «L’ombra su Innsmouth» di Lovecraft, ai film dell’orrore della Hammer e a The Wicker Man (1973), e culmina in un collasso psichedelico-psicotico, con tanto di massa di contadini armata di torce: Vede mandibole per strada / cartelloni diventano carnivori / e operai stradali diventano mandibole / e ha visioni di isole coperte di melma. / La folla danza intorno alle baracche / e ride con un ghigno contorto.5

«Jawbone and the Air-Rifle» ricorda più che altro uno spettacolo del gruppo comico britannico dei League of Gentlemen. La kermesse convulsa dei League – con i suoi molteplici riferimenti alle weird tale e la frequente commistione di elementi ridicoli e seri – delinea un’eredità dei Fall ben più degna della maggior parte dei gruppi musicali che hanno tentato di vedersela con la loro influenza.

Il brano «Iceland», nel frattempo, registrato in uno studio rivestito di lava a Reykjavík, è un incontro con i miti avvizziti della cultura nordeuropea nel territorio gelido in cui hanno avuto origine. Qui la risata grottesca è sparita. La canzone, ipnotica e ondeggiante, meditativa e dolente, ricorda le atmosfere artiche delle steppe glaciali di The Marble Index di Nico. Un vento ululante (proveniente da una registrazione su cassetta realizzata dallo stesso Smith) sferza il pezzo in cui Smith invita a «gettare le rune contro la tua anima», un’altra citazione di M.R. James, stavolta dal racconto «Il sortilegio dei runi». «Iceland» è un Crepuscolo degli dei di folletti, goblin e troll della cultura weird europea in ritirata, un lamento per le mostruosità e i miti di cui raccoglie gli estremi sospiri su nastro: Osservate l’ultimo degli uomini-dio Una Memorex per le piovre giganti.6

3. «So R. Totale dwells underground / Away from sickly grind / With ostrich headdress / Face a mess, covered in feathers / Orange-red with blue-black lines / That draped down to his chest / Body a tentacle mess / And light blue plant-heads». 4. Una ricca signora mezza pazza presente in Grandi speranze di Charles Dickens. [n.d.t.] 5. «He sees jawbones on the street / advertisements become carnivores / and roadworkers turn into jawbones / and he has visions of islands, heavily covered in slime. / The villagers dance round pre-fabs / and laugh through twisted mouths». 6. «Witness the last of the god-men / A Memorex for the Krakens».

PRIGIONIERO DELLE SPIRE DI OUROBOROS TIM POWERS

Templeton siede immobile nel suo attico, immerso nel ticchettio apparentemente imprevedibile del vecchio orologio nautico, perso nelle sue meditazioni sulla misteriosa stampa di J.C. Chapman. Sembra che quest’immagine complessa, a lungo accettata come un ritratto di Kant, costituisca un inquietante monogramma del suo stesso predicamento cronologico. Come in una parodia di cornice, l’immagine è delimitata da un doppio anello di Ouroboros, il serpente cosmico, che genera una figura a forma di otto – e di eternità moebiana – mentre ingoia senza fine se stesso. CCRU, «The Templeton Episode» Perciò saremmo tentati di vedere nel «paradosso del tempo» dei romanzi di fantascienza una specie di allucinatoria «apparizione nel Reale» della struttura elementare del processo simbolico, il cosiddetto otto internorovesciato: un movimento circolare, una specie di cappio in cui possiamo progredire solo «sorpassando» noi stessi nel transfert, per ritrovarci in seguito in un punto in cui siamo già stati. Il paradosso consiste nel fatto che questa digressione superflua, questo cappio supplementare che fa sì che si debba sorpassare se stessi (il «viaggio nel futuro») e poi invertire la direzione del tempo (il «viaggio nel passato») non è solo un’illusione/percezione soggettiva di un processo oggettivo che ha luogo autonomamente nella cosiddetta realtà. Questo cappio supplementare è invece una condizione immanente, un componente interno del processo «oggettivo»: solo attraverso questa digressione addizionale il passato, l’«oggettivo» stato delle cose, diventa retrospettivamente ciò che è sempre stato. Slavoj Žižek, L’oggetto sublime dell’ideologia

Il racconto del viaggio nel tempo non possiede forse un’intrinseca

dimensione weird? Per sua stessa natura, questo genere di storia dopotutto combina entità e oggetti che appartengono a mondi diversi. Qui la soglia fra mondi è l’apparato che consente di viaggiare tra diversi periodi temporali – può essere una macchina del tempo, ma anche soltanto una specie di porta o varco – e l’effetto weird si manifesta tipicamente come un senso di anacronismo. Ma un altro effetto weird s’innesca quando il viaggio nel tempo racchiude anche uno o più paradossi temporali. Il paradosso del viaggio nel tempo ci getta nelle strutture che Douglas Hofstadter definisce strange loops («strani anelli») o «gerarchie aggrovigliate», in cui la distinzione ordinata tra causa ed effetto risulta fatalmente alterata. Le porte di Anubis di Tim Powers è una versione incredibilmente inventiva del paradosso del viaggio nel tempo, sul modello dei racconti «All You Zombies» e «By His Bootstraps» di Robert Heinlein. Ma l’antecedente cui Le porte di Anubis forse si avvicina di più è il romanzo breve Behold the Man, pubblicato nel 1969 da Michael Moorcock, dove Karl Glogauer parte dagli anni Sessanta e viaggia all’indietro nel tempo di duemila anni, finendo per ricreare – o vivere per la prima volta – la vita di Cristo, crocifissione compresa. Le porte di Anubis è in effetti una lunga weird tale. Benché infarcito di riferimenti a stregoneria, trasformazioni corporee ed entità anomale, il romanzo deve la sua principale carica weird a una torsione del tempo che dà origine a un loop infernale. Nel libro, l’accademico Brendan Doyle viene convinto a partecipare a un esperimento di viaggio nel tempo dall’eccentrico plutocrate Clarence Darrow. Darrow sta morendo, e mentre conduce un’incredibile e apparentemente folle ricerca nel disperato tentativo di prolungare la propria esistenza, scopre nel folklore della Londra di primo Ottocento la vicenda di «Joe Faccia-di-Cane». Grazie a una combinazione di studi minuziosi e ipotesi ardite, Darrow stabilisce che Joe era un mago capace di trasferire la propria coscienza da un corpo all’altro, anche se tale scippo di corpi dava origine a uno sfortunato effetto collaterale: appena entrato nel nuovo corpo, Joe sviluppa un folto pelo simile a quello delle scimmie, per cui il nuovo proprietario del corpo è costretto a disfarsene poco dopo essersene impadronito. Per ovvie ragioni Darrow vuole carpire il segreto di questa trasmigrazione profana, e sembra disporre dei mezzi per entrare in contatto con il mago scambiatore di corpi, visto che le sue ricerche hanno scoperto alcune «falle» nel fiume del tempo, porte attraverso le quali è possibile

viaggiare nel passato. Il ruolo di Doyle è quello di fungere da sorta di guida di un tour letterario che Darrow ha organizzato per alcuni viaggiatori ultraricchi, attratti dalla possibilità di assistere a una conferenza di Coleridge e disposti a pagare il biglietto da un milione di dollari che servirà a finanziare la spedizione. Poco dopo essere giunto nel diciannovesimo secolo, Doyle viene rapito in una Londra malavitosa e rizomatica a metà strada tra Oliver Twist e Terre occidentali di Burroughs (se mi è concesso l’anacronismo, dato che Terre occidentali è in realtà stato pubblicato dopo Le porte di Anubis). La Londra fantasmagorica di Powers – la cui vividezza apocalittica ha indotto John Clute a qualificare il romanzo come un «punk tipo Babilonia-sul-Tamigi» – è teatro di una guerra combattuta tra le forze della stregoneria politeistica egiziana e il grigio positivismo dell’empirismo inglese, in cui s’incrociano zingari, magici doppi, poeti, mendicanti, venditori ambulanti, donne travestite da uomini... A un certo punto Doyle accetta con riluttanza il proprio fato – il che, in termini di genere letterario, equivale a trovarsi scaraventato dalla fantascienza nel picaresco ottocentesco – e rinuncia più o meno a qualunque sogno di tornare a casa. Si rassegna dunque a condurre nel miglior modo possibile la sua esistenza nel diciannovesimo secolo, e decide che la migliore speranza per sfuggire alla mendicità è cercare di mettersi in contatto con William Ashbless, un poeta minore di cui come accademico è un esperto riconosciuto. Doyle si presenta quindi al Jamaica Coffee House la mattina in cui, secondo il biografo di Ashbless, il poeta americano scriverà il suo componimento epico Le Dodici Ore della Notte. Il momento stabilito arriva, ma di Ashbless nessuna traccia. Mentre Doyle aspetta, prima nervoso e poi scoraggiato, trascrive pigramente il poema a memoria. Coinvolto presto in un altro intrigo, l’accademico inglese dimentica per un attimo Ashbless. In un momento più eerie che weird, Doyle ode, o crede di udire, qualcuno fischiettare «Yesterday» dei Beatles. Soltanto un giorno o due dopo, quando sente di nuovo fischiare il ritornello della canzone, Doyle scopre un gruppo di esuli temporali del ventesimo secolo che vivono nella Londra del diciannovesimo secolo. Questi si rivelano essere uomini di Darrow, incaricati di dare la caccia a Joe Faccia-di-Cane. Doyle incontra uno di loro, il suo ex studente Benner, ormai un rottame anziano e paranoico, il quale è convinto che Darrow lo voglia uccidere. Doyle fissa con lui un

appuntamento qualche giorno dopo, ma al momento dell’incontro vede il suo ex amico comportarsi in maniera sempre più strana. Ne scopre però troppo tardi il motivo. Joe Faccia-di-Cane si è impadronito del corpo di Benner, e Doyle se ne rende conto soltanto quando si ritrova lui stesso nel corpo di Benner, nel frattempo già abbandonato da Joe. Ormai tutto è pronto per la rivelazione che scioccherà Doyle, ma non certo a questo punto il lettore: Doyle è Ashbless. O meglio: Ashbless non esiste (tranne che per Doyle). Doyle comincia a comprenderne appieno le implicazioni soltanto quando inizia a riflettere sul particolare status (a)temporale del manoscritto delle Dodici Ore della Notte: Non era rimasto troppo sorpreso quando si era reso conto, dopo aver buttato giù i primi versi di Le Dodici Ore della Notte, che lo scrivere con la sinistra appena acquisito aveva reso diversa la sua calligrafia, anche se non era niente affatto sconosciuta, perché era identica a quella di William Ashbless. Ed ora che aveva scritto il poema per intero, era certo che, se una diapositiva di quella copia fosse stata sovrapposta a una diapositiva della copia che nel 1983 sarebbe stata conservata nel British Museum, avrebbero coinciso perfettamente, ogni virgola e puntino avrebbero combaciato con precisione con quelli del manoscritto originale. Manoscritto originale? Pensò con un misto di soggezione e disagio. Questo mucchio di fogli è il manoscritto originale... è solo più nuovo, rispetto a quando l’ho visto per la prima volta nel 1976. Ah! Non sarei rimasto così impressionato se avessi saputo, all’epoca, che ero stato proprio io a fare questi scarabocchi! Mi domando quando, dove e come, si formeranno su di esso quelle macchie d’unto che ricordo di aver visto sulla prima pagine. A un tratto fu colpito da un’idea. Mio Dio, pensò, ma se io resto qui e continuo a scrivere come Ashbless, scriverò le sue poesie attingendo alla mia memoria, avendole lette nei Collected Poems del 1932, e le mie copie saranno date alle stampe per le riviste, e saranno usati i fogli staccati dalle riviste per realizzare i Collected Poems! Le poesie sono un circolo chiuso, non creato! Io ne sono soltanto il... messaggero e custode.7

Come il suo altro infelice collega esule del tempo, il Jack Torrance di Shining, Doyle è sempre stato il custode. La mise en abyme genera qui una potente carica weird, sia per lo scandalo di qualcosa che non è mai stato creato, sia per la contorta causalità che ha permesso che tale oggetto esistesse (magari tutti i paradossi contengono un pizzico di weird).

L’«Enigma Ashbless» in cui Doyle è incappato trova una sdrammatizzazione comica nel momento in cui l’accademico capisce che, in un certo senso, la soluzione dipende soltanto da lui. «Non sarei rimasto così impressionato se avessi saputo, all’epoca, che ero stato proprio io a fare questi scarabocchi». Ma alla sdrammatizzazione segue immediatamente un abissale spavento e terrore (i poemi sono non-creati!), che supera di gran lunga il suo interesse originale per il poeta. Una volta che Doyle si rende conto di essere destinato a essere Ashbless, o in altre parole, di essere sempre-già stato Ashbless, ha di fronte a sé un dilemma: dovrà agire in conformità con ciò che ritiene la volontà universale (è l’«universo» che «vuole» che lui viva nei panni di Ashbless), oppure no? Il problema di Doyle è che il determinismo è ben più rigido della volontà, persino di una volontà «universale». È impossibile per lui accettare che ciò che farà nei panni di Ashbless sia già successo. La barriera che stabilisce che ciò non si può affrontare è trascendente: la soggettività in quanto tale presuppone l’illusione che le cose possano andare in modo diverso. Essere soggetto significa essere incapaci di concepire noi stessi altrimenti che liberi – persino quando sappiamo di non esserlo. Questa presupposizione di Doyle è sostenuta dall’emergere in apparenza spontaneo dell’ipotesi di un «passato alternativo»: per poter lasciare aperta la possibilità che i fatti si oppongano alla biografia già tramandata di Ashbless, Doyle è costretto a ipotizzare di aver viaggiato in qualche modo in un «passato diverso» da quello che ha visto documentato. Ma il colmo del paradosso è che soltanto il fatto che Doyle presuma l’esistenza di un tale «passato alternativo» assicura che lui agisca in conformità con ciò che è già avvenuto. Ashbless diventa l’eroe che era in precedenza, il restauratore di un ordine che non è mai stato minacciato. Tutto è come è sempre stato: soltanto che ora, come sanno bene sia Doyle che il lettore, è accaduto qualcosa di weird.

7. La traduzione è stata leggermente modificata. [n.d.t.]

SIMULAZIONI E DEMONDIFICAZIONE RAINER WERNER FASSBINDER E PHILIP K. DICK

Esiste anche un altro tipo di effetto weird generato dagli strange loop. In questo caso essi non producono soltanto grovigli di causa ed effetto del genere discusso nell’ultimo capitolo a proposito del loop temporale, ma anche confusioni sul piano ontologico. Brian McHale dedica gran parte del suo Postmodernist Fiction all’analisi di tale genere di confusioni. Ciò che dovrebbe trovarsi a un livello ontologicamente «inferiore» ricompare all’improvviso a un livello superiore (personaggi di un mondo simulato si ritrovano di colpo nel mondo che genera la simulazione); oppure, ciò che si dovrebbe trovare a un livello ontologicamente «superiore» compare a un livello inferiore (gli autori interagiscono con i personaggi). Le immagini di Escher esemplificano alla perfezione gli spazi paradossali creati da un simile loop. Esiste un’indiscutibile weirdness in questo «effetto Escher», che in pratica riguarda un senso di non-correttezza: i livelli sono scombinati, le cose non stanno dove dovrebbero essere. Sebbene McHale faccia riferimento a Dick, del quale parleremo tra poco, molti dei testi da lui discussi raffigurano tale confusione di mondi in un registro letterario metafantastico. Vorrei ora discutere di due opere che si collocano al limite del genere fantascientifico, e che affrontano il problema dei mondi simulati o stratificati in una prospettiva che enfatizza la weirdness. Esaminiamo in primo luogo Il mondo sul filo (Welt am Draht/World on a Wire), una produzione in due puntate realizzata nel 1973 per il canale televisivo pubblico tedesco Westdeutscher Rundfunk. Si tratta di un adattamento del romanzo di fantascienza Simulacron 3 di Daniel F. Galouye, che ha per regista nientemeno che Rainer Werner Fassbinder.

Una delle scene iniziali è imperniata su uno specchio: lo specchietto che il professor Vollmer, capo del progetto Simulacron ed evidentemente squilibrato, agita in modo frenetico davanti al volto dei colleghi ripetendo «Tu sei soltanto l’immagine che gli altri hanno di te». Il progetto ha creato un mondo generato da computer, popolato da «unità d’identità» che credono di essere persone vere. Vollmer muore ed è sostituito dal programmatore Stiller, che si ritrova ben presto ossessionato dallo stesso dubbio che aveva spinto il predecessore alla pazzia: che il mondo «reale» in cui questi personaggi vivono sia esso stesso una simulazione, architettata da un mondo «più reale» superiore. L’ambientazione del film sembra confermare l’idea di Vollmer, cioè che siamo ciò che gli altri percepiscono di noi. Nel film a stento compare una scena priva di superfici riflettenti, e alcune delle inquadrature più memorabili mostrano riflessi di riflessi, in un regredire infinito di simulacri. Nelle scene d’insieme i personaggi di secondo piano manifestano una strana, ansiosa immobilità, come se fossero spettatori di un lavoro teatrale. Una delle prime scene sembra presa di peso dalla copertina di un album di Bryan Ferry dei primi anni Settanta: in un’atmosfera di equivoca decadenza, alcuni esponenti dell’élite della cultura e degli affari indugiano con le movenze di modelle e modelli, o fissano a bocca aperta l’ambiente come voyeur immobili intorno a una piscina, la cui luce si riverbera sugli arredamenti (allora) futuristici. Analogamente all’interpretazione della fantascienza fornita da Tarkovskij in Solaris e Stalker (di cui parleremo più avanti), la deviazione di Fassbinder da certe convenzioni fantascientifiche conferisce al Mondo sul filo una forza speciale – soprattutto quando paragonata a modelli come Star Wars e Matrix. Mentre questi film sono caratterizzati dai loro effetti speciali, Il mondo sul filo ne è del tutto privo. L’«effetto» più notevole è costituito dagli inquietanti svolazzi e fiotti di musica elettronica stile anni Sessanta, che fanno irruzione nello stilizzato naturalismo di Fassbinder come crepe nella realtà. Nel Mondo sul filo, lo strange loop è prodotto da «Einstein», l’unità d’identità di Simulacron che la gente dell’Institute for Cybernetics and Future Science usa per comunicare direttamente con il mondo simulato. Per assolvere tale funzione di collegamento, Einstein ovviamente dev’essere conscio di essere un simulacro. Ma questa consapevolezza produce inevitabilmente in lui il desiderio di risalire fino al mondo «reale» – un

desiderio, implica il film, che non potrà mai essere soddisfatto. Il terrore ontologico intorno a cui ruota Il mondo sul filo – sarà un simulacro anche il nostro mondo? – ci è oggi ben familiare attraverso i vari adattamenti di Philip K. Dick e dei suoi numerosi epigoni. Ma pur senza costituire un reale adattamento dei lavori dell’autore statunitense, Il mondo sul filo appare più vicino all’ironica causticità dell’opera di Dick di tanti altri suoi adattamenti ufficiali per svariati motivi, non ultimo quello di rappresentare ciascuno dei tre mondi stratificati come ugualmente monotono. Nel film, per la verità, si vede pochissimo del mondo «di sotto» (il mondo dentro il Simulacron), e quasi nulla del mondo «di sopra» (il mondo che sta un livello superiore rispetto a quello che all’inizio prendevamo per realtà). Il mondo di sotto compare soltanto attraverso rapidi scorci di hall di alberghi e di una cabina di camion. Ma è la rivelazione – o non-rivelazione – del mondo di sopra al culmine del film a coglierci maggiormente di sorpresa. Invece di assistere a qualche trasfigurazione stupefacente, vediamo soltanto quella che sembra la sala riunioni di un banalissimo palazzo di uffici. All’inizio le tapparelle elettriche delle finestre sono abbassate, e ciò lascia ancora aperta la possibilità della rivelazione successiva di un mondo straordinario, o quantomeno strano. Ma quando alla fine le tapparelle si alzano, scorgiamo soltanto lo stesso cielo grigio e lo stesso paesaggio urbano. Stiller – il cui nome assume ora un significato speciale8 – ha raggiunto il suo scopo ufficiale (risalire fino al «mondo di sopra»), ma non si è «mosso» da dove si trovava. La condizione zenoniana persiste nella forma di un’ansia ontologica che – in una pre-eco del tormento che consumerà Mal in Inception – segue le topologie weird della pulsione: una volta che la fede di Stiller nel mondo in cui vive è distrutta, non sarà più possibile credere ad alcuna realtà. La differenza fra i tre mondi non è accessibile a livello di esperienza (dei personaggi come del pubblico), ed è come se Fassbinder, con Il mondo sul filo, producesse un lavoro che si adatta perfettamente alla celebre definizione di Darko Suvin della fantascienza come arte dello «straniamento cognitivo». La crescente consapevolezza da parte di Stiller della natura simulata del mondo che tutti intorno a lui considerano realtà produce uno straniamento cognitivo talmente intenso da delineare una frattura psicotica. Il contenuto della sua esperienza è da ogni punto di vista lo stesso: ma siccome ora è classificato come simulazione, subisce una trasfigurazione in senso psicotico.

Tuttavia, come spesso avviene nella fiction di Dick, la posizione dello psicotico è anche quella della verità. Lo «straniamento cognitivo» qui prende la forma di una demondificazione, di una caduta abissale da ogni idea che esista un qualsiasi livello «fondamentale» che possa fungere da base o pietra di paragone, garantendo e autenticando ciò che è davvero reale. Il film genera ciò che si potrebbe definire un weird cognitivo, nel senso che qui il weird non è visto o sperimentato in modo diretto: si tratta di un effetto cognitivo generato privando il realismo apparente del film di ogni sensazione di realtà. Tempo fuor di sesto di Philip K. Dick, pubblicato nel 1959, porta a termine un analogo straniamento del realismo, offrendo però una versione differente di demondificazione. Il romanzo è notevole, anzi, per la meticolosità con cui Dick edifica una «realistica» cittadina americana. Due anni dopo l’apertura del primo parco Disney (Dick sarebbe diventato un visitatore abituale di quello di Los Angeles), il romanzo tratta il realismo letterario come una sorta di disneyficazione. In un classico momento di vertigine ontologica dickiana, la cittadina scrupolosamente ritratta si rivela alla fine un intricato sistema di finte facciate, suggestioni ipnotiche e allucinazioni negative (concetto su cui torneremo più avanti). Il risultato può essere letto non solo come fantascienza ma anche come metafiction critica, perché che cos’è nella fiction realistica un’ambientazione se non un identico tipo di sistema? Com’è possibile per un autore ottenere un qualunque «effetto di realtà» senza impiegare l’equivalente letterario di tali tecniche simulative? In Tempo fuor di sesto i meccanismi del realismo sono perciò ridefiniti come un insieme di effetti speciali. Nel romanzo la sensazione del weird non è prodotta da una collisione di mondi, ma dal passaggio da un mondo «realistico» a un «non mondo». Una volta declassato a simulazione, il mondo realistico non appare soltanto infranto, quanto piuttosto cancellato. Nel libro tutto lo scenario della cittadina è costruito come una finzione, uno scenario confortevole in cui il protagonista può svolgere un’impegnativa mansione militare per il governo mentre crede di partecipare a un banale concorso a premi indetto da un giornale. Eppure è evidente che gli elementi fantascientifici sono stati per Dick il pretesto che gli ha consentito di scrivere con successo in modo naturalistico dell’America degli anni Cinquanta. Proprio questi dispositivi di messa in cornice hanno permesso a Tempo fuor di sesto di avere successo

dove la fiction puramente realistica di Dick aveva fallito. In Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Jameson registra il particolare struggimento nostalgico generato da Tempo fuor di sesto, una nostalgia per il presente che Dick ottiene disseminando la narrazione d’immagini stereotipate del decennio alla fine del quale sta scrivendo: [...] l’infarto del presidente Eisenhower; la Main Street; Marilyn Monroe; un mondo fatto di vicini e di appartenenti all’Associazione GenitoriInsegnanti; le piccole catene di negozi al dettaglio (con i prodotti portati da fuori con i camion); i programmi televisivi preferiti; il blando corteggiamento della casalinga della porta accanto; i giochi a premi televisivi; gli sputnik in orbita in alto nel cielo, semplici luci intermittenti nel firmamento, difficili da distinguere dagli aerei di linea e dai dischi volanti.

(In realtà Marilyn Monroe è una delle anomalie che permettono di svelare la finzione della cittadina, perché l’attrice non è inclusa nel mondo simulato degli anni Cinquanta, e appare al personaggio principale soltanto quando questo scopre alcune vecchie riviste, cimeli dei nostri anni Cinquanta, in una discarica «oltre i confini della città».) Ciò che risulta notevole è la capacità dimostrata da Dick, già nel 1959, d’identificare i caratteri stereotipici degli anni Cinquanta americani che in seguito avrebbero definito il decennio. Appare ammirevole non tanto l’abilità di Dick nel ritrarre il futuro – il 1997 del romanzo è confezionato a partire da tropi fantascientifici di genere, ed è assai meno convincente del mondo palesemente falso degli anni Cinquanta che raffigura – quanto piuttosto la sua capacità d’immaginare come il futuro avrebbe visto gli anni Cinquanta. Sono gli anni Cinquanta già prefigurati come parco a tema: una ricostruzione anticipata. La cittadina simulata di Dick non appare ammantata di kitsch come i rifacimenti di inizio ventesimo secolo concepiti da Disney, ma piuttosto corredata di ciò che Jameson definisce «la puzza di cavoli» del naturalismo: Lo squallore della felicità, [...] della «falsa» felicità di Marcuse: le

gratificazioni di un’auto nuova, della cena davanti alla tv e del programma preferito sul divano. Tutto questo rappresenta ormai a sua volta uno squallore, un’infelicità che non sa il proprio nome, che non ha modo di distinguersi dalla soddisfazione e dall’appagamento autentici, perché presumibilmente non vi si è mai imbattuta.

In questo mondo fiacco il malcontento diffuso si nasconde in piena vista, in un incerto malessere rivelato dai frigoriferi, dagli apparecchi televisivi e altri beni di consumo durevoli. La vividezza e la plausibilità di questo mondo deprimente – che lo stesso squallore contribuisce a confermare – si fanno in un certo senso più intense quando lo status di tale mondo viene declassato a simulazione costruita a tavolino. Il mondo è una simulazione, ma dà ancora la sensazione di essere reale. Alcuni dei passaggi più efficaci dell’opera di Dick sono quelli in cui affiora un interregno ontologico: una demondificazione traumatica che non ha ancora ricevuto una motivazione narrativa, uno spazio irrisolto che attende ancora la re-incorporazione in un altro regime simbolico. In Tempo fuor di sesto l’interregno assume la forma di una scena straordinaria in cui luoghi in apparenza opachi del naturalismo quotidiano – la stazione di servizio e il motel – fungono quasi da versione negativa del lampione ai margini della foresta di Narnia. A differenza del lampione di Lewis, però, tali edifici non contrassegnano la soglia verso un nuovo mondo: costituiscono piuttosto passaggi obbligati verso un deserto del Reale, un vuoto al di là di qualsiasi mondo costituito. Quando il fuoco narrativo si sposta sulle stazioni di servizio ai confini della cittadina, l’arredamento di fondo del realismo letterario si staglia di colpo in primo piano e accade un momento di epifania dell’oggetto, dove familiarità-visione periferica si trasformano in qualcosa di alieno: C’erano sempre meno case. Il camion passò davanti a stazioni di servizio, bar dozzinali, chioschi di gelatai e motel [...] come se, pensò Ragle, avessimo già fatto mille miglia e stessimo arrivando in una città sconosciuta. Nulla è tanto alieno, tanto desolante e ostile, quanto la schiera di stazioni di servizio con la benzina a prezzo ridotto e di motel alla periferia della propria città. Fatichi a riconoscerla. E allo stesso tempo devi tenertela ben stretta. E non per una notte soltanto, ma per tutto il tempo in

cui intendi abitare in quello stesso luogo. Ma noi non vogliamo più abitare qui. Stiamo partendo. Sul serio.

È una scena in cui Edward Hopper sembra trasfigurare in Beckett, dove il paesaggio naturale (o naturalistico) cede il passo a una monotonia svuotata, a uno spazio minimale quasi astratto, privo di gente ma ancora industrializzato e costellato di attività commerciali: «Un ultimo incrocio, una strada secondaria che serviva industrie ubicate fuori della città vera e propria. I binari della ferrovia... notò un treno merci fermo. I serbatoi di sostanze chimiche sospesi in alto sopra le fabbriche». È come se Dick stesse poco alla volta togliendo di mezzo le attrezzerie e gli arredi del realismo letterario per spianare la via alla demondificazione descritta poche pagine prima: Vuota forma esteriore in luogo di sostanza; il sole che non splende davvero ma pioggia, pioggia fredda, grigia e silenziosa, la spaventosa cenere che penetra ovunque. Niente erba ma soltanto qualche ceppo carbonizzato, distrutto. Pozze d’acqua contaminata... Lo scheletro della vita, bianco fragile sostegno di spaventapasseri in forma di croce. Ghignante. Il vuoto al posto degli occhi. Il mondo intero [...] è trasparente. Io sono all’interno e guardo fuori. Sbircio da una fessura e vedo... il vuoto. Vedo dentro i suoi occhi.

