Studi di onomastica e critica letteraria offerti a Davide De Camilli 9788862271905

Questo volume, testimonianza di stima e affetto che un gruppo di amici ha deciso di offrire a Davide De Camilli, già doc

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Studi di onomastica e critica letteraria offerti a Davide De Camilli
 9788862271905

Table of contents :
SOMMARIO
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PREMESSA
Pubblicazioni di Davide De Camilli
A DAVIDE
onomastica e critica letteraria

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ST UDI DI ONOMAST IC A E CR I T ICA LETT ER AR IA OFF ERTI A DAVI DE D E C AM IL L I a cu r a di maria g i ova n na a rc a m on e, d onat e l la b r e m e r , b ru n o p o rc e l l i

studia e rudita · 1 2.

PIS A · R O MA FABRIZ IO SERRA E DIT O RE MMX

STUDIA ERUDITA 12.

ST UDI DI ONOMAST IC A E CR I T ICA LETT ER AR IA OFF ERTI A DAVI DE D E C AM IL L I a cu r a di maria gi ova n na arcamon e, donat e l la b r e m e r , b ru n o p o rc e l l i

PIS A · R O MA FABRIZ IO SERRA E DIT O RE MMX

Comitato promotore: Maria Giovanna Arcamone · Giorgio Baroni Donatella Bremer · Alberto Casadei · Friedhelm Debus Dieter Kremer · Bruno Porcelli Angelo R. Pupino · Fabrizio Serra * Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfilm, la memorizzazione elettronica, ecc., senza la preventiva autorizzazione scritta della Fabrizio Serra editore®, Pisa · Roma. Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge. Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2010 by Fabrizio Serra editore®, Pisa · Roma. Uffici di Pisa: Via Santa Bibbiana 28 · i 56127 Pisa Tel. +39 050 542332 · Fax +39 050 574888 [email protected] Uffici di Roma: Via Carlo Emanuele I 48 · i 00185 Roma Tel. +39 06 70452494 · Fax +39 06 70476605 [email protected] www.libraweb.net isbn 978-88-6227-190-5 issn 1828-8642

SOMMARIO Tabula gratulatoria Premessa Pubblicazioni di Davide De Camilli

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a davide Maria Giovanna Arcamone, Davide De Camilli e l’Associazione «Onomastica & Letteratura» («O&L») Alda Rossebastiano, Davide e la sua stirpe: tracce veterotestamentarie nell’onomastica italiana

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onomastica e critica letteraria Maria Giovanna Arcamone, Identità e nomi nel romanzo giallo italiano Paola Baioni, Mario Luzi, dal tempus al Kairos Giusi Baldissone, Il nome e l’immagine di Lucrezia Borgia tra le Rime di Vittoria Colonna Giorgio Baroni, Giani Stuparich ‘critico’ Anna Bellio, Stanze e ‘stanze’: la felice libertà dell’immaginazione Donatella Bremer, L’onomastica del doppio Richard Brütting, Lettura onomastica del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: «Come proprio quel nome rivela» Alberto Casadei, Il pieno e il vuoto nell’onomastica di Emilio Tadini Massimo Castoldi, «Tu dei saper ch’i’ fui Conte Ugolino» (Inf., xxxiii, 13). Un’ipotesi sul tradimento del nome nell’Inferno dantesco Anna Cornagliotti, Del trattamento di antroponimi nelle traduzioni moderne da e verso l’italiano Friedhelm Debus, Classificazione e terminologia dei tipi onomastici Concetto Del Popolo, «Nec ultra vocabitur nomen tuum Abram» Giulia Dell’Aquila, Sulle nominazioni nella Passeggiata prima di cena di Giorgio Bassani Antonietta Dettori, Osservazioni sull’onomastica personale nelle opere di Salvatore Niffoi con particolare attenzione alla soprannominazione Volker Kohlheim, «Eduard – è così che noi chiamiamo…». La nominatio nella prima frase delle Affinità elettive di Goethe Pasquale Marzano, La maschera dimenticata e La berretta di Padova: lo stigma del soprannome e altre osservazioni onomastico-letterarie su due novelle pirandelliane Maria Serena Mirto, Nel nome del dio. Fede, ragione ed etimologia nelle Baccanti di Euripide Elena Papa, Caratterizzazione lombarda nell’onomastica italiana del Novecento: devozione, letteratura e nuovi nomi Bruno Porcelli, L’onomastica nella narrativa di Corrado Alvaro dal 1920 al 1938 Angelo R. Pupino, Pirandello tra invenzione e revoca dei nomi Salvatore Riolo, Nedda dal testo alla scena, fra lingua e dialetto, parole e musica

37 49 57 69 74 79 98 110 121 127 139 147 155 161 173 178 187 195 218 227 241

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sommario

Laura Salmon, Trame onomastiche e strategie traduttive. Sull’edizione italiana del Giornale invisibile di Sergej Dovlatov Leonardo Terrusi, «I nomi non importano». L’onomastica delle Città invisibili di Italo Calvino

251 263

TABULA GRATULATORIA Maria Giovanna Arcamone, Università di Pisa Giorgio Baroni, Università Cattolica di Milano Lucia Battaglia Ricci, Università di Pisa Paola Bianchi De Vecchi, Università di Perugia Luigi Blasucci, Scuola Normale Superiore di Pisa Gerardo e Roberta Boniello, Milano Giampaolo Borghello, Università di Udine Clara Borrelli, Università di Napoli «L’Orientale» Donatella Bremer, Università di Pisa Richard Brütting, Herborn (d) Elena Candela, Università di Napoli «L’Orientale» Alberto Casadei, Università di Pisa Francesco Casotti, Università di Pisa Raffaele Cavalluzzi, Università di Bari Roberta Cella e Livio Petrucci, Università di Pisa Claudio Ciociola, Scuola Normale Superiore di Pisa Maria Augusta Coppola, Università di Messina Anna Cornagliotti, Università di Torino Friedhelm Debus, Università di Kiel Concetto Del Popolo, Università di Torino Antonietta Dettori, Università di Cagliari Arnaldo Di Benedetto, Università di Torino Giuseppe Di Stefano, Università di Pisa Maria Luisa Doglio, Università di Torino Paolo Facchi, Università di Trieste Pierantonio Frare, Università Cattolica di Milano Rosalba Galvagno, Università di Catania Pietro Gibellini, Università di Venezia Raffaele Giglio, Università di Napoli «Federico II» Enzo Noè Girardi e Maria Teresa Girardi, Università Cattolica di Milano Giovanna Ioli, Università di Torino Dieter Kremer, Università di Treviri Antonio e Angela Lorusso, Lodi Gian Paolo Marchi, Università di Verona Giovanni Martini, Massa Pasquale Marzano, Università di Napoli Carlo Alberto Mastrelli, Università di Firenze Massimo Miglio, Università della Tuscia Matteo Milani, Università di Torino

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tabula gratulatoria

Celestina Milani, Università Cattolica di Milano Maria Serena Mirto, Università di Pisa Elena Papa, Università di Torino Patrizia Paradisi, Università di Modena e Reggio Emilia Pietro Pavone, Bergamo Rosanna Pettinelli, Università di Roma «La Sapienza» Bruno Porcelli, Università di Pisa Simonetta Puleio, Livorno Angelo Raffaele Pupino, Università di Napoli «L’Orientale» Sergio e Alberto Raffaelli, Università di Roma «La Sapienza» Michele Rak, Università di Siena-Arezzo Antoine Ramos, Parigi Salvatore Riolo, Università di Catania Annaluisa Rubano, Università di Bari Laura Salmon, Università di Genova Pierangelo e Letizia Scanu, Milano Emanuella Scarano, Università di Pisa Luca Serianni, Università di Roma «La Sapienza» Giuseppina Stella Galbiati e Pietro Galbiati, Università di Pisa Maria Villani, Università di Napoli «L’Orientale» Pasquale Voza, Università di Bari Biblioteca Comunale «Carlo Negroni» Novara Dipartimento di Italianistica, Università di Bologna Dipartimento di Italianistica, Università di Parma Dipartimento di Italianistica, Università di Udine Dipartimento di Italianistica e Filologia Romanza, Università «Ca’ Foscari» Venezia Dipartmento di Scienza della Letteratura e dell’Arte medievale e moderna, Università di Pavia Dipartimento di Scienze del Testo, Università di Urbino Romanisches Seminar, Università di Zurigo Seminar für romanische Philologie, Georg-August-Universität, Gottinga (d) Università iulm, Milano

PREMESSA

Q

uesto volume, testimonianza di stima e affetto che un gruppo di amici sente il bisogno di tributare a Davide De Camilli in un momento particolare del suo percorso umano, si tratti del compimento di un decennio della vita o del sopraggiunto pensionamento, doveva, secondo il progetto iniziale, riguardare uno specifico settore di ricerca a cui egli si è dedicato con particolare impegno in questi ultimi anni, l’onomastica letteraria. Ma, con il pervenire dei contributi, alcuni dei quali riguardavano ambiti di ricerca diversi, i curatori, resisi conto che non era facile attenersi all’idea originaria, hanno deciso di accogliere anche quanto aveva rapporto con altri campi di indagine frequentati da Davide nella sua attività di studioso : oltre all’onomastica, la critica letteraria e la storia della critica. Di qui il titolo comprensivo del volume, Studi di onomastica e critica letteraria. Lo aprono una nota sul ruolo determinante avuto da Davide relativamente alla nascita dell’Associazione pisana di «Onomastica & Letteratura» e un saggio sull’origine del suo nome. Seguono ventitré studi su problemi particolari di onomastica e di critica letteraria che spaziano dall’analisi specifica al discorso di metodo, dalle letterature antiche alle contemporanee, dai testi alle loro traduzioni, dalla poesia alla critica. Il volume rispecchia pertanto in piccolo il panorama variegato della critica in cui largo credito ha ormai acquisito l’onomastica letteraria, svincolatasi dai vecchi limiti di strumento di indagine secondario e sussidiario. Lo dimostrano anche le relazioni, sempre più numerose, presentate ogni anno al convegno di «Onomastica & Letteratura». Confidiamo che Davide, lettore competente e severo, apprezzerà questo volume e ringraziamo tutti coloro che ne hanno reso possibile la realizzazione.  

I promotori Pisa, luglio 2009

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Pubblicazioni di Davide De Camilli Volumi Studi paralleli, Milano, Marzorati, 1980. Ugo Foscolo e il Viceré : studi di filologia e letteratura, con un saggio di Giorgio Varanini (La metodica editoriale di François Masai), Pisa, Giardini, 1994. Incontri, Pisa, Giardini, 1994. Machiavelli nel tempo. La critica machiavelliana dal ‘500 a oggi, Pisa, ets, 2000.  

Saggi, note, voci di dizionario Silvio Giovaninetti. Salvator Gotta. Antonio Greppi. Primo Levi. Giacinto Spagnoletti, in Dizionario della Letteratura mondiale del secolo xx, Torino, saie, 1968 (ii ed. riv. 1980). Il mito Pavese, « Vita e Pensiero », 3, 1968. Leopardismo pirandelliano, in Studi in onore di Alberto Chiari, Brescia, Paideia, 1973, ora in Studi paralleli, cit. Piero Chiara, « Italianistica », iii, 1974, ora in Incontri, cit. Pavese e altri diaristi, « Italianistica », v, 1, 1976, ora in Studi paralleli, cit. Tarchetti-Manzoni e il problema del romanzo, in Il “vegliardo” e gli “antecristi”, a cura di Renzo Negri, Milano, Vita e Pensiero, 1978, ora in Studi paralleli, cit. Tre lettere per Luisa Bàccara, « Quaderni del Vittoriale », ii, 8, 1978, Il xl della morte di D’Annunzio. Poesie dell’Ill.mo S.re Girolamo Gigli, nobile sanese et Accademico Intronato, « Accademie e Biblioteche d’Italia », xlvii, 4, 1979, ora in Ugo Foscolo e il Viceré, cit. Roberto Rebora, « Italianistica », viii, 1, 1979, ora in Incontri, cit. Intervista a Giorgio Bassani, « Italianistica », ix, 3, 1980, ora in Incontri, cit. “La versione del nostro Borgno” (il De Sepulchris di Girolamo Federico Borgno), in Atti del Convegno Foscolo e la cultura bresciana del primo Ottocento (1979), Brescia, Grafo, ora in Studi paralleli, cit. Giuseppe Pontiggia, « Italianistica », x, 1, 1981, ora in Incontri, cit. Ricordo di Renzo Negri, « Astrofisma », 23, settembre 1981. Ugo Foscolo e il Viceré Eugenio di Beauharnais, « Rivista Italiana di Studi Napoleonici », xx, 2, 1983, ora in Ugo Foscolo e il Viceré, cit. Linea lombarda trent’anni dopo, « Italianistica », xiv, 2, 1985, ora in Incontri, cit. Appunti di critica foscoliana 1971-1984 (con appendice bibliografica), « Italianistica », xv, 1, 1986. Pirandello e …(Appunti su paralleli celebri della critica), « Otto/Novecento », x, 5-6, 1986. Carlo Laurenzi, « Italianistica », xv, 2-3, 1986, ora in Incontri, cit. Ricordo di Piero Chiara, « Italianistica », xv, 1986, 2-3. Ritratti della vita umana nella Venezia del ‘700 : Gasparo Gozzi tra Carlo Goldoni e Pietro Longhi, « Critica letteraria », xiv, 4, 1986, ora in Ugo Foscolo e il Viceré, cit. Dante nel “Novo Paradiso” di Cristoforo Melanteo, in Studi paralleli, cit. Luigi Berti poeta e narratore, in Rio Marina e il suo territorio nella Storia e nella cultura, Atti del Convegno internazionale (29 agosto-1° settembre 1982), Pisa, Giardini, 1987, ora in Incontri, cit. Eugenio di Beauharnais e Amalia Augusta di Baviera nelle Grazie del Foscolo, « Rivista Italiana di Studi Napoleonici », xxv, 2, 1988, ora in Ugo Foscolo e il Viceré, cit.  





































































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pubblicazioni di davide de camilli

Renzo Negri. Poesie e prose inedite, « Italianistica », xvii, 2, 1988, ora in Incontri, cit. Cesare Pavese e Luigi Pirandello ; un parallelo possibile, in Letteratura e Storia meridionale, Studi offerti a Aldo Vallone, Firenze, Olschki, 1989. Federico Ozanam traduttore del Purgatorio, in Miscellanea di Studi danteschi in memoria di Silvio Pasquazi, Napoli, Federico & Ardia, 1990. Il cittadino Melchior Cesarotti, « Italianistica », xix, 1, 1990 ; poi in I riflessi della Rivoluzione dell’89 e del triennio giacobino nella cultura letteraria italiana. Atti del Convegno (Portoferraio-Rio nell’Elba 28-30 settembre 1989), a cura di Giorgio Varanini, Pisa, Giardini, 1993. Giacomo Leopardi lettore dei periodici francesi, « Critica letteraria », 4, 1991, ora in Ugo Foscolo e il Viceré, cit. Cesare Pavese e i nomi dei personaggi, « Italianistica », xxii, 1-3, 1993. Melchior Cesarotti ‘sopra-ordinario’, in Ugo Foscolo e il Viceré, cit. Giorgio Varanini e François Masai, in Ugo Foscolo e il Viceré, cit. Giorgio Varanini e la letteratura italiana del Novecento e Appendice (Giorgio Varanini. Poesie), in Incontri, cit. Due lettere di Alessandra di Lampedusa, « Rivista di letteratura italiana », 1-3, 1996. Un capitolo dell’antimachiavellismo del Novecento : Jacques Maritain, « Critica letteraria », 4, 1996. Il secondo Ottocento tra estetica desanctisiana e Scuola Storica, in Storia della critica letteraria in Italia, Torino, utet, 1997. Quelques noms de personnages dans l’œuvre de Cesare Pavese, in Onomastique et Histoire, Onomastique Littéraire, Aix-en-Provence, Publications de l’Université de Provence, 1998. Giuseppe Parini e la Rivoluzione francese, in Attualità di Giuseppe Parini : poesia e impegno civile, a cura di Giorgio Baroni, « Rivista di letteratura italiana », xvii, 2-3, 1999. “La grammatica del potere” : Machiavelli nella critica tra le due guerre mondiali. Appunti, in Studi per Umberto Carpi, a cura di Marco Santagata e Alfredo Stussi, Pisa, ets, 2000. I nomi dei personaggi in Malombra di Fogazzaro, in Atti del vi Convegno internazionale di Onomastica Letteraria. Università di Pisa (17-18 febbraio 2000), « il Nome nel testo », ii-iii, 2000-2001. Note di storia della critica, in Da Rosso Malpelo a Ciàula scopre la luna, « Italianistica », xxx, 3, 2001. La cognizione del tempo nel Mestiere di vivere di Cesare Pavese, « Italianistica », xxxi, 2-3, 2002. Les noms des personnages dans l’œuvre de Cesare Pavese, in Onomastik, Akten des 18. Internationalen Kongresses für Namenforschung, Treviri, 12.-17. April 1993, 6 voll.: vi, Tubinga, Max Niemeyer, 2002. I nomi dei personaggi nel Tartuffe, nel Falso filosofo e nel Don Pilone, in L’incanto del nome, Pisa, ets, 2002. Nomi scapigliati, « rion », ix, 2003. Fosca è la notte in Studi in onore di Michele Dell’Aquila, « La Nuova Ricerca », xii, 2003. Itinerari napoletani di Paul Heyse, in Atti del ix Convegno internazionale di Onomastica e Letteratura. Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” (25-28 febbraio 2003), « il Nome nel testo », vi, 2004. “La Lettura”, in Atti del Convegno “Letteratura e riviste” (31 marzo-2 aprile 2004), a cura di Giorgio Baroni, « Rivista di letteratura italiana », xxii, 3, 2004. L’onomastique dans l’œuvre de Igino Ugo Tarchetti, in Proceedings of the 21st International Congress of Onomastic Sciences (Uppsala, 19-24 August 2002), 1, Uppsala, Språk- och folkminnesinstitutet, 2005. Carlo Porta e “Napoleon”, in Studi di Letteratura Italiana per Vitilio Masiello, ii, Roma-Bari, Laterza, 2006. Nomi della Storia in meneghin, in Da Torino a Pisa, a cura di Alda Rossebastiano, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2006.  

































































pubblicazioni di davide de camilli

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Michele Dell’Aquila a Pisa, in Critica letteraria e stile didattico, Roma-Bari, Laterza, 2007. Petrarca Machiavelli Leopardi e la concezione della pace, in Actes du Colloque International de Villeneuve lez Avignon (Septembre 2004), procurés par Georges Barthouil et Corrado Belluomo Anello, « Annales Universitaires », Avignon, 2007. La nominatio da Balestrieri a Porta, in Studi di onomastica e letteratura offerti a Bruno Porcelli, Pisa-Roma, Gruppo editoriale internazionale, 2007. Onomastica letteraria moderna e contemporanea, in Toponimi e antroponimi : beni-documento e spie di identità per la letteratura, la didattica e il governo del territorio. Atti del Convegno Internazionale di Studi. Università degli Studi di Salerno (14-16 novembre 2002), tomo ii, Università degli Studi di Salerno, Soveria Mannelli (Cz), Rubbettino, 2007 ; poi in « Rivista di Letteratura Italiana », 1, 2008. Da Umberto a Ernesto, « Rivista di letteratura italiana », xxvi, 1-2, 2008. (in collaborazione con Laura Beatrice Baldi) Dalle Nozze di Beatrice Carducci, « Italianistica », xxxvii, 2, 2008. Strategie onomastiche nei Sepolcri, in Studi offerti ad Alessandro Perutelli, tomo i, Roma, Aracne, 2008. Nomi dell’avarizia, in Studi sulla letteratura italiana della modernità per Angelo R. Pupino, SetteOttocento, Napoli, Liguori, 2008. Un nome mitico nell’opera di Molière e altrove: Don Juan, in Atti del xiii Convegno internazionale di Onomastica Letteraria, Università di Sassari (8-10 ottobre 2008), «il Nome nel testo», xi, 2010.  



















Curatele Corrado Alvaro, Come parlano i grandi, Milano, Bompiani, 1966 (Note). Alberto Frattini poeta, « Italianistica », xii, 1, 1983. (in collaborazione con Luigi Banfi, Alberto Casadei, Marcello Ciccuto, Francesco De Rosa, Bruno Porcelli) Giorgio Varanini, Lingua e Letteratura Italiana dei primi secoli, i, ii, Pisa, Giardini, 1994. Onomastica e Letteratura. Atti del iii Convegno Internazionale (Pisa 28 febbraio 1997), ViareggioLucca, Mauro Baroni Editore, 1998. Onomastica e Intertestualità. Atti del v Convegno Internazionale di Onomastica e Letteratura (Università di Pisa 18-19 febbraio 1999), « il Nome nel testo », i, 1999. v Convegno Internazionale di Onomastica e Letteratura (O&L). Tavola rotonda (19 febbraio 1999), a cura di Davide De Camilli e Bruno Porcelli, « Italianistica », xxviii, 1, 1999. Tra Settecento e Ottocento. Ricordando Renzo Negri, « Italianistica », xxxiii, 1, 2004. Studi di onomastica e letteratura offerti a Bruno Porcelli, Pisa-Roma, Gruppo editoriale internazionale, 2007.  















Recensioni, rassegne, rendiconti, schedari Rec. a G. Macchia, Il mito di Parigi, « Vita e Pensiero », 1, 1966. Rec. a E. Cecchi, Ricordi crociani, « Vita e Pensiero », 7-8, 1966. Rec. a L. Anceschi, Il modello della poesia, « Vita e Pensiero », 1, 1967. Rec. a E. Spender, Moderni o contemporanei ?, « Vita e Pensiero », 9, 1967. Rec. a L. Calogero, Opere poetiche, « Vita e Pensiero », 12, 1967. Rec. a A. Guiducci, Il mito Pavese, « Vita e Pensiero », 3, 1968. Rec. a R. Negri, Italianistica. Lo Studio e la Ricerca, « Il Ragguaglio Librario », 5, 1971. Rec. a G. Lonardi, Classicismo e utopia nella lirica leopardiana, « Il Ragguaglio Librario », 1, 1972. Quattrocento, « Italianistica », i, 1, 1972.  





































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pubblicazioni di davide de camilli

Quattrocento, « Italianistica », i, 2, 1972. Quattrocento, « Italianistica », i, 3, 1972. Quattrocento, « Italianistica », ii, 1, 1973. Quattrocento, « Italianistica », ii, 2, 1973. Quattrocento, « Italianistica », ii, 3, 1973. Quattrocento, « Italianistica », iii, 1, 1974. Quattrocento, « Italianistica », iii, 2, 1974. Schedario 1973, « Italianistica », iii, 3, 1974. Quattrocento, « Italianistica », iv, 1, 1975. Quattrocento, « Italianistica », iv, 2, 1975. Rec. a E. Paratore, Dal Petrarca all’Alfieri. Saggi di Letteratura comparata, « Italianistica », 2, 1975. Schedario 1974, « Italianistica », iv, 3, 1975. Rec. a R. Ridolfi, Vita di Gerolamo Savonarola, « Italianistica », v, 1, 1976. Schedario 1975, « Italianistica », v, 3, 1976. Schedario 1976, « Italianistica », vi, 3, 1977. Rec. a Studi filologici, letterari e storici in memoria di Guido Favati, « Italianistica », vii, 2, 1978. Schedario 1977, « Italianistica », vii, 3, 1978. Rec. a P. Chiara, Vita di Gabriele D’Annunzio, « Italianistica », 1, 1979. Rec. a B. Porcelli, Isometria e proporzionalità nelle strutture dell’”Adone”, « Italianistica », viii, 2, 1979. Schedario 1978, « Italianistica », viii, 3, 1979. Schedario 1979, « Italianistica », ix, 3, 1980. Rec. a A. Rossi, Serafino Aquilano e la poesia cortigiana, « Italianistica », x, 3, 1981. Schedario 1980, « Italianistica », xi, 1, 1982. Schedario 1981, « Italianistica », xii, 1, 1983. Rec. a E. Tessadri, Il Viceré Eugenio di Beauharnais, « Rivista Italiana di Studi Napoleonici », xx, 2, 1983. Schedario 1982, « Italianistica », xiii, 3, 1984. Rec. a Dante Comparisons, « Italianistica », xiv, 1, 1985. Schedario 1983, « Italianistica », xv, 2-3, 1986. Rec. a C. Laurenzi, Una barriera sottile, « Italianistica », xvi, 3, 1987. Schedario 1984, « Italianistica », xvi, 3, 1987. Convegno Internazionale “Dante e le città dell’esilio”, « Italianistica », xvii, 1, 1988. Schedario 1985, « Italianistica », xviii, 1, 1989. Schedario 1986, « Italianistica », xx, 2, 1991. Schedario 1987, « Italianistica », xxi, 1, 1992. Schedario 1988-1990, « Italianistica », xxiii, 1, 1994. Rec. a V. Paladino, Alvariana e altro Novecento, « Italianistica », xxiii, 2-3, 1994. Rec. a B. Porcelli, Il nome nel racconto, « Studi linguistici italiani », xxiv, 1, 1998. Rec. a The literary journal as a cultural witness 1943-1993, a cura di L. Fontanella e L. Somigli, « Italianistica », xxvii, 2, 1998. Rec. a L. Saltamartini, 10.000 in Himalaya 1941-1947, « La Nuova Ricerca », viii, 8, 1999. Rec. a G. Cavallini, Scritti di servizio, « Italianistica », xxx, 3, 2001. Rec. a Parini e le arti nella Milano neoclassica, coordinamento e direzione scientifica di G. Barbarisi, « Italianistica », xxxi, 1, 2002. Rec. a Tz. Todorov, La letteratura in pericolo, « Italianistica », xxxvii, 3, 2008.  







































































































































































A DAVIDE

DAVIDE DE CAMILLI E L’ASSOCIAZIONE « ONOMASTICA & LETTERATURA » (« O&L »)  



N





ell’anno 1994 è nata a Pisa l’Associazione « Onomastica e Letteratura » (« O&L ») : essa ha lo scopo di promuovere gli studi di onomastica letteraria in Italia. L’idea di fondare un organismo che si occupasse specificatamente di onomastica letteraria, e cioè dello studio critico dell’opera letteraria attraverso i nomi propri in essa contenuti, fu di Davide De Camilli, allora docente di Letteratura e di critica letteraria italiana presso la Facoltà di Lingue e Letterature straniere dell’Università di Pisa ed ora segretario della stessa « O&L ». A questa idea era giunto andando dietro ad un mio suggerimento : difatti, mentre nel periodo fra il 1975 e i primi anni novanta raccoglievo la bibliografia onomastica italiana per la rivista « Onoma », mi ero resa conto che, a fronte di un alto numero di linguisti e filologi italiani che si occupavano di onomastica linguistica, erano invece pochi i letterati e i linguisti italiani che dedicavano o avevano dedicato le proprie riflessioni all’onomastica letteraria, cioè alla funzione che i nomi propri assumono nell’opera letteraria sulla base non del loro proprio significato e forma, ma del significato che hanno per l’autore dell’opera letteraria stessa. Evidentemente l’onomastica letteraria in Italia veniva considerata una disciplina accessoria e non dotata di autonomia. Erano invece diversi i colleghi stranieri, in particolare inglesi, statunitensi e tedeschi, a lavorare sia dal punto di vista teorico sia dal punto di vista analitico sulla funzione dei Nomi Propri nelle opere letterarie delle rispettive letterature. Mi ero quindi resa conto che era necessario potenziare in Italia questa branca degli studi. A tale scopo nel 1992 convinsi il collega De Camilli a partecipare al xviii Congresso Internazionale dell’International Council of Onomastic Sciences (icos) che si sarebbe svolto a Treviri dal 12 al 17 aprile 1993, intervenendovi con un argomento appunto di onomastica letteraria. Questo affinché egli si rendesse conto di persona di quanto credito venisse concesso a questo tipo di studi da valenti studiosi nelle altre nazioni d’Europa e negli Stati Uniti. Egli, persuaso dalle mie insistenze, partecipò al suddetto Congresso, riferendo nella Sezione vii « Literarische Onomastik » sull’onomastica in Cesare Pavese con un lavoro dal titolo Les noms des personnages dans l’oeuvre de Pavese. Questo sarebbe stato il primo di una nutrita serie di suoi lavori all’interno di questo settore di ricerca, come si può rilevare dalla bibliografia del festeggiato, posta in calce al presente volume. Lì, venendo in contatto con studiosi non italiani di onomastica letteraria, quali, fra gli altri, Friedhelm Debus, Bill Nicolaisen, Grant Smith, il De Camilli si rese anzitutto bene conto di quanto questo settore di studi che tocca della filologia, della linguistica, della letteratura, fosse seriamente coltivato all’estero. Non solo : qualche tempo dopo mi comunicò di essersi davvero convinto dell’importanza di questo nuovo metodo di critica letteraria e della necessità di prendere qualche concreta iniziativa, affinché gli studiosi italiani cominciassero a vagliare dal punto di vista onomastico con maggiore impegno, assiduità e coordinamento di quanto fino ad allora avvenuto la nostra ricca e varia letteratura, la quale offre a chiunque desideri avvicinarvisi materiali immensi ed ancora inesplorati per quanto attiene appunto ai nomi propri. Davide ci propose dunque di fondare un’associazione e in nome di quella organizzare incontri che stimolassero colleghi e studiosi italiani e stranieri, ed anche scrittori contempo 

























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davide de camilli e «o&l»

ranei, a lavorare o a riferire nel campo dell’onomastica letteraria. Mi disse infatti che creare un’associazione non sarebbe bastato a contribuire fattivamente a promuovere questa nuova disciplina : era giustamente necessario coinvolgere in concreto altri in questo nuovo cammino. Si rivolse dunque subito ad alcuni colleghi pisani che già nel corso della loro attività si erano occupati di onomastica in genere o che avevano magari già toccato argomenti onomastici in sede di critica letteraria. Dopo qualche iniziale perplessità, alcuni si mostrarono entusiasti : fra questi mi preme menzionare soprattutto il collega Bruno Porcelli, italianista filologo e letterato, il quale approvò e abbracciò con grande fervore e dedizione questa impresa, tanto da essere eletto, dopo la breve presidenza onoraria di Riccardo Ambrosini, presidente dell’Associazione « O&L ». Deve poi essere menzionata in questo contesto la collega Donatella Bremer, germanista, che non solo ha scritto vari lavori di onomastica letteraria, ma che è anche preziosa e infaticabile responsabile di altre iniziative nell’ambito dell’Associazione. I meriti dell’idea del De Camilli sono sotto gli occhi di tutti. Non solo dunque essere stato promotore, avere scelto ottimi collaboratori, ma anche, una volta dotata l’Associazione « O&L » di un suo statuto, avere organizzato un primo convegno immediatamente, già nel 1995. Questo fu allora di una sola giornata e di argomento libero : il successo fu vastissimo. Divenne quindi subito chiaro che con la sua proposta Davide aveva davvero colmato una lacuna nel campo degli studi umanistici. Di questo successo sono dimostrazione se non altro i 15 Convegni da allora annualmente organizzati, in un primo momento a Pisa e, più di recente, alternativamente presso il nostro Ateneo o presso altro Ateneo italiano (Napoli, Torino, Sassari), sempre seguiti dai relativi Atti. I contributi dei convegni sono stati quindi tutti interamente pubblicati, per la maggior parte nella rivista « il Nome nel testo », fondata dall’Associazione stessa e giunta oggi al numero xii. Emanazione dell’attività di « O&L » sono la collana « Nominatio », fondata dalla sottoscritta, ricca già di più di 10 volumi fra opere monografiche e miscellanee, e inoltre l’inserimento della sezione « Onomastica letteraria » nella rivista « Italianistica ». Ai Convegni di « O&L » hanno partecipato studiosi provenienti da vari paesi europei e dagli Stati Uniti. Giovani laureati e dottorandi e qualche volta anche studenti vengono ammessi a presentare le proprie ricerche accanto ad esperti filologi, letterati e linguisti. Ricordo in proposito che, sotto la guida sia del De Camilli sia di altri, non sono poche le tesi di laurea, anche specialistica, discusse in questi anni presso le Facoltà di Lettere e di Lingue dell’Università pisana e incentrate su singoli autori, analizzati sotto il profilo onomastico : queste, anche già solo attraverso i loro indici esaurienti e bene organizzati, hanno messo in luce aspetti finora ignoti del pensiero degli autori studiati. Ogni anno aumenta il numero di coloro che dedicandosi agli studi di onomastica letteraria dimostrano di amare questa disciplina e con essa anche il suo promotore, Davide, che, proprio come vuole l’etimologia del suo nome e come tutti noi desideriamo, può essere davvero soprannominato ‘l’amato’.  







































Maria Giovanna Arcamone

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Davide e la sua stirpe : tracce veterotestamentarie nell’onomastica italiana  

Alda Rossebastiano

I

n questa occasione vorremmo davvero che l’amico Davide potesse sentire realizzato il significato del suo nome : ‘l’amato’. È con questo messaggio che ci piace salutarlo all’apice della sua carriera accademica, testimoniando che molti amici, vicini e lontani, gli hanno voluto bene ; vorremmo addirittura che risalisse l’etimologia fino alla sua radice e vi leggesse il valore più intensamente affettivo, quello prossimo alla voce fanciullesca che vale ‘cocco’. 1 ‘L’amato’, il ‘cocco’ dell’Eterno era dunque il pastore giovanetto prescelto per diventare secondo re d’Israele, quello che uscì vittorioso da un duello impari, armato di molto coraggio e di una semplice fionda, divenuto poi valoroso combattente contro le tribù nemiche d’Israele, tanto da meritare la citazione alfieriana « Davidde, il forte, che i suoi mille abbatte… ». 2 Amato : non soltanto dal popolo d’Israele, ma anche dalla Chiesa romana, che lo riconosce santo e ne celebra il ricordo il 29 dicembre. Con ciò il nome entra nella cultura cristiana e si fissa nell’onomastica fino ai giorni nostri. David risulta presente già nelle iscrizioni latine, 3 anche se le attestazioni non sono numerose. Il Medioevo italiano lo conosce ma non lo gradisce particolarmente, soprattutto prima del Mille. 4 Per quanto riguarda il Piemonte, la prima attestazione, di area astigiana, risale al 916, 5 ma per incontrare poi di nuovo il nome si dovrà attendere il millennio successivo, quando nel Novarese compare « Davit » come nomen unicum. In questo, come in molti altri casi, il nome non è collegato all’ambiente ebraico. Da allora in poi le attestazioni aumentano, sempre in ambiente cristiano, come testimoniano i contesti, 6 in funzione di nomen unicum, 7 talora accompagnato da un titolo o da un indicatore di professione, 8 ed anche in funzione di nome individuale all’interno della catena bimembre.9 Per l’uso come secondo nome occorre arrivare al secolo xiii, quando nell’Astigiano compare « Davitus » 10 e a Crescentino Davi. 11 Gli esempi citati mostrano tendenza alla conservazione della forma propria del latino ecclesiastico, solo molto raramente adattata in -us ; l’uscita consonantica originale, latina ed  



















1

2 3   Tagliavini 1972, s.v.   Saul, At. ii, sc. 3.   Forcellini, s.v.   Come indica Elena Papa in npi, il Codice Diplomatico Longobardo ne cita 5 esempi dal 754. Seguono poi le testimonianze del mor, dove si contano 23 casi a partire dal 974. 5 6   Mairano 1969-1970.   Cfr. qui di seguito frater, canonicus. 7   Ricordiamo : david, 1208 a Quarto ; 1229 a Masino ; 1464 a Dogliani (ArchiMediOn ; per la descrizione della bancadati, organizzata e gestita da Elena Papa, cfr. http ://hal9000.cisi.unito.it/archimedion/). 8   Ricordiamo : « david seschalcus », 1212 a Susa ; « david avilliane castellanus », 1233 a Sant’Ambrogio di Torino ; « david frater », 1259 a Vercelli (ArchiMediOn). 9   Ricordiamo : « david alberga », 1201 a Villar Focchiardo ; « david de croso », 1232 ad Avigliana ; « david de boceleno », 1232 a Susa ; « david de fabiano canonicus vercellensis », 1243 a Vercelli ; « david de zamonth », 1251 Revello ; « david belia10   Perasso 1994-1995. nus », 1253 Chieri (ArchiMediOn). 11   Manassero 2005-2006 : « heredes condam romani davi ». Ricordiamo che Davidus risulta tra i secondi nomi di Milano nel 1266 (Ratti 1902, 230). 4







































































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alda rossebastiano

ebraica, in Piemonte viene rispettata addirittura nei testi volgari del Seicento, evidentemente sostenuta dal dialetto locale. 1 Nel corso del Novecento Davide conta 197.477 occorrenze, la maggior parte delle quali concentrate nell’ultimo quarto del secolo. Il nome risulta infatti a bassa diffusione fino agli anni sessanta, quando si verifica un forte incremento collegato alla moda dei nomi di tradizione biblica. 2 La tendenza si va sviluppando negli anni settanta, quando Davide raggiunge l’apice con 6.718 occorrenze (1974). L’andamento della curva si mantiene alto anche negli anni successivi, nonostante il calo della natalità, mostrando un picco di poco inferiore nel 1986 (6.675). La variante David (18.469 occorrenze), al momento non più dialettale ma esotica, sostenuta dalla fama di personaggi dello spettacolo di origine anglosassone, avanza con qualche anno di ritardo, ma segna l’apice già nel 1972 (869) per declinare in seguito sulla scia dell’andamento demografico. 8000

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Sul piano regionale Davide mostra massima concentrazione in Lombardia (50.774 occorrenze), mentre David è preminente in Toscana (5.040 occorrenze). 1

  Ricordiamo : « david de matheo », 1613 ad Oglianico (ArchiMediOn).   Cfr. anche De Felice 1987, 203.

2







tracce veterotestamentarie nell ’ onomastica italiana

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La fama di Davide e il suo moderno trionfo non sono condivisi da tutti i suoi progenitori, molti dei quali sono dimenticati o quasi dall’onomastica italiana. Risalendo l’albero genealogico secondo le indicazioni del Vangelo di Matteo, 1 troviamo « Iesse », probabile contrazione di ‘Yishyhwh, composto da ‘Ysh ‘uomo’ e Yavhé ‘Dio’. 2 Di questo nome non si rinviene traccia nell’onomastica medievale del Piemonte, mentre secondo la grafia Jesse esso trova posto nel repertorio onomastico italiano del Novecento a partire dal 1948, con un totale di 20 occorrenze nell’intero secolo. 3 L’apice della diffusione viene toccato nel 1989 con 5 registrazioni. L’area di prevalente concentrazione è sempre la Lombardia (9 occorrenze). Ancora più debole l’influenza, esclusivamente moderna, del nome del nonno di Davide, Obed, disperso sul territorio nazionale. Nel Novecento italiano conta soltanto 7 occorrenze, raccolte in due periodi : dal 1912 al 1931 e dal 1978 al 1994. Forse non piaceva il suo significato che è ‘servo di Dio’ (ebr. avad ‘lavorare’). 4 Del tutto caduto in oblio Booz ‘alacre’, mentre ha ottenuto grande successo Salmòn, etimologicamente collegato a ‘pace’, sostenuto probabilmente da un altro ben più celebre omonimo personaggio, il saggio re Salomone, che di Davide era figlio. Le attestazioni medievali di questo nome risalgono al x secolo e provengono dall’Italia centrale. 5 Dopo il Mille la diffusione si accentua e tocca anche il Piemonte, sia in funzione  





1   Mt 1, 2-6 : « Abramo generò Isacco ; Isacco generò Giacobbe ; Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli ; Giuda generò Fares e Zara, da Tamar ; Fares generò Esròm ; Esròm generò Aram ; Aram generò Aminadàb ; Aminadàb generò Naassòn ; Naassòn generò Salmòn ; Salmòn generò Booz, da Racab ; Booz generò Obed, da Rut ; Obed generò Iesse ; 2   Cfr. la scheda di Rocco Quaglia in npi, s.v. Iesse generò il re Davide ». 3   Per esattezza ricordiamo che la banca dati comprende i dati disponibili fino al 31 dicembre 1994. 4   Cfr. la scheda di Alessandra Negro in npi, s.v. 5   Cfr. mor. Per il Meridione segnaliamo in Puglia « salomon presbiter, filius salomoni » nel 1059 (Sireno 2007-2008), « ego salmon » nel 1170 e « ego salomon iohannis salomonis » nel 1205 (Bertoli 2007-2008).  









































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di nome individuale che come secondo nome, 2 oscillando nell’uso tra Salamon e Salamonus. Compare nel frattempo anche la variante « Salomon », documentata per la prima volta come nome unico nel 1167 ad Asti, 3 come secondo nome nel 1186, 4 come primo nome nel 1197 a Biella. 5 Nel Duecento il nome personale è già passato ad indicare un gruppo familiare, segnalato dalla forma plurale «Salomones». 6 Nessuna delle attestazioni reperite in epoca medievale dà modo di ritenere che gli individui appartenessero a famiglie israelitiche, contrariamente a quanto accade nel Seicento, stando alle indicazioni dei documenti che occasionalmente citano l’appartenza religiosa. Ne è un esempio « messer salamone luzato, figliuolo del fu messer lazaro luzato, hebrei », nominato nel 1612 a Cuorgné. 7 Il Novecento non ama Salomone, nome troppo lungo, ulteriormente appesantito dalla finale in -one che dà l’idea di qualcosa di grande e magari anche poco aggraziato, e perciò la diffusione (109 occorrenze, dal 1902 al 1994) resta probabilmente circoscritta all’ambiente ebraico, dove è fortemente sostenuta dalla motivazione religiosa. Non sono sufficienti a diffonderlo in ambito cristiano due santi molto antichi, uno dei quali fu martirizzato in Spagna nel ix secolo, l’altro, re di Bretagna, messo a morte dai Franchi. 8 Il Medioevo piemontese e l’età moderna sono concordi nel dimenticare Naasson e Aminadab, 9 ma l’onomastica del xx secolo recepisce almeno Aram (30 occorrenze) ‘alto’, specie in Veneto e in Lombardia. Nessuna traccia di Esrom, mentre troviamo Fares (28 occorrenze), attestato fin dall’inizio del Novecento. 10 Le prime registrazioni nel xx secolo saranno presumibilmente di tradizione ebraica, mentre quelle degli ultimi anni è probabile facciano riferimento, più che al nome biblico, al corrispondente arabo. Il Medioevo respinge anche Giuda ‘lodato’, evidentemente dalla massa collegato istintivamente all’apostolo traditore di Cristo, ma l’onomastica moderna lo salva con 23 attestazioni, che diventano ben 176 nella variante popolare Giudo, con la quale si recupera formalmente il genere maschile attraverso la variazione della desinenza. 11 Lo conosceva anche l’onomastica cristiana delle origini nella forma Iuda, Iudas, come testimoniano le iscrizioni dell’Italia settentrionale e centrale. 12 Giacobbe giunge invece fino ai giorni nostri contando 605 occorrenze nel Novecento, nonostante la concorrenza del più moderno Giacomo che raccoglie l’influenza dell’apostolo. 1







1



  ArchiMediOn : « salamon de maçadio », 1254 a Mazzè.   ArchiMediOn : « jacobus de salamono », 1241 a Biella ; « otto salamon », 1253 a Chieri ; « laurencius salamonus », 1372 a Dogliani ; « raynerium de salamonibus », 1468 a Vercelli ; « bartolomeus salamonus », 1442 a Forno Canavese ; « petrus salamonus », 1472 a Forno Canavese ; « martinus salamonus », 1472 a Forno Canavese ; « laurentius salamonus », 1479 a Do3   ArchiMediOn : « nepotis quondam salomonis ». gliani. 4   ArchiMediOn : « villanus salomonis ». Più tardi : « iacobus salomonus » 1464 a Dogliani. 5   ArchiMediOn : « salomon de amelio ». Più tardi : « salomon de picinalla de varalo », 1354 a Varallo. 6 7   ArchiMediOn : a Chieri nel 1253.   Rossebastiano 1988. 8   Cfr. la scheda di Daniela Cacia in npi, s.v. 9   Quest’ultimo nome tuttavia è citato nel Codex Diplomaticus Amiatinus (cda, ii, p. 331, doc. 341a) nel 1153, come rileva Maria Giovanna Arcamone, che qui ringrazio. Un personaggio così chiamato compare inoltre a Portocannone nel 1136 (« aminadab venerabilis abbatis ») e a Vieste nel 1158 (« sadergardus et aminadap fratres olim sublime militis filii… »), citati da Sireno 2007-2008, nella Capitanata nel 1183 (« ego aminadab ») e nel 1248 (« thomas de aminadab »), citati da Bertoli 2007-2008. 10   Nel 1248 Fares si riscontra nella Capitanata (Bertoli 2007-2008). 11   Intorno ai nomi maschili in -a e alle loro varianti cfr. Quaglia, Rossebastiano 2008. 12   Cfr. la scheda di Daniela Cacia in npi, s.v. Giuda.  

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La curva della diffusione, a regime piuttosto basso già all’inizio del secolo (3 registrazioni nel 1900), con un apice modesto di 20 occorrenze nel 1921, risulta infatti in ulteriore cedimento nella seconda metà del secolo (1 registrazione nel 1994 e 0 nel 1988). A sostenerlo concorre soprattutto il Veneto, ma una certa insistenza si rileva anche in Lombardia, in Puglia e in Campania. 140

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Jacòb è l’esito originario del nome, semplice translitterazione dell’ebraico Ya’aqôbh, nella traduzione latina del Nuovo Testamento divenuto Jacōbus, con riferimento all’apostolo.

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A propagare il nome durante il Medioevo sarà proprio quest’ultimo, il cui culto risulta piuttosto antico (attestato nel 781 a Farfa) e testimoniato in Piemonte dalle molte citazioni di Jacobus (« presbitero jacobo de miralda, capellano et vicario », 882 a Biella) e Jacobinus (« jacobinus barberius de bugella notarius », 882 a Biella). Limitandoci alla forma originale Jacòb, ne segnaliamo l’esistenza in ambiente ebraico a Cava dei Tirreni fin dal 798, 1 poi a Farfa dal 1048. 2 In Piemonte la documentazione risulta piuttosto tardiva, vale a dire successiva al Mille. Un « jacob de solario » viene nominato nel 1192 ad Albiano. 3 Si apre così una dinastia che userà Jacob come secondo nome, passando attraverso « Jacob de Albiano », deceduto tra il 1257, quando viene nominato come proprietario di un immobile (« sedimen quod tenet jacob in albiano »), e il 1263, 4 come indica la prima citazione del figlio Pietro (« petri filii condam jacob de albiano »), poi divenuto « petro de jacob de albiano » (1272 ). Nel xiii secolo (1201) troviamo menzione ad Asti di « jacob strufo de montelongo », al momento già deceduto, secondo i dati di un altro documento del medesimo anno nel quale si parla di « agnes uxor quondam jacob strufi »). Il nome doveva essere assai diffuso localmente, se le menzioni nella medesima città si susseguono con « jacob filius huldrici pistoris » (1209) e nella non lontana Cortazzone con « jacob de cortasono » (1212). Un « dominus jacob cagnacius » viene citato nel 1229 a Torino a proposito di un giuramento che, essendo stato prestato « ad sancta dei evangelia », rimanda certamente ad un ambiente cristiano. Un « iacob de alice notarius » risulta attivo a Biella nel 1219, mentre « yacob de vercellis » trova menzione nei documenti relativi alla costruzione del castello di Torino (1317). Il nome circola dunque sia negli strati alti della popolazione che in quelli inferiori. Secondo quanto già segnalato a proposito di « petro de jacob de albiano », l’antroponimo può essere usato in funzione di patronimico, come nel caso di « obertus jacob juratus » (1224 a Casale Monferrato). La fitta presenza di ebrei a Casale Monferrato induce il sospetto che in questo caso si tratti di un individuo legato all’ambiente israelitico ; questo è del resto esplicitamente richiamato da una citazione eporediese del 1612, relativa a « jacob, figliuolo di messer marcho jona, hebrei ». 5 Il padre di Giacobbe era Isacco, il cui nome conta più di un migliaio di occorrenze nel Novecento, testimoniate soprattutto in ambiente ebraico e protestante. La curva di diffusione sintetizza un poco la storia ideologica del secolo scorso. Piuttosto raro nei primi anni, si avvicina alle 30 occorrenze nel 1928 e le supera nel 1931, trascinato dalla fama dello scrittore ucraino Isaak Babel che dalla sua esperienza bolscevica aveva tratto spunto per L’armata a cavallo (1926) e dall’ambiente ebraico per i Racconti di Odessa (1931). La morte dell’autore, avvenuta nel 1941, non riesce a contrastare neppure temporaneamente il calo che si verifica nel 1938 a seguito della promulgazione delle leggi razziali, mentre risolleverà le sorti del nome l’apprezzamento per l’onomastica di tradizione biblica caratteristica degli anni settanta, ulteriormente sostenuta dalla forte circolazione all’interno del mondo anglosassone, verso il quale guarda la massa popolare, sempre più attratta dai divi dello spettacolo.  









































































1

  Brattö 1953, 141.   Ibidem.

4

2

  Ibidem.

3

  ArchiMediOn.   Rossebastiano 1988.

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L’area di maggiore insistenza tocca la Lombardia e il Veneto. 400

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Il significato è augurale, in quanto collegato al verbo zahâq ‘ridere’ e quindi da interpretarsi come ‘(possa Iddio) sorridere (al neonato)’. L’epoca medievale conosce Isac ma non lo usa con insistenza. La prima attestazione a noi nota in Piemonte risale al 999, attraverso la citazione del nome unico ysac proprio di un

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rivoltoso che sarebbe stato autore di devastazioni a Vercelli. 1 Sempre come nomen unicum la forma isac compare a Torino nel 1182, la variante isaach nel 1209. Il nome era tradizionale tra i signori di Torcello, 2 secondo le attestazioni locali, tra cui «alinerio et ysaaco dominis de torcello» (1223 a Torcello), «dominus hugolinus frater domini isacchi de torcello» (1235 a Torcello), «bonefacio malapeze de torcello et jsacco eius filius» (1228 a Torcello), «domino ysacco» (1223 a Coniolo), «domino mainfredo marchiono de saluciis pro se et suis vicinis de muiola silicet jacobus jsaac» (1224 a Moiola), «domino jsacco» (1224 a Rolasco), «rainerius filius domini jsacci et bonifacius malapecia» (1224 a Casale Monferrato). «Rodulfus ysac» (1253 a Chieri) ne testimonia l’uso come secondo nome. Chiude l’ascendenza indicata dal Vangelo il patriarca Abramo, il cui nome ai giorni nostri presenta un discreto numero di registrazioni (4.096 nel Novecento), accumulate soprattutto nella prima metà del secolo (apice negli anni Venti con un centinaio di occorrenze annuali). 120

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La concentrazione massima si osserva tra Lombardia e Veneto. 1   BSSS 145, doc. 35, p. 118 : «Damus omnia predia Ardoini filii Dadonis, quia hostis publicus adjudicatus, Episcopum Petrum Vercellensem interfecit et interfectum incendere non expavit ; et predia eorum qui ex prolatu armis et ipsis manibus huic crudelitati interfuerunt…Ysac et fratris ejus». 2   Frazione di Casale Monferrato, in provincia di Asti.  



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Il significato del nome è complesso e discusso, ma si può riassumere sulla base del testo biblico che distingue ‘Avram, nome del patriarca prima del patto con Dio, e ‘Avraham, nome acquisito in conseguenza di esso. 1 La prima forma si basa sull’ebraico ‘av ‘padre’, unito a ram ‘innalzato, eccelso’, che produce il significato ‘padre eccelso’ ; la seconda sarebbe la contrazione dell’espressione ‘av hamon goyim ‘padre di una moltitudine di genti’, come esplicita lo stesso testo sacro. Il nome non ebbe ampia diffusione in epoca medievale. Risulta documentato nell’Italia centrale a partire dal 1097, 2 a Genova dal 1156, 3 a Firenze nel 1203 e nel 1260, 4 quasi sempre con riferimento all’ambiente israelitico, mentre in Piemonte trova riscontro come primo nome in Val Varaita nel 1363, 5 poi a Crevacuore nel 1377 («abram ferrari vallis crepacorii»). All’ambiente ebraico rimanda «abram leve», citato a Rivarolo nel 1612. 6 In funzione di secondo nome Abram è frequente a Cogne fin dal 1400, quando viene registrato in un atto di fedeltà al duca di Savoia. Costantemente presente in quelli successivi fino al 1513, continua fino ad oggi, soprattutto nella frazione Epinel. Molto probabilmente a portarlo nella Valle d’Aosta fu una famiglia di ebrei, considerato che fin dal 1278 nella zona erano presenti casane o istituti di credito feneratizio, con i quali gli ebrei avevano stretti rapporti d’affari. 7  

Come si può osservare dai dati riportati, l’ascendenza per linea maschile di Davide non mostra rigogliose radici sul nostro territorio in epoca medievale, se non quando, come nel caso di Giacobbe, riceve sostegno da una figura neotestamentaria, o, come nel caso di Salomone, da omonimi personaggi rivisitati dalla tradizione popolare : all’epoca, evidentemente, il sem 

1   Gen. 17, 5 : « E non sarai più chiamato con il nome di Abramo, ma sarai detto Abrahamo perché ti faccio padre di una moltitudine di genti » ; cfr. anche la scheda di Elena Papa in npi, s.v. 2 3   mor.   Scriba 1935. 4 5   Brattö 1955, 11.   Pettenati 1968-1969. 6 7   Rossebastiano 1988.   Nada Patrone 1956.  







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plice riconoscimento della figura esemplare da parte della Chiesa romana non era sufficiente a diffondere il nome. In epoca moderna la sorte di alcuni di questi nomi migliora per il diffondersi della moda dell’onomastica a riferimento biblico a partire dagli anni settanta, sostenuta dalla circolazione nel mondo anglosassone, divenuto il punto di riferimento della cultura mondiale. Ulteriore sostegno deriva dall’ambiente dello spettacolo, sempre alla ricerca di esotismi. La linea femminile nella parte documentata dal testo evangelico non ebbe migliore fortuna. Intanto rileviamo che le progenitrici citate sono soltanto tre, tutte assenti nel repertorio onomastico medievale del Piemonte. Cominciamo con la bisnonna di Davide, Rut, la moabita, assurta ad esempio di pietà filiale e a simbolo dell’integrazione degli stranieri tra il popolo d’Israele. 1 Nonostante questo, il Medioevo italiano non la ricorda e poco la riconosce l’età moderna, a dispetto del significato allettante del nome, che vale ‘amicizia’. Le 612 occorrenze di Ruth registrate nel corso del xx secolo sono concentrate nel Trentino Alto Adige (452), facendo supporre che il nome circoli quasi esclusivamente presso la popolazione di lingua tedesca. La grafia del nome con h finale (Rut compare soltanto 32 volte) del resto documenta la sua distanza dalla consuetudine italiana. 500

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L’apice viene toccato ancora una volta negli anni settanta, probabilmente per influsso dell’attrazione per gli esotismi, oltre che per il richiamo della Bibbia. 1

  Cfr. anche la scheda di Daniela Cacia in npi, s.v.

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F RUTH

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Nessuna traccia di Racab, figura di secondaria importanza anche nel testo biblico. Tamar, del tutto assente nel repertorio medievale piemontese, ottiene ampio successo nel Novecento secondo l’adattamento Tamara (12.854 occorrenze), che lo adegua al sistema linguistico italiano. 1 Rarissimo all’inizio del secolo, comincia a radicarsi a partire dagli anni trenta, con un primo moderato balzo d’incremento nel 1945. L’esplosione del nome si realizza però negli anni settanta, quando raggiunge l’apice della diffusione (più di 800 occorrenze nel 1973 e nel 1976). Come tutti i nomi di moda e privi di tradizione, declina ben presto, aggirandosi mediamente sulle 200 occorrenze negli anni ottanta e sul centinaio nel decennio successivo. 900

800 F TAMAR F TAMARA

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1

  Cfr. anche la scheda di Elena Papa in npi, s.v.

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alda rossebastiano

Presente in tutte le regioni italiane, risulta maggiormente insistente in quelle che comprendono grandi città, come si evince dal grafico regionale. 2500

F TAMAR 2000

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TRE

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Il significato del nome ‘palma da dattero’, quindi anche ‘dattero’, sinonimo di ‘dolcezza’, potrebbe giustificarne il successo che in realtà posa le sue radici nella letteratura, nella lirica e nello spettacolo, soprattutto in collegamento con la Russia, dove il nome è piuttosto diffuso. La bellissima regina della Georgia (1184-1212) che portava questo nome venne celebrata, ad esempio, dal poeta Rustaveli e alla medesima figura si ispirò Balakirev per il suo poema sinfonico Tamara (1867-1868). Una principessa georgiana di questo nome è la protagonista del poema Il demone (1841) di Lermontov, musicato da Rubinstein (1875) e portato sugli schermi da Vitrotti (1911), per portare alcuni esempi. Saremmo lieti se così tanti italiani si fossero accostati alle succitate opere, ma riteniamo che i motivi di diffusione siano di altra origine, legati piuttosto a personaggi dello spettacolo, come la ballerina russa Tamara Toumanova, protagonista del film Tamara, figlia della steppa (1944), che attraverso la data giustifica il segnalato balzo del 1945. Per gli anni settanta pensiamo semplicemente all’attrazione per l’esotico, diffuso spesso dai fotoromanzi e dalle telenovelas. La stessa figura biblica del resto si adatta ad una lettura leggera del nome. Tamara, vedova del perverso Er e del vizioso Onan, ambedue figli di Giuda, morti prima di riuscire a renderla madre, venne scacciata dal suocero in quanto ritenuta sterile. Tamara ritornò nella casa paterna, ma non si arrese. Quando seppe che il suocero, rimasto a sua volta vedovo, si sarebbe recato a Timna per la tosatura del gregge, cambiò i suoi abiti vedovili con veli da prostituta e si sedette lungo la strada in attesa del vecchio, per dimostrargli che il suo giudizio era due volte sbagliato : non era sterile ed era stato ingiusto non darla in moglie al terzo figlio, Sela. Vedendola sulla strada, Giuda incautamente si accostò a lei e da quel rapporto occasionale nacquero due gemelli, tra cui Fares, uno degli antenati di Davide.  

tracce veterotestamentarie nell ’ onomastica italiana

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La stirpe reale, dunque, ha qualche momento di pittoresco cedimento, ma il fascino di Tamara resta intatto e il suo nome nei ribelli anni settanta ha ottenuto il successo che merita chi non si arrende. Forse il coraggioso giovinetto che contrastò il gigante Golia aveva conservato l’ardire e la provocatoria voglia di emergere dell’antenata chiamata ‘dolcezza’. Bibliografia Alfieri : V. Alfieri, Saul, At. ii, sc. 3, in Tragedie, Firenze, Sansoni, 1985. Bertoli 2007-2008 : D. Bertoli, Antroponomastica medievale della Capitanata, tesi di dottorato in « Lessico e onomastica italiani », Università di Torino, xx ciclo, a.a. 2007-2008. Brattö 1953 : O. Brattö, Studi di antroponimia fiorentina, Göteborg, Elanders Boktryckeri Aktiebolag. Brattö 1955 : O. Brattö, Nuovi Studi di antroponimia fiorentina, Stockholm, Almqvist & Wiksell. BSSS 145 : I Biscioni, a cura di G. C. Faccio e M. Ranno, Torino-Casale Monferrato, Stab. Tip. di Miglietta, Milano & C., 1934. cda : Codex Diplomaticus Amiatinus. Urkundenbuch der Abtei S. Salvatore am Montamiata. Von den Anfängen bis zum Regierungsantritt Papst Innozenz III (736-1198), a cura di W. Kurze, 3 voll., Tubinga, Niemeyer, 1974-1997. De Felice 1987 : E. De Felice, Nomi e cultura, Venezia, Marsilio. Forcellini : E. Forcellini, Lexicon totius Latinitatis, a cura di J. Corradini, J. Perrin Padova, Typis seminarii, 1940. Mairano 1969-1970 : G. Mairano, Ricerche di Antroponimia astigiana nei secoli viii, ix e x, tesi di laurea della Facoltà di Magistero, Università di Torino, a.a. 1969-1970, rel. prof. G. Gasca Queirazza. Manassero 2005-2006 : S. Manassero, Ricerche di antroponomastica : le pergamene di S. Genuario di Lucedio (vc), tesi di laurea della Facoltà di Scienze della Formazione, Università di Torino, a.a. 2005-2006, rel. prof. A. Rossebastiano. mor : G. Savio (a cura di), Monumenta Onomastica Medii Aevi (secc. x-xii), 5 voll., Roma, il Cigno Galileo Galilei, 1999. Nada Patrone 1956 : A. M. Nada Patrone, Le casane astigiane in Savoia, in La Valle d’Aosta : relazioni e comunicazioni presentate al 31. Congresso Storico Subalpino di Aosta, 9-10-11 settembre 1956, Torino, Deputazione Subalpina di Storia Patria, 1958-1959, vol. iv, pp. 37-95. npi : A. Rossebastiano, E. Papa, I nomi di persona in Italia, 2 voll., Torino, utet, 2005. Perasso 1994-1995 : S. Perasso, Ricerche di antroponimia astigiana nella seconda metà del xiii secolo, tesi di laurea della Facoltà di Magistero, Università di Torino, a.a. 1994-1995, rel. prof. G. Gasca Queirazza. Pettenati 1968-1969 : A. Pettenati, Ricerche linguistiche sull’antroponimia medievale della Castellata, nell’Alta Valle Varaita, tesi di laurea della Facoltà di Magistero, Università di Torino, a.a. 1968-1969, rel. prof. G. Gasca Queirazza. Quaglia, Rossebastiano 2008 : R. Quaglia, A. Rossebastiano, Il “maschile” attraverso i nomi, in A Torino, Atti del xii Convegno Internazionale di Onomastica & Letteratura (e altra onomastica), Torino 16-18 novembre 2006, a cura di C. Colli Tibaldi e D. Cacia, Alessandria, Edizioni dell’Orso, pp. 155-172. Ratti 1902 : A. Ratti, A Milano nel 1266, da inedito documento originale dell’Archivio segreto vaticano, « Memorie del Reale Istituto Lombardo di Scienze e Lettere », Classe di Lettere, Scienze morali e storiche, 21, pp. 205-234. Rossebastiano 1988 : A. Rossebastiano, Il corredo nuziale nel Canavese del Seicento, Alessandria, Edizioni dell’Orso. Sireno 2007-2008 : I. Sireno, Il sistema onomastico pugliese nel Codice Diplomatico del monastero benedettino di S. Maria delle Tremiti, tesi di dottorato in « Lessico e onomastica italiani », Università di Torino, xx ciclo, a.a. 2007-2008. Scriba 1935 : Il cartolare di Giovanni Scriba, a cura di M. Chiaudano e M. Moresco, Torino, Lattes. Tagliavini 1972 : C. Tagliavini, Origine e storia dei nomi di persona, Bologna, Pàtron (seconda ed. di Un nome al giorno).  

























































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onomastica e critica letteraria

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Identità e Nomi nel romanzo giallo italiano* Maria Giovanna Arcamone 0.

U

no dei compiti più ardui per uno scrittore è quello di creare l’identità dei suoi personaggi. Identità vuol dire : essere appunto quello e non un altro. 1 Normalmente l’identità anagrafica e burocratica di una persona è presto assodata : basta appurare il nome ed il cognome, il codice fiscale, la residenza e poco altro, come la statura o il colore degli occhi, in qualche caso anche l’impronta digitale. Ma questi dati da soli non bastano a delineare l’identità profonda e cioè la personalità, tanto che nella vita di tutti i giorni, per capire veramente chi si ha di fronte o con chi si ha a che fare, si fa poi ricorso ad altri elementi quali, p. es., la fisionomia, l’abito, le attività svolte, il modo di gestire e di parlare, la vita precedente, la famiglia di provenienza, ecc. Anche i luoghi, le cose e gli animali possiedono una identità che viene individuata più o meno con gli stessi parametri usati per gli essere umani : nome proprio, aspetto, localizzazione, caratteristiche di vario tipo, vicende cui sono legati, ecc. Nell’opera letteraria o più genericamente nella fiction l’identità profonda di qualcuno o di qualche luogo necessita di un’operazione più complessa, poiché tutto va creato dal nulla e perché gli attori o i luoghi non sono presenti nella loro fisicità. L’identità viene suggerita poco a poco con descrizioni di atteggiamenti e abitudini, dirette o indirette, riflessioni sul carattere e sulla personalità, ecc. ed anche, per i motivi sopra menzionati, con l’attribuzione di nomi propri (np), talvolta anche senza di questi, il che però è sempre intenzionale e veicola pur sempre informazioni. L’esistente produzione di onomastica letteraria ha infatti già ampiamente dimostrato che i nomi propri possono essere forti portatori di identità : gli autori la ottengono scegliendo sia nomi parlanti, sia nomi allusivi, sia ritardando la loro comparsa, sia facendoli introdurre da altri, sia riducendoli alla lettera iniziale, ecc. 2 Qui di seguito si vuole cominciare ad indagare come gli autori italiani di romanzi polizieschi 3 utilizzino i nomi propri per creare le identità profonde, cioè le personalità dei loro personaggi o dei luoghi in cui si muovono o degli animali e delle cose che li circondano. Il rapporto fra identità e nomi propri si presta ad essere verificato bene proprio nel roman 







*  Questo testo è la versione italiana fortemente cambiata, ampliata e aggiornata, di una conferenza da me tenuta in lingua inglese dietro invito presso l’Università di Oslo il 21 novembre 2008 (in corso di stampa). 1  Vocabolario della lingua italiana. Il Conciso, Roma, Istituto della Enciclopedia Treccani, 1998, p. 710, s.v. identità, 2.a. 2   Per le tipologie e le funzioni dei np nelle opere letterarie si veda F. Debus, Namen in literarischen Werken : (Er-) findung – Form – Funktion, Stuttgart, Franz Steiner, 2002 ; B. Porcelli, Introduzione alla sottosezione 3b : Onomastica letteraria – I nomi nei generi letterari, in I nomi nel tempo e nello spazio. Atti del xxii Congresso Internazionale di Scienze Onomastiche (Pisa, 28 agosto-4 settembre 2005), iii, Pisa, ets, 2006, pp. 141-145 (= « il Nome nel testo », viii, 2006). Per la nominatio e le tendenze onomastiche nei gialli italiani si veda adesso anche B. Porcelli, Il giallo italiano negli anni 2006-2008 (all’incirca) e i suoi nomi, « Rivista di letteratura italiana », xxvii, 2, 2009, pp. 69-78 : 74-78. 3   Per la storia di questo genere si vedano le opere seguenti : Y. Reuter, Il romanzo poliziesco, prefazione di A. Camilleri, Roma, Armando Editore, 1998 (trad. dall’orig. francese Le roman policier, Parigi, Editions Nathan, 1997) e L. Crovi, Tutti i colori del giallo. Il giallo italiano da De Marchi a Scerbanenco a Camilleri, Venezia, Marsilio, 2002 (« Gli specchi Marsilio »).  





















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maria giovanna arcamone

zo giallo : nei gialli il fine ultimo della narrazione è quella di identificare anzitutto l’assassino o gli assassini, che normalmente all’inizio dell’indagine – e talvolta anche alla fine – sia nella realtà sia nella letteratura non sono noti ; per questo le personalità di tutti quelli che si muovono nel bene e nel male nel tessuto della vicenda devono essere ciascuna opportunamente e compiutamente identificata, affinché diventino chiari i moventi e ne venga acclarata l’attendibilità. Esistono studi sui romanzi gialli italiani e sui loro autori : ma è solo da pochi anni che l’onomastica in essi presente ha cominciato ad essere studiata in maniera autonoma e mirata. 1 Un felice impulso all’indagine onomastica nel genere giallo è stato dato dal xiii Convegno di « Onomastica & Letteratura » svoltosi a Sassari nell’ottobre del 2008 ed ora in corso di stampa nella rivista « il Nome nel testo » : infatti uno degli argomenti suggeriti dal comitato organizzatore era appunto Il romanzo poliziesco. 2 Con questo non si vuol dire che nessun critico abbia mai in precedenza posto attenzione alla nominatio dei romanzi polizieschi ; p. es. proprio quella presente nel Pasticciaccio di Carlo Emilio Gadda, ricchissima, chiaramente allusiva e fortemente intrecciata con i vari aspetti degli avvenimenti, è stata sottoposta, fin dalla pubblicazione in volume dell’opera (1957), insieme a quella di alcuni altri suoi testi, a minuziose analisi : 3 con queste si può dire che di molti np in essa presenti sia stata valutata la valenza semantica ai fini della costruzione dell’ambiente e della soluzione dei fatti descritti, anche se, data la notoria complessità del testo, ancora molto resta da osservare in proposito. Si deve però fare presente che questo attento e persistente esame onomastico del Pasticciaccio non derivava solo dall’appartenenza dell’opera al genere giallo o poliziesco – e in questo contesto era soprattutto la conclusione insoluta a spingere molti critici a cercare aiuto nell’onomastica –, ma anche dal fatto che essa costituisce un capolavoro della narrativa italiana del ’900.  



















1. Ho dunque indagato sulle funzioni di alcuni np in tre romanzi gialli italiani, in particolare in Quer Pasticciaccio brutto de via Merulana (1957) di Carlo Emilio Gadda, ora citato, in Il giorno della civetta (1961) di Leonardo Sciascia e in Donne informate sui fatti (2006) di Carlo Fruttero, 4 privilegiando autori che non si dedicano solo al genere giallo, ma che hanno al loro attivo anche una produzione letteraria in altri generi. Si comincia con l’osservare che non solo Gadda, al quale si è già accennato, ma anche gli altri autori mostrano di conoscere la forza insita nei nomi propri, come rivelano alcune 1   Cfr. M. G. Arcamone, La donna della domenica, « il Nome nel testo », ix, 2007, Sez. i, L’onomastica negli autori piemontesi, pp. 11-16 ; B. Porcelli, L. Terrusi, L’onomastica letteraria in Italia dal 1980 al 2005. Repertorio bibliografico con abstracts, Pisa, ets, 2006 (« Nominatio », Serie « Dizionari e Repertori »): per i saggi contenenti riflessioni sull’onomastica gaddiana si vedano i lavori citati ai numeri 282 Zollino, 321 Manzotti, 350 Grignani, 351 Italia, 361 Virgili, 433 Fagioli, 496 Manica, 586 D’Acunti. 2   Si vedano i seguenti articoli della Sez. ii, Onomastica nel romanzo poliziesco : P. Bianchi De Vecchi, Onomastica italiana nei gialli di Patricia Cornwell ; J. R. Meyer, Flan O’Brien’s Games with Names in The Third Policeman ; M. Milani, Nomi e personaggi di una nuova commedia all’italiana : La modista di Andrea Vitali ; M. Pelz, I nomi italiani nei gialli di autori di lingua tedesca ; G. Rabitti, Suggestioni letterarie nei nomi di persona e di luogo nel giallo italiano. 3   Degno di nota in proposito il § 7 Il nome letterario del capitolo di G. D’Acunti, I nomi di persona, in Storia della lingua italiana, 3 voll., Torino, Einaudi, 1992-1994 : ii, 1994, pp. 795-857 : 838-857, dove ampio spazio è dedicato proprio alla nominatio in Carlo Emilio Gadda e in particolare al suo Pasticciaccio; E. Bartoli, Appunti per un’onomastica gaddiana, «rion», 12, 1, 2006, pp. 115-142. Un’aggiornata bibliografia sull’onomastica nelle opere di Gadda è a disposizione per via elettronica sull’Edinburgh Journal of Gadda Studies : www.arts.ed.ac.uk/italian/gadda/index.php 4   Per questo lavoro ho utilizzato le seguenti edizioni : C. E. Gadda, Quer Pasticciaccio brutto de via Merulana, 4a ed., Milano, Garzanti, 1958 ; L. Sciascia, Il giorno della civetta [1963], Milano, Adelphi, 2007 (« Gli Adelphi », xi ed.) ; C. Fruttero, Donne informate sui fatti, Milano, Arnoldo Mondadori, 2006 (« Oscar Mondadori »).  













































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loro precisazioni, accostamenti, insistenze, variazioni, usi metaforici di ordine onomastico. Eccone qualche esempio tratto dalle stesse opere qui considerate. Nel Pasticciaccio di Gadda :  

I due agenti […] erano Gaudenzio, noto alla malavita come er Biondone, e Pompeo, detto invece lo Sgranfia (p. 15) anche don Corpi, don Lorenzo, don Lorenzo Corpi, don Corpi Lorenzo dei Quattro Santi (p. 14) Fu introdotto don Corpi, che si tolse adagio il cappello : con un gesto prelatizio. Era un bel prete alto e massiccio (p. 115) Al casello, detto di Casal Bruciato, lo si attendeva ogni giorno, una volta al giorno, con l’algebrica certezza e la trepidazione d’animo con cui alla specola di Arcetri o all’osservatorio di Monte Palomar, ogni settantacinque anni, il ricorrere della cometa di Halley (p. 270)  

In Il Giorno della civetta di Sciascia :  

Lei disse ingiuria, e per la prima volta il capitano ebbe bisogno dei lumi interpretativi del maresciallo. “Soprannome” disse il maresciallo “qui quasi tutti hanno soprannomi : e alcuni così offensivi che sono propriamente ingiurie” (p. 42) Il capitano si avvicinò al cane per carezzarlo. “No” disse il vecchio allarmato “è cattivo : una persona che non conosce, magari prima si fa toccare, la fa assicurare : e poi morde… È cattivo quanto un diavolo”. “E come si chiama” domandò il capitano, incuriosito dallo strano nome che il vecchio aveva pronunciato per acquietarlo. “Barruggieddu si chiama” disse il vecchio. “E che vuol dire? “ domandò il capitano. “Vuol dire uno che è cattivo” disse il vecchio. “Mai sentito” disse il brigadiere. E in dialetto chiese altre spiegazioni al vecchio. Il vecchio disse che forse il nome giusto era Barriccieddu, o forse Bargieddu : ma in ogni caso significava malvagità, la malvagità di uno che comanda ; ché un tempo i Barruggieddi o Bargieddi comandavano i paesi e mandavano la gente alla forca, per piacere malvagio. “Ho capito” disse il capitano “vuol dire Bargello : il capo degli sbirri” 1 (p. 93)  











Inoltre nella sua Breve storia del romanzo poliziesco 2 lo stesso Sciascia sottolinea :  

E a proposito di questo nome, Hercule, che Agata Christie lascia cadere sul suo personaggio, a non farci mai dimenticare la piccolezza della statura a contrasto della grandezza dell’ingegno, c’è da osservare come l’onomastica abbia nei romanzi polizieschi una certa funzione ironica o simbolica : l’aiutante di Wolfe (wolf : lupo) che si chiama Arcibaldo, Mason che vuol dire muratore, Ellery Queen edera regina (il tenace arrampicarsi dell’edera), e così via.  



In Donne informate sui fatti di Fruttero la bidella – una delle donne –, la quale aveva scoperto il corpo di una giovane strangolata, è delusa perché sui giornali non solo di Milano e Roma, ma nemmeno su quelli di Torino, dove è avvenuto il fattaccio e dove lei vive, sono menzionati il suo nome e il suo cognome :  

Invece niente nomi. Uno dice “La donna che ha segnalato […] ; Secondo una testimone […] ; Una signora (grazie) informata sui fatti […] (p. 55)  



1   Leonardo Sciascia ha scritto un testo teatrale pubblicato a Torino presso Einaudi nel 1969 dal titolo Recitazione della controversia liparitana (dedicato a A.D.), nel quale fra gli altri personaggi compare il bargello Matteo Lo Vecchio, il quale viene ucciso dalla folla inferocita. 2   L. Sciascia, Breve storia del romanzo poliziesco, in Idem, Opere (1971-1983), a cura di C. Ambroise, 3 voll., Milano, Bompiani, 1989 (« Classici Bompiani »), pp. 1181-1196: p. 1190.  



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maria giovanna arcamone

E la stessa bidella che non solo apre il romanzo, ma anche lo chiude, alla fine di nuovo protesta :  

io gli voglio puntualizzare che il loro casuale testimone è la sottoscritta Covino Angela, bidella presso la scuola G. Delessert…. (p. 194)

Attraverso l’insistenza sul nome e sul cognome l’autore vuole sottolineare che a questa donna in realtà, come a molti del resto in casi simili, di tutta la triste vicenda dispiace solo che la sua identità non sia stata resa nota e che quindi non le sia stata data la dovuta notorietà. Questi pochi esempi mostrano come i nomi propri per gli autori considerati siano elementi importanti nella costruzione della identità ed anche della psicologia dei personaggi. 2. Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda fu pubblicato in volume nel 1957, ma era uscito a puntate già prima, fra il 1946 e il 1947. 1 È ambientato a Roma, negli anni nei quali l’autore stesso abitò nella capitale (1925-1940), quindi in piena epoca fascista. La vicenda è nota : una bella e dolce signora della Roma bene, di nome Liliana nata Valdarena e sposata Balducci, viene barbaramente uccisa nella propria casa. Il bravo commissario Francesco Ingravallo segue più piste movendosi per la città e per le sue immediate celebri vicinanze, quali i Castelli e altri dintorni albani. C’è qualche indiziato, ma il romanzo termina senza che un nome venga declarato e quindi si chiude insoluto per il lettore, ma non per il commissario. Sono state avanzate diverse ipotesi sull’identità dell’assassino e degli eventuali complici : per alcune di queste, come si vedrà poi, i critici si valgono anche dei np degli indiziati e di altri con questi correlati. L’identità dei personaggi principali, infatti, oltre che da descrizioni pertinenti e circostanziate, viene rivelata anche attraverso i nomi e cognomi e soprannomi, visti anzitutto come nomi parlanti oppure come nomi allusivi, ma anche attraverso altri stratagemmi, quali il momento in cui compaiono all’interno dell’opera o il loro significato antifrastico o il loro legame con date e luoghi o anche oggetti. 2 P. es. il commissario di polizia, l’eroe del romanzo, viene presentato proprio all’inizio, attraverso il soprannome don Ciccio, seguito subito dal nome personale Francesco, dal cognome Ingravallo e poi anche dalla posizione che occupa all’interno della polizia : comandato alla mobile. Questi ultimi dati ne ristabiliscono immediatamente quell’autorità e importanza che poteva sembrare essersi persa nella simpatica coralità del soprannome : « Tutti oramai lo chiamavano don Ciccio. Era il dottor Francesco Ingravallo comandato alla mobile » (p. 1). Ciccio è ipocoristico meridionale di Francesco, 3 che è invece nome panitaliano : questo, insieme al don ed insieme al cognome Ingravallo, 4 ha la funzione di conferire al personaggio  













1   Non ho qui indagato se vi fossero diversità onomastiche fra l’edizione da me seguita e le altre, ivi compresa quella uscita in dispense fra il ’46 e il ‘47, ma conto di effettuare tali controlli in un lavoro successivo. 2   Si vedano, oltre agli autori citati alle note 1 e 3 a p. 38, anche F. Amigoni, Spinaci, « The Edinburgh Journal of Gadda Studies (ejgs) » 2/2002, www.arts.ed.ac.uk/italian/gadda/index.php, lettura del 28 luglio 2009, e M. A. Terzoli, Onomastica e calendari nel “Pasticciaccio” di Carlo Emilio Gadda, in Studi in onore di Pier Vincenzo Mengaldo per i suoi settant’anni, a cura degli allievi padovani, 2 voll., Firenze, sismel-Edizioni del Galluzzo, 2007 : ii, pp. 1225-1248. 3   E. De Felice, Dizionario dei nomi italiani, Milano, 1986 (« Oscar Mondadori »), p. 175 (s.v. Francesco) e A. Rossebastiano, E. Papa, I Nomi di Persona in Italia. Dizionario storico ed etimologico (in seguito dnp), Torino, utet, 2005, p. 270 (s.v. Ciccio). 4   Secondo minfin/1996 Ingravallo è diffuso soprattutto nella provincia di Bari. Ne esiste anche la variante Ingraval 









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una connotazione meridionale, ha cioè funzione classificante. Un don Ciccio si trova anche nel Giorno della civetta di Sciascia (p. 48), qui sotto esaminato, ambientato in Sicilia (ma non è un commissario, è un informatissimo barbiere!). Anche negli altri romanzi qui studiati ed in diversi altri testi letterari italiani del genere giallo, i poliziotti portano cognomi e talvolta anche nomi tipici delle regioni del Mezzogiorno d’Italia, da dove spesso provengono in effetti ancora oggi. 1 Sono descritte la sua competenza e la sua serietà sul lavoro : « ubiquo ai casi, onnipresente su gli affari tenebrosi ». Il don di don Ciccio e il morfema grav- incapsulato nel cognome Ingrav-allo sembrano voler fare appunto riferimento alla gravità e serietà con cui egli affronta il suo lavoro ; però è anche una persona alla mano, tanto che « tutti lo chiamavano don Ciccio », quindi col soprannome. Questo è però anche un soprannome allusivo alla rotondità della persona – si pensi alle voci omofone e apparentemente corradicali ciccia 2 ‘polpa’, ‘carne’, al sostantivo ciccione ‘persona molto grassa’ o all’aggettivo cicciuto ‘di persona grassa e bene in carne’ : ed infatti poco dopo viene descritto come « di statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po’ tozzo … aveva un’aria un po’ assonnata, un’andatura greve, un fare un po’ tonto ». Qui con l’aggettivo « greve » è ribadito, con variazione vocalica, il concetto espresso dal morfema grav- presente nel cognome. L’insistenza sulla buona cucina ritorna spesso a ribadirne, oltre all’origine molisana e al « piuttosto rotondo della persona », anche il gusto per il cibo – non è un caso che egli, p. es., paragoni gli alti prelati della chiesa (p. 12) a « stupende aragoste » –, tanto che mostrava « una o due macchioline d’olio sul bavero, quasi impercettibili però, quasi un ricordo della collina molisana » (p. 5). Viene del resto espressamente detto che egli proviene dal Monte Matese (p. 71), che si trova in parte nel Molise. Proprio dopo la prima guerra mondiale forte fu la migrazione di cuochi abruzzesi e molisani verso Roma, come testimoniano le numerose trattorie abruzzesi e molisane ancora oggi presenti nella Capitale. Anche diversi altri cognomi menzionati nel romanzo, p. es. Crocchiapani ‘sgranocchia, sgretola pane’, Bottafavi ‘spezza, schiaccia fave’, Pappalòdoli ‘mangia allodole’, benché non chiarissimi nel loro significato originario, si relazionano con l’alimentazione contenendo il primo pane, il secondo fava e il terzo il verbo pappare, tutti frequentemente presenti nella onomastica cognominale italiana, p. es. in Fap-pani, Fracca-pani, Pappa-fava, Cotta-favi, Pappalardo, Pappa-lèpore, ecc. 3 Il commissario viene spesso invitato a pranzo dai Balducci. La padrona di casa, la signora Liliana, è ricchissima, più del marito ; è ancora giovane, ma molto triste e malinconica perché non riesce ad avere figli ; è una figura incantevole, ma anche misteriosa. Si chiama Liliana, con nome moderno e musicale, a differenza di altri personaggi che portano nomi di ascendenza classica fonicamente pesanti. Il nome la ritrae nella sua bellezza, purezza e nobiltà di ‘giglio’ – il nome Liliana è sentito come derivato dal latino lilium, anche se in realtà non  





































le. Per l’etimologia di questo cognome (da grava ‘burrone’) si veda P. Minervini, Appendice al Dizionario dei cognomi pugliesi, Fasano, Schiena, 2008, p. 28 e p. 31. 1   Arcamone, cit., p. 14. 2   Vocabolario, cit., p. 315, s.v. cìccia 2. (scherz.) Carne umana, spec. Con allusione a persona grassa ; cfr. anche ivi, s.vv. ciccióne, cicciùto. Per l’etimologia di ciccia ‘voce infantile’ si veda M. Cortelazzo, P. Zolli, Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, 5 voll., Bologna, Zanichelli, 1969-1988 : i, 1969, p. 237, mentre in G. Devoto, G. C. Oli, Il dizionario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, 1990 [ed. per la Casa editrice utet], p. 375, è proposta la derivazione dal lat. (sal) sicia ‘(carne) condita con sale’, incr. con la pronuncia infantile di ci per si. 3   Ho ricavato questi cognomi dall’elenco che il Ministero delle Finanze (in seguito indicato come minfin/1996) ha messo a disposizione del progetto PatRom (= Patronymica romanica. Dizionario storico-etimologico dei cognomi dell’Europa romanza, Tubinga, Niemeyer, 2005 e sgg.), al quale collaboro.  



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lo è –, e come questo è fragile : sarà infatti presto barbaramente uccisa. E tuttavia il giglio ha anche un intenso e torbido profumo : questo può alludere a latenti morbosità della signora, che verranno rivelate più tardi durante l’inchiesta. 2 Il nome Liliana è di tre sillabe come quello dell’amato cugino Giuliano : i due nomi, ricchi di vocali e perciò molto musicali, sono in assonanza come i due personaggi, che nella vita erano molto vicini empaticamente : Li-liana / Giu-liano. Il marito, « il caprone », « il gallinaccio » – si capisce bene che non piace poi troppo al commissario –, viene descritto come affettuoso, ma poco presente. Costui rappresenta la figura di maschio osannato in età fascista, forte, amante della caccia (di animali e di donne). Porta il nome doppiamente laziale e importante di Remo Eleuterio, 3 il primo dei quali, Remo, riporta alle origini di Roma ; il secondo, Eleuterio, di quattro sillabe e ricco di vocali, riporta invece a radicati culti cristiani laziali. Insieme al morfema Bald- di Balducci, 4 i suoi nomi ribadiscono ironicamente l’idea della forza, importanza e virilità di lui, che però non ha poi prodotto figli. Anche in questo caso, come in altri già portati alla luce da vari commentatori dell’onomastica del Pasticciaccio, si osserva l’abbinamento di un nome che riporta alla origini pagane di Roma con un nome che ricorda la potenza cristiana dell’Urbe, sede del papato e centro più che millenario della cristianità. 5 C’è poi la Lulù, la cagnolina pechinese, che scomparirà misteriosamente poco prima del delitto mentre era a spasso con una delle persone sospettate se non dell’assassinio, almeno di connivenza, l’Assunta. Il nome Lulù, un nome da operetta, effettivamente spesso portato da animali domestici, illumina l’attività principale della cagnolina che è quello di abbaiare prontamente, ma brevemente, come breve è il suo nome e breve la sua apparizione. La sua scomparsa è legata alla morte della signora. Quando questa verrà uccisa, la pechinese già non è più in casa, forse rapita appositamente affinché la padrona non potesse essere avvertita dai « bèf bèf stizzosi » (p. 19) della sua Lulù quando l’assassino avrebbe operato. I due nomi, della signora e della cagnolina, cominciano per L-, consonante che è in entrambi raddoppiata insieme alla prima vocale – Lili-ana e Lulù –, ad unirne il legame e i destini (anche i bèf bèf stizzosi sono ripetuti). La domestica conosciuta dal commissario al famoso pranzo, nel quale direttamente o indirettamente poi tutti i sospettati sono presenti, ha nome (p. 10) Assunta ; 6 in realtà, si dice, « la 1



























1   Cfr. P. Hanks, Fl. Hodges, A Dictionary of First Names, Oxford-New York, Oxford University Press, 1990, p. 206 ; De Felice, Dizionario, cit., p. 233 : Liliana. Ampiamente diffuso in tutta l’Italia centrosettentrionale, raro nel Sud, è un nome di moda recente ripreso dall’inglese Lilian o Lillian, ipocoristico di Elizabeth, corrispondente a Elisabetta, affermatosi per la sua esoticità e eufonia, e in parte per una suggestiva connessione, a livello di etimologia popolare, con liliale ‘candido’, ‘puro come il giglio’ o anche con il latino lilium ; si veda anche dnp, cit., p. 787, dove è precisato che il nome avrebbe raggiunto il picco di diffusione negli anni ’20 del Novecento, che sono proprio gli anni nei quali si svolge la vicenda. Diversi critici hanno sottolineato che sulla bara della signora, durante il funerale, furono gettati gigli e garofani. 2   Cfr. Jean Chevalier, Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli. Miti, sogni, costumi, gesti, forme, figure, colori, numeri, 2 voll., Milano, « bur »-« Dizionari Rizzoli », 1987 (3a ed. ; trad. dall’orig. francese Dictionnaire des Symboles), i, pp. 507-508. 3   Cfr. De Felice, Dizionario, cit., p. 314 : Rèmo. Diffuso al Nord e al Centro fino alla Campania e all’Abruzzo, è una ripresa classica, rinascimentale e moderna, di matrice storico-letteraria ed anche erudita e scolastica ; p. 140 Eleutèrio. Accentrato per la metà nel Lazio e per il resto disperso, riflette il culto di numerosissimi santi di questo nome, e in particolare di sant’Eleuterio papa nel ii secolo e di sant’Eleuterio di Arce, confessore, patrono di Arce (Fr). 4   La radice di questo cognome è appunto bald-, la stessa dell’agg. it. baldo ‘animoso’, ‘ardito’, di orig. germ. Cfr. Vocabolario, cit., p. 168, s.v. baldo ; De Felice, Dizionario, cit., p. 84, s.v. Baldo, e dnp, p. 189, s.v. Baldo. 5   Terzoli, cit., a p. 1230 scrive : « mi pare che tra i molti ingredienti convocati dal geniale pasticheur confluiscano, contaminate e risemantizzate, allusioni e parodie classiche e cristiane, chiamate a convivere nella pagina, come già nella storia e nell’architettura stessa di Roma ». 6   De Felice, Dizionario, cit., p. 79 : Assunta. Distribuito con altissima frequenza e densità in tutta l’Italia, riflette la devozione per l’Assunzione di Maria Vergine, anima e corpo, al cielo ; dnp, p. 164 s.v. Assunta, ‘epiteto mariano’, da Maria Assunta.  































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chiamavano Tina » con il vezzeggiativo (è menzionata una volta anche come Assuntina) per la prassi in uso nei tempi passati di rivolgersi ai domestici con il diminutivo e non con il nome intero. La signora però, quando la domestica fa cadere « sul candore della tovaglia immacolata un batuffolo di spinaci », esclama « Assunta! », esprimendo il suo rimprovero con la forma intera del nome – episodio che poi il Commissario ricorderà proprio nelle ultime pagine del romanzo. Ma il dottor Ingravallo pensa che sarebbe stato meglio chiamarla Assuntona « con quer petto » : l’autore ne descrive infatti la prorompente bellezza in un crescendo di forme, prima l’ipocoristica, poi la forma positiva, poi un primo ampliamento in -ina, quindi in -ona : Tina, Assunta, Assuntina, Assuntona. Il cognome di Tina è Crocchiapani, forma già menzionato sopra, che, sulla base del significato di crocchiare, 1 può significare sia ‘che fa crocchiare il pane’, sia che ‘sgranocchia’, ‘sgretola’, ‘rompe pane’ : 2 essa ha certo la funzione di ribadire l’immagine forte dell’Assuntona. Si osserva che il significato di questo cognome, che richiama in ogni caso l’idea della distruzione di qualcosa, potrebbe aggiungersi agli elementi individuati da taluni critici, secondo i quali costei potrebbe essere l’assassina o la complice dell’assassino. P. es. secondo Ferdinando Amigoni 3 ella sarebbe coinvolta nell’assassinio : il critico arriva a questa conclusione riflettendo, fra l’altro, sull’episodio del batuffolo di spinaci caduto sulla tovaglia durante il famoso pranzo (si veda sopra) e sul nome Elettra portato da un personaggio in qualche modo assimilabile all’Assunta in un diverso testo 4 dello stesso Gadda, in cui si menziona appunto un flan di spinaci. La contiguità fra Elettra e Assunta verrebbe suggerita quindi dagli spinaci di casa Balducci e dal cognome Spinaci, che è quello di Irene Spinaci (p. 118), madre della piccola Gina, l’ultima ‘nipote’, anche lei presente al pranzo. Il nome Elettra richiamerebbe l’immagine del matricidio : infatti l’Elettra classica con l’aiuto del fratello uccide la madre Clitemnestra, tanto che Carl Gustav Jung con ‘il complesso di Elettra’ indica proprio la pulsione al matricidio. Il nome di madre è esplicitamente richiamato nella menzione di Irene Spinaci. Inoltre la signora Liliana stessa aspirava a sentirsi ‘madre’ di queste giovani donne che ospitava in casa sua sia come domestiche sia come ‘nipoti’, e quindi l’assassinio si potrebbe configurare davvero come un matricidio : sulla base delle considerazioni ora esposte si potrebbe vedere nell’Assunta Crocchiapani appunto la colpevole, tanto più che sembra che lo stesso Gadda 5 avesse pensato di intitolare il romanzo appunto Assunta. Però nella parte finale del romanzo, quando don Ciccio va a Tor di Gheppio proprio per interrogare la ragazza in merito alla morte della signora Balducci, egli chiede di lei al carabiniere del luogo prima in maniera molto formale menzionandola come la Crocchiapani Assunta, poi, quando riflette fra sé, pensa a lei come a la Crocchiapani, ma quando arriva alla casa della giovane e riconosce «la stupenda serva dei Balducci, con lampi neri sotto le ciglia nerissime», la ricorda di nuovo come la Tina (p. 10 : « la chiamavano Tina »), quasi a volere escludere con il vezzeggiativo il coinvolgimento di questa giovane donna nel terribile delitto. La ripresa del vezzeggiativo nella fase finale potrebbe avere quindi la funzione di dipingere la Tina come persona non pericolosa ed eliminarla quindi, almeno apparentemente, dal novero dei sospettati. 6  































1   Cfr. S. Battaglia, Grande Dizionario della Lingua Italiana, 21 voll., Torino, utet, 1969-2002 : iii, 1964, p. 990, s.v. crocchiare : ‘scricchiolare’ ; 7. dial. ‘picchiare’, ‘percuotere’ ; 8. lett. ‘sgranocchiare’. 2   In MINFIN/96 non ho trovato registrato questo cognome, anche se sono documentati altri derivati del verbo 3   Amigoni, Spinaci, cit. crocchiare, come Crocchiante p. es. 4   Socer generque in Romanzi e Racconti ii , a cura di G. Pinotti, D. Isella, R. Rodondi, 2a ed., Milano, Garzanti, 1994. 5   Riporta Amigoni, cit., che in una lettera a Garzanti del 1957 Gadda propone l’Assunta come titolo del suo capolavoro. Amigoni commenta : « sarebbe del tutto privo di senso affidare il peso del titolo di un lungo romanzo a un personaggio affatto secondario ». 6   Ma rimane tuttavia forte il sospetto di un suo coinvolgimento nel delitto, poiché la Lulù nel giorno della sua scomparsa era stata affidata proprio a lei, l’Assunta.  













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A questo proposito non si può non accennare alla funzione del nome di un’altra delle sospettate, e cioè di una delle cosiddette ‘nipoti’, la Virginia 1 (la Tina invece era una domestica). Di questa Virginia, anch’essa bella, il coro dei vicini commentava : « quella cià er diavolo da la parte sua », « quella cià Farfarello in corpo » ; e don Corpi riferisce : « La baciava come po bacià una pantera » (p. 166). Dalla descrizione di don Lorenzo Corpi e dai commenti degli altri abitanti del palazzo da lui riferiti, appare come un tipaccio spavaldo e senza paura : una « bestiaccia » (p. 167), tutto il contrario di quanto il nome Virginia, da sempre collegato a vergine e quindi al concetto di ‘purezza, innocenza’, potrebbe fare immaginare. Era stata allontanata dalla famiglia Balducci – nel testamento della signora Balducci non ci sarà alcun cenno a lei –, per cui, visto il carattere ora descritto, poteva ben essersi vendicata uccidendo lei stessa la signora. Anche Maria Antonietta Terzoli 2 ha individuato una chiave di lettura fondata sull’onomastica : le tre donne, la signora Liliana, la ‘nipote’ Virginia, la domestica Assunta sono accomunate dai loro stessi nomi, oltre che dalle vicende della vita che le ha fatte incontrare. Infatti non solo Assunta e Virginia portano nomi mariani, ma anche Liliana che, derivando 3 il proprio nome (apparentemente) da lilium viene collegata a « quel giglio che fiorirà sulla verga di Giuseppe indicandolo come sposo di Maria ». Nella Virginia però ai tratti mariani del nome (il riferimento alla Vergine Maria) si oppongono tratti diabolici che racchiudono un male assoluto, « una vampa calda, vorace, avventatasi fuori dall’Inferno », che possono preludere all’assassinio. In appoggio a queste osservazioni della Terzoli si può aggiungere anzitutto che il nome Virginia, come più volte qui indicato, richiama il concetto di vergine e che a questo, proprio nella mitologia classica, nella quale notoriamente Gadda era molto competente, è collegato quello di ‘donna cacciatrice e vendicatrice’ : infatti la dea della caccia Artemide/ Diana è vergine e in quanto tale si oppone ad Afrodite/Venere, dea dell’amore. Quindi con Virginia si può indicare un essere puro, ma anche ‘terribile’, come viene appunto descritta la Virginia gaddiana. Inoltre non si può neanche escludere che Gadda abbia usato in senso antifrastico questo nome : infatti è già stato osservato 4 che i nomi di celebri matrone o vergini romane quali Camilla, Clelia, Lavinia come anche i nomi di famosi eroi classici quali Ascanio, Diomede, Enea identificano ironicamente nel Pasticciaccio donne e uomini di malaffare e appartenenti alla malavita. In questo contesto anche Virginia, che porta il nome più virginale e puro di tutti, potrebbe non essere né la fiera e nobile vergine romana, né la Vergine : potrebbe invece essere proprio l’assassina. Giuliano, il cugino della signora Liliana, che sarà uno degli indagati, porta (p. 18) un nobile nome di antichità romana preceduto da ‘signorino’ che ne sottolinea la aristocraticità e l’eleganza, ed anche i genitori di lui portano nomi altisonanti : Romolo, di inequivocabile  









































1   De Felice, Dizionario, cit., p. 354, s.v. Virginio : F. Virginia. Diffuso in tutta Italia, è nome di matrice in un primo tempo classica, ripreso dal Rinascimento dall’antico gentilizio latino Verginius e Verginia, soprattutto nel femminile per la leggenda di Virginia insidiata dal decemviro Appio Claudio del v secolo a.C. e uccisa dal padre, Lucio Virginio, per sottrarla al disonore […] Il gentilizio latino che nel tardo impero assume la forma Virginius e Virginia, sebbene tradizionalmente connesso con virgo virginis ‘vergine’, ha la stessa origine etrusca di Vergilius, ossia un nome Vercna, attestato nelle iscrizioni, di ignoto significato ; dnp, s.v., pp. 1307-1308, dal quale si evince che il nome Virginia, oggi in declino, era stata particolarmente diffuso in Lombardia : quindi poteva essere familiare al milanese Gadda. 2   Terzoli, cit., in part. le pp. 1243-1248 ; anche in E. Bolla, Come leggere Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda, Milano, Mursia, 1976, p. 71 si accenna alla eventuale colpevolezza di Virginia. 3   Come precisato alla n. 1 a p. 42, in realtà Liliana non deriva dal latino lilium, ma viene normalmente così interpretato non solo in italiano, bensì anche in inglese. Si veda al riguardo G. Pissarello, Un nome floreale nella letteratura inglese modernista : Lily, « il Nome nel testo », xi, 2009, pp. 393-402. 4   Cfr. Bolla, cit., pp. 86-87.  













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ascendenza latina, e Matilde, nome di potenti donne del Medioevo quali Matilde di Canossa, marchesa di Toscana, la gran contessa, Matilde regina d’Inghilterra (secolo xi), ecc. È già stato sottolineato che lo scrittore fa grande uso di nomi romani quali il già visto Remo, qui Romolo, ma anche Ascanio, Camilla, Clelia, Diomede, Enea, Lavinia, ecc., nomi tutti afferenti alle origini della città eterna. Essi, tornati peraltro in uso a partire dal Rinascimento, dopo un oblio di secoli, costituiscono un forte contributo all’identificazione della capitale, che non necessita quindi di essere in particolare descritta o citata. Ma questi nomi hanno anche la funzione di alludere alla prosopopea del momento storico nel quale la vicenda si svolge, e cioè il Ventennio : infatti in queste nominazioni così gloriose di individui in fondo poi spiritualmente modesti è da scorgere il sarcasmo di Gadda nei confronti dell’altisonante epoca fascista, 2 che viene antifrasticamente e ironicamente identificata con le stesse tanto esaltate origini di Roma. 1



3. Del 1961 è Il giorno della civetta, il romanzo sulla mafia che porterà a Sciascia tanta celebrità : proprio l’impegno civile e la denuncia sociale dei mali della Sicilia saranno uno dei tratti pertinenti per la definizione della fisionomia dello scrittore ed intellettuale. Qui si narra di un capitano dei carabinieri dal cognome di Bellodi 3 del quale non si saprà mai il nome di battesimo : descritto sempre nella sua posizione di ufficiale dei carabinieri, la sua vita privata non è rilevante, si sa solo che è « emiliano di Parma ». 4 La mancanza del nome di battesimo, oltre che concentrare il personaggio sulla sua attività di uomo di legge, ha anche la funzione, come spesso la reticenza onomastica, di conferire discrezione e serietà alla persona. Egli riesce infatti a scoprire esecutori e mandanti di due inequivocabili delitti di mafia. L’intelligente e riflessivo carabiniere ha saputo ascoltare le confidenze che gli venivano rilasciate, proprio come dice il suo cognome Bell-odi : esso può forse infatti essere interpretato come ‘ascolta bene’ (in realtà -odi, che qui deriva dal suffisso -aldo, 5 frequente in onomastica, coincide anche con una voce del verbo udire), ma, mentre sta per deporre la sua inchiesta, viene trasferito e i colpevoli la fanno franca. È invece incriminata la moglie di uno dei due assassinati con il pretesto che, avendo ella un amante, poteva avere fatto uccidere il marito. Viene così adombrato il delitto passionale, che fin dall’inizio il capitano Bellodi aveva invece giustamente escluso. Con il cognome Bellodi forse si vuole inoltre suggerire che questo capitano è anche una bella persona, fisicamente e moralmente :  











Il capitano era giovane, alto e di colorito chiaro¸ dalle prime parole che disse […] pensarono ‘continentale’ con sollievo e disprezzo insieme ; i continentali sono gentili, ma non capiscono niente. (p. 17)  

Si fa infine osservare che il cognome Bellodi compare ad azione inoltrata, a p. 26 (fino a quel momento era solo il capitano), per bocca di due mafiosi, suoi scontati nemici, al termine di 1

  Matilde è nome di tradizione germ. : De Felice, cit., p. 256 e dnp, p. 865.   Secondo quanto scritto in Bolla, cit., p. 89, non è solo l’epoca fascista ad essere ridicolizzata nel Pasticciaccio, ma in genere la mentalità e la storia italiana o meglio romanesca e non più romana. 3   Pare che in Bellodi sia ritratta la figura di un capitano dei carabinieri pugliese di nome Renato Candida, che aveva avviato ad Agrigento le prime coraggiose inchieste contro la mafia locale e che era divenuto amico stimato dello scrittore, cfr. G. Traina, Leonardo Sciascia, Milano, Bruno Mondadori, 1999 (« Biblioteca degli scrittori »), p. 9. 4   Questo cognome è oggi concentrato nella provincia di Modena, ma è presente in tutta l’Emilia (minfin/1996), quindi è cognome pur sempre emiliano, come espressamente detto del capitano. 5   Il suffisso -aldo nell’Italia settentrionale (ma anche nella Toscana settentrionale, si veda Collodi da *Collaldo), passa prima ad -audo e poi spesso a -odo : si veda M. G. Arcamone, Ricerche toponomastiche in Valdinievole, in Pescia e la Valdinievole nell’età dei Comuni, a cura di C. Violante e A. Spicciani, Pisa, ets, 1995, s.v. Collodi, pp. 39-40.  

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una conversazione che si svolge a Roma fra due persone identificate, in linea con lo stile omertoso, solo come uomo bruno e uomo biondo. L’uomo bruno nomina il capitano con una smorfia di disgusto, dopo averne dato quei connotati che ancora mancavano e che identificano e illuminano ancora meglio la bella figura del rispettoso e intelligente capitano dei carabinieri, Bellodi :  

“Come si chiama questo … comunista?”. “Bellodi, mi pare : comanda la compagnia di C., ci sta da tre mesi e ha già fatto guasto…Ora sta cacciando il naso negli appalti, anche il commendator Zarcone si raccomanda a lei, mi ha detto “stiamo in speranza che l’onorevole lo faccia ritornare a mangiare polenta”. (p. 26)  

Mentre tutti gli altri nomi di battesimo e i cognomi del romanzo sono tipicamente siciliani (es. Mariano Arena, Diego Marchica), solo questo coraggioso settentrionale ha cognome non isolano, 1 a significare che, vuoi per connivenza vuoi per omertà vuoi per paura, è difficile per chi sia nativo dell’isola condurre una lotta alla mafia. 2 Al nome Bellodi fa da pendant il nome Dibella, 3 nel quale anche sono presenti in chiasmo i due stessi morfemi Bell- e Di- presenti in Bell-o-di ; si tratta di un ambiguo confidente, tal Calogero Dibella detto Parrinieddu, dal quale il Bellodi ricava una pista che si rivelerà decisiva per le indagini. Si deve sottolineare che in questo breve romanzo non solo viene perseguita l’identità degli attori, ma viene anche creata l’identità dei luoghi : p. es. la Sicilia viene connotata attraverso Palermo, Siracusa, Santa Fara, Santa Rosalia e soprattutto attraverso i nomi di suoi figli illustri o di loro opere, Buttitta, Crispi, il Gattopardo, Quasimodo, Pirandello, Verga, con il che l’autore ridà alla sua terra quella dignità che le spetta, ad onta della perversa presenza della mafia da lui stesso denunciata. Si ricorda in proposito che in tutte le sue opere Sciascia fa grande uso della nominatio a scopi antonomastici. 4  



4. Nel romanzo Donne informate sui fatti del solo Carlo Fruttero, 5 del 2006, si assiste ad un’innovazione : gli avvenimenti si dipanano attraverso le riflessioni di otto donne ; anche l’assassino, o almeno l’istigatrice, è donna. Sono la bidella che ha scoperto il cadavere e lo ha denunciato ai carabinieri, la barista che ha visto il cadavere, ma non lo ha denunciato, la figlia del primo matrimonio del vedovo, la migliore amica della prima moglie del vedovo, la carabiniera, la giornalista, la volontaria, la contessa che compare una sola volta, ma che offre involontariamente la risolutiva chiave del caso. È donna anche la vittima, una giovane romena, ex prostituta redenta, seconda moglie del vedovo. Non mancano ovviamente gli uomini, ma non è attraverso il loro pensiero che la vicenda si costruisce e si evolve, anche se sono forse proprio alcuni di loro a trarre le dovute conclusioni. Questo romanzo poliziesco ha dunque un’impostazione davvero originale, come altri testi di Fruttero, ed è di ambientazione moderna : vi manca il classico commissario, sagace e  





1   C’è solo un altro cognome non isolano, Brescianelli : è quello di un amico di Parma del capitano, menzionato a p. 124. 2   Da informazione di Laura Sciascia, figlia di Leonardo Sciascia, che qui ringrazio, il padre aveva conosciuto effettivamente un Bellodi emiliano 3   Questo cognome è assai diffuso proprio in Sicilia, soprattutto nella variante Di Bella, cfr. minfin/1996. 4   Cfr. Traina, cit., p. 62 e pp. 72-73. 5   Ho già esaminato le funzioni dei np in un altro notissimo libro scritto da C. Fruttero con F. Lucentini, La donna della domenica, Milano, Adelphi, 1994: si veda sopra la n. 1 a p. 38.  

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seducente, mentre è l’attenta carabiniera che si avvicina alla verità, aiutata dalle riflessioni delle altre donne ; la vittima e l’autore materiale dell’assassinio provengono dall’Est, come molti altri immigrati d’Italia oggi. Classico è il movente, passionale, e scontata la colpevole, la migliore amica di famiglia, ex amante del padre vedovo, il quale invece si era risposato poi con la giovane romena, babysitter dei nipotini, ignorando dunque ‘la migliore amica’. La vicenda si svolge a Torino. Di pochi è noto il cognome : Covino, la bidella, Dragonero, il giardiniere. 1 Molti personaggi non hanno nome, altri sono noti solo per il nome di battesimo. Si tratta di nomi usuali e frequenti, ma questi nomi Angela, Fiorenza, Lucia, Maria Lodovica, Milena, Casimiro, Giraldo, 2 a una lettura superficiale non sembrano contribuire all’identità di chi li porta, anche se forse un’approfondita disamina potrebbe condurre a qualche risultato apprezzabile : infatti p. es. di Fiorenza, la prima moglie del vedovo, secondo quanto dice la figlia « aveva un carattere più … disattento, più, non so, floreale, svolazzante », il che chiarisce la funzione parlante del nome Fiorenza. Anche il nome slavo di uno sfruttatore di prostitute straniere, autore materiale della morte della giovane romena, Janko, 3 non è stato certo scelto dall’autore senza un preciso tentativo di classificare il più realisticamente possibile questo losco individuo. Ma c’è un nome che esige maggiore attenzione : è quello di colei che si rivelerà se non l’esecutrice materiale del fatto certamente l’istigatrice, Beatrice, che però non è affatto una beatrice nel senso etimologico ‘colei che rende beati’, non è certo la Beatrice dantesca. Anzi, rivela di essere il contrario, anche se nella prima parte del giallo essa appare come una che si prodiga sempre per il bene degli altri e sembra dunque vestire bene questo nome. È tanto intima con la famiglia del vedovo che non solo viene chiamata con il vezzeggiativo Bea, ma viene designata, si capisce alla fine l’ironia, come ‘la migliore amica’! Se però si legge con attenzione il testo, si noterà che una volta, nei ricordi della figlia del vedovo, questa Beatrice, identificata appunto come « la migliore amica della mamma » (cioè della prima moglie del vedovo, del quale, come accennato sopra, la Bea era anche stata per breve tempo amante), dalle compagne di scuola veniva chiamata Be-atroce « perché se ne fregava delle regole, affrontava a muso duro anche la reverenda madre superiora, si presentava senza il grembiule, ecc. » (p. 143) e alla fine dello stesso capitolo torna ancora la variante Beatroce «Io no, figurati diceva Beatroce» (p. 145). Quindi la sua vera identità non è di colei che rende ‘beati’, ma di colei che fa cose ‘atroci’, come di fatto sarà. Le compagne che trasformano Beat-rice in Be-atroce hanno quasi la funzione del coro greco, il quale, mentre la tragedia si prepara sulla scena, commentano e inviano segnali di funesti presagi al pubblico. 4 Alla luce della variante Beatroce si illuminano alcune precedenti e seguenti sparse riflessioni della altre donne, quali :  





















Efficientissima, con qualcosa, come dire, di inflessibile, di quietamente indomabile

(p. 20)



Aveva lei la situazione in pugno, si vedeva subito per fortuna c’era Bea che ha preso in mano tutto quello strazio Bea ascoltava senza scomporsi

(p. 25) (p. 80) (p. 89)

1   Da minfin/1996 risulta che i cognomi Covino e Dragonero sono il primo di origine meridionale (immigrazione interna del secondo dopoguerra) e il secondo, quello del giardiniere, diffuso solo in Piemonte con pochissime occorrenze. 2 3   Si vedano i dizionari citati alla n. 3 a p. 40, alla singole voci.   dnp, cit., p. 716. 4   Ringrazio Bruno Porcelli per avermi fatto notare che talvolta arriva dagli altri, coralmente, attraverso l’onomastica la vera identificazione di un personaggio.

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maria giovanna arcamone

la gran dama […] complicità in omicidio, istigazione all’omicidio, […] è lei la strega, la vipera, la carognissima colpevole vera. Per gelosia, per ripicca. (p. 193)

In conclusione si potrebbe dire che in questo romanzo poliziesco le identità vengono costruite senza fare particolare appello ai nomi propri, perché esso è incentrato su un suo unico scontato movente, la gelosia femminile, e quindi può fare a meno dei sussidi identificativi dei molteplici personaggi, molti dei quali vengono alla ribalta solo con il nome del mestiere svolto, con lo stato sociale, con il nome di battesimo. Come si è visto sopra, solo pochi hanno nome e cognome. Per venire a capo della vicenda saranno risolutive le riflessioni delle otto donne, all’interno delle quali si trovava il perfido, unico personaggio al cui nome l’autore ha dato la funzione di nome davvero identificante e parlante. 5. In conclusione, sulla base dei tre esempi sopra riportati, si può affermare che questi autori italiani di romanzi gialli cercano nella nominatio un’alleata per delineare più compiutamente l’identità profonda dei personaggi ed anche lo sfondo delle vicende. Quando si tratta di episodi non complicati sotto il profilo del movente, come nel caso di Donne informate sui fatti, l’autore, per conferire loro la neutralità del déjà vu, riserva quasi unicamente al malvagio di turno il contributo forte della nominatio. Negli altri casi, quelli molto più complicati, perché coinvolgono più persone, più sentimenti, più trame, più angosce, i nomi, i cognomi e i soprannomi dei personaggi, i nomi dei luoghi, degli animali, veicolano informazioni plurime e inattese sulle identità di chi li porta.

Mario Luzi, dal tempus al Kairos Paola Baioni 1. Mistero e dolore, ribellione e riconciliazione nel Libro di Giobbe

M

ario Luzi, nell’arco della sua lunga vita, si è sempre interrogato sul mistero del divino e sul senso del dolore. Oltre alle numerose opere in poesia, egli è stato autore di diversi saggi, prefazioni, introduzioni e riflessioni su questi argomenti. Topos luziano è il metaforico cerchio che, quando pare chiudersi, puntualmente si riapre ; la domanda (spesso di tipo disgiuntivo e/o retorico), non trovando una risposta consona, cerca di penetrare sempre più in profondità – si instaura quasi una sorta di regressum ad infinitum – nel tentativo di giungere a una risposta veramente esaustiva. Nel 1996, Luzi ha accettato di firmare una prefazione al Libro di Giobbe, tradotto da Gianfranco Ravasi, omaggiata, poi, a papa Giovanni Paolo II in occasione del Natale 1996 (il 6 dicembre 1996, per l’esattezza), 1 il quale, apprezzate le doti poetiche e introspettive del Fiorentino, tre anni più tardi lo invitava a scrivere i testi per la meditazione della Via Crucis 2 presieduta, come di consuetudine, dallo stesso pontefice, al Colosseo. Nell’introduzione al Libro di Giobbe, testo di catechesi sulla fede (la questione centrale, infatti, « non è il male di vivere ma come poter credere e in quale Dio nonostante l’assurdo della vita »), 3 scrive Luzi che il « poeta moderno sembra avere oscurata la fonte ; ma a sorpresa ci accorgiamo che ha coperto di vesti e panneggi più maestosi la stessa sostanza, vale a dire il momento venuto della prova. È la prova a cui il Signore sottopone Giobbe ; ed è una prova [...] al cospetto dell’avversario e per suo mezzo ». 4 Il primo dramma che si consuma è quello dell’Onnipotente che non si può sottrarre alla sfida di Satana, il quale non è onnipotente ma può piegare Jahweh a una dura verifica di questo attributo divino. È spontaneo domandarsi se l’umiliazione sia inferta per necessità o per ostentazione e chi sia tentato. Luzi sostiene, in maniera assolutamente convincente e condivisibile, che il « Signore trascinato dalla tentazione di Satana sta al gioco » 5 e mette in palio il suo diletto (‘scelto’ – ne sovviene l’etimologia) che però è certo di preservare incolume. Il Signore abbandona Giobbe nelle mani di Satana. Gli interrogativi sembrano non avere fine : il ‘duello’ appare inutile, eppure inevitabile. Due poteri si affrontano, però, se è inutile, perché è inevitabile ?  





















È un duello inutile perché non può avere che un esito [...] tuttavia inevitabile. Due poteri si affrontano comunque. [...] C’è dunque una forte scissura tra l’avere e l’essere. [...] Il Signore infatti deve patteggiare per imporre poi la condizione della salvezza personale di Giobbe. La devozione, la fedeltà – questo è in essenza Giobbe. [...] In realtà due forze cosmiche confliggono nell’universo. Non sono pari, ma sono interdipendenti. Giobbe è all’altezza di questo grande combattimento avendo dalla sua la fermezza della fede e la pazienza. 6

Dal Prologo all’Atto Primo, Giobbe si confessa vinto e maledice il giorno in cui è nato. In1   Il libro di Giobbe, pref. di M. Luzi, trad. e postf. di G. Ravasi, Locarno, Armando Dadò, 2002 (« I Classici ») (prima ed. 1996). 2   Via Crucis al Colosseo, presieduta dal Santo Padre Giovanni Paolo II, testi di meditazione di Luzi, illustrazioni di V. Venturi, Città del Vaticano, Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, Venerdì Santo, 1999. 3   Cfr. postf. di Ravasi a Il libro di Giobbe, cit., p. 137. 4   Cfr. Luzi, Leggendo il libro di Giobbe, in Il libro di Giobbe, cit., p. 5. 5 6   Ibidem.   Ivi, p. 6.  



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somma chi è il vincitore ? L’equilibrio si è spezzato e il protagonista, deietto da Dio, si vede chiusa ogni via d’uscita. Persino la morte, bramata e invocata per disperazione, gli è negata. È l’umiliazione più grande che l’uomo possa subire : egli invoca, chiede spiegazioni, domanda di potersi confrontare con il suo Creatore e questi tace, si accanisce contro di lui e pare compiacersi del male : l’Onnipotente assume le vesti di un Dio cattivo e vendicativo. La « causa di tanta ostilità anziché chiarirsi si avviluppa nel suo mistero. È un’antitesi cosmica ». 1 Tuttavia Giobbe cerca di resistere e aggrapparsi con le unghie al sipario della vita ; a vacillare, infatti, è la pietà e non la fede. Egli si rivolta, tiene testa ai discorsi ‘banali’ dei suoi tre amici che pretendono di insegnargli la sapienza, ma non si confessa reo e si chiede perché Jahweh abbia scelto proprio lui. Si tocca il fondo ontologico del problema che, hic stantibus rebus, non trova giustificazione : è « il misconoscimento dei suoi diritti che Giobbe mette al centro della sua tragedia ». 2 Impossibile capire, impossibile accettare. Giobbe avverte l’esigenza di un confronto leale con Dio, al quale imputa il suo stato di abiezione, ma non ottiene risposta alcuna, tanto che la sua deprecazione, a volte, sconfina persino nel delirio. Ma questo è inevitabile perché egli non conosce la causa dell’immotivata persecuzione che diviene del tutto intollerabile, quando, gettando uno sguardo sul mondo circostante, egli constata che i ‘malvagi’ non solo trionfano con le loro scelleratezze, ma sono pure onorati e rispettati ! È stato superato il limite, tant’è che Giobbe esplode in un grido di straziante disperazione : « Ti imploro, ma tu non mi rispondi, / ti sto davanti, ma tu non badi a me ».3 Si può paragonare questo urlo di dolore a quello del Cristo morente sulla croce : « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato ? ». 4 Il Figlio di Dio, nella sua natura umana, si fa carico della sofferenza umana tutta intera e la esprime al Padre. Lui – Dio, nell’insondabile mistero della Trinità – si sente lasciato solo, alla mercé di se stesso. E, poco prima di morire, mentre sudava sangue al Getsemani, ha ‘rimproverato’ al Padre il fatto che non vedeva venire verso di lui alcun angelo a consolarlo. Assurdo, aberrante. Gli uomini lo condannano, i suoi intimi amici fingono di non conoscerlo per timore e l’Onnipotente, dal quale il Cristo (etimologicamente ‘consacrato’ e – per estensione – Gesù = ‘salvatore’) si attende almeno una carezza, un gesto di amore, di affetto, di conforto ; invece il Padre tace. Uno scandalo. L’unico che può tutto non fa nulla e lascia che il suo unico Figlio sia ingiustamente oltraggiato. L’indifferenza – apparente, come si sa e si vedrà –, ma come tale è percepita sia dal Cristo-uomo sulla croce, sia da Giobbe nel momento della prova, è l’offesa insopportabile, che esaspera, porta alla ribellione, forse alla soglia (o anche oltre – nel caso di Giobbe) della bestemmia. C’è un intermezzo nel Libro di Giobbe che lascia il lettore nello stupore : è l’Inno alla Sapienza, una sorta di controcanto che getta un fascio di luce abbagliante sull’indigenza del Primo atto del testo. Dopo che Giobbe ha discusso con i tre stolti amici che, invano, tentano di colpevolizzare l’uomo e intessono un’altrettanto inutile e non richiesta apologia di Dio (cosa umanamente insensata), ecco che l’ispiratore divino, vero sconosciuto autore del libro, mette sulle labbra del perseguitato (così l’etimologia del nome proprio) un elogio inequiparabilmente saggio nei confronti di Dio. Si tratta proprio di un tema nuovo : qui il problema del dolore e del male non è neppure accennato. Il quesito princeps riguarda l’origine della Sapienza e dell’Intelligenza e il ‘luogo’ ove queste risiedano :  









































Ma la Sapienza dove si estrae, / l’intelligenza dov’è mai situata ? // Si ignora quale sia il suo prezzo, / non la si incontra sulla terra dei vivi. [...] Agli occhi dei viventi è celata, [...] L’Abisso e la Morte  

1

2   Ivi, p. 8.   Ibidem.   Il libro di Giobbe, cit., 30, 20, p. 88. Questo versetto del Libro di Giobbe si accosta al versetto del Salmo 22, 2b : « “Tu sei lontano dalla mia salvezza” : / sono le parole del mio lamento » (vedi nota 2 a p. 56). 4   Cfr. Salmo 22, 1, in La Bibbia di Gerusalemme, testo biblico di La Sacra Bibbia della cei, editio princeps, 1971, Bologna, Edizioni Dehoniane, 19909. 3









mario luzi, dal tempus al kairos

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confessano : / “La sua fama è giunta ai nostri orecchi”. // Solo Dio ne discerne la via, / solo lui ne conosce la residenza, / perché lui solo contempla i confini dell’universo / e vede quanto esiste sotto la volta dei cieli. / Quando fissò al vento un peso / [...] la misura delle acque, [...] impose una legge alle piogge / e un percorso al lampo e al tuono, / allora egli la vide e la circoscrisse, / la scrutò e la penetrò totalmente. / poi all’uomo dichiarò : / “Temere Dio, ecco la Sapienza. / Fuggire il male, ecco l’Intelligenza”. 1  



Questo intermezzo è una chiara/oscura prima manifestazione dell’epilogo del libro. L’ossimoro non è casuale, ovviamente. A questo punto della narrazione, non vi è nulla di scontato e nessuno conosce ancora l’esito finale della tragedia che si sta consumando. Ma Giobbe, servo fedele di Dio, che manca di pietà – cosa umanamente giustificata – ma non di fede, è come se percepisse che, alla fine del tunnel, di nuovo si uscirà « a riveder le stelle ». 2 Viene chiarito che solo Dio conosce e penetra fino in fondo la Sapienza e l’Intelligenza che alla finitezza dell’uomo non è concesso di conoscere se non unicamente per dimostrazione – definizione, si potrebbe dire : « Sapientia est timor Dei. Intellegentia est fugere malum », 3 anche se, come sottolinea bene Mario Luzi, « È un bene non pattuito, è se mai stabilito a Deo pro Deo : ma è salutare per l’uomo ». 4 Verbum et silentium altro non sono se non il recto e il verso della stessa medaglia. Questo nodo inscindibile, inestricabile, incomprensibile e insopportabile per Giobbe – e per tutti gli uomini – è la chiave della soluzione della tragedia. Scrive Luzi :  

















Questa corda tesa sta lentamente allentandosi. Con il suo silenzio Jahweh si avvia a riportare la sua vittoria. // La parola di Giobbe comincia a flettersi, a declinare verso l’elegia. [...] La lunga perorazione di Elihu a lode e favore di Jahweh [...] cambia i termini del contendere. Dopo di lui, Jahweh tra fulmini e uragani esce alfine dal suo mutismo e prende la parola in risposta. // Dio. Autocelebrazione ? Catalogo delle meraviglie del creato e delle creature. Trionfale rassegna dei prodigi e della onnipotenza. Giobbe, toccato nel midollo, non dal sublime pavoneggiamento ma dalla condiscendenza infine mostrata da Jahweh, non si confessa reo ma si proclama umile, ma riconosce di non essere stato al quia. Il mistero del male non è vinto ; eppure su questo piano di mutua intelligenza avviene la riconciliazione. // Dio è onnipotente – questo è l’argomento principe della Bibbia. Giobbe non mette in causa questo principio. Quando imputa a Dio il male dimostra anzi di osservarlo, sia pure paradossalmente. // Tuttavia il binomio Dio-onnipotenza non avvince davvero Giobbe. A lui, al suo desiderio si addice un Dio fraterno, che non opponga il silenzio e l’indifferenza, al grido dell’infelice, ma fiant aures tuae intendentes in vocem deprecationis meae. Forse un Dio che condivida la sofferenza delle sue creature, un Dio che prefiguri il Cristo. // Giobbe : il tutto e il nulla dell’uomo, la sua insignificanza e la sua dignità. L’idea di Dio che in lui si forma e si trasforma : della quale costante è solo la necessità. È l’amore tempestoso e struggente che supera ogni mutamento di condizione. 5  







Nella prefazione al Libro di Giobbe, Mario Luzi ha centrato perfettamente il problema, che non è quello di riuscire a penetrare il mistero (cosa umanamente insensata) e quindi di rendere ragione del male, ma, comprendendo che si tratta – come sostiene anche Gianfranco Ravasi – di un testo di catechesi sulla fede, egli ha spiegato che cosa rimane costante e che cosa si trasforma in questo libro e, soprattutto, quali sono le aspirazioni di Giobbe nei confronti dell’Eterno. Luzi, come è sempre stato nel suo stile, del resto, ha trovato il ‘peso specifico’ di ogni parola, e con singolare abilità è arrivato al cuore della questione. La costante necessità dell’idea di Dio in Giobbe è dettata dall’amore che supera tutto – lato sensu. Il mistero del male non è vinto, ma su questo piano avviene la riconciliazione. Dio è l’Onni1

  Il libro di Giobbe, cit., 28, 21-28, p. 82.   Cfr. Società Dantesca Italiana Edizione Nazionale, D. Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. Petrocchi, 2, Inferno, xxxiv, 139, Firenze, Le Lettere, 1994. 3   Cfr. Il libro di Giobbe, cit., 28, 28, p. 82. 4 5   Cfr. Leggendo il libro di Giobbe, introd. di Luzi a Il libro di Giobbe, cit., p. 11.   Ivi, pp. 11-12. 2

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potente, e Giobbe non mette in discussione questo, tuttavia il binomio ‘Dio-Onnipotenza’ non lo avvince completamente. Ciò che il perseguitato vuole è un Dio che prefiguri il Cristo. Egli non vuole un Dio muto e indifferente ma un Dio che condivida e ascolti le sue creature. Nel pensiero cristiano, del resto, l’amore è l’essenza stessa di Dio, che si manifesta, nell’ordine naturale, con la creazione e la provvidenza divina verso le creature, nell’ordine soprannaturale con la redenzione. In termini letterari, ‘amore’ è sinonimo di ‘diligere’, quindi di scegliere, amare, stimare, provare affetto, sentimento e trasporto. Basti, a questo proposito, il celeberrimo esempio tratto dall’Inferno di Dante, padre della lingua italiana : « Amor, ch’a nullo amato amar perdona ». 1 Sicché, per quale motivo Giobbe non trova una risposta ai suoi quesiti ? Egli non manca di fede e rimane umile. E allora perché tanto accanimento ? Giobbe non soggiace al quia, al mistero, dice Luzi. Giobbe pretende, forse inconsapevolmente, di essere sullo stesso piano del suo Signore, il quale, infatti, ironizza sulla limitata sapienza del perseguitato : « Se sei un uomo valoroso, cingiti i fianchi : / io ti interrogherò e tu mi istruirai ! [...] Il tuo braccio è forse come quello di Dio ? / La tua voce trema forse come la sua ? [...] Effondi pure la fiumana della tua ira, [...] Allora canterò anch’io un inno a te : “La tua destra ti ha dato vittoria !” ». 2 Rimane irrisolta la questione del chiedere senza ottenere. Eppure, nel Vangelo di Matteo, di Luca e di Giovanni è scritto che qualsiasi cosa si chieda al Padre la si ottiene. 3 Allora, perché Giobbe non riesce ad avere ciò che desidera ? Forse per impazienza, perché in effetti, quando si compie il Kairos, Giobbe ottiene udienza, e viene esaudito molto più di quanto osasse credere e sperare. Allora, come si è detto prima, lo iato sta nel tempo. Noi, povere creature mortali, non in grado di razionalizzare l’Onnipotente, di penetrare appieno il piano metafisico, dobbiamo continuare umilmente ad avere fede e ad attendere nel mistero. Forse non si ottiene da Dio perché si chiede mala, mali, male, concetti che si desumono dalla Scrittura oltre che dai Padri della Chiesa. Sul chiedere male si apre una dicotomia, almeno di carattere filologico. Male in latino significa ‘inopportunamente’, ma anche ‘poco, non abbastanza’ (in questa accezione il termine è usato da Ovidio, Cicerone e Orazio, p. es.). Per quanto riguarda il domandare in maniera inopportuna, sempre in latino, in esprime anche ‘ostilità, spingere contro’. Poiché ‘opportuno’, dal latino ob portus, significa spingere la barca verso il porto, ‘inopportuno’ può assumere un doppio significato : 1. spingere la barca in mare aperto, non per prendere il largo, ma verso il naufragio, 2. chiedere in maniera inadeguata, con un’insufficiente insistenza : in altre parole, da parte del richiedente manca tanta fede quanto il granellino di senapa di cui parla il Vangelo. 4 Chi scrive propende per questa seconda ipotesi, la quale giustifica il discorso fin qui sostenuto dello iato tra il tempus e il Kai 

































1

  Cfr. Società Dantesca Italiana Edizione Nazionale, D. Alighieri, La Commedia, cit., Inferno, v, 103.   Il libro di Giobbe, cit., 40, 7-14, p. 111. 3   Cfr. il Vangelo secondo Matteo 7, 7-11, in La Bibbia di Gerusalemme, cit. : « Chiedete e vi sarà dato ; cercate e troverete ; bussate e vi sarà aperto ; perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Chi tra di voi al figlio che gli chiede un pane darà una pietra ? O se gli chiede un pesce, darà una serpe ? Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano ». Cfr. pure ivi, il Vangelo secondo Luca, 11, 9-13 : « Ebbene io vi dico : Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra ? O se gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe ? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione ? Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono ! ». Cfr. pure ivi, il Vangelo secondo Giovanni, 16, 23-24 : « nessuno vi potrà togliere la vostra gioia. In quel giorno non mi domanderete più nulla. / In verità, in verità vi dico : Se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà. Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena ». Si potrebbero citare diversi altri passi del Vangelo ; per questo cfr. Concordanza Pastorale della Bibbia, a cura di G. Passelecq e F. Poswick, Bologna, Edizioni Dehoniane, 1979. 4   Cfr. il Vangelo secondo Matteo, 17, 20, in La Bibbia di Gerusalemme, cit. : « se avrete fede pari a un granellino di senapa, potrete dire a questo monte : spostati da qui a là, ed esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile ». 2





























   



















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ros, il quale, si badi, non si raggiunge solo nell’al di là, ma anche su questa terra, al momento giusto, come è stato per Giobbe. 2. Dal dolore di Giobbe a quello di Cristo-uomo sulla Via Crucis Dopo aver firmato la prefazione al Libro di Giobbe, Mario Luzi ha avuto l’onore (forse anche l’onere, considerate la serietà e il valore della richiesta e l’autorevolezza del richiedente, ma in primis, senz’altro, l’onore) di scrivere i testi di meditazione per la Via Crucis presieduta dal Santo Padre Giovanni Paolo II al Colosseo, il Venerdì Santo del 1999. Scrive infatti Luzi :  

Quando mi fu proposto di scrivere il testo per le meditazioni della Via Crucis ebbi, superata la sorpresa, un contraccolpo di vero e proprio sgomento. Ero invitato a una prova ardua, un tema sublime. La Passione di Cristo – ce ne può essere uno più elevato ? / Non era solo un dubbio di insufficienza e di inadeguatezza, era anche di più il timore che la mia disposizione interiore non fosse così limpida e sincera quanto il soggetto richiedeva. Non mi sentii di rispondere all’istante, né d’altra parte mi era richiesta tale prontezza. [...] l’immaginazione già in moto mi prefigurò un testo poematico di cui Gesù fosse l’unico agonista. In un ininterrotto monologo Gesù nella tribolazione della via crucis avrebbe confidato al padre la sua angoscia e i suoi pensieri dibattuti tra il divino e l’umano, la sua afflizione e la sua soprannaturale certezza. Ne feci cenno fuggevolmente. L’idea piacque, ma tutto rimase in sospeso. [...] Ebbi poi la conferma di quell’approvazione immediata e allora mi misi anche più decisamente al lavoro. Il testo si andò sviluppando nella modalità della mia versificazione teatrale. [...] Il monologo [...] l’ho sentito come una progressione dolorosa al ricongiungimento con il Padre e come un cammino mortale verso la Resurrezione. 1  

Se si riflette sul Libro di Giobbe, così come già emerge dall’Introduzione alla Via Crucis commentata da Luzi, lo iato sta nel tempus, o meglio nel passaggio dal tempus al Kairos. Quel Dio che pare muto e indifferente, a un certo punto « in mezzo a un uragano » 2 – così traduce Gianfranco Ravasi, esperto conoscitore della lingua ebraica – prende la parola e comincia a istruire e a rispondere a Giobbe, che tanto si vergogna e riconosce la sua insipienza da portarsi una mano alla bocca per tacere. Dal silentium si è passati al Verbum. Se si volesse esprimere il concetto in termini matematici, si potrebbe dire che il silentium : al Verbum = il tempus : al Kairos. Nel momento opportuno (Kairos), misteriosamente (‘in mezzo a un uragano’), il silenzio si fa voce, parla, risponde, istruisce, ammonisce e consola. L’uomo, immerso nella sua finitezza, non riesce a vedere oltre la trama opaca e fitta dei giorni. Di qui la sua disperazione e il suo delirio. Luzi giunge al cuore del problema e ne individua l’agone nel tempus. Dice esplicitamente che Dio conosce il tempo perché ne è il creatore, ma non ne partecipa, perché egli è l’Eterno. Dal piano umano ci si sposta su quello metafisico. Eppure questo scarto affligge le creature : è la causa nefasta della loro tristezza.  









Che cos’è questo sgomento ? / C’è nel tempo qualcosa che m’affligge, / il tempo è degli umani, per loro lo hai creato, / a loro hai dato di crearne, di inaugurare epoche, di chiuderle. / Il tempo lo conosci, ma non lo condividi. / Io dal fondo del tempo ti dico : la tristezza / del tempo è forte nell’uomo, invincibile. 3  



La preghiera di Gesù al Getsemani spinge Luzi ancora a cercare una via per districare il groviglio umano. La natura umana di Gesù avverte l’abisso che separa la creatura dal Creatore e, come può fare ogni uomo che nella sua finitezza se ne renda conto, chiede perdono :  

Mi prostro con la faccia a terra, dico parole dissennate : / passi da me questo calice. Ma non come vorrei, / come tu vuoi sia fatto. / Ciò che si prepara è nelle Scritture, / a quello ho ordinato i miei pensieri  

1

  M. Luzi, Presentazione, in Via Crucis al Colosseo, cit., p. 3.   Cfr. Il libro di Giobbe, cit., 40, 6, p. 111. 3   M. Luzi, Introduzione, in Via Crucis al Colosseo, cit., p. 5. 2

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/ punto per punto, eppure esito ancora, / farnetico che sia revocabile. / Tu entri nel groviglio umano e lo disbrogli / pure così lontano come sei nella tua eternità / da questi nodi delle esistenze temporali. / In te pietà ed amore riempiono l’abisso / di questa differenza. Intendimi. 1

La voce del Cristo in crescente agonia – che Luzi esprime – sostanzialmente si domanda se nulla si possa revocare, rimandare (in un certo senso) o se non si possa svolgere in altro modo. Inoltre, lo sconforto che lo coglie sotto il peso della croce è davvero notevole : Gesù lamenta la mancanza di una forma di consolazione da parte del Padre :  



Questa marmaglia aizzata contro di me / ignora tutto di te, di me e dello Spirito, [...] ha solo in corpo un furore distruttivo da sfogare. [...] Il divino che è in me, quello vogliono uccidere, / questa bramosia li eccita. [...] Ancora, Padre, ti chiedo se questa ignominia è necessaria. / Tutto è scritto, lo so, ma nulla è revocabile ? / “Venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà” [...] “Come in cielo così in terra” ho aggiunto. / Il tuo regno non è venuto ancora. [...] O Padre, / non vedo venire a me nessuno dei tuoi angeli. 2  

Lo sgomento che aveva colto Giobbe nell’umiliazione del silenzio di Dio, facendogli provare uno stato di abiezione e deiezione tremendi, è il medesimo che coglie il Cristo sulla Via Crucis. Egli giunge a domandarsi se allo scempio non ci sia rimedio oppure se il Padre, volutamente, non l’abbia posto. Gesù si trova nella condizione di sentirsi solo : prova in toto, un senso di solitudine e, proprio, non comprende, perché è assurdamente contradditorio che l’uomo (essere creato da Dio) possa essere solo. Questo scandalo è poi giustificato e contemporaneamente lenito dall’ammissione che il Padre sembra assente da certi luoghi (in realtà non è così) e questo spinge al delirio, per cui si chiede comprensione :  



Pietro mi sta rinnegando. / Lo vedi, Padre mio, e taci. Anche tu mi stai abbandonando ? / Da qui passa la via per la resurrezione, / da questi orridi luoghi. / Ancora chiedo : è volontà tua oppure a questo scempio / non hai posto rimedio, rimedio non ce n’era ? / Talora si perde il mio pensiero / se il tuo non lo soccorre. / Com’è solo l’uomo, come può esserlo ! / Tu sei dovunque / ma dovunque non ti trova. / Ci son luoghi dove tu sembri assente / e allora geme perché si sente deserto e abbandonato. Così sono io, comprendimi. 3  







Il senso di afflizione e turbamento cresce, diviene una sorta di climax ascendente che sfocia ancora una volta nel senso di abbandono e in un timore tale da spingere il Cristo a ‘perseguitare’ e ‘torturare’ Dio. La cosa più dolorosa non è la morte in sé, quanto la via che porta a questa. Al Padre viene riconosciuto infatti di essere ‘vita onnipresente’, ma il Figlio (consustanziale al Padre) prova sentimenti prettamente umani : piange, come qualsiasi uomo o donna in una situazione di prostrazione :  



Conoscerò la morte. La conoscerò umanamente, / da questa angusta porta mi affaccerò su lei / che tu, vita onnipresente, non conosci se non per negazione. / Tre giorni durerà per me / l’esilio che per altri non ha fine, / poi la vita mi richiamerà a sé / e avrà la vittoria. È previsto fin dal principio. / Quella pausa, Padre, m’impaura : / è un luogo dove tu non sei / e io da solo senza di te pavento. / Che cosa mi aspetta, chi governa / il nulla, il non presente... il non essente ? / O è un inganno della veduta umana / ciò che io impaurito ti confesso ? / Devo io portare la vita dove la vita è assente / e portarla con la mia morte... / e questo è il prezzo, questo supplizio. / E così Padre io vanamente ti tormento. / Più che la morte è la via per arrivarvi, / la via crucis, che mi dà angoscia, [...] Piango, anche io, Signore. 4  





La prima caduta di Gesù sotto il peso della croce, dà un ulteriore incitamento alla sua farneticazione : addirittura il Figlio di Dio teme che la morte possa essere vincibile. Riconosce il suo delirio, riconosce di aver risuscitato Lazzaro e quindi, razionalmente, o forse – più cor 

1

2

3

4

  Idem, in Via Crucis al Colosseo, cit., p. 8.   Ivi, p. 24.

  Ivi, pp. 20-21.   Ivi, pp. 27-28.

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rettamente – da un punto di vista ontologico, non avrebbe motivo di temere, invece soffre paura e angoscia :  

Tuo il regno, tua la potenza. / Tuttavia la morte è una regione dove sei, sì, / ma non vivente, inerte in un imperscrutato sonno : / questo pensano gli umani / e pensano ai demoni, pensano alla potenza delle tenebre. / Anche io, figlio dell’uomo, temo la prova che mi attende, / prescritta anch’essa dall’eternità e irrevocabile. / Perdona i miei pensieri infermi, i miei farneticamenti. / Io che in nome tuo ho resuscitato Lazzaro / ho paura e dubbio che la morte sia vincibile. / Ma a questo mi hai mandato, / a vincere la vittoria della morte. 1  

È proprio dell’uomo compiangersi e mendicare conforto, e quindi anche il Cristo-uomo fa questo, pur sorprendendosi – se così si può dire – a confidare a Dio quanto egli già sa ab origine. Gesù si pone un quesito molto serio e profondo, tutt’altro che scontato : si chiede se gli uomini conoscano la vera natura del loro peccato e giunge alla conclusione che essi, non per colpa loro imputabile, ma per ragioni di finitezza, conoscono solo le loro mediocri colpe umane, sicché non sanno che cosa li affligga né conoscono il motivo della loro afflizione. Tuttavia avvertono un inspiegabile malessere nel cuore :  



Perché, Padre, ti confido quanto già sai e da sempre ? / Ma è dell’uomo compiangersi e mendicare conforto. / Qui i soldati si uniscono alla turba, / mi punzecchiano con le loro lance. [...] Qual è il peccato di tutti questi uomini ? / Lo stesso dei loro padri : / il peccato di essere uomini, genìa greve di Adamo. / Io lo laverò questo peccato, così è scritto, / faremo un patto nuovo, una nuova stabile alleanza [...] Il loro peccato non lo sanno, / sanno le loro mediocri colpe umane, / ma il grande peccato per il quale io muoio / non lo sanno. Perdona loro anche per questo. [...] Il loro peccato non lo sanno, / ma tutti hanno un loro malessere nel cuore. 2  





Così come a Giobbe veniva meno l’amore per Dio, il Cristo-uomo (che riconosce l’imperscrutabile volontà divina) sente venirgli meno l’amore per gli uomini. Capisce che questa sarebbe l’umiliazione e la sconfitta più grande e implora il Padre affinché ciò non accada :  

Hai voluto, Padre, conoscessi fino in fondo / il malvolere degli uomini, / vedessi il loro disamore crescere in odio e in avversione. / E infatti non lo conoscevo abbastanza. / La perfidia covava in segreto più cruente brame. / La canea mi oltraggia, mi insulta, mi deride / però non può impedire / al lamento dei pietosi di arrivarmi : è flebile, / ma giunge fino a te se volessi dargli ascolto. / Ma la tua volontà è imperscrutabile. // Padre, il Figlio dell’uomo sente venirgli meno / l’amore per gli uomini. / Sarebbe la sconfitta più penosa, / fa’ che questo non accada. 3  

Nella mente di Gesù inchiodato sulla croce passa un’immagine fugace della vite e dei tralci che apre una dicotomia : l’attaccamento del Figlio al Padre (proprio della natura umana, ma, in questo caso, in primis, divina) e quello dell’attaccamento dell’Uomo agli uomini, suoi fratelli, consono alla natura umana del Cristo, che, nel momento del congedo dalla vita terrena, soffre per il distacco, avverte la contraddizione in quanto consapevole della missione che gli è stata affidata, motivo della sua incarnazione nel seno della Vergine. Tuttavia i legami di amore, affetto e amicizia sono così forti da provocargli sgomento :  



Padre mio, mi sono affezionato alla terra / quanto non avrei creduto. / È bella e terribile la terra. [...] Mi sono affezionato alle sue strade, / mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti, / le vigne, perfino i deserti. [...] ma ora mi addolora lasciarla / e perfino questi uomini e le loro occupazioni, [...] Il cuore umano è pieno di contraddizioni / ma neppure un istante mi sono allontanato da te. / [...] La vita sulla terra è dolorosa, / ma anche gioiosa : mi sovvengono / i piccoli dell’uomo, gli alberi e gli animali. / Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario. / Congedarmi mi dà angoscia più del giusto. / Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco ? / Il terrestre l’ho fatto troppo  



1

  Ivi, p. 32.

2

  Ivi, pp. 35-36.

3

  Ivi, p. 44.

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mio o l’ho rifuggito ? / La nostalgia di te è stata continua e forte, / tra non molto saremo ricongiunti nella sede eterna. // Padre, non giudicarlo / questo mio parlarti umano quasi delirante, / accoglilo come un desiderio d’amore, / non guardare alla sua insensatezza. / Sono venuto sulla terra per fare la tua volontà / eppure talvolta l’ho discussa. / Sii indulgente con la mia debolezza, te ne prego. / Quando saremo in cielo ricongiunti / sarà stata una prova grande / ed essa non si perde nella memoria dell’eternità. / Ma da questo stato umano d’abiezione / vengo ora a te, comprendimi, nella mia debolezza. [...] Qui termina veramente il cammino. / Il debito dell’iniquità è pagato all’iniquità. / Ma tu sai questo mistero. Tu solo. 1  

L’angoscia tocca il fondo quando Cristo, in agonia, inchiodato sulla croce, rivolge al Padre la domanda più tragica e sconvolgente : « Perché mi hai abbandonato ? ». Il Cristo, uomo-Dio, rivela in toto la sua natura umana, forse per dimostrare agli uomini che anch’egli è veramente uomo e ha condiviso l’esperienza terrena in tutto, fuorché il peccato. L’interrogativo di Gesù è, in sostanza, il medesimo che si trova sulle labbra di Giobbe, pur formulato con parole diverse : « Ti imploro, ma tu non mi rispondi, / ti sto davanti, ma tu non badi a me ». 2  













il bene e il buono fioriscono talora nell’infima lordura. / Sono ai due lati i due ladroni. Uno irride alla sua impotenza [...] L’altro lo segue nella sua passione e redarguisce il compagno di pena. [...] Dove sono i fedeli di Gesù ? Pochi sono i rimasti sulla scena. / Lo sgomento e la paura hanno fatto il vuoto. [...] “Perché Padre mi hai abbandonato ?”. È il suo ultimo grido umano. / È di uomo infatti l’estremo pensiero / del Figlio dell’uomo sulla terra. “Consummatum est”. 3  



Tuttavia la vita è infinitamente « più grande delle sue mortificazioni ». Giobbe ‘torna alla vita’ dopo la condizione miserevole in cui era stato ridotto, e, poi, sazio di giorni, muore per rinascere alla vita eterna. Così avviene per Cristo. Umiliato, oltraggiato, crocifisso, ucciso nel corpo, non è stato possibile soffocarne il soffio vitale, che continua – come per tutti i credenti – oltre la decomposizione della materia, perché infinitamente più grande è l’amore. Come dice san Paolo : « La morte è stata ingoiata per la vittoria. / Dov’è, o morte, la tua vittoria ? / Dov’è, o morte, il tuo pungiglione ? / Il pungiglione della morte è il peccato e la potenza del peccato è la legge. Siano rese grazie a Dio che ci concede la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo ! ». 4 Come preghiera conclusiva della Via Crucis, Mario Luzi, ha scritto un inno alla vita e all’amore, che, del resto, è la substantia della vita (Dio, infatti, ha creato gli uomini per amore e per amare) :  











   



Dal sepolcro la vita è deflagrata. / La morte ha perduto il duro agone. / Comincia un’era nuova : / l’uomo riconciliato nella nuova / alleanza sancita dal tuo sangue / ha dinanzi a sé la via. / Difficile tenersi in quel cammino. / La porta del tuo regno è stretta. / Ora sì, o Redentore, che abbiamo bisogno del tuo aiuto, / ora sì che invochiamo il tuo soccorso, / Tu, guida e presidio, non ce lo negare. / L’offesa del mondo è stata immane. / Infinitamente più grande è stato il tuo amore. / Noi con amore ti chiediamo amore. Amen. 5  

1

  Ivi, pp. 51-53.   Il libro di Giobbe, cit., 30, 20, p. 88. Questo versetto del Libro di Giobbe si accosta al versetto del Salmo 22, 2b, in La Bibbia di Gerusalemme, cit. : « Tu sei lontano dalla mia salvezza : / sono parole del mio lamento » (vedi nota 3 a p. 50). 3   M. Luzi, in Via Crucis al Colosseo, cit., pp. 56-57. 4   san Paolo, Prima lettera ai Corinzi, 15, 54b-56, in La Bibbia di Gerusalemme, cit. 5   M. Luzi, in Via Crucis al Colosseo, cit., [p. 62]. 2









Il nome e l’immagine di Lucrezia Borgia tra le Rime di Vittoria Colonna Giusi Baldissone

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er la tradizione, Vittoria Colonna è una signora del Cinquecento che scrive poesie religiose, in un codice petrarchesco ben governato da scrittori canonici come Pietro Bembo. Con il coraggio delle sue ricerche teologiche e delle sue frequentazioni rischiò di finire sotto inquisizione : dunque merita rispetto come figura storica, mentre la poetessa rimane un po’ in ombra. Non esiste neppure una monografia dedicata all’analisi testuale delle sue Rime, la cui sistemazione filologica complessiva è piuttosto tardiva, per opera di Alan Bullock, nel 1982. 1 Dalla biografia, tuttavia, è possibile ricavare un ritratto meno sfuggente del personaggio. Vittoria Colonna nasce nel castello di Marino nel 1490, terzogenita di Fabrizio Colonna e di Agnese di Montefeltro (figlia minore del duca Federico e di Battista Sforza). La magnifica corte di Urbino rimane un sogno lontano, per Vittoria, che trascorre la prima infanzia chiusa nel palazzo-fortezza di Marino, con la famiglia perennemente in lotta e in guardia contro gli Orsini, padroni della rocca fino agli inizi del Quattrocento. I Colonna sono fedeli alla corona di Spagna e si trovano a lottare anche contro il papa Alessandro VI Borgia, alleato dei Francesi, che nel 1501 li scomunica, appunto, per « troppa fedeltà » alla corona spagnola, li bandisce dallo Stato pontificio e ordina la distruzione dei loro palazzi in Roma. Fabrizio Colonna si trasferisce a Napoli con la famiglia : gli Aragona gli donano il palazzo di via Mezzocannone e la famiglia d’Avalos, in seguito, ospita la famiglia Colonna per molti anni a Ischia. Ischia diviene il luogo felice in cui Vittoria può crescere e in cui sarà promessa, bambina, a Francesco Ferrante d’Avalos, figlio di Alfonso, di un anno più giovane di lei. Sotto l’occhio amorevole della duchessa Costanza d’Avalos, vedova di Federico del Balzo, principe di Taranto, e governatrice di Ischia dopo la morte improvvisa del fratello Inigo, i due fanciulli promessi sposi sono educati dai migliori precettori del regno e ricevono lezioni di composizione poetica. Le nozze di Vittoria Colonna con Ferrante d’Avalos, marchese di Pescara, avvengono nel 1509, non solo per tenere fede al patto familiare, ma perché i due giovani sono cresciuti con questo destino accettato e desiderato. Da questa data fino alla morte di Ferrante Vittoria vivrà fra Napoli e Ischia. Lo sposo non è sempre fedele, anzi, data la sua riconosciuta avvenenza, cede spesso alle tentazioni. Vittoria sa e sopporta, tanto più che Ferrante, pentito, è in grado di farsi perdonare, anche attraverso il mezzo più gradito alla sua dolce compagna : la poesia. Nel 1512 egli segue Fabrizio Colonna nella guerra di Ferdinando il Cattolico contro il re di Francia, Vittoria torna a Ischia, accanto a Costanza e al piccolo Alfonso del Vasto, cugino di Ferrante, 2 che accudisce con amore materno e rimane per lei l’unico figlio, spirituale. Ferrante si salva dalla prigionia, nel 1512, dopo la battaglia di Ravenna, grazie all’intercessione del cardinale Ippolito d’Este e di Lucrezia Borgia, duchessa di Ferrara. Morirà nel 1525, dopo aver partecipato alla battaglia di Pavia. Il papa impedisce a Vittoria di prendere il velo : la sua famiglia, capeggiata ormai dal fratello Ascanio, la reclama a funzioni diplomatiche  











1

  Vittoria Colonna, Rime, a cura di A. Bullock, Roma-Bari, Laterza, 1982.   Alfonso del Vasto, nato a Ischia nel 1502, figlio di Inigo, fratello di Costanza, e di Laura Sanseverino, erede designato, alla morte di Ferrante ne erediterà i feudi e alla morte di Costanza sarà principe di Francavilla e governatore di Ischia. 2

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che ella riprende con fatica. Va notato che la morte dello sposo significa anche per lei un volontario esilio logistico, una rinuncia alla ‘casa’ come luogo in cui vivere e alla corte come ‘casa’ di cultura mondana : nel decidere di distruggere gran parte delle sue rime in vita di Ferrante e nel donare addirittura la sua biblioteca ella manifesta un déplacement totale. 2 Dal dicembre 1525 fino alla morte la sua residenza sarà in diversi conventi della Penisola, a Roma, Orvieto, Viterbo, infine ancora a Roma. La storia della morte di Ferrante ha un lato oscuro che probabilmente accompagnerà Vittoria per tutto il resto dell’esistenza. Ferrante muore il 2 dicembre del 1525, secondo la vox populi in seguito alle ferite riportate in battaglia. In realtà, nella battaglia di Pavia, svoltasi il 26 marzo 1525, Francesco I è sconfitto e fatto prigioniero dopo che Ferrante ha affrontato separatamente i reparti che combattono per il re di Francia. Una lettera di Carlo V, da Madrid, a Vittoria Colonna, datata 26 marzo 1525, giorno della battaglia, elogia l’azione di Ferrante e la fedeltà dei due coniugi verso l’imperatore. 3 Vittoria gli risponde il 1° maggio da Ischia, dicendo di aver riportato una vittoria su se stessa, per non aver cercato di trattenere il marito dalla guerra. Ella gioca sul proprio nome in risposta al gioco già contenuto nella lettera dell’imperatore, ma questo gioco sembra davvero un triste presagio. Le proporzioni del trionfo assicurano alla corona spagnola un dominio incontrollabile, che preoccupa gli Stati italiani, primo fra tutti quello della Chiesa. La Curia, con il vescovo Gian Matteo Giberti, progetta diversi complotti per cacciare gli Spagnoli, tra cui quello organizzato da Girolamo Morone, cancelliere dello Sforza, che chiama a farne parte anche Ferrante, considerato il miglior condottiero del tempo. In cambio del servigio, Ferrante sarebbe proclamato re di Napoli dallo stesso papa Clemente VII. Ferrante all’inizio lascia credere che il progetto di congiura e assunzione del regno lo lusinghi. Esiste una lettera di Vittoria al marito, nella quale lo esorta a non volere una corona macchiata di slealtà : quanto a lei, non desidera essere moglie di re, ma « sì bene di quel grande capitano che non solamente in guerra col valore, ma in pace ancora, con la magnanimità, aveva saputo vincere i re più grandi ». Ferrante si ritira dalle trattative per la congiura, rivelando addirittura tutto il piano eversivo al connestabile di Borbone, all’abate di Nagera (commissario presso l’esercito), ad Antonio de Leyda, secondo comandante delle truppe e allo stesso Carlo V. Quando muore, alcuni sospettano un avvelenamento proprio per la rottura di queste trattative e per non aver appoggiato il tradimento del Morone. La morte lo coglie a Milano prima che la moglie, giunta a Viterbo, possa raggiungerlo. 4 Vittoria, dopo una breve permanenza a San Silvestro in Capite, a Roma, non potendo ritirarsi in convento, si vota a una sorta di mistica dedizione alla poesia. La frequentazione dei circoli culturali della corte aragonese di Napoli e di Ischia l’ha portata a contatto con Girola1









1   In questo periodo i lutti familiari per Vittoria si susseguono : nel 1516 muore il giovane fratello Federico, nel 1520 il padre, nel 1522 la madre. Dopo la tragica fine di Ferrante Vittoria chiede a Clemente VII di ritirarsi nel convento di San Silvestro in Capite. Con un breve del 7 dicembre 1525 il papa consente alla richiesta ma aggiunge che senza il suo consenso Vittoria non potrà mai prendere il velo, e chiede alle monache di San Silvestro di consolare con ogni conforto morale e materiale l’illustre vedova, ma le diffida, sotto pena di scomunica, dal lasciarle cambiare l’abito vedovile in monastico (« circa mutationem vestium vidualium in monasticas »). 2   Cfr. C. Ranieri, Vittoria Colonna : dediche, libri e manoscritti, « Critica letteraria », xiii, 1985, p. 249 : « Al magnifico messer Io. Antonio Musettula, ancor che siamo tristi, ad ciò se recorde de me, li dono tutti li miei libri, li quali stanno in Rocca Secca ». 3   La lettera è contrassegnata con il numero xx in E. Ferrero, G. Müller (a cura di), Carteggio di Vittoria Colonna, marchesa di Pescara, Torino, Loescher, 1982, p. 27 : il sovrano la invia nel giorno stesso della battaglia di Pavia, in cui Ferrante rimane ferito. 4   Paolo Giovio, Le Vite di Dicenove Huomini Illustri, Venezia, Bonelli, 1561, ora Palermo, Flaccovio, 1999 ; C. Gioda, Girolamo Morone e i suoi tempi, Torino, 1887, pp. 276-284 ; A. Reumont, Vittoria Colonna marchesa di Pescara. Vita, fede e poesia nel secolo xvi, Torino, Loescher, 1881 ; G. Salvadori, Vittoria Colonna e la corona di Napoli, « Il Fanfulla della Domenica », xxxii, 21, 1910 ; G. Patrizi, Vittoria Colonna, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, 1925-: vol. xxix, 1982, pp. 444-457 ; N. Albanelli, Stella in turbato cielo. Vittoria Colonna e il suo tempo, Ischia, Imagaenaria, 2004, pp. 55-64.  

































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mo Britonio, Jacopo Campanile (detto Capanio), Benedetto Gareth (detto Chariteo), Jacopo Sannazaro, Galeazzo di Tarsia. Nel 1520, a Roma, ha conosciuto Pietro Bembo, Baldesar Castiglione e Jacopo Sadoleto. La maggior parte delle sue poesie è composta dopo la morte di Ferrante e gli è dedicata. Vittoria acconsente alla pubblicazione solo dopo i dieci anni di lutto, ma l’editio princeps, a Parma nel 1538, è realizzata senza la sua autorizzazione. Nonostante tutto, va osservato che solo dopo la scomparsa di Ferrante questa dama trentacinquenne, romana e spagnola insieme, colta, elegante, mai superficiale incomincia a guadagnarsi un ruolo importante nella vita sociale. Nel 1527, dopo gli otto giorni del ‘sacco di Roma’ da parte dei Lanzichenecchi, Vittoria si dedica molto concretamente a portare aiuto alla popolazione romana, guadagnando la fiducia del papa Clemente VII ; in quegli anni provvede anche a far riconsegnare all’abbazia di Montecassino i terreni di cui Ferrante s’era a torto impadronito. Inizia a frequentare un circolo di riflessione evangelica, formatosi intorno alla predicazione di Giovanni Valdés. Nel 1531, a causa della peste scoppiata a Ischia, torna a Roma e prende apertamente posizione a favore dei cappuccini, che perseguono il rinnovamento della Chiesa, il ritorno alla povertà francescana e alla predicazione evangelica. Dopo alterne vicende, nel 1534 i cappuccini sono cacciati da Roma. Vittoria in quegli anni fa continuamente la spola tra Roma e Ischia, creandosi una piccola corte di seguaci. Nel 1537 vuol partire in crociata per la Terra Santa : cerca di convincere Carlo V, poi decide di partire anche senza la crociata. In preparazione del viaggio, si reca a Ferrara a trovare Renata di Francia, che il duca Ercole II d’Este, figlio di Lucrezia Borgia, spera di ricondurre a idee più moderate, giacché sta organizzando nella sua corte un circolo di intellettuali riformati. Vittoria si ferma a lungo a Ferrara, affascinata a sua volta. Incontra Margherita di Navarra, sorella di Francesco I, con cui rimarrà in corrispondenza epistolare. Quando Reginald Pole si stabilisce a Viterbo, punto d’incontro di vari personaggi vicini alla riforma, anche Vittoria vi si trasferisce, nel convento di Santa Caterina, per sostenerne le idee di rinnovamento. Il medico consigliatole dal Pole, Girolamo Fracastoro, che l’assiste nei suoi ormai numerosi malanni, è anch’egli simpatizzante della riforma evangelica. Nel 1545 Paolo III convoca il Concilio di Trento. L’Inquisizione comincia a guardare con sospetto tutto il gruppo di Viterbo, alcune lettere di Vittoria a Giulia Gonzaga sono considerate prove di eresia : solo la morte, avvenuta per lento declino fisico nel 1547, a Roma, momentaneamente la salverà ; molti suoi amici sono inquisiti, poi sarà la volta della sua memoria : l’Inquisizione la processerà un anno dopo, in absentia. Al capezzale di Vittoria morente troviamo Michelangelo, che la marchesa ha conosciuto probabilmente nel 1538 a Roma. « Morte mi tolse un grande amico. Altro non mi acade », è il commento disperato dell’artista. 1 A Michelangelo Vittoria dedica il suo codice più ricco (ms. Vaticano lat. 11539), composto dalle Rime spirituali, pubblicate da Valgrisi a Venezia nel 1546. 2 Molte sono le rime che Michelangelo a sua volta indirizza a Vittoria, e l’analisi di questi testi conferma un attaccamento molto profondo. Ma, si badi, la stessa analisi, condotta sul carteggio e sulle poesie scambiate con Pietro Bembo, porta agli stessi esiti : un’amicizia amorosa di cui è difficile sondare tutte le sfumature : Vittoria, nello scrivere del Bembo a Paolo Giovio, se ne dice « totalmente innamorata » (24 giugno 1530). 3 Anche Pietro Bembo, del resto, accompagna Vittoria fino alla morte, giunta nel medesimo anno, a un mese di distanza l’uno dall’altra : il 18 gennaio muore lui, il 25 febbraio Vittoria. A lei il Bembo ha dedicato tre  























1   Lettera indirizzata da Michelangelo a Messer Giovan Francesco Fattucci, prete di Santa Maria del Fiore (1° agosto 1550) : cfr. Michelangelo Buonarroti, Lettere, Milano, Dall’Oglio, 1963, p. 277. 2   Gli scritti di Vittoria Colonna si trovano in Rime e lettere di V. C., a cura di G. E. Saltini, Firenze, Barbèra, 1860 ; Rime, a cura di Bullock, cit. ; Nuovi documenti su Vittoria Colonna e Reginald Pole, a cura di S. M. Pagano e C. Ranieri, Città del Vaticano, Archivio Vaticano, 1989. 3   Pietro Bembo, Lettere, ed. critica a cura di E. Travi, 4 voll., Bologna, 1987-1993 : iii, p. 140, n. 1094.  







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sonetti, di cui uno nella prima edizione delle proprie Rime (1530), gli altri due nella seconda (1535) : in particolare, nel sonetto del 1531, Alta Colonna e ferma a le tempeste, disegna un’immagine di Vittoria dalla quale emana un grande fascino severo : « leggiadre membra, avolte in nero panno, // e pensier santi e ragionar celeste ». Il poeta sembra voler trattenere l’amica da quel desiderio di morte che sempre l’accompagna, a causa dell’amore smisurato per il marito scomparso : « Solo, a sprezzar la vita, alma gentile, / desio di lui, che sparve, non vi mova ; / né vi sia, lo star nosco, ingrato e vile ». 1 I ritratti scambiati (e andati perduti) fra lui e Vittoria testimoniano l’intensità del loro rapporto, che Dionisotti lascia intendere non disinteressato, da parte del Bembo.2 L’elogio del maritale affetto di Vittoria nel sonetto Cingi le costei tempie de l’amato è quasi malinconico :  

















Felice lui, ch’è sol conforme obietto a l’ampio stile, e dal beato regno vede, amor santo quanto pote e vale ; e lei ben nata, che sì chiaro segno stampa del marital suo casto affetto, e con gran passi a vera gloria sale. 3  

Ma se malinconia domina gli scambi, il poeta si unisce spiritualmente alla cara amica nel compianto dello sposo, anzi, nel sonetto Caro e sovran de l’età nostra onore ne sottolinea l’originale scelta pietosa, di costruire per lui un sepolcro di carta, un monumento che non teme il tempo : « rara pietà, con carte e con inchiostro / sepolcro far, che ‘l tempo mai non lime, / la sua fedele al grande Avalo nostro ». 4 Gli studi moderni su Vittoria Colonna partono da Cesare Cantù 5 mentre il suo primo biografo è Alfred Reumont. 6 Benedetto Croce, pur riconoscendole uno « spirito serio » che « di serietà improntò ogni cosa che facesse », sostiene un’originale teoria :  















[...] non era uno spirito di fantasia e poesia, e, tutt’al più, colta e istrutta nel verseggiare, avrebbe potuto affidare le sue impressioni e commozioni, le sue speranze e i suoi sconforti, il suo amore e il suo dolore allo stile epistolare, come fece in certe sue giovanili terzine, indirizzate al suo sposo, Ferrante d’Avalos, dopo la battaglia e la rotta di Ravenna. 7

In realtà poi il Croce dedica alcune pagine all’analisi dei testi poetici, pur giudicando che « l’impasto del suo stile è opaco », ma ammettendo poi : « Non già, che in quel travaglio di stile convenzionale, non vengano fuori, qua e là, memorie, impressioni, parole schiette ». 8 Se si percorre oggi tutto l’itinerario poetico di Vittoria Colonna si è colpiti dal fatto che la musica delle poesie di Vittoria, apparentemente così uniforme, nella sua linearità petrarchesca e nelle sue scelte metriche, lessicali e tematiche, pian piano si rivela eccessiva. Nella struttura generale, divisibile in tre parti (Rime Amorose, Rime Spirituali, Rime Epistolari), a loro volta corredate da varie poesie disperse, la Ranieri 9 identifica la simbologia della luce  









1

  Pietro Bembo, Prose e rime, a cura di C. Dionisotti, Archivio Vaticano, Torino, utet, 1960, poi 1992, p. 610 della 2ª ed.   Ivi, p. 609, nota. Può darsi che Dionisotti, non precisando la natura dell’interesse del Bembo verso Vittoria, alluda all’appoggio da lei concesso nella nomina cardinalizia. 3 4   Ibidem.   Ivi, p. 611. 5   C. Cantù, Pietà sospetta : Michelangelo – Il Flaminio – Il card. Polo – Vittoria Colonna, in Idem, Gli eretici d’Italia. Discorsi storici, i, Torino, Pomba, 1865. 6   Reumont, Vittoria Colonna, cit. Un profilo aggiornato è ora in G. Patrizi, Vittoria Colonna, in Dizionario Biografico degli Italiani, cit., xxix, pp. 444-457, e in F. A. Bassanese, Vittoria Colonna, in Italian Literary Studies, a cura di G. Marrone, 2 voll., New York-London, Taylor & Francis Group, 2007 : i, pp. 491-494. 7   B. Croce, La lirica cinquecentesca, in Poesia popolare e poesia d’arte. Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento, 8   Ivi, p. 435. Bari, Laterza, 1932 sgg., p. 433. 9   Nuovi documenti su V. C. e Reginald Pole, cit., pp. 31 sgg. Cfr. anche G. Servadio, La donna nel Rinascimento, Milano, Garzanti-Vallardi, 1986 ; C. De Frede, Vittoria Colonna e il suo processo inquisitoriale postumo, « Atti dell’Accademia Pon2









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come tema dominante, sia in quelle amorose che in quelle spirituali, al punto che la focalizzazione sul Sole porterebbe a identificare le due figure, del marito Ferrante e di Dio come unico simbolo amoroso, capace di riunire la passione terrena e quella spirituale. Si tratta di un’intima adesione al platonismo, che la Colonna alimenta attraverso le conversazioni con il Bembo e il Castiglione, poi consolida negli incontri viterbesi con gli esponenti della riforma. La Ranieri, nell’indicare una sorta di involuzione del percorso teologico di Vittoria Colonna, che nelle ultime Rime spirituali si ricondurrebbe a linee più ‘tridentine’, addita un percorso parallelo in Michelangelo, dal platonismo alla riflessione drammatica sul cristianesimo, con l’allineamento sulla ‘Riforma’ cattolica anziché su quella protestante. Entrare nella luce monotonica di quella poesia senza pregiudizi estetici e/o teologici può riservare qualche sorpresa. Alcuni testi, scritti in vita anziché in morte dello sposo, sono definitivamente scomparsi. 1 Il sonetto i, posto sulle soglie del testo, è denso di motivazioni :  

Scrivo sol per sfogar l’interna doglia ch’al cor mandar le luci al mondo sole, e non per giunger lume al mio bel Sole, al chiaro spirto e a l’onorata spoglia.

La poetessa si sente inferiore al compito di celebrare la gloria dello sposo, che affida ad altri ingegni più degni, si scusa, anzi, perché spinta dalla « pura fe’ », dall’« ardor » e dall’« intensa pena », non sa trattenere il « grave pianto », che né il tempo né la ragione riescono a frenare. Non va in cerca dello stile, ma di un’espressione immediata al suo dolore, per cui il Bullock parla di «valore terapeutico della composizione poetica ». 2 In una delle Rime amorose disperse, il sonetto 17, la poetessa denuncia espressamente il proprio desiderio di emulazione dei grandi e la propria inadeguatezza :  



















Ben fora a par di lor suo stil felice s’io per lui degna scorta a l’alte spere fossi, a Parnaso e l’altre glorie vere, com’agli amanti Laura e Beatrice.

L’inadeguatezza, si noti, riguarda ancor più la figura stessa della donna che lo stile con cui canta l’amato : la gloria di lui è definita immortale, mentre la sua è « depressa e umile », e non è stata capace di essere per lui, appunto, « degna scorta » alle « alte spere », non potrà mai essere la sua Laura, la sua Beatrice. La ricorrenza del nome di Beatrice nelle poesie della Colonna non è casuale : certamente quel nome è divenuto ormai un’antonomasia, il simbolo poetico della donna angelo, e come tale viene citato anche da Vittoria ; ma si presti attenzione a un sonetto epistolare indirizzato a Francesco Maria Molza, innamorato di una cortigiana che con lungo e raffinato lavoro letterario può trasformare nella sua Beatrice :  



















Molza, ch’al Ciel quest’altra tua Beatrice scorgi per disusate strade altere, tal esser den l’immortal glorie vere : gran frutto eterno trar d’umile radice.  

taniana », n.s., xxxvii, 1989 ; L. M. King, Le donne del Rinascimento, Roma-Bari, Laterza, 1991 ; D. Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento, a cura di A. Prosperi, Torino, Einaudi, 1992 ; L. Scaraffia, G. Zarri (a cura di), Storia delle donne in Italia, Roma-Bari, Laterza, 1994 ; G. Baldissone, Il nome delle donne. Modelli letterari e metamorfosi storiche tra Lucrezia, Beatrice e le muse di Montale, Milano, FrancoAngeli, 2005. 1   A. Bullock, Nota sul testo, in Vittoria Colonna, Rime, cit., p. 223. In realtà la sola edizione autorizzata dall’Autrice è quella delle Rime spirituali, pubblicate a Venezia da Valgrisi nel 1546. 2   Ivi, p. 223. Lo stesso Bullock cita (p. 225) la lettera dedicatoria di Philippo Pirogallo al Dottissimo Messer Alessandro Vercelli, premessa alla prima edizione delle Rime amorose, stampata a Parma nel 1538, in cui il curatore dell’edizione si scusa di aver procurato un dispiacere a Vittoria nel voler dare alle stampe le sue poesie, con la motivazione del grande desiderio di tanti, nei confronti dell’opera.  









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Sarebbe dunque troppo facile, secondo Vittoria, cantare una fenice vivente o affermare che le sfere celesti risplendono di luce : ma rendere i corvi bianchi e le colombe nere è un miracolo dello stile del Molza, che Vittoria definisce « chiaro e felice ». Proprio per questa sua capacità, Molza sarà ancora più degno d’onore che non Dante stesso, per il quale non fu difficile celebrare la perfezione di Beatrice. Come dire, insomma, che la metamorfosi costituisce il vero onore della poesia, che può trasformare anche una cortigiana in una donna celeste, in una Beatrice. Ciò significa che l’oggetto in sé non conta : conta, appunto, l’arte poetica. Se Vittoria la pensa così, possiamo ben comprendere a quali e quante metamorfosi deve aver sottoposto l’amato Ferrante per trasformarlo nel Sole della sua poesia. Delle Rime in vita di Ferrante non rimane quasi nulla, tranne un’epistola di cui si dirà più avanti, e qualche frammento riportato da Filonico Alicarnasseo. 1 Il Sole è entrato nel sogno di Vittoria troppo precocemente, troppo precocemente accolto nell’innamoramento infantile, troppo a lungo vagheggiato insieme ai miti di un’età che sottrae troppo presto l’infanzia ai bambini, e soprattutto alle bambine delle corti. Nello stesso modo Lucrezia Borgia ha accolto il suo primo marito all’età di tredici anni, imposto dalla volontà di un padre che è anche papa. In una storia femminile di ‘donne al centro’ e non ai margini, così prive di autodeterminazione soprattutto su questo punto cruciale del matrimonio, gli estremi si toccano e il sogno confuso di Vittoria non è certamente diverso da quello di Lucrezia. Soltanto l’itinerario seguente le divide, nelle forme più appariscenti della comunicazione che le riguarda, mentre in quella forma oscura nella quale il percorso femminile si fa strada più in sordina, quasi clandestinamente, per potersi affermare in modo autonomo, di nuovo le loro strade si incontrano. Di fatto, solo un decennio le separa alla nascita e solo un decennio consente loro di essere contemporanee, prima che la morte di Lucrezia le separi. Anche le loro coraggiose scelte religiose camminano parallele per lungo tempo, con due figure cardine che aleggiano loro intorno più o meno esplicitamente, e che per quanto le riguarda risultano diversamente scandalose : Gerolamo Savonarola e san Francesco. C’è perfino un punto d’incontro che le vede per un attimo solidali e benefiche tra loro : quando il padre adorato di Vittoria, Fabrizio Colonna, e l’altrettanto adorato sposo, Ferrante d’Avalos, sono fatti prigionieri dal duca Alfonso I d’Este, nel 1512, Lucrezia (con il cognato cardinale Ippolito) intercede per la loro liberazione : divise dalle guerre familiari, politiche e religiose, si ritrovano complici in un gesto generoso, che forse a Lucrezia è imposto dall’ombra amorosa e tragica di Alfonso d’Aragona. Le due figure sono unite anche dai versi dell’Ariosto, che tra l’altro è il primo a proporre il confronto/contaminatio tra il nome di Lucrezia romana e quello di Lucrezia Borgia : nell’Orlando furioso (xiii, 65 e 69) profetizza il futuro di tutta la stirpe estense che nascerà da Ruggiero e Bradamante, tra cui  















Lucrezia Borgia di cui d’ora in ora le beltà, la virtù, la fama onesta e la fortuna crescerà non meno che giovin pianta in morbido terreno.

Verso la fine del poema, poi (xlii, 83), nel tempio edificato in onore delle donne, c’è un’iscrizione con l’immagine di Lucrezia Borgia, in cui si dice chiaramente che Roma, sua patria, dovrebbe preferirla alla Lucrezia antica, per la bellezza e l’onestà che la caratterizzano :  

1   Filonico Alicarnasseo (ovvero Costantino Castriota Scanderebech), Vita di Vittoria Colonna, in Vittoria Colonna, Carteggio, cit., ed. con Supplemento, pp. 486-518. L’epistola in terza rima, scritta in vita di Ferrante, è conservata nel Vocabolario di cinquemila vocaboli toschi non meno oscuri che utili del Furioso, Bocaccio, Petrarcha e Dante, di Fabrizio De Luna, stampato a Napoli nel 1536 da Johannes Sultzbach. I quattro sonetti in vita di Ferrante, pubblicati dal Pirogallo nel 1538, sono riportati dal Bullock : AII, 2 ; AII, 3 ; AII, 4 ; AII, 5.  







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La prima inscrizïon ch’agli occhi occorre con lungo onor Lucrezia Borgia noma, la cui bellezza ed onestà preporre debbe all’antiqua la sua patria Roma. I duo che voluto han sopra sé torre tanto eccellente ed onorata soma, noma lo scritto, Antonio Tebaldeo, Ercole Strozza ; un Lino, ed uno Orfeo.  

Ciò che conta, qui, è il paragone esplicito con l’antica Lucrezia, che in modo così chiaro nessun altro scrittore aveva formulato. Ludovico Ariosto, nell’Orlando furioso, canta anche Vittoria : 1  

Sceglieronne una ; e sceglierolla tale, che superato avrà l’invidia in modo, che nessun’altra potrà avere a male, se l’altre taccio, e se lei sola lodo. [...] Vittoria è il nome ; e ben conviensi a nata fra le vittorie, ed a chi, o vada o stanzi, di trofei sempre e di trionfi ornata, la vittoria abbia seco, o dietro o innanzi.  



L’ammirazione dell’Ariosto non va soltanto alla fama, al potere, all’autorità culturale guadagnata e dispensata da Vittoria, ma anche alla fedeltà amorosa espressa dal suo dolore, che le concede una ‘vittoria’ ancora maggiore, quella di strappare l’amato alla morte, rendendolo immortale attraverso la poesia :  

quanto onore a Vittoria è più dovuto, che di Lete e del rio che nove volte l’ombre circonda, ha tratto il suo consorte, mal grado delle Parche e della morte !  

Occorre dire, per quanto riguarda Vittoria, che la prima a giocare col proprio nome è lei stessa, che vi disegna anche il ritratto dell’amato, come a volersene mescolare, identificare per le virtù che il nome rappresenta (A1, 6) :  

A le vittorie tue, mio lume eterno, non gli dié ‘l tempo e la stagion favore ; la spada, la virtù, l’invitto core fur i ministri tuoi la state e ‘l verno.  

La canzone-epistola del 1512 è rivelatrice, forse più di tutte le altre poesie dedicate a Ferrante : 2  

Excelso mio signor, questa ti scrivo per te narrar fra quante dubbie voglie, fra quanti aspri martir dogliosa io vivo. [...] La vostra gran virtù s’è dimostrata d’un Ettor, d’un Achille. Ma che fia 1

  Ludovico Ariosto, Orlando furioso, xxxvii, 16 e sgg.   S. Thérault, Un cénacle humaniste de la Renaissance autour de Vittoria Colonna, châtelaine d’Ischia, Parigi-Firenze, Didier-Sansoni Antiquariato, 1968. 2

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giusi baldissone questo per me, dolente, abbandonata ? [...] Che la memoria il petto ancor mi coce ! Se vittoria volevi, io t’era appresso, ma tu lasciando me lasciasti lei  



Si tratta di un grido di dolore, che esprime più di quanto dice : non tanto perché rappresenta l’inizio di uno sfogo in versi, estremamente sincero, come sostiene la Thérault, 1 quanto perché unico ‘sincero’ tra tutti i componimenti a noi pervenuti : forse perché ha un unico destinatario e non è soggetto a dialoghi di corte. Vittoria pronuncia le sue parole di martirio, nelle quali riesce a convogliare anche tutto il dolore precedente, dell’abbandono reale e non fittizio, della loro povera vita in comune, della ribellione femminile alle glorie guerriere degli uomini :  





Altri chiedevan guerra : io sempre pace dicendo : assai mi fia se ‘l mio Marchese meco quieto nel suo stato giace.  



Più avanti, nelle Spirituali, Vittoria giocherà anche col proprio cognome, contrapponendolo alla colonna celeste che le appare immortale : « Se l’imperio terren con mano armata // batte la mia colonna, entro e d’intorno, // la notte in foco e in chiara nube il giorno // veggo quella celeste alta e beata » (S1, 156). In realtà, ciò che per gli altri funziona come un gioco di buon auspicio appare spesso a lei come un inutile orpello. « Se Vittoria volevi io t’ero a presso » : questo è il grido di dolore che la sposa abbandonata lancia al marito perennemente lontano per l’arte della guerra e non solo per quella. Il Sole che l’abbandona forse non merita Vittoria, ma Vittoria non abbandonerà mai il suo Sole, nemmeno quando la morte la separerà da lui. Qui è probabilmente la chiave della rivalsa della poetessa, della sua autocensura, del suo autoaccusarsi, della sua insincerità dal momento in cui la morte avrà ratificato per sempre la sua condizione di vedova perenne. Da quel momento Vittoria sente di doversi difendere soprattutto da se stessa, ed entra in una sorta di clandestinità. Forse proprio da questo momento decide di far sparire le tracce delle rime in vita di Ferrante, e di votarsi interamente a quel percorso di morte, che le garantisce l’unica possibile quiete dello sposo accanto a lei, nel suo cuore, nel suo culto ritrovato, nell’immagine fiabesca vagheggiata da bambina, nel sogno di accompagnarlo sempre, perché Vittoria era proprio lei, la sola che egli avrebbe dovuto conquistare, ottenere, conservare sempre accanto a sé. La morte di Ferrante avvia Vittoria verso una serena disperazione, una sorta di culto folle di quel Sole scomparso che desidera raggiungere al più presto. Dell’ortodossia religiosa a Vittoria poco importa fin dal principio : alcuni sonetti esprimono una vera e propria trasgressione teologica in nome dell’amore (e in nome delle donne), come si nota nel sonetto 25, che crea un audace sillogismo. La parola chiave, petrarchesca, è costituita dal « velo », il corpo mortale : « Maggior miracol fia, più altera impresa / di trasportarmi al Ciel con mortal velo / ch’indur con umil forma in terra i dei » : il miracolo più grande per Vittoria e per il suo terribile amore potrebbe essere quello di essere assunta in Cielo con il proprio corpo. La poetessa non si contenta di proporre una preghiera che valga solo per lei, ma la trasforma in una teoria : essere assunti in cielo con il proprio corpo sarebbe in assoluto, per tutti, un miracolo più grande che compiere il cammino opposto, essere « dei » e indursi in « umil forma » sulla terra. Come dire, insomma, che il miracolo di una donna assunta in Cielo è più grande di quello di un dio che si fa uomo, perciò, in nome di questo precedente, modellato sulla Madre di Dio, anche Vittoria prega di essere assunta in Cielo in nome del proprio amore.  





























1



  « un coup d’essai qui est considéré comme un coup de maître » ; cfr. ivi, p. 133.  









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Non ci sarebbe nulla di strano se la donna disperata per il proprio amore perduto chiedesse questo per sé in un momento di sconforto, ma Vittoria pone questo concetto come un giudizio teologale, creando una graduatoria di meraviglie, fino a sognare la propria « assunzione » finale in Cielo (S2, 36). Va osservato, anche, che la poetessa compie qui un passo avanti anche rispetto al proprio lutto di sposa, perché per la prima volta supera la propria personale apocalisse dovuta alla perdita dell’amato e non chiede più a Dio semplicemente di farla morire perché sulla terra per lei non c’è più nulla di bello. Il passo in più non è un desiderio di morte conseguente alla depressione dovuta alla tragedia, ma un attivo desiderio di immortalità nell’atto di essere assunta in Cielo in nome dell’Amore. Questo forse è uno dei componimenti più importanti di Vittoria Colonna, il più trasgressivo, ma anche il più compiuto nel suo itinerarium mentis : se si tratta di un pensiero mistico, è la mistica dell’Amore che lo guida, come in parte ha guidato Dante nel suo « viaggio a Beatrice ». 1 La maggior parte degli studiosi tende a riconoscere le tracce dell’eresia di Vittoria Colonna nei testi posteriori al 1530, composti dopo l’incontro napoletano con Juan de Valdés, tenuto conto, soprattutto, del fatto che, a partire dal maggio 1531, il Carteggio di Vittoria nomina espressamente Ischia come luogo degli incontri del circolo valdesiano. 2 Ma questo sonetto risale all’epoca della morte di Ferrante, nel 1525, e dimostra, come altri di quest’epoca e di questa raccolta, una libertà di pensiero e un esercizio della critica teologica non comuni, già in piena trasgressione rispetto al canone della Chiesa ufficiale. Se il canzoniere di Vittoria ha davvero un solo tono, occorre sottolineare quanto quel tono, all’analisi testuale, risulti dinamico, variegato nel fondo fino a lasciar intravedere un abisso insondato. L’apocalisse che accompagna queste Rime amorose è un deserto malato, in cui la trasgressione si spinge fino al punto di non avere altro dio all’infuori dello sposo perduto. In questa situazione egli le appartiene totalmente, assai più di quanto non le appartenesse in vita. Solo la morte le garantisce questo totale possesso, e sulla morte si fissa Vittoria come unico specchio dei propri sogni. Nelle Rime spirituali emerge tuttavia con forza il concetto dell’indegnità. Da un Sole all’altro, da un Signore all’altro, è come se Vittoria trasferisse semplicemente questo senso d’inferiorità per il quale va in cerca di riparazione, di giustificazione, di punizione. La sua espiazione sarà la via crucis personale che percorrerà raccontandosi giorno per giorno la passione di Cristo. Il cammino sarà lungo, costellato di incontri e di viaggi non solo mentali ma anche reali : salpata dal suo scoglio di Ischia, Vittoria incontrerà altre duchesse, marchese e principesse, altri papi e sovrani presso i quali svolgerà importanti missioni diplomatiche, incontri di riflessione, letture sacre e profane, sotto la guida amorevole e colta di due figure divenute centrali nella sua esistenza : Pietro Bembo, il presunto amante di Lucrezia Borgia, dedicataria degli Asolani, 3 ora suo fido maestro, consigliere e amico, divenuto cardinale anche per i suoi  













1   Ch. Singleton, Dante Studies i - Elements of Structure, Cambridge (ma), Cambridge University Press, 1954, ora in La poesia della Divina Commedia, Bologna, il Mulino, 1999. Cfr. anche G. Baldissone, La donna senza nome. La tragedia di Beatrice, in Il nome delle donne, cit., pp. 55-71. 2   Thérault, Un cénacle humaniste, cit., iv, 2, p. 383 ; Albanelli, Stella in turbato cielo, cit., pp. 79-116. 3   Vittoria apprezzò Gli Asolani, nonostante il parere sfavorevole del Sannazaro : cfr. il sonetto A Pietro Bembo commendando il suo libro degli Asolani, in cui il Bembo è paragonato al Petrarca, in Vittoria Colonna, Rime, cit., E16-17, p. 210 : particolarmente interessante, per i rapporti di Vittoria con Lucrezia Borgia, la terzina finale : « fortunata colei cui tal lavoro // rend’immortal, ch’a l’alme eterne fronde // non avrà invidia del ben culto lauro ». La poesia amorosa spagnola, ben presente alla corte ferrarese di Lucrezia, è definita da Giuseppe Mazzocchi « ingrediente non secondario dei suoi amori con il Bembo » : cfr. I canzonieri di Lucrezia. Los cancioneros de Lucrecia. Atti del convegno internazionale sulle raccolte poetiche iberiche dei secoli xv-xvii (Ferrara, 7-9 ottobre 2002), a cura di A. Baldissera e G. Mazzocchi, Padova, Unipress, 2005, p. 3. Il recente ritrovamento, nella Biblioteca Ariostea di Ferrara, di tre poesie inedite del Bembo, scritte in lingua spagnola e dedicate a Lucrezia, confermerebbe la passione giovanile (petrarchesca nello stile e platonica nell’aspirazione) del poeta nei confronti della duchessa, che a sua volta componeva sonetti. Nel piccolo ‘Canzoniere’ bembiano un testo è certamente composto in risposta a un poema di Lucrezia stessa (est animum. Yo  

















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buoni uffici, e Michelangelo, ancor giovane ai tempi di Lucrezia, ma non tanto da non poter scolpire opere importanti come la Pietà, la cui datazione, incerta, si fa risalire a prima del 1501, ossia al periodo romano di Lucrezia. Pietro Cossa, nel suo dramma I Borgia, 1 attribuisce a Vannozza Cattanei, la madre di Lucrezia, la funzione di modella per la Pietà, dopo l’uccisione, da parte di Cesare, del fratello Giovanni di Gandia. Certamente Michelangelo costituisce un altro legame tra le due figure, apparentemente antitetiche, di Lucrezia e di Vittoria. 2 La presenza del Bembo e di Michelangelo nell’ultima parte della vita di Vittoria rende ancora più ricco di interesse un periodo già così complesso. Certo Lucrezia ha lasciato l’impronta della sua religione a Ferrara, se la moglie di suo figlio Ercole II, erede al ducato, è seguace di san Francesco e riceve a corte Juan de Valdés, Bernardino Ochino e gli altri propugnatori della Riforma. Contro ogni paradosso costruito dalla comunicazione del tempo sulla cattiva fama di Lucrezia, le due donne, nei dieci anni che intercorrono fra il matrimonio di Vittoria e la morte di Lucrezia, cioè dal 1509 al 1519, hanno avuto modo di sviluppare tacitamente una complicità culturale e religiosa e un interesse reciproco, che va oltre le guerre alle quali assistono contrastandole come possono. Hanno in comune gli stessi amori culturali e artistici, le stesse amicizie e la tacita condivisione di una parentela aragonese che gli altri ormai tollerano e rispettano come lontana memoria. Il figlio aragonese di Lucrezia, Rodrigo, morto a tredici anni, ha lasciato una ferita e un legame incancellabile. Vittoria non ha figli e non ignora nulla di Lucrezia : nessuno del suo tempo può farlo, a maggior ragione lei, che ha frequentato il Pontano e il Sannazaro, accaniti accusatori di Lucrezia in un periodo in cui Napoli e Roma erano in guerra. La marchesa di Pescara ottiene dalla duchessa di Ferrara che siano liberati il padre e il marito dopo la prigionia seguita alla disfatta di Ravenna, in cui Alfonso ha avuto la meglio sui due congiunti di Vittoria. Si tratta certo di solidarietà e pacifismo femminile in tempo di guerra, in nome della vita quieta delle corti, ma anche di un legame di segreta complicità : segno che la religiosissima Vittoria e l’esecrata figlia del papa non devono sentirsi tanto lontane e antitetiche fra loro, se Vittoria si spinge fino a esprimere una sorta di quieta invidia nei confronti di Lucrezia, perché immortalata dal Bembo. Poi, quando il comune amico è sulle soglie della morte, lo invita a convertire la sua musa al vero, ossia ad abbandonare la bellezza gratuita dell’arte, con cui ha sempre fatto concorrenza alla natura (S1, 137) : « Bembo mio chiaro, or ch’è venuto il giorno / ch’avete solo a Dio rivolto il core / volgete ancor la bella musa al vero ». Una storia ancora tutta da approfondire e collegare è proprio quella della religione protestante che si fa strada nelle corti italiane, per opera soprattutto delle donne che governano quelle corti. Non si tratta di isolate costellazioni : non è un caso che il filo che le lega sia l’interesse per la religiosità francescana e domenicana, non è un caso che queste costellazioni abbiano i nomi di Lucrezia Borgia, Vittoria Colonna, Renata di Francia (Valois), sposa del figlio di Lucrezia, Ercole II d’Este. Un contributo importante, da questo punto di vista, è rappresentato dal libro di Gabriella Zarri, 3 che propone dodici lettere inedite dell’ultimo confessore di Lucrezia, fra Tommaso Caiani. La studiosa mette a fuoco la realtà sotterranea di una pratica e di una riflessione religiosa alla quale la duchessa estense comincia a dedicarsi con sempre maggiore impegno,  











pienso si me mueriese). Cfr. J. Lara Garrido, Inéditos de Pietro Bembo en un manuscripto de Ferrara, in I canzonieri di Lucrezia, cit., pp. 503-507. In una lettera autografa dell’8 giugno 1503 Lucrezia chiede al Bembo di comporre un motto per la medaglia dell’Amorino bendato, che la duchessa ha intenzione di far eseguire : il motto pensato da Pietro Bembo è appunto lo stesso del sonetto oggi riscoperto, Est Animum. 1   Dopo l’edizione torinese del 1881, la più recente è quella a cura di G. Distaso, Roma, ed. Roma nel Rinascimento, 2001. 2   A. Cambria, L’Italia segreta delle donne, Roma, Newton & Compton, 1984. 3   G. Zarri, La religione di Lucrezia Borgia. Le lettere inedite del confessore, Roma, Roma nel Rinascimento, 2006.  

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sincera e diretta nelle infinite tracce scritte che lascia quotidianamente. Tra tutti i cardinali e i papi della sua dinastia, l’unica Borgia che ha sempre pregato per fede e per autentica necessità dell’animo è la sventurata figlia di papa Alessandro, seguendo, paradossalmente, un percorso di santità guidato dai modelli che Alessandro ha combattuto ed eliminato : san Francesco e Gerolamo Savonarola. La progressiva spiritualizzazione della corte estense è soprattutto opera di Lucrezia, che crea le premesse per le successive frequentazioni di vari esponenti della religione calvinista, favoriti da Renata di Francia. La corte di Ferrara ha sempre coltivato la memoria del Savonarola, anche negli anni di Alessandro VI. Dopo la sua morte, i seguaci del frate si uniscono simbolicamente nella venerazione di Caterina da Siena e si raccolgono intorno alla ‘santa viva’ Lucia da Narni. Negli anni tra il 1515 e il 1519 è presente a Ferrara il predicatore domenicano Tommaso Caiani, che diviene direttore spirituale di Lucrezia Borgia, la quale ripara così anche il crimine paterno contro Savonarola. La figura di fra Tommaso sembra necessaria alla duchessa nel percorso mistico che ha intrapreso ormai da tempo. Una lettera del 6 luglio 1519, tuttavia, inviata da Tommaso Caiani ad Alfonso, testimonia che il frate non fu chiamato al capezzale della duchessa nel momento della morte. In una lettera seguente, del 9 agosto, egli protesta di aver sempre svolto solo funzioni di confessore e guida spirituale. In realtà, fa comprendere la Zarri, i timori del duca erano gli stessi dei restaurati Medici a Firenze : il frate apparteneva all’ala radicale del movimento savonaroliano ed era in sospetto di fomentare disordini e sette ereticali. Le dodici lettere di Tommaso Caiani a Lucrezia, conservate inedite nell’Archivio Estense e pubblicate dalla Zarri, costituiscono pertanto il documento eccezionale di una frequentazione spirituale iniziata nel 1514 e terminata con la morte della duchessa. La doppia vita di Lucrezia è quella di chi impara a poco a poco a salvarsi nell’unico modo in cui si salvano le donne dagli oppressori di tutti i tempi : scavando cunicoli spirituali ed entrando in clandestinità, sdoppiandosi per mantenere la propria identità, per restare fedeli a se stesse. Così Lucrezia può portare il cilicio durante la « civil conversazione », così può fare penitenza nel bel mezzo delle feste e intraprendere il proprio itinerarium mentis in deum. Non tanto diversa è la fase finale dell’esistenza di Vittoria Colonna, che tra l’altro dedica molti sonetti alla figura della Maddalena. Occorre ricordare la vasta eco destata dal trattato di Jacques Lefèvre d’Étaples, De Maria Magdalena, stampato a Parigi nel 1518, in cui la santa è presentata come compagna della predicazione di Cristo e apostola apostolorum. Lefèvre nel 1521 è accusato di eresia, deve lasciare la Facoltà di Teologia a Parigi e fuggire a Strasburgo, da dove lo richiama nel 1526 Francesco I, che lo vuole precettore dei suoi figli e bibliotecario a Blois ; più tardi Lefèvre sarà consigliere spirituale di Marguerite d’Angoulême, regina di Navarra, tra le più care amiche di Vittoria Colonna. Anche il Sannazzaro, del resto, è stato in stretti rapporti con Lefèvre, a Parigi, dal 1501 al 1505. L’importanza di queste relazioni nel momento dell’esordio e della consacrazione letteraria di Vittoria è sottolineata dal Dionisotti. 1 Pietro Bembo, peraltro, costituisce uno dei grandi tramiti fra il generale dei cappuccini Bernardino Ochino e Vittoria Colonna, alla quale scrive che il predicatore « ragiona molto diversamente e più cristianamente di tutti gli altri che in pergamo sian saliti a’ miei giorni, e con più viva carità et amore e migliori e più giovevoli cose ». 2 Il coinvolgimento di tanti eminenti personaggi ecclesiastici, politici, letterari e dello stesso Carlo V imperatore, fino alla fuga di Ochino a Ginevra nel 1542 (anno di istituzione della congregazione dell’Inquisizione), fu in parte inconsapevole delle intenzioni eterodosse di quel predicatore ammirato da tutti. 3  















1

  C. Dionisotti, Appunti sul Bembo e su Vittoria Colonna, in Idem, Scritti sul Bembo, cit., pp. 115-140.   La lettera è del 1539 : cfr. P. Simoncelli, Pietro Bembo e l’evangelismo italiano, « Critica storica », xv, 1978, pp. 1-63. 3   M. Firpo, Riforma protestante ed eresie nell’Italia del Cinquecento, Roma-Bari, Laterza, 1993, p. 80 ; C. Ginzburg, Il nicodemismo. Simulazione e dissimulazione religiosa nell’Europa del ‘500, Torino, Einaudi, 1970. 2









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Vittoria Colonna, poi, appare appena sfiorata dalla drammaticità degli eventi conseguenti all’intervento del tribunale ecclesiastico e alla fuga di tanti illustri rappresentanti di quella riforma evangelica, che cominciava ad apparire come un’eresia vicina al protestantesimo. Non mancano le accuse da parte dei fuoriusciti nei confronti di coloro che restano e che Giovanni Calvino denominò « nicodemisti ». Vittoria rimane nel gruppo di coloro che né fuggono né si staccano ufficialmente dalla Chiesa romana. La sua visione della religione è sempre più aderente ai testi evangelici, anche apocrifi, e anche in questa vicinanza si giustifica la decisione di una crociata delle donne, per dare una lezione agli uomini esitanti delle istituzioni laiche ed ecclesiastiche. Sono per lei ormai anni di declino fisico, anche se la sua presenza costituisce ancora un polo fondamentale nella cultura letteraria, artistica e religiosa del suo tempo e un modello per le scrittrici che traggono forza dalla sua autonomia e dalla sua capacità letteraria : Veronica Gambara, Gaspara Stampa, Tullia d’Aragona, Lucrezia Gonzaga, Laura Terracina. La fama di Vittoria, soprattutto letteraria, è riconosciuta da tutti, a partire dal Vasari, che commenta l’emergenza di un fenomeno culturale femminile. 1 Ciò che la Marchesa di Pescara cerca non è tanto una ribellione esplicita di tipo religioso, quanto una complicità culturale, un dialogo continuo sui temi che la coinvolgono, alla ricerca di una verità che passa sempre, per lei, attraverso la letteratura. 2 In mezzo ai letterati e agli artisti prediletti, nell’ultima fase della sua esistenza, raggiunge a poco a poco quella funzione di Beatrice alla quale aspirava da giovane sposa. Sono due le grandi figure che le rimangono accanto fino alla fine, come s’è detto, con un’amicizia intensa e confidente : Pietro Bembo e Michelangelo Buonarroti. Dell’uno, non potrà aspirare che a essere la nobile ‘Colonna’ alla quale appoggiare gli ultimi fuochi di una poesia che ha già dato le sue più alte prove e ha già anche espresso la propria Beatrice, nelle vesti di Lucrezia Borgia. Vittoria richiama il Bembo a pensieri eterni, gli impartisce un viatico poetico del quale ella stessa ha fatto lunga esperienza, ormai ammaestrata nello stile che proprio lui l’ha aiutata a raffinare. Dell’altro, Michelangelo, sarà davvero la donna angelo che, negandosi sulla terra, gli indicherà il cammino, lei maestra, lei musa, lei Beatrice. Nel profondo della sua crisi esistenziale Michelangelo si appoggia a lei che si trasforma, e diviene una creatura divina attraverso cui Dio stesso parla. Ormai Vittoria è al centro, al centro della poesia femminile, di cui rappresenta la figura più autorevole, 3 al centro delle corti che vorrebbero una riforma cattolica per rispondere con un profondo rinnovamento spirituale a quella protestante. Le sue ultime poesie mirano alla preparazione dell’incontro mistico con « il vero Lume » (S1, 93) e all’offerta totale di sé. Così la vedrà allontanarsi Michelangelo, dopo averla seguita in tutti i percorsi spirituali da lei dettati. La sua ‘Vittoria’ è totale, la sua poesia, da dialogo drammatico con se stessa e con il mondo delle corti, si è trasformata in un teatro di passione, che ormai la rappresenta in tutto il mondo.  











1   Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri (1550), a cura di L. Bellosi e A. Rossi, 2 voll., Torino, Einaudi, 1991 : ii, p. 729. 2   N. De Blasi, A. Varvaro, La poesia volgare e Vittoria Colonna, in Napoli e l’Italia meridionale, in Letteratura italiana. Storia e geografia, ii*, L’età moderna, Torino, Einaudi, 1988, pp. 297-304. 3   Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, cit., pp. 227-254 ; M.-F. Piejus, La première anthologie de poèmes féminins : l’écriture filtrée et orientée, in Le pouvoir et la plume : incitation, contrôle et répression dans l’Italie du xv Ie siècle, Actes du Colloque international d’Aix-en-Provence, Parigi, Université de la Sorbonne Nouvelle, 1982, pp. 193-214 ; Donne protagoniste. Autorità femminile nelle minoranze religiose, « Rivista di Storia del Cristianesimo », 2, 2007.  













GIANI STUPARICH ‘CRITICO’* Giorgio Baroni

F

ra gli scrittori triestini del primo Novecento, proprio fra quelli della generazione che ha avuto modo di temprarsi nell’attesa della guerra, studiando a Firenze e partecipando all’esperienza vociana, Giani Stuparich non è certo una figura di secondo piano e, se a volte rimane nell’ombra, è anche per la sua scelta di dedizione al fratello Carlo e all’amico Scipio Slataper che dalla guerra non tornarono ; egli pubblicò i loro scritti e contribuì con i propri studi alla loro fortuna letteraria. Non soltanto costoro sono debitori di Giani Stuparich : la conoscenza dell’ambiente di formazione e di sviluppo di tutta la sua generazione di intellettuali giuliani è stata infatti agevolata dalla sua scelta di fissare magistralmente quel mondo soprattutto in Trieste nei miei ricordi. Consapevole dell’importanza del proprio testimoniare e incline all’analisi, egli ha spesso accostato saggi e racconti, a volte fondendo i due generi e dando vita a racconti autobiografici o, comunque, ispirati alle vicende del suo tempo. Le sue prime collaborazioni a « La Voce » confermano come spesso i Triestini fossero accolti nelle redazioni italiane in quanto esperti dell’Est europeo, particolarmente delle popolazioni e dei territori soggetti alla monarchia danubiana. Ben tre pezzi 1 riguardano la Boemia ceca ; poi, fra la fine del ’13 e il ’14, scrisse quattro recensioni per il Bollettino bibliografico de « La Voce », occupandosi di Gayda, 2 Charmatz, 3 Seton-Watson 4 e Masaryk. 5 Dagli interventi sui Cechi derivò il suo primo volume, La nazione czeca, edito da Battiato di Catania nel 1915 e in nuova edizione aumentata per il romano Istituto per l’Europa Orientale. 6 L’opera, essenzialmente storica e politica, di derivazione mazziniana, comprende un capitolo sulle condizioni della letteratura e dell’arte che si può considerare un sia pur frettoloso quadro critico d’insieme. La sua attenzione si sofferma sui canti popolari e poi, soprattutto, sui poeti Jan Neruda e Joseph S. Machar. Definisce l’arte del primo, scomparso, com’è noto, nel 1891,  













realistica, venata d’umorismo, chiara e semplice, ma anche fantastica, appassionata, sicura come un’acqua profonda, 7

giungendo al giudizio attraverso una presentazione delle varie opere, anche con qualche larga citazione. Interessato al rapporto arte/società segnala come nessun poeta sia riuscito a interpretare come lui la vita del suo popolo, dall’operaio al libero professionista, e non solo la vita esteriore, ma quella che si muove dentro e rimane oscura, se non viene la magia del poeta a illuminarla. 8

Distingue tuttavia la rilevanza politica da quella artistica, sottolineando come da un lato Jan Neruda riesca a coniugare patria fede e poesia, mentre dall’altro esistano stratificazioni di « pseudopoesia patriottica ».  



*  Per rendere giusto omaggio al collega e amico Davide De Camilli ho scelto un argomento particolare di Storia della critica ricordando i molti anni da lui proficuamente dedicati a tale disciplina. 1 2   Datati 17 aprile, 26 giugno e 3 luglio 1913.   V. Gayda, “La crisi di un impero”, 4 settembre 1913. 3   R. Charmatz, „Oesterreichs innere Geschichte von 1848 bis 1907”, 13 aprile 1914. 4   “Die südslavische Frage im Habsburger Reiche”, 28 luglio 1914. 5   Un libro sulla Russia di Th. G. Masaryk, 28 settembre 1914. 6   La nazione cèca, Napoli, Ricciardi, 1922. La dedica è « A Giuseppe Prezzolini con mente grata ». Cfr. pure Gli slovacchi, « L’Europa Orientale », 7, 1921. 7 8   La Nazione cèca, cit., p. 60.   Ivi, p. 63.  







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Di Machar, che egli ebbe modo di conoscere e di stimare personalmente, segnala l’importanza del rapporto con Neruda :  

Far valere l’originalità di Jan Neruda non fu solo un dovere di critico, fu anche un bisogno di poeta. Machar si sentiva attaccato con tutte le fibre a Neruda. La sua lirica giovanile era stata un’esasperazione dell’ironia nerudiana, il suo stile una semplificazione maggiore dello stile chiaro e semplice del maestro, e come questi egli aveva già voluto dare attraverso la poesia un contenuto alla vita. 1

Lo definisce quindi il solo poeta vivente che abbia raccolto in sé la migliore energia della nazione e l’abbia realizzata in una forma originale d’arte. 2

E ne giustifica l’acceso anticlericalismo interpretandolo come un anelito di maggior perfezione rispetto alla realtà di un cristianesimo il cui messaggio viene spesso eluso dagli stessi cristiani. Peculiare è l’approccio critico a Enrico Kleist il cui Epistolario 3 esce nel 1919, curato congiuntamente dai due fratelli Stuparich : la scelta di firmare il lavoro con il nome misto « Giancarlo » appare significativa ; non sembra cioè trattarsi della banale costruzione a quattro mani, nella quale uno potrebbe ignorare l’intervento dell’altro. Qui si tratta di una coincidenza di intendimenti e di una fusione di spiriti, posta al servizio di un’edizione. La prima pagina dell’introduzione inizia con Storia d’un’anima, un sottotitolo scartato, ma non del tutto, data la collocazione : e la giustificazione di questo sottotitolo è anche il punto di partenza per sintetizzare le scelte metodologiche :  











tale definizione [Storia d’un’anima] avrebbe chiarito anche il criterio che si seguì nello staccare i brani qui tradotti. Si scartò ogni cosa che non fosse espressione diretta della vita e problemi interiori dell’uomo, a rischio di sacrificare i passi più belli in cui si manifesta il poeta, e di intesservi il filo della monotonia. 4

Stuparich, quindi, dovendo scegliere fra umanità e poesia, predilige la prima ; e non perché pensi di arrivare così meglio alla seconda, ma proprio perché sull’umanità gli interessa soffermarsi. Lo dice a chiare lettere nella pagina seguente :  



È dilettantismo cercar la relazione fra l’opera sua e la vita, specialmente se per fondare su di essa il giudizio dell’artista.

Traccia poi, nell’introduzione alla scelta di lettere tradotte da Carlo, una sorta di profilo di Kleist, mostrandolo alle prese con la poesia assoluta. L’assurdo del voler risolvere l’infinito nel finito. Notti vegliate nella febbre e nell’allucinazione, manoscritti tormentati, bruciati, rifatti, ribruciati. 5

Ma nelle opere non si addentra, limitandosi a proferire verso la fine un giudizio di quattro o cinque parole ; e ritorna subito al problema uomo per confrontare opera ed epistolario, nell’una vedendo l’« uomo-artista », nell’altro l’« artista-uomo ». Rettifica, infine, la distinzione precedente :  











Se dapprincipio s’è detto che l’uomo e l’artista sono due concetti del tutto diversi, ora bisogna correggere in questo senso : sono diversi e devono restare diversi per chi non sa giungere all’unità superiore, e s’illude di farli affini e non molto lontani per divertirsi a gettar fra di essi mille ponti e costruir mille  

1

2   Ivi, p. 64.   Ivi, p. 70.   Epistolario. Scelta, Traduzione e introduzione di Giancarlo Stuparich, Lanciano, Carabba, 1919. 4 5   Ivi, p. 5.   Ivi, pp. 18 sg. 3

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relazioni, che stanno in aria e non servono a congiungere nulla ; ma in realtà e per chi sa concepirli, sono la stessa cosa. È il pensiero che li distingue. 1  

Si giunge così al servizio di Stuparich per Slataper ; servizio perché con tale spirito evidentemente Stuparich si dedicò alle carte e all’immagine dell’amico scomparso. Quello che maggiormente colpisce è l’entusiasmo che Stuparich ha trattando di Slataper : egli non può essere veramente un critico se non altro perché è assolutamente privo di distacco. Egli, prima che dello scrittore, parla dell’amico e, per certi aspetti, del maestro. La sua monografia su Slataper è comunque di rilevante interesse critico, sia per le numerose notizie, soprattutto sulla vita e sull’ambiente, sia per il ritratto, parziale, come si è visto, ma della parzialità del testimone oculare. Così anche la descrizione dell’itinerario personale slataperiano prima dell’esperienza vociana ha larghe zone d’ombra (della famiglia, p. es., quasi non si parla), mentre più abbondanti sono le notizie sul mondo culturale della Trieste austro-ungarica. L’attenzione di Stuparich qui non si ferma all’uomo, ma si addentra più volte nel vivo dell’opera : così del Mio Carso è trattata la genesi, sia con una testimonianza (in parte suggerita dal diario e dalle lettere) sulle fasi e le circostanze compositive, sia con riferimenti alle fonti slataperiane, per le quali accenna a D’Annunzio, Carducci, Tasso, Croce, Nietzsche e ad altri italiani e stranieri. Per dimostrare poi l’assoluta originalità dell’opera slataperiana, si impegna in una dettagliata esemplificazione lessicale, indugiando sull’uso di una forma sperimentale realizzata anche mediante l’inserimento di parole e di costrutti dialettali nella lingua italiana. Si preoccupa infine di inquadrare l’operazione artistica slataperiana nel contesto della letteratura coeva e delle teorie estetiche crociane. Solo un quinto del libro è tuttavia dedicato al Mio Carso : l’attenzione si sposta poi sullo Slataper traduttore e critico, quindi al complesso rapporto del suo spirito con gli autori studiati, in particolare Hebbel e Ibsen. Infine c’è una sezione sullo Slataper politico, argomento di vistosa attualità nel momento di composizione della monografia e di vario ricorrente interesse storico e documentario. Nella monografia non si parla delle lettere Alle tre amiche : il motivo è chiaro ; Stuparich stava ancora riordinando i manoscritti dell’amico e non aveva quindi idea dell’esistenza dell’opera in esse celata e venuta alla luce solo grazie a una sua felice intuizione, della quale si compiace pubblicamente, e giustamente, nel presentare nel 1955 la nuova edizione :  













Il tempo, allontanando la prospettiva dalle contingenze in cui furono scritte, ha dato risalto all’intimità tutta spirituale di queste lettere e le ha poste su quel piano di valori umani, morali ed estetici, che conferiscono all’esperienza personale, proprio quand’è più personale, cioè immediata e ispirata, il segno dell’opera duratura. [...] Aveva detto Slataper : “Scriverò un romanzo Le tre amiche : sarà il seguito del Mio Carso”. L’intenzione dell’autore s’effettuava nel momento stesso in cui egli scriveva le lettere alle amiche Anna (Gioetta), Elody, Gigetta. Meglio ancora che preparare il materiale per il suo nuovo romanzo, egli lo delineava via via in un grande abbozzo, guidato per inconscia magia della vita sulla direttrice del suo intendimento artistico. Da tale abbozzo noi possiamo intravedere quale sarebbe stata l’opera compiuta. 2  



Già nell’introduzione alla prima edizione 3 aveva dimostrato il rilievo del contenuto delle lettere, costituente «materia da romanzo», ma aveva anche accennato alla letterarietà sia riscontrabile di fatto sia in alcuni casi consciamente ricercata dal giovane Slataper. L’introduzione aveva per altro offerto l’occasione a Stuparich per un nuovo intervento. Non fu l’ultimo, in quanto ripetutamente Stuparich violò l’impegno preso con se stesso di non ritornare ancora sull’argomento. 1

  Ivi, p. 22.   S. Slataper, Alle tre amiche. Lettere, a cura e con Introduzione di G. Stuparich, Milano, Arnoldo Mondadori, 1958, p. 9. 3   Idem, Lettere, a cura e con Prefazione di G. Stuparich, Torino, Fratelli Buratti ed., 1931. 2

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Così il 28 ottobre 1955, Giani Stuparich parlò ancora de Il mio Carso, celebrando al Circolo della Cultura e delle Arti il quarantesimo anniversario della morte dell’autore : propose una lettura attualizzante dell’opera, con allusioni alla nuova redenzione di Trieste, ma anche con qualche memoria dei tempi fiorentini. Ribadiva comunque con vigore la vitalità del capolavoro slataperiano :  



Quante opere contemporanee al Mio Carso che, al tempo della loro comparsa, ebbero risonanza molto maggiore che non Il mio Carso, sono oggi quasi del tutto dimenticate o figurano solo nelle storie letterarie. Il mio Carso vive, perché nel suo fondo e nella sua sostanza ci sono l’uomo e il mistero della vita. In Slataper la ricerca dell’uomo e della vita era fondamentale, andava molto più in là della ricerca d’uno stile, d’una moda, d’una maniera. 1

Stuparich si occupò anche di altri artisti concittadini, in primis di Svevo e di Benco. Su Svevo tornò in più occasioni, come per il numero speciale di « Solaria » e per la rivista « Il Convegno ». Nel volume Giochi di fisonomie 2 sono ripresi due di tali interventi, con il titolo Italo Svevo, prima e dopo la sua morte. Si tratta sostanzialmente di un profilo umano – fatto con maestria di scrittore –, e l’opera letteraria è appena accennata. Per altro una frase in tutto è dedicata a La Buffa nel profilo di Giulio Camber Barni, raccolto nello stesso volumetto, insieme ai profili di Bolaffio, Rovan, Cecco e Mascherini. Solamente per questi ultimi due si riscontra un riferimento più ampio all’opera ; per Cecco, Stuparich arriva alle sue acqueforti sottolinenando la « segreta misura » che regola parimenti l’esistenza dell’artista e la sua arte, con precisi riferimenti ai temi e ai modi ; nel caso di Mascherini, invece, il critico conduce il lettore nell’officina dell’artista nelle varie fasi che precedono la creazione. Alla famiglia dei profili appartengono pure gli interventi su Silvio Benco, sia la commemorazione tenuta alla Radio di Trieste il 12 marzo 1949 e ripresa nel bollettino del « Circolo della Cultura e delle arti » nell’aprile seguente, sia lo scritto utilizzato più recentemente per introdurre la raccolta di scritti di Benco Trieste tra ’800 e ’900. Una città tra due secoli. 3 In entrambi i casi si tratta sostanzialemnte di ‘coccodrilli’, per dirla in gergo giornalistico ; nel secondo pezzo Stuparich accenna all’opera di Benco limitandosi a una descrizione esterna. Non molto dissimile è il taglio dato a Solitudine di Saba. Maggiormente aderente ai testi è il discorso su Virgilio Giotti : a condizionare il critico è quasi certamente in questo caso la destinazione del pezzo, in apertura degli Appunti inutili : 4 anche qui tuttavia Stuparich si addentra soltanto quanto basta a giustificare l’edizione e lascia parlare il più possibile, per citazioni, il poeta. Pure trattando di Dante e di D’Annunzio Stuparich preferisce dare una propria visione d’insieme, puntando all’uomo. Ma in questi casi, minore essendo il coinvolgimento, mancando la conoscenza personale, Stuparich giunge all’uomo attraverso l’opera. Così in Dante e noi, 5 troviamo una lettura condotta con l’intento di manifestare il proprio personale interagire con il testo dantesco, con alcune generalizzazioni che coinvolgono il pubblico :  



























Mai come in questi tempi chi fa della speculazione o della contemplazione la propria vita interiore, s’è visto tanto sperduto, ma forse mai come oggi egli ha sentito vivo e trepido il conforto della verità e della poesia. [...] Forse nessuno dei grandi spiriti ha saputo, come Dante, trasformare in luce di poesia il torbido senso della terra, in stupore d’armonia il caos della vita.

Su D’Annunzio, a parte i numerosi riferimenti formulati trattando di Slataper, Stuparich si 1   Il testo di questa conferenza è ora compreso in Trieste nella cultura italiana del Novecento. Profili e testimonianze, Trieste, Circolo della Cultura e delle Arti, 1985, p. 29. 2 3   Milano, Garzanti, 1946, pp. 219 sgg.   Bologna, Massimiliano Boni, 1989. 4   (1946-1955), Trieste, Ed. dello Zibaldone, 1959. 5   In Maestro Dante, a cura di V. Vettori, Milano, Marzorati, 1962.

giani stuparich ‘ critico ’ 73 pronunciò in modo preciso rispondendo a un’inchiesta curata da De Robertis e da Falqui per la rivista « Letteratura ». Le domande, spedite a oltre cento scrittori italiani, erano : 1. Qual è la parte che stimate più viva e più fertile della numerosissima opera dannunziana. 2. Quali sono i rapporti in cui voi, scrittore d’oggi, vi sentite di fronte a D’Annunzio. La risposta di Stuparich, apparsa nel fascicolo fuori serie Omaggio a D’Annunzio, nel marzo 1939, cumulativa, era equamente distribuita fra la meraviglia per l’opera del vate aprutino e la denuncia di manchevolezze : l’assenza di pause e di silenzi interiori, innanzi tutto, il rischio di vuotezza (« se molte di quelle forme non sian per ridursi in fantasmi »), l’artificialità. La chiusa, secondo le consuetudini di Stuparich, rimanda all’uomo :  













Si deve rimpiangere che a questo grande artista, mirabile esempio di costanza e d’abilità tecnica, e acuto interprete dei sensi e del cervello registratore dei sensi, sia mancata la fiducia del cuore.

Strettamente parlando, tale modo prevalente di fare critica di Stuparich si presta a sua volta all’accusa di retorica, specialmente se si confronta il suo uso con quello d’oggi, lontano per lo più dalle sintesi che non seguano un’analisi accuratamente attestata. Ma, parafrasando quanto Stuparich scrisse in un suo saggio di teoria della letteratura apparso in « Nuova Antologia » nel dicembre 1961 col titolo Lo scrittore e il suo tempo, possiamo dire che il suo impegno, anche nell’attività di critico (egli parlava dell’impegno dell’artista), fu questo :  





render verace testimonianza della vita, rifletterla nella sua unità d’immagine e di sentimento.

STANZE E ‘STANZE’ : LA FELICE LIBERTÀ DELL’IMMAGINAZIONE  

Anna Bellio

C

hi legge Libero Bigiaretti rimane piacevolmente attratto da una serie di qualità rintracciabili nei suoi testi, da quelli giornalistici della gioventù a quelli creativi in poesia e prosa. Vi si riconoscono i tratti della signorilità intellettuale : discrezione, cautela, coscienza. Fra le riflessioni che egli dedicò all’arte ricorre quella sui rapporti con l’ambiente sociale ; affrontò la questione con il suo consueto senso di responsabilità, ma senza pedanteria o eccessi. Bigiaretti insisteva sulla consapevolezza che lo scrittore, come il politico, lavora su quello che c’è, non su quello che potrebbe o dovrebbe esserci. Una convinzione che gli servì da alibi per schermirsi quando l’editore Bompiani lo sollecitò a comporre quello che definiva « il libro della vita » e a rivestire i panni dell’artista magister vitae ; una convinzione che diede comunque un significato, che a Bigiaretti premeva trovare, al suo operare artistico, meno ambizioso rispetto alle sollecitazioni dell’editore, così da permettergli di dimezzare le responsabilità della riuscita : « per fare un romanzo, come un matrimonio, bisogna essere in due : lo scrittore e la società. Ogni matrimonio dà i frutti che i coniugi si meritano ». 1 Bigiaretti si esprimeva in questo modo e intanto giustificava le sue scelte di scrittura e salvava, nei suoi giudizi critici, i romanzi italiani, giudicati « abbastanza pertinenti allo stato della società », 2 perché insomma : « Tutte le opere d’arte di qualsiasi dimensione e profondità […] anche dove sembrano repugnare da ogni contingenza, sono intrise di storia, ‘impressionate’ dalla luce del loro tempo ». 3 Consapevole delle conseguenze ultime di simile opinione, di continuo rimeditata, egli fu scrittore pregevole per l’impegno ed esemplare per la fede nella letteratura. Di sicuro ‘impressionato’, lo volesse o no, dal riflesso del suo tempo, cercò di salvaguardare per sé e per le sue pagine spazi d’indipendenza, convinto sempre che non è possibile la libertà assoluta ; allo scopo gli servirono la poesia e, nella narrativa, la naturale disposizione al fantastico ; 4 molto gli fu d’aiuto l’ironia, meglio ancora, l’autoironia. « Scrittore onesto qual era, riusciva a non prendersi troppo sul serio », esorcizzava in tal modo il timore « di non fare mai abbastanza come avrebbe desiderato e cedeva alla sua costituzionale malinconia ironica » confidando : « Sono sempre stato un malinconico con aperture verso l’ironia. Non si può essere malinconici e allegri. Ma si può essere malinconici e ironici ». 5 Per esemplificare il senso di tale confessione si apra una delle Stanze dell’omonimo libro, quella della scrittura letteraria detta Stanza del pronto soccorso e si focalizzi l’ironia, che appare del resto già efficace nel titolo tra descrittivo e allusivo. L’ironia bigiarettiana s’indirizza alla professione del letterato e alle « altre professioni che si dicono creative » :  

















































1



  Bigiaretti, Esercizi di dattilografia, Grottammare (Na), Stamperia dell’Arancio, 1999, p. 42. 3   Ibidem.   Ivi, pp. 15-16. 4   L. Fontanella scrive : « a Bigiaretti piace parlare e scrivere della realtà non soltanto vivendola o ricordandola, ma soprattutto inventandosela. In tal senso la realtà si carica di infinite e letteralmente ambigue valenze, ed è come se fosse rivissuta da Bigiaretti più d’una volta » (in Libero Bigiaretti. La storia, le storie, la scrittura, a cura di A. Luzi, Fossombrone, Ps, Metauro, 2000, p. 100). 5   A. Bellio, Libero lirico, in Eadem, Parole del secolo andato, Pisa, Giardini, 2004, pp. 107-108. 2







bigiaretti: stanze e ‘ stanze ’

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Quello che i critici e i professori chiamano il “cammino” dello scrittore è niente altro che un “percorso di guerra” inventato dal più sadico dei colonnelli. Lo scrittore non fa che salire e scendere, cioè arrampicarsi e precipitare ; attraversare carponi lunghi camminamenti e cunicoli, entrare in condotte soffocanti, guadare paludi e torrenti. 1  

Poiché gli incidenti del mestiere sono molti, è opportuno attrezzare una camera con tutto l’occorrente per un primo intervento, è insomma necessario adibire una camera della fantastica abitazione bigiarettiana ad ‘ambulatorio d’emergenza’. Al di là di simile trovata, che allude metaforicamente ai difficili rapporti tra autore, pubblico e critica, per cui è frequente che l’artista non sia capito, sia frainteso o non sia preso sul serio, caso, per Bigiaretti, peggiore degli altri, 2 si ha subito l’idea della funzione che lo scrittore riserva all’ironia : sdrammatizzare l’attività creativa e curarne, ridendo, i nei o le debolezze, coinvolgendo nella terapia anche l’attività critica, cioè « la Dogana dei Valori ». Libero, che prova sulla propria pelle la bruciatura di certe etichettature, i lividi di « alcuni piccoli perfidi riconoscimenti di merito », deve curarsi. Il rimedio sperimentato su di sé è subito chiaro, dopo le battute iniziali del capitolo :  











Da molti anni “faccio” lo scrittore. Il farlo non significa necessariamente che io lo sia. Siamo in tanti a fare gli scrittori e pochissimi, credo, lo sono veramente. 3

Avvertire chi legge, assai spesso, qua e là, dei limiti del proprio fare, significò, per Bigiaretti, prevedere e accettare il giudizio e salvaguardarsi dalla delusione, conoscendo già in partenza difficoltà e accidenti del percorso. In fin dei conti :  

Esser scrittore vale il crampo della mano, l’ulcera duodenale, il fegato malsano ? 4  

Ed eccolo, dunque, il poeta, consapevole di intenzioni ed esiti problematici, affidare alla rima giocosa una ben grave perplessità. Autore sorvegliato, che di continuo ragionò sul senso e sulle finalità dell’arte, Bigiaretti rifletté dunque anche sulla propria scrittura letteraria. Intendeva preservarla dalle sollecitazioni della realtà, da occasioni e tendenze che si facevano troppo pressanti o apparivano inadeguate, inseguiva l’indipendenza di cui si è detto ; egli si rifugiò, a questo scopo, oltre che nell’ironia, nell’immaginativa. La condizione prevalente della psicologia bigiarettiana appare, per confessione dello stesso scrittore, la tendenza a privilegiare il « fare immaginario » 5 rispetto al fare concreto. Lo infastidivano gli amici che si congedavano da lui incitandolo a lavorare o quelli che usavano l’interrogativo « lavori ? » come saluto d’approccio. 6 In tre epigrammi egli si rappresenta così :  













Non studiavo, sognavo, per un nulla piangevo. Mi dicevano bravo perché spesso tacevo. 7 1

  Bigiaretti, Le stanze, Milano, Bompiani, 1976, p. 62.   Si legga quanto scrive nella sua Introduzione a Bigiaretti, Epigrammi, proverbi e altre inezie (1975-1981), Urbino, Edizioni Ca’ Spinello, s.d. [ma 1982 o 1983], p. 5. 3 4   Bigiaretti, Le stanze, cit., p. 60.   Idem, Epigrammi, cit., p. 41. 5 6   Idem, Le stanze, cit., p. 8.   Ivi, pp. 77-78. 7   Idem, Epigrammi, cit., p. 21. 2

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anna bellio Ancora, e sempre, scandalosamente, rimando il fare a domani. Son certo che non cambia niente se sto con le mani in mano. 1 Ozio e contemplazione son la mia droga, il veleno. Se tento di farne a meno, subentra la disperazione. 2

E la contemplazione durante gli otia letterari lo porta a scrivere di sé :  

Come non fosse vera osservo la realtà, quella dei miei pensieri l’unica verità. 3

Limitato gli appariva il vero offerto dalla realtà, spesso fatta oggetto di satira feroce come nel racconto Malattia, o di giocosa, sebbene pungente, canzonatura come nel capitolo La stanza dell’adulto dal già menzionato romanzo autobiografico Le stanze. Dall’inclinazione al sogno, prerogativa di Bigiaretti uomo, deriva la risorsa che caratterizza l’artista : il felice esercizio della fantasia, proprio quella che tragicamente manca a Gino Rovelli, il protagonista di Malattia. Nel racconto il giovane rampante uomo d’affari s’arrovella (il gioco onomastico suggerito dal cognome Rovelli è emblematico della situazione) per riuscire a scalare in poco tempo le tappe della carriera, ma improvvisamente, senz’alcuna plausibile spiegazione, una mattina si sveglia acciaccato e stanco ; si sente diverso, come se non fosse più lui. In breve volgere di giorni Gino Rovelli invecchia accumulando anni su anni e muore proprio quando sta per diventare direttore generale : ha quarant’anni, ma in pochissimo tempo ha raggiunto i novanta. L’assurda infermità, cuore di questo racconto surreale, è allegoria di un grande vuoto nella vita di Gino, che aveva ucciso in sé ogni giovanile allegria e spensieratezza; non aveva goduto dei sogni, né gioito delle speranze della giovinezza, sacrificata al successo e al potere : « Era subito diventato uomo scaltro e agguerrito ». 4 Prossimo alla fine si rende conto di non essere mai stato giovane né di fisico, né di spirito ; all’assenza di gioventù corrisponde in lui l’incapacità di giocondo e disinteressato esercizio dell’immaginazione, al quale si abbandona invece l’ex amico di Rovelli, Piero Annovazzi, alter ego dello scrittore : « Invece l’Annovazzi, che aveva la sua stessa età, era rimasto fin troppo giovane : un ragazzo : fresco, agile, allegro » ; 5 per lui, gli anni andavano, ma senza segno, pareva farsene beffe a ragione del suo nome. L’allegoria ricompare nella Stanza dell’adulto, che Bigiaretti considera inutile perché in lui « l’adulto non c’è ». Lo scrittore non si riconosce affatto nell’uomo maturo che l’età anagrafica gli imporrebbe e dichiara di essere stato e di essere ancora ogni tanto il bambino « credulo e querulo », oppure il ragazzo « sognante e tontolone », oppure l’anziano  





































che si sporge fuori con raccapriccio, dall’alto della torre dei suoi anni, e vede solo la tundra, il deserto, il nevaio, o si volta indietro a guardare dalla parte opposta, verso il giardino fiorito con rimpianti e nostalgie, cioè con la mente piena di confusione. Forse, qualche volta, buttandosi ora sul davanti ora sul retro, gli sembra di toccare un po’ l’uno un po’ l’altro termine dei versanti opposti. 6

Si spiega dunque come accade che la scrittura creativa di Bigiaretti abbandoni il reale per l’ir1

2 3   Ivi, p. 24.   Ibidem.   Ivi, p. 27.   Idem, Abitare altrove, Milano, Bompiani, 1990, p. 82. 5 6   Ibidem.   Idem, Le stanze, cit., pp. 83-84. 4

bigiaretti: stanze e ‘ stanze ’ 77 reale o ceda a schizzi caricaturali come ben sanno lettori e critici del marchigiano. Metafora della sua svogliata, seppure perseguita e analizzata partecipazione alla realtà, sono invece gli occhiali nell’omonimo racconto. Come già evidente nel titolo, la breve prosa d’arte si costruisce intorno a un paio di occhiali. I due protagonisti, chi narra e Maria Teresa, hanno, nei riguardi delle lenti da vista, un atteggiamento differente ; in esso risiede la chiave di lettura della narrazione. Bigiaretti procede leggero, lieve di spirito e di stile ; le pagine si colorano d’ironica caricatura. Il protagonista maschio, nel quale si riconosce lo scrittore, è rappresentato meno maturo della giovane amica, alla quale teme di dispiacere con gli occhiali inforcati sul naso : « Ora io temevo che i miei occhiali la squilibrassero. Maria Teresa, no ; per lei gli occhiali erano – come mi disse – una cosa senza importanza, una cosa che ella poteva sopportare anche sul mio viso dal momento che tanta gente li portava ». 1 A squilibrarsi sarà invece il giovane miope, come anticipa il gioco ironico del contrario, affidato alla battuta « temevo che la squilibrassero ». Il mondo, alla luce piena, gli appare brutto : « le persone erano brutte, le case, gli oggetti, le piante stavano rigidamente nell’aria con i loro contorni troppo netti come figurine ritagliate nella carta. Ogni tanto mi toglievo gli occhiali perché mi pareva che la testa cominciasse a dolermi, poi subito preso dalla curiosità me li rimettevo e imparavo che […] c’erano [cose] di cui non mi ero mai accorto ». 2 Anche Maria Teresa gli appare diversa ; quale effetto ottengono, dunque, gli occhiali ? Quello di mettere in uno stato di invincibile malumore il protagonista, che sente un vero e proprio malessere fisico. Che si avverta un’iniziale difficoltà lo sanno coloro che portano gli occhiali per la prima volta o che cambiano i vecchi per inforcarne nuovi con lenti diversamente graduate, che richiedono un minimo di adattamento, ma il mal di testa descritto nella storia è simbolo del disagio psicologico provato dal ‘sanato’ di fronte alla realtà chiara, autentica quale appare attraverso le lenti :  



























Non voglio dire che tutto sia dipeso dagli occhiali, ma certamente è incominciato da quel momento preciso il mio disamore per Maria Teresa e per tante altre cose. Adesso – dopo tanti anni – il mondo non mi piace più se lo guardo senza gli occhiali : non più vago e sfumato quale appariva ai miei occhi miopi di giovane, ma insipido, scolorito e inespressivo come una vecchia fotografia. 3  

Superato comunque il giovanile piacere del vago e dello sfumato, del trasognato consentito dagli « occhi miopi di giovane », lo scrittore abbandona l’inganno della miopia e « rende onore al vero ». 4 La conclusione del racconto testimonia dunque anche la fede di Bigiaretti nella parola tesa al vero, strumento per fare chiarezza e offrire conoscenza ; tale parola dilata lo spazio propriamente creativo e fantastico del testo bigiarettiano per accogliere, accanto all’immaginazione, la documentazione, per accostare all’invenzione l’analisi critica. Ne è un esempio il brano che segue dalla Stanza dell’adulto, sopra citata, invece, a conferma dell’inventiva dello scrittore marchigiano :  











Gli adulti sono sempre correi, corresponsabili e ispiratori di tutti i delitti di una generazione, anche se poi ne incolpano i giovani e i vecchi. I giovani li fanno ammazzare tra di loro distribuendo slogans, armi e ricompense ; i vecchi li mettono a tacere nei cronicari pubblici o familiari, o nella dimenticanza, oppure li collocano su alti piedistalli da dove, poveretti, non possono scendere. Quanto alla mia generazione, in qualità di adulti ne abbiamo fatte di tutti i colori : delitti, torture, soprusi, repressioni, viltà di ogni genere. 5  



L’andirivieni di Bigiaretti dal regno della storia e della concretezza a quello della fantasia e del gioco coinvolge anche Matelica. Si legga dalla Stanza del bambino :  

1

  Idem, Discorsi all’osteria, a cura di A. Luzi, Ancona, Il lavoro editoriale, 1999, p. 192. 3   Ivi, p. 193.   Ivi, p. 195. 4 5   Ivi, Introduzione di A. Luzi, p. 18.   Idem, Le stanze, cit., p. 88. 2

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anna bellio

Ho sempre parlato, a destra e a manca, di Matelica come si parla di un meraviglioso giardino […], di un Eden, di un luogo fatato tutto feste e giuochi, molto più fantastico del Tivoli di Copenaghen ; luogo deputato di compiacimenti e tenerezze, nonché di frustrazioni, provocati dalla ritrovata immagine del bambino e ragazzetto che sono stato. Matelica è sempre stata il rifugio a prova di qualsiasi bomba anche metaforica e, al tempo stesso, la sede di quella Suprema Corte di giustizia dove si sono accumulate le attenuanti e le prove a mio favore. 1  

Ma la fortuna di Matelica nell’opera dello scrittore marchigiano sta scritta, oltre che in questo sentimentale e psicologico affiatamento con il proprio paese natale, miticamente recuperato alla memoria e alla scrittura, in una prosa giornalistica d’esordio, nella quale Bigiaretti recensisce su « Augustea » tre giovani narratori. Molto concretamente si dilunga a esaminare gli stimoli che possono venire all’ispirazione letteraria dai piccoli centri della provincia :  





La provincia è sempre, letterariamente, un mondo pieno di risorse, per chi sappia vederla con freschezza e dipingerla con intelligente discrezione. Quel tanto di umorismo che è nello sforzo provinciale di dilatar la cronaca per farne storia ; quell’affettuosa immaginazione che dà parvenza di verità alle finzioni di una vita che aspira a mostrarsi diversa da quello che è ; quel conoscersi l’uno con l’altro, della gente di paese ; quel sorvegliarsi, infine, con tanta gelosa curiosità – che è poi un riflesso della noia – ; sono temi, codesti, che per quanto sfruttati restano sempre capaci di offrire una loro poesia. 2  







Il brano, dalle movenze manzonianane nell’ampio volgere della frase esplicativa, solleva a dignità d’arte storia, cronaca, biografia ; ciò che è indispensabile è rappresentare la realtà della provincia con freschezza e dipingerla con discrezione. Il realismo di questo passo su « Augustea » rimane al fondo dello stile di Bigiaretti ; egli infatti se fantastica vicende, le più varie, rappresenta sempre con vivo e pratico senso della realtà i personaggi che le vivono. Reale e irreale si alternano dunque nell’opera di Bigiaretti, seriamente consapevole del mestiere di scrittore che si è scelto per vivere e imparare a leggere entro i due volti della verità che lo attraggono e seducono :  









iii. Ho visto Cina e America l’Urss e l’Africa nera, ma soltanto a Matelica la realtà sembra vera. iv. Forse le Marche sono solo un sogno, Roma una lunga e varia realtà. Ma di queste due patrie io ho bisogno per alternare le mie verità. 3 1

  Ivi, p. 94.   Idem, Tre narratori : Vittorio G. Rossi, Paolo Cesarini, Romano Bilenchi, « Augustea », 31 agosto 1938, p. 14. 3   Idem, Epigrammi, cit., p. 49. 2







L’onomastica del doppio* Donatella Bremer Der Mensch ist nie allein – das Selbstbewustsein macht, daß immer 2 Ichs in einer Stube sind. Jean Paul, Ideen-Gewimmel 1 Se è così, se possiamo vivere solo una piccola parte di quanto è in noi, che ne è del resto ? Pascal Mercier, Treno di notte per Lisbona 2  

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siste una tecnica teatrale creata da Jacques Lecoq 3 attraverso la quale è possibile far emergere quella parte di noi che ci affanniamo, quasi sempre inconsapevolmente, a tenere nascosta. Attraverso procedimenti quali l’osservazione della gestualità dei singoli attori e delle loro reazioni a stimoli di vario genere, è possibile che questi ultimi, sotto la guida di un pedagogo, riescano, non senza una sorta di sollievo, a liberare il loro ‘doppio’ che sino a quel momento era rimasto in ombra. 4 Una volta spogliatisi dell’involucro consueto, essi devono provvedere a ‘vestire’ il nuovo nato con grande cura per i dettagli e senza omettere alcun capo d’abbigliamento : fondamentali sono il cappello e le scarpe, ma anche l’abito – eccentrico, ma composto, rigorosamente, da indumenti d’uso quotidiano. In ultimo viene la fase più delicata : la scelta del nome. Questo, al pari dell’abbigliamento, dovrà il più possibile rispecchiare le peculiarità dell’homo novus e verrà, nella pantomima di cui questi sarà protagonista, pronunciato con insistenza, quasi fosse un vessillo. Il nome che l’attore porta nella vita reale non svolgerà ovviamente, ai fini della scelta, alcun ruolo, non entrerà cioè in alcun modo in gioco : quando i nostri genitori hanno deciso di attribuirci un nome hanno infatti al massimo sperato di favorire da parte nostra l’acquisizione di determinate qualità, ma non hanno certo potuto prevedere che tipo di persona saremmo diventati, e tantomeno intuire le caratteristiche distintive del nostro io sommerso. Nell’ambito della finzione letteraria invece ambedue i nomi in cui si specchia l’identità scissa, o raddoppiata, entrano in gioco e sono di solito strettamente interrelati. L’autore, quasi sempre onnisciente per quel che riguarda il destino delle proprie creature, e al tempo stesso dotato di un fiuto formidabile per scovare i loro lati più oscuri, quando fa emergere un doppio del protagonista nella sua storia, non si  





*  Desidero innanzitutto esprimere la mia gratitudine a Volker Kohlheim per i preziosi consigli e per l’autorevole consulenza. Ringrazio inoltre tutti coloro che si sono interessati alla mia ricerca. Fra questi in particolare i colleghi Maria Giovanna Arcamone, Luigi Sasso, Richard Brütting, Giovanna Tomassucci, Serena Mirto, Anna Beltrametti, Barbara Nugnes, Andrea Brendler ed il pianista e musicologo Jeffrey Swann. 1   J. Paul, Ideen-Gewimmel, Texte & Aufzeichnungen aus dem unveröffentlichten Nachlass, a cura di Th. Wirtz e K. Wölfel, Monaco di Baviera, Deutscher Taschenbuch Verlag, 2000, p. 76. 2   P. Mercier, Treno di notte per Lisbona, trad. it. di E. Broseghini, Milano, Mondadori, 2006 (20001), p. 27. 3   Attore e pedagogo, Lecoq (1921-1999) viene considerato il maestro della moderna pantomima. Fondatore dell’École Internationale de Théâtre di Parigi, ha concentrato la propria attenzione sul corpo, sui suoi movimenti e sulla dinamica della mimica, in modo da portare alla luce ciò che di poetico resta nascosto in ognuno di noi e costituisce allo stesso tempo la nostra natura più segreta : un’operazione che permette all’attore di sviluppare la propria personale creatività e di orientarsi nella scelta di personaggi che sono più congeniali al suo intimo. 4   Cfr. Intervista a Giovanni Fusetti, a cura di S. Guardone e C. Sodini, « Delatre », 0-bis, 2008, pp. 9-12.  





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lascia scappare l’occasione di mettere in rilievo anche sul piano onomastico l’eccezionalità di tale evento : il che significa che il nome fizionale e quello ‘fittizio’ risultano il più delle volte saldamente collegati. Il tema del doppio nella letteratura e nelle arti, in primo luogo quelle figurative, ma anche, più o meno velatamente, nella musica 1 – e, a partire dal secolo scorso, in modo addirittura molto spiccato, nella cinematografia –, 2 è presente nella cultura occidentale fin dall’età classica ed assume, in opere fra loro molto differenti per genere, epoca e cultura, le forme più varie. Il che ha indotto la critica a considerare quello del doppio un vero e proprio genere a se stante e a proporre, in particolare in questi ultimi anni, numerose classificazioni dei tipi 3 nei quali questo evento psichico ed antropologico viene trattato nell’arte della rappresentazione. Ciò che invece a mio avviso non è stato ancora a sufficienza messo in luce è l’impiego da parte degli autori di molteplici strategie onomastiche, che variano a seconda dei diversi generi di espressione, delle modalità di sdoppiamento dell’io e, ovviamente, del tipo di rapporto che un autore è solito instaurare col proprio universo onomastico. Pur non intendendo in questa sede entrare nel merito delle variazioni di carattere paradigmatico di questo tema, farò ricorso ad una griglia dei nuclei tematici più ricorrenti principalmente allo scopo di metterne in evidenza i risvolti onomastici. 4 Si tratta, tutto sommato, di una soluzione di comodo, dal momento che il motivo del doppio non si lascia facilmente costringere in schemi, già per il fatto di trarre la propria linfa vitale dalla psicologia del profondo.5 Premetto inoltre che dedicherò un’attenzione particolare alla letteratura del secondo romanticismo tedesco, e ciò non solo perché è quella che mi è più familiare, ma soprattutto  

1   Un esempio eclatante è rappresentato dal capolavoro di Robert Schumann Kreisleriana (1838), ispirato al personaggio letterario hoffmanniano Joseph Kreisler. Costui è destinato a sdoppiarsi, per volere del compositore stesso, nelle due opposte personalità di Eusebius e Florestan : mite il primo (il cui nome ha il significato di ‘pio’), violento e quasi selvaggio il secondo (il cui nome, reso celebre dal protagonista dell’opera di Beethoven Fidelio o l’amor coniugale, rimanda alla forma onomastica di origine spagnola derivata dal termine floresta ‘foresta’). Schumann ingaggia una battaglia tra le due mani, che si accavallano e si contrastano sulla tastiera in modo del tutto scoordinato. L’esecuzione è resa per il pianista ancor più ardua perché la destra, che raffigura il mite e sensibile Eusebius, ha un tocco molto più leggero di quello della sinistra, cui corrisponde Florestan, la parte passionale ed impulsiva di una personalità che oggi definiremmo bipolare – a raffigurare la lotta dell’artista stesso che cerca di trovare un’integrazione fra i due opposti poli del proprio io, destinato a cadere nell’abisso della follia. 2   Quello del doppio è un genere assai coltivato nel cinema, già a partire da quello muto ed in particolar modo nel filone espressionista tedesco. Sul doppio nella letteratura e nel cinema si veda la pregevolissima e, si può ben dire, monumentale opera di G. Bär, Das Motiv des Doppelgängers als Spaltungsphantasie in der Literatur und im deutschen Stummfilm, Amsterdam-New York, Rodopi, 2005, pp. 456-576, nella quale questo tema viene affrontato anche sotto il profilo filosofico, psicologico, psicanalitico ed antropologico. Molto ricco è anche il volume Identità, alterità, doppio nella letteratura moderna : atti di seminario, a cura di A. Dolfi, Roma, Bulzoni, 2001. 3   Cfr. S. M. Moraldo, Wandlungen des Doppelgängers. Shakespeare, E.T.A. Hoffmann, Pirandello. Von der Zwillingskomödie (“The Comedy of Errors”) zur Identitätsgefährdung (“Prinzessin Brambilla”, “Il fu Mattia Pascal”), Francoforte sul Meno, Lang, 1996. Cfr. anche Idem, Per una tipologia del doppio, in C. Bragaglia, G. E. Bussi, C. Giacobazzi, G. Imposti (a cura di), Lo specchio dei mondi impossibili. Il fantastico nella letteratura e nel cinema, Atti del Convegno (Bologna, 18-19 marzo 1999), Firenze, Aletheia, 2001, pp. 49-57. In questi suoi saggi Moraldo intende mettere in luce la complessità dell’immagine del Doppelgänger sia sul piano sincronico sia su quello diacronico e propone, ripercorrendo la storia letteraria del tema, una tripartizione che renda conto del passaggio dallo scambio di persona che si verifica, spesso con risvolti comici, in seguito ad una perfetta somiglianza fisica (come avviene nel caso dei gemelli), ad un rapporto non più simmetrico, bensì angosciosamente conflittuale, tra le due identità ‘dimezzate’, fino al più tragico quadro della irresolvibilità di una polarizzazione all’interno di un medesimo individuo. Per una suddivsione ed analisi del doppio nelle due dimensioni collettiva ed indivuale si veda anche A. Hildenbrock, Das andere Ich. Künstlicher Mensch und Doppelgänger in der deutsch- und englischsprachigen Literatur, Tubinga, Stauffenburg, 1986. Per una trattazione del doppio nel tardo romanticismo tedesco si veda anche L. Zagari, Sistemi dell’immaginario nell’età di Goethe, Pisa, ets, 2004. 4   La letteratura critica sul doppio è sterminata. Basti consultare la bibliografia contenuta nella sopra menzionata opera di Bär : i titoli in essa contenuti sono quasi trecento. 5   Temi quali quello dello specchio, del travestimento o dell’ombra, ma anche molti altri, costituiscono in fondo motivi trasversali. Per tale ragione l’attribuzione di determinate figurazioni del doppio all’una o all’altra categoria in questa sede potrà qualche volta risultare riduttiva o forzata.  





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perché è proprio con essa che gli intrecci che hanno come protagonista un duplice Io accentuano in modo considerevole quel carattere ‘perturbante’ 1 che sarà proprio di tutta la letteratura del doppio successiva sino ai nostri giorni. 1. La prima categoria di doppio che qui analizzeremo quella dei gemelli. In effetti, il nucleo originario dell’‘identità scambiata’ è quello alla cui base sta il capriccio della natura che ha prodotto due individui del tutto simili (in lat. il termine in-dividuum negherebbe già di per se stesso tale eventualità), per cui una perfetta rassomiglianza o affinità tra due esseri costituisce senz’altro il punto di partenza di ogni ‘variazione sul tema’. Tra le testimonianze letterarie antiche non si può non ricordare i Menaechmi di Plauto (metà del iii secolo a.C.), protagonisti di quella commedia degli equivoci che si svilupperà nella tradizione shakespeariana e spagnola, su su sino ai più recenti racconti di carattere fantastico, quali il romanzo di Ken Follett, The Third Twin Il terzo gemello (1996) o il racconto Impostor di Philip K. Dick (1953) : tutte opere nelle quali viene espresso, in chiave per lo più comico-grottesca, ma talvolta anche estremamente tragica, il turbamento psichico di chi si trova di fronte un individuo del tutto simile a lui, come pure lo smarrimento e la confusione che ciò può generare in coloro che entrano in contatto con tale doppia identità. Ciò avviene soprattutto quando si tratta di coppie di fratelli ‘nemici’, che sfruttano a loro vantaggio ed all’insaputa dell’altro la somiglianza fisica. I nomi adottati per i gemelli, per lo più destinati a impossessarsi ciascuno nuovamente del proprio io una volta avvenuta l’agnizione, sono quasi sempre molto simili, se non identici. In Plauto, p. es., la serie degli equivoci si infittisce proprio a motivo della specularità onomastica dei due protagonisti Menaechmus di Siracusa 2 e Menaechmus di Epidauro. Similmente, nella Comedy of Errors, Commedia degli errori (1623) di Shakespeare, i gemelli che formano le due coppie protagoniste portano lo stesso nome e si distinguono solo per la diversa provenienza : il primo binomio è composto da Antipholus di Efesto e Antipholus di Siracusa, il secondo da Dromius di Efesto e Dromius di Siracusa. Lo stesso dicasi ad esempio per Li duo Lelii (1622) dell’opera del drammaturgo e attore Giovan Battista Andreini, per Volodja grande e Volodja piccolo (1887-1889) del racconto di Cechov, per Balin e Balan, gemelli dissimili della raccolta di poesie Idylls of the King, Gli idilli del re (1885) di Alfred Tennyson, interamente basate su Re Artù e sul ciclo arturiano. Otto e Ottur di Der Zauberring (L’anello magico, 1811-1813) di Friedrich de la Motte Fouqué sono invece fratellastri. Nella novella Die Judenbuche (Il faggio degli Ebrei, 1842) di Annette von Droste-Hülshoff il fratellastro del protagonista Johannes Niemand, 3 Giovanni Nessuno, in quanto figlio illegittimo, è socialmente una nullità, come recita il suo nome. Un’analoga dinamica si trova nel romanzo Flegeljahre (Anni della pubertà, 1804-1805) di Jean Paul, autore che, come ancora avremo modo di vedere, è assai fantasioso e prolifico sul piano dell’onomastica. 4 La coppia è formata da due gemelli dotati di temperamento diame 



1   Freud aveva analizzato alcune opere di E. T. A. Hoffmann e si era interessato da vicino alla problematica del Doppelgänger in un suo saggio che si intitola Das Unheimliche (in Gesammelte Werke, xii, Francoforte sul Meno, Fischer, 19866, pp. 229-268). Freud spiega tale fenomeno attraverso il bisogno da parte dell’individuo di contenere, e di ascrivere ad un proprio ‘sosia interiore’, gli impulsi inconsci che, seppure repressi, continuano ad agire in lui. 2   In realtà il primo dei gemelli, Menaechmus, si era smarrito durante un viaggio e all’altro, di nome Sosicles, era stato imposto il nome del fratello che si credeva morto. Sarà proprio in seguito all’omonimia e alla perfetta somiglianza tra i due fratelli che si innescherà tutta la serie degli equivoci. 3   Sul nome ‘Nessuno’ cfr. H. Fricke, “Niemand wird lesen, was ich schreibe”. Über den Niemand in der Literatur, Gottinga, Wallenstein, 1998. 4   Cfr. V. Kohlheim, Der Eigenname bei Jean Paul : seine Funktion, seine Problematik, « Beiträge zur Namenforschung », 41, 4, 2006, pp. 439-466. Nel suo saggio Kohlheim mostra, attraverso l’esame di quattro opere di Jean Paul, come  





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tralmente opposto. I loro nomi, Walt e Vult, non solo si assomigliano sul piano fonico, ma possiedono addirittura lo stesso significato : Walt costituisce infatti l’abbreviazione dell’appellativo, molto in voga all’epoca del Pietismo, Gottwalt ‘voglia Dio’, ‘sia fatta la volontà di Dio’, e Vult altro non rappresenta che la parola finale della locuzione quod deus vult, ‘ciò che Dio vuole’. 1 Il rapporto dialettico e il successivo accordo raggiunto da parte di queste due opposte personalità porterà i fratelli non solo a desiderare le stesse cose, ma anche ad amare la stessa donna. Quest’ultima, unita ai protagonisti in una sorta di triangolo filadelfico, porta a sua volta un nome che ben si lega, per la presenza dell’allitterazione, a quello dei due amici, Wina. 2 Per quel che riguarda il significato dell’antroponimo, Jean Paul stesso scrive nei Flegeljahre : « Wina bedeutet Siegerin« (« Wina significa vincitrce »). Il nome deriva in realtà dall’alto tedesco antico wini e compare in composti bitematici quali Winfried, Winrich e Winhild nel significato di ‘amico’/’amica’. Quando la duplicità viene a mancare per la scomparsa di uno dei due gemelli, vi è chi, come il protagonista di Le menzogne della notte (1988) di Gesualdo Bufalino, avvertendo il dimezzamento del proprio io, assume il « finto nome di Didimo, che vuol dire grecamente doppio e gemello », 3 così da perpetuare in sé la memoria dell’altro. 4 Nella novella breve One of Twins (Uno dei gemelli, 1893) di Ambrose Bierce invece uno dei due gemelli John ed Henry, talmente somiglianti da venir ambedue soprannominati « Jehnry », soffrirà per tutta la vita di gravi problemi di identità.  



















2. Più complesso rispetto al precedente è il tema del doppio genericamente detto, quello cioè in cui vi sono due incarnazioni alternative di un medesimo individuo. Si pensi al poema risalente ai primi decenni del Duecento incentrato sulla leggenda di Ami et Amile, assai popolare in epoca tardomedievale a giudicare dai numerosissimi testimoni pervenutici, in latino e nelle varie lingue volgari. I nomi dei due protagonisti contengono da un lato l’idea dell’amicizia, che li legherà fino alla morte, dall’altro quello di una somiglianza perfetta – sono stati concepiti da genitori diversi nello stesso momento e nascono nello stesso giorno, proprio come fossero gemelli. La storia del loro indissolubile legame, che inizia a partire dal quindicesimo anno d’età, li costringerà a superare prove eroiche e ad affrontare indicibili sofferenze, per concludersi con la simultanea, serena morte di entrambi. 5 Anche i due amanti protagonisti del Calloandro fedele (1653) di Giovanni Ambrosio Marini, Calloandro e Leonilda, oltre ad assomigliarsi in modo sorprendente, sono nati nello stesso istante. Nel corso dell’intricata vicenda assumono varie identità e diversi nomi, fra i quali quelli di Cavaliere della Luna e questo autore disponga di uno spettro onomastico ricchissimo, frutto di riflessione e di ricerca appassionata – il che è dimostrato non soltanto dalle annotazioni sparse ovunque nelle sue opere, ma anche dalle liste di antroponimi e toponimi da lui stesso redatte (cfr. su questo tema anche E. Berend, Die Namengebung bei Jean Paul, « Publications of the Modern Language Association of America », 57, 1942, pp. 820-850). 1   Cfr. anche O. Sauerbeck, Beziehung zwischen Eigennamen in der Literatur, « Beiträge zur Namenforschung », n.s., 31, 1966, pp. 407-424 : su Walt e Wult p. 421. Forse può non essere un caso che il loro cognome, Harnisch, derivi dal nome di mestiere di coloro che, in epoca medievale, forgiavano le armature (cfr. R. Kohlheim, V. Kohlheim, Duden Familiennamen. Herkunft und Bedeutung von 20 000 Nachnamen, Mannheim, ecc., Dudenverlag, 2005, p. 308). 2   Jean Paul ha trovato il significato di questo nome nell’opera di T. D. Wiarda, Ueber deutsche Vornamen und Geschlechtsnamen, Berlino-Stettino, Friedrich Nicolai, 1800 ; cfr. V. Kohlheim, Der Eigenname bei Jean Paul, pp. 439 sg. 3   G. Bufalino, Le menzogne della notte, Milano, Bompiani, 1988, p. 85. 4   Questa prassi non deve meravigliare se si consideri che, fino a non molto tempo fa, quando la percentuale della mortalità infantile era ancora relativamente alta, si era soliti dare ai figli il nome del bambino scomparso allo scopo di perpetuarne la memoria. 5   Cfr. D. Boutet, “Ami et Amile” et le renouvellement de l’écriture épique vers 1200, in J. Dufournet (a cura di), Amie et Amile. Une chanson de geste, Parigi-Ginevra, Honoré Champion-Slatkine, 1987, pp. 79-92.  