8. Still significa infatti «immobile». [n.d.t.]

SIPARI E BUCHI DAVID LYNCH

Gli ultimi due film di David Lynch, Mulholland Drive e Inland Empire, presentano una forma di weirdness acuta, concentrata. L’opera precedente di Lynch, benché spesso sconcertante, fatta di film come Velluto blu (1986) e della serie televisiva Twin Peaks (1990-91, con una terza serie attualmente in produzione),9 offriva ancora quella che a prima vista potrebbe sembrare una coerenza superficiale. Sia il film che la serie tv erano, perlomeno all’inizio, costruiti intorno alla contrapposizione tra un’America provinciale stereotipata-idealizzata (non dissimile da quella raffigurata da Dick in Tempo fuor di sesto) e vari altri mondi o sottomondi (criminali, occulti). La separazione tra mondi era spesso segnata da uno dei più ricorrenti motivi visivi di Lynch, quello dei sipari. Sipari che al tempo stesso nascondono e rivelano (non a caso uno degli oggetti che essi nascondono e rivelano è proprio lo schermo cinematografico). I quali non si limitano a marcare una soglia, ma la costituiscono: un passaggio verso l’esterno. In Mulholland Drive, uscito nel 2001, la stabilità della contrapposizione che aveva strutturato Velluto blu e Twin Peaks inizia a dissolversi. Senza dubbio ciò è dovuto in parte al passaggio di ambientazione dalla cittadina di provincia alla città di Los Angeles. L’abituale ossessione di Lynch per i sogni e l’onirico appare ora rifratta e moltiplicata dai sogni mediati e costruiti da Hollywood, la Fabbrica dei Sogni. L’ambientazione hollywoodiana genera una proliferazione di mondi stratificati – film all’interno di film (e magari film all’interno di film all’interno di altri film), provini, parti recitate, fantasie. Ogni stratificazione contiene la possibilità di una de-stratificazione, come se ciò che occupava un livello ontologico ipoteticamente inferiore

minacciasse di abbandonare la propria posizione subordinata per risalire al livello superiore e rivendicare uno status di parità: fantasie prodotte da sogni che passano alla vita da svegli; provini che alla fine appaiono convincenti quanto le conversazioni che si tengono nelle scene dell’ipotetica vita reale che li circonda. In Mulholland Drive, però – che nei titoli di testa del film è scritto «Mulholland Dr.», in un accenno a «Mulholland Dream» – la tendenza prevalente sembra viaggiare in direzione opposta: non sono tanto i sogni a essere presi per realtà, quanto piuttosto ogni apparente realtà a sprofondare nel sogno. Ma il sogno sognato da chi, in ogni caso? L’interpretazione «canonica» di Mulholland Drive sostiene che la prima metà del film è la fantasia/sogno dell’attricetta fallita Diane Selwyn (Naomi Watts), la cui vita reale viene poi rappresentata in tutto il suo squallore quotidiano nella seconda parte. Nella prima parte del film, Betty aiuta una donna bruna che soffre di amnesia (Laura Harring), vittima di un tentativo di omicidio, a ritrovare la memoria. La bruna assume il nome di «Rita» da Rita Hayworth, nome che legge su un poster cinematografico, e lei e Betty diventano amanti. Nella seconda parte «Rita» diventa Camilla, attrice di successo e oggetto di violenta gelosia da parte della fallita e sfiancata Diane, che invece vive in un miserabile appartamento di Hollywood. Diane incarica un killer di uccidere Camilla, prima di commettere quello che sembra un suicidio. Secondo l’interpretazione corrente, l’aspirante attrice Betty – che sembra arrivare a Hollywood non soltanto dalla provincia, ma anche dal passato (ha appena vinto una gara di ballo swing!) – è l’immagine idealizzata di se stessa della Selwyn. La contrapposizione tra il luogo idealizzato e il sottomondo (o i sottomondi) che aveva strutturato Velluto blu e Twin Peaks diventa così la contrapposizione tra due personaggi: l’ingenua provinciale Betty contro la cinica residente di Los Angeles Diane. In una recensione online intitolata «Double Dream in Hollywood», Timothy Takemoto ha osservato che uno dei problemi dell’interpretazione canonica è che la seconda parte del film è a suo modo onirica e satura di tropi melodrammatici quanto la prima. «Com’è possibile che una donna che vive in un cadente appartamento di Hollywood abbia una relazione con una star del cinema, prossima al matrimonio con un famoso regista? Dove prende i soldi per pagare il killer?» L’opinione di Takemoto è che tanto la prima quanto la seconda parte siano in realtà dei sogni. L’autrice del sogno non è Diane, il «vero autore del sogno è altrove», e Betty/Diane e Rita/Camilla

sono tutti frammenti della psiche in via di disgregazione di questo (invisibile) sognatore. Corretta o meno che sia quest’interpretazione, ritengo che Takemoto abbia ragione quando sostiene che in Mulholland Drive ci sono due scene che meritano particolare attenzione: quella del sogno nel diner, e quella del Club Silencio (forse la sequenza più potente dell’intero film). Nella scena del diner, un uomo di nome Dan sta conversando con qualcuno che potrebbe essere uno psichiatra a proposito di un sogno che ha fatto due volte. Il sogno si svolgeva nello stesso locale in cui i due sono seduti ora (Winkie’s, su Sunset Boulevard). In tale sogno Dan è terrorizzato da una figura con il volto annerito e coperto di cicatrici che compare in uno spazio abbandonato sul retro del diner. Nel tentativo di combattere l’effetto pauroso del sogno, i due uomini escono dal diner e raggiungono il retro del locale – dove la figura coperta di cicatrici li sta aspettando, e Dan cade a terra, svenuto o forse morto. L’affascinante e paradossale scena del Club Silencio funge da elemento di transizione tra le due parti del film. Con il suo sipario rosso, il Club Silencio è chiaramente uno spazio liminale. Betty e Rita entrano nel locale, ma non ne escono mai veramente: in seguito verranno sostituite/rimosse da Diane e Camilla. Ho definito la scena affascinate e paradossale perché è volutamente demistificante. Come un equivalente cinematico del Ceci n’est pas une pipe di Magritte, l’esibizione nel Club Silencio ci dice che stiamo assistendo a un’illusione, mentre al tempo stesso ci mostra che non possiamo trattarla come tale. Il presentatore del Club, personaggio a metà strada tra mago e annunciatore, ripete più volte al pubblico (a quello presente all’interno del Club, ma anche agli spettatori di Mulholland Drive): «Non c’è gruppo. È tutto registrato. È soltanto un nastro. È tutta un’illusione». Un uomo sbuca da dietro il sipario rosso suonando una tromba con la sordina: dopo un po’ allontana lo strumento dalla bocca, ma la musica continua. Quando la cantante Rebekah Del Rio compare sul palco per interpretare in spagnolo una toccante versione di «Crying» di Roy Orbison, veniamo sedotti dalla forza dell’esecuzione. Perciò, quando alla fine la Del Rio crolla ma la canzone non s’interrompe, non possiamo fare a meno di restare scioccati. Qualcosa dentro di noi c’impone di guardare all’esecuzione come se fosse autentica. Naturalmente nella lunga storia d’illusioni del cinema non esiste niente

di meno falso, meno dissimulatorio della scena del Club Silencio. Ciò che vediamo e ascoltiamo – il film stesso – è anzi una registrazione e niente di più. Al livello più banale, si tratta dell’infrastruttura materiale che «la magia del cinema» tenta di dissimulare. Eppure la scena ci turba per altre ragioni. Perché mette in evidenza gli automatismi che operano nella nostra soggettività: nella misura in cui non riusciamo a impedire di essere trascinati all’interno delle illusioni del Club (che sono anche le illusioni del cinema), siamo simili alle registrazioni da cui restiamo affascinati. Eppure queste illusioni sono qualcosa di più che puri e semplici inganni. Come quella di Dan nel diner, la scena del Club Silencio ci ricorda che sogni e «illusioni» sono canali verso un Reale che non può essere affrontato in modo ordinario. I sogni non sono soltanto spazi d’interiorità solipsistica, ma anche un terreno su cui si può spalancare il «sipario rosso» verso l’esterno. In definitiva l’interpretazione più plausibile di Mulholland Drive è forse quella di una vicenda che è impossibile far quadrare. Il che però non significa che si possa semplicemente guardare al film come oggetto di ogni possibile interpretazione. Significa piuttosto che ogni tentativo di far combaciare in modo definitivo le circonvoluzioni e i vicoli ciechi del film rischia soltanto di dissipare la sua stranezza, la sua weirdness formale. La weirdness qui nasce in parte dal modo in cui il film appare come la versione «sbagliata» di un modello riconoscibile di pellicola hollywoodiana. Roger Ebert ha osservato che «non esiste soluzione. E può darsi che non esista neppure un mistero». È possibile che Mulholland Drive sia l’illusione di un mistero: siamo costretti a trattarlo come un enigma spiegabile, a ignorare la sua «non-correttezza», la sua insolubilità, nello stesso modo in cui nel Club Silencio siamo costretti a ignorare la natura illusoria dello spettacolo cui stiamo assistendo. In Inland Empire, uscito nel 2006, è come se la serie di scivolamenti, incoerenze e dilemmi sperimentati in Mulholland Drive si fosse spinta ancor più lontano, fino al punto in cui non esiste più nemmeno una speranza di trattabilità. Nonostante la quantità di riferimenti cinematografici, Inland Empire non sembra nemmeno ricordare un modello hollywoodiano. Se il weird è qualcosa che riguarda essenzialmente le soglie, allora Inland Empire è un film che sembra composto soprattutto di soglie. Le migliori analisi del film hanno giustamente sottolineato l’anarchitettura10 labirintica e piena di cunicoli del film. Eppure lo spazio è qui ontologico, piuttosto che

semplicemente fisico. Ogni corridoio del film – e Inland Empire è pieno di corridoi tipicamente lynchiani – è una potenziale soglia verso un altro mondo. Eppure nessun personaggio – termine che pare assurdamente fuor di luogo quando applicato ai frammenti, ai fantasmi e alle figure fugaci di Inland Empire – può entrare in questi altri mondi senza modificare la sua stessa natura. In Inland Empire siete qualunque mondo all’interno del quale vi troviate. Il motivo dominante del film è un altro genere di soglia: il vuoto. Il foro di una bruciatura di sigaretta sulla seta; un foro prodotto nella parete della vagina che la mette in comunicazione con l’intestino; un foro praticato nell’addome con un cacciavite; cunicoli scavati da conigli; vuoti di memoria; vuoti narrativi; fori come nullità positiva, interruzioni ma anche tunnel, elementi di connessione di un rizoma infernale dove qualunque parte può collassare su un’altra. Il foro da bruciatura di sigaretta può fungere da metonimia dell’intera geografia psicotica del film. Il foro nella seta è un’immagine della macchina da presa e del suo doppio, l’occhio che osserva, il cui sguardo in Inland Empire è sempre voyeuristico e parziale. Con Inland Empire, l’emorragia del mondo diventa talmente acuta che non è più nemmeno possibile parlare di gerarchie aggrovigliate, ma di un terreno soggetto a un cronico sprofondamento ontologico. All’inizio il film sembra parlare di un’attrice, Nikki Grace (Laura Dern) che deve interpretare un personaggio, Sue, in un film intitolato On High in Blue Tomorrows. Ma non esiste stabilità per quanto riguarda questi due personaggi, né una gerarchia che dovrebbe trattare Sue come «meno reale» di Nikki. Verso la fine, Sue sembra aver incorporato Nikki, e dà l’impressione di non essere parte di alcun film intitolato On High in Blue Tomorrows. «Riflessività senza soggettività», questa perfetta descrizione dell’inconscio, è una definizione che calza a pennello alle circonvoluzioni e involuzioni di Inland Empire. Nikki Grace e la torma di altri personaggi interpretati dalla Dern/ospitati da Grace (o in cui lei si frammenta) sono come degli avatar de-psicologizzati: cavità che non possiamo fare a meno di trattare come misteri, anche se è chiaro (a noi, se non a loro) che non esiste alcuna speranza di soluzione. «Qualcosa è scappato fuori dalla storia», sentiamo dire della pellicola polacca di cui il film nel film di Nikki Grace sta girando un remake. In Inland Empire – che spesso appare come una serie di sequenze oniriche che galleggiano libere da qualsiasi realtà di riferimento, un sogno privo di

sognatore (come tutti i sogni, dato che l’inconscio non è un soggetto) – nessun fotogramma è certo, ogni tentativo di gerarchizzare le sequenze fallisce. La tentazione di risolvere gli enigmi del film in termini psicologici (cioè di attribuire le anomalie ai fantasmi generati dalla mente disturbata di uno o più personaggi) è senza dubbio fortissima, ma se vogliamo restare fedeli a ciò che il film ha di unico dev’essere respinta. Piuttosto che cercare una chiave conclusiva del film all’interno (i personaggi), dobbiamo seguire gli strani ripiegamenti, cunicoli e corridoi dell’architettura weird di Inland Empire, dove nessuno spazio interno resta certo a lungo, e praticamente in qualunque punto si possono aprire passaggi verso l’esterno.

9. La terza stagione di Twin Peaks è stata trasmessa in diciotto episodi sul canale statunitense Showtime dal 21 maggio al 3 settembre 2017. [n.d.t.] 10. Movimento artistico sviluppatosi intorno all’artista radicale newyorkese Gordon Matta-Clark (1943-1978), che prevedeva la rimozione e l’esposizione di elementi architettonici di case abbandonate, e in alcuni casi la demolizione di parte di tali edifici, servendosi di tagli e scavi parziali che permettevano all’osservatore di vedere attraverso la struttura. [n.d.t.]

L’EERIE

APPROCCIO ALL’EERIE

Che cos’è esattamente l’eerie? E perché è importante rifletterci sopra? Come nel caso del weird, l’eerie appare degno di riflessione in quanto particolare tipo di esperienza estetica. Sebbene tale esperienza sia certamente procurata da specifiche forme culturali, non trae origine da esse. Si può piuttosto affermare che certe storie, certi romanzi, certi film evocano una sensazione di eerie, ma che tale sensazione non è un’invenzione letteraria o cinematografica. Come nel caso del weird, è possibile sperimentare, e di fatto sperimentiamo spesso, la sensazione dell’eerie «dal vivo», senza ricorrere a specifiche forme di mediazione culturale. Il senso dell’eerie, per esempio, è senza dubbio legato a un certo tipo di paesaggi e di spazi fisici. La sensazione dell’eerie è molto diversa da quella del weird. Il modo più semplice per cogliere questa differenza è pensare alla contrapposizione (pesantemente condizionata in senso metafisico) che è forse la più fondamentale di tutte: tra presenza e assenza. Come abbiamo visto, il weird è costituito da una presenza – la presenza di qualcosa che non è al suo posto. In alcuni esempi di weird (quelli da cui Lovecraft era ossessionato), esso è marcato da una presenza eccessiva, da un brulicare che supera la nostra capacità di rappresentarlo. L’eerie, per contrasto, è costituito da un fallimento di assenza o un fallimento di presenza. La sensazione di eerie si verifica quando c’è qualcosa dove non dovrebbe esserci niente, o quando non c’è niente dove invece dovrebbe esserci qualcosa. Possiamo comprendere rapidamente le due modalità per mezzo di qualche esempio. L’idea di un eerie cry («grido inquietante») – spesso citato dalle definizioni di eerie fornite dai dizionari – è un esempio della prima modalità dell’eerie (il fallimento di assenza). Il verso di un uccello è eerie se produce la sensazione che nel verso (o dietro di esso) vi sia qualcosa di più

che un semplice riflesso o meccanismo biologico animale – che ci sia all’opera un qualche tipo di intento, una forma d’intento che di solito non associamo a un uccello. È evidente che c’è qualcosa in comune tra questa sensazione e quella di «qualcosa fuori posto» che abbiamo dichiarato costituire il weird. Ma l’eerie implica inevitabilmente forme di congettura e suspense che non costituiscono un carattere essenziale del weird. Esiste qualcosa di anomalo nel verso di quest’uccello? Che cosa contiene esattamente di strano? L’animale è forse posseduto – e in tal caso, da quale genere di entità? Questo genere di congettura è intrinseco all’eerie, e una volta che domande ed enigmi vengono risolti l’eerie svanisce all’istante. L’eerie riguarda l’ignoto: quando la conoscenza è raggiunta, l’eerie scompare. A questo punto bisogna sottolineare che non tutti i misteri generano l’eerie. È necessario che esista anche un senso di alterità, l’impressione che l’enigma potrebbe comprendere forme di conoscenza, soggettività e percezione che vanno al di là dell’esperienza comune. Un esempio della seconda modalità dell’eerie (il fallimento di presenza) è la sensazione di eerie prodotta da rovine o altre strutture abbandonate. La fantascienza post-apocalittica, benché non sia di necessità essa stessa un genere eerie, è tuttavia ricca di scene eerie. Eppure il senso dell’eerie in questi casi è limitato, perché ci viene fornita una spiegazione della ragione per cui determinate città si sono spopolate. Mettiamo a confronto questo caso con quello del brigantino abbandonato Marie Celeste.11 Siccome il mistero della nave non è mai stato risolto, né probabilmente lo sarà mai – che ne è stato dell’equipaggio? come mai ha abbandonato la nave? dove sono finiti tutti quelli che erano sulla nave? – il caso della Marie Celeste è saturo di un senso dell’eerie. Qua, evidentemente, l’enigma ruota intorno a due domande: cos’è successo? e perché? Strutture di cui non siamo in grado di analizzare significato e fine pongono tuttavia un differente tipo di enigma. Davanti al cerchio di pietre di Stonehenge, o alle statue giganti dell’Isola di Pasqua, ci troviamo davanti un diverso insieme di domande. Il problema qui non è perché la gente che ha creato quelle strutture è scomparsa – su questo non esiste mistero – ma la natura di ciò che è scomparso. Che tipo di esseri ha creato quelle strutture? Quanto erano simili a noi, e quanto diversi? A quale tipo di ordine simbolico appartenevano tali esseri, e quale ruolo svolgevano in esso i monumenti che hanno costruito? Infatti le strutture simboliche che

conferivano senso ai monumenti ormai sono scomparse, e in un certo senso qui testimoniamo dell’inintelligibilità e dell’inscrutabilità del Reale stesso. Di fronte all’Isola di Pasqua o a Stonehenge, è difficile non iniziare a formulare congetture sull’aspetto che avranno i resti della nostra cultura quando i sistemi semiotici di cui sono attualmente parte saranno spariti. Siamo costretti a immaginare il nostro stesso mondo come un insieme di tracce eerie. Tali riflessioni spiegano senza dubbio l’eeriness della celebre immagine finale della prima versione del Pianeta delle scimmie, uscita nel 1968: le rovine della Statua della Libertà, ormai incomprensibili dal punto di vista di un remoto futuro postapocalittico e postumano nella misura in cui lo è oggi Stonehenge per noi. I casi di Stonehenge e dell’Isola di Pasqua indicano che esiste una dimensione irriducibilmente eerie in certe pratiche archeologiche e storiche. Archeologi e storici, specie quando trattano di un passato molto lontano da noi, elaborano delle ipotesi, ma la cultura a cui fanno riferimento e che avrebbe la capacità di sostenere tali ipotesi non potrà mai essere (di nuovo) presente. L’enigma di fondo dietro ogni manifestazione dell’eerie concerne la questione dell’agentività (agency). Nel caso del fallimento di assenza, il problema riguarda l’esistenza stessa di un’agentività. Esiste davvero qui un soggetto deliberativo? Non saremo forse osservati da un’entità che non si è ancora rivelata? Nel caso del fallimento di presenza, il problema riguarda invece la particolare natura dell’agente che opera. Sappiamo che Stonehenge è stata eretta, perciò la questione di un soggetto che agisce o meno dietro la sua costruzione non si pone; dobbiamo vedercela invece con le tracce di un soggetto ormai scomparso le cui intenzioni restano a noi del tutto ignote. A questo punto possiamo finalmente rispondere al quesito su perché sia tanto importante una riflessione sull’eerie. Dato che l’eerie ruota in maniera cruciale intorno al problema di agentività, esso riguarda le forze che governano le nostre esistenze e il mondo. Specialmente a quanti di noi vivono in un mondo capitalista teleconnesso su scala globale, dovrebbe essere chiaro che simili forze non sono del tutto disponibili alla nostra comprensione sensoriale. Una forza come il capitale non esiste in nessun senso materiale, eppure è in grado di produrre praticamente qualsiasi tipo di effetto. A un altro livello, non è forse vero che Freud già molti anni ha fa dimostrato che le forze che governano la nostra psiche possono essere concepite come dei fallimenti di presenza – l’inconscio stesso non è forse pensabile in questo modo? – e dei

fallimenti di assenza (le varie pulsioni o compulsioni che intervengono dove invece dovrebbe operare il nostro libero arbitrio)?

11. È un caso di «nave fantasma» che a suo tempo suscitò molto clamore. Il brigantino (prima canadese e poi americano) Marie Celeste, o Mary Celeste, venne ritrovato da una nave nel 1872 mentre andava alla deriva vicino alle isole Azzorre. La nave era pressoché intatta e aveva a bordo l’intero carico e parte dei beni di valore degli ufficiali, mentre erano spariti tutti i passeggeri e la scialuppa di salvataggio. [n.d.t.]

QUALCOSA DOVE NON DOVREBBE ESSERCI NIENTE, NIENTE DOVE DOVREBBE ESSERCI QUALCOSA DAPHNE DU MAURIER E CHRISTOPHER PRIEST

Testeremo ora le nostre osservazioni preliminari su due scrittori giustamente considerati vicini all’eerie, Daphne du Maurier e Christopher Priest. Le storie eerie di Daphne du Maurier ruotano spesso intorno all’influenza di entità o oggetti che dovrebbero essere privi di agentività riflessiva: animali, forze telepatiche, il fato stesso. L’effetto eerie presente in alcuni romanzi di Priest, per contro, fa leva sui vuoti di memoria, vuoti che minano fatalmente alla base il senso d’identità dei personaggi. Il celebre racconto di Daphne du Maurier intitolato «Gli uccelli» (1952) rappresenta un caso praticamente paradigmatico di eerie. Come abbiamo visto, quando i dizionari devono fornire un esempio di eerie citano spesso l’eerie cry di un animale. «Gli uccelli» si sviluppa a partire dalla sensazione che nasce quando udiamo quel verso – il sospetto che un’entità a cui di solito non l’attribuiamo possieda invece un’agentività deliberativa. Nel racconto della Du Maurier gli uccelli cessano di essere parte del paesaggio e asseriscono un’agentività autonoma, anche se la natura di tale operato resta misteriosa. Invece di coesistere con gli uomini, gli uccelli si coalizzano per lanciare un sanguinoso attacco alla popolazione umana. Questa collaborazione tra specie di uccelli diverse è uno dei primi segni che sta succedendo qualcosa di strano e inaudito: «Gli uccelli stavano ancora volteggiando sui campi. Erano soprattutto gabbiani reali, ma c’erano anche alcuni mugnaiacci. Di solito se ne stavano separati, ma adesso erano insieme, uniti da qualche vincolo».

Per chi ha familiarità con l’adattamento cinematografico realizzato da Hitchcock, la lettura del racconto originale di Daphne du Maurier costituirà una sorpresa (si diceva che l’autrice detestasse il film realizzato da Hitchcock). Invece che in una California assolata, l’azione originale si svolge in una Cornovaglia grigia e burrascosa ancora nella morsa dell’austerità postbellica. Invece di una giovane coppia di freschi innamorati, qui abbiamo una famiglia – gli Hocken – impegnata a difendere la casa dagli attacchi degli uccelli. Da un certo punto di vista «Gli uccelli», con la sua attenzione puntata sulla famiglia assediata da entità anomale e asserragliata in casa dietro a porte e finestre sbarrate, sembra un’anticipazione della Notte dei morti viventi di George Romero (1968). La vicenda vede i personaggi strappati a una vita comunitaria pastorale e catapultati nel genere di atomizzazione survivalista che sarà più tardi descritta da Romero. La forza inquietante del racconto deriva da due diversi livelli di minaccia: la prima è ovviamente il primitivo terrore fisico causato dagli attacchi degli uccelli. Ma è il secondo livello a condurci nell’eerie. Mano a mano che la storia si dipana, assistiamo alla disintegrazione progressiva delle certezze e delle strutture di autorità residue dei tempi di guerra. Gli uccelli minacciano le vere e proprie strutture di senso che in precedenza avevano conferito una spiegazione al mondo. All’inizio vediamo che l’interpretazione più comune del comportamento anomalo degli uccelli chiama in causa il tempo atmosferico. Quando l’attacco s’intensifica, emergono però altri discorsi: il coltivatore per cui lavora Hocken riferisce che in città si dice che i russi abbiano avvelenato gli uccelli (quest’utilizzo di spiegazioni preconfezionate prodotte dalla paranoia da guerra fredda presuppone una certa logica, se consideriamo che gli uccelli sembrano aver messo da parte le loro differenze per sviluppare una sorta di coscienza di specie, un analogo della coscienza di classe). Le trasmissioni radio della BBC assumono un ruolo cruciale nella vicenda. All’inizio rappresentano la voce fidata dell’autorità: quando la BBC comunica che gli uccelli si stanno ammassando ovunque, la situazione anomala acquista una sorta di validazione ufficiale. In questa fase la BBC è sinonimo di struttura di autorità che si presume «farà qualcosa» per respingere l’attacco degli uccelli. Ma quando le trasmissioni si fanno sempre più rade, diventa chiaro che in realtà non esiste alcuna strategia per affrontare gli uccelli, non più di quanto esista un’adeguata spiegazione del loro comportamento anomalo. Alla fine le trasmissioni della BBC tacciono del

tutto, e questo silenzio significa che ormai siamo completamente entrati nello spazio dell’eerie. Non ci saranno spiegazioni, né per i personaggi né per i lettori. Né ci sarà alcuna tregua: alla fine del racconto l’assedio degli uccelli non sembra in alcun modo prossimo a una conclusione. In «Non voltarti» (1971), altro celebre racconto della Du Maurier, il «qualcosa dove non ci dovrebbe essere nulla», le forze che operano dietro le comuni modalità d’interpretazione della realtà sono rappresentati dalla percezione extrasensoriale e dal fato. La vicenda rivela come la negazione e il disconoscimento del potere di preveggenza finiscano per contribuire proprio all’evento che era stato oggetto della preveggenza. John e Laura sono una coppia inglese in visita a Venezia, dove si sono recati per tentare di riprendersi dal lutto per la morte della giovane figlia, da poco scomparsa per una malattia. Mentre i due sono seduti in un ristorante incontrano una strana coppia di sorelle, le quali sostengono di poter vedere la figlioletta che ride seduta tra i genitori affranti. Laura è felice, e inizia a essere ossessionata dalle due sorelle; John invece è scettico e ostile, convinto che le sorelle stiano cercando di sfruttare il dolore della moglie. Poco dopo la coppia viene a sapere che il loro figlio, che frequenta la scuola in Inghilterra, è malato, e decidono che Laura tornerà a casa per assisterlo. Mentre John passeggia da solo per la città, ha l’impressione di vedere Laura con le due sorelle su un vaporetto. Preso dal panico si rivolge alla polizia, convinto che le due abbiano rapito Laura. Invece scopre che Laura è tornata a casa come previsto: un John umiliato deve perciò spiegare alla polizia di essersi sbagliato e presentare le scuse alle due sorelle. Dopo averle riaccompagnate a casa, vede quella che gli sembra una bambina inseguita da un uomo. Venezia in quei giorni è sotto la minaccia di un serial killer, e John teme che la bambina sarà la sua prossima vittima. Quella che però credeva una bambina si rivela in realtà una nana omicida – probabilmente il serial killer – che uccide John. Nell’istante in cui muore, John capisce che la vista delle sorelle in compagnia di Laura era stato un caso di preveggenza, uno sguardo sul futuro prossimo, quando le tre donne avrebbero partecipato insieme al suo funerale: Allora vide il vaporetto con Laura e le due sorelle che sbuffavano lungo il Canal Grande, non quel giorno, non l’indomani, ma l’indomani ancora, e

capì perché erano insieme e per quale triste motivo erano venute. La creatura stava borbottando nel suo angolino; i colpi e l’abbaiare del cane si facevano sempre più deboli e «Oh Dio», pensò, «che stupido modo di morire...»

Da un certo punto di vista la struttura che emerge da questo racconto è simile al loop temporale discusso in precedenza, anche se qua il loop è meno serrato, e il registro si mostra eerie piuttosto che weird, perché l’enfasi della vicenda è su un agente oscuro, il fato stesso. Qui il fato appare certo terrificante, ma, come John intuisce negli ultimi istanti di vita, intreccia le sue trame con una maestria che alla fine si rivela ironica, e forse anche macabramente comica, oltre che atroce. Una delle ironie è che la preveggenza di John, proprio perché non è da lui riconosciuta come tale, non gli permette di prevedere i disegni del fato. John condivide questo disconoscimento dei propri poteri di percezione extrasensoriale con un altro personaggio maschile fatalmente definito dall’autoaccecamento, il Jack Torrance di Shining, di cui diremo più avanti. Come per Jack Torrance, la percezione extrasensoriale mette in pericolo il senso di autodeterminazione maschile di John. Come nel caso di Jack, il fatto di sottovalutare le forze che minacciano una (in definitiva illusoria) padronanza di sé alimentano il potere di quelle stesse forze, che alla fine lo conducono alla distruzione. L’adattamento cinematografico del racconto realizzato nel 1973 da Nicolas Roeg (questa volta con il beneplacito di Daphne du Maurier) è una dimostrazione di poetica del fato. Come in molti altri suoi film, Roeg impiega qui parallelismi, prefigurazioni ed echi, invitandoci a guardare al tempo come a una struttura in rima. Il rosso della macchia di una diapositiva che John osserva rima con quello dell’impermeabile che sua figlia indossa quando muore; la morte della figlia non è però tanto una catastrofe conclusa, quanto piuttosto il momento iniziale di un sinistro motivo poetico che si chiuderà soltanto con la morte di John, per mano di una nana che veste un impermeabile rosso quasi identico. Accentuando la nostra reattività verso tali rime visive, Roeg allude ai contorni eerie di forze funeste che non emergono mai completamente alla vista. Le reiterazioni cromatiche sono rafforzate dall’elemento acustico. In carattere con il racconto, la resa di Venezia offerta da Roeg è intensamente eerie, e gran parte di ciò si deve all’uso del suono. Roeg ha sfruttato il particolare carattere della città come dedalo sonoro, dove

l’architettura genera effetti «schizofonici» separando i suoni dalla loro fonte e producendo uno spazio sonoro ingannevole. John e Laura si perdono spesso nelle vie di Venezia, cambiando direzione, facendo dietrofront e tornando inavvertitamente al punto di partenza, vagando per una città che si rivela un labirinto ambiguo, l’immagine frammentata di un destino che riconosceranno soltanto troppo tardi. Se i due racconti di Daphne du Maurier citati riguardano un’agentività che non dovrebbe esistere – l’astuzia collettiva degli uccelli; l’intrecciarsi poetico del fato – i due romanzi di Christopher Priest The Affirmation (1981) e L’incanto dell’ombra (1984) sono organizzati intorno a delle assenze, spazi vuoti in cui invece dovrebbe esserci un operato. I due personaggi principali sono definiti dai vuoti delle vicende che sono in grado di raccontare su se stessi, e uno degli effetti dell’opera di Priest (come di quella di Alan Garner, di cui parleremo più avanti) è di farci apprezzare la forza eerie dei racconti. The Affirmation all’inizio sembra la storia di un giovane, Peter Sinclair, che ha sofferto di un esaurimento nervoso dopo la fine di una relazione amorosa e la perdita del lavoro. L’incontro con un conoscente più vecchio spinge Sinclair ad accettare l’offerta di andare a vivere nella seconda casa dell’amico, un cottage malmesso nelle campagne dell’Hertfordshire, in cambio di lavori di ridecorazione e ristrutturazione della proprietà. Una volta trasferitosi nel cottage, Sinclair inizia la stesura di quella che considera un’opera autobiografica, un lavoro che finalmente gli chiarirà il senso della sua vita. All’inizio non vediamo il testo – e forse non lo vediamo mai – ma soltanto un’alternanza di pensieri euforici e tormentati di Sinclair riguardo a esso. Sinclair ammette di aver iniziato ad abbellire e anzi ad alterare del tutto gli elementi del racconto – modificando particolari relativamente insignificanti come nomi di luoghi e persone, ma anche aspetti della loro personalità ed eventi chiave, giustificando l’introduzione delle modifiche in nome della fedeltà a una «verità superiore» del romanzo. È una giustificazione invocata da molti romanzieri, e senza dubbio qui Priest lancia anche una frecciata a se stesso. Quando riusciamo finalmente a vedere il famoso testo, lo scritto «autobiografico» di Sinclair appare del tutto diverso da come ce lo aspettavamo, e si rivela una stravagante opera di fantasia (anzi, sembra quasi appartenere al genere fantasy). In realtà non abbiamo mai realmente la certezza che ciò che leggiamo sia davvero il manoscritto autobiografico di

Sinclair: in una delle versioni della vicenda, il prezioso manoscritto che Sinclair porta sempre con sé altro non è che un fascio di fogli bianchi. Ma nel manoscritto che leggiamo effettivamente, Sinclair è il vincitore di una speciale lotteria organizzata su un’isola chiamata Collago e appartenente al Dream Archipelago («Arcipelago del Sogno») – un vasto gruppo di isole che, come indicato dal nome, sembra suggerire uno stato mentale ancor prima che un luogo geografico. La lotteria permette ai vincitori di farsi sottoporre a un procedimento chiamato «atanasìa», che conferirà loro una sorta d’immortalità limitata: il loro corpo sarà liberato da ogni patologia e diventeranno immuni da ogni malattia futura, anche se non saranno protetti da eventuali incidenti. Il procedimento di atanasìa tuttavia comporta anche una perdita completa della memoria. Le personalità dei pazienti saranno così ricostruite a partire da un dettagliato questionario che essi devono compilare prima dell’operazione. Sinclair però insiste affinché coloro che conducono il trattamento impieghino a tal fine il suo testo autobiografico (che a questo punto, evidentemente, non può essere lo stesso che stiamo leggendo, e che deve esistere a un livello «inferiore» rispetto alla vicenda dell’arcipelago e della lotteria). Nel prosieguo di The Affirmation, il rapporto tra le linee narrative situate nel mondo reale e quelle ambientate nel Dream Archipelago si fa progressivamente più confuso. Sembra che Sinclair – o qualche parte di lui – dissemini frammenti di discorsi per sviare il trauma del suo ruolo nel suicidio dell’amante Gracia. Un evento dell’infanzia di Sinclair fornisce quella che potrebbe essere la chiave dell’intero romanzo. Il protagonista ricorda un episodio in cui, dopo un incidente, aveva perso ogni memoria dei tre giorni precedenti: Durante quei tre giorni devo essere rimasto vigile, cosciente e consapevole di me stesso, senza mai perdere la continuità della memoria, certo della mia identità e della mia esistenza. Un evento successivo, tuttavia, li ha sradicati del tutto dalla mia mente, proprio come un giorno la morte cancellerà ogni memoria. È stata la prima esperienza di una specie di morte, e da allora, sebbene non temessi lo stato d’incoscienza in sé, ho considerato la memoria come la chiave della vita senziente. Esistevo finché ricordavo.

L’ironia è che il Sinclair del Dream Archipelago si sottopone alla

«morte» provocata dall’amnesia per conseguire l’immortalità. E se Sinclair esiste «finché ricorda», il problema è che le differenti versioni di Sinclair non ricordano: il Sinclair «di questo mondo» non ricorda a causa della frammentazione della coscienza causata dalle tensioni prodotte dal suicidio di Gracia; quello del Dream Archipelago a causa della decisione di sottoporsi al processo di atanasìa. Ciò che qui risulta eerie è l’operato dell’inconscio stesso. The Affirmation può essere visto come un’estesa riflessione sul dilemma di come sia possibile nascondere qualcosa a noi stessi, come una singola entità possa essere simultaneamente colei che nasconde e colei dalla quale una cosa è nascosta. Ciò può avvenire soltanto perché l’unità e trasparenza che di solito attribuiamo alla mente sono in realtà illusorie. Vuoti e incongruenze sono costitutivi di ciò che siamo. Queste lacune sono nascoste da storie – le quali possiedono perciò una loro agentività. La memoria è già essa stessa un racconto, e quando nella memoria si presentano degli spazi vuoti vengono inventati nuovi racconti per riempire i buchi. Ma chi è l’autore di questi racconti? La risposta è che non esiste un vero autore, quanto piuttosto un processo di invenzione privo di un «qualcuno» alle spalle. Tale meccanismo non è una deviazione patologica dalla norma, ma il modo in cui normalmente funziona l’identità. Si tratta però di un meccanismo solitamente nascosto, e che diventa visibile soltanto quando qualcosa non funziona – quando i racconti non hanno successo, e la messa in discussione del meccanismo che li produce diventa inevitabile. L’altro romanzo di Priest, L’incanto dell’ombra, riprende diversi di questi temi, in particolare i problemi che riguardano amnesia e confabulazione patologica. Richard Grey è un cameraman che ha perso la memoria a causa dell’esplosione di una bomba nel corso di un attentato. È ricoverato in un ospedale del Devon, dove riceve la visita di una donna, Susan Kewley, che sostiene di essere stata la sua ragazza. Come in The Affirmation, il romanzo ruota intorno al rapporto tra vuoti e storie, con la memoria vista come un particolare tipo di racconto, suscettibile di manipolazioni e ricostruzioni. Uno dei medici che si dedicano alla riabilitazione di Grey, ad esempio, parla di «paramnesia isterica», una condizione in cui il paziente architetta un intero mondo «ricordato» a partire da pochi frammenti. Il romanzo offre versioni alternative dell’incontro di Richard e Susan.

Nella prima versione, quella cui Richard crede in un primo tempo, i due si erano incontrati mentre erano in vacanza in Francia. L’evoluzione del loro rapporto era dominata dalla presenza dell’invadente fidanzato Niall, con cui la ragazza vuole rompere, ma che conserva un’influenza sinistra su di lei. Susan però respinge questa ricostruzione, sostenendo di non essere mai stata in Francia, e che la loro storia d’amore – in cui è di nuovo presente Niall sullo sfondo – ha in realtà avuto luogo a Londra. Il declassamento retrospettivo degli episodi che si svolgono in Francia presenta qualcosa di intensamente eerie. Per il lettore – e presumibilmente anche per Grey – gli eventi in Francia possiedono una vividezza che glieli fanno «sentire» altrettanto reali, se non di più, degli episodi svoltisi a Londra narrati dalla Kewley (qui avviene una sorta d’inversione dell’effetto della vicenda di The Affirmation, dove le scene ambientate nel Dream Archipelago all’inizio sembrano una fantasticheria o una finzione-nella-finzione, ontologicamente inferiori agli episodi che si svolgono nei luoghi del mondo reale, ma presentano un vividezza ben superiore a quella delle parti «realistiche» del romanzo). Se la vicenda della Francia non è reale, allora, esattamente come in The Affirmation, ci troviamo di nuovo di fronte al dubbio su quale agente potrà averla prodotta. Nel momento culminante di L’incanto dell’ombra ci sembra di trovare una risposta al quesito: con una contorsione metanarrativa, Niall sostiene di essere il narratore dell’intero romanzo, e colui che ha «passato» a Richard i falsi ricordi del suo viaggio in Francia. Se l’effetto complessivo della rivelazione è quello di dissipare in certa misura il senso di eerie fin qui costruito dal romanzo – ora abbiamo l’impressione di conoscere la vera natura dell’agente che ha prodotto tutti quei racconti – non abbiamo ancora risolto il problema della portata dell’influenza di Niall: fino a che punto ciò che abbiamo letto fin qui è frutto dell’invenzione di Niall, fino a che punto appartiene a ciò che Niall chiama ancora la «vera vita» di Richard, e fino a che punto è possibile separare le invenzioni di Niall da questa «vera vita»? Se Richard ha una «vera vita» al di là di Niall, ciò implica che Niall sia «soltanto» il narratore, colui che racconta la storia di Richard, non il suo autore-creatore – e ciò a dispetto di Niall che afferma: «Ti ho creato io, Grey». La battaglia metanarrativa tra Niall e Richard può essere ricondotta all’ossessione centrale del romanzo per la questione dell’invisibilità. Se Niall è il narratore, si trova «un livello sopra» i personaggi che sta narrando, e

dunque non è pienamente visibile a loro (che possono interagire con Niall come personaggio, ma non come narratore). Ma il romanzo tratta dell’invisibilità in modo apparentemente più diretto. Niall, Susan, e in qualche misura lo stesso Richard, sembrano possedere il «glamour».12 Glamour, spiega il romanzo, deriva da un’antica parola scozzese, e nel senso originale un glammer era un incantesimo, un sortilegio. Un giovane che era innamorato di una ragazza andava dall’anziana più saggia del villaggio e le pagava una somma perché gettasse un incantesimo d’invisibilità sulla sua amata, in modo che questa smettesse di essere l’oggetto del desiderio di altri uomini. Una volta che era stata glammered, colpita dall’incanto, la donna diventava libera da sguardi indiscreti.

Il romanzo non chiarisce come si possa produrre una simile invisibilità – forse inducendo nella gente l’incapacità di vedere? O forse perché certe persone riescono sempre a sfuggire all’attenzione e a confondersi sullo sfondo? Oppure grazie a un qualche genere di stregoneria che consente a Niall e agli altri di non essere visti (ma in questo caso non si tratterebbe di qualcosa che in sostanza equivale all’incapacità di vedere)? Come l’amnesia, anche l’invisibilità è un chiaro esempio di «niente dove dovrebbe esserci qualcosa». I due casi sono però molto diversi. Mentre l’amnesia produce un vuoto che viene riconosciuto e avvertito, un vuoto che chiede di essere colmato con una narrazione, l’invisibilità è un vuoto che dissimula se stesso. È un esempio di allucinazione negativa, un concetto introdotto dal romanzo quando, sotto suggestione ipnotica, Grey è indotto a non vedere una donna che si trova nella stessa stanza con lui. L’allucinazione negativa è un fenomeno sotto vari aspetti molto più interessante – e ben più eerie – dell’allucinazione «positiva». Non vedere ciò che c’è è al tempo stesso un evento più strano e più ordinario che vedere ciò che non c’è. L’incapacità di vedere, il processo involontario in base al quale tralasciamo un elemento che contraddice, o che semplicemente non si accorda, con le storie predominanti che raccontiamo a noi stessi, è parte del continuo «processo di editing» attraverso cui si produce ciò che sperimentiamo come identità. Nell’allucinazione negativa, oggetti ed entità vengono tipicamente percepiti, ma non visti dall’individuo. Se per esempio si induce qualcuno a

non vedere una scatola che sta poggiata sul pavimento, quest’individuo devierà dal suo percorso per evitare di calpestarla mentre attraversa la stanza, e soprattutto elaborerà una motivazione, un breve racconto per spiegare il suo comportamento. Il concetto di allucinazione negativa è stato introdotto da Freud e, come nel caso della confabulazione, getta luce sulle qualità eerie dell’inconscio, sulla sua produzione negativa. L’inconscio, qualcosa che costituisce esso stesso uno spazio vuoto, un’invisibilità, è a sua volta generatore di vuoti invisibili.

12. Il titolo originale del romanzo è The Glamour. [n.d.t.]

ON VANISHING LAND M.R. JAMES E BRIAN ENO

Come accennavo nell’introduzione al libro, le mie riflessioni sull’eerie sono nate da un progetto collaborativo realizzato insieme a Justin Barton e intitolato On Vanishing Land. La forma finale assunta dal progetto è stata quella di un saggio sonoro di 45 minuti, ma le sue origini risalgono a una camminata condotta nel Suffolk, nell’Est dell’Inghilterra, partendo dalla cittadina costiera di Felixstowe e procedendo verso l’interno fino a Woodbridge. L’intenzione originaria era quella d’identificare delle location per un altro progetto, ma il paesaggio ha richiesto che gli dedicassimo l’attenzione dovuta. I marcatori simbolici dell’inizio e della fine del viaggio sono stati il terminal container del porto di Felixstowe – una «vastità inesplorata», come l’ha definita Justin nel testo di On Vanishing Land – e Sutton Hoo, località celebre in tutto il mondo per la nave anglosassone che vi è stata ritrovata sepolta. Porto e sito di sepoltura offrono due differenti versioni dell’eerie. Il terminal container incombe sulla cittadina balneare in declino, con le gru del porto che torreggiano sopra la località vittoriana come i tripodi marziani di Wells. Avvicinandosi al porto dalla campagna, dalla visuale degli acquitrini di Trimley, si osservano le gru ergersi sullo scenario agreste come lucidi dinosauri cibernetici che irrompono in un paesaggio di Constable. Da quel punto di vista il porto appare quasi un fenomeno weird, un’eruzione aliena e incommensurabile nel mezzo di uno scenario «naturale». Alla fine però è la sensazione di eerie a prendere il sopravvento. Il luogo sembra avvolto da uno strano senso di silenzio che non ha nulla a che vedere con i reali livelli di rumore, visto che il porto è saturo dei clangori e degli strepiti meccanici

prodotti dalle operazioni di carico e scarico delle navi. Ciò che manca, almeno per lo spettatore che osserva il porto da una privilegiata posizione esterna, è qualsiasi traccia di linguaggio e socialità. Quando si osservano i camion portacontainer e le navi che manovrano, o gli stessi container, enormi scatoloni metallici che paiono impilati come una versione tangibile dei grafici a barre del cyberspazio di William Gibson, e che esibiscono nomi neutri e transnazionali da cui sembra affiorare una certa poetica ballardiana – Maersk Sealand, Hanjin, K-line – raramente si ha l’impressione di una qualsiasi presenza umana. Gli umani sono esclusi dalla vista, rinchiusi dentro cabine di guida, gru e uffici. La scena ricorda piuttosto la muta efficienza aliena del centro di distribuzione raffigurato in Terrore dallo spazio profondo, remake dell’Invasione degli ultracorpi realizzato da Philip Kaufman nel 1978. Il contrasto tra il terminal container, in cui gli umani fungono da invisibile collegamento tra sistemi automatizzati, e il clamore degli antichi moli londinesi, che il porto di Felixstowe ha di fatto rimpiazzato, la dice lunga sugli spostamenti di capitale e lavoro degli ultimi quarant’anni. Il porto è un segno del trionfo del capitale finanziario, e fa parte della massiccia infrastruttura materiale che alimenta l’illusione di un capitalismo «smaterializzato». È il volto eerie della patina materiale del capitale contemporaneo. Sutton Hoo, d’altra parte, risulta eerie almeno sotto due aspetti diversi. In primo luogo rappresenta un vuoto nella conoscenza. Le credenze e i rituali della società anglosassone che hanno costruito gli artefatti e seppellito la nave sono noti soltanto in parte (la nave stessa e gli oggetti ivi contenuti – compresi alcuni gioielli finemente lavorati – sono custoditi da tempo al British Museum: al Visitor Centre del sito ci sono soltanto delle copie). In secondo luogo Sutton Hoo, un tumulo funerario situato sopra la cittadina di Woodbridge, si presenta esso stesso come un luogo eerie: deserto, irreale, appartato. L’inizio e la fine del nostro viaggio nell’eerie si possono alternativamente marcare prendendo in esame due figure artistiche, quelle di M.R. James e Brian Eno. Una delle più note storie di fantasmi di James, «Fischia e verrò da te, ragazzo mio» (1904) è ambientata in una Felixstowe appena dissimulata, mentre l’album Ambient 4: On Land, pubblicato da Eno nel 1982, ha in parte a che vedere con il territorio costiero del Suffolk. James ha affrontato il paesaggio locale come uno studioso di antichità in vacanza

proveniente da Cambridge. Eno, dal canto suo, si è avvicinato al territorio come un individuo tornato nel natio Suffolk (è nato a Woodbridge), ricostruendo a livello sonoro «luoghi, tempi, climi e atmosfere dei paesaggi» che aveva esplorato da bambino. «Fischia e verrò da te» narra di un certo Parkins, uno studioso di Cambridge che si è recato nell’East Anglia per un periodo di vacanza dedicato alle passeggiate. Il racconto è ambientato a Burnstowe, trasparente allusione a Felixstowe. Parkins è un doppio che ricorda molto da vicino l’autore: come il protagonista del racconto, anche James era uno studioso di antichità residente a Cambridge che visitava di frequente il Suffolk. Il contrasto tra il mondo urbano che Parkins si è lasciato alle spalle e le ampie brughiere per cui si aggira rappresenta anche un conflitto tra illuminismo accademico e antiche credenze, e la crisi di Parkins è in larga parte prodotta dalla scoperta che il genere di spiegazioni accademiche che funziona perfettamente a Cambridge appare di colpo privo di valore di fronte a ciò in cui s’imbatte nello scenario del Suffolk. In «Fischia e verrò da te» e «Avvertimento ai curiosi» (1925), James elabora uno schema che servirà da modello a scrittori successivi come H.P. Lovecraft, Alan Garner, Nigel Kneale e David Rudkin. I racconti ruotano attorno al dissotterramento di due oggetti antichi – un fischietto di bronzo e un’antica corona – carichi di arcaiche minacce. Quando però la BBC ha adattato i racconti per la televisione, ha prodotto due film centrati sì su creature demoniache richiamate in vita da artefatti inerti, ma anche sul paesaggio dell’East Anglia, «desolato e solenne», così come lo definisce Jones in «Avvertimento ai curiosi». L’adattamento di «Fischia e verrò da te» realizzato nel 1968 da Jonathan Miller per la BBC in realtà non è stato girato a Felixstowe, ma nella leggendaria cittadina di Dunwich nel Suffolk e nel minuscolo villaggio di Waxham nel Norfolk. La scena clou in cui Parkin (nell’adattamento il nome del protagonista è stato leggermente modificato) s’imbatte nel misterioso fischietto mentre passeggia tra alcune lapidi su una scogliera erosa da una frana è stata chiaramente girata a Dunwich – un luogo che, come l’alter ego di James osserva mentre percorre a piedi il Suffolk, consiste ormai quasi completamente di assenza. Antico e fiorente porto marittimo, Dunwich fu quasi completamente distrutto da una tempesta nel 1328: quasi tutto ciò che rimase allora fu poi gradualmente ripreso dal mare, al punto che oggi restano

in piedi soltanto un pugno di case e una chiesa, minacciate anch’esse dalla lenta voracità dell’oceano. Waxham è un altro luogo dominato dall’assenza. Con i suoi pochi cottage e una chiesa in rovina, appare come lo scheletro di un villaggio. Per le sue riprese, tuttavia, Miller non ha utilizzato nessuno degli edifici riconoscibili del luogo, preferendo dirigere la macchina da presa sul territorio semi-astratto della costa. L’ampia e anonima spiaggia di Waxham è una versione perfetta del panorama descritto da James: «una lunga striscia di spiaggia, sassi e attorno sabbia, attraversata a brevi intervalli da frangiflutti neri che arrivavano a toccare l’acqua», una «scena desolata» in cui «non si vedeva nessun attore» e definita dalla «mancanza di qualsiasi punto di riferimento». Nella versione di Miller, Parkin, impersonato da un sontuoso Michael Hordern, è un positivista logico in crisi la cui mente si sbriciola con la stessa rapidità della costa dell’East Anglia. Hordern, qui al suo apice, rende magistralmente il ripiegamento di Parkin su se stesso: i suoi gesti e le sue espressioni alludono a spunti di conversazione e aneddoti che funzionano più nel teatro della sua mente che in qualsiasi reale contesto interpersonale. Ne viene fuori il ritratto di un uomo molto più a suo agio tra i libri che fra la gente. Alla maniera del filosofo A.J. Ayer, il Parkin di Hordern respinge l’idea della vita dopo la morte come vuota di significato. Ma l’incertezza del suo eloquio biascicato tradisce la contraddittorietà della sua posizione filosofica. A un certo livello, le dune deserte e la brughiera solitaria appaiono come un corrispondente fisico dello stato mentale sempre più solipsistico di Parkin. Eppure la spiaggia è anche il luogo dove Parkin si scontra con l’esterno, le forze aliene che scompaginano fatalmente la sua interiorità. Esiste un’affinità molto stretta tra l’adattamento televisivo di «Fischia e verrò da te» realizzato da Miller e On Land di Eno: entrambi costituiscono in effetti una meditazione sull’eerie così come si manifesta nel territorio dell’East Anglia. Con la sua insistenza sul paesaggio, i suoi cupi silenzi, le sue lunghe scene quasi prive di azione, è come se Miller avesse elaborato una specie di equivalente televisivo della musica ambient inventata più tardi da Eno. In On Land, scrive Eno nelle note di copertina dell’album, «il paesaggio ha cessato di fare da sfondo a qualcos’altro che succede di fronte; tutto ciò che avviene è invece parte del paesaggio. Non esiste più distinzione netta tra primo piano e sfondo». L’eeriness del film di Miller deriva dal suo modo di

trattare il paesaggio come se fosse un vero e proprio personaggio. Il film riflette una seducente lentezza propria delle brughiere e delle spiagge semideserte, sublimi nella loro fosca desolazione. Parkin sottovaluta a sue spese le forze di quei luoghi arcaici e arcani. Secondo James, scrittore dell’orrore nonché cristiano tradizionalista, l’attrazione per l’esterno risultava sempre fatale, come indicato con chiarezza dal titolo del suo altro racconto «Avvertimento ai curiosi». On Land appare invece più aperto all’idea di un esterno che non deve per forza risultare minaccioso o distruttivo. Con i suoi delicati, turbinosi movimenti, i suoi gorgoglii e mormorii, le sue sussurranti suggestioni di coscienza nonorganica, On Land richiama alla mente un paesaggio onirico brulicante di dettagli. David Sheppard, il biografo di Eno, ha scritto che, nonostante tutte le presunte evocazioni dell’infanzia di Eno, l’atmosfera di On Land appariva «colma più di ebbrezza sensuale e introversa che di struggimento sentimentale». On Land è di certo sensualmente inebriante, ma «introverso» mi pare un termine curioso per un disco che sembra mancare del tutto d’interiorità psicologica. Nel disco emerge senza dubbio un senso di solitudine, di arretramento dal caos della banalità sociale, ma ciò risulta come una precondizione all’apertura verso l’esterno, dove esterno indica a un primo livello una natura radicalmente de-pastoralizzata, e ai limiti più estremi un incontro differente e intensificato con il Reale. Sempre nelle note di copertina dell’album, Eno racconta che l’ispirazione di On Land è nata in parte dall’ambizione di creare un «equivalente sonoro» di Amarcord di Fellini (1973). L’utilizzo del suono spalanca l’eerie. Il suono acusmatico – un suono cioè distaccato da una fonte visibile – possiede una dimensione intrinsecamente eerie, e una delle tracce più conturbanti di On Land è «Shadow», in cui emerge un uggiolio doloroso che può essere una voce umana, il gemito di un animale o un’allucinazione sonora prodotta dal movimento del vento. Questo potrebbe suggerire la presenza di un agente ostile, ma ciò che rende tanto notevole On Land è anche il modo in cui appare aperto alla possibilità di un eerie non riconducibile a generi come i racconti dell’orrore e di fantasmi: un esterno che – pulsando oltre i confini dell’ordinario – risulta dolorosamente allettante seppure sorprendentemente alieno. Per James, l’esterno porta sempre il marchio dell’ostile e del demoniaco. Quando a Natale lo scrittore leggeva i suoi racconti di fantasmi a una platea riunita a Cambridge, gli scorci di

esteriorità in essi contenuti procuravano certo un brivido agli ascoltatori, ma si accompagnavano anche a un’energica ammonizione: chi si avventura oltre questo mondo appartato lo fa a suo rischio e pericolo. Eppure il mondo che una figura vittoriana come James cercava di difendere in pieno ventesimo secolo era da molti punti di vista già scomparso, o destinato a scomparire. Il Bath Hotel di Felixstowe – sede abituale dei soggiorni di James e modello dell’albergo di «Fischia e verrò da te» – fu bruciato completamente dalle suffragette nel 1914. Per terminare vorrei sottolineare anche le dimensioni dell’eerie che James ha forcluso, ma mi limiterò per il momento a prendere in considerazione due scrittori che seguono James nell’esplorazione della versione maligna dell’eerie: Nigel Kneale e Alan Garner.