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Cavaliere di Cupido. Similmente, nelle Storie babilonesi di Giamblíco (secolo ii d.C.) si narra di una prolungata separazione degli amanti destinata a concludersi con un lieto fine : in uno dei frammenti pervenutici il protagonista porta il nome di un fiume, Rodane, così come i suoi due doppi, che si chiamano Tigri ed Eufrate. 1 Non potranno mai conoscersi invece le protagoniste della pellicola di Krzysztof Kieslowski La double vie de Véronique (La doppia vita di Veronica, 1991). L’unica differenza fra le due giovani donne, simili come gocce d’acqua, è rappresentata dal fatto che hanno diverse nazionalità e portano quindi due nomi che differiscono tra loro unicamente per il fatto di appartenere a due diversi idiomi : Weronika si chiama la polacca e Véronique la francese. Il burattinaio, sorta di deus ex machina che, inconsapevole, fa da tramite tra le due Veroniche, così esemplifica il mistero della doppia vita delle protagoniste nella favola per bambini da lui stesso scritta : « Il 23 novembre 1966 è stato il giorno più importante delle loro vite. È in quel giorno, alle tre del mattino, che sono nate tutte e due, in due città diverse […]. Tutte e due avevano i capelli neri, occhi verde scuro. Quando tutte e due avevano due anni e sapevano già camminare, una si bruciò toccando il forno. Qualche giorno dopo anche l’altra avvicinò il dito al forno, ma all’ultimo momento lo ritirò : pertanto, non poteva sapere che si sarebbe bruciata ». È questa la parabola che si sviluppa nell’arco della vicenda e consente a Véronique di scampare alla morte grazie all’avvertimento-presentimento che le arriva dall’altra. La scelta onomastica operata dal grande regista polacco e dal suo sceneggiatore Krzysztof Piesiewicz 2 è tutt’altro che casuale, dal momento che è sul velo della Veronica che è rimasta impressa l’immagine del volto di Cristo – il suo barbaglio umano, la copia imperfetta della sua divinità. 3 In Przypadek (Il caso, 1982) Kieslowski racconta le tre possibili storie di un giovane polacco che seguono percorsi differenti a seconda che riesca a prendere o meno un treno alla stazione. Anche in questo caso il tema conduttore è quello della ricerca delle trame nascoste che governano la vita degli uomini e ne determinano i destini. Il nome del protagonista « uno e trino », Witek, rappresenta un ipocoristico del diffusissimo antroponimo polacco di origine lituana Witold/Vytautas. 4 È tuttavia molto verosimile che il regista, un intellettuale laico, ma intriso di cultura cristiana, abbia tenuto conto in questa sua scelta onomastica anche dell’antroponimo di origine latina e di ambito religioso Vitus, che deriva a sua volta dal sostantivo vita. Anche in Rouge (Rosso, 1994), l’ultimo film di Kieslowski, vengono raccontate le vite parallele di due coppie. Ed in Blanc (Bianco, 1993) il protagonista, che, dopo aver simulato la propria morte, cambierà per ben due volte identità, si chiama Karol Karol. 5  















1   Nomi di uccelli, Colombe e Paloma, sono quelli delle due sorelle, una l’opposto dell’altra e permanentemente in conflitto, nel raffinato romanzo di M. Barbery, L’élégance du hérisson (L’eleganza del riccio) (2006). 2   Il motivo del doppio sembra far parte del destino stesso del regista. Scrive E. Affinati in Krzysztof Kieslovski. Vivere con attenzione, in La doppia vita di Krzysztof Kieslovski, a cura di B. Fornara, Milano, Feltrinelli, 2007, pp. 7-10 : 9 : « L’incontro fatale di Kieslowski fu quello con il suo omonimo Krzysztof Piesiewicz, l’amico avvocato che, a partire da Senza fine (1984), passando per lo snodo fondamentale del Decalogo (1989), sceneggiò tutti i suoi film, compresa La doppia vita di Veronica ». Il tema del doppio quale struttura portante di molte delle opere di Kieslowski non è stato a mio avviso ancora sufficientemente messo in luce dalla critica. Un esempio macroscopico è costituito dall’invenzione da parte del regista polacco di un personaggio mai esistito : un compositore originario dei Paesi Bassi, vissuto nel xviii secolo. Non solo se ne parla nel corso della Double vie de Véronique, ma il suo nome, van den Budenmayer, compare anche nei titoli di coda di questa e di altre due pellicole, con indicazioni precise circa i pezzi che avrebbe composto, completi dei relativi numeri di repertorio. Si tratta in questo caso di un alter ego del compositore Zbigniew Preisner, autore della maggior parte delle colonne sonore di Kieslowski, che, come si è saputo in un secondo tempo, volentieri si è prestato al ‘gioco’. 3   Cfr. E. Burgio, Veronica e il volto di Cristo. Testi e immagini di una “legenda” tardomedievale, in M. G. Saibene, M.. Buzzoni (a cura di), Testo e Immagine nel Medioevo germanico, Milano, ieu Cisalpino, 2001, pp. 65-102. 4   Cfr. R. e V. Kohlheim, Duden. Das große Vornamenlexikon, 3ª ed. completamente rinnovata, Mannheim-LipsiaVienna-Zurigo, Dudenverlag, 2007, s.v. Witold e Vitus. 5   Una vicenda simile – una morte simulata con relativo cambiamento d’identità – è anche quella descritta da Pirandello in Il fu Mattia Pascal (1904). Sui veri e propri rebus onomastici rappresentati dai due nomi del protagonista,  









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L’idea delle due personalità dimidiate, perfettamente simili l’una all’altra e desiderose ognuna di ritrovare il proprio completamento per tornare a formare un unico essere – idea risalente, ancor prima che a Platone, a Zaratustra 1 – fa da sfondo a molte vicende i cui protagonisti sono preda di un’attrazione fatale che potrà portarli a coronare il loro sogno d’amore oppure a soccombere sotto il peso del mancato ricongiungimento. Nella commedia di Georg Büchner, Leonce und Lena, Leonzio e Lena (1836), ambedue i principi fuggiaschi – lei dal regno di Popo, lui dal regno di Pipi – vogliono sottrarsi ad un matrimonio programmato per motivi dinastici. Il caso li farà incontrare e permetterà loro, non dopo averli fatti passare attraverso innumerevoli peripezie, di ricongiungersi. I nomi, allitteranti, così come sono tra loro speculari i nomi dei due regni da cui provengono, rafforzano ed anticipano la felice conclusione della vicenda.2 Altro esempio di un tenace, sotterraneo e sottile legame, capace di attrarre tra loro gli amanti trascendendo le loro stesse volontà, è quello descritto da Goethe nelle Wahlverwandtschaften, Le affinità elettive (1809), un romanzo la cui chiave di lettura è costituita essenzialmente dai nomi dei quattro protagonisti : Ottilie, Charlotte, 3 Otto e ancora Otto (Eduard è infatti il nome che uno dei quattro amici, Otto, assume per evitare imbarazzanti, inevitabili equivoci). Il quinto nome è quello del bambino che nascerà : verrà chiamato anch’esso Otto. E ancora, la sequenza secondo la quale i personaggi entrano in scena – prima Eduard, poi Charlotte e Otto – comporrà la parola Echo, ‘eco’, il fenomeno acustico in cui i suoni vengono raddoppiati. Ma Eco è anche il nome della ninfa che nelle Metamorfosi ovidiane si innamorerà di Narciso, la figura mitica cui ogni riflessione sul doppio non può non fare riferimento. Come se ciò non fosse sufficiente, ad ogni nome viene fatta corrispondere dagli stessi protagonisti la lettera relativa ad un simbolo chimico, a simboleggiare l’affinità di tipo quasi alchemico che li lega. 4 All’origine di tali antroponimi è infine possibile ritrovare una radice comune (anche se nel caso di Charlotte si tratterebbe di una paretimologia) : l’alto tedesco antico ōt-, che sta alla base della sfera semantica che designa, appunto, il ‘possesso’. 5  





3. Può anche verificarsi l’eventualità che lo sdoppiamento completo avvenga solo per un determinato lasso di tempo, provocato in genere da una forza esterna quale quella dovuta all’intervento di una divinità. Si verifica cioè la presenza di due entità omomorfe che sottendono Mattia Pascal appunto e Adriano Meis, si possono consultare le note che corredano l’edizione del romanzo, pubblicato a Firenze presso Giunti nel 1994 e curato da Novella Gozich. Si veda anche l’introduzione di Gaspare Giudice all’edizione del Fu Mattia Pascal uscita nel 1994 a Napoli presso Loffredo. 1   Vorrei a questo proposito ringraziare Leo Maria Giani, che mi ha permesso di discutere con lui questo argomento. 2   Winnie e Willie sono i nomi della coppia di coniugi ‘antagonisti’ di Happy Days, Giorni felici (1961) di Samuel Beckett: un binomio tenuto insieme da un paranoico miscuglio di repulsione e attaccamento. 3   Henry James, nel suo ultimo romanzo The Golden Bowl (La coppa d’oro, 1904), incentrato su due coppie legate tra loro attraverso un doppio nodo, chiamerà il personaggio di maggior rilievo Charlotte. 4   Cfr. K. Kunze, dtv-Atlas. Namenkunde, Monaco di Baviera, Deutscher Taschenbuch Verlag, 20034, pp. 196-197 riporta, riprendendolo da H. Schlaffer, Namen und Buchstaben in Goethes “Wahlverwandtschaften”, « Jahrbuch der Jean Paul Gesellschaft », vii, 1972, pp. 84-102, un vero e proprio schema, in cui si aggiungono altri particolari alla costellazione onomastica, del tipo : « Charlotte ist Eduards “A und O”, aber der Hauptmann wird gegen Schluss immer öfters Maior genannt » (« Charlotte è “l’Alfa e l’Omega” di Eduard, ma il Capitano verso la fine viene sempre più di frequente chiamato Maggiore »). Goethe, com’è noto, voleva dimostrare attraverso questo romanzo come sussistessero precise analogie fra i fenomeni della natura e quelli del comportamento umano. 5   Cfr. anche W. Benjamin, Goethes Wahlverwandtschaften, in R. Tiedemann, H. Schweppenhäuser (a cura di), Walter Benjamin. Gesammelte Schriften, i, 1, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1991, pp. 123-202 ; Schlaffer, Namen und Buchstaben, cit. ; R. Berardi, Per una definizione della funzione del nome proprio nel testo letterario : il modello tedesco, in M. G. Arcamone, B. Porcelli, D. De Camilli, D. Bremer (a cura di), Onomastica e Letteratura. iii Incontro di studio di Onomastica e Letteratura, Atti, Viareggio-Lucca, Baroni, 1998, pp. 23-34. Si veda infine V. Kohlheim, Fragwürdige Benennung, « Namenkundliche Informationen », 93-94, in c.d.s.  























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una medesima identità. È questo il caso della leggenda delle due Elene narrata nell’Elena di Euripide (412 a.C.) : 2 oltre a quella che si trova con Paride a Troia, e che è in realtà un simulacro voluto dalla dea Era, vi sarebbe un’altra Elena, la vera, moglie fedele ed incolpevole, portata dal dio Ermes, perché fosse al sicuro, in Egitto. 3 Anche in questo come in altri casi di doppia identità, fra i quali si può annoverare la vicenda tragico-comica dell’Anfitrione di Plauto, i nomi delle due individualità, quella ‘reale’ e quella fittizia, generalmente coincidono. Come è noto, Giove si trasforma in Anfitrione, impegnato in guerra, per sedurne la moglie, e Mercurio, trasformatosi nel servo di quest’ultimo, Sosia, arriva ad ingannare lo stesso servitore che, sconvolto da una così perfetta somiglianza, inizia a dubitare perfino della propria identità. Forse è opportuno ricordare che i due nomi propri, Anfitrione e Sosia, sono diventati dei nomi comuni grazie anche alle numerose riprese della materia operate in primo luogo da Molière (1668), ma anche da John Dryden (Amphitryon, 1690) e da Heinrich von Kleist (Amphitryon. Ein Lustspiel nach Molière, 1807) 4 – sosia col significato di persona che presenta tratti somiglianti a quelli di un altro, anfitrione con allusione ad un lieto ed accogliente padrone di casa. Anfitrione perdonerà infatti il ‘tradimento’ della moglie dopo che Giove stesso gli avrà rivelato i retroscena ed accetterà di essere padre dei due figli che nasceranno : uno generato dal dio, l’altro da lui stesso. Nel nome del protagonista vi è peraltro, già in nuce, l’allusione alla sua sorte : amfiv prende infatti, nei composti, il significato di ‘da ambo i lati’, mentre il verbo truvw significa ‘vessare’, ‘molestare’. 5 Un’altra possibilità è quella della creazione di un doppio da parte dei protagonisti stessi, in una visione ideale del proprio Io, come avviene nello scherzo di E. T. A. Hoffmann, Prinzessin Brambilla. Ein Capriccio nach J. Callot (La principessa Brambilla. Un capriccio alla maniera di J. Callot, 1820-1821). I due innamorati, che portano ognuno il nome di un fiore, si identificano con un doppio immaginario, in una dimensione che oscilla tra quella della fiaba e quella della realtà, in un gioco di rispecchiamenti che si nutre della baldoria carnevalesca, alla ricerca di una fuga dalla quotidianità : lo squattrinato Giglio si convince di essere un principe assiro, mentre il suo pendant, la servetta Giacinta, crede di essere l’esotica Principessa Brambilla. Un caso molto particolare di sdoppiamento è quello che troviamo nel romanzo di Joseph Conrad The Secret Sharer (Il compagno segreto, 1909). Il capitano di una nave al suo primo incarico trova a bordo un clandestino che si chiama Leggatt – un nome che suona come legate ‘inviato’ o ‘emissario’ –, in cui ravvisa sin dal primo momento il proprio doppio e da cui riesce a trarre la fiducia in se stesso. L’identificazione del protagonista nel sosia è tale che il suo stesso nome resta paradossalmente sconosciuto. 6 Tale espediente onomastico è funzio1









1   Forse non è un caso che Helen sia anche il nome della protagonista del film Sliding doors (1999) di P. Howitt, un remake del succitato film di Kieslowski Il caso, nel quale una giovane donna può vivere una vita raddoppiata e dagli esiti opposti a seconda del chiudersi o meno delle porte della metropolitana. 2   Vedi anche Gorgia, Encomio di Elena, a cura di G. Paduano, Napoli, Liguori, 2004. 3   Come per le due Veroniche, così le due Elene non giungono mai ad un contatto diretto. E tuttavia quella reale è a conoscenza della condotta riprovevole e delle terribili disgrazie provocate dal suo doppio, il che la fa sentire nel profondo coinvolta nelle tristi vicende della guerra di Troia e la costringe, paradossalmente, a difendersi da colpe che non ha. 4   Rielaborazioni più recenti dell’Amphitryon sono quelle di Jean Giraudoux (Amphitryon 38, 1929), di Georg Kaiser (Zweimal Amphitryon, 1948) e di Peter Hacks (Amphitryon, 1968). 5   Per l’interpretazione del nome di Anfitrione, considerato come una figura che si colloca a metà strada tra l’umano e il divino, si veda H. Usener, Göttliche Synonime, « Rheinisches Museum », 53, 1898, pp. 329-379 ; poi in Idem, Kleine Schriften, iv, Lipsia-Berlino, 1913, pp. 259-306: in part. 263-267. Per quel che riguarda il secondo tema del composto nominale, che non aggiungerebbe in realtà molto relativamente alla caratterizzazione del personaggio, si può ricordare quanto afferma W. Burkert nella sua opera La religione greca di epoca arcaica e classica, trad. it. (seconda ed. con aggiunte dell’autore), Milano, Jaca Book, 2003, p. 353 : secondo questo studioso una peculiarità dei teonimi greci è costituita dal fatto che essi devono restare, almeno in parte, enigmatici – il che permette di attribuire ad una stessa divinità diverse caratteristiche e svariati epiteti. 6   In Henry James avviene lo stesso fenomeno, ma di segno opposto : è il doppio a restare anonimo. Cfr. la novella breve The Jolly Corner, L’angolo prediletto (1908).  









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nale ad accentuare l’« effetto d’identità » e ben riflette, come scrive Massimo Fusillo nella sua acuta analisi L’altro e se stesso. Teoria e storia del doppio, « l’antico topos dell’ineffabilità così centrale in tutta l’opera conradiana, persa nella ricerca di far vedere l’invisibile e l’indicibile ». 1 La stessa cabina in cui i due segretamente alloggiano insieme ha la forma di una ‘L’, lettera che allude alla consonante iniziale di Leggatt, nome che contiene al proprio interno, con la sua opposizione fra le geminate gg e tt, l’idea di « opposizione fra la coppia di doppi » – i quali dividono oltretutto, come recita il titolo, il segreto dell’omicidio compiuto da uno dei due. 2 La grafia del nome Leggatt inoltre si distingue per il bizzarro susseguirsi, in un bisillabo, di due gruppi di consonanti geminate. Anche le due figure principali dello Zauberberg (La montagna incantata, 1924) di Thomas Mann, i cugini Hans Castorp e Joachim Ziemßen, possono venir lette come un doppio. Individui dotati di carattere opposto (estroverso l’uno, estremamente riservato l’altro), fra i quali esiste tuttavia, per un determinato periodo dell’esistenza, uno stretto rapporto destinato a sfociare in un medesimo destino : il primo perderà la vita tornando al piano e partecipando alla guerra, il secondo, pur essendo militare di carriera, troverà la morte sul monte a causa dell’aggravarsi della malattia. Ed i nomi suggeriscono tutto ciò. Castor è il nome di una delle due grandi montagne gemelle del massiccio del Monte Rosa, alle quali a mio avviso Mann alluderebbe attraverso la ripresa, in coda al primo oronimo, della consonante iniziale del secondo, Pollux. 3 Al tempo stesso le due divinità gemelle, dette anche Dioscuri, si ricollegano, sia nella mitologia greca sia in quella latina, al mondo della guerra. Un’ulteriore conferma che i due personaggi vengano posti da Mann, sempre attentissimo ai nomi dei propri personaggi, all’interno di un gioco di specchi si trova anche nel fatto che sia Johannes che Joachim contengono in comune, nella prima parte del composto antroponimico, l’elemento Yō (< Yahō < Yahweh ‘Iavè’, ‘Dio’). Un ultimo, sottile, ma significativo trait d’union tra i due personaggi è rappresentato, a livello semantico, dal fatto che il cognome Ziemßen, 4 risalendo all’antroponimo di origine ebraica Simeon, possiede, fra i significati che gli vengono attribuiti alla luce delle diverse tradizioni, quello di un Dio che ha ascoltato le preghiere dei genitori di concedere loro un figlio, significato che rispecchia pienamente quello del nome Iohannes : l’antroponimo fa infatti riferimento a un Dio misericordioso che ha concesso un figlio molto atteso.  















4. Vi è poi il tema del doppio inteso come duplicazione permanente e completa del protagonista, un evento inquietante che costringe quest’ultimo a misurarsi in prima persona con la propria copia vivente, il più delle volte odiosa, ingombrante e ostile. Il che fa sì che i destini dei ‘due doppi’ diventino con l’andare del tempo sempre più intrecciati. Questo tipo di doppio è molto frequente nella letteratura tedesca a partire dai romantici. Sono infatti molti i racconti, i romanzi, ma anche le favole in cui si fa riferimento al sorgere di una nuova entità che, dotata di un corpo del tutto o quasi simile a quello del protagonista, vive in pratica 1

  M. Fusillo, L’altro e se stesso. Teoria e storia del doppio, Firenze, La Nuova Italia, 1998, p. 237.   Ivi, p. 239. 3   Tale ipotesi è confermata dal testo stesso. Nella prima parte del romanzo, quinto capitolo, nella sezione intitolata «Mein Gott, ich sehe», il medico del sanatorio accoglie i due cugini chiamandoli Castore e Polluce. Sull’argomento si veda inoltre M. Maar, Geister und Kunst. Neuigkeiten aus dem “Zauberberg”, Francoforte sul Meno, Fischer, 1997, p. 249, e G. Schwarberg, Es war einmal ein Zauberberg. Eine Reportage aus der Welt des deutschen Zauberers, Amburgo, Rasch und Rohring, 1996, pp. 51-54. 4   R. Zoder, Familiennamen in Ostfalen, ii, Hildesheim, Olms, 1968, p. 888 : « Ziems/Ziemsen < Siems/Siemsen » e p. 610 : « Siemsen < Siem + sen (Sohn). Siem < Simon (aber auch < einem gleichlautenden Ortsnamen) ». Cfr. Anche P. Hanks, Dictionary of American Family Names, 3 voll., Oxford, Oxford University Press, 2003 : iii, p. 664, s.v. Ziems : « German : from a variant pet form of the personal name Simon ». 2























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al confine tra due mondi : tra giorno e notte, tra sogno e realtà, tra pazzia e razionalità. È questo il caso di Medardus, il protagonista degli Elixiere des Teufels (Gli elisir del diavolo, 18151816) di E. T. A. Hoffmann. Un personaggio, apparsogli in sogno, entra al mattino nella sua vita, per rimanervi, nelle vesti di un frate cappuccino. La scelta del nome del protagonista potrebbe risalire a mio avviso alla figura di Medardus, vescovo di Noyon (vi secolo), di cui si racconta che avesse un gemello, Godard, vescovo di Rouen. I due fratelli sarebbero morti lo stesso giorno – tant’è vero che i due santi vengono commemorati nella stessa data. 1 Anche nel caso di Viktorin, sosia di Medardus e suo fratellastro, Hoffmann potrebbe essersi riferito ad un personaggio storico, una figura che fu al centro di vicende sanguinose assai simili a quelle narrate nell’opera hoffmanniana : si tratterebbe dell’omonimo imperatore delle Gallie (iii secolo), assassinato da uno dei propri ufficiali di cui aveva sedotto la moglie. Secondo quanto riportato nella non sempre affidabile Historia Augusta, il figlio, che si chiamava anche lui Viktorin, venne eletto imperatore il giorno stesso dell’uccisione del padre, ma fu a sua volta ucciso per mano delle truppe. Quasi certamente ispirata al romanzo di Hoffmann è in epoca recente la figura di Medardo di Terralba, il protagonista del Visconte dimezzato di Italo Calvino (1952) : anche in questo caso si tratta di una personalità scissa, in costante lotta con i propri fantasmi e nella fattispecie con la parte peggiore del suo io. Tornando a Hoffmann ed alle intricatissime vicende narrate negli Elixiere, vi sono poi i nomi di Franz / Francesco e Leonard, riferentesi alla figura del protagonista, attraverso i quali si allude ad un’altra coppia storica : quella di Leonardo da Vinci e del suo allievo prediletto, Francesco Melzi. 2 Relativamente poi all’inquietante somiglianza tra Rosalia ed Aurelia, protagoniste di una sorta di moltiplicazione dell’io, si può rilevare che i due nomi hanno lo stesso numero di lettere, lo stesso suffisso ed inoltre che in essi vengono ripetute ben cinque delle sette lettere che li compongono. 3 È anche in questo caso molto verosimile ipotizzare una ripresa del nome di Aurelia da parte di Nerval, che aveva tradotto dal tedesco gli Elixiere des Teufels. Altrettanto inquietante è la vicenda narrata nella novella di Edgar Allan Poe William Wilson (1839), in cui l’io narrante viene a conoscere uno studente che è perfettamente uguale a lui salvo che nella voce. Questi per di più possiede il suo stesso nome e cognome. 4 Sfidatolo a duello, riuscirà ad avere la meglio, per scoprire che, uccidendolo, avrà ucciso anche se stesso. Il nome del protagonista contiene già in sé il carattere allucinatorio dell’intera vicenda e la sua tragica conclusione : esso può essere infatti interpretato come Will I am « sono Will », Will son ‘figlio di Will’, il che equivarrebbe a dire che il protagonista dichiara di aver generato egli stesso quella creatura misteriosa, che è quindi frutto del proprio capriccio : «I grew self-willed, addicted to myself». 5 Vi è poi la figura del sosia per antonomasia, quella descritta da Dostoevskij nel suo Dvojnik (Il sosia, 1845), un romanzo che ispirerà in pratica tutte le opere successive su questo tema. 6  















1   Medardus è il nome che il protagonista riceve da novizio. I riferimenti all’agiografia non dovrebbe meravigliare, dal momento che, nel romanzo, alle smodate pulsioni sessuali corrisponde un’altrettanto violento desiderio di redenzione. Sappiamo inoltre che Hoffmann era molto interessato alla storia antica e medievale, da cui aveva più volte attinto fonte d’ispirazione per le proprie opere. 2   Il protagonista porta il nome di battesimo Franz per assumere, dopo la morte del proprio sosia Victorin, lo pseudonimo Leonard. Francesco, l’antenato i cui misfatti gravano su costui come una maledizione, viene descritto da Hoffmann quale allievo di Leonardo da Vinci. Cfr., al riguardo, D. Baldes, Das tolle Durcheinander der Namen. Zur Namengebung bei E.T.A. Hoffmann, St. Igbert, Röhrig Universitätsverlag, 2001 (« Saarbrücker Beiträge zur Literaturwissenschaft », 72), pp. 174-176. 3   Una connessione tra Rosalia e Medardo può essere inoltre individuata nel fatto che è a san Medardo che viene attribuita l’introduzione della Festa delle Rose dedicata a santa Rosalia (cfr. ivi, p. 149). 4   B. Nugnes, What’s in a name : esplorazioni nella narrativa americana del primo Ottocento, in M. G. Arcamone, B. Porcelli, D. De Camilli, D. Bremer (a cura di), Onomastica e Letteratura. iii Incontro di studio di Onomastica e Letteratura, 5   Cfr. ivi, p. 111. Atti, Viareggio-Lucca, Mauro Baroni Editore, 1998, pp. 99-120. 6   A. Derianecz, Das Motiv des Doppelgängers in der deutschen Romantik und im russischen Realismus. E.T.A. Hoffmann, Chamisso, Dostojewski, Marburgo, Tectum, 2003.  





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Anche qui il meschino consigliere di stato, Goljadkin, porta un nome parlante, che può essere associato sia all’aggettivo golyj ‘nudo’ sia al sostantivo goljada ‘mendicante’ (gol significa ‘povera gente’), a suggerire l’idea di miseria materiale e morale in cui il protagonista si dibatte prima di venir annientato dall’omonimo, onnipotente rivale. 1 Vittima del proprio sosia è anche il protagonista del racconto di Guy de Maupassant Horla (1887), il quale finirà per soccombere a causa della misteriosa ed ossessiva presenza di un essere che viene dalla sfera del soprannaturale e che porta il nome parlante di Horla, cioè hors-là, ‘là fuori’. 2 Destinato a morire per mano del proprio doppio sarà anche il Dr. Jekyll del romanzo di Robert Louis Stevenson, The Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hydeb (Lo strano caso del Dr. Jekyll e di Mr. Hyde, 1886). Il nome del protagonista è stato interpretato come un composto formato dal pronome personale del francese je e dalla voce verbale dell’inglese to kill, per cui assumerebbe il significato di ‘uccisione dell’io’. Quanto al cognome, Hyde rimanderebbe all’inglese to hide, ‘nascondersi’ : il doppio malvagio, per non venir scoperto, si serve infatti dell’oscurità della notte per compiere i propri misfatti. 3 La parola inglese hide significa inoltre ‘pelo di animale’, con evidente riferimento alla lanugine che ricopriva la pelle del protagonista una volta avvenuta la trasformazione. Meno tragico, seppure non invidiabile, è il destino del protagonista della Wunderbare Geschichte von bogs dem Uhrmacher (La meravigliosa storia dell’orologiaio bogs, 1807). Già nel suo nome è contenuta una doppia identità, ma questa volta non la propria, bensì quella dei due autori della storia stessa, Clemens Brentano e Joseph Görres – bo sta per Brentano e gs per Görres. La sua testa bifronte, simile a quella di Giano, 4 verrà operata perché guarisca dal dualismo cronico che lo affligge, in modo da poter tornare ad essere un cittadino tranquillo e ‘benpensante’. Una duplicazione totale, questa volta dello scrittore stesso, è quella che narra Philip Roth in Operation Shylock. A confession (Operazione Shylock, 1993). A Gerusalemme vivrebbe un altro Philip Roth, del tutto uguale allo scrittore, che si trova rispetto a lui su posizioni ideologiche diametralmente opposte, in quanto auspica la fine dello Stato di Israele ed una nuova diaspora dei propri connazionali verso l’Europa.  

5. Quando si è invece in presenza di un vero e proprio sosia, i due personaggi costituiscono due entità distinte che, pur essendo fisicamente perfettamente sovrapponibili, conducono due esistenze separate. In questo caso esse portano due nomi diversi, collegati tra loro tuttavia quasi puntualmente attraverso una qualche ‘trovata onomastica’ dell’autore. Nel romanzo di Jean Paul p. es. il Doppelgänger di Siebenkäs (1796), il doppio del protagonista, porta un nome più che trasparente : Leibgeber ‘colui che dona il proprio corpo’. Si tratta di un misterioso individuo che mette a disposizione la sua persona per raggiungere uno scopo diabolico : attraverso il cambio di nome col sosia il protagonista, Siebenkäs, potrà inscenare la propria morte, il che gli permetterà di liberarsi della moglie. Il cognome di quest’ultimo, alquanto bizzarro, è stato ripreso dalla realtà ed è ancora oggi diffuso nella regione attorno a Norim 



1   Si veda G. Spendel, Introduzione a F. Dostoevskij, Il Sosia, Milano, Mondadori, 1985. Altri collegano il nome al sostantivo golod ‘fame’. 2   Sulla controversa interpretazione di questo nome si veda P. Marzano, Maupassant e l’“altro”. Tre soprannomi e un nome misterioso : Horla o Gorla ?, in Idem : Il male che coglie Napoli e altre note di onomastica letteraria, Pisa, ets, 2003, pp. 180-183. Si veda anche L. Sasso, I nomi delle tenebre, in Idem, Nomi di cenere. Percorsi di onomastica letteraria tra Ottocento 3   Cfr. Moraldo, Wandlungen des Doppelgängers, cit., p. 29. e Novecento, Pisa, ets, 2003, pp. 108-111. 4   Il nome di Janus si riconnette al lat. ianua ‘porta’ : era il Dio che presiedeva ai ‘passaggi’.  







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berga. Con esso ci si riferiva a coloro che erano soggetti a determinate tassazioni, quindi a quei commercianti e borghesi che lo stesso Siebenkäs dichiarava di disprezzare. Lo scrittore può non aver conosciuto l’origine di tale ‘nome di mestiere’, ma ha certamente sentito il cognome, al pari del toponimo Kuhschnappel, che ricorre accanto ad esso nel titolo dell’opera 2 – e che al pari dell’antroponimo è tratto dal mondo reale – come tipico di una società rozza e provinciale, quella da cui ambedue i protagonisti voleva prendere le distanze. E se è vero che tale cognome si adatterebbe maggiormente al sosia, non si deve dimenticare che Siebenkäs era il vero nome che quest’ultimo portava prima che i due amici, all’inizio della vicenda che li ritrae, decidessero di scambiarsi l’identità. Lo stesso scambio di nomi sta d’altra parte a dimostrare il profondo legame che sussisteva fra i due ‘doppi’ : un legame che Jean Paul stesso definisce come « un’anima imprigionata in due corpi ». Anche i due nomi personali alludono alla determinatezza ed all’anticonformismo dei due amici : Firmian discende dall’aggettivo latino firmus ‘fermo’, ‘forte’, ‘stabile’ e Stanislaus da un nome composto di origine slava che significa ‘fama’, ‘onore che deriva dalla fermezza, dalla forza’. 3 In uno dei racconti più inquietanti di E. T. A. Hoffmann, Der Sandmann (L’uomo della sabbia, 1816), il doppio del diabolico Coppelius è rappresentato dal quasi omonimo Coppola. Anche qui le due denominazioni, oltre ad essere assai simili sotto il profilo formale, possono essere state scelte in virtù dei loro significati, come ha messo in evidenza lo stesso Sigmund Freud. Il primo, Coppelius, rimanda all’it. coppella ‘crogiolo’, quindi a uno degli strumenti usati per gli esperimenti chimici dal padre del protagonista e dal misterioso avvocato ed alchimista che lo frequenta ; il secondo risale all’it. coppo, che indica la cavità oculare (come infatti secondo la fiaba il mago getta la sabbia negli occhi dei bambini, così nel racconto di Hoffmann il piccolo protagonista rischia di venir accecato dallo spaventoso ospite del padre). Il misterioso, malefico « uomo della sabbia » ed il venditore di barometri e di occhiali italiano Giuseppe Coppola rappresenterebbero dunque, per il padre della psicanalisi, proiezioni dei lati negativi della figura paterna, 4 così come lo stesso doppio altro non sarebbe che la voce perentoria di quell’istanza autogiudicante che Freud chiama Super-io. Il fatto poi che i ‘cattivi’ siano, soprattutto negli autori di lingua tedesca di questo periodo, quasi tutti italiani può essere forse spiegato tramite la popolarità che assunsero allora alcune figure, storiche o leggendarie, particolarmente diaboliche : Cagliostro, Borgia, Casanova, lo stesso Salieri. Con Mozart inoltre e col diffondersi del melodramma i nomi italiani diventarono in tutta Europa per così dire di dominio pubblico. Sta di fatto che, specie nella letteratura del doppio del tardo romanticismo, coloro che portano un nome italiano sono quasi sempre figure equivoche, riprovevoli o malefiche. 5 1

















1

  Cfr. R. e V. Kohlheim, Duden Familiennamen, cit., p. 620.   Il titolo completo del romanzo è Blumen-, Frucht- und Dornenstücke oder Ehestand, Tod und Hochzeit des Armenadvokaten F. St. Siebenkäs im Reichsmarktflecken Kuhschnappel (Fiori, frutti e spine, ovvero Vita nuziale, morte e matrimonio dell’avvocato dei poveri F. St. Siebenkäs nella borgata di Kuhschnappel). In esso Jean Paul definisce per la prima volta il concetto di Doppelgänger, anche se già in precedenza, nella Unsichtbare Loge e in Hesperus, aveva descritto questo tipo di fenomeno. Successivamente, nel 1815, E. T. A. Hoffmann intitolerà una propria novella Die Doppeltgänger. 3   Cfr. Kohlheim, Der Eigenname bei Jean Paul, cit., pp. 452-453. 4   Ambedue le figure possono venir interpretate, in chiave psicanalitica, come due opposti che rispecchiano l’atteggiamento ambivalente del bambino protagonista del racconto nei confronti del padre. Sul tema si veda B. Bettelheim, Kinder brauchen Märchen, Monaco di Baviera, Deutscher Taschenbuch Verlag, 1990 (19751). Si deve notare inoltre che lo stesso nome del protagonista, Nathanael, è apertamente allusivo : è infatti il corrispondente ebraico del secondo nome di Hoffmann, Theodor, ‘dono di Dio’. Come ha fatto rilevare E. Matala de Mazza nelle sue note all’edizione Artemis & Winkler, Fantasie- und Nachtstücke (Düsseldorf-Zurigo, 1996, p. 834), lo scrittore è riuscito attraverso questo stratagemma ad insinuarsi nel proprio romanzo. Il che significa, in ultima analisi, che il protagonista dell’opera altri non è che un doppio dell’autore. 5   Ne cito qui solo alcune, oltre a quelle già menzionate : il Professor Spalanzani del Sandmann di Hoffmann, che fra l’altro richiama un personaggio storico, lo scienziato Lazzaro Spallanzani (1729-1799) ; il dottor Dapertutto della 2







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Un richiamo forte ed un rapporto di tipo quasi diabolico esiste anche fra i due personaggi speculari della novella di Athur Schnitzler Frau Beate und ihr Sohn (La signora Beate e suo figlio, 1913). La protagonista, Beate, che rappresenta la donna virtuosa, madre e moglie fedele, porta un nome simile a quello di Fortunata, la quale, al contrario, incarna la sfera delle passioni e degli istinti. Questi due mondi saranno destinati a fondersi in un tragico epilogo. Anche i cognomi delle due donne stanno, questa volta antifrasticamente, in relazione : la prima si chiama Heinhold, cognome che risale all’alto tedesco antico heimwalte che significa ‘regnante nella propria dimora’, la seconda Schön, un cognome che ben si adatta ad una donna avvenente e disinibita. Lo stesso tipo di gioco onomastico lo ritroviamo in Fink und Fliederbusch (Fink e Fliederbusch, 1916), una commedia dello stesso autore, in cui i nomi del protagonista e del suo doppio, legati tra loro solo dall’allitterazione, nella stesura iniziale erano Finck e Fink, distinguendosi dunque solo sul piano grafico. Tale soluzione è stata in un secondo tempo accantonata per ovviare ad inevitabili fraintendimenti da parte del pubblico. 1  

6. Un altro tipo di doppio è quello cosiddetto onirico : il che significa che la scissione del personaggio avviene, per lo più in modo estremamente drammatico, in sogno, quindi in uno stato in cui la razionalità è messa a tacere e si può accedere ai più nascosti recessi della mente. Un esempio di questo tipo lo ritroviamo nella ‘fiaba drammatica’ di Franz Grillparzer Der Traum ein Leben (Il sogno è una vita, 1834). Il nome di colui che dorme e quello del suo doppio, protagonista dell’incubo, rimane lo stesso : Rustan. Di origine persiana, esso fa riferimento alla figura di uno dei più noti eroi dell’antica epica di quel paese. Di doppio onirico di tratta anche nei Fleurs bleues, I fiori blu (1965) di Raymond Quenau. Nel romanzo il Duca d’Auge, appellativo che, letto al contrario, corrisponde al pronome personale ego, viaggia nel tempo attraverso i secoli sino a che non incontra il proprio alter ego, che ha visto fino a quel momento solamente in sogno e che porta il nome di Cidrolin : un nome plurivalente, che da un lato ricorda il sidro ed il lino, i principali prodotti della Normandia, terra in cui si svolge la vicenda, mentre dall’altro ben si presta a sottolineare la singolarità dell’evento riallacciandosi alla locuzione Si drôle, hein ? 2 Anche in questa vicenda viene sottolineato il carattere antitetico del doppio : il volitivo duca d’Auge ed il pigro Cidrolin, una volta incontratisi, si riconcilieranno e termineranno il loro viaggio a bordo di una chiatta chiamata significativamente l’Arche : come a dire che esiste una possibilità di riconciliazione delle alterità di fondo, dell’umanità, quando sia possibile pervenire ad una verace e profonda conoscenza di se stessi. A riprova dell’affinità che li lega i due scopriranno di aver assunto, nelle successive reincarnazioni, gli stessi sette nomi, Joachim, Olinde, Anastase, Crépinien, Honorat, Irénée e Médéric, i quali, letti come un acrostichon, formano il primo nome della sequenza, Joachim appunto.  











Geschichte vom verlorenen Spiegelbild (Storia del riflesso perduto), sempre di Hoffmann ; il signor Barighi delle Memoiren des Satan (Memorie di Satana) di Hauff, nelle quali, fra l’altro, il protagonista, Natas, rappresenta, come emerge chiaramente dal nome, l’alter ego del diavolo ; ed ancora, in epoca più recente, il diabolico Scapinelli del film Lo studente di Praga (1913), Cipolla della novella di Thomas Mann Mario und der Zauberer (Mario e il mago, 1930) e l’industriale Zapparoni del romanzo di Ernst Jünger Gläserne Bienen (Le api di vetro, 1957). Lo stesso dicasi per un’altro particolare ‘gruppo’, costituito da cantanti di origine italiana dai costumi spesso discutibili e dal cuore duro, quali, p. es., Mara del romanzo di J. Paul, Der Komet, la tutt’altro che angelica Angela di Rat Krespel di E. T. A. Hoffmann, la Branzilla dell’omonima novella di H. Mann (1908) e Rita Marchetti della commedia Der Nebbich (1922) di C. Sternheim. 1   Per l’interpretazione dei nomi dei protagonisti e del complesso gioco di rimandi onomastici che caratterizza le opere di Schnitzler si rimanda alla tesi di laurea di L. Lucetti, L’onomastica del doppio in alcune opere di Arthur Schnitzler, Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Pisa, a.a. 2005-2006, rel. Donatella Bremer. 2   Nei singolari risvolti onomastici del romanzo, tradotto due anni dopo il suo apparire da Calvino, ci fa addentrare A. Jaton nel suo articolo Cidrolin : Si drôle, hein ? Giochi di nomi nei Fiori blu di Queneau, « il Nome nel testo », ii-iii, 2001, pp. 103-113.  











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7. Un altro motivo ricorrente nella letteratura del doppio è quello della perdita della propria ombra : una parte di noi che può essere metaforicamente interpretata come il nostro doppiofondo, il nostro io sommerso, la nostra stessa anima. 1 Se per Peter Pan questa rappresenta il legame con l’infanzia che non si vuole abbandonare, per Peter Schlemihl 2 simboleggia la rinuncia alla propria anima in cambio della ‘borsa della fortuna’, cioè della ricchezza. Il nome del protagonista del romanzo di Adelbert von Chamisso Peter Schlemhils wundersame Geschichte (La storia meravigliosa di Peter Schlemihl, 1814) è perfettamente adeguato alla figura del protagonista. Questa volta è l’autore stesso a commentare la propria scelta : « Schlemihl, o meglio Schlemil, è un nome ebreo che significa Teofilo, amato da Dio. Nella lingua parlata degli Ebrei è il nome che si dà agli infelici e agli sfortunati, coloro ai quali non riesce mai niente. Uno Schlemil si rompe un dito mettendolo in tasca, cade sulla schiena e si rompe il naso. Non arriva mai a tempo ». 3 Da quale fonte Chamisso abbia tratto questa etimologia non è dato di sapere. L’appellativo jiddisch schlemil risale in effetti all’ebraico schä-lô-mô-’il che ha come significato ‘che non vale’, significato che rimanda alla caratterizzazione del personaggio fornita dall’autore. Della figura demoniaca con la quale lo sventurato protagonista si accorda – stringendo un patto che ricorda molto da vicino quello tra Faust e Mefistofele – non si dice il nome, ma si precisa ripetutamente che porta una giacca grigia, e grigia è per solito la giubba del diavolo (nelle leggende popolari quest’ultimo viene denominato appunto Grauröcklein ‘giacchetta grigia’). 4  







8. Lo sdoppiamento può altresì essere rappresentato da un ritratto raffigurante l’immagine del protagonista, come nel celeberrimo The picture of Dorian Grey (Il ritratto di Dorian Grey, 1890) di Oscar Wilde. Anche in questo caso l’elemento demoniaco potrebbe essere segnalato dal colore grigio suggerito dal cognome. Il nome, creato da Wilde appositamente per questo suo personaggio, 5 risale all’originario etnico ‘della Dòride’ e richiama alla mente l’ideale classico dell’eterna bellezza, 6 adattandosi dunque perfettamente alla personalità del protagonista, che, all’interno di uno splendido involucro, nasconde un’anima diabolica. 9. Il doppione che si crea attraverso la metamorfosi ci riporta al tema del doppio propriamente detto in quanto ancora una volta viene messo apertamente in crisi il principio d’identità di 1   La vendita dell’ombra corrisponde alla ‘cessione dell’anima’ e richiama il patto col diavolo. Per questo chi non possiede più la propria ombra incontra la diffidenza ed il biasimo da parte del prossimo. Cfr., al riguardo, quanto scrive l’allievo di Freud O. Rank nella sua opera Il significato del sosia nella letteratura e nel folklore, Solaro (Mi), Sugarco, 1979, p. 74. 2   Il nome Peter è spesso legato a figure che hanno in sé una componente diabolica. Cfr. M. G. Arcamone, La diffusione del nome Petrus nel Medioevo, in La figura di San Pietro nelle fonti del Medioevo. Atti del Convegno tenutosi in occasione dello Studiorum Universitatum docentium Congressus (Viterbo-Roma, 5-8 settembre 2000), Louvain-la-Neuve, fidem, 2001, vol. i, 2000, pp. 53-69. In J. e W. Grimm, Deutsches Wörterbuch, vol. vii, Lipsia, Hirzel, 1889, coll. 1577-1578, s.v. Peter si legge : « Peterlein, Peterle : böser geist, teufel » e « petermännchen, petermännlein‚ hauskobold » ; si fa cioè riferimento al diavolo come anche a coboldi e folletti che portano quel nome. In realtà Peter Schlemihl non sarebbe un personaggio diabolico, ma viene considerato tale nel momento in cui perde la propria ombra. 3   La citazione, ripresa da una lettera scritta da Chamisso al fratello Ippolito il 27 marzo 1821, è tratta dal saggio sopra citato di Otto Rank, p. 67. 4   Lo stesso Coppelius della novella di Hoffmann indossa sempre una giacca grigio cenere. 5   Cfr. R. e V. Kohlheim, Duden. Das große Vornamenlexikon, cit., pp. 124-125. 6   Si pensi alle sculture di Fidia che adornano il più celebre di tutti i templi in stile dorico, il Partenone.  













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una persona. È un tema che ricorre frequentemente fin dall’antichità – si pensi alle Metamorfosi di Ovidio – e che subisce costantemente rivisitazioni, specie da parte del cinema. In letteratura, uno degli esempi più noti è rappresentato dalla novella di Franz Kaf ka Die Verwandlung (La metamorfosi, 1915), nella quale il commesso viaggiatore Gregor Samsa, a sua volta alter ego dello scrittore, risvegliandosi si accorge di essersi trasformato in un orrendo insetto. La sua nuova identità verrà rifiutata dai familiari, che ne causeranno la morte – a dimostrazione dell’impossibilità di venire accettati in una diversa veste, con tutti i propri lati oscuri. Qui il gioco onomastico si svolge tra i due veri protagonisti dello sdoppiamento : l’autore stesso e la sua replica. In Kaf ka e Samsa infatti le vocali sono identiche, così come il numero delle lettere e la disposizione delle consonanti. 1  

10. Quello dello specchio è, come già accennato, un tema per così dire ‘trasversale’ nelle storie del doppio. 2 In senso stretto, esso rappresenta la duplicazione totale dell’io e l’incapacità di distinguere tra identità ed alterità – proprio come avviene nel mito di Narciso, che, innamoratosi del proprio riflesso, confonde i due piani dell’oggettività e della soggettività. Tale allucinazione simmetrica è fra le più destabilizzanti e può produrre disturbi della personalità quali quelli causati da malattie mentali o assunzioni di droghe, aprendo le porte ad una diversa lettura della realtà. Leibgeber, p. es., nel capitolo xxii di Siebenkäs, rischia di diventare pazzo quando vede nello specchio raddoppiarsi il proprio io nella figura del sosia, circostanza che Jean Paul delinea con l’espressione « raddoppiar persone » e che riflette, come già detto, nel nome stesso del personaggio, Leib-geber, ‘donatore di corpo’. Una rappresentazione particolarmente ‘inquietante’ del doppio allo specchio in pittura è senz’altro quella che ci offre René Magritte nel suo quadro La Reproduction Interdite (La riproduzione vietata, 1937). La figura che si specchia, rappresentata di spalle sin nei minimi particolari, non è in grado di vedersi il viso : l’immagine che le ritorna è ancora una volta quella del proprio retro, a simboleggiare la perdita della propria identità e di ogni possibilità di conoscere realmente se stesso. Nella novella Die Geschichte vom verlornen Spiegelbilde (La storia del riflesso perduto), contenuta nella raccolta Die Abenteuer der Silvesternacht (Avventure della notte di San Silvestro, 1813-1815) di E. T. A. Hoffmann, già nel nome dell’eroe, Erasmus Spikher, è contenuto il motivo del ‘vedere’ – spicken ha infatti in alcuni dialetti tale significato. 3 Ora, « se si divide il nome nelle due parti che lo compongono, ‘spik’ e ‘her’, ci si trova di fronte un imperativo, l’esortazione a rivolgere lo sguardo verso un determinato posto », 4 in modo tale che, quando la moglie di Spikher chiede al marito : « Guarda là, caro, dentro lo specchio », ha inizio la catastrofe familiare. Significativo è anche il nome del protagonista, che deriva dal greco eràsmios, ‘amabile’. Con esso si vuole sottolineare come certe sue azioni – per amore della cortigiana Giulietta ha venduto la propria immagine riflessa nello specchio al Dottor Dapertutto, un’incarnazione del diavolo – non corrispondano alla sua indole mite e gentile. Per quel che riguarda Giulietta, ci imbattiamo invece in uno dei numerosi accenni che l’autore fa all’allieva Julia Marc, per  















1   Lo stesso procedimento viene seguito da Kaf ka nel suo romanzo Das Urteil (Il processo, 1913), in cui, come egli stesso rileva, « [...] Georg ha tante lettere quante Franz, Bendemann consta di Bende e Mann, Bende ha tante lettere quante Kaf ka, e anche le due vocali figurano allo stesso posto. ‘Mann’ deve, probabilmente per compassione, dare vigore a questo povero ‘Bende’ per le sue battaglie». E conclude : «Di cose simili ce ne sono anche altre, naturalmente tutte cose che ho scoperto dopo [...] » (F. Kafka, Lettere a Felice, Milano, Mondadori, 1988, pp. 396-397). 2   Secondo Jacques Lacan, lo specchio ci dà sin da bambini l’illusione di un’unità dell’io che si realizza attraverso un’immagine, la quale è invece un elemento totalmente esterno ed estraneo al soggetto, che rimane sempre un’entità composità e frammentaria. 3 4   Cfr. Baldes, Das tolle Durcheinander, cit., p. 55.   Ibidem.  





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la quale aveva una particolare predilezione. Se poi si consideri il fatto che il terzo nome di Hoffmann, Amadeus, nome che egli stesso si era attribuito, possiede lo stesso significato di Erasmus, possiamo senz’altro sentirci autorizzati ad individuare nell’‘amabile Erasmus’, che cade in disgrazia in seguito all’astuzia del diavolo, un vero e proprio sosia dell’autore romantico. 1 Il fatto che il figlioletto di Spikher porti lo stesso nome di suo padre – benché in forma accorciata (viene infatti chiamato di solito Rasmus) – potrebbe infine far pensare che anche a lui verrà riservato un destino similare. Nel film di Hanns Heinz Ewers Der Student von Prag (Lo studente di Praga, 1913), Balduin, dopo aver venduto la propria immagine riflessa nello specchio ad un uomo misterioso, il ciarlatano Scapinelli, verrà perseguitato dalle azioni delittuose del sosia cui ha in tal modo dato vita ; e quando, dopo aver assistito per strada all’uccisione del proprio rivale in amore, si deciderà a sparare al suo doppio, ucciderà anche se stesso. Nella poesia di Nikolaus Lenau, Anna (1838), la protagonista stringe un patto con lo specchio : conserverà la propria bellezza se rinuncerà alla fertilità. La sua immagine non cambierà così come non cambia il suo nome quando si riflette nello specchio, dal momento che è un nome palindromo. 2 Palindromo è anche il nome Atta della lirica Atta Troll di Heinrich Heine (1847) : un nome col quale si fa riferimento al doppio presente negli stessi elementi della natura. Atta si riallaccia inoltre al concetto di paternità (in greco, così come anche in gotico, è il nome affettivo per ‘padre’), mentre Troll si chiamano nella mitologia nordica gli spiriti dei boschi.  





11. Quando un personaggio somiglia in modo perturbante ad un individuo deceduto fino a sembrarne un sosia soprannaturale, siamo in presenza del tema, anch’esso frequente, della reincarnazione, detto anche il ‘tema di Orlando’, dal romanzo di Virginia Woolf Orlando. A Biography (Orlando. Biografia, 1929). In esso si narra di una strana creatura che, reincarnandosi, vive per oltre tre secoli accumulando pensieri, sensazioni ed esperienze di ogni genere, fra le quali anche quella di aver appartenuto ad entrambi i sessi. 3 Nel noto racconto di Joseph Sheridan Le Fanu, Carmilla (1872), la protagonista, che è in realtà un vampiro, dopo ogni morte può reincarnarsi unicamente in individui che portino un nome che è l’anagramma del proprio, quali, nel racconto, Millarca e Mircalla. Nel racconto Ritter Gluck (Il cavaliere Gluck, 1809) di E. T. A. Hoffmann si apre l’inquietante interrogativo, che non viene risolto, circa una reincarnazione nel cavaliere stesso del famoso compositore Christoph Willibald Gluck. Nel Findling (Il trovatello, 1811) di Heinrich von Kleist, il perfido Nicolò si traveste da nobile veneziano riuscendo a far credere alla matrigna, che vuole sedurre, di essere la reincarnazione del defunto, da lei amato Colino – aiutato in ciò dal proprio nome, che è l’anagramma di quello dell’altro. 4 1

  Si veda quanto detto sopra a proposito dell’’intrusione’ dell’autore nel racconto Der Sandmann.   Anna e Sarah sono anche le protagoniste del film tratto nel 1981 da uno dei capolavori della letteratura inglese del Novecento, The French Lieutenant’s Woman (1969, La donna del tenente francese) di J. Fowles (1981) (su copione di Harold Pinter). La protagonista e l’attrice che la interpreta portano nomi fra loro molto simili : allo stesso modo i loro destini si intrecceranno per dare in ultimo due diversi esiti alla vicenda. 3   Il nome Orlando si richiama al personaggio ariostesco in quanto prototipo della bellezza, della forza, delle nobili illusioni, ma anche della passione, della follia, della caducità, oltre che personalità multiforme, mutevole e contraddittoria. Cfr. A. Bologna, L’Orlando ariostesco in Virginia Woolf, in Idem, Studi di letteratura “popolare” e onomastica tra Quattro e Cinquecento, Pisa, ets, 2007, pp. 75-85. 4   Che Colino altro non sia che un ipocoristico di Nicolò, e che quindi ambedue le figure portino in realtà lo stesso nome non era noto né a von Kleist né ai suoi personaggi. 2



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Anche il travestimento può innescare uno sdoppiamento d’identità. Nella novella Lucidor (1910) di Hugo von Hofmannsthal una madre traveste da ragazzo la figlia Lucile, che diventa così Lucidor, allo scopo di impadronirsi dell’eredità di un vecchio zio – il che dà luogo a complessi turbamenti erotici, quasi che il cambiamento di genere del nome porti con sé in certo qual modo un cambiamento di sesso, almeno apparente, della figura del protagonista. Analogamente, in Der gute Mensch von Sezuan (1943) di Bertolt Brecht, la protagonista, una prostituta, dà vita, attraverso il travestimento, ad un cugino che difenda quei diritti che la sua posizione ed il suo buon cuore non sono in grado di tutelare, appagando così il proprio desiderio di giustizia. I nomi sono anche in questo caso atti a rispecchiare le due facce di un’unica medaglia : Shen Te e Shui Ta. Nel Fürst Ganzgott und Sänger Halbgott (Il principe Ganzgott e il cantante Halbgott, 1818) di Achim von Arnim si assiste allo scambio d’identità tra due individui di rango sociale opposto – sulla falsa riga di quel che avviene in romanzi quali in The Prince and the Pauper (Il principe e il povero, 1882) di Mark Twain. In questo caso protagonisti dello scambio sono un aristocratico, che porta il nome di Ganzgott ‘Dio intero’, ed un comune borghese, o meglio un teatrante, che si chiama invece, ovviamente, Halbgott ‘semidio’. La sottile ironia di Arnim ribalta i ruoli dei due personaggi : il povero Halbgott infatti, benché conduca una vita da bohemien, si comporta in modo assai più signorile del suo ‘divino’, ricco sosia. Uno scambio di abito ha luogo anche fra Hermann e Felix, le figure principali del romanzo Despair, Disperazione (1936) di Vladimir Nabokov. 1 La somiglianza tra i due non esiste, così come non vi è una specularità onomastica. La vicenda prende le mosse da un’ossessione di Hermann, che cerca, in un altro da sé (in questo caso in un individuo di ceto nettamente inferiore, trattandosi di un povero disoccupato), la possibilità di condividere lo smarrimento che gli provoca la propria frammentazione interiore. Il suo nome, Hermann, può essere letto come fosse formato da due parole che ripetono lo stesso significato : Herr e Mann – particolarità di cui un autore quale il poliglotta Nabokov aveva certamente tenuto conto. Un’altra motivazione sta comunque alla base di questa scelta : si tratta di un omaggio a Puškin che, nella Donna di picche (1834), chiama con quello stesso nome il protagonista, il quale, diviso fra le proprie identità, quella tedesca e quella slava, finirà, come il personaggio nabokoviano, per impazzire. Si può anche affermare che la ripetizione piaccia a Nabokov : in Lolita aveva infatti operato in modo similare, attribuendo al personaggio principale l’inusuale combinazione onomastica Humbert Humbert. Quanto a Felix, 2 si tratta di un nome che ha valore antifrastico, dal momento che chi lo porta è un miserabile che, per di più, farà una brutta fine ; in esso si riflette inoltre il pensiero di Hermann, che, da borghese benestante, invidia alle persone di basso ceto la spontaneità e quasi animalità, qualità che ritiene possano essere in grado di dare la felicità. Le dinamiche che animano questo scambio di identità vengono potenziate nella resa filmica di Rainer Werner Fassbinder, basata sul copione di Tom Stoppard. Nella pellicola, che si intitola Despair – Eine Reise ins Licht (1978) ‘Despair’, Hermann incontra il proprio Doppelgänger in una sala degli specchi. Egli stesso possiede, nel proprio appartamento, un gran numero di specchi che riflettono e moltiplicano individui e azioni.  











1   Il romanzo apparve per la prima volta a puntate col titolo Отчаяние (Otchayanie) nella rivista « Sovremennye Zapiski ». Nel 1936 ne uscì il libro, che nel 1937 fu lo stesso autore a tradurre in inglese. Nel 1965 Nabokov rielaborò la propria traduzione. 2   Il nome Felix pare essere particolarmente presente proprio nelle vicende in cui si verifichi uno sdoppiamento : si pensi, p. es., al Felix Krull di Th. Mann (romanzo terminato nel 1954), ma anche al Felix del film La strana coppia, diretto nel 1968 da G. Saks sulla base del musical di Neil Simon.  





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Quando nella conclusione Dirk Bogarde, l’attore che impersona Hermann, si rivela quale doppio di Humphrey Bogard, di fatto e non solamente a motivo del nome, appare evidente quale sia la concezione che il regista stesso ha della propria vocazione : il cinema altro non è per lui che un ‘doppione’ della vita reale.  

13. Vi è infine il tema della creatura artificiale : di un doppio che, frutto di abili manipolazioni, si inserisca fra le creature umane minacciando la loro stessa esistenza. Se ne troviamo un esempio già nell’agghiacciante bambola Olimpia dei racconti di Hoffmann, questo tema sarà caratteristico soprattutto della letteratura fantastica che si sviluppa a partire dalla fine dell’Ottocento. Solo due anni più tardi vedrà la luce il mostro Frankenstein. 1 La sua ‘vita artificiale’ diventerà popolarissima soprattutto grazie al cinema. La singolare creatura protagonista del romanzo, che Mary Shelley pubblicherà anonimo, non ha in realtà un nome. E tuttavia, nel corso della ricezione del romanzo, essa acquisirà il nome di colui che l’ha creata, il dottor Viktor 2 von Frankenstein : già nel pionieristico film espressionista realizzato nel 1931 da James Whale 3 (Frankenstein), che vede Boris Karloff nel ruolo principale, il mostro si chiama infatti Frankenstein. Ma la creatura artificiale per eccellenza resta ovviamente quella del Golem, descritto fra l’altro da Gustav Meyrink nell’omonimo romanzo, Der Golem (1915), opera che ha avuto il merito di aver fatto entrare questa inquietante figura modellata dalla mano dell’uomo – un ‘doppio’ dell’Adamo creato da Dio – nella cultura letteraria dell’epoca. 4 Angelo M. Ripellino descrive, in Praga Magica, come si fabbrica un Golem : « Impastare un pupazzo con terra vergine, e poi girargli intorno più volte, recitando, in molteplici permutazioni, le lettere del tetragramma ». Il Golem è quindi, già in origine, un prodotto onomastico. Prosegue Ripellino : « Poi, per metterlo in moto, gli si incide il vocabolo Emet (Verità) sulla fronte oppure gli si introduce in bocca lo schem (schem hameforasch), il foglietto col nome impronunziabile di Dio ». 5 Secondo quanto narra la leggenda poi è sufficiente, per far morire un Golem, ed evitare così che col tempo cresca a dismisura e diventi pericoloso, cancellare l’alef, la prima lettera di Emet, in modo che rimanga impressa sulla sua fronte la parola Met, che significa ‘morte’. Il timore che vengano creati artificialmente dei doppi, i cosiddetti cloni, a tutt’oggi quanto mai diffuso a motivo dei continui e sorprendenti progressi della genetica, continua ad ispirare, sia nella produzione letteraria che cinematografica, un folto numero di opere, specie nell’ambito del fantastico. Un fenomeno che invece interessa la comunicazione mediatica, e che si ricollega in certo senso alla creazione di identità alternative, è quello denominato Second Life, diffusosi a partire dal 1999. Grazie a questo gioco, che ha raggiunto in pochi anni un’enorme diffusione, è possibile creare dei veri e propri doppioni di se stessi, detti Avatar, in un virtuale sempre più ‘immersivo’ che simula in modo estremamente realistico la realtà effettiva – anche se per il momento soltanto a livello visuale e sonoro. Il nome Avatar è stato  















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  Frankenstein, or The Modern Prometheus (1818), romanzo di M. W. Shelley.   Lo stesso nome Viktor è emblematico : può essere infatti interpretato come il nome di colui che ha sconfitto le leggi della natura. Il fatto poi che lo scienziato, alla fine della vicenda, preso dalla disperazione, cada vittima della creatura da lui stesso prodotta, altro non fa che conferire al suo nome un significato ironico. 3   Per la prima volta la storia venne narrata dal cinema nel 1910 grazie ad una produzione della Edison Company. 4   Il Golem di Meyrink descrive una creatura assai diversa da quella della leggenda, che attribuiva al gigante di creta, creato attraverso pratiche magiche, la forza e la docilità – era una sorta di robot ante litteram. Il termine gòlem, che significa in ebraico ‘embrione’, ‘materia grezza’‘, è già presente nelle leggende dell’Europa orientale e nell’Antico 5   A. M. Ripellino, Praga Magica, Torino, Einaudi, 1973, p. 158. Testamento (Salmo 139, 16). 2



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tratto dalla religione induista, nella quale designa una delle forme di emanazione dell’Uno, da cui scaturiscono gli esseri. Ma forse non tutti sanno che Avatar (1856) è anche il nome di un racconto di Théophile Gautier in cui il protagonista sperimenta il fenomeno della trasmigrazione della anime. In questa sorta di « gioco di ruoli […] si può decidere di essere giovani e belli, si può scegliere la famiglia, il lavoro, la vita che preferiamo, nell’epoca storica che ci affascina maggiormente. Si possono inventare nuovi mondi possibili, potenziali, appunto virtuali. Immergersi in questi mondi significa assumere un’identità diversa e comportarsi di conseguenza, significa abbandonare la propria immagine nella vita reale per essere quello che si desidera, o che si detesta o per non essere altro che sé stessi ». 1 Ed è fondamentale, ovviamente, a suggello di questa nuova esistenza, scegliere il nome più adatto per il proprio doppio.  



14. Vorrei concludere con un breve accenno ad un tipo molto particolare di nome del doppio in letteratura, quello rappresentato dallo pseudonimo : una sorta di maschera creata in forme e con finalità differenti dallo stesso artista che la indossa, la quale non di rado permette al lettore di disporre di un’importante chiave di lettura delle sue opere. 2 Dietro lo pseudonimo troviamo infatti in sostanza il bisogno da parte di chi scrive di realizzare un’ulteriore possibilità d’esistenza e d’espressione. Esso può costituire di volta in volta un artificio per nascondere la propria immagine consueta, oppure una strategia di allontanamento da avvenimenti sociali, culturali e politici della propria epoca – ma anche un più intenso coinvolgimento in essi –, o ancora la negazione delle proprie radici, o la loro ricerca, scaturendo sempre e comunque dall’esigenza di porre la propria creatività in salvo rispetto alla banalità e al quotidiano. Degli autori di cui ci siamo sinora occupati quasi tutti hanno adottato dei noms de plume. Giovanni Ambrogio Marini stampò il Calloandro fingendo che fosse una traduzione dal tedesco e firmandosi con il nome anagrammato di Giovanni Maria Indris. Jean Paul si chiamava Johann Paul Friedrich Richter ed aveva modificato il proprio nome in omaggio a Jean-Jacques Rousseau. Era anche solito usare per sé vari nomignoli, spesso carichi di una particolarissima verve umoristica, fra i quali, negli anni giovanili, Hasus. Allo stesso modo Ernst Theodor Wilhelm Hoffmann aveva sostituito al proprio terzo nome Amadeus in onore di Amadeus Mozart. Georg Friedrich Philipp Freiherr von Hardenberg adottò, già molto presto, lo pseudonimo di Novalis, termine che in latino designa una terra coltivata da poco e quindi ricca di fermenti. 3 Il ventitreenne Louis Charles Adélaïde de Chamisso, la cui famiglia aveva dovuto emigrare a causa della Rivoluzione, aveva assunto a Berlino, alla corte di Federico Guglielmo II, il nome Adelbert, nel quale aveva ‘messo in salvo’ le prime quattro lettere del suo nome originario. Friedrich Heinrich Karl de la Motte Fouqué aveva due pseudonimi : Pellegrin e A. L. T. Frank. Nikolaus Lenau è pseudonimo di Nikolaus Franz Niembsch von Strehlenau. Gérard Labrunie volle chiamarsi Gérard de Nerval dal nome di una proprietà materna. Allan, il secondo cognome di Poe, gli derivò dalla famiglia che lo adottò, giovanissimo, dopo la morte dei genitori ; ed in questo doppio cognome Edgar identificò per tutta la vita il « preci 





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  http ://www.wuz.it/articolo/1016/second-life.html (maggio 2009).   Memorabile è la lunga lista di pseudonimi che Sören Kierkegaard ha assunto per firmare molte delle sue opere. Essi sono rappresentati nella maggior parte dei casi da veri e propri nomi parlanti quali Victor Eremita, Johannes de Silentio, Constantin Constantius, Virgilius Haufniensis, Hilarius Bogbinder, Climacus, Anticlimacus. Con Climacus, nome del monaco bizantino autore della Scala Paradisi (vi secolo) con cui Kierkegaard ha firmato la sua Postilla, egli intendeva, p. es., sottolineare la propria aspirazione verso un mondo trascendente, la climax tou paradeision, mentre con lo pseudonimo Anticlimacus, con il quale ha siglato la Malattia mortale, voleva negare questa stessa possibilità. 3  Tale termine è rimasto anche nel linguaggio letterario italiano nella medesima accezione : lo troviamo, p. es., in Carducci ed in Tozzi.  

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pitato linguistico della propria lacerazione interiore ». Tra gli altri autori citati in questa sede, Pascal Mercier, filosofo del linguaggio oltre che scrittore, si chiama nella realtà Peter Bieri. Il vero nome di Raymond Quenau è Michel Presle. Joseph Conrad si chiamava Józef Konrad Korzeniowski. Italo Calvino ha assunto, nel corso della propria carriera di scrittore, svariati pseudonimi, sia in arte che nella vita : Jago, Santiago, Enea Traverso, Amleto, Tonio Cavilla (anagramma di Italo Calvino), Agronomus sed fidens, Little Bald (‘piccolo calvo’, cioè ‘calvino’). Fra i vari ‘nomi d’arte’ di Ken Follett vi è quello di Martin Martinsen (molto simile tra l’altro, come tipologia, a quello di William Wilson). 2 Interrompo qui la mia analisi dei nomi del doppio, quando vorrei invece continuarla. Perché molto resta da esplorare in questo campo, in particolar modo sul piano dell’onomastica. Mi limito a chiudere citando, per tutti coloro che sono ancora scettici circa l’utilità di tale tipo di indagini, ciò che Roland Barthes scrive di Proust : « L’onomastica proustiana pare essere talmente organizzata che sembra effettivamente costituire il punto di partenza definitivo della Recherche : possedere il sistema dei nomi era per Proust (ed è per noi) possedere le significazioni essenziali del libro, l’impalcatura dei suoi segni, la sua sintassi profonda ». 3 A ben pensarci, non potrebbe lo stesso Swann venir interpretato come allegoria dell’ambivalenza : come ‘cigno’ specchiante, Narciso che è anche ‘cantore e poeta’ – un doppio del narratore che gioca il duplice ruolo dell’io che ricorda e dell’io che è ricordato ? Ma questa è per il momento solo un’ipotesi, ed in quanto tale attende di essere verificata.  

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  Cfr. Nugnes, La narrativa americana, cit., p. 110.   Un caso limite è rappresentato infine dall’eteronimo, che costituisce una sorta di estensione della personalità dell’autore e che determina la nascita di un autore fittizio capace di esprimersi in modo assai diverso da quello consueto dell’artista stesso (detto, in questo contesto, ortonimo). L’esempio per eccellenza è rappresentato da Fernando Pessoa, che, ancora bambino, scriveva a se stesso le lettere firmandole prima Chevalier de Pas, poi Alexander Search. Altre identità alternative con cui lo scrittore ha composto poesie e romanzi sono Álvaro de Campos, Ricardo Reis, Alberto Caeiro e Bernardo Soares. Da sottolineare il fatto che alcuni di tali autori fittizi possiedono addirittura una data di nascita ed una di morte. 3   R. Barthes, Proust e i nomi, Torino, Einaudi, 2003 (19531), pp. 118-131: pp. 128-129. Il saggio apparve per la prima volta nel 1967 in To Honour Roman Jacobson, L’Aja, Mouton. 2

Lettura onomastica del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa : 1 « come proprio quel nome rivela »  





Richard Brütting …ogni parola è stata pesata e molte cose non sono dette chiaramente ma solo accennate. 2

«

C

omme son nom l’indique » – così è intitolata la rubrica onomastica del famoso settimanale francese di satira politica « Le Canard enchaîné ». 3 Con le stesse parole, tradotte in italiano, Don Fabrizio stuzzica il « caro Russo », uno dei rappresentanti del nuovo ceto in ascesa, che, per arricchirsi, approfitta del « lento fiume pragmatistico siciliano » (p. 33) della vecchia classe nobiliare :  

















[…] tu diventerai, che so io, il discendente di un boiardo di Moscovia, mercé il tuo nome, anziché il figlio di un cafone di pelo rosso, come proprio quel nome rivela. (p. 56)

Il gioco di parole suggerisce da una parte una provenienza ‘moscovita’ del cognome Russo (« discendente di un boiardo di Moscovia »), 4 e dall’altra la derivazione dall’agg. ‘rosso’, che si riferisce alla rossezza (o rozzezza ?) del pelo 5 del portatore di tale cognome. Ma mentre l’origine slava di esso è (in apparenza !) di pura fantasia, Russo, in realtà, è una variante meridionale di Rossi, il più comune cognome italiano, proveniente senza dubbio da ‘rosso’. Dopo Rossi, Russo occupa il secondo posto nella classifica di frequenza dei cognomi italiani. 6 Russo e Rossi fanno riferimento, oltre all’arrivo delle Camice rosse garibaldine in Sicilia, alla quotidianità della vita, al tran tran dell’esistenza umana : il Signor Rossi è il ben noto italiano medio, l’equivalente della Casalinga di Voghera. 7 La citazione riportata 1. evidenzia la funzione strutturante dei nomi nel Gattopardo, mettendo in rilievo tanto la loro trasparenza rispetto alla collocazione sociale delle persone (« tu diventerai […] il discendente di un boiardo di Moscovia, mercé il tuo nome ») quanto la loro forza di denuncia (« figlio di un cafone di pelo rosso, come proprio quel nome rivela ») ;  



















1  G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo (1958), nuova ed. riv. a cura di G. Lanza Tomasi, Bologna, Feltrinelli (2002), 2007, 89a ed. ; le pagine menzionate si riferiscono a questa edizione. Ringrazio Donatella Bremer, Grazia Dolores Folliero-Metz e Sergio Sacco per i loro preziosi suggerimenti. 2   Idem, [Lettera al barone Enrico Merlo di Tagliavia, 30 maggio 1957], in G. Lanza Tomasi, Premessa, in Idem, Il Gattopardo, cit., p. 9. 3   Un spiritoso rompicapo si trova in un catalogo di prodotti naturali : « pour vous aider a trouver le bonheur : / “mon chemin vers la lumiere” / du Dr Gérald jampolski » – « Le Canard enchaîné », 19 agosto 1992, p. 6 (jampolski = ‘Jean-Paul [II], polski, ski[eur]’). 4   Moscovia è l’antico nome it. di ‘Mosca’ – Russo è uno dei ‘boia’ della vecchia classe dei nobili. 5   Cfr. il nome di Rosso Malpelo, protagonista dell’omonima novella verghiana (1880) ; cfr. al riguardo B. Porcelli, Lettura onomastica di Rosso Malpelo – Ciàula scopre la luna, in Rosso Malpelo-Ciàula, sei letture e un profilo di storia della critica, « Italianistica », xxx, 2001, pp. 563-577. 6   Vedi gens = http ://www.gens.labo.net/it/cognomi/genera.html (9.1.08). 7   Vedi M. Castoldi, U. Salvi, Parole per ricordare. Dizionario della memoria collettiva, Bologna, Zanichelli, 2003, p. 360.  





















lettura onomastica del gattopardo

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2. invita alla riflessione onomastica. Dato che Don Fabrizio simultaneamente propone due ben diverse provenienze di Russo, una ‘vera’ (Russo < rosso), l’altra ‘fantasiosa’ (Russo < moscovita), perché non continuare tale ricerca, collegando per es.. Russo all’agg. dispregiativo rozzo, correlato a sua volta al sostantivo cafone, o prendendo in considerazione lo scenario del soldato sbudellato :  

Era stato Russo, il soprastante, a rinvenire quella cassa spezzata, a rivoltarla, a coprirne il volto col suo fazzolettone rosso, a ricacciare con un rametto le viscere dentro lo squarcio del ventre, a coprire poi la ferita con le falde blu del cappottone : sputando continuamente, per lo schifo, non proprio addosso ma assai vicino alla salma. (pp. 35 sg.)  

L’oscillazione « tra realtà e fantasia, storia e invenzione » 1 è la caratteristica basilare del Gattopardo, ma l’identificazione delle figure del romanzo con personaggi reali, 2 unicamente tramite ricerche storiche, genealogiche, ecc., ci dice ben poco sulla funzione narrativa dei nomi menzionati. Un problema centrale da risolvere è, infatti, la varietà degli appellativi nel Gattopardo. Vi si trovano - nomi veri di personaggi documentati (vedi Onofrio Rotolo),3 - nomi alterati di personaggi documentati (vedi Fabrizio Corbera Principe di Salina = Giulio [Fabrizio] Tomasi Principe di Lampedusa), - nomi correnti di persone inventate (vedi Angelica), - nomi coniati di sana pianta, inesistenti in Italia (vedi Sedàra).  



Sfumature di pirronismo celeste Questa oscillazione si riverbera p. es. in Pirrone, cognome del padre spirituale della famiglia Salina. Francesco Saverio Pirrone (1810-1889) è un personaggio realmente esistito (storico), come ci spiega lo stesso autore. 4 Ne è una prova la nota del Principe di Lampedusa pubblicata nel « Giornale di Sicilia » del 17 luglio 1861 : « Mi sono recato talune sere ai Colli onde fare delle osservazioni benché solo, trovandosi in Firenze l’Abb. Pirrone, che altre volte mi ha assistito ». 5 Essendo un potente appellativo metaforico, Giuseppe Tomasi ha conservato inalterato il cognome del Gesuita, che si riferisce prima di tutto a Pirrone, filosofo greco dello scetticismo radicale, ma anche – perché no ? – a Pirro, il re dell’Epiro, che vinse le battaglie contro i Romani a Eraclea e ad Ascoli Satriano (280/279 a.C.), nel corso delle quali, però, subì gravissime perdite. Il modo di dire ‘vittoria di Pirro’ indica un successo inutile, una battaglia che « pur vinta, non è in grado di mutare le sorti di una contesa ». 6 Pirrone sarebbe dunque, tramite il suffisso accrescitivo -one, un ‘grande’ Pirro, le cui vittorie nell’ambito della morale, in fin dei conti, non sono in grado di cambiare né il corso del mondo né i comportamenti ‘peccaminosi’ di Don Fabrizio. Tramite il suo nome il Gesuita è pirronista, e con ciò pervaso dall’atarassia, dall’imperturbabilità dell’anima. Ammessa la strutturazione tematica del romanzo :  

















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  A. Vitellone, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Palermo, Sellerio, 1987, p. 253.   Cfr. ivi, pp. 253-278 ; cfr. Santa Maria Belice = http ://members.aol.com/s157rv/smdbstoria.html (3.3.08). 3   Cfr. G. Tomasi di Lampedusa, Ricordi d’infanzia in Opere, 3a ed., introd. e premesse di G. Lanza Tomasi, Milano, Arnoldo Mondadori, 1997, pp. 359 e 377 sg. 4   Cfr. Idem, [Lettera], cit., p. 9 ; cfr. anche Vitellone, Giuseppe Tomasi, cit., pp. 256-258. 5   Citazione in Cronache di un secolo, dalla collezione del « Giornale di Sicilia », a cura di P. Pirri Ardizzone, Palermo, Flaccovio, [1959], p. 9. 6   Castoldi, Salvi, Parole per ricordare, cit., p. 421. 2











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richard brütting vita ←→ morte || eternità, 1

proposta da Eugenia Ocello, possiamo concludere che l’ausiliario di Don Fabrizio (come astronomo minore), malgrado le sue ‘vittorie di Pirro’, appartiene alla sfera dell’eternità, simboleggiata dal firmamento stellato : 2  

Le stelle rappresentano il massimo di esistenza con il minimo di vita e di dolore, ed è questa l’unica realtà che il protagonista [il Principe Fabrizio] invidia e alla quale inconsciamente aspira.

Significativo è l’agg. atarassico (cfr. p. 52) che riporta il lettore da una parte all’universo stellato e dall’altra all’atarassia, valore fondamentale del pirronismo. Pirrone, infine, è un religioso. Sebbene, come persona, privo di autorevolezza, 3 egli appartiene ad una istituzione che dovrebbe gestire la salvezza eterna, trascendendo teleologicamente le vicissitudini temporali :  

La Divina Provvidenza ha voluto che io divenissi umile particella dell’Ordine più glorioso di una Chiesa sempiterna alla quale è stata assicurata la vittoria definitiva […]. (p. 194)

Questa pretesa è forse una pia illusione, ma Padre Pirrone, in fin dei conti, ha la vocazione di far intravedere una realtà diversa dal binomio vita-morte, diversa dalla « de-facto-Dauer im Schein-Wechsel » 4 che domina tutta la trama del romanzo, sfera religiosa inclusa. Ma non solo le reliquie fasulle acquistate dalle zitelle Concetta, Caterina e Carolina mostrano l’inanità della sfera religiosa ; persino lo stesso Pirrone, che riesce a riconciliare la sua famiglia, svaluta il successo appena raggiunto con una cruda metafora animalesca, che riduce i propri parenti a uomini-bestie : 5 « il Signore si serve talvolta anche delle cagnette in calore per attuare la giustizia Sua » (p. 202).  











Tra aureola e rozzezza Anche la moglie di Calogero Sedàra, tenuta nascosta, perché troppo avvenente, dal proprio marito (cfr. pp. 127 sg.), porta un nome religioso : Bastiana deriva da san Sebastiano, il santo prescelto per rappresentare la bellezza del corpo (maschile). 6 L’esempio più palese ne è la tela del pittore siciliano Antonello da Messina, esposta nella Galleria di Dresda, raffigurante il santo quasi ignudo, immacolato, perforato solo da tre frecce, in una posa di splendida disinvoltura. Bastiana, nondimeno, è prima di tutto una “specie di animale […] : una bellissima giumenta, voluttuosa e rozza […], buona ad andare a letto e basta » (p. 128), come ci indica la paronomasia Bastiana/« Bella Bestia » (p. 153). 7 Tanto per la propria sporcizia quanto per il nome, Peppe Giunta, suo padre, chiamato da tutti Peppe ’Mmerda, appartiene alla sfera della rozzezza. Lo stesso vale per Sedàra, come svela la risposta evasiva di Don Fabrizio all’invito di Chevalley di accettare la carica di senatore  









1   « Da una parte vi è la vita dell’uomo nel suo significato dinamico di vita – morte, dall’altra l’eternità immobile. La vita dell’uomo, che ha come punto di arrivo la morte, implica l’impossibilità dell’eternità, mentre dall’altra parte le stelle, ‘gelide’ ed eterne, escludono qualunque possibilità di vita umana » (E. Ocello, Il Gattopardo. Un romanzo storico 2   Ivi, p. 35. per negare la storia, Roma, V. Lo Faro, 1987, pp. 36-37). 3   « Ängstlichkeit, Verklemmtheit, überschaubare Intelligenz degradieren ihn oft zu einem topischen Würstchen im Priestergewand, bar jeglicher Persönlichkeit » (T. Heydenreich, Von der Frömmigkeit zum Fetischismus. Verfallende Religion im Verfall einer Familie, in B. Tappert (a cura di), Vom Bestseller zum Klassiker der Moderne. Giuseppe Tomasi di 4   Ivi, p. 78. Lampedusas Roman Il Gattopardo, Tubinga, Stauffenberg, 2001, p. 79). 5   Cfr. M. Pagliara-Giacovazzo, Il Gattopardo o la metafora decadente dell’esistenza, Lecce, Milella, 1983, p. 149. 6   Cfr. H. L. Keller, Reclams Lexikon der Heiligen und der biblischen Gestalten. Legende und Darstellung in der bildenden Kunst, 6a ed., Stuttgart, Reclam, 1991, p. 508. 7   Per l’immagine della donna siciliana vedi H. Reimann, Das Bild der sizilianischen Frau im “Gattopardo”, in Tappert (a cura di), Vom Bestseller, cit., pp. 127-137.  







lettura onomastica del gattopardo

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del nuovo Regno d’Italia : « C’è un nome che io vorrei suggerire per il Senato : quello di Calogero Sedàra ; egli ha più meriti di me per sedervi ». Sedàra, un cognome coniato da Giuseppe Tomasi, 1 è una chiara allusione al ’sedere’ del portatore di questo appellativo, disonorato attraverso una paronomasia volgare. In epoca bizantina Calògero era un titolo reverenziale usato nel rivolgere la parola agli anacoreti e ai monaci ; divenne in seguito e rimase poi come denominazione comune per ‘monaco’. Deriva dalle parole greche kalós ‘bello’ e -ghéros ‘vecchio’ e significa ‘di bella vecchiaia’/‘buon vecchio’. 2 San Calogero, molto venerato in Sicilia, avrebbe il dono di operare guarigioni miracolose e di favorire i raccolti del grano. Dato però che Calogero Sedàra 3 è presentato continuamente attraverso le più ignobili metafore animalesche – schifosissimo rospo, scarafaggio, sciacalletto timoroso, ecc. 4 –, il nome di Calo-gero, che ancora oggi viene sentito come appellativo tipicamente ed esclusivamente siciliano, diviene sinonimo di rustici costumi ; suggerisce pure interpretazioni malevoli.  













Le signorine zitelle Fluttuando tra realtà e invenzione, siamo vicini alla sfera religiosa con Concetta (1844-1930), Caterina (1852-1900) e Carolina (1843-1925), tre figlie storiche di Giulio Fabrizio Tomasi, il bisnonno dell’autore. Siccome queste tre prozie erano morte nubili, e per i significati ‘curiosi’ dei loro nomi, Tomasi di Lampedusa probabilmente ne ha immortalato gli appellativi reali. Il nome di Caterina (i.e. ‘la pura, la pudica’ ; è nome di origine greca) si riferisce sia a santa Caterina da Siena, Patrona d’Italia e d’Europa (e delle zitelle), sia a santa Caterina d’Alessandria. Entrambe le donne rifiutarono la profana vita coniugale in favore di uno sposalizio mistico con Gesù Cristo. Analogamente santa Caterina da Valstena (santa Caterina di Svezia) non ebbe rapporti fisici, ma visse il matrimonio da vergine. 5 Concetta, zitella anche lei, porta una delle numerose denominazioni della Vergine Maria – « costruzione ellittica che sta per “Maria Concetta senza la macchia del peccato originale” » 6 (dogma di Pio IX dell’8 dicembre 1854) –, ed è stata scelta dall’autore in modo ironico, poiché Concetta, a causa della preferenza di Tancredi per la più appetitosa e danarosa Angelica, rimarrà ‘Vergine Immacolata’, certo suo malgrado. Alla fine ripudia il garibaldino Carlo Cavriaghi, 7 suo romantico e insistente spasimante. Nonostante la sua « totale purezza », la vecchia Concetta è chiamata da un nipote (ingenuamente ?) « La Grande Caterina » (p. 251). 8 Carolina, 9 invece, sembra connesso a Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, vale a dire all’ambiziosa consorte del re ‘lazzarone’ Ferdinando IV di Borbone. Alla fuga di Maria Carolina in Sicilia per l’arrivo a Napoli delle truppe napoleoniche risalirebbe il toponimo Donnafugata,  















1   Ricerche su Internet e nell’elenco telefonico non hanno fornito nessun risultato in merito ; vedi gens, cit. (9.1.08). – A secondo dello scrittore, « Sedàra, come nome, rassomiglia molto a “Favara” » (Tomasi di Lampedusa, [Lettera], cit., p. 9) – Il Parco della Favara fu un magnifico parco reale normanno nei pressi di Palermo, luogo della novella v, 6 del Decamerone di Boccaccio : vedi. http ://it.wikipedia.org/wiki/Parco_della_Favara – Maria Favara era la moglie del garibaldino Corrado Valguernara e Tomasi, nipote di Giulio Fabrizio Tomasi (cfr. Vitellone, Giuseppe Tomasi, cit., pp. 268 sgg.). 2   Cfr. C. Tagliavini, Origine e storia dei nomi di persona, Bologna, Pàtron, 1978, vol. i, p. 196. 3   Il sindaco fittizio di Donnafugata ricorda forse quello degli anni 1877-1882, Calogero Giaccone ; cfr. Santa Maria 4   Cfr. Pagliara-Giacovazzo, Il “Gattopardo”, cit., pp. 120 sgg. Belice, cit. 5   Cfr. Keller, Reclams Lexikon der Heiligen, cit., pp. 352-355. 6   Tagliavini, Origine e storia dei nomi, cit., vol. i, p. 422. 7   Nome coniato dall’autore ; cavra = ‘capra’ nelle parlate settentrionali, e perciò Cavriaghi accenna forse all’isola di Caprera, la dimora del vecchio Garibaldi; un paesino nei pressi di Reggio Emilia si chiama Cavriago. 8   La zarina Caterina II è rinomata per le sue dissipatezze. 9   La ‘severa’ principessa tedesca Carolina (cfr. p. 158) = Carolina Wochinger Greco, la nonna delle sorelle.  













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dato dall’autore alla dimora estiva dei Corbera. 1 La famiglia reale soggiornò temporaneamente negli anni 1811-1813 a Santa Margherita, feudo dei lontani antenati materni Corbera, nel Palazzo Filangeri Cutò, dove Giuseppe Tomasi passò gran parte della sua infanzia. Mademoiselle Dombreuil, la governante nubile delle tre sorelle, appartiene essa pure alla sfera religiosa, poiché Dom è il titolo francese di certi chierici regolari (Benedettini, Certosini). 2 La ‘religiosità’ della signorina francofona si manifesta nella sua totale abnegazione. Era dotata di una « bocca disavvezza alle carezze […], tante poche corde aveva il proprio arco, sempre costretta a raffigurarsi le gioie degli altri » (p. 152). La seconda parte del cognome, invece, può provenire sia dal fr. antico breuil, brueil ‘piccolo bosco’, sia dal fr. antico breuille ‘budella’, ‘viscere’. Sottintende probabilmente anche il verbo fr. brouiller ‘imbrogliare’, adombrando uno sfondo oscuro, represso di desideri ‘proibiti’. Rivelatrici sono le ammonizioni della Dombreuil : « Angelicà, Angelicà, pensons à la joie de Tancrède » ovvero « Tancrède, Tancrède, pensons à la joie d’Angelicà » (pp. 147 e 152), che contengono l’allusiva parola joie ‘gioia’. In più, la prima persona del plurale (pensons) include la governante medesima, indicando così il fatale meccanismo psichico « che proietta su altre persone elementi del proprio io inconsciamente rifiutati ». 3  

















La sensualità calcolatrice di Angelica e Tancredi Andrea Vitellone ha dimostrato l’inconsistenza di ogni tentativo di voler identificare Angelica e Tancredi, nipote di Don Fabrizio, con personalità storiche, eccetto forse che per l’aspetto e le maniere del maschio, ispirati da Gioacchino (Giò) Lanza, il figlio adottivo dell’autore. 4 La coppia Angelica-Tancredi, dunque, è largamente una creazione letteraria, che richiama alla memoria tanto le popolari figure dei Pupi siciliani quanto le epopee eroiche Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo e Orlando furioso di Ludovico Ariosto (per Angelica), 5 Gerusalemme liberata di Torquato Tasso (per Tancredi). Una citazione dall’Orlando innamorato (libro primo, i, 29 sg.) 6 può delineare la figura di Angelica :  

Ogni om per meraviglia l’ha mirata, / Ma sopra tutti Orlando a lei s’accosta / Col cor tremante e con vista cangiata, / Benché la voluntà tenìa nascosta ; / E talor gli occhi alla terra bassava, / Ché di se stesso assai si vergognava. “Ahi paccio Orlando !” nel suo cor dicia / “Come te lasci a voglia trasportare ! / Non vedi tu lo error che te desvia, / E tanto contra a Dio te fa fallare ? / Dove mi mena la fortuna mia ? / Vedome preso e non mi posso aitare ; / Io, che stimavo tutto il mondo nulla, / Senza arme vinto son da una fanciulla […]”.  











Angelica qui non è più il dolce angelo stilnovistico o l’idealizzata Laura petrarchesca 7 e non 1   Altre fonti pretendono che la denominazione Donnafugata provenga dal Palazzo Arezzo-Donnafugata nei pressi di Ragusa, eretto nella seconda metà dell’Ottocento, dove lo scrittore soggiornò alcune volte. Il nome di questo palazzo sarebbe di origine araba ; vedi Vitellone, Giuseppe Tomasi, cit., pp. 279-294, e E. Iachello, Die Schauplätze des Gattopardo. Formen und Arten der Raumdarstellung bei Tomasi di Lampedusa, in Tappert (a cura di), Vom Bestseller zum Klassiker, cit., pp. 103-115: soprattutto pp. 103-107. 2   Vedi it. ‘Don’ < lat. dominus : « Titolo onorifico che si premette al nome degli ecclesiastici ; nell’Italia meridionale è attribuito genericamente a persone di riguardo » (disc. Dizionario Italiano Sabatini Coletti, Firenze, Giunti, 1997, p. 791, voce don). 3   disc, p. 2049, voce proiezione; la moglie dell’autore, Alessandra Wolff e Barbi (1894-1982), fu psicanalista della prima ora. 4   Cfr. Vitellone, Giuseppe Tomasi, cit., pp. 266-272, e Tomasi di Lampedusa, [Lettera], cit., p. 9. 5   « […] Angelica, sontuosa come il suo nome ariostesco » (p. 200) ; cfr. anche Tomasi di Lampedusa, Ricordi d’infanzia, cit., p. 379. 6   M. M. Boiardo, Orlando innamorato. Amorum Libri, a cura di A. Scaglione, 2a ed., Torino, utet, 1963, vol. i, p. 198. 7   « L’Angelica […] è per i paladini la donna fatale, l’amore che perde e travia : ma la sua azione non è limitata a quel 



















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assomiglia affatto alla protagonista del romanzo perbenista Angiola Maria, che « intirizziva il cuore siciliano delle signorine » (p. 151) di casa Salina. Si capisce allora la ragione profonda della ricercata spiegazione del nome Russo, fatta da Don Fabrizio (« discendente di un boiardo ») : egli è un seguace di Boiardo, colui che ideò la figura di Angelica dotandola di una grandissima potenza seduttrice e di un carattere ingannatore e feroce. E questa figura, appunto, la ritroviamo nel nostro romanzo : « Travolti dalla animalesca bellezza di Angelica, i maschi presenti non ne avvertono i pure appariscenti difetti di classe, tranne Concetta […]. [Angelica] suscita una scontata ammirazione, sveglia un’ovvia eccitazione sessuale nei maschi ». 2 Angelica, tuttavia, incontra in Tancredi uno scaltro complice alla sua altezza. Sebbene soccomba al fascino di lei, Tancredi sa, essendo abilissimo opportunista, trasformare la sconfitta in vittoria. Il suo è nome carico di echi musicali, 3 letterari e storici ; nel Medioevo appellativo di re e cavalieri normanni, 4 Tancredi può significare ‘arguto consigliere’ (è nome normanno « di origine germanica formato da *thanka- ‘pensiero’ e *radha- ‘assemblea ; consiglio, deliberazione’ »). 5 Modello dell’uomo moderno, flessibile, mobile e sleale, 6 Tancredi porta dunque un nome ‘fluido’, senza nucleo stabile, idoneo a indicare l’« uomo astuto e tempista » (p. 138), capace di arrangiarsi in tutte le situazioni che sembrano garantire esiti vantaggiosi. Non a caso questo furbo camaleonte appartiene all’illustre famiglia Falconeri, che si era sempre adattata a tutti i regimi, legittimi e illegittimi : 1































venuta in Sicilia con Carlo d’Angiò, essa ha trovato modo di continuare a fiorire sotto gli Aragonesi, gli Spagnoli, i re Borboni […] e sono sicuro che prospererà anche sotto la nuova dinastia continentale. (p. 135)

Il cane benedetto L’alano Bendicò è, secondo l’autore, « un personaggio importantissimo ed è quasi la chiave del romanzo ». 7 È un cane letterario come il cane anonimo di Petrarca 8 e Bauschan (< Bastian < Sebastian[o]), il cane di Thomas Mann nel racconto Herr und Hund. Con le sue qualità straordinarie questa creatura - è vicina all’eternità, come nota Don Fabrizio : « Vedi, tu Bendicò, sei un po’ come loro, come le stelle : felicemente incomprensibile, incapace di produrre angoscia » (p. 97). Il ricordo del carattere ‘pirronista’ di Bendicò, nonché di Fufi, Tom, Svelto e Pop, è una grande consolazione per il Principe morente (cfr. p. 244) ;  













la unilateralità : essa è anche la Venere feconda, apportatrice di “viver forte” agli amanti […]. Non più Dio, non più patria : le meravigliose imprese, le strepitose battaglie, hanno un nome solo, un’insegna ridente e tragica : Angelica ! » (A. Scaglione, Introduzione, in Boiardo, Orlando innamorato, cit., pp. 22 sg.) – si pensi anche a Marie Angélique de Fontanges (1661-1681), la bellissima maîtresse di Ludovico XIV. 1   G. Carcano, Angiola Maria, Milano, Pietro Manzoni, 1839. 2   G. Buzzi, Invito alla lettura di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Milano, Mursia, 1972-1987, pp. 106 sg. 3   Tancredi è il titolo del primo successo operistico, nel 1813, di Giacomo Rossini. 4   Un nipote di Roberto il Guiscardo si chiamava Tancredi ; divenne l’omonimo cavaliere dell’epopea Gerusalemme liberata del Tasso – Tancredi conte di Lecce fu l’ultimo esponente della dinastia normanna in Sicilia. Eletto nella fine del 1189, regnò fino alla morte nel 1194. Il suo successore fu Enrico VI di Hohenstaufen. 5   E. De Felice, Dizionario dei nomi italiani. Origine, etimologia, storia, diffusione e frequenza di oltre 18.000 nomi, Milano, Mondadori, [1986] 1992, pp. 339 sg. ; cfr. anche Tagliavini, Origine e storia dei nomi, cit., vol. ii, pp. 264 e 297 – come molto spesso avviene per i nomi bimembri di origine germanica, l’interpretazione del composto può tuttavia variare a seconda dei significati che si attribuiscono ai due componenti del nome stesso e al nesso che li lega. 6   Con i soldi mandatigli dal principe, Tancredi compra allo stesso tempo l’anello di fidanzamento per Angelica e una spilla per la ballerinetta Aurora Schwarzwald (cfr. pp. 108 e 156). 7   Cfr. Tomasi di Lampedusa, [Lettera], cit., p. 9. 8   Cfr. K. Stierle, Petrarcas Hund, « Neue Rundschau », cxv, 2, 2004, pp. 43 sg.  













   

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- possiede il dono del discernimento, così « da poter operare scelte corrette, oculate ». 1 Ringhiando « nel fondo della propria gola » (p. 147), è lui l’unico, oltre alla gelosa Concetta, a intuire la falsità seducente di Angelica. Con grande diffidenza si avvicina anche a Chevalley, inviato dal re di Torino a Don Fabrizio : « Bendicò, meticoloso, fiutò a lungo i calzoni di Chevalley ; dopo, persuaso di aver da fare con un buon uomo si accovacciò sotto la finestra e dormì » (p. 177). Secondo Francesco Orlando, negli anni ’50 allievo dell’autore,  















l’origine del nome Bendicò, sicuramente già portato da un cane di famiglia, si rifà a due versi del libretto del Rigoletto (“Ah ! ah ! rido ben di core – ché tai baie costan poco...”) ; come si vede la presenza aborrita e lo scherno del melodramma italiano sono insiti nel Gattopardo ancora più di quanto non appaia. 2  





Mi pare, nondimeno, che le osservazioni autorevoli di Orlando non spieghino a sufficienza la ‘letterarietà’ del zoonimo Bendicò. Quasi inesistente in Italia come nome per cani, 3 Bendico (senza accento) è presente in ogni elenco spagnolo ; 4 deriva dal verbo sp. bendicir (vedi [yo] bendigo). Bendicò, dunque, può essere sentito in stretta relazione con il verbo lat. benedicere (vedi [ego] benedico) ossia con il verbo it. benedire (bendire, antico benedicere), usato in numerose formule religiose e nei saluti rispettosi siciliani Voscenza benedica (cfr. p. 62) o Vossia binidica. La forma apocopata in -ò è tipica del Meridione dell’Italia (si pensi a Totò e Antò, ambedue forme ipocoristiche di Antonio, o a Giò, forma abbreviata di Giovanni e Gioacchino). Per conoscere meglio la funzione narrativa del nome Bendicò occorre rifarsi all’inizio del romanzo. Nunc et in hora mortis nostrae. Amen è la conclusione dell’Ave Maria, che contiene le due parole benedicta e benedictus. Stupisce che il primo essere vivente nominato, 5 precisamente dopo l’ultimo Ave Maria del rosario, sia un cane – scontento per non aver potuto partecipare alla preghiera : « Dalla porta [...] Bendicò, rattristato dalla propria esclusione, entrò e scodinzolò » (p. 31). Alla fine del romanzo, lo stesso ‘pio’ cane finisce però – come le false reliquie – nell’immondizia, buttato via dalla finestra dalla bigotta Caterina in forma « di un mucchietto di polvere livida » (p. 268). Bendicò, così, è andato a farsi ‘ben[e]dire’. Rilevanti sono anche le formule di congedo nelle lettere di ecclesiastici, come ‘[io] benedico’, ‘il Signor benedica’. Questo è il caso della corrispondenza degli antenati dell’autore, specie di quella del Servo di Dio Carlo Tomasi, primo Duca di Palma (1638), chierico teatino. 6 Carlo Tomasi, infatti, fa parte di una serie di familiari morti in odore di santità : « Lascia il titolo di Duca e la fidanzata al gemello Giulio per seguire la sua vocazione religiosa ». 7 Questo, detto il Duca Santo, primo Principe di Lampedusa, sposato nel 1640 con Rosalia Traina Drago Baronessa di Falconeri, 8 ebbe sei figli ‘santi’ : Francesca (Suor M. Serafica, Badessa del Monastero di Palma) ; Isabella (Suor M. Crocifissa, Venerabile nel 1797, detta nel romanzo la Beata Corbera) ; Antonia (Suor M. Maddalena) ; Giuseppe Maria (cardinale, Beato nel 1803, Santo nel 1986) ; Alipia Gaetana (Suor M. Lanceata) e Ferdinando (detto il Principe Santo), il quale portò  



























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  disc, p. 745, voce discernimento. L’alano, secondo il caso, benedice o vendica (ben[e]dico + vendicò > Bendicò).   F. Orlando, Ricordo di Lampedusa (1962) seguito da Da distanze diverse (1996), Torino, Bollati Boringhieri, 2001, p. 73. 3   In seguito alla pubblicazione del Gattopardo Bendicò è diventato, come Donnafugata, Sedàra, ecc. un marchionimo di vini siciliani. 4   Bendicò non è un nome italiano per cani, bensì un rarissimo antroponimo. 5   Il primo antroponimo menzionato si riferisce a Maddalena, la cui tela « era sembrata una penitente anziché una bella biondona » (p. 31) ; vedi anche Keller, Reclams Lexikon der Heiligen, cit., pp. 411 sgg. 6   http ://xoomer.alice.it/capolettera/cda/carlo/letterecarlo/carlettereindice.htm (22.1.08). 7   http ://xoomer.alice.it/capolettera/cda/genealogia.html (22.1.08). 8   Cfr. ibidem – la moglie del Duca Santo decise, dopo 15 anni di unione, di vivere la castità nel matrimonio. Nel 1661 entrò nel convento dove già erano tre delle sue figlie, portando con sé la piccola Alipia Gaetana di appena tre anni, la futura Suor M. Lanceata – Nota Bene : Tancredi è Principe di Falconeri. 2













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avanti il lignaggio dei Tomasi e si fece cappuccino dopo la morte della moglie. – Tutti questi fatti Giuseppe Tomasi di Lampedusa li conosceva bene. 1 Allora si ha netta l’impressione che, con i suoi accenni spesso irriverenti alla Beata Corbera (cfr. pp. 98-100), ai copricapo ecclesiastici, alle false reliquie (cfr. pp. 249 sgg.) e soprattutto alla frusta del Duca-Santo, lo scrittore abbia voluto ridimensionare, se non proprio negare la tanto esaltata barocca religiosità dei suoi antenati. Era la “disciplina” del Duca-Santo. In quella stanza Giuseppe Corbera, duca di Salina, si fustigava solo, al cospetto del proprio Dio e del proprio feudo, e doveva sembrargli che le gocce del sangue suo andassero a piovere sulle terre per redimerle ; nella sua pia esaltazione doveva sembrargli che solo mediante questo battesimo espiatorio esse divenissero realmente sue, sangue del suo sangue, carne della sua carne. (p. 164)  

Addirittura nella stanza della « pia esaltazione » e di un « enorme Crocifisso più grande del vero » (p. 164), la « esaltazione sensuale » (p. 159) della coppia Angelica-Tancredi giunge all’apice : « quella mattina Angelica, da quella canaglia che era, gli aveva detto : “Sono la tua novizia”, richiamando alla mente di lui con la chiarezza di un invito, il primo incontro di desideri corso fra loro […] » (p. 165). Ma come nella poesia di Eichendorff Der stille Grund, 2 « il boato del campanone della chiesa piombò quasi a picco sui loro corpi giacenti » (ibidem). Non meno significativo è il giudizio satirico sul comportamento delle vecchie signorine Salina riguardo a un incessante viavai di chierici e la loro venerazione di una ‘miracolosissima’ raffigurazione della Vergine, « assai piacente, gli occhi rivolti al cielo, i molli capelli bruni sparsi in grazioso disordine sulle spalle seminude » (p. 253). Per il Vicario invece, che fa l’ispezione della cappella privata in Palazzo Salina, il quadro rappresenta piuttosto una « ragazza che ha ricevuto l’appuntamento ed aspetta l’innamorato » (p. 255).  































Il cardinale anonimo Un posto a parte spetta al Cardinale di Palermo che, appunto, « non era siciliano, non era neppure meridionale o romano » (p. 265). L’autore gli conferisce il titolo di « Principe della Chiesa », mettendolo in questo modo all’altezza del Principe di Salina e del Principe di Lampedusa. Contrariamente alle fantasticherie delle tre sorelle, che si aspettavano di « vedere aggirarsi in casa loro una specie di sontuoso volatile rosso e di poter ammirare i toni vari e armonizzati delle sue diverse porpore » (pp. 265 sg.), egli arriva a Palazzo Salina in sobria tenuta, deludendo così l’ultima modesta speranza di queste (cfr. p. 266). La frase « Il Cardinale di Palermo era davvero un sant’uomo » (p. 264), scritta tre decenni prima della canonizzazione nel 1986 del cardinale-avo Giulio Maria Tomasi (1649-1713), non presenta dunque una nota ironica, poiché il Santo si distinse non solo come consigliere spirituale (anche di sua sorella Isabella, la Beata Corbera, una mistica problematica, che avrebbe ricevuto una lettera dal Diavolo), ma soprattutto come ricercatore autodidatta. Lottando contro i recentiores contemporanei, che dichiaravano come norma le versioni attuali dei testi sacri, senza ricorso ad un’analisi storica, Giulio Maria Tomasi vi scoprì tante deformazioni e aggiunte tardive. In questo senso è un precursore della critica testuale moderna. 3 Colpisce tuttavia il sarcasmo con cui sono raccontati i vani sforzi del cardinale volti « a far  

















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  Cfr. G. Lanza Tomasi, Introduzione, in Tomasi di Lampedusa, Opere, cit., p. xlii.   « Und hätt’ ich nicht vernommen / Den Klang zu guter Stund’, / Wär’ nimmermehr gekommen / Aus diesem stillen Grund ». 3   Cfr. H. H. Schwedt, tomasi, Giuseppe Maria, in Biographisch-Bibliographisches Kirchenlexikon, vol. xii, 1997, pp. 318-326 = http ://www.bautz.de/bbkl/tomasi_j_m.shtml (22.1.08). 2







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lievitare la pasta inerte e pesante della spiritualità siciliana in generale e del clero in particolare » (p. 265). L’operato del cardinale dà luogo a « fucilate nella bambagia […]. Come per tutti coloro che, in quei tempi, volevano riformare checchessia nel carattere siciliano si era presto formata su di lui la reputazione fosse un fesso » (ibidem). Tutto sommato Il Gattopardo non è solo un romanzo storico (Risorgimento, ecc.), ma anche un romanzo (anti)familiare, una rottura con le tradizioni della stirpe di santi, in fondo una uccisione simbolica dei propri ‘padri’. Questo atto profanatorio è indicato con la risposta di Don Fabrizio alle false ma rivelatrici parole di Pietro Russo : « Ho capito benissimo : voi non volete distruggere noi, i vostri ‘padri’ ; volete soltanto prendere il nostro posto. Con dolcezza, con buone maniere, mettendoci magari in tasca qualche migliaio di ducati » (pp. 55 sg.).  















Il protagonista « È superfluo dirti che il ‘principe di Salina’ è il principe di Lampedusa, Giulio Fabrizio, mio bisnonno », 1 afferma l’autore del Gattopardo in una lettera. Fabrizio Corbera di Salina, dunque, si identificherebbe con Giulio [Fabrizio] Tomasi (1815-1885), 2 duca di Palma, principe di Lampedusa, Pari di Sicilia, astronomo, 3 che, nel 1837, sposò Maria Stella Guccia, da cui ebbe 12 figli. 4 Sappiamo, comunque, che del bisnonno « il pronipote ha dato un ritratto infedele, trasformando un uomo tutto sommato debole e influenzabile in una personalità forte e tirannica ». 5 Fabrizio è un nome privo di connotazioni religiose. Tale nome deve essere posto « fra i personali ‘adèspoti’, mancando assolutamente ogni riferimento a santi, beati o venerabili ». 6 Si riferisce alla nobilissima gens Fabricia ed al console romano Gaius Fabricius Luscinus (282 e 278 a.C. ; censore nel 275), figura emblematica della ‘virtù romana’. Siccome Fabricius respinse, nella guerra contro i Tarantini, la proposta di Pirro di promuovere, in cambio di un ‘pizzo’, la pace con i Romani e persino l’offerta di un traditore di avvelenare il re dell’Epiro, quest’ultimo liberò i prigionieri romani senza riscatto, riconoscendo così l’onestà di Fabricius. Il nome di Fabrizio fa inoltre pensare alle letture stendaliane di Giuseppe Tomasi, precisamente al tumultuoso Fabrice, protagonista del romanzo La Chartreuse de Parme (1839).7 Fabrizio Corbera porta il titolo di principe di Salina, vale a dire principe di una delle isole Eolie (analogamente l’autore è principe dell’isola di Lampedusa), ma salina designa anche la struttura atta all’estrazione del sale dalle acque del mare. Il sale stesso è simbolo della vita : possiede un’azione purificatrice e può proteggere contro gli spiriti maligni (per cui, nell’antichità, i neonati venivano strofinati con sale, uso presente anche nel vecchio rito battesimale) ; infine è atto a conservare ed insaporire i cibi. Perciò il Vangelo dice : « Voi siete il sale della terra ; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato ? » (Mt 5, 13). Queste qualità rendono bene l’attitudine lungimirante, scettico-conservatrice del principe di Salina. Assai tortuosa è la sostituzione del cognome Tomasi con Corbera. I Corbera, un’antica famiglia nobile catalana, 8 con cinque corvi nello stemma, ottennero nel 1433 la baronia di  

























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  Tomasi di Lampedusa, [Lettera], cit., p. 9   Fabrizio non figura tra i nomi di battesimo del Principe di Lampedusa, ma era utilizzato negli atti ufficiali (cfr. Vitellone, Giuseppe Tomasi, cit., p. 253). 3   Cfr. Vitellone, Giuseppe Tomasi, cit., pp. 253-256 e 261-265. 4 5   Don Fabrizio, invece, ne ha sette.   Buzzi, Invito alla lettura, cit., p. 18. 6   Tagliavini, Origine e storia, cit., vol. ii, p. 412 – l’etimologia del nome Fabrizio è incerta, forse etrusca. Popolarmente viene accostato al lat. faber. 7   Cfr. A. Di Benedetto, Elementi di onomastica lampedusiana, in I nomi di Dante ai contemporanei, Viareggio-Lucca, Mauro Baroni Editore, 1999, pp. 121 sg. 8   Vd. http ://www.armoria.info/libro_de_armoria/CORBERA.html. (27.1.08) – Diverse località catalane portano il toponimo di Corbera – fra queste, Corbera d’Ebre, distrutta nel 1938, rimane una testimonianza della guerra di Spagna. 2



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Misilindino, che, popolata nel 1572 da Antonio Corbera, nel 1610, con permesso reale, fu chiamata Santa Margherita [di Belice]. Grazie a un contratto matrimoniale passò ai Filangeri, che nel 1675 acquistarono il feudo di Cutò. Nel 1867 Giovanna Filangeri di Cutò sposò Lucio Mastrogiovanni Tasca. Dall’unione della loro figlia Beatrice con Giulio Tomasi principe di Lampedusa nacque Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel 1897. 1 Va messo in evidenza che né il bisnonno dell’autore né Isabella Tomasi, la beata Suor M. Crocifissa, furono discendenti dei Corbera. Gli appellativi Fabrizio Corbera, Giuseppe Corbera (il duca-Santo) e Beata Corbera sono quindi invenzioni onomastiche dello scrittore. Le donne del principe Come la consorte di Giulio Tomasi, anche la moglie del principe di Salina – astronomo pure lui : aveva scoperto due pianetini, Salina e Svelto –, porta il nome di Maria Stella. Soffermiamoci un attimo su questo nome : san Girolamo interpretò, erroneamente, il nome della Vergine come formato dalle parole ebraiche mar ‘goccia’ e yâm ‘mare’ ; Maria, quindi, significherebbe (in latino) stilla maris. « Per successivi errori dei copisti questo stilla maris divenne stella maris o maris stella », 2 espressione diffusa fra i cristiani anche in forma di nomi composti : Maria Stella, Stella Maris, Maristella. Potrebbero formare una bella coppia lo scopritore di due stelline e la sua Stelluccia, nome vezzeggiativo dato da Don Fabrizio a Maria Stella. Lo sposo, tuttavia, osserva con amarezza come il proprio trasporto amoroso si fosse spento da un pezzo. Si lamenta che sua moglie, adesso « troppo prepotente, troppo anziana anche » (p. 46), faccia il segno della croce prima di ogni abbraccio e dica solamente « Gesummaria ! » nei momenti di maggiore emozione – senza mai far vedere nemmeno l’ombelico. Così, proprio mentre sta per entrare nella casa di Mariannina, la prostituta palermitana, agli antipodi di Stelluccia, Don Fabrizio qualifica la frustrante bigotteria pudibonda di sua moglie : « La vera peccatrice è lei ! » (p. 47). Saltano all’occhio i ‘meriti’ della prostituta : secondo Don Fabrizio, « si era mostrata umile e servizievole […]. In un istante di particolare deliquescenza le era anche occorso di esclamare “Principone !” […]. Era una buona figliuola Mariannina » (pp. 47 sgg.). 3 Tutte queste considerazioni – in qualche modo blasfeme – suggeriscono che Mariannina, essendo l’umile serva del potente Signore-Principone, sia una ‘vera’ Maria, che ricorda alcune figure bibliche, tanto la sorella di Marta : « Maria ha scelto la parte migliore » (Lc 10, 42) quanto la Maria del Magnificat (Lc 1, 46 sgg.) e dell’Annunciazione : « Ecco la serva del Signore » (Lc 1, 38). Va soprattutto rilevato che nel « Gesummaria ! » di Stelluccia riecheggia il nome vezzeggiativo Mariannina, derivato da Marianna. Questo appellativo, comunemente considerato come composto da Maria + Anna (la madre della Vergine), in realtà è legato a Mariamne, 4 la seconda delle otto mogli del sanguinario re Erode I il Grande (ca. 73-4 a.C.), che fece uccidere molti parenti, tra cui Mariamne, per presunto adulterio. Don Fabrizio, quindi, frequenta una prostituta, il cui nome indica simultaneamente salvezza (Mariannina < Maria + Anna) e colpa (Mariannina < Mariamne), come appare dalla confusa confessione di Don Fabrizio : « Pecco, è vero, ma pecco per non peccare più, per strapparmi questa spina carnale, per non essere trascinato in guai maggiori. Questo il Signore lo sa » (p. 46).  

















   





   























   







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  Vedi http ://members.aol.com/s157rv/smdbstoria.html (27.1.08).   Tagliavini, Origine e storia, cit., vol. i, p. 310 – vedi il canto liturgico tedesco « Meerstern, ich dich grüße… ». 3   Non mancano sfumature erotiche nei rapporti tra Angelica e Don Fabrizio : dopo due bei bacioni ricambiati, Angelica, la fidanzata di Tancredi, sospira all’orecchio del Principe « Zione ! » (p. 146), ovviamente un’eco del « Princi4   Mariamne, un nome egiziano, significa ‘amata dal dio Amon’. pone ! » di Mariannina.  

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richard brütting L’amico-cicerone del principe

L’amico di caccia di Don Fabrizio è Francesco Tumeo La Manna, 1 detto Don Ciccio, l’organista della chiesa madre di Donnafugata. Mentre Ciccio è una forma abbreviata del nome del Poverello d’Assisi, il cognome Tumeo, diffuso soprattutto in Sicilia, è derivato, come Tomasi, 2 da Bartolomeo o Tommaso, ciò che indica la vicinanza di Don Tumeo al bisnonno dell’autore. L’amico, effettivamente, conosce molti segreti familiari del Principe di Salina. È lui il primo a venire a sapere del progetto nuziale Angelica-Tancredi ed a rivelare l’imbroglio soggiacente all’annessione della Sicilia al Regno di Sardegna ; impreca contro i Savoiardi e contro i Sedàra, pur appartenendo alla « gente per la quale ubbidire, imitare e soprattutto non fare della pena a chi si stima di levatura sociale superiore alla propria, è legge suprema di vita » (p. 125). Per l’assetto narrativo del romanzo, le parole di Ciccio Tumeo hanno un enorme valore conoscitivo : egli è quasi una Manna celeste 3 e il cicerone spirituale dell’astronomo, mostrando a lui (e al lettore) la reale costellazione familiare dei Sedàra, e prima di tutto la truffa plebiscitaria che creerà il Regno d’Italia. In seguito Don Fabrizio si chiede « se per caso Don Ciccio non si fosse comportato più signorilmente del Principe di Salina ; e i Sedara, tutti questi Sedara […] non avevano forse commesso un delitto strozzando queste coscienze ? » (p. 124 sg.). Don Ciccio capisce soprattutto « chi era strangolata a Donnafugata, in cento altri luoghi […] : una neonata, la buonafede, proprio quella creatura che più si sarebbe dovuto curare […] » (p. 123).  





















Il missus dominicus piemontese Di particolare interesse è il nome raffinatissimo del cavaliere Aimone Chevalley di Monterzuolo, che si trovava nel novembre 1860 nella parte più indigena della Sicilia – « vi era stato sbalzato dritto dritto dalla propria terricciuola del Monferrato » (p. 170). 4 Salta all’occhio la denominazione multilingue del segretario della prefettura, che riflette bene il multilinguismo piemontese e della corte di Torino : mentre Aimone è un nome di origine germanica (vedi germ. *heimi- e ted. mod. Heim ‘patria, casa’), Monterzuolo ha la struttura di una parola italiana e Chevalley è un cognome francese, 5 derivato da cheval ‘cavallo’, ciò che fa ricordare che i membri della piccola nobiltà devono il titolo di chevalier ‘cavaliere’ alle prestazioni cavalleresche dei loro antenati. Per sottolineare ironicamente questo aspetto, Chevalley e Francesco Paolo, un figlio di Don Fabrizio, come « cavallereschi contendenti » (p. 171) disputano una ‘giostra’ di cortesia nel voler portare la valigia dell’ospite piemontese. Chevalley fa pensare pure alla parola omofona fr. chevalet ‘cavalletto’, che significa, tra altro, ‘strumento di tortura’ : il discorso noioso di Chevalley, infatti, è un martirio per il Principe – gli richiama alla memoria il noto cavallo « Incitatus che Caligola aveva fatto senatore » (p. 176). Ma oltre all’elemento ippico, Chevalley contiene la parola francese poco nobile di valet ‘domestico,  















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  Forse un ricordo del maestro di musica Franceso Lo Monaco ; cfr. Santa Maria Belice, cit.   Cfr. A. Mango di Casalgerardo, Nobiliario di Sicilia, s.v. Tomasi o Tommasi = http ://www.regione.Sicilia.it/beniculturali/bibliotecacentrale/mango/testai.htm (3.2.08). 3   « Il cibo che, secondo il racconto biblico cadde dal cielo » (disc, p. 1480) – in dialetto siciliano manna significa anche ‘fascio, mannello’ e ‘mandria’. 4   Tomasi di Lampedusa soggiornò come militare a Torino (5 maggio-agosto/settembre 1917) e Casale di Monferrato (14 gennaio 1919-febbraio 1920) ; cfr. Cronologia, a cura di N. Polo, in Tomasi di Lampedusa, Opere, cit., pp. lv sg. ; cfr. anche “Il Gattopardo” tra le colline del Monferrato = http ://coaloalab.splinder.com/post/15576662/%E2%80%9CIL+GATTOPARDO%E2%80%9D+TRA+LE+COL (7.2.08). 5   Il matematico francese Claude Chevalley (1908-84) fu uno dei fondatori del gruppo Bourbaki.  

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lacchè, persona servile’ e la parola ingl. valley ‘valle’, che accenna, combinato con la prima parte di Monterzuolo, alla locuzione ‘per monti e per valli’. 1 Rimane un’importante questione da risolvere : come mai Giuseppe Tomasi ha ripescato il raro nome di Aimone ? Va segnalato al proposito che Aimone è un nome tradizionale dei Sabaudi. Grazie al nome, Chevalley, il « missus dominicus » (p. 170), 2 si svela come un membro (minore) della Casa Savoia. Questa intuizione si concretizza nel pronipote di Vittorio Emanuele II, Aimone di Savoia (1900-1948), dal 18 maggio 1941 al 12 ottobre 1943 re di nome dello Stato indipendente di Croazia. Su proposta di Ante Pavelić, il leader dittatore degli Ustascia croati, famigerati per massacri etnici, Vittorio Emanuele III scelse Aimone, per farlo, contro il volere di lui, re di uno Stato fantoccio dipendente da Hitler e Mussolini. Aimone, una marionetta di forze straniere, creò a Firenze l’Ufficio per gli affari croati, ma, pur essendo con il nome di Tomislavo II anche lui missus dominicus del re sabaudo, non mise mai il piede in Croazia. Sembra molto probabile che il ricordo del coevo Aimone di Savoia abbia indotto Tomasi di Lampedusa a riprendere questo nome.  







Conclusione La lettura dei poetonimi utilizzati nel Gattopardo ci ha fin qui mostrato la raffinatezza e la molteplicità dell’universo onomastico del romanzo, nonché la straordinaria carica semantica inerente ai nomi. Per scoprire il significato dei poetonimi sono state utilizzate procedure che si completano a vicenda : - ricerche storiche, biografiche e genealogiche intorno all’autore, la sua famiglia e la sua ‘stirpe’, i suoi conoscenti e amici ; - analisi etimologiche per conoscere il senso simbolico/allusivo delle denominazioni ; - ricerche intertestuali per rendersi conto della personale ‘biblioteca’ onomastica dell’autore ; - osservazioni interpretative concernenti il contesto dei nomi menzionati, per conoscere tanto l’intreccio emotivo e relazionale dei corrispondenti personaggi, quanto le prospettive ideologiche del romanzo. Oltre alla struttura formale, 3 il contenuto onomastico del Gattopardo presenta un potenziale di senso di primaria importanza. È da supporre che senza l’analisi dei poetonimi la comprensione delle ‘profondità’ del testo rimarrebbe insufficiente. Il fatto che Tomasi di Lampedusa abbia ideato con la massima cura l’universo onomastico del suo romanzo, variando p. es. tra nomi/personaggi autentici e personaggi inventati e/o nomi coniati, è un chiaro invito alla riflessione sul potere significante dei nomi – nella letteratura e altrove.  







1   Monterzuolo è un rarissimo cognome italiano. Nel Gattopardo ricorda forse il marchese Massimo Corsero di Montezemolo, luogotenente per le province siciliane dal dicembre 1860 all’aprile 1861 (cfr. Vitellone, Giuseppe Tomasi, cit., p. 277). – Monterzuolo potrebbe essere una forma diminutiva di monte. 2   Nel Medioevo, il missus dominicus era l’emissario plenipotenziario dell’imperatore o del re. La denominazione ricorda anche figure bibliche (profeti, angeli) quali messaggeri di Dio e la vocazione “missionaria” dei cristiani. 3   Cfr. C. Fischer, Das Primat der Form in Tomasi di Lampedusas “Gattopardo”, « Italienisch », xxix, 2, 2007, pp. 60-73.  



IL PIENO E IL VUOTO NELL’ONOMASTICA DI EMILIO TADINI* Alberto Casadei

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e opere letterarie di Emilio Tadini hanno ricevuto, sino a pochi anni fa, assai meno attenzione da parte della critica rispetto a quelle pittoriche. Solo di recente sono usciti vari contributi che hanno focalizzato bene alcuni aspetti fondamentali di quelle narrative, 1 ma resta ancora quasi interamente da intraprendere un lavoro di analisi trasversale di queste ultime, intersecata con una dedicata alle altre di tipo poetico o teatrale, e con una di quelle saggistiche, che più direttamente permettono di coniugare vari ambiti della creatività tadiniana. 2 Qui si tenterà di interpretare alcuni temi di fondo di quest’opera nel suo insieme prendendo in esame l’aspetto dell’onomastica, più volte tematizzata e in alcuni casi addirittura oggetto di una specifica riflessione nei testi (anche pittorici) di Tadini. Già Giuliano Gramigna, autore di un’acuta Introduzione alla ristampa del 1989 di Le armi l’amore (cfr. n. 1), sottolineava che questo « è un romanzo in cui sono totalmente cancellati i nomi propri – dunque si direbbe una negazione radicale della essenza stessa del romanzo, che è in certo senso tutto fatto di nomi propri, di lembi di reale inconfondibili e irriproducibili, unici » (pp. iv-v). In realtà, il lui-protagonista, la ri-creazione scritturale del Carlo Pisacane persona reale, uomo politico e patriota, è un’infinità di soggetti e insieme nessuno, come nota ancora Gramigna, ma comunque risulta carico di una particolare energia narrativa, che scaturisce appunto da quanto questo personaggio è potenzialmente in grado di fare. Nel primo romanzo di Tadini, cioè, vengono raccontati fatti che formano non un intreccio univoco, quanto piuttosto linee narrative poco marcate, prive di referenti netti : esse si sviluppano sulla base di ipotesi, che il lettore deve intuire o verificare, e con continui spostamenti del punto di vista, secondo una tecnica che, come ha sottolineato l’autore stesso, dipende da Faulkner, ma che di fatto risulta facilmente rinvenibile nei romanzi sperimentali degli anni cinquanta, a cominciare da quelli di Robbe-Grillet, Butor e in genere dell’École du regard.  





*  Le opere di Emilio Tadini sono citate secondo le seguenti edizioni : Le armi l’amore (1963), Milano, Rizzoli 1989 (= Ar.) ; L’Opera, Torino, Einaudi, 1980 (= Op.) ; La lunga notte, Milano, Rizzoli, 1987 (= Lu.) ; La tempesta (1993), Torino, Einaudi, 1995 (= Te.) ; Eccetera, ivi, 2002 (= Ec.). Fra le opere saggistiche : La distanza, ivi 1998 (= Di.) ; L’occhio della pittura, Milano, Garzanti, 1999 (= Oc.) ; La fiaba della pittura, Capriasca (ch), Pagine d’Arte, 2002 (= Fi.). 1   Da ricordare in primo luogo la premessa di Giuliano Gramigna alla riedizione di Le armi l’amore (pp. i-ix). Più di recente, in volume è uscita l’acuta analisi di Gianni Turchetta su Eccetera : “Io quelli che sbadigliano li ammazzerei” : un mondo pieno raso di cose. Tadini, “Eccetera”, Milano, Cuem, 2004. Del convegno Le figure, le cose. Percorsi e linguaggi di Emilio Tadini (Milano, 24-25 settembre 2004) sono usciti alcuni contributi su « Strumenti critici », n.s., xxiii, 1, 2008 : da segnalare in particolare, nell’ambito della presente analisi, C. Martignoni, Il romanzo d’esordio, “Le armi l’amore” (pp. 11-24) ; G. Fontana, Appunti su “La tempesta” di Emilio Tadini (pp. 25-38) ; A. Modena, La città laboratorio di Emilio Tadini (pp. 39-53). Un saggio su L’opera totale di Emilio Tadini si legge nel volume di B. Pischedda, Mettere giudizio. 25 occasioni di critica militante, Reggio Emilia, Diabasis, 2006, pp. 102-115 (sono esaminate principalmente L’Opera e La lunga notte). 2   Su Tadini pittore, si veda almeno la monografia curata da A. C. Quintavalle (Milano, Fabbri, 1994, con ampio catalogo), che nel suo ampio e importante saggio introduttivo esamina numerosi rapporti fra i dipinti e i testi letterari tadiniani. Si vedano poi i saggi raccolti nei Cataloghi delle Mostre milanesi del 2001 (Opere, 1959-2001, a cura di S. Pegoraro, Milano, Silvana Editoriale, 2001 : spec. l’intervento di U. Eco, p. 11, e il saggio della curatrice, Emilio Tadini, o del disordine delle favole, pp. 22-31) e del 2007 (Opere, 1965-1985, Ginevra-Milano, Skira, 2007), dove è reperibile altra bibliografia. Per un’analisi interdisciplinare delle opere tadiniane mi permetto di rinviare al mio La distanza e il sistema. Letteratura, pittura e filosofia nelle opere di Emilio Tadini, « Italianistica », xxxviii, 3, 2009, pp. 207-220.  



