EERIE THANATOS NIGEL KNEALE E ALAN GARNER

Il pulp horror, la fantascienza arcaica e gli aspetti più cupi del folclore condividono un’ossessione per la riesumazione o lo scontro con antichi super-armamenti classificati come Demoni Inorganici o artefatti xenolitici. Tali vestigia o artefatti sono generalmente rappresentati come oggetti costituiti da materia non organica (pietra, metallo, ossa, anime, ceneri ecc.). Autonoma, cosciente e indipendente dalla volontà umana, la loro esistenza è caratterizzata da uno status di abbandono, da un sonno immemorabile e da forme provocanti e raffinate. [...] I demoni inorganici sono parassitari per natura, [...] producono i loro effetti a partire da un ospite umano, sia esso un individuo, un gruppo etnico, una società o un’intera civiltà. Reza Negarestani, Cyclonopedia: Complicity with Anonymous Materials

Negarestani potrebbe descrivere qui la struttura utilizzata da James in «Fischia e verrò da te» e «Avvertimento ai curiosi». Lo stesso schema viene tuttavia utilizzato anche da due eredi di James, Nigel Kneale e Alan Garner. In alcuni dei loro lavori più importanti, Kneale e Garner mostrano «demoni inorganici»/artefatti disseppelliti che operano come macchine fatali, che spingono i personaggi verso azioni letali. Sia Kneale che Garner esplorano i contorni di ciò che potremmo definire un’eerie Thanatos – una pulsione di morte transpersonale (e transtemporale), in cui lo «psicologico» emerge come effetto di forze provenienti dall’esterno. La Thanatos di Quatermass

Le serie televisive alle quali Kneale deve in gran parte la sua notorietà di autore vengono spesso definite come lavori che operano negli interstizi tra generi diversi (in particolare horror e fantascienza). Io tuttavia sostengo che l’aspetto più tipico dei lavori migliori di Kneale sia il loro senso dell’eerie. A differenza di M.R. James, Kneale non risolve le sue storie all’interno di una logica soprannaturale. Anzi, la mossa preferita di Kneale – evidentissima nella serie Quatermass and the Pit13 – è quella di offrire una nuova spiegazione scientifica a fatti che in precedenza erano stati interpretati come soprannaturali. Ciò che secondo un determinato registro può essere classificato come una «forza malvagia», in un altro registro appare come un particolare tipo di agente materiale. È vero, ammette Kneale, fin dall’Illuminismo la scienza ha sostenuto che oltre la materia non esiste alcuna sostanza spirituale, ma il mondo fisico in cui viviamo è ben più alieno ed estraneo di quanto avessimo creduto in precedenza. E invece d’insistere sulla preminenza del soggetto umano che s’immagina portatore privilegiato di ragione, Kneale indica che un’indagine sulla natura del mondo così com’è comporta inevitabilmente anche una revisione di ciò che gli esseri umani credevano di essere. Al centro dell’opera di Kneale sta la questione di agentività e intento. Secondo alcuni filosofi, la capacità d’intenzionalità è ciò che separa in modo netto gli esseri umani dal mondo naturale. L’intenzionalità comprende anche l’intento in senso stretto, ma in realtà si riferisce alla capacità di sentire in un certo modo rispetto alle cose. I fiumi possono anche possedere un’agentività – producono dei cambiamenti – ma non si curano certo di ciò che fanno: non hanno alcun tipo di atteggiamento nei confronti del mondo. Potremmo affermare che lo scienziato Bernard Quatermass, la più celebre creazione di Kneale, appartiene a una corrente di pensiero illuminista radicale tormentata da tale distinzione. Esponenti dell’illuminismo radicale come Spinoza, Darwin e Freud ripropongono di continuo la questione: fino a che punto l’idea d’intenzionalità può essere applicata agli esseri umani, per non parlare poi del mondo naturale? La questione si pone anche a causa della totale naturalizzazione su cui ha insistito l’illuminismo radicale: se gli esseri umani appartengono appieno al cosiddetto mondo naturale, su quale base possiamo pretendere di considerarli un caso speciale? L’illuminismo radicale trae conclusioni diametralmente opposte rispetto agli argomenti dei cosiddetti

neomaterialisti come Jane Bennett. I neomaterialisti come la Bennett ammettono che la distinzione tra esseri umani e mondo naturale non sia più difendibile, ma per loro ciò implica che numerose caratteristiche in precedenza ritenute proprie dei soli esseri umani in realtà sono presenti in tutta la natura. L’illuminismo radicale procede invece in direzione opposta, mettendo in discussione il fatto che esista realmente qualcosa come l’intenzionalità: e se esiste, è possibile affermare che gli esseri umani la possiedano? La risposta è complessa: può darsi che negli esseri umani operi qualcosa di simile all’intenzionalità, ma ciò non corrisponde affatto a quanto gli esseri umani, nelle loro superficiali autoriflessioni fenomeniche, considerano come loro personalità, sentimenti o intenzioni coscienti. Qui entra in gioco Kneale. Quatermass scopre il fondamento meccanicoautomatico-alieno di quanto è stato considerato umano. Ciò che alla fine emerge come oggetto della ricerca di Quatermass è quella che Freud, in Al di là del principio di piacere (1920), chiama Thanatos. In singolare contrasto con l’idea neomaterialista della «materia vibrante», che implica che tutta la materia sia in qualche misura vivente, l’ipotesi suggerita dalla postulazione di Thanatos da parte di Freud è che nulla è vivente: la vita è una regione della morte. L’ipotesi più tardi avanzata da Freud di una lotta dualistica tra Thanatos ed Eros può essere vista come un arretramento dal minaccioso monismo di Al di là del principio di piacere, dove si sostiene che tutta la vita altro non è che un cammino verso la morte. Ciò che viene definito come vita organica è in realtà una sorta di ripiegamento dell’inorganico. Ma l’inorganico non è la controparte passiva, inerte di una vita che si suppone autoalimentata: al contrario, esso possiede una sua agentività. Esiste una pulsione di morte, che nella formulazione più radicale non è pulsione verso la morte, ma pulsione della morte. L’inorganico è il pilota impersonale di ogni cosa, compreso ciò che sembra personale e organico. Visti secondo la prospettiva di Thanatos, noi stessi diventiamo un caso esemplare di eerie: esiste un’agentività che opera in noi (l’inconscio, la pulsione di morte), che però non si trova dove o come ci aspettavamo che fosse. Ma non finisce qui. Il punto non è che siamo ciecamente schiavi della pulsione di morte, ma che se non lo siamo, ciò avviene a causa di un processo altrettanto impersonale: la scienza, che consiste in parte nella scoperta e nell’analisi precisamente dei processi che Freud chiama Thanatos. La figura dello scienziato illuminista radicale, dunque, è quella un individuo che

comprende la natura thanatoide dei propri impulsi, ma che – proprio perché la comprende – offre qualche possibilità di fuga da essi. Esplorerò ora quest’aspetto esaminando due celebri lavori di Kneale, le serie tv Quatermass and the Pit (1958-59) e The Stone Tape (1972), più Quatermass del 1979, l’ultima serie della sequenza e una delle meno apprezzate dell’autore. Quatermass and the Pit racconta degli scavi in un’immaginaria stazione della metropolitana londinese a Hobbs End. Gli operai scoprono qualcosa che si rivela essere un’astronave marziana piena di cadaveri di esseri repellenti simili a insetti. Alieni, immaginiamo noi. Invece il genio della sceneggiatura di Kneale consiste nel fatto che i marziani non si rivelano affatto «alieni» nel senso di esseri «diversi da noi». Scappati alla distruzione del loro pianeta, cinque milioni di anni fa i marziani si sono incrociati con ominidi protoumani per perpetuare la loro specie. Ciò compromette fatalmente la possibilità di tracciare una netta distinzione tra umani e alieni. Mano a mano che le serie di Quatermass si succedono, l’alieno diventa sempre più intimo: nella prima serie, The Quatermass Experiment, gli alieni si trovano nello spazio; nella seconda, Quatermass II (una sorta di versione britannica dell’Invasione degli ultracorpi) gli alieni sono già tra noi; e nella terza, Quatermass and the Pit, gli alieni siamo noi. Alla fine della serie, quando Quatermass prende posizione contro i marziani e dichiara con fervore la sua speranza che la Terra non diventi «il secondo pianeta morto dei marziani», questo gesto può dare l’impressione di un arretramento rispetto al messaggio impietoso del film, cioè che anche noi siamo marziani. Eppure, sebbene Kneale abbia già decostruito l’opposizione tra Eros e Thanatos, umano e marziano – districa l’umano e scoprirai che è soltanto una piega nel corpo di una Thanatos organica – ha ancora diritto a riporre fiducia nella scienza che ha scoperto tali verità. Quatermass and the Pit, ricostruzione delle origini dell’umanità ben più cupa di quella narrata da 2001: Odissea nella spazio di Kubrick (su cui torneremo in un capitolo successivo), presenta parecchi punti di contatto con Il mondo sommerso di James Graham Ballard (1962), soprattutto riguardo al tema di ciò che Greil Marcus nel suo Tracce di rossetto definisce «memoria filogenetica». In Quatermass and the Pit, la memoria è una memoria «letterale», una traccia mentale profondamente sommersa ma ancora accessibile (innescata nel film dal dissotterramento dell’astronave). Nel

Mondo sommerso le «memorie» sono codificate nella forma fisica del corpo umano, i «paesaggi spinali» di Ballard. Quatermass and the Pit è archeologico, mentre Il mondo sommerso è geologico. Tutt’e due però concepiscono la memoria e il sistema nervoso umano come registrazioni inorganiche – tracce di eventi traumatici che gli umani devono decodificare oppure ripetere. Kneale ha posto questo tema in primo piano nel suo The Stone Tape. Qui un gruppo di scienziati s’insedia in una nuova struttura di ricerca. Appare presto evidente che l’edificio è infestato da presenze: una componente del gruppo, programmatrice di computer, si rivela particolarmente «sensibile» allo spettro, quello di una giovane domestica del diciannovesimo secolo morta in seguito a una misteriosa caduta. Gli scienziati passano così inevitabilmente di colpo da un atteggiamento scettico di rifiuto al tentativo febbrile di spiegare e tracciare il fenomeno. La tesi di Kneale qui è che fantasmi e presenze sono fenomeni di particolare intensità che rimangono letteralmente registrati nella materia, in questo caso nella pietra di cui è costruita la stanza (da qui l’origine del «nastro di pietra» citato nel titolo). Per una curiosa coincidenza, gli scienziati in questione erano proprio alla ricerca di un mezzo di registrazione più compatto e durevole di nuovo tipo. Il fenomeno che sperimentano offre loro non soltanto la possibilità di utilizzare un nuovo supporto, ma anche un nuovo dispositivo di registrazione: il sistema nervoso umano. In un breve momento di esultanza prima dell’inevitabile lugubre epilogo, gli scienziati ridono e scherzano immaginando un sistema di comunicazione senza fili che consente di indirizzare le trasmissioni direttamente al cervello (qualcosa di simile al cyberspazio di William Gibson, che qui però può fare a meno anche dei suoi elettrodi). L’attività febbrile degli scienziati finisce tuttavia per cancellare il supporto – o perlomeno, l’ultima cosa che vi era stata registrata. Qualcos’altro, qualcosa di ben più arcaico, si agita al di sotto di esso, atterrendo la programmatrice al punto di farla precipitare nello stesso punto della ragazza del diciannovesimo secolo e morire in preda al terrore. Alla fine Kneale implica dunque il crollo della separazione tra dispositivo di registrazione e materiale registrato. All’inizio le grida spettrali sembrano passive e inerti, incapaci di esercitare un’agentività quanto la putrefazione secca che affligge la stanza infestata: invece alla fine gli esseri umani si

rivelano intrappolati in una terribile coazione a ripetere. È come se la stanza – che sorge, s’insinua nel finale, sul sito di qualche antichissimo sacrificio – istighi gli scienziati ad affrettare un’altra morte, a replicare una volta di più la stessa antica sequenza. I «registratori» umani diventano essi stessi parte di un disegno antichissimo di ripetizione insensata. Eerie Thanatos, un’altra volta... Thanatos incombe anche sulla sottovalutata serie tv finale, intitolata semplicemente Quatermass. Kneale la concepì come un requiem per gli anni Sessanta, una cupa parabola sulle pulsioni thanatropiche covate dal messianismo giovanile. Invece che al sogno hippie di rigenerare la Terra, i giovani post punk e proto-punkabbestia ubriachi di trance immaginati da Kneale – il Popolo del Pianeta – aspirano alla fuga verso un altro mondo, verso un altro sistema solare. Lo scenario di Quatermass nasce direttamente dalla proiezione delle ansie degli anni Settanta: l’ecosfera asfissiata, la penuria di carburante, i blackout energetici, la disintegrazione del contratto sociale in una guerra hobbesiana di tutti contro tutti – insomma, le rovine dell’utopia degli anni Sessanta. Le barricate di strada e le gang armate che vagavano per la città di Quatermass (ispirate da Baader Meinhof, Brigate Rosse ed Angry Brigades inglesi) sarebbero potute uscire dalla copertina di un album dei Killing Joke come da una trasmissione elettorale del Partito Conservatore. Era questo il clima in cui immaginari e impulsi – reazionari, neoarcaici e rivoluzionari – collassavano uno sull’altro nel 1979, distrutti come i veicoli abbandonati con cui la colonia geriatrica della serie costruisce il suo nascondiglio rizomatico. Volendo immaginare un analogo del Quatermass del 1979 è possibile guardare ai principali dischi post punk dello stesso anno, come Replicas dei Tubeway Army e Unknown Pleasures dei Joy Division, piuttosto che a film di cassetta come Star Wars e Incontri ravvicinati del terzo tipo (entrambi del 1977), cui all’epoca la serie tv fu sfavorevolmente paragonata. Ciò detto, le prime, ossessive scene di Incontri ravvicinati potrebbero quasi portare la firma di Kneale, anche se poi nel finale tutto viene rovinato dallo show luminoso alla Jean-Michel Jarre e dall’apparizione di alieni quasi gradevoli. Qui a scomparire è soprattutto l’eerie stesso, quando gli automatismi iniziali dei protagonisti e le domande riguardanti gli alieni (anzi, la questione se esistano davvero degli alieni) cedono il passo a quello che da allora in poi è diventato lo schema fisso dei kolossal di fantascienza: l’indispensabile esibizione di costosissimi effetti speciali.

Ciò che Incontri ravvicinati conserva in comune con Quatermass è la visione di popolazioni umane che vengono convinte a farsi complici inconsce delle potenze aliene. Quatermass è però abilissimo nel resistere alla tentazione di antropomorfizzare gli alieni, cui invece soccombe Spielberg. I propositi degli alieni di Quatermass restano insondabili e opachi quanto il loro aspetto fisico. Tutto ciò che «veniamo a sapere» su di loro nasce da congetture, inferenze e speculazioni. Sono, in ogni senso, anni luce lontani da noi. I grandi temi di Kneale – la familiarità dell’alieno, il desiderio di annichilimento presente negli esseri viventi – emergono questa volta da un’analisi del millenarismo giovanile. In Quatermass la rappresentazione della cultura giovanile è prevedibilmente più vicina a Bomb Culture di Jeff Nuttall (1968) che alle utopie dell’Era dell’Acquario. Il desiderio di ammassarsi in folle viene interpretato sintomaticamente come l’esecuzione di un programma radicato nel profondo dell’inconscio dei giovani. Il consueto metodo cybergotico di Kneale – disseppellire il presente nei resti del Passato Profondo – si concentra stavolta sui cerchi di pietra del Neolitico. Quatermass ipotizza che i siti megalitici rappresentino registrazioni di traumi, in cui le pietre sono disposte a commemorazione di stermini di massa: il tessuto cicatriziale della Terra. (Questo parallelo tra cerchi megalitici ed eventi astro-apocalittici in realtà era già stato avanzato tre anni prima da un programma per bambini di ITV incredibilmente eerie intitolato Prigionieri delle pietre). I cerchi megalitici erano i luoghi di quelli che Quatermass chiama in modo sinistro i «raccolti» precedenti della razza umana. Chi è in grado di dire che aspetto abbiano e quali siano le motivazioni delle specie che mietono l’umanità? Sete di proteine? Vampirismo energetico? Quatermass può soltanto tirare a indovinare. Qui Kneale attinge alla suggestione eerie prodotta dai cerchi di pietre. Come osservato in precedenza, i cerchi megalitici ci mettono a confronto con una struttura simbolica ormai completamente disintegrata, al punto che il passato profondo dell’umanità si rivela in realtà un’indecifrabile civiltà aliena, con rituali e forme di soggettività a noi completamente ignoti. Kneale rimase deluso dalla scelta dell’attore John Mills per il ruolo di protagonista, imposto dalla casa di produzione che era alla ricerca di un grosso nome: l’autore avrebbe preferito André Morell e Andrew Keir, che

avevano recitato la parte dello scienziato rispettivamente nella versione tv e in quella cinematografica di Quatermass and the Pit. Si dice che Kneale considerasse Mills non sufficientemente eroico, poco riconoscibile rispetto alla stessa figura interpretata da Morell e Keir. Eppure la rabbia calma di Mills, il suo misto di compassione e fastidio per l’umanità, la sua sdegnosa ma tenace dignità ne hanno fatto quello che forse è il Quatermass definitivo. Mills conferisce enorme autorità allo spinozismo cosmico dell’esito morale della serie. Quando il giovane astronomo Joe Kapp – appena ripresosi dallo shock di aver perso l’intera famiglia – parla di «male», Quatermass lo corregge: «Forse il male è sempre il bene di qualcun altro. Forse si tratta di una legge cosmica». Il tempo mitico di Red Shift Si dice che l’eccezionale romanzo Red Shift di Alan Garner (1973) sia stato ispirato dalla lettura di una scritta vista dall’autore in una stazione ferroviaria, che diceva Non davvero ora non più. La frase ha qualcosa di incredibilmente eerie, criptico ed evocativo, specie nella sua versione di graffito anonimo. Che cosa intendevano dire gli ignoti autori di quei versi erranti, e che cosa significavano per loro? Quale evento li ha spinti a scriverli – crisi personale, evento culturale, rivelazione mistica di qualche genere? E a parte Garner, chi altri ha letto quella frase scritta sul muro di una stazione? O è stato soltanto lui a vederla? Non voglio insinuare qui che se la sia inventata – ma la frase cattura in modo talmente perfetto i vortici temporali dell’opera di Garner che sembra quasi essere stata un messaggio speciale diretto soltanto a lui. E magari è stato proprio così, indipendentemente da ogni possibile «intenzione» dell’autore del graffito. Se dobbiamo credere alla fonte anonima più consultata del mondo, la frase Non davvero ora non più era scarabocchiata col rossetto sotto i nomi di due innamorati scritti col gesso su una parete. Nel qual caso la spiegazione della frase appare tutto sommato abbastanza prosaica. Qualcuno – uno dei due amanti, oppure uno dei loro amici, nemici o rivali, oppure un estraneo – ha fornito un commento (sarcastico, mesto, rabbioso?) sullo stato della relazione tra i due. Una frase non banale, ma certamente chiara e tipica di una conversazione – Non davvero ora non più – assume un’opacità poetica in

virtù dell’omissione di una virgola. Eppure nemmeno quest’apparente sdrammatizzazione riesce a dissipare del tutto il carattere eerie della frase: Non davvero ora non più. Affermare che nell’incontro di Garner con la scritta vi fosse qualcosa di predestinato significa duplicare l’intrinseca, indelebile eeriness della frase. Perché cosa indica la frase, se non una fatale temporalità? Non adesso, non più, non davvero. Significa che il presente si è sgretolato, che è scomparso – niente più ora? Che forse ci troviamo nel tempo del sempre-già, quando il futuro è già stato scritto; nel qual caso non è il futuro, non davvero? Ma non corriamo troppo. Che cosa succede esattamente in Red Shift? Il «romanzo» – etichetta che sembra adattarsi a stento a un testo la cui densità criptica lo rende piuttosto simile a un poema in prosa – accosta tre diversi periodi: la Britannia dell’epoca romana, la guerra civile inglese a metà del Seicento e il mondo contemporaneo dell’epoca della pubblicazione del libro. L’episodio ambientato nella contemporaneità è incentrato sulla relazione intensa, tormentata e soffocante tra Tom e Jan. La loro unione si presenta complicata e frustrante fin dall’inizio. Agli ostacoli esterni – l’ostilità dei genitori di Tom alla relazione; la distanza fisica tra i due, ora che Jan si è trasferita a Londra – si aggiungono le difficoltà interne alla coppia, e soprattutto l’angoscia prodotta dall’ossessiva gelosia e possessività di Tom, che diventa perfida, addirittura letale, quando lui scopre che Jan ha una relazione con un uomo più vecchio. Il desiderio di Tom di possedere Jan, di affermare il proprio diritto di proprietà sulla sua esistenza, finisce così per allontanare Jan, rivelandosi rapidamente più distruttivo per lui che per lei, che poco alla volta rivendica la sua autonomia e alla fine tronca la relazione. L’episodio della guerra civile inglese ha per protagonisti un giovane che soffre di epilessia, Thomas Rowley, e la moglie Margery, che vivono a Barthomley, un villaggio del Cheshire. Lui e gli altri abitanti del villaggio sono barricati in chiesa con difese improvvisate per respingere le truppe realiste, quando Rowley subisce un attacco epilettico e preme per errore il grilletto di un’arma, scatenando la reazione brutale dei realisti. Le donne sono violentate e tutti gli uomini meno Rowley vengono uccisi. Rowley e la moglie vengono invece aiutati a mettersi in salvo da Thomas Venables, uno dei realisti più violenti che è però un antico pretendente della moglie. L’episodio dell’occupazione romana è centrato su Macey, uno dei

soldati romani appartenenti alla Nona Legione distrutta.14 L’innocente Macey fa amicizia con una sacerdotessa celtica che altri soldati hanno violentato e catturato. Alla fine la sacerdotessa avvelena i soldati uccidendoli e fugge con Macey. Il rapporto fra i tre momenti temporali del romanzo è enigmatico, se non del tutto incomprensibile. A parte il ripetersi di determinati eventi traumatici, i tre episodi hanno in comune tra loro soltanto un oggetto materiale: si tratta di un’ascia votiva neolitica che assume un significato simbolico per tutt’e tre le coppie. Tale ascia svolge varie funzioni – sembra marcare nello stesso «tempo» continuità e simultaneità, così come anche fungere da sorta di innesco (causando ad esempio l’attacco epilettico di Rowley e le reazioni violente di Macey). Ciò che Red Shift rivela non è chiaramente una forma di temporalità lineare, dove diversi episodi storici si susseguono semplicemente uno dopo l’altro. Né il romanzo presenta gli episodi secondo un puro e semplice rapporto di giustapposizione, privo di ogni connessione causale fra le parti che appaiono legate tra loro solo da alcune somiglianze. E nemmeno vediamo all’opera l’idea – ormai familiare nelle convenzioni fantasy e fantascientifiche – di una causalità che opera «all’indietro» e «in avanti» nel tempo, facendo in modo che passato, presente e futuro s’influenzino a vicenda. Quest’ultima possibilità sembra essere la più prossima alla vicenda di Red Shift, ma il rimescolamento del tempo attuato dal romanzo è talmente radicale da lasciarci del tutto privi di un senso certo di «passato», «presente» e «futuro»: non davvero ora non più. L’oggi non esiste più, allora, perché il passato ha consumato il presente, ridotto a una serie di ripetizioni compulsive, e ciò che sembrava nuovo, che appare essere ora, non è altro che l’esecuzione di qualche disegno fuori del tempo? Questa formulazione, forse, è più vicina alla fredda fatalità che sembra (s)garbugliarsi in Red Shift. Eppure, se diversi momenti storici sono in un certo senso simultanei, ciò non significa forse non che non esisteva un adesso, ma che tutto è adesso? Se guardiamo Red Shift nella sua relazione con gli altri romanzi di Garner e con l’opera di altri scrittori, emerge un livello completamente diverso di ripetizione eerie. Il romanzo è una sorta di ripetizione-senzaorigine. Può essere letto come un’estensione e intensificazione del modello stabilito dai precedenti romanzi di Garner, Elidor (1965) e The Owl Service

(1967). In una conferenza del 1975 intitolata «Inner Time», Garner spiegò che i suoi romanzi potevano essere visti tutti come «espressione» di un particolare mito, sicché Elidor era un’«espressione» della ballata «Childe Rowland and Burd Ellen», mentre The Owl Service lo era del mito di Lleu, Blodeuwedd e Gronw, tratto dalla mitologia gallese del Mabinogion. Per Red Shift il materiale di partenza era costituito dalla ballata di Tam Lin. A ogni romanzo successivo, la relazione tra la fiction di Garner e il mito da essa «espresso» diventa sempre più obliqua, al punto che, all’epoca di Red Shift, come osserva Charles Butler in un importante saggio sul romanzo, parecchie persone tendevano a considerare il collegamento con il mito di Tam Lin come immaginario o forzato. Butler riassume il mito – o forse sarebbe meglio descriverlo come una serie o un insieme di miti – di Tam Lin in questi termini: Della ballata di Tam Lin esistono numerose versioni. Ben nove sono contenute in English and Scottish Popular Ballads di Child, che non è certo una raccolta esaustiva. Anche se come vedremo tra le diverse versioni esistono differenze piuttosto rilevanti, la vicenda si può riassumere come segue: una giovane donna di nome Janet (Margaret in alcune versioni) si reca a Cartehaugh (o Kertonha, Chaster’s Wood, Chester Wood ecc.) contro la volontà dei genitori, che temono possa perdere la verginità per opera di Tam Lin, un giovane folletto che vive in quel luogo. Giunta laggiù, la giovane coglie un fiore ed evoca Tam Lin. Il folletto eccepisce alla presenza della donna lì, ma questa replica in tono di sfida che Carterhaugh è di sua proprietà e che lei ha lo stesso diritto che ha lui di trovarsi là. Quando la giovane torna a casa, appare evidente che è incinta. I familiari (variamente descritti come madre, sorella, fratello o servitore di famiglia) sono sconvolti. La ragazza afferma che Tam Lin è il padre del bambino e torna a Carterhaugh per incontrarlo, oppure (in altre versioni) per trovare un’erba che la faccia abortire. Tam Lin compare e spiega di non essere affatto un folletto, ma un giovane di sangue umano rapito dalla Regina delle Fate quand’era bambino. Sebbene la sua vita tra le fate sia piacevole, ogni sette anni nel giorno di Halloween le fate devono pagare «una decima all’inferno», ed è probabile che quell’anno la vittima sarà lui. Se Janet vuole salvarlo (e dunque dare un padre al bambino), deve eseguire una complessa procedura che prevede di disarcionare Tam Lin dal cavallo mentre galoppa insieme al gruppo delle fate, restando aggrappata a lui mentre subisce una serie di spaventose trasformazioni, e alla fine rivestirgli

il corpo nudo con il suo mantello verde. La donna compie quanto richiesto e libera perciò Tam Lin dalla Regina delle Fate, che si risente per la perdita del ragazzo.

Butler sostiene in maniera convincente che Red Shift, nonostante i pochi riferimenti espliciti a Tam Lin, contiene numerosi e complessi echi del mito. I più scontati e superficiali si palesano attraverso i nomi di certi personaggi – Tom/Thomas e Jan/Margery come variazioni di Tam e Janet/Margaret – anche se le corrispondenze più profonde emergono a livello di temi: l’idea della possessione (che in Garner, invece di assumere una dimensione soprannaturale, si manifesta attraverso gli attacchi epilettici, traumatici vuoti d’identità personale che per la stessa ragione costituiscono anche delle forme d’estasi) e del «restare aggrappati» (di Margery e della sacerdotessa che salva Thomas/Macey). Più in generale, Tom e Jan vengono espulsi dal tempo lineare per essere catapultati in un tempo mitico; o piuttosto, l’illusione di linearità viene distrutta dalle simultaneità e dalle ripetizioni eerie di un tempo mitico. Ciò è in sostanza quanto accade ai tre personaggi principali di The Owl Service, che si ritrovano coinvolti in una sorta di lotta erotica mortale quando assumono i ruoli delle figure leggendarie di Lleu, Blodeuwedd e Gronw. È come se l’incontro tra l’energia erotica adolescenziale e un artefatto materiale (in questo caso un servizio da tè decorato con motivi ispirati a una civetta) innescasse una ripetizione dell’antica leggenda. Non è tuttavia chiaro se «ripetizione» rappresenti qui il termine più appropriato. Sarebbe forse più corretto affermare che il mito viene qui ri-rappresentato, e concepito come una sorta di struttura che può essere messa in atto ogniqualvolta si verificano le giuste condizioni. Esso però non si ripete realmente, quanto piuttosto sequestra gli individui fuori dal tempo lineare e li scaraventa nel «proprio» tempo, dove ogni iterazione del mito rappresenta in un certo senso sempre la prima volta. Il mito qui agisce come qualcosa di simile al fatale schema compulsivo di cui cadono vittime gli scienziati di The Stone Tape. In Red Shift Garner in effetti trasforma quanto era narrato in The Owl Service in qualcosa di rappresentato. Il lettore è trascinato all’interno del tempo mitico, dal momento che l’uso della compressione e dell’ellissi operato da Garner sottopone tempo lineare e narrazione a una tale pressione

da farli quasi scomparire. La sensazione che se ne ricava non è che la percezione o l’esperienza del tempo lineare sia stata alterata dal trauma, ma che il tempo «stesso» sia stato traumatizzato – al punto da farci giungere a intendere la «storia» non come una sequenza casuale di eventi, ma come una serie di agglomerati traumatici. Questo tempo spezzato, questo senso della storia come malefica ripetizione viene «sperimentato» da tutti e tre i principali personaggi maschili (Tom/Thomas/Macey) come possessione e crollo: ho messo «sperimentato» fra virgolette perché il genere d’interruzione invalidante della soggettività che i tre personaggi subiscono sembra obliterare le condizioni stesse che consentono il verificarsi dell’esperienza. Per questo motivo ritengo che Butler corra un po’ troppo quando sostiene che «i tre uomini diventano in effetti un’unica personalità sovrastorica, le cui esperienze sono tutte contemporanee». Si potrebbe tranquillamente affermare il contrario: che i tre uomini, invece di diventare in un certo senso lo «stesso» individuo, in realtà mancano di qualsiasi senso di individualità coerente e unitario. Allo stesso modo, si potrebbe sostenere che, piuttosto che condividere lo «stesso» momento, Macey, Tom e Thomas sussistono in un tempo frammentato – un tempo cui sono state sottratte identità, unità e presenza. Come l’opera di Kneale, dunque, anche quella di Garner è ossessionata da un problema di agentività e intenzionalità. Il libero arbitrio fa cilecca, o perlomeno appare radicalmente compromesso. La libertà umana è ben diversa dal «libero arbitrio», e può venire affermata soltanto se fa i conti con agentività che invece appartengono primariamente a strutture (inconsce, mitiche) che traggono potere dalle persone che segregano al loro interno. Il paesaggio – i paesaggi del Cheshire di molti romanzi di Garner, compreso Red Shift, e il paesaggio del Galles del Nord di The Owl Service – si presenta come elemento cruciale di tali strutture mitiche. Più e più volte nel corso della sua fiction Garner addita la forza eerie del paesaggio, ricordandoci come lo spazio fisico condizioni la percezione e come determinati luoghi siano segnati da eventi traumatici. Il mitico, nella visione di Garner, è qualcosa di più che pura finzione, esattamente come non può essere ridotto al fantasmatico. Il mitico è piuttosto parte dell’infrastruttura virtuale che rende possibile la vita umana in quanto tale. Il caso non è quello in cui prima di tutto si trovano gli esseri umani e il mitico sopraggiunge soltanto in seguito, come una sorta di carapace culturale che si aggiunge al nucleo biologico. Gli

esseri umani sono fin dall’inizio – da prima dell’inizio, prima della nascita dell’individuo – intrappolati in strutture mitiche. E va da sé che la famiglia stessa è un’altra di queste strutture mitiche. Louis Althusser, mettendo l’accento sul fatto che l’essere umano non è mai una pura creatura biologica, si riferisce a quest’infrastruttura culturale virtuale col nome di ideologia, e afferma che non è possibile vivere al di fuori di essa. Esprimendoci nel registro utilizzato da Justin Barton, comunque, potremmo parlare di sogni e storie. I romanzi di Garner oltrepassano i limiti tanto del realismo ingenuo quanto del fantasy in virtù delle loro complesse riflessioni sulla forza – sulla forza eerie – di sogni e storie.

13. Quatermass è il nome del personaggio protagonista di alcune famose serie televisive di fantascienza realizzate dalla BBC negli anni Cinquanta e Settanta, che hanno dato origine anche ai film L’astronave atomica del Dottor Quatermass (The Quatermass Xperiment), I vampiri dello spazio (Quatermass 2) e L’astronave degli esseri perduti (Quatermass and the Pit). [n.d.t.] 14. Garner fa qui riferimento a una leggenda popolare inglese che vuole che la Nona Legione romana, stanziata nei pressi di York, sia stata completamente distrutta in una battaglia contro gli Scoti. La leggenda è nata dal fatto che da un certo momento in poi (all’incirca il 120 d.C.) nei documenti britannici scompare ogni riferimento storico a tale legione. Ricerche recenti suggeriscono invece che la legione sia stata semplicemente trasferita in un’altra provincia dell’impero. [n.d.t.]

DENTRO-FUORI/FUORI-DENTRO MARGARET ATWOOD E JONATHAN GLAZER

Una donna segata in due dentro una cassa di legno, in costume da bagno, sorridente, un trucco di specchi, l’avevo letto su un giornalino; solo che con me c’era stato un incidente e io mi ero spaccata. L’altra metà, quella sottochiave, era la sola che poteva vivere; io ero la metà sbagliata, staccata, terminale. Io non ero che una testa, oppure no, qualcosa di insignificante come un pollice mozzo, inerte. Tra il piacere e il dolore corre solo un filo, dicevano, ma il cervello è quasi tutto neutro, senza nervi, come il grasso. Enumeravo le emozioni, nominandole: gioia, pace, rimorso, liberazione, amore e odio, reagisci, connetti; tra provare un’emozione e scegliere un vestito non c’era differenza, si guardavano gli altri e si prendeva nota. Ma trovai solo la paura di non essere viva: qualcosa di negativo, la differenza tra l’ombra di uno spillo e quel che senti quando te lo infilzi nel braccio, quand’ero intrappolata nel banco di scuola lo facevo, con i pennini e anche con le punte di compasso, gli strumenti del sapere, Inglese e Geometria; hanno scoperto che per i ratti qualunque sensazione è preferibile all’assenza di sensazioni. Avevo l’interno delle braccia punteggiate di minuscole ferite, come quelle di un tossicomane. Mi infilarono l’ago nella vena e io mi ritrovai a cadere, era come tuffarsi, sprofondare da una coltre di buio a una più profonda, ancora più profonda; quando riemersi dall’anestesia, verde pallido e poi luce, non mi ricordavo più niente. Non mi sentivo malissimo; mi accorsi che non provavo grosse emozioni, da parecchio tempo. Forse ero stata così tutta la vita, come certi bambini che nascono sordi o privi di senso del tatto; in questo caso però non mi sarei accorta della mancanza. A un certo punto il mio collo dev’essersi chiuso, come si chiude uno stagno che gela o una ferita, richiudendomi nella testa...

Margaret Atwood, Tornare a galla

Tornare a galla, il romanzo di Margaret Atwood pubblicato nel 1972, e il film di Jonathan Glazer Under the Skin, uscito nel 2013, presentano due casi complementari di eerie. In Tornare a galla ci spostiamo da un’ambigua posizione «interna» verso una esterna; in Under the Skin l’interno è percepito dall’esterno. La relazione problematica dei due protagonisti con ciò che Lacan chiamava ordine simbolico (la struttura attraverso cui viene assegnato il significato culturale, e che secondo Lacan è garantita dal Nome-del-Padre) è sottolineata dal fatto che nessuna delle due possiede un nome. La narratrice di Tornare a galla arriva a sentirsi un’aliena che ha recitato il ruolo di una donna, mentre il personaggio principale di Under the Skin è un alieno autentico che mira a simulare il comportamento umano. Tornare a galla ruota intorno all’enigma di un padre scomparso. La narratrice è tornata nella casa della sua infanzia in Québec per cercare il padre, scomparso nelle terre selvagge del Canada. La domanda «cos’è successo?» resta sospesa su tutto il romanzo, e l’assenza di una soluzione finale del mistero – non solo il padre non verrà mai ritrovato, ma la narratrice stessa si smarrirà, finendo per andare alla deriva senza più punti di riferimento – fa sì che l’atmosfera eerie non si dissipi mai. Come nell’opera di Garner, Tornare a galla mostra un’incredibile sensibilità nei confronti della forza del paesaggio – che questa volta però non è la campagna inglese con la sua storia profondamente segnata da guerre civili, atrocità e lotte, ma lo spazio spopolato dei territori canadesi con tutte le sue promesse e minacce, la sua vastità e il suo vuoto terrificante. Non sono gli spettri della storia a infestare Tornare a galla, ma gli spazi fuori o al margine dell’umano stesso. Nel romanzo, da quanto è dato capire, sembra che il padre sia stato vittima della propria attrazione fatale per la natura, gli animali e le loro leggende. Quando la narratrice entra nella capanna del padre, scopre che questo ha riempito pagine e pagine di disegni di strane creature umano-animali: segni di pazzia, o preparativi per un viaggio sciamanico oltre ciò che passa per civiltà moderna? Come avrebbe sostenuto la retorica antipsichiatrica dell’epoca, esiste davvero differenza tra le due situazioni? Qualsiasi rifiuto autentico della civiltà non comporta forse un movimento verso la schizofrenia – uno spostamento verso un esterno che non può essere commisurato alle forme dominanti di soggettività, pensiero, sensazione?

Per certi aspetti Tornare a galla può essere visto come l’espressione del brusco risveglio dall’euforia militante degli anni Sessanta: la prosa notoriamente glaciale della Atwood che raggela i fianchi surriscaldati degli anni Sessanta, e che dalla semidesolazione dei territori canadesi traccia un nuovo panorama letterario al tempo stesso oltremodo affascinante e minaccioso. Si affaccia una lettura conservatrice – ciò che vi emerge, parrebbe, sono le conseguenze cui il permissivismo degli anni Sessanta immaginava di essersi sottratto. Il represso – che in questo senso significa le agentività stesse della repressione – torna nella forma spettrale del bambino abortito dalla narratrice senza nome, incontrato nelle acque di un lago oscuro in cui fluttuano escrementi e raschiamenti fetali simili a meduse, l’abietto e l’abortito che si mescolano insieme nella fogna del Simbolico. Lungi dal consentire alla protagonista di «riguadagnare» una qualche «integrità», la reintegrazione di quest’oggetto perduto distrugge il fragile collage di ricordischermo e fantasie che l’inconscio della narratrice ha abilmente costruito, catapultandola dalla gelida compostezza della disforia nella psicosi – che secondo la lettura conservatrice costituirebbe la giusta punizione per la sua immoralità. C’è in gioco una posta altissima nel resistere a questa lettura conservatrice, e il concetto dell’eerie ci può aiutare nell’impresa. La narratrice di Atwood si accorge sempre più che per lei non c’è spazio. Le manca la capacità di sentire che si suppone costitutiva della soggettività «normale». La protagonista è al di fuori di sé. Un mistero per se stessa, una sorta di spazio vuoto riflessivo nella struttura dominante: un enigma eerie. Il punto qui non è quindi risolvere rapidamente quest’enigma, ma tener fede alle domande che solleva. La narratrice sperimenta la controcultura come poco più che un inganno, dove la retorica libertaria non soltanto funge da legittimazione del privilegio familiare maschile, ma offre anche nuove giustificazioni allo sfruttamento e alla sottomissione. Nel 1972 i sogni della controcultura di rovesciare e rimpiazzare le strutture dominanti si sono ormai trasformati in una serie di gesti vuoti, in una retorica irrigidita. Se Tornare a galla rifiuta le pose superficiali di una controcultura esaurita, non sottoscrive però affatto il mondo (in apparenza) sicuro e stabile ripudiato dalla controcultura. Quel mondo d’illusoria solidità organica – il mondo dei suoi genitori, dove la gente fa figli che alleva come fiori nel giardino di casa, la narratrice immagina – è

ormai scomparso, osserva la narratrice della Atwood con una punta di malinconia, che tuttavia si arresta prima di trasformarsi in rimpianto nostalgico. La domanda che Tornare a galla pone, e lascia irrisolta, è come mobilitare quel malcontento piuttosto che trattarlo come una patologia che richiede una cura – per mezzo di un’efficace reintegrazione nel Simbolico/civiltà oppure attraverso un viaggio purificatore oltre il Simbolico e in una Natura prelinguistica. In altre parole, com’è possibile tener fede, invece che porre rimedio, alla dislessia affettiva della narratrice? In un certo senso Tornare a galla appartiene allo stesso momento di opere come Speculum. L’altra donna di Luce Irigaray e L’Anti-Edipo di Gilles Deleuze e Felix Guattari. Si tratta di opere che lanciano la sfida di cercare di trattare scontento, degradazione e psicopatologia come tracce di un fuori ancora inimmaginabile, non come sintomi di disadattamento. Nel momento del suo crollo/estasi schizofrenica, la visione della narratrice richiama alla mente la «vita non-organica» e il «diventare-animale» che Deleuze e Guattari descriveranno in Mille piani: «Pensano che dovrei essere invasa dalla morte, dovrei essere in lutto. Ma niente è morto, ogni cosa è viva, ogni cosa attende di diventare viva». Eppure questo delirio febbrile sembra più in sintonia con quello che Ben Woodward ha chiamato «vitalismo oscuro» che con Deleuze, e quanto scorre e si muove nella zona del corposenza-organi del divenire-animali e divenire-acqua è qualcosa di simile al sinistro «strisciare della vita» di Woodward: «Sento un respiro, trattenuto, rispettoso, non in casa ma tutto intorno». Il luogo al di là delle mortificazioni del Simbolico non è soltanto lo spazio di un’oscena «vita» non linguistica, ma anche il posto in cui finisce tutto ciò che è insensibile e morto una volta espulso dalla civiltà. «Fu qui che gettai le cose morte...» Oltre la morte vivente del Simbolico c’è il regno dei morti: «Era sotto di me, sospinta verso di me dal livello ancora più profondo, dove non c’era vita, una scura sagoma ovale che trascinava con sé delle membra. Era indistinta, ma aveva occhi, occhi aperti, era qualcosa che conoscevo, una cosa morta, era morto». Tornare a galla può essere situato anche come parte di un altro momento fine anni Sessanta/primi anni Settanta: l’oceanico postpsichedelico. Il lago di Atwood, reso viscoso dal sangue e dagli altri fluidi corporei, ha qualcosa della bitches brew15 in cui Miles Davis s’immerge nel 1969 per riuscirne catatonico soltanto sei anni dopo. Si avvicina ai territori

delle profondità marine che John Martyn scandaglia in Solid Air e One World: Verde pallido, poi oscurità, strato dopo strato, più in basso di prima, il fondo: sembrava che l’acqua fosse diventata più densa, luci grandi quanto la punta di uno spillo guizzavano e sfrecciavano, rosse e blu, gialle e bianche, e vidi che erano pesci, le creature degli abissi, pinne bordate di scintille fosforescenti, denti al neon. Era meraviglioso essere scesa tanto in profondità...

Ma questi spazi d’identità dissolta non sono affrontati dal punto di vista di un maschio a tratti tormentato, a tratti tranquillo in villeggiatura dal Simbolico, bensì dalla prospettiva di una persona mai realmente integrata del tutto nel Simbolico. Tornare a galla, come il più recente L’ultimo degli uomini della Atwood (2003), è una sorta di riscrittura del Disagio della civiltà di Freud, il testo con cui tutta quella teoria radicale dei primi anni Settanta dovette combattere e fare i conti. Esattamente come accade alla fine dell’Ultimo degli uomini, Tornare a galla si conclude con un momento di sospensione, dove la narratrice, come l’Uomo delle Nevi nell’altro romanzo, resta sospesa tra lo spazio schizofrenico al di là del Simbolico e un ipotetico ritorno alla civiltà. Forse l’aspetto più presciente di Tornare a galla è la sua accettazione che alla fine la libido, la pazzia o il misticismo da soli non bastano a sopraffare la civiltà/il grande Altro/il linguaggio – eppure, nonostante ciò, Tornare a galla non raccomanda un’acquiescenza al principio di realtà. «Per noi è necessaria, l’intercessione delle parole», ammette la narratrice – ma chi è questo «noi»? All’inizio sembra comprendere soltanto la narratrice e il suo compagno, con cui forse sta per riconciliarsi. Poi si affaccia la tentazione di leggere il «noi» come l’umanità in generale, il che concluderebbe il romanzo con una riconciliazione a buon mercato tra la civiltà e un individuo che ne era scontento. Eppure è molto più stimolante pensare il «noi» come espressione di coloro che, come la narratrice, in realtà non appartengono realmente affatto all’umanità – che genere di linguaggio, che genere di civiltà produrrebbero questi scontenti? Under the Skin esplora alcune zone simili, osservandole però da una diversa

angolazione. Il film potrebbe rappresentare un caso di studio su come produrre l’eerie a partire da risorse poco promettenti. Il materiale d’origine, il romanzo omonimo di Michel Faber, è discretamente efficace, ma non possiede certo una grande carica eerie. O meglio, il modo il cui sviluppa il racconto elimina poco alla volta ogni traccia di eerie, fino alla sua completa scomparsa. Il romanzo si rivela rapidamente come una satira fantascientificoletteraria del carnivorismo e dell’industria della carne, in cui l’autore descrive e sbeffeggia le contraddizioni dell’etica carnivorista quando gli esseri umani diventano preda di commercianti di carne alieni. È una favola con tanto di animali parlanti (anche se ovviamente il punto centrale dell’inversione satirico-favolistica è che, dal punto di vista alieno, gli «animali parlanti» sono gli umani, che devono essere privati della lingua quando sono costretti in cattività). Il film è tutt’altra cosa, ed è in realtà estrapolato dalla prima parte del romanzo. Una giovane donna, o ciò che sembra essere una giovane donna, percorre da sola in auto le strade della Scozia seguendo con insistenza gli uomini. Nel romanzo scopriamo presto che la «giovane donna» è Isserley, un essere extraterrestre modificato chirurgicamente che lavora per una compagnia di commercio interplanetario di carni di lusso. Gli uomini che Isserley attrae in auto e narcotizza sono stati individuati perché avevano l’aria di carne di prima scelta. Il film sopprime tutto questo genere d’informazione (anzi, non è affatto chiaro se rispetti anche soltanto uno di quegli obblighi narrativi: il film non dice mai che il personaggio principale si chiama Isserley, né che lavora per una ditta che commercia in carne). Potremmo brutalmente affermare che il modo più rapido per generare un senso di eerie è quello di limitare in tal modo l’informazione. Ma come ho spiegato in precedenza, non sempre un mistero è eerie: è necessaria la presenza di un senso di alterità, e questo senso di alterità è qualcosa che Glazer aggiunge al materiale di partenza di Faber. Tali aggiunte, ovviamente, mostrano una curiosa qualità, perché ciò che il regista in effetti aggiunge sono in realtà dei vuoti di conoscenza dello spettatore. Il romanzo di Faber tende a eliminare il carattere alieno degli extraterrestri, a creare un’equivalenza tra loro e noi – sotto la pelle, siamo tutti uguali (l’idea è rafforzata dal fatto che Faber fa sì che gli alieni tra loro si chiamino «umani»). Per contro, il film non solo enfatizza le differenze tra alieni e homo sapiens, ma spoglia anche la cultura umana della sua banale

familiarità, mostrando ciò che diamo per scontato da un’angolazione indeterminata eppure esteriore. In termini di produzione di senso dell’eerie, il film gode di una posizione di vantaggio rispetto al libro, perché non ha bisogno di conferire al personaggio principale (impersonato da Scarlett Johansson) alcun tipo di vita interiore. Ciò significa che il film lascia aperta non soltanto la questione della natura della vita interiore della protagonista, ma anche la domanda se essa possieda qualcosa che possa essere identificato come «vita interiore». Il personaggio della Johansson è visto soltanto dall’esterno (proprio come, specularmente, la sua incomprensibile condotta e motivazione, la sua mancanza di «normali» reazioni emotive, ci forniscono una prospettiva da osservatore esterno sul mondo sociale in cui si muove come predatrice). Il dialogo è spoglio, funzionale – forse limitato dalla sua scarsa competenza in fatto di lingua e accento (all’inizio del film la sentiamo esercitarsi a pronunciare una serie di vocaboli con accento inglese). In ogni caso la donna parla soltanto quanto basta per attrarre gli uomini nella sua auto – cosa che, a caustico commento su un certo tipo di sessualità maschile, di solito non richiede grandi conversazioni. Non le viene mai chiesto di fornire altro che una descrizione minima di se stessa, e ad ogni modo quasi tutto ciò che dice è un inganno. Non dà mai voce ad alcun sentimento. Quando s’incontra con un altro alieno, nessuno dei due parla. Possiederanno un loro linguaggio, oppure il linguaggio è soltanto qualcosa che utilizzano per ingannare gli umani? Avranno dei sentimenti come quelli che noi pensiamo di avere? Il film non dice praticamente nulla su chi siano o cosa desiderino queste creature – né, per la verità, se ciò che le guida possa essere davvero interpretato come «desiderio». Forse le aggiunte più significative introdotte da Glazer sono le scene in cui la donna cattura la sua preda umana. Nel libro la cattura avviene semplicemente con la narcotizzazione degli uomini seduti in auto. Nel film invece la cattura si svolge in qualche zona indeterminata, in uno spazio semiastratto in cui gli uomini, mentre si avvicinano al personaggio seminudo interpretato dalla Johansson, vengono lentamente risucchiati da una ripugnante melma nera. Queste scene – glacialmente oniriche e oscuramente psichedeliche – sono forse una rappresentazione dello stato mentale degli uomini mentre scivolano inebriati in qualche stato di morte parziale? Oppure si tratta di un interspazio reale, dove la melma nera è un esempio di

tecnologia aliena? O ancora, come ha ipotizzato un commentatore, non potrebbe essere che tali scene rappresentino il senso del sesso per un alieno? Il film non fornisce risposte, e le scene successive rafforzano soltanto l’opacità dell’incubo. Vediamo alcuni degli uomini catturati, ormai completamente sommersi dalla melma, semicoscienti e rigonfi (forse un cenno all’ingrassamento della preda umana citata dal romanzo). Mentre si cercano faticosamente l’uno con l’altro, uno dei corpi subisce una spaventosa azione di risucchio e svuotamento dai liquidi. L’inquadratura si sofferma su un’immagine che somiglia a sangue che scorre, come se il corpo dell’uomo fosse stato liquefatto. Potrebbe essere un’immagine semi-astratta del processo di lavorazione della carne descritto nel romanzo; oppure alludere a qualche altra modalità (a stento immaginabile) di trasferimento dell’energia. Questi frammenti di scene – questa quantità di ellissi eerie – rendono gli extraterrestri, ammesso che siano tali, più alieni di quelli mai visti al cinema. Ma le scene del personaggio della Johansson nel furgone, mentre raccatta uomini lungo stradine solitarie e dentro discoteche affollate, o valuta le vittime potenziali nelle strade piene di gente di Glasgow, genera una specie di effetto eerie al contrario. Qui la cultura capitalistica contemporanea è straniata, vista attraverso gli occhi di un outsider. La piattezza tonale del personaggio della Johansson la fa apparire dall’esterno simile allo stato interiore descritto dalla narratrice di Tornare a galla – inebetita, distaccata. Eppure quest’apparente intontimento potrebbe anche indicare una condotta affettiva del tutto diversa; o suggerire un tipo di creatura incapace di ciò che intendiamo per emozioni. Potrebbe anche essere, dopotutto, che questo genere di creature abbia più elementi in comune con gli insetti che con gli esseri umani. Esiste una sorta di affinità tra la piattezza del personaggio della Johansson e lo stile naturalistico impiegato in gran parte del film. La donna è la figura attraverso la quale il film si focalizza – il punto d’identificazione del pubblico, ma siccome in lei c’è veramente pochissimo in cui riusciamo a identificarci, diventa una sorta di analogo della macchina da presa. In particolare nelle scene improvvisate con i passanti e i non-attori, siamo invitati a sperimentare comportamenti, interazioni e cultura umani facendo a meno delle associazioni che utilizziamo normalmente e delle forme di mediazione che di solito operano nel cinema mainstream.16 E siccome le

scene sono in gran parte prive del loro consueto arredamento emotivo, narrativo e di genere, il naturalismo del film diventa denaturalizzante, con la macchina da presa che simula efficacemente lo sguardo di un antropologo alieno. Nel corso del film il personaggio della Johansson si trasforma lentamente da predatrice in una figura sempre più vulnerabile. Non casualmente ciò coincide con il suo progressivo immergersi nella cultura umana, con il suo lanciarsi in quello che è forse un tentativo di comprendere l’affezione e i rapporti umani. C’è un’inquietante scena di sesso in cui la protagonista si sottomette passivamente e in apparenza senza capire al suo partner maschile, per poi esaminare se stessa con una lampada, come se avesse subito una profonda ferita. Il sesso umano appare straniato, oggetto di un’attenzione terrorizzata da parte della creatura aliena. I caratteri inquietanti di tale scena appaiono in seguito rafforzati quando, anche qui in contrasto con il libro, veniamo a sapere che il corpo umano degli alieni è una specie di protesi. Lo scopriamo soltanto nella scena cruciale alla fine, quando un passante tenta di violentarla. Mentre l’uomo l’aggredisce, parte del corpoprotesi le si sfila rivelando una grossa fessura nella schiena, come lo strappo di un vestito. L’alieno a quel punto si sveste del resto della protesi umana danneggiata, e un’altra figura – una forma levigata di umanoide nero – emerge dall’interno dei resti. Vediamo il corpo alieno ormai esposto studiare il volto inerte di Scarlett Johansson come una maschera di latex – eco di una notevole scena precedente in cui la Johansson esamina allo specchio il proprio corpo nudo con un’aria stranamente distaccata ma anche d’apprezzamento. È chiaro che la scena dello specchio duplica l’autooggettificazione «comune» che si verifica quando ci guardiamo allo specchio: l’aliena non guarda se stessa, ma il corpo umano che indossa. Ma questa disgiunzione tra soggetto alieno e corpo umano-oggetto porta soltanto in primo piano le strutture fantasmatiche che sottendono alla «normale» soggettività umana. L’immagine culminante della figura quasi priva di lineamenti che abbandona la sua forma umana corrisponde a una certa fantasia persistente sulla relazione del soggetto col corpo. Tale fantasia è stata codificata da Cartesio nella dottrina filosofica nota come dualismo della sostanza (la convinzione che mente e corpo siano due generi di cose radicalmente diversi). Secondo Lacan, tuttavia, l’errore di Cartesio era qualcosa di più che un semplice errore filosofico, dato che un certo tipo di

dualismo è incorporato nella struttura del linguaggio, in particolare nel linguaggio del soggetto. L’io che parla e l’io di cui si parla sono strutturalmente diversi. L’io che parla non possiede alcun predicato positivo, è qualcosa come la posizione del parlante in quanto tale, mentre particolari aspetti (altezza, età, peso ecc.) possono essere attribuiti soltanto all’io di cui si parla. La figura senza lineamenti delle scene finali di Under the Skin, quindi, è una specie di fisicalizzazione di questo soggetto-anima, di questo io che parla: siccome manca di predicati fisici positivi, esso risiede in qualche modo «all’interno» del corpo, ma è in definitiva separabile dal corpocontenitore. Il contributo decisivo del film, perciò, è quello di ricordarci del senso di eeriness intrinseco alle nostre instabili descrizioni di soggetto e oggetto, di mente e corpo. L’eeriness del rapporto tra corpo e mente è stata oggetto del nuovo adattamento realizzato da Andy de Emmony nel 2010 per la BBC di «Fischia e verrò da te, ragazzo mio», il racconto di M.R. James già analizzato in precedenza. In questa nuova versione radicalmente rielaborata della vicenda, Parkin è tormentato dalla demenza che ha ridotto la moglie a un guscio catatonico: «un corpo sopravvissuto all’esistenza della personalità: più raccapricciante di qualsiasi spettro o spirito demoniaco». «Dentro di noi non c’è niente», dichiara caustico il Parkin di questa versione. «In queste macchine non ci sono fantasmi. L’uomo è materia, materia che si decompone». Eppure l’affermazione di Parkin stabilisce che dentro la macchina ci sono dei fantasmi, che un certo tipo di spettralità è intrinseco al soggetto parlante. Dopotutto, chi di noi può dire di non possedere interiorità, chi può parlare dell’uomo come materia in decomposizione? Forse nessun soggetto concreto, bensì il soggetto che parla, vale a dire il soggetto composto della materia spettrale, priva di corpo del linguaggio. Nell’atto stesso di dichiarare la propria nullità, il soggetto non mette tanto in atto una contraddizione performativa, ma punta piuttosto il dito sull’ineliminabile dualismo generato dalla soggettività stessa. La condizione di materialisti come Parkin (in altre parola la nostra condizione) è quella di sapere che tutta la soggettività è riducibile alla materia, che nessuna soggettività può sopravvivere alla morte del corpo, e nonostante tutto di essere incapaci di sperimentare noi stessi come semplice materia. Una volta che il corpo è riconosciuto come substrato-precondizione dell’esperienza, siamo immediatamente costretti ad accettare questo dualismo fenomenologico,

precisamente perché l’esperienza e il suo substrato possono essere separati. Dentro la macchina ci sono dei fantasmi, e noi siamo loro, e loro sono noi.