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Il dato interessante, però, è l’eliminazione assoluta dei nomi di persona, a fronte di una sia pur parca presenza toponomastica, dato che si parla almeno genericamente di luoghi nei quali il ‘lui’ si potrebbe trovare, da Parigi a Londra, da Lugano a Ponza, dove Pisacane approdò nel 1857, prima di spingersi in Campania nel fatale tentativo di suscitare una rivolta antiborbonica. La programmatica assenza dei nomi di persona, nei primi anni sessanta, poteva rimandare alla diffusa polemica anti-antropocentrica, e quindi alle idee praticate nell’ambito della Neoavanguardia, alla quale Tadini guardò con interesse, pur rimanendo ai margini delle tendenze dominanti nel gruppo, ricollegabili a Sanguineti da un lato, e da un altro a Barilli e Guglielmi, oppure a Eco, che sarà poi sempre attento alla produzione tadiniana. Ma essa segnalava già all’epoca una propensione più profonda, quella alla ricerca di un rapporto con la realtà non filtrato da schermi di qualunque tipo, a cominciare da quello che fissa identità in modo arbitrario, come, eminentemente, fa il nome proprio. Non è qui possibile entrare nel merito della complessa questione dell’antroponimia, e in generale delle risonanze magiche, sacrali, religiose, spesso di natura simbolico-allegorica, che il nome proprio ha assunto nelle culture antiche e continua a mantenere in alcuni ambiti di quelle post-illuministiche (p. es. in poesia). 1 Importa però notare che il nome proprio, al di là del suo statuto linguistico, difficilmente definibile, si carica inevitabilmente in letteratura di specifici sensi e sovrasensi culturali, che da uno scrittore possono essere sfruttati in positivo, ossia attraverso specifiche allusioni (basti pensare all’onomastica femminile di un d’Annunzio), oppure in negativo, cercando cioè di creare nomi che non rimandino a nessun precedente personaggio, in modo da rafforzare la plausibilità realistica e insieme l’unicità della nuova figura letteraria. Ma si dà anche il caso specifico della ricerca di un nome nuovo e insieme mitologico, che crei quindi un’allusività rispetto alla tradizione senza appiattirsi su un eventuale calco : così avviene nella Bufera di Montale, quando la donna salvifica trova finalmente il nome-senhal di Clizia. Tadini, nelle sue opere narrative della maturità, da L’Opera (1980) a Eccetera (2002), continua a non voler fornire un’onomastica consueta, e anzi, almeno sino all’ultimo romanzo (che costituisce, come vedremo meglio, un’evoluzione motivata della nominatio concepita da questo autore), riduce davvero all’essenziale l’antroponimia. Ciò non implica un distacco dalla realtà in quanto tale, dato che, al contrario, la toponomastica risulta abbondante e in genere precisa nel descrivere Milano, sfondo di quasi tutti i testi di Tadini, e dintorni. È però evidente che l’obiettivo di ottenere un realismo facile non interessa a questo autore, che in generale fa suo l’assunto linguistico dell’arbitrarietà dei nomi rispetto alle sostanze designate. L’intero percorso artistico tadiniano in effetti si configura come una ricomposizione delle parole e delle cose, allo scopo di coglierne aspetti nascosti (magari, paradossalmente, perché ‘troppo in luce’) e non un significato ultimo, riservato alla riflessione teologico-religiosa che, semmai, resta come limite asintotico, toccato di rado e allusivamente. 2  

1   Per un inquadramento aggiornato su questa problematica, si rinvia in primo luogo ad alcuni lavori pubblicati negli Atti del xxii Congresso internazionale di Scienze onomastiche (Pisa, 28 agosto-4 settembre 2005), in part. nel vol. i, Pisa, ets, 2007 : F. Debus, Namen-Bedeutsamkeit und Namen-Inhalt. Zur Semantik der nomina propria, pp. 437-445 ; N. La Fauci, Nomi propri, luoghi comuni, pp. 605-613 ; G. W. Smith, A semiotic theory of names, pp. 791-800 ; nel vol. iii, uscito come fascicolo della rivista « il Nome nel testo », viii, 2006, si veda soprattutto L. Salmon, La traduzione dei nomi propri nei testi fizionali. Teorie e strategie in ottica multidisciplinare, pp. 77-91. In generale, assai utili in prospettiva storico-interpretativa R. Caprini, Nomi propri, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2001, e J. L. Vaxelaire, Les noms propres. Une analyse lexicologique et historique, Parigi, Honoré Champion, 2005. In una prospettiva più filosofico-psicanalitica che non linguistica si veda infine L. Sturma, La parola che nomina gli dei. Saggi sulla poesia e il mito, Genova, Il melangolo, 2007. 2   Giova ricordare che Tadini viene da una famiglia di rigorosa osservanza cattolica (cfr. Modena, La città laboratorio, cit., pp. 39-41). Non a caso, nelle prime opere edite e inedite questo aspetto emergeva con evidenza, specie nel poemetto La passione secondo Matteo, pubblicato nel settembre del 1947 (quando l’artista era appena ventenne) sul « Politecnico » di Vittorini. Quanto all’atteggiamento personale nei confronti del sacro e della religione, significativo  















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Il punto di partenza da considerare con attenzione è, soprattutto nel caso di uno scrittore ‘di pensiero’ come Tadini, una sua dichiarazione di poetica, risalente al lontano e fatidico 1963 : Organicità del reale. 1 In essa, il trentaseienne pittore, poeta e, da poco, romanziere, mostra, pur fra molte cautele, la volontà di individuare i filoni artistici che mantengono un assunto a suo avviso fondamentale delle avanguardie storiche, e cioè « il principio che decreta una vera liberazione totale della ragione espressiva di fronte alla organicità del reale » (art. cit., p. 14). In sostanza, per riuscire a rappresentare tale ‘organicità’ occorre secondo Tadini far ricorso a qualunque mezzo idoneo a mettere in contatto l’io e il mondo esterno, senza censurare preventivamente la sfera dell’irrazionale e dell’istintuale. Ma ancora più interessante è la conseguenza di questa presa di posizione : non sono tanto il dadaismo o l’espressionismo a dar seguito a questo assunto, quanto piuttosto il cubismo e il surrealismo, che « con strumenti e immagini diverse […] cercano di dilatare le possibilità della ragione espressiva in nuove regioni del reale » (ivi, p. 17). Sintesi pittorica di queste tendenze, che evitano tanto «l’incomunicabile rigoglio degli istinti» quanto la «retorica di una struttura a parte», è un quadro preciso, Guernica di Picasso. Sarebbe eccessivo interpretare l’intera attività di Tadini sotto l’egida di questa premessa ; d’altra parte, essa indica una tensione precisa e anche un modello, quello di un quadro che riconduce un evento drammatico (il bombardamento aereo della città di Guernica da parte dei nazi-fascisti, durante la guerra di Spagna, nel 1937) a forme che ricreano, senza un’imitazione diretta, lo stesso effetto delle figure mitologiche e preistoriche, fornendo concretezza visiva a ossessioni consce e inconsce. Un quadro drammatico, teatrale, realistico solo al secondo grado, eppure assai di più di qualunque tentativo di rappresentazione diretta, fotografica in senso banale. Picasso sfugge alle convenzioni, in modi non tipicamente cubisti o surrealisti ma che comunque mostrano benissimo la ‘liberazione’ delle forme di fronte alla vastità e varietà del reale. Nel corso degli anni sessanta e settanta Tadini cerca in vari modi di riappropriarsi di questa energia compositiva, quasi esclusivamente in pittura, alla quale si dedica ampiamente, senza dimenticare però incursioni letterarie, p. es. anche attraverso traduzioni. È una fase di ricerca, all’insegna dell’accettazione della Pop art americana e soprattutto inglese, intersecata fra l’altro con il surrealismo intellettuale di un Magritte, o con il suprematismoastrattismo (non antifigurativo) di un Malevič, o con numerosi altri filoni (ben ricostruiti da Quintavalle : cfr. n. 2). Arriva poi il secondo romanzo, L’Opera (1980), avvio di una fase di scrittura all’insegna della mescolanza di alto e basso, esibita nella narrativa almeno tanto quanto nella pittura coeva. Perché L’Opera non è più un puro romanzo sperimentale, giocato sull’alternanza dei piani temporali e delle focalizzazioni, bensì, almeno sino al finale, una sorta di lungo monologo alla Beckett e soprattutto alla Céline, con un protagonistanarratore che descrive, con tonalità comico-grottesche, la vicenda che gli è capitato di seguire. Non di vivere, però : perché questo narratore, quasi cieco e parecchio grasso, è un modesto giornalista culturale di un importante quotidiano milanese, che sembra destinato a raccontare solo eventi insignificanti e a vivere in una dimensione appartata, quasi al di fuori della realtà e della storia. Ma questo personaggio umile osa autonominarsi così :  



















« Ce l’avete, l’Omero (quasi) cieco. Io, voglio dire. Il vostro cronista. Il cronico, mi chiamano i colleghi. ‘Ancora uno sforzo!’ dicono. Di Campi Elisi, mi parlano, di pensione e malattia, di cani lupo sapien 

è il Post scriptum che si legge nel catalogo delle opere del 2001 e, identico ma con un apparato iconografico originale, nell’ultimo testo saggistico di Tadini, La fiaba della pittura (cfr. Fi., pp. [49-52]). 1   Si tratta di un breve ma significativo intervento uscito su un fascicolo speciale del « Verri », viii, 12, dicembre 1963, pp. 12-19, curato da G. Dorfles e contenente vari contributi sui rapporti fra arte e avanguardia.  



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tissimi. Il corrispondente della notte, anche, mi chiamano. Certo, sono talmente miope… Ma non proprio cieco come dicono ». (Op., p. 10)  

Il procedimento è assai significativo. Il nome proprio del giornalista-narratore non ci è noto, ma lui stesso si paragona addirittura a Omero. 1 Sembrerebbe che venga toccato l’ambito dell’antonomasia vossianica, senonché l’io narrante non è ‘un omero’, ma una sorta di reincarnazione di Omero in vesti degradate e comiche. Più simile, in questo, all’Ulisse di Joyce, che però un nome suo proprio lo possiede, e diventa Ulisse solo nel titolo, ossia su un piano allegorico del tutto paratestuale e autoriale. Sta di fatto che Tadini introduce qui un narratore che potrebbe essere anche ‘nessuno’ (se si considera che, dopo gli studi della prima metà del Novecento, persino i lettori comuni erano avvisati che Omero andava considerato una figura leggendaria), ma intanto porta il nome di chi, per primo, ha dato una forma letteraria compiuta a un materiale eminentemente orale, continuamente riscrivibile. Come la cronaca, ossia l’intera vita che si vive nel mondo. È vero quindi che questo narratore non è di per sé molto attendibile, mezzo cieco, grasso e anzianotto, a un passo dalla pensione come veniamo a sapere sin dalle prime battute. Nel contempo però il nuovo Omero, appunto perché incapace in prima battuta di vedere la realtà, la vuole sentire, se la fa raccontare e la racconta molto meglio degli altri, innanzitutto perché dà fiducia al linguaggio e alle forme del narrare ; poi perché è un «corrispondente della notte», ambigua definizione che allude, dal punto di vista dei colleghi maligni, alla quasi cecità, ma che invece è quasi una carica onorifica nell’opera di Tadini dove, costantemente, la Notte appare come il cronotopo che permette di cogliere gli aspetti più significativi del reale. Assieme a questo Omero (lo si scriverà d’ora in poi in corsivo, per sottolineare la sua funzione di nome allusivo più che di nome proprio) compaiono solo innominati, figure che corrispondono più a ruoli sociali che non a individui definiti. Non che manchino i tratti psicologici nei romanzi di Tadini, ma essi sono subordinati alla rivelazione di qualche esperienza o convinzione o riflessione sulla realtà che i personaggi stessi hanno ricavato dalla loro vita. In questo senso, il loro ruolo è più significativo del loro nome : è quanto pensano e fanno che deve emergere e che, da ultimo, deve essere interpretato. Di fatto i romanzi di Tadini risultano implicitamente allegorici, ma di un’allegoricità che non si lascia definire una volta per tutte, poiché spesso può risultare plurivoca, a seconda che i singoli aspetti siano osservati da un punto di vista piuttosto che da un altro. La storia di L’Opera, p. es., è facilmente riassumibile : un critico d’arte si è inventato un artista perfetto, innovativo e sublime, e avrebbe così modo di compiere l’Opera assoluta. Ma arriva un arguto interprete, che capisce che l’artista è una figura immaginaria, e chiede di poterlo ‘incarnare’, costringendo il critico ad accettare il compromesso. Ma quando, al momento della prima grande esposizione a Milano, l’artista, venuto da Varsavia e quindi a tutti sconosciuto, viene trovato morto, solo il giornalista-cronista è in grado di ricostruire i vari tasselli, in modo semi-investigativo, e di arrivare a sentire la ‘verità’ dal critico stesso (o meglio da una sua voce registrata) : diventato assassino per impedire la mistificazione della sua Opera. La vicenda rimanda, evidentemente, a un filone molto importante della letteratura sull’arte, quello della riflessione sulla natura del ‘capolavoro’, che trova un capostipite nel celebre  







1   Che poi il nome proprio del personaggio sia davvero Omero risulta secondario, o comunque il testo non si cura di segnalarcelo, se non una volta, molto cursoriamente, nell’ambito di una battuta non attribuibile a un personaggio specifico : « Proprio nera, la messa, non si può. Ti va grigina? Ci stai ascoltando, Omero? » (Op., p. 40) : dove peraltro si potrebbe anche trattare di un soprannome. In ogni caso, l’appellativo praticamente scompare in questa e nelle successive opere in cui il personaggio viene ripresentato.  







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racconto di Balzac Le chef-d’œuvre inconnu (1832) e un altro modello autorevole in L’Œuvre (1886) di Zola. Qui però importa notare che il capolavoro, così come qualunque opera d’arte, viene ricondotto dal critico, in un suo ambizioso intervento nel finale del testo, a un ambito tipico dell’oggi, quando dovrebbe esistere «un discorso [artistico] che puramente nomina e progetta forme da gettare nel mondo perché vivano, perché entrino a far parte della vita del mondo e siano parte integrante del suo muoversi» (Op., p. 127). Nell’ambito di una riflessione assai più ampia e complessa, viene comunque evidenziata l’azione del nominare, equivalente a quella del progettare forme ‘vive’, parte integrante della realtà, capaci cioè di dare un nuovo senso ai nomi che le possono indicare. Il nome, quindi, non solo come segno di una certezza consolatoria, 1 non solo come mezzo apotropaico o viceversa evocativo, bensì come parte di un’Opera quasi ri-creativa, integrativa ma in fondo sostitutiva di quella comune. Se questo è il primo passo della riflessione tadiniana condotta attraverso la scrittura narrativa, è evidente che l’onomastica consueta non poteva risultare significativa. Solo l’artista potrebbe fornire ‘veri’ nomi, ma qui sta il punto nodale : il critico non è l’artista, e il suo progetto di realizzazione dell’Opera risulta ambiguo, forse folle, comunque votato a una sconfitta e a una conclusione ridicola (nell’ultima battuta del romanzo si viene a sapere che « l’avevano beccato, a quanto pare, il genio del male, lo scienziato pazzo. Travestito come un cretino, barba e baffi, all’aeroporto… Carnevale! » : Op., p. 157). Dunque, la ‘sfida con i nomi’ che l’iperrealista Tadini ha introdotto nei suoi romanzi, corrisponde, teoricamente, a una mancanza di fiducia nei nomi comuni e soprattutto in quelli propri, che potrebbero esistere solo nella sfera dell’Assoluto, inattingibile da chi si limita al ‘racconto del reale’. Il secondo romanzo tadiniano degli anni ottanta, La lunga notte, è permeato ancora più evidentemente delle varie ambiguità di cui si compone ogni quadro che voglia tener conto di tutti gli aspetti della realtà. Se nell’Opera le coordinate storiche rimandavano alla fase post-sessantottesca e a quella dell’arte concettuale (accomunate da un’eccessiva tendenza alla teorizzazione), in questo caso si risale alla fase del Ventennio, vissuta dall’autore ancora giovane nella sua Milano percorsa dai gruppi dei nazifascisti ormai a un passo dal tragico epilogo della guerra. La dimensione collettiva è qui evocata attraverso un uso abbastanza ampio di soggetti plurali e indistinti (i milanesi, i vecchi camerati, i tedeschi, i partigiani…), però ricollegati ancora una volta a una toponomastica precisa, tra vie della metropoli e paesini sino al lago di Como e poi alla Svizzera. Continuano a mancare quasi interamente i nomi propri, persino là dove sarebbe necessario e ovvio : in una delle parti più drammatiche, sostanziata evidentemente da ricordi personali, quando Mussolini e i suoi fedelissimi appaiono a Milano come spettri provenienti da Salò, si parla del « ministro degli Interni della Repubblica Sociale Italiana », ossia Paolo Valerio Zerbino, che però non viene menzionato, pur essendo indicato addirittura il suo drammatico destino, quello « di essere fucilato in un campo sportivo dalle parti della stazione di Lambrate » (Lu., p. 241 ; il particolare però non sembra storicamente esatto). Come già nel primo romanzo storico, Le armi l’amore, pure in questo secondo è evidente che il focus deve essere mantenuto sul senso ultimo della vicenda, senza dispersioni nel seguire personaggi laterali o piatti. Nella Lunga notte il narratore Omero interviene soprattutto ‘di sponda’, per certificare con le sue esperienze il racconto principale, condotto da Sibilla, attrice di teatro leggero e donna del Comandante, un fascista integrale della prima ora, soldato  



















1   Si veda, p. es., il seguente passo : « La prima volta, c’ero passato anni prima. Allora lo chiamavano ancora esaurimento nervoso, e così l’avevo chiamato anch’io, e il chiamarlo mi aveva consolato – il poterlo chiamare, il riconoscerlo… (Ah, sei tu, Fido? Mentre quello ti mastica la mano. Ma insomma, almeno un po’, l’hai sistemato…) » (Op., p. 96). Il dare un nome all’ignoto, così come il rendere sacro il Niente, è un modo per esorcizzare il terrore, le fobie consce e inconsce, o anche, in una prospettiva meno psicanalitica e più genetico-cognitiva, un mezzo per interagire con il mondo esterno, stabilendo una nuova, metaforica connessione con ciò che non è ‘io’.  





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valente e ferreo, disposto a sacrificarsi per coerenza, sino a perdere quasi del tutto l’uso della sua corporeità. In questo secondo caso un soprannome, dalla chiara valenza antonomastica, viene a sostituire il nome proprio, incarnando un insieme di caratteristiche tipiche del prototipo del fascista, un po’ mussoliniano e un po’ dannunziano. Ma la vera protagonista-narratrice di secondo grado è Sibilla, personaggio quanto mai mutevole : ragazza per bene, poi attrice devota al Comandante ma anche concupita da colleghi e spettatori, poi fedele compagna nella sventura, caparbia nell’organizzare il ricovero in una clinica svizzera del suo uomo, ridotto a uno stato quasi vegetativo. Nella fase convulsa dopo la fine della guerra, la donna è chiamata a tener testa ai partigiani, guidati da un integerrimo e tuttavia debole « maestrino », e venuti a giustiziare il terribile fascista ma capaci alla fine solo di tagliare i capelli a lei in segno di spregio. Sibilla modifica però progressivamente il suo stato, diventando una cartomante abile e rinomata (cfr. Lu., p. 305), poi una sorta di strega, sospettata persino di aver perpetrato una vendetta nei confronti del « maestrino », e infine di nuovo una compagna forte e decisa nell’andare a riprendere il Comandante, che era fuggito con la sua infermiera-rigeneratrice, ma era poi stato abbandonato. Il tratto più tipico di questo personaggio è quindi proprio la sua capacità di assumere identità diverse. Così la definisce il narratore Omero quando è ormai iniziato il nuovo corso :  











La parte della Povera-donna-sola-derubata era finita di colpo. Adesso aveva fatto il suo ingresso in scena l’Energica, la Tutta-vita, la Regina-delle-difficoltà. Non erano finzioni, fantasia. Lei era così. Un elenco. Un Fregoli, ma vero. Non le bastava un tipo, un genere, un carattere. Come se tipi e caratteri le si consumassero tra le mani, uno via l’altro, a causa della semplice, tranquilla veemenza con cui lei ne usava. Sarebbe morta, avevo pensato, preparandosi a recitare la prossima parte… (Lu., p. 303)

Sibilla è variabile come la vita. E alla vita sa adattarsi, sapendo pure interpretarla, un po’ come un suo archetipo, che non è tanto la figura mitologica quanto la più moderna Madame Sosostris della Waste Land eliotiana, citata da Tadini : 1 e in effetti reincarnata nella protagonista della Lunga notte perché in grado di rievocare il passato oltre che di interpretare il futuro. Non a caso, nel finale del romanzo è Sibilla stessa a ricordare le vicende al posto del Comandante, a diventare interprete della vita altrui, in analogia con un’altra narratrice-modello, la Sheherazad delle Mille e una notte, molte volte evocata nelle opere tadiniane. È allora il racconto in sé che ridona senso alla storia, altrimenti fatta di azioni in gran parte oscure (come quelle compiute dal Comandante) e di funzioni, di ruoli da svolgere, come quelli dei tanti notabili che arrivano nel finale del libro per assistere al funerale dell’ex commilitone : un ‘raduno’ di ombre e di onorificenze quasi prive di materia corporea. Solo lei, Sibilla, autentica interprete degli avvenimenti perché narratrice e insieme attrice, capace di cambiare fisionomia e di superare gli orrori del passato, sembra avere una fisionomia compiuta, pur nella sua ambiguità – tratto che, è ormai chiaro, in Tadini non va in prima istanza giudicato moralisticamente, essendo consustanziale alla vita stessa. Del resto, ambiguo è anche il giudizio che si può dare su Prospero, il protagonista del romanzo tadiniano successivo, La tempesta (1993). In questo caso, il primo ruolo ricoperto dal giornalista Omero è quello di difendere l’integralità del racconto, rintuzzando le pretese di riduzione e di semplificazione linguistica che sarebbero imposte dall’ascoltatore-giudice della vicenda, il commissario, come di consueto privo di un nome proprio ma dotato di un elegante soprannome, « Voce-in-musica » (Te., p. 7). In effetti, le voci hanno un’importanza assoluta nel romanzo-dramma : qui più che mai i personaggi sono anche attori (e non a caso  









1   Si veda l’importante intervista di G. Turchetta, Tragico è comico. Incontro con E. Tadini, pubblicata in « Linea d’ombra », 38, maggio 1989, p. 73.  



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il testo venne immediatamente adattato per la scena). Di fatto, la voce del commissario non è necessariamente negativa o burocratica. Anzi, dopo una serie di teorizzazioni (cfr. Te., pp. 30-35), è proprio lui che ammette l’efficacia della registrazione dell’intero racconto del giornalista-testimone per poter comprendere qualcosa della vicenda di Prospero. È un personaggio ancora una volta sostitutivo di un grande archetipo, il protagonista del dramma shakespeariano cui si allude sin dal titolo, senza peraltro che si trovi all’inizio del testo un evento paragonabile appunto alla tempesta che coglie la nave dei nemici di Prosperus. Ma sulla base di una successiva affermazione del protagonista tadiniano (« Una tempesta in piena regola aveva affondato quel povero rottame della mia nave e mi aveva buttato su questi scogli. E adesso, a tempesta finita, dovevo cercare in qualche modo di sopravvivere » : Te., p. 278), si comprende che la sua stessa esistenza era stata travolta, tanto da ridursi solo a distruzione : e l’unico modo di salvarsi è quello di costruire un mondo a parte, dove possano confluire relitti di ogni tipo, le fobie, i traumi consci e rimossi, o persino le illusioni, le utopie. L’isola costruita dal nuovo Prospero all’interno della propria dimora sarebbe un’allegoria di ogni evento importante che può capitare a un uomo, ma di fatto è un assemblaggio di relitti. Data questa natura eterogenea, la fantasia onomastica di Tadini si concentra qui sugli appellativi da riferire all’isola stessa, luogo di salvezza per un naufrago (alla Robinson), nuovo paradiso, arca di Noè ripiena di foto e di stracci, e infine, esplicitamente, museo o meglio cappella o meglio santuario (cfr. Te., p. 293). Anche l’isola, così come il suo padrone-abitante, muta, assume coloriture diverse, sino ad alcune quasi sacre. Ma la definizione conclusiva di quel luogo inventato viene affidata all’osservatore esterno, al commissario che intuitivamente parla di una « macchina anestetica » : seguito subito dal testimone Omero, che infatti ribadisce : « In due parole… Una macchina mentale che ti metta nelle condizioni di non sentire più male… Forse era proprio la definizione giusta » (Te., p. 381). Sarebbe però troppo banale, per Tadini, affidare a una rivelazione esterna, e tutto sommato imposta, l’intera interpretazione del suo testo : che infatti è ben più ambiguo e sfaccettato. Prospero, certo, tenta la via impossibile dell’allontanamento dalla storia, per ricreare una realtà fatta di Grande Realismo che coincide con il Grande Inganno. Tuttavia il suo tentativo viene attuato dopo una lunga ricognizione della realtà, cui lo ha spinto il tentativo di rientrare in contatto con la figlia, tanto amata quanto tenuta lontana : e l’Isola diventa allora il luogo dove si può « rendere onore » all’amore inespresso (cfr. Te., pp. 295-298), ovvero dove si è in grado di dare un nome all’assenza. Così si esprime Prospero, rivolgendosi al giornalista-testimone :  





























- Che cosa posso dirle? Un mondo che risponda al nome con cui provo a chiamarlo. Oppure… Aspetti… Un vocabolario in cui ci sia scritto quel nome e il nome delle cose, il nome degli affetti misteriosi – il nome Non-Metterti-a-Tremare, per esempio, e il nome Sono-Sempre-Qui, il nome Ti-Riconosco… Sa, come quei nomi degli indiani d’America – quei nomi composti… “E se continuo a parlare di nomi, anche se lei li trova un po’ bislacchi, vede, è perché senza nomi… Si immagina il deserto, in questa stanza, tra lei e me? Da morirci di sete solo a metà di qualche primo passo interminabile…” Avevo paura che sarebbe morto lui, di sete, se fosse andato avanti a parlare in quel modo – inventandosi di sana pianta un mucchio di nomi via l’altro. 1

Il narratore Omero in questo caso compie la sua consueta opera di ‘smorzamento ironico’ rifiutando, in quanto inventata, l’intera opera di ri-nominazione compiuta da Prospero. E 1   Te., p. 284. Si noti a riscontro un uso distorto dell’onomastica, quello del Maestro Indiano, che ridà un nome alle donne che vogliono fuggire dalla loro condizione borghese-occidentale, come la moglie di Prospero stesso : su queste forme di mistificazione si appunta la satira più spassosa (di ascendenza gaddiana), come a p. 178 : « ‘D’ora in poi, il tuo vero nome è…’ E loro : ‘Ma che meraviglia!’ ‘Il mio vuol dire Burro Rancido’, ‘Il mio Primavera Ventosa’. Tutte contente. ‘Ma senti, è centratissimo! Come ha fatto a capirti così bene?’ […] ».  









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certo, il povero vecchio che staziona in un’isola fatta di stracci e di oggetti desueti non ha le prerogative del Dio creatore, e nemmeno quelle del Demiurgo o del Mago suo omonimo, che riesce a ridonare un equilibrio alla storia e alla vita sua e di sua figlia Miranda : mentre l’innominata figlia del nuovo Prospero va verso l’autodistruzione. Tuttavia, l’onomastica adottata dal protagonista, fatta di precisi sentimenti e affetti, è pur sempre un tentativo di riunire mondi separati, di ridare senso a un sacrificio integrale, come quello di Giobbe, cui esplicitamente Prospero viene paragonato, per un suo « purissimo lamento da autentica notte dei tempi » (Te., p. 339). E la notte dei tempi, pur trattata con tutta la dovuta ironia, ha continuato a «venirci dietro» e resiste nel cuore di ogni notte contemporanea. Prospero, insomma, affronta a suo modo il grande problema della salvezza individuale nell’epoca della secolarizzazione. E la formazione religiosa di Tadini, esorcizzata razionalmente, torna a farsi sentire in maniera indiretta. In fondo, si vorrebbe che il tentativo di Prospero andasse a buon fine ; invece, finisce drammaticamente quando proprio il giornalista mette il visionario con le spalle al muro, costringendolo a tornare a un principio di realtà, che implica per lui la fine di ogni libera possibilità : ma la realtà nuda e cruda, dirà Prospero in un monologo aggiunto per la versione teatrale, è « puro terrore », è Niente, quel Niente che, in Tadini, compare assai spesso come cognizione indiscutibile, e però anche scoglio da evitare, ridando sempre una valenza positiva alle infinite sfaccettature della vita. Prospero, messo con le spalle al muro, si suicida. Per lui, continua a vivere il suo alter ego, la sua ombra o maschera o doppio in negativo : è il Nero, il ragazzo di colore che fa da guardia all’Isola e alla fine da prosecutore dell’opera del suo padrone. Perché il Nero rappresenta quello che Prospero non era riuscito a essere : un essere vivente nonostante la sua condizione di profugo, 1 di abitante del nowhere (che, per Tadini, può anche essere scritto come now here, così come ha fatto in molti suoi dipinti degli anni ottanta e novanta), l’espressione della Notte non in quanto negazione ma in quanto condivisione completa. Ciò si evince dal discorso funebre del Nero in ricordo di Prospero, poche, sconnesse ma essenziali parole (cfr. Te., pp. 365-366), dalle quali si ricava soprattutto l’idea che la distanza (parola-chiave in Tadini) tra le persone è stata eliminata. Quasi che Caliban si fosse identificato con Prosperus : o Man Friday con Robinson. Il Nero non può tornare nel mondo al posto del protagonista scomparso, ma può pur sempre presentarsi come chi continua a cercare di immedesimarsi con la vita stessa : pur consapevole della possibilità che sia il Niente, il Non-essere al posto dell’essere, il Nero accetta che il suo rapporto con Prospero sia finito, sia stato un sogno (un altro rinvio all’archetipo shakespeariano?), e continua a vivere. Gli altri, compreso il giornalista-narratore Omero, non sono in fondo altrettanto vitali. La tempesta tocca insomma nuclei tipicamente filosofici, e pone in conclusione un problema essenziale per Tadini : come si può parlare della realtà, se essa non è definibile in quanto essenza? In fondo, a questa domanda tenta di rispondere gran parte dell’opera creativa tadiniana, e di sicuro la sua ultima, tanto in pittura quanto in letteratura. Una fase, questa, cominciata nella seconda metà degli anni novanta, nella quale si accentua la dimensione riflessiva e filosofica (specie nel saggio La distanza del 1998, ma anche nel solo in apparenza più  























1   È una condizione su cui Tadini è tornato più volte, sia in interviste e saggi, sia in opere pittoriche (una serie di dipinti è dedicata a questo soggetto già dalla metà degli anni ottanta), sia in un poemetto pubblicato nella raccolta L’insieme delle cose (Milano, Garzanti 1991). Sulla condizione attuale di ogni essere umano come profugo si veda quanto riportato da Paolo Di Stefano, in un articolo commemorativo dove si parla della « sacralità del quotidiano, del sacro che si nasconde in quei terrains vagues, nel cui vuoto si può ancora costruire qualcosa. Me ne ricordavo quando [Tadini] accennava al profugo come figura simbolica : ‘Siamo come profughi costretti a lasciare la nostra terra per rifondare qualcosa altrove’, diceva. Il no where coincideva con il now here. Era nel no where della tela bianca che Emilio trovava il now here su cui dipingere le sue fiabe » (Le magie di Tadini, da Canova a Totò, « Corriere della Sera », 29 ottobre 2007, p. 31).  









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‘tecnico’ L’occhio della pittura del 1999) : è la dimensione del mito e più precisamente della sua versione ancora attingibile dai moderni, la fiaba, che contraddistingue quasi tutta quest’ultima produzione. E una fiaba è, in fondo, anche l’ultimo romanzo di Tadini, Eccetera. In una struttura più complessa rispetto a quella dei tre testi precedenti, 1 la volontà di esaminare il reale ‘in azione’ e non solo attraverso il racconto, o meglio ancora attraverso il racconto-in-azione, diventa sin dall’inizio un tentativo di rinominarlo per renderlo immediatamente comprensibile : il protagonista e narratore, il giovane Mario (metamorfosi, per vari aspetti, dell’Holden salingeriano), sin dalle sue prime battute afferma che, dopo aver ribattezzato la madre con il soprannome « La Colpa », « dev’essere da allora che mi è venuta la fissa di cambiare i nomi delle persone in modo di farli diventare un po’ più somiglianti a loro del loro nome vero » (Ec., p. 4). E così infatti fa con i suoi compagni di viaggio, che a bordo di un’auto malconcia viaggiano per la Padania, dalla Lombardia sino alla zona di Rimini, in cerca della Discoteca perfetta. È interessante notare che questo nuovo narratore parrebbe avere un nome proprio, ma in realtà si tratta del nome più generico che si possa pensare in ambito italiano : Mario Rossi è il prototipo della persona qualunque, e qui il narratore non ha nemmeno il cognome. 2 Più specifici e connotati (in riferimento a persone nate fra gli anni settanta e gli anni ottanta) sembrano i nomi ‘veri’ di due compagni di viaggio, Christian e Samantha, la quale però dichiara di non apprezzare appunto il suo nome di battesimo (cfr. Ec., p. 41). Quasi subito Mario, il cui punto di vista domina la narrazione (pur non essendo l’unico adottato, così come la sua voce si intreccia con numerose altre), sostiene che, per entrare davvero nel mondo della notte, occorre cambiare i « nomi veri » :  



















Sai, è come se, la notte, addio nomi veri! Si cambia, di notte. Cambiamo, noi – non ti sembra? – la notte… Eccome se cambiamo. Lo hai appena detto anche tu. Non ci sono più impiegati o tranvieri, idraulici o meccanici, infermieri o commessi, maestri di scuola o studenti. E allora… Capisci? Ognuno, il suo soprannome, anzi, il suo nome veramente vero, insomma il suo nome di battaglia per la notte… (Ec., p. 32)

Nel romanzo che si svolge per intero nel cronotopo che meglio consente di cambiare e di indagare sulla natura delle persone e delle cose, liberate dalla loro parvenza troppo univoca durante il giorno, non esistono più nemmeno i ‘ruoli’ cui spesso Tadini aveva sinora ricondotto i suoi personaggi. Ognuno dovrebbe assumere un soprannome rivelatore : ma esso è in realtà tale solo dal punto di vista di Mario, che invece soprannomi non ne accetta. Modifica però i nomi ‘troppo facili’ dei due compagni, che diventano rispettivamente Toro Seduto e Donna del Mare : concreto e semplice il primo, intellettuale e raffinata la seconda (cui non sfuggono le implicazioni ibseniane-romantiche: cfr. Ec., p. 46). Di un’altra compagna di viaggio, piagnucolante e timida al limite della pavidità, ma attaccata a Mario tanto da ritenersi ‘la sua ragazza’, conosciamo solo il soprannome, Filo di Voce. Come si sarà intuito, pure i soprannomi di Mario spiegano poco della natura dei suoi compagni, che oltretutto cambiano atteggiamento nel corso del racconto. Anche altri nomi o soprannomi dei personaggi ci dicono abbastanza poco : è il caso di Quinto, che nella sezione centrale del testo si aggrega appunto ai quattro personaggi principali, svolgendo il ruolo di ‘servo furbo’ di Toro Seduto. O addirittura senza maiuscola è l’appellativo « zietto » usato a più riprese (cfr. Ec., pp. 288 sgg.) per un ‘omino’, in apparenza dimesso e invece dotato di poteri soprannaturali, addirittura forse diabolici.  









1   Per un’analisi degli aspetti costruttivi e narratologici del romanzo, si rinvia al saggio di Turchetta citato in nota 1 a p. 110 (spec. pp. 11 sgg.). 2   Per esempi, Mario è usato come nome ‘generico’ nel saggio L’occhio della pittura, pubblicato poco prima dell’ultimo romanzo tadiniano (Milano, Garzanti, 1999 ; cfr. p. 155).  

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Ancora una volta, quindi, l’onomastica di Tadini si rivela solo in apparenza ‘piena’ : in realtà, rivela un vuoto sostanziale, che appunto non può essere riempito dai nomi. Una concezione che in Eccetera viene indirettamente esplicitata, per bocca di Mario :  



Sarebbe bello che fosse com’è con i colori, ognuno con il suo bravo nome… Che io trovo che i nomi dei colori sono bellissimi – vuoi mettere con i numeri – adesso, con il pantone… vuoi mettere, non so, ‘rosso di cadmio scuro’, oppure ‘oltremare’, con ‘n. 1621’ o quello che è…? E, a proposito, se si riuscisse a vedere un colore non solo senza dirlo, ma anche senza pensarlo, il suo nome, cioè il nome che ha sulla tavola dei colori… Non so, forse, potrebbe finire che ci farebbe addirittura male agli occhi. Dalla forza, dico. ‘La Madonna!’ Vuoi vedere che i nomi, e mica soltanto quelli dei colori, servono anche a ripararci – un po’ come si dice che un paio di occhiali da sole ti ripara gli occhi quando la luce del sole è troppo forte? (Ec., p. 174)

Il passo è fondamentale. Non solo perché riguarda l’attività primaria dell’autore (e in parte quella di Mario, garzone in una bottega di materiali per pittori), ma perché rinvia alla citazione in esergo del romanzo : « Non me ne importa niente della verità del colore ». Sono parole di van Gogh, pittore assai caro a Tadini, 1 che in un certo senso contengono una contraddizione interna. Sembrerebbe assurdo infatti che si pretendesse una ‘verità’ dai colori, quasi non fossero rifrazioni della luce sulle varie materie, ma un’essenza assoluta. E tuttavia, il fatto stesso di cercare una verità nel colore è segno di una quête che dalla fisica slitta spesso verso la metafisica. Il dare nomi appropriati ai colori, e in generale a tutte le cose, significa allora tenere a bada la loro domanda essenziale, la loro richiesta di senso, la loro energia che tenderebbe a traboccare e a travolgere coloro che guardano : ossia tutti gli uomini. Così è per Tadini. Il dare un nome proprio è un’operazione troppo importante, definitoria e definitiva, per poter essere svolta senza dubbi e inquietudini. I soprannomi dati da Mario sono allora effimeri, superficiali anch’essi, non guardano davvero alla sostanza ultima delle persone, così come noi non siamo più capaci di percepire una ‘verità del colore’. Al centro dell’intera opera tadiniana si colloca quindi questa esigenza : dare un senso persino ai colori, un senso che giustifichi la loro essenza prima dei nomi stessi. Per far questo, lo strumento impiegato dall’ultimo Tadini nella letteratura, nella pittura e nella saggistica è quello della fiaba, che può fungere da discorso ‘mitico’ per mediare tra mondo esterno e mondo interno. Il fiabesco pittorico, così come quello letterario, tende all’allegorico. E così è in fondo di quasi tutti i romanzi di Tadini, e in particolare di Eccetera. Il percorso picaresco, céliniano (quasi da una discoteca all’altra, anziché da un castello all’altro), holdeniano, sembra condurre a un esito evidentemente in chiave, evocando azioni sempre meno ‘realistiche’, atmosfere fortemente allusive, addirittura la presenza del diavolo, nel travestimento del modesto ‘zietto’ già menzionato. Le tonalità palesemente grottesche, così come l’ennesima evocazione diabolica in un contesto in apparenza laico, hanno fatto giustamente citare, oltre al Faust, il romanzo più celebre di Bulgakov, Il Maestro e Margherita. Tuttavia, mentre la visionarietà in quest’opera non viene revocata in dubbio, il finale di Eccetera sembra smentire le parti ‘soprannaturali’, tanto che lo « zietto » torna a essere un « povero disgraziato » (cfr. Ec., p. 312), e tutta la vicenda potrebbe essere stata solo una sorta di sogno, una fantasmagoria appunto da fiaba, priva di un riscontro effettivo.  

















1   Che fra l’altro commenta brevemente questa frase in un incontro pubblico, tenutosi a Milano il 19 marzo 2002, sottolineando la sua corrispondenza con l’evoluzione di van Gogh verso una coloritura palesemente antirealistica : cfr. il sunto riportato nel sito http ://www.artantide.com/artisti_CriticaArtista?idArtista=123.  



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Ma lo scopo ultimo di ogni esperienza, nelle parole finali di Mario, sembra proprio questo. Fondamentale è l’aver tentato di legare ogni cosa, di interpretare l’intera realtà, magari grazie a un luogo ‘magico’, in grado di unire gli opposti, la discoteca Light Night – luce e notte che, in virtù della paronomasia, in inglese sembrano fondersi. Segno di una ricerca fruttuosa è quello di aver accumulato non solo nomi ma verità dietro i nomi, anche se quelle raggiunte possono scivolare via, nascondersi, e poi magari saltare fuori un’altra volta, all’improvviso (cfr. Ec., p. 328). La realtà s’incarica di sfuggire a ogni inquadramento definitivo : perciò, secondo Tadini, ci sarà sempre qualcos’altro da tentare di capire, senza pretendere di capire tutto. Ci sarà sempre un « eccetera » da dire, davanti al mondo.  





« Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino » (Inf., xxxiii, 13 ). Un’ipotesi sul tradimento del nome nell’Inferno dantesco  



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uicumque enim in Christo baptizati estis Christum induistis » spiega san Paolo nella Lettera ai Galati (3, 27), ovvero che chiunque sia stato battezzato in Cristo si è rivestito di Cristo, sia esso giudeo o greco, schiavo o libero, uomo o donna, perché col battesimo tutta l’umanità diventa una in Cristo Gesù. Il battesimo aprirebbe per ogni uomo la via del riscatto dal peccato originale, divenendo fin dall’alto Medioevo un principio fondante del diritto canonico che ancora oggi sancisce che « Baptismate homo constituitur in ecclesia Christi persona ». 1 La Distinctio iv della terza parte del Decretum di Graziano dichiara che è come se il battesimo divenisse una seconda nascita in Cristo, poiché « potencia baptismi novam creaturam condidit ex vetere » e come « Christus surrexit a mortuis per gloriam patris », anche noi « in novitate vitae ambulemus ». Col battesimo « quisquis ex obedientia carnis, et lege peccati et mortis carnaliter generatur, regenerari spiritualiter habet opus, ut non solum ad regnum Dei perducatur, sed etiam a dampnatione peccati liberetur ». 2 Si entra pertanto a far parte della « Ecclesia Christi », si ottiene la possibilità di un riscatto, che col passare degli anni diverrà responsabilità di un progetto di vita cristiana, che comporterà la salvezza della propria anima. Col battesimo viene sempre più frequentemente assegnato un nome, che diventa emblematico di questo progetto e avrebbe anche « lo scopo di tutelare in qualche modo il bambino nella sua vita futura, sia terrena che ultraterrena » e se si tratta del nome di un santo, anche di dotarlo « di un intercessore in grado di intervenire al momento della sua morte e, quindi, di garantire la salvezza della sua anima ». 3 Le vicende del nome nel Medioevo sono complesse, non sempre chiare e omogenee, tra la sopravvivenza del nomen unicum, almeno fino alla fine del secolo xii, la diffusione del soprannome e l’origine del cognome. Sappiamo, p. es., che nella seconda metà del Duecento molti Arabi di Sicilia convertiti assunsero proprio col battesimo un nuovo nome cristiano, segno della loro conversione. 4 Ma sappiamo anche che « il battesimo e l’imposizione onomastica nel primo Cristianesimo non erano connessi, nel rito », 5 per divenirlo progressivamente nel corso dei secoli, fino a giungere alla Firenze del tardo Medioevo, nella quale « il giorno del battesimo era apparentemente più importante, ai fini della scelta del nome, del giorno della  









































1   Cfr. A. Prosperi, Battesimo e identità cristiana nella prima età moderna, in Salvezza delle anime disciplina dei corpi. Un seminario sulla storia del battesimo, a cura di Idem, Pisa, Edizioni della Normale, 2006, p. 8. 2   Decretum magistri Gratiani, in Corpus Iuris Canonici, editio lipsiensis secunda post Aemilii Ludovici Richteri curas ad librorum manu scriptorum et editionis romanae fidem recognovit et adnotatione critica. Instruxit Aemilius Friedberg, Lipsia, ex officina Bernhardi Tauchnitz, 1879, pp. 1365 e 1407. 3   Così nel saggio di L. Vagnozzi, L’imposizione del nome a Firenze tra il xiv e il xv secolo, in Salvezza delle anime, cit., pp. 143-144. 4   A. Rossebastiano, Introduzione, in A. Rossebastiano, E. Papa, I nomi di persona in Italia. Dizionario storico ed etimologico, vol. i, Torino, utet, 2005, p. xxiii ; a queste pagine rimando per una visione d’insieme storica e bibliografica sull’origine del nome nell’Italia medievale. 5   M. Mitterauer, Antenati e santi. L’imposizione del nome nella storia europea, Torino, Einaudi, 2001, p. 113 ; a questo volume rimando per un profilo più vasto ed europeo, nella prospettiva antropologica e culturale.  



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nascita ». Così il grande avo e maestro ideale di Dante, illustrando al nipote la sua missione di crociato e di uomo di fede, stabilisce una lapidaria identità tra l’attribuzione del proprio nome e la propria scelta di cristiano, soffermandosi proprio sul momento solenne, quando fu battezzato nel battistero di San Giovanni a Firenze : « e ne l’antico vostro Batisteo / insieme fui cristiano e Cacciaguida » (Par., xv, 134-135). È necessario osservare anche con Luigi Surdich che si tratta di una nominazione differita nel testo e giunta al termine del lungo discorso sulla corruzione di Firenze rivolto dall’avo a Dante, che ben quarantotto versi prima gli aveva chiesto il suo nome : « Ben supplico io a te, vivo topazio / che questa gioia prezïosa ingemmi, / perché mi facci del tuo nome sazio » (Par., xv, 85-87) : 2 un punto di arrivo dunque di un percorso di vita che ha permesso a Cacciaguida di riconoscersi pienamente nel nome col quale era stato battezzato, diventando crociato in Terrasanta e martire della fede. Se il cognome si avvia nel Medioevo a definire un’appartenenza terrena, a una famiglia, a una tradizione di responsabilità civile, per la quale si può nascere liberi o schiavi, Greci o Giudei, guelfi o ghibellini, e a Firenze bianchi o neri, il nome di battesimo definisce comunque sempre più l’appartenenza alla Chiesa di Cristo e costituisce il primo nucleo effettivo della propria vita cristiana. Se nella città terrena abbiamo nome, cognome e soprannome e agiamo con nome, cognome e soprannome, di fronte a Dio siamo soli col nostro nome, che delinea il percorso della nostra anima e col quale Dio ci accoglie nella vita eterna. « Io fui di Montefeltro, io son Bonconte » (Purg. v 88), dice espressamente Bonconte da Montelfetro, prima di raccontare la sua tragica morte. « Cesare fui e son Iustinïano » (Par., vi, 10), dichiara in perfetto chiasmo il grande imperatore del canto vi del Paradiso, come a voler dire che di fronte a Dio, nella pace eterna, nulla conta e nulla rimane della sua antica funzione terrena di « Cesare » imperatore e riorganizzatore del diritto romano, ma sopravvive quel nome « Iustinïano », propriamente un cognomen dovuto all’adozione da parte dello zio Giustino, ma che Dante sembra percepire proprio come se fosse un nome di battesimo, che connota l’identità del cristiano di fronte al Creatore, segno del suo incontro con Cristo e del suo percorso verso la salvezza. Riconoscersi nel proprio nome e dichiararlo solennemente significherebbe pertanto per Bonconte, per Giustiniano e per Cacciaguida, riconoscersi pienamente nel proprio essere cristiano, ritrovarsi in una nuova vita, rinascere pienamente in Cristo. Molte sono le anime nella Commedia che possono nominarsi dicendo « Io sono », a partire dalla medesima Beatrice, « I’ son Beatrice che ti faccio andare » (Inf., ii, 70) ; « Guardaci ben ! Ben son, ben son Beatrice » (Purg., xxx, 73), 3 e da santa Lucia, « venne una donna, e disse : “I’ son Lucia [...]” » (Purg. ix 55). In Purgatorio : « Poi sorridendo disse : “Io son Manfredi” » (Purg., iii, 112) ; « Io fui di Montefeltro, io son Bonconte » (Purg., v, 88) ; « ricorditi di me, che son la Pia » (Purg., v, 133) ; « O Mantoano, io son Sordello / de la tua terra ! » (Purg., vi, 74-75) ; « Io fui latino e nato d’un gran Tosco : / Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre ; / [...] / Io sono Omberto ; e non pur a me danno / superbia fa » (Purg., xi, 58-59, 67-68) ; « son Guido Guinizzelli, e già mi purgo / per ben dolermi prima ch’a lo stremo » (Purg., xxvi, 92-93) ; « Sappia qualunque il mio nome dimanda / ch’i’ mi son Lia, e vo movendo intorno / le belle mani a farmi una ghirlanda » (Purg., xxvii, 100-102). 1







































































   

































1

  Ivi, p. 361.   Cfr. L. Surdich, La nominazione ritardata e l’assenza del nome : un esempio dantesco, « il Nome nel testo », vii, 2005, pp. 137-139 ; su altri aspetti del medesimo tema anche B. Porcelli, Catone e Matelda : nominazione assente e nominazione ritardata, « il Nome nel testo », i, 1999, pp. 77-86. 3   Sul nome di Beatrice, cfr. R. Fasani, I nomi propri nella Divina Commedia, « Studi e problemi di critica testuale », xlvii, ottobre 1993, pp. 28-29. 2



















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In Paradiso : « ma riconoscerai ch’i’ son Piccarda » (Par., iii, 49) ; « Cesare fui e son Iustinïano » (Par., vi, 10) ; « Questi che m’è a destra più vicino, / frate e maestro fummi, ed esso Alberto / è di Cologna, e io Thomas d’Aquino » (Par., x, 97-99) ; « Io son la vita 1 di Bonaventura / da Bagnoregio, che ne’ grandi offici / sempre pospuosi la sinistra cura » (Par., xii, 127-129) ; « però ch’i’ sono il suo fedel Bernardo » (Par., xxxi, 102). Non si nomina, ma dice « io sono » san Benedetto : « Quel monte a cui Cassino è ne la costa / fu frequentato già in su la cima / da la gente ingannata e mal disposta ; / e quel son io che sù vi portai prima / lo nome di colui che ’n terra addusse / la verità che tanto ci soblima ; / e tanta grazia sopra me relusse, / ch’io ritrassi le ville circunstanti / da l’empio cólto che ’l mondo sedusse » (Par., xxii, 37-45). Virgilio che non si nomina parlando con Dante all’inizio del viaggio, « Non omo, omo già fui [...] » (Inf., i, 67-75), si nominerà, invece, in Purgatorio, parlando con Sordello, che ne sostiene e invera la missione di guida, divenendo quell’alter ego, che con lui conduce Dante nella valletta dei principi : « Io son Virgilio ; e per null’altro rio / lo ciel perdei che per non aver fé » (Purg., vii, 7-8). 2 Ma Virgilio non è battezzato, come ogni anima del Limbo, e il suo rapporto col proprio nome non è pertanto determinato dal vincolo stretto di un progetto di vita cristiano. Non è così per tutti coloro che, battezzati nel nome di Cristo, Cristo hanno rinnegato con le opere in terra, meritandosi la dannazione eterna. Mi sembra che si possa ragionevolmente ipotizzare che le anime dannate che già sulla barca di Caronte « bestemmiavano Dio e lor parenti, / l’umana spezie e ’l loco e ’l tempo e ’l seme / di lor semenza e di lor nascimenti » (Inf., iii, 103-105), non possano pronunciare serenamente quel nome di battesimo, o presunto tale, che avrebbe dovuto rappresentare il loro progetto cristiano di vita e che hanno tradito. È quanto avviene a Francesca da Rimini, che non si nomina, « Siede la terra dove nata fui [...] » (Inf., v, 97-99) ; a Ciacco, « nome non soprannome » secondo Bruno Porcelli, 3 che spiega a Dante che, non io, ma « Voi cittadini mi chiamaste Ciacco » (Inf., vi, 52) ; a Filippo Argenti nominato nel canto viii con ira e spregio soltanto dagli altri dannati (Inf., viii, 61) ; nel canto x, a Manente di Iacopo degli Uberti, nominato col soprannome Farinata soltanto da Virgilio (Inf., x, 32), e a Cavalcante de’ Cavalcanti, del quale il « nome » è svelato a Dante soltanto dalle sue parole e dal « modo della pena » (Inf., x, 64-65). I suicidi non pronunciano mai il proprio nome, né il siciliano, « Io son colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federigo » (Inf., xiii, 58-59), né il fiorentino « I’ fui de la città che nel Batista mutò ’l primo padrone » (Inf., xiii, 143-144), i cosiddetti ‘scialacquatori’ si nominano l’uno con l’altro, ma non nominano mai se stessi : « E l’altro, cui pareva tardar troppo, / gridava : “Lano, sì non furo accorte, / le gambe tue a le giostre del Toppo !” », « “O Iacopo”, dicea, “da Santo Andrea / che t’è giovato di me fare schermo ?” » (Inf., xiii, 119-121, 133-134). Sia pure non battezzato, non si nomina neppure il protervo Capaneo, chiamato per nome soltanto da Virgilio (Inf., xiv, 63). Iacopo Rusticucci, dopo aver nominato Guido Guerra, con la significativa chiarificazio 













































































































1   Concordo con chi spiega « vita » con ‘anima’. Cfr. Dante Alighieri, La Divina Commedia. Paradiso, commento e postille critiche di G. Giacalone, Roma, Angelo Signorelli 1977, p. 209 ; per una contestualizzazione più ampia sull’origine dell’anima umana secondo Dante non si può prescindere da B. Nardi, Studi di Filosofia Medievale, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1960. 2   Sul nome di Virgilio, cfr. Fasani, I nomi propri, cit., pp. 27-28, e G. Brugnoli, Nomen omen (Due nomi parlanti in Dante), in O & L. I nomi da Dante ai contemporanei, Atti del iv Convegno internazionale di Onomastica & Letteratura (Università degli Studi di Pisa, 27-28 febbraio 1998), a cura di B. Porcelli e D. Bremer, Viareggio-Lucca, Mauro Baroni Editore, 1999, pp. 36-43. 3   B. Porcelli, Note sui nomi nella Commedia, in Idem, Il nome nel racconto. Dal Novellino alla Commedia ai novellieri del Trecento, Milano, FrancoAngeli, 1997, p. 22.  





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ne dell’« ebbe nome » (Guerra sarebbe un soprannome come Argenti), 1 nomina Tegghiaio Aldobrandi e infine se stesso, ma dice « Io fui », non « Io sono », quasi non potesse ormai più riconoscersi in quel nome Iacopo, che a Firenze ricordava San Giacomo maggiore e sappiamo che « il nome di un santo o di un personaggio in genere carismatico, attribuito ad altra persona, fa agire su di essa la vis condizionante o modellante di cui è dotato » : 2 « Questi, l’orme di cui pestar mi vedi, / [...] / Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita / fece col senno assai e con la spada. / L’altro, ch’appresso me la rena trita, / è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce / nel mondo sù dovria esser gradita. / E io, che posto son con loro in croce, / Iacopo Rusticucci fui, e certo / la fiera moglie più ch’altro mi nuoce” » (Inf., xvi, 34, 38-45). In tutti i primi sette cerchi infernali nessun dannato riesce dunque a dire « Io sono » seguito dal proprio nome e il solo dannato che lo associa alla sua condizione presente, sia pure col distacco retorico della terza persona, è il maestro Brunetto Latini : « E quelli : “O figliuol mio, non ti dispiaccia / se Brunetto Latino un poco teco / ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia” » (Inf., xv, 31-33) : particolare che non sembra contraddire, ma rafforzare l’ipotesi fatta, sia per la distanza presa dal nome con la terza persona, sia per il carattere ‘purgatoriale’ del canto xv dell’Inferno, sia forse anche perché il vezzeggiativo fiorentino Brunetto non implica connessioni forti col progetto di vita di un martire o di un apostolo. 3 Nei cerchi viii e ix, ovvero nell’Inferno più profondo, laddove sono puniti i peccatori dell’intelligenza, i peccatori di frode che « è dell’uom proprio male » e per questo « più spiace a Dio » (Inf., xi, 25-26), si entra in una zona dove l’inganno e il tradimento dominano la scena infernale e dove tanto più dovrebbe essere remoto il rapporto tra anima dannata e nome di battesimo. I primi peccatori delle Malebolge a pronunciare il proprio nome sono i due ipocriti frati bolognesi nella sesta bolgia, ma, come già fece Ciacco, si dicono « nomati », ovvero non si riconoscono hic et nunc nel proprio nome : « Frati godenti fummo, e bolognesi ; / io Catalano e questi Loderingo / nomati » (Inf., xxiii, 103-105). Nel canto successivo, tuttavia, incontriamo il primo dannato che dice « io sono ». È il ladro Vanni Fucci, nel momento in cui dichiara di compiacersi della sua vita bestiale : « Vita bestial mi piacque e non umana, / sì come a mul ch’i’ fui ; son Vanni Fucci / bestia, e Pistoia mi fu degna tana » (Inf., xxiv, 124-126), preludio al manifestarsi dell’odio politico verso Dante e soprattutto alla bestemmia a Dio, che apre il canto successivo : « Al fine de le sue parole il ladro / le mani alzò con amendue le fiche, / gridando “Togli, Dio, ch’a te le squadro ! » (Inf., xxiv, 1-3). Vanni Fucci, bestia, sarebbe, dunque, bestemmiatore dall’inizio alla fine del suo incontro con Dante, prima pronunciando il proprio nome di battesimo, poi maledicendo Dio, due espliciti gesti sacrileghi di sfida proterva verso il Creatore. Tra i seminatori di discordia Maometto, Pier da Medicina e Mosca dei Lamberti dichiarano il proprio nome in terza persona, « vedi come storpiato è Mäometto ! », « rimembriti di Pier da Medicina », « gridò : “Ricordera’ti anche del Mosca” » (Inf., xxviii, 31, 73 e 106), il solo Bertran de Born dice « i’ son » : « E perché tu di me novella porti, / sappi ch’i’ son Bertram dal Bornio, quelli / che diedi al re giovane i ma’ conforti » (Inf., xxviii, 133-135). E lo può dire, forse proprio perché scisso tra mente e cuore nella sua stessa figura, « busto sanza capo », che « ’l capo tronco tenea per le chiome, / pesol con mano a guisa di lanterna », cosicché « eran due in uno e uno in due », perché porta il cervello « partito [...] / dal suo principio ch’è in questo troncone », pena nella quale consiste il suo preciso « contrapasso » (Inf., xxviii, 119, 121-122, 125, 140-142). 4  







































































   







   



































1



  Ibidem.   B. Porcelli, Pluralità di tipologie onomastiche nella Commedia, in Leggere Dante, a cura di L. Battaglia Ricci, Raven3   Rossebastiano, Papa, I nomi di persona in Italia, cit., vol. i, p. 231. na, Longo, 2003, p. 45. 4   Sulla dualità di « Bertram dal Bornio », che « contrappone all’unità della persona anagrafica la dualità del corpo 2







un ’ ipotesi sul tradimento del nome nell ’ inferno dantesco

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Al termine del canto successivo è il falsario e alchimista Capocchio a nominarsi, pur essendo il suo piuttosto un soprannome che un nome di battesimo, ma non dice appropriatamente di sé « Io sono », bensì « sì vedrai ch’io son l’ombra di Capocchio, / che falsai li metalli con l’alchìmia » (Inf., xxix, 136-137) e così il falsario maestro Adamo parla ancora di sé in terza persona « guardate e attendete / a la miseria del maestro Adamo » (Inf., xxx, 60-61). Nell’ultimo cerchio il traditore Bocca degli Abati, immerso nel ghiaccio, non vuole pronunciare il proprio nome, nonostante Dante lo prenda per la « cuticagna » e lo « dischiomi », ovvero gli strappi con forza i capelli ; Bocca non si nomina forse perché non vuole, ma forse anche perché non può (Inf., xxxii, 97-102). È un altro dannato a chiamarlo per nome e a riconoscerlo come tale, « quando un altro gridò : “Che hai tu, Bocca ?” » (Inf., xxxii, 106). 1 Non molto diversa sarebbe la condizione che sottende allo scarto di tempo verbale tra passato remoto e presente in una delle più popolari terzine dantesche :  































Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino, e questi è l’arcivescovo Ruggieri : or ti dirò perché i son tal vicino.  

(Inf., xxxiii, 13-15)

« I’ fui » e « questi è » : lo scarto è evidente. Il conte della Gherardesca, traditore e dannato, non può più riconoscersi nel nome Ugolino col quale era probabilmente stato battezzato e che doveva essere l’emblema della sua unione con Cristo, del percorso e del progetto tradito della sua esistenza, che doveva forse essere assimilabile a quello di Ugolino, poi sant’Ugolino, uno dei sette frati minori che subirono nel 1227 il martirio della decapitazione a Ceuta in Mauritania per essersi recati in quelle terre a predicare il Vangelo. 2 Il conte Ugolino dice « i’ fui », come aveva detto nel canto precedente il ben meno celebre traditore Alberto Camicione dei Pazzi di Valdarno, « sappi ch’i’ fu’ il Camiscion de’ Pazzi » (Inf., xxxii, 68), e come aveva detto di sè Iacopo Rusticucci ; dice « i’ fui », perché non può dire « io sono », mentre può riconoscere e nominare nel presente il suo stesso nemico e traditore, proprio come fa il suo compagno con Bocca degli Abati. In tutto coerente con questo rapido excursus, è il fatto che frate Alberigo dei Manfredi nel più profondo dell’inferno possa dire ancora « Io sono » e non possa dire « Io fui », essendo il suo corpo ancora vivo e in terra, posseduto da un demonio :  





































Rispuose adunque : « I’ son frate Alberigo ; i’ son quel da le frutta del mal orto, che qui riprendo dattero per figo ». « Oh ! », diss’io lui, « or se’ tu ancor morto ? ». Ed elli a me : « Come ’l mio corpo stea nel mondo sù, nulla scienza porto. Cotal vantaggio ha questa Tolomea, che spesse volte l’anima ci cade innanzi ch’Atropòs mossa le dea ».  









   





   





(Inf., xxxiii, 118-126)

Non tutte le anime che Dante incontra in Purgatorio e in Paradiso si nominano, basti pensare diviso », cfr. Porcelli, Numeri e nomi nei canti danteschi del sole, « Giornale storico della letteratura italiana », clxxvii, gennaio-marzo 2000, 577, p. 5. 1   Cfr. anche S. Gamberini, La nominazione sospesa, in O & L, iii Incontro di studio di Onomastica e Letteratura. Atti (Università degli Studi di Pisa, 27-28 febbraio 1997), a cura di M. G. Arcamone, B. Porcelli, D. De Camilli, D. Bremer, Viareggio-Lucca, Mauro Baroni Editore, 1998, p. 76. 2   Cfr. Rossebastiano, Papa, I nomi di persona in Italia, cit., vol. ii, pp. 1238-1239 ; oltre a F. Kostner, S. Ugolino da Cerisano Ceuta 1227 : ipotesi di studio, Cosenza, Brenner, 1985.  









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a Carlo Martello nel canto viii del Paradiso, e non tutte riconoscono il proprio nome nel momento presente, ma, come fa il conte Ugolino, lo riferiscono con un « fui » soltanto all’esperienza terrena : « Fui chiamato Currado Malaspina » (Purg., viii, 118) ; « Savia non fui, avvegna che Sapìa / fossi chiamata, e fui de li altrui danni / più lieta assai che di ventura mia » (Purg., xiii, 109-111) ; « però sappi ch’io fui Guido del Duca » (Purg., xiv, 81) ; « Lombardo fui, e fu’ chiamato Marco » (Purg., xvi, 46) ; « Chiamato fui di là Ugo Ciappetta » (Purg., xx, 49) ; « Cunizza fui chiamata, e qui refulgo / perché mi vinse il lume d’esta stella » (Par., ix, 32-33) ; « Folco mi disse quella gente a cui / fu noto il nome mio ; e questo cielo / di me s’imprenta, com’io fe’ di lui » (Par., ix, 94-96) ; « In quel loco fu’ io Pietro Damiano » (Par., xxi, 121). L’anima non seguirebbe pertanto nel pronunciare il proprio nome un preciso, semplificato e prestabilito, codice di comportamento ‘ultraterreno’, secondo il quale il dannato non può pronunciare il proprio nome preceduto da « io sono », mentre l’anima destinata alla beatitudine eterna si riconosce sempre e soltanto in quel nome. Tuttavia Dante appare ragionevolmente ben consapevole del rapporto molto stretto esistente tra nome, inteso come nome di battesimo anche quando talvolta si tratta di un soprannome, e progetto di vita cristiana realizzato o mancato. Se un dannato dice « io sono » c’è una ragione profonda intrinseca alla condizione della sua pena : l’offesa ripetuta al Creatore da Vanni Fucci, per il quale dire il proprio nome è come bestemmiare, la scissione tra mente e cuore di Bertran de Born, tronco che sorregge la testa come una lanterna, la separazione tra anima e corpo di frate Alberigo, ancora vivo sulla terra, ma già dannato nella Tolomea. Bocca degli Abati non riesce a pronunciare il proprio nome, non forse per una forma di ritegno che non appartiene all’anima dannata, ma perché, come Ugolino, sa di aver tradito quel nome, che non riesce a dire, nonostante Dante gli strappi i capelli. Più articolato è il rapporto col proprio nome per le anime salve, siano esse in Purgatorio o in Paradiso. Il nome può essere legato alla memoria più o meno lontana dell’esperienza terrena, oppure rappresentare l’essere eterno dell’anima, che liberata dal peccato, rinasce di fronte al suo Creatore. È quanto avviene a Beatrice, a Manfredi, a Bonconte, a Pia, a Sordello, a Guido Guinizzelli, a Piccarda, a Giustiniano, a san Tommaso, a san Bonaventura, a san Bernardo e in parte allo stesso Dante. Ancora non può dire « io sono Dante », ma Beatrice per la prima e unica volta in tutto il poema lo chiama per nome, proprio nel momento dell’avvenuta sparizione di Virgilio, a seguito della processione mistica e prima dell’estrema confessione dei suoi traviamenti e dell’immersione nel Lete : « Dante, perché Virgilio se ne vada, / non pianger anco, non piangere ancora ; / ché pianger ti conven per altra spada » (Purg., xxx, 55-57). Nel Medioevo sappiamo che « caratteristico del racconto di quête è il fatto che il protagonista riceva il nome o ne conosca il significato nel momento del trionfo » e che « l’acquisizione del nome e la conoscenza del suo significato si registrano in concomitanza di un evento eccezionale che determina mutamento della personalità e presa di coscienza ». 1 La discesa agli inferi e l’ascesa sul monte del Purgatorio sono state anche per il poeta una dolorosa ricerca, quête, del proprio nome, della piena identità di cristiano smarrita nella selva del peccato. Virgilio l’ha incoronato signore di stesso, « libero, dritto e sano è tuo arbitrio, / e fallo fora non fare a suo senno : / per ch’io te sovra te corono e mitrio » (Purg., xxvii, 140-142), e ora cede il passo a Beatrice, che lo battezza nuovamente Dante, avviandolo verso la dolente « spada » della confessione, prima dell’immersione nel fiume dell’oblio e per ritrovarsi pienamente cristiano, con nominazione intenzionalmente sospesa e ritardata, sulle tracce del trisavolo Cacciaguida.  





























































































1

  Porcelli, Pluralità, cit., pp. 47-48.

DEL TRATTAMENTO DI ANTROPONIMI NELLE TRADUZIONI MODERNE DA E VERSO L’ITALIANO Anna Cornagliotti

I

l breve contributo, che ho il piacere e l’onore di dedicare al professor De Camilli, si propone di esaminare l’atteggiamento di alcuni traduttori, in specie quelli moderni e romanzi, nei riguardi degli antroponimi. In una delle sue ultime fatiche Umberto Eco non affronta direttamente il problema, ma dal gran numero di brani da lui tradotti e riproposti al lettore si deduce la sua disponibilità a una conservatività e ad un rispetto degli appellativi originali, a seconda dei casi (così anche per i suoi libri tradotti all’estero), e, soprattutto, la sensibilità verso la complessità dell’operazione. 1 Nella eventualità che lo chiama direttamente in causa, a proposito de Il nome della rosa, sottolinea che scrive in italiano « nella tacita convenzione che in effetti i personaggi parlino latino » ; i nomi dei personaggi sono tutti in italiano. « Allorché Guglielmo sta parlando con Ubertino dei membri della delegazione francescana che stanno per arrivare ... Guglielmo nomina un personaggio (storico) che in italiano era conosciuto col nome italiano, e come tale appare sempre nelle cronache dell’epoca, ma lo cita secondo il suo nome inglese, e Ubertino non capisce, per cui Guglielmo ritraduce il nome in italiano (e cioè, secondo la finzione, in latino). Che cosa doveva fare il traduttore inglese, in un testo in cui, per patto finzionale, è l’inglese che deve essere inteso come latino ? Per evitare confusioni era meglio che nella traduzione inglese scomparisse quell’equivoco onomastico. D’altra parte è ovvio che nel testo italiano Guglielmo appaia molte volte come ‘troppo’ inglese, ma nel testo inglese questa traduzione non si sarebbe notata ». 2 Si tratta ovviamente di un caso limite in cui alla particolare difficoltà della situazione ideata dall’autore si accompagna la fine riflessione del medesimo sulla realizzazione operata dal traduttore. 3 Illuminanti sono le righe dell’Introduzione in cui con estrema eleganza acrobatica scrive : « A ben riflettere, assai scarse erano le ragioni che potessero inclinarmi a dare alle stampe la mia versione italiana di una oscura versione neogotica francese di una edizione latina secentesca di un’opera scritta in latino da un monaco tedesco sul finire del trecento » : 4 la situazione babelica giova a Eco molto più di un discorso teorico, fondamentalmente quello sulla negoziazione sempre attualizzata, da esporre come premessa. Sulla finzione della scrittura in latino di Adso Eco interviene in diverse occasioni : nell’Introduzione stessa (« non solo Adso scrive in latino... », 5 « Ugo da Novocastro, 6 scusami, uso la mia lingua anche quando parlo in buon latino... »). 7 In un’intervista del 1990, interrogato sui possibili pentimenti riguardo le sue opere, Eco dichiara : « Mi pento dei miei libri saggistici, e traduzione per traduzione li cambio, perché nel frattempo sono nate nuove idee. Verso i romanzi non ho questo atteggiamento. Non sarà  

































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  Cfr. U. Eco, Dire quasi le stesse cose, Milano, Bompiani, 20037.   U. Eco, Dire, cit., pp. 105-106. 3   In questo caso si tratta di W. Weaver, The Name of the Rose, San Diego (ca), Harcourt, 1983. 4 5   Cfr. U. Eco, Il nome della rosa, Milano, Bompiani, 1983xii.   Cfr. ivi, p. 14. 6   L’interlocutore, di nazionalità inglese, ha appena tradotto Ugo da Newcastle. 7   Eco, Il nome, cit., p. 69. 2

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piena soddisfazione, ma ritengo immodificabile quello che è stato. Il saggio che esce oggi, fra due anni lo correggerei di un terzo. Sulla saggistica torno sempre a riflettere, per vedere che cosa non va. I romanzi non torno a rileggerli, se non per controllare le traduzioni ». 1 Per absurdum ci si potrebbe dunque aspettare in futuro un nuovo metodo che sostituisca la negoziazione, per quanto un mutamento di atteggiamento mi pare assai improbabile : la costante è invece la varietà costante (mi si scusi il gioco di parole) di modalità diverse. Un ultimo rilievo su Eco che poi abbandonerò per osservazioni su traduzioni riuscite o non dei giorni nostri. Eco tratta quasi sempre di opere di grande letteratura o delle sue stesse che sono di livello alto. Ecco a proposito di un antroponimo, nel commentare la traduzione di A Silvia effettuata da Michel Orcel : puntualizzato il fatto che Silvia è l’anagramma del salivi che conclude la lirica e che nella stessa predominano le i (gli occhi tuoi ridenti e fuggitivi ... limitare ... salivi), Eco osserva che il traslatore rinuncia al binomio Silvia/salivi, riducendo « il rapporto tra originale e traduzione ...[da] 20 a 10... Inoltre, e il valoroso Orcel combatteva evidentemente una battaglia disperata, il Silvia italiano, accentuando la i iniziale, ne prolunga l’esile fascino, mentre il Sylvia francese (che per mancanza di accento tonico in quel sistema linguistico fa fatalmente apparire accentuata la a finale) ottiene un effetto più crudo ». 2 In altra parte del saggio nota che la traduzione di un verso di Eliot, dal Love Song of J. Alfred Prufock, il nome di Michelangelo evocato in una conversazione mondana tra dame inglesi, dove con il solito ‘birignao’ la pronuncia sarebbe stata Maikelangiloo, il francese Leyris sostituisce con les maîtres de Sienne (a vantaggio della rima viennent/Sienne) : doppio tradimento, le dame inglesi più facilmente conoscono il Rinascimento italiano che Duccio e « l’arguzia dell’assonanza originale » go/-loo è andata smarrita. 3  















Non è neanche necessario dichiarare che non ho assolutamente l’intenzione né la capacità di emulare la raffinatezza e la perspicacia di Eco. Né, tanto meno, vorrei esporre consigli su come tradurre. Il mio scopo è di esaminare alcuni romanzi, nell’ambito di una collana di tesi di traduzioni da e verso l’italiano realizzate presso la Facoltà di Lingue e Letterature straniere dell’Ateneo di Torino, cui appartengo, seguite da me e da alcuni miei collaboratori, verificando i risultati, interpretando le versioni e cercando, se possibile, di extrapolare criteri di adattamento o non tipici di aree alloglotte differenti. Una prima rassegna generale porta ad individuare tre atteggiamenti : 1. la fedeltà rispettosa alla lingua fonte ; 2. la traduzione integrale nella lingua ricevente, 3. un comportamento ibrido che in parte traduce o adatta ed in parte rispetta i dati originali. La prima posizione si configura come encomiabile e come la più economica : il traduttore non si immette in una resa spesso problematica, ed anche evita a piè pari di dover affrontare una questione controversa e difficile ; la seconda propone al futuro lettore un testo integralmente immerso nella lingua d’arrivo, con i rischi di svellere dal contesto i personaggi e gli eventi del racconto ; 4 il terzo, segno d’un comportamento dubbioso, non sa che fare, tentenna e traduce laddove possibile, rinunciando a sciogliere il nodo della corrispondenza onomastica, spina spesso insuperabile. Ciò detto si tratta di comprendere i meccanismi che inducono a scegliere una delle tre modalità, tenendo conto, ovviamente, dei dati cronologici (nel xvi secolo si operava in modo diverso da oggi), 5 della lingua ricevente (p. es. è dato per certo che i traduttori francesi siano  









1

  Da « La Stampa », 25 novembre 1990, p. 17. 3   Cfr. U. Eco, Dire, cit., p. 55.   Ivi, p. 271. 4   Per restringere il campo ai testi più utili per l’analisi mi riferisco unicamente a romanzi, racconti brevi e novelle. 5   P. es. nella traduzione del Decamerone di Antoine Le Maçon (1545) ci imbattiamo in una sequela di nomi quasi tutti tradotti : si veda nella prima novella della prima giornata Galien, Ypocras, Eusculapius, Pampinée, Philomène, Élisse, Laurette, Flammette, Pamphile, ecc. ; cfr. Le Dècameron de Boccace, traduction complète par Antoine Le Maçon, secrétaire de la reine de Navarre (1545), 6 voll., Parigi, Liseux éditeurs, 1979 [ripr. della stampa lionese del 1551].  



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del trattamento di antroponimi nelle traduzioni moderne

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portati a francesizzare i testi da traslare, ma così scontato non è), della tipologia e della lingua usata nel testo fonte, delle effettive possibilità di resa, della convenienza letteraria di tale operazione, ecc. Come si può facilmente comprendere la casistica più complessa riguarda il secondo e il terzo tipo, poiché in essi intervengono fattori e reazioni diversi, forse opposti, da vagliare caso per caso. In sostanza voglio sostenere che la resa nella lingua d’arrivo dei nomi propri deve essere valutata di volta in volta, ma non sempre questa attenzione è prestata dai traduttori. È evidente che un romanzo di Camilleri, così denso di sicilianità, stordirebbe il lettore se Salvo Montalbano, Gegè Aulotta, Tano u Grecu, 1 Agostino Catarella, chiamato Catarè dal commissario, e altri ancora fossero riprodotti in veste linguistica diversa, tale da adulterare e straniare profondamente il contesto sociale della vicenda. Mi riferisco al romanzo di Andrea Camilleri Il cane di terracotta, ove l’autore enuncia, per bocca del commissario, le sue idee in proposito : « La sera avanti il commissario ... stava leggendo un romanzo giallo di uno scrittore barcellonese che l’intricava assai e che portava lo stesso cognome suo, ma spagnolizzato Montalbán ». 2 L’indicazione appare qui esplicita : l’autore invia un messaggio di chiara comprensione : non traducete i nomi, la caratteristica linguistica così marcata è espressione della mia volontà, perciò non alterate il mio testo introducendo elementi che la impoveriscono e la turbano in direzione del grottesco. 3 Ma veniamo ad analizzare l’atteggiamento dei traduttori francesi e spagnoli, in tre testi rispettivamente di Boccaccio, Manzoni e Alberto Moravia. Nel Decaméron 4 la resa è altalenante : nelle prime righe premesse al Prologo il Prencipe Galeotto diviene Prince Galehaut, del tutto giustificatamente poiché il personaggio appartiene al mondo letterario arturiano d’Oltralpe ; nel caso contrario sarebbe suonato stravagante il suo mantenimento in lingua italiana. In seguito i nomi di origine classica o pseudoclassica sono conservati, almeno graficamente ; 5 pertanto abbiamo Pampinea, Fiammetta, Filomena, Emilia, Lauretta, Neifile, Elissa, Misia, Licisca, 6 Chimera, Stratilia e, nella sequela maschile, Panfilo, Filostrato, Dioneo, Parmeno, Sirisco, Tindaro. Nella prima novella, che vede nomi prettamente toscani, Cepparello alias Ciappelletto sono invariati, tranne il secondo una volta degeminato per errore di stampa, in quanto da p. 58 è scritto all’italiana : in questa occasione la glossa boccacciana,  

















Ayant longuement réfléchi à la question, il se souvint d’un certain maître Cepparello de Prato qui descendait chez lui souvent à Paris ; petit et toujours tiré à quatre épingles, il était appelé Ciappelletto en raison précisément de sa petite taille, et non Ciappello, par les Français qui, ignorant le sens de Cepparello, croyaient que ce mot signifiait comme dans leur langage « cappello » c’est-à-dire chapel ; et tout le monde le connaissait sous le nom de Ciappelletto, mais bien peu sous celui de Cepparello, 7  







1   L’unico tradotto in una traduzione spagnola risulta essere Tano el Griego, probabilmente per evitare equivoci con il nome del pittore ; cfr. A. Camilleri, El perro de terracota, trad. di M. A. Menini Pagès, Barcelona, Ediciones Salaman2   Cfr. A. Camilleri, Il cane di terracotta, Palermo, Sellerio, 1996, p. 10. dra, 2007. 3   Tuttavia è sufficiente un breve brano scelto a caso dal medesimo testo per sottolineare la particolare mescidanza linguistica, quasi uno sfoggio : « También esta vez, cuando estacionó el vehículo en el parking del bar de Marinella, vio que el autómovil de la mujer ya estaba allì, al lado de una Porsche descapotable, una especie de bólido pintado de un color amarillo que ofendía la vista y el buen gusto. Al entrar en el bar, vio a Ingrid de pie en la barra tomándose un whisky y, a su lado, hablándole confidencialmente, a un cuarentón superelegante, vestido de amarillo canario, con un Rolex en la muñeca y el cabello recogido en una coleta » (p. 82) ; con tale ibridismo la traduzione o meno dei dati onomastici appare ininfluente. 4   Mi avvalgo della traduzione di Chr. Bec et alii, Parigi, Librairie Générale Française, 1984 ; il testo italiano di riferimento è l’edizione a cura di V. Branca, Milano, Mondadori, 200622. 5   Non si può mai dimenticare che la traduzione possiede due facce : quella scritta e quella orale, che p. es. in francese sono completamente divergenti rispetto all’italiano per via dell’ossitonia, che ne modifica in modo profondo il risultato. 6 7   Con lieve adattamento grafo-fonetico.   Cfr. ed. cit., p. 58.  













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non accompagnata da nota esplicativa, disperde per il lettore francese il senso della scelta del narratore italiano che offre un ipocoristico di Ciapo, a sua volta derivato da Jacopus ; nel nome tuttavia non è impossibile pensare ad una intenzione nascosta di impiegare un appellativo che al lettore connazionale poteva sembrare scherzosamente connesso con il termine ‘ciappa’/‘chiappa’. Altri nomi dei personaggi delle novelle conservano egualmente l’italianità originale : Giannotto de Civignì, 1 Abraam, Bergamino, Guglielmo Borsiere, 2 Ermino de’ Grimaldi 3 alias Ermino Avarizia (il cui secondo nome poteva essere reso in francese senza problemi), Alberto da Bologna, 4 Martellino, Arrigo, Stecchi, Marchese, Rinaldo d’Asti, Tebaldo, Lamberto, Agolante, ma Melchisédech. Dalle righe precedenti il passo riportato si coglie per contro l’attitudine di tradurre i nomi storici : 5 Galien, Hippocrate, Esculape, Charles-Sans-Terre, Boniface VIII, e successivamente saint Benoît, la marquise de Monferrat, Saladin, Philippe le Borgne, Épicure, Primas, Frédéric II, Godefroy de Bouillon, Azzo de Ferrare, saint Julien. Qualche eccezione non manca : rimangono intatti Can della Scala e Musciatto Franzesi. Il sondaggio della Prima Giornata ha messo in luce la soluzione diversificata a seconda della valenza immaginifica o storica degli antroponimi utilizzati dal Certaldese, sia pure con qualche lieve scarto. Nella traduzione castigliana 6 verifichiamo analogo atteggiamento per quanto concerne i personaggi storici, Galeno, Hipócrates, Esculapio, Musciatto Franzesi, Carlos Sin Tierra, ecc. e i nomi degli attanti delle novelle Cepparello, Ciappelletto, Giannotto de Civigní, Abraham, Melquisedec, e via dicendo ; mentre i nomi di tradizione classica femminile sono rispettati integralmente, quelli maschili sono sottomessi alla consuetudine dell’accentazione obbligatoria dei proparossitoni, p. es. Pármeno, Pánfilo, Tíndaro, Filóstrato, ecc. Facendo il punto su questo primo confronto, posto che il comportamento generale è il medesimo, risulta che proprio unicamente la lettura dà conto della differenza fonetica : ossitonia in francese e massima attenzione dello spagnolo alla collocazione dell’accento tonico. Semmai sarà l’italiano, soprattutto per i nomi d’origine greca, a suscitare perplessità nel lettore meno adusato. Possiamo delineare parzialmente le conclusioni rilevando che 1. sono tradotti i nomi storici, considerati patrimonio culturale generale e quindi comprensibile senza nulla togliere al testo originale ; 2. sono conservati i nomi propri connotati regionalmente allo scopo di salvaguardare la spontaneità dell’opera di partenza ; 3. il castigliano è costretto dalle sue regole ortografiche ad adattare per lo più gli uni e gli altri, come emerge dal seguente Prospetto : 7  

















Italiano Francese Personaggi di fantasia o di tradizione letteraria Chimera Chimera Elissa Elissa Emilia Emilia Fiammetta Fiammetta7

Castigliano Chimera Elissa Emilia Fiammetta

1   La conservazione si spiega, poichè si tratta di località francese per cui Branca propone varie interpretazioni : Souvigny, Chauvigny, Chevigny o Chovigny, mentre il traduttore non esita glossando in nota Jeannot de Chauvigny. 2   In Boccaccio Guiglielmo. 3   Vi sono nel Decamerone nomi che hanno come primo elemento un nome tradizionale di famiglia, senza che vi si possa riconoscere una persona storicamente esistita ; lo stesso Cepparello potrebbe fruire di varia identificazione ; un altro esempio è Malgherida dei Ghisolieri. 4   Identificabile con Alberto de’ Zancari dell’Università di Bologna. 5   Va da sé che i nomi allegorici non presentano nessun problema : Amour, Fortune, Courtoisie, ecc., così come i toponimi più noti, Paris, Cluny, Gênes, Chypre, Gascogne, Trévise, Bologne, Florence, ecc. 6   Cfr. Decamerón, tradotto da M. Hernández Esteban, Madrid5, Cátedra, 2005. 7   Nome, giustamente sottolineato dai commentatori, non casuale nel Boccaccio, ma anche altri nomi femminili, come noto, sono evocativi (Filomena, Emilia, Lauretta, ecc.).  







del trattamento di antroponimi nelle traduzioni moderne Italiano Filomena Lauretta Licisca Misia Neifile Pampinea Stratilia Abraam Alberto da Bologna Arrigo Bergamino Cepparello/Ciappello Ciappelleto Dioneo Ermino Avarizia/Ermino de’ Grimaldi 1 Filostrato Giannotto de Civignì Lamberto Marchese Martellino Melchisedech Panfilo Parmeno Rinaldo d’Asti Sirisco Stecchi Tindaro Personaggi storici o semistorici Azzo da Ferrara Bonifazio VIII Can/Cane della Scala Carlo Senzaterra Epicuro Esculapio Federigo secondo Filippo il Bornio Galeno Gottifré di Buglione Guiglielmo Borsiere Ippocrate Marchesana del Monferrato Malgherida dei Ghisolieri Musciatto Franzesi Primasso Saladino San Benedetto Sandro Agolanti San Giovanni Barbadoro2 San Giuliano Tebaldo 12

Francese Filomena Lauretta Lisisca Misia Neifile Pampinea Stratilia Abraam Alberto da Bologna Arrigo Bergamino Cepparello/Ciappello Ciappelleto/Ciappelletto Dioneo Ermino Avarizia/Ermino de’ Grimaldi Filostrato Giannotto de Civignì Lamberto Marchese Martellino Melchisédech Panfilo Parmeno Rinaldo d’Asti Sirisco Stecchi Tindaro

Castigliano Filomena Lauretta Licisca Misia Neifile Pampinea Stratilia Abraham Alberto de Bolonia Arrigo Bergamino Cepparello/Cepperello Ciapelletto/Ciappelletto Dioneo Ermino Avaricia/Ermino de los Grimaldi Filóstrato Giannotto de Civigní Lamberto Marchese Martellino Melquisedec Pánfilo Pármeno Rinaldo d’Asti Sirisco Stecchi Tíndaro

Azzo de Ferrare Boniface VIII Can della Scala Charles-Sans-Terre Épicure Esculape Frédéric ii Philippe le Borgne Galien Godefroy de Bouillon Guglielmo Borsiere Hippocrate Marquise de Monferrat Malgherida dei Ghisolieri Musciatto Franzesi Primas Saladin saint Benoît Sandro Agolanti saint Jean Bouche d’or saint Julien Tebaldo

Azzo de Ferrara Bonifacio Can/Cane de la Scala Carlos Sin Tierra Epicuro Esculapio Federigo II Felipe el Tuerto Galeno Godofredo de Bouillon Guiglielmo Borsiere Hipócrates Marquesa de Monferrato Malgherida de los Ghisolieri Musciatto Franzesi el Primado Saladino San Benito Sandro Agolanti San Juan Barbadeoro San Julián Tebaldo

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1   Alcuni nomi sono apparentemente di fantasia o verosimilmente storici in quanto la casata è certa ma il primo nome non risulta documentato ; così nel caso seguente. 2   Gioco di parole su Boccadoro, ristabilito nella traduzione francese.  

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Ciò che effettivamente costituisce una differenza è dato dal commento, che spesso, come nel caso della traduzione spagnola esaminata, è ricco ed esaustivo, comprendendo la spiegazione etimologica di ogni singolo nome attribuito intenzionalmente dal Boccaccio ai suoi personaggi. 1 Non altrettanto si può affermare della traduzione francese, che pur essendo sotto la guida di uno studioso della qualità di Pierre Bec, non possiede un apparato di note soddisfacente e, soprattutto nella nostra ottica, non utilizza gli ottimi studi esistenti sulla nominatio nominis nel Decamerone. 2 Trasferiamo la nostra attenzione su un’opera più recente e assai diffusa : la traduzione dei Promessi Sposi, nuovamente in francese e in spagnolo. 3 45  

Italiano Personaggi di fantasia Abbondio Renzo Tramaglino Lucia Mondella Rodrigo Perpetua Bettina Agnese Cristoforo/Lodovico Azzecca-garbugli Muzio Stanislao Simone Galdino Macario Attilio Tonio Tecla Menico Griso Gervaso Beppe Suolavecchia Anselmo Lunghigna Ambrogio Grignapoco Nibbio Sfregiato

Francese

Castigliano

Abbondio Renzo Tramaglino Lucia Mondella Rodrigue Perpetua Bettina Agnès Christophe/Ludovic Azzecca-Garbugli Muzio Stanislas Simon Galdino Macario Attilio Tonio Tecla Menico Griso 4 Gervais Beppe Suolavecchia Anselmo Lunghigna Ambrogio Grignapoco Milan Balafré

Abbondio Renzo Tramaglino Lucía Mondella Rodrigo Perpetua Bettina Agnese Cristóforo/Lodovico Azzecca-garbugli Muzio Estanislao Simón Galdino Macario Attilio Tonio Tecla Menico Griso Gervaso Beppe Suolavecchia Anselmo Lunghigna 5 Ambrosio Grignapoco Nibbio Sfregiato

1   In altri casi, p. es. in una traduzione spagnola de La Tregua, la curatrice non si è neppure degnata di leggere le note stesse di Levi, con l’infelice esito di una raccolta di vistosi fraintendimenti ; stessa analoga noncuranza appare nel trattamento dell’onomastica dell’autore torinese ; cfr. P. Levi, La tregua, a cura di P. Gómez Bedate, Barcelona, El Aleph Editores, 1988. 2   Una ampia recente bibliografia si può leggere in B. Porcelli, L. Terrusi, L’onomastica letteraria in Italia dal 1890 al 2005. Repertorio bibliografico con abstracts, Pisa, ets, 2006 ; per le singole lingue mi riferisco in modo particolare ai contributi di J. Podeur, Nomi in azione. Il nome proprio nelle traduzioni dall’italiano in francese e dal francese all’italiano, Napoli, Liguori, 1999, e a M. de las Nieves Muñiz Muñiz (a cura di), La traduzione della letteratura italiana in Spagna (1300-1939). Traduzione e tradizione del testo. Dalla filologia all’informatica. Atti del i Convegno Internazionale (Barcellona, 13-16 aprile 2005), Firenze, Cesati, 2007. 3   Utilizzeremo per la prima Les Fiancés, a cura di V. Branca, Parigi, Gallimard, 1995, e per la seconda Los novios a cura di M. de las Nieves Muñiz Muñiz, Madrid, Cátedra, 20053. 4   Una nota spiega che « en milanais, griso veut dire gris mais aussi homme de confiance ». 5   Nessuna nota illustra i due antroponimi composti (ammesso che il secondo lo sia per crasi), né in francese né in spagnolo.  









del trattamento di antroponimi nelle traduzioni moderne Italiano Francese Tiradritto Tire-droit Tanabuso Tanabuso Montanarolo Montanarolo Squinternotto Rôde-la-nuit Stefano Stefano Carlandrea Carlandrea Fazio Fazio Bonaventura da Lodi Bonaventure de Lodi Taddeo Pierre Bartolommeo Paul Bortolo Bortolo Atanasio Atanasio Girolamo Girolamo Zaccaria Zaccaria Gertrude/Gertrudina Gertrude/la petite Gertrude Egidio Egidio Marta Marthe Maria Maria Ferrante Ferrante Prassede Praxède Alessio di Maggianico Alessio de Maggianico Antonio Rivolta Antonio Rivolta Chiodo Chiodo Biondino Biondino Carlotto Carlotto Cecilia Cécilia Vittore Victor Personaggi mitologici, storici o semistorici, letterari Argo Argus Briareo Briarée Carlo d’Aragon Charles d’Aragon Juan Fernandez de Velasco Juan Fernandez di Velasco Pietro Enriquez de Acevedo Pietro Enriquez d’Acevedo Enrico IV Henri IV Giovanni de la Mendozza Giovanni de Mendozza Pandolfo e Marco Tullio Malatesti Pandolfe et Marc-Tulle Malatesti Gomez Suarez Gomez Suarez Gonzalo Fernandez Gonzalo Fernandez Tasso Tasse Argante Argant Buglione Godefroy de Bouillon Banco Banco Macbeth Macbeth Vincenzo Gonzaga Vincent Gonzague Luigi XIII Louis XIII Filippo IV Philippe IV Ferdinando II Ferdinand II Valdistano/Vallistai/Vagliensteino Valdistane/Vallistaï/Vagliensteino Gasparo Guzman Gasparo Guzman Eliogabalo Héliogabale 1

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Castigliano Tiradritto Tanabusso Montanarolo Squinternotto Stefano Carlandrea Fazio Buenaventura de Lodi Tadeo Bartolomeo Bórtolo Atanasio Girolamo Zaccaria Gertrude/Gertrudita Egidio 1 Marta María Ferrante Prassede Alessio, el de Maggianico Antonio Rivolta Chiodo Biondino Carlotto Cecilia Vittore Argos Briareo Carlos de Aragón Juan Fernández de Velasco Pedro Enríquez de Acevedo Enrique IV Juan de Mendoza Pandolfo y Marco Tullio Malatesti Gómez Suárez Gonzalo Fernández Tasso Argante Bouillon Banco Macbeth Vincenzo Gonzaga Luis XIII Felipe IV Fernando II Valdistano/Vallistai/Vallensteino Gaspar Guzmán Heliogábalo

  Scritto talora Edigio, per errore del proto.

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Italiano Filippo il grande Faraone Nathan Carneade Archimede San Carlo Antonio Ferrer Lorenzo Torre Giovanbattista Biava Francesco Rivola Federigo Borromeo Clerici Picozzi Giuseppe Ripamonti Sant’Antonio Oloferne Bovo d’Antona Carlo Gonzaga Carlo Emanuele I Margherita Gonzaga Urbano VIII Maria de’ Medici Cardano Alcabizio Diogene Laerzio Aristotile Plinio Alberto Magno Martino Delrio Pietro di Toledo Paolo V Luigi XIII Cristina (di Francia) Lodovico Settala Ambrogio Spinola Pietro Antonio Lovato Pier Paolo Locati Rambaldo di Collalto Carlo Colonna Felice Casati Michele Pozzobonelli

Francese Philippe le Grand Pharaon Nathan Carnéade Archimède Saint Charles Antonio Ferrer Lorenzo Torre Giovanbatista Biava Francesco Rivola Frédéric Borromée Clerici Picozzi Giuseppe Ripamonti saint Antoine Holopherne Bovo d’Antona Charles Gonzague Charles Emmanuel Ier Marguerite Gonzague Urbain VIII Marie de Médicis Cardano Alcabizio Diogène Laërce Aristote Pline l’Ancien Albert le Grand Martin Delrio Pierre de Tolède Paul V Louis XIII Christine Ludovic Settala Ambrogio Spinola Pietro Antonio Lovato Pier Paolo Locati Rambaldo di Collalto Carlo Colonna Félix Casati Michel Pozzobonelli

Castigliano Felipe el Grande Faraón Nathan Carnéades1 Arquímedes San Carlos Antonio Ferrer Lorenzo Torre Giovambattista Biava Francesco Rivola Federigo Borromeo Clereci Picozzi Giuseppe Ripamonti San Antonio Holofernes Bovo d’Antona Carlos Gonzaga Carlo Emanuele I Margarita Gonzaga Urbano VIII María de Médicis Cardano Alcabizio Diógenes Laercio Aristóteles Plinio Alberto Magno Martín del Río Pedro de Toledo Pablo V Luis XIII Cristina Lodovico Settala Ambrogio 8 Spinola Pietro Antonio Lovato Pier Paolo Locati Rambaldo de Collalto Carlo Colonna Felice Casati Michele Pozzobonelli

Il confronto tra la maggior parte degli antroponimi dei Promessi Sposi, siano essi attori principali della vicenda, deuteragonisti o evocati, induce ad alcune riflessioni, che da un lato riflettono le affinità delle due traduzioni, dall’altro evidenziano un atteggiamento spesso discontinuo. È costume comune tradurre i nomi sicuramente storici (papi, re, duchi, principesse e via dicendo) e quelli di autori appartenenti alla tradizione culturale antica ivi comprese le auctoritates citate ; molto più cauto il comportamento in rapporto a nomi di personaggi che sono storici o presunti tali, in quanto il Manzoni li presenta come ricavati dall’anonimo  

1

  Da notare il rilievo grafico attribuito all’esclamazione di Don Abbondio.   Talvolta stampato Abrogio, talora Ambrigo, per errore del proto.

2

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o dalle sue fonti storiografiche : soprattutto coloro che hanno funzioni pubbliche durante la peste o la prima persona colpita da tale male. Vi sono però delle eccezioni che è agevole riscontrare dalle Tabelle. È naturale tuttavia che, essendo il romanzo ambientato nella Lombardia dominata dagli Spagnoli, con abbondanza di antroponimi iberici, la traduzione risulti più armonica in lingua castigliana che non in langue d’oïl. Ma si deve segnalare sia in una versione che nell’altra che i traduttori si sono cimentati, parzialmente, con la trasposizione e l’interpretazione degli appellativi dei bravi, talora in modo incoerente. Il testo francese reca, in corrispondenza di Nibbio, Sfregiato e Tiradritto, rispettivamente Milan, Balafré e Tiredroit, senza dubbio soddisfacenti ; ma allora perché non volgere anche Grignapoco, Biondino e Carlotto, di facile comprensione e di altrettanto facile resa ? Rimangono tali e quali Griso, Montanarolo e Tanabuso, mentre un granchio inaudito si presenta per Squinternotto tradotto con Rôde-la-nuit, letteralmente ‘colui che erra’, ‘che gironzola’, ‘vagabonda di notte’, ove evidentemente il segmento finale -notto è stato completamente frainteso. Squinternotto è da intendere quale variante di ‘squinternato’, ossia ‘poco equilibrato’, ‘svitato’, ‘sconnesso’, collegato nell’etimo a *quinternum ‘quinterno’, ‘cinque fogli compaginati’, con cambiamento di suffisso. In questa occasione ritengo preferibile l’attitudine della Muñiz che li traduce in nota, ma non soltanto, ne riferisce i precedenti attribuiti dal Manzoni in Fermo e Lucia. L’attenzione della traduttrice avrebbe però potuto, nel caso delle comiche denominazioni degli spasimanti di Perpetua (Beppe Suolavecchia e Anselmo Lunghigna) ugualmente apporre una nota poiché l’intellezione potrebbe non risultare immediata per uno Spagnolo, come non lo è probabilmente neppure per un Francese : questa incoerenza risulta singolare di fronte all’attenzione riservata ai soprannomi dei bravi. Griso è glossato « vocabolo lombardo que significa ‘gris’ o ‘canoso’ », senza interpretazione metaforica ; lo Sfregiato è glossato ‘Caracortada’, Tiradritto con ‘Da-en-el-blanco’ ; Grignapoco, di facile comprensione, non ha attirato l’attenzione della Muñíz. Per Montanarolo, Tanabusso e Squinternotto la traduttrice propone in nota le seguenti traduzioni : « Serranillo », « Buscacuevas » e « Desparrancado ». La meno felice appare « Buscacuevas » poiché se Tanabuso è formato da due elementi e, considerandolo nome composto e volendo impiegare un verbo equivalente a ‘tanare’, si dovrà ricorrere piuttosto a ‘dimorare’, ‘vivere’. In realtà il soprannome deve essere interpretato diversamente : tanabuso, comunemente ritenuto sinonimo di ‘nascondiglio’ (e così è glossato nel Vocabolario milanese-italiano del Cherubini, del 1839), 1 possiede un omografo e omofono che è variante di tarabuso, dalla etimologia incerta, il quale indica un uccello simile all’airone conosciuto per il forte richiamo che emette, tanto che in alcune località è detto anche ‘trombone’. 2 Il sapiente quadro onomastico del Manzoni trova qui la sua conferma : se il Nibbio sta al « suo selvaggio signore », l’Innominato, e al suo « castello/castellaccio » (come « l’aquila dal suo nido insanguinato ») per fierezza e acutezza, il modesto Tanabuso sta al mediocre Don Rodrigo e al suo « palazzotto ». Sempre nella traduzione francese, seppure si comprende perché Tonio e Menico siano rimasti intatti, non possedendo questa lingua ipocoristici adatti, non si comprende perché Agnese, Gervaso, Marta, Prassede, Cecilia ecc. debbano diventare rispettivamente Agnès, Gervais, Marthe, Praxède, Cécilia, ecc., e Tecla, Ambrogio, Stefano, Atanasio, Maria, Egidio, Zaccaria, ecc. siano mantenuti come in italiano. Non pare di riscontrare nelle sequele indicate motivi di differenziazione tali da giustificare un diverso uso linguistico ; anche se alcuni nomi ma 























































1   Questa è la tesi accolta anche da P. A. Perotti, I nomi dei personaggi nei Promessi Sposi, « Critica letteraria », 97, 1997, pp. 637-650 : p. 646. 2   Per una proposta si veda M. Cortelazzo, P. Zolli, Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, Bologna, Zanichelli, 2008.  





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schili, come osservò Contini, sono al grado diminutivo ipocoristici e quelli femminili mai, non è il caso di quelli appena elencati. Per quanto concerne la versione spagnola si noti la più costante conservazione, limitata all’apposizione di accenti (come per Cristóforo, Bórtolo, Simón) in modo da guidarne la corretta lettura ; non così è avvenuto per Menico in cui forse la traduttrice non ha ravvisato l’ipocoristico di Domenico o si è fatta suggestionare dalla parossitonia di Domingo e di Domènec ; d’altronde anche il toponimo Maggianico è privo d’accento. È interessante notare come nel testo francese di fronte a Buglione ci si riappropri dell’intero appellativo, quasi per revanche nazionalista di fronte a tanti nomi spagnoli, Godefroy de Bouillon ; non così avviene per Bovo d’Antona, forse inteso come voleva l’autore quale raccolta di vicende di tradizione epica fatte proprie dalla letteratura italiana. Non è mai simpatico pronunciare un giudizio, ma in questa circostanza mi pare doveroso : la traduzione della Muñiz, così ricca di note, aggiornata su studi critici anche recenti, dotata di ampia introduzione che ripercorre il lungo travaglio manzoniano, offre ai lettori ispanofoni una versione gradevole, scientificamente corretta e rigorosamente corredata, del capolavoro della prosa italiana dell’Ottocento, permettendo di apprezzarne in pieno la finezza, l’arguzia, la severità, la limpidezza del discorso morale, l’invenzione, la struttura ineccepibile, per non elencare che alcuni dei pregi di un testo così noto e di cui non dovrei neppure ora trovarmi nella condizione di tessere gli elogi. Per le due traduttrici del testo in francese, malgrado la brillante introduzione di Giovanni Macchia, non mi sento di esprimere un’opinione egualmente favorevole : le poche note sono in numero decisamente inconsistente rispetto alla globale necessità interpretativa che la raffinatezza del linguaggio dell’autore milanese avrebbe richiesto e, soprattutto, avrebbe preteso e avrebbe dovuto avere. Può una édition de poche giustificare tale trasandatezza ? A mio avviso, benché sant’Agostino abbia scritto, non mi ricordo in quale sua opera, che ciò che deve essere fatto, deve essere fatto anche a costo di non raggiungere un pieno soddisfacimento, credo che converrebbe con il mio modesto parere : se non si è in grado di compiere una certa cosa, si cede il passo a chi è più competente, né, a maggior ragione, si esegue per mero scopo divulgativo (non voglio neppure pensare ad un interesse venale !). 1

















Vorrei concludere il mio contributo, che altro non è che uno sguardo qua e là, con La ciociara. Tradotta in catalano, in anni in cui per le opere di Moravia non era politicamente facile entrare nel mercato iberico, grazie allo spirito d’indipendenza della regione trainante, essa è dovuta a Francesc Vallverdú. 2 Come noto, il romanzo, incominciato dopo il ritorno nella Roma liberata dagli Alleati, concluso e edito soltanto nel 1957, è in parte autobiografico, in quanto il mondo rappresentatovi, con le sue meschinità, la sua miseria, gli orrori della guerra incombente, riproduce il periodo dall’8 settembre del 1943 al maggio dell’anno successivo, quando i due borghesi, Alberto Pincherle ed Elsa Morante, soggiornarono sui monti della Ciociaria, per sfuggire un probabile arresto dell’uomo, a stretto contatto con una realtà contadina verosimilmente mai supposta o sperimentata. Accantonata la nominatio a lungo studiata, corretta, riveduta, ri-immaginata con la cura peculiare dal Manzoni, i nomi dei personaggi non hanno caratteristiche apparentemente pregnanti : in realtà, conoscendo l’opera moraviana, balza agli occhi  

1   G. Contini, Onomastica manzoniana, in Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi 1970 (già comparso in « Corriere della Sera », 20 agosto 1965). 2   Che Moravia pensasse alle traduzioni dei suoi romanzi è dato certo : egli confessa di essere rimasto incerto sul titolo, Lo stupro o La ciociara, optando poi per il secondo, ma aggiunge anche che, ritenendo a ragione intraducibile il termine ciociara (infatti né camperola né campesina sono adeguati) avrebbe proposto in lingua inglese il titolo The rape, più soddisfacente di stupro.  





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che l’intellettuale de Gli Indifferenti ha nome Michele, esattamente come nell’opera in esame. L’autore stesso dichiarò la sua volontà di concludere il ciclo nato con il romanzo giovanile : « non a caso ho battezzato il protagonista maschile del romanzo Michele... La curva ideale sarebbe questa : il Michele di Gli indifferenti, attraverso tutte le esperienze che poteva offrire il mondo chiuso e asfittico del fascismo, lui un personaggio borghese e in rivolta, muore nel tentativo di salvare la gente. » 1 Ora, se tale motivazione letteraria e ideologica, oltre che etica e politica, non viene esplicitata, come accade nella presentazione della versione in catalano, gran parte dell’impalcatura del pensiero di Moravia perde il suo valore comunicativo. Appena è sfiorata in una successiva traduzione in spagnolo, 2 nell’introduzione di Ana María Moix, senza porre mente al dato onomastico. I tre protagonisti si chiamano Cesira, l’io narrante, Rosetta, la figlia, e Michele, l’idealista destinato a soccombere per mano dei Tedeschi. Cesira bene rappresenta la popolana inurbata, anonima nel nome come tante altre donne, con un appellativo assai poco aulico e poco rappresentativo, non portatore volutamente di alcun messaggio, divenuta nell’opera simbolo di una mentalità piccolo-borghese, tesa a salvare la ‘roba’, la vita sua e della figlia, impotente di fronte all’atrocità del dramma che, sul finire della narrazione, si abbatterà su di esse. Quanto a Rosetta, pur rientrando nella categoria dei nomi popolari, pare avere una funzione simbolica : ha diciotto anni, si schiude alla vita, ma anche, per volontà altrui, all’oltraggio ; non a caso la madre la vezzeggia chiamandola « piccola rosa », « fiore di bellezza », « figlia d’oro », « figlia santa », « angiolo », « un fiore cresciuto in una serra calda, il quale, una volta portato all’aria aperta, subito si avvizzisce e muore ». Per tutto il romanzo non pare davvero che Moravia avesse precise intenzioni espressive legate alle sue scelte onomastiche. Talora però si scorge un intento connotativo : Vincenzo, nome comunissimo e talora con significato denigratorio, è utilizzato per due personaggi, il marito della protagonista, rozzo e bestiale, e il figlio dal volto brutale e massiccio di Festa, il mezzadro trafficante e gretto. Per quanto concerne altri primi e secondi nomi, essi rientrano tutti compatibilmente con l’area geografica ove si svolge il romanzo, da Roma alla Ciociaria, ovvero la provincia di Frosinone o, in senso lato, il Lazio meridionale. Festa, 3 Scalise, 4 Proietti, 5 Morrone, 6 De Santis, 7 come Giovanni, Rosario, Giuseppe, Filippo, Donato, Esposito, Antonio, Severino, Nicola, Tommasino, Ignazio, Carmelo, Luigi, Matteo, Mariolino, Bice, Concetta, Annina, Anita, Giacinta, Luisa, Teresa, ecc. Vi è infine un unico soprannome o un ipocoristico, Ticò, la guardia municipale nascosta nella caverna, di cui non so intravedere la base. Nella sobrietà ancorata al territorio del panorama onomastico di Moravia, brilla per reminiscenza letteraria di tipo probabilmente orale Paride, la cui descrizione è antitetica al greco, « con la testa rotonda, la fronte bassa, il naso ad uncino, piccolo e ricurvo, la mascella pesante e la bocca simile ad un taglio », e anche analfabeta, cui si contrappone alla fine del romanzo, sebbene in corrispondenza fisica simmetrica e opposta al tempo stesso, un altro  









































1

  Testo pubblicato in Nuovi Argomenti, 17-18, novembre 1955-febbraio 1956, rivista da lui diretta con Carocci.   Cfr. La campesina, trad. di D. Pruna, Barcelona, Random House Mondadori, 2005. 3   Festa è vivo in Campania e sparsamente nella Pianura Padana, con fitta concentrazione in Piemonte e soprattutto in Lombardia, zone di emigrazione. 4   Scalise è secondo nome di origine calabra, immigrato al Nord, con un grosso nucleo nell’area dei laghi e nel Torinese. 5   Proietti, come noto, è laziale e, per lo stesso motivo dei precedenti cognomi, sparso nel Settentrione. 6   Morrone è campano d’origine, anch’esso giunto al Nord e concentrato principalmente nella stessa zona lacustre di Scalise. 7   De Santis occupa vistosamente la fascia centro-meridionale italiana, sino al Salento e, più sporadicamente, alla Campania e alla Calabria. Tutte le indicazioni relative alla diffusione sono tratte dalla fonte on-line http ://www.gens. labo.net/it/cognomi/ 2



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nome, Clorindo, in origine di un leggiadro amoroso della Commedia dell’Arte : ma agli occhi di Cesira questi non ha nulla di gentile, poiché « non era simpatico per via di un non so che di sfrenato, di volgare e di violento che c’era nei suoi occhi cerulei e nella sua bocca troppo rossa ... aveva la voce grossa e rauca ; sul collo enorme gli ricadevano tanti riccioletti biondi che gli facevano una testa di caprone ». Le due traduzioni iberiche mantengono inalterati i nomi dei protagonisti, con una differenza : in essa Rosetta è sempre preceduto da la e i nomi maschili da en (da mossen riduzione di mossènyer ‘mio signore’). Dato il carattere strettamente neorealistico del romanzo, la presenza di un titolo fin dal Medioevo riservato ai ceti elevati, potrebbe sembrare anacronistico, tanto più quando attribuito ai personaggi negativi (lo sono quasi tutti ad eccezione dei tre coprotagonisti), che di signorile nulla possiedono, ma non lo è : era infatti, e lo è tuttora, consuetudine catalana l’impiego di tale titolo onorifico (con valore di articolo determinativo) con i nomi propri, anche quando le altre lingue romanze non lo richiedono. Comprensibile dal punto di vista storico ne è l’uso in anni in cui la Catalunya cercava faticosamente di affermare la sua identità e la sua autonomia : la struttura catalana distingue nettamente le due lingue iberiche in contrapposizione, a dimostrare che anche una sillaba ha, nell’onomastica, la sua importanza ed è in grado di differenziare due sistemi linguistici.  













Classificazione e terminologia dei tipi onomastici* 1 Friedhelm Debus 1. Introduzione

F

a parte dell’esperienza primaria di ogni uomo il fatto che l’enorme quantità di nomi che lo circondano sia suddivisa in vario modo. Il bambino cresce lentamente all’interno di questo mondo di nomi ordinato secondo principi evidenti. Il suo stesso nome e quello delle persone che lo attorniano hanno una struttura diversa dal nome del luogo in cui risiede o della strada in cui si trova la sua casa. Esseri animati ed oggetti d’ogni genere fin su alle stelle portano tutti un nome. E a partire dal mondo dei nomi ordinato in questo modo ha inizio la sua conoscenza del cosmo. Lo stesso nominare dà alle cose un senso ed orienta circa le loro caratteristiche costituendo il principio ordinatore in senso assoluto, come si evince già dalla narrazione biblica della creazione. (1. Mosé 2, 19 sg.) Solo attraverso la nominazione è infatti possibile identificare in modo inequivocabile ciò che ci attornia e di conseguenza comunicare con i nostri simili in modo corretto. Il che è in linea con l’esigenza che ognuno di noi ha di comprendere il mondo servendosi di un linguaggio in grado di distinguere tra loro i vari aspetti della realtà. Il poeta Dieter Wellershoff per la sua raccolta di studi, che contiene anche un saggio sui nomi scritto dietro mio suggerimento, ha scelto un titolo oltremodo significativo : Il caos ordinato (Wellershoff 1992).  

L’onomasta prende le mosse dalla divisione in tipi di nomi rinvenibile empiricamente e che è in certo qual modo fornita dalla natura stessa con l’obiettivo di elaborare, procedendo in modo analitico, una classificazione scientificamente esatta. Non si tratta di un’operazione fine a se stessa e neppure di un gioco : egli intende piuttosto rispondere alla necessità di penetrare col pensiero e di chiarire oggettivamente una vastissima porzione del mondo che ci circonda sia in una prospettiva teorica sia sotto il profilo pratico – aspirazione questa che è peraltro presente in ogni ramo della ricerca scientifica. Che tuttavia la creazione di un’ordinata suddivisione dei nomi in classi ed in tipi sia un’impresa tutt’altro che facile lo mostrano i non pochi tentativi effettuati dagli studiosi di arrivare ad un risultato soddisfacente. Silvio Brendler (2004b) ha preso in esame una serie di proposte di classificazione, trovandole tutte più o meno inadeguate sulla base di principi fondamentali procedenti dalla logica. Accanto alle classificazioni che possono essere definite ‘naturali’ ve ne sono poi altre di tipo ‘artificiale’ che individuano quali caratteristiche distintive dei nomi aspetti linguistici come la morfologia, l’etimologia, la regionalità ; ma di esse non si tratterà in questa sede. Le coordinate entro le quali si collocano i tipi onomastici isolati attraverso il processo di classificazione riguardano la terminologia nella misura in cui le classi strutturate gerarchicamente, così come le varie sottoclassi, devono essere nominate in modo inequivocabile. Ciò mette in discussione un importante settore di ricerca : quello dei problemi di ordine terminologico. Tale ordine di problemi è stato descritto con grande chiarezza da Teodolius Witkowski (1995) e affrontato attraverso l’elaborazione di linee guida da parte di Milan Harvalík (2005), responsabile della Commissione per la terminologia di icos. Il risultato cui il  





*  La traduzione italiana è di Donatella Bremer.

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gruppo di lavoro è al momento giunto consta di liste di termini stilate per uso interno, che in questa sede possono esser prese in considerazione solo in modo selettivo. 1 Terminologia e classificazione sono dunque ambiti molto problematici. Qui di seguito vedremo meglio i termini della questione. 2. Problemi di classificazione Come già accennato, sono state elaborate sino ad oggi non poche classificazioni di tipo scientifico, le quali spesso si discostano tra loro sensibilmente. Questo ed anche i tentativi di differenti autori, ripetuti all’occasione, con risultati differenti, mostrano come per questo ambito non si disponga ad oggi di alcuna sistematizzazione precisa e universalmente riconosciuta. Certamente entrano in gioco di volta in volta criteri di selezione soggettivi così come anche, in maniera meno evidente, considerazioni di tipo logico. Il mio primo tentativo di classificazione (Debus 1980) ha, p. es., subito delle critiche (Brendler 2004b, 80). In esse tuttavia non si è tenuto conto del fatto che lo spazio di cui allora disponevo all’interno del lessico specialistico era ristretto, per cui mi era possibile effettuare soltanto una « classificazione di massima » (Debus 1980, 188). È questo il motivo per il quale avevo cautamente introdotto, accanto alle classi degli ‘antroponimi’ e dei ‘toponimi’, un terzo raggruppamento, quello che sarebbe stato poi criticato e che avevo chiamato ‘varia’, dal lat. varius ‘di vario t i p o’, con lo scopo di far confluire in esso i vari t i p i onomastici che non rientravano nelle prime due classi. Tale classificazione è stata peraltro ripresa successivamente da alcuni studiosi. La classificazione dei nomi dovrebbe avere come scopo principale quello di far ordine all’interno della loro grande varietà creando classi ben definite sotto il profilo denotativo oltre che sottoclassi caratterizzanti. Tale sistematizzazione non dovrebbe risultare grossolana, ma neppure troppo particolareggiata. Infatti si tratta di tipi di nomi, perciò non dovrebbero esservi contemplati, p. es., i nomi delle università o dei parcheggi, anche se una loro analisi non sarebbe del tutto priva di senso ; questi ultimi dovrebbero venir collocati, per le loro peculiarità, nelle corrispondenti sottoclassi – nel caso specifico rispettivamente in quelle dei nomi delle istituzioni (Einrichtungsnamen/Institutionyme ‘nomi di istituzioni’/‘istituzionimi’) e dei nomi degli spazi aperti (Flurnamen/Anoiconyme ‘nomi di luoghi in spazio aperto’/‘anoiconimi’). Le classi e sottoclassi che verranno così a delinearsi dovranno essere ben definite e distinte le une dalle altre. Ciò si rivela purtroppo spesso problematico, poiché si prende le mosse da diversi tipi di definizioni o ci si imbatte in sovrapposizioni tematiche. Se p. es. Stefan Warchol (2004, 789) ha distinto, classificando i nomi degli animali, « quattro ambiti di problemi » (e cioè, accanto ad un gruppo « vari », ha isolato gli zoonimi « delle campagne », « delle città » e quelli « letterari »), si può obiettare che avrebbe potuto adottare anche una classificazione diversa : al posto della differenziazione tra animali di campagna e di città avrebbe potuto distinguere tra quelli domestici e quelli selvatici e avrebbe potuto introdurre anche gli animali d’allevamento. La ‘zoonimia letteraria’ inoltre non costituisce un campo d’indagine specifico della zoonimia, e lo stesso vale per ogni tipo di nome. Quest’ordine di considerazioni ci porta a prendere in esame anche le questioni relative all’introduzione dei nomi letterari o poetonimi in una classificazione generale. Una tal classificazione ancora non è stata effettuata. Accanto ai nomi ripresi dalla realtà e calati nella fiction, devono essere presi in considerazione anche i nomi che nascono all’interno della fiction stessa, cioè i nomi creati ad hoc, inventati (cfr. Debus 2002) – come si vedrà meglio nella quarta parte di questo saggio. Fino a questo momento ho sempre citato, accanto alla terminologia in lingua tedesca, gli internazionalismi comunemente usati. Ma anche a tale riguardo dovranno essere messe in luce alcune problematicità.  

























1

  Ringrazio la collega Maria Giovanna Arcamone per avermi fornito queste liste.



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3. Problemi terminologici Uno dei problemi principali di ogni linguaggio specialistico è rappresentato dal fatto che i termini che ne fanno parte devono venir definiti in modo inequivocabile. Concetti come omonimia, sinonimia o polisemia, che sono propri del comune uso della lingua, devono essere abbandonati. Secondo Teodolius Witkowski, che per primo ha pubblicato un pregevole dizionario dei nomi che sarebbe auspicabile venisse ripubblicato in edizione ampliata (Witkowski 1964), la terminologia scientifica dovrebbe essere « la più chiara possibile. Ed un termine è chiaro solo quando, anche al di fuori del proprio contesto, non dà adito a fraintendimenti ». Ma lo studioso aggiunge subito dopo : « Tale scopo spesso non viene raggiunto. » (Witkowski 1995, 288) Il vero dilemma è in effetti questo. Nelle singole tradizioni nazionali della ricerca onomastica esistono il più delle volte termini, originatisi nel corso del tempo e ripresi dal lessico comune, i quali, a causa delle loro molteplici accezioni, non soddisfano i requisiti che si richiedono alla terminologia specialistica. Spiegherò la questione servendomi di espressioni centrali nel tedesco quali Ortsname (‘nome di luogo’), Flurname (‘nome di luogo in spazio aperto’) o anche del termine più recente Personenname (‘nome di persona’). Il termine Ortsname viene usato in genere per località di ogni tipo, motivo per il quale talvolta si parla anche di Örtlichkeitsname (‘nome di località’) ; esso viene quindi inteso sia nel senso di Toponym (‘toponimo’), sia, in un’accezione più ristretta, con riferimento ad insediamenti umani. Ciò trova riscontro nel lessico tedesco, che designa col termine Ort sia un luogo indefinito (ad es. geometrischer Ort ‘luogo geometrico’, an Ort und Stelle ‘sul posto’, am angegebenen Ort ‘ivi’), sia una località ben precisa (duden 2001). Se vogliamo orientarci al principio della chiarezza, si dovrebbe usare Ortsname come pure il corrispondente internazionalismo Toponym, in quanto iperonimo, e a questi far poi risalire iponimi quali Siedlungsname/Oikonym (‘nome d’insediamento’/‘oiconimo’), Flurname/Anoikonym (‘nome di luogo in aperta campagna’/‘anoiconimo’) e Raumname (‘nome di spazio’) (= Landschafts-, Länder- e Staatenname ‘nome di paesi’, ‘regioni’ e ‘Stati’/Choronym ‘coronimo’). Inoltre, nell’ambito della ricerca nei paesi di lingua tedesca è problematico il termine Flurname. Secondo Stefan Sonderegger (1997-1998, 7) « la questione relativa al termine Flurname costituisce […] un vecchio ed assai dibattuto nodo problematico ». Inizialmente esisteva la definizione estremamente chiara di ‘luogo non costruito’, ‘non abitato’, per cui la differenza rispetto ai termini indicanti insediamenti umani era chiara. Joseph Schnetz (1952-1963, 7) ne dà la seguente definizione : « La parola Flur (‘campo, terreno, territorio’) viene qui intesa con un significato assai più ampio di quello che possedeva nell’uso contadino ; essa inoltre non viene riferita attualmente solo ai singoli appezzamenti di terreno c o l t i v a t o (a campi e prati), bensì viene messa in relazione anche con i nomi dei monti e delle valli, dei boschi, dei corsi d’acqua, delle strade e dei sentieri. Flurnamen sono quindi nella terminologia scientifica tutti i nomi dei luoghi disabitati […] ». Tale orientamento è riconosciuto universalmente, ad es. negli autorevoli manuali di Ernst Schwarz (ii, 1950, 259) e di Adolf Bach (ii, 1953, § 1 ; ii, 1954, § 487 und 745). Lo stesso dicasi per il manuale internazionale Namenforschung, che tuttavia tratta i Gewässernamen (‘nomi dei corsi d’acqua’) quale categoria a se stante (Eichler et alii 1996), allo stesso modo di Albrecht Greule, che segue in ciò il criterio, del tutto condivisibile, della distinzione tra terra ed acqua (Greule 2004, 382). Tuttavia, alla luce del fatto che esistono Fischerflurnamen (‘nomi di luoghi frequentati dai pescatori’) (Debus 1996) e che vi sono località non attribuibili ad uno dei due ambiti, quali p. es. Tümpel, Morast, Moor (‘pozze’, ‘pantani’ e ‘paludi’) (Udolph 2004, 330), non facciamo qui quella problematica distinzione. – Un’ulteriore ed evidente complicazione sorge invece quando si consideri come segno distintivo caratteristico di tali denominazioni l’opposizione ‘piccolo : grande’. A questo proposito  



























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Teodolius Witkowski (1964, 29) tende a fare delle distinzioni : « Si deve tener presente che i F. [Flurnamen] si riferiscono a zone piuttosto piccole. Nomi di grandi laghi, di vaste estensioni, di monti e di mari non possono venir considerati come Flurnamen ». Per i Flurnamen intesi in tale accezione è nel frattempo divenuto comune l’uso dell’internazionalismo Mikrotoponyme (‘microtoponimi’) e del suo antonimo Makrotoponyme (‘macrotoponimi’). Il che significa che i nomi dei corsi d’acqua di piccole proporzioni sarebbero dei microtoponimi, mentre quelli di estensioni d’acqua piuttosto ampie sarebbero macrotoponimi. Allo stesso modo i nomi di piccole alture dovrebbero essere compresi fra i microtoponimi e quelli di alte montagne fra i macrotoponimi. Anche i nomi di insediamenti urbani relativamente estesi, quali paesi e città, verrebbero classificati come macrotoponimi, a differenza dei piccoli nuclei abitati. Il problema è dunque quello di tracciare di volta in volta il discrimine. Ma è evidente che è estremamente difficile fissare dei confini ben precisi ed universalmente validi. Per quel che concerne infine i Personennamen (‘nomi di persona’), è stato di recente proposto che tale designazione venga riferita al singolo e debba essere distinta da quella indicante gruppi di persone (Familiennamen) (Brendler 2004a, 37 sgg.). È in effetti vero che, da un punto di vista storico, il nome personale viene imposto al singolo. E che anche dopo il passaggio dal sistema onomastico basato sul nome unico a quello a due o più nomi il nome personale ha mantenuto, rispetto a quello ereditato automaticamente, una sua particolare fisionomia. Per cui il termine Personenname è stato ancora per lungo tempo usato in riferimento al nome del singolo. Tuttavia tale termine si è poi affermato come iperonimo, assumendo il significato più ampio posseduto dall’internazionalismo Anthroponym (‘antroponimo’), con il quale si fa riferimento al nome personale, ma anche agli altri vari tipi di nomi appartenenti sia ai singoli individui sia a gruppi. Gli esempi qui trattati, che potrebbero essere molto più numerosi, mostrano le problematiche che investono questo tipo di terminologia e che temo ancora per molto tempo non potranno venir definitivamente eliminate. Sintomatico è il fatto che a tale riguardo gli stessi curatori del manuale internazionale Namenforschung si sono visti costretti ad accettare una notevole varietà terminologica (Eichler et alii 1995, 293). Allo stesso tempo tuttavia quest’opera è riuscita a creare in quest’ambito una maggiore chiarezza, se non altro attraverso l’introduzione di internazionalismi. A questo proposito si deve ricordare ciò che è stato affermato da Teodolius Witkowski (1995, 289) : « L’uso degli internazionalismi rappresenta per ogni disciplina, e dunque anche per l’onomastica, una necessità. » (cfr. Harvalík 2005). I membri della Commissione per la terminologia di icos stanno compiendo in questa direzione importanti lavori preparatori. Scopo dell’operazione dovrebbe essere la creazione di un dizionario terminologico in cui siano elencati in ordine alfabetico gli internazionalismi e fornita per ognuno di essi una chiara definizione. Ove i singoli lemmi possiedano più significati (ad es. nel caso di termini quali allonimo o oronimo) se ne dovrebbe privilegiare uno soltanto. Le lacune presenti nell’ambito degli internazionalismi potrebbero venir colmate attraverso un uso appropriato del greco classico. Terminologie particolari originatesi a livello nazionale potranno in ogni caso sopravvivere, anche allo scopo di favorire la comprensione della disciplina entro determinate cerchie al di fuori dell’ambito della ricerca onomastica ; in tal caso tuttavia si dovranno accuratamente evitare imprecisioni ed ambiguità.  













4. Proposta di una classificazione dei tipi onomastici La classificazione proposta, che ha l’assetto di uno stemma, si prefigge di offrire un quadro dei principali tipi onomastici che sia il più possibile esaustivo e che corrisponda ai principi sopra menzionati. Nel far ciò ho preso le mosse dalla terminologia tedesca, cui ho affiancato di volta in volta gli internazionalismi divenuti, in misura maggiore o minore, di uso comune.

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Ho inoltre completato il quadro inserendo nuovi termini creati sulla base del greco classico. Essi vengono intesi quali proposte (e segnalati mediante *) ; non posso neppure escludere che alcuni di questi termini, elencati qui di seguito, già esistano o che ne esistano di similari : *Syntrophonym (< gr. suvntrofon ‘animale domestico’) *Therionym (< gr. qhrivon ‘animale selvatico’) *Daimonym (< gr. daivmwn ‘demone’) *Hyperphysionym (< gr. uJpevr ‘sopra’ + fuvsi~ ‘natura’) *Agronym (< gr. ajgrov~ ‘campo’ = ‘terra coltivata’) *Hylonym (< gr. u{lh ‘bosco’) *Kosmonym (< gr. kovsmo~ ‘cosmo’). Lo Hyperphysionym (iperfisionimo) può essere collocato all’interno della classe degli Abionyme (abionimi) ed è rappresentato da nomi quali la Gerusalemme celeste o il Paradiso. Se dovessero sussistere lacune terminologiche, esse potranno venir colmate in una fase successiva. Ho soltanto classificato come esempio la classe degli Anoikonyme allo scopo di gettar luce sulla complessa problematica cui si è accennato sopra (cap. iii). Per la parte restante, la classificazione prospettata non dovrebbe presentare particolari difficoltà di interpretazione. Per la prima volta sono stati compresi nella classificazione generale i literarische Namen/Poetonyme (nomi letterari/poetonimi), cui ho precedentemente accennato (cap. ii). Ciò deve venir interpretato anche quale omaggio a Davide De Camilli in occasione del suo giubileo e quale riconoscimento della fervida attività e dei molti successi ottenuti a livello internazionale da parte dell’Associazione pisana « Onomastica & Letteratura », sorta nel 1994 per sua stessa iniziativa. Il vasto mondo dei nomi letterari corrisponde a quello dei nomi reali, seppure su di un piano diverso. Già nel 1804 Jean Paul ha definito in modo estremamente appropriato la letteratura, con la sua verità poetica, « l’unico s e c o n d o mondo su questa terra » (Paul 1935, § 1, 21). I nomi letterari, inventati e ‘fizionali’, e cioè i nomi reali, autentici, che sono integrati poeticamente alla sfera della finzione, sono parte integrante della creazione letteraria, che al contempo simula la realtà e risveglia nel lettore l’illusione di muoversi in un mondo reale – specialmente quando si tratti di opere di grandi autori. È in gran parte dovuto a tale circostanza se antroponimi squisitamente letterari vengono adottati per dare un nome a persone realmente esistenti. Le linee tratteggiate nello stemma hanno lo scopo di segnalare il fatto che i poetonimi possono essere rappresentati da tutti i tipi di nomi, e quindi dai bionimi come dagli abionimi, pur restando legati al mondo particolarissimo della finzione.  













vn bn fn Stirpi/popoli gruppi etnonimi etnici

uomini/ pn antroponimi

nella sfera del reale

piante fitonimi

Fig. 1. Classificazione dei bionimi.

dei teonimi

dèmoni *demonimi

per esseri soprannaturali/per esseri viventi inventati * iperfisionimi

nell‘irrealtà

mondo inanimato → Fig. 2 → abionimi

animali domestici animali selvatici alberi fiori *sintroponimi *terionimi dendronimi antonimi animali d‘allevamento

animali zoonimi

esseri viventi bionimi

pn = nome di persona vn = nome, soprannome e nome di battesimo bn = nome aggiunto fn = cognome * = proposta d’internazionalismo











opere letterarie poetonimi

nelle

Nomi Onimi

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terrestri

extraterrestri

mondo inanimato abionimi nell‘irrealtà

sn = nome d’insediamento fln = nome di località in spazio aperto

Fig. 2. Nomi per abionimi.

spazio sn fln (paesi/stati ) istituzioni avvenimenti temporali corpi celesti oiconimi anoiconimi coronimi istituzionimi crononimi astronimi merci fenomeni naturali crematonimi fenomenonimi distese d’acqua monti valli Idronimi oronimi coilonimi campi/prati boschi strade/piazze *agronimi *ilonimi odonimi



geografici di oggetti nella geosfera nello spazio toponimi ergonimi simbantonimi cosmonimi



nella sfera del reale

opere letterarie poetonimi



← Fig. 1← esseri viventi bionimi

Nomi onimi nelle



sn

fin

spazio

di oggetti soprannaturali / oggetti cui si attribuisce vita *iperfisionimi

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friedhelm debus Note bibliografiche

Bach ii, 1953, 1954 : A. Bach, Deutsche Namenkunde, ii, Die deutschen Ortsnamen, voll. 1-2, Heidelberg. Brendler, Brendler 2004a : A. e S. Brendler (a cura di), Namenarten und ihre Erforschung. Ein Lehrbuch für das Studium der Onomastik. Anlässlich des 70. Geburtstages von Karlheinz Hengst, Amburgo (« Lehrund Handbücher zur Onomastik », 1). Brendler 2004b : S. Brendler, Klassifikation der Namen, in Brendler, Brendler 2004a, 69-92. Brendler, Brendler 2005 : A. e S. Brendler (a cura di), Namenforschung morgen. Ideen, Perspektiven, Visionen, Amburgo. Debus 1980 : F. Debus, Onomastik, in Lexikon der Germanistischen Linguistik, a cura di P. Althaus, H. Henne, H. Ernst Wiegand, 2ª ed., Tubinga, 187-198 ; rist. in Debus 1997, 604-628. Debus 1996 : F. Debus, Fischerflurnamen, in Eichler et alii 1593-1561 ; rist. in Debus 2007, 3-15. Debus 1997 : F. Debus, Kleinere Schriften. Zum 65. Geburtstag am 3. Febr. 1997, a cura di H.-D. Grohmann e J. Hartig, 2 voll., Hildesheim-Zurigo-New York. Debus 2002 : F. Debus, Namen in literarischen Werken. (Er-)Findung – Form – Funktion, Stoccarda (Akademie der Wissenschaften und der Literatur Mainz, « Abhandlungen der Geistes- und sozialwissenschaftlichen Klasse », Nr. 2). Debus 2007 : F. Debus, Kleinere Schriften. Zum 75. Geburtstag am 3. Februar 2007, a cura di H.-Diether Grohmann e Anja Kühn, 2 voll., Hildesheim-Zurigo-New York. duden 2001 : duden. Deutsches Universalwörterbuch, 4ª ed., Mannheim-Lipsia-Vienna-Zurigo. Eichler et alii 1995, 1996 : E. Eichler, G. Hilty, H. Löffler, H. Steger, L. Zgusta (a cura di), Namenforschung. Ein internationales Handbuch zur Onomastik, vol. 1, 1995 ; vol. 2, 1996 ; Indici, 1996 (« hsk », 11. 1. 2.), Berlino-New York. Greule 2004 : A. Greule, Siedlungsnamen, in Brendler, Brendler 2004a, 381-414. Harvalík 2005 : M. Harvalík, Zum heutigen Stand und zu Perspektiven der Entwicklung der onomastischen Terminologie, in Brendler, Brendler 2005, 55-59. Paul 1935 : Jean Pauls Sämtliche Werke. Historisch-kritische Ausgabe, parte 1, vol. xi, Vorschule der Aesthetik, Weimar (1ª ed. 1804). Schnetz 1952-1963 : J. Schnetz, Flurnamenkunde, Monaco di Baviera, 1952 (2ª ed. immutata, Monaco di Baviera, 1963). Schwarz ii, 1950 : E. Schwarz, Deutsche Namenforschung ii : Orts- und Flurnamen. Mit 13 Kartenskizzen, Gottinga. Sonderegger 1997-1998 : S. Sonderegger, Flurnamen im Spannungsfeld von Gegenwart und Geschichte, « Blätter für oberdeutsche Namenforschung », 34-35, 5-23. Udolph 2004 : J. Udolph, Gewässernamen, in Brendler, Brendler 2004a, 329-347. Warchol 2004 : S. Warchol, Tiernamen, in Brendler, Brendler 2004a, 773-793. Wellershoff 1992 : D. Wellershoff, Frauenfeind und Dr. Krebs. Probleme der Namengebung in literarischen Texten, in Idem, Das geordnete Chaos. Essays zur Literatur, Colonia, 102-122. Witkowski 1964 : T. Witkowski, Grundbegriffe der Namenkunde (= Deutsche Akademie der Wissenschaften zu Berlin, « Vorträge und Schriften », Heft 91), Berlino. Witkowski 1995 : T. Witkowski, Probleme der Terminologie, in Eichler et alii 1995, 288-294.  









































































« Nec ultra vocabitur nomen tuum Abram »  



Concetto Del Popolo

D

io appare ad Abramo, a novantanove anni, promettendogli : « Ecce pactum meum tecum. Erisque pater multarum gentium, nec ultra vocabitur nomen tuum “Abram”, sed “Abraham” erit nomen tuum, quia patrem multarum gentium constitui te » (Gn 17, 4-5) ; 1 e per la moglie, nonagenaria, aggiunge : « Sarai uxorem tuam non vocabis nomen eius “Sarai”, sed “Sara” erit nomen eius. Et benedicam ei ; et ex illa quoque dabo tibi filium. Benedicturus sum eam, eritque in nationes ; reges populorum orientur ex ea » (Gn 17, 15-16) : due rinominazioni, due promesse, perché il nome è quasi una forma formans. Abramo, a cui con il nome Dio cambia l’essenza, sarà padre di molte generazioni ; egli è anche mediatore, perché dovrà ri-nominare la moglie, eseguendo l’ordine. Un intervento diretto divino avviene pure dopo la lotta di Giacobbe con l’uomo misterioso, che dice : « Nequaquam […] “Iacob” amplius appellabitur nomen tuum, sed “Israel” : quoniam certasti cum Deo et cum hominibus et praevaluisti ! » (Gn 32, 29) : 2 la leggibilità della mutazione, per noi latini, è visibile anche linguisticamente, perché cambia persino la radice, in modo molto più evidente che in Abram > Abraham, Sarai > Sara. In questi episodi si tratta di una ‘ri-creazione’, perché Dio ri-prende quelle sue prerogative di quando, in principio, dice : « Fiat lux » : verbo e nome sono il momento creante ; e poi altri nomi : « […] appellavitque lucem “Diem” et tenebras “Noctem” […] Vocavitque Deus firmamentum “Caelum” […] Et vocavit Deus aridam “Terram”, congregationesque aquarum appellavit “Maria” » (Gn 1, 5-10) : ecco gli elementi. Non è detto chi abbia imposto il nome ad Adamo, investito però dell’autorità di partecipare, quasi con-Dio, nel dare nomi agli esseri viventi : creati gli animali, Dio « adduxit ea ad Adam ut videret quid vocaret ea : omne enim quod vocavit Adam animae viventis, ipsum est nomen eius » (Gn 2, 19) ; infine, Eva : « Virago, quoniam de viro sumpta est ». Il tempo passa, cambia la scena. Zaccaria officia nel tempio ; ecco Gabriele : « […] vocabis nomen eius Ioannem » (Lc 1, 13) ; il resto è miracolo. Nato il bambino, i parenti propongono il nome Zaccaria ; la madre, invece, vuole quello concordato con il marito ; per le obiezioni degli astanti (« nemo est in cognatione tua qui vocetur hoc nomine ») ci si rivolge al padre, che, muto, scrive. Chiara la funzione : si interrompe la tradizione, perché non si tratta più di Zaccaria, « ‘memoria domini’ uel ‘memor domini’ » – ancora Girolamo –, ma : « Iohannan ‘cui est gratia’ uel ‘domini gratia’ ». 3 Ora è tempo di grazia : si scioglie la lingua del padre, che, « repletus Spiritu sancto », profetizza prossimo il Messia, mentre tutti coloro che sentivano  



























   









































































1   Così spiegati da Gerolamo : « Abram pater excelsus […] Abraham pater uidens populum » ; « Sarai princeps mea […] Saraa [con le varianti in apparato Sarra, Sara] princeps » (S. Hieronymi presbyteri Opera, Pars i . Opera exegetica, cura et studio Pauli de Lagarde, Turnholti, Brepols, 1969, « ccsl », lxxii, De Genesi, pp. 61, 72-73). Nel testo biblico si osservi anche il parallelismo nel costrutto : negativo + sed. 2   « Iacob subplantator », scrive Girolamo (De Genesi, cit., p. 67) ; mentre poi interpreta « Israhel est uidere deum siue uir aut mens uidens deum » (De Exodo, p. 75) ; per ogni questione lo stesso rimanda alle Hebraicae Quaestiones in libro Geneseos (ivi, pp. 1-56). Alcuni di questi nomi sono ricordati da M. Ugenti, Nomi che parlano, nomi che deridono, in Riso e comicità nel cristianesimo antico, Atti del Convegno di Torino (14-16 febbraio 2005), a cura di C. Mazzucco, Alessandria, Edizioni dell’Orso 2007, pp. 535-546 ; questa la conclusione : « In ambito biblico l’imposizione di un nuovo nome e i giochi paronomastici sui nomi propri sembrano comunque mantenere un carattere solenne, lontano dalla derisione e dal comico che sono invece ben presenti nella letteratura pagana latina e greca » (pp. 535-536). 3   S. Hieronymi presbyteri Opera. […], De euangelio Matthaei, pp. 138, 136.  





































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concetto del popolo

tali notizie si chiedevano : « Quis, putas, puer iste erit ? ». Dio agisce in due tempi ; prima della concezione, imponendo il nome ; dopo la nascita, rafforzando la novità contro il volere degli uomini. Per Cristo il problema non si pone, perché Matteo (1, 21), in sogno, fa comunicare a Giuseppe il nome del nascituro, post conceptum ; Luca, invece, ne assegna il compito, ante conceptum, all’annuncio di Gabriele a Maria, e ne constata l’attuazione (Lc 1, 31 ; 2, 21). Nella tradizione veterotestamentaria sta anche Gesù quando a Simone dà un nuovo nome, per farlo caput anguli della Chiesa ; l’esempio, con intervalli temporali, si impose anche per i papi. Il presbitero Mercurio, eletto vescovo di Roma nel 533, si fa chiamare Giovanni II, poiché il proprio nome visibilmente pagano non gli sembrava adatto al ruolo.1 Bisogna aspettare il 955, quando Ottaviano, figlio di Alberico, « rinunciò al proprio nome di battesimo e si fece chiamare Giovanni [XII]. 2 In questo lo imitò poi anche Giovanni XIV (983-984), e con Gregorio V (996-999 [Bruno di Carinzia]) il mutamento di nome divenne norma » : 3 la tradizione si trasforma in regola ; nella Costituzione apostolica “Universi Dominici gregis” del 22 febbraio 1996, Giovanni Paolo II, al cap. vii, § 87, scrive :  



























Post electionem canonice factam, ultimus Cardinalis Diaconus vocat in aulam electionis Secretarium Collegii Cardinalium et Magistrum Pontificiarum Celebrationum Liturgicarum, atque consensus electi per Cardinalem Decanum aut per Cardinalium primum ordine et aetate, nomine totius Collegii electorum, his verbis requiratur : Acceptasne electionem de te canonice factam in Summum Pontificem ? Statimque, post consensum declaratum, electus interrogetur : Quo nomine vis vocari ? Tunc per Magistrum Pontificiarum Celebrationum Liturgicarum, munere notarii fungentem, testibus adhibitis duobus Viris a caeremoniis, qui tunc temporis vocabuntur, instrumentum de acceptatione novi Pontificis et de nomine ab eo assumpto conficitur. 4  







Si aggiunga : Giovanni XIV (Pietro Canepanova) rinuncia per atto di umiltà nei confronti di Pietro. 5 Questi, però, era stato ri-nominato da Cristo ; per gli altri, invece, si dovrebbe dire ‘mi cambio il nome’, poiché non si tratta di imposizione, ma di scelta. Anzi, la Costituzione apostolica citata non esplicita se l’eletto possa mantenere il proprio nome. Per gli ultimi papi nel nome sta il programma : Giovanni Paolo I, in omaggio e in riconoscenza ai suoi due predecessori, ne congiunse i nomi, con assoluta innovazione ; 6 così anche Giovanni Paolo II ; mentre l’attuale pontefice, Benedetto XVI, pur professando grande venerazione per il predecessore, ha scelto il patriarca del monachesimo. Solo nella finzione letteraria, mi pare, il protagonista conserva il proprio nome : parlo dell’australiano West, che immagina eletto l’ucraino Kiril Lacota, che, fra il disappunto degli elettori, aggiunge al proprio nome solo il numero ; il porporato Valerio Rinaldi dice : « Un nobile nome, padre santo, anche se un po’  

















1   Cfr. J. Gelmi, I papi. Da Pietro a Giovanni Paolo II, Milano, bur, 1993, p. 35. Anche qualche vescovo, per motivi particolari, riceveva nome nuovo ; cfr. M. Mitterauer, Antenati e santi. L’imposizione del nome nella storia europea, Torino, Einaudi, 2001, pp. 344 sgg., dove si discutono, con taglio storico-sociologico, nomi imperiali, d’Oriente e d’Occidente. Scrive per Beatrice, nome fra i dominanti femminili nel Limosino nei secoli xi-xii : « Nel caso di Beatrice potrebbe dunque trattarsi non di un nome riferito a una santa, ma di un nome scelto per il suo significato devoto » ; per lo studioso è « la santa » (pp. 264-265), valore esteso a Sancius/Sanctus, Sancia, e al bavarese Heilika. Questa quasi evidente etimologia, però, sfugge al significato di Beatrix, perché si adatta solo a Beata ; viene il sospetto se l’etimologia popolare debba attribuirsi a Mitterauer o ai medievali, tanto più che, a livello dotto (penso a Uguccione da Pisa e a Dante) era altra. 2 3   Giovanni XIII era già Giovanni (Crescenzi).   Gelmi, I papi, cit., p. 74. 4   Il testo completo si può leggere sul sito ufficiale della Santa Sede. 5   Secondo le profezie attribuite a Malachia (1140 ca.), Pietro II (Petrus Romanus) sarà l’ultimo papa, in una vera palingenesi. 6   I due nomi in italiano suonano solenni, perché, esistendo la forma Gianpaolo (alterazione usuale ai composti con Giovanni : Giancarlo, Gianfranco, Gianluca, Gianluigi, Gianmario, Gianpiero, ecc.), diventano non comune e discendono direttamente dal latino della formula del rito, più consona al Sommo Pontefice. I motivi della scelta furono detti dal papa all’Angelus del 27 agosto 1978.  

















«nec ultra vocabitur nomen tuum abram»

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provocante, ma per amor del cielo non glielo lasci tradurre in italiano ». La provocazione era mascherata dal fatto che il nome slavo, apposto in calce alle encicliche, avrebbe macchiato la purezza del latino, celando la convenienza politica ; ma il papa risponde che,  

1



poiché il russo era diventato il linguaggio canonico del popolo marxista, non ci avrebbe fatto male di mettere la punta d’un piede nel campo avverso. 2

Il romanzo esce nell’anno della morte di Giovanni XXIII ; 3 l’accenno alla traduzione 4 riguarda forse la diffusione troppo locale del nome o l’apparente diminutivo ; sembra difficile che lo scrittore, nonostante il lungo soggiorno in Italia, conoscesse canzoni goliardiche, nelle quali al santo è riservata una particina. Sulla stessa scia di ‘autonominazione’ si pongono quanti ricorrono a pseudonimi e nomi d’arte, costruiti con giochetti di ogni tipo, che in tempi e modi diversi hanno condizionato e tuttora condizionano chi vuole (o vorrebbe) separare la sfera del privato dalla pubblica, il passato dal presente o dal futuro, con tutte le conseguenze all’interno della società ; né importa se il nome sia scelto, imposto, suggerito, perché è accettato (obtorto collo, talora), magari per motivi estetici. La ‘scissione psicologica’ del doppio, pubblico e privato, fa rinunciare quasi definitivamente a uno dei due ; ma rimane sempre possibile il ritorno all’identità originaria. Rinuncia celebre, per modificate condizioni di status, è quella di Pietro da Morrone, poi Celestino V e poi di nuovo Pietro. Il Martirologio Romano del 1956 ripete quello del Baronio : « Die 19 Maji. Quartodecimo Kalendas Junii. Natalis sancti Petri de Morono Confessoris, qui, ex Anachoreta Summus Pontifex creatus, dictus est Caelestinus Quintus. Sed Pontificatum se postmodum abdicavit, et in solitudine religiosam vitam agens, virtutibus et miraculis clarus, migravit ad Dominum » ; mentre il Martirologio di Giovanni Paolo II scrive, con significativo scollamento nel costrutto sintattico e un compromesso : « Ad Alatri nel Lazio il natale di san Pietro Celestino, il quale, avendo praticato la vita eremitica in Abruzzo, per la sua santità e la fama dei miracoli a 80 anni fu eletto Romano Pontefice e assunse il nome di Celestino Quinto, ma nello stesso anno lasciò il pontificato e si ritirò in solitudine ». 5 In questi accenni ho messo in risalto qualche motivo, oltre a quelli ‘divini’, per cui il nome viene cambiato : decenza, umiltà, ‘vita nuova’. Nuovo era anche per i religiosi il nome, scelto o imposto dai superiori, abiurando quindi l’uomo vecchio non più evocato, seguendo Paolo (Eph 4, 22-24) ; una specie di secondo battesimo :  



























[…] in vitis patrum legitur quod eandem gratiam consequuntur religionem ingredientes quam consequuntur baptizati. Si tamen non absolverentur per hoc ab omni reatu poenae, nihilominus ingressus religionis utilior est quam peregrinatio terrae sanctae quantum ad promotionem in bonum, quae praeponderat absolutioni a poena. 6

I Cappuccini – li ricordo come paradigma dei religiosi, perché notissimi alla letteratura – rinunciavano in genere pure al cognome : Manzoni lo assegna a p. Felice Casati e p. Michele Pozzobonelli ; il p. Bonaventura è da Lodi ; i frati o padri Atanasio, Fazio, Galdino, Girolamo, Macario, Simone, Zaccaria sono solo nomi ; « il padre Cristoforo da *** », mano destra della Provvidenza, è il ‘suo’ frate, di cui nasconde il luogo, ma spiega la genesi del nome, assegnandogli funzione catartica e profetica. 7 Nell’Innominato la finzione raggiunge l’apice : Innominato diventa nome !  















1   M. L. West, Nei panni di Pietro. La storia di un Papa venuto dall’Est, Milano, bur, 1979 (The shoes of the Fisherman, 2   Ivi, p. 42. 1963). 3   La traduzione italiana esce dopo l’elezione del papa polacco. 4 5   Rinaldi era « un linguista discreto » (West, Nei panni di Pietro, cit., p. 15).   Miei i corsivi. 6   S. Thomae Aquinatis Summa Theologiae, iiª-iiae, q. 189 a. 3 ad 3, Textum Leoninum, Romae, 1899, editum ac automato translatum a R. Busa sj in taenias magneticas denuo recognovit E. Alarcón atque instruxit ; sul sito www. corpusthomisticum.org (10 settembre 2008). 7   Si ricordi l’osservazione del p. Giovanni Pozzi : Cristo manca nei Promessi Sposi, perché c’è il Christum ferens.  







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Ma non sono soltanto quelle ricordate le cause del cambio di nome ; e, se si bada, c’è differenza negli interventi, per i bambini, per i quali l’ordine divino è perentorio, disegnandone fin dal seno materno il futuro ; se si tratta di persone mature si ha invece un cambiamento di rotta nella storia, del singolo e del gruppo sociale in cui egli opera. Saltiamo alla ‘storia’ e andiamo ad Assisi, dove c’è un altro pargolo. Il biografo, quando ne racconterà la vita, allaccia i fili con la tradizione biblica. La madre al battesimo, senza preoccupazioni etimologiche di stampo sacro e probabilmente senza un vero motivo (o forse ci è celato), 1 lo aveva chiamato Giovanni ; 2 non si tratta però di ‘nome dinastico’ inteso in senso rigoroso, 3 poiché si ascende da Pietro a Bernardone ; anzi, si dovrebbe notare che al figlio maschio è imposto il nome della madre, andando contro l’uso ; ma il padre, più pratico, esce fuori da ogni schema e gli dà un nome ‘gentile’, un demotico derivato da legami affettivi e da valori mercanteschi, 4 in cui trovano eco e consonanza sottintese gesta delle canzoni cavalleresche : Francesco sarà sempre infiammato per la cavalleria, tanto che si autodefinirà : « Praeco […] magni Regis ! » (1 Cel 16, 2). Nonostante i motivi frivoli e terreni, il mutamento avrà celeste sigillo, nella visione del palazzo con le armi, quando « vocatur in somnis Franciscus ex nomine» (2 Cel 6, 2), 5 e quando Cristo gli dirà : « ‘Francisce […] vade repara domum meam, quae, ut cernis, tota destruitur’ » (2 Cel 10, 4). Dunque, il nome sarà sempre Francesco : per se stesso, per i giovani festaioli che lo seguono in Assisi, per i frati, per il cielo e per l’inferno : e così, in 2 Cel 133, quando parlava a chi lo lodava, conclude : « Latroni tanta contulisset Altissimus, gratior te foret, Francisce ! » ; 6 e quando « vocem audivit in spiritu : “Francisce, si habueris fidem ut granum sinapis, dices monti ut transeat et transibit” » (2 Cel 115), voce che lo libera da una tentazione in Santa Maria degli Angeli ; e quando : « […] malignus ille […] vocavit eum ter dicens : “Francisce, Francisce, Francisce !” » : il nemico comincia il dialogo, ripetendo il nome ter, numero sacro per eccellenza ; 7 ma, dopo la disciplina e l’immersione nella neve e la sferzante autoironia con i pupazzi di neve, sua nobile famiglia con moglie e figli e servi, consegue la vittoria (2 Cel 116). Il nome Giovanni resterà solo un ricordo cartaceo e una grande devozione verso i due illustri santi, il Battista e l’Evangelista. 8 A favore di Francesco parla Tommaso da Celano. Nella Vita prima, ad apertura di libro, pur seguendo il modello illustre dimostrato nella tessera incipitaria (cfr. Iob 1, 1), dice asciuttamente : « Vir erat in civitate Assisii […] nomine Franciscus » (1 Cel 1, 1) ; alla canonizzazione, scordando ancora il primo nome, il secondo diventa occasione di scavo etimologico :  















   















   





































Et vere Franciscus, qui super omnes cor francum et nobile gessit. Norunt quippe qui magnanimitatem 1   Non sappiamo il giorno esatto della nascita e si può pensare che sia stato il 24 giugno o il 27 dicembre, imponendo così al bambino il nome del santo del giorno. 2   « Nome devoto » lo classificherebbe Mitterauer, Antenati e santi, cit., p. 18. Per i nomi della famiglia carnale di Francesco, si veda la voce Pietro Bernardone di R. Piattoli, in Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 19842 : la madre era « Giovanna, detta Pica (forse perché piccarda) » (ibidem). 3   Neppure Angelo, il nome del fratello di Francesco, trova apparente giustificazione ; ma in 2 Cel 12 (cito da Fontes franciscani, a cura di E. Menestò et alii, Assisi, Edizioni Porziuncola, 1995, pp. 109-120 ; da qui, ff, tutte le citazioni di testi francescani), è accomunato al padre : « Frater eius carnalis more patris ipsum verbis insequitur » (contraddicendo l’interpretatio). 4   Sarei tentato di pensare, per l’epoca storica, ad una ‘simpatia ereticale’ di Pietro verso la Francia, patria di Valdesi e Albigesi ; il padre non è presentato come buon cristiano nelle fonti. Assisi stessa, all’epoca, era ghibellina, e Francesco andò in guerra contro la guelfa Perugia, fu catturato e rimase un anno in carcere. 5   I ff per l’espressione rimandano a Gn 4, 17. 6   Il santo, poi, si autonomina nella Regula, nel Testamentum, nelle epistole, ecc. 7   In positivo (si pensi alla triplice chiamata di Samuele, alla richiesta di Cristo a Simon Pietro in triplice riparazione, ecc.), e in negativo basta Dante : le tre fiere, Cerbero, Lucifero. 8   Un segnale si può vedere nella Regula non bullata, quando, dopo l’invocazione a Maria, ai tre arcangeli, ai nove cori, sono invocati nominatim, prima di Pietro, Paolo e altri santi (ff , pp. 109-120).  























«nec ultra vocabitur nomen tuum abram»

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eius experti sunt, quam liber, quam liberalis in omnibus fuit, quam securus et impavidus in omnibus extitit, quanta virtute, quanto fervore animi cuncta saecularia conculcavit. (1 Cel 120, 7-8)

La spiegazione sta nel « cor francum », 1 accompagnato da una sequela di nobili valori vissuti dal santo ; e sospetto che Dante quando scrisse « né li gravò viltà di cuor » accennasse antiteticamente all’etimologia. 2 Nella Vita secunda Tommaso diventa più attento al racconto storico ; subito dopo il Prologus, già fin nel sommario al cap. i, dice : « Qualiter vocatus est prius Ioannes, postea Franciscus ; quod mater eius prophetavit de ipso, et quod etiam de se ipso futura praedixit, et de patientia in vinculis ». Nel testo si sofferma sui due nomi :  





















Franciscus, servus et amicus Altissimi, cui divina providentia hoc vocabulum indidit, ut ex singulari et insueto nomine opinio ministerii sui toti citius innotesceret orbi, a matre propria Iohannes vocatus fuit, cum de filio irae, ex aqua et Spiritu sancto renascens, gratiae filius est effectus. (2 Cel 3, 1)

Le citazioni bibliche, ricordate dagli editori, 3 elevano il tono ; la conclusione gratiae filius è l’interpretatio ; in modo teologico pregnante si accenna alla grazia conferita dal battesimo. Si noti come Tommaso metta in risalto la volontà della Provvidenza, a cui attribuisce il nuovo nome, con funzionalità che discende dalla rarità ; il padre agisce con scarsa coscienza, indifferente a realtà spirituali, perché non tiene conto del nome Giovanni, santo che per il bambino sarebbe stato modello e protettore celeste, e gli inventa invece un nome prettamente terreno e mondano, in re e nella genesi, la mentalità mercantesca ; il padre, dunque, diventa strumento nelle mani di Dio : « La Provvidenza che governa il mondo » dirà Dante proprio nell’incipit del canto del Poverello. Il cambio del nome di nobile tradizione 4 in uno nuovo, il cui significato non è patente, dà a Tommaso la possibilità di instaurare un parallelo. Come Elisabetta, la madre di Francesco « tam impositione nominis ad filium quam et spiritu prophetali, aliquo similitudinis privilegio gaudens », diceva ai vicini : « Dei filium ipsum noveritis affuturum ». L’interpretazione séguita su due binari :  

























Ioannis proinde nomen ad opus ministerii pertinet quod suscepit, Francisci vero ad dilatationem famae suae, quae de ipso, iam plene ad Deum converso, ubique cito pervenit. (3, 6)

Continua il parallelismo Francesco~Giovanni :  

Prophetavit Iohannes intra secreta materni uteri clausus ; Franciscus in carcere saeculi positus, divini adhuc ignarus consilii, futura predixit. (4, 1)  

La figura paterna resta assente, essendo Pietro di Bernardone troppo legato alle cose terre1   L’interpretazione è messa in risalto anche da F. Mancini, Il tempo della gioia. Un’interpretazione del ‘Laudario di Cortona’ con appendice di note esegetiche, Roma, Archivio Guido Izzi, 1996, pp. 37-38. 2   Per i genitori di Domenico e per il santo stesso, Dante ha buon gioco nell’interpretatio ; per Francesco, pur chiamandosi la madre Giovanna, tace ; il padre poi è ricordato quasi incidentalmente, contrapposto al regalmente con cui il fondatore si staglia davanti a Innocenzo III. Solo Assisi è interpretato ; e, come ha scritto F. Mancini, Miscellanea minima di esegesi dantesca (seconda serie), in Saggi e sondaggi, Letteratura Italiana e Cultura Religiosa, presentazione di U. Dotti, Roma, Archivio Guido Izzi, 1993, pp. 142-143, già in « Giornale italiano di filologia », xliv, 1992, pp. 73-77), vale ‘seduta, posta’, e non ‘salita, che sale’ : si ha così vera antitesi tra il nome ‘seduta’ e ‘oriente’, contro la comune esegesi. 3   ff, che rimandano a Eph 2, 3 e Io 3, 5. 4   Infatti è ancora il nome più presente nell’elenco ; c’era già stato Giovanni XIX, morto nel 1032 ; ci sarà poi Giovanni XXI, Pietro Ispano (morto nel 1277 ; il XX non esiste).  

















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ne ; e, mancando dunque ‘Zaccaria’ per profetizzarne la gloria, il Celanese fa dire a Francesco in carcere a Perugia : « In quo exultare me creditis ? Meditatio alia subest : Adhuc sanctus adorabor per saeculum totum » (4, 5). Non dal Benedictus, che predice la via terrena del precursore, ma dal Magnificat, lode di umiltà di Maria, scaturisce il tono : « Beatam me dicent omnes generationes » ; e così exultare da « exultavit spiritus meus » e da « exultavit infans in utero meo […] exultavit in gaudio infans » : parole di gioia, che rimandano in filigrana ai primi capitoli di Luca e alle parole delle due pregnanti ; conclusione : « Beatam me dicent […] sanctus adorabor ». Pur con tutte le differenze, e con spinte quasi contrapposte (due madri danno il nome ; due padri intervengono, per motivi divergenti), per quanto riguarda il nome il paragone tra Giovanni e Francesco si ferma qui ; ma non bisogna dimenticare che con Francesco si è andati oltre, dicendolo alter Christus ; questo, però, è un capitolo diverso, « sanctitatis nova signa » ; né alcuno lo chiamò mai così in vita. Per Francesco di particolare ricchezza è la Legenda aurea, 1 in cui Iacopo, come suole, propone l’etimo, per ricostruire il ‘significato che sta prima’ in visione profetica, direi in potentia, e quello ‘che sta dopo’ in actu, come conferma del suo avverarsi secondo la voluntas Dei : il nome, unum et idem con chi lo porta, diventa chiave di lettura per l’agiografia, modello Gregorio Magno della Vita Benedicti. 2 Iacopo scrive : « Franciscus prius dictus est Iohannes, sed postmodum mutato nomine Franciscus uocatus est » ; 3 tralasciato il primo, si dilunga sul secondo, trovandone la ratio, che, come si deduce dalla formula introduttiva, sta nel cambiamento :  





























































Cuius mutationis multiplex causa fuisse uidetur. Primo ratione miraculi connotandi ; linguam enim gallicam miraculose a Deo recepisse cognoscitur, unde dicitur in legenda sua quia cum ardore sancti spiritus repleretur ardentia uerba foris eructans gallice loquebatur. Secundo ratione officii diuulgandi, unde dicitur in legenda quia diuina prouidentia sibi hoc uocabulum indidit ut ex singulari et insueto nomine opinio ministerii eius citius innotesceret orbi. Tertio ratione effectus consequendi, ut scilicet per hoc daretur intelligi quod ipse per se et per filios suos multos seruos peccati et dyaboli debebat francos et liberos facere. Quarto ratione magnanimitudinis in corde ; nam franci a feritate sunt dicti, quia eis inest naturalis feritas et magnanimitas animorum. Quinto ratione uirtuositatis in sermone, quia eius sermo instar securis uitia incedebat. Sexto ratione terroris in demonum fugatione. Septimo ratione securitatis ex uirtute et opere perfectione ; aiunt enim francisca dici quedam instar securium que Rome ante consules ferebantur, que erant in terrorem et in securitatem. 4  





In questa complessa spiegazione non si arriva alla moltiplicazione dei nomi, come Iacopo fa per il Battista, dove elenca nove appellativi ; 5 né a evidenziare i vari nomi, come per Pietro, che « trinomius extitit » ; 6 ma si sofferma su Francesco, scavando per sette strati ; ma sette è un bel numero per quantità, oltre che per sacralità.  









1   Iacopo da Varazze, Legenda aurea, ed. critica a cura di G. P. Maggioni, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 1998, cxlv. De sancto Francisco. 2   « Fuit uir uitae uenerabilis, gratia Benedictus et nomine… », in Gregorio Magno, Storie di santi e diavoli (Dialoghi), vol. i (libri i-ii), introd. e commento a cura di S. Pricoco, testo critico e trad. a cura di M. Simonetti, Milano, Fondazione Valla-Mondadori, 2005. Gregorio ignora i nomi dei genitori, forse per distaccarlo totalmente dal mondo ; ma poi si è cercato di supplire la dimenticanza-omissione, come riporta l’inedito volgarizzamento del libro II di Gregorio (ms. 239, già B.IV.13, xv secolo ex.), conservato nella Biblioteca Comunale Teresiana di Mantova ; il dott. Lorenzo Montanaro, che ha studiato il ms. per la tesi magistrale, ha trovato la probabile fonte. 3 4   Legenda aurea, cit., cxlv. De sancto Francisco, 1.   Ivi, 2-13. 5   Ivi, lxxxi. De sancto Iohanne baptista, 1-3. 6   Ivi, lxxxii. De sancto Petro apostolo, 1.  







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La complessità merita una sosta. Nel nome, dunque, inteso come una profezia (interpretata post eventum), si rinnova una piccola Pentecoste in Francesco, limitata al francese, che diventa lingua di grazia e di benedizione a Dio ; 1 infatti, « per quandam silvam laudes Domino lingua francigena decantabat », quando incappa nei ladroni ; 2 e ancora Tommaso : Francesco, superati l’amor proprio e la vergogna, torna alla casa dove si festeggiava, e  









quasi spiritus ebrius lingua gallica petit oleum et acquirit. Ferventissime ad opus illius ecclesiae animat omnes, et monasterium futurum esse ibidem sanctarum virginum Christi, audientibus cunctis, gallice loquens clara voce prophetat. Semper enim cum ipse ardore Sancti Spiritus repleretur, ardentia verba foris eructans gallice loquebatur, se apud illam gentem praecipue honorandum praenoscens, et reverentia speciali colendum. (2 Cel 13, 5-7)

Il nome, nuovo in assoluto, non è più adiectivum, ma positivum, per il miracolo pentecostale ; la novità è provvidenziale attrazione per le genti ; e, essendo egli Franco, affrancherà molti dal demonio e dal peccato per ricondurli a Dio, attraverso i suoi frati. Ancora : magnanimità, fierezza d’animo, parola tagliente come una scure contro i vizi, terrore dei diavoli, così come la francisca portata davanti ai consoli nell’antica Roma era per gli avversari, ma segno di sicurezza per i romani stessi. 3 Le rationes di Iacopo ne dimostrano la mentalità, ma diventano anche il segno della ricezione e divulgazione del sentire etimologico del basso Medioevo. Francesco crede nel valore sacro del nome e talvolta mette in atto il cambio del nome oppure inventa soprannomi. Frate Leone, si sa, è quasi per antitesi « pecorella Dei », 4 nascondendo forse la chiave in Leone, nome di Cristo, leo de tribu Iudae, ma anche « pecorella di Dio », variatio di Agnus Dei. A un frate, che resta sine nomine, Francesco dice : « Vade viam tuam, frater musca, quoniam vis comedere sudorem fratrum tuorum et esse otiosus in opere Dei. Similis es fratri aponi qui laborem apum non sustinens, mella vult comedere primus » (2 Cel 75) : il frater maschile fa risaltare il musca. Altro esempio di queste nominazioni, ma stavolta ‘positivo’ :  























Erat in Marchia Anconitana saecularis quidam, sui oblitus et Dei nescius, qui se totum prostituerat vanitati. Vocabatur nomen eius Rex versuum, eo quod princeps foret lasciva cantantium et inventor saecularium cantionum.

Così comincia il capitolo di 2 Cel 106 ; e la conclusione è : « altera die induit eum sanctus, et ad Domini pacem reductum fratrem Pacificum nominavit ». Non è detto quale fosse il vero nome del rex versuum, ma solo il titolo, nel quale è denunciato il contesto di vita peccaminosa (« prostituerat vanitati »), fin quando, convertito, non è rivestito dell’abito e all’uomo nuovo è imposto quel nome con cui sarà ricordato, poiché a lui, quasi incarnazione di quel saluto che Francesco portava agli uomini Pax et bonum, fu data la pace. Ancora Tommaso (2 Cel 182) racconta che Francesco non sopportava i detrattori ; sentendo una volta un frate sparlare di un altro, rivolto a Pietro 5 Cattaneo, suo vicario, disse questo terribile verbum :  















1   Domanda stravagante : come mai ci sono rimasti di Francesco solo testi in latino e in volgare italiano, specie se cantava le lodi di Dio in francese ? Si veda, però, l’ipotesi di C. Frugoni, Francesco d’Assisi. Vita di un uomo, Torino, Einaudi, 1996, p. 34. 2   1 Cel 16, 1 ; « laudes Domino lingua Francorum vir Dei Franciscus decantare cum iubilo » scrive Bonaventura (ff, p. 791) ; « Laudes decantat gallice » (Giuliano da Spira, ff, p. 1112) ; « Franciscus lingua Francorum psallere coepit » (Enrico di Avranches, ff, p. 1152, v. 29). 3   Per il significato è d’obbligo il rinvio al Du Cange, che s.v. ricorda Papias, Giovanni da Genova, la Legenda aurea, e altri ; e s.v. Franciscus : « Eadem notione. Papias, ex Isidoro lib. 18. cap. 6 ». 4   Actus beati Francisci, cap. vii, in ff ; più noto lo stesso brano dei Fioretti. 5   Sarà casuale che Pietro sia il vicario dell’alter Christus ?  

































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Surge, surge, discute diligenter, et si accusatum fratrem reperis innocentem, accusantem dura correctione cunctis redde notabilem ! “Trude”, inquit, “eum in manum pugilis Florentini, si tu ipse punire non poteris”.  

Francesco invoca l’aiuto del ‘pugile’ ; infatti, spiega Tommaso : « Fratrem autem Ioannem de Florentia, virum magnum statura, viriumque magnarum, ‘pugilem’ appellabat » : questo è il santo d’Assisi. Potrei ancora girovagare fra nomi e soprannomi, con Antonio da Padova che a Lisbona era Fernando ; con Bonaventura da Bagnoregio che si chiamava Giovanni ; con l’interpretazione data da Francesco al semplice Ginepro ; con volo pindarico si saltella tra Ulisse, che si fa Nessuno, e Renzo~Lorenzo Tramaglino~Antonio Rivolta, con tutte le conseguenze della nominazione letteraria. Concludo con la beata Villana da Firenze :  

















4

1

Beata sono et per nome ‘Villana’ fu’ decta al mondo et Iesù, dolce vita, in cel mi fa chiamar sua ‘Margharita’ et facta m’à sua sposa alta et sovrana.

Villana fu’ contra al demon soctile,

contra ’l mondo et la carne et vicci loro ;  

7

ma di costumi et di sangue gentile […]. 1

Il significato in sé è infelice ; dal cielo la beata ne dà interpretazione spirituale, perché la villania fu contro il triplice nemico ; Cristo poi le cambia il nome : ‘Margarita’, ‘perla’ : lei attratta dalle vanità del mondo si era convertita specchiandosi – riflesso diabolico ! –, e diventa sponsa Christi. Aveva ragione fra Giordano : « Entro i nomi molte volte, anzi spesso, sì mostra Idio la virtù de’ santi ne’ nomi loro, imperò che non sono nomi vani, né posti a tastone, ma per provedimento di Dio ». 2 In questa margherita c’è forse eco di : « Nobili orta genere Margarita in seculo dicta fui que ut pelagus temptationem transirem Pelagius mihi nomen imposui » : Legenda aurea, cap. cxlvii. De sancta Margarita dicta Pelagius : l’ambiente è domenicano ; la beata Villana si trova in Santa Maria Novella. 3 Ci saranno altri motivi per cambiare il nome, fra i quali quello ricordato da Sacchetti nel proemio del Trecentonovelle, a proposito dei protagonisti. In ciò sono valide due cause opposte, innate al contenuto narrativo : adattare il nome a un personaggio locale ne accresce veridicità, dando gloria al protagonista e lustro al paese ; ma si può anche, per minarne fama e valore, attribuire municipalmente al comune vicino personaggi e blasoni negativi. Tronco di netto ; ho superato lo spazio a me concesso.  

































1   Trascrivo dal ms. 2275 della Bibl. Angelica di Roma (c. 21v) ; il testo si legge in F. Belcari, Sacre rappresentazioni e laude, introd. e note di O. Allocco-Castellino, Torino, utet, 1920, pp. 91-94. Da questa lauda sono prese le parole poste accanto a Villana, le uniche in volgare fra le scritte dell’Angelico, nel Compianto su Cristo oggi a San Marco a Firenze; cfr. il mio La Visione di Ezechiele del Beato Angelico, «Letteratura &Arte», 5, 2007, pp. 9-109: p. 105, n. 5, e p. 108. 2   Giordano da Pisa, Avventuale fiorentino. 1304, ed. critica a cura di S. Serventi, Bologna, il Mulino, 2006, pp. 252263. 3   Leggenda simile si narra di santa Marina/Marino (Leg. aurea, lxxix. De sancta Marina virgine) ; aggiungo santa Eugenia, per cui cfr. pl, 21, coll. 1105-1122, auctore incerto ; Eugenia si era finta maschio, ma il vescovo miracolosamente la riconosce : « Recte te Eugenium vocas ; viriliter enim agis, et confortetur cor tuum pro fide Christi. Ergo recte vocaris Eugenius. Nam et hoc scias, quia Spiritu sancto nos et te Eugeniam corpore ante praevidimus, et qualiter huc veneris […] ».  













Sulle nominazioni nella passeggiata prima di cena di Giorgio Bassani Giulia Dell’Aquila

N

elle pagine che seguono si offrono alcune considerazioni in riferimento alle nominazioni dei protagonisti del racconto La passeggiata prima di cena 1 di Giorgio Bassani, nell’idea che anche attraverso questa prospettiva l’interpretazione del testo risulti arricchita. Collocato nella prima fase della produzione in prosa bassaniana, il racconto è sembrato a qualcuno uno dei tentativi « di ghost story jemesiana della borghesia italiana » esperiti in più riprese da Bassani, peraltro non portati a termine : 2 come già segnalava la citazione dai Notebooks di Henry James posta in epigrafe (eliminata nell’edizione definitiva del Romanzo di Ferrara), il testo sembra effettivamente essere molto vicino al modello narrativo dello scrittore statunitense, così sostanziato com’è dalla osservazione di due mondi assolutamente differenti e inconciliabili, quello ebraico borghese di Elia Corcos e quello cattolico contadino di Gemma Brondi, rispettivamente medico e apprendista infermiera nell’Ospedale Comunale di Ferrara, nonché protagonisti della vicenda. Già nel celebre incipit dal carattere cinematografico, la descrizione di corso Giovecca (l’arteria principale di Ferrara) nell’ora intensa che precede la cena annuncia tale discordanza : nello scorcio urbano rappresentato nella cartolina ingiallita da cui muove la narrazione si contrappongono lo spazio del Teatro Comunale – « luogo del convegno sociale e del parere », 3 cioè di quella società borghese cui appartiene Elia – e quello delle basse case popolari, da cui proviene Gemma. Quella promiscuità urbanistica, quelle geometrie sghembe, si configurano subito quale metafora della società cittadina narrata e della coppia Gemma-Elia e prospettano da principio la futura insanabile mésaillance 4 dei « loro rispettivi e contrapposti clans familiari ». 5 Il racconto, i cui tempi di ideazione e di scrittura (senz’altro meno gravosi rispetto a quelli impiegati da Bassani per altre opere) si estesero dal ’49 al ’51, rivela nella elaborata e controllatissima struttura tutto l’impegno profuso dallo scrittore che, in contemporanea, insegnava nella scuola superiore (a Napoli presso l’Istituto Nautico, a Velletri presso la Scuola d’Arte) e collaborava con « Botteghe oscure », di cui nel ’48 era divenuto redattore, come pure segnala il crescente interesse dello stesso per l’universo cinema : in quegli anni Bassani consolida amicizie e frequentazioni in ambito cinematografico e partecipa alla scrittura di  





















1   Pubblicato in « Botteghe oscure » nel 1951, il racconto venne ripubblicato nel 1953 in volume (Firenze, Sansoni), assieme ad altri due testi : Storia d’amore – cioè la Storia di Debora inclusa in Una città di pianura del 1940 (Milano, Arte Grafica A. Lucini, 1940 [con lo pseudonimo di Giacomo Marchi]) –, e Una lapide in via Mazzini. Come è noto le successive vicende redazionali ed editoriali del racconto, come dell’intera opera di Bassani, sono articolatissime : La passeggiata prima di cena ritornerà, con significative modifiche, nel volume Cinque storie ferraresi (Torino, Einaudi, 1956), nelle Storie ferraresi (Torino, Einaudi, 1960), nel primo libro del Romanzo di Ferrara, intitolato Dentro le mura (Milano, Mondadori, 1973), che l’anno successivo viene ripubblicato sempre da Mondadori insieme agli altri cinque libri, e infine nell’edizione ultima del Romanzo di Ferrara (Milano, Mondadori, 1980). In queste pagine si cita dall’edizione del ’56 e da quella dell’’80, entrambe contenute in G. Bassani, Opere, a cura di R. Cotroneo, Milano, Mondadori, 1998. 2   I. Calvino, Lettera di uno scrittore “minore”, in Idem, S aggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, tomo ii, p. 1788. 3   G. Güntert, L’arte narrativa di Giorgio Bassani : persuasione, ironia e distanza estetica, « Levia Gravia », iii, 2001, p. 4   Ibidem. 370. 5   G. Bassani, L’odore del fieno, in Opere, cit., p. 939.  













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giulia dell ’ aquila

molte sceneggiature. Proprio la pagina di apertura del racconto – di cui si è già richiamata la somiglianza con « una lunga, lunghissima carrellata cinematografica » 1 – genera nell’autore le maggiori perplessità circa il prosieguo della narrazione, ma al contempo gli procura gli incoraggiamenti dell’amico Mario Soldati che lo sprona a proseguire la composizione dell’opera e raccomanda un’applicazione quotidiana più ‘sedentaria’ : « la bicicletta » con cui Bassani scorazzava per le strade di Roma « poteva essere buona per fare delle poesie » ma « per uno scrittore di novelle, racconti, romanzi – obbligato, d’accordo, a tirare fuori tutto ciò che ha dentro, però adagio adagio – , […] era di sicuro dannosissima ». 2 Accantonata la bicicletta e trasferitosi da Roma a Napoli nell’autunno del ’49 per insegnare come professore di ruolo, a Bassani riesce « di applicarsi al racconto con la necessaria assiduità » fino a concluderlo : al ’53 risale la pubblicazione per i tipi della Sansoni di Firenze e « sotto i caldi auspici di Roberto Longhi e Anna Banti », 3 a conferma ulteriore del legame profondo tra il giovane scrittore e l’affermato critico d’arte, peraltro già fruttuoso in sede letteraria vista la metamorfosi registrata dalla Storia di Debora a Lida Mantovani, a proposito della quale Cesare Garboli ha ipotizzato un « lavoro artigianale » sulle distanze, sulle misure e sulle simmetrie, direttamente connesso con l’insegnamento di Longhi. 4 L’incipit della Passeggiata, la cui cifra visuale era apparsa da subito atta a catturare l’attenzione del lettore anche attraverso il gioco geometrico di volumi e spazi, informa la successiva organizzazione di tutto il testo, come sottolinea lo stesso autore :  

































La Passeggiata raccontava Elia Corcos, Gemma Brondi, i loro rispettivi e contrapposti clans familiari, Ferrara, eccetera. Insieme però raccontava un’altra cosa : e cioè la soddisfazione tutta privata, e in apparenza perfino futile, gratuita, ricavata da me, scrivente, nel creare un tipo di narrazione che facesse pensare proprio attraverso la forma della sua struttura, per mezzo di essa, a una lunga, lunghissima carrellata cinematografica. Che cos’era infatti la Passeggiata, a considerarla sotto il profilo esclusivo della sua struttura, se non l’evento mobile di una immagine da principio confusa, scarsamente leggibile, che poi con estrema lentezza, quasi con riluttanza, venisse messa a fuoco ? 5  



Lettori e personaggi in questo racconto osservano ‘da un altrove’ il lento evolvere di vicende e tempi, anche qui, come in tutta la narrativa di Bassani, disposti su piani sfasati, corrispondenti ad altrettanti punti di vista : 6 fatti e protagonisti appaiono, come consuetamente nella pagina bassaniana, per obliquo, di sbieco, mai interamente, come vuole la « dimensione narrativa orizzontale, aperta » che lo scrittore preferisce alla verticalità del racconto ottocentesco. 7 La « lunga, lunghissima carrellata cinematografica » – che dà principio alla narrazione – prosegue, con la stessa freddezza dell’occhio fotografico, fin nei dettagli dei rapporti tra Gemma ed Elia, tra i Corcos e i Brondi, ad esclusione di pochi personaggi dallo sguardo più ‘appassionato’ (Ausilia Brondi, p. es., o Salomone Corcos : quest’ultimo, con i suoi tre matrimoni e dodici figli, è il vero opposto di Elia che « si era imposto la scienza come “missione”, per superare il dolore delle passioni che segna inevitabilmente la condizione umana ») : 8 solo all’interno di questi slarghi emotivi sarà possibile fuggire la tentazione voyeuristica e cercare  















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2   Ibidem.   Ivi, pp. 936-937.   P. Bassani Pacht, Giorgio Bassani allievo di Roberto Longhi, « Paragone », terza s., lvii, 63-65, febbraio-giugno 2006, p. 44. 4   Cfr. M. A. Bazzocchi, Longhi, Bassani e le modalità del vedere, ivi, pp. 60-61. 5   G. Bassani, L’odore del fieno, in Opere, cit., p. 939. 6   G. Ferroni, Il ritorno del tempo nella narrativa di Giorgio Bassani, in Il romanzo di Ferrara, Atti del Convegno internazionale di Studi su Giorgio Bassani (Parigi, 12-13 maggio 2006), a cura di P. Grossi, Parigi, Edizioni dell’Istituto italiano di cultura, 2007, pp. 57-59. 7   Bazzocchi, Longhi, Bassani e le modalità del vedere, cit., pp. 67-68. 8   M. Rinaldi, Il profumo del passato nella narrativa di Giorgio Bassani, « Esperienze Letterarie », xxvii, 4, ottobredicembre 2002, p. 110. 3









sulle nominazioni nella passeggiata prima di cena di giorgio bassani 157 un minimo di ‘integrazione’ tra i mondi di Gemma e di Elia, contrapposti per la durata di tutta la vicenda attraverso una muta, reciproca osservazione. Nella cartolina ingiallita, che dà conto con precisione dell’assetto della città intorno alla fine del secolo xix, compare anche, nel margine, « una ragazza di circa vent’anni », che proprio nell’attimo in cui il fotografo fissò sulla lastra fotografica quel panorama « cammina[va] sveltamente lungo il marciapiede di sinistra ». 1 Comparsa marginale e insignificante, il personaggio di Gemma Brondi ci viene consegnato dal principio del racconto con un corredo di attributi che rinviano esplicitamente alla sua assoluta insignificanza, del tutto armonizzata con la parte dell’inquadratura in cui la giovane donna è collocata – « tutto in quel punto si fa subito confuso (cose e persone non vi hanno più alcun rilievo, dissolte come risultano dentro una sorta di pulviscolo luminoso) » 2 – :  













Diciamolo subito, la ragazza non era bella. Il suo viso anzi era come ce n’è tanti, né bello né brutto : reso, se possibile, ancora più comune e insignificante dal fatto che a quei tempi l’uso del rossetto, del belletto, della cipria, alle giovani donne dei ceti popolari non veniva consentito. Occhi morati dove il raggio della gioventù brillava soltanto di rado e quasi di soppiatto, e dall’espressione spaurita, malinconica, non molto diversa da quella piena di pazienza e dolcezza dello sguardo di certi animali domestici ; capelli castani che, tirati indietro sulla nuca, lasciavano troppo scoperta una fronte sporgente, massiccia, da contadina ; un corpo procace e tozzo su cui, cinto da un nastrino di velluto nero, si levava un collo esile, per non dire gracile… : in una strada del prestigio di corso Giovecca, e per giunta nell’ora particolarmente animata, eccitata, che a Ferrara, oggi non meno di ieri, ha sempre preceduto l’intimo rito serale della cena, è da supporre che anche a un occhio meno indifferente di un obiettivo fotografico il passaggio di una ragazza come questa sarebbe forse sfuggito. 3  







Anche nel testo del ’56 l’aspetto « comune e insignificante » di Gemma era stato esplicitamente segnalato, ma con una maggiore e più aspra minuziosità – forse in linea con una diffusa tendenza all’«enunciazione risentita» di quell’edizione, successivamente sfumata, nel Romanzo di Ferrara, in frequenti litoti 4 – che giungeva fino a cogliere nel nome della giovane donna un’ulteriore conferma della sua complessiva inespressività :  





Niente, nella sua figura, dava nell’occhio in modo particolare, si elevava al di sopra della più modesta mediocrità. Non si trattava insomma di una bellezza capace di farsi notare, nell’ora della maggiore animazione, in una strada di qualche importanza ; di una di quelle giovani donne, voglio dire, che per la ricercata eleganza dell’abito e dell’acconciatura, per la maestosa languidezza del passo, potessero far convergere su di sé gli sguardi ammirati della gente. Tutt’altro. […] Il viso di Gemma Brondi – questo il nome, comunissimo a Ferrara e nel contado […] – era dunque come ce n’è tanti, né bello né brutto : reso, se possibile, ancora più comune e insignificante dal fatto che alle ragazze del suo ceto, a quei tempi, non era permesso l’uso del rossetto, del belletto, della cipria, insomma di tutti quegli accorgimenti di cui oggi anche l’ultima delle infermiere che lavora nel nostro moderno Arcispedale Comunale, sorto, negli anni tra il ’20 e il ’30, in fondo a corso Giovecca, non manca, finito il suo turno e prima di uscire, di servirsi talora con raffinatezza. I capelli castani di Gemma Brondi, raccolti sulla nuca in modo voluminoso, scoprivano una fronte convessa, troppo massiccia, una fronte forte e ossuta da contadina che contrastava, magari non sgradevolmente, con la mollezza della bocca. Negli occhi, dello stesso colore dei capelli, dove il raggio della gioventù brillava solo di rado, e quasi di soppiatto, si notava prevalentemente un’espressione spaurita, malinconica, non troppo diversa da quella, piena di pazienza e dolcezza, degli sguardi di certi animali domestici. In realtà nemmeno il camice grigio, una specie di rozzo grembiale che, stretto alla vita, dava invece risalto alla grossezza e alla prominenza del seno, la difendeva abbastanza, riusciva a cancellarla come forse  



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2   G. Bassani, La passeggiata prima di cena (1980), in Opere, cit., p. 56.   Ibidem.   G. Bassani, La passeggiata prima di cena (1980), in Opere, cit., pp. 56-57. 4   P. Pieri, La passeggiata prima di cena. Anacronismi e parodie di Giorgio Bassani ebreo antifascista e letterato crociano, in Idem, Memoria e giustizia. Le Cinque storie ferraresi di Giorgio Bassani, Pisa, ets, 2008, pp. 16-52: la citazione è tratta da p. 20. 3

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avrebbe desiderato. Ma a questo proposito il passo, ora lento ora affrettato, con cui ella si teneva al basso muretto di divisione che fiancheggiava dal lato sinistro l’ultimo tratto della Giovecca, sembrava parlare per lei. Il suo corpo procace e tozzo sul quale, cinto da un piccolo nastro di velluto nero, si levava un collo esile, quasi gracile, doveva darle un vago senso d’imbarazzo, come di vergogna. 1

Diversamente da Gemma – che come si è visto pur nelle varie vicissitudini testuali sembra corrispondere sia somaticamente sia caratterialmente al prototipo di donna valorizzato dalla politica fascista, « ovvero madre e sposa virtuosa, buona fattrice e angelo del focolare » 2 – Elia non compare nella foto da cui prende le mosse il racconto. Il giovane medico apparirà sulla scena poco dopo, quando a partire dalla cartolina è possibile ai lettori immaginare il rientro a casa dell’apprendista infermiera, una sera come tante : è in quel momento che Elia, vincendo la sua timidezza, si accosta a Gemma per chiederle di accompagnarla a casa. Alla banalità dell’aspetto di Gemma si contrappone subito – con l’esatta simmetria che regola anche altri dettagli della vicenda 3 – la particolarità di quello di Elia (un personaggio che Bassani creò guardando al più vicino orizzonte familiare, in particolare al nonno materno, Cesare Minerbi, 4 primario per quarant’anni all’Arcispedale Sant’Anna), così descritto :  







Un giovanotto sui trent’anni, vestito di scuro, con le mani strette alle manopole di una pesante bicicletta Triumph : un giovanotto dal volto emaciato su cui spiccavano lenti cerchiate d’argento, a stanghetta, e baffi, spioventi intorno alla bocca, non meno neri degli occhi. 5  

Analogamente a quanto accaduto per Gemma, anche tra l’aspetto e il nome di Elia si stabilisce una corrispondenza, questa volta nel segno dell’estraneità. A percepire Elia come assolutamente distante è la famiglia della giovane infermiera, cui il medico si presenta una sera, dopo lunghe esitazioni davanti al portone di casa Brondi, deciso ormai a porre rimedio ad un turno di notte trascorso in compagnia di Gemma durante il quale la stessa è rimasta incinta. Per questa scelta obbligata Elia, che si chiuderà in una vita di totale solitudine affettiva, consacrata esclusivamente alla Scienza, verrà a far parte, assieme agli altri personaggi del racconto, della folta schiera di ‘spettatori’ della propria vita, tipici della narrativa di Bassani. 6 Entrato nel tinello e accomodatosi « giusto di fronte al capofamiglia », 7 Elia Corcos si presenta nel più totale rispetto delle formalità : « Nome, cognome, paternità, professione, perfino l’indirizzo... La sua risultò una dichiarazione anagrafica in piena regola […] ». 8 La presentazione che Elia fa di sé rivela lo stato d’animo con cui il giovane medico s’incammina verso il suo futuro matrimoniale : da questo momento e per tutta la durata della vicenda il dottore Elia esemplifica perfettamente il tema della morte interiore, 9 assolutamente costante in Bassani, più analitico nel dettagliare questa forma di trapasso piuttosto che quello fisico.10 Una  











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  G. Bassani, La passeggiata prima di cena (1956), in Opere, cit., p. 1620.   Pieri, La passeggiata prima di cena. Anacronismi e parodie di Giorgio Bassani ebreo antifascista e letterato crociano, cit., pp. 36-37. 3   Nelle varie edizioni del testo, p. es., rimane costante « uno dei temi ricorrenti espressi dalle voci che animano il discorso indiretto libero », secondo cui così come Ferrara era stata penalizzata nella sua espansione « da intrighi e ricatti » politici che privilegiarono Bologna, divenuta importantissimo nodo ferroviario durante il governo di Francesco Crispi, anche Elia Corcos era stato danneggiato dal matrimonio con una modesta ragazza del popolo, ed aveva avuto minore fortuna rispetto al bolognese Augusto Murri : cfr. Pieri, La passeggiata prima di cena. Anacronismi e parodie di Giorgio Bassani ebreo antifascista e letterato crociano, cit., p. 21. 4   R. Cotroneo, Cronologia, in Bassani, Opere, cit., p. lxi. 5   G. Bassani, La passeggiata prima di cena (1980), in Opere, cit., p. 58. 6   S. Costa, Un palco di proscenio : il personaggio-spettatore di Giorgio Bassani, « Paragone Letteratura », terza s., lvii, 63-64-65, febbraio-giugno 2006, pp. 46-56. 7 8   G. Bassani, La passeggiata prima di cena (1980), in Opere, cit., p. 65.   Ibidem. 9   E. Paruolo, La morte interiore nel Romanzo di Ferrara di Giorgio Bassani, « Italianistica », xxxv, 1, gennaio-aprile 2006, pp. 97-98. 10   Eadem, Giorgio Bassani, scrittore ebreo, « Esperienze Letterarie », xxxii, 1, gennaio-marzo 2007, pp. 89-90. 2

























sulle nominazioni nella passeggiata prima di cena di giorgio bassani 159 condizione che in questo caso profetizza l’epilogo della vicenda, la morte fisica del medico e di uno dei due figli nel campo di concentramento di Buchenwald assieme ad altri ebrei della comunità ferrarese. Tutto di Elia risulta immediatamente ‘estraneo’ agli uomini di casa Brondi, tutto ciò che « lo dice […] appartenente alla classe dei signori » :  





la redingote del mestiere ; la cravatta di seta bianca ; il cappello nero a larghe falde rialzate che, posato sui ginocchi riuniti, emergeva appena al di sopra dell’orlo del tavolo […] ; il suo eloquio farcito ogni tanto di brevi frasi o singole parole in dialetto che lui pronunciava quasi con diffidenza, come se le prendesse con le molle ; il suo viso medesimo, che sembrava plasmato di una materia particolare, più fragile e delicata di quella normale : per quanto modesta potesse essere la sua famiglia d’origine, nonché, attualmente, nel caso che vivesse da solo facendo vita da scapolo, la sua personale posizione finanziaria. 1  









Ma è in particolare il nome del giovane medico che si offre a misura esatta di quella estraneità : « Elia Corcos – pensavano nel frattempo i quattro maschi di casa, i quali prima d’ora neppure sapevano che esistesse –, che razza di nome ». 2 L’infrequenza del nome ‘Elia Corcos’, in cui viene a concentrarsi la distanza tra le due classi sociali e le due religioni, è particolarmente sottolineata nel testo delle Cinque storie ferraresi in cui Bassani racconta di un vero senso di « disorientamento e d’imbarazzo » del vecchio Brondi e dei fratelli di Gemma :  











E così il suo nome, per allora, non suscitò altro senso che dell’inferiorità sociale, del rispetto fatto di estraneità di classe e timidezza linguistica che ha sempre dato ai nostri contadini, non importa se accolti o meno a vivere nell’ambito delle mura urbane, qualsiasi contatto con la borghesia cittadina. 3

Anche nel caso di Elia, come già per Gemma, l’attenzione prestata da Bassani al nome, che « ‘fissa’ il personaggio sullo sfondo immobile della propria predestinazione », 4 si differenzia nelle diverse forme del testo. Il « raffinato e arduo policentrismo » su cui, secondo Sergio Blazina, è basata la tecnica narrativa delle Cinque storie ferraresi fa a meno del narratore centrale – che domina il punto di vista – e concede più spazio alle annotazioni riguardanti i singoli personaggi, sacrificate, come si è visto anche in tema specificamente onomastico, nel testo definitivo in cui si registra una centratura più forte del racconto, condotto da un narratore che organizza intorno a sé personaggi e vicende. 5 Dalla sera della presentazione in casa Brondi – in cui Elia e Gemma appaiono « fissati nella luce livida della stanza in penombra, così come prima erano stati bloccati nella passeggiata che già sembrava proporre l’istituzionalizzazione del loro destino individuale » 6 – tutto, nel racconto, non farà che rendere ancora più evidente la sostanziale distanza tra quei due mondi, separati da uno dei tanti ‘diaframmi’ che scandiscono lo spazio narrativo di Bassani 7 e che troverà una conferma anche nella struttura architettonica dell’abitazione della coppia : una casa bifronte, come la loro unione, che dal lato sud, più ridente anche per l’aia e l’orto, accoglierà i Brondi, e dal lato nord, in via della Ghiara, accoglierà i famigliari del medico. 8 Nella prevedibile successione delle vicende matrimoniali, la morte prematura di Gemma determina un significativo sviluppo per lo spostamento del fuoco della narrazione su un personaggio finora secondario. La prima ad accorgersi della presenza di Elia sotto il portone di casa Brondi era stata la sorella più grande  













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2   G. Bassani, La passeggiata prima di cena (1980), in Opere, cit., pp. 65-66.   Ivi, p. 65.   G. Bassani, La passeggiata prima di cena (1956), in Opere, cit., p. 1628. 4   L. Durante, L’io suddiviso, l’io distribuito. Identità e autobiografia nel Romanzo di Ferrara, in Il romanzo di Ferrara, cit., p. 192. 5   S. Blazina, “Quasi fuori del tempo” : voci e ritmi del racconto nelle Cinque storie ferraresi, in Il romanzo di Ferrara, cit., p. 68. 6 7   A. Dolfi, Il diaframma speculare della distanza, in Eadem, Giorgio Bassani, cit., p. 21.   Ivi, pp. 11-47. 8   G. Dell’Aquila, Gli interni di famiglia nelle Cinque storie ferraresi, in Eadem, Le parole di cristallo. Sei studi su Giorgio Bassani, Pisa, ets, 2007, pp. 55-56. 3



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di Gemma che nella curiosità per quei colloqui serali, spiati dalla finestra, aveva soffocato un interesse per Elia, sublimato nel tempo in amore, assolutamente mai dichiarato, complice anche il destino che determina le circostanze di una vicinanza. Anche in relazione a questo personaggio Bassani mostra una certa attenzione onomastica : nella versione del testo del ’53 e poi del ’56 esso avrà il nome « Luisa » e sarà definito interamente 1 da un sentimento che è « presenza continua, fatale, indispensabile ». 2 È per questo che Bassani nel testo definitivo del racconto muterà il nome ‘Luisa’ in « Ausilia », designando così questo personaggio il fulcro dell’intera narrazione e collocandolo, attraverso la fedeltà « alla memoria dolente e al suo sentimento nascosto », 3 sul versante opposto rispetto al territorio gelido della Scienza in cui si è autoconfinato Elia. In un’intervista del 1979, rilasciata ad Anna Dolfi, lo scrittore ha dichiarato che la sua massima aspirazione è stata sempre « al tempo oggettivo, al tempo cartesiano della conoscenza » : 4 nella Passeggiata prima di cena l’oggettività del tempo si realizza anche attraverso le simmetrie di un rapporto, osservato da più punti di vista (Gemma, Elia, i Brondi, i Corcos, i Ferraresi cattolici ed ebrei, contadini e borghesi) ma penetrato nel suo mistero solo dallo sguardo ‘appassionato’ di Ausilia.  























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  Blazina, “Quasi fuori del tempo”, cit., p. 75.   G. Bassani, La passeggiata prima di cena (1956), in Opere, cit., p. 1645.   Blazina, “Quasi fuori del tempo”, cit., p. 74. 4   “Meritare il tempo” (Intervista a Giorgio Bassani), in Dolfi, Giorgio Bassani, cit., p. 170. 2 3

Osservazioni sull’onomastica personale NELLE OPERE di Salvatore Niffoi con particolare attenzione alla soprannominazione Antonietta Dettori 1. Premessa

N

ella narrativa di Salvatore Niffoi la nominazione riguarda tutti i personaggi, compresi quelli a cui viene riservata solo una rapida citazione, e che talvolta, proprio in virtù del nome, acquisiscono evidenza e significatività nella pluralità di voci e punti di osservazione in cui si strutturano le sue opere. 1 Si tratta di un’onomastica d’invenzione che non si limita ad identificare, ma che, anche attraverso reinterpretazioni ironiche e rielaborazioni creative di forme lessicali tratte dalla lingua locale, suggerisce personalità, aspetto fisico e destino dei personaggi. L’Autore usa prevalentemente il sardo – la varietà della propria area d’origine – nella creazione degli antroponimi, riservando in genere l’uso dell’italiano ai nomi dei personaggi non sardi introdotti nella narrazione. L’onomastica occupa uno spazio di grande rilievo in un progetto letterario che mira alla rappresentazione della regionalità linguistica e culturale locale. I nomi, in virtù della lingua in cui sono resi, ma anche dei contenuti che trasmettono, rappresentano un tassello fondamentale dell’universo narrativo niffoiano : sono creati in totale coerenza con le scelte linguistiche complessive dell’Autore e sono capaci di offrire chiavi di lettura significative e diversificate dei personaggi messi in scena e delle vicende narrate. La convergenza col sistema onomastico locale riguarda anche caratteristiche e tipologie dei diversi elementi onomastici. Ampio spazio viene concesso, p. es., fra i primi nomi, ad agionimi e a nomi devozionali della tradizione. Riflette gli usi locali la ricorrente adozione di forme ipocoristiche e alterate, oltre che di forme allocutive tronche. Anche le incursioni nella letteratura, nei testi biblici e nella storia rispecchiano tendenze all’originalità onomastica, condotte magari attraverso deformazioni e assonanze fonetiche, che emergono nell’onomastica sarda tradizionale. Riprende la tradizione locale l’esteso uso del soprannome e le modalità della sua attribuzione, ampiamente messe in luce nei romanzi. La capacità di attingere a tutte le risorse che offre la lingua locale, unita alla profonda conoscenza che l’Autore ha della realtà rappresentata, dà alle sue scelte onomastiche una valenza documentaria di fenomeni linguistici e culturali dell’area geografica di riferimento delle opere. La struttura corale delle vicende narrate che coinvolgono, attorno ai personaggi principali, le piccole comunità d’ambientazione nelle stratificazioni pur esistenti al loro interno – dal  

1   Le opere che analizzo e da cui traggo l’esemplicazione citata nel mio contributo sono, tra i romanzi pubblicati dall’editore Il Maestrale di Nuoro, Il viaggio degli inganni (1999) = vi ; Il postino di Piracherfa (2000) = pp ; Cristolu (2001) = Cr ; La sesta ora (2003) = so ; tra quelli pubblicati dalla milanese Adelphi, La leggenda di redenta Tiria (2005) = lrt ; La vedova scalza (2006) = vs ; Collodoro (2008) = Co.  











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gruppo familiare e parentale, al vicinato, al gruppo amicale o dei pari, ai paesani in genere sempre presenti in contesti connessi alla vita religiosa, amministrativa e di lavoro – rende particolarmente ampia e significativa la componente onomastica delle opere. Ad accrescerla contribuiscono inoltre le strategie di plurinominazione perseguite dall’Autore. 1 Infatti una parte rilevante dei personaggi, indipendentemente dall’importanza del ruolo rivestito nella narrazione, viene identificato col ricorso a più elementi nominali, derivanti dalla rielaborazione, spesso irridente e antifrastica, del sistema onomastico locale, che affianca ancora il soprannome al cognome e al nome personale. Appare rilevante – e in aumento nel succedersi dei romanzi – la tendenza a designare i personaggi col ricorso ai tre elementi di base del sistema, attraverso sequenze onomastiche quali Tragasu Savuccu noto Imbìlicu ‘ombelico’ (lrt, p. 79) ; Grisone Lisodda, noto Secchintrese ‘euforbia’ (vs, p. 20) ; Tunieddas Peleas, nota Curre-Curre ‘corri-corri’ (lrt, 29) Gli antroponimi sono frequentemente preceduti da titoli onorifici e di riguardo – don, tziu, signore – e seguiti da elementi appositivi che precisano in particolare mestieri esercitati o luogo di provenienza dei personaggi, rafforzandone la caratterizzazione, pur ben evidenziata da cognomi o da soprannomi semanticamente trasparenti. Si hanno infatti attestazioni del tipo Don Predu Basile, noto Boccadifiele (so, p. 13) ; Serafinu Ghilinzone, il banditore (vi, p. 40) ; tziu Tanielle Lametta, il barbiere (so, p. 36), con specificicazione appositiva di un mestiere a cui già allude il referente extratestuale evocato dal cognome ; Antiocu Trebbia, noto Semenzedda, commerciante all’ingrosso di ferramenta 2 (Co, p. 117) ; Francesco Rosaliu, noto Canottiera di Ularzai (so, p. 60). Rare, ma pur presenti, le occorrenze in cui la plurinominazione, attingendo ad un’ufficialità di superficie, assume un’ ironica referenzialità da registrazione anagrafica : Miletti Balbina vedova Ranzoni (pp, p. 79), signorina Rodìa Sagrittu (pp, p. 13), signora Rumina Garibba, vedova Camundu (pp, p. 13). Non mancano casi in cui l’esuberanza creativa e il piacere della nominazione portano Niffoi ad arricchire le tre componenti onomastiche del sistema, amplificando in particolare la soprannominazione. L’accumulo dei soprannomi determina un’accentuazione per ridondanza della caratterizzazione dei personaggi, ma rafforza anche la rappresentazione del sistema di valori, della concezione della vita e della visione del mondo delle comunità a cui l’individuo si rapporta nella narrazione. Nel secondo capitolo della Vedova scalza, 3 p. es., incontriamo l’estroverso e ironico postino di Laranei nell’esercizio delle sue funzioni e con la ricca dotazione onomastica che grava su di lui :  















Il postino alternava al racconto delle sue disgrazie familiari tirate di sigaro e sorsate di nepente, come a condire con i piaceri del palato i dolori di testa. Gonariu Carcanzu era conosciuto nel circondario come un uomo godurioso e dalla battuta corrosiva, al punto che in molti lo chiamavano per brulla Muriaticu. 4 (vs, p. 28)

Il primo nome inserisce il personaggio nella tradizione onomastica d’area barbaricina, richia1   Plurinominazione che pare essere del resto una strategia designativa molto diffusa nella narrativa moderna, come sottolinea G. D’Acunti, I nomi di persona, in L. Serianni, P. Trifone (a cura di), Storia della lingua italiana, ii, Scritto e parlato, Torino, Einaudi, 1994, pp. 765-857 : 841. 2   Anche in questo caso, la designazione nel nomignolo dei piccoli chiodi, usati per rinforzare le calzature, trova corrispondenza nell’attività commerciale che ne curava la vendita. Per l’attestazione nella lingua dell’uso della parola semenza, si rimanda M. Puddu, Ditzionàriu de sa limba e de sa cultura sarda, Cagliari, Condaghes, 2000, p. 1508. 3   Milano, Adelphi, 2006. Si tratta del secondo romanzo adelphiano del nostro autore, premiato col Campiello nel 2006. 4   I corsivi del passo e di tutti quelli che saranno citati successivamente nel presente lavoro sono miei.  

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mando la devozione alla Madonna di Gonare, venerata nel santuario campestre dell’omonimo monte, in prossimità di Orani, 1 la Laranei del romanzo. L’elemento cognominale Carcanzu 2 allude al mestiere da lui esercitato, calcando le strade del paese per la distribuzione della corrispondenza. Al nomignolo è invece affidata la messa in evidenza di una reattività verbale improntata ad ironia e sarcasmo, tratto comportamentale che del resto caratterizza il personaggio nelle pagine che ne tracciano rapidamente vita e attività. Ma al postino viene attribuito anche un carico soprannominale che trova motivazione in diacronia. Nella mancanza di una discendenza agnatizia lineare, all’interno di un nucleo familiare regolare e della relativa trasmissione di cognome e di soprannome paterno, per Gonariu, che è figlio di padre ignoto, il raccordo generazionale è affidato ai soprannomi degli amanti materni. Dalla madre – Cosima Carcanzu – eredita infatti, oltre al cognome, tre soprannomi – Battazzu ‘battaglio’, Cosomo ‘ecceomo’, Cacanzu ‘cacone, cachetta’ – « che ricordano gli amanti della donna ». 3 Il gruppo parentale di linea paterna, che nelle comunità barbaricine trova riconoscimento e forza identificativa nel soprannome collettivo 4 più che nel cognome, viene ricostruito col ricorso ironico e impietoso ad elementi soprannominali, che anche in virtù della loro pluralità, 5 hanno la funzione di sottolineare e mettere in ridicolo la nascita spuria del personaggio. La plurinominazione dei romanzi del nostro Autore riprende le caratteristiche del sistema onomastico della Sardegna tradizionale, sistema ancora produttivo nelle piccole comunità barbaricine, descritte nella narrativa niffoiana, in ambientazioni che risalgono in genere alla prima metà del Novecento.  



2. L’attribuzione dei nomi Ma l’attenzione rivolta all’onomastica locale non emerge solo attraverso il processo di nominazione messo in atto nei romanzi ; si manifesta anche con annotazioni metalinguistiche e con riferimenti espliciti alle modalità d’ imposizione e trasmissione dei nomi nella realtà umana e sociale rappresentata. Si tratta di riferimenti che confermano il valore documentario dell’opera di Niffoi per l’area d’ambientazione della sua produzione narrativa, nei periodi storici evocati nei diversi romanzi. Nel romanzo Cristolu, la puntuale spiegazione della forma alterata di un ipocoristico dialettale del nome del Salvatore viene attribuita al protagonista Barore Suvergiu noto Cristolu, che parla in prima persona :  



Nascosto tra le lucertole e l’edera rampicante della piazza di Santa Vàrvara, c’era il portalone dei Sioppo, ornato di blocchi di granito e bassorilievi di trachite rossa, che rappresentano leoni e prede. Entrai nel cortile protetto da alte mura, dopo che mi aveva aperto Costantzu, uno dei servi :  

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  Paese dove è nato e vive l’Autore.   Derivato da calcaneum, è il geosinonimo logudorese usato a designazione del calcagno, corrispondente al campidanese karròni, di probabile derivazione catalana. Il secondo tipo lessicale designa invece in area logudoresese il garretto o la parte della gamba tra il ginocchio al collo del piede (cfr. M. L. Wagner, Dizionario Etimologico Sardo, Heidelberg, Winter, 1960-1964, i, pp. 267-268 e 307, e Puddu, Ditzionàriu, cit., p. 449). La variante karrone costituisce il soprannome del nostro Autore, unico elemento onomastico a consentirne l’identificazione fra una decina di cugini e 3   vs, p. 27. parenti suoi omonimi. 4   Per una rapida presentazione del soprannome familiare e dei suoi riflessi nel primo romanzo pubblicato da Adelphi. rimando al mio contributo Sul sistema antroponimico di Salvatore Niffoi. Osservazioni sull’onomastica personale nella Leggenda di Redenta Tiria, in E. Papa (a cura di), Da Torino a Bari. Atti delle giornate di studio di Onomastica, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2007, pp. 233-259 : in part. p. 239. 5   In opposizione alla singolarità del soprannome del gruppo parentale allargato di linea agnatizia, che si conservava tradizionalmente nella sua unicità da una generazione all’altra. 2



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- Deus ti vàdiet, Costantzu. - Bene vénnidu, prade Boreddu. 2 Rispose così al mio saluto il servo, col diminutivo in dialetto di quello che era il mio nome, Barore, Salvatore per l’anagrafe e il librone dei battezzati. (p. 95) 1

La delineazione delle modalità tradizionali di trasmissione del primo nome, basate sull’attribuzione ai nipoti del nome dei nonni, viene affidata a Mintonia, la protagonista femminile della vs, e viene condotta in due momenti distinti. Nel primo si ha la rapida citazione del fenomeno onomastico :  

Sono nata il ventuno di luglio del novecentoquindici, sotto il segno della guerra. Mintonia3 mi hanno chiamato. Un po’ per onorare i nonni paterni, Antonio Savuccu e Maria Pettenedda ; un po’ perché il nome piaceva tanto a mia madre, che prima del parto aveva già in mente di chiamarmi a vita col diminutivo di Tonia. (vs, p. 369)  

Nel secondo la donna sottolinea le lacune identificative che i nomi tradizionali determinano e apre all’innovazione, attestando l’avvio della penetrazione di nomi moderni nel sistema onomastico locale. Nell’affrontare la scelta del nome personale da dare al figlio che deve nascere, rivendica la possibilità di interrompere la trasmissione di nomi familiari che incatenano ad una continuità formale e caricano i nascituri dei destini anonimi e infelici degli avi defunti, con l’illusione di condizionarne carattere e vita. Rompendo con la tradizione familiare, Mintonia progetta di trasmettere al bambino il nome di tziu Imbece,4 l’anziano amico che l’aveva iniziata all’amore per la lettura e le aveva lasciato la preziosa eredità costituita dai suoi libri :  

Questo figlio del bene e del male, della vita e della morte, se è maschio lo voglio chiamare Imbece, se è femmina si vedrà. Di sicuro non gli passerò il nome dei nonni, come si fa a Laranei per salvare una continuità di facciata che esiste solo nei registri dell’anagrafe. Dei morti si deve dimenticare tutto, anche i nomi bisognerebbe buttarli nella fossa il giorno dell’interru e smetterla con queste epidemie di Bovore, Antoniu, Predu, Franziscu, Tanielle, che uno così si sente ancora più anonimo, più inutile, gli sembra di vivere il già vissuto. È una stupida convinzione quella di passare col nome anche qualche briciola di carattere del defunto. Basta gasi ! A Laranei l’eredità conta un frillo, le persone diventano altro da quello che si portano dentro. Diventano quello che vedono, amano, bevono, sentono, come in ogni altro maledetto cappio del mondo. (vs. p. 114)  

In realtà, la cesura con la tradizione sarà più radicale. Mintonia rinuncerà per il figlio ad un nome gravato dall’eco del destino di un altro essere umano, pur molto amato come tziu Imbece, scegliendo un antroponimo floreale di sua invenzione, Daliu, che deriva dal nome del 1

  « Dio ti guardi, Costanzo ».   « Ben venuto, padre Boreddu [= piccolo Salvatore] ». 3   Il nome composto è costituito da una forma locale della categoria delle parole macedonia – che parrebbe particolarmente produttiva in italiano per i nomi femminili il cui primo membro è costituito da Maria –, formato dalla parte iniziale del primo elemento nominale e dalla parte finale del secondo. Il composto corrisponde a Maria Antonia ; per la tipologia delle parole macedonia nell’onomastica italiana, si veda A. M. Thornton, Formazione delle parole nell’onomastica, in M. Grossmann, F. Rainer (a cura di), La formazione delle parole in italiano, Tubinga, Niemeyer, 2004, pp. 599-610 : p. 602. 4   Sempre nella sequenza titolo di riguardo + nome, l’antroponimo era già comparso in Cr, p. 91, in riferimento ad un vicino di casa della famiglia del protagonista, oggetto di una rapidissima citazione. Facendo riferimento al tziu Imbece della vs nel corso di un’intervista, per cui vedi infra, Niffoi dichiara che il personaggio è tratto dalla realtà : era un anarchico, parente del nonno Karrone ; l’intervista è riportata da A. M. Amendola, L’isola che sorprende. La narrativa sarda in italiano (1974-2006), Cagliari, cuec, 2006, pp. 237-246. 2

















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suo fiore preferito : la dalia ; lo stesso fiore tracciato profeticamente nel cielo per la giovane donna, nel giorno del suo matrimonio, da uno stormo di uccelli in volo. Un nome nuovo e originale che non ipoteca personalità e futuro del bambino col retaggio di altre vite, ma lo lascia libero di costruire in autonomia carattere e itinerario esistenziale.  



2. 1. Anche per il soprannome emergono riferimenti espliciti che ne sottolineano funzione e importanza nelle realtà comunitarie a cui l’autore fa riferimento nelle sue opere. Nel romanzo Il postino di Piracherfa è attestato il ruolo identificativo determinante attribuito all’elemento onomastico non ufficiale nelle piccole comunità chiuse tradizionali, caratterizzate da uno stock limitato di nomi di battesimo e di cognomi, e della conseguente opacità referenziale che la loro sovrarricorrenza determina. 1 La conoscenza dei soprannomi appare competenza necessaria all’esercizio del mestiere di postino, che non può prescindere dall’identificazione senza incertezza delle persone. Il vecchio postino tziu Bollelle insegna infatti all’adolescente Melampu Camundu – apprendista volontario che gli succederà nel lavoro – i soprannomi di tutti gli abitanti del paese :  

[Melampu] Prima dell’ora di pranzo si metteva alle costole di tziu Bollelle, per studiarsi alla perfezione il nome delle strade, i numeri civici e i nomi degli abitanti di Piracherfa. Faceva l’apprendista volontario per ingraziarselo, quando qualche volta lo mandava a su corru de sa vurca in malo modo, si portava appresso una bottiglietta automatica da un quarto piena d’acquavite. - Bevete un sorso tziu Bollelle ! Datevi una calmata, che siete troppo sudato e vi fa male. Cosa avete intenzione di non arrivare alla pensione ? Tziu Bollelle si sedeva su una delle lastre che abbellivano le entrate delle case e di sera servivano per sbattere i culi al fresco. Iniziava a bere a sorsi lunghi, lasciando un po’ d’aria tra labbro superiore e l’imbocco della bottiglia. Aaaaah… Alla fine era più morbido e disponibile, come se avesse appena smesso di coddare : Allora insegnava a Melampu tutti i soprannomi e gli raccontava storie di corna e di coddontzu. (pp, pp. 35-36)  





2. 1. 1. L’importanza della soprannominazione nella produzione narrativa del nostro Autore – proprio come riflesso di un radicato uso comunitario – viene confermata da Niffoi nel corso di un’intervista rilasciata nel 2006, dopo il grande successo nazionale dei primi due romanzi pubblicati da Adelphi. 2 All’intervistatrice, Amalia Maria Amendola, che introduce l’argomento con un enunciato assertivo – « Lei usa spesso i soprannomi nei suoi romanzi » – l’autore risponde lasciando intravedere ideologia e valenza sociale comunitaria dell’elemento onomastico e svela alcuni aspetti delle proprio strategie di soprannominazione. Sottolinea innanzi tutto il pieno riconoscimento sociale che il soprannome comporta, quale strumento di controllo, ma anche segno di accettazione comunitaria. Accenna inoltre  



1   Si tratta del resto di situazioni diffuse presso le piccole comunità, in particolare del Mezzogiorno italiano, come rileva G. R. Cardona, Introduzione all’etnolinguistica, Bologna, il Mulino, 1976, p. 140 ; situazioni motivate fino a tempi recenti proprio dai limiti e dalla stabilità dei patrimoni onomastici comunitari, e, di conseguenza, dal numero ristretto di combinazioni di nome e cognome a disposizione. L’apertura alle effimere « mode [onomastiche] del momento […] in determinati ambienti socio-culturali » – secondo la definizione di E. De Felice, I nomi degli italiani, Venezia, Marsilio, 1982, p. 163 – potrebbe aver avviato significative modificazioni della situazione, proprio in riferimento alle giovani generazioni. 2   Si tratta dell’intervista a cui abbiamo già fatto cenno, pubblicata in Amendola, L’isola che sorprende, cit., pp. 237246 : il passo da noi ripreso è alla p. 242.  







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alla distinzione delle due tipologie d’attribuzione, individuale e familiare-ereditaria. Esemplica infine i campi semantici da cui trae ispirazione per la soprannominazione letteraria, lasciando trasparire l’istanza realistica e ancor più quella espressionistica che guida le sue scelte linguistiche :  

Sì, da noi chi non ha un *soprannome è considerato una cagata di gallina. Nel senso che se non ti meriti un *soprannome, 1 o lo erediti dai tuoi antenati, però vuol dire che te lo sei meritato, oppure non esisti. È la tua carta di identità, ma non quella che ti danno all’anagrafe quando nasci. Io li studio i soprannomi. Molti li prendo dalla flora e dalla fauna. Conosco gli animali, gli alberi, adoro la natura (per questo non resisto più di un giorno in una grande città). C’è una pianta che si chiama Euforbia. Se io ti chiamo Euforbia, vuole dire che sei orticante. Se ti chiamo Secchintrese vuole dire che sei forte come quel legno. Astoreddu vuole dire che anche somaticamente hai caratteristiche da rapace. Oppure, se ti dico Mincilleu vuole dire che vali poco. Me li scrivo sempre prima (p. 242)

3. Il soprannome La segnalazione della tipologia onomastica è affidata nelle opere alle spiegazioni esplicita dell’io narrante o è ricostruibile in base ad indicazioni desumibili dal contesto. In riferimento al personaggio di Boranzela Coro ‘e Cane (lrt, p. 54), p. es., il riconoscimento del secondo elemento come soprannome muove in prima istanza dalla puntualizzazione della voce narrante « ad Abacrasta la chiamavano così perché non dava acqua a povero », ma trova conferma in seguito nell’emergere del cognome familiare con la citazione del padre, Tilone Arvada ‘vomere’. Nella denominazione di una delle tante maghiargias o maghe-fattucchiere della narrativa niffoiana, la spiegazione del carattere soprannominale del secondo elemento nominale si deve sempre alla voce che narra : « A tzia Cischedda la chiamavano Murripinta perché si pintava le labbra con sugna e sughero bruciato » (Co, p. 181). Con grande frequenza il soprannome è introdotto nella sequenza onomastica dall’aggettivo noto, attribuito al personaggio, precedentemente indicato col primo o secondo nome, o con entrambi gli elementi nominali. Si hanno sequenze quali Mundicu il carbonaio, noto Thitthone (vi, p. 18), Ernestu Cadenas, noto Conca e Ossu 2 (Cr, p. 82). Anche in questi casi l’autore, attraverso la voce narrante, interviene spesso a glossare e chiarire : Conca e Ossu « per via della sua conca scarnita che sembrava rubata dall’ossario di campusantu Vezzu ». Il soprannome, presentato esplicitamente, è soprannome individuale, nomignolo ; la sua attribuzione è infatti finalizzata alla caratterizzazione dei personaggi a cui è di volta in volta assegnato, nei ben definiti contesti narrativi nei quali occorre. Le forme individuate nascono per attribuzione diretta ai personaggi che denominano ; nelle opere analizzate pare non aver riscontro un’acquisizione per trasmissione familiare. La valenza individuale attribuita ai soprannomi dall’Autore trova sostegno anche nella denominazione adottata per designarli, ingiurgi, un regionalismo che adatta la parola dialettale ingiurgios, 3 nome del terzo elemento onomastico del sistema di alcune aree linguistiche del Settentrione isolano. Soprannomi quindi come ‘ingiurie’, che colgono difetti e caratteristi 



















1   Nel passo riportato dell’intervista, che è stata trascritta dall’autrice mantenendo struttura testuale e veste linguistica dell’oralità, le parole con asterisco sono state da me introdotte a sostituzione dell’incongrua occorrenza ‘cognome’ riportata. Ho emendato quello che ritengo essere un vistoso lapsus di Niffoi – ripreso acriticamente dall’intervistatrice – che merita riflessione e che cercherò di interpretare nella parte conclusiva del presente contributo. 2   « Ernesto Catene, noto Testa d’Osso ». 3   Varianti fonetiche – inzulzos, inzenzos, ingiuglios – del tipo lessicale sono attestata nel logudorese settentrionale, che costituisce probabile area di irradiazione della parola, oggi documentata in vari punti della Barbagia, in genere accanto a sinonimi diversi ; cfr. Wagner, Dizionario, cit., i, p. 64 ; P. Casu, Vocabolario logudorese-italiano, a cura di G. Paulis, Nuoro, Ilisso, 2002, p. 700 ; Puddu, Ditzionàriu, cit., p. 878.  









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che fisiche e morali, comportamenti e modalità di vita e di lavoro. Una definizione che evoca le ‘ingiurie’ di un’altra area insulare italiana e il loro riflesso letterario nelle pagine di autori quali Sciascia e Verga. 1 Non viene fatto riferimento dal nostro Autore all’altro tipo lessicale tradizionalmente usato nel suo paese d’origine in riferimento alla componente onomastica, diccios, 2 ovvero ‘proverbi’. Soprannomi quindi come ‘proverbi’, ‘detti’, in una designazione che accomuna i principali strumenti linguistici a cui una piccola comunità coesa ricorre per esercitare controllo sociale al suo interno, controllo basato su un sistema di valori – morali, estetici, comportamentali – condivisi. 3 La denominazione tradizionale, che meglio rappresenta la valenza sociale della soprannominazione nella comunità d’origine di Niffoi, parrebbe aver ormai circoscritto la sua referenzialità ai soprannomi collettivi, che si trasmettono per linea agnatizia, costituendo il vero elemento identificativo di nuclei familiari e parentali. 4 Rileviamo l’adozione da parte dell’Autore del tipo lessicale ingiurgios da un passo della Vedova Scalza, in cui appare citato dalla protagonista del romanzo :  

Sono nata il ventuno di luglio del novecentoquindici, sotto il segno della guerra. Mintonia mi hanno chiamato. Un po’ per onorare i nonni paterni, Antonio Savuccu e Maria Pettenedda ; un po’ perché il nome piaceva tanto a mia madre, che prima del parto aveva già in mente di chiamarmi a vita col diminutivo di Tonia. Fino a tre anni qualcuno osava chiamarmi anche Totonna, per via dei miei coscioni che sembravano prosciutti appesi alla pertica. Ma appena imparai a mordere e tirare calci fin dove arrivava la punta del piede anche i fratelli e le sorelle decisero di chiamarmi solo Tonia. Gli ingiurgi, i soprannomi, li accettavo malvolentieri e solo se erano vezzosi e benevoli. (vs, p. 36)  

4. L’attribuzione del soprannome Ad attribuire i soprannomi possono essere i familiari dei personaggi soprannominati o settori comunitari circoscritti, da un gruppo di ubriaconi in vena di spiritosaggini ad avversari politici alla ricerca di slogan sarcastici di facile presa sugli elettori, ad allievi che reagiscono ai duri sistemi didattici di un’insegnante. Il soprannome Solitariu ‘Solitario’, che denomina l’infelice Bernardu – figlio di una delle prostitute del paese – nella Leggenda di Redenta Tiria, anticipandone e segnandone il destino, è la sottolineatura ironica di una strana circostanza che accompagna la sua nascita, operata dagli avventori perditempo e avvinazzati di una bettola :  

Bernardu Solitario, ad Abacrasta lo chiamarono così perché il giorno che era venuto al mondo nel resto dell’isola non era nato nessuno. Era un quattro agosto che il sole masticava con denti d’oro le ombre delle strade […]. Quando ad Abacrasta si venne a sapere che quel venerdì in tutta la Sardegna era nato solo Bernardu, quasi si fece festa e, a testa di vino, un gruppo di ubriaconi lo battezzò Bernardu Su Solitario, il solitario. (lrt, 28) 1   Per le le riflessioni sulle ‘ingiurie’ siciliane di L. Sciascia del Giorno della civetta, Torino, Einaudi, 1961, pp. 45-46, rimando a Cardona, Introduzione, cit., pp. 140-141 ; in riferimento alle ’nciurii in Verga è obbligato il rinvio ad A. M. Cirese, Intellettuali, Folklore, istinto di classe. Note su Verga, Deledda, Scotellaro, Gramsci, Torino, Einaudi, 1976, pp. 21-23 ; sulla dimensione comunitaria della soprannominazione, cfr. I. Putzu, Il soprannome. Per uno studio multidisciplinare della nominazione, Cagliari, cuec, 2000, pp. 200-301. 2   L’attestazione del tipo lessicale dicciu, dallo spagnolo dicho, col significato di soprannome è documentata da Wagner per Orani nei primi decenni del secolo scorso, cfr. M. L. Wagner, Studien über den sardischen Wortschatz, i, Die Familie, Genève, Olschki 1930, p. 5, e Idem, Dizionario, cit., i, p. 466. 3   Cfr. Cardona, Introduzione, cit., pp. 140-141, 193-194. 4   Come attestano i dati da me rilevati presso parlanti nativi di Orani, d’età elevata.  



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Sempre nello stesso romanzo, il soprannome Re di Denari viene usato sarcasticamente nei confronti del sindaco-ingegnere Bantine Pica, da parte degli oppositori politici, che con la lista antagonista « Spiga e progresso », avevano cercato di ostacolarne la rielezione. 1 La soprannominazione connota, censurandoli, carattere e comportamenti dell’uomo pubblico, dallo smisurato attaccamento al denaro, all’illecito arricchimento frutto della gestione spregiudicata degli appalti pubblici, alla smodata dipendenza dal vizio del gioco. La caratterizzazione della maestra Letizia Pessu viene condotta, nella Vedova Scalza, attraverso il soprannome attribuitole dagli allievi : Su Bistoccu de su Diavulu 2 « il biscotto del diavolo », una delle peggiori ingiurie che si possa rivolgere ad una donna, perché sottolinea contemporaneamente bruttezza e cattiveria :  











Mastra Letizia, la nuova maestra, era invece brutta e porrosa, peggio di una malavijone. Secca e verde come una mantide religiosa, gli occhi scontenti sprofondati in due pozzanghere nerastre, sembrava uscita da una delle bare che vendeva il padre a Noroddile per assantiare gli uomini. Dopo i primi giorni di scuola, quando prese a picchiarci con una frunza di salice, le zaccammo un ingiurgiu che sembrava fatto apposta per lei : Su Pistoccu de su Diavolu, il Biscotto del Diavolo. Quello era il soprannome giusto per una tzia vischida3 come la merca4 […] (vs, p. 53-54)  

Ma nella maggioranza dei casi è la comunità nel suo insieme che pare essere chiamata in causa nel processo connotativo e carico di allusioni che la soprannominazione determina. L’attribuzione collettiva, per voce popolare condivisa, emerge in riferimento a caratteristiche di particolare evidenza, quali tratti fisici e caratteriali fuori norma e mestieri esercitati, caratteristiche per le quali il rilievo e la visibilità fa agevolmente scattare l’accettazione unanime del nomignolo che vi allude, nel piccolo mondo coeso e complice teatro delle narrazioni di Niffoi. Nineddu, il protagonista del Viaggio degli inganni, p. es., introduce il romanzo parlando della sua nascita, e racconta :  

Quella notte la luna si presentò in ritardo, e gli abitanti di Oropische di fronte ai caminetti, si raccontavano storie di spettri e di santi e cuocevano patate e cipolle sotto la cenere ardente dei fochili. Mia madre mi allattava e piangeva e mio padre Mundicu il carbonaio, noto Thitthone, avvolto nel suo cappottone di orbace, faceva il giro delle bettole per festeggiare la nascita del suo primo figlio. (p. 18)

La forma thitthone ‘tizzone’ 5 allude in modo trasparente al mestiere esercitato dall’uomo, inserendolo e classificandolo all’interno della comunità, senza alcuna valenza negativa o positiva. 1

  lrt, p. 50.   Nel Marghine è attestata la variante della polirematica parrere su chi ada fattu su biscottu a su dialu ‘sembrare quello che fatto il biscotto al diavolo’, a designazione di persone d’aspetto scostante e sgradevole, cfr. G. Cau, Naraìant sos betzos, Dolianova, Grafica del Parteolla, 2005, p. 259. Nella lessicografia d’area logudorese è ampiamente documentato la variante fagher su biscottu a su demoniu col significato di ‘esser molto brutto’, in Casu, Vocabolario, cit., p. 261 ; Puddu, Ditzionàriu, cit., p. 340 ne sottolinea invece il riferimento alla cattiveria. 3   ‘acida’, ‘pungente’ ; l’aggettivo deriva da viscidus, di cui conserva anche il valore semantico, cfr. Wagner, Dizionario, cit., ii, p. 580. 4   La denominazione designa prodotti alimentari accomunati dal gusto forte e penetrante, ma diversificati in relazione alla cultura alimentare di riferimento. In area centrale – inclusa Orani – il referente è costituito da una tipologia di latte inacidito, valore sematico a cui fa sicuramente riferimento il passo niffoiano ; ma in area oristanese la mèrka è una modalità di cottura e conservazione del muggine, lessato in acqua abbondantemente salata e avvolto con erbe palustri, che ne esaltano il sapore. Per l’attestazione lessicografica, cfr. ivi, ii, p. 107. 5   dal lat. titio, -one, cfr. ivi, ii, p. 491. 2







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Ad elementi caratterizzanti il mestiere esercitato fa riferimento anche il soprannome Lettorina ‘littorina’, 1 attribuito all’interno del gruppo dei pari ad un amico dello stesso personaggio precedentemente citato. La spiegazione dell’elemento onomastico avviene durante un tipico episodio dei riti di passaggio dall’infanzia all’adolescenza : la visita notturna di tre ragazzi in cimitero, da attestare al cospetto degli amici con un trofeo dimostrativo, una moneta d’argento recuperata dall’ossario :  



Ci avvicinammo lentamente alla calotta della botola e Lettorina estrasse dal tascone del cappotto la torcia cromata di suo padre, quella potente che usava di notte al casello, quando sbarrava il traffico ai carri per far passare le lettorine. (vi, p. 68)

Dal padre, tziu Lettorina, il ragazzo attinge soprannome e strumento di mestiere, elementi che ne garantiscono l’accettazione all’interno del gruppo amicale e delineano il ruolo attribuitogli. 2 Si tratta di una trasmissione soprannominale da padre a figlio che trova giustificazione in una precisa esigenza di visibilità e riconoscimento del ragazzo da parte del gruppo di riferimento, in una delle fasi critiche, che scandiscono la vita dell’individuo all’interno della comunità di cui fa parte. Trasmissione episodica quindi, legata ai rituali di passaggio dall’infanzia all’adolescenza, che non si inquadra nell’ereditarietà di lunga durata e di comprovata identificazione comunitaria del soprannome di schiatta, ancora attestata in Barbagia e ricordato dal nostro autore, 3 ma che pare non trovare attenzione esplicita nella sua narrativa. Il passaggio dall’adolescenza alla giovinezza, col suo accompagnamento di bevute, bravate e uso autoidentificativo del soprannome, è rappresentato invece dal rito del viaggio del gruppo di coetanei per la visita di leva ; viaggio che getta nello sconcerto gli altri passeggeri dell’automotrice, 4 e che trova spazio narrativo nel romanzo Il postino di Piracherfa :  



La prima volta che [Melampu] mise piede in un caserma fu quando andò a Cadali per la visita di leva. Erano partiti in cinque dalla stazione di Tovalò che era ancora buio. Lui, Zigattu, Conca ‘e Granitu, 5 Bore Ghilinzone, Chelleddu Pugnetta 6 e Antoneddu Chentutroddias. 7 La sera prima si erano fatti il bagno nell’acquavite, e nella lettorina avevano dormito sino alla piana di Malumele. (pp, p. 73)

Le osservazioni di Bore Ghilinzone, date a spiegazione della scarsità di camini accesi nel centro di Oroçano, ovvero Oristano, intravisto dai finestrini del treno in corsa, motivano il richiamo ironico della marca onomastica – Geograficu – che lo caratterizza all’interno del gruppo di amici. Non si tratta del supposto prolungarsi del sonno degli abitanti della cittadina o del loro impegno indefesso nel lavoro, bensì come afferma il giovane :  

[…] a Oroçano quasi tutti hanno il riscaldamento e lo usano anche poco, perché qui l’inverno dura neanche un mese e per il resto dell’anno il sole picchia in testa più del vino di Naracciu. 1   Come è noto, si tratta di un tipo di automotrice ferroviaria con motore diesel, il cui nome deriva da littorio + -ina, in quanto prodotta in Italia durante il periodo fascista. Nel testo è un soprannome neutro, che identifica tziu Lettorina, il responsabile del casello ferroviario del villaggio. 2   Per l’analisi delle dinamiche di gruppo in relazione alla soprannominazione, si rimanda a Putzu, Il soprannome, cit., in part. alle pp. 237-263. 3   Nel corso dell’intervista citata in precedenza. 4   « Gli altri passeggeri, che non potevano lasciare lo scompartimento, perché la lettorina era ad un solo vagone, li guardavano infastiditi e impauriti. » (pp, p. 74). 5   ‘Testa di granito’. 6   ‘Michelino Masturbazione’, per il secondo nome, cfr. Wagner, Dizionario, cit., ii, p. 325. 7   ‘Antonino Centopeti’, su di lui la voce narrante commenta « aveva già cominciato a scoreggiare alla grande, scandalizzando gli altri viaggiatori e in particolare alcune distinte signore occhialute e intailleurate. » (pp, p. 74).  







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Tutti presero atto della cultura di Ghilinzone, noto Geograficu, e ne approfittarono per passarsi la fiasca dell’acquavite che Chelleddu aveva tolto dalla taschedda. (pp, p. 74)

5. Modalità d’uso del soprannome Accanto alle diffuse ed esemplificate strategie di plurinominazione, occorre nelle opere anche un uso assoluto del soprannome : i personaggi possono essere individuati dall’elemento onomastico che più efficacemente ne caratterizza il ruolo all’interno della narrazione. Non si tratta solo della maggiore importanza che un elemento del sistema può rivestire a seconda delle circostanze e dei contesti, variazione ben illustrata nella realtà dell’uso da Migliorini.1 Accade che alcuni personaggi compaiano solo col soprannome, fissati ad un’implacabile caratterizzazione – prevalentemente negativa o ironicamente antifrastica – che non lascia spazio alcuno a umane complessità e sfumature, assurgendo quasi a simboli dei tratti morali e comportamentali o delle attività, che sono chiamati a rappresentare. È il caso del personaggio denominato Su Gurturgju, l’odiata guardia campestre che tormenta e incombe, proprio come un avvoltoio, sugli abitanti del borgo in cui è ambientato Il viaggio degli inganni :  



Un mezzogiorno di giugno, mentre riposavamo [Nineddu e il padre Mundicu] vicino alla sorgente di Tiricò in attesa che la morsa della calura si allentasse, con passo liquido e malintenzionato ci arrivò addosso Su Gutturgju, la guardia campestre del paese. Aveva il muso largo e umido, e a mezzabocca sorrideva di un sorriso cattivo ; le sue orecchie grandi e ricadenti si erano tese come ali di pipistrello. Era avvolto dentro una divisa nera e dalla giberna stemmata, due ciuffi di peli bianchi e ribelli gli spuntavano come corna. Gurturgju aveva fama di uomo violento, perché spesso aggrediva e molestava senza essere provocato. Appena lo vide, mio padre balzò improvvisamente in piedi lasciandosi andare la mano verso la scure che aveva conficcato nel busto di un leccio. Io sentii come una ferita silenziosa e per un attimo pensai che quella bestia avrebbe squarciato con una fucilata il petto lanoso e scuro di mio padre, che si era liberato della camicia prima di addormentarsi. “E tando Thithò non bi mendas mai ? Ses naschiu ladru e cheres a morrer ladru ?” 2 (vi, pp. 58-59)  





Anche la designazione del podestà, che imperversa nella Vedova Scalza, fino a trovare la meritata punizione nella morte, è affidata al soprannome, Gana mala ‘nausea’, forma onomastica resa nel testo anche col regionalismo Brutta voglia. 3 L’elemento onomastico vuole sottolineare gli effetti di disgusto che il personaggio produceva in chi lo avvicinava, perché “aveva un modo di dire e di fare che costringeva a dare di stomaco anche a digiuno” :  

Il podestà lo amazzarono di pomeriggio, a ferragosto, in giorno di festa da ricordare, come si usa in Barbagia. A soprannome lo chiamavano Ganamala, bruttavoglia, da quando era piccolo, perché aveva un modo di dire e di fare che costringeva a dare di stomaco anche a digiuno. Non era forte, né furbo, né coraggioso : era solo un minciale era ! Portato per natura alla tresca e al tradimento, dentro la divisa si sentiva in una fortezza. (vs, p. 136)  



1   B. Migliorini, Dal nome proprio al nome comune, Firenze, Olschki, 19682, pp. 17-18. Possono verificarsi anche occorrenze di questo tipo : nel Viaggio degli inganni l’adorata nonna Mintonia del protagonista Nineddu compare una volta come nonna Codditorta ‘spalle storte’ ; il padre Mundicu ‘Raimondo’ viene chiamato Thitthone dalla guardia campestre che lo coglie a rubare il sughero dagli alberi. 2   « E allora Thitthone, non cambi mai ? Sei nato ladro e vuoi morire ladro ? ». 3   Forme entrambe di largo impiego nella lingua dell’uso a designazione di nausea, sintomi di vomito e disturbi gastrici.  







   

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Nei casi citati l’uso esclusivo del soprannome a designazione di personaggi che fanno parte del potere costituito, per ruolo professionale e sociale ricoperto, si inquadra in una strategia di condanna e dissacrazione dei potenti, capaci di soprusi e ingiustizie ; strategia perseguita dall’Autore anche mediante l’onomastica. Emergono anche attraverso i nomi giudizi morali negativi nei confronti della gestione del potere nelle piccole comunità locali, oltre a scelte ideologiche e sociali che portano l’autore a schierarsi dalla parte di umili e vessati. È invece un elemento onomastico derivato dal campo semantico della fauna locale che consente di connotare per antifrasi, col simbolismo del suono oltre che col valore referenziale, una delle attività aggiuntive di un’altra delle maghiargias dell’universo niffoiano : tzia Alipinta1 ‘zia fringuello’. I colori vivaci della livrea, a cui il significante fa riferimento, ma anche i tratti comportamentali di leggiadria e allegria – nel volo e nel canto – del volatile designato, accentuano per contrasto la penosa e implacabile abilità della fattucchiera « esperta nel mandare in cielo i nati in avanzo ». È infatti la dispensatrice de sa morte durche ‘la dolce morte’ ai neonati indesiderati, che « trasforma(va) in angioletti dopo il primo vagito » (lrt, p. 111).  











Per concludere Se consideriamo la pluralità di personaggi che popolano i romanzi di Niffoi, i soprannomi chiaramente identificabili come terzo elemento onomastico, per esplicita dichiarazione dell’autore o per riscontri ricavabili dal contesto, non sono di numero rilevante. Le caratteristiche onomastiche del soprannome, il fatto che sia un nome proprio dotato di significato, ma anche la funzione di controllo sociale che rappresenta, anche in virtù della sua trasparenza semantica e del giudizio comunitario che veicola, vengono affidate più frequentemente al secondo nome, ovvero a quell’elemento che nella sequenza onomastica occupa il posto del cognome. I processi di formazione messi in atto e le funzioni attribuite ai due elementi nominali – secondo e terzo del sistema onomastico – coincidono : sono costituiti da forme linguistiche descrittive e appositive, semanticamente trasparenti, attinte a campi semantici rappresentativi della realtà locale, aggiunte al primo nome per identificare, caratterizzandoli, gli individui, in riferimento a parametri ideologici, sociali, estetici di valenza comunitaria. È come se il processo creativo di denominazione di Niffoi abbia reso attuali fasi onomastiche remote, antecedenti alla fissazione ufficiale del sistema moderno, in cui la sovrapponibilità di tipologie formali e di finalità connotativo-identificative rende difficile la distinzione fra le diverse componenti, aggiunte al primo nome. Sono infatti semanticamente trasparenti nel loro riferimento a tratti comportamentali e ad abilità, e costituiscono elementi onomastici parlanti, nomi aggiunti, che fungono da secondi nomi, quali Manilestru (Cuminu Manilestru, vi, p. 23) lett. ‘veloce di mano’, quindi ‘ladro’, o Margiane (Lisandru Margiane sempre da vi, p. 23) ‘volpe’, quindi ‘astuto’, ‘furbo’ e soprannomi espliciti quali Brujore ‘Bruciore’, nomignolo attribuito al calzolaio tziu Genuariu Candela (lrt, p. 39), al quale la soda caustica aveva bruciato la lingua, rendendola a sua volta caustica e bruciante, ovvero abile nell’ironia e nella presa in giro. A caratteristiche morali rimandano sia il cognome Corevonu ‘buon cuore’ (Nino Corevonu, vi, p. 18), riferito al raccoglitore di ferro che allietava la comunità col suo organetto, sia il già citato soprannome Coro ’e cane ‘Cuore di cane’, che allude all’avarizia senza limiti di Boranzela Arvada (lrt, p. 57). La distinzione riguarda la qualità delle caratteristiche morali evidenziate – positive quelle di Nino del Viaggio degli inganni, negative quelle di Boranzela –, non la tipologia onomastica impiegata. Possiamo trarre la conclusione che la caratterizzazione dei personaggi, affidata ad ele 

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antonietta dettori

menti onomastici trasparenti, è condotta da Niffoi prevalentemente attraverso un elemento onomastico aggiunto al primo nome, al quale può essere attribuita indifferentemente la funzione di soprannome o di cognome. I cognomi, come i soprannomi, non si limitano a identificare i personaggi, li connotano, caratterizzandoli sulla base delle ideologie dell’Autore, oltre che di valori e pregiudizi comunitari, dei quali spesso il narratore si fa ironico interprete. In altra sede e sulla base dell’analisi di una sola opera, La leggenda di Redenta Tiria,1 ho spiegato tali scelte onomastiche facendo riferimento a situazioni di sovrapponibilità dei due elementi nominali – cognome e soprannome – derivanti dall’importanza che nelle comunità locali ha ancora il soprannome collettivo ereditario. Il soprannome di famiglia può di fatto sostituire il cognome, non solo accompagnarsi ad esso, con la conseguente cancellazione nell’uso della distinzione fra componenti ufficiali e non ufficiali del sistema. Infatti la sovrapposizione può anche sfociare nella confusione dei due elementi onomastici, e determinare nelle interazioni intracomunitarie la prevalenza e la generalizzazione del soprannome, dotato di maggiore capacità identificativa di individui e gruppi familiari. Oggi ritengo che l’interscambiabilità dei due elementi nominali, confermata anche nelle altre opere esaminate, molto debba all’esuberanza creatività e al gusto della nominazione trasparente e allusiva del nostro autore. Ma continuo a pensare che le radici culturali del fenomeno creativo riportino alla condivisione del rapporto interscambiabile tradizionalmente instauratosi fra secondo e terzo nome nelle piccole comunità locali e del ruolo ancora attribuito al soprannome al loro interno. Condivisione che trova conferma anche nel lapsus in cui incorre Niffoi, nell’intervista più volte citata, dovuto non a distrazione, ma ad una radicata abitudine allo scambio delle due componenti e delle loro funzioni, nella lingua dell’uso e nella nominazione letteraria. 1

  Dettori, Sul sistema antroponimico, cit., pp. 239-241, 253-255.

« EDUARD – È COSÌ CHE NOI CHIAMIAMO… ». LA NOMINATIO NELLA PRIMA FRASE DELLE AFFINITÀ ELETTIVE DI GOETHE*  



Volker Kohlheim Non aver alcun nome è il non esser vivi. D. De Camilli

«

E

duard, – è così che noi chiamiamo un ricco barone nel fiore degli anni – Eduard aveva trascorso fra gli alberi del suo vivaio l’ora più bella di un pomeriggio d’aprile per innestare su giovani tronchi le marze fresche ». 1 Per molti questa frase introduttiva delle Affinità elettive di Johann Wolfgang von Goethe costituisce l’incipit più originale di tutta la letteratura tedesca. 2 Ed è al tempo stesso il più suggestivo ed ambiguo. Quanto è differente infatti dalle descrizioni iniziali dei protagonisti, calibrate e trasparenti, quali la seguente : « Friedrich Mergel, nato nel 1731, era l’unico figlio di un mezzadro o proprietario terriero d’infima classe nel villaggio di B. […] » ; 3 o quest’altra: « Diederich Heßling era un bambino sensibile […] ». 4 La prima frase delle Affinità elettive può semmai essere confrontata con l’inizio del racconto di E. A. Poe, William Wilson, pubblicato trent’anni dopo il romanzo di Goethe : « Let me call myself, for the present, William Wilson ». E tuttavia in quest’ultimo l’insicurezza in cui viene gettato il lettore relativamente all’attendibilità del nome del protagonista, 5 causata principalmente dall’inciso « for the present », ma anche dall’esordio « Let me call myself », viene prontamente rimossa nella frase immediatamente seguente. La quale conferma la giustezza del dubbio, dal momento che William Wilson non è in effetti il nome dell’Io-narrante. Dodici anni più tardi H. Melville, con il suo laconico e « perentorio » 6 « Call me Ishmael », risveglia ancora una volta nel lettore il dubbio circa la reale identità del narratore. « Una strana incertezza ci coglie. Ma il narratore non è forse proprio quell’Ishmael protagonista del racconto ? » si chiede W. Kayser, fino al momento in cui la giustezza di tale supposizione non viene con 











































* La traduzione italiana è di Donatella Bremer. 1   J. W. von Goethe, Die Wahlverwandtschaften. Ein Roman (1809), in E. Trunz ( a cura di), Goethes Werke. Hamburger Ausgabe in 14 Bänden, vol. 6, Monaco di Baviera, C. H. Beck, 19779, pp. 242-490 : 242. 2   Secondo W. Schmidt-Dengler, Privationen – Negationen. Typologisches zur Entwicklung von Romananfängen, « Manuskripte », 145, 1999, ejournal.thing.at/Forum/man145/dengler.html, p. 1, a questa prima frase corrisponde addirittura « il destino dell’elezione ». 3   A. von Droste-Hülshoff, Die Judenbuche. Ein Sittengemälde aus dem gebirgichten Westfalen, « Morgenblatt für gebildete Leser », 96, 22 aprile 1842. 4   H. Mann, Der Untertan. Roman, Lipsia-Vienna, Kurt Wolff, 1918. 5   Cfr. B. Nugnes, What’s in a name : esplorazioni nella narrativa americana del primo Ottocento, in M. G. Arcamone, B. Porcelli, D. De Camilli, D. Bremer (a cura di), Onomastica e Letteratura. iii Incontro di studio di Onomastica e Letteratura, Atti, Viareggio-Lucca, Mauro Baroni Editore, 1998, pp. 99-120 : 110 : « Cito … uno dei più begli esordi di tutta la narrativa americana : l’inizio del racconto intitolato William Wilson : “Let me call myself, for the present, William Wilson.” Squisita, e davvero tragica, nel contesto, la precisazione temporale : “for the present” ; chi parla non è, in fondo, che un riflesso, un’ombra senza futuro, un mero effetto di omonimia. Tragica, dicevo, come se persino quel fondamento di identità che è in qualche modo garantito dall’anagrafe fosse qualcosa di totalmente aleatorio, sul quale non è possibile 6   Ivi, nota 1 a p. 175. far conto ».  































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fermata. Se ci interroghiamo su cosa vi sia in comune tra questi tre incipit, ci accorgiamo che è il verbo ‘chiamare’. Per il resto vi sono notevoli differenze. La più evidente risiede ovviamente nel fatto che i due narratori anglo-americani danno indicazioni circa il loro stesso nome, sia che questo sia inventato, sia che si tratti di quello reale, mentre in Goethe è un’istanza chiamata « noi » ad attribuire in modo esplicito il nome ad uno dei protagonisti delle Affinità elettive. Ed è appunto di questo che ci accingiamo a parlare. 1





Già relativamente all’interpretazione del pronome personale « noi » nella prima frase del « libro più ambiguo » 2 di Goethe sorgono alcuni interrogativi. Si tratta forse semplicemente, come ritiene E. Spranger, di « colui che effettua la descrizione » e che si presenta all’inizio con un « noi » ? 3 È noto che l’uso della prima persona plurale può avere più significati : può essere inteso come pluralis maiestatis o come pluralis modestiae. Questa prima spiegazione, che vede il poeta presentare se stesso quale « la propria maestà », 4 è certamente da scartare. Più probabile è l’interpretazione del « noi » come pluralis modestiae, che non a caso viene definito anche ‘plurale autoriale’. Su ciò concorda pienamente lo stesso Spranger nella citazione summenzionata. Si può però ipotizzare anche una terza possibilità, sulla quale è stato D. B. Leistner a richiamare l’attenzione. Egli fa notare come il pronome personale « noi » debba essere messo in relazione con il verbo ‘chiamare’. Ed effettivamente qui non si dice che un ricco barone nel fiore degli anni « si chiama » Eduard, cosa di cui il lettore dovrebbe semplicemente prendere atto, bensì che è un ‘noi’ a chiamare questo barone Eduard. E questo ‘noi’ non deve necessariamente rimandare a ‘noi, cioè l’autore’ ; può anche fare riferimento, il che peraltro avviene quotidianamente a livello di comunicazione interpersonale, ad un intero gruppo di cui fa parte colui che narra insieme ad un numero indefinito di persone che il narratore stesso comprende nell’indicazione ‘noi’. Se questo ‘noi’ può essere interpretato in tal modo, allora « i lettori stessi sono resi partecipi dell’impianto dello schema narrativo delle Affinità elettive », deduce Leistner, 5 e W. Schmidt-Dengler si associa a tale lettura quando scrive : « […] il narratore con un generoso ‘noi’ ci fa partecipare all’atto del battesimo del personaggio ». 6 In realtà non vi è una nostra partecipazione reale alla struttura narrativa delle Affinità elettive », 7 precisa Leistner, ma si tratta piuttosto di una partecipazione solamente simulata. 8 E tuttavia ciò che avviene fra l’autore ed il lettore – e che Leistner definisce come « un gioco linguistico creativo » 9 –, va oltre a quel che D. Lamping descrive quale funzione di « similari enunciati identificativi » : « Il loro compito principale è quello di far conoscere al lettore il collegamento tra un nome e la persona che lo porta ». 10 Se però s’interpreta questo ‘noi’ della prima frase come un ‘noi’ che include il lettore, non si ‘fa conoscere’ niente, e sono l’autore ed il lettore che fingono di scegliere insieme – ad ogni nuova lettura – in una sorta di « trovata creativa »11 per un ricco barone nel fiore degli anni il nome Eduard.  



































































1   W. Kayser, Wer erzählt den Roman ?, in V. Klotz (a cura di), Zur Poetik des Romans, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft (« Wege der Forschung », 35), 1969, pp. 197-216 : p. 209. 2   B. von Wiese, Note dell’editore alle Wahlverwandtschaften, in E. Trunz (a cura di), Goethes Werke. Hamburger Ausgabe in 14 Bänden, vol. 6, München, C. H. Beck, 19779, pp. 620-717 : p. 653. 3   E. Spranger, Der psychologische Perspektivismus im Roman, in Klotz (a cura di), Zur Poetik des Romans, cit., pp. 217238 : p. 231. 4   D. B. Leistner, Autor – Erzähltext – Leser. Sprachhandlungstheoretische Überlegungen zur Sprachverwendung in Erzähltexten. Sprachspielgrammatische Versuche zum poietischen Sprachspiel ‚Autor – Erzähltext – Leser’, Erlangen, Palm & Enke, 5   Ivi, p. 276. 1975 (« Erlanger Studien », 5), p. 272. 6   Schmidt-Dengler, Privationen – Negationen, cit., p. 1. 7   Leistner, Autor – Erzähltext – Leser, cit., p. 275. 8 9   Ivi, p. 276.   Ibidem. 10   D. Lamping, Der Name in der Erzählung. Zur Poetik des Personennamens, Bonn, Bouvier, 1983 (« Wuppertaler Schriften11   Leistner, Autor – Erzähltext – Leser, cit., p. 273. reihe Literatur », 21), p. 21.  



















la nominatio nelle affinità elettive di goethe

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È comunque possibile fornire della prima frase delle Affinità elettive un’ulteriore, quarta spiegazione. Essa si riallaccia all’origine scientifica del concetto stesso di ‘affinità elettiva’. Tale concetto, cui già fanno riferimento Alberto Magno e Galileo – che usavano il termine affinitas per descrivere la tendenza di determinati corpi a legarsi fra loro – e che fu d’importanza determinante per Goethe, fu coniato ed analizzato dallo svedese Torbern Bergman, precisamente nel suo trattato De attractionibus electivis, apparso nel 1775. 1 Nell‘ambito delle scienze naturali, così determinante per il romanzo goethiano, la formulazione « così noi chiamiamo » può essere ricondotta ad un equivalente dell’enunciato ‘così viene chiamato’, ‘così si chiama’. Un chiaro esempio lo troviamo nella Teoria dei colori dello stesso Goethe : « Il colore che nello spostamento di un’immagine viene per primo è sempre il più ampio, e lo chiamiamo orlo. Il colore che invece resta adiacente al confine è il più sottile, e lo chiamiamo margine ». 2 In modo analogo la frase « Eduard, – è così che noi chiamiamo […] » potrebbe essere usata quale definizione di un elemento chimico : come dire che l’‘elemento’ ricco Barone viene generalmente chiamato Eduard. Così il narratore si mostra quasi quale sperimentatore, ed allo stesso tempo il carattere artificiale dell’impianto narrativo viene accentuato. 3  















Lo stesso nome Eduard fa parte di un raffinato gioco, un vero e proprio enigma onomastico, che Goethe ha ideato per questo suo romanzo. Altre tre figure sono centrali nell’opera, ed anch’esse vengono chiamate per nome : Charlotte, Otto e Ottilie ; oltre a queste c’è il piccolo Otto, accanto a personaggi secondari e figure di contorno quali Luciane e Nanny. L’unico cognome viene concesso al « disgregatore » Mittler (‘mediatore’). Si può dunque a ragione parlare relativamente a questo romanzo di una « scarsità di denominazioni », come rileva W. Benjamin. 4 Ciò nonostante i nomi e addirittura le parti che li compongono, le lettere, svolgono in esso un ruolo di primo piano, come afferma lo stesso Goethe con tono ironico riferendosi al nome Mittler, personaggio che – per quanto sempre senza successo – si ostina in ogni occasione a fare da mediatore : « Coloro che sono superstiziosi circa il significato dei nomi sono dell’opinione che il nome Mittler lo abbia costretto a seguire questa che è la più rara fra le vocazioni ». 5 In questa sede ci occupiamo tuttavia esclusivamente dell’incipit del romanzo e quindi ci limitiamo a trattare solo superficialmente questo tema, soprattutto in considerazione del fatto che tale gioco linguistico, che vede tutti i nomi dei personaggi-chiave all’interno della trama riferirsi, secondo la simbologia alchemica e cabalistica, al nome Otto, è già stato più volte analizzato, e descritto in modo esaustivo da H. Schlaffer. 6 Schlaffer interpreta le Affinità elettive essenzialmente come lo scaltro tentativo di Goethe di mostrare, dietro un intreccio che si veste dei costumi dell’epoca, l’attualità di una rappresentazione del mondo di tipo alchemico-mitologico allora superata. Da parte sua M. Schwanke si affida a criteri di carattere onomastico-etimologico per interpretare il romanzo come un gioco ironico incentrato sul concetto di ‘possesso’, che troviamo attestato in tutti e quattro  

















1

  Cfr. von Wiese, Note dell’editore, cit., pp. 680-684.   J. W. von Goethe, Zur Farbenlehre. Didaktischer Teil (1810), in E. Trunz (a cura di), Goethes Werke. Hamburger Ausgabe in 14 Bänden, vol. 13, Monaco di Baviera, C. H. Beck, 19757, p. 376. La citazione in italiano è tratta da J. W. von Goethe, La teoria dei colori, a cura di R. Troncon, Milano, il Saggiatore, 1999, p. 70. 3   Non condivisibili sono le conclusioni cui giunge J. Adler, secondo il quale nell’incipit l’Autore sottolineerebbe l’autenticità del racconto, facendo intuire al lettore che Eduard è un nome di copertura ; cfr. J. Adler, “Eine fast magische Anziehungskraft”. Goethes “Wahlverwandtschaften” und die Chemie seiner Zeit, München, C. H. Beck, 1987, pp. 141 sg. 4   W. Benjamin, Goethes Wahlverwandtschaften, in R. Tiedemann, H. Schweppenhäuser (Hrsg.), Walter Benjamin. Gesammelte Schriften, i, 1, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1991, pp. 123-202 : p. 135. 5   Goethe, Die Wahlverwandtschaften, cit., p. 255. 6   H. Schlaffer, Namen und Buchstaben in Goethes „Wahlverwandtschaften“, « Jahrbuch der Jean Paul Gesellschaft », vii, 1972, pp. 84-102. 2









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i nomi dei personaggi principali. Ciò è evidente nel caso di Otto e Ottilie, risalenti ambedue all’antico alto tedesco ōt ‘possesso’ ; nel caso di Charlotte tale interpretazione è possibile solo con qualche forzatura ricorrendo ad una paretimologia del suffisso francese -otte. Diverso è il caso di Eduard : l’etimo germanico è attestato nell’antico inglese ēad. Tale personaggio, che volentieri cederebbe il ‘possesso’ acquisito a fatica rappresentato da Charlotte, e più tardi anche la propria vita, porta il nome Eduard, che risale a ēad-weard, ‘custode del possesso’ : proprio questo fatto costituisce uno dei tanti aspetti ameni di questo romanzo, caratterizzato da un’« abissale ironia ». 2 1











Tale ironia viene a svilupparsi due capitoli più avanti, quando veniamo a sapere che Eduard ‘nella realtà’ non si chiama affatto Eduard, ma anche lui Otto. Si tratta di un « giovanile moto d’amicizia », così definisce Eduard retrospettivamente il fatto di aver cambiato il proprio nome, il « leggiadro, laconico nome » Otto, con quello di Eduard, da lui stesso scelto 3 per evitare di essere continuamente confuso con il suo omonimo amico, il capitano. « Non è però che sia stato tanto generoso », ricorda il capitano, aggiungendo : « [...] Eduard ti piaceva di più, e in effetti, pronunciato da due labbra graziose, suona armoniosamente ». 4 E quelle « labbra graziose », che contribuiranno a far sì che Eduard si riveli tutt’altro che « custode della propria casa », non si faranno aspettare.  

