15. Il titolo del famoso album di Davis contiene un gioco di parole tra witches brew («pozione delle streghe») e bitches («stronze», «puttane»). [n.d.t.] 16. Per il suo film Glazer si è avvalso di numerosi attori non professionisti, girando varie scene in cui le persone non erano consapevoli di essere riprese. [n.d.t.]

TRACCE ALIENE STANLEY KUBRICK, ANDREJ TARKOVSKIJ E CHRISTOPHER NOLAN

Under the Skin ci offre una versione di incontro eerie con l’alieno: l’alienotra-noi (L’uomo che cadde sulla terra, diretto da Nicolas Roeg nel 1976, è una variante dello stesso genere d’incontro, e il Newton interpretato nel film da David Bowie costituisce una specie di antenato cinematografico dell’alieno della Johansson, anche se il suo esilio intriso di nostalgia trasuda di un pathos romantico del tutto assente nella ben più opaca e indecifrabile creatura extraterrestre di Under the Skin). In precedenza ho già menzionato un’altra versione dell’alieno-eerie quando ho discusso della serie finale di Quatermass. In tale versione non vediamo mai direttamente l’alieno: il suo aspetto fisico, come pure i suoi tratti ontologici e metafisici, non vengono mai rivelati, e l’alieno si manifesta soltanto attraverso i suoi effetti, le sue tracce. È necessario ora esaminare questo particolare genere d’incontro con l’estraneo-alieno. L’idea di spazio profondo genera immediatamente un senso di eerie, a causa delle questioni di agentività che non può far a meno di sollevare. Esiste qualcosa lassù – e se esistono agenti, di che natura sono? Per questo è sconfortante notare come l’eerie sia stranamente assente da tanta produzione fantascientifica. 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick (1968) è forse l’esempio più famoso di film di fantascienza che sfida quella tendenza, resistendo alla pressione positivistica che vuole portare l’alieno allo scoperto. L’enigma dell’agentività aliena è sollevato dal totem del film, il monolite, sorta di paradigma di oggetto eerie (nel corso del film la sensazione di eerie è

rafforzata dall’associazione del monolite alla musica di Ligeti e al suo senso di stupore e alterità). Le qualità «innaturali» del monolite – la sua rettilineità, la sua piattezza, la sua opaca lucentezza – ci spingono a inferire che l’oggetto dev’essere stato prodotto da qualche tipo d’intelligenza superiore. La logica alla base di quest’idea sembra una versione secolare del cosiddetto «disegno intelligente», secondo cui la funzionalità, pervasività, finalizzazione e sistematicità di molti aspetti del mondo naturale ci costringono a postulare l’esistenza di un architetto soprannaturale. Nel trattamento di questi temi da parte di Kubrick c’è però ben poco di teleologico, e il regista non tenta in alcun modo d’identificare in termini positivi il genere di entità che può aver dato origine al monolite. La natura dell’intelligenza che è intervenuta nella storia umana e gli obiettivi del suo intervento restano indefiniti. Il film ci mette a disposizione soltanto minimi spunti dai quali poter formulare qualche ipotesi. Oltre ai monoliti c’è la finta camera d’albergo – inquietante nella sua banalità – in cui, alla fine del film, l’astronauta David Bowman viene preparato all’ambigua trasformazione nel cosiddetto Bambino-delle-Stelle. La stanza d’albergo potrebbe indicare che l’intelligenza vuole che Bowman si senta a suo agio, ma anche in questo caso le ragioni fondamentali restano del tutto oscure: la costruzione di un simile ambiente è motivata dall’attenzione delle imperscrutabili intelligenze per questa creatura umana così lontana da ciò che gli è familiare, oppure dal fatto che offre loro uno spazio migliore per osservarla sperimentalmente? (Le scene riguardati il computer senziente HAL, che controlla i sistemi dell’astronave Discovery One, pongono questioni di agentività su scala più ridotta. HAL non ha corpo, anche se possiede un organo – un sensore dotato di una spia rossa – e una voce innaturalmente calma. Possiede però certamente agentività, e la natura e portata di tale agentività – ciò che spinge HAL a ribellarsi all’equipaggio del Discovery – costituisce il mistero cruciale di questa parte del film. Nella scena in cui vediamo Bowman annientare lentamente e senza rimorsi HAL, e percepiamo dalla voce di HAL l’inizio del suo deterioramento mentale, ci troviamo di fronte la disgiunzione eerie tra coscienza e apparato materiale che rende possibile la coscienza.) Il secondo importante contributo di Kubrick al cinema dell’eerie è un’altra operazione «meta-generica», ossia il film Shining. Qui siamo nel genere horror o storie di fantasmi, e appare subito chiaro che in questo caso le

creature misteriose sono spettri e non alieni (anche se è perfettamente possibile che siano in realtà un tipo di intelligenza aliena). Il passaggio dalla fantascienza all’horror implica anche un passaggio dall’idea che le forze eerie all’opera nell’altro film fossero benevole, o quantomeno neutre (come siamo indotti a credere in 2001), all’ipotesi che le entità presenti qui siano malvagie. Malvagità e benevolenza sono ovviamente relative agli interessi e ai punti di vista di particolari entità, come ci ricorda la parabola delle aquile e degli agnelli di Nietzsche. Per gli agnelli, racconta il filosofo, le aquile sono malvagie: gli agnelli immaginano che gli uccelli da preda li odino. In realtà le aquile non odiano affatto gli agnelli – anzi, il loro atteggiamento nei confronti degli ovini è più vicino all’affetto, addirittura all’amore: dopotutto gli agnelli sono molto saporiti. Nietzsche rende in modo comico ciò che Shining pone come un enigma eerie, che resta irrisolto nel film esattamente come nel romanzo. L’Overlook Hotel di Shining è una versione gigante della stanza di The Stone Tape: una sorta di apparato di registrazione in cui violenze, atrocità e infelicità verificatesi nell’edificio vengono accumulate e riprodotte dai sensibili apparati psichici di coloro che – come Jack Torrance e suo figlio Danny – hanno la capacità di «luccicare» telepaticamente. Poco alla volta Jack si trova trascinato fuori dal presente – che divide con la moglie Wendy e il figlio Danny – e precipitato in un tempo eterno dove differenti momenti storici sono fusi e compressi insieme (un tempo di schizo-simultaneità forse affine a quello in cui si ritrova Tom in Red Shift di Garner). L’impressione è però che le apparizioni che alternativamente seducono e minacciano Jack siano simili a lui, creature infelici diventate vittime della fatale influenza dell’Overlook. Ciò che resta imprecisato è la natura delle forze che controllano realmente l’hotel. Jack sonda la situazione in una scena in cui lo vediamo conversare con lo spettrale barman, Lloyd: Lloyd: Offre la casa, Mr. Torrance. Jack: Offre la casa? Lloyd: Non vogliamo soldi da lei. Ordini superiori, Sir. Jack: Ah, ordini superiori? Lloyd: Alla salute, Mr. Torrance. Jack: Ma un tipo come me lo vuol sapere chi glieli offre questi drink, Lloyd. Lloyd: Non è un problema che la riguarda, Mr. Torrance. Certo non a

questo punto.

Chi o che cosa sono questi «ordini superiori», e che cosa vogliono? Jack non fa altre domande, e il film – come il romanzo – non offre risposte definitive. I responsabili dell’Overlook non compaiono mai. Nel libro le entità in festa ripetono di continuo «Giù la maschera!» (riferimento a uno degli intertesti più importanti del romanzo, «La maschera della Morte Rossa» di Poe). Ma né nel romanzo né nel film le creature che hanno preso controllo dell’hotel si svelano mai del tutto. Il punto qui non è tanto il fatto che esse non mostrano il volto, quanto piuttosto che sembrano non possedere un volto da mostrare. Nel romanzo l’immagine che dà la sensazione di giungere più vicino a una definizione della loro forma fondamentale è quella della sciamante, brulicante molteplicità di un nido di vespe. Nel film invece, come Roger Luckhurst ha osservato nel suo recente libro su Shining, l’immagine del nido è assente, ma è forse stata tradotta in suono attraverso i brusii polifonici di Lontano di Ligeti. Ma cosa vogliono queste creature? Possiamo soltanto desumere che si tratti di esseri che devono nutrirsi dell’infelicità umana. Ciò da un certo punto di vista può farle apparire «malvagie», ma in pratica si tratta della stessa prospettiva degli agnelli di Nietzsche. Dopotutto la maggior parte degli esseri umani non è certo nella posizione di giudicare altre entità in base a ciò di cui si nutrono. Un’altra dimensione eerie di Shining è schiusa dai poteri fatali dell’Overlook Hotel. Jack si sente dire che «è sempre stato il custode» dell’hotel. Questo in un certo senso addita il tempo «eterno» dell’hotel stesso, il tempo al di là del tempo lineare misurato dagli orologi, dentro il quale Jack viene sempre più risucchiato. Ma può anche riferirsi alle concatenazioni di influenze ed effetti che hanno condotto Jack ad accettare il lavoro di custode dell’Overlook: i maltrattamenti da parte del padre, il suo fallimento come scrittore, il suo alcolismo, la sua aggressione a Danny da ubriaco... a quanto indietro risale l’influenza dell’hotel? I due grandi film realizzati da Andrej Tarkovskij negli anni Settanta – Solaris (1972) e Stalker (1979) – costituiscono un’esplorazione approfondita dell’alieno-eerie. In entrambi i casi la versione cinematografica è andata controcorrente rispetto al materiale di partenza dell’adattamento, ossia i

romanzi Solaris di Stanislaw Lem (1961) e Picnic sul ciglio della strada di Boris e Arkadi Strugatzki (1971). Nei film Tarkovskij priva i due soggetti letterari di tutti gli elementi satirici, ironici e surreali, spostando come di consueto l’attenzione su questioni di fede e redenzione. Conserva tuttavia le preoccupazioni di fondo dei romanzi per gli incontri con l’ignoto. Solaris parla di un cosiddetto pianeta-oceano intelligente. Nel film Tarkovskij minimizza gli aspetti riguardanti la scienza «solaristica», che invece giocano un ruolo centrale nel libro, dove Lem presenta una vasta gamma di speculazioni e ipotesi riguardanti il pianeta. Il regista russo concentra invece l’attenzione sull’impatto prodotto dal pianeta sullo psicologo Kris Kelvin. Quando Kelvin giunge sulla stazione spaziale che orbita intorno a Solaris, si accorge che il suo amico Dr. Gibarian è morto, e che i due scienziati rimasti a bordo si comportano in maniera strana, passando la maggior parte del tempo rintanati nei loro alloggiamenti. Scopre presto la ragione di tale comportamento, quando un simulacro della moglie Hari, suicidatasi alcuni anni prima, gli compare davanti in stato confusionale senza ricordare nulla e senza sapere dove si trova. Gli scienziati hanno dato a quelle apparizioni il nome di «visitatori», e ciascuno dei residenti della stazione spaziale ne ha una con cui vedersela: messaggi di qualche tipo inviati da Solaris, di cui restano ignoti intenzioni e fine. Preso dal panico e dal disgusto, Kelvin costringe «Hari» a entrare in una capsula spaziale che spedisce nel cosmo. Tuttavia Hari, o meglio un’altra versione di Hari, ritorna. In una delle scene più conturbanti del film, vediamo che «Hari» non ha più la zip del vestito. Perché? Perché Solaris ha generato «Hari» in base ai ricordi di Kelvin, e la memoria di quel vestito (confusa e incompleta come tutti i ricordi) non prevedeva una zip. Quali sono le intenzioni di Solaris? E il pianeta possiede davvero intenzioni, o le sue comunicazioni vanno piuttosto intese come un qualche tipo di emissione automatica? Qual è lo scopo dei visitatori che invia? Il pianeta appare quasi come una combinazione tra un inconscio esternalizzato e uno psicoanalista, che continua a inviare agli scienziati materiale proveniente da traumi non elaborati da affrontare. Oppure il pianeta esaudisce quelli che «pensa» siano i desideri degli umani «equivocando» in modo grottesco sulla natura della perdita, come se fosse un neonato provvisto di poteri strabilianti? Il film ruota intorno all’impasse eerie che sorge quando modalità discordanti di intelligenza, cognizione e comunicazione si confrontano tra loro – o per

meglio dire non riescono a confrontarsi. La sublime alterità dell’oceano di Solaris è una delle grandi rappresentazioni cinematografiche dell’ignoto. In Stalker, sempre di Tarkovskij, la traccia aliena è la Zona, uno spazio geografico dove le leggi fisiche sembrano funzionare diversamente rispetto al mondo esterno. Il motivo favolistico dell’esaudimento dei desideri, già implicito in Solaris, diventa il tema dominante di Stalker, centrato sull’idea che in qualche parte della Zona esista una «Camera» dove i desideri più profondi di chi vi entra possano venire esauditi. Lo «stalker»17 del titolo è una sorta di guida fai-da-te della Zona, che accompagna coloro che desiderano esplorarne lo spazio infido e meraviglioso. Nel libro originale dei fratelli Strugatzki gli stalker fanno parte di una rete criminale dedita a trafugare artefatti dalla Zona. Nel film di Tarkovskij lo stalker rimane sì un personaggio ribelle (alcune delle prime scene lo mostrano nell’atto di superare recinzioni, posti di controllo e postazioni militari armate), ma le sue motivazioni appaiono spirituali piuttosto che materiali. Nel suo rispetto per il mistero della Zona, nella sua attenzione ai suoi pericoli e alla sua precarietà, lo stalker rivela il desiderio che i compagni di viaggio si trasformino a contatto con le meraviglie della Zona. Tuttavia i due personaggi che lo affiancano – indicati soltanto col nome generico di «Scrittore» e «Scienziato» – si rivelano troppo cinici e privi di fiducia per esplorare la Zona con quello spirito, causando un’enorme delusione dello stalker. Ma non è soltanto il viaggio per raggiungere la Camera a rivelarsi pericoloso, bensì anche la Camera stessa. Scopriamo che un altro stalker di nome Porcospino era già entrato nella Camera dopo aver condotto il fratello alla morte. Invece di restituirgli il fratello, la Camera gli aveva donato dei soldi. Nella sua offerta di esaudire i suoi desideri umani più profondi, la Camera formula un giudizio su ciò che l’individuo è realmente. Stalker è notevolissimo per la bravura con cui costruisce uno spazio eerie senza alcun uso di effetti speciali. Nel film Tarkovskij ha utilizzato una location incredibilmente suggestiva che si trovava in Estonia: uno spazio disabitato, dove detriti umani (fabbriche abbandonate, trappole anticarro, bunker) sono coperti di nuova vegetazione, in cui tunnel sotterranei e magazzini in rovina sono impiegati per comporre una geografia onirica, un terreno anomalo pieno d’insidie che si rivelano più metafisiche ed esistenziali che apertamente fisiche. Niente qui è uniforme: il tempo, come pure lo

spazio, può curvarsi e ripiegarsi in maniera imprevedibile. Lo spettatore finisce per apprezzare la qualità di quel luogo non tanto per ciò che effettivamente vede, ma attraverso ciò che intuisce grazie alla maestria dello stalker. Cauto, costantemente concentrato sui potenziali pericoli, basandosi sull’esperienza passata ma consapevole che la mutevolezza della Zona spesso rende obsoleta le conoscenze acquisite, lo stalker evoca uno spazio brulicante di minacce e promesse invisibili. Umile di fronte all’ignoto, eppure scrupoloso nell’esplorazione dell’esterno, lo stalker offre una specie di etica dell’eerie. Nella visione di Tarkovskij, la Zona diventa soprattutto uno spazio in cui mettere alla prova la fede. Il regista scarta perciò l’idea, avanzata dal titolo del romanzo dagli Strugatzki che la Zona sia semplicemente un evento fortuito. Nell’idea degli Strugatzki, piuttosto che un segno miracoloso di qualche genere di provvidenza, la Zona con tutte le sue proprietà «magiche» potrebbe non essere altro che l’immondizia abbandonata senza volerlo dopo l’equivalente alieno di un picnic lungo la strada. Qui l’eerie si trasforma in una burla surreale. La questione della provvidenza è centrale in Interstellar di Christopher Nolan (2014), film che offre un gradito ritorno ai terreni battuti da Kubrick e Tarkovskij in un cinema del ventunesimo secolo che ha finora concesso molto poco all’eerie. Il film si basa sull’intervento provvidenziale di un gruppo di esseri apparentemente benevoli – qui chiamati semplicemente «Loro» – che sembrano voler aiutare l’umanità a fuggire da un pianeta moribondo. Inizialmente «Loro» generano un wormhole spazio-temporale che rende possibile il viaggio verso un’altra galassia. Verso la fine però scopriamo che «Loro» non sono affatto alieni: si tratta invece di umani del futuro che si sono evoluti per accedere a una «quinta dimensione» che consente loro di uscire dalla quarta dimensione, vale a dire il tempo. Ma l’alterità di questi «Loro» non è compromessa dalla scoperta che in realtà si tratta di umani del futuro, perché la natura di tali umani non viene mai rivelata. Inevitabilmente dovrebbero essere molto diversi da noi: il futuro è un territorio alieno. Cogliamo l’esistenza di questa specie futura solo attraverso le sue tracce – la costruzione del wormhole e del misterioso «tesseratto», un luogo a cinque dimensioni dove il tempo si dispiega come se fosse spazio, al quale Cooper accede al culmine del film.

L’intervento provvidenziale si rivela quindi come un loop temporale, dove gli umani del futuro operano sul passato per produrre le condizioni della loro stessa sopravvivenza. All’interno di questo loop si verificano altre anomalie – in particolare quella in cui Cooper, l’astronauta che guida la difficile missione spaziale, «infesta» la stanza di sua figlia Murph. Dal tesseratto pentadimensionale Cooper cerca disperatamente di contattare Murph, nel tentativo di far sì che il proprio sé passato rimanga a casa invece di partecipare alla missione, facendogli così perdere buona parte della vita della figlia. Si tratta di un’anomalia temporale che presenta qualcosa di singolarmente futile. Se Cooper avesse successo nel persuadere il suo sé passato a rimanere a casa, la missione non si sarebbe mai alzata da terra (o perlomeno, lui non l’avrebbe mai guidata). Ma il fatto stesso che si trovi nel tesseratto e sia in grado di comunicare con Murph nel passato significa che deve aver fallito nel tentativo di impedire la missione, visto che ha finito per esserne a capo. La missione guidata da Cooper è un tentativo per sfuggire a una Terra letteralmente agonizzante – i raccolti non crescono più, la popolazione cala rapidamente, e tra non molto il pianeta diventerà inabitabile per gli esseri umani. Cooper viene arruolato da una NASA che è ormai diventata un’organizzazione segreta che opera sotto copertura. Il capo della NASA, John Brand, sembra aver elaborato due piani alternativi per salvare il genere umano. Il Piano A prevede di lanciare un’astronave a rotazione centrifuga per costruire una stazione spaziale; il Piano B prevede di popolare uno fra tre pianeti potenzialmente abitabili, che sono accessibili attraverso un wormhole nelle vicinanze di Saturno. I tre pianeti sono stati scoperti dieci anni prima nel corso di una missione. In realtà la missione aveva inviato dodici navi spaziali, ma solo le tre pilotate dagli astronauti Miller, Mann e Edmunds avevano inviato segnali che indicavano di aver raggiunto un pianeta abitabile. Il film ruota intorno al contrasto tra la visione di un universo indifferente e una modellata da una sorta di provvidenza materiale (materiale nel senso che comporta un’agentività umano-tecnologica piuttosto che soprannaturale). Alcune delle scene più potenti del film – quelle sul «pianeta di Miller» – mostrano la sublime desolazione di una natura indifferente. Questo pianetaoceano, dalla superficie interamente ricoperta di acqua, è una sorta di gemello indifferente di Solaris. Mentre Solaris solleva interrogativi senza risposta – quali obiettivi e quali desideri albergano nel pianeta? – il pianeta di Miller

presenta il muto determinismo di un mondo privo d’intento. Gli tsunami e le immobilità degli sconfinati oceani del pianeta sono tutte azioni senza scopo, il prodotto di cause senza ragioni. Proprio l’assenza di un agente intenzionale stimola un senso dell’eerie (come può non esserci nulla qui?). In questo caso il termine «indifferente» è in ultima analisi forse inadeguato, visto che suggerisce una capacità intenzionale che non viene utilizzata. La natura muta, potremmo dire, non è neppure indifferente, perché manca persino della capacità di essere indifferente. Ciononostante costituisce qualcosa di simile a un grado zero di agentività, se definiamo questa soltanto come la capacità di far succedere delle cose. Il pianeta di Miller è pieno di cause e di effetti, ma manca di una qualsiasi intelligenza progettuale o finalizzante. Le scene drammatiche sul pianeta – la presa di coscienza dell’equipaggio che il pianeta è una sorta di oceano di sterilità, incapace di sostenere la vita; la scoperta che quella che sembrava una catena di montagne è in realtà uno tsunami; la lotta per evitare di essere travolti dall’onda mostruosa – ricevono ulteriore forza dal fatto che gli uomini sono consapevoli che, a causa degli effetti distorsivi prodotti dal buco nero che si trova poco lontano, ogni ora su quel pianeta equivale a sette anni di tempo terrestre. Sappiamo che ciò è particolarmente doloroso per Cooper, che desidera rivedere i figli. E quando Cooper torna sulla nave spaziale, scopre che c’è stato un errore di calcolo – in realtà mentre il gruppo si trovava sul pianeta di Miller sono passati ventitré anni. In una scena straziante, mentre legge i messaggi che i figli hanno inviato alla nave spaziale nell’arco di due decenni, Cooper osserva le loro vite raggiungere l’età adulta nell’arco di pochi minuti. L’amore – in particolare l’amore tra genitori e figli – è uno dei temi principali del film. L’amore tra Cooper e la figlia Murph è ciò che alla fine consente al Piano A di Brand di funzionare: il legame tra i due permette a Cooper, mentre si trova all’interno del tesseratto, d’inviare a Murph i dati che le servono per risolvere l’equazione da cui dipende il piano. Ma sebbene l’amore tra i due costituisca il filo affettivo centrale del film, si tratta di un amore tragicamente frustrato. I due si riuniscono soltanto sul letto di morte di Murph. A causa degli effetti della relatività, al suo ritorno Cooper ha praticamente lo stesso aspetto che aveva quand’era partito dalla Terra. Murph è invece una donna anziana alla fine della sua esistenza, nel corso della quale Cooper è stato quasi sempre assente.

Durante una scena precedente che si svolge a bordo dell’Endurance, Amelia Brand (la figlia di John) parla dell’amore come di una forza che proviene da un’«altra dimensione»: Cooper: Sei una scienziata, Brand. Amelia Brand: e allora ascoltami, quando dico che l’amore non è una cosa che abbiamo inventato noi. È... misurabile, è potente. Deve voler dire qualcosa. Cooper: L’amore ha un significato, sì. Utilità sociale, solidarietà, allevare bambini... Amelia Brand: Amiamo persone che sono morte. Qui non c’è un’utilità sociale. Cooper: Non c’è. Amelia Brand: Forse vuol dire qualcosa di più, qualcosa che non possiamo ancora afferrare. Magari è una testimonianza, un artefatto di un’altra dimensione che non possiamo percepire consciamente. Io sono dall’altra parte dell’universo attratta da qualcuno che non vedo da un decennio, una persona che forse è morta. L’amore è l’unica cosa che riusciamo a percepire che trascenda le dimensioni di tempo e spazio.

Le dichiarazioni di Amelia Brand a proposito dell’amore sono tutt’altro che disinteressate. Infatti compaiono quando l’equipaggio deve decidere se far rotta verso il pianeta di Mann o quello di Edmunds. La Brand vorrebbe far rotta sul pianeta di Edmunds, ma la sua scelta è motivata dal fatto che era innamorata di Edmunds. Da qui la sua convinzione che l’amore sia una forza misteriosa, con tutto il suo corollario di qualità e poteri occulti. Eppure, almeno per quanto riguarda il pianeta di Edmunds, alla fine si scopre che aveva ragione. Si tratta dell’unico ambiente abitabile. Come abbiamo già visto, il pianeta di Miller è un oceano desolato, mentre quello di Mann è un deserto coperto di ghiaccio. La prima tentazione sarebbe quella di respingere l’affermazione della Brand come puro e semplice sentimentalismo kitsch. Parte della forza di Interstellar, tuttavia, deriva proprio dalla sua disponibilità a rischiare di apparire ingenuo, oltre che emotivamente e concettualmente eccessivo. Il film apre così la possibilità di un amore eerie. L’amore smette di stare dalla parte di ciò che dà l’impressione di essere (troppo) familiare, e passa da quella dell’ignoto. Per merito della Brand, l’amore è un’incognita che può però essere indagata e quantificata: diviene un’agente eerie.

17. Qui stalker mantiene il significato originario di cacciatore che segue di soppiatto una preda. [n.d.t.]

«...L’EERINESS RIMANE» JOAN LINDSAY

Vedono le pareti della palestra svanire in una meravigliosa trasparenza, il soffitto aprirsi come un fiore nel cielo sfolgorante sopra la Hanging Rock. L’ombra della Roccia ondeggia, luccicante come acqua, oltre la pianura dalla tremula luce diffusa e loro sono al picnic, sedute sull’erba secca e tiepida sotto gli alberi della gomma... Joan Lindsay, Picnic a Hanging Rock

L’ultima parola spetta a Picnic a Hanging Rock, il romanzo di Joan Lindsay pubblicato nel 1967. Non solo perché quest’opera costituisce un esempio da manuale di romanzo eerie – con sparizioni, amnesie, anomalie geologiche, un luogo intensamente suggestivo – ma anche perché la resa dell’eerie da parte della Lindsay presenta una positività, un fascino languido ed estatico che appare assente o represso in molti altri testi eerie. Il caso di Lindsay è opposto a quello di M.R. James. Mentre come abbiamo visto James ritrae sempre l’esterno come pericoloso e mortale, Picnic a Hanging Rock evoca un esterno che di certo richiama timore e pericolo, ma offre anche una via di fuga dalle repressioni meschine e dai gretti confini dell’esperienza ordinaria verso un’intensa atmosfera di lucidità onirica. Picnic a Hanging Rock dimostra che a volte una scomparsa può essere più inquietante di un’apparizione. Si potrebbe dire che in Picnic a Hanging Rock non succede nulla. E in effetti nulla succede, ma non nel senso che non si verificano eventi, anche se il romanzo riguarda un enigma irrisolto. No: il nulla succede, nel senso che un’assenza irrompe nella realtà empirica. Il romanzo tratta del vuoto che si apre e delle perturbazioni che questo genera. La scomparsa intorno a cui è costruito il romanzo si verifica durante un

picnic tenuto nel giorno di San Valentino a Hanging Rock, nello stato di Victoria, in Australia. La massa di Hanging Rock incombe sul romanzo come uno dei paesaggi spinali realizzati con la tecnica della decalcomania da Oscar Dominguez e Max Ernest: è il relitto geologico di un passato remoto, di un tempo che ha preceduto di molti millenni l’arrivo degli esseri umani. La Roccia compare soltanto a frammenti, con i suoi spazi labirintici profondamente infidi quanto quelli del sito di un altro picnic, la Zona di Tarkovskij. Alla fine si ha l’impressione che certi territori della Roccia – spazi psichici oltre che fisici – siano navigabili soltanto in uno stato di delirio. Questo delirio calmo è l’atmosfera prevalente nel fedele adattamento cinematografico realizzato da Peter Weir nel 1975, dove tempo (e narrazione) sono trattenuti in una sospensione dolente e domina un clima di fatalismo irreale. Il picnic è una gita in giornata organizzata per le studentesse dell’Appleyard College, un collegio femminile privato. Il collegio, tentativo di simulare un pezzetto d’Inghilterra vittoriana in condizioni che difficilmente potrebbero essere più diverse, troneggia sul paesaggio circostante con l’incongruenza di un quadro di Magritte. Il contrasto tra la Roccia e l’assurda e soffocante eleganza degli abiti e dei rituali del collegio rende palpabile l’inerente surrealismo del progetto coloniale: Isolate dal naturale contatto con la terra, l’aria e la luce del sole per via dei corsetti prementi sul plesso solare, delle sottane voluminose, delle calze di cotone e degli stivaletti di capretto, le ragazze sazie e assonnate che poltrivano all’ombra non facevano parte dell’ambiente più di quanto ne facciano parte le figure di un album di fotografie messe in posa a capriccio su un fondale con rocce di sughero e alberi di cartone.