In conclusione ci si deve ancora chiedere quale sia lo scopo che Goethe vuole raggiungere con questo incipit così particolare. Raramente nella ‘prima frase’ di un’opera emerge altrettanto chiaramente che è il nome a costituire il personaggio : non aver alcun nome « è il non esser vivi », 5 anche nel testo letterario. Per prima cosa abbiamo un noi che pronuncia il nome di Eduard. Dopo che il personaggio, così caratterizzato, viene inserito nel mondo fizionale, gli vengono assegnati due attributi di modo che si possa, al momento della seconda citazione anaforica, presente anch’essa nella prima frase, collegare alla figura letteraria determinate qualità : è un « ricco barone » e si trova « nel fiore degli anni ». Con ciò Goethe pone le basi del mondo immaginario del suo romanzo pur non facendo alcun tentativo di celare l’artificiosità di tale mondo. Attraverso il suo incipit «Eduard – è così che noi chiamiamo […]» Goethe riesce ad esplicitare al lettore, attraverso la sua stessa opera, la convinzione «che il vero in arte ed in natura sono totalmente diversi e che in nessun caso l’artista deve o può aspirare a ricalcare con la propria opera la realtà». 6 È probabile che Goethe abbia sperato in tal modo che il suo pubblico, confrontandosi con un inizio di romanzo così fuori del comune, «non venisse contagiato dalla follia dei contemporanei, che volevano che un’opera d’arte fosse in  















1   M. Schwanke, Name und Namengebung bei Goethe. Computerunterstützte Studien zu epischen Werken, Heidelberg, Winter (« Beiträge zur Namenforschung », n.s., «Supplemento», 38), 1992, pp. 242-250. Cfr. anche R. Berardi, Per una definizione della funzione del nome proprio nel testo letterario : il modello tedesco, in M. G. Arcamone, B. Porcelli, D. De Camilli, D. Bremer (a cura di), Onomastica e Letteratura. iii Incontro di studio di Onomastica e Letteratura, Atti, ViareggioLucca, Mauro Baroni Editore, 1998, pp. 23-34 : p. 29 : « Sono evidenti in Goethe certe reminiscenze onomastiche del suo periodo strasburghese : si consideri la stessa protettrice dell’Alsazia, Santa Odilia, che ben rispecchia il nome del personaggio-cardine delle Wahlverwandschaften, vale a dire Ottilie. ». 2   P. Hankamer, Spiel der Mächte. Ein Kapitel aus Goethes Leben und Goethes Welt, Stoccarda, Metzler, 19605, p. 212. 3   Goethe, Die Wahlverwandtschaften, cit., p. 258. Che Goethe abbia letto senza darne notizia il romanzo di Jean Paul Siebenkäs (1796), nel quale un vero e proprio scambio di nomi fra due amici costituisce la base della trama ? Cfr. V. Kohlheim, Die Funktion des Namens bei Jean Paul, « il Nome nel testo », viii, 2006 (= Atti del xxii Congresso Internazionale di Scienze Onomastiche, Pisa, 28 agosto - 4 settembre 2005), pp. 445-453 ; Idem, Der Eigenname bei Jean Paul : seine Funktion, seine Problematik, « Beiträge zur Namenforschung », n.s., xli, 2006, pp. 439-466. 4   Idem, Die Wahlverwandtschaften, cit., p. 259. 5   D. De Camilli, Itinerari napoletani di Paul Heyse, « il Nome nel testo », vi, 2004, pp. 55-69 : p. 55. 6   J. W. Goethe, Über Wahrheit und Wahrscheinlichkeit der Kunstwerke. Ein Gespräch (1798), in E. Trunz (a cura di), Goethes Werke. Hamburger Ausgabe in 14 Bänden, vol. 12, Monaco di Baviera, C. H. Beck, 19788, pp. 67-73 : p. 70.  





































la nominatio nelle affinità elettive di goethe

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tutto e per tutto simile alla realtà ». L’identificazione del lettore con la figura di ‘Eduard’ viene senza dubbio resa difficile da questo inizio di romanzo, ma non è certo questo che il tardo Goethe tenta di ottenere con la sua concezione classica dell’arte.2 Tuttavia il personaggio riceve una propria fisionomia attraverso la nominatio e l’attribuzione di determinate qualità ; ed al tempo stesso Goethe, fornendo al lettore un nome che fin dall’inizio si rivela falso sia nella realtà sia per quel che concerne le qualità che il suo personaggio millanta – Eduard è infatti tutt’altro che ‘custode della sua proprietà’ –, riesce a far sì che la fiducia che il lettore ripone in questa figura, dominata fortemente da sotterranei poteri ‘demoniaci’, venga sin dall’inizio totalmente a mancare.  

1



1   Idem, Über Laokoon (1798), in E. Trunz (a cura di), Goethes Werke. Hamburger Ausgabe in 14 Bänden, vol. 12, Monaco di Baviera, C. H. Beck, 19788, pp. 56-66 : 57 sg. 2   « Lasciar agire su di sé le opere d’arte come fossero prodotti della natura » è un enunciato che, alla luce di Dichtung und Wahrheit, viene considerato quale manifestazione di immaturità giovanile ! Cfr. F. Jannidis, Figur und Person. Beitrag zu einer historischen Narratologie, Berlino-New York, de Gruyter, 2004 (« Narratologia », 3), p. 230.  











La maschera dimenticata e La berretta di Padova: lo stigma del soprannome e altre osservazioni onomastico-letterarie su due novelle pirandelliane Pasquale Marzano Se il nome « è una cosa seria »  



N

ella narrativa di Pirandello non sono rari i casi di personaggi inchiodati al loro destino da un nome o un soprannome sgradevole, non amato o semplicemente non corrispondente all’animo di chi è costretto a portarlo. Alcuni soccombono alla loro sorte onomasticamente predeterminata senza lagnarsene, mentre altri si ribellano, tentando di neutralizzarne gli influssi nefasti, 1 o scagliandosi con veemenza contro chi si ostina a chiamarli con un dato soprannome o un particolare alterato, accrescitivo o diminutivo, nonostante l’evidente fastidio procurato. Diversi altri si lanciano invece in articolati ragionamenti sull’arbitrarietà del nome proprio, sottolineandone la distanza dalle qualità fisiche e umane dell’individuo o dalle sue condizioni di vita, arrivando perfino a negare il valore assegnato dalla comunità alla trasmissione del nome di famiglia con il matrimonio. 2 Un approccio alla considerazione del nome che, almeno per quanto concerne i romanzi, trova il suo massimo esponente in Vitangelo Moscarda, protagonista di Uno, nessuno e centomila, il quale anela a perdersi e rinascere nella natura, anche per liberarsi così definitivamente dalla trappola del nome da cui è angustiato, che « conviene ai morti », intesi in senso strettamente anagrafico, mentre lui che « non conclude » finalmente non ne avrà più bisogno, perché non morirà che per lo stato civile, perpetuando la propria vita negli elementi. 3  







1   Secondo una prassi consolidata anche nel mondo reale, cfr. F. Dogana, Le piccole fonti dell’io : alcune insospettate origini delle differenze individuali, Firenze, Giunti, 1993, pp. 64-92. 2   Citando un po’ alla rinfusa si potrebbe approntare un breve ma significativo campionario dei tipi menzionati. Valgano come esempio : l’« insipido e scolorito » Ildebrando, che non perdona ai genitori la colpa di avergli imposto un nome in netto contrasto con la propria indole (Pena di vivere così, nella versione del 1937) ; lo straniero Lars Cleen (Lontano, 1902), che a Porto Empedocle diventa « L’arso », soprannome subìto passivamente ; Felicissimo Ramicelli (La balia, 1903), che afferma di non aver mai avuto nulla di cui essere contento nella sua vita, nonostante l’auspicio antroponimico dei genitori ; Bernardo Morasco (Il coppo, 1912), fiero del suo nome, che non si capacita di come la moglie possa chiamarlo « Nardino » ; Bernardo Cambiè (Acqua amara, 1905), che si autodefinisce « Bernardone », perché ‘grosso’ ; Tommasino Unzio (Canta l’epistola, 1911), dall’animo sottile, ma dalla corporatura tanto robusta che al narratore pare sarebbe meglio chiamarlo « Tommasone » ; Vitangelo Moscarda (Uno, nessuno e centomila, 1925), che si lamenta del suo cognome, uno zoonimo che indurrebbe il prossimo ad attribuirgli le qualità dell’insetto dal quale pensa derivi – egli ragiona sull’arbitrarietà del nome, citando anche il caso di un signor Porcu, dal comportamento per niente assimilabile a quello dell’animale al quale potrebbe far pensare ; Biagio Speranza (La signora Speranza, 1903) e Perazzetti (Non è una cosa seria, 1910), che non danno alcun peso alla trasmissione del loro cognome, considerando che in fondo « il nome non è una cosa seria », al pari del loro matrimonio per burla o pura convenzione, che trova poi una clamorosa smentita nei fatti, almeno nel primo caso ; Fileno (La tragedia di un personaggio, 1911), il più ‘sfacciato’ degli scontenti eroi pirandelliani, il quale addirittura se la prende con l’autore, che neanche « il nome ha saputo » dargli. 3   Cfr. L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila, in Idem, Tutti i romanzi, a cura di G. Macchia, con la collaborazione di M. Costanzo e introd. di G. Macchia, 2 voll., Milano, Mondadori (« I Meridiani ») : vol. i, 200011 ; vol. ii, 199810, p. 901. Sull’anelito di anonimia espresso dal personaggio, cfr. A. R. Pupino, Pirandello o l’arte della dissonanza. Saggio sui romanzi, Roma, Salerno Editrice, 2008, pp. 341-343.  























































lo stigma del soprannome in pirandello

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Don Ciccino Cirinciò, « quello del mulino »  



A tale variegata, e in fondo nutrita, schiera di personaggi appartiene a pieno titolo anche don Ciccino Cirinciò, il protagonista della novella La maschera dimenticata (1918), 1 ‘inteso’ quello del mulino, ovvero così soprannominato per un tragico e al tempo stesso ridicolo incidente di caccia che lo ha reso zoppo, segnalando in tal modo anche fisiognomicamente la sua permanente e dolorosa condizione di ferito dalla sorte. 2 La sua sventura sembra irreversibile e totale ; coinvolge infatti sia la sua vita professionale sia quella familiare :  



Si sapeva che da anni e anni non s’immischiava più di nulla, tutto assorto com’era nelle sue sciagure : la morte della moglie e di due figliuoli, la perdita della zolfara dopo una sequela di liti giudiziarie, e la miseria : sciagure che avrebbe fatto meglio a portare in pubblico con dignità meno funebre, perché non spiccasse agli occhi di tutti i maldicenti del paese quel sigillo particolare di scherno con cui la sorte buffona pareva si fosse spassata a bollargliele, se era vero che la moglie gli fosse morta per aver partorito su la cinquantina non si sapeva bene che cosa : chi diceva un cagnolo, chi una marmotta ; e che avesse perduto la zolfara per una virgola mal posta nel contratto d’affitto ; e che zoppicasse così per una famosa avventura di caccia, nella quale invece dell’uccello era volato in aria lui con tutti gli stivaloni e lo schioppo e la carniera e il cane, investito dalle alacce d’un mulino a vento abbandonato sul poggio di Montelusa, le quali tutt’a un tratto s’erano messe a girare da sé ; per cui ormai era inteso da tutti come don Ciccino Cirinciò « quello del mulino ». (Lmd, p. 100)  















L’uomo sopporta con rassegnazione le sue vicissitudini, ma non tollera che lo si chiami « quello del mulino », ossia non sopporta il soprannome che assume un valore di sigillo linguistico dello « scherno » con cui la « sorte buffona » si è divertita a bollarlo :  













Cosa strana : se da qualche malcreato sentiva fare allusione a quel parto della moglie o a quella virgola nel contratto d’affitto, sorrideva triste o scrollava le spalle ; ma nel sentirsi chiamare quello del mulino usciva dai gangheri, minacciava col bastone e urlava che il suo era un paese di carognoni imbecilli. (Lmd, pp. 103-104)  



La ‘nciuria’ è usata in effetti come uno stigma, che identifica in maniera inequivocabile il malcapitato, o lo qualifica come capro espiatorio malgré soi, la cui condizione è appunto emblematicamente racchiusa nel soprannome. 3 La società del suo « paese di carognoni imbe 

1   La novella apparve per la prima volta nel periodico « La Lettura », agosto 1918, fu poi inserita nella raccolta L. Pirandello, Il carnevale dei morti, Firenze, Battistelli, 1919, e successivamente in Idem, In silenzio, Firenze, Bemporad, 1923, versione sulla quale si basano quelle a cura di Lo Vecchio-Musti e Sodini, risalenti al 1937, e l’ultima, ovvero quella che adotterò per tutte le citazioni : L. Pirandello, Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, introd. di G. Macchia, Milano, Mondadori, 19965 (« I Meridiani ») (19871), vol. ii, tomo i, pp. 103-111, d’ora in avanti Lmd, anche se « […] la composizione […] andrebbe datata all’incirca al 1914 » (L. Lugnani, Note a L. Pirandello, Tutte le novelle, 3 voll.: i . 1884-1904, ii. 1905-1913, iii . 1914-1916, a cura di Idem, Milano, bur, 2007: vol. iii, p. 757, nota 1). Come pura coincidenza, si rileva nel romanzo I vecchi e i giovani (1913) la presenza di un Ciccino, Vella, figlio di Francesco Vella, cognome prossimo a quello di Francesco Laleva, di cui è una sorta di anagramma, incluso nella novella in cui compare anche Ciccino Cirinciò. 2   Il soprannome potrebbe quindi essere classificato come ‘proveniente da un aneddoto’, ossia come appartenente all’ultima delle sette categorie soprannominali individuate da Paul Lebel. Gli altri tipi possibili sarebbero i seguenti : provenienti da particolarità fisiche o morali ; risalenti all’origine geografica ; di mestiere ; risalenti all’infanzia ; provenienti da particolarità del linguaggio o da abitudini diverse ; dati per analogia, cfr. P. Lebel, Etudes des surnoms modernes, in Idem, Les Noms de personnes en France, Parigi, Presses Universitaires de France, 1968 (19461), pp. 12-15. L’autore si rifà a un precedente lavoro di L. Logeat, Un coin de l’Auxois, Nan-Sous-Thil et ses environs, Semur, Impr. Générale, 1940, pp. 85-91. 3   Sul soprannome come stigma cfr. I. Putzu, Il soprannome. Per uno studio multidisciplinare della nominazione, introd. di G. Paulis, Cagliari, cuec, 2000, pp. 251-256. Per i rapporti fra comunità e individuo soprannominato e per i vari tipi di motivazione sottesi alla nascita della soprannominazione in tale ambito, si veda tutto il capitolo 4 (ivi, pp. 200-301).  

























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cilli » trova coesione nell’esclusione rituale del pharmakos 1 e proprio per questo desta grande sorpresa e sconcerto la presenza del protagonista in un luogo dove tali « carognoni » sono radunati per un’occasione particolare, ovvero per elaborare la strategia elettorale del figlio di Francesco Laleva, vecchio avvocato di Montelusa 2 al quale don Ciccino ritiene di dover essere riconoscente. Francesco Laleva sarebbe stato, a suo dire, l’unico a spendersi in suo favore in occasione delle liti per la zolfara, intentate con la speranza vana di non perderla. In realtà l’avvocato avrebbe fatto poco o nulla, ma non importa : don Ciccino ci crede e si ritrova così a sostenere, quasi « senza saperlo, senza volerlo », 3 la candidatura del figlio di Laleva, che lo accoglie con benevolenza, ma evidentemente senza sperare di ricavarne un grande aiuto. Diversi interventi di Cirinciò alla prima riunione del Comitato elettorale a cui prende parte mostrano invece in lui una insospettata abilità oratoria, un’indole battagliera e una lucida capacità di afferrare al volo i delicati meccanismi delle elezioni politiche alle porte, qualità che gli consentono di suggerire mosse e azioni efficaci, con grande sorpresa degli astanti e in fondo anche di se stesso. È promosso così a responsabile della propaganda nel difficile comune di Borgetto (Lmd, pp. 106-107), ruolo che svolge con grande successo, sospinto soprattutto dalla necessità di colmare il vuoto interiore in cui sembra svanire la sua esistenza, ma anche dalla probabile rinascita di energie vitali e giovanili che le sventure subite lo hanno indotto a sopprimere : 4  













Fu per il bisogno di raggiungere e toccare una realtà qualunque nel vuoto strano, in cui quell’avventura impensata lo aveva così d’improvviso gettato ? Vuoto arioso e lieve, nel quale tutti gli aspetti nuovi, d’uomini e di cose gli apparivano come in una luce di sogno, nella freschezza di quell’azzurro di marzo corso da allegre nuvole luminose ? O fu per il prorompere di tante energie ancor vive e ignorate, da anni e anni compresse in lui, soffocate dall’incubo delle sciagure ? Energie giovanili, intatte, che lo avrebbero portato chi sa dove, chi sa a quali imprese, a quali vittorie, se la sua vita non si fosse chiusa come s’era chiusa nel lutto di quelle sciagure ? (Lmd, p. 107)  







La vita è altrove 5 Lo « scherno » con cui la « sorte buffona » si è « spassata » a bollargli le sue sciagure pare ormai dimenticato e la novella raggiunge quello che si potrebbe definire il suo « punto della morte rituale » 6 rovesciato, ossia propone una situazione in cui tutto pare procedere per il meglio. I risultati dell’impegno politico di Ciccino Cirinciò ne fanno un altro uomo, a cui il destino  















1   Ossia del personaggio che svolge la funzione di capro espiatorio, o vittima scelta arbitrariamente dalla comunità per rinsaldare i propri vincoli sociali, cfr. N. Frye, Anatomia della critica. Quattro saggi [1957], trad. it., Torino, Einaudi, 19693, pp. 56-57. 2   Toponimo che in origine designava una contrada della costa agrigentina, ma reinventato da Pirandello per ambientarvi diverse delle sue opere : i suoi confini coinciderebbero grossomodo con quelli di Agrigento. Cfr. il paragrafo Un luogo emblematico, in E. Lauretta, Luigi Pirandello. Storia di un personaggio “fuori di chiave”, Milano, Mursia, 2008 (19801), pp. 8-10. Per quanto concerne i luoghi delle opere pirandelliane si veda più diffusamente il capitolo Habitat, ivi, pp. 5-32. Il Montelusa di Pirandello ha recentemente assunto nuova vita grazie a Camilleri, che lo ha reso celebre ambientandovi diversi romanzi, cfr. A. Camilleri, Biografia del figlio cambiato, Milano, bur, 2000, p. 37, ma anche L. Rosso, Conversazione con Andrea Camilleri, Reggio Emilia, Aliberti, 2007, p. 38, dove Camilleri confessa il ‘furto’. 3   Locuzione adoperata non a caso, visto il suo uso frequente nell’opera pirandelliana e il suo possibile valore, che rinvierebbe a una sorta di poetica leopardiana, cfr. B. Stasi, Apologie della letteratura. Leopardi tra De Roberto e Pirandello, Bologna, il Mulino, 1995, pp. 246-248 e passim. 4   A tal proposito è interessante un confronto operato da Lugnani, secondo il quale tale condizione di « vuoto » sperimentata da Cirinciò rinvierebbe « addirittura al 1902 e al remoto ascendente de Il dovere del medico […] » (Lugnani, Note, cit., vol. iii, p. 758, nota 12). 5   Rubo qui solo il titolo a un celebre romanzo di Kundera (M. Kundera, La vie est ailleurs, Parigi, Gallimard, 1973). 6   Frye, Anatomia della critica, cit., p. 237.  









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consente di rinascere a nuova vita in un luogo diverso, dove nessuno lo conosce, anzi, proprio per tale ragione, come sottolinea più volte il narratore :  

Il fatto è che operò miracoli in quel paesello dove nessuno lo conosceva. E certo perché nessuno lo conosceva. […] Non pensò più neanche d’aver una gamba zoppicante. Non gli faceva più male. […] Era come se cominciasse ora la vita. […] Arrivò così al giorno della vittoria che pareva un altro, ricreato in quell’aura di popolarità, tra gente nuova, in un paese nuovo, preso d’assalto, messo sottosopra e conquistato in pochi giorni. (corsivo mio, Lmd, pp. 107-108)

Quello del mulino sembra ora solo un lontano ricordo montelusano, se guardato « con altri occhi », da una distanza fisica, reale, ossia non attraverso un ideale e filosofico « cannocchiale rovesciato », strumento a cui si appella invece il dottor Fileno, un altro celebre personaggio pirandelliano scontento del suo nome e della sua vita « di carta ». 1  











Ascesi e caduta Come spesso accade ai ‘poveri cristi’ pirandelliani, però, si tratta di uno stato di grazia destinato a svanire ben presto, 3 e Cirinciò ne è vagamente cosciente perfino quando si appresta a celebrare la vittoria di Laleva, ma anche e soprattutto la propria : 2



[…] si presentò raggiante nella vasta sala del Circolo dei « civili » dove era imbandita una splendida mensa in suo onore ; per quanto già gli apparissero evidenti i segni della stanchezza nella vecchia maschera dimenticata. (corsivo mio, Lmd, p. 109)  





Sono ‘segni’ premonitori, che trovano immediato riscontro nel successivo ed epifanico incontro con un luciferino ometto, conosciuto a Montelusa, dove l’altro se stesso è stato bollato come quello del mulino e tale resterà per sempre. L’incantesimo in cui don Ciccino ha vissuto la campagna elettorale si rompe infatti traumaticamente proprio con la riproposizione del suo soprannome, che assume quasi la forza di una formula magica, del cui potere Cirinciò prende definitivamente coscienza, accettandola stavolta senza ribellarsi, come se fosse una sorta di epigrafe posta sulla sua disperata volontà di modificare il proprio destino :  

[…] quell’ometto che seguitava a fissarlo, e ora - ecco - allungava il collo verso di lui, con l’indice teso come un’arma presso uno di quegli occhietti diabolici, quasi a prender la mira, e gli domandava : - Ma scusate, non siete don Ciccino Cirinciò, voi ? Non era sul nome la domanda. Non potevano capirlo gli altri ; ma lui, sì, Cirinciò lo intese benissimo. [corsivo mio] Che quegli fosse don Ciccino Cirinciò, glielo dovevano aver detto e ripetuto tutti cento volte, a quell’ometto. Ma appunto di questo non riusciva a capacitarsi quell’ometto : che cioè don Ciccino Cirinciò ch’egli tempo addietro aveva conosciuto, fosse questo che ora gli stava davanti... Questo ? Possibile !  











1   Cfr. L. Pirandello, La tragedia di un personaggio, in Idem, Novelle per un anno, cit., vol. i, tomo i, pp. 816-824. Le sue argomentazioni sul mutamento di prospettiva rispetto a stati o fatti sgradevoli, ottenibile rovesciando appunto il « cannocchiale » da cui si guardano le cose vicine, rendendole così lontane, ricordano, mutatis mutandis, le considerazioni sull’invenzione del telescopio contenute nell’Umorismo (cfr. L. Pirandello, L’umorismo, in Idem, Saggi, poesie, scritti varii, Milano, Mondadori, 19935, pp. 15-160 : pp. 156-157). 2   Espressione citata con riferimento a un modo di dire caro a Pirandello, cfr. C. Alvaro, Prefazione a L. Pirandello, Novelle per un anno, a cura di Lo Vecchio-Musti, Milano, Mondadori, 1957, ora in Pirandello, Novelle per un anno, cit., vol. i, tomo ii, pp. 1073-1092 : p. 1077. 3   Analogo processo di ascesi e caduta è vissuto, p. es., dal professor Cosmo Antonio Corvara Amidei, protagonista di Va bene (1905).  







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- Quello del mulino ? [corsivo nel testo] 1 Sì, sì, quello del mulino... Aveva ragione ! Non era credibile ! Cirinciò adesso tutt’a un tratto lo riconosceva anche lui.  





(Lmd, pp. 110-111)

La menzione del soprannome esplica una ‘funzione catalizzatrice’ nell’azione distruttiva dell’agnizione, che ristabilisce l’equilibrio iniziale e ri-assegna al pharmakos il suo ruolo abituale, inducendolo a indossare di nuovo ‘la maschera dimenticata’. Lo scambio di battute con l’anonimo ometto rivela in effetti come l’apparente rinascita del protagonista sia stata una semplice « parentesi » 3 in un percorso segnato dalla sconfitta e dall’irrisione : 2







Non era credibile, non appariva più credibile neanche a lui stesso, che quello del mulino, lui, proprio lui, potesse trovarsi lì, in mezzo a quella festa, e che avesse potuto fare tutto quel che aveva fatto, senza saperne più il perché. 4 (corsivo mio, Lmd, pp. 110-111)

Il susseguente crollo psicologico di Cirinciò è totale, il suo « spirito » è « assente », « lontano », tanto da indurre gli abitanti di Borgetto a chiedersi « la ragione di un mutamento così improvviso » e a sospettare che sia « un imbroglione, un miserabile impostore venuto a mistificarli » (Lmd, p. 111).  



















Nome, cognome e intertestualità La connotazione negativa del soprannome e il suo peso nello sviluppo della narrazione sono dunque palesi, 5 ma non sembra si possa dire altrettanto di nome e cognome, che si potrebbero definire privi di un valore altrettanto dileggiativo, caratterizzante, o umoristico, 6 almeno a una prima e superficiale lettura, limitata al solo testo in questione. Basta però affidarsi alle parole del narratore di una precedente novella di Pirandello, La berretta di Padova (1902), 7 per scoprire che non è affatto così, quando la voce narrante si sofferma sul soprannome del protagonista, Cirlinciò, che differisce da Cirinciò solo per l’aggiunta di una consonante : 8  

[…] il berrettajo che le vendeva [le berrette di Padova], zimbello di tutta Girgenti allora, perché dei tanti anni passati in quel commercio pare non avesse saputo ricavare altro guadagno che il nomignolo 1   Da notare che questa è l’unica occorrenza in corsivo, su cinque globali, del sintagma nominale quello del mulino. È pur vero che qui il narratore riporta un’allocuzione diretta, ma questo accade anche in altre parti del testo senza che l’autore abbia sentito il bisogno di evidenziarle con il corsivo. 2   La funzione narrativa alla quale mi riferisco consiste nella semplice menzione di un nome in un luogo particolare del testo, con la conseguente accelerazione e conclusione di un processo narrativo di cui fossero già visibili i segni. Può essere esercitata anche dai cosiddetti Nicht-redende Namen. A tal proposito mi permetto di rinviare, per brevità, al mio Le funzioni narrative dei nomi asemantici, Atti del x Convegno internazionale di « Onomastica & Letteratura » (Pisa, Università degli Studi, 19-20 febbraio 2004), « il Nome nel testo », vii, 2005, pp. 77-92. 3   Parentesi sarebbe infatti stato il titolo di una delle prime versioni della novella, destinata al « Corriere della Sera », ma non pubblicata, cfr. Lugnani, Note, cit., vol. iii, p. 757, nota 1. 4   Cfr. supra, nota relativa alla locuzione « senza volerlo, senza saperlo ». 5   Non mi soffermo qui, per ragioni di spazio, sulla probabile allusione al modello di Cervantes e del Don Chisciotte, visto l’impatto del protagonista con un mulino a vento, tanto importante da diventare l’elemento centrale del suo soprannome, ma considerando anche l’interesse per l’autore spagnolo dimostrato da Pirandello nel saggio sull’Umorismo (1908). Per il legame della novella con l’opera di Cervantes, cfr. il capitolo Pirandello, Cantoni e Cervantes, in F. Zangrilli, Pirandello e i classici. Da Euripide a Verga, Fiesole (Fi), Cadmo, 1995, pp. 158-174, o anche, più estesamente, il successivo, Idem, Le sorprese dell’intertestualità : Cervantes e Pirandello, Torino, sei, 1996. Un cenno al medesimo tema è presente anche in Lugnani, Note, cit., vol. iii, p. 758, nota 6. 6   Inutile forse esplicitare il fin troppo ovvio rinvio al noto saggio pirandelliano (Pirandello, L’umorismo, cit.). 7   Pubblicata per la prima volta su « Il Marzocco » del 23 febbraio 1902, ora in Pirandello, Novelle per un anno, cit., vol. i, tomo ii, pp. 900-909, d’ora in avanti, LbdP. 8   Prossimità già rilevata da altri studiosi, fra i quali, più recentemente, Lugnani, cfr. Idem, Note, cit., vol. iii, p. 757, nota 2.  





















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di Cirlinciò [corsivo nel testo], che in Sicilia, per chi volesse saperlo, è il nome di un uccello sciocco. [corsivo mio] Si chiamava veramente don Marcuccio La Vela, e aveva bottega sulla strada maestra, prima della discesa di San Francesco. (LbdP, p. 900)

Cirlinciò, ovvero Cirinciò, è in effetti un ornitonimo, cioè il nome dialettale della ‘cinciallegra’, e, pur non essendo un cognome effettivamente attestato in Sicilia, è strettamente connesso a forme cognominali esistenti tuttora, 1 come Ciringione, Cirlingione, Cirrincione, tutte alternative a quella principale, Cirincione, dalla quale sarebbe derivato anche l’equivalente toponimo. 2 Il Dizionario onomastico della Sicilia, dal quale ho tratto le informazioni su Cirinciò e i suoi derivati, non dice nulla però a proposito del senso ulteriore che avrebbe per i Siciliani, almeno secondo quanto afferma il narratore della novella di Pirandello, che attraverso i due zoonimi adottati come soprannome, per Marcuccio La Vela, e cognome, per Don Ciccino, istituisce un interessante collegamento fra i due protagonisti, ma anche fra La berretta di Padova e La maschera dimenticata. 3 In aggiunta a tali osservazioni, mi sembra opportuno rilevare come Laleva, cognome di due personaggi nella Maschera dimenticata, sia l’anagramma perfetto di La Vela, nome di famiglia di Marcuccio (La berretta di Padova), e si possa perciò considerare un segno ulteriore del legame onomastico-intertestuale esistente fra le due novelle, 4 pur tenendo conto della cautela a cui si è tenuti in casi del genere, 5 ma senza dimenticare la lezione di Starobinski, che invita a non trascurare la presenza degli anagrammi nel testo, senza preoccuparsi troppo di distinguere se siano il prodotto di un’attività cosciente dell’autore o un « effetto del caso ». 6 Non si può giurare sulla intenzionalità del passaggio dei dati onomastici da una novella all’altra, 7 ma il legame intertestuale fra le novelle è fuori discussione e si arricchisce di altri elementi di carattere onomastico-linguistico, o narrativo, dei quali sarà bene fare menzione. 8  



1   Come confermato da ricerche effettuate sul sito web www.paginebianche.it in data 30.12.08, da cui risultano le seguenti occorrenze in Sicilia, escludendo aziende e istituzioni : 0 di Cirinciò e Cirlinciò, 185 di Cirrincione (284 in Italia), 89 di Cirincione, 23 di Ciringione, 18 di Cirlincione. Si rileva anche la presenza di due Cirincio, ma in provincia di Milano. 2   Cfr. G. Caracausi, Dizionario onomastico della Sicilia, 2 voll., Palermo, Centro di studi filologici e linguistici siciliani, 1993 : vol. 2, p. 407. 3   Gli zoonimi non sono rari nell’opera di Pirandello e nemmeno gli animali : cfr. F. Zangrilli, Il bestiario di Pirandello, Fossombrone, Metauro Edizioni, 2001, ma anche E. Bacchereti, La maschera di Esopo. Animali in favola da Pirandello a Sciascia, in E. Biagini, A. Nozzoli (a cura di), Bestiari del Novecento, Roma, Bulzoni, 2001, pp. 21-73. Si tratta del resto di una rilevante parte del sistema onomastico italiano, cfr. M. G. Arcamone, Cognomi italiani da nomi di animali, « Rivista Italiana di Onomastica », i, 1995, 1, 12-22. 4   Il gusto di Pirandello per etimologie fantasiose e anagrammi, a partire da quelli concernenti il proprio nome, potrebbe giustificare una simile ipotesi. Si vedano p. es. gli articoli firmati con lo pseudonimo Giulian Dorpelli (cfr. G. Macchia, I rischi e i vantaggi dello pseudonimo, in Idem, Pirandello o la stanza della tortura [1992], Milano, Mondadori, 2000, pp. 141-150). Per qualche esempio di possibili anagrammi basati sui nomi dei personaggi, con relative interpretazioni, cfr. B. Porcelli, Misura e numero nell’onomastica di alcune novelle pirandelliane, in Idem, In principio o in fine il nome. Studi onomastici su Verga, Pirandello, e altro Novecento, Pisa, Giardini, 2005, pp. 76-77, 127-128 e passim. 5   Emblematiche a tal proposito le osservazioni sugli studi di De Saussure contenute in L. Doležel, Poetica occidentale. Tradizione e progresso, trad. it., Torino, Einaudi, 1990, pp. 148-155. 6   Cfr. J. Starobinski, Le parole sotto le parole. Gli anagrammi di Ferdinand de Saussure, trad. it., Genova, Il Melangolo, 1982, p. 147. 7   Una prassi testimoniata anche dal Taccuino di Harvard, in cui sono menzionati diversi antroponimi destinati a specifici personaggi di future novelle, che poi risultano assegnati a personaggi presenti in opere affatto diverse (L. Pirandello, Taccuino di Harvard, presentazione di D. Della Terza, a cura di O. Frau e C. Gragnani, Milano, Oscar Mondadori, 2000). Tutto questo senza contare i personaggi che cambiano nome in edizioni successive delle stesse novelle, che pure non mancano. 8   La riproposizione dei medesimi temi ed elementi linguistici in due o più novelle non è rara, tanto da indurre a parlare di « racconti gemelli », cfr. E. Grimaldi, Il labirinto e il caleidoscopio. Percorsi di letture tra le “Novelle per un anno” di Luigi Pirandello, Soveria Mannelli (Cz), Rubbettino, 2007, pp. 73-167.  













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pasquale marzano Volatili : rimotivazione di nomignoli e nomi semantici  

Marcuccio La Vela condivide con Cirlinciò un’importante caratteristica : non sopporta di essere ‘bollato’ con un soprannome, che ne sottolinea la debolezza di carattere, considerata evidentemente una sorta di vizio morale per i suoi debitori e per la società in cui vive. Inoltre, anch’egli tenta di avere un atteggiamento che annulli il valore di stigma della ‘nciuria’, ma poi soccombe ugualmente :  



Don Marcuccio La Vela sapeva di quel suo nomignolo e se ne stizziva molto ; ma per quanto poi si sforzasse di fare il cattivo e di mostrarsi corrivo a riavere il suo, non solo non gli veniva mai fatto, ma ogni volta alla fine era una giunta al danno perché, impietosendosi alle finte lagrime dei debitori maltrattati, per compensarli dei maltrattamenti, oltre la berretta ci perdeva qualche pezzo di dodici tarì porto sottomano. (LbdP, p. 900)  

La storia di Cirlinciò ha un indubbio carattere boccacciano, 1 almeno dal punto di vista della fabula, che è il caso di riassumere brevemente. Cirlinciò si fa convincere da Lizio Gallo a prestargli una berretta : gli serve, a suo dire, per fare bella figura con una persona di rilievo dalla quale si appresta a ottenere un beneficio economico, che gli consentirà di pagare parte dei suoi debiti, compresi quelli contratti con Cirlinciò. 2 Questi cede alla richiesta, ma resta ‘gabbato’, perché Lizio si finge morto per sfuggire ai creditori e si fa portare in chiesa con la berretta in testa, che ha promesso a uno dei portantini, suo complice, come si scopre alla fine. Cirlinciò tenta di recuperare il maltolto facendosi chiudere in chiesa, in attesa di restare solo con il ‘defunto’. La sua stessa idea l’hanno avuta però anche altri due personaggi e il sagrestano, che s’impossessa del copricapo conteso, scatenando le ire del finto morto, il quale alla fine lo restituisce allo spaventatissimo Cirlinciò, che recupera la berretta, ma ci perde definitivamente la faccia. La scena finale ricorda molto da vicino quella conclusiva delle vicende di Andreuccio da Perugia, 3 ma « ricalca fin nel titolo » la storia narrata in una novella popolare pubblicata in siciliano da Pitré e raccolta nel volume di Fiabe italiane a cura di Calvino, 4 come rileva Salibra, che discutendo della rimotivazione nelle novelle pirandelliane, sostiene :  







Possiamo […] parlare di rimotivazione laddove il nomignolo è ravvivato da un contesto che ne potenzia la portata metaforica. […] In zimbello, pur usato in senso traslato, rimane vivo il significato di ‘uccello da richiamo’, che si ricollega appunto a Cirlinciò. Poco più oltre la metafora viene in qualche modo ripresa : « Le berrette intanto volavano da quella bottega come se avessero le ali ». 5  





Su tale scia viene allora spontaneo tornare sulla sventura venatoria all’origine del soprannome di Cirinciò, proprio perché, nomen atque omen, « invece dell’uccello era volato in aria lui […], investito dalle alacce di un mulino » (corsivo mio, Lmd, p. 100). Si tratta dunque di un nome  



1   A proposito del legame di Pirandello con l’opera di Boccaccio, fra i tanti che l’hanno segnalato, cfr. Zangrilli, Pirandello e i classici, cit., pp. 9-20. 2   Si ricorda, solo per curiosità, che anche Lizio ha un sapore vagamente boccacciano, essendo il nome di un personaggio del Decameron (giorn. v, nov. iv), che però ha poco a che fare con quello pirandelliano. Lo stesso prenome è stato adoperato da Pirandello anche per Luca Lizio, personaggio del romanzo I vecchi e i giovani (1913). 3   G. Boccaccio, Decameron, giorn. ii, nov. v. Non sfugga a tal proposito la comune terminazione in -uccio di Andreuccio e Marcuccio. 4   Cfr. L. Salibra, Il “nome etichetta” nelle novelle di Pirandello, in Eadem, Lessicologia d’autore : studi su Pirandello e Svevo, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1990, pp. 107-171 : p. 136, nota 56. 5   Ivi, pp. 135-136. La Salibra non rileva però la compresenza di un altro ornitonimo, ovvero Gallo, che rientra più o meno nello stesso campo semantico di Cirlinciò, ma vi si oppone, almeno da un punto di vista metaforico, e caratterizza l’attitudine sfrontata e prevaricatrice del personaggio.  



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non solo semantico, ma rimotivato. Anche il significante però, a ben vedere, svolge un ruolo non secondario nella caratterizzazione del personaggio e sarà il caso di spenderci qualche parola prima di concludere. Significanti In quello che si può considerare il primo, brevissimo, abbozzo della Maschera dimenticata compaiono già insieme i due cognomi Cirinciò e Laleva, entrambi senza prenome.1 Il primo assumerà poi quello di Ciccino, laddove il secondo non ne acquisirà alcuno, per quanto concerne il personaggio del deputato, mentre il padre di quest’ultimo si chiamerà Francesco, per certi versi una sorta di ‘doppio’ onomastico di Ciccino, che è l’ipocoristico (Ciccio) suffissato (Ciccino) di Francesco. 2 Il contenuto dello scartafaccio pirandelliano induce a ritenere che Ciccino sia stato aggiunto al cognome in un secondo momento, configurandosi come il probabile frutto di una scelta consequenziale e non casuale, tesa a rinforzare l’allitterazione già prodotta dal cognome Cirinciò, che risulta così raddoppiata, senza dimenticare che tutte le lettere contenute in Ciccino sono già presenti nel cognome, inclusa la o finale, priva di accento nel prenome. Inoltre, la sequenza multipla di ci potrebbe non essere fine a se stessa, ma alludere onomatopeicamente al cinguettio del Cirlinciò, ossia dell’« uccello sciocco » al quale l’autore fa riferimento nella prima delle due novelle. Allitterazioni e nomi particolarmente lunghi o pomposi, in contrasto con la ridotta dimensione corporea dei personaggi o con la miseria della loro condizione, sono tipici della novellistica pirandelliana 3 e mirano decisamente al sorriso del lettore. Basti pensare all’esempio di Amina Berardi del fu Francesco, vedova Vismara, ridotta a una ormai impalpabile presenza fisica, una piuma, che contempla quasi divertita « quel lungo nome goffo », com’ella stessa osserva riflettendo sulla propria firma. 4 Non sono da meno gli antroponimi Giannantonio Cocco Bertolli (La signora Speranza, 1903) e Cosmo Antonio Corvara Amidei (Va bene, 1905), che declinati in tal modo si configurano come membri di un significante degno di ilarità non solo, o non tanto, per l’allitterazione, ma proprio per la sua abnorme estensione, in comico contrasto con la modestia dei personaggi, 5 figure di poveri cristi perseguitati dalla sorte, in fondo omologhi di Ciccino Cirinciò. 6  







«Repetita risum movent» L’effetto comico si può creare o moltiplicare con l’iterazione, meccanismo tipico del riso ; 7 ma accanto alla ripetizione di grafemi/fonemi e sillabe, bisogna considerare pure quella  

1   Cfr. L. Pirandello, Taccuino segreto, a cura e con un saggio di A. Andreoli, Milano, Mondadori, 1997, p. 89. Il frammento è introdotto dal titolo L’uomo che s’è scordato d’esser “lui”. 2   È noto che la categoria del ‘doppio’ occupa un posto di rilievo nella poetica pirandelliana ; cfr. J.-M. Gardair, Pirandello e il suo doppio, trad. it., presentazione di G. Macchia, a cura di G. Ferroni, Roma, Abete, 1977. 3   Cfr. B. Porcelli, Misura e numero nell’onomastica di alcune novelle pirandelliane, in Idem, In principio o in fine il nome, cit., pp. 97-108. 4   L. Pirandello, Piuma, in Idem, Novelle per un anno, cit., vol. iii, tomo i, p. 494. 5   L’allitterazione può svilupparsi fra prenome e cognome, come per es. accade con Martino Martinelli (La signora Speranza, 1903), o all’interno dei singoli componenti dell’etichetta onomastica completa, come si verifica nel caso di Giannantonio Cocco (ibidem). Per alcuni esempi di analoghi fenomeni in altre opere di Pirandello, cfr. Porcelli, In principio o in fine il nome, cit., pp. 75, 100. 6   Tra l’altro, anche Cocco potrebbe essere considerato un ornitonimo e alludere alla follia del personaggio, visto che De Felice lo segnala fra le « forme regionali o alterate per cucco, “cuculo” ; uomo molto vecchio, rimbambito » (E. De Felice, Dizionario dei cognomi italiani [1978], Milano, Mondadori, 1992, p. 104). Lo stesso Corvara, del resto, potrebbe derivare da uno zoonimo, ossia da corvo, cfr. ivi, p. 108. 7   Cfr. H. Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico [1924], trad. it., Milano, bur, 1991, pp. 88-90, che propone diversi esempi tratti dall’ambito teatrale. Sui meccanismi del comico nell’arte narrativa cfr. invece V. Ja. Propp, Comicità  







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concernente l’etichetta onomastica nella sua totalità e il numero delle sue occorrenze nel testo. Essa può ricorrere infatti una o più volte ed essere più o meno ricca, omogenea o ampia. La differenza nell’estensione del segno è determinata da diversi fattori, come p. es. l’esigenza di presentare un personaggio nuovo, che al suo primo apparire godrà generalmente di un’etichetta più estesa (titolo, nome, cognome, eventuale soprannome), che consenta di identificarlo successivamente anche con una di entità ridotta (prenome, ipocoristico, oppure soprannome). Pirandello però si sottrae spesso a tale convenzione, riproponendo l’etichetta onomastica completa, anche quando le esigenze della comunicazione narrativa e quella della leggibilità del testo non lo richiederebbero. Così facendo ottiene effetti di stile che vanno dalla messa ‘in rilievo’ del personaggio 1 alla sua messa in ridicolo, come accade per don Ciccino Cirinciò, un caso a suo modo esemplare. Nella novella che lo vede protagonista, infatti, si contano dodici occorrenze di Cirinciò, due di don Ciccino, cinque di quello del mulino, di cui solo la prima segue immediatamente il nome e cognome, e ben otto di don Ciccino Cirinciò, distribuite in varie parti del testo, ma concentrate soprattutto nelle prime pagine (cinque) e nell’explicit (tre), ovvero laddove si presume sia maggiore l’attenzione del lettore. 2 Parafrasando Pirandello, si potrebbe dire che tale genere di ripetizione produce un comico « avvertimento del contrario », 3 ossia è il contrario di ciò che sarebbe lecito aspettarsi dopo la presentazione iniziale del personaggio, fatte salve le esigenze stilistiche della variazione (variatio delectat), che si potrebbero soddisfare alternando cognome, prenome, pronomi e/o soprannome. Insomma, qui l’iterazione non è stimolata dal motto repetita iuvant, ma piuttosto dall’idea che «“repetita” risum movent». Così, attraverso un tale uso del nome, anche il lettore è indotto a ridere, o sorridere, del « povero Cirinciò » (Lmd, p. 105), associandosi ai compaesani del personaggio, 4 ma con la coscienza amara e umoristica che nasce dalla riflessione 5 sul suo destino di perenne sconfitto.  







e riso [1976], trad. it., Torino, Einaudi, 1988. Per una tipologia più o meno esaustiva del risibile, cfr. J. Sully, Essai sur le rire, ses formes, ses causes, son développement et sa valeur [1902], trad. dall’inglese di L. e A. Terrier, Parigi, Alcan, 1904, ma anche F. Ceccarelli, Sorriso e riso. Saggio di antropologia biosociale, Torino, Einaudi, 1988, pp. 154-15­6 e 161-174. Lo stesso Sully è citato da Pirandello, ma solo per far notare che alcune delle caratteristiche dell’umorismo individuate da Sully « non si trovano in tutti gli umoristi » (Pirandello, L’umorismo, cit., p. 122). 1   Cfr. Salibra, Il “nome etichetta” nelle novelle di Pirandello, cit., p. 147. 2   Con una dispositio rispettosa del cosiddetto « ordine nestoriano », cfr. B. Mortara Garavelli, Manuale di retorica, 3   Pirandello, L’umorismo, cit., pp. 127 e 160. Milano, Bompiani, 1989, pp. 106-107. 4   Lo scherno che colpisce sia La Vela sia Cirinciò assume la forma di una punizione rituale, con cui la comunità li colpisce per la loro inettitudine e incapacità di uniformarsi positivamente alle regole di condotta e ai modelli imposti dal loro gruppo sociale. Sul valore del riso in alcune novelle pirandelliane, cfr. R. Luperini, Il riso di Pirandello, in Idem, 5   Cfr. Pirandello, L’umorismo, cit., p. 127. Pirandello, Roma-Bari, Laterza, 20002, pp. 164-172.  







NEL NOME DEL DIO. FEDE, RAGIONE ED ETIMOLOGIA NELLE BACCANTI DI EURIPIDE Maria Serena Mirto

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ra le tragedie di Euripide, le Baccanti sembrano orientate più di altre a drammatizzare il modo in cui l’intellettualismo si misura con la religione, e ci consegnano l’ultima testimonianza dell’indagine inquieta sul rapporto tra fede e ragione nell’opera del poeta definito, sin dall’antichità, « il filosofo della scena ». 1 È un giudizio riduttivo, spesso citato quando si presenta Euripide come portavoce superficiale del dibattito sofistico contemporaneo – a sua volta tacciato di veicolare falsa sapienza – negando così la serietà del suo impegno drammatico che non sarebbe all’altezza degli altri due grandi tragici. Un esempio concreto può evidenziare tuttavia l’intimo intreccio fra invenzione drammaturgica e critica del mito, e a questo scopo prenderò in esame la strategia che fa leva sul senso etimologico del nome e degli epiteti del dio Dioniso, affidato a focalizzazioni diverse lungo il testo delle Baccanti. Spero così di metterne in luce l’interesse cruciale per comprendere la dialettica fra coro e personaggi in relazione al culto dionisiaco : lungi dall’essere solo una cassa di risonanza delle teorie sul linguaggio dei sofisti, l’etimologia qui diventa una risorsa per illustrare sia la vitalità della fede popolare, sia l’incontro, non necessariamente ostile, tra la coscienza critica che si apre al relativismo dei valori e la particolare forma religiosa rappresentata dalle iniziazioni dionisiache. Nelle Baccanti Penteo, il giovane sovrano che detiene il potere nella città di Tebe, diffida del successo popolare del nuovo dio e ne rinnega la nascita miracolosa da Zeus e da Semele, sorella di sua madre Agave e figlia del capostipite della dinastia tebana, Cadmo. Ora Dioniso in persona, assunte le sembianze esotiche di sacerdote itinerante del proprio culto orgiastico, torna in patria dall’oriente per diffondere i riti bacchici anche in Grecia e per punire con il delirio le sorelle della madre. Loro per prime, infatti, non hanno voluto credere allo straordinario concepimento di quel figlio divino, all’atroce evento della sua nascita prematura – strappato al grembo di Semele, incenerita dal fulmine dopo aver chiesto al dio di apparirle nello splendore della sua maestà – e non hanno esitato a diffamarla : Zeus l’avrebbe uccisa deliberatamente, per punirla del suo vanto blasfemo. La necessità di proteggere Semele dal disonore avrebbe indotto secondo le sorelle il vecchio Cadmo a escogitare una menzogna, mascherando così la sua relazione illecita con un comune mortale : attribuire a Zeus la paternità del figlio che ne sarebbe nato equivaleva, infatti, ad alimentare il prestigio della casa regnante. Il miracolo della gestazione di Dioniso, che Zeus salva dal rogo in cui Semele ha perso la vita e che poi cuce all’interno della sua coscia, finché non sia maturo per una seconda nascita, viene considerato dunque da Penteo un’ignobile menzogna, sulla quale lo straniero fa leva per diffondere il nuovo culto approfittando della credulità popolare (vv. 242-245). Due cugini, l’uomo e il dio, si fronteggiano sulla scena da acerrimi antagonisti e mostrano, nei  









1   A partire da Vitruvio, De Architectura, 8, pr. 1 : « Euripides, auditor Anaxagorae, quem philosophum Athenienses scaenicum appellaverunt... ». Per altre testimonianze, antiche e moderne, e una discussione approfondita di questo luogo comune critico, cfr. M. Wright, Euripides’ Escape-Tragedies. A Study of Helen, Andromeda and Iphigenia among the Taurians, Oxford, Oxford University Press, 2005, pp. 226 sg., 235-252.  





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termini consueti di un funesto dissidio familiare ma con lo squilibrio delle rispettive forze, l’implausibilità di un’intesa armonica tra la natura divina e quella umana, almeno quando la procreazione di un figlio ignora la barriera che dovrebbe mantenerle separate. Nelle pieghe del racconto mitico, come spesso nelle elaborazioni euripidee, si cela dunque la sintesi drammatica del rapporto contraddittorio fra l’umanità, con i suoi limiti, e il soprannaturale quale veniva configurato dalla religiosità dei Greci : potente e imperscrutabile, crudele e vendicativo verso chi non ne riconosce la supremazia e si rifiuta di rendergli gli onori dovuti, vicino ai mortali e incline a interferire nelle loro vicende, ma insieme distante e diverso. Nelle Baccanti lo spiccato gusto euripideo per il contrasto fra il nome e il suo referente reale (onoma/soma), particolare declinazione dell’antitesi fra convenzione e natura (nomos/ physis), entra in conflitto con l’esigenza di conciliare le norme ancestrali con il fondamento naturale della religione : questo paradosso sottende il culto dionisiaco che la tragedia descrive rivendicandone, accanto alla novità, l’autorevolezza conferita dal tempo e dalla tradizione. A differenza dei molti esempi in cui, nelle opere precedenti, affiora l’opposizione fra nome e denominato, ora non c’è più l’intenzione di smascherare l’arbitrarietà del linguaggio, evidente in tutti i casi in cui lo stesso nome venga usato per più di un referente creando confusione e disorientamento. I nomi, quelli degli dèi in particolare, designano una realtà che può essere ingannevole, ma possono anche cogliere l’essenza profonda della persona. Quando si tenta di interpretarne il senso la lettura risulta talora inadeguata, ma anche l’etimologia popolare assolve un ruolo nel poliedrico rapporto fra mortali e immortali e, pur in antitesi con il giudizio critico peculiare di tanti personaggi euripidei nei confronti dei racconti tradizionali, rappresenta il modo privilegiato con cui la gente semplice si accosta al culto. Le Baccanti offrono dunque, anche per questo aspetto, un quadro nuovo del rapporto tra fede e ragione, e si vedrà che il giudizio dissacrante viene trasferito dal mythos ai meccanismi di tradizione orale del logos che, con il concorso di malintesi linguistici, finiscono per trasformare la storia di una nascita divina dandole contorni inattesi, agli occhi di un intellettuale persino grotteschi, che tuttavia vanno razionalizzati ma non scherniti. I primi versi della tragedia presentano subito l’assonanza che suggerisce il legame etimologico tra il nome di Dioniso e quello del padre divino (vv. 1 sg.) : « Sono arrivato qui, nella terra dei Tebani, io Dioniso il figlio di Zeus (Dio;~ pai`~ ... Diovnuso~) ». L’accostamento tra il patronimico e il nome del figlio, che vuole vedere riconosciuta la propria discendenza divina, si ripete in modo insistente nel corso della tragedia. 1 L’enfasi sul significato del nome di un dio, del resto, è il tratto distintivo di ogni racconto mitico, della poesia teogonica, della tradizione orfica e pitagorica : indagarne e riconoscerne l’origine e la sfera di competenze si legano in modo indissolubile alla comprensione del suo nome, o meglio della pluralità di nomi che la prassi religiosa associa diffusamente a ogni singola personalità divina, sia per fenomeni di sincretismo, sia quando la riflessione teologica si orienta a ridurre e semplificare il pantheon e occorre giustificare la polionimia esistente. 2 Nella prima parte del nome di Dioniso si distingue dunque il nome di Zeus, ma la seconda parte è più enigmatica, in ossequio a quello che è stato definito un vero e proprio sistema, che prevede una deliberata oscurità e dunque varie e fantasiose esegesi dei teonimi greci. 3 Il coro allude a un nesso etimologico tradizionale nell’epodo del secondo stasimo, quando invoca il dio con gli elementi formali della preghiera perché venga, dall’Olimpo o da qualsiasi altro luogo a lui caro, a punire il  











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  Cfr. vv. 27, 242 sg., 294 sg., 466, 550 sg., 859 sg., 1341 sg.   Si veda D. Gambarara, Alle fonti della filosofia del linguaggio. « Lingua » e « nomi » nella cultura greca arcaica, Roma, Bulzoni, 1984, pp. 168-173. 3   Cfr. W. Burkert, La religione greca di epoca arcaica e classica, trad. it. (seconda ed. ampliata a cura di G. Arrigoni), Milano, Jaca Book, 2003, p. 353 ; per l’etimologia cfr. p. 320 e F. Càssola nella sua introduzione all’Inno omerico a Dioniso (Inni omerici, a cura di F. Càssola, Milano, Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori, 1975, p. 5). 2











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contegno blasfemo di Penteo : in una sequenza verbale ricca di allitterazioni viene menzionato Nisa, il nome – mistico più che geografico – della montagna legata all’infanzia di Dioniso (vv. 556-558) : « Forse a Nisa (Nuvsa~), che alimenta le fiere, tu guidi col tirso i tiasi, o Dioniso (w\ Diovnus∆) ». 1 In questo stesso canto corale – vera e propria cerniera nell’azione drammatica prima del miracolo del terremoto che scuote il palazzo, simbolo della catastrofe di Penteo e della dinastia tebana – il consueto accostamento con il nome di Zeus ricorre nell’antistrofe (vv. 550 sg. : w\ Dio;~ pai``, / Diovnuse), ma nella strofe iniziale si rinvia a un altro nome del dio, quello che lo identifica col suo canto di culto, Ditirambo (vv. 519-529) :  











Figlia dell’Acheloo, veneranda Dirce, vergine benedetta, tu accogliesti nelle tue acque il neonato di Zeus, quando Zeus, che lo aveva generato, lo sottrasse al fuoco immortale per celarlo nella coscia, e gridò così : « Vieni, Ditirambo [ [Iqi, Diquvramb∆], entra [ba``qi] in questa mia matrice virile. Ti rivelerò [ajnafaivnw], o Bacco, a Tebe perché ti chiami con questo nome ».  





Le baccanti deplorano che Tebe respinga il suo figlio più illustre e ricordano a Dirce, la sorgente sacra della città, il momento in cui Dioniso, uscendo dalla coscia in cui Zeus lo aveva occultato per proteggerlo dalla gelosia di Era, viene definitivamente alla luce e riceve nelle sue acque il bagno catartico della nascita. Per intendere il corto circuito temporale che consente al coro di rievocare l’intera vicenda delle due nascite mentre ne racconta ancora una volta il penoso inizio, bisogna tener presente l’antica etimologia popolare del nome Ditirambo, sottesa con evidenza alle parole del padre quando glielo impone e insieme rivela il figlio divino alla città di Semele. Dioniso è « colui che ha attraversato due volte la porta », oJ di;~ quvraze bebhkwv~ (scil. : la porta della nascita, la matrice femminile di Semele e quella maschile di Zeus). Il verbo usato da Zeus, nel grido rivolto al figlio prematuro, evidenzia il legame con questa perifrasi (Etym. Magn., 274, 46-48), talmente nota che Platone, in un passo delle Leggi, la dà per scontata senza neppure menzionarla esplicitamente quando spiega l’origine del nome diquvrambo~. 2 Il coro riprenderebbe, variandola, l’idea che ci viene testimoniata anche per un ditirambo di Pindaro ; Zeus avrebbe gridato al bambino, una volta completato il tempo della gestazione : « sciogli la cucitura, sciogli la cucitura » (« lu``qi rJavmma, lu``qi rJavmma »). 3 Il passo delle Baccanti non descrive però il grido della nascita e assegna al padre una diversa esortazione, enunciata da Zeus proprio mentre assume il ruolo materno ma già guarda avanti al risultato della sua spettacolare iniziativa e, con una sorta di ‘presente oracolare’, anticipa il dovere esclusivo di un padre : legittimare il figlio imponendogli un nome. Il nome di culto, che verrà proclamato ufficialmente a Tebe, rivela la natura divina del neonato perché evoca lo straordinario duplice parto. Anziché connetterlo allora a luqivrambo~, in ricordo delle parole usate per esortare il figlio a venir fuori dalla sua coscia – come riferisce  



















1   Cfr. E. R. Dodds (a cura di), Euripides. Bacchae, Oxford, Oxford University Press, 19602, p. 146, ad vv. 556-559. Lo stesso gioco etimologico appare in Aristofane, Rane, 215 sg. : Nushvi>on / Dio;~ Diovnuson, ma sarebbe stato già presente in un ditirambo di Pindaro (cfr. fr. 85a Maehler). 2   Platone, Leggi, 3, 700b : « un altro genere musicale, il “ditirambo”, prendeva nome, ritengo, dalla nascita di Dioniso » (kai; a[llo [scil. ei\do~ wj/dh`~], Dionuvsou gevnesi~ oi\mai, diquvrambo~ legovmeno~). 3   La notizia ci è trasmessa ancora dall’Etymologicon Magnum, 274, 50-52, s.v. Diquvrambo~ (Pindaro, fr. 85 Maehler) ; si vedano anche le altre testimonianze antiche sull’etimologia del nome divino raccolte in G. Ieranò, Il ditirambo di Dioniso, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 1997, Testt. 1-23 e pp. 155-167.  









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la testimonianza che attribuisce a Pindaro il differente gioco etimologico – qui il padre non allude a ‘cuciture’ da sciogliere, ma al prodigio del piccolo dio che supererà per la seconda volta « la porta della nascita » (naturalmente il ricorso a questa metafora si giustifica solo se si focalizza il movimento dall’interno verso l’esterno, quando il nascituro esce dall’utero materno o dalla cavità nella coscia maschile che ne replica la funzione, non quando il padre ve lo nasconde). Proprio la diffusa conoscenza di questo preteso nesso semantico – che fa leva, come sempre nella prassi etimologica antica, sulla coincidenza di alcune lettere o sillabe fra il nome e la locuzione che ne spiegherebbe il senso – agevola il trapasso da un termine all’altro e la compressione dell’arco cronologico, che può includere così anche l’ultimo atto : la presentazione al mondo e il lavacro nelle acque di Dirce successivi al secondo parto. L’abluzione nelle acque di Dirce è certamente il momento conclusivo della laboriosa gestazione, iniziata da Semele e portata a termine da Zeus. 1 Sembra infatti illogico che il padre, già descritto nella parodo come un soccorritore che strappa alla vampa del fulmine il figlio divino e si affretta a proteggerlo dall’odio della matrigna, senta la necessità di purificarlo prima di accoglierlo nel suo corpo. Il fuoco, non si dimentichi, ha virtù catartiche e rigeneratrici tali da essere al centro dei miti in cui una divinità cerca di rendere immortale un neonato. 2 L’atroce fine di Semele, del resto, aveva già suggerito a Euripide un brano lirico in cui i tratti distintivi della vicenda di amore e morte tra la sfortunata donna e il dio supremo sono accostati con un violento hysteron proteron : nella seconda antistrofe del primo stasimo dell’Ippolito le mura di Tebe e la sorgente Dirce sono invocate come testimoni dell’azione rovinosa di Afrodite, allorché « dando in sposa al tuono fiammeggiante la puerpera di Bacco, il figlio nato due volte, la mise a dormire con una morte violenta ». 3 L’enfasi sull’origine tebana di Dioniso richiede inoltre una certa vaghezza sul luogo dove avviene la seconda nascita ; già nella parodo la conclusione della storia sacra omette ogni dettaglio relativo al luogo in cui, « quando le Moire portarono a compimento il termine » (vv. 99 sg.), Zeus genera Dioniso « dalle corna di toro » e lo incorona con ghirlande di serpi : una precoce, sorprendente allusione all’aspetto teriomorfo e agli attributi che lo caratterizzano nel culto orgiastico (vv. 1017 sg.). La tradizione, com’è noto, conosceva innumerevoli alternative e nelle Baccanti, in cui tutto ruota intorno al rapporto fra Dioniso e Tebe, sembra deliberata l’intenzione di suggerire che le vicende della duplice nascita abbiano come sfondo solo la città di Cadmo. Sulla base dello stesso schema, per cui si condensano i tempi e si omettono i dettagli che appaiono superflui, nell’apostrofe a Dirce non è affatto esplicito chi abbia materialmente provveduto al bagno del piccolo dio. Zeus occupa da solo la scena, ma in genere il compito di lavare il neonato, prima di accudirlo e nutrirlo, spetta a figure di aiutanti : ancora una volta non sorprende che la qualità evocativa del canto del coro trascuri il contorno, diversamente da quanto avviene nei resoconti dei mitografi e nell’iconografia. 4  

























1   L’allusione al bagno cerimoniale nella fonte Dirce ricorre solo in questo passo euripideo, ma sorgenti diverse vengono menzionate in tradizioni locali, come accade anche per Zeus e per altre divinità : Plutarco, Lisandro, 28, 7, riferisce un mito della città beotica di Aliarto, secondo cui il piccolo Dioniso alla nascita era stato purificato dalle sue nutrici in una fonte chiamata Kissoussa (un nome legato alla pianta sacra al dio, l’edera : kissov~), le cui acque limpide avrebbero riflessi del colore del vino e un sapore particolarmente dolce (cfr. Dodds, ad vv. 521-522). Sul rito di passaggio del bagno del neonato, cfr. R. Ginouvès, Balaneutiké, recherches sur le bain dans l’antiquité grecque, Parigi, Éditions de Boccard, 1962, pp. 235-238. Proprio il senso di ‘passaggio’ che introduce alla vita rende necessario situare il bagno nel momento in cui Dioniso è ormai autonomo, e non avrebbe senso dopo il primo drammatico parto prematuro. 2   Lo illustrano, fra l’altro, le vicende di Demetra che vorrebbe rendere Demofonte « immune da vecchiaia e immortale » (Inni omerici, ii, 239 sgg.) e di Teti, che fa lo stesso con Achille (cfr. Apollonio Rodio, Argonautiche, iv, 869-872; Apollodoro, iii, 13, 6). 3   Ippolito, 559-562. Definire Semele, nel momento del connubio che la ucciderà, tokavda ta;n digovnoio Bavk-/cou forza in un’unica immagine non solo l’effetto immediato dell’unione con Zeus, il parto prematuro, ma anche l’epiteto che denota con audace prolessi l’intervento di Zeus e la seconda nascita di Dioniso. 4   Altre testimonianze che narrano la nascita di Dioniso dalla coscia di Zeus aggiungono sempre gli avvenimenti  







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Se questa interpretazione è corretta, il secondo stasimo allude al complesso degli eventi relativi alla nascita di Dioniso – mentre la parodo insiste sul primo parto, quando era necessario proteggerlo e nasconderlo al mondo – e ciò si accorda molto meglio con l’annunciorivelazione del padre, con l’imposizione del nome di culto e, infine, con il rito del bagno. È tuttavia motivo di stupore che la storia sacra celebrata dal coro sia stata in precedenza oggetto della critica razionalistica di Tiresia. L’indovino, rappresentante dell’autorità religiosa nella città lacerata tra la resistenza al nuovo culto condotta dal potere politico e l’entusiasmo che ha invasato le donne tebane, risponde allo scherno sacrilego di Penteo (vv. 242-245) con un’analisi che demistifica e corregge il mito della seconda nascita. Una serie di travisamenti linguistici, nella tradizione orale della vicenda, avrebbe indotto gli uomini a inventarne una versione bizzarra, che suscita imbarazzo per la sua cruda fisicità (vv. 286-297) :  

Tu lo deridi perché è stato cucito nella coscia di Zeus ? Ti dimostrerò come si spieghi perfettamente. Quando Zeus lo sottrasse al fuoco del fulmine e portò sull’Olimpo il dio bambino, Era voleva scagliarlo giù dal cielo. Allora Zeus escogitò uno stratagemma degno di un dio per contrastarla : lacerò un pezzo [mevro~] dell’etere che circonda la terra, e ne formò un ostaggio [o{mhron] che consegnò a Era, così sottraendo Dioniso al suo odio. Ma, col tempo, i mortali dicono che fu cucito nella coscia [mhrov~] di Zeus, trasformando la parola [o[noma metasthvsante~, scil. o{mhro~] – poiché lui, un dio, un giorno servì da ostaggio [wJmhvreuse] a una dea, Era – e hanno creato questa favola. 1  



La ricostruzione del modo in cui il mito della seconda nascita ha avuto origine dai fraintendimenti degli uomini, nel processo di diffusione orale della storia, è un’ulteriore prova del metodo razionale seguito da Tiresia. Il suo discorso di monito a Penteo si apre biasimando il cattivo uso della retorica fatto dal giovane sovrano e sottolinea poi come le virtù civiche siano basate sul buon senso e non sulla competenza dialettica (vv. 266-271). La saggezza si sostanzia di coscienza dei propri limiti, in quanto mortali, e non usa l’arma della ragione per combattere il divino : questo principio non sottende solo la morale delle seguaci di Dioniso,  

relativi ai personaggi che se ne prendono cura : si parla delle ninfe di Dodona in Ferecide, FGrHist, 3 F 90b ; di Ino, madre vicaria tebana, e poi delle ninfe di Nisa in Ovidio, Met., iii, 313-315 ; Ermes, in Apollodoro, iii, 4, 3, lo consegna prima a Ino e Atamante e poi, dopo che Era adirata li ha reso folli, alle ninfe di Nisa. Anche l’iconografia del ‘parto’ di Zeus contempla sempre delle figure che assistono : Ermes è in attesa, mentre la testina di Dioniso affiora dalla coscia di Zeus seduto su una roccia, nella scena sulla lekythos attica a figure rosse del Pittore di Alkimachos, conservata a Boston (mfa, 95.39, da Eretria, datata intorno al 460-450 a.C.) ; Eileithyia accoglie fra le braccia il piccolo Dioniso che emerge dalla coscia di Zeus seduto, alla presenza delle divinità olimpiche, nel cratere a volute apulo del Pittore della Nascita di Dioniso (Taranto, Mus. Naz. I. G. 8264, datato tra la fine del v e l’inizio del iv secolo a.C.) ; sul rilievo neoattico di età adrianea del Vaticano (Sala delle Muse, 493, inv. 398), che forse deriva da un rilievo della seconda metà del iv secolo a.C., Dioniso è raffigurato mentre esce dalla coscia di Zeus e tende le braccia verso Ermes, dietro il quale sopraggiungono tre figure femminili, Ninfe o Eileithyiai (cfr. Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae, s.v. Dionysos, nn. 666, 667, 668). 1   La traduzione dei vv. 293 s. presuppone le correzioni di Verdenius e Borthwick, accolte da Diggle nella sua edizione (e[dwke ... ejktiqei;~ invece di e[qhke ... ejkdidou;~ dei mss. : cfr. W. J. Verdenius, Cadmus, Tiresias, Pentheus. Notes on Euripides’ Bacchae 170-369, « Mnemosyne », 41, 1988, p. 260). Non condivido tuttavia l’idea, spesso avanzata, di una deliberata falsificazione del racconto, perché gli uomini avrebbero trovato inaccettabile che un dio venisse dato in ostaggio a un’altra divinità, sia pure solo nella finzione dell’eidolon ; così J. Roux (a cura di), Euripide. Les Bacchantes, ii, Parigi, Les Belles Lettres, 1972, p. 351 ; Verdenius, art. cit., p. 261 ; R. Seaford (a cura di), Euripides. Bacchae, Warminster, Aris & Phillips, 20012, p. 177. Di questa critica morale (che pure è presente, p. es., in Eracle, 1340-1346) qui non c’è alcuna traccia e la ricostruzione di Tiresia insiste sulle alterazioni linguistiche, dovute evidentemente a una serie di malintesi. La leggenda che ne nasce, del resto, non risponde a istanze etiche e anzi si distingue da altre storie di nascite divine per i dettagli straordinari e innaturali. L’alterazione della vicenda delineata dall’indovino e la conseguente invenzione della duplice nascita cui crede la massa dei fedeli – a quanto sembra con l’avallo del dio travestito (vv. 242 sg.) – non riguarda dunque un tentativo di depurare il mito, né questa è la via scelta dalle Baccanti per descrivere il rapporto fra gli uomini e la religione : quando il culto si diffonde nessuna variante della storia viene scartata, ma la tradizione popolare ha ormai preso il posto di quella che si riesce ancora a scorgere, con un’analisi razionale, dietro il miracolo della doppia nascita.  

























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ma guida anche i due anziani adepti, Cadmo e soprattutto Tiresia, che lo ha espresso in termini netti in un loro precedente dialogo (vv. 200-203) :  

Non vale nulla escogitare sottigliezze [oujde;n sofizovmesqa] nei confronti degli dèi. Nessun argomento riuscirà a demolire le tradizioni ancestrali [patrivou~ paradocav~], ricevute dagli avi e antiche come il tempo, neppure se il sapere è frutto di menti raffinate.

Benché queste siano dunque le premesse, Tiresia procede poi a una teoria sulla vera natura del ‘nuovo’ dio ricorrendo a un’idea antica, che ha origine nella filosofia ionica, nelle prime speculazioni cosmologiche e negli scritti medici, poi ripresa da sofisti contemporanei a Euripide, come Prodico (d k 84 B 5), e offre una spiegazione allegorica delle divinità antropomorfiche : gli elementi basilari per la vita degli uomini sono il secco e l’umido ; la dea Demetra, cioè la Terra – l’uno e l’altro nome si equivalgono – provvede al nutrimento solido con i cereali ; il dio figlio di Semele è sopraggiunto poi a scoprire e diffondere, come principio di civiltà, la bevanda derivata dall’uva, il vino, il necessario complemento degli alimenti secchi che dona il sonno e l’oblio degli affanni ; Dioniso non ne è solo lo scopritore, ma incarna lui stesso questo inestimabile rimedio ai mali, funzionale ai riti religiosi perché si versa nelle libagioni agli altri dèi (vv. 274-285). È stato osservato che Tiresia fonde così due aspetti apparentemente contraddittori – in modo simmetrico alla costante celebrazione del culto dionisiaco proposta dal coro – delineando la selvaggia religione orgiastica del nuovo dio come un incontro fra cultura e natura, fra nomos e physis, e suggerendo che il mito ha un profondo contenuto di verità velato da enigmi e storie arcane. 1 Il panorama dei documenti sulla religiosità misterica in età classica si è ormai arricchito della preziosa testimonianza del papiro di Derveni, e in esso un iniziato impegnato nell’esercizio professionale della mantica, autore del commento di un poema teogonico attribuito al mitico cantore Orfeo, adotta diffusamente l’esegesi allegorica e fa riflessioni onomastiche in modo non diverso dal personaggio di Tiresia. Se poi si osserva l’associazione suggerita dall’indovino tebano tra varî significanti – nel ricostruire la vicenda che dal méros di etere, offerto come hómeros a Era, conduce al merós di Zeus, trasformato in incubatrice del figlio divino – e l’insistenza con cui il coro celebra ancora questa vicenda, benché sia stata spiegata come frutto di un estroso travisamento del linguaggio, si noterà che un’analoga tendenza a moltiplicare i nessi etimologici, anziché sceglierne uno come il solo attendibile, caratterizza Socrate nel Cratilo platonico. 2 In più occasioni per i nomi divini – quelli stabiliti dai mitici legislatori che hanno creato il linguaggio umano e le cui intenzioni bisogna cercare di ricostruire – accanto all’etimologia popolare ne viene presentata un’altra, più sofisticata : il nome di Ade viene così spiegato non come « Invisibile » – ”Aidh~ (da aj-idev~), legandone la radice al verbo ijdei``n ‘vedere’ – secondo la credenza più diffusa, ma come « colui che conosce tutto ciò che è bello », associandolo al verbo eijdevnai ‘sapere’ (Cratilo, 403a-404b) ; un nesso forzato, da un  



















1   Cfr., soprattutto, D. J. Conacher, Euripides and the Sophists. Some Dramatic Treatments of Philosophical Ideas, Londra, Duckworth, 1998, p. 102 ; Seaford, Euripides. Bacchae, cit., ad vv. 274-285. 2   Cfr. T. Kouremenos, G. Parássoglou, K. Tsantsanoglou (a cura di), The Derveni Papyrus, Firenze, Olschki, 2006. Con la formulazione del nome di Demetra dei vv. 275 sg. cfr., in part., PDerv, col. xxii, 7 sgg. : « Terra (Gh`)` e Madre (Mhvthr) e Rea ed Era sono la stessa divinità. Fu chiamata Terra per convenzione (novmw/), Madre perché da lei tutto nasce, [...] e le fu dato nome Demetra come Gh`` Mhvthr (Terra Madre), un unico nome formato dagli altri due ». Cfr. ancora col. vii, 5-7, e il modo in cui si spiega l’intento del poema di Orfeo : « non voleva dire enigmi incredibili, bensì grandi concetti in enigmi » ; qui non si parla di travisamenti cui sarebbe sottoposto il mito, come nel discorso di Tiresia, bensì di una deliberata invenzione poetica, strumentale a illustrare attraverso il mito i fenomeni divini a chi sappia comprenderne il senso allegorico. Altri confronti nel commento di Seaford a Baccanti, 274-285. In generale, per un’analisi delle affinità tra gli intellettuali dell’Atene classica e il personaggio di Tiresia, « theological sophist » incline al sincretismo e alle associazioni etimologiche, si veda P. Roth, Teiresias as Mantis and Intellectual in Euripides’ Bacchae, « Transactions of the American Philological Association », 114, 1984, pp. 59-69. Per il confronto fra le interpretazioni allegoriche dei nomi divini, nel papiro di Derveni, e l’analogo procedimento etimologico di Socrate cfr. B. Anceschi, Die Götternamen in Platons Kratylos. Ein Vergleich mit dem Papyrus von Derveni, Francoforte sul Meno, Lang, 2007.  























fede, ragione ed etimologia nelle baccanti di euripide

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punto di vista filologico, ma in grado di trasmettere un principio fondamentale della filosofia platonica : il dio dell’oltretomba è un filosofo, un sapiente, perché sceglie di convivere con gli uomini quando sono ormai solo anime purificate dai vizi e dalle passioni che si associano al corpo. Nel Fedone (80d), tuttavia, l’etimologia popolare non è più in concorrenza con quella elaborata nel Cratilo, anzi viene reinterpretata da Platone per renderla funzionale allo stesso concetto : Ade, proprio come l’anima purificata, è un dio incorporeo, il luogo in cui risiede è nobile, puro e « invisibile », lui stesso è buono e saggio. L’opinione corrente viene criticata allora solo in quanto ne derivano una valutazione errata del dio e il terrore della morte ; ma se lo stesso significante, « invisibile », può veicolare un’idea diversa, e la consueta paura è sostituita da valori positivi, allora anche l’etimologia popolare è in grado di rivelare la vera natura e la potenza del dio. Ancora, Socrate nel Cratilo offre molteplici letture del nome di Apollo, tutte valide perché ciascuna coglie un aspetto della divinità (404e-406a). O, ancora, l’interpretazione del nome di Era si basa su un procedimento analitico simile a quello di Tiresia, e spiega come la forma iniziale sia stata mascherata da mutamenti morfologici, che ne hanno occultato il vero senso lasciando spazio all’etimologia popolare (404b-c). Infine, una deformazione scherzosa del nome di Dioniso (Didoivnuso~) viene sciolta nella perifrasi « colui che dà il vino » (oJ didou;~ to;n oi\non), nell’intreccio costante fra etimologia e interpretazione allegorica (406c). Il segno criptico costituito dal nome di un dio appare così come una profezia chiusa e insieme un messaggio aperto a infinite traduzioni umane, nessuna del tutto esatta e nessuna esclusiva. 1 Nelle Baccanti si ha dunque un esempio della critica del mito esercitata negli ambienti intellettuali tra la fine del v e il iv secolo a.C., non finalizzata a rinnegarlo e a svuotarlo di senso, bensì impegnata a intrecciare un nuovo dialogo tra fede e ragione. Tiresia, con la sua analisi della storia sacra della seconda nascita di Dioniso, non ne rifiuta la divinità, ma anzi segnala a Penteo una versione della vicenda modellata sui consueti schemi dei rapporti fra gli Olimpî narrati da Omero ed Esiodo. Il falso Dioniso, il doppio etereo lasciato in ostaggio alla vendetta gelosa di Era, descrive un quadro più aderente ai noti dissidi dei coniugi divini, sempre occasionati dalle infedeltà di Zeus : una « favola verosimile », come Platone definisce nel Timeo (29c-d) il solo risultato che ci si può attendere dalle speculazioni umane sugli dèi. 2  























1   Gli studi più recenti sul Cratilo hanno sottolineato il valore non trascurabile della rassegna di tante bizzarre etimologie affidata a Socrate nel dialogo platonico. Per coglierne la serietà bisogna però considerare la netta differenza tra la teoria antica e quella dei linguisti moderni, per i quali la ricostruzione dell’origine di una parola si basa sulla sua vicenda evolutiva : la ‘scienza’ etimologica degli antichi presuppone che una stessa parola possa combinare due o più significati, e l’esegeta più abile è quello capace di decifrare il senso più sottile, ben nascosto sotto la superficie del nome. Cfr., in part., R. Barney, Socrates Agonistes : The Case of the Cratylus Etymologies, « Oxford Studies in Ancient Philosophy », 16, 1998, pp. 63-98 (ripreso in Eadem, Names and Nature in Plato’s Cratylus, New York-London, Routledge 2001, pp. 49-80) ; D. Sedley, The Etymologies in Plato’s Cratylus, « Journal of Hellenic Studies », 118, 1998, pp. 140-154, e, in generale, per la tesi della serietà della sezione etimologica del dialogo, la sua monografia Plato’s Cratylus, Cambridge, Cambridge University Press, 2003. Sui nomi di Ade e Apollo, cfr. P. Wohlfahrt, L’etimologia del nome Hades nel Cratilo. Contributo allo studio della religione in Platone, « Rivista di storia della filosofia », 45, 1990, pp. 5-35 ; F. Montrasio, Le etimologie del nome di Apollo nel « Cratilo », « Rivista di storia della filosofia », 43, 1988, pp. 227-259. 2   I risvolti religiosi della rivalità fra Era e Zeus – che innesca una sorta di sfida tra i due coniugi sulla possibilità di procreare figli senza il contributo del coniuge – sono al centro di un’interessante analisi di R. Schlesier, Der göttliche Sohn einer menschlichen Mutter. Aspekte des Dionysos in der antiken griechischen Tragödie, in A. Bierl, R. Lämmle, K. Wesselmann (a cura di), Literatur und Religion 1. Wege zu einer mythisch-rituellen Poetik bei den Griechen, Berlino-New York, de Gruyter, 2007, pp. 303-333. La nascita di Dioniso dimostrerebbe l’autosufficienza del sovrano dell’Olimpo ancor meglio di quella di Atena : non solo Zeus si appropria ancora, almeno in parte, della gestazione femminile e ‘partorisce’ (dalla coscia anziché dalla testa), ma in questo caso il figlio divino è stato concepito con una mortale, non con una dea. La peculiare natura di Dioniso, dotato di status divino a differenza degli eroi, che restano per sempre mortali o, come Eracle, vengono divinizzati solo dopo la morte, lo rende unico nel sistema religioso dominante : proprio per questo l’embrione non muore, quando la madre viene uccisa dalla folgore, e la sua condizione eccezionale è il mistero affidato alla fede degli iniziati, il credo quia absurdum che caratterizza la religiosità dionisiaca.  































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L’intelligenza del sapiente non deve mirare a demolire le credenze della gente comune, ma può invece avanzarne spiegazioni ‘linguistiche’, o contribuire con ipotesi naturalistiche a razionalizzare una storia sacra. Questo esercizio intellettuale mira solo a dare fondamento alla fede religiosa per una élite più esigente, ma non ne disprezza gli aspetti popolari, né si rifiuta di credere alla divinità che ripropone in termini aggiornati principî antichi. Non c’è allora motivo di opporre la posizione ‘sofistica’ di Tiresia alla fede acritica professata dal coro : la sua devozione si distingue da quella della massa solo perché non disdegna un uso cauto della ragione, mettendola tuttavia al servizio della tradizione religiosa ; l’osservanza non mortifica né la persona di cultura né l’uomo di potere, se sanno leggere sotto il velo e creare consenso intorno a credenze condivise, guardandosi bene dall’assumere un contegno scettico. « La speculazione intellettuale non è saggezza » (v. 395 : to; sofo;n d∆ ouj sofiva), la parola d’ordine con cui il coro delle baccanti asiatiche mette in guardia dall’agnosticismo e dall’empietà che marcano il rifiuto di Penteo, significa solo che il vero sapiente sa coniugare la fede delle persone modeste, dettata dal rispetto di antiche tradizioni, alla capacità d’interpretare i fondamenti culturali della civiltà umana e, come il sofista Prodico, identifica il divino con l’utile, mettendo gli elementi e le forze che giovano alla vita umana a fondamento della teologia. Le Baccanti accostano i diversi modi in cui la religione viene vissuta, dagli intellettuali e dalla gente semplice, condannando senza riserve solo la diffidenza e l’opposizione di Penteo : se il sofovn ha un ruolo nelle scelte di vita degli uomini, non deve servire a demolire la fede consuetudinaria, ma piuttosto a sostanziarla con l’esegesi allegorica, rendendo comprensibile la sfera del divino e meno arbitraria la sua interferenza in quella umana. La definizione di Euripide come « poeta dell’illuminismo greco », se con ciò s’intende una forma moderna di razionalismo ateo, non è certo adeguata a inquadrarne l’opera. Ma se si legge la sua ultima tragedia non solo sullo sfondo del movimento sofistico, ma anche delle tensioni che innervano una religione in cui i culti tributati agli dèi principali avevano il ruolo di saldare identità privata e appartenenza comunitaria, si comprende perché le due versioni di questa storia sacra, una popolare e una colta, possano convivere e opporsi insieme all’incredulità di chi combatte il dio. Perché Dioniso si dimostri « figlio di Zeus », inverando il senso del suo nome, Penteo è destinato a ‘soffrire’ – come del resto annuncia il suo nome legato al lutto e al dolore (pevnqo~) – a pagare orribilmente, ucciso e smembrato dalla madre in preda al delirio bacchico, l’illusione di poter combattere e umiliare chi aderisce all’esperienza misterica nella sua città. 1  

















1



  Il legame tra il re theomachos e la sofferenza è ribadito da tre diversi punti di vista : quello del profeta, con il presagio del lutto che colpirà la dinastia regnante di Tebe (vv. 367 sg. : « Non sia mai, Cadmo, che Penteo porti lutto nella tua casa », Penqeu;~ d∆ o{pw~ mh; pevnqo~ eijsoivsei dovmoi~ / toi``~ soi``si, Kavdme) ; quello del dio, che legge in quel nome una naturale predisposizione alla sventura, ben presto confermata dalla sua feroce vendetta (v. 508 : « il tuo nome ti rende idoneo alla sventura », ejndustuch``sai tou[nom∆ ejpithvdeio~ ei\) ; quello offerto dall’ironia tragica di una battuta dello stesso Penteo, che lamenta lo scacco appena subito dall’avversario (v. 642 : « Ho sofferto cose terribili », pevponqa deinav), ignaro dell’atroce sciagura che lo travolgerà nel momento del trionfo del dio. La vicenda tragica distribuisce poi i ruoli secondo la giusta lettura ‘onomastica’ ; la persecuzione e gli oltraggi inflitti da Penteo allo ‘straniero’ si rivelano alla fine grottesche illusioni e il dio, rientrando nel palazzo per essere imprigionato, può asserire (vv. 515 sg.) : « non patirò ciò che non devo patire (paqei``n) » e poi, prima della catastrofe, osserva che Penteo travestito da menade si avvia ormai al suo destino (v. 971 : « e vai incontro a prove tremende », kajpi; deivn∆ e[rch/ pavqh). In generale si vedano H. Van Looy, Paretumologei`` oJ Eujripivdh~, in Zetesis, Festschrift E. De Strycker, Anversa-Utrecht, De Nederlandsche Boekhandel, 1973, p. 359 ; W. B. Stanford, Ambiguity in Greek Literature, Oxford, Blackwell, 1939 (= New York-Londra, Johnson Reprint Corporation, 1972), pp. 34 sg., 175 sg. ; Ch. Segal, Etymologies and Double Meanings in Euripides’ Bacchae, « Glotta », 60, 1982, pp. 81-93. Un’analisi del modo in cui il mito e il linguaggio veicolano la crisi dei simboli nelle Baccanti, in Idem, Dionysiac Poetics and Euripides’ Bacchae, Princeton, Princeton University Press, 19972, pp. 272-338.  













































Caratterizzazione lombarda nell’onomastica italiana del Novecento : devozione, letteratura e nuovi nomi  

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lprofessor De Camilli, che dell’onomastica ha fatto il centro dei suoi studi, vorrei dedicare questo piccolo omaggio come segno di gratitudine per il contributo che ha portato alla conoscenza e alla diffusione della disciplina. Di fronte alla difficoltà di racchiudere le esperienze di una vita intensa in un’immagine rappresentativa, ho deciso di lasciarmi guidare dal suo nome di battesimo, che è anche un modo per ritornare alle origini : come è già stato ricordato, il nome Davide ha infatti la sua massima diffusione in Lombardia (25% delle occorrenze totali), con 22.665 occorrenze solo a Milano. 1 Benché accademicamente pisano, Davide De Camilli resta profondamente legato alla sua terra di nascita, come ci conferma l’attenzione da sempre riservata agli autori e alle opere letterarie di matrice lombarda. Proprio il nome Davide ci consente di evidenziare alcune questioni interessanti : è possibile individuare una tradizione onomastica peculiare della Lombardia ? È sufficiente la preminenza di un nome in ambito lombardo per poterlo definire ‘tipico’ della regione ? Le tradizioni regionali sono ancora riconoscibili o siamo in presenza di una progressiva omologazione delle scelte in cui i picchi numerici regionali finiranno per riflettere la maggiore concentrazione demografica ? Sono queste le domande a cui mi propongo di dare una risposta in questo contributo, controllando i dati regionali relativi alla Lombardia in rapporto al repertorio onomastico italiano del Novecento. 2 Da questo punto di vista, Davide è davvero un nome paradigmatico, evidente espressione della polivalenza delle scelte antroponimiche registrate in Lombardia, in cui ancora nel secolo scorso risultano convivere tradizione e innovazione. Sul nome in sé non mi soffermo, poiché la sua storia è stata tracciata con ampia e dettagliata documentazione nel contributo che apre questa raccolta. 3 Mi limiterò invece a mettere in luce alcuni aspetti legati alla sua diffusione. Al di là dei numeri assoluti, in parte condizionati dal diverso popolamento regionale, può essere significativo osservare i ranghi, che più precisamente indicano la preferenza accordata ad una forma in relazione alle altre concorrenti.  









1. Alti ranghi Davide è un nome che a livello italiano ha rango superiore a 20 solo in tre regioni, tutte settentrionali : Liguria (20), Piemonte (18) e Lombardia (18). Scendendo più nel dettaglio, attraverso le scelte delle singole province, si può osservare un’area di preferenza che si accentua proprio nella zona di contatto tra le due regioni maggiori : il nome ha rango 18 a Novara, 14 a Varese, 17 a Milano e a Como, 18 a Pavia.  



1   Rossebastiano 2010, 22. Le indicazioni relative alla diffusione sono tratte dalla banca dati fornita dal Ministero delle Finanze (anni 1900-1994) e utilizzata per la realizzazione del dizionario I nomi di persona in Italia (npi), a cui rimando per la descrizione della fonte stessa. 2   La banca dati ricavata dal Ministero delle Finanze permette di rilevare l’andamento cronologico dei nomi e la loro distribuzione per provincia e per regione. Per ragioni di privacy non è tuttavia possibile incrociare le indicazioni 3   Rossebastiano 2010, 21-33. cronologiche con i dati regionali.

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Come ci si allontana da questo epicentro, Davide è accolto con minor entusiasmo. I dati lombardi 1 mostrano un’attenuazione via via che si procede verso est (Sondrio 21, Bergamo 26, Cremona 31, Brescia 30, Mantova 23), allineandosi ai dati veneti (Verona e Vicenza 24, Venezia 30). Analogamente, seguendo i confini occidentali della Lombardia e scendendo verso sud, si registra una flessione del nome, che tocca il rango 21 a Vercelli, 28 ad Alessandria, 26 a Piacenza, 28 a Parma, 23 a Reggio Emilia.

Per avere un’idea della centralità di Davide nell’area lombarda occidentale, basta confrontare i dati delle principali province del Centro e del Sud : Firenze, rango 73 ; Roma, rango 45 ; Napoli, rango 50 ; Palermo, rango 37. La specificità onomastica è dunque accertata, tuttavia l’area, che pure ha il suo epicentro in Lombardia, vede sfumare i suoi contorni verso le zone confinanti, evidenziando un fatto che dovrà essere tenuto presente parlando di questa regione : l’assenza di barriere naturali e la forza d’attrazione centrale, un tempo anche politica, oggi soprattutto economica, hanno da sempre promosso una vivace circolazione delle persone e della cultura. Questo giustifica l’impressione di maggiore uniformità che si rileva, rispetto ad altri ambiti regionali, in cui le tradizioni locali restano fortemente circoscritte. È pur vero che il nome Davide non entra negli alti ranghi nazionali fino agli anni settanta, 2 quindi le elevate frequenze potrebbero essere un riflesso di scelte di moda ; tuttavia le caratteristiche della distribuzione non consentono di accogliere questa ipotesi, poiché la variabilità legata alla moda risulta generalmente indipendente dal territorio. I risultati non cambiano considerando un nome tradizionale come Carlo, che dopo essere stato presente con continuità tra gli alti ranghi fino al 1964, registra una progressiva discesa, fino ad occupare il rango 51 nel 1994. Propriamente devozionale, il nome è legato alla figura del cardinale Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano dal 1560, distintosi nell’assistenza ai poveri e agli ammalati, soprattutto  











1   Per brevità nel testo si farà riferimento al capoluogo per indicare estensivamente la provincia. Le province di Lecco e Lodi, istituite nel 1992, non risultano ancora distinte nella banca dati fornita dal Ministero delle Finanze (19001994) : i dati riferiti a Lodi appaiono quindi ancora compresi sotto Milano, mentre quelli riferiti a Lecco sono ripartiti tra Como e Bergamo. 2   Una prima comparsa al rango nazionale 20 si registra nel 1969. Ripresentatosi nel 1971, il nome riprende, in progressiva crescita, fino a raggiungere il rango 8 nel 1994, ultimo anno di rilevamento.  

caratterizzazione lombarda nell ’ onomastica italiana del novecento 197 durante la peste del 1576-1577. Originario di Arona (No), san Carlo lasciò un segno importante a Pavia, oltre che a Milano, attraverso la fondazione di seminari e di collegi destinati a giovani capaci e non abbienti. Il collegio borromiano pavese gode tuttora di inalterato prestigio. La ricaduta onomastica è diretta, come appare evidente dall’elevata frequenza in numeri assoluti : la Lombardia raccoglie infatti circa un quarto delle occorrenze maschili e femminili (risp. 78.640 e 49.571).  

I ranghi provinciali confermano tuttavia l’idea che la regione cisalpina sia caratterizzata da forte osmosi con il territorio circostante : nel Novecento l’epicentro di Carlo non è localizzato a Milano (rango 9), come ci si aspetterebbe in virtù dell’alto patronato esercitato dal santo sulla città (insieme a sant’Ambrogio), bensì a Pavia, dove il ricordo è mantenuto vivo dalla persistenza di opere benefiche ed emerite istituzioni. 1 Da Pavia il culto e il nome si irradiano attraverso la pianura sia in Piemonte (Alessandria e Asti, rango 4), sia in Emilia (Piacenza, rango 5). In provincia di Novara Carlo ha rango 8, nonostante la devozione al santo sia tangibilmente testimoniata nella sua città natale dall’imponente statua nota come il ‘san Carlone’. 2 Lo stesso rango si registra nella contigua Varese, mentre a Como, che spesso appare più conservativa nelle scelte, il nome ha rango 5. Spostandosi verso est, Carlo perde gradualmente posizione, attestandosi a Brescia al rango 17. A Bergamo (rango 16) si segnala la persistenza del rarissimo antroponimo Borromeo (3 occ.), che compare a Milano in un unico caso. Un altro nome tradizionale, ampiamente diffuso in Lombardia è Luigi, localmente sostenuto dalla devozione per san Luigi Gonzaga, 3 la cui vicenda personale appare legata allo stesso san Carlo. A livello nazionale il nome si colloca nelle prime posizioni all’inizio del Novecento, ma è destinato ad uscire dai ranghi alti in seguito alla rivoluzione onomastica degli anni settanta. Il rango più elevato (3) si registra in Lombardia, per quanto in termini di numeri assoluti Luigi  

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  San Carlo è inoltre patrono della diocesi di Vigevano, in territorio pavese.   Il monumento avrebbe dovuto costituire la cima di un sacro monte, che non fu poi realizzato, lasciando così la statua priva di un contesto che ne giustificasse le dimensioni eccezionali. 3   Luigi ha goduto di notevole prestigio anche come nome dinastico, diffusosi dalla casa reale di Francia all’Europa (cfr. su npi la scheda redatta da A. Rossebastiano). 2

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sia prevalente in Campania, dove tuttavia il riferimento agionimico è costituito dall’omonimo santo di Tolosa. Nel contesto del repertorio campano il rango del nome è tuttavia inferiore (6), quindi secondario rispetto alle scelte lombarde. Il legame tra san Luigi Gonzaga e la sua terra è profondo : figlio primogenito di Ferrante Gonzaga, marchese di Castiglione dello Stiviere, dopo aver ricevuto la prima comunione dalle mani di san Carlo, di cui era cugino, aveva rinunciato al titolo per dedicarsi al soccorso degli umili e degli infermi. Beatificato nel 1608, fu accolto, accanto a sant’Anselmo, tra i protettori di Mantova. La devozione locale è rinnovata attraverso il santuario di Castiglione dello Stiviere, edificato tra il 1608 e il 1610 per volontà della Compagnia dei Gesuiti, su un terreno donato da Francesco Gonzaga, fratello del santo. 1 A partire da Mantova, dove il nome ha rango 2, è significativa l’omogeneità della diffusione in ambito regionale, evidente se si considera che solo in due aree esterne, Sondrio e Varese, Luigi perde qualche posizione (rango 5). La mappatura della diffusione onomastica nelle regioni circostanti conferma l’idea che i confini lombardi costituiscano un limite essenzialmente politico, mentre a livello culturale esista una forte compenetrazione tra i modelli e le tradizioni attestate nell’area padana.  

2. Alte percentuali, alte frequenze Per cercare una specificità lombarda, si deve quindi proseguire la ricerca, lasciando alle spalle i nomi ad alta diffusione, troppo spesso condivisi in ambito nazionale, per recuperare quelli più accentrati nella regione. Poiché oltre ad una certa soglia i ranghi non sono più direttamente confrontabili e il semplice controllo delle frequenze assolute può portare a distorsioni statistiche (nella fonte anagrafica la Lombardia è la regione che conta il maggior numero di individui registrati e quindi di occorrenze), risulta più efficace considerare l’incidenza dei nomi in termini percentuali. 1   Da Mantova, il culto di san Luigi si diffonde presto nell’area lombarda, lasciando tracce significative soprattutto nella provincia di Brescia, sia perché Castiglione dello Stiviere appartenne per lungo tempo alla diocesi bresciana, sia per la presenza di numerose congregazioni e oratori che dalla fine del xviii secolo sorsero per commemorare il santo, riconosciuto nel 1729 patrono universale della gioventù studiosa. La venerazione per san Luigi ebbe il suo culmine nel xix secolo e nei primi decenni del xx ; le chiese che lo ricordano non sono molte, ma non si contano gli altari che ne conservano l’intitolazione, testimonianza dell’intenso sentimento di devozione popolare cresciuto intorno alla figura di questo santo (cfr. Fappani 1992, 402). A Bergamo la diffusione del culto fu sostenuta dall’introduzione nella pratica liturgica delle «sei settimane di san Luigi» (Zanchi 1988, 204).  

caratterizzazione lombarda nell ’ onomastica italiana del novecento 199 Tra i nomi la cui concentrazione onomastica in Lombardia è superiore al 50%, i tipi ad alta frequenza non sono molti ; 1 tra questi spiccano essenzialmente gli agionimi legati alle più antiche tradizioni di culto, in particolare Ambrogio, Battista, Innocente, Bortolo, Fermo per il maschile, Annunciata e Bambina per il femminile. Il più connotato in senso locale è Ambrogio (9.809 occ., 70% 2), da cui dipende la diffusione regionale delle forme femminili Ambrogia (761, pari all’83% delle occorrenze nazionali), Ambrogina (2.574, 90%) e Ambrosina (320, 43%), nonché di alcuni composti quali Carloambrogio (6, 85%), Carlambrogio (7, 100%), Gianambrogio (24, 92%) e Pierambrogio (29, 87%). L’epicentro è la provincia di Milano (5.370 occ.), che rende così omaggio a sant’Ambrogio, dottore della Chiesa, vescovo della diocesi dal 374 al 397. Il santo, patrono di Milano, lega il suo nome al rito ambrosiano, la riforma liturgica impostasi nel territorio milanese in contrapposizione al rito romano. 3 Dopo la sua morte, la città gli intitolò la Basilica Martyrum¸ da lui fatta edificare tra il 379 ed il 386 per accogliere le spoglie dei primi martiri e testimoni di fede legati al territorio. 4 Preziosa testimonianza artistica e religiosa, punto di riferimento nella geografia sacra della diocesi, la basilica ospita tuttora il sepolcro di sant’Ambrogio, accanto a quello dei santi Gervasio e Protasio, che lo stesso vescovo aveva rinvenuto nell’antico cimitero presso la Porta Vercellina. Il grafico regionale rende l’idea della concentrazione onomastica in Lombardia. 5  

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1   Considero tipi onomastici solo le forme base, caratterizzate da piena autonomia, escludendo composti, alterati, 2   Le percentuali si intendono arrotondate. ipocoristici. 3   Ambrogio fu solo in minima parte artefice di questa riforma, che acquistò una configurazione definitiva nei secoli successivi. Il richiamo onomastico al santo vescovo da un lato intende risalire alle origini del rito, dall’altra esprime la precoce estensione metonimica dell’aggettivo ambrosino (o in forma dotta ambrosiano) al valore generico di ‘milanese’. 4   Si deve a sant’Ambrogio la diffusione della devozione verso i santi Vittore, Nabore, Felice, soldati mauritani martirizzati a Lodi Vecchio durante la persecuzione di Massimiano, e verso Vitale e Valeria, genitori dei santi Gervasio e Protasio ; benché Vitale fosse stato martirizzato a Ravenna, Milano lo onorò con una chiesa accanto alla quale sorsero le chiese di Santa Valeria e la basilica ambrosiana. I nomi dei primi martiri restano pertanto fissati nell’onomastica tradizionale lombarda (Gervasio 184, 15% ; Protasio 47, 70% ; Valeria 16.013, 16% ; Vitale 385, 12%). Ad essi va aggiunto san Satiro, fratello di sant’Ambrogio, commemorato accanto ai santi martiri (occ. 6, 35%). 5   Numerose località, oltre a Milano, riconoscono il santo vescovo come patrono (festa 7 dicembre) : tra queste Cinisello Balsamo (Mi), Merate e Lierna (Lc) ; Lonate Pozzolo (Va) ; Caslino d’Erba, Inverigo, Sormano, Lurate, Laccivio (Co) ; Cosio Valtellino (So).  















200

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Contestualmente i dati cronologici mostrano la progressiva decadenza del nome : in netta flessione nella seconda metà del Novecento, Ambrogio registra attestazioni inferiori a 50 a partire dal 1970. 1 Nel 1994, le occorrenze sono ridotte a 13.  

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0

Sul declino che usualmente segna i nomi tradizionali, agiscono probabilmente altri fattori di disaffezione : la forte caratterizzazione del nome, tanto diffuso a livello popolare da diventare attributo prototipico del contadino milanese, 2 non riesce ad evitare il progressivo scadimento semantico verso accezioni spregiative (cfr. l’it. brogio ‘sciocco’, ‘balordo’ e l’analogo milanese gergale ambroeus ; cfr. pure il ticinese bògio da Milan ‘finto’ ; 3 conserva una connotazione negativa anche l’epiteto milanese bon ambrosiàn o ambrosianòn ‘uomo alla buona’, ‘zazzerone’, 4 nel senso di ‘uomo all’antica’, ‘arretrato’). La distribuzione delle occorrenze antroponimiche nelle province lombarde conferma l’accentramento del nome nel Milanese (5.370) e nelle aree strettamente collegate alla diocesi (Varese 1.325, Como 1.857) ; poco significativa è la diffusione nelle province storicamente rivolte verso Venezia (Bergamo 483, Brescia 181, Cremona 154, Mantova 26). L’onomastica diventa così rivelatrice della complessa trama di relazioni politiche e culturali che percorrono la regione, mettendone in luce le molteplici sfaccettature, al di là dell’apparente omogeneità. Al femminile i nomi più caratteristici e frequenti in Lombardia sono due, entrambi appartenenti alla categoria dei nomi di devozione mariana : il più importante è Annunciata (Lombardia 4.172, 80%), in opposizione al tipo più conservativo Annunziata (Lombardia 954, 1%), ben più ampiamente diffuso al Centro e al Sud.  









1

  Fa eccezione solo il 1976, anno in cui le occorrenze risalgono a 60.   Si realizza così un processo deonimico in cui Ambrogio assume un ruolo evocativo riferito alla provenienza e alla professione : cfr. la voce locale bosìn, « che vuolsi far risalire ad Ambrogino, cioè suddito di S. Ambrogio, e che designa propriamente il contadino dell’Alto Milanese » (Migliorini 1968, 127, nota). 3 4   lei, s.v. Ambrosius.   Prati 1936, Cherubini 1839-1856. 2







caratterizzazione lombarda nell ’ onomastica italiana del novecento 201 35000

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Il nome a sua volta attrae la forma maschile Annunciato (Lomb. 15, 28%), gli alterati e ipocoristici Annunciatina (Lomb. 7, 53%), Annuncia (Lomb. 7, 58%), Annuncio (Lomb. 21, 95%), nonché il composto Mariannunciata (Lomb. 8, 89%). Alla base è naturalmente il richiamo all’annunciazione dell’arcangelo Gabriele a Maria, la cui tradizione è antichissima. Epicentro del nome è ancora Milano, dove va ricordata l’esistenza di un antico monastero femminile dedicato a santa Maria Annunciata, situato in Porta Nuova, nella parrocchia di San Bartolomeo. 1 L’origine risale al 1435, quando tre nobildonne milanesi acquistarono il terreno su cui sarebbe sorta la congregazione, con l’obiettivo di condividere questa esperienza di fede. Il monastero fu soppresso dopo il 1797, in seguito all’entrata in vigore delle leggi napoleoniche. Intorno alla seconda metà del xv secolo sorse in Val Camonica, presso Borno, un altro importante complesso monastico maschile intitolato all’Annunciata. Iniziatore dell’opera fu il Beato Amedeo Menez de Sylva, che iniziò la costruzione dell’edificio nella località tuttora nota come L’Annunciata : la nuova istituzione religiosa ottenne l’autorizzazione del papa Sisto IV nel 1483. Oltre a queste comunità, che testimoniano la devozione verso il mistero dell’Annunciazione, vanno ricordate le numerose associazioni laicali sorte intorno al xvii secolo : a Castiglione d’Adda una confraternita dell’Annunciata fu riconosciuta da papa Clemente VIII nel 1601 e poi confermata nel 1608. I confratelli presentavano come attributi un sacco di tela bianca, legato con una corda e un flagello, e un’effigie della Santissima Annunciata sul petto ; 2 a Maleo (Lo) si ha notizia dal 1621 della confraternita dei Morti nell’Oratorio dell’Annunciata ; a Montodine (Cr) esisteva il Consorzio dell’altare della Beata vergine Annunciata in Santa Maria Maddalena, attivo a partire dalla prima metà del xviii secolo. Non si contano le chiese con questa specifica dedicazione in Lombardia e in tutta Italia. Maria Santissima Annunciata è riconosciuta come patrona di numerose località lombarde tra cui Albiolo, Dosso del Liro (Co) ; Gussola (Cr) ; Gandosso ; Carvisi (Bg) ; Borgosatollo (Bs) ; Azzio, Brunello, Cremenaga (Va). Come la maggior parte dei nomi tradizionali, anche Annunciata conosce una forte flessione, evidente già nella seconda metà del Novecento.  

















1

  Sebastiani 1995.   Cfr. la voce Confraternita della Santissima Annunciata nella sezione Archivi storici lombardi, sviluppata all’interno del progetto plain (Progetto Lombardo Archivi in Internet), ora ospitata dal portale dei beni culturali lombardi (http :// www.lombardiabeniculturali.it). 2



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Lo stesso andamento caratterizza Bambina, secondo nome femminile ad alta frequenza fortemente accentrato in Lombardia (3.473 occ., 58%), in particolare a Milano (1.674), ma anche a Bergamo (767) e a Como (701). Il nome, apparentemente inscrivibile nella categoria degli augurali/affettivi, va più precisamente ricondotto alle espressioni di devozione mariana, come più esplicitamente suggerisce l’affine Mariabambina (25). Questa forma, che appare più rara, si registra esclusivamente in Lombardia, anch’essa concentrata nel Milanese (13). Con tale appellativo è evocata popolarmente santa Maria Nascente, alla quale è dedicato il Duomo di Milano. La devozione viene rinnovata ogni anno l’8 di settembre attraverso una celebrazione liturgica solenne, officiata dall’arcivescovo, alla presenza di una numerosa rappresentanza del clero. A santa Maria Nascente è dedicato anche il santuario di Merate (Lc). 1 Numerose sono le località lombarde poste sotto la protezione della Vergine nella ricorrenza della sua Natività. 2 Un ulteriore impulso alla diffusione può essere stato offerto dalla presenza estesa sul territorio della congregazione delle suore di Carità, detta ‘di Maria Bambina’, fondata a Lovere (Bg) da santa Bartolomea Capitanio (1807-1833) e santa Vincenza Gerosa.3 Non sono molti i restanti tipi onomastici lombardi caratterizzati da occorrenze superiori a 1.000 e da incidenza percentualmente notevole. Il più diffuso è Battista (12.087), che conta il 53% di attestazioni nella regione, seguito da Bortolo (3.820, 59,91%), Fermo (1.186, 56,26%) e Innocente (1.257, 52,31%) ; tutti questi nomi sono caratterizzati da un progressivo scadimento, preludio di una prossima estinzione (nel 1994 Battista contava 3 occorrenze, Bortolo 1, Fermo e Innocente nessuna).  

1

  Santa Maria Nascente è inoltre riconosciuta come patrona di Livigno e Talamona (So).   Tra queste Cabiate, Erba, Fenegrò, Rezzago (Co) ; Cagnatico (Odolo, Bs) ; Cuoricino di Cardano al Campo (Va). 3   Anche Gerosa ricorre tra gli antroponimi lombardi, sia pure con scarse occorrenze (10, pari al 67% del totale). 2





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La concentrazione in Lombardia di Battista, così come di analoghe forme composte, è effettivamente notevole se si considera la diffusione panitaliana del culto di san Giovanni Battista, patrono di Firenze (già ricordato da Dante), 1 oltre che di Torino, Genova, Ragusa e di innumerevoli centri minori. Non si contano le chiese intitolate al santo in tutta Italia, così come i battisteri, che di preferenza rinnovano nella dedicazione il ricordo del primo battezzatore. 14000

M BATTISTA M GIANBATTISTA

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A fronte di una diffusione di culto così estesa, risulta ancor più evidente la compattezza delle attestazioni del nome in Lombardia, come se l’onomastica fosse riuscita a conservare memoria dell’antico rapporto privilegiato con il santo, particolarmente venerato dai Longobardi. Nella Historia Langobardorum, Paolo Diacono 2 richiama in più punti la protezione 1   Nella Divina Commedia Firenze è indicata allusivamente come la « città che nel Batista / mutò il primo padrone » (Inf., xiii, 143-144) e come l’« ovil di San Giovanni » (Par., xvi, 25). Cfr. npi, scheda a firma di A. Rossebastiano. 2   Allo stesso Paolo Diacono è attribuito l’inno Ut queant laxis resonare fibris, dedicato a san Giovanni e introdotto nel breviario nella ricorrenza della sua festa, il 24 giugno. L’inno è peraltro importante per la storia della musica poiché i nomi delle note sono tratti dalle iniziali dei semiversi della prima strofa (ut queant laxis resonare fibris / Mira gestorum famuli tuorum, / solve polluti labii reatum, / sonde iohannes).  







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accordata da san Giovanni Battista al suo popolo, dall’intervento in difesa delle spoglie del re Rotari collocate presso la basilica intitolata al santo (iv, 47), al famoso episodio dell’eremita che, interrogato dall’imperatore Costanzo sulle possibilità di sconfiggere i Longobardi, ne dichiara l’invincibilità in virtù della difesa celeste di cui essi dispongono :  

Gens Langobardorum superari modo ab aliquo non potest, quia regina quaedam ex alia provincia veniens basilicam beati Iohannis baptistae in Langobardorum finibus construxit, et propter hoc ipse beatus Iohannes pro Langobardorum gente continue intercedit. Veniet autem tempus, quando ipsum oraculum habebitur despectui, et tunc gens ipsa peribit. (v, 6)

Il rapporto tra i Longobardi e il loro protettore si configura come un rapporto di lealtà, suggellato attraverso atti formali, primo fra tutti l’edificazione, voluta dalla regina Teodolinda, della basilica di San Giovanni Battista a Monza, a cui Paolo Diacono allude. 1 Nella basilica, oggetto di ingenti donazioni, Teodolinda fece deporre la preziosa corona ferrea che avrebbe incoronato i futuri re d’Italia, segno di potere ma soprattutto di fede, perché al suo interno era custodito uno dei chiodi della croce di Gesù. Un’ipotetica iscrizione di Teodolinda documentata dal Codice Diplomatico Longobardo 2 (a. 615) attribuirebbe a lei l’ulteriore fondazione a Brescia di un battistero dedicato a san Giovanni Battista, ma la citazione, priva di altre conferme, vale essenzialmente a sottolineare la stretta relazione tra i Longobardi e il loro patrono. Il legame è successivamente rafforzato da Gundeperga, figlia di Teodolinda, che, ad emulazione della madre, volle onorare il santo intitolandogli una nuova basilica nella città di Pavia, divenuta la capitale del Regno. Il nome Battista risulta quindi storicamente radicato in Lombardia ; alla tradizione alta si affianca poi, altrettanto sentita, quella popolare, che trova la sua espressione nelle credenze, nei riti e nelle celebrazioni particolari connesse alla ricorrenza della festa del santo. 3 Pur essendo ben documentato in tutta la regione, l’epicentro di Battista si individua chiaramente nell’area orientale, in particolare a Brescia (4.724 occorrenze, rango 29) e a Bergamo (3.525 occorrenze, rango 32), dove sono numerose le località che riconoscono il santo come patrono. 4 Meno significativa, in confronto, la diffusione del nome a Milano (1.346 occorrenze). Come già si è osservato per Ambrogio, anche nel caso di Battista la recente disaffezione può essere incentivata dallo scadimento semantico che ha interessato il nome, divenuto molto popolare : nell’area ticinese Battista passa a designare per antonomasia ‘il cameriere’, idea che si diffonde poi al resto d’Italia ; in Lombardia batista degrada a ‘babbeo’, ‘sciocco’, assumendo inoltre, nel ticinese alpino occidentale, il senso di ‘matto’. 5 Molto più ridotta, in confronto ai precedenti, è la diffusione di Innocente, Bortolo e Fermo, sempre legati alla dimensione religiosa e devozionale. Particolare è la concentrazione di Innocente in Lombardia, sia nella forma maschile (1.257 occ., pari al 52% del totale), sia in quella femminile, tra l’altro prevalente nella forma flessa, in accordo con la tendenza dialettale al metaplasmo verso la prima declinazione (Innocenta 467, 87%, Innocente 251, 70%).  





1   Considerata artefice della cristianizzazione dei Longobardi, Teodolinda fu venerata come beata, senza tuttavia alcuna ratifica ecclesiastica ufficiale. Pur non ricorrendo quindi nell’agiografia ufficiale, il suo nome ha una relativa circolazione, conservandosi ancora nel Novecento : come nel caso di Battista, il maggior numero di occorrenze si registra in Lombardia (1.062, pari al 26%) e secondariamente nel Veneto (784, 19%). 2 3   Troya 1852, 566.   Fappani 1992, 402 e 422. 4   San Giovanni Battista esercita il suo patronato storico su Monza e su numerose altre località lombarde, tra cui Borno, Lonato, Tremosine, Zoanno (Bs), Albegno, Almè, Aviatico, Casnigo, Clusone, Dossena, Fornovo San Giovanni, Madone, Mezzoldo, Mozzo, Predore, Stezzano (Bg), Binago, Cusino, Oltrona di San Mamette, Parè (Co), Cernusco Lombardone, Montevecchia (Lc), Campodolcino, Lanzada (So), Besano, Induno Olona, Busto Arsizio (Va), San Giovanni del Dosso (Mn), San Giovanni in Croce (Cr). 5   lei, s.v. baptista. Il deonimo ricorre anche in funzione aggettivale.  

caratterizzazione lombarda nell ’ onomastica italiana del novecento 205 1400

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Il nome è legato al ricordo dei Santi Innocenti, 1 i bambini fatti trucidare in massa da Erode nel tentativo di eliminare Gesù ; i piccoli martiri, ricordati nelle celebrazioni del 28 dicembre e dedicatari di cappelle e altari in molte chiese, godono di antica venerazione a Milano, che ne conserva alcune reliquie. Il museo della basilica di Sant’Ambrogio custodisce attualmente un prezioso reliquiario quattrocentesco, in origine collocato nella cappella intitolata ai Santi Innocenti all’interno della chiesa di San Francesco, poi distrutta in epoca napoleonica. Epicentro del nome risulta la provincia di Milano (M 401, F 118, Innocenta 200), con irradiazioni a Como (M 177, F 17, Innocenta 82) e a Bergamo (M 268, F 81, Innocenta 52).  

Bortolo, ipocoristico di Bartolomeo (o Bortolomeo, forma con cui più specificamente ritorna in Lombardia), conta poco più di 6.000 attestazioni in tutta Italia ; di queste la maggior parte è accentrata tra Brescia e Bergamo (2.528 e 869), con propaggini in Veneto 2 (2.215), in particolare a Vicenza (1.263). Fermo, che registra circa 2.000 occorrenze totali, ne raccoglie ben 1.186 in Lombardia, con una maggiore presenza in provincia a Bergamo (318), Milano (284) e Como (196), in memoria di san Fermo, martirizzato a Verona insieme al compagno Rustico. 3 Il radicamento del culto in area lombarda è il frutto di una leggendaria ricostruzione storica che volle vedere nei due santi rispettivamente un nobile e un contadino bergamaschi. 4 Il nome Rustico, meno apprezzato forse in relazione al trasparente valore semantico, è raro nel Novecento (14 occ., di cui 10 in Lombardia), mentre Fermo incontra maggiore fortuna. La devozione locale per il santo è testimoniata dalla presenza di numerosi toponimi sul territorio (San Fermo della Battaglia in provincia di Como, San Fermo in provincia di Bergamo, Mantova, Varese), non 

1   È improbabile un riferimento alla realtà degli esposti, che a Firenze assumevano spesso questo nome ; in area lombarda l’equivalente è Colombo/Colombino, legato all’Ospedale Maggiore di Milano, da cui dipendeva il Brefotrofio e che aveva come simbolo una colomba. Questi appellativi risultavano prevalentemente assegnati come nome di famiglia. In qualche caso è possibile che Innocente rimandi alla devozione per sant’Innocente, patrono di Besate (Mi), la cui tradizione appare però troppo circoscritta per poter giustificare l’ampia diffusione del nome. 2   San Bortolo ricorre anche nella toponomastica veneta in provincia di Vicenza, Verona, Padova. 3   Sono tuttavia scarsissime le tracce onomastiche della devozione a Verona, luogo del martirio (solo 26 occorrenze di Fermo nella provincia). 4   Secondo la Bibliotheca Sanctorum i due santi, originari dell’Africa, avrebbero subito il martirio a Cartagine. Il legame tra i martiri africani e la città di Verona sarebbe eventualmente da correlare con la presenza di san Zeno, proveniente dalla Mauritania, divenuto vescovo della diocesi e poi riconosciuto come patrono della città.  

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ché dal santuario di San Fermo ad Albiate (Mi), dove nel 1609 furono trasferite da Bergamo le reliquie del santo. 1 3. I nomi manzoniani Al di là del riferimento devoto, Bortolo e Fermo ci riportano alla tradizione dei nomi manzoniani, che, per ragioni diverse, sono parte notevole dell’identità lombarda. Il controllo della distribuzione onomastica nel Novecento ne rileva la persistenza sul territorio, indizio del realismo che caratterizzò la progettazione e la stesura dei Promessi Sposi : i nomi personali, dotati di notevole forza evocativa, costituiscono un elemento essenziale nella ricostruzione della dimensione storica del romanzo, imponendo all’autore uno studio preciso sui tipi più caratteristici, capaci di dare corpo all’imponente affresco della società lombarda del Seicento che egli andava componendo.  

Così il nome Bortolo, accentrato nel Bergamasco a fronte dei panitaliani Bartolomeo e Bartolo, è attribuito al cugino di Renzo, il personaggio che ha il compito di accogliere nel territorio di Bergamo il protagonista, in fuga da Milano. La specificità del nome riflette la distanza politica e culturale tra i due Stati, 2 che si può cogliere anche nell’ammonimento di Bortolo a Renzo, affinché, facendo esercizio di pazienza, accetti lo sgradito epiteto di baggiano, localmente rivolto ai Milanesi. 7000

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Di segno opposto è la scelta di Manzoni di attribuire al personaggio principale un nome più ampiamente diffuso : la primitiva opzione Fermo viene infatti ricusata per la sua eccessiva connotazione locale, poiché solo in Lombardia e nel Veneto questo tipo onomastico sarebbe stato correttamente contestualizzato e riconosciuto nella sua matrice agionimica. Le ragioni della preferenza accordata a Renzo non sono accertate : Baldini si era spinto ad ipotizzare che l’autore avesse semplicemente risolto il problema scorrendo il calendario e passando da san Fermo, festeggiato il 9 agosto, a san Lorenzo, commemorato il giorno successivo. 3 Contini, più precisamente, rileva che, senza ricorrere al calendario, Lorenzo, come la maggior parte  



1   Il santo è patrono di Albiate e di altre località lombarde, tra cui Caravaggio e Presezzo (Bg), Mairago (Lo), Nerviano e Cusago (Mi). 2   Si noti che nel Novecento Bortolo conta a Milano solo 42 attestazioni a fronte delle 869 registrate a Bergamo. 3   Baldini 1956, 111.

caratterizzazione lombarda nell ’ onomastica italiana del novecento 207 degli antroponimi utilizzati nel romanzo, figura tra i nomi dei santi invocati nel Canone della Messa (nella preghiera Communicantes) e nelle Litanie dei Santi. 1 Dal punto di vista ritmico e narrativo, l’assonanza tra Fermo e Renzo rende i due nomi equivalenti, ma Renzo appare più neutro 2 e più vario, per la possibilità di opporre al registro familiare una forma piena, da usare in contesti ufficiali. 3 Al di là di queste interpretazioni, che ci spostano su un piano più specificamente letterario, resta il dato oggettivo : Renzo, attestato in tutta la Penisola, si presta ad un’interpretazione univoca, confermando attraverso l’ipocoristico la sua connotazione popolare e risultando nei fatti più consono all’aspirazione di Manzoni di realizzare un’opera che guardasse all’Italia. Al contrario solo un lombardo avrebbe saputo decodificare il nome Fermo, guardando al di là del valore semantico superficiale per coglierne le relazioni con il contesto culturale e sociale di riferimento. La conferma è data dal controllo della distribuzione regionale dei due nomi nel Novecento : pur mantenendo una presenza significativa in Lombardia e nel Veneto, Renzo è ampiamente rappresentato sul territorio nazionale, dove gioca un ruolo evidentemente molto diverso da Fermo.  



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M RENZO m LORENZO

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Si può quindi estendere ai primi nomi la norma secondo cui « tutti i personaggi protagonisti del romanzo non hanno nomi locali », 4 che Folena riferiva specificamente ai cognomi : resta una memorabile eccezione don Abbondio, il cui nome, ispirato al quarto vescovo di Como, patrono della città e della diocesi, conserva « un aroma lombardo e anzi lariano », 5 come già Contini sottolineava. È vero comunque che il richiamo agiografico risulta del tutto antitetico rispetto alla fisionomia del curato ; la figura romanzesca riflette piuttosto la suggestione fonica del nome, dal « suono vecchiotto, e pacioso, rotondo », 6 un nome che « riempie tutta la  

















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  Contini 1970, 204.   Francesco D’Ovidio considerava il nome Fermo eccessivo (« troppo un’allusione alla sua costanza verso Lucia, troppo […] da poema allegorico ») e narrativamente scomodo poiché « potea dar luogo a bisticci o stonature con parole ordinarie (qui Fermo si fermò, o Fermo si mise a correre…) » ; cfr. D’Ovidio 1928, 409. 3   Eurialo De Michelis rileva la produttività narrativa della duplice registro del nome, che muta passando dal contesto familiare (Renzo) a quello formale (Lorenzo), come si osserva nei capp. xiv e xv « quando il buon giovine del villaggio, trasformatosi nel brigante delle giornate milanesi di san Martino, diventerà uomo pubblico » (De Michelis 4   Folena 1996, 362. 1968, 331). 5 6   Contini 1970, 204.   De Michelis 1968, 330. 2















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bocca », in « una certa analogia fonetica con la pesante persona » 1 del pavido parroco, amante del quieto vivere. È evidente che la successiva diffusione onomastica avrà risentito della pesante eredità del Don Abbondio manzoniano, divenuto emblema di pusillanimità e inettitudine ; ciò nonostante il nome ha resistito in ambito lombardo, dove il radicamento del culto per il santo, vivo anche nella tradizione toponimica, 2 ha finito per prevalere : delle 469 occorrenze registrate in Italia, 334 sono lombarde e 131 sono accentrate in provincia di Como. L’erosione di Abbondio (e delle forme correlate Abondio, Abbondia, Abbondina) appare piuttosto legata al generale abbandono dei nomi tradizionali : non a caso ha inizio negli anni settanta, periodo in cui soprattutto al Nord e al Centro si mette a punto il sostanziale rinnovamento del repertorio onomastico. 3 La resa del colore lombardo è di fatto precipuamente affidata ai personaggi minori, le cui denominazioni riproducono una sorta di piccola rassegna delle devozioni locali : si parte ovviamente da Ambrogio, nome del sacrestano e campanaro di Don Abbondio, nonché nome di copertura del bargello milanese a cui Renzo si accompagna dopo i tumulti di San Martino, per arrivare a Gervaso 4 e Tecla, 5 assegnati rispettivamente al fratello e alla moglie di Tonio, senza dimenticare Galdino, 6 Vittore, 7 Felice, 8 scelti per caratterizzare l’universo umano delle congregazioni religiose. L’identità onomastica lombarda si vede così compendiata nei Promessi sposi, ma nello stesso tempo non si esaurisce nel romanzo : la fortuna dell’opera ha infatti creato le premesse per una ridiffusione dei nomi, garantendo loro una più ampia circolazione, anche al di fuori dei confini regionali.  















4. Alte percentuali, basse frequenze La specificità onomastica lombarda, intendendo con questo la concentrazione pressoché esclusiva di nomi in Lombardia, è espressa in gran parte da denominazioni collegate a devozioni minori o a tradizioni storiche locali. In questo caso il numero di occorrenze è esiguo 9 e la percentuale di accentramento nella regione, o addirittura nella singola provincia, è molto alta, spesso coincidente con la totalità. Trattandosi di tradizioni estremamente circoscritte sul territorio, la documentazione del fenomeno richiede un’osservazione puntuale, capace 1

  Scolari 1908, 20.   Sant’Abbondio è nome di luogo in provincia di Como e nel Canton Ticino, un tempo parte della diocesi di Como. Una « ecclesia S. Abundii » è citata anche nella contigua diocesi di Vercelli, a Buronzo (a. 1257 ; Serra 1958, 129). 3   Cfr. Rossebastiano 2005, 143-144. 4   Gervaso, variante di Gervasio, conta 50 occorrenze in Lombardia (53,76% delle attestazioni totali). 5   A santa Tecla d’Iconio, vergine e martire, fu intitolata nell’viii secolo l’antica Basilica Maior di Milano, di fondazione romana. L’edificio sacro fu poi parzialmente distrutto nel xvi secolo per dare più spazio alla fabbrica del Duomo, e quindi definitivamente abbattuto nel 1548 (tci 1998, 145). Le fondamenta sono tuttora conservate sotto la piazza del Duomo. Il nome Tecla è panitaliano, ma conta il maggior numero di attestazioni in Lombardia (917), con epicentro a Milano (287). 6   Attestato in Veneto (654 occ.), Lombardia (291) e Friuli Venezia Giulia (170), è sostenuto dal culto di san Galdino Valvassori della Sala (secolo xii), arcivescovo di Milano dal 1166 al 1176, attivo nella lotta dei Comuni lombardi contro Federico Barbarossa. Da san Galdino traevano il nome le prigioni di Milano, successivamente intitolate a san Vittore. Le sue spoglie sono deposte nel Duomo, sotto l’altare della Madonna dell’Albero. 7   Cfr. nota 4 a p. 199. Le attestazioni si concentrano tra Lombardia (723 occ.) e Veneto (512), con particolare incidenza in provincia di Milano (168) e di Bergamo (137). 8   Cfr. nota 4 a p. 199. Pur essendo prevalentemente diffuso in Campania (15.078), dove risente della devozione per san Felice da Nola, il nome appare ben rappresentato in Lombardia (9.897), seconda regione per frequenza. Le attestazioni si concentrano soprattutto a Milano (3.816), Brescia (1.385) e Como (1.366). 9   Sono pochissimi i tipi onomastici con forte accentramento regionale e con occorrenze superiori a 100 : tra questi Bassano (556 occ. totali, 547 in Lombardia, 430 a Milano), Agape F (262 totali, 233 in Lombardia, 213 a Brescia), Manilia (146 totali, 139 in Lombardia, 132 a Bergamo). 2









caratterizzazione lombarda nell ’ onomastica italiana del novecento 209 di evidenziare l’epicentro dei nomi, scendendo almeno su base provinciale. La selezione dei nomi caratterizzati da alta incidenza locale e bassa frequenza mette in luce un repertorio molto variegato, in cui le forme onomastiche tradizionali hanno uno spazio importante, pur esprimendo una condizione di residualità, mentre nuovi nomi emergono e si collocano al loro fianco, testimoni di un mondo in trasformazione. Saranno sufficienti alcuni dati per esemplificare le categorie onomastiche più rappresentate e fornire un’idea dell’estensione del fenomeno. Tra i nomi fortemente accentrati sul territorio, una parte significativa si lega alla devozione per i vescovi che segnarono la storia della Chiesa locale : dalla diocesi di Lodi si irradiano le numerose attestazioni (430 in provincia di Milano) riferite a San Bassiano o Bassano, vescovo nel iv secolo e patrono della città ; 1 il legame con la popolazione si è consolidato nel tempo grazie anche alla Scuola o confraternita di San Bassiano, finalizzata alla custodia e alla venerazione del sepolcro del santo nella cattedrale. 2 Nella diocesi milanese, pur rari e desueti, hanno ancora circolazione locale Eustorgio 3 (62 occ. totali : 35 in Lombardia, 26 a Milano), Simpliciano 4 (15 : 13, 7), Ausano 5 (45 : 25, 16 ; F 6 : 4, 3), Ansperto 6 (27 : 26, 17). La tradizione di onorare il pastore diocesano attraverso l’imposizione del nome ai nuovi nati è stata recentemente rinnovata dal prestigio del cardinale Alfredo Ildefonso Schuster, consacrato arcivescovo di Milano nel 1929 e subito apprezzato per la dedizione con cui esercitò il suo ministero. Alla sua morte, avvenuta nel 1954, iniziò il processo di beatificazione, conclusosi nel 1995. Il nome Ildefonso, in precedenza rarissimo, entra così nella tradizione lombarda, e in particolare milanese, sia al maschile (100 occ. totali : 95 in Lombardia, 56 a Milano), sia al femminile (31 : 26, 12). Il grafico cronologico permette di osservare la diretta corrispondenza tra l’attività pastorale del cardinale e l’attribuzione del nome, segnata da un picco nell’anno della consacrazione episcopale (1929, 11 occ.). In provincia di Bergamo si accentra Narno (9 occ. su 12), ispirato al santo che per primo resse la diocesi, all’inizio del iv secolo, 7 mentre tra i nomi prettamente bresciani si devono citare Viatore 8 (4 su 5), Dominatore 9 (9 su 11), Filastro 10 (31 su 33) ed Erculiano 11 (18 su 21), in ricordo  



















1   Dal santo prende il nome San Bassano (Cr) ; varie chiese sul territorio (Lodi, Cremona, Pizzighettone Cr) testimoniano la diffusione del culto fin dall’antichità. 2   La confraternita risulta attiva tra il xvi e il xviii secolo. 3   Nono vescovo di Milano (secolo iv), secondo la tradizione ottenne dall’Imperatore d’Oriente le reliquie dei Re Magi. Per ospitarle degnamente fece costruire una basilica, poi distrutta e riedificata nell’xi secolo. In questa chiesa, oggi intitolata a sant’Eustorgio, sono tuttora conservate le sue spoglie. 4   Vescovo di Milano dal 397 al 400, succedette a sant’Ambrogio. Contribuì alla conversione di sant’Agostino e portò a compimento l’antica Basilica Virginum, iniziata dal suo predecessore. Le spoglie di san Simpliciano furono deposte nella basilica, da allora intitolata a suo nome. 5   Sant’Ausano Crivelli fu arcivescovo per un solo anno (566-567). 6   Figura controversa della storia di Milano, Ansperto Confalonieri da Biassono fu arcivescovo della diocesi dall’868 all’881, esercitando il potere con molta autonomia. A lui si deve il completamento della cerchia muraria della città. Durante la peste dell’874 si avvicinò agli ammalati esortando il clero milanese a fare altrettanto. Per i suoi contrasti con le gerarchie ecclesiastiche fu scomunicato nell’879. Nell’880 la scomunica fu revocata e Ansperto poté tornare a rivestire le insegne episcopali, che di fatto non aveva mai deposto. Dopo la morte, le sue spoglie vennero deposte nella basilica di Sant’Ambrogio. 7   Le date di reggenza sono convenzionalmente fissate tra il 325 e il 342, ma una leggenda medievale lo collocava addirittura al tempo degli apostoli, indicandolo come consacrato dallo stesso san Barnaba o dal suo discepolo sant’Anatalone (Chiodi 1988, 18-19). Le reliquie del santo sono custodite nella cattedrale di Sant’Alessandro. 8   San Viatore, secondo vescovo di Brescia (metà del iv secolo), è commemorato il 14 dicembre. Un altro Viatore fu vescovo di Bergamo, successore di san Narno. 9   San Dominatore, vescovo di Brescia verso la fine del vi secolo, è commemorato con gli altri santi bresciani il 5 novembre. Le sue reliquie si conservano nel duomo della città. 10   San Filastrio o Filastro, padre della Chiesa, fu vescovo a Brescia tra il 379 ca. e il 387. In ambito toponimico la devozione lascia traccia nella località di San Filastrio, in provincia di Bergamo. 11   Sant’Ercolano o Ercoliano, patrono di Salò, fu vescovo di Brescia nel vi secolo.  

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dei santi vescovi di primi secoli. Lascia una traccia più esigua il primo vescovo di Brescia, san Clateo, 1 a cui si riferiscono solo 4 occorrenze lombarde, divise tra Brescia e Milano. Accanto ai nomi desunti dai primi pastori delle diocesi lombarde, la devozione popolare trae ispirazione da altre figure che contribuirono ad animare e vivificare lo spazio spirituale dei centri minori. In particolare il culto per le reliquie giustifica la nascita di nuove tradizioni capaci di radicarsi sul territorio. Si spiega così l’accentramento in provincia di Varese del nome Abbondanzio (84 occorrenze totali : 82 in Lombardia e 78 a Varese), con riferimento a sant’Abbondanzio, martire a Roma ai tempi di Diocleziano, poi divenuto patrono di Cislago (Va) : il corpo santo, rinvenuto nelle catacombe romane, giunse a Cislago nel 1679 come reliquia personale del signore del luogo, Teobaldo Visconti, che offrì alla comunità un potente intercessore celeste, rafforzando contestualmente il prestigio del proprio casato. Analoghe motivazioni sostengono l’affermazione di Agape nel Bresciano, collegato al culto per l’omonima santa martirizzata a Roma intorno al 400 e sepolta nelle Catacombe di San Callisto. Grazie alla mediazione del sacerdote Stefano Antonio Morcelli le reliquie giunsero nel 1795 a Chiari (Bs), dove furono solennemente deposte nel Duomo. 2 Il patronato di sant’Agape sulla città si aggiunse così a quello preesistente dei santi Faustino e Giovita, promuovendo la circolazione del nome sia al femminile (213 occorrenze su 233 lombarde), sia al maschile (4 su 6). Anche la presenza peculiare di Ecclesio in provincia di Como (29 occ. su 30 totali) 3 si dovrà non tanto alla venerazione dell’omonimo vescovo ravennate del vi secolo, ma a riferimenti specificamente locali, il più noto dei quali è rappresentato dal presbitero Ecclesio, primo sacerdote della pieve di Galliano : le sue spoglie furono deposte per opera di Ariberto d’Intimiano 4 accanto a quelle dei santi Savino, Adeodato, Manifredo nell’antica basilica monumentale di San Vincenzo di Galliano, presso Cantù.  





1   San Clateo, primo vescovo bresciano, resse la diocesi all’inizio del iv secolo (Caprioli, Rimoldi, Vaccaro 1992, 150). 2   Lo stesso Morcelli ne promosse attivamente il culto attraverso opuscoli devoti e la composizione dell’opera celebrativa L’Agapea (cfr. Maffei 1852, 228-229 e Cenini 1975). 3   Anche nella variante Eclesio (4 su 5 totali). 4   Prima di divenire arcivescovo di Milano (1018-1045), Ariberto si occupò dell’antica chiesa, ampliandola e consacrandola, come allora usava, con la traslazione di corpi santi. Cfr. Lampugnani 2003, 11-18.

caratterizzazione lombarda nell ’ onomastica italiana del novecento 211 Altri nomi caratterizzati da circolazione locale si ispirano a santi, martiri ed eremiti operanti sul territorio : ne sono esempi Gemolo 1 (9 occ. su 10) e Nicone 2 (3 su 5), accentrati in provincia di Varese, Grata 3 in provincia di Bergamo (35 occ. su 37), Obizio 4 (11 su 12 totali) e Glisente 5 (29 su 29) in provincia di Brescia. Persino santi di origine lontana e di aree estranee alla regione riescono ad alimentare devozioni locali, sostenuti dalla forza della predicazione ecclesiastica. In provincia di Sondrio si concentrano le attestazioni di Nepomuceno (5 su 7), mutuato dal culto di S. Giovanni Nepomuceno 6 (1338-1383), barbaramente ucciso per ordine del re Venceslao IV, che lo fece affogare nella Moldava dopo avergli fatto mozzare la lingua. La tradizione di culto lombarda (e anche veneta) risale al XVIII secolo, probabilmente determinata dal contatto con le zone di influenza germanica, dove questa devozione è molto sentita (il santo è uno dei patroni di Monaco di Baviera). Le circostanze della morte sono ricordate dalla ricca iconografia locale, che ritrae il martire in prossimità di corsi d’acqua : numerose statuette ed ex voto testimoniano la protezione accordata dai fedeli in caso di alluvioni e pericoli legati all’acqua. Nomi rari come Patrocinia 7 (8 occ. in Lombardia, 6 in provincia di Bergamo), Lacrima 8 (5 occ. totali, 3 a Cremona) e Adoratrice 9 (5 occ. totali, esclusivamente bergamasche) sono  



1   La tradizione riconosce in Gemolo un soldato della scorta di un vescovo proveniente da Oltralpe e diretto a Roma per la visita ad limina apostolorum. L’episodio, che pare storicamente fondato, si colloca nella Val Ganna verso la fine del x secolo. In seguito all’attacco dei briganti che popolavano la zona, Gemolo fu ucciso, raccogliendo la sfida dei malvagi ad accettare la morte « pro Dei amore ». Sul luogo del martirio sarebbe sorta l’abbazia a lui dedicata. 2   Certamente noto al professor De Camilli è il culto del beato Nicone, radicato a Besozzo. Già in tempi antichi esisteva nella pieve un piccolo oratorio dedicato a san Nicone, un eremita vissuto nel xii secolo. La devozione ricevette un notevole impulso nel 1566, dopo la visita pastorale di san Carlo Borromeo, che fece riesumare i resti del santo imponendone una più adeguata collocazione sotto l’altare maggiore della chiesa. Fu allora istituita una confraternita dedicata all’ampliamento del primitivo oratorio (cfr. bs, s.v. Nico). Contestualmente si diffuse la fama del santo, tradizionalmente invocato contro le epidemie del bestiame. 3   La ricostruzione del culto di santa Grata è complessa per la coesistenza di due diverse tradizioni agiografiche. Secondo la versione tramandata dalla Passio di sant’Alessandro, evangelizzatore di Bergamo, Grata sarebbe stata una matrona romana vissuta nel iv-v secolo. Dopo la morte di sant’Alessandro, ella ne recuperò il corpo e gli assicurò degna sepoltura, edificando un sepolcro in sua memoria (Chiodi 1988, 15). Un’altra versione la vuole vissuta tra viii e ix secolo, quale figlia del duca di Bergamo, vinto e convertito alla fede cattolica da Carlo Magno. Molto importante nella storia locale il ruolo del monastero di Santa Grata, fondato secondo la tradizione nel 1027, data della traslazione delle reliquie della santa dal suo sepolcro fuori dalle mura alla chiesa del monastero, precedentemente nota come Santa Maria Vecchia. 4   Figlio del governatore della Valcamonica, Obizio nacque a Niardo (Bs) intorno al 1150 e fu avviato alla carriera militare. Durante la battaglia di Rudiano fu ferito ed ebbe una drammatica visione dell’eternità infernale. Riavutosi, decise di rinunciare alla vita mondana e di ritirarsi in convento per dedicarsi alla preghiera. Ottenuto il consenso della famiglia, della moglie e dei figli, nel 1197 fu ammesso nel monastero di Santa Giulia a Brescia, dove morì nel 1204. Il suo culto, da sempre vivo nel Bresciano, fu approvato ufficialmente nel 1900 da Leone XIII. 5   Il culto di san Glisente risulta diffuso in Valcamonica e in Valtrompia già agli inizi del xiii secolo : non esistono tuttavia notizie storiche certe relative alla sua figura. Secondo la leggenda egli sarebbe stato un soldato di Carlo Magno, è avrebbe combattuto nella battaglia di Mortirolo ; ottenuto dall’imperatore il permesso di abbandonare l’esercito, si ritirò sul monte Berzo dedicandosi all’evangelizzazione della valle. Secondo un’altra tradizione, Glisente sarebbe stato accompagnato dai fratelli Fermo e Cristina, a loro volta ritiratisi in romitaggio su monti vicini ; durante la loro vita essi si sarebbero tenuti in contatto visivo attraverso l’accensione di falò finalizzati a segnalare la loro sussistenza (Fappani 1992, 362-363). Il fiorire di tradizioni parallele della leggenda mostra la vitalità del culto, in passato molto sentito. 6   L’appellativo è propriamente un etnico e vale ‘originario di Nepomuk’, località cecoslovacca. Per la diffusione del culto nelle valli della Lombardia settentrionale, cfr. Fappani 1992, 391. 7   Patrocinia riflette il culto per la Vergine del Patrocinio, venerata a Bergamo nel santuario a lei intitolato. 8   Va ricondotto alla devozione per la Madonna delle Lacrime, a cui sono dedicati numerosi santuari in tutt’Italia. In questo caso il riferimento può essere individuato nel santuario della Beata Vergine delle Lacrime di Treviglio (Bg), ai confini con il territorio di Cremona. Nel santuario si venera un’immagine della Madonna, che durante l’assedio della città da parte delle truppe francesi avrebbe iniziato miracolosamente a lacrimare, inducendo i soldati a deporre le armi. 9   Adoratrice è mutuato dall’Istituto delle Suore Adoratrici, fondato a Bergamo nel 1882 dai beati Francesco Spinelli e Geltrude Comensoli.  









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rispettivamente legati alla presenza di santuari e all’influenza degli ordini religiosi locali. Riflessi più ampi ha Merice (77 occorrenze lombarde, di cui 71 a Brescia), tratto dal cognome di Sant’Angela Merici, 1 religiosa lombarda che a Brescia fondò la congregazione delle Orsoline o ‘dimesse di Sant’Orsola’ (1535), prevalentemente dedite ad attività educative e probabilmente per questo capaci di incidere maggiormente sul territorio. Il repertorio locale è arricchito dall’apporto dei nomi celebrativi, che ricordano personalità d’eccezione o eventi significativi per la storia del territorio. Il periodo delle lotte comunali ci consegna il nome Rudiano, che in Lombardia non va ricondotto a Rudio o a Rudy, come in altre parti d’Italia, bensì all’omonima località in provincia di Brescia, sede nel 1191 della sanguinosa battaglia detta evocativamente ‘di Malamorte’ : la coalizione formata dai Bergamaschi e dai Cremonesi aveva invaso il territorio di Brescia servendosi di un ponte di barche per attraversare l’Oglio ; in risposta i Bresciani schierarono un piccolo esercito molto agguerrito che fece arretrare i nemici, ma il ponte cedette sotto il peso dei cavalieri in ritirata determinando la disfatta degli aggressori. 2 Rudiano si registra ancora nel Novecento in Lombardia (11 occ. su 12), accentrato in provincia di Brescia (8 occ.). Nella stessa area si ritrova anche il nome Gezio (10 occ. su 11 totali), in memoria di Gezio Calini, il condottiero bresciano che durante la seconda crociata salì per primo sulle mura di Damasco per piantarvi le insegne cristiane. 3 L’eco delle lotte dei valvassori contro i vescovi e i grandi feudatari all’inizio del xii secolo si trova ancora riflessa in nomi come Ardiccio 4 (79 occ. totali : 43 in Lombardia e 32 in Veneto, di cui rispettivamente a 35 a Brescia e 31 a Rovigo), Alghisio 5 (33 totali : 22 in Lombardia, tutte accentrate a Brescia), Aribaldo 6 (16 totali : 12 in Lombardia, 11 a Brescia), Oprando 7 (21 totali : 17 in Lombardia, 14 a Mantova). È forse questo uno dei filoni più autentici dell’identità lombarda, che si ridefinisce intorno ai valori di condivisione e di autoaffermazione espressi dall’esperienza dei liberi comuni. Tale costruzione identitaria risulta tuttavia fortemente idealizzata nel percorso della memoria, dove si fondono inestricabilmente verità storica e leggenda. Fonti storiografiche a lungo ritenute attendibili, sono risultate alla prova dei fatti abili e intenzionali manipolazioni : l’esempio più eclatante è costituito dalla Breve recordationis de Ardiccio et de Alghisio de Gambara excelsis viris Brissie, invenzione del sacerdote Gian Maria Biemmi, divulgata attraverso l’Istoria di Ardiccio degli Aimoni e di Alghisio Gambara (1759), di cui solo a distanza di un secolo si riconobbe l’inaffidabilità. 8  













1   La forma più diffusa presenta adattamento al singolare, ma è attestato anche Merici, con 3 occ. in Lombardia, 5 in Veneto. 2   Si tratta della sanguinosa battaglia che determinò la svolta spirituale di Obizio da Niardo ; allo stesso cavaliere, poi divenuto santo, è attribuito un cantico in latino che ne tramandava il ricordo. Cfr. Finazzi 1857, 19. 3   Cantù 1858, 39. 4   Ardiccio degli Aimoni condusse la lotta dei valvassori contro il vescovo bresciano Arimanno. Forte dell’appoggio popolare divenne console di Brescia nel 1106. Alla discesa in Italia di Arrigo V fu costretto all’esilio e riparò presso Matilde di Canossa, ma fu successivamente reintegrato nel suo ruolo per volontà del popolo. 5   Alghisio da Gambara, capitano di ventura, assunse il comando della schiera assoldata dalla lega dei valvassori lombardi schierandosi a fianco di Ardiccio. 6   Aribaldo da Castiglione fu uno dei dieci campioni bresciani scelti per contrapporsi ai fedeli di Arimanno nella singolar tenzone che avrebbe dovuto ricomporre il conflitto tra le parti. Il valore di Aribaldo e del suo compagno Logerio da Gavardo, unici sopravvissuti alla sanguinosa sfida, garantì a Brescia la vittoria. La guerra tuttavia riprese subito dopo per i contrasti emersi al momento della definizione dei risarcimenti. Cfr. anche Bravo 1840, 103-104 ; Odorici 1856, 185. 7   Altra figura di spicco della lotta contro gli Arimanni è Oprando Brusati, valvassore della corte di Vobarno (Bs), tra i primi ad offrire protezione e aiuto militare ad Ardiccio. 8   Fu Teodoro Wüstenfeld nel 1859 ad individuare la falsificazione, ma la sua tesi stentò ad essere accettata dagli studiosi, che cercarono a lungo di dimostrare l’autenticità dei documenti. Cfr. Frugoni 1954, 1-2.  



caratterizzazione lombarda nell ’ onomastica italiana del novecento 213 Nel frattempo l’opera aveva avuto ampia risonanza, fornendo spunti fecondi alla letteratura. Lorenzo Ercoliani di Carpendolo se ne avvalse per la composizione del romanzo storico I valvassori bresciani e i feudatari del secolo xi (1842) e della sua continuazione Leutelmonte (1844), entrambi assai popolari nell’Ottocento. È questa rivisitazione letteraria, ancor più della storia ufficiale, ad agire sull’onomastica, promuovendo la diffusione di nomi come Armanno 1 (163 totali : 58 in Lombardia, di cui 15 a Brescia e 14 a Milano), Vaifro 2 (223 totali : 100 in Lombardia, di cui 59 a Brescia e 24 a Mantova ; 59 in Veneto di cui 32 a Rovigo ; Vaifra 18 totali : 5 in Lombardia, 3 a Mantova), Engarda 3 (30 totali : 14 in Lombardia, 11 a Brescia), Sinalda 4 (26 totali : 13 in Lombardia, 7 a Brescia, 5 a Mantova), propri di personaggi le cui azioni hanno ampio sviluppo nella narrazione dell’Ercoliani.  













L’impossibilità di distinguere le motivazioni storiche dalle suggestioni letterarie si osserva anche a proposito di Tiburga (7 occ. totali : 6 a Brescia), ispirato alla figura storica di Tiburga Oldofredi, la cui notorietà è stata garantita dall’omonimo romanzo di Costanzo Ferrari (1846). Ai nomi tradizionali delle casate nobiliari risalgono invece Archinto (56 occ. totali : 38 in Lombardia, 29 a Mantova), tratto dal cognome della nobile famiglia milanese degli Archinto, assai nota al tempo dei Visconti e degli Sforza, e Manilia (152 totali : 139 in Lombardia, 132 a Bergamo), illustrato da Manilia Rota, vissuta a Bergamo nella prima metà del Cinquecento e ricordata come « gentildonna onestissima et di grandissimo valore et uno specchio a tutta la […] città ». 5 Questi esempi sono sufficienti ad illustrare le principali tipologie dei nomi locali tradizionali, che spiccano nel repertorio per la loro rarità e originalità : connotati dal punto di vista formale e temporale, conservano una patina arcaica che li rende facilmente riconoscibili. Si tratta in definitiva di nomi che non sono mai stati accolti nella dimensione nazionale e che già nella seconda metà del Novecento hanno evidenziato la tendenza ad esaurirsi progressivamente.  











Accanto ad essi è emersa una nuova generazione di nomi, che per frequenza e diffusione, almeno a livello statistico, si affiancano alla precedente serie. Anche i nomi nuovi sono rari e nettamente concentrati in Lombardia, ma le motivazioni che li promuovono sono diver1   È questa la forma usuale con cui nei romanzi di Ercoliani viene citato Arimanno da Gavardo, cardinale e legato apostolico in Lombardia, nominato vescovo di Brescia nel 1087. 2   Così si chiama in Leutelmonte il giovane cavaliere giunto a Brescia per offrire i propri servigi a Berardo Maggi, con il quale aveva combattuto in Palestina. Con l’appoggio del suo protettore e di Ardiccio degli Aimoni, ottenne la carica di vicecapitano dell’arme cittadina. Il romanzo narra la storia del suo amore contrastato con Gisella. Il nome, di origine germanica, è noto attraverso la figura di Vaifro, figlio di Unaldo, duca di Aquitania, le cui vicende sono cantate nei romanzi epici medievali francesi. 3   Figlia di Ardiccio degli Aimoni, compare tra i personaggi dei romanzi di Lorenzo Ercoliani ; nei Valvassori Bresciani si narra il suo amore per Berardo Maggi. Fatta rapire dal vescovo Arimanno, è costretta in prigionia nel castello di Breno. Sarà Leutelmonte, signore della Valtenesi, a liberarla, offrendole poi ospitalità nella rocca di Manerba. Engarda è anche la protagonista dell’omonimo poema drammatico di G. Bonetti, di più limitata fortuna. 4   Sinalda è già citata nella cronaca del Biemmi come l’artefice del tradimento che permise ai valvassori di riconquistare il castello di Vobarno, sottratto alla famiglia Brusati e affidato all’arciprete Ugone dal vescovo Arimanno. L’episodio, ripreso da tutte le successive opere storiche, e ancor più ampiamente da Ercoliani, narra come i valvassori fossero in grande difficoltà a riprendere il castello di Vobarno. Venne in loro aiuto Paganello di Aqualonga, che era stato amante di Sinalda, prima che questa fosse poi costretta dalla famiglia a sposare Ugone. Approfittando del suo ascendente su di lei, Paganello la indusse ad avvelenare il marito, promettendole di sposarla successivamente. L’inganno ebbe successo e il castello fu riconsegnato ai valvassori. 5   Belotti 1940, v.2, 205. Manilia Rota, nuora del conte Achille Brembati, lega il suo ricordo a numerose iniziative benefiche e a significativi lasciti alle istituzioni educative della città. Nel Novecento è attestata anche la variante Maniglia, con 9 occ. totali, 7 in Lombardia, 4 a Bergamo.  

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se : da un lato si tratta di nomi esotici, soprattutto femminili, che traggono ispirazione dal mondo della moda o dello spettacolo e sono l’espressione di un desiderio di originalità e di distinzione ; dall’altro fanno la loro comparsa nomi effettivamente stranieri, che testimoniano la presenza sul territorio di comunità di immigrati già consolidate, capaci di ricostituire i propri nuclei familiari nel paese d’arrivo. Nel primo caso si possono citare Chana (5 occ. in Lombardia su 6 totali), Karinzia (4 su 5), Katiuschia 1 (3 su 5), Marwa (13 su 34), Mirzia (19 su 33), Sarahjane (3 su 6), Schantal 2 (4 su 8), ma anche nomi maschili quali Sherif (4 su 11), Yonatan (7 su 12) e Welles (6 su 8). Di introduzione recente (tra 1960 e 1980), queste forme si qualificano come nomi di moda, caratterizzati tra l’altro da una durata effimera ; la grafia approssimativa testimonia che l’acquisizione si è realizzata attraverso canali di trasmissione prevalentemente orali. L’accentramento in Lombardia, e ancor più nell’area metropolitana (è Milano l’epicentro degli esempi riportati), è uno specchio del dinamismo della regione, aperta all’innovazione e all’avanguardia nella ricezione di mode forestiere. La seconda serie, rappresentata da nomi stranieri che entrano in circolazione in seguito alle ondate migratorie, è costituita in prevalenza da nomi arabi, ma non mancano nomi giapponesi e indiani. Tra gli esempi si possono citare Abdalla (5 occ. in Lombardia su 7 totali), Ahmad (25 su 42), Amr (6 su 8), Mostafa (12 su 21), Moustafa (6 su 11), Mustafa (12 su 38), Riham (5 su 6), Yasmen (4 su 6), Yassmin (3 su 7), Yasser (10 su 22) ; Kenij (7 su 12), Naoki (3 su 5) ; Mandeep (4 su 8), Shantala (3 su 6). Ancora una volta l’epicentro si colloca a Milano, ma coinvolge anche le province di Varese, Como, Brescia, definendo i contorni di un’area che per l’ampia e diversificata offerta di occasioni lavorative ha esercitato una forte attrazione nei confronti degli stranieri, favorendo l’approdo e il successivo radicamento delle prime comunità etniche. Mentre i nomi di moda, proprio perché legati a interessi temporanei, sono destinati a brevi comparse e rapidi abbandoni, rinnovandosi continuamente nel tempo, la condizione dei nomi introdotti dalla presenza di comunità straniere è probabilmente destinata a permanere, incrementando la propria diffusione.  









Conclusioni I dati raccolti mostrano la peculiarità della situazione onomastica lombarda. La centralità della regione, unita all’assenza di barriere naturali, ha da sempre favorito un continuo scambio con le aree circostanti, sulle quali in passato la sua influenza si è imposta anche politicamente, attraverso alterne dominazioni ; si sono così create le premesse per una costante osmosi di valori e di elementi culturali che hanno stemperato ciò che poteva essere riconosciuto come una specificità locale. Ancora oggi la Lombardia rappresenta un punto di riferimento per quanto riguarda il lavoro, l’organizzazione, le strutture, esercitando una notevole capacità d’attrazione verso l’esterno. Le migrazioni interne del Novecento hanno avuto un ruolo significativo nei processi di cambiamento onomastico. Nel periodo postbellico un’ingente massa di lavoratori provenienti dalle aree più arretrate del Paese si era riversata sulla nascente industria milanese, contribuendo a scompaginare il quadro dei nomi tradizionali lombardi, con una conseguente perdita della caratterizzazione locale. Allora il cambiamento non si era tradotto direttamente nell’introduzione di nomi tipici di altre regioni, quanto piuttosto in una selezione di forme considerate poco marcate : il desiderio di integrazione nel nuovo ambiente aveva contribuito  



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  Ha forte rilevanza regionale anche Katiuscia (603 totali, 239 in Lombardia, di cui 68 a Brescia e 55 a Milano).   Risulta prevalente in Lombardia anche Chantal (295 occ. su 1201), che appare tuttavia meno accentrato a livello regionale. 2

caratterizzazione lombarda nell ’ onomastica italiana del novecento 215 a riallineare i nomi su matrici condivise, favorendo l’abbandono delle convenzioni familiari che avrebbero reso i nuovi arrivati troppo riconoscibili. Giunti alle porte degli anni settanta, la rivoluzione onomastica si può dire compiuta : i nomi tradizionali, marcati in senso diatopico, risultano progressivamente abbandonati, privilegiando nuovi modelli ritenuti più soddisfacenti. Il desiderio di cambiamento ha il suo centro nell’area milanese, dove il dinamismo della metropoli dà impulso alla ricerca e alla sperimentazione : entrano in circolazione elementi onomastici internazionali, si scopre il fascino della moda e dell’esotismo. I canali preferenziali paiono essere la televisione, il cinema, la musica, ma raramente le scelte arrivano a convergere su nomi particolari, capaci di raggiungere un elevato numero di occorrenze. Le scelte tendono alla diversificazione : aumenta la varietà di forme, ma diminuiscono le frequenze. In questo quadro così mutevole si inseriscono, negli ultimi decenni, nomi realmente esotici, legati a migrazioni che provengono da lontano, dai Paesi del Mediterraneo e dai Paesi asiatici. Nel quadro del Novecento possiamo osservare come l’onomastica lombarda acquisti una nuova fisionomia, la cui caratterizzazione non pare essere riconducibile a fonti univoche : la matrice agionimica locale, così come quella storica e letteraria, mostra di aver esaurito la sua spinta propulsiva. Alla fine del secolo il patrimonio onomastico tradizionale, già segnato da una fragilità intrinseca, resiste solo come elemento recessivo ; tuttavia anche i nomi nuovi, esotici o di moda, non paiono avere le caratteristiche utili per radicarsi sul territorio. Mantengono una buona vitalità le forme onimiche meno marcate, la cui distribuzione si può definire panitaliana. La cifra fondamentale dell’onomastica lombarda, corrispondente alla sua notevole apertura, pare pertanto orientarsi verso una progressiva omologazione delle scelte. La specificità regionale si può dunque cogliere essenzialmente in questo rapporto dinamico tra elemento locale e forme nuove, provenienti dall’esterno, che tuttavia coinvolge numeri sempre più esigui. Per questo motivo la documentazione del patrimonio esistente diventa essenziale in un’ottica di ‘ecologia onomastica’, quale forma di tutela della diversità.  









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L’onomastica nella narrativa di Corrado Alvaro dal 1920 al 1938 Bruno Porcelli

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imi tiamo l’indagine sulla consistenza dell’onomastica alvariana, sulle sue varietà funzionali, su eventuali linee di tendenza, sull’importanza conferita alla funzione specifica del nome parlante, alla narrativa del periodo 1920-1938. Si prenderanno perciò in considerazione i romanzi L’uomo nel labirinto (composto nel 1921 ed uscito in volume nel 1926), Vent’anni (1930), L’uomo è forte (1938) ; l’abbozzo di romanzo Domani (1933-1934) ; 1 e le raccolte di racconti, alcuni abbastanza lunghi, La siepe e l’orto (1920), L’amata alla finestra (1929), Gente in Aspromonte (1930), La signora dell’isola (1930), Misteri e avventure (1930), Il mare (1934). Il periodo prescelto è forse quello più favorevole alla ricerca perché, presentando opere edite con l’autorizzazione dell’autore (se ne escludiamo Domani), consente di evitare quasi totalmente i terreni incerti di testi non giunti a compimento o a revisione definitiva ed editi postumi con criteri spesso messi in discussione. Offre motivi di interesse perché vi si può individuare, seppur con cautela, una linea di tendenza che è un procedere verso una maggiore indefinitezza e mutabilità del personaggio protagonista, meglio percepibile nel passaggio dal primo all’ultimo romanzo della serie, se è vero che nell’Uomo nel labirinto Babel, legato nel nome ad uno dei miti fondanti del testo, conclude la fuga dalla città con una caduta sempre più pronunciata nella solitudine e nell’inazione che ne avevano caratterizzato l’esistenza sin dall’inizio ; mentre nell’Uomo è forte Dale, fuggito dalla corrotta città borghese per conoscere da vicino le magnifiche sorti del comunismo e rimastone atrocemente deluso, « si mette a progettare un nuovo piano di fuga », dimostrando in tal modo che « l’uomo è forte » non perché gabellato per eroe, ma perché capace nella sua fragilità di resistere adattandosi a tutto, « eterno lui solo come è eterno un fiume osservato nel suo corso ». Questa linea di tendenza, su cui ritorneremo fra poco presentando una nota di Alvaro posteriore al periodo qui preso in esame, è per ora contraddetta dall’andamento spesso poco sensibile a sviluppi diacronici dell’onomastica dell’autore, che perviene a soluzioni diverse, ma in sincronia, come testimonia l’uscita, nel breve spazio dei due anni 1929-1930, di quattro raccolte di racconti caratterizzate da differenti temi, esiti narrativi, soluzioni onomastiche : due delle quali, Gente in Aspromonte e Misteri e avventure, si collocano agli opposti poli della letteratura provinciale e di quella fantastica. Senza alcuna linea di sviluppo è invece l’onomastica, nel secondo periodo, dei romanzi di Rinaldo Diacono, ognuno dei quali costituisce un caso a sé. In Tutto è accaduto (1944-1945) la nominazione del protagonista è un ossimoro, quelle degli altri personaggi sono etichette rigide, di tipo anagrafico o ingiurioso. Nell’Età breve (1945) il nome Rinaldo Diacono ha perso il valore ossimorico, quello dei comprimari appare in genere legato all’educazione sessuale del protagonista. 2 In Mastrangelina (1945-1952), che riprende temi e personaggi già utilizzati, l’antroponomastica non ha significati, salvo che per la figura del narratore extradiegetico,  



















1   Pubblicato dal Frateili, Milano, Bompiani, 1969. Per informazioni sul processo compositivo di Domani, cfr. V. Paladino, Varianti e inediti alvariani : Domani, « Italianistica », xiii, 3, 1984, pp. 404-418. 2   Tutto è accaduto e L’età breve sono esaminati in due nostri lavori pubblicati rispettivamente in «Rassegna Europea di Letteratura Italiana», 32, 2008, pp. 125-133 e in «Rivista di letteratura italiana», xxvii, 1, 2009, pp. 103-110.  





l ’ onomastica nella narrativa di corrado alvaro dal 1920 al 1938

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per usare un termine genettiano, che si pone al di fuori della vicenda narrata : Vitaliano Stabili, coscienza critica antifrastica della vita che muta. 1 Occorrerebbe pertanto far interagire i due criteri dello sviluppo cronologico e della pertinenza testuale. Sì che ci è parso opportuno presentare i risultati di questa indagine non privilegiando la successione cronologica delle opere né la singolarità dei testi, ma suddividendo il complesso dell’onomastica in categorie ovviamente empiriche e soprattutto non rigide – che possano prevedere cioè la polifunzionalità dello stesso nome e perciò la sua inclusione in più di una categoria. Oggetto dell’attenzione saranno, nel caso di raccolte di racconti, sia i microtesti considerati nella loro autonomia strutturale sia i macrotesti che quell’autonomia inseriscono in una nuova struttura.  

1. Onomastica macrotestuale Per non ripetere cose da noi già dette in precedenti lavori 2 ci limitiamo ad indicare assai schematicamente che in almeno tre raccolte, caratterizzate da uno o da alcuni temi fondanti, l’antroponomastica (ripetiamo : impiegata in misura maggiore rispetto alla toponomastica) presenta caratteri di unitarietà. Nell’Amata alla finestra (1929), dove ha forte rilievo un consistente gruppo di racconti aventi come protagonisti fanciulli o adolescenti presentati spesso in difficili rapporti, nei quali risultano per lo più sconfitti, con coetanei o con adulti della famiglia, c’è una notevole presenza di onomastica infantile con nomi e gradi di parentela al diminutivo. Ricordiamo Cesarino nel Nipotino e nel Nemico, Carletto in Fuga, Giustino in Adolescenza, Carmeluzza e Filippuccio nella Corona della sposa, Melusina nel Ritratto di Melusina (la forma diminutiva è qui solo apparente). Nella Signora dell’isola (1930), dove prevale la presenza di donne che si distinguono per la vitalità e la capacità di trovare il lato positivo della vita, trionfano ovviamente nomi o indicatori al femminile, come nei racconti La signora dell’isola, Qualcuno ha suonato, Vedere amare, La stagione della signorina, Donna al tramonto, “Taverne Capri”, Teatro della vita umana, Partenza, Le strade fatte a vent’anni, Ballo in maschera, Gioia, Nasce un villaggio, Viaggio in Italia, Fanciulla al ballo. In Misteri e avventure (1930), in cui non si accoglie la concretezza del reale perché lo spazio narrativo è occupato da elementi agiografici, fantastici, utopistici, marionettistici, o da avventure dell’animo, non esiste l’onomastica del reale. Gli antroponimi per lo più sono antirealistici come quelli dei santi protagonisti di leggende devote (nei racconti agiografici), o quelli di tipo floreale (in un racconto marionettistico), 3 oppure mancano e i personaggi sono anonimi (nei racconti utopistici e fantastici). Assente per lo più la toponomastica, salvo che nei racconti che narrano di avventure vissute nei territori del fantastico e dell’utopistico :  



1   Vitaliano Stabili è il direttore della Biblioteca Comunale di Turio che racconta gli eventi del 1914, data fondamentale « in quanto le vecchia vita finì in quell’anno anche da noi ». 2   Facciamo menzione, una volta per tutte, dei nostri lavori editi (con un inedito) sulle opere di Alvaro appartenenti al periodo qui preso in esame : Il tema dell’esclusione nella raccolta Gente in Aspromonte di Alvaro, « Rivista di letteratura italiana », xxiv, 3, 2006, pp. 121-130 ; Stratificazione di miti e topoi nell’’Uomo nel labirinto di Alvaro, « Italianistica », xxxvi, 1-2, 2007, pp. 167-178 ; Nomi trovati e nomi costruiti nel primo romanzo di Alvaro, « il Nome nel testo », ix, 2007, pp. 89-92 ; La siepe e l’orto di Alvaro : riferimenti letterari e nessi interni, in c.d.s. negli Studi in onore di Giuseppe Farinelli ; La condizione dell’uomo nella raccolta Il mare di Corrado Alvaro, « Critica letteraria », xxxv, 3, 2007, pp. 497-506 ; Le donne e il senso della vita nella Signora dell’isola di Alvaro, « Italianistica », xxxvi, 3, 2007, pp. 25-33 ; Infanzia dell’uomo e infanzia perduta della terra nell’Amata alla finestra (1929) di Alvaro, « Testo », xxix, luglio-dicembre 2008, pp. 45-54 ; Corrado Alvaro : Misteri e avventure e il disimpegno degli anni 1925-1930,« Italianistica », xxxvii, 2, 2008, pp. 37-48; Un racconto di Corrado Alvaro: I fiori dei conventi, in Studi offerti ad Alessandro Perutelli, a cura di P. Arduini, S. Audano, A. Borghini, A. Cavarzere, G. Mazzoli, G. Paduano, A. Russo, tomo ii, pp. 405-411, Roma, Aracne, 2008; Segreti dell’albergo di Alvaro e le difficoltà di un lettore, «Italianistica», xxxviii, 1, 2009, pp. 61-67; Adesione e fronda al regime fascista in un racconto di Corrado Alvaro, «Giornale storico della letteratura italiana», clxxxvi, 613, 2009, pp. 115-122; I cavatori di Alvaro e Rosso Malpelo di 3   Serate in città di Misteri e avventure. Verga, «Critica letteraria», 145, xxxvii, 4, 2009, pp. 703-711.  



















































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cioè in una simbolica Metropoli o in luoghi swiftiani come l’Isola delle donne, Kefalea, Marietta, l’Isola felice, la Nuova Atene. Nella raccolta Il mare (1934), se si esclude L’uomo nel labirinto, ivi ripubblicato con modifiche rispetto alla prima edizione del 1926, i restanti tre racconti, cioè Il mare, Solitudine, L’ultima delle mille e una notte, che delineano differenti aspetti dell’uomo europeo nel quindicennio successivo al primo conflitto mondiale, presentano, oltre ad un’antroponomastica italiana, anche nomi stranieri come Helène, Gertrude Bauer, Elfrida, Azisa, Nureddin, Grotmann. 2. Onomastica intertestuale Si può dire che essa ha scarso rilievo. Alvaro, infatti, è scrittore che non lascia quasi traccia né palese né coperta delle frequentazioni intertestuali. Annoveriamo pochi casi, dei quali uno possiamo definirlo di onomastica intraautoriale perché basato sul rapporto con un altro testo dell’autore : costituito dalle nominazioni Milk e Glucoff dei due compagni del protagonista nei racconti utopistici di Misteri e avventure, nelle quali abbiamo supposto che Alvaro intendesse riferirsi per antifrasi all’eteronimo v. e. leno assunto nella rubrica satirica da lui tenuta sul « Becco giallo ». 1 Per il resto si ricordano i nomi Giovanni e May (del primo Uomo nel labirinto) molto probabilmente derivazione da John e May di The Beast in the Jungle di Henry James ; e quelli di Idalgo ed Elvira di Facce nascoste (L’amata alla finestra), che rimandano, tenuto in debito conto l’abbassamento alvariano di tono, a quelli dei protagonisti di un amore romantico per eccellenza, i leopardiani Consalvo ed Elvira.  







3. Onomastica dei miti Un certo numero di nomi di persona e di luogo è legato ai miti, importanti soprattutto nel primo periodo della narrativa di Alvaro. Occorre però collocare da una parte i miti antichi (classico-biblici) e meno antichi, trasportati e fatti rivivere nel mondo novecentesco, nei quali avevamo già notato affinità, più che con il ‘realismo magico’ di Bontempelli (sospensione del reale nel magico e creazione di miti moderni fortemente metafisici e primitivistici, senza riferimento a particolari miti antichi), con la commistione di contemporaneità e mito antico propria sul piano eroico del D’Annunzio alcionio, su quello antieroico del Morselli di Orione e Glauco, su quello degradato, infine, del Savinio della Partenza dell’Argonauta. A questa particolare tipologia mitologica appartiene il nome di Babel nell’ Uomo nel labirinto, in cui la storia biblica di Babele è evocata non per il valore di hybris, di punizione per il superamento del limite, di terribile monito superiore, bensì per significati tutti terreni, quali il senso del disordine e dell’incapacità umana, della sproporzione fra propositi e possibilità di realizzazione, fra progetto e attuazione. Restando nel campo della narrativa ricordiamo ancora il mito medievale di Melusina (Ritratto di Melusina), quello di Morgana (Margana : ma qui ci spostiamo in avanti al 1953), 2 quello favolistico dei bambini smarriti e giunti alla casa dell’orco, il signor Brocco, che ha un bastone ricurvo come quello di san Rocco 3 (La corona della sposa nell’Amata alla finestra, 1929). Da un’altra parte collochiamo i miti legati all’origine antica della propria terra, alla sua grecità arcaica persa nella notte dei tempi, che non è possibile far rivivere al presente perché il presente, mutato, degradato, corrotto, non lo consente. Alvaro rende in due modi l’inconciliabilità fra mito antico e tempo attuale. Secondo un primo modo, la realtà del mito, perso sia il nome sia la sostanza eroica o tragica, ha lasciato di sé non più che vili reliquie. Si consideri Ermafrodito (L’amata alla finestra, 1929), in cui i temi della dignità dell’antico, del suo scontro  

1   Cfr. il nostro lavoro Corrado Alvaro : Misteri e avventure e il disimpegno degli anni 1925-1930, citato nella nota 2 [a p. 219], p. 48. 2   Margana fa parte della raccolta L’amata alla finestra, Milano, Bompiani, 1953. 3   Vale la pena di notare che orco, Brocco, Rocco si richiamano in un sistema di anagrammi quasi perfetti.  

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con le insorgenze della modernità, del suo declino sono impostati forse in maniera più chiara che in qualsiasi altro testo di Alvaro. Nel paese del narratore la mitologia non sopravvive, tant’è vero che le Veneri greche, Dafne, Tisbe, Sileno, Mercurio sono divinità scomparse lasciando soltanto tracce marmoree e degradati sostituti umani. Questo è avvenuto per l’antica Parca, che ha ceduto il posto alla moderna levatrice ; e per i giganti macrocefali nemici dell’umanità, che sono stati sostituiti dai moderni proprietari di terre. 1 Nella nostra epoca corrotta la nobile metamorfosi dell’antico Ermafrodito si trasforma nella « malattia bestiale » della « donna uomo » di nome Eufemia. Così nella Notte insonne (L’amata alla finestra, 1929) non c’è più l’antico dio del fuoco col suo nome : la funzione che gli apparteneva è ereditata dal moderno fuochista, che, in un’isola in cui « i vulcani si sono spenti da secoli » e prosperano i traffici commerciali e il turismo, diventa il degradato sostituto di Vulcano innamorato di Venere, quando, invaghitosi di una turista, provoca, dal centro del cratere dove ha la sua casa e il suo laboratorio, un’eruzione di fuochi artificiali. Completa i significati del racconto il fatto che la turista ha il nome biblico Susanna, che per Alvaro pare indicare l’incontro innocenza - degradazione : esso infatti, ripreso nell’abbozzo di romanzo Domani (1933-1934), è attribuito ad una moglie caratterizzata anch’essa da un insieme di purezza e corruzione. 2 In un secondo caso, la sconnessione tra mito e modernità si ha quando i nomi antichi sono ripresi staccati dai referenti tradizionali e accostati a realtà di cui essi diventano denotazioni incongrue. In Stagione sull’Jonio (L’amata alla finestra, 1953 : superiamo ancora i limiti cronologici impostici) nei paesi di villeggiatura sul mar Ionio, che un tempo facevano parte della Magna Grecia, nomi mitici riciclati sono attribuiti a cose di banale quotidianità, come le locomotive ferroviarie che portano i villeggianti al mare :  





















Siccome eravamo in Magna Grecia, le macchine del compartimento portavano nomi greci : c’era Temistocle e Milziade, Pericle ed Epaminonda, Sofocle ed Ibico.  

Temistocle soffiava « il respiro di fuoco », Epaminonda « si presentava al lavoro e manovrava sbuffando » ; e tutte si fanno avanti « col […] pancione adagiato sulla sbarra rossa dei fanali tra i due respingenti, con quel braccio rachitico dello stantuffo ». I nomi sopravvivono, ma a quale prezzo ! Nell’Aquila di mare (L’amata alla finestra) il teatro dell’azione ha un nome, Jeropòtamo, che indica, nonostante l’avviata trasformazione in centro balneare, il suo carattere di antico luogo sacro. In quel teatro si svolge la storia dei volgari litigi tra padre e figlio culminante nella brutta scena del volatile, simbolo di libertà, buttato in pasto ai cani. Anche Potamia nella Cavalla nera di Incontri d’amore (1940) è nome antico attribuito ad un paese moderno. Ma il rapporto mito-modernità è qui solo un elemento della trama, sì che il racconto sarà presentato avanti in una sezione più idonea.  















4. Onomastica parlante Nei confronti di questo termine avvertiamo da qualche tempo un certo fastidio perché ci pare non sempre adatto, nella sua genericità, a rendere le differenti sfaccettature della conno1   Per spiegare la creazione alvariana degli antichi giganti macrocefali occorre considerare che nel racconto coevo Gente in Aspromonte i moderni nemici dell’umanità sono i proprietari Mezzatesta, che maltrattano il pastore Argirò, soprannominato lo Zuccone. Così i giganti macrocefali, i Mezzatesta, lo Zuccone formano un sistema onomastico intra-autoriale perfetto. 2   Il personaggio è delineato dall’autore in un progetto non realizzato (datato 1953) di ripresa dell’abbozzo : « Seguitare inserendo : La donna che, pura di cuore, gli avvenimenti intorno a lei sciupano. Avvilisce il marito, rinnegando la vita di lui, rapporti, famiglia, origine. Lo deprime e lo rende inefficiente. Poi impotente » (cfr. la Nota di Arnaldo Frateili alla citata ed. di Domani, p. 210). Possiamo inserire nel repertorio delle ‘Susanne’ alvariane anche la Susanna, fugace apparizione al cap. ii di Tutto è accaduto, la quale subisce, come altre forestiere che arrivano alla pensione Passafiume, un processo di iniziazione alla corruzione romana.  







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tazione onomastica. Un nome può parlare apertamente o in maniera semiallusiva o in modi coperti e criptati che non sempre l’autore intende lasciare all’interpretazione del lettore. Mentre ‘parlante’ tout-court invita a far riferimento ad una comunicazione emittente-destinatario tranquilla e senza ostacoli : così come in maniera tanto chiara da risultare persino fastidiosa parla il pedagogico grillo di Pinocchio. In assenza però di una terminologia più duttile universalmente valida (‘connotativo’ ha estensione semantica parimenti allargata ; ‘allusivo’ potrebbe forse essere riservato ai casi in cui il testo si arricchisce per la messa in evidenza di una derivazione letteraria ; 1 ‘etichetta’ riduce ogni escursione di senso fissando il rapporto nomen-res lungo un asse unico ; ‘programma narrativo’ presuppone l’implicazione di tutto l’intreccio testuale, ciò che non sempre si verifica perché il nome è un segno polifunzionale dotato di significazioni che col programma narrativo possono avere scarsa attinenza), siamo costretti a ricorrere all’usurato termine ‘parlante’ avendo però la cura di indicare al suo interno alcune specificazioni. Preliminarmente però riteniamo opportuno individuare la posizione dell’autore nei confronti dei nomi chiaramente parlanti, di quei nomi cioè che fan riferimento in maniera diretta e inequivoca alle caratteristiche delle singole realtà nominate. 2 Alvaro non doveva averli in grande simpatia in quanto essi esprimono in maniera palese limitando la libertà dell’artista : « L’artista che si esprime si limita, non può essere se non quello che tutti possono vedere » dice in un appunto del 1936 3 in cui mette in rilievo la preferenza per una narrativa che suggerisca invece che definire, accosti soluzioni possibili invece che irrigidire in esiti univoci, accenni alla complessità del reale invece che fissare nell’assolutezza della formula. Ai personaggi è lecito estendere considerazioni che Alvaro riservava agli scrittori : « Si può scrivere senza dare le ragioni di certi movimenti e impulsi dell’animo. Tacerle. Forse è il modo migliore per rendere quell’affiorare misterioso di sentimenti e di inesplicabili complessi e timori che dominano l’animo di oggi ». 4 Questa insofferenza di Alvaro per l’onomastica che irrigidisce trova spiegazione anche nell’abbandono della mimesi realistica a favore di una rappresentazione simbolica e universalizzante del personaggio. Ma abbandoniamo il tema che merita d’essere trattato in altra sede e ritorniamo all’inquadramento dell’onomastica parlante. Nel periodo preso in esame notiamo il ricorso a varie modalità di svalutazione dell’assolutezza semantica del nome : A. L’uso di nomi dall’allusività incerta, per cui la coesistenza di vari possibili significati impedisce l’immobilizzazione di un personaggio psicologicamente complesso. Si consideri Pirria di Gente in Aspromonte, la serva amante di Camillo Mezzatesta, alla fine scacciata di casa dai suoi stessi bastardi. Avevamo notato in altra sede che lo statuto del personaggio è quello dell’indefinitezza psicologica, dell’inappartenza sociale ed economica. Questo statuto si riflette nell’oscillazione semantica del nome, che potremmo interpretare come collegato a quello di Phyrria, la ‘vinosa’ serva oraziana o alla qualifica di madre di coloro che hanno incendiato le proprietà dei Mezzatesta o, per la sua facilità a seminare figli, alla mitica Pirra, la gran madre popolatrice o infine al soprannome Pirria (‘pettirosso’) registrato dal Rohlfs. 5 B. L’uso di coppie onomastiche nelle quali i singoli elementi non sono in rapporto con le caratteristiche dei singoli personaggi perché alludono se mai, insieme, al senso dell’intera vicenda. È il caso di Immacolata Strano e Filippo Ligo che in Temporale d’autunno (Gente in  





















1   Per il significati di ‘letteratura allusiva’ si rimanda a due testi canonici : G. Pasquali, Arte allusiva, in Pagine stravaganti, ii, Firenze, Sansoni, 1968, p. 275 ; G. B. Conte, Memoria dei poeti e sistema letterario, Torino, Einaudi, 1974. 2   La posizione di Alvaro cambia in Tutto è accaduto, come è messo in evidenza nel lavoro citato alla nota 2 a p. 218. 3   Cfr. Alvaro, Quasi una vita. Giornale di uno scrittore, Milano, Bompiani, 1950, p. 156. 4   Ivi, p. 216. 5   G. Rohlfs, Dizionario dei cognomi e soprannomi in Calabria, Ravenna, Longo, 1979, ad vocem.  



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Aspromonte) segnano in sinergia i due estremi della vicenda di estraneità e di forte legame dei due amanti. C. L’uso di coppie onomastiche in cui uno dei nomi sia parlante, l’altro opaco, come Vocesana (parlante) e Primante (opaco) di Vocesana e Primante (Gente in Aspromonte), che pure appartengono a personaggi che hanno come modello i pirandelliani Giglione e Butticè dai nomi omologhi in quanto ambedue alludenti a caratteristiche fisiche. 1 A riprova sta il fatto che Primante è privo di valore connotativo anche in un’altra occasione, quando cioè è utilizzato in coppia con Giambacua nel racconto La siepe e l’orto. D. L’uso di coppie onomastiche in cui ciascuno dei componenti ha vis connotativa abbastanza scarsa da risultare irrilevante, ma ne acquista un surplus dal contatto con l’altro, sì che i due nomi definiscono la loro funzione per opposizione o per similarità. Sono i casi di Gioia e Foresto in Gioia (La signora dell’isola), che insieme connotano due diversi modi di affrontare la vita ; di Cecilia ed Ernesta che alludono agli opposti modi di vivere la vita di sacrifici del convento da parte delle educande ; di Remigio e Cecilia che connotano invece un’analoga accettazione della vita dei collegi religiosi (gli ultimi due casi nei Fiori dei conventi) ; 2 di Margherita e Narciso di Serate in città (Misteri e avventure) che assieme fungono, in quanto nomi floreali, da disancoramento dei personaggi dalla realtà. I nomi parlanti che etichettano o fissano in un gesto, in un tratto fisico, in una caratteristica spirituale non sono molti nel primo Alvaro. Al primo posto collochiamo le ‘ingiurie’ di Gente in Aspromonte, cioè di un racconto che, più che contravvenire ai criteri dell’autore su enunciati, riprende l’uso che delle ‘ingiurie’ in una comunità di parlanti aveva fatto il Verga dei Malavoglia. E al Verga in genere Gente in Aspromonte si ricollega anche per elementi ideologici e strutturali : la preponderanza delle motivazioni economiche e il culto della roba, la marginalizzazione dell’amore, lo scontro fra ceto possidente e forza lavoro che affida la speranza di riscatto alla prole, il fallimento delle speranze di riscatto, il senso della sconfitta di tutti in una generale saga dei vinti. In Gente in Aspromonte, pertanto, le ‘ingiurie’ sono più numerose che nelle altre opere alvariane, perché imposte dalla suggestione del modello. In alcuni casi, quelli della Schiavina, del Pretino, dello Zuccone (quest’ultima ‘ingiuria’ sarà ripresa in esame più avanti) esse sono funzionali al testo, influenti sulla struttura narrativa, elementi essenziali del narrato ; in altri (Il Labbrone, Il Pazzo, Il Sorcio) semplici marche prive di verifica testuale, non funzionali e non influenti, anche perché i personaggi che ne sono designati non hanno peso narrativo. Altri contatti col verismo verghiano si notano nel Rosso, la rossa figura diabolica che in Facce nascoste è la causa maggiore dell’affossamento economico delle ricche famiglie dei Querci e degli Idalgo, e nel bandito Timpa del Canto di Cosima (La signora dell’isola) che ha un nomignolo indicante chiaramente l’abitudine a sottrarsi alle ricerche dei carabinieri confondendosi con le asperità del terreno, « le accidenze del terreno », « stando immobile come un sasso », « come se davvero fosse divenuto di pietra » (cfr. il termine calabrese timpa). 3  





















6. Onomastica omologante Possiamo inserire in questa categoria soltanto gli antroponimi del romanzo testimonianza Vent’anni, in cui Alvaro descrive l’impatto della coscienza dei soldati con l’atrocità e l’assurdi1

  La novella di Pirandello è I due compari.   Il racconto I fiori nei conventi, prima uscito, col titolo I fiori e in versione differente, su « La Stampa » del 2 maggio 1932, farà parte della raccolta Incontri d’amore, Milano, Bompiani, 1940 e poi dei Settantacinque racconti, Milano, Bompiani, 1955. 3   Timpa significa « rupe, grosso macigno, roccia scoscesa, sasso, pietra… » ; cfr. G. Rohlfs, Nuovo dizionario dialettale della Calabria. nuova ed. interamente rielaborata, ampliata ed aggiornata, Ravenna, Longo, 1977. 2











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tà della prima guerra mondiale. Non c’è alcun proposito di individuare personalità distinte e reazioni psicologiche personalizzate in questo racconto accorato che presenta una comunità ‘omogenea’ di creature ugualmente sofferenti, in cui le parti si possono scambiare all’interno dello stesso schieramento (« egli era Attilio, si nutriva con la bocca di Attilio, era tutt’uno con lui ») e addirittura col nemico (« Osservandolo, gli pareva una faccia nota ; non era altro che una vaga rassomiglianza con lui Fabio : la stessa forma del naso, gli occhi a mandorla, una copia di lui stesso odiosa e nemica »). È ovvio pertanto che in Vent’anni l’antroponomastica, pur non essendo puramente denotativa, si limita a connotare l’assenza di rilievi individuali.  











7. Onomastica dell’esclusione e dell’inappartenenza Questa categoria era già stata da noi messa in rilievo soprattutto in Gente in Aspromonte, dove il protagonista ha la designazione anagrafica del cognome Argirò sin che si trova sui monti in rapporto con i pastori del suo stesso livello, ma la perde acquistando la designazione ingiuriosa di Zuccone quando, ritornato al paese, entra in contatto con un ambiente che lo esclude. Crisolia in Crisolia è la ragazza rapita dagli zingari che, non più paesana e non ancora integrata nel gruppo dei rapitori, non appartiene nemmeno col nome a nessuna delle due realtà sociali. Dale, il protagonista del romanzo L’uomo è forte è in una situazione simile a quella di Crisolia. 1 Allontanatosi dalla società borghese per disgusto nei confronti del degrado morale e della corruzione che la caratterizzano, ritorna alla terra d’origine nella quale crede che la rivoluzione abbia fatto nascere una nuova umanità. Egli aveva subito, infatti, la suggestione di una scultura propagandistica che « rappresentava una coppia, uomo e donna, alta otto metri, di gesso, che avanzava con passo forte guardando sicura davanti a sé » (con « gli occhi aperti sull’avvenire ») ; e anche delle cartoline che gli arrivavano dalla terra rivoluzionaria con figure altrettanto propagandistiche « rappresentanti donne belle e robuste che sorridevano felici brandendo un piccone, un remo, una bandiera ». Nel Paese della rivoluzione però si sente subito a disagio, anzi un estraneo, per l’uniformità del modo di vestire, di pensare, di agire che vi domina ; per la mancanza di libertà che costringe tutti ad essere « animali dello stesso gregge » ; per l’impossibilità di rifiutare una parte precisa e immodificabile : « Nessuno può uscirne, nessuno può rivolgere diversamente la sua vita e le sue azioni ». Preso anche lui nella « rete », non si sottrae all’incarico di compiere un delitto voluto dal partito rivoluzionario, di dare con ciò al regime l’opportunità di favoleggiare di una congiura controrivoluzionaria, di essere condannato a morire per mano di un Partigiano, di essere addirittura considerato una vittima dei controrivoluzionari e un eroe del regime quando miracolosamente sopravvive all’esecuzione. Pur tenendo nel debito conto il significato politico della storia di Dale, è certo che la sua doppia estraneità e assoluta solitudine sono sino a questo punto quelle di Crisolia : la grande differenza sarà nel finale, nel quale Dale, che è forte, intravede una nuova possibilità di fuga. L’onomastica sancisce anche nell’Uomo è forte la condizione del protagonista. I nomi dei rappresentanti disumanizzati del regime sono quelli delle loro funzioni, sempre basse funzioni, perché i livelli alti sono imperscrutabili e misteriosi : il Direttore dell’Ufficio Tecnico Industriale di Stato, la Segretaria, l’Inquisitore, il miliziano, il guardiano dell’albergo, il  



































1   L’uomo è forte fu giudicato da Giacomo De Benedetti sull’« Unità » in modi fortemente e ingiustamente polemici che colpirono molto Alvaro : « Dirò un giorno come è nato L’uomo è forte, di cui si dice sia stato un libro scritto per compiacere al fascismo, mentre invece fu sul punto di essere vietato dalla censura preventiva della Cultura Popolare. L’accusa fattami da Giacomo De Benedetti sull’”Unità” è di quelle che non dimentico. Non perdono che mi si dia del vile, quando nella mia vita ho fuggito sempre il sospetto della viltà anche se posso essere caduto in qualche viltà, come accade a tutti gli uomini, ma che mi rimorde. Non credo che un uomo vile possa raggiungere niente nella vita » : da Alvaro, Note autobiografiche, in Ultimo diario (1948-1956), Milano, Bompiani, 1961, p. 216.  











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Partigiano, ecc. ; mentre i nomi da società borghese delle donne con cui Dale ha a che fare rappresentano l’impulso alla libertà o per un processo di disillusione nei confronti delle infatuazioni rivoluzionarie, come in Barbara ; o più modestamente per il desiderio di godere del benessere (vestiti, biancheria, oggetti, bellezze naturali) che la società massificata nega, come avviene in Olga, la cameriera di origine americana. Lontano sia da coloro che hanno la disumanizzante nominazione della funzione sia dagli altri che portano l’anagrafica nominazione borghese sta Dale, dal nome restio ad offrire ipotesi di significato, chiuso nell’insieme inespressivo delle lettere : il nome di chi, esclusosi prima dal mondo borghese e poi da quello rivoluzionario, progetta la fuga verso una terza realtà. Muso nero è il nomignolo con cui un gruppo di ragazzini capeggiati da Cesarino bolla onomasticamente il reietto (Il nemico). Creosoto è il nome di un medicinale imposto alla fanciulla esclusa sotto tutti gli aspetti dalla società paesana a cui non appartiene : « Ma lei non è di queste parti » ; « L’hanno chiamata così perché non ha né padre né madre. Fu raccolta all’ospedale e chi la raccolse le mise questo nome » (Creosoto : con questo racconto, che fa parte dell’Amata alla finestra, 1953, ci spostiamo ancora avanti nel tempo). 1 Ci sia consentito concludere, ricollegandoci a questo nome di cosa, con l’analisi del racconto La cavalla nera, anch’esso non appartenente all’ambito cronologico fissato all’inizio (Incontri d’amore, 1940). Si otterrà ancora il risultato di interrompere l’arida tassonomia. Nella Cavalla nera sono presentate due comunità sociali differenziate : da una parte l’antica Potamia in cui è nato Bosso, paese montano di ladri rimasto al di fuori dello sviluppo della modernità, che il protagonista nemmeno ricorda per essere stato « molti anni […] qua e là pel mondo », dall’altra l’universo civilizzato rappresentato dal mondo percorso da Bosso e dal capoluogo del circondario. Due realtà inconciliabili e ostili, come testimonia la reazione difensiva degli abitanti del capoluogo nei confronti dei Potamesi che arrivano apparentemente per fare spese, in realtà per rubare :  



























- Che succede ? - mi chiede il Bosso. - Arrivano i nostri compaesani, i potamesi -. - E perché tutti si mettono al riparo ? - Non te ne ricordi. Non sono gente cattiva, i potamesi sono religiosi e fedeli, ma soltanto non distinguono tra la roba loro e quella degli altri. Ci sono i negozi con la roba fuori in mostra e gli stoccafissi appesi all’architrave, e le scope, e ogni sorta di cose ; c’è tanta grazia di Dio che è un peccato non profittare - Sono ladri, dunque -, fece il Bosso.  





Non vale a scalfire questa nomea di ladri il fatto che i mercanti del capoluogo ingannano a loro volta i Potamesi nello scambio di merci : rimane pur sempre la differenza che gli uni sottraggono perché da primitivi « non hanno il senso della proprietà », gli altri perché da civilizzati il senso della proprietà l’hanno anche troppo sviluppato. Il Bosso non appartiene a Potamia, di cui non ricorda più dialetto e abitudini, ma nemmeno alla civiltà nella quale ha vissuto gran parte della vita, perché, come fa capire l’io narrante, chi appartiene a due mondi in realtà resta a mezzo senza partecipare né dell’uno né dell’altro :  







1   Un caso non semplice è quello rappresentato da Cata, nome della prostituta che vive ai margini del bosco, fuori dal paese a cui appartengono le famiglie dei due ragazzi protagonisti del racconto. Esso appartiene pertanto ad una tipica figura di esclusa (un altro nome che appare nel racconto è il normale o anagrafico Giulio) ; ma potrebbe anche veicolare due altri significati : siccome la donna dorme il sonno della morte, Cata può riallacciarsi « al mito greco, alla dea degli Inferi, Ecate », come ha supposto Bàrberi Squarotti ; o – come ci pare più probabile – al viaggio di ritorno al paese, che è un iter verso l’infanzia perduta, una catabasi, compiuta dai due ragazzi che alla fine, trovando la donna morta, scoprono il senso della loro avventura : « Ci pareva che fosse finita coi sogni della nostra infanzia » (Cata dorme in Gente in Aspromonte).  















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Egli si esprimeva male in italiano, e non ricordava una parola del dialetto : era stato molti anni, una trentina, qua e là pel mondo. Aveva preso gesti e modi forestieri ; ma aveva ancora il modo proprio delle nostre parti, quel camminare impettito che è tutta la nostra scontrosità.  



È una legge valida in generale per tutti coloro che si sono allontanati dalle consuetudini avite :  

Però, noialtri quando usciamo dai nostri luoghi diventiamo tutt’altra gente : rimaniamo di coccio all’apparenza, e chi ci vede spuntare sa di che cosa si tratta ; ma fingiamo di non conoscere più il dialetto, di non ricordarci più chi eravamo ; insomma, di non essere più quelli.  





Come se non bastasse, l’io narrante chiarisce ulteriormente il concetto raccontando l’episodio dell’incontro in viaggio con la monaca divisa fra il Paese d’origine e la Francia :  

Una volta viaggiavo con una monaca che mangiava della frutta ; tornava in un convento di Marsiglia, ma dal modo come mangiava la frutta capii che veniva dai miei paesi ; ed era così. Si esprimeva male in francese, e allora, per rendere più facile la conversazione, le proposi di usare il dialetto dei nostri luoghi. Mi guardò stupita e mi disse che non ne intendeva una parola. Mangiava però la frutta come usa da noi.  



Il Bosso non è né montanaro né cittadino, né antico né moderno, né potamese né abitante del mondo. Se il suo nome coincide con quello di un legno, in realtà col legno non ha niente a che fare : al materiale il personaggio non è avvicinabile né per metafora né per metonimia, come Creosoto non ha niente a che fare col medicinale di cui le è stato imposto il nome. La nominazione non reifica, non marca ingiuriosamente, non connota caratteristiche fisiche o comportamentali, non rimanda ad un ipotesto, non indica un’assenza (della presenza del Bosso, anche se alla fine non la si può localizzare, si è certi). È la nominazione insomma di chi cede, si sottrae, si rifugia in una dimensione altra. Come Dale, infatti, il Bosso tenta una terza strada che lo porta lontano in una realtà non definita, la quale qui si tinge di mistero e soprannaturalità. È il senso della sua scomparsa al richiamo della misteriosa cavalla nera e rossa « meravigliosamente leggera sui garretti troppo fini […] Un rosso tra le palpebre, presso l’occhio fulvo, faceva divampare tutto quel nero » : forse nella ricerca della donna vestita di nero di cui egli s’è invaghito, anch’essa scomparsa. Una femmina di Potamia, sollecitata dall’io narrante a dire dove il Bosso si trovi, non risponde : « - Dove ? - le chiesi. Ma ella era già sparita alla mia vista ».  















PIRANDELLO TRA INVENZIONE E REVOCA DEI NOMI Angelo R. Pupino

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po strofata con il suo nome, la Medea di Seneca rispondeva : « Fiam » [voglio diventare una Medea]. « Medea nunc sum » soggiungeva. E ciò bastava perché Spitzer concludesse che il nome « rappresenta l’imperativo categorico del personaggio ». 1 Un enunciato condivisibile e condiviso dalle maestranze letterarie. Non a caso Proust testimoniò che « les noms présentent des personnes […] une image confuse qui tire d’eux, de leur sonorité éclatante ou sombre, la couleur dont elle est peinte ». 2 Certo, i protagonisti di Romeo and Juliet dovevano avere intuito che il nome non ha altro fondamento, come a suo tempo opinò Ermogene, « se non la convenzione e l’accordo », 3 tant’è che tra di loro si svolge il seguente dialogo :  























juliet. […] What’s in a name ? That which we call a rose By any other name would smell as sweet. So Romeo would, where he not Romeo called, Retain that dear perfection which he owes, Without that title. Romeo, doff thy name ; And for thy name, which is no part of thee, Take all myself. romeo. I take thee at thy word. Call me love, and I well be new baptized ; Henceforth I never will be Romeo. 4  





Le illusioni dei due giovanetti furono però smentite dai noti eventi rappresentati nella tragedia. Gravati da odi familiari, i loro cognomi cospirarono a un destino di morte. Chi poi ha investigato sui loro nomi vi ha sorpreso in flagrante il deposito e il veicolo di suggestioni letterarie. 5 È peraltro notorio che quantunque in maniere diverse in letteratura il nome proprio è di massima privo di innocenza. Non solo : a differenza di quanto insegna la dottrina dell’arbitrarietà del segno, esso tende a costituirsi in specchio di un’idea. Si pensi, a menzionare esempi proverbiali, a ciò che con i loro nomi riflettono e insieme evocano Clarissa e Justine, eponime dei celebri romanzi di Richardson e di Sade : pur se i loro rispettivi narratori pretendono che la prima sia limpida e la seconda onesta, nella storia narrata sono entrambe ambigue complici delle loro peripezie. O si pensi ancora a una Lucia Mondella, la fanciulla manzoniana di luce e purezza e purificazione ; 6 o alla torbida Fosca di Tarchetti e alla virgi 





1   L. Spitzer, Die klassische Dämpfung in Racines Stil [1931], in Idem, Romanische Stil- und Literaturstudien, trad. it. in Idem, Saggi di critica stilistica. Maria di Francia — Racine — Saint-Simon, prologo ed epilogo di G. Contini, Firenze, Sansoni, 1985, pp. 116-117. 2   M. Proust, Du côté de chez Swann, Parigi, Flammarion, 1987, p. 528. 3   Platone, Cratilo, 384d : « A me pare infatti » soggiungeva Ermogene « che se qualcuno pone un nome a un oggetto, questo sia il nome corretto ; e che se poi lo cambia con un altro e non chiama più l’oggetto con quello di prima, il nuovo nome non stia per nulla in modo meno corretto del vecchio » (trad. di F. Aronadio). 4   W. Shakespeare, Romeo and Juliet, Atto ii, vv. 42-51. 5   Vedi, in proposito, M. Picone, Onomastica e tradizione letteraria. Il caso di ’Romeo e Giulietta’, « il Nome nel testo », i, 1999, pp. 87-94. 6   Si rammentino i Versi improvvisati sopra il nome di Maria del Manzoni : « Egli è umil non men che mondo / Questo giglio delle valli » (A. Manzoni, Poesie e tragedie, a cura di F. Ghisalberti, Milano, Mondadori, 1957, p. 242). Ma sul nome Lucia vedi anche J. da Varagine, Legenda aurea. Vulgo historia lombardica dicta. Ad optimorum librorurum fidem,  





















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nale Albine di Zola. Massimamente esposta sembra poi la funzione del nome se assolve a responsabilità epigrafiche : 1 come ancora in Clarissa e in Justine (sintomatico in quest’ultimo romanzo il sottotitolo di Malheurs de la vertu) o come nel Fermo e Lucia. E si pensi anche a un titolo tratto dal bestiario come Madame Bovary ; o a quello di Malombra, che allunga l’ombra del male sulle vicende narrate dal romanzo ; e infine all’altro dei Malavoglia con cui si sanziona la velleità di ribellione e promozione sociale di una famiglia di pescatori in un mondo immobile e arcaico. Oppure si pensi al Rubè di Borgese. È il cognome del protagonista, Filippo. Il quale espone su di esso alcune meditazioni che sembrano accordarsi con quelle di Ermogene : « Strano affare questo del nome. È stampato sopra un’anima e si dovrebbe subito sapere cosa c’è dentro l’anima […]. Invece no. Non dice niente ». Ciò malgrado egli non rinuncia alla ricerca di un senso onomastico cui associare la propria identità : « bisogna capire il mio nome » riflette. « Sapere chi sono, per sapere che cosa devo fare ». 2 Quella ricerca non avrà però esito. L’identità del soggetto resta incerta, ed egli abdica al nome che la veicola e conclude : « Non avere nome ! Sparire ! »3 E qualcosa di simile accadrà a più di un personaggio di Pirandello.  



























   

Invenzione di nomi in Pirandello. Un breve campionario Premesso che tale invenzione andrà magari intesa in senso etimologico, ossia come inventio, aggiungo che recensendo nel ’95 D’Annunzio, precisamente Le Vergini delle Rocce, Pirandello confessa « quanta importanza abbia per l’artista il nome che deve personificare il tipo da lui creato e innanzi agli occhi suoi esistente come persona viva ». 4 Ed è sempre l’attrazione del nome che subisce nella novella Personaggi [1906]), ove al sopraggiungere del dottor Leandro Scoto (cognome conforme alle velleità filosofiche del denominato) il narratore gli dice : « Stabiliamo, prima di tutto, il nome. Come si vuole chiamare lei ? [...] E di cognome ? » È poi significativo che, enunciando il sopravvenuto le sue generalità, il narratore ne verifichi subito la congruenza con la di lui figura : « Vediamo un po’ : si metta più in là... » gli intima : « così, basta ... ora si giri ... sì, mi pare che il nome le quadri ». Non per nulla non sono eccezioni i nomi addirittura fonosimbolici come quello di Gasparina, che appartiene infatti a una « donnina fina fina » (Ma non è una cosa seria, 1925). Ma non che con ciò sia corroborato in assoluto che « li nomi seguitino le nominate cose, sì come è scritto “Nomina sunt consequentia rerum” ». 5 Il noto Mattia Pascal capovolge infatti il postulato. Cambiata la propria identità in quella di  



































Recensuit Th. Graesse, Vratislaviae, Koebner, Apud Guilelmum, 1803, pp. 29-30 : « Lucia dicitur a luce. Lux enim habet pulchritudinem in aspectione, quia, dicit Ambrosius, lucis natura haec est, ut omnis in aspectu ejus gratia sit. Per hoc ostenditur, quod beata virgo Lucia habuit decorem virginitatis sine aliqua corruptione, diffusionem caritatis sine aliquo immundo amore, rectum incessum intentionis in Deum sine aliqua obliquitate, longissimam lineam divinae operationis sine negligentiae tardivitate. Vel Lucia dicitur quasi lucis via ». Sul cognome mi permetto di rinviare per brevità al mio Manzoni religione e romanzo, Roma, Salerno Editrice, 2005, pp. 119 sgg. 1   In proposito vedi Ph. Hamon, Un discours contraint [1973], trad. it. in Idem, Semiologia, lessico e leggibilità del testo narrativo, Parma, Pratiche, 1977, pp. 108 sgg. Ivi vedi anche Per uno statuto semiologico del personaggio [1972]. 2 3   G. A. Borgese, Rubè, Milano, Mondadori, 1980, p. 323.   Ivi, p. 350. 4   [Si cita, senza altre indicazioni, da : Tutti i romanzi, a cura di G. Macchia e M. Costanzo, 2 voll., Milano, Mondadori, 1973 (« I Meridiani »). Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, con una premessa di G. Macchia, Milano, Mondadori, 1985 (« I Meridiani »), vol. i (2 tomi) ; 1987, vol. ii (2 tomi) ; 1990 vol. iii (2 tomi). Maschere nude, a cura di A. d’Amico, Milano, Mondadori, 1986 (« I Meridiani »), vol. i ; 1993, vol. ii ; 2004, vol. iii ; 2007, vol. iv (a cura di A. d’Amico con la collaborazione di A. Tinterri ; contiene anche Opere teatrali in dialetto, a cura di A. Varvaro, con un saggio introduttivo di A. Camilleri). Saggi, poesie, scritti vari, a cura di M. Lo Vecchio-Musti, Milano, Mondadori, 1960 (ultima ed. riv. 1977). Saggi e interventi, a cura e con un saggio introduttivo di F. Taviani e una testimonianza di A. Pirandello, Milano, Mondadori, 2006 (« I Meridiani ») ; Interviste a Pirandello. « Parole da dire, uomo, agli altri uomini », a cura di I. Pupo, Soveria Mannelli (Cz), Rubbettino, 2002. La data indicata per ogni testo è quella della sua prima stampa]. 5   D. Alighieri, La Vita Nuova, xiii, 4. Ma vedi anche ii, 1 (« la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice, li quali non sapeano come si chiamare »).  













































pirandello tra invenzione e revoca dei nomi

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Adriano Meis, procede alla « necessaria e radicale alterazione dei connotati ». Se nell’universo di un racconto il titolare di un nome mutante diventa lui conseguenza del nome stesso, resta però l’interdipendenza tra questo e il corpo, 2 magari per antitesi, come nel caso del signor Ildebrando, l’organista della novella Pena di vivere così [1920]. Il nome del quale, « così sonoro e compromettente » (radice hildjo ‘battaglia’), appariva « il più improprio di tutti i nomi che avrebbero potuto dargli, non solo al suo corpicciuolo gracile, fievole, ma anche alla sua indole, al suo animo ». 3 Nell’opera di Pirandello, insomma, nomi cognomi soprannomi dei personaggi sono in genere segni motivati, pur se talvolta in modo criptico. Del pari che il legislatore del Cratilo, 4 l’Autore impone spesso nomi conformi all’oggetto. O meglio : all’idea che ne ha lui, talché i personaggi con un medesimo nome che si incontrano in individui diversi possono assolvere a funzioni simili. (Un solo esempio : il Casimiro Luna di Suo marito, 1911, è un frequentatore degli snobistici quanto futili salotti letterari romani del pari che l’omonimo del Sonno del vecchio, una novella del 1906). A cominciare da qualcuno dei molti soprannomi, ecco un personaggio della Signora Speranza [1903] : « fumava continuamente ; — Vesuvio » lo chiamavano allora. O si pensi a Rondone e Rondinella, così denominati perché ogni estate tornavano al « vecchio nido » e « svolavano irrequieti dalla mattina alla sera » (Rondone e Rondinella [1913]) ; si pensi a don Palmiro ovvero Sampognetta « perché, distratto, fischia sempre » (Leonora, addio !, 1910, poi Questa sera si recita a soggetto, 1930) ; si pensi al Cavalena, detto Suicida perché, « abituato a vedere il mondo come una galera », non riesce « a comporre una trama di film senza che a un certo punto non ci scappi un suicidio » (Si gira, 1915, poi Quaderni di Serafino Gubbio operatore, 1925). Soprannomi, quelli menzionati, volti tutti a etichettare l’oggetto secondo i suoi requisiti. Quanto ai nomi propri, è relativamente complesso il caso di Cristoforo Golisch, prenome italiano e cognome tedesco : nato in Italia da genitori tedeschi, si esprimeva in romanesco, fino a un’emiplegia che lo faceva sembrare « un tedesco che si sforzasse di parlare italiano » (La toccatina, 1906). 5 Copiosissimi sono invece i nomi propri del tutto trasparenti. Mi limito a un loro svelto campionario. Ecco un « Pietro di nome » che guarda caso è « pietra di fatto » (Lontano, 1902) ; ecco Amina, che quasi priva di « corpo », nutre l’« anima » di cui il suo nome è  

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1   Ricordo che cambiando nome Mattia Pascal si lascia dapprima accorciare la barba (e già pensa : « Ah, quest’occhio » : ibidem) ; quindi immagina un nuovo aspetto di sé e sceglie un nome consono allo stesso (« Mi parve anche che questo nome quadrasse bene alla faccia sbarbata e con gli occhiali, ai capelli lungi, al cappellaccio alla finanziera che avrei dovuto portare »), infine si sottopone ai cambiamenti e all’intervento chirurgico che corregge il suo strabismo. 2   Posto che il referente di un discorso non è « la realtà, ma la sua realtà, vale a dire ciò che il discorso sceglie o istituisce come realtà », il Ducrot osserva che « Pirandello riassume in maniera esemplare il dilemma che s’incontra in qualsivoglia riflessione sulla referenza. La parola, proprio per il fatto che esige di esser messa in relazione con un reale ad essa esterno, vieta di concepire codesto reale come diverso dall’immagine che di esso vien data. La realtà, se non è il referente di un discorso, è muta ; e, se ne è il referente, pare condannata a rifletterlo » (O. Ducrot, Referente, in Enciclopedia, xi, Torino, Einaudi, 1980, pp. 704-706, il corsivo è nel testo). 3   La storia del testo certifica che il nome di Ildebrando (inizialmente Cesarino) e la rapida descrizione del suo titolare compaiono solo nel rifacimento del ’36. A maggior ragione non si può pertanto escludere che tal nome, non troppo diffuso, fosse ispirato da quello di Ildebrando Pizzetti, che con Pirandello fu firmatario del manifesto degli intellettuali fascisti nel ’25 e accademico d’Italia. Ma invero egli era ben noto anche nel ’20, tanto più che a quell’epoca aveva già profuso il suo talento in un lungo sodalizio con D’Annunzio (per La nave nel 1908, per la Pisanelle, per la Fedra nel 1915). 4   Platone, Cratilo, 389a-390a (vedi in merito R. Barthes, Proust e le noms [1967], in Idem, Le degré zéro de l’écriture suivi de Nouveaux essai critiques [19722], trad. it. Il grado zero della scrittura seguito da Nuovi saggi critici, Torino, Einaudi 1982, p. 127 : « Quando inventa un nome proprio lo scrittore è infatti sottoposto alle medesime regole di motivazione del legislatore platonico allorché questi vuole creare un nome comune : in un certo qual modo, egli deve “copiare” la cosa »). Ma non si dimentichi W. Benjamin, Schriften [1955], trad. it. Angelus novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1962 (vedi ivi Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini). 5   Caso non unico, peraltro, quello di Cristoforo Golisch : si pensi all’eponimo del Tonio Kröger (1903) di Thomas Mann, di padre tedesco e madre italiana.  

































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anagramma di ricordi senza « materialità » (Piuma, 1917) ; ecco ancora due nomi che si illuminano vicendevolmente : appartengono a professori che non per nulla si presentano in coppia : il primo, dal nome imponente e debordante, Pompeo Emanuele Mormoni, è « alto, grasso, bruno, dai grand’occhi neri e dal gran pizzo qua e là appena brizzolato come i capelli, dignitoso sempre » e dagli « atteggiamenti monumentali » ; il secondo, Attilio Nusco, nome rastremato che richiama il comune irpino, « era al contrario fino fino, piccolo, gracile, timido, tutto vibrante, tutto impacciato », una « miserrima personcina » – è detto il « professoricchio » – che rispetto al suo collega sembrava un suo doppio rovesciato (L’esclusa, 1901). Ecco infine la suggestiva figura di un’anziana donna abitante in una villa solitaria ove la luce, avverte una didascalia, « pare provenga da una lontanissima vita » :  





































tutta bianca e come allucinata, avrà negli occhi una luce e sulle labbra una voce così « sue » che la faranno quasi religiosamente sola tra gli altri e le cose che la circondano. Sola e nuova. E questa sua « solitudine » e questa sua « novità » turberanno tanto più, in quanto si esprimeranno in una quasi divina semplicità, pur parlando ella come in un delirio lucido che sarà quasi l’alito tremulo del fuoco interiore che la divora e che si consuma così.  











È la Madre della Vita che ti diedi [1924]. Che se si chiama donna Anna Luna è perché – nomen omen – è creatura appunto selenica. E la luna, insegna una « romanza » più volte deferita da Pirandello, p. es. in Illustratori, attori e traduttori (1908), ha la facoltà medianica di destare le « fantasime ». 1 Ebbene, nell’apparenza « bianca » e « allucinata » della donna, nel suo « delirio lucido », nella sua estasi « divina », si coglie l’aliena che evoca il fantasma. Su di una scena « vuota e buja », rischiarata da « un solo riverbero spettrale », si celebra una liturgia spiritica che favorisca la materializzazione del figlio defunto. O si pensi a combacio a uno dei molti personaggi che popolano I vecchi e i giovani (19091913), Dianella (per l’amante del di lei padre semplicemente Diana) : pur come ipocoristico, questo nome mitologico, simbolicamente virginale quanto anch’esso selenico, non solo designa : significa. Appartiene a una figura incontaminata (e « pura divinità » chiama Nono Giuncano la dea in Diana e la Tuda, 1927). Alcuni frammenti ne narrano l’« intimità misteriosa con la natura », nel grembo della quale la sua « anima » s’è come « diffusa e confusa » ; ne descrivono l’estasi trepida e assorta in « una profonda notte lunare su la campagna », e si dica pure in una natura illuminata appunto dalla « luna ». Sono frammenti tra i più felici del romanzo, nella tensione dei quali si coglie – orchestrata da amplificazioni, ripetizioni, esclamazioni, interrogazioni – la connivenza di un narratore che con il discorso indiretto libero giunge a immedesimarsi con il personaggio :  































































visse per un istante quasi incosciente, con la terra, come se l’anima le si fosse diffusa e confusa in tutte le cose della campagna. […] Ah, era pur bello lo spettacolo di quella profonda notte lunare su la campagna, con quegli alberi antichi, immobili nel loro triste sogno perenne, sorgente col fusto dal grembo della terra, con quei monti laggiù che chiudevano, cupi contro il cielo, il mistero degli evi più remoti, con quel tremulo limpido assiduo canto dei grilli che, sparsi tra le erbe dei piani, pareva persuadessero all’oblio d’ogni cosa.

E allude talmente a dimensioni pirandelliane quali la « lontananza » e l’« oltre », ed è così divina, così panteistica, la « natura solitaria » nella quale si annulla, 2 che in siffatta « bellezza »  















1   È la « romanza di Arrigo Heine su Jaufré Rudel e Melisenda ». Secondo Providenti (vedi L. Pirandello, Lettere della formazione. 1891-1898. Con appendice di lettere sparse. 1899-1919, a cura di E. Providenti, Roma, Bulzoni, 1996, pp. 44-45), nel riferire la leggenda di Heine, Pirandello si sarebbe avvalso delle suggestioni sugli « spiriti ritornanti » di cui parlava una conferenza di Carducci su Jaufré Rudel, della quale possedeva l’opuscolo (vedi, in proposito, A. Barbina, La biblioteca di Pirandello, Roma, Bulzoni, 1980, p. 49). 2   Si sono elencate qualità di Dianella esplicitamente o implicitamente appartenenti alla luna (vedi sub voce J. Chevalier e A. Gheerbrant, Dictionnaire des symbols [1969], trad it. Dizionario dei simboli, Milano, Rizzoli, 19895, ii).  







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gravida di mistero Dianella sente alitare lo « spirito di Dio ». Salvo che bisognerà appurare, e si appurerà, l’idea di Dio.  



Mattia Pascal Il discorso sull’antroponomastica pirandelliana potrebbe prolungarsi di molto, ma nella presente circostanza basterà rinviare alle acute analisi di un Sedita, di un Porcelli, di un Marzano ; o magari a quelle forse troppo suggestive di un Artioli ed ora di un Sichera. 1 S’intende però che non si potranno sottacere almeno i due casi che sono forse i più paradigmatici di tutti, e che alla nominazione uniscono peraltro la revoca che gli stessi personaggi ne compiono. Il primo caso è quello dell’eponimo del Fu Mattia Pascal, un bibliotecario in fuga dalla sua cittadina. Il nome era per lui così centrale da costituire la sua unica certezza. Che poi non gli sembrava nemmeno decisiva, se in una postazione strategica come l’incipit dichiarava :  



Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa : che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno de’ miei amici o conoscenti dimostrava d’aver perduto il senno fino al punto di venire da me per qualche consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle, socchiudevo gli occhi e gli rispondevo : - Io mi chiamo Mattia Pascal. - Grazie, caro. Questo lo so. - E ti par poco ? Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ma ignoravo allora che cosa volesse dire non sapere neppure questo, il non poter più rispondere, cioè, come prima, all’occorrenza : - Io mi chiamo Mattia Pascal.  







Perché il personaggio avvisa che gli sarà inibita la dichiarazione di generalità, « Io mi chiamo Mattia Pascal », che andava ripetendo come un automa ? Va premesso che il « senso » del nome, del resto poco misterioso, lo rende esplicito del tutto il fratello quando esclama : « Mattia, l’ho sempre detto io, Mattia, matto... Matto ! matto ! matto ! ». E si pensi in proposito a don Mattia Scala, che nella novella Il « fumo » (1904) esce « come un pazzo » da uno studio notarile ; 2 o ancor di più a Matteo Falcone, il professore deforme che nell’Esclusa s’innamora di Marta Ajala : titolare di un nome che ha la stessa radice di Mattia, precipiterà presto nelle tenebre della follia. E il senso del cognome, invece ? Le congetture sono parecchie. Due sembrano però particolarmente plausibili. Una è sottoscritta da Giovanni Macchia, 3 il quale rilevò che quel cognome è lo stesso di un divulgatore delle dottrine teosofiche che si insinuano nel romanzo, autore di due opere della biblioteca di Anselmo Paleari : Théophile Pascal. Che in una, Les Sept principes de l’homme, parla anche, come il Binet delle Altérations de la personnalité, compulsatissime da Pirandello, di « personnalités successives », 4 una scoperta su cui fin da Scienza e critica estetica (1900) insorge una teoria del doppio, e si aggiunga che successive saranno appunto nel Pascal le personalità del suo protagonista. Se poi l’allusione del teosofo è alle  



















   



















1   Vedi. L. Sedita, La maschera del nome. Tre saggi di onomastica pirandelliana, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1988 ; B. Porcelli, In principio o in fine il nome. Studi di onomastica su Verga, Pirandello e altro Novecento, Pisa, Giardini, 2005 ; P. Marzano, L’onomastica nelle novelle di Pirandello. Con un regesto di nomi e personaggi, tesi di dottorato, Unversità di Napoli « L’Orientale », a.a 2005-2006 ; U. Artioli, L’officina segreta di Pirandello, Roma-Bari, Laterza, 1989 ; A. Sichera, Ecce homo ! Nomi, cifre e figure di Pirandello, Firenze, Olschki, 2005. 2   Mattia Scala è nome che sopraggiunse quando il testo del « Fumo » fu ripubblicato, con molteplici varianti, nel vol. i delle Novelle per un anno (1922), ove sostituì il precedente nome di Matteo Sinagra, probabilmente perché questo era intanto passato al protagonista della novella Da sé (1913). E in merito a tale personaggio e al suo nome vedi infra. 3   G. Macchia, Pirandello o la stanza della tortura [1981], Milano, Mondadori, 2000, p. 42. 4   Th. Pascal, Les Sept principes de l’homme ou sa constitution occulte. D’Après la Théosophie, Parigi, Chamuel, 1895, p. 174.  

















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personalità che assumerebbe un Ego immortale reincarnandosi, e perciò raddoppiandosi o perfino moltiplicandosi, si ricorderà la « rincarnazione » del bibliotecario, cui è dedicato un capitolo dallo stesso intertitolo. La seconda congettura la veicola tortuosamente il narratore autodiegetico quando riflette : « Chi ero io ? Nessuno ! » Si prolunga tuttora la conseguenza traumatica della destituzione del cogito ? 1 Sono trascorsi invero più di vent’anni da quando alle « certezze immediate » come « io penso » Nietzsche aveva eccepito : « Che cosa mi dà il diritto di parlare d’un io e perfino d’un io come causa, e infine ancora come causa dei pensieri ? ». 2 Il narratore di Pirandello elude a sua volta la conclusione cartesiana ergo sum, e alla inconfutabilità del soggetto promossa dal dubbio metodico, sostituisce l’annullamento dell’identità, la dispersione dell’io, ciò che sul versante della psicologia sperimentale confermava il Binet. Non a caso nell’Umorismo [1908], ch’è dedicato alla « buon’anima di Mattia Pascal », si badi, si legge allora un pensiero sintomatico di Blaise Pascal, post-cartesiano critico di cui s’è fatto spesso il nome (su di lui ha insistito da ultimo e con intelligenza la Nobili) : 3 « Non c’è uomo, osservò il Pascal, che differisca più da un altro che da se stesso nella successione del tempo ». Alludendo a uno sdoppiamento, ed anzi a una moltiplicazione, il frammento ben sintetizza la storia di Mattia Pascal, che peraltro, anticipando all’ingrosso la suddetta citazione del filosofo francese, aveva confessato : « In poco tempo, divenni un altro da quel che ero prima ». Fingendosi in seguito morto, cambiando nome connotati vita, ma intanto perdendo l’io e riducendosi poi a « Nessuno », ancor di più egli intende differire nel tempo da se stesso, congedarsi dal proprio passato e proiettarsi in un futuro illibato. (Un futuro di cui forse è presagio, se posso aprire una parentesi, il cognome scelto per la nuova vita : Meis. Che non era probabilmente senza ragion d’essere, visto che altri come Strozzani, Parbetta, Martoni, Bertusi erano stati accantonati perché non esprimevano « alcun senso ». Vero è che la procedura onomaturgica del Cratilo è contraddetta dall’osservazione : « Come se, in fondo, i cognomi dovessero averne ». Solo che poi la scelta, suggerita da una conversazione di sconosciuti, cade su Meis. Il cui valore intrinseco viene enfatizzato dal narratore quando esulta : « Benone ! M’hanno battezzato ». Perché quel cognome ? Esso evoca un idolo del Capuana, il De Meis. E se questi aveva indicato nel romanzo « la sola epopea possibile del tempo moderno », 4 il personaggio pirandelliano narra le vicende passate e presenti del proprio doppio, dell’« uomo inventato », come un romanzo, ove chi agisce è del pari che costui un homo fictus). 5 Per completare poi il discorso sul cognome in questione va detto che pure a prescindere dal ragguaglio a Blaise Pascal offerto dall’Umorismo, ancora a lui, all’Histoire de la roulette e alla sua Suite, all’Aleae geometria e al carteggio con Pierre Fermat, conducono le ironiche opinioni del fuggitivo sull’« equilibrio delle probabilità ». E di ciò si può forse scorgere un’eco in quella Méthode pour gagner à la roulette che egli acquista e legge a Nizza. Sull’autore delle Pensées orientano inoltre le considerazioni della Premessa seconda sopra la piccolezza dell’uo 









   









































































1   Vedi, in proposito, J. Derrida, L’écriture et la différence [1967], trad. it. La scrittura e la differenza, Torino, Einaudi, 1971 (Cogito e storia della follia, 1963). 2   F. W. Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse, trad. it. Al di là del bene e del male, Milano, Adelphi, 199916, pp. 20-21. La premessa di Nietzsche (cfr. ibidem) era : « se scompongo il processo che si esprime nella proposizione “io penso”, ho una serie di asserzioni temerarie, la giustificazione delle quali mi è difficile, forse impossibile, – come per esempio, che sia io a pensare, che debba esistere un qualcosa, in generale, che pensi, che pensare sia un’attività e l’effetto di un essere che è pensato come causa, che esista un “io” ». 3   C. S. Nobili, « La materia del sogno ». Pirandello tra racconto e visione, Pisa, Giardini, 2007, pp. 19 sgg. Nell’occasione la Nobili ha anche puntualmente ricostruito la lunga fila di studiosi convergenti sull’ipotesi onomastica da lei ripropo4   A. C. De Meis, Dopo la laurea, Bologna, Monti, 1868, i, p. 226. sta con motivazioni persuasive. 5   Vedi, in proposito, E. M. Forster, Aspects of the Novel, trad. it. Aspetti del romanzo, Milano, il Saggiatore, 1968, p. 79.  









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mo post-copernicano nell’universo, tanto più che di esse si ha conferma nelle novelle Sopra e sotto (1920) e Rimedio : la geografia (1920) : nella prima il professor Sabato attribuisce esplicitamente al filosofo francese l’idea del professor Lamella. « Questo, prima di tutto, l’ha detto Pascal » obietta : « Significa che la grandezza dell’uomo, se mai, è solo a patto di sentire la sua infinita piccolezza ! Significa che l’uomo è solo grande quando al cospetto dell’infinito si sente e si vede piccolissimo ; e che non è mai così piccolo, come quando si sente grande ». Nella seconda novella si invoca invece « Biagio Pascal » : sia per ricordare « la malinconia dei filosofi che ammettono, sì, piccola la terra, ma non piccola intanto l’anima nostra se può concepire l’infinita grandezza dell’universo », sia per riprendere nel seguito il discorso, pur variato, di Sopra e sotto. Ma i due ragguagli or ora illazionati per il cognome del memorialista, se pure convergono, sembrano senz’altro eterogenei. Cos’hanno in comune tra loro i due Pascal reali ? Niente. E se essi si escludono reciprocamente, non si escludono l’un l’altro anche i ragguagli ? Dalla postazione da cui muove Pirandello invece si conciliano. Anzi : si integrano. Anzi : si motivano a vicenda e a vicenda si tengono. Prima di tutto perché veicolano una duplicità conforme al personaggio umoristico. 1 E poi perché questa duplicità demarca l’istanza etica e l’istanza teoretica, esoterica o magari metafisica, che si riflettono e convivono nel Pascal immaginario : l’istanza etica che per quel che rappresenta veicola il grande Blaise, e se ne scorgerà una traccia se pur stravolta in quella rifrazione esterna del fuggitivo che appare il cavalier Tito Lenzi, un raisonneur ; e l’istanza teoretica, esoterica o magari metafisica, che per quel che rappresenta veicola l’oscuro Théophile, e questa volta se ne scorgerà un’epifania in quell’altra rifrazione esterna del fuggitivo che appare Anselmo Paleari, il pensionato teosofo titolare della « lanterninosofia » : un altro raisonneur. Del pari che questi altri suoi due doppi, Mattia Pascal filosofeggia infatti spesso sui due versanti, tanto nella sua prima esistenza che soprattutto nella seconda. Benché nel corso dell’una rinneghi i « libri di filosofia », dissemina indizi di interessi speculativi in Maturazione ; e dell’altra racconterà : « filosofo dovevo essere per forza ». Né omette la sindrome del raisonneur : « Ragioniamo un po’ » dice, pur se si appella sornione, svalutando con ciò stesso il suo ragionamento, a quella « logica » che L’umorismo sanzionerà come « macchinetta infernale » o « sublimato corrosivo ». E si badi : tale duplicità cospira a peculiarità dell’umorista : la « perplessità » e la conseguente inettitudine di Mattia Pascal, un replicante di Amleto. Che secondo Graf era dominato da « esigenza teoretica ». Come l’esemplare umano della modernità. 2 Quanto alla specifica specularità rispetto a Tito Lenzi si osservi inoltre che se Adriano Meis consente con entusiasmo ai di lui « arguti e concettosi discorsi » (« Me lo sarei baciato »), sminuisce tuttavia la loro credibilità, visto che umoristicamente presenta il cavaliere con « gambe così piccole, che non arrivavano neanche a terra, se stava seduto » : gambe corte come le hanno le bugie. Perché ? Riprendendo le argomentazioni di altri testi pirandelliani, il cavaliere esibisce una filosofia pratica relativistica da cui consegue che non esiste, che non può esistere un’etica universale o durevolmente intersoggettiva, se la coscienza, lungi dall’essere un « assoluto », è frutto dell’aggregazione precaria di « inclinazioni » mutevoli, esposte all’« aria del momento » ; se insomma si piega a circostanze relative che sottraggono ai comportamenti del soggetto ogni consistenza assiologica. E Tito Lenzi, scettico sui valori, è infatti un millantatore pronto a « mentire con tanta disinvoltura e con tanto gusto ». Ebbene : nemmeno Adriano Meis esita a confessarsi « bugiardo », di essere un’« ombra di vita, sorta da una menzogna macabra », cui metter fine con un’altra menzogna. E lo stesso Mattia Pascal, non appena si sarà liberato da  



































































































































1   E molto opportunamente si è rilevato : « Pirandello non fa nulla per suggerire un’interpretatio univoca ; possiamo anzi dire che lavora per lasciare nel testo indizi contrastanti» (Porcelli, In principio o in fine il nome, cit., p. 73). 2   A. Graf, Amleto : indole del personaggio e del dramma, « Nuova Antologia », xxxi, marzo 1876, p. 536.  











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tal « ombra », pensando proprio a Tito Lenzi, gioirà all’idea di poter mentire : « Ah, ora, ritornando vivo, avrei potuto anch’io prendermi il gusto di dire bugie, tante, tante, tante, anche della forza di quelle del cavalier Tito Lenzi, e più grosse ancora ! » Ma se è vero che l’antroponomastica pirandelliana così vistosamente sorniona non è separabile dalle sue implicazioni magari sinuose, a monte o a valle che stiano, si dirà che dopo l’ultima sua resurrezione e il ritorno, Mattia Pascal aspira, come opina Donati, a « un’altra vita oltre la morte grazie al suo racconto, cioè grazie al processo di autonarrazione che lo costituisce personaggio ». 1 Intanto è come morto. È un revenant, un morto vivente. Privo di identità, egli si reputa « già fuori della vita » prima di incominciare a raccontare le proprie vicende, e poco dopo interrompe la narrazione per confermare : « son come fuori della vita » – e non si tralasci che secondo I vecchi e i giovani esser « fuori della vita » significa esser « fuori del tempo », e stando all’Enrico IV [1922] anche « fuori del mondo » : significa abolire non solo l’attualità del pari che la storia, ma anche il tempo e gli avvicendamenti di passato presente futuro che scandiscono l’esistenza. D’altra parte Mattia Pascal, finite le memorie della sua « bislacca avventura », confida : « Dormo nello stesso letto in cui morì la povera mamma mia ». È come agognare a ricongiungersi al di lei grembo nella eternità della morte o nella « vita oltre la morte ». Né sarà per accidente se egli non frequenta che siti funebri, siti di morte : il cimitero e la biblioteca romita. La quale, se a Saccone è apparsa circoscrivere « uno spazio fuori dello spazio, un tempo fuori del tempo », secondo l’Angelini surroga proprio un cimitero, dal momento che non vi appare « anima viva » (il corsivo è mio). 2 Ma il bibliotecario delucida. Quando il suo manoscritto è al termine, ed egli è perciò diventato personaggio, dopo un pellegrinaggio al suo habitat deputato, il sepolcro, a un « curioso » che gli domanda chi egli sia, risponde beffardo : « Io sono il fu Mattia Pascal ». Una sentenza capitale, e non solo perché chiude in circolo il libro inaugurato da un’epigrafe speculare e ne sancisce il senso. Il soggetto motiva altresì perché non può più dire « Io mi chiamo Mattia Pascal ». Afferma con un ossimoro, che in quanto tale è coerente all’umorismo, la propria inconsistenza di un essere (« sono ») che non è (« fu ») : « Uno che non è più » come in Di sera, un geranio (1934) e il trapassato guarda caso anonimo. Un’identità perenta, quella del bibliotecario, un nome per così dire preterito, il suo : il nome di chi non ha più nome ; il nome ch’è cauzione di assenza, ormai, non di presenza ; il nome che appartenne alla persona che fu, non al personaggio ch’è adesso. Inciso sulla « lapide » che ricopriva le spoglie dello sconosciuto, quel nome, come poi opinerà Moscarda del proprio, restava vincolato con l’epitaffio a una funzione funebre : apparteneva a un morto, il « vecchio “io” » rinnegato da Nietzsche, l’« anima » ontologica. 3 « Una volta », aveva egli osservato, e non senza sarcasmo, « si credeva all’anima come si credeva alla grammatica e al soggetto grammaticale ». 4 « Una volta » appunto. Tuttavia Mattia Pascal ha appena confidato : « Io ora vivo in pace ». Ma come : vive ancora ? E perché « in pace » ? Nel gioco di specchi che svolge con il romanzo, non attesta quattro anni dopo L’umorismo in esergo che il « bibliotecario » era « buon’anima » ? E lui, non si presenta come « il fu Mattia Pascal » ? Commutato in personaggio, quel personaggio che ha guadagnato un suo spazio letterario, è diventato puro spirito. « Creature » dello « spirito », come dirà la  







   

























































































































































1

  C. Donati, Il sogno e la ragione. Saggi pirandelliani, Napoli, esi, 1993, p. 106.   Cfr. rispettiv. A. Saccone, La biblioteca del ’Fu Mattia Pascal’, in Luoghi e paesaggi della narrativa di Pirandello, a cura di G. Resta, Roma, Salerno Editrice, 2002, p. 195 ; e F. Angelini, Cimiteri, ivi, pp. 49-50. 3   Cfr. Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse, trad. it. cit., pp. 21-22 : « è una falsificazione dello stato dei fatti dire : il soggetto io è la condizione del predicato “penso”. Esso pensa : ma che questo “esso” sia proprio quel famoso vecchio “io” è, per dirlo in maniera blanda, soltanto una supposizione, un’affermazione, soprattutto non è una “certezza immediata”. E infine, già con questo “esso pensa” si è fatto anche troppo : già questo esso contiene una interpretazione 4   Ivi, p. 60. del processo e non rientra nel processo stesso ». 2















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Prefazione ai Sei, i personaggi sono infatti essi stessi spirito, entità spirituali. Tant’è che nei Giganti (1931-1934) il mago Cotrone, alla contessa Ilse che gli chiede se lui e i suoi adepti credono negli spiriti, risponde : « Come no ? Li creiamo ». E allude precisamente ai personaggi. Intanto, esaudito il desiderio che lo promuove a personaggio, scritte cioè le sue memorie, come le Apparenze senza nome del « mistero profano » All’uscita (1916), il loro collega Mattia Pascal può consumare anch’egli « la vanità ancora per poco superstite » e disgregarsi poi nell’oltre. Così la Madre defunta, esaurita la conversazione con il figlio, svanisce (Colloquii coi personaggi, 1915). Con la sua novella ha conquistato il rango di personaggio, e con esso l’« esistenza imperitura » (era questo l’ultimo suo desiderio ?) che il dottor Scoto s’attende da un racconto. Ed ora, « ombra » anch’essa senza nome d’una persona che fu, del pari che le Apparenze, e o prima o poi qualunque revenant, si disperde in quella « vita universale, eterna » di cui aveva parlato Anselmo Paleari. Esponendo infatti la sua cosiddetta « lanterninosofia », il pensionato ingegna le sue facoltà teoretiche : cede a ipotesi metafisiche, e colorandole di teosofia azzarda che dopo la morte « rimarremo […] alla mercé dell’Essere » con la maiuscola. Anzi : che la morte non esiste. Se ne configura l’idea, coonesta, solo per il « limite » della conoscenza umana, circoscritta da un « lanternino che projetta un cerchio più o meno ampio di luce, al di là del quale è l’ombra nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe, se il lanternino non fosse acceso in noi ». È per tale « limite » che « la vita nostra » appare « come imprigionata, come esclusa per alcun tempo dalla vita universale, eterna, nella quale ci sembra che dovremo un giorno rientrare, mentre già ci siamo e sempre vi rimarremo, ma senza più questo sentimento di esilio che ci angoscia ». Il « limite » è « illusorio » soggiunge, ossia « relativo al poco lume nostro », perché « nella realtà della natura non esiste » : « noi abbiamo sempre vissuto e sempre vivremo con l’universo » : « anche ora, in questa forma nostra, partecipiamo a tutte le manifestazioni dell’universo ». Caduta l’opposizione di soggetto e oggetto, si recupera la totalità primigenia, la perduta consonanza : « l’Essere nella sua unità » si leggeva sempre maiuscolato in Quand’ero matto [1902]. Vero è che nel reputarla « speciosissima » Mattia Pascal non si fa scrupolo di calunniare la « lanterninosofia ». Ma si tratta di un distanziamento umoristico, e forse è rivolto soprattutto alle manie spiritiche dell’interlocutore. La via di fuga indicata, in verità Mattia Pascal la imbocca (perciò dicevo che è speculare anche ad Anselmo Paleari). L’effusione empatica, la liberazione della « vita nostra » nella « vita universale, eterna », il dissolvimento delle nostre forme fittizie nel suo perpetuo divenire, appare coerente al relativismo che conseguì la rivoluzione copernicana, alla cessazione dell’antropocentrismo, alla caduta del ruolo esclusivo dell’uomo nella natura, al suo disperdersi e annullarsi in essa, alla perdita del suo essere onde ricongiungersi all’« Essere ». Che però è come uscire dal nulla per ritornarvi. Ma senza più identità, né il nome che la contraddistingue, ribadisco.  



















































































































Vitangelo Moscarda L’altro caso paradigmatico cui si alludeva è quello di Vitangelo Moscarda, e anch’esso cela oblique attinenze che non potranno restare ignorate. Si premetta che nel suo romanzo, Uno, nessuno e centomila (1925-1926), tutto incomincia con la scoperta fortuita del narratore autodiegetico, Moscarda stesso, che il naso gli pende a destra. Ma se sua moglie Dida può fargli prender coscienza dell’imperfezione, è perché lui indugia innanzi a uno specchio. Ebbene : che questo è strumento topico del riflesso, e perciò del doppio, quanto della riflessione, appartiene al senso comune. Guardando infatti la propria immagine il soggetto vi ravvisava un « estraneo » separato dal suo « corpo », un altro, un doppio. Non è allora per caso se il nome del narratore è duplice : Vitangelo. Non solo. Per un’iniziativa della moglie subita con apatia, anche Gengè. Ma per la simbologia catottrica che contiene si legga un altro brano ove compare la figura del doppio :  













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Mi guardai allo specchio dell’armadio con irresistibile confidenza, fino a strizzare un occhio per significare a quel Moscarda là che noi due intanto c’intendevamo a meraviglia. E anche lui, per dire la verità, subito mi strizzò l’occhio, a confermare l’intesa. (Voi mi direte, lo so, che questo dipendeva perché quel Moscarda là nello specchio ero io ; e ancora una volta dimostrerete di non aver capito niente. Non ero io, ve lo posso assicurare. Tant’è vero che, un istante dopo, prima d’uscire, appena voltai un po’ la testa per riguardarlo in quello specchio, era già un altro, anche per me, con un sorriso diabolico negli occhi aguzzi e lucidissimi. Voi ve ne sareste spaventati ; io no ; perché già lo sapevo ; e lo salutai con la mano. Mi salutò con la mano anche lui, per dire la verità).  







L’autoscopia, il ripiegamento maniacale su se stesso, provocherà l’esplosione della follia : non uno sdoppiamento, ma la frantumazione dell’io e l’avvicendamento di decessi e rinascite. A soffermarsi poi sulla follia, che in Pirandello è tema privilegiato, non sarà superfluo ricordare un personaggio come Sinagra. 1 Se egli dopo « essere andato sempre avanti » perde la « realtà sua » (secondo una variante abrogata), ha in seno proprio il germe della « follia » (tant’è che si chiama Matteo), dell’alienazione – malattia diffusa e idoleggiata tra i Decadenti. Guardandosi nello specchio degli occhi altrui, dissimulato nel discorso indiretto libero, egli si domanda : « Chi era lui ? », rispondendosi : « Un altro ». Variato, è il celebre apoftegma di Rimbaud (« Je est un autre »), 2 « espressione tipica » osservò un glottologo reputatissimo « di ciò che è veramente l’“alienazione” mentale, dove l’io è privato della sua identità costituiva ». 3 Dall’abisso violato dalla civiltà romantica, sondato dai poeti dell’Inconnu, specillato dalla nuova psicologia, in una parola da un inconscio non più illibato, allo sguardo di Matteo Sinagra si rivela allora nella sua follia l’altro. 4 L’io smarrisce se stesso. Celato sempre nell’erlebte Rede, « perplesso » e « sconcertato », si interroga : « Chi era più, lui ? » La risposta è : « Nessuno ». L’epiteto omerico. Salvo che il suo titolare, declassato da eroe a marginale, non maschera sotto il mitico nome la propria identità. Ne accusa la perdita, com’era già accaduto a Mattia Pascal e come accade ora. « Chi era ? » si chiede Moscarda innanzi allo specchio. « Niente era. Nessuno » soggiunge. Ecco di nuovo l’annullamento della persona, dell’identità. E del nome che la veicola. E visto che s’è detto annullamento, si pensi a un paio di foglietti postumi che il Lo Vecchio-Musti pubblicò nei Saggi senza soluzione di continuità :  









































































La vita è l’essere che vuole se stesso. Che si dà una forma. E dunque l’infinito che si finisce. In ogni forma c’è un fine e dunque una fine. In ogni forma è una morte. Dunque l’essere s’uccide in ogni forma, o si nega. Diceva in questo senso Spinoza che ogni affermazione è negazione. Perché l’essere vivesse bisognerebbe che s’uccidesse di continuo ogni forma ; ma senza forma l’essere non vive. Ecco l’eterna contraddizione. // Perché l’essere viva è necessario che egli uccida di continuo ogni forma, nell’attimo stesso che la crea, cosicché ogni affermazione di vita è nello stesso tempo una morte ; una morte-vita.  



Né si esclude che se si parla della vita che cerca la morte, incessantemente, si prefiguri un 1   « Cognome siciliano formato dal toponimo Sinagra (me) » attesta sub voce E. De Felice, Dizionario dei cognomi italiani [1978], Milano, Mondadori, 2000. 2   A. Rimbaud, Œuvres complètes, texte établi et annoté par A. Rolland de Renéville et J. Mouquet, Parigi, Gallimard, 1963 (« Pléiade »), p. 270. Non alludo però a un prelievo, che non è affatto documentabile. 3   É. Benveniste, Structure des relations de personne dans le verbe, in Idem, Problèmes de linguistique générale [1966], trad. it. Problemi di linguistica generale, Milano, il Saggiatore, 1975, p. 275. 4   Sulla scissione e frammentazione dell’Io elaborata dalla cultura romantica valga M. Galzigna, Malinconia romantica e rovine dell’Io, nel volume collettaneo Psicanalisi e narrazione, Ancona, Transeuropa-Il lavoro editoriale, 1987. Sulla esplorazione dell’Ignoto da parte dei Decadenti è tuttora insostituibile il classico A. Beguin, L’âme romantique et le rêve [1939 e 19602], trad. it. L’anima romantica e il sogno, Milano, il Saggiatore, 1967.  







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destino non troppo diverso da quello di Mattia Pascal : uscire dal nulla, intendo, per tornarvi. Ma si badi : nei Quaderni (sintomatici ivi i corsivi) si leggeva :  





Fuori della vita non c’è nulla. Avvertire questo nulla, con la ragione che si astrae dalla vita, è ancora vivere, è ancora un nulla nella vita : un sentimento di mistero : la religione. Può essere disperato, se senza illusioni ; può placarsi rituffandosi nella vita, non più di qua, ma di là, in quel nulla, che diventa subito tutto.  





Ebbene : in quel « nulla » che dopo la vita si converte in « tutto » (è l’« Essere » ?), si potrà cogliere il divenire che scorre nell’oltre cosmico, « di là ». Un al di là ? E quale ? Se l’interpretazione può avvalersi di un altro individuo, si rammenterà che il protagonista di Lazzaro (1929), che pure ha varcato la soglia della morte, ritornandone può testimoniare : « Di là non c’è nulla ». Certo, lo contraddicono le parole di un credente come il figlio. Il quale, a lui che alle confutazioni domanda : « l’anima mia, dov’è stata, nel tempo che sono morto ? » replica : « La tua anima è Dio, padre ; […] l’anima nostra è Dio in noi […], ed Egli ora è di nuovo in te, come ancora in tutti noi, qua, eterno, nel nostro momento che solo in Lui non ha fine ». Ma sono parole che, teologicamente discutibili, racchiudono l’idea piuttosto panteistica a cui facevo cenno : l’idea di un Dio che se è « in tutti noi », se è « nel nostro momento », che « solo in Lui » ch’è « eterno » non ha « fine », è perciò ragguagliabile alla natura, la « Grande Madre » (Taccuino di Bonn, 1890). La quale, si legge nell’articolo Non conclude (1909) nel suo perpetuo divenire è anch’essa « eterna », « non conclude mai », talché nemmeno « noi […] che siamo lei stessa » concludiamo. E si volga ancora lo sguardo alle Informazioni sul mio involontario soggiorno sulla terra (s.i.d.). Opineranno che la vita è, « con tutta quanta la terra, come niente » :  

























































































Sarà questa la ragione per cui forse non m’avverrà di poterne dare alcuna informazione. Appena liberato da ogni illusione dei sensi, sarò come quell’inavvertibile spruzzo improvviso in cui s’estingue una bolla di sapone ; tutto sarà come nulla.  

In una intervista a Cavicchioli uscita il 10 novembre del ’33, poi, Pirandello dichiara : « In questo nulla spero di trovare il tutto ». Che per lui, lo sappiamo, è il divenire inteso come totalità, tanto più se l’intervistato soggiunge :  







la vita deve consistere e nello stesso tempo fluire. La vita ha pur da consistere in qualche cosa, se vuol essere afferrata. Per consistere le occorre una forma, deve darsi una forma. D’altra parte questa forma è la sua morte perché l’arresta, l’imprigiona, le toglie il divenire. La necessità è questa, per la vita : non restar vittima della forma.  

La « vita » si conferma allora nel « divenire ». L’« essere che vuole se stesso » (secondo Moscarda il « Niente »), per illudersi di essere, se pur temporaneamente, esce temporaneamente dal « nulla », che però è un « tutto », e quindi, insisto, vi rientra e vi si disintegra, ne esce di nuovo e di nuovo vi rientra. Moscarda si dimette da tutto e ripara infine in uno spazio liminare, uno spazio fuori dal mondo come la « Scalogna » dei Giganti : nell’ospizio che da lui stesso finanziato sorge in un’amena cornice campestre nella quale egli annulla la propria identità. Ed ecco che subito insorge il desiderio di smarrirvi il nome. « La campagna ! Che altra pace, eh ? » pensa il narratore :  







































Ah, non aver più coscienza d’essere, come una pietra, come una pianta ! Non ricordarsi più neanche del proprio nome ! Sdrajati qui sull’erba, con le mani incrociate dietro la nuca, guardare nel cielo azzurro le bianche nuvole abbarbaglianti che veleggiano gonfie di sole, udire il vento che fa lassù, fra i castagni del bosco, come un fragor di mare. […] Siamo in campagna qua ; il languore ci ha sciolto le membra ; è naturale che illusioni e disinganni, dolori e gioje, speranze e desiderii ci appajano vani e transitorii di fronte al sentimento che spira dalle cose che restano e sopravanzano ad essi, impassibili.  







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Il brano annuncia già le ultime pagine e ne integra fin d’ora il senso. Ma intanto si noterà la parziale concordanza con un frammento di Canta l’epistola, che successivamente variato, si trascrive nella prima redazione (1911) :  

Non aver più coscienza d’essere, come una pietra, come una pianta ; non ricordarsi più neanche del proprio nome ; vivere per vivere, come le bestie, senza più alcun affetto, né un desiderio, né una memoria, né un pensiero, senza più nulla che desse senso e valore alla propria vita. Ecco, sdrajato lì su l’erba, con le mani intrecciate dietro la nuca, guardava nel cielo azzurro le bianche nuvole abbarbaglianti piene di sole ; udiva il vento che faceva nei castagni del bosco come un fragor di mare.  





E nella campagna, sineddoche della natura, Moscarda compendierà infine nella sua continua vicenda di morte e rinascita quella vita che effondendosi nel tutto « non conclude », insomma il suo nichilismo vitalistico. Talché confesserà :  





Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. [...] Così soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo. […] Pensare alla morte, pregare. C’è pure chi ha ancora questo bisogno […]. Io non l’ho più questo bisogno, perché muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi : vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori.  

È allora improprio leggere Pirandello, voglio dire questo Pirandello, attraverso una interpretazione nietzschiana di Heidegger ? Alludo alla seguente, motivata peraltro da Nietzsche stesso : che il « passare rimanga », che l’ewige Wiederkehr des Gleichen costituisca infine l’« essere dell’essente, ossia ciò che permane del divenire », talché l’« Eterno Divenire », nell’ostinato Wille zur Macht volto a contemperare Eraclito e Parmenide, il Divenire e l’Essere, assume infine lo stato di quest’ultimo. 1 Che non è poi come sospendere il divenire, paralizzare lo svolgimento del tempo nel tempo senza svolgimento dell’« Eternità » ? La rinunzia assoluta di Moscarda apparirà certo una fuoruscita dal mondo verso l’immensità della « campagna », della natura, ma perché è attrazione per una vita all’unisono con l’universo e i suoi cicli, per un ‘eterno ritorno’ scandito sui ritmi cosmici, per il divenire di un destino panico, per una rinascita perpetua senza più ricordi, senza più identità, senza più corpo, senza più nome. È la dispersione nel tutto, nell’« Essere » :  































Nessun nome, nessun ricordo oggi del nome di jeri ; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa ; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi : e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita ; ebbene, questo che io portai tra gli uomini lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso.  







Si rammenti il professor Torresi di Donna Mimma (1917). Ammonisce sì che « il nome è la cosa », annullando apparentemente ogni distanza tra significante e referente, ma subito rettifica e frappone tra loro il « concetto » del secondo : « Il nome è il concetto in noi d’ogni cosa posta fuori di noi » soggiunge. « Senza il nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, indefinita ». È dunque il « nome » o significante che veicola il « concetto » o significato e suscita l’immagine altrimenti « indefinita » della « cosa » o referente. Ma quando la realtà, la « cosa », il referente non è uguale per tutti ? Quale concetto potrà veicolare allora il nome ? E quale immagine della realtà potrà suscitare il concetto ? Cosa nominano, cosa significano in definitiva i nomi ? E come possono comprendersi tra di loro quelli che li proferiscono ? Troveranno un accordo ? Magari sì. Ma sarà ironicamente. E cioè non sarà, vista la peculiarità dell’eironeìa. È vero : i « monti azzurri » sembreranno « azzurri » a Moscarda come  



























































1   M. Heidegger, Wer ist Nietzsches Zarathustra ? [1954], trad. it. Chi è lo Zarathustra di Nietzsche ?, in Idem, Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Milano, Mursia, 1976, pp. 67 sgg.  



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ai suoi interlocutori immaginari ; e così i « castagni » di un bosco e il « verde » di una « pianura » (e Moscarda ironizza, appunto : « diciamo così, che c’intendiamo a meraviglia »). Ma anche questo accordo, fondato su parvenze precarie, può improvvisamente svanire : « cappottini rossi di bimbi » appariranno « rossi papaveri al sole », talché se la realtà può dare un’illusione d’intersoggettività, si rivela poi meramente soggettiva e mutevole. Quale allora l’ufficio dei nomi ? Un interrogativo simile si formulerà pure se invece che ai nomi comuni come il professor Torresi il discorso di Moscarda si riferisce alla nominazione propria. Cui del resto rilutta, e questa sua riluttanza è sostanzialmente la stessa di Mattia Pascal. Aveva dunque ragione il signor Perazzetti, quando nella novella Non è una cosa seria (1910) si chiedeva : « che cosa è un nome ? » e replicava : « Non è una cosa seria » ? La stessa renitenza manifesterà Cotrone nei Giganti. Ciò che Moscarda compie o intende compiere, egli l’ha compiuto. « Dimesso da tutto » anche lui, ha già rinnegato il « corpo » (« Nessuno di noi è nel corpo che l’altro ci vede ») insieme con il « buffo nome » che lo identifica. E se per l’uno il « nome » è un’« epigrafe funeraria », com’era infine per il memorialista del Pascal, per l’altro il « corpo » è la « tenebra » che avvolge l’« anima » e ne ottunde la veggenza ; è la « pietra » che aggrava lo spirito e ne interdice la leggerezza. Perciò è evaso dal corpo per disperdersi in « favolose lontananze », ed evadendo dal corpo ha ricusato anche il suo segno : il nome. « Guaj a chi si vede nel proprio corpo e nel proprio nome » conclude. Ma quanto all’antroponomastica pur così precaria del narratore di Uno, nessuno e centomila, si rende opportuna una delucidazione. Pochi dubbi sul prenome di Vitangelo : Angelo o messaggero di vita, la vera vita che il suo titolare rinnoverà ogni giorno pur « fuori » di sé. E il cognome ? Vero è che al suo titolare ripugnava : « brutto fino alla crudeltà » confida. « Moscarda. La mosca, e il dispetto del suo aspro fastidio ronzante ». 1 Si capisce dunque che egli, come anticipando già la rinuncia finale al proprio nome, obietti :  























































































































Non aveva mica un nome per sé il mio spirito, né uno stato civile : aveva tutto un suo mondo dentro ; e io non bollavo ogni volta di quel mio nome, a cui non pensavo affatto, tutte le cose che mi vedevo dentro e intorno. Ebbene, ma per gli altri io non ero quel mondo che portavo dentro di me senza nome, tutto intero, indiviso e pur vario. Ero invece, fuori, nel loro mondo, uno – staccato – che si chiamava Moscarda, un piccolo e determinato aspetto di realtà non mia, incluso fuori di me nella realtà degli altri e chiamato Moscarda.  



Ma insistendo sulla radice del proprio nome, Moscarda ne occultava un aspetto immanente. Egli si diceva anche « leggero », e questo è precisamente il requisito che in Diana e la Tuda Giuncano attribuisce all’insetto : « La leggerezza della mosca », sebbene Sara soggiunga : « Niente di più leggero, infatti, e niente di più seccante ». E la leggerezza, la leggerezza d’una piuma, è virtù di Corrado Selmi (I vecchi e i giovani), di Matteo Sinagra e del signor Anselmo (Tu ridi, 1912), che come Moscarda si disgregano anche loro nella natura, nel suo divenire. Ed ecco un ultimo ragguaglio . L’immedesimazione dello spirito con il tutto convalida intanto la congettura che il panismo di Pirandello veicoli tensioni vitalistiche, e s’è detto che metterebbe capo a Nietzsche. Certo, i rapporti con lui sono scarsamente documentati, e tuttora in discussione. Se sono parsi spesso poco significativi, e invero Pirandello menziona poco il filosofo tedesco, e non benevolmente, da qualche tempo se ne parla con sempre più insistenza, fino all’overinterpretation di Cerasi. 2 Ma ciò che importa non è tanto coonestare una conoscenza diretta o un riflesso specifico di Nietzsche, che comunque Pirandello non poteva ignorare, e infatti non  















1   Per Mosca vedi sub voce De Felice, Dizionario dei cognomi italiani, cit. (dicesi di « persona piccola, sgraziata, o fastidiosa »). 2   E. Cerasi, Quasi niente, una pietra. Per una nuova interpretazione della filosofia pirandelliana, Padova, Il Poligrafo, 1999.  



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ignorava. Peraltro, a parte la conoscenza della cultura tedesca e gli interessi filosofici, non si tralasci la sua frequentazione di autori, da Nordau a D’Annunzio, entrambi compulsati, nei quali Nietzsche è largamente presente, come del resto nel dibattito europeo e anche italiano di quegli anni. Importa l’intuizione prensile e talvolta chiaroveggente di un autore che fiutava anche precocemente le idee del suo tempo e le investiva nel proprio lavoro. Se poi non è improprio chiedersi perché quella corrente di pensiero circoli in lui sotterranea, varrà a rispondere Guaragnella, che ha formulato nel merito una ipotesi plausibile : che Pirandello dissimulasse la sua conoscenza di Nietzsche per una sorta di riflesso condizionato, causa la sua idiosincrasia per D’Annunzio, che con Nietzsche si era invece in più circostanze identificato fino a diventarne l’interfaccia poetica nell’ambito della cultura nazionale. 1 Ma al di là di tutto ciò resta comunque che a ragione l’Andreoli ha evocato, con riferimento a Quand’ero matto, l’A Pan di D’Annunzio, 2 che è un inno intimamente imbevuto di Nietzsche. E aggiungo, sembrando nella circostanza più pertinente, che di D’Annunzio andrebbe deferito anche il non meno nietzschiano Meriggio di Alcyone. E infatti « Ardo e riluco. / E non ho più nome » esclama il suo soggetto lirico disperdendosi subito nell’« arena », nel « mare », nel « fiume », nel « monte », nella « selva »…  

























Non ho più nome né sorte tra gli uomini ; ma il mio nome è Meriggio. In tutto io vivo 3 tacito come la Morte.  

Al soggetto che si dissolve destrutturato nel cosmo è inibito il nome, segno di un io rimosso e sublimato nel « tutto ». Ebbene : se il caso di Moscarda, se il caso di chi si annulla nella natura, di chi pure revoca il proprio nome, di chi incessantemente muore e rinasce nel « tutto », nel fluire della « vita universale, eterna » ; se questo caso d’uno spirito disperso in essa senza più identità né nome presenta omologie rispetto all’altro, dico, ipotizzare alla sua origine un nichilismo panico non appare infondato, tanto più se questo non esclude un affluente affatto diverso, è vero, ma non incompatibile. Alludo alla « lanterninosofia », che capovolge anch’essa, se n’è preso atto, il concetto di morte in concetto di vita e viceversa.  













1







  P. Guaragnella, Il matto e il povero. Temi e figure in Pirandello, Sbarbaro, Vittorini, Bari, Dedalo, 2000, pp. 106-108.   A. Andreoli, Nel laboratorio di Pirandello, in L. Pirandello, Taccuino segreto, a cura di Idem, Milano, Mondadori, 1997, p. 159. 3   G. D’Annunzio, Alcyone, in Idem, Versi d’amore e di gloria, a cura di E. Bianchetti, Milano, Mondadori, 19809, ii, pp. 642-643. 2

Nedda dal testo alla scena, fra lingua e dialetto, parole e musica Salvatore Riolo 0.