Nel corso del picnic, quattro studentesse – Miranda, Edith, Marion e Irma – insieme a Greta McCraw, l’insegnante di matematica, decidono di salire sulla Roccia. All’inizio la risalita non presenta nulla di speciale ed è animata unicamente da chiacchiere, pettegolezzi e qualche discussione sull’antichità del posto. L’atmosfera generale è interrotta soltanto da una strana affermazione di Marion. «Che cosa staranno facendo quelle persone laggiù, simili a un esercito di formiche? [...] Un numero sorprendente di

persone non ha alcuno scopo. Quantunque sia probabile, naturalmente, che compiano una missione ignota anche a loro stessi». È come se Marion si fosse già staccata dal mondo sottostante, come se avesse già varcato una soglia. Ma quando le quattro ragazze avvistano un monolite – «una sporgenza isolata di pietra picchiettata, pareva un uovo mostruoso appollaiato in cima a un precipizio a picco sulla pianura» – l’atmosfera muta radicalmente. Tutt’e quattro vengono immediatamente colte da apatia e cadono in un sonno profondo. A questo punto il fuoco del racconto si sposta sul punto di vista di Edith. La ragazza si sveglia in preda al panico, chiedendo di tornare a casa. Ma le compagne sembrano entrate ormai in uno stato (di trance) alterato: «Miranda», disse di nuovo Edith, «mi sento terribilmente male! Quand’è che torniamo indietro?» Miranda la guardava in modo strano, quasi non la vedesse. Quando Edith ebbe ripetuto a voce più alta la domanda, volse risoluta la schiena e cominciò ad allontanarsi, seguita a pochi passi dalle altre due. Ebbene, non camminavano, scivolavano a piedi nudi sulle pietre come se si trovassero sul tappeto di un salotto.

Miranda, Marion e Irma scompaiono poco alla volta alla vista, nascoste dalla massa del monolite. Edith invece scende di corsa dalla Roccia urlando. Quando raggiunge il gruppo di compagne in gita «rideva e piangeva nello stesso tempo, e aveva il vestito tutto strappato», e appare incapace di fornire indicazioni sul luogo in cui si è separata dalle compagne. Un gruppetto di persone risale la Roccia, ma non trova nessuna traccia delle tre studentesse né di Miss McCraw (alcuni giorni dopo, Edith affermerà di ricordare di aver visto Miss McCraw sulla Roccia inesplicabilmente vestita soltanto della sua biancheria intima). Altre ricerche organizzate nei giorni immediatamente successivi non danno risultati. Qualche giorno dopo, però, Irma viene ritrovata sulla Roccia senza corsetto e con gli abiti strappati. Colpita da amnesia, non è in grado di fornire alcuna spiegazione su ciò che è successo lassù. Il resto del romanzo non chiarisce altro sull’accaduto. Alla fine del libro, con il College abbandonato dalle famiglie per lo scandalo provocato dagli eventi di Hanging Rock, le sparizioni restano senza spiegazione. Accanto alla sensazione di eeriness del romanzo (e, penso, in grado di contribuire a essa), c’è la sua capacità di generare un «effetto di realtà».

Sebbene la vicenda del romanzo fosse del tutto inventata, molti hanno erroneamente creduto che fosse basata su una storia vera. Lo stile di narrazione scelto dalla Lindsay incoraggiava quest’interpretazione: l’autrice ha scritto il libro come un resoconto fattuale, utilizzando luoghi reali (compresa la stessa Hanging Rock, una strana formazione geologica realmente esistente). Il trucco del romanzo è quello di raccontare una classica storia di fate – giovani donne rapite e trasportate in un altro mondo – utilizzando le convenzioni del realismo. Una di queste consiste nel collocare l’evento in una data precisa. Secondo il romanzo, le tre donne scomparvero il 14 febbraio 1900. L’anno 1900, fatto significativo, è quello in cui Freud voleva datare l’Interpretazione dei sogni (operazione notoriamente fittizia, visto che il testo in realtà era stato pubblicato nel 1899: ma Freud desiderava portasse un anno di edizione epocale). Picnic a Hanging Rock non è però situato nel nostro 1900, perché il vero 14 febbraio cade di mercoledì, non di sabato come nel libro. Ma l’illusione di fattualità è soprattutto prodotta dall’assenza di qualsiasi soluzione al mistero. La vicenda dei pittori Zeusi e Parrasio riferita da Lacan offre qui una parabola. Zeusi dipinse un grappolo d’uva talmente realistico che gli uccelli cercarono di mangiarne i chicchi. Parrasio allora dipinse una tenda, e Zeusi gli chiese di scostarla per vedere ciò che stava dipingendo. L’assenza di spiegazioni fa di Picnic a Hanging Rock un analogo del dipinto di Parrasio. Il libro diventa un velo, un enigma la cui stessa incertezza genera l’illusione che debba esserci qualcosa dietro la tenda. Il romanzo sembra confermare l’idea che è possibile creare e avvalorare un senso dell’eerie semplicemente limitando l’informazione. Nel caso di Picnic a Hanging Rock, ciò si è verificato alla lettera: nella forma in cui è stato pubblicato, il libro è il risultato di un atto di escissione. Il manoscritto originale del romanzo forniva una specie di soluzione all’enigma in un capitolo conclusivo, che l’editore ha convinto la Lindsay a eliminare dalla versione definitiva. Questo «Capitolo Diciotto» è stato poi pubblicato in seguito come libro separato con il titolo The Secret of Hanging Rock. Non c’è alcun dubbio che il Capitolo Diciotto originale avrebbe assai indebolito l’«effetto di realtà» del romanzo. La parte rimossa è contraddistinta da un evidente cambiamento di tono. L’atmosfera evocativa che ha caratterizzato le parti precedenti del romanzo – l’allusione a qualcosa che sta al di fuori, al di là del mondo ordinario – cede il passo a quello che a

questo punto è chiaramente il resoconto di un’esperienza anomala. Il capitolo inizia più o meno nel punto in cui Edith scappa via. Miranda, Marion e Irma invece si sentono attratte dal monolite «come dall’interno». Si addormentano, e quando si risvegliano sono preda di una sensibilità intensificata, allucinogenica nei confronti di ciò che le circonda. Compare una donna più vecchia con indosso soltanto l’abbigliamento intimo – somiglia a Greta McCraw, ma questa non viene mai nominata né riconosciuta dagli altri personaggi. Quando la donna sviene, Miranda le allenta il corsetto. Il gesto spinge Marion a proporre alle compagne di «liberarsi di questi indumenti assurdi» – così le tre studentesse tolgono i corsetti e li lanciano dalla Roccia. Nell’immagine forse più straordinaria del capitolo, i corsetti non cadono immediatamente a terra, ma fluttuano a mezz’aria a lato della Roccia. È possibile che il tempo si sia arrestato? Qui di certo siamo ben al di là del tempo misurato dall’orologio: forse nel Tempo del Sogno.18 (Nel saggio «A Commentary on Chapter Eighteen», contenuto nello stesso volume The Secret of Hanging Rock, Yvonne Rousseau sottolinea un gioco di parole, una compressione tipica del sogno, tra l’immagine dei corsetti sospesi in aria e la parola stay, che oltre a voler dire «rimanere» è anche un termine alternativo per «corsetto».) Compare un «buco nello spazio»: «Più o meno delle dimensioni di una luna piena d’estate, che va e viene. Lei lo vide come lo vedono i pittori e gli scultori, come una cosa in sé, che dà forma e significato alle altre forme. Come una presenza, non un’assenza...» Quando il buco svanisce, vedono un serpente strisciare dentro un piccolo foro nel terreno. La donna più vecchia dichiara che lo seguirà: in qualche modo si trasforma in granchio e scivola nell’angusto passaggio. Dopo un segnale, Marion la segue (qui il racconto non fa nessun accenno a una metamorfosi, né dice come la ragazza riesca a far passare il suo corpo nel foro). Quando è il turno di Miranda, un’Irma terrorizzata la supplica di non andare, ma Miranda non comprende la sua paura e riluttanza e scompare anche lei dentro il foro. Irma rimane sola, in attesa. Dopo un periodo di tempo indeterminato, un masso rotola sul foro. Nell’immagine finale del capitolo vediamo Irma – presumibilmente consapevole che ora non sarà più in grado di varcare la soglia – che tenta disperata di spostare il masso. La versione ufficiale del libro, quella senza il Capitolo Diciotto, non soltanto lascia l’enigma senza soluzione, ma lascia anche aperta la questione

del genere a cui appartiene il romanzo (di che genere si tratta? Realismo letterario? Storie di omicidi e misteri? Fantasy? Fantascienza?). L’inclusione del Capitolo Diciotto non avrebbe risolto il problema di fondo, ma avrebbe perlomeno permesso di scartare alcune possibilità. Per esempio avrebbe escluso l’interpretazione del romanzo come una vicenda di omicidi e misteri. Questo Capitolo Diciotto, tuttavia, genera tanti enigmi quanti ne risolve. Qual è la natura delle esperienze che si verificano sulla Roccia? Dobbiamo interpretarle alla lettera, per esempio l’episodio della trasformazione di Greta McCraw in granchio? Dobbiamo vederle come il risultato di una qualche forma di ebbrezza? (E in tal caso gli eventi potrebbero ancora essere recuperati all’interno di una qualche lettura realistica.) L’ipotesi che le donne abbiano attraversato una soglia verso l’esterno ci invita a leggere Picnic a Hanging Rock come una weird tale, e l’inclusione del Capitolo Diciotto spinge il romanzo verso uno spazio a metà strada tra weird e eerie. Ciò che però è certo è che il Capitolo Diciotto non offre alcun tipo di soluzione semplice agli interrogativi sollevati dal romanzo. Come scrive Yvonne Rousseau: «L’intenzione originale di Joan Lindsay alla fine viene rivelata – ma l’intenzione non era quella di districare il mistero. La geografia di Picnic diventa più chiara, ma l’eeriness rimane». L’eeriness dipende in parte dall’atmosfera affettiva che gravita sulle esperienze che si verificano sulla Roccia. Justin Barton l’ha definita «trance solare», un’atmosfera che si manifesta con una specie di fatalismo positivo. All’inizio questo fatalismo si esprime come un’apparente assenza (un niente dove dovrebbe esserci qualcosa). Quando i personaggi cadono sotto l’influsso della Roccia, sembrano denudati delle loro passioni. Eppure queste passioni, tra cui vi è di certo anche la paura, sono elementi del mondo quotidiano. È la paura di Irma, la sua incapacità d’ignorare tali elementi quotidiani (l’ultima descrizione di Irma fornita dall’autrice parla della sua abilità nel ricamo) che alla fine le impedisce di compiere il passaggio. È incapace di portare a termine quanto le donne avevano promesso nell’atto di liberarsi dai corsetti. Marion e Miranda invece sono pronte al salto nell’ignoto. Sono pervase della stessa calma eerie che insorge ogniqualvolta riusciamo a superare delle passioni familiari. Sono scomparse, e la loro scomparsa lascerà dei vuoti minacciosi, dei presagi eerie dell’esterno.

18. Fisher si riferisce qui al tempo che nella concezione del mondo degli aborigeni australiani precede la creazione. La connessione simbolica tra le vicende raccontate nel romanzo, gli eventi descritti nel capitolo mancante e tale concetto risulta evidente se si considera che Hanging Rock era un luogo molto importante per la comunità aborigena, prima che questa ne fosse allontanata con la forza dai coloni bianchi. [n.d.t.]

POSTFAZIONE DI GIANLUCA DIDINO

La sera del 19 gennaio 2018 mi trovavo alla Goldsmiths University di Londra per assistere alla prima memorial lecture in onore di Mark Fisher. Era passato un anno dal giorno della sua morte e nel corso di quei dodici mesi l’interesse nei confronti del suo lavoro era letteralmente esploso, travalicando tanto i confini nazionali britannici (dove Fisher era già conosciuto e letto da una fetta consistente di pubblico) quanto gli ambienti della critica filosofica e musicale all’interno dei quali, dall’inizio degli anni Duemila, era diventato una figura di primo piano. All’interno del moderno lecture theater ogni spazio disponibile era occupato, non solo i quasi trecento posti a sedere ma anche le scalinate e le porte. A meno di mezz’ora dall’inizio dell’evento la folla non aveva smesso di fluire, al punto che gli organizzatori avevano aperto una seconda aula di dimensioni solo lievemente più ridotte e allestito una diretta streaming. Nemmeno questa era bastata e una terza aula si era resa necessaria. Quando infine Kodwo Eshun, amico e sodale di Fisher fin dai tempi ormai mitici della CCRU, aveva iniziato la sua lezione, anche la terza aula aveva raggiunto la massima capienza, e gli organizzatori avevano consigliato a coloro che non erano riusciti a entrare di seguire l’evento da computer e telefoni cellulari. Il pubblico era composto in gran parte di giovanissimi, alcuni con ogni probabilità allievi dello stesso Fisher, che a lungo aveva insegnato alla Goldsmiths. L’impressione era quella di assistere a un pellegrinaggio o, meglio, al momento di una canonizzazione. Chiunque conoscesse Fisher, perché aveva l’aveva avuto come insegnate, aveva letto i suoi libri o ne aveva almeno sentito parlare, voleva esserci – una cosa che non capita tutti i giorni nel mondo della critica culturale. Ma cosa rende il

pensiero di Mark Fisher tanto importante oggi? Per capirlo dobbiamo fare un salto indietro nel tempo e spostarci tra gli edifici brutalisti dell’università di Warwick, una cittadina a pochi chilometri da Coventry dove alla fine degli anni Novanta Fisher stava preparando la propria tesi di dottorato sul «materialismo gotico e la theory-fiction cibernetica».1 Un articolo uscito sul Guardian nel 2017 ha ricostruito bene l’atmosfera che si respirava a Warwick in quel periodo, in cui il Regno Unito era appena uscito dal decennio di Margaret Thatcher, la scena della musica rave toccava il culmine e la cosiddetta rivoluzione digitale era alle porte.2 Erano gli anni in cui la globalizzazione sanciva la «fine della Storia» e l’intelligenza collettiva di Pierre Lévy rilanciava l’idea di un futuro postumano, in cui alla fine di ogni alternativa al capitalismo occidentale si accompagnava un balzo in avanti della tecnologia paragonabile solo a quello che, all’inizio del ventesimo secolo, aveva dato vita alle avanguardie storiche. In questo contesto a metà strada tra la frenesia futurista e il nichilismo fin de siècle, un filosofo nietzschiano, Nick Land, e una studiosa del situazionismo, Sadie Plant, avevano fondato all’interno del dipartimento di Filosofia un’unità semiriconosciuta che avevano battezzato Cybernetic Culture Research Unit. Scopo ufficiale della CCRU era quello di studiare le intersezioni tra i nascenti posthuman studies e le tecnologie digitali; nella pratica il gruppo avrebbe finito per occuparsi di «fiction, teoria dei numeri, voodoo, filosofia, antropologia, tettonica a placche, scienza dell’informazione, semiotica, geofilosofia, occultismo e altre conoscenze senza nome», tra cui naturalmente la musica elettronica.3 Nell’arco di breve tempo la creatura di Plant e Land aveva finito per attirare intorno a sé le menti più brillanti e irrequiete che popolavano Warwick, dall’ultranichilista Ray Brassier a Fisher ed Eshun. La sua connessione con la scena rave aveva suscitato l’interesse di critici musicali come Simon Reynolds, che nel 1999 aveva intervistato il gruppo come inviato della rivista Lingua Franca, finendo per diventare uno dei collaboratori più stretti di Fisher.4 Era stato in seno alla CCRU che era nato l’accelerazionismo, una corrente filosofica che proponeva di spingere la logica capitalista fino al punto di rottura e che, come vedremo in seguito, si sarebbe rivelata di estrema importanza nel panorama culturale del terzo millennio.

L’esperienza della CCRU si era conclusa nei primi anni Duemila quando, dopo l’addio di Plant, i comportamenti sempre più eccentrici di Land e l’uso liberale che nel gruppo si faceva di droghe come le anfetamine avevano spinto l’università di Warwick a tagliare i fondi alla ricerca sulle «culture cibernetiche». Era stato in questo periodo, mentre muoveva i primi passi nell’insegnamento, che Fisher aveva cominciato a lavorare a k-punk, il blog di critica musicale, letteraria e cinematografica che Simon Reynolds avrebbe più avanti definito «la lettura obbligatoria di una generazione».5 Sulle pagine di k-punk, Fisher aveva delineato molti dei concetti che ne avrebbero successivamente caratterizzato il pensiero, dalla hauntology al «realismo capitalista», modulando progressivamente il lascito del periodo accelerazionista con una visione più personale e malinconica caratterizzata dalla sensazione di «fine del futuro» e dal sentimento a essa associato, quella depressione che l’avrebbe portato al suicidio poco più di un decennio dopo. Intorno alla metà degli anni Zero si era trasferito alla Goldsmiths di Londra, che stava raccogliendo l’eredità di Warwick come principale centro per lo sviluppo della filosofia d’avanguardia (era stato proprio alla Goldsmiths che, nel 2007, si era tenuto il convegno che aveva dato i natali al Realismo Speculativo, forse la più importante corrente filosofica affermatasi nell’ultimo decennio:6 tra i quattro filosofi presenti al convegno non è un caso che ci fosse anche un altro esule di Warwick, Ray Brassier7). Dopo un decennio di apprendistato, nel 2009 Fisher aveva pubblicato per il giovane editore Zero Books il primo dei tre libri che sarebbero usciti a suo nome, Realismo capitalista. In questo libretto esile, che nell’edizione originale conta meno di cento pagine, Fisher delineava il fondamento della sua teoria politica e culturale, in cui la massima thatcheriana secondo cui «non c’è alternativa» al capitalismo diventa la chiave di lettura per interpretare, sulla scorta di Fredric Jameson, il periodo postmoderno della cultura; a questo «realismo» asfittico, che nega qualsiasi slancio utopico e che impedisce di immaginare un futuro diverso dal presente, fa eco a livello psichico la depressione, che in Fisher diventa dunque la risposta individuale a un problema collettivo di natura eminentemente politica.8 Uno degli errori che si fanno più comunemente nell’approcciarsi all’opera di Mark Fisher è quello di considerarlo un pensatore organico, inserito in un flusso solido di produzione editoriale e accademica. Ma Fisher,

che era un critico culturale nella maniera più pura del termine, come molti critici culturali è stato principalmente un autore di testi brevi, dai post di kpunk alle tessere del mosaico che compongono The Weird and the Eerie; lo stesso Realismo capitalista è in fondo, per quanto importante, un saggio breve esteso alla dimensione di un piccolo libro. Non è quindi un caso che tra il 2009 e il 2014 Fisher non pubblichi niente in volume e, quando lo fa, a uscire (sempre per Zero Books) è una raccolta di saggi che raccoglie la produzione di un intero decennio. Ghosts of My Life ha un sottotitolo che chiarisce subito di cosa tratteranno i saggi («scritti sulla depressione, la hauntology e i futuri perduti») e si apre con una lunga introduzione in cui viene definito il concetto di hauntology, già arrivato al grande pubblico qualche anno prima in un capitolo di Retromania di Simon Reynolds.9 Muovendo la propria analisi da quello che Franco «Bifo» Berardi ha definito «la lenta cancellazione del futuro»,10 Fisher inquadra la condizione disturbante del nostro presente culturale, un tempo compresso tra l’accelerazione frenetica imposta dallo sviluppo tecnologico e l’assenza di un futuro «altro» rispetto alle logiche capitaliste. In questo panorama caratterizzato dal vertiginoso collasso del tempo, gli spettri dei «futuri perduti» (cioè di tempi passati in cui il futuro poteva essere ancora immaginato) aleggiano sul presente come fantasmi. La hauntology, che Fisher deriva dal Jacques Derrida degli Spettri di Marx,11 è la condizione perturbante della permanenza di un passato che non scompare nel tessuto del Reale: da qui la sua etimologia, che è una crasi tra haunt (infestare) e ontology (ontologia, la branca filosofica che si occupa del fondamento della realtà). L’utilizzo che Fisher fa del concetto di Derrida è forse uno degli aspetti più interessanti della sua intera opera, e si configura come una formula perfetta per cogliere l’aspetto «spettrale» o «fuor di sesto» di un presente culturale che sembra aver perso direzionalità, catalizzando attorno a sé un discorso che va dalla musica dubstep di Burial al destino del postmoderno, dal futuro della sinistra postmarxista al ruolo giocato dalle tecnologie digitali nel frantumare la trama dell’esperienza.12 Tre anni più tardi esce il libro che avete appena finito di leggere, The Weird and the Eerie. Pubblicato da Repeater Books, una costola di Zero, questo piccolo libro è il primo lavoro di Fisher a non essere dichiaratamente politico, e tuttavia costituisce una sorta di ritorno alle origini del suo

pensiero, che affondava in territori «strani e inquietanti» fin dalla tesi di dottorato sul «materialismo gotico». The Weird and the Eerie è, probabilmente, la prima trattazione organica esterna all’ambito strettamente accademico di un concetto, quello di «weird» («strano», «insolito») a cui il mondo sempre più strano nel quale viviamo ci ha abituati. L’«eerie» («inquietante», «angoscioso») deriva invece da un’altra tradizione, quella dell’horror filosofico di scrittori come Thomas Ligotti e pensatori come Eugene Thacker che, come vedremo, condividono più di un aspetto con la visione del mondo accelerazionista. Raccogliendo contributi e tematiche affrontati tanto su k-punk che su riviste accademiche, il lavoro di Fisher ha il pregio di fornire una definizione operativa di due concetti cardine per capire la contemporaneità: Fisher lavora sull’idea di «weird» come compresenza di «due entità che non appartengono» alla stessa dimensione e di «eerie» come alterazione dell’agentività (la condizione per cui «c’è qualcosa [che agisce] dove non dovrebbe esserci niente» o «non c’è niente dove dovrebbe esserci qualcosa»). Poche settimane dopo l’uscita di questo libro – che si apre, cupamente con il senno di poi, con l’epigrafe dedicata alla moglie «a Zöe [...] ragione per cui qui esiste qualcosa invece che nulla» – Fisher si toglie la vita. Lascia incompiuto, nella sua casa del Suffolk, un lavoro provvisoriamente intitolato Acid Communism che avrebbe dovuto trattare il ruolo delle droghe psichedeliche nell’immaginazione di una realtà «altra» negli anni Sessanta, ed estratti del quale verranno pubblicati da Repeater Books a novembre 2018 in un’antologia di scritti comprendente anche i testi di k-punk.13 Questa rapida carrellata dovrebbe essere sufficiente a chiarire l’importanza che il lavoro di Fisher ha assunto nel corso dei vent’anni scarsi di attività del suo autore. Poco più che trentenne Fisher faceva parte di un esperimento culturale, la CCRU, che non solo avrebbe influenzato il pensiero di alcuni degli autori più importanti della scena britannica dell’ultimo decennio, ma il cui lascito sarebbe entrato con prepotenza nel discorso politico sul post-capitalismo e (attraverso la musica, in un percorso più sommerso e parallelo) nella cultura giovanile degli anni Dieci. Come racconta ancora l’articolo del Guardian citato sopra, l’idea di accelerazionismo si era estesa alla cultura mainstream quando un giovane lettore di k-punk, Nick Srnicek, si era trasferito dal Canada a Londra; arrivato nella capitale britannica, nel 2013 aveva pubblicato insieme ad Alex

Williams un nuovo manifesto accelerazionista, esteso l’anno dopo in un libro intitolato Inventare il futuro e il cui slogan (PRETENDI LA PIENA AUTOMAZIONE. PRETENDI IL REDDITO UNIVERSALE. PRETENDI IL FUTURO, scritto in lettere maiuscole sullo sfondo rosso della copertina) diceva molto sul suo contenuto.14 Questa corrente, inizialmente chiamata «accelerazionismo di sinistra» per differenziarla dalle derive occultiste e destrorse prese dall’ultimo Land, si era inserita in un nuovo pensiero di sinistra che, sulle macerie della crisi finanziaria del 2008 e radicalizzando in qualche modo il discorso iniziato da Occupy Wall Street, si proponeva di superare il capitalismo attraverso un mix di intervento statale e abolizione del lavoro per mezzo dell’automazione. Se il passato accelerazionista di Fisher era servito da ponte per il lavoro di Srnicek e Williams, il suo discorso sulla «fine del futuro» e la hauntology si era invece inserito in un altro discorso di importanza fondamentale negli anni Zero e nei primi anni Dieci: quello sulla nostalgia per il passato culturale. Laddove il discorso di Reynolds in Retromania si era fermato alla musica (spiegando il «come» più che il «perché» dello sguardo rivolto al passato), Fisher aveva dato del problema una lettura che coinvolgeva la dimensione politica e quella più ampiamente culturale del problema (Fisher è stato tuttavia anche un importante critico musicale, e Ghosts of My Life contiene pagine molto belle sulla fine della scena rave o il post punk; inoltre, come ha spiegato bene Grafton Tanner in un altro libro pubblicato per Zero Books,15 fenomeni più contemporanei come quello della vaporwave sono stati fortemente influenzati sia dall’hauntology fisheriana che dall’accelerazionismo). Infine, con il suo ultimo libro, Mark Fisher ha aperto la strada a un nuovo approccio agli studi su generi della speculative fiction come weird, fantascienza e horror soprannaturale. Ma in cosa consiste esattamente questo approccio? Come abbiamo visto brevemente, poco dopo l’arrivo di Fisher al suo dipartimento di visual cultures la Goldsmiths University aveva ospitato un importante convegno dedicato a un movimento filosofico di cui allora nessuno aveva sentito parlare: il Realismo Speculativo. Sebbene i filosofi che partecipavano al convegno (Quentin Meillassoux, Graham Harman, Hamilton Grant e Ray Brassier) venissero da posizioni molto diverse tra di loro, e che difficilmente si potesse parlare di un «movimento» in quanto tale, le loro visioni del mondo condividevano alcuni punti importanti. Il primo era quello

che, con lessico filosofico un po’ ermetico, Meillassoux aveva chiamato la critica al «correlazionismo» kantiano.16 Per Kant non è possibile pensare la mente in sé (perché la mente non può pensare se stessa) né le cose in sé (che percepiamo sempre filtrate dalle nostre categorie mentali) ma soltanto il punto d’incontro (o «correlazione») tra queste due dimensioni. Il corollario di una simile affermazione, ovviamente, è l’esclusione dall’indagine filosofica di tutto ciò che esiste al di fuori delle categorie mentali proprie degli esseri umani. La critica a questo approccio antropocentrico è il secondo punto che i filosofi del Realismo Speculativo condividono: quella di Kant, scrive Meillassoux, non è stata una «rivoluzione copernicana», come si sostiene comunemente, ma una «controrivoluzione tolemaica» volta a portare l’uomo al centro dell’universo.17 Il rifiuto dell’antropocentrismo che caratterizza i Realisti Speculativi ha anche ragioni più concrete rispetto alle diatribe filosofiche. L’anno del convegno alla Goldsmiths, il 2007, è generalmente considerato il punto di svolta nel discorso sul riscaldamento globale: a settembre del 2006 Al Gore aveva portato nelle sale cinematografiche Una scomoda verità, il primo film sulle conseguenze del global warming a raggiungere un pubblico di massa; il fatto che la percezione del problema stesse cambiando era diventato palese quando pochi mesi dopo un libro come Il mondo senza di noi di Alan Weisman – che raccontava cosa succederebbe alla Terra se gli umani si estinguessero improvvisamente – era inaspettatamente diventato un bestseller in molti paesi.18 Sempre nel 2007, il filosofo Timothy Morton aveva proposto l’idea controintuitiva e fortunata di una «ecologia senza natura», cioè di un nuovo ecologismo liberato dal peso romantico di concetti metafisici come quello di «natura» o di «mondo».19 L’ingresso sulla scena di forze esterne all’uomo che minacciavano di spazzarlo via dalla faccia della Terra spingeva la filosofia ad allargare i propri orizzonti per includere quelle entità non-umane e quei fenomeni che, antikantianamente, esistevano indipendentemente dalle categorie mentali umane. Il terzo punto che accomunava i filosofi del Realismo Speculativo era il fatto che questa realtà «radicalmente ritirata» rispetto alla percezione umana potesse comunque essere conosciuta, seppure in maniera indiretta, anche se sul «come» accedere a questa realtà le idee differivano (attraverso la scienza per Meillassoux, attraverso l’arte per Harman, attraverso l’estremizzazione del pensiero razionale per Brassier). Se dunque l’aspetto del realismo