I

l destino della novella di Verga intitolata Nedda potrebbe apparire singolare ; essa, infatti, è stata accettata subito e totalmente dai lettori, ma non del tutto dall’Autore. Si può affermare che una sorta di misconoscimento, inconsueto perché nasce dal suo stesso Autore, abbia accompagnato la novella fin dalla sua composizione :  



Nelle lettere alla famiglia Verga è esplicito nello svilire Nedda : “Un lavoro che buttai giù alla meglio” ; “Una cosettina da nulla”, e addirittura “Una vera miseria” […] Nedda gli viene commissionata da Treves che gli dice : “Mi dia qualche racconto corto”. Quando esce [Verga] è meravigliato : “Nedda qui ha fatto più rumore di quel che meritasse, ha prodotto un caos del diavolo”. […] Nedda viene scritta [in appena tre giorni] solo per ragioni commerciali ed anche per assuefarsi alla moda corrente. 1  







Anche se, ovviamente, non se ne può attribuire la causa a tale misconoscimento, a livello di lettori Nedda è meno nota delle altre novelle verghiane, dalle quali, a partire dallo stesso Autore e da molti altri dopo di lui, sono state ricavate riduzioni teatrali, opere musicali, versioni cinematografiche o televisive, oppure di quelle che sono state più antologizzate. Il destino di Nedda appare singolare anche perché essa, in sé e per sé considerata e nonostante il misconoscimento dell’Autore, non è certo meno importante delle altre novelle e la sua fattura artistica non è più scadente. La figura di Nedda, la quale per salvare la figlioletta, morente per inedia, spreme le sterili mammelle dalle quali ormai esce soltanto sangue, costituisce certamente un fotogramma della memoria che s’imprime nell’immaginario collettivo dei lettori, sovrapponendosi all’immagine della Lupa, di compare Turiddu, di Rosso Malpelo, ecc., e si staglia in esso, sovrastando pure altre figure di donne sventurate, protagoniste di opere della letteratura italiana. Per questi motivi riteniamo che sia opportuno e doveroso far conoscere una recente riscoperta di Nedda da parte del gruppo « Eirene ». A livello di studiosi non si può dire che Nedda sia una novella sconosciuta e dimenticata. La critica letteraria, sempre attenta a collocarla al giusto posto nella storia interna dell’opera e della personalità dell’Autore, fa, infatti, sempre riferimento ad essa come spartiacque tra il primo e il secondo Verga o come la novella d’esordio di Verga novelliere. A tal proposito una studiosa afferma giustamente che « la pochissima considerazione per Nedda (“una novelluccia da niente, e della quale non faccio nessun conto”), non modificata dal vivo successo, è certo stupefacente in quanto il racconto segna la data di nascita di una eccezionale esperienza narrativa ». 2 È pur vero, tuttavia, che, se sono molti i critici e gli studiosi che fanno costante riferimento alla novella per datare la conversione artistica dell’autore, pochi, invece, sono quelli che ne hanno fatto oggetto di studi specifici. La riscoperta, di cui qui si discute, consiste nella rielaborazione del testo originale di Nedda, costituita da una riduzione teatrale, in prosa e in musica, e da un cd in cui sono raccolte le parti musicate inserite nella rappresentazione teatrale, ad eccezione di un brano, intitolato  







1

  M. Saitta, Ma non è « Nedda » l’introibo al verismo verghiano, « Stilos », 15 agosto 2000, p. 6.   C. Riccardi, Da « Nedda » ai « Malavoglia » : storia del romanzo, in G. Verga, I Malavoglia, introd. di C. Riccardi, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1983, p. vii. 2



















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Mavara, che è incluso nello spettacolo ma non nel cd. Riteniamo che tale riscoperta meriti attenzione e considerazione per diversi motivi : a) perché è la prima volta che Nedda viene portata sulla scena ; b) perché artefici dell’evento sono un gruppo di giovani, fatto questo molto significativo se si tiene conto che, per il suo contenuto, la novella potrebbe risultare poco gradita a dei giovani, che di solito mostrano di avere ben altre preferenze ; c) perché, infine, se si sommano le rappresentazioni teatrali ai numerosi spettacoli musicali tenuti in Sicilia, ma presentati anche in diverse edizioni di premi nazionali, gli « Eirene » hanno sdoganato Nedda, facendola conoscere in luoghi e ad un pubblico ai quali non era mai arrivata prima. 1 Ricordiamo a tal proposito che lo spettacolo è stato portato in alcune scuole non solo in provincia di Catania (Acireale), ma anche in provincia di Messina (Gaggi). È importante, inoltre, notare che da parte di questi giovani Nedda non è soltanto rivisitata e rielaborata con grande scrupolo filologico, che evita di trasformare il lavoro in un meccanico e superficiale trasferimento di contenuti ; non è da loro semplicemente interpretata, ma è anche intensamente rivissuta, perché ciascuno di loro rivive il dramma con grande empatia, con profonda e partecipata emozione, che trasfonde poi nella parola e nel gesto, nel suono e nel canto.  











1. Gli artefici della riscoperta Gli artefici della riscoperta di Nedda sono : i componenti degli « Eirene », un gruppo musicale nato, nella sua prima composizione, negli anni novanta : 2 uno staff di attori, ballerini e coreuti ; il regista, Antonio Faicchia. Eccetto quest’ultimo, sono tutti giovani, ma non si deve assolutamente dedurre, in forza di un inveterato pregiudizio, che, essendo giovani, siano inesperti, perché tutti hanno maturato un’esperienza personale e in loro vi sono ottime competenze e tanta professionalità. Il gruppo musicale e poi anche il gruppo più allargato, comprensivo degli artisti protagonisti dello spettacolo, sono gruppi coesi di persone affiatate fra loro e con il regista, il quale, lungi dall’essere il tipico regista eccentrico e dispotico, ha saputo superare il gap generazionale e creare un clima di armonia lavorativa, rendendo partecipe e coinvolgendo nelle decisioni e nelle scelte della regia il cast, che al completo consta di diciotto persone fra musicisti, ballerine ed attori, non considerando nel numero i tecnici.  









2. L’album musicale Autore dei testi inclusi nell’album è Lorenzo Cosentino, da cui è partita l’iniziativa ; per alcuni di questi egli si è servito pure della collaborazione di Stefano Finocchiaro. I titoli dei brani scritti, musicati e poi riuniti nel compact disc sono : Intro, che è un brano soltanto narrativo, l’unico dell’album che non è accompagnato da musica ; in esso l’attore, Marcello Montalto, che impersona Verga, presenta la protagonista, ricalcando la descrizione di Nedda fatta nel testo originale della novella verghiana. Il fuoco, brano fondamentale che anticipa due importanti nuclei narrativi della novella : l’amore e la passione di Janu e Nedda da una parte e, dall’altra, la condanna sociale per tale rapporto fortemente stigmatizzato. Nedda. All’inizio del brano, interamente dedicato al personaggio di Nedda, il Cosentino scrive : « Scura come lava di un vulcano / che il tempo e gli artisti / rendono attraente … / Nascondi tu l’inferno in fondo al cuore ». Con queste parole l’autore schizza un ritratto di  













1   Ricordiamo pure che alcuni brani musicali degli « Eirene » sono stati inseriti in documenti di altri autori : A journey cinema, video di A. Viani ; Musica e territorio nella provincia di Catania, video di F. Giomo, D. Tarozzi, edito dal cnr ; Antologia della musica siciliana, compilation, Deja Vu Gold edit. 2   Per tutte le notizie sul gruppo musicale e sul cast impegnato nello spettacolo e per le altre informazioni che, per motivi di spazio, noi qui tralasciamo, si rinvia al sito www.eirenemusica.it.  









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Nedda che costituisce un degno pendant del profilo del personaggio tracciato dal Verga. Per cogliere tutte le sfumature di significato insite nelle parole citate, ci affidiamo al commento dello stesso Cosentino, il quale afferma :  

Sono felice di aver creato l’abbinamento con quello che poi è il nostro paesaggio in genere, il nostro paesaggio vulcanico, che io conosco benissimo […] Mi affascina la scultura, la pietra lavica lavorata. Mi vedo le mani degli artisti che la sfiorano, la modellano, che plasmano quello che prima non era altro che fuoco […] È questo fuoco che Nedda nasconde all’interno : sono contento di essere riuscito a condensarne in poche parole il concetto. 1  

Il Viaggio. Il viaggio da cui prende il titolo il brano è quello che fa Nedda, attraverso sentieri accidentati, al buio e con la pioggia, quando si reca a Ravanusa, per raggiungere la madre morente. Nella prima parte del brano domina la drammaticità dei pensieri del personaggio ; nel ritornello, invece, c’è un’apertura alla speranza, che si coglie sia nel ritmo, che si fa più veloce, sia nelle parole. La ballata delle gazze. Il titolo del brano, che è incentrato sulla morte della madre di Nedda, si spiega per il fatto che le gazze, per antica tradizione popolare, sono state considerate foriere di lutto e sono assurte a simbolo di sventura. Nedda vede in loro la personificazione della morte venuta a rubare l’unico affetto rimastole. Il regalo di Janu. Oltre Janu e Nedda, protagonista del brano è pure lo Zu Giuanni, il tipico siciliano maturo e disincantato, il cui pessimismo si contrappone all’ottimismo giovanile di Janu. Primavera. Il brano, in cui i due innamorati, senza alcun condizionamento esterno, possono testimoniarsi il reciproco amore e vivere momenti d’estasi amorosa, costituisce pure l’esaltazione del contesto agreste, idilliaco e liberatorio. Opera iii (U cuttigghiu dô paisi ‘Il pettegolezzo del paese’). Questo brano è la composizione più elaborata dell’intero album. Il brano non fa alcun diretto riferimento a fatti narrati nella novella originale, ma, attraverso il racconto di una situazione ‘altra’ (un delitto passionale realmente accaduto e raccontato a Cosentino) sviluppa il concetto di cuttigghiu dô paisi e lo esemplifica, illustrando un caso concreto, successo a Cianciana. Ma cu è ? Il brano, dal testo brevissimo, si apre e si chiude con il rumore del carro frammisto alla musica. Esso sintetizza la parte della novella che narra dell’incidente che causa la morte di Janu e si apre con l’interrogativo : Ma cu è ? Ma chi è (il morto) ? Agli occhi di Nedda la scena si apre come un sipario. La folla incuriosita le impedisce di capire subito ciò che è avvenuto, ma, facendosi largo in mezzo ad essa, si rende conto di non essere spettatrice di ‘una’ tragedia, ma di essere protagonista della ‘sua’ tragedia. Ninnananna. Nel brano, che ricalca fedelmente il passo corrispondente del testo originale della novella relativo alla morte della figlia di Nedda, l’intervento del coro polifonico sottolinea e fonde insieme la drammaticità, la tristezza e la tenerezza dell’evento. Il titolo trova spiegazione nel fatto che l’intervento del coro prende la forma di una ninnananna, che, presentando la morte come sonno, cerca di attenuare i toni tragici per non far pesare su Nedda l’ennesimo dolore provocatole da un’altra morte, ancora più terribile delle precedenti. Nedda e la luna. Il brano vuole essere una sintesi della vicenda di Nedda, una riflessione conclusiva sul suo dramma personale. Domina in esso l’immagine di una donna che, provata da ogni sorta di dolore, non ha più timore di ‘affanni’, perché nulla può più toglierle la sorte avversa.  









1   Si avverte il lettore che la citazione è tratta da un’intervista a Cosentino, inclusa insieme con altre interviste, fatte a musicologi e cantanti, nel cd allegato alla tesi di Sebastiano Ambra, intitolata La poesia che poesia non è. Eirene, De André, Branduardi, discussa presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Catania nell’a.a. 2004-2005, rel. A. Di Grado. Da questa stessa fonte traiamo le successive citazioni che riportano, sia nel testo sia in nota, le parole del Cosentino e delle quali tralasciamo di indicare di volta in volta la comune fonte di provenienza, che qui si indica una volta per tutte.

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salvatore riolo 2. 1. I contenuti

La versione in musica, che si ispira alla novella del Verga e trae da essa la maggior parte dei temi, presenta, però, qualche novità, sia dal punto di vista del contenuto sia dal punto di vista linguistico. Prendendo in considerazione il contenuto e mettendolo in relazione con quello del testo originale si può infatti notare che quello dei brani Opera iii (u cuttigghiu dô paisi), Ma cu è ?, Nedda e la luna, non ha riscontro diretto nella novella verghiana. Considerandoli attentamente, tali brani non si configurano, tuttavia, come interpolazioni spurie, tradimenti dell’originale diegesi, perché essi non costituiscono delle innovazioni in assoluto, ma ruotano pur sempre nella stessa orbita narrativa della novella verghiana, sono contenuti in maniera implicita nel tema centrale della novella, cui sono indirettamente riconducibili. Nei brani in esame, cioè, si sviluppano aspetti collaterali che hanno, però, una certa attinenza con la trama verghiana e sono deducibili da essa. Sembrerebbe, p. es., totalmente estraneo alla vicenda originale il brano Opera iii anche perché il fatto in esso narrato (il tradimento e l’uccisione degli amanti fedifraghi) a prima vista non sembra avere alcun nesso con la vicenda di Nedda. Ma il nesso c’è e va messo in relazione con il punto della novella in cui Verga fa menzione del bando cui era stata messa Nedda dall’ottusa maldicenza dei paesani per il suo legame con Janu. Se si tiene conto che il sintagma cuttigghiu dô paisi in dialetto siciliano significa proprio ‘pettegolezzo’, ‘maldicenza di paese’, si vede come nel testo in musica di Cosentino si sviluppi, ampliandolo, il tema del cuttigghiu, che germina dal testo stesso della novella e non nasce all’esterno o lontano da esso. In altre parole, nel brano considerato viene dato grande risalto al cuttigghiu, al quale viene quasi conferito un ruolo di altro protagonista. Il brano Ma cu è ? si può considerare una sorta di introduzione all’episodio in cui Nedda apprende la notizia della morte di Janu ; esso, tuttavia, non si configura come un’interpolazione di una parte estranea alla vicenda, perché il breve episodio si concentra sui sentimenti di Nedda, che passano dallo stupore incredulo all’immenso dolore quando vede passare la scala a pioli sulla quale è trasportato Janu morente. Per quanto riguarda l’attinenza al testo verghiano del brano intitolato Nedda e la luna, Cosentino, ricostruendone la genesi, nell’intervista citata spiega :  







L’ho sentito come un omaggio a Nedda, personale. Mi sono detto : “Ma ‘sta povera donna che ha vissuto tutto questo” […] Così mi sono sentito di celebrare con un inno questa sorta di “santa” ; un inno che potesse innalzarla, farla diventare un astro e farla dialogare con la luna. Perché la luna ? La luna esprime il romanticismo, il romanticismo sulla Terra, però non ha un’azione diretta, non può cambiare le cose, rimane inerte a quelle che sono le circostanze, al destino già scritto.  





Anche questo brano, che mira a riscattare ed esaltare Nedda, rientra, quindi, pienamente nell’alveo narrativo della novella verghiana. Si può pertanto affermare che, in linea di massima, i contenuti dei vari brani non si discostano molto dall’originale testo verghiano ; la vera divergenza, che pur esiste e va segnalata, trascende il contenuto e riguarda l’ottica diversa secondo la quale da un lato l’autore della novella e dall’altro gli autori dei brani considerano la storia. Nella sua rivisitazione il Cosentino vuole andare oltre la dimensione di rassegnata ineluttabilità in cui si svolge l’originale vicenda di Nedda e, per raggiungere questo obiettivo, non si serve delle parole, ma della musica, esattamente delle tonalità adottate e della scala scelta per eseguirle ; ecco, infatti, quanto dichiara egli stesso su questo punto :  





La maggior parte dei brani hanno una particolare evoluzione : nascono in un modo e finiscono in un altro. Cioè : nascono in una maniera triste data da una tonalità minore, e poi avviene un’esplosio 



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ne, tutto muta in maggiore in maniera trionfale – anche se a volte, come nel Viaggio, si ricade nella situazione iniziale […] In effetti è un po’ il mio carattere che emerge in questo stile particolare. Non faccio altro che esprimere quel momento di rassegnazione, di vittimismo – che è tipico siciliano se osserviamo i lavori della Taberna Mylaensis o l’ultimo cd dei Lautari – per convertirlo poi in un senso di riscatto. E il riscatto è in ogni brano. Il siciliano ha questa potenza : può cambiarla e la cambia, la sua vita. Coesistono quindi una parte di tragedia, di dolore, e una di riscatto. È un concetto fondamentale e, soprattutto, tremendamente attuale.  

2. 2. Il dialetto in musica La versione musicale presenta pure un’altra novità dal punto di vista linguistico, perché alcuni brani sono scritti interamente in lingua, mentre altri interamente in dialetto, e altri ancora presentano parti in lingua e parti in dialetto. La presenza del dialetto è notevole : ben cinque brani, infatti, sono scritti interamente in siciliano. In dialetto è scritta una parte di altri due brani ; le parti in dialetto costituiscono ca. il 60% del contenuto dell’album. Come si evince dall’intervista fattagli, il Cosentino si è servito del dialetto soprattutto per fini espressivi ; a questo proposito egli afferma :  







Sentivo che il dialetto esprimeva meglio le visioni evocate […] Il siciliano ha dei suoni suoi, diversi : è stato come fare un arrangiamento del testo nuovo e diverso. Mi sono buttato sul siciliano per la musicalità propria […] Sappiamo bene che il siciliano ha un mondo di espressioni molto colorito e l’italiano posto a confronto risulta più asettico. I dialetti, poi, nascono dalle esigenze di esprimere emozioni vive.  

Con riferimento a due specifici brani Cosentino chiarisce meglio il suo pensiero sul particolare ruolo che assume in essi l’uso del dialetto :  

Il regalo e Primavera sono i brani in cui esplode la gioia di questa donna : è il momento più glorioso, bellissimo, stupendo ! E quindi sono naturali tutte quelle espressioni in siciliano, così colorite.  



Il passaggio dalla tristezza del lutto alla gioia dell’innamoramento, a livello linguistico, è reso, in entrambi i brani, attraverso l’uso del dialetto, attraverso una sorta di traduzione sentimentale in siciliano del testo originale verghiano. Il dialetto, quindi, conferisce enfasi alla narrazione e a livello musicale un ritmo particolare testimonia questo passaggio. Il dialetto, inoltre, serve pure per una migliore ambientazione, in ossequio ai principi del verismo ; in Primavera, p. es., il ritmo vivace della musica richiama la bellezza della natura circostante, in perfetta rispondenza con la gioia di Janu. All’uso del dialetto come mezzo espressivo si è poi adeguata la scelta di strumenti dai suoni adatti al tema e all’ambiente come quelli dei sonagli, delle tammorre, delle mandole, dei mandolini, ecc. Fra suoni e parole si è creata una perfetta sintonia (spesso la musica ha funzione di ampliamento emotivo delle parti parlate, integra le parole e talvolta si sostituisce ad esse) e il dialetto si rivela la migliore forma linguistica per rivestire i suoni riprodotti da tali strumenti, per esprimere con parole le sensazioni che essi evocano ; d’altra parte, a sua volta, la musica evoca e concretizza emozioni che nascono dalla lettura e dalla rielaborazione del testo e della vicenda di riferimento. 1  



2. 3. La critica Il lavoro degli « Eirene », oltre ad essere stato valutato positivamente e premiato in alcuni concorsi ai quali ha partecipato la band, è stato pure apprezzato dalla critica ; citiamo a tal  





1   L. Cosentino descrive questo processo in tre tappe : « Nasce prima l’idea, il concetto ; poi la musica e poi si ha la fusione di musica e parole, parole generate dall’idea originale ».  







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proposito il giudizio di due autorevoli studiosi. Nel risvolto di copertina del libretto allegato al cd A. Di Grado, docente e specialista di letteratura italiana, scrive : « Un Verga sorpreso sulla soglia tra mondanità e folklore, tra caminetti borghesi e falò rurali, fra lingua e dialetto. Una dissolvenza, Nedda : tra due mondi, tra due lingue. Così come questa trascrizione musicale degli “Eirene”, ricca di contaminazioni, sospesa tra verismo e melodramma, tra risonanze etniche e aperture al musical ». A. Faicchia, che, quando ancora non conosceva di persona i componenti del gruppo musicale e non era ancora il loro regista, era stato fortemente attratto da queste musiche, nelle Note di regia, inserite nel sito ufficiale del gruppo, scrive : « La musica composta dagli “Eirene” descrive, in modo appropriato e, soprattutto, intenso la drammaticità della condizione di Nedda, così come Verga racconta nella sua novella ». Da parte sua E. Abbadessa, al Convegno sulle musiche mediterranee, tenuto a Catania il 28 aprile 2004, nel suo intervento ha fatto notare che ciascun componente del gruppo « Eirene » porta alla realizzazione del progetto musicale le proprie specifiche attitudini, le proprie diverse capacità, le esperienze che ciascuno ha precedentemente maturato per conto proprio, aggiungendo un ‘colore’ ad una sola tavolozza di diverse abilità che servono a ‘dipingere’ un quadro unitario e personale.  

















3. La messa in scena Determinante per la riduzione teatrale è stato l’incontro con il regista, al quale il gruppo rende il giusto merito sia per la sua funzione amalgamante sia per la sua professionalità. Nel sito del gruppo, al link Nedda, hanno scritto :  

Lo spettacolo è arrivato alla forma attuale […] dopo l’incontro dei sei Eirene con il regista teatrale Antonio Faicchia […] In precedenza lo spettacolo aveva attraversato varie fasi sperimentali ricche di buone idee, ma mediocri dal punto di vista scenico-organizzativo e carenti di armonia e sintesi fra le varie scene. Antonio Faicchia, forte della sua esperienza registica […], è riuscito a dar corpo alle carenze e a rendere organico e d’impatto l’insieme fino ad allora poco più che sbozzato. La sua “lungimiranza” […] ha permesso di mettere su in pochi mesi un impianto scenico perfettamente aderente alle note delle canzoni e agli umori della storia ; idee spesso animatamente discusse e vagliate all’esame di un gruppo (rivelatosi tuttavia compatto e straordinariamente in sintonia) che si è trovato a crescere fra momenti di iperbolica creatività e fasi di “secca” in cui, comunque, è riuscito a lavorare grazie anche all’entusiasmo nei confronti di una “visione” comune a tutti.  

3. 1. Dal testo al copione La versione per la scena teatrale, anch’essa, come il cd, intitolata Nedda a varannisa, consta delle parti recitate, nelle quali s’inframmezzano gli stessi brani musicali analizzati sopra, ai quali si aggiunge pure il brano intitolato Mavaria, non incluso nel cd. Il contenuto della parte recitativa è molto fedele al testo originale verghiano, anche perché ai personaggi della novella si aggiunge il personaggio Verga, il quale recita integralmente l’introduzione e altre parti descrittive che ricalcano le parole e le varietà di lingua usate da Verga. La struttura del dramma, che si articola in undici quadri, ripropone la prima divisione in brani musicali operata dal Cosentino e poi ripresa dal regista, il quale ha creato i quadri, legando ciascuno di essi ad una canzone della versione musicale. Se si confrontano i quadri del dramma degli Eirene-Faicchia con le parti in cui D. Conrieri suddivide la novella verghiana,1 si nota innanzitutto che, non tenendo conto dell’ultimo quadro, che costituisce una sorta di epilogo dei quadri precedenti, il numero dei quadri di Nedda a varannisa coincide con il nu1

  D. Conrieri, Lettura di « Nedda », « Giornale storico della letteratura italiana », clxxviii, 582, 2001, pp. 161-163.  







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mero degli spezzoni del Conrieri. La coincidenza non si ferma alla somiglianza di struttura, ma, come si può notare dallo schema che segue, vi è pure una sostanziale somiglianza di contenuto fra le parti messe a confronto :  

Parti corrispondenti nella suddivisione Cosentino-Faicchia

Spezzoni narrativi nella partizione di Conrieri

Quadro del copione

i. Fattoria del Pino ; presentazione di Nedda e del suo ambiente. ii. Nedda in viaggio verso casa ; incontro con Janu e breve dialogo con lui. iii. Ultime cure alla madre ; condizioni di Nedda dopo il lutto ; l’aiuto offerto dallo zio Giovanni. iv. Nedda messa al bando per aver avuto bisogno di lavorare in giorni festivi. v. Corteggiamento di Janu ; i turbamenti di Nedda ; le loro schermaglie amorose. vi. Partenza di Janu e Nedda per Bongiardo in cerca di lavoro. vii. Descrizione dell’ambiente di lavoro ; Janu seduce Nedda. viii. Nedda si allontana trepidante dalla sua « casuccia ». ix. A Pasqua Nedda lascia piangente il confessionale e non fa la comunione ; attende Janu che è andato a mietere per guadagnare i soldi per mettere su casa ; rientra malridotto per le febbri malariche, ma riparte per la rimondatura a Mascalucia.  

Brano musicale

Quadro 1 e 2

Il fuoco ; Nedda

Quadro 3

Il viaggio

Quadro 4

La ballata delle gazze

Quadro 5

Il regalo di Janu

Quadro 6

Primavera

Quadro 7 ; quadro 8 (parte iniziale)

(Opera iii)

Quadro 9 Mavara Quadro 8 (parte finale), quadro 10.

(non incluso nel cd) (Ma cu è ?); Ninnananna

Quadro 11

Nedda e la luna

























x. Muore Janu, caduto da un albero ; Nedda, gravida e senza lavoro, evita di morire di fame grazie all’aiuto dello zio Giovanni ; partorisce una bambina, che per inedia deperisce e muore.  





3. 2. Non solo testo Il significato generale e il fine ultimo della rielaborazione della novella qui presentata non si evince solo dal testo e dalle parole, ma dalla sinergia dei diversi codici utilizzati : il linguistico, il musicale, il gestuale, la mimica, gli effetti scenici, la danza, i costumi e, persino, il paratesto. Si è già accennato alla specifica funzione del dialetto nei brani musicali e ricordo che soltanto la diversa tonalità, minore nella prima parte di ogni brano e maggiore nella parte finale, rivela al lettore il proposito (che non affiora dalle parole del testo siano esse in lingua o in dialetto) dell’Autore dei brani di riscattare Nedda, sfruttando al meglio le possibilità che offrono le note musicali, alternate le une alle altre in uno stesso brano, di esprimere e comunicare al fruitore il senso del dolore e del riscatto insieme. Alla piena comprensione del testo, sia verbale sia musicale, e alla completa fruizione di entrambi risulta pure funzionale il paratesto (indicando con questo termine le parti grafiche, immagini, disegni, foto, che fanno da sfondo ai testi delle canzoni riportati nel libretto alle 

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gato al cd), che il responsabile incaricato, S. Finocchiaro, ha curato nei minimi particolari. 1 Soltanto attraverso il paratesto, esattamente attraverso le foto contenute nella pagina in cui è trascritto il testo del brano Ninnananna, si rende esplicito il primigenio disegno artistico di Nedda a varannisa così come scaturì nella mente del suo ideatore, Cosentino, il quale fu spinto a scrivere dal desiderio di raccontare qualcosa di forte e, al tempo stesso, di attuale. In effetti aveva trovato nella novella verghiana l’argomento più consono a tale proposito, perché, come c’informa egli stesso : « Proprio Nedda si condensa in una maniera spettacolare per raccontare le situazioni moderne ». 2 Le foto, che rappresentano madri africane e asiatiche con bambini in braccio o accovacciati accanto, impongono al lettore la considerazione che la morte per fame dei bambini va oltre la fiction della novella e si presenta, con tragica attualità, come dramma vissuto in diverse parti del mondo da molte madri, la cui disperazione è simboleggiata nella foto da una figura che tiene le mani sulla testa. Avviene allora una trasfigurazione : a poco a poco i tratti letterari identificativi di Nedda perdono il loro contorno, si dissolvono, sfumando gradualmente, e il personaggio verghiano s’incarna nei visi di quelle foto, prendendo le sembianze di quelle madri reali, affrante dall’immenso dolore e segnate dalla grande disperazione. Questa chiave di lettura attualizzante della novella fa di Nedda il primo personaggio verghiano ad assurgere a simbolo universale di sofferenza umana, ad emblema di tutte le madri che vedono morire i figli per mancanza del cibo della sopravvivenza. 3 Il dramma di Nedda esce quindi dalla novella e dal paesino, in cui è disperatamente vissuto dalla protagonista verghiana in forma privata e fra la totale indifferenza dei compaesani, e da dramma letterario individuale diviene problema reale di milioni di madri sparse in tutto il mondo.  







4. Conclusioni È inevitabile, a questo punto, chiedersi se la proposta interpretativa insita nella rielaborazione della novella da parte degli « Eirene » sia legittima o se sia, invece, un’arbitraria forzatura, configurandosi come una supervalutazione di Nedda che andrebbe ben al di là dell’intenzioni artistico-creative del Verga, il quale peraltro, a giudicare dalle affermazioni riportate all’inizio, alla novella non dedicò molto tempo. In altri termini, se Nedda è un personaggio così  



1   Come dimostra, p. es., la pagina dedicata al brano intitolato Il fuoco o a quello intitolato Opera iii . La pagina in cui è riportato il testo del primo brano è occupata per la maggior parte dall’immagine stilizzata del fuoco e la parte scritta sembra quasi scaturire da esso come riverbero e promanazione. La relazione testo-immagine è ancora più forte ed evidente nel brano intitolato Opera iii (u cuttigghiu dô paisi), al cui testo, essendo più lungo, sono dedicate le due pagine centrali del libretto. Il testo è scritto e allineato al margine estremo di ciascuna pagina e il centro è interamente occupato da una foto tratta da un inserto (Venerdì) di « Repubblica ». La foto, che riproduce una moltitudine di visi anonimi, l’uno addossato e parzialmente sovrapposto all’altro e nessuno in primo piano e a tutto tondo, è appropriata e si adatta al contenuto. I volti, infatti, rendono visivamente l’idea di pettegolezzo che è il tema di questo brano e che nasce, come cicaleccio spiacevole ma innocuo, da una o poche persone non identificabili e, di bocca in bocca, cresce d’intensità e di nocività, passando da ciancia indiscreta a calunnia, a denigrazione emarginante. L’insieme di teste richiamano l’onda della folla che, a sua volta, richiama la marea montante della maldicenza, la quale, come la calca di cui si vedono solo le teste, calpesta e travolge chiunque trovi sul suo cammino. Il venticello della calunnia, alimentato dalla maldicenza di massa, diventa ciclone incontrollabile. Appropriato è pure il disegno contenuto nella pagina in cui è il brano intitolato Nedda. Il disegno mostra un busto in pietra lavica, che rappresenta Nedda. Essa non poteva essere altrimenti meglio rappresentata : la porosità, la ruvidezza e il colore nero della pietra lavica non levigata fanno da pendant alla descrizione verghiana del personaggio : « Era una ragazza bruna […] e ruvida ». 2   Si veda l’intervista rilasciata ad Ambra, il quale sottolinea questo aspetto, scrivendo nella sua tesi che Cosentino « ha avvertito in egual misura il peso degli avvenimenti narrati e la forza che viene descritta della protagonista ; ha percepito subito un’attualità tremenda : forse il motivo principale che lo ha spinto a “cantarne” la vicenda » (p. 33). 3   Soltanto qualche anno dopo succede qualcosa d’analogo con Rosso Malpelo, che, attraverso una versione cinematografica, diventa simbolo ed emblema di tutti i bambini che ancora oggi vivono e lavorano in condizioni di sfruttamento. Dal film, realizzato da Pasquale Scimeca, ha preso il via un’iniziativa, intitolata appunto « Rosso Malpelo », che prevede una raccolta di fondi da destinare ai bambini boliviani.  























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grande come è presentato nella rielaborazione degli « Eirene », è giusto affermare, parafrasando Engels, 1 che tale grandezza si manifesta anche a dispetto delle idee del Verga ? Da parte nostra riteniamo che non lo si possa affermare per alcune buone ragioni che cercheremo di chiarire qui di seguito. A) Anche se fu scritta in poco tempo, non si può certo dire che Nedda sia una novella incompiuta e mancante di qualche parte ; dedicandovi più tempo e attenzione Verga non avrebbe potuto aggiungervi molto di più. Più che le altre donne verghiane Nedda assurge a simbolo di una condizione siciliana di sacrificio e lutto, di eroismo e scacco, e la novella è già un compendio, una sorta di campionario in cui sono concentrati i principali travagli e le vicende dolorose ricorrenti negli scritti che fanno parte del ciclo dei Vinti ; sono sventure individuali, ma anche socioeconomiche generali. A ben guardare, in Nedda, come nota Seroni, sono già evidenti tutti gli elementi della campagna siciliana e sono « già presenti, in sintesi, tutti gli elementi di quella che sarà la Sicilia di Verga : una realtà storica ed economica ». 2 Va detto inoltre che l’opera non può contraddire l’Autore e che, per quanto riguarda le idee che Verga ha di sé e della propria opera, rinviamo a quanto si preciserà meglio in proposito, infra, al punto C). In riferimento al breve tempo di composizione della novella aggiungiamo un’ultima considerazione : chiunque abbia pratica di scrittura sa che si può scrivere di getto solo se prima si ha adeguatamente maturato l’argomento, e Verga aveva già in mente, nelle grandi linee, tutto il ciclo dei Vinti, come dimostra la presenza in Nedda di temi in esso ricorrenti. B) Il personaggio di Nedda, polivalente e plurisimbolico, è adatto a interpretazioni plurime e si presta benissimo a fruizioni di diverso tipo. Addirittura di una caratterizzazione parossistica del personaggio e della sua condizione (tratti iperbolici di miseria e di disgrazia) parla il Conrieri, il quale, però, giustifica pienamente la donna, perché « Nedda è l’eroina, e le spetta il privilegio di possedere in grado iperbolico le caratteristiche della sua condizione ». 3 Nedda, giudicata « la più indimenticabile immagine femminile di tutto il mondo verghiano », 4 apre la rappresentazione dei vinti, i personaggi duramente provati e fiaccati dalle avversità della vita, ma ostinati a continuare. C) Nella prefazione al romanzo Eva, la cui composizione precede di circa un anno (1873) quella di Nedda, il Verga aveva scritto : « Ecco una narrazione – sogno o storia poco importa – ma vera, com’è stata o come potrebbe essere, senza rettoriche e senza ipocrisie. Voi ci troverete qualche cosa di voi, che vi appartiene, che è il frutto delle vostre passioni ». Successivamente, in una lettera del 4 (o 11) ottobre 1880 indirizzata a Filippo Filippi, che lo accusava di aver descritto Rosso Malpelo in maniera tale da farlo sembrare « un fior di birbone », rendendolo antipatico, Verga scrive :  





































Il mio studio, in questo come in altri bozzetti simili, è di fare ecclissare al possibile lo scrittore, di sostituire la rappresentazione all’osservazione, mettere per quanto si può l’autore fuori del campo d’azione, sicché il disegno acquisti tutto il rilievo e l’effetto da dar completa l’illusione della realtà, e questo modo parmi racchiuda il nodo di molte cose buone che sono nel così detto realismo […] Io non giudico, non m’appassiono, non m’interesso, o piuttosto non devo mostrare nulla di tutto questo, sotto pena di veder mancare uno dei più efficaci effetti dell’opera d’arte, e giudico, m’appassiono, m’interesso soltanto colla scelta dei tipi che presento, e dell’azione necessaria in cui li costringo ad agire. Rosso Malpelo ti sembra un martire del lavoro e del dovere ? un eroe dell’abnegazione e dell’affetto filiale ? Bravo ! questo era lo scopo che mi proponevo, e […] questo effetto è tanto più sicuro quanto meno sei messo in guardia, […] quanto più la tua simpatia è tua, lasciami la frase, senza esser passata  





1   Giudicando un capolavoro l’opera del Balzac, Engels afferma che il realismo dello scrittore francese si può manifestare anche a dispetto delle idee dell’autore. La citazione è frutto dell’inconscia suggestione dovuta al fatto che il Verga viene messo in relazione con Balzac (cfr. A. Seroni, La « Nedda » nella storia dell’arte verghiana, Lucca, Casa 2   Seroni, La « Nedda » nella storia, cit., p. 12. Editrice « Lucentia », 1950, p. 19). 3 4   Conrieri, Lettura di « Nedda », cit., p. 164.   Seroni, La « Nedda » nella storia, cit., p. 12  



















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per la commozione sottintesa dello scrittore. Questa lunga chiacchierata però non mi scusa affatto ; se questo non ho saputo farlo saltare fuori dalle linee del libro. 1  

Per i motivi sopra esposti non può stupire se i lettori, anche giovani, trovano in Nedda qualche cosa di loro stessi, 2 che appartiene loro e che è il frutto delle loro passioni (cfr. la citazione). Attenendoci al caso specifico preso in esame, Cosentino e tutti gli « Eirene » insieme col regista, nella loro duplice lettura, musicale e teatrale, del testo hanno fatto ‘saltare fuori dalle linee’ della novella una Nedda che è l’emblema universale della sofferenza di tutte le madri che non hanno come sfamare i propri bimbi ; ma con questa interpretazione non hanno forzato il testo, non ne hanno tradito lo spirito e non sono entrati in contrasto con i principi di Verga quali emergono dalla lettera al Filippi sopra citata. Non si può certo considerare una forzatura se Nedda, che nella novella del Verga si presenta con i connotati della miseria, della tristezza e dell’umiliazione, che vive in mezzo al rifiuto, alla derisione e all’ostilità, prende le sembianze dei volti sofferenti raffigurati nella foto sopra ricordata e ne diviene l’archetipo letterario. Del resto questo processo è favorito dal fatto che nelle aree sottosviluppate, dalle quali provengono le donne della foto, si ripropongono oggi le stesse condizioni di costante miseria, di sofferenze ed emarginazione della Sicilia di ieri. Avendo rivestito il testo di musica, avendolo sceneggiato e rappresentato, gli «Eirene» non hanno solo il merito di averlo reso fruibile a un più vasto pubblico di giovani, ma hanno anche il merito di aver saputo individuare e mettere in risalto valenze artistico-simboliche disseminate in Nedda. Se agli « Eirene » va riconosciuto il giusto merito dell’originale rilettura critica della novella, bisogna, innanzitutto, riconoscere al Verga il merito di aver saputo nascondere fra le righe del testo e nelle pieghe del personaggio principale valenze simboliche di dimensione universale, lasciando ai lettori il compito di scoprirle e metterle in rilievo. Questo, d’altra parte, dimostra pure, implicitamente, che Nedda è un personaggio con pari dignità artistica e della stessa statura degli altri personaggi verghiani, i quali, essendo, come dice il Seroni, 3 « rimasti per tanto tempo figure di mito, [ora] si muovono, s’agitano nel vivo della nostra coscienza, e l’opera verghiana entra trionfalmente fra i valori essenziali della nostra cultura » d’Italiani d’Europa e di cittadini del mondo.  













1   I brani citati della lettera sono tratti da P. Trifone, La coscienza linguistica del Verga. Con due lettere inedite su « Rosso Malpelo » e « Cavalleria Rusticana », estratto da « Quaderni di Filologia e letteratura siciliana », iv, 1977, pp. 7-9. 2   È proprio quello che è successo a Cosentino, che a tal proposito, nell’intervista ad Ambra, dice : « Quando hai una serie di pensieri che ti aleggiano in testa e hai voglia di dire qualcosa, cominci a cercare una storia che ti possa funzionare da guida. Cerchi una guida, sì, e la trovi leggendo. Alla fine ho trovato Nedda ». 3   Seroni, La « Nedda » nella storia, cit., p. 20.  





















Trame onomastiche e strategie traduttive. Sull’edizione italiana del Giornale invisibile di Sergej Dovlatov Laura Salmon 1. Spazio onomastico e funzione estetica : considerazioni introduttive  

N

ell’ambito degli studi di onomastica letteraria, negli ultimi decenni, è stato analizzato un ampio corpus di opere di diverse epoche e culture. Quest’analisi, nel suo complesso, ha fornito numerose e convincenti argomentazioni all’ipotesi che i Nomi Propri svolgano un ruolo cruciale all’interno del testo letterario. È emerso che l’insieme degli onimi presenti nel testo letterario (ma anche, eventualmente, la loro assenza) concorre ad attuare un canale specifico per la condivisione di senso (con-senso), rivelando al lettore aspetti particolari della ‘sfera personale’ dell’Autore (cfr. Apresjan 1995, 636 sgg.). In altre parole, gli onimi costituiscono un sistema di innesco di associazioni, suggestioni e rappresentazioni mentali che l’autore sfrutta per la comunicazione estetica nel suo complesso. Le funzioni degli onimi letterari sono dunque numerose, diversificate e interconnesse. 1 Queste funzioni, da un lato, possono essere considerate un ‘universale culturale’, un emblema importante di ciò che accomuna la creatività verbale umana ; dall’altro, la loro singolare realizzazione all’interno di una specifica linguocultura può divenire uno strumento stilistico, un ‘marchio d’autore’, anche in base alle variabili caratteristiche formali (morfosintattiche e lessicali) di una determinata linguocultura, di un’epoca, di un genere letterario. Come osserva Caffarelli (1997, 51), p. es., il nome dei personaggi può divenire  

un evidente segno del tipo di opera che abbiamo di fronte ; non sempre, ma il più delle volte, un’onomastica realistica o all’opposto fantasiosa anticipa (o asseconda) le intenzioni stilistiche dell’autore.  

Tuttavia, a differenza di quanto sostiene Grebenjuk (2003, 114 sgg.), la funzione dei Nomi Propri letterari non dipende esclusivamente dal genere letterario (parametro non sempre definibile in modo discreto), ma dalla funzione dominante del testo (cfr. Jakobson 1996), parametro che emerge dall’atto interpretativo del lettore che risponde agli stimoli del testo e, quindi, dell’autore. 2 Inoltre, i Nomi Propri sono, tutti, sempre, fortemente allusivi, a prescindere dalle consapevoli intenzioni di autore e lettore :  

Forse non esiste nome che, almeno nell’intenzione di chi lo conia o lo sceglie, non alluda a qualcosa. (Baroni 2007, 141)

Infatti, come ho argomentato altrove (Salmon 2006a), Freud ha mostrato in modo convincente che l’atto onomaturgico umano non può essere mai casuale. A differenza di certi programmi elettronici, il nostro cervello è impossibilitato ad inventare Nomi Propri in modo 1   Qualsiasi elenco tipologico può essere facilmente integrato e dilatato a piacere. Debus 2000-2001, p. es., sintetizza alcune categorie (accentuazione/anonimizzazione, caratterizzazione, mitizzazione, simulazione, invenzione, identificazione), che possono essere integrate dalle varie funzioni legate alla derisione (ironia, sarcasmo, parodia, satira, ecc.). 2   P. es., la parodia di una lirica è un genere ibrido : è tanto poetico quanto parodico. In questo caso, tuttavia, nella ricezione del lettore, la parodia tende a dominare il genere lirico.  

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realmente, perfettamente arbitrario. Basti considerare che − per ideare un qualsiasi antroponimo fittizio − siamo inevitabilmente vincolati a considerarne le caratteristiche fonologiche che lo rendono a priori compatibile o incompatibile con una determinata linguocultura (così come avviene per le pseudo-parole). 1 La mente umana, inoltre, indipendentemente dal coinvolgimento della coscienza, segue percorsi che sono dettati dall’interferenza dei sistemi somato-sensoriali e psico-emotivi, assoggettati a loro volta a sistemi di censura e autocensura. Questi ultimi possono portare a quello che Caffarelli (1997, 49) ha chiamato « cambiamento del progetto onomastico », ad assecondare o violare un divieto. La violazione, del resto, non è necessariamente consapevole : come ha mostrato Freud, il desiderio di rimuovere un Nome sgradito spinge a trovare un Nome sostitutivo che certamente conserva un nesso censorio col nome rimosso. Il reticolato onomastico, inoltre, concorre sempre a delimitare − per usare il celebre termine bachtiniano − il cronotopo dell’opera letteraria, aiutando il lettore a catalogare in una cornice spazio-temporale le immagini trasmesse dal testo, ‘incanalando’ e quindi delimitando la sua risposta interpretativa, emotiva, cognitiva. Il rapporto tempo/spazio nella coesa cronotopìa di un’opera non è dato – come intuitivamente potrebbe pensarsi – dai soli toponimi e/o antroponimi, ma da tutti gli onimi, compresi i marchionimi, i Nomi dei periodici, degli eventi, degli edifici e monumenti, nonché delle opere, dei giornali, dei film, ecc. È l’interconnessione onomastica a innescare nella mente del lettore del testo fizionale una particolare rappresentazione non solo del rapporto tempo/spazio, ma del rapporto autore/ tempo/spazio e, quindi, della vera e propria ‘espressività soggettiva’ dell’opera. Sia i Nomi Propri che scaturiscono dalla creatività onomaturgica, sia quelli che rappresentano referenti storici, già noti al destinatario e catalogati nei suoi circuiti mnestici, innescano inevitabilmente una risposta valutativa, cioè stimolano tanto la memoria semantica, quanto quella emotiva. In altre parole, gli onimi contribuiscono a realizzare il potenziale estetico della narrazione, inteso come sintesi del potenziale informativo (cognitivo), e di quello immaginifico ed emozionale. Per questo, la semplice trascrizione degli onimi nel passaggio traduttivo significa a priori inibire un elemento importante dell’innesco estetico :  







Se lo si “trascrive” [il nome proprio ; L.S.], non potrà avere sul ricevente un effetto emotivo, mentre nell’originale quest’effetto era stato previsto. (Grebenjuk 2003, 113)  

Ovviamente, esiste un’enciclopedia condivisa da parlanti lingue diverse, in quanto molte informazioni e associazioni tra parole sono comuni a chi partecipa a un’intercultura sempre più globalizzata. Ma anche nel caso di onimi che appartengono all’intercultura (quelli condivisi dall’enciclopedia sovranazionale dei parlanti), è indispensabile valutare la correlazione tra il loro ruolo semantico (cosa indicano o denotano) e quello emozionale (cosa evocano sul piano della connotazione affettiva e percettiva). Non sempre in culture diverse un onimo condiviso innesca la medesima catena associativa nella mente dei destinatari (cfr. Ožered 2001). 2 Se in un testo si menziona un’opera di Beethoven, una poesia di Baudelaire, una borsa di 1   In base a un’enciclopedia ampiamente condivisa da tutti i parlanti di una macro-intercultura, un antroponimo allude al genere (Laura è una donna), al numero (Gorbačevy e Clintons sono più d’uno/una), alla nazionalità (Schwarzenegger non è irlandese e McPherson non è polacco), all’etnia (Coen resta un cognome ebraico a prescindere che il portatore sia americano o italiano ; in Russia, un Timur non è russo), alla regione (Trevisan e Saiu innescano associazioni geografiche diverse a qualsiasi nativo italiano). Lo stesso può essere detto del Don, del Machu Picchu, dei Pavesini, di Prada. 2   Nomi trasparenti in una lingua – se trascritti in un’altra − divengono opachi. O viceversa (la cittadina rumena Belin evoca ai Genovesi associazioni diverse che ai russi). Ma proprio questa asimmetria può essere sfruttata in traduzione : rendere in italiano Glupov (la città degli stupidi di Michail Saltykov-Ščedrin) col toponimo russo (diffuso) Dement’evo consente perfetta aderenza etimo-morfologica al testo russo e perfetta trasparenza parodica per il lettore italiano.  



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Gucci, nella mente del lettore si attiva una specifica reazione qualitativa che implica un ‘giudizio’ legato all’esperienza culturale, capace letteralmente di estendere il significato del messaggio. Questo ‘giudizio’ può essere rappresentato schematicamente da una combinazione di aggettivi che il Nome Proprio innesca in ogni specifica cultura, sia che si parli di musica, di poesia o di un oggetto come una borsa (p. es., antica, bella, seria, provocatoria, scandalosa, eccellente, celebre, prestigiosa, costosa, lussuosa, rara, ricercata, ecc.). La particolare rappresentatività emotivo/percettiva del Nome è data dalla particolare combinazione di valori o qualità (qui schematizzati come aggettivi qualificativi) che si sono radicati nell’enciclopedia di uno specifico gruppo culturale. Le associazioni funzionano solo se autori e lettori condividono buona parte delle loro memorie esperienziali e, quindi, delle interrelazioni tra le parole in uso e la loro rappresentazione socio-affettiva e percettiva. Nell’espressione ‘indossava un lungo Versace’, il Nome Versace richiede la condivisione di esperienze e delle relative memorie : infatti, ha cessato di essere antroponimo per farsi marchionimo e, grazie alla comune proprietà dei marchionimi, si è deonomastizzato, divenendo un iponimo ‘specializzato’ del lessema iperonimico ‘vestito’ (un Versace è un vestito dalle caratteristiche particolari). Dunque, nella frase suddetta, a chi abbia informazioni sul circostante mondo dei consumi, il solo ‘antropo-marchionimo’ Versace innesca : 1. l’immagine di una donna (anche se nella frase il soggetto non è indicato esplicitamente), la quale indossa 2. un vestito (anche se il lessema non è esplicitato), il quale è 3. vistoso e provocante (anche se non è indicato, ma i vestiti di Versace lo sono). L’uso di questo tipo di iponimizzazione prevede, da parte dell’autore, che il destinatario condivida con lui non solo una lingua, ma una rappresentazione enciclopedica di valutazioni correlate. 1 È da ritenersi, quindi, che il linguaggio degli onimi e delle loro derivazioni deonomastiche − come nel più noto caso delle antonomasie cristallizzate (Adone, Gomorra, Caporetto, Rimmel, ecc.) − sia condiviso da autori e lettori così come viene condiviso dai nativi il patrimonio lessicale di una linguocultura con il suo potenziale associativo. P. es., il toponimo Montecitorio nella locuzione italiana ‘Montecitorio trema’ ha subìto un processo di pluri-deonomastizzazione e indica non più una piazza o un edificio, e neppure l’istituzione concreta che lì ha sede, bensì chi la rappresenta in quel preciso momento, divenendo, a livello pragmatico, un quasi-sinonimo di altro lessema (‘i parlamentari’) : solo chi è in grado di riconoscere il rapporto toponimo/istituzione inferisce la correlazione. In questo caso, starà al traduttore verificare che un lettore straniero non possa pensare che una scossa di terremoto ha investito il centro di Roma. Questo aspetto di slittamento tra ipo- e iperonimia è di fondamentale importanza per trovare opzioni traduttive funzionalmente equivalenti, operando sofisticate sostituzioni per trovare traducenti equivalenti sul piano funzionale. Per il traduttore è importante non tanto attenersi alla fantomatica e indimostrabile ‘intenzione dell’autore’ (concetto contraddittorio, in quanto gli autori hanno spesso intenzioni ambivalenti, di cui loro stessi possono non essere coscienti : cfr. Salmon 2006b) ; 2 è importante piuttosto che adempia in modo ottimale al suo ruolo primario : quello di lettore speciale del testo che riesce a cogliere le sfumature senza rinunciare alla sintesi ermeneutica che consente di definire la dominante espressiva dell’opera.  











1   Se anche lo statuto onomastico dei marchionimi è ancora in discussione, certamente il loro potenziale allusivo è estremamente complesso e variegato (cfr. De Stefani 2005), il che li rende particolarmente importanti in un contesto fizionale. 2   Un autore, infatti, può perseguire in modo più o meno consapevole o esplicito (secondo il termine utilizzato nell’ambito delle neuroscienze) la costruzione dello ‘spazio onomastico’ dell’opera da lui creata e può credere in buona fede di aver creato un nome in modo del tutto casuale o per una ragione diversa dalle reali ragioni psico-mentali della sua scelta.

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laura salmon 2. Polisemia onomastica e strategie di traduzione

L’importanza e complessità delle trame onomastiche del testo letterario rende i Nomi Propri uno degli ambiti più complessi della traduttologia, disciplina ormai consolidata che tenta di formalizzare almeno in parte i processi traduttivi. La crescente attenzione al ruolo degli onimi nel progetto/processo di traduzione emerge chiaramente dalla comparsa, col nuovo millennio, di ricerche specifiche di traduttologia onomastica : basti pensare che in pochi anni sono uscite sull’argomento, in lingue e paesi diversi, alcune specifiche monografie (p. es., Ballard 2001 in francese ; Lozano Miralles 2001 in spagnolo ; Ermolovič 2001 e Salmon 2002 in russo ; Viezzi 2004 in italiano). Se la selezione dei Nomi Propri da parte di un autore è generalmente finalizzata «al conseguimento di un certo effetto » (cfr. Viezzi 2004, 66), le strategie del traduttore non possono limitarsi alla semplice trascrizione/traslitterazione del Nome o alla riproduzione di etimologie e omofonie, ma devono perseguire la ri-creazione di quel preciso effetto, ri-creando una precisa rete di allusioni con tutti gli strumenti linguoculturali a disposizione (cfr. Anikina 2000, 20). Questo non riguarda, come si continua a pensare, la sola satira o il genere fantasy (come dimostrano gli studiatissimi onimi di Alice o di Harry Potter), bensì tutta la letteratura creativa. In quanto testo ad alto design (cfr. Dennett 1997, 88), l’opera letteraria richiede al traduttore una quantità di computazioni esponenzialmente superiori ai testi a basso design (Dennett contrappone la complessità del sonetto al cartello « Non calpestare l’erba »). In un testo ad alta complessità, i dati presenti nel testo (a livello formale, semantico, semiotico, intertestuale) e le loro interrelazioni richiedono complesse computazioni mentali a lettori e traduttori. Il primo compito del processo traduttivo, quindi, è quello di decifrare la relazione tra gli elementi formali del testo e la loro potenziale capacità di innescare una reazione psico-emozionale e cognitiva. Individuato il ruolo pragmatico delle varie unità linguistiche, il traduttore deve necessariamente organizzarlo in uno schema gerarchico : il parametro più importante determinerà le opzioni e le strategie traduttive. 1 Anche il ruolo di qualsiasi onimo nel rapporto tra singola unità linguistica e contesto generale va stabilito dal traduttore. P. es., in un trattato di botanica il fitonimo crisantemo non può essere sostituito da orchidea, mentre questa stessa sostituzione può essere indispensabile se in un contesto russo il crisantemo simboleggia un oggetto delicato o un omaggio cortese (mentre in Italia il crisantemo ha un’associazione lugubre e non si usa regalare crisantemi per festeggiamenti o corteggiamenti). La stessa cosa vale, p. es., per gli antroponimi. Vovočka (derivato secondario vezzeggiativo di Ivan), che etimologicamente corrisponderebbe all’italiano Giovannino, può restare invariato (traslitterato) nella traduzione di un racconto realistico, oppure − in un racconto di magia per bambini − può essere reso con Giovannino (come si sarebbe potuto fare con il piccolo Hänsel della celebre fiaba Hänsel e Gretel). Se, invece, il contesto è quello di una barzelletta, qualsiasi esperto bilingue tradurrebbe Vovočka dal russo in italiano col nostrano prototipo Pierino. Pierino in questo caso può essere definito ‘traducente funzionalmente equivalente’ di Vovočka. Gli onimi, dunque, più di altri elementi della creatività verbale, costituiscono per il traduttore un vero e proprio paradosso : per quanto concerne la loro referenzialità semanticoetimologica, si presentano apparentemente come ‘semplici’ indicatori : l’Eliseo è l’Eliseo e non è la Casa Bianca, La donna di picche non è la Traviata. Tuttavia, la Casa Bianca in Russia  



















1   Se conta più la rima della precisione zoologica, la ‘donnola’ può diventare ‘visone’ o ‘furetto’ o ‘iena’ o ‘lucertola’ (cfr. Levý 1995, 76-77). In un trattato di zoologia, viceversa, non solo sarà fondamentale la precisione terminologica, ma il traduttore eviterà accuratamente le indesiderate rime fortuite.

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non è la Casa Bianca in usa, ma neppure Toto Cotugno in Italia è Toto Cotugno in Russia (dove è considerato un prototipico cantautore italiano, mentre nessuno ha sentito nominare Fabrizio De André o Lucio Battisti). Questa asimmetria ricettiva è caratteristica specifica di quelli che Rubcova (2002) chiama ‘culturonimi’, tra cui i Nomi Propri che diventano strutture variabili in diverse linguoculture di riferimento. Dunque, l’Eliseo non è la Casa Bianca, ma può corrispondere funzionalmente alla Casa Bianca se si ricrea un testo dal contesto francese a quello americano. Toto Cotugno è Toto Cotugno, ma può rappresentare qualcosa di molto diverso per un lettore russo o italiano. Inoltre, gli onimi possono essere usati per fare una rima, per ricreare un gioco di parole. Un onimo, quindi, non solo può, ma deve essere utilmente sostituito in traduzione per attuare un’analoga rete associativa. Qui, appunto, sta il paradosso : se il traduttore fa ‘funzionare’ un testo in traduzione, deve necessariamente inibire la propensione alla precisione filologica e la propensione al calco etimologico-semantico. Un traduttore deve anche essere filologo, deve anche essere linguista, ma deve soprattutto asservire la sua erudizione al processo di ri-scrittura, mascherandola nel processo ri-creativo. Riempire di Note del Traduttore un testo che originariamente scorreva fluido serve a sfoggiare erudizione, ma impedisce di ri-creare un testo autonomo, egualmente fluido, cioè equi-funzionale. Con le N.d.T., in realtà il traduttore introduce nel Testo di Arrivo (ta) un distrattore (la nota, appunto) che non era né presente, né previsto nel Testo di Partenza (tp). Una nota impone al lettore immerso nell’esperienza estetica di separarsi non solo dal testo, ma dallo stato psico-emozionale in cui si trovava, per assumere i panni del ‘metalettore’ (cioè di chi riflette su considerazioni tecniche altrui) : sarebbe come interrompere un film per dare informazioni sull’edificio inquadrato dalla pellicola. La creazione di equivalenze tra stringhe verbali in due lingue diverse, grazie all’impiego di strumenti linguistici asimmetrici, è l’unico modo per conservare l’effetto estetico e la potenzialità evocativa di un testo letterario, mutandone il codice linguistico. Per questa ragione, la critica della traduzione letteraria − proprio come la critica letteraria tout court − non dovrebbe avere tanto a che fare con la categoria degli ‘errori’, ma soprattutto con la categoria del ‘progetto’, verificando la coerenza delle opzioni, l’applicazione di sufficienti tecniche e strategie di compensazione. Il traduttore, in questo caso, non deve ‘emendare errori’, ma ri-creare gli stilemi, le gerarchie espressive dell’autore. 1 La gerarchia stabilita dal traduttore è vincolata dalla dominante di un determinato testo, postulato indispensabile per valutare la marcatezza funzionale (Salmon 2008) del singolo Nome Proprio. In tal senso è facilmente comprensibile che la precisione estetica possa essere assecondata solo se si è disposti a rinunciare a quella filologica e a quella anagrafica. La dominanza risulta in tal senso esclusiva : se si dà priorità alla precisione anagrafica, quella estetica viene meno. In traduzione, l’esito degli onimi, come di tutti gli elementi testuali, è quindi assecondato al progetto di traduzione e alla gerarchia delle funzioni testuali. I Nomi nel testo fizionale non hanno le stesse funzioni di quelli di una cronaca o di una biografia. Da questo punto di vista, tutte le linguoculture si esprimono in modo sostanzialmente universale : le specificità linguoculturali sono da rinvenirsi prevalentemente a livello morfologico, pragmatico e – talvolta − storico-semiotico. Nel caso della linguocultura russa, il ruolo degli onimi è particolarmente cruciale sia per  







1   Dovlatov, p. es., sbagliava con quasi ostentata ‘distrazione’ i Nomi Propri dei personaggi dell’arte o della politica : questo era un suo stilema, un emblema della sua poetica. Per lui la ‘precisione estetica’ implicava il disprezzo per il pedantismo anagrafico. Nel Giornale invisibile, p. es., viene deformato il nome della scrittrice Ariadna Delianič (quello che interessava l’autore era marcare la marginalità letteraria della Delianič) : « In questo giornale si potevano leggere cose curiose […] Che Adriana Delianič è meglio di Nabokov… » (Dovlatov 2009, 89).  







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la specifica ricchezza del sistema antroponimico (per una rassegna cfr. 2002), sia anche per la tipica mutevolezza diacronica di toponimi, marchionimi, acronimi e altre categorie di Nomi Propri, determinata dalla recente storia della Russia. Si pensi, p. es., che i toponimi della Russia prerivoluzionaria sono stati in buona parte modificati in epoca sovietica (sostituiti per lo più con criterio ideologico) e poi ri-modificati in epoca post-sovietica (con speculare criterio anti-ideologico), senza necessariamente ripristinare la forma corrente prima della Rivoluzione. 1 Le informazioni relative a tempo, spazio e ideologia sono poi espresse dagli stessi antroponimi e dagli appellativi che li accompagnano o li sostituiscono in funzione sociolinguistica o deittica. Un semplice appellativo (o titolo) che precede un antroponimo trasmette informazioni cronotopiche : un gospodin Paškov ‘signor Paškov’ può appartenere allo spazio 1. prerivoluzionario, 2. post-sovietico, 3. dell’emigrazione (anche in epoca sovietica, dunque, ma solo fuori dai confini dell’urss, dove l’appellativo gospodin ‘signore’ era stato universalmente bandito e sostituito da tovarišč ‘compagno’). In Russia, come del resto nei Paesi multiculturali (p. es. negli Stati Uniti), gli antroponimi trasmettono informazioni relative alla provenienza etnica del portatore : grazie a queste informazioni i Nomi letterari russi possono prestarsi a calambour, parodie, giochi intertestuali, spesso a sfondo etno-parodico, in certi casi anche a contrapposizioni ideologiche.  



3. Il giornale invisibile di Sergej Dovlatov e le sue trame onomastiche Sergej Dovlatov è oggi considerato un ‘classico’ della letteratura del Novecento russo. Impossibilitato a pubblicare le sue opere nella Russia Sovietica (dov’era nato nel 1941), aveva scelto di emigrare a New York. Negli Stati Uniti aveva ottenuto notevoli riconoscimenti letterari (alcuni suoi racconti erano comparsi sulla prestigiosa rivista « The Newyorker »), ma, col tempo, si era acuita la sua costitutiva malinconia a causa della lontananza dal suo potenziale pubblico (quello russo, l’unico – lui pensava − che avrebbe davvero potuto apprezzarlo). A queste ragioni si era unita la delusione di una fallita impresa giornalistica che lo scrittore aveva intrapreso con straordinario entusiasmo. Dagli epistolari, dalle testimonianze, dalle stesse opere di Dovlatov si intuisce come l’America, lungi dall’essere quella ‘filiale del paradiso terrestre’ che sognavano gli emigranti russi, si era dimostrata un altro ‘difettoso luogo umano’, non poi così diverso da quella ben più selvaggia, ma ben più amata Russia, spesso abbandonata per fuggire se stessi più che il totalitarismo. Dopo la chiusura del settimanale ebraico in lingua russa « Il nuovo americano » (« Novyj americanec »), che Dovlatov aveva fondato con un gruppo di amici e colleghi russi, lo scrittore aveva avuto un cedimento psicologico e la conseguente ricaduta nell’alcolismo era stata una probabile concausa della sua morte precoce, avvenuta nel 1990 a New York. Dovlatov non aveva potuto neppure intuire quale sarebbe stato − di lì a pochi mesi − il destino della sua patria, né quello della sua stessa fama, cresciuta in pochi anni a dismisura. Le vicende che avevano provocato l’agonia e la chiusura del « Nuovo americano » sono state descritte in due opere : La marcia dei solitari [Maršč odinokich] e Il giornale invisibile [Nevidimaja gazeta], pubblicati in italiano, rispettivamente, nel 2006 e nel 2009. 2 Quest’ul 

















1   Noto l’esempio di Leningrado, ri-nominata non Pietrogrado, come si chiamava prima, dal 1914 al 1924, bensì San Pietroburgo, toponimo originario, usato per due secoli, dal 1703 al 1914. 2   In russo Il giornale invisibile non ha mai avuto un’edizione autonoma, ma è stato pubblicato come seconda parte dell’opera Il mestiere [Remeslo], comparsa per la prima volta nel 1985 negli Stati Uniti (Ardis Publishers, Ann Arbor, mi). La prima parte del Mestiere è costituita dal Libro invisibile [Nevidimaja kniga] (edito in italiano da Sellerio nel 2007), che inizialmente aveva avuto in lingua russa una sua autonoma pubblicazione nel 1977 (sempre negli Stati Uniti e sempre per la Ardis di Ann Arbor). La decisione di pubblicare separatamente le due opere in traduzione italiana è stata presa in accordo con l’Editore Sellerio e con gli eredi : i due volumi, pur avendo una evidente correlazione tematico-stilistica, presentano infatti una sostanziale autonomia (il primo riguarda i fallimenti letterari russi, il secondo – il fallimento giornalistico americano).  

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tima opera è la nona opera dovlatoviana che ho tradotto e curato per l’Editore Sellerio di Palermo. Il lavoro alla traduzione delle opere di Dovlatov, inaugurato con Straniera (pubblicato per la prima volta nel 1991) si è esteso, continuativamente, dal 1990 (data del primo contratto) fino ad ora (e non si è ancora concluso). In questo lungo percorso, i diversi progetti di traduzione di ogni singola opera hanno subìto mutamenti dovuti alla crescita delle mie conoscenze e abilità traduttive. In particolare, le differenti modalità con cui si sono operati interventi sugli onimi in traduzione italiana rispecchiano il crescente interesse per il rapporto onomastica/traduttologia, nonché la crescente autonomia operativa che solo l’esperienza e le critiche positive offrono a un traduttore. In particolare, è stato solo a partire dagli ultimi anni ’90 che ho preso coscienza del fatto che il ruolo degli onimi nell’opera letteraria di Dovlatov (ma non solo) necessitava di specifica riflessione e di un relativo impegno a trovare strategie argomentate per ricreare nel ta quei reticolati onomastici del tp che ne costituiscono l’imprescindibile componente estetica. Nelle opere di Dovlatov l’impiego degli onimi è talmente variegato da rendere difficile la stesura di un elenco formale. Per lo più si hanno : - antroponimi reali di più o meno famosi politici, militari, scrittori e poeti, cantanti e artisti, musicisti, scienziati e altri personaggi pubblici (in questa categoria rientrano gli pseudonimi d’arte dei personaggi) ; - antroponimi reali di personaggi della biografia dell’Autore, la cui funzione umoristica o ludica è talvolta centrale ; - antroponimi deformati di reali personaggi biografici, spesso trasformati in pseudonimi e soprannomi ; 1 - autonominazione : l’autore è sempre protagonista delle sue opere e viene chiamato dagli altri con tutte le forme derivate del suo nome, Sergej, e del suo cognome Dovlatov (deformato da alcuni con funzione parodico-umoristica, p. es. in Dolmatov) ; - toponimi, urbanonimi, coronimi di ogni genere, per lo più legati alle tre città a cui Dovlatov è stato legato (Leningrado, Tallin, New York) ; - nomi di istituzioni, associazioni, negozi, locali pubblici, talvolta in forma acronimica (soprattutto per le associazioni americane e le istituzioni sovietiche) ; - marchionimi sovietici e americani, ma talvolta (soprattutto per le firme della moda, a loro volta derivate da antroponimi) anche italiani e francesi ; 2 - titoli di opere, giornali, riviste (spesso con specifica funzione creativa), sostituiti a volte da pseudonimi ; - fitonimi, zoonimi (che comprendono i Nomi Propri di alcuni singoli animali) ; - pseudonimi (per persone e oggetti).  





















La scelta di operare interventi ri-creativi, per consentire al lettore italiano di accedere nella sua interezza alle risorse estetiche del tp dovlatoviano, si è riflessa in una macrostrategia di base : evitare le Note del Traduttore che non fanno parte del tp e costringono il lettore  

1   In queste prime tre categorie è frequentissimo il ricorso alla rappresentatività etnica degli onimi. Si veda, p. es., il brano di Regime speciale (Dovlatov 2002, 19), in cui sono elencati nomi nordici e caucasici che il soldato estone scambia per ebraici (con l’allusione alla stereotipica estraneità ebraica al mondo sovietico) : Ecco le presento – disse in tono conviviale il tenente colonnello – i nostri fiori all’occhiello. Il sergente Tchapsaev, il sergente Gafiatulin, il sergente Čičiašvili, il sottosergente Šachmamet’ev, il caporale Lauri, i soldati Kemoklidze e Ovsepjan... - Perkele ! – pensò Gustav – tutti giudei !.. 2   In La marcia dei solitari (2006, 186-188), un aneddoto è giocato sulle iniziali C D (Christian Dior) da Dovlatov erroneamente (e umoristicamente) scambiate per le iniziali cirilliche del suo stesso nome (СД).  





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a continue interruzioni, pregiudicando la fondamentale ricezione umoristica. Alle singole Note si è sostituita un’unica ‘Nota alla Traduzione’, collocata in calce ad ognuno dei volumi, in cui viene fornita al lettore dettagliata spiegazione degli interventi traduttivi e delle strategie adottate. Grazie a questa Nota, il lettore italiano ha a disposizione più informazioni filologico-enciclopediche di quelle disponibili nel tp (le sue esigenze informative sono quindi rispettate), evitando che lo zelo filologico intacchi la risposta estetica. Nella Nota finale si spiegano gli interventi relativi agli onimi, con le relative argomentazioni. In particolare, nella Nota al Giornale invisibile (Dovlatov 2009, 137-143), si informa il lettore che :  

Per la traslitterazione dal cirillico si è seguito il criterio cosiddetto “scientifico-internazionale”, ormai invalso nelle traduzioni dal russo. In particolare : Fanno eccezione : […] - i nomi propri di personaggi stranieri (prevalentemente americani), a loro volta traslitterati dall’autore in cirillico (secondo il criterio omofonico), che vengono riportati nella corrente grafia latina (ad esempio Hemingway, Faulkner, Reagan, ecc.) ; - il cognome ebraico (in traslitterazione dalla forma russa in cirillico) Šapiro, che viene traslitterato come Shapiro, in quanto si riferisce a un emigrante che cerca il suo cognome negli elenchi telefonici americani ; - lo pseudonimo del personaggio ebreo-americano (Larry) Schweizer viene riportato con la grafia con cui questo cognome è prevalentemente diffuso negli Stati Uniti ; - il soprannome Akula non viene traslitterato, ma tradotto con calco semantico come Squalo. (ivi, 138-139)  









Successivamente, vengono fornite al lettore informazioni relativamente al progetto traduttivo :  

Il testo italiano è stato ri-creato : a) secondo il principio dell’attualizzazione della traduzione : è cioè previsto che il lettore italiano recepisca il testo con la familiarità lessicale e sintattica di un lettore russo contemporaneo di Dovlatov (eliminando in buona misura le sempre più rilevanti sfasature dovute ai grandi cambiamenti subiti dalla lingua e dalla realtà russa dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica) ; b) secondo il principio della traduzione funzionale, considerando ogni frase (ogni locuzione, espressione, fraseologismo, gioco di parole, aforisma, ecc.) come unità traduttiva minima, il cui effetto comunicativo sul lettore debba essere interamente conservato. Comunque sia, la corrispondenza lessicale e morfosintattica è stata ampiamente assecondata nel caso in cui non pregiudicasse la funzionalità e l’espressività del testo ; c) secondo un uso alterno del procedimento di omologazione e straniamento. Taluni elementi, infatti, sono stati “omologati” al mondo culturale del lettore italiano per rispettare associazioni mentali o espedienti stilistici ritenuti prioritari ; altri, invece, risultano leggermente “straniati” per rendere attivi i meccanismi di percezione della distanza culturale. Questo criterio di ibridità risponde ad una strategia consapevole e teoricamente argomentabile. In ogni caso, come nel caso della maggior parte delle traduzioni di Dovlatov (Noialtri, Regime speciale, Il parco di Puškin, La marcia dei solitari, Il libro invisibile) non si fa ricorso a singole Note del Traduttore. Ciò allo scopo di rendere immediata la fruizione del testo, per evitare, cioè, che qualsivoglia interruzione alteri la ricezione dell’umorismo che è ritenuto la funzione dominante dell’opera dovlatoviana. (ivi, 139-140)  









A questa spiegazione, segue − suddiviso per punti tematici − l’elenco degli interventi traduttivi operati nel volume, con la spiegazione delle seguenti singole strategie o tecniche traduttive : - lo spostamento, che prevede un’inversione di collocazione delle unità traduttive (invece che « Silvia, rimembri ancora », ‘Rimembri ancora, Silvia’). È una tecnica frequentissima in  





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poesia (soprattutto per riuscire a mantenere la rima), che in prosa si usa meno, di solito per ovviare a problemi sintattici o prosodici ; 1 - l’esplicitazione consiste in un passaggio da iperonimo a iponimo (anche per evitare ripetizioni : bassotto al posto di cane), oppure nell’aggiunta dei minimi elementi indispensabili al lettore del ta in caso di asimmetria enciclopedica (invece di ‘Giorgio Napolitano’, ‘il presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano’), oppure nello scioglimento di un acronimo ; - la generalizzazione consiste al contrario, ma con identico scopo, nel passaggio da iponimo a iperonimo con eventuale esplicitazione (da ‘un bicchiere di Brunello. a ‘un bicchiere di raffinato vino rosso italiano’) ; - la sostituzione si usa a) quando i realia, le canzoncine/filastrocche o gli onimi non sono usati in modo referenziale, ma realizzano metafore, giochi di parole, proverbi (p. es., ‘andare a Tula col proprio samovar’ diventa ‘portare vasi a Samo’), b) quando un nome ha due rappresentazioni diverse nelle due culture (vedi la già citata sostituzione di crisantemo con orchidea) ; - la ri-creazione funzionale è indispensabile (quando non è applicabile la sostituzione) nel caso di giochi di parole, battute, doppi sensi verbali, di filastrocche o canzoncine, di proverbi (p. es., ‘lungo il capello, corto il cervello’ è la riscrittura di un desueto proverbio russo che non ha corrispondenza in italiano ; cfr. Tolstoj 2004, 462).  











Per quanto riguarda toponimi e urbanonimi, nella Nota viene specificato, p. es., che questi onimi (se non attestati in italiano in forma standard, come Mosca e Leningrado) vengono lasciati nella forma russa e riportati in traslitterazione, al caso nominativo (p. es. Šklov, Čeljabinsk, via Kaljaev), senza traduzione semantica (via Raz’’ezžaja), con l’eccezione di Štab (Stato Maggiore) che viene esplicitato in Piazza del Palazzo, in quanto l’edificio si trova presso l’arco della Dvorcovaja ploščad di Leningrado. Per quanto riguarda gli antroponimi russi, vengono riportati secondo il genere del tp, al caso nominativo (es. : Brodskij, Solženicyn, i coniugi Lisovskij). In caso di ambiguità le forme diminutive o vezzeggiative vengono convertite nel Nome primario (Serëga → Serëža → Sergej), ma vengono conservate se la corrispondenza al Nome primario è desumibile dal contesto ; nel caso di Šurik (il suffisso ipocoristico ‘ik’ indica piccolezza) viene aggiunto ‘il mio’ Šurik per conservare l’ironia del tp (si parla di un adulto che vuole essere adottato da un milionario). Per i nomi dei personaggi della politica e della cultura citati dall’autore − suddivisibili in a) nomi universalmente noti e rintracciabili nei più diffusi e generici repertori (tra cui Botticelli, Chagall, Chruščëv, Dostoevskij, Reagan, ecc.) ; b) nomi noti nell’ambito della cultura russa (come Lomonosov, Marlinskij, Sinjavskij, Zoščenko) ; c) nomi poco noti anche al pubblico russo (come Fleming, Ginzburg) − viene spiegato che, data l’assenza di Note dell’Autore, non ci sono Note del Traduttore. Come in tutte le traduzioni di Dovlatov, nel Giornale invisibile la maggioranza di interventi operati in traduzione riguarda specificamente le opzioni di modifica o conservazione dei Nomi Propri.  







4. Gli pseudonimi La decisione più opinabile del progetto traduttivo è stata quella di conservare senza modifiche gli pseudonimi del tp. Dovlatov, nelle altre sue opere, ricorre raramente a pseudonimi (p. es., in un caso chiama sua moglie Tanja invece di Lena), citando spesso personaggi reali 1   P. es., nella poesia in yiddish 12 agosto 1952 di Joseph Kerler (del 1978), la rima del ritornello era realizzata dall’antroponimo del poeta Hofstein ; nelle traduzioni inglese, russa, polacca e tedesca, la rima è stata invece realizzata con l’antroponimo del poeta Bergelson (entrambi i nomi comparivano nel testo yiddish, ma in ordine diverso).  

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con nomi reali, pur modificando liberamente le vicende della realtà secondo criteri esclusivamente estetici e solo apparentemente autobiografici (ci sono tre diversi racconti sul suo primo incontro con la moglie). Usando i nomi reali, lo scrittore non si preoccupava di possibili recriminazioni, in quanto le vicende descritte appartenevano al passato russo e le sue opere (pure in lingua russa) venivano pubblicate all’estero. 1 Nel caso del Giornale invisibile, invece, le vicende riguardavano in termini assai critici personaggi reali della vita americana : l’Autore, dunque, era stato più cauto nei confronti delle possibili contestazioni da parte degli interessati. Nel libro, infatti, Dovlatov ricorre a pseudonimi sia per i nomi dei due giornali che sono co-protagonisti delle vicende, sia per quelli della maggior parte dei personaggi. I due giornali sono chiamati La parola e l’azione e Lo specchio, invece del vero Nome, rispettivamente La nuova parola russa e Il nuovo americano. In questo caso tuttavia, trattandosi di titoli, la traduzione semantica dello pseudonimo rende assai bene tanto l’intento parodico, quanto quello simbolico (il significato dello pseudonimo Lo specchio è assolutamente palese in traduzione) : il lettore italiano dispone delle stesse identiche informazioni del lettore russo. Diversa è stata la situazione per gli pseudonimi dei protagonisti : - Boris Isaevič Bogoljubov è lo pseudonimo dello pseudonimo Andrej Isaevič Sedych del direttore di La parola e l’azione. Nella realtà costui al secolo era Jakov Mojseevič Cvibak, noto letterato che aveva adottato nella vita pubblica nome e cognome meno chiaramente ebraici (pur mantenendo invariato il patronimico). Anche fittiziamente, dunque, Dovlatov inventa il supposto cognome ‘vero’ Štempel’, che suona ebraico all’orecchio russo. Avendo traslitterato gli pseudonimi, si è adottata la strategia dell’esplicitazione sulle origini ebraiche ; - Erik Baskin e Lëva Drozdov erano al secolo, rispettivamente, Evgenij Rubin e Aleksej Orlov. La satira non manca : se Orlov rimanda all’aquila/orël, Drozdov rimanda al merlo/drozd. Per rendere comprensibile il gioco di parole, si sarebbe dovuto modificare il Nome di un protagonista della reale storia di Dovlatov e del giornale ; e inoltre il lettore russo del tp non sa affatto che il vero nome era Orlov (al massimo può immaginarlo). L’intento parodico degli pseudonimi viene chiarito al lettore italiano nella Postfazione al volume ; - il vero nome dello sponsor americano Larry Schweizer era Artur Goldberg e quello della traduttrice americana Linn Farber era Anne Frydman. Tutti i nomi suonano ebraici all’orecchio esperto (e comunque l’informazione è desumibile dal contesto). Le strategie adottate sono state motivate da una semplice considerazione : il lettore russo, fatta eccezione per i letterati coevi di Dovlatov, non poteva, né può oggi cogliere le tecniche operative che hanno portato l’autore alla deformazione degli antroponimi mediante pseudonimi. Pertanto, ciò che il lettore italiano ‘perde’ in traduzione è una perdita che lo accomuna alla maggior parte dei lettori del tp. In tal senso, si è trattato di una tecnica parziale di storicizzazione (almeno in questo il lettore italiano è simile a quello russo contemporaneo al traduttore e non all’Autore ed estraneo all’ambiente di quest’ultimo, che ormai non esiste più).  















5. Le strategie traduttive applicate Diversamente dagli pseudonimi, gli altri onimi hanno richiesto interventi traduttivi precisi e coerenti. Qui di seguito viene fornita una sintesi esemplificativa delle strategie applicate : - esplicitazione : Zoščenko viene reso con « lo scrittore Michail Zoščenko » ; non essendo nota al lettore italiano la zona in cui si trova la città di Taganrog, viene aggiunta l’esplicitazione « della provincia di Rostov » ; i documenti israeliani diventano « visto di espatrio per Israele » ; la nyana  





















1   Nel Libro invisibile, p. es., i nomi erano autentici. In effetti, però, dopo la pubblicazione postuma dell’opera nella Russia post-sovietica, ci sono state proteste e denunce per calunnia. Per questa ragione, nelle edizioni successive, anche nel Libro invisibile si è fatto ricorso agli pseudonimi (creati − in assenza dell’autore − dai curatori).

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viene esplicitata in « Associazione Newyorkese per i Nuovi Americani » ; il premio Lenin diventa « il premio Lenin per la letteratura » ; il ck (« Central’nyj komitet », ovvero il « Comitato Centrale ») diventa « il Comitato Centrale del Partito ». - generalizzazione : la lingua di Lomonosov, Deržavin e Marlinskij (riferita a Lomosov e Deržavin, rispettivamente un noto enciclopedista e un noto poeta del Settecento russo, e a Marlinskij, scrittore dell’Ottocento noto per la sua scrittura altisonante) viene esplicitata mediante una generalizzazione : « la lingua dei retori settecenteschi e dei puristi aulici dell’Ottocento » ; scatoline di Palech è esplicitato generalizzando in « scatoline smaltate dipinte a mano » ; i ‘valorosi agenti della Čeka’ (« doblestye čekisty »), normalmente usato per intendere gli agenti del kgb, qui ironico, si è reso con « valorosi agenti dei servizi di sicurezza » ; il nome del vino Agdam viene esplicitato, generalizzando, in « vino azerbaigiano » ; - sostituzione : il fiore crisantemo, che in russo non ha alcuna lugubre simbologia, ma, anzi, è un romantico emblema floreale, diventa in traduzione « orchidea » ; forestieri dello spazio viene reso col suo effettivo significato funzionale come « esotici marziani » ; il nome del grattacielo Ferro da stiro (così soprannominato per la sua forma dagli abitanti di New York) nella frase « mi scambiano spesso per il grattacielo Ferro da stiro » diventa « mi scambiano spesso per l’Empire State Building » (infatti si tratta di una battuta con cui Dovlatov allude esclusivamente alle sue personali dimensioni fisiche, allusione ben conservata in traduzione) ; - ri-creazione funzionale : questa tecnica, impiegata in tutte le traduzioni dovlatoviane, è stata usata per i tre esempi che Dovlatov adduce (paradossalmente) a dimostrazione di intraducibilità dello slang russo. Uno di questi contiene un toponimo ludico inventato sulla base del verbo perdet’ (‘scoreggiare’) − « Igrulja s Perdilovki » − che allude al mondo del gioco d’azzardo. In traduzione diventa, con lo stesso effetto, « Baronetto da Scoreggio ».  

























































































L’insieme di questi interventi traduttivi consente al ta di essere letto nella funzione inequivocabilmente dominante dell’opera dovlatoviana che non è mai la parodia, ma l’umorismo di tipo pirandelliano, capace di innescare il ‘sentimento del contrario’. Ciò pone le premesse − questa era l’intenzione e questo l’auspicio − perché il lettore italiano possa accedere ad una rappresentazione di quel testo che Dovlatov avrebbe scritto se la sua lingua fosse stato l’italiano e se italiani fossero stati i suoi destinatari. Riferimenti bibliografici Critica Anikina 2000 : T. E. Anikina, K probleme perevoda imen sobstvennych, « Fedorovskie čtenija », 1, pp. 1922. Apresjan 1995 : Ju. D. Apresjan, Integral’noe opisanie jazyka i sistemnaja leksikografija, Izbrannye trudy, vol. 2, Moskva, « Jazyki russkoj kul’tury », pp. 629-650. Ballard 2001 : M. Ballard, Le Nom Propre en Traduction, Parigi, Ophrys. Caffarelli 1997 : E. Caffarelli, Autore e nome : percorsi di ricerca, « rion », iii, 1, pp. 47-58. Debus 2000-2001 : F. Debus, Funzioni dei nomi letterari, « il Nome nel testo », ii-iii, pp. 239-251. Dennett 1997 : D. C. Dennett, L’idea pericolosa di Darwin, Torino, Bollati Boringhieri, [1995]. De Stefani 2005 : E. De Stefani, I marchionimi in una realtà plurilingue. Il caso della Svizzera, « rion International Series », 1, pp. 67-86. Ermolovič 2001 : D. I. Ermolovič, Imena sobstvennye na styke jazykov i kul’tur, Mosca, R. Valent. Grebenjuk 2003 : O. A. Grebenjuk, Perevodimost’ imen sobstvennych, « Fedorovskie čtenija », 4, pp. 112122. Jakobson 1996 : R. O. Jakobson, Dominanta, in Jazyk i bessoznatel’noe, Mosca, Gnozis, [1935]. Levý 1995 : J. Levý, La traduzione come processo decisionale, in S. Nergaard (a cura di), Teorie contemporanee della traduzione, Milano, Bompiani, [1966], pp. 63-83.  















































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Lozano Miralles 2001 : H. Lozano Miralles, De los nombres propios y su traducción, Madrid, Entreascuas. Ožered 2001 : L. V. Ožered, Specifi ka perevoda imen sobstvennych, perešedšich v razrjad naricatel’nych, « Fedorovskie čtenija », 2, pp. 255-259. Rubcova 2002 : S. Ju. Rubcova, K voprosu o perevode kulìturonimov, « Fedorovskie čtenija », 3, pp. 432426. Salmon 2002 : L. Salmon, Ličnoe imja v russkom jazyke. Semotika, pragmatika perevoda, Moskva, Indrik ; trad. it. di F. Biagini, L’antroponimia russa : semiotica, pragmatica, traduzione, « Quaderni di Semantica », 48, 2, 2003 (278-332) ; 49, 1, 2004 (39-101). Salmon 2006a : L. Salmon, La traduzione dei nomi propri nei testi fizionali. Teorie e strategie in ottica multidisciplinare, in I Nomi nel tempo e nello spazio, Atti del xxii Congresso internazionale di Scienze Onomastiche, iii, a cura di M. G. Arcamone, D. Bremer, D. De Camilli, B. Porcelli, « il Nome nel testo », viii, 2006, pp. 77-91. Salmon 2006b : L. Salmon, Intenzione esplicita e intenzione implicita : l’emblematico caso della Sonata a Kreutzer e della Postfazione, in Nei territori della slavistica. Percorsi e intersezioni. Scritti per Danilo Cavaion, a cura di C. De Lotto e A. Mingati, Padova, Unipress, pp. 349-362. Salmon 2008 : L. Salmon, I processi traduttivi umani, in L. Salmon, M. Mariani, Bilinguismo e traduzione. Dalla Neurolinguistica alla didattica delle lingue, Milano, FrancoAngeli, cap. 3, pp. 77-128. Vasil’eva 2002 : N. V. Vasil’eva, O nekotorych aspektach pragmatiki antroponimov, in Scripta linguisticae applicatae : problemy prikladnoj lingvistiki, 2001, Mosca, ran, Institut jazykoznanija, pp. 7-18. Viezzi 2004 : M. Viezzi, Denominazioni proprie e traduzione, Milano, Led.  











































Opere letterarie citate Dovlatov 2000 : S. Dovlatov, Regime speciale. Appunti di un sorvegliante, Palermo, Sellerio, [1982]. Dovlatov 2006 : S. Dovlatov, La marcia dei solitari, Palermo, Sellerio, [1983]. Dovlatov 2009 : S. Dovlatov, Il giornale invisibile, Palermo, Sellerio, [1985]. Tolstoj L., 2004, Anna Karenina, Roma, La biblioteca di Repubblica.      

« I nomi non importano ». L’onomastica delle Città invisibili di Italo Calvino  



Leonardo Terrusi Le ho chiamate tutte con nomi di donna : nomi magari con qualche risonanza orientale, di imperatrici bizantine per esempio, o nomi medievali. Ma i nomi non importano.  

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ono le parole – perentorie in clausola – con cui Calvino illustra la scelta dei nomi delle proprie Città invisibili. 1 A esservi profilata è la coincidenza dell’immaginaria toponomastica con nomi di donna : cinquantacinque, da Diomira a Berenice, seguendo l’ordine delle descrizioni di Marco Polo a Kublai Kan. Scelta che è stata fatta risalire all’incombenza, dietro ogni città, di un archetipo femminile perduto, una « prima città che resta implicita » : 2 la città natale di Marco, una ‘Venezia-madre’, città storica, contrapposta a quelle utopiche del libro. 3 Ma essa rafforza anche l’impressione di essere dinanzi a un suggestivo canzoniere in prosa, 4 dai microtesti intitolati ognuno a una donna-città, a emblematizzare il valore interiore e mentale di queste descrizioni urbane, secondo l’antico paradosso lirico che fa della donna il correlativo di altri discorsi, altre prospezioni di sé. Si staglia tuttavia, nell’affermazione riportata in esergo, la recisa negazione finale. Essa imporrebbe già in limine la rinuncia a qualsiasi tentativo di scavo intorno a eventuali funzioni e significati dei nomi, indicandone una gratuità sostanziale rispetto al senso dell’opera. È la stessa rapidità liquidatoria dell’autocommento però a destare qualche sospetto, risultando notabile in un autore come Calvino, solitamente prodigo di attenzioni per l’onomastica, propria e altrui ; 5 e ancor più in un’opera come le Città, in cui tutto è, al contrario, studiatissimo, geometricamente disposto, imbricato in regole rigorose. A entrare in collisione con la formula negativa sono anche le informazioni sull’avantesto delle Città, disponibili grazie alla pubblicazione di alcuni autografi da parte di Mario Barenghi. 6 Dopo aver elaborato  









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  Nell’intervista intitolata Nel regno di Calvinia, « L’Espresso », xviii, 45, 5 novembre 1972.   Si cita, come in tutti gli altri casi, da I. Calvino, Romanzi e racconti (d’ora in poi rr), ed. diretta da C. Milanini, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, Mondadori, 1991-1994, ii, pp. 357-498. 3   Cfr. G. Bonura, Le città invisibili ovvero il ‘corpo’ di Calvino, « Uomini e libri », ix, 1973, p. 29 ; M. Zancan, Le città invisibili di Italo Calvino, in Letteratura italiana, a cura di A. Asor Rosa, Le Opere, iv, Il Novecento, ii, Torino, Einaudi, 1996, pp. 875-929 : pp. 897-898 ; A. Frasson-Marin, Structures, signes et images dans Les villes invisibles de Italo Calvino, « Revue des études italiennes », 23, 1977, pp. 23-48 : p. 28 ; R. Ludovico, Le città invisibili di Italo Calvino : le ragioni dello scrittore, Thesis, Montreal, McGill University, Department of Italian Studies, 1997, p. 66. 4   Non del tutto traslato è forse il senso delle affermazioni d’autore : « le città invisibili sono nate come poesie » (Le strane città invisibili, « Messaggero veneto », 24 novembre 1972) ; « ultimo poema d’amore per la città » (conferenza di New York dell’‘83, poi Presentazione all’ed. Milano, Mondadori, 1993, p. ix). 5   Cfr. I. Antonovic, L’attenzione onomastica di Italo Calvino, « Rivista Italiana di Onomastica », iii, 2, 1997, pp. 469-499. In un sondaggio di « Epoca », nel 1952, egli dichiara di prediligere « nomi che, pur non significando niente direttamente, abbiano un loro potere evocativo, siano una specie di definizione fonetica dei rispettivi personaggi » (ivi, p. 477). 6   Gli abbozzi dell’indice. Quattro fogli dell’archivio di Calvino, in La visione dell’invisibile. Saggi e materiali su Le città invisibili di Italo Calvino, a cura di M. Barenghi e G. Canova, B. Falcetto, Milano, Mondadori, 2002, pp. 74-95: p. 85.  



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già tutti i testi che avrebbero costituito il corpo dell’opera, ma prima di mettere a punto il sistema delle rubriche che diverrà l’espediente fondamentale del macrotesto definitivo, Calvino traccia in uno dei fogli preparatori un elenco di cinquantacinque nomi (associati a una breve definizione, corrispondente alla caratteristica principale della relativa città), quarantatré dei quali resisteranno sino alla fine, con scambi reciproci tra nome e tipologia cittadina e qualche più drastica revisione. Un altro foglio autografo attesta come, anche dopo il compimento delle rubriche e l’elaborazione della contrainte combinatoria che governerà la scansione dei vari capitoli, in molti casi due o tre nomi fossero posti ancora in alternativa, tra progressive cancellature e ripensamenti. Tutte testimonianze insomma di come il minuzioso lavorio preparatorio dell’opera coinvolgesse pienamente le scelte onomastiche. Sorge allora il sospetto che la loro asserita trascurabilità nasconda una sorta di strategia diversiva ; diretta a stornare il lettore dai significati di superficie, ricavabili da troppo facili equazioni nomen/ res, per dirigerlo verso sensi più riposti e profondi. È il sospetto che i nomi, proprio in questo, molto dicano sulle strategie di scrittura delle Città.  

2. La critica, cursoriamente sensibile al tema, non sempre è parsa disposta ad assecondare l’understatement d’autore, rintracciando talora nell’etimo di singoli nomi una spia connotativa della natura della città cui sono assegnati. Pier Vincenzo Mengaldo sostiene che Irene « è nome e paradigma di “città da lontano”», 1 traendone conferma di una “poetica dell’estraniamento” delle Città. Peter Kuon, accostando la qualità espressiva dei nomi calviniani ai toponimi dell’Utopia di Thomas More, si sofferma su risonanze allusive celate nell’etimo, come per Perinzia, di cui il nome tradirebbe la «condanna al tramonto». 2 Compendia tale tipo di suggestioni interpretative Anna Ferrari, che concede ampio spazio a connotazioni etimologiche sottese a nomi come Melania, ‘città nera’, la cui essenza consisterebbe non a caso « nella morte che rapidamente sopravviene a cambiare gli interpreti », Eutropia, città che nonostante il continuo mutamento rimane identica a se stessa, compiendo il destino contenuto nel nome, ‘buon cambiamento’, o Aglaura, « città “sbiadita, senza carattere, messa lì come viene”, in contrasto col nome, « splendido, fulgido, magnifico ». 3 Un’ipotesi critica alternativa rimarca semmai l’alone intertestuale di questi nomi. Carlo Ossola, nel riconoscere lo « straordinario repertorio di archeologia e utopia che è la nomenclatura » delle Città, vi individua prelievi dalla mitologia, Bibbia e classicità, letteratura e musica. 4 Giuseppe Conte rileva che i nomi delle Città sono tutti « già usati nelle fonti letterarie più svariate, dalla poesia e dal romanzo alessandrini fino all’epica tassiana, dal mito greco alla sua rilettura romantica », 5 riferimenti precisati da Barenghi in autori classici (Orazio, Ovidio), medievali (Paolo Diacono, Rustichello), rinascimentali (Ariosto, Tasso), moderni (Goethe, Puškin) fino alle « “turcherie” (Voltaire, Galland) e i diversi generi di teatro, tra cui il libretto d’opera ». 6 È una questione, quella degli echi letterari evocati dai nomi delle Città,  























1   L’arco e le pietre (Calvino, “Le città invisibili”), in La tradizione del Novecento. Da D’Annunzio a Montale, Milano, Feltrinelli, 1975, pp. 430-451: p. 430. In effetti, la città e la distanza era la definizione abbinata al nome nel primo elenco. 2   Critica, e progetto dell’utopia : Le città invisibili di Italo Calvino, in La visione, cit., pp. 24-41: p. 39, n. 35. Già il titolo citerebbe la capitale di Utopia, Amauroto (< gr. a;maurov~ ‘appena visibile’) per G. Rizzarelli, La città di carta e inchiostro : «Le città invisibili» di Italo Calvino e la letteratura utopica, «Italianistica», xxxi, 2002, pp. 219-235: p. 221. 3   Dizionario dei luoghi letterari immaginari, Torino, utet, 2006, ss.vv. 4   L’invisibile e il suo ‘dove’ : ‘geografia interiore’ di Italo Calvino, « Lettere italiane », xxxix, 1987, pp. 220-251 : p. 248. 5   Il tappeto di Eudossia, in Calvino, la letteratura, la scienza, la città, a cura di G. Bertone, Genova, Marietti, 1988, pp. 44-49 : p. 46. 6   Gli abbozzi, cit., p. 83. Anche la Ferrari correla il tema portante di alcune città con l’intertestualità dei loro nomi : il tema amoroso di Cloe con il Dafni e Cloe di Longo Sofista ; il « continuo movimento da un porto all’altro » di Leandra  





















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che meriterà un’indagine più sistematica, alla ricerca del codice onomastico complessivo dell’opera. Utilizzando le indicazioni d’autore e gli spunti avanzati dagli studiosi, potranno delimitarsi alcuni specimina, corrispondenti a più o meno precisi ambiti di pertinenza letteraria. Quello classico anzitutto, pur non chiamato in causa dall’autocommento, cui si dirigono nomi come Aglaura, Bauci, Fillide, Laodomia, Pirra (di generica ascendenza mitologica, ma tutti presenti, in particolare, in Ovidio, 1 come la Corinna degli abbozzi poi sostituita), e ancora Argia, Berenice, Pentesilea e Cloe, che, oltre al romanzo alessandrino, richiama, con Lalage e gli stessi Fillide e Pirra, i Carmina oraziani. Al microcatalogo classicheggiante si ascriveranno anche Perinzia e Andria, eroine eponime di due commedie menandree da Terenzio contaminate nell’Andria, non a caso in posizioni consecutive nell’elenco originario degli abbozzi autografi (nn. 24-25). Pienamente rispondente alle indicazioni d’autore è il gruppo di nomi di « imperatrici bizantine » : Anastasia, Eudossia, Eufemia, Eutropia, Irene, Procopia, Zoe. Più che assumere risonanze neutramente ‘storiche’, essi paiono rievocare personaggi e vicende avvolti da tonalità romanzesche, e più precisamente da quell’aura di esotismo decadente che caratterizza una diffusa mitologia culturale (la corte di Bisanzio raffinata e corrotta), esercitante un costante appeal su certa storiografia (sin dal Decline and Fall of the Roman Empire di Gibbon, che attesta tutte le imperatrici citate) e sui generi letterari più inclini a simili suggestioni. 2 Osservazione da addurre a sostegno, più che della tesi ingenua di un’allusione a uno di questi testi, dell’estenuata tradizione culturale che grava su tali nomi, di cui è difficile che l’opzione onomaturgica d’autore fosse ignara. In qualche modo gravitanti nella stessa area sono il nome di Ipazia, celebre filosofa alessandrina del iv-v secolo, protagonista di molte trasposizioni letterarie, e quelli di Isidora ed Eufrasia, sante orientali coeve. Vi si dovrebbe includere anche Teodora, moglie di Giustiniano, sulla cui leggenda nera non occorre spendere parole ; ma la presenza tra le Città di una Marozia rende possibile un’altra caratterizzazione, essendo Teodora e Marozia due duchesse (madre e figlia) tristemente note nella Roma del x secolo. Tra i nomi ‘medievali’, oltre all’espunto Rosmunda, la cui fama rimonta all’Historia Langobardorum di Paolo Diacono (rinverdita in teatro dal ’6 all’‘800 : vedi l’omonima tragedia alfieriana), è anche Moriana, antico nome della Maurienne (in Alta Savoia), e, nella forma Moriane, del « paese dei Mori » della Chanson de Roland (vv. 909, 2317). Si tratta cioè di un toponimo, vero o immaginario che fosse, dunque di un’eccezione nel sistema dei nomi di donna delle Città ? 3 In realtà, anch’esso coincide con un antroponimo letterario, eponimo del Romance del veneno de Moriana del Cancionero llamado Flor de inamorados (1562). Alla storia altomedievale appartiene Valdrada, nome della concubina sposata nell’862 dall’imperatore Lotario II, ma poi rinchiusa in monastero dopo il reintegro della legittima moglie Theotberga : vicenda quasi naturalmente orientata agli sviluppi melodrammatici cui sarà piegata, specie nel ’700 (come nella Tietberga di Vivaldi su libretto di Lucchini, 1717). Stringente è la connotazione letteraria di altri due nomi ‘medievali’ del primo elenco : Bertrada, che in tal forma rinvierebbe a un personaggio dell’Adelchi, e Malvina, attestato nei Canti di Ossian di McPherson e da qui dilagato in letteratura e libretti ottocenteschi (Elena e Malvina di Romani, 1824 ; Malvina di Scozia di Cammarano, 1851, ecc.).  





















col Leandro mitico che « attraversava a nuoto l’Ellesponto » ; le palafitte su terreno asciutto di Zenobia con l’omonima regina di Palmira, città fitta di colonne nel deserto ; i trampoli di Bauci col personaggio ovidiano mutato in tiglio. 1   Per Aglauros cfr. Met., ii, 737 sgg., per Pyrrha Met., i, 348 sgg. ; Fillide e Laodomia sono due mittenti delle Heroides. 2   Irene è già nel De claris mulieribus boccacciano ; Eudossia, vedova di Valentiniano III, forzata a sposare l’usurpatore Petronio Massimo, in tragedie sino all’‘800 ; Eutropia, sorella di Costantino, in drammi del ’600 ; Procopia, che segue il marito in guerra, nella storiografia tragica del ’7-’800 ; Anastasia, moglie segreta di Tiberio II, in vari melodrammi, ecc. 3   Altri casi di apparente coincidenza con veri toponimi sono Andria, Isaura (città dell’Asia minore), Olinda (Brasile).  

















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Già questi esempi mostrano come il riferimento del nome a una temperie storico-culturale sia filtrato da una tradizione letteraria ben connotata. La motivazione filologica (i nomi orientali e medievali come mimesi del prototesto di Marco Polo/Rustichello) è attenuata, se non annullata, dal deliberato anacronismo che caratterizza tali allusioni. Se di nomi orientali e medievali si tratta, essi sono di coniazione (o comunque di mediazione) quasi sempre moderna, suggerendo che quelli delle Città non sono l’Oriente e il Medioevo tout court, ma una delle modalità con cui tali categorie sono raffigurate in una certa tradizione occidentale. A dimostrarlo massivamente è una tipologia onomastica che si mostra attinta dalla moda orientaleggiante diffusa tra ’700 e ’800 nella novellistica francese, e confluita nel teatro e nella librettistica coevi : nomi da turquerie, insomma, la cui presenza, intuita da Barenghi, rivela proporzioni impressionanti. Lo esemplifica la copiosa serie di nomi in Z- (dettaglio già in sé contornato da un’aura orientaleggiante e pseudosemitica, pur priva di radici etimologiche) : 1 Zaira, Zenobia, Zemrude, Zirma, Zobeide, Zora. Se il primo evoca la Zaïre di Voltaire, 2 ripresa dalla Zaira di Romani musicata da Bellini (1829) e Mercadante (1831), lo stesso Zenobia, nome di solida letterarietà della regina di Palmira, ha vaste incidenze nel melodramma sette-ottocentesco (Radamisto di Händel, da L’amor tirannico o Zenobia di Lalli, drammi di Metastasio e Apostolo Zeno) ; Zora è nell’Adina rossiniana (1826), libretto di Bevilacqua Aldobrandini da testo di Romani ; 3 Zobeide si propaggina da Les Mille et une nuits di Antoine Galland (1704) a tutta una serie di drammi coevi (Alturno e Zobeide di Giannini, Alì Bassà di Giannina di Mussi, Zobeida del Cradock), sino all’omonima ‘tragedia fiabesca’ di Carlo Gozzi. La menzione di Gozzi diviene più significativa se si accostano altri casi. Come quello di Zemrude, il cui precedente sulle prime parrebbe la Zemroude 4 dell’Histoire du prince Fadlallah, fils de Ben Ortoc, roi de Moussel, compresa in un altro incunabulo del gusto favolistico orientale, Les Mille et un jours, pubblicato tra il 1710 e il 1712 da François Pétis de la Croix con Alain René Lesage : anche in questo caso il nome giunge a Gozzi, che dalla prima parte dell’Histoire trae I pitocchi fortunati. 5 Ancor più eloquente è il caso di Zirma, anch’esso personaggio di una ‘favola’ gozziana, lo Zeim re de’ Geni, tratta da una novella di Galland (l’Histoire du prince Zeyn Alasnam et du roi des Génies) : il nome non compare però nel prototesto, risultando dunque innovazione gozziana e rafforzando il valore della convergenza con la città calviniana. Ma le coincidenze sono ancora più estese : la città di Clarice porta il nome di una principessa della ‘fiaba’ di Gozzi forse più nota, l’Amore delle tre melarance, e di un personaggio del Re cervo ; Adelma quello di una principessa tartara della Turandot (dall’Histoire du prince Calaf et de la princesse de la Chine, de Les Mille et un jours di Pétis) ; 6 Smeraldina, tipico nome di servetta da Commedia, è nell’Amore delle tre melarance, Zobeide, ne L’augellino belverde e in altre fiabe di Gozzi ; 7 Armilla è nome di ninfe letterarie 8 (in Guarini e in poeti barocchi), ma anche di una principessa d’Oriente de Il corvo gozziano ; Pompea, poi eliminato da Calvino, è il nome del ‘simulacro’ di cui s’innamora il protagonista de L’augellino belverde ; Leandra si riscontra, pur al maschile, nell’Amore delle tre melarance e nel Re cervo, in coppia proprio con Clarice.  























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  Cfr. E. De Felice, Dizionario dei nomi italiani, Milano, Mondadori, 1986, ss.vv. Zelmira e Zoraide.   Coniato su zahir ‘fiorente’, zahr ‘fiore’, o al-zahir ‘protettore’, con « generica impronta araba » : ivi, s.v. Zaira. 3   E in melodrammi minori come Zulima (1801), Il califfo e la schiava (1819), Fatima e Selim (1824). 4   Anonima nell’originale in turco (R. Robert, Lectures croisées d’un conte oriental. Pétis de la Croix (Les Mille et Un Jours, 1710), Mlle Falques (Contes du sérail, 1753), « Féeries », 2, 2004-2005, Le conte oriental, pp. 29-45 : 38, n. 23). 5   Cfr. A. Beniscelli, La finzione del fiabesco : studi sul teatro di Carlo Gozzi, Casale Monferrato, Marietti, 1986, p. 89. 6   Trasposta in dramma da Lesage, poi in opere forain note a Gozzi (ivi, p. 94). Ovviamente, nell’originale non compare Adelma, introdotto da Gozzi, al pari di Tartaglia, Pantalone, Truffaldino e Brighella. 7   Calvino include l’Uccel bel-verde nelle sue Fiabe italiane (1956), annotando che Gozzi ne adatta la trama da Grimm e Galland « a continuazione dell’Amore delle tre melarance » (ed. Milano, Mondadori, 1993, pp. 1123-1124). 8   Circostanza che deporrebbe pure per un valore ‘allusivo’ al tema della città, abitata da ninfe e naiadi. 2



















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Circostanze in sé non dirimenti, data l’ampia circolazione dei nomi. Eppure, l’eventualità di un attingimento di Calvino dal corpus onomastico di Gozzi si rafforza se si tien conto che nell’elenco provvisorio nomi ‘gozziani’ come Armilla, Adelma, Smeraldina e Zemrude sono disposti consecutivamente (nn. 46-49 dell’elenco) ; e così Zirma, Clarice e Leandra (40-42), suggerendo una loro coniazione contestuale. Altri nomi riportano comunque alla stessa area. Tamara ha il nome della protagonista del « conte indien » di Stanislas Marquis de Boufflers, Tamara ou le lac des pénitens (1810) ; lo stesso Despina, che a tutta prima richiama un personaggio del Così fan tutte di Mozart-Da Ponte (come l’espunto Zerlina), di ambientazione semmai italiana, è anche nome della figlia del re di Cafria nel Ricciardetto di Forteguerri, poema eroicomico settecentesco (edito più volte nel ’900 come classico per ragazzi), 2 e di personaggi melodrammatici del ’6-’700. 3 Sempre all’opera, pur d’argomento non turchesco, ricondurrebbero Isaura (Giuramento di Mercadante, Isaura da Firenze di Parravano, Gerusalemme di Verdi e Cammarano), Melania (Riconoscenza rossiniana), e forse Ersilia (Romolo ed Ersilia metastasiano, 1765) e Ottavia (Incoronazione di Poppea di Monteverdi, 1643). Bisognerà a questo punto ricordare il non occasionale interesse di Calvino per i generi drammatici, segnatamente melodramma e opera, anche d’ispirazione turchesca. 4 Già nel 1958 lo scrittore aveva approntato un testo (rimasto inedito) per un’opera buffa, adattata dal suo Visconte dimezzato, del compositore Bruno Gillet ; ma ancor più significativo è che vi si scorga una significativa coincidenza onomastica : nella lettera che accompagnava l’invio delle prime sei arie compare, per il ragazzo che canta nel prologo, il nome Zerlino, 5 riecheggiato dallo Zerlina degli appunti preparatori delle Città. Ancora, da una « suggestione della turquerie, della librettistica di riferimenti orientali », 6 nascono le Porte di Bagdad, azione scenica del ’77, 7 in cui è una Zobeida ; in quella intitolata Il naufrago Valdemaro s’affaccia Fillide. Esempi di un’attenzione quasi professionale per il mondo dell’opera ma anche di un’opzione onomastico-culturale ben radicata. In proposito, non si tacerà l’ancor più lunga durata di alcuni nomi di Città nell’intera produzione calviniana. Zobeida e Zaira, con Dorotea, compaiono nel Barone rampante (1957) ; Teodora è l’io narrante de Il cavaliere inesistente (1959), in cui sono anche Eufemia e Sofronia, Aglaura è ne La formica argentina (uscita nel ’52), Ottavia ne La signora Paulatim (1958) ; Diomira ne Il coniglio velenoso, racconto del ’54 poi confluito in Marcovaldo (1963), in un altro episodio del quale (Il piccione comunale, del ’52), si riscontra il poi espunto Guendalina. Il radicamento di alcuni nomi cittadini nel repertorio calviniano è comprovato da riprese successive : nel racconto Lo specchio e il bersaglio (uscito a fine ’78) 8 riemergono gli espunti Ottilia e Corinna (che è anche in Se una notte d’inverno un viaggiatore, 1979) ; Olivia in Sotto il sole giaguaro. Casi che servono a confermare l’ininterrotta fascinazione subita da Calvino, in tutte le fasi della sua sperimentazione letteraria, di questa onomastica, ma anche, se 1



























1   Clarice e Leandro sono ne Il prodigo goldoniano, La prima sera dell’opera di Gherardi Rossi, La notte di Albergati Capacelli, ecc. ; Leandra è titolo del poema cinquecentesco di Durante da Gualdo e nome di un personaggio del Don Quixote. 2   Cfr. l’ed. Paravia (1956), in cui Despina compare sin dal titolo, Despina e Ricciardetto. 3   Cfr. P. D’Achille, Sul nome della Despina mozartiana, « Rivista Italiana di Onomastica », viii, 2, 2002, pp. 393-402, che nega la derivazione dalla Fiordispina ariostesca (per un etimo greco con possibile mediazione rumena), difesa invece da B. Porcelli, Despina e l’onomastica di Così fan tutte di Da Ponte-Mozart, ivi, xiii, 1, 2007, pp. 168-172. 4   Tra l’altro scrive per Adam Pollock la cornice della Zaide (’79), incompiuto Singspiel mozartiano sul ‘ratto del serraglio’, annotando che quello si era rivolto a lui « in quanto autore delle Città invisibili (l’Oriente favoloso) » (rr, p. 1290). 5   Cfr. Barenghi, Nota in rr, iii, p. 1281. 6   C. Varese, Una complessa continuità. Calvino librettista e scrittore in versi, in Italo Calvino. Atti del Convegno internazionale (Firenze, 26-28 febbraio 1987), a cura di G. Falaschi, Milano, Garzanti, 1988, pp. 349-368 : p. 359. 7   Scritta per i bozzetti di Toti Scialoja e destinata a una trasmissione televisiva per ragazzi (rr, iii, p. 1270). 8   Sul « Corriere della Sera » ; concepito in origine come terza fiaba teatrale per i bozzetti di Scialoja (ivi, p. 1236).  

















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non a smentire, a rendere certo meno cogenti interpretationes etimologico-connotative, per la pendolarità di nomi identici in contesti differenti. Echi letterari eterogenei ma indubitabili risuonano in altri nomi di Città. Alla favola indirizza Trude, nome di strega di una favola dei Grimm, Frau Trude (inclusa nell’antologia Fiabe scelte e commentate da Italo Calvino uscita negli « Struzzi » nel ’70) ; alle Scritture Bersabea, variante di Betsabea frequente pure nel melodramma, 1 e Tecla, forse memore, oltre che della martire orientale, dei Promessi Sposi. Altre mediazioni si colgono nello shakespeariano Olivia, in Fedora, nome di femme fatale russa in un dramma di Giordano (da Sardou); ovviamente in Sofronia, che dal Decameron a Machiavelli arriva a Tasso 2 (cui può ascriversi, con cambio di genere, anche Olinda); in Dorotea, attestato in Ariosto (Lena), nel Vecchio amoroso di Giannotti, in Lope de Vega, Don Quixote, Arminio e Dorotea di Goethe e nel Gil Blas de Santillana di Lesage, che Cosimo Piovasco di Rondò legge nel Barone. 3 Agnizioni di lettura suscitano gli espunti Ottilia (le goethiane Affinità elettive ; ma anche, si noti, l’operetta Al cavallino bianco), Cunegonda (Candide di Voltaire), Guendalina (moglie del mago Merlino delle leggende bretoni), Olga (Eugenij Onegin di Puškin) ; e non sarebbe difficile documentare analoghe risonanze per Getullia, Leonia, Margara, Maurilia e il poi espunto Domiziana, come anche per gli apparentemente più ‘comuni’ Cecilia e Margherita. Un piccolo gruppo di nomi, infine, potrebbe celare allusioni ad autori o artisti di cui non sfugge la consentaneità con il Calvino di quegli anni, configurandosi come omaggio e conferma di una linea culturale e letteraria. È il caso di Odile, titolo di un romanzo di Queneau (1937), 4 o quello di Raissa, nome della prima moglie di De Chirico, eponima di un suo famoso quadro del 1929, Bagnante (Ritratto di Raissa) ; 5 non quello di Diomira, che pur ricorda la zia Diomira del parodico Cappuccetto Rosso delle Favole al telefono di Rodari (1962) ; ma l’uso calviniano già ne Il coniglio velenoso nel ’54 ribalta il verso di un eventuale ‘prestito’. 6 A una certa mitologia culturale del ’900 rinvierebbe Eusapia, nome della celebre medium Eusapia Palladino (da Manganelli sottoposta a un’‘intervista impossibile’ nell’omonimo programma radiofonico del ’74-’75, cui prese parte lo stesso Calvino), che non a caso si presterebbe, sin dall’elenco originario, a una città dei morti sotterranea.  













3. Si tratta, come si vede, di un corpus eterogeneo quanto a fonti, significati e motivazioni di scelta, che in singoli casi potrebbero essere di ordine connotativo o intertestuale, ma la cui cifra comune è la costante ricerca, ben visibile anche in superficie, di riferimenti letterari. Si potrebbe dedurne che vi si manifesti l’istanza di un riattraversamento dell’universo culturale occidentale, dei suoi ‘pre-testi’ fondativi : istanza immanente a tutta l’opera, secondo una vocazione che oggi si definirebbe postmoderna e che forse è più precisamente borgesiana. 7 Attraverso i nomi, l’opera si popolerebbe di fantasmi dell’immaginario occidentale. Eppure,  

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  Cfr. Bersabea ovvero Il pentimento di David del Pietragrua, o David e Bersabea di Paolo Rolli.   Evocato dall’autore per la Sofronia del Cavaliere inesistente (cfr. Antonovic, L’attenzione, cit., p. 481). 3   Lesage è fonte del nome Turcaret nel Barone rampante (lo annota Calvino nell’ed. scolastica del ’65 : ivi, p. 484). 4   Citato da Calvino in un saggio su Queneau poi raccolto in Perché leggere i classici, Milano, Mondadori, 1995, p. 269. 5   « Città triste », Raissa è in effetti percorsa da brividi ‘metafisici’. Cfr. anche Viaggio nelle città di De Chirico (1983), in cui Calvino, descrivendo una mostra dell’artista al Beaubourg, costruisce un’altra ‘città invisibile’. 6   Sui rapporti tra i due cfr. A. Asor Rosa, Gianni Rodari e le provocazioni della fantasia, in Le provocazioni della fantasia. Gianni Rodari scrittore e educatore, a cura di M. Argilli et alii, Roma, Editori Riuniti, 1993, pp. 5-21. Diomira, nome del Centro-Nord, specie toscano, è attestato ne Lo scialo di Pratolini, Cicognani e Moretti, Giudizio universale di Papini, e parodicamente nel suo Dizionario dell’omo selvatico (Diomira Doppiopetto nata Saltimbocca). 7   Cfr. C. Segre, “Le città invisibili” di Calvino e la vertigine epistemica, « Strumenti critici », xix, 2004, pp. 43-53. 2











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a ben giudicare, Calvino applica all’interno della tradizione un criterio di selezione assai più precisamente orientato, diretto, si è visto, verso i generi in cui l’esotismo e l’artificiosità erano più ingenui e anzi costitutivi (melodramma, 1 favola), o, in alternativa, verso un repertorio che si direbbe ‘scolasticamente’ consunto (la storiografia tragica dei nomi bizantini, ecc.). Si è di fronte, in altri termini, a un esotismo esibitamente ingenuo, già per così dire immobilizzato e cristallizzato, ed evidentemente sfruttato da uno scaltrito autore novecentesco come Calvino con piglio ironico, con l’occhio disincantato di chi tutto ha già sperimentato. È anche questo il segno, sub specie onomastica, del recupero di generi « bassi » o di un’« estetica della contaminazione », identificabili come istanze postmoderne ? 2 Ciò che più conta è che, in un’opera come questa, deliberatamente inscritta in uno spazio antirealistico e iperletterario, l’effetto divenga in un certo senso paradossale. Nel loro estremismo consapevolmente artificioso, i nomi assumono infatti, rispetto al codice di genere e allo stesso orizzonte d’attesa del fruitore, una risonanza in massimo grado ‘comune’ e ‘generica’, annullando e cauterizzando di fatto ogni reale effetto di straniamento che in sé nomi esotici come quelli prescelti avrebbero potuto comportare, e al contempo ogni loro individualità connotativa o intertestuale. La ricercatezza onomastica delle Città appare dunque quanto di più lontano da una volontà di preziosismo alessandrino, di arte allusiva o intertestualità, se con questi termini s’intenda l’istituirsi di una raffinata dialettica tra nascondimento del referente culturale cui si allude (da parte dell’autore) e agnizione (da parte del lettore), con il nome che dunque ‘comporta’ un carico aggiunto di significati evocativi. La letterarietà dell’onomastica calviniana, più che diretta al recupero attivo dei significati che il nome possiede nel contesto d’origine e alla loro offerta al lettore come surplus interpretativo, sembra consistere nell’ostentarne l’appartenenza a un piano non più riconoscibile come patrimonio individuale di un autore o di una tradizione specifica, bensì a quello di un immaginario logorato dall’uso. La funzione dei nomi assume così un tratto passivo e generico, depotenziando ogni carattere di originalità, vitalità e creatività onomastica, ogni reale allusività. Nomi ‘morti’, dunque, come la letteratura da cui si attingono. Ma più che sottolineare l’utilizzo « citatorio » e « necrofilo » della tradizione, 3 si rimarcherà qui come la qualità così descritta dei nomi renda manifesta la ricerca, da parte del Calvino delle Città, di una sorta di ‘grado zero’ onomastico, di nomi che in virtù del loro carattere mediato e artificioso dissipino sin da subito qualsiasi potenziale significativo, divenendo mere etichette denotative, necessarie unicamente a distinguere, per così dire, una città dall’altra, un capitolo dall’altro della scansione macrotestuale. È la negazione di ogni visione cratilea del nome, di ogni corrispondenza dell’onomastica letteraria con qualche tipo, pur speciale e specifico, di verità. Anche in ciò la costruzione del testo, secondo la concezione del Calvino di quegli anni, coincide con un’operazione testardamente artificiale, con la rinuncia preliminare e consapevole a ogni diretta correlazione tra reale e scrittura. In questo senso i nomi « non importano ».  





















4. Resterebbe da indagare l’eventuale coerenza di tale onomastica con la struttura rigorosamente chiusa dell’opera, in cui la distribuzione lineare e sintagmatica delle cinquantacinque città, ripartite paradigmaticamente, cinque alla volta, in undici serie tematiche (Le città e la memoria, Le città e il desiderio, ecc.), risponde a un criterio combinatorio-matematico che si 1   Anche quando non si tratti di nomi esclusivi del libretto d’opera o di melodramma, la più parte di essi trova ospitalità in quella tradizione : più che a indicarne una derivazione precisa, ciò vale comunque a connotarne la natura. 2   Cfr. U. Schulz-Buschhaus, Critica e recupero dei generi. Considerazioni sul ‘Moderno’ e sul ‘Postmoderno’, « Problemi », 101, 1995, pp. 5-15. 3   Cfr. C. Benedetti, Pasolini contro Calvino : per una letteratura impura, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, p. 194.  







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configura come vera e propria contrainte, per usare i termini dell’Oulipo, alle cui ricerche Calvino era interessato in quegli anni. Una regola che vincola cioè la distribuzione dei vari testi cittadini a un meccanismo rigoroso, accostato da Mengaldo alla retrogradatio cruciata della sestina, diversamente poi descritto da Ossola e definitivamente ricostruito da Claudio Milanini, che vi riconosce un criterio di alternanza scalare riassumibile in una figura geometrica : struttura che intratterrebbe un rapporto significativo con le categorie tematiche in cui sono incluse le città, coincidendo « gli accostamenti “esterni” […] con relazioni sostanziali, con nessi “d’affinità o di contrasto” ». 1 Sarebbe lecito aspettarsi che anche l’onomastica, come pressoché tutti gli altri aspetti testuali, sia sottoposta a un meccanismo struttural-costrittivo di qualche tenore, come in altri testi calviniani d’ispirazione oulipienne. 2 Ma per quanti tentativi si facciano, il meccanismo di distribuzione dei nomi appare riluttante a ipotesi combinatorie, come all’eventualità che sussista un nesso significativo tra nomi e categorie. I nomi sfuggirebbero nelle Città a qualunque contrainte, occupando lo spazio del gratuito. Avrebbe dunque ragione Stefano Bartezzaghi a leggervi una pura « paidia verbale », « una zona libera da preoccupazioni di senso » ? 3 Si tratterebbe, tutt’al più, di quell’« onomastica irrealistica, ironicamente libresco-emblematica », notata per l’intera produzione di Calvino. 4 E ciò liquiderebbe la questione. Ma è forse proficuo verificare l’esistenza di un nesso tra la realizzazione del ‘grado zero’ onomastico di cui si è discusso e il senso globale dell’opera. Questione delicata e complessa, stante l’inafferrabilità volontaria, l’andamento labirintico che ne attraversa l’apparente compattezza. Un dato è certo : le Città sono ‘luoghi mentali’ ; tanto per la voce narrante di Marco, 5 quanto per la prospettiva d’autore, nella quale esse divengono occasione per intrecciare un serrato dialogo con la contemporaneità, sul piano teoretico-linguistico, filosofico, narratologico, ma anche su quello della realtà urbanistica, politica e sociale di quegli anni. Semplificando, ogni città diviene ‘figura’ di un tema novecentesco, metonimia, per così dire, cui agganciare suggestioni statutariamente leggibili, e così lette, in plurime direzioni allegoriche. 6 Ciò che forse più conta è che tale dialogo assuma un senso volutamente aperto, inconcluso, frammentario, per la stessa natura caotica del reale. Proprio questo, con apparente paradosso, detta l’adozione di strutture razionalistiche e matematico-combinatorie, compiendo ciò che Calvino prospettava in Cibernetica e fantasmi. 7 Nelle Città « l’applicazione razionalistica » è « tanto più accanita quanto meno la realtà risulta razionalizzabile », e il libro, « che appare e per tanti aspetti è il suo più costruito, nello stesso tempo è anche il più dissolto ». 8 Una generale chiave di lettura per definire il progetto delle Città potrebbe stare allora non nel concetto di utopia (pur evocato dalla tematica urbanistico-immaginaria e dall’esplicita ripresa di utopisti come Fourier), 9 ma in una formula in qualche modo opposta : ciò che Michel Foucault, nella Prefazione de Le parole e le cose (uscito nel 1966 e tradotto l’anno dopo in italiano), definiva con il termine di eterotopie, luoghi reali (a differenza delle utopie), ma  





































1

  Cfr. C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Calvino, Milano, Garzanti, 1990, pp. 130-131 e 134.   Come Piccolo sillabario illustrato o in Hommes illustres + 7 : cfr. Antonovic, L’attenzione, cit., p. 490. 3   Calvino giocatore. Regole e giochi della scrittura nello spazio, « Elephant & Castle », 2004, pp. 5-6 : paidìa, giusta la terminologia di R. Caillois, è il « gioco fanciullesco, di spontaneità e di euforia », opposto al ludus, « gioco come esercizio intellettuale, confronto con regole molto stringenti », che prevarrebbe in tutti gli altri aspetti dell’opera. 4   Cfr. P. V. Mengaldo, Aspetti della lingua di Calvino, in Tre narratori : Calvino, Primo Levi, Parise, a cura di G. Folena, « Quaderni di Retorica e Poetica », 1, 1987, pp. 9-55 : pp. 20-21. 5   « Confessa cosa contrabbandi », gli rinfaccia Kublai, « stati d’animo, stati di grazia, elegie ! » (p. 442). 6   Per averne un’idea cfr., p. es., Zancan, Le città, cit., o Rizzarelli, La città di carta, cit. 7   Come ricostruzione del ‘labirinto’ del mondo per criticamente comprenderlo o, all’opposto, « conferma delle cose come stanno e come si sanno ». Aperto è il dibattito su quale delle due vie Calvino percorra nelle Città. 8   Mengaldo, L’arco, cit., p. 413. 9   Cfr. Kuon, Critica, cit., che rimarca però l’accezione critica dei modelli utopici in Calvino (p. 27). 2































   





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che, come preciserà lo stesso filosofo in un saggio del ’67, « costituiscono una sorta di controluoghi » :  





specie di utopie effettivamente realizzate nelle quali i luoghi reali, tutti gli altri luoghi reali che si trovano all’interno della cultura vengono al contempo rappresentati, contestati e sovvertiti ; […] luoghi che si trovano al di fuori di ogni luogo, per quanto possano essere effettivamente localizzabili […] luoghi che sono assolutamente altro da tutti i luoghi che li riflettono e di cui parlano. 1  

Al di là della possibile caratterizzazione delle singole città di Calvino quali eterotopie, ‘contro-luoghi’ foucaultiani, al di là anche di precise analogie testuali, 2 ciò che si vuol suggerire è piuttosto un accostamento tra il senso complessivo delle Città e l’accezione più ampia del concetto introdotto dal filosofo francese. In quest’ottica, ancor più significativo è il contesto in cui questi lo introduceva, ne Le parole e le cose : la reazione – di riso, ma soprattutto di sconcerto – dinanzi al paradossale elenco che Borges dice tratto da « una certa enciclopedia cinese », in cui gli animali erano divisi in :  







a) appartenenti all’Imperatore, b) imbalsamati, c) addomesticati, d) maialini di latte, e) sirene, f ) favolosi, g) cani in libertà, h) inclusi nella presente classificazione, i) che si agitano follemente, j) innumerevoli, k) disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello, l) et caetera, m) che fanno l’amore, n) che da lontano sembrano mosche. 3

Il catalogo borgesiano, scrive Foucault, turba « tutte le familiarità del pensiero […] facendo vacillare e rendendo a lungo inquieta la nostra pratica millenaria del Medesimo e dell’Altro ». 4 E anzi suscitando il sospetto dell’esistenza « di un disordine peggiore che non l’incongruo e l’accostamento di ciò che non concorda » ; è appunto un esempio di eterotopia, corrispondente alla dimensione dell’eteroclito, in cui « le cose sono ‘coricate’, ‘posate’, ‘disposte’ in luoghi tanto diversi che è impossibile trovare per essi uno spazio che li accolga, definire sotto gli uni e gli altri un luogo comune » (ivi, p. 7). La funzione è opposta a quella delle utopie : se queste « consolano », le eterotopie « inquietano », minando e devastando la ‘sintassi’ che tiene insieme « le parole e le cose » (ivi, p. 8). Eterotopia, dunque, come sconvolgimento di tassonomie consolidate, regno dell’eteroclito, proposta di un ordine paradossale, che scompagina l’apparente solidità della logica occidentale ; collocata non a caso nell’Oriente favoloso (l’enciclopedia cinese), « una regione precisa », conclude Foucault, « il cui solo nome costituisce per l’Occidente un grande serbatoio d’utopie » (ibidem). Sembra quasi un’anticipazione delle Città invisibili, inquietante atlante orientale governato dal paradosso e dall’eccezione. In appoggio a tale accostamento, particolarmente significativo è un passo della cornice, in cui Kublai afferma di aver costruito un modello mentale da cui dedurre tutte le città possibili, modello che « racchiude tutto quello che corrisponde alla norma ». Dunque, afferma l’imperatore, « siccome le città che esistono s’allontanano in vario grado dalla norma, mi basta prevedere le eccezioni alla norma e calcolarne le combinazioni più probabili » (p. 413). È una tassonomia nel senso classico : stabilita la ‘norma’, se ne deducono le eccezioni possibili. Marco risponde, ribaltando esattamente il ragionamento, che il modello di città da cui dedurre tutte le altre  















































è una città fatta solo d’eccezioni, preclusioni, contraddizioni, incongruenze, controsensi. Se una città così è 1

  M. Foucault, Eterotopia, luoghi e non luoghi metropolitani, Milano, Mimesis, 1994 [1967], pp. 9-20 : p. 14.   P. es. il passo delle Città : « l’altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e che non avrà » (p. 379), riecheggia l’esempio foucaultiano dello specchio come forma di eterotopia, o meglio come dimensione di passaggio tra essa e l’utopia. 3   J. L. Borges, L’idioma analitico di John Wilkins, in Altre inquisizioni, Milano, Feltrinelli, 19835, pp. 102-105 : p. 104. 4   M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Milano, Rizzoli, 1985 [1966], p. 5. 2











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quanto c’è di più improbabile, diminuendo il numero degli elementi abnormi si accrescono le probabilità che la città ci sia veramente. Dunque basta che io sottragga eccezioni al mio modello, e in qualsiasi ordine proceda arriverò sempre a trovarmi davanti una delle città che, pur sempre in via d’eccezione, esistono. Ma non posso spingere la mia operazione oltre un certo limite : otterrei delle città troppo verosimili per essere vere. (ibidem)  

Partendo cioè dal tracciato di tutte le eccezioni possibili, è dalla loro sottrazione che si ottengono gradualmente città realmente esistenti (o potenzialmente tali). Forse è ciò che si compie nel libro : la costruzione di un ‘catalogo’ di “eccezioni, preclusioni, contraddizioni, incongruenze, controsensi” ; di un’eterotopia, insomma, un catalogo borgesiano-foucaultiano. Sebbene l’obiettivo resti quello di accostarsi, pur ‘in negativo’, alle città che possono esistere : ma la via verso la realtà, per la scrittura, coincide con la dannazione volontaria in un percorso eterotopico. Solo