contenuto nella formula che dava il titolo al convegno stava a indicare l’esistenza di una realtà non mentale e non umana, il termine speculativo indicava proprio la possibilità di accedere a questa realtà non empiricamente percepibile attraverso metodi indiretti e speculativi. Al di là delle sottigliezze filosofiche, quello che il convegno della Goldsmiths aveva portato prepotentemente al centro del discorso era una dimensione altra rispetto al mondo rassicurante nel quale l’uomo è al centro dell’universo; questo «esterno» era un luogo inesplorato di meraviglia e di fascinazione ma anche, inevitabilmente, di terrore. In fin dei conti il riscaldamento globale minacciava davvero di estinguerci e con questa «verità dell’estinzione» (per usare la formula impiegata da Brassier20) dovevamo fare i conti nella realtà, e non solo nel chiuso delle aule universitarie e dei dipartimenti di filosofia. Nel 2011, un altro filosofo associato al movimento dei realisti speculativi, Eugene Thacker, aveva portato il discorso al gradino successivo nel suo In the Dust of This Planet, primo volume della collana Horror in Philosophy.21 Nell’introduzione al suo volume, Thacker scriveva che in un mondo reso sempre più «impensabile» da eventi catastrofici come il riscaldamento globale la filosofia necessitava di nuove categorie, e individuava la principale nell’horror soprannaturale. Da un lato, diceva Thacker, c’è il mondo antropocentrico, rassicurante ma in fin dei conti illusorio (il «mondo-per-noi»), e dall’altro c’è il mondo dell’esterno, nel quale i significati umani perdono di valore (il «mondo-in-sé»). Queste due dimensioni non possono incontrarsi a meno che tra di esse ne venga istituita una terza, che Thacker chiama (forse sulla scorta del fortunato libro di Weisman) il «mondo-senza-di-noi», e che è il regno dell’horror soprannaturale. La dimensione del «mondo-senza-di-noi» ci permette di pensare il «mondo-in-sé» senza la rassicurante patina illusoria del «mondoper-noi»: un esempio chiaro di questo meccanismo è la narrativa di H.P. Lovecraft, tutta incentrata sul contatto con entità «innominabili» e «indescrivibili» che provengono, spesso letteralmente (Il colore venuto dallo spazio, L’abitatore del buio, L’ombra fuori del tempo), da un esterno che trascende le capacità di comprensione umana. L’horror filosofico proposto da Thacker aveva trovato modo di diffondersi tra il grande pubblico soprattutto attraverso l’opera di uno scrittore, Thomas Ligotti, il cui successo aveva subito un’impennata negli

anni Dieci. Attivo fin dagli anni Ottanta e considerato un autore di culto da una nicchia, nel 2010 Ligotti aveva pubblicato La cospirazione contro la razza umana, un compendio di filosofia ultrapessimista in cui affrontava temi come l’estinzione della specie e la non-esistenza della persona, il buddismo e le esperienze di quasi-morte, la fiction gotica e l’orrore del non-umano22 (non è un caso che, nell’edizione originale, il libro di Ligotti recasse un’introduzione di Ray Brassier). Il capitolo più cupo della Cospirazione era senza dubbio quello in cui Ligotti recuperava le teorie neuroscientifiche del filosofo Thomas Metzinger, secondo il quale la coscienza è un’illusione dietro alla quale si nasconde il vuoto e gli uomini vivono la tragica condizione di «credere di essere qualcuno» quando in realtà sono «nessuno». Questa visione ultranichilista dell’esistenza era entrata nella cultura di massa con la fortunata serie tv True Detective del 2014, nella quale (in un episodio significativamente intitolato «La stanza sigillata») il detective-filosofo «Rust» Cohle interpretato da Matthew McConaughey recita un monologo tanto ispirato a Ligotti da procurare al creatore della serie Nic Pizzolatto una denuncia per plagio. Intervistato sulle fonti d’ispirazione di True Detective, Pizzolatto avrebbe citato non solo Ligotti ma anche, tra gli altri, Thacker e Brassier.23 Questo è il contesto in cui Fisher pubblica The Weird and the Eerie. Sebbene il libro tratti anche argomenti di altra natura, come il grottesco nella musica dei Fall o le sovrapposizioni temporali nei romanzi di Alan Garner, la maggioranza dei saggi possono essere facilmente inseriti nelle varie diramazioni di questo discorso che ha attraversato la critica culturale e filosofica (principalmente ma non unicamente) britannica negli anni Zero e negli anni Dieci: la strana presa di coscienza degli uccelli nel racconto di Daphne du Maurier è una potente e precoce metafora di una natura che sfugge al controllo dell’uomo, ad esempio, ed è difficile pensare che il pensiero di Ligotti non abbia giocato un ruolo importante nella definizione di eerie come condizione in cui «non c’è niente dove dovrebbe esserci qualcosa», o che non ci sia un’eco di Thacker nei tanti esempi di horror soprannaturale come dimensione capace di metterci a contatto con universi non-umani affrontati nel libro. Ma ci sono soprattutto due concetti che attraversano The Weird and the Eerie come pilastri portanti e che rendono esplicita l’appartenenza di Fisher al suo contesto culturale: quello di

«esterno» (outside) e quello di «demondificazione» (unworlding). Sopra abbiamo visto cosa dobbiamo intendere per «esterno»: una dimensione estranea alle categorie della mente umana, che non soggiace alle sue leggi e che esiste nonostante l’uomo, dunque in sua assenza o senza che su di essa sia possibile esercitare controllo. Quella dell’esterno è una categoria che è sia weird che eerie, perché comporta una compresenza di entità che non appartengono alla stessa dimensione e ci mette a confronto con un’agentività non-umana. Il primo caso è ancora quello di Lovecraft, il cui pantheon di divinità mostruose esiste su dimensioni spazio-temporali aliene a quelle dell’uomo, ma anche di esempi che Fisher non cita: è difficile ad esempio non pensare a quanto riuscita sia la definizione fisheriana quando si pensa al genere letterario del New Weird e al suo principale esponente, Jeff VanderMeer, nei cui romanzi compaiono di continuo entità che sono contemporaneamente umane e non-umane; o a un testo come La città & la città di China Miéville, in cui le città gemelle di Bes´zel e Ul Qoma coesistono nello stesso spazio, una dentro l’altra (ed è interessante notare come sia nel caso dell’Area X della trilogia di VanderMeer che nel romanzo di Miéville ci troviamo di fronte a «esterni» divisi dal resto del mondo da una soglia o un «confine», secondo Fisher uno dei dispositivi tipici utilizzati nelle narrazioni weird, da H.G. Wells a David Lynch). La dimensione eerie dell’esterno invece è quella che troviamo nelle scene più oniriche di un film come Under the Skin, nel quale l’atto sessuale/cannibalistico operato dall’alieno nei confronti delle sue vittime umane avviene in un altrove radicale, che sembra del tutto sottratto al tempo e agli spazi dell’esperienza comune. L’esterno ha naturalmente anche una dimensione psicologica, sulla quale torneremo meglio a breve, nella forma di una «attrazione [...] per ciò che sta al di là della percezione, della conoscenza e dell’esperienza comune». E si tratta di una dimensione tanto fondamentale da far scrivere a Fisher che «non esiste interno salvo che come ripiegamento dell’esterno: lo specchio s’infrange, io sono un altro, e lo sono sempre stato». Il concetto di demondificazione è più complesso. Usando questo termine heideggeriano (entweltlichung), Fisher intende – come scrive analizzando Il mondo sul filo di Fassbinder – «una caduta abissale da ogni idea che esista un qualsiasi livello “fondamentale” che possa fungere da base o da pietra di paragone, garantendo e autenticando ciò che è davvero reale». Senza entrare nelle complessità della filosofia heideggeriana, potremmo parlare di

demondificazione come del processo di decostruzione dell’idea di «mondo» inteso come un insieme di semantiche fondative. Ad esempio, la nostra idea di mondo naturale (come scrive Timothy Morton nel suo saggio sugli iperoggetti24) si fonda sul fatto che quello che chiamiamo «natura» faccia da sfondo all’elemento antropico: per questo Gli uccelli della Du Maurier è un racconto profondamente «demondificante» nel rendere la natura, incarnata in questo caso dagli uccelli, «innaturale» in quanto non più sfondo passivo contro il quale avvengono le faccende umane ma soggetto dotato di una inquietante volontà (o agentività, per usare le parole di Fisher). Allo stesso modo, e in maniera forse ancora più esplicita, il pessimismo di Ligotti è demondificante nello svuotare la persona di qualsiasi «essenza ultima». Ma più in generale è l’esistenza di un esterno non-umano a fare a pezzi la nozione di mondo come costrutto ontologico stabile: come scrive Brassier, il mondo esterno alla mente è «indifferente alla nostra esistenza e inconsapevole dei nostri “valori” e “significati”».25 Tutti gli esempi che Fisher analizza in The Weird and the Eerie sono, in una forma o nell’altra, esempi di demondificazione, in cui eventi o entità che «non appartengono» alla dimensione umana entrano nel mondo degli uomini per metterne in crisi le fondamenta. Al di là del ruolo che questo concetto gioca nel suo contesto storico-culturale, esso riveste anche un’importanza fondamentale in un campo che nel caso di Fisher è stato meno indagato, e che tuttavia è altrettanto affascinante: la dimensione psicologica. Nonostante Fisher abbia parlato in maniera ampia e diffusa di depressione, e l’abbia fatto utilizzando un lessico spesso esplicitamente freudiano, poco si è scritto sul suo rapporto con la psicoanalisi. O meglio, questo rapporto è stato ampiamente indagato nella sua dimensione politica ma non in quello della sua derivazione culturale. Nonostante questo, il pensiero di Fisher deve molto sia a Freud che – com’è il caso di molti pensatori della nostra epoca – a Lacan, e questo rapporto è particolarmente chiaro nelle prime pagine di The Weird and the Eerie, nelle quali si fanno i conti con la nozione freudiana di perturbante. Che il rapporto tra Fisher e Freud non sia pacificato si vede fin da subito: il critico britannico non può eludere l’influenza del medico austriaco che per primo ha codificato la dimensione in cui esistono weird e eerie, ma al contempo tenta di prendere le distanze dalla sua eredità ingombrante. E lo fa cominciando dal piano

linguistico, rifiutando la traduzione del termine tedesco, unheimlich, normalmente reso in inglese uncanny (un vocabolo che in italiano suona come «inspiegabile» o «sbalorditivo»), a cui Fisher preferisce piuttosto unhomely, termine molto più vicino al concetto di demondificazione (dettaglio marginale ma forse non privo d’interesse, per tornare alla homepage di k-punk bisogna cliccare sul testo Unhome). Ciò che Fisher fa dell’unheimlich freudiano è interessante, ed è la conseguenza di un’opera di deumanizzazione dell’inconscio che si sposa in pieno con la prospettiva dei posthuman studies. Naturalmente la stessa nozione di inconscio era già parsa deumanizzante alla fine del diciannovesimo secolo, quando Freud aveva iniziato a esplorarla (cosa potrebbe essere più sconvolgente di una forza che strappa il controllo all’uomo per perseguire fini propri e oscuri?), e aveva assunto connotati ancora più inquietanti quando Jung aveva cominciato a parlare di un «inconscio collettivo» negli anni Dieci del Novecento; in Fisher, l’idea di inconscio subisce un’ulteriore metamorfosi e diventa una forza propriamente aliena, parte di quell’esterno che abbiamo visto agire come categoria fondamentale alla base del discorso sul weird e l’eerie. Si tratta di un processo curioso, che «de-psicologizza» la dimensione psicologica per eccellenza fornendole un’esistenza «reale» e liberandola, in qualche modo, dal confine della mente. Se osservato da questo punto di vista, l’inconscio è davvero la non-casa dell’uomo, l’entità che demondifica radicalmente la mente. Anche su questo aspetto, tuttavia, l’influenza degli anni della CCRU agisce profondamente in Fisher. Gli accelerazionisti del gruppo di Land – alla pari di altri intellettuali britannici della stessa epoca, come ad esempio il romanziere Tom McCarthy – si erano interessati a un periodo particolare dell’opera di Freud, quello che coincide con la pubblicazione di Al di là del principio di piacere nel 1920. In questo breve saggio, com’è noto, Freud arrivava a delineare l’esistenza di un secondo principio alla base della mente umana, quello di Thanatos, la pulsione di morte. In realtà Freud si spingeva anche più in là, arrivando ad affermare che «il principio di piacere si pone al servizio delle pulsioni di morte», anche se successivamente avrebbe ritrattato, consapevole forse del rischio di cadere nel nichilismo facendo della pulsione di morte la base dell’esistenza.26 Negli anni Cinquanta Jacques Lacan aveva esteso l’intuizione di Freud

fino a coniare un concetto, quello di jouissance (il «godimento» che per il pensatore francese è l’ambigua confluenza di Eros e Thanatos e che spinge l’individuo, appunto, oltre il semplice principio di piacere27), la cui eco era chiaramente percepibile nei due testi su cui si fondava l’accelerazionismo, L’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari del 1972 ed Economia libidinale di Lyotard del 1974 (e anche un pensatore lacaniano come Slavoj Žižek non ha mancato di ricondurre la jouissance al pensiero di Nietzsche che, non scordiamoci, era il campo di studi accademico di Nick Land28). L’esperienza della CCRU d’altra parte si situa in un momento storico di grande riscoperta del pensiero di Lacan, il cui lessico avrebbe invaso – in gran parte grazie proprio al successo ottenuto da Žižek – il discorso culturale degli anni Zero: basti pensare al dibattito sul complesso rapporto tra Reale, realtà e realismo che ha attraversato la filosofia e la critica letteraria e artistica negli anni a cavallo del passaggio di millennio. In effetti tutta l’esperienza accelerazionista potrebbe essere letta come materializzazione culturalepolitica della jouissance lacaniana, nella quale il desiderio spinto oltre i propri limiti diventa la chiave per la distruzione di un sistema, il capitalismo, che proprio del desiderio artificialmente indotto ha fatto la propria ragione d’essere. L’opera di Fisher si situa anche in questa congiuntura, e il libro che avete appena finito di leggere ne è forse la dimostrazione migliore. Per comprendere come mai dobbiamo farci un’ultima domanda: cosa rende The Weird and the Eerie tanto importante per interpretare il presente? E che ponti getta verso il futuro? Per rispondere vorrei citare Adam Curtis, un autore di cui Fisher ha scritto in diverse occasioni, il cui documentario HyperNormalisation, trasmesso dalla BBC nel 2016, si apre con queste parole: «viviamo in tempi strani». Per quanto generica possa apparire, questa affermazione è una delle poche cose che possano essere dette della nostra epoca sulla quale è difficile dissentire. Viviamo in tempi strani e in un mondo reso strano dai tempi. Questa stranezza non è circoscrivibile a un’unica area della nostra esperienza, ma è una caratteristica fondamentale della contemporaneità. Gli esempi sono dappertutto. Negli ultimi vent’anni abbiamo visto capitare eventi che ci hanno fatto dubitare della realtà, dagli attentati dell’11 settembre alla vittoria del referendum su Brexit o di Donald Trump, entrambi esiti che pochissimi commentatori avevano previsto. Ma il discorso travalica di gran lunga la

politica, tema di HyperNormalisation. Il riscaldamento globale ha reso il mondo strano, funestato da eventi climatici catastrofici e imprevisti e da un’alterazione profonda del ritmo della natura (il paesaggio dell’Antropocene è sempre, a modo suo, un paesaggio alterato). L’automazione e il progressivo perfezionarsi dell’intelligenza artificiale hanno reso strano il nostro rapporto con gli oggetti, rendendoci difficile distinguere i confini di cosa ancora consideriamo umano. Strana è diventata la relazione con le nostre identità mutanti, definite da categorie che oggi sappiamo essere culturali e dunque in perenne trasformazione, e strana è diventata la convivenza con noi stessi, nel chiuso delle nostre menti, man mano che le neuroscienze hanno cominciato a interrogarsi su temi come la natura della coscienza o della percezione. A guardare bene, tuttavia, è l’intera storia della modernità ad aver reso il nostro mondo sempre più strano. Le ondate di arte avanguardistica della fine del diciannovesimo e dell’inizio del ventesimo secolo avevano già colto la sostanziale stranezza di un’esperienza frammentata e privata della sua «ingenuità» dalla psicologia del profondo come dalla meccanica quantistica, dall’esplosione tecnologica come dalla forza invisibile del capitale, e l’avevano restituita attraverso tecniche artistiche, dall’impressionismo al flusso di coscienza, il cui intento era proprio quello di interrompere la naturalezza della fruizione e rendere palese il carattere mediato e problematico dell’esperienza moderna. A voler spingere il discorso ancora oltre, l’origine della «stranezza» dei nostri tempi potrebbe essere fatta coincidere con l’origine stessa della modernità in Occidente nel diciassettesimo secolo: non c’era qualcosa di profondamente eerie già nel cogito cartesiano, sorta di coscienza che esiste nel nulla dell’incertezza ontologica più totale? Fino all’Ottocento lo sforzo di razionalizzazione alla base dell’intero progetto della modernità era stato sorretto dalla fiducia nel potere dell’uomo di controllare il proprio destino e il destino del mondo. Questa fiducia avrebbe cominciato a venire definitivamente meno sotto le granate della Grande Guerra, ma già un secolo prima era chiaro che la scienza moderna stava creando, letteralmente, dei mostri. Non è certo un caso che sia stato Frankenstein di Mary Shelley (1818) a inaugurare tanto la moderna speculative fiction quanto il moderno discorso sul postumano e le identità di genere, né è un caso che il percorso intellettuale di Fisher sia iniziato proprio dalla letteratura gotica. Per capire l’importanza che un libro come The Weird and the Eerie ha

nel panorama contemporaneo dobbiamo ancora una volta tornare all’esperienza accelerazionista e comprendere come essa si situa nel discorso della modernità. Nel cinquantennio che precede l’esperienza della CCRU si è sviluppata una sensibilità, quella postmoderna, che ha progressivamente abbandonato le istanze di trasformazione sociale dalle quali era emersa negli anni Sessanta per diventare – nella famosa espressione di Fredric Jameson – la «logica culturale» del capitalismo.29 Privata di una capacità di immaginare il futuro, la cultura occidentale ha perso la spinta in avanti che ne ha caratterizzato l’evoluzione da secoli; questa cultura con lo sguardo rivolto all’indietro, incapace di pensare un’alternativa al neoliberismo che ha inglobato in sé le proposte rivoluzionarie degli anni Sessanta, è proprio ciò contro cui il neoavanguardismo apocalittico e dionisiaco di Land si scaglia. Per questo l’accelerazionismo recupera fin dai suoi esordi quello slancio verso il futuro – potremmo dire quello slancio utopico – che ha caratterizzato le avanguardie di inizio ventesimo secolo. Non per niente Ghosts of My Life muove il proprio discorso sulla fine del futuro a partire dall’analisi che «Bifo» Berardi propone del Manifesto del Futurismo di Marinetti. La domanda alla base della riflessione di Fisher è la stessa che aveva mosso gli accelerazionisti vent’anni prima: che cosa resta della modernità se viene privata del futuro? Sono incline a adottare la proposta di studiosi come Gilles Lipovetsky che hanno definito la nostra epoca «ipermoderna».30 Emersa negli anni Novanta, quando il postmoderno raggiungeva il proprio culmine e cominciava a entrare in crisi, la nozione di epoca ipermoderna riflette su un nuovo modo della cultura occidentale di rapportarsi con il progetto della modernità. Mentre il postmoderno – che, non scordiamolo, nasce come reazione agli orrori della seconda guerra mondiale, e vede le conseguenze della modernità in Auschwitz e Hiroshima – intende opporsi al progressismo positivista dell’epoca moderna, l’epoca ipermoderna estremizza la logica della modernità portandola alle proprie estreme conseguenze: l’iperrealismo codificato da Baudrillard negli anni Ottanta31 ed esploso nella cultura degli anni Zero (dai reality show all’autofiction) è un realismo tanto tecnologicamente mediato da apparire più vivido della realtà; il turbocapitalismo del terzo millennio è un capitalismo accelerato, dove la forbice tra ultrapoveri e ultraricchi si è ampliata fino al parossismo, che non per

niente trova la sua metafora perfetta in edifici alti in maniera esagerata (i grattacieli cosiddetti megatall come il Burj Khalifa di Dubai); l’esplosione di fake news che ha segnato l’emergere dei populismi negli anni Dieci può essere letta come la spinta all’estremo dello storytelling postmoderno, mentre l’ultranichilismo di autori come Brassier o Ligotti, cui abbiamo accennato brevemente sopra, è la conseguenza di un’estremizzazione del materialismo e del razionalismo occidentale (in questo senso per Brassier l’estinzione è conseguenza dell’Illuminismo32). Senza dimenticare, ovviamente, il punto che costituisce in qualche modo il vero «trauma» dell’epoca ipermoderna, un po’ come la bomba atomica lo era stata per l’epoca postmoderna: quello del riscaldamento globale. Sulla faccia del pianeta ridisegnata dal global warming si vivono eventi climatici estremi le cui conseguenze potrebbero essere tanto catastrofiche da comportare addirittura l’estinzione della specie umana. L’epoca ipermoderna è anche, significativamente, un’epoca in cui il Reale ha preso il sopravvento sul Simbolico, per utilizzare due categorie lacaniane che hanno trovato grande spazio nel dibattito culturale nei primi decenni del terzo millennio; e dunque un’epoca in cui eventi un tempo vaticinati o temuti capitano per davvero (all’indomani degli attentati dell’11 settembre, Žižek ha famosamente parlato di «ritorno del Reale» e jouissance per descrivere lo shock provocato da un evento – la distruzione del World Trade Center – rappresentato per decenni dai disaster movie americani e avvenuto ora nella «realtà aumentata» della diretta televisiva33). Senza entrare troppo nel dettaglio nelle complesse distinzioni fatte da Lacan, dobbiamo far notare che questo richiamo all’area semantica della realtà (Reale, realismo e realtà indicano concetti profondamente diversi ma semanticamente connessi tra di loro) gioca un peso importante nel tipo di stranezza che pervade i nostri tempi: l’aspetto vertiginoso della vittoria elettorale di Trump, con il suo corredo di fake news, hacker russi, algoritmi che manipolano le ricerche dei social media, consiste nel fatto che una vicenda apparentemente adatta a una distopia politica sia capitata veramente e in maniera del tutto inaspettata; lo stesso senso di vertigine ci coglie quando guardiamo i razzi Falcon mandati in orbita da SpaceX e capaci di atterrare intatti come in un film di fantascienza degli anni Cinquanta. I riferimenti che Fisher fa in The Weird and the Eerie al Reale lacaniano vanno intesi proprio

in questo senso: weird e eerie sono l’attualizzazione sul piano del Reale della dimensione simbolica dell’unheimlich freudiano, ed è per questo che l’inconscio in Fisher può diventare un’entità completamente esterna alla mente, dotata di una sua esistenza indipendente dall’uomo e dunque profondamente aliena. La logica moderna portata alle proprie estreme conseguenze e incarnata nel tessuto del Reale porta con sé una profonda stranezza delle cose del mondo, una stranezza di cui The Weird and the Eerie è forse la prima opera a esplorare le dimensioni nascoste e le sfumature. Fisher è un autore profondamente britannico – sicuramente uno degli aspetti del suo lavoro più difficili da tradurre da una cultura all’altra – e la sua esplorazione della stranezza dei nostri tempi ha anche un carattere intimamente personale: The Weird and the Eerie trabocca di temi fisheriani, dal carattere «spettrale» del panorama inglese34 al post punk, dalle serie televisive di fantascienza trasmesse dalla BBC negli anni Sessanta e Settanta al cinema di Christopher Nolan. Ma per quanto alcuni di questi riferimenti possano sembrare ermetici o addirittura oscuri (a pochi lettori italiani dirà qualcosa, ad esempio, il nome di Alan Garner), è importante comprendere come The Weird and the Eerie spinga il proprio territorio di analisi e influenza ben oltre i confini delle ossessioni coltivate da Mark Fisher per una vita o persino dell’ambiente filosofico-critico in cui Fisher è cresciuto, quello della critica radicale britannica post-Warwick. The Weird and the Eerie può e deve essere letto come un primo tentativo di analisi di una dimensione – quella della stranezza e delle sue sfumature – che pervade profondamente i nostri tempi, e che ci porta a metterli in discussione in una maniera che lascia poco spazio ai compromessi. In quanto manifestazioni dell’inconscio, seppure esternalizzato e reso alieno dalla logica ipermoderna, weird e eerie ci chiedono a gran voce di confrontarci con i limiti di quella grande avventura collettiva che è la modernità del pensiero occidentale, e che in un’epoca di estremi come la nostra sembra essere arrivata a un punto di rottura o, forse, di trasformazione radicale. Per questo è difficile chiudere questo libro pensando di aver letto un saggio affascinante dopo il quale si può passare tranquillamente ad altro. Come i fantasmi che hanno composto gran parte del suo mondo intellettuale, l’ultimo libro di Mark Fisher ci perseguita. Leggi l’ultima pagina ma, appunto, l’eeriness rimane.

Londra, 7 maggio 2018

1. Cfr Mark Fisher, Flatline Constructs: Gothic Materialism and Cybernetic Theoryfiction, University of Warwick, Warwick 1999. 2. Andy Beckett, «Accelerationism: How a Fringe Philosophy Predicted the Future We Live In», The Guardian, 11 maggio 2017. 3. Cfr CCRU, Writings. 1997-2003, Urbanomic, Falmouth 2017. 4. Simon Reynolds, «Renegade Academia: The Cyber Culture Research Unit», Springerin, 2000. 5. Simon Reynolds, «Mark Fisher’s k-punk blogs were required readings for a generation», The Guardian, 18 gennaio 2017. 6. Cfr Sarah De Sanctis (a cura di), I nuovi Realismi, Giunti, Firenze 2017. 7. Sebbene è doveroso precisare come Brassier abbia preso le distanze sia dalla CCRU (della quale non condivideva l’esaltazione anfetaminica) che dal Realismo Speculativo (che non considera un movimento vero e proprio). 8. Cfr Mark Fisher, Realismo capitalista, Nero, Roma 2018. 9. Cfr Simon Reynolds, Retromania, minimum fax, Roma 2017. 10. Franco «Bifo» Berardi, Dopo il futuro. Dal Futurismo al Cyberpunk. L’esaurimento della Modernità, DeriveApprodi, Milano 2013. 11. Jacques Derrida, Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, Raffaello Cortina, Milano 1996. 12. Cfr Mark Fisher, Ghosts of My Life: Writings on Depression, Hauntology and lost Futures, Zero Books, Londra 2014. 13. Cfr «RIP k-punk (Part 1)», Repeater, 12 gennaio 2018. 14. Cfr Nick Srnicek e Alex Williams, Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro, Nero, Roma 2018. 15. Grafton Tanner, Babbling Corse: Vaporwave and the Commodification of Ghosts, Zero Books, Londra 2016. 16. Cfr la voce Correlationism in Peter Gratton, The Meillassaux Dictionary, Edinburgh University Press, Edimburgo 2014. 17. Quentin Meillassoux, Dopo la finitudine. Saggio sulla necessità della contingenza, Mimesis, Sesto San Giovanni 2012. 18. Alan Weisman, Il mondo senza di noi, Einaudi, Torino 2008. 19. Timothy Morton, Ecology Without Nature: Rethinking Environmental Aesthetics, Harvard University Press, Cambridge 2007. 20. Ray Brassier, Nihil Unbound: Enlightenment and Extinction, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2007. 21. Eugene Thacker, In the Dust of This Planet, Zero Books, Londra 2011.

22. Cfr Thomas Ligotti, La cospirazione contro la razza umana, Il Saggiatore, Milano 2016. 23. Cfr Jonathan Elmore, «More Than Simple Plagiarism: Ligotti, Pizzolatto, and True Detective’s Terrestrial Horror», Dialogue, vol. 4, n. 1, inverno 2017. 24. Timothy Morton, Hyperobjects: Philosophy and Ecology After the End of the World, University of Minnesota Press, Minneapolis 2013. 25. Ray Brassier, Nihil Unbound..., cit. 26. Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere, Mondadori, Milano 2007. 27. Cfr Jacques Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), Einaudi, Torino 2008. 28. Cfr Andy Beckett, Accelerationism..., cit. 29. Cfr Fredric Jameson, Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma 2005. 30. Cfr Gilles Lipovetsky, Hypermodern Times, Polity Press, Cambridge 2005. 31. Cfr Jean Baudrillard, Simulacri e impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti, Pgreco, Milano 2008. 32. Cfr Ray Brassier, Nihil Unbound..., cit. 33. Cfr Slavoj Žižek, Benvenuti nel deserto del reale, Meltemi, Roma 2017. 34. Cfr Robert Macfarlane, «The Eeriness of the English Countryside», The Guardian, 10 aprile 2015.

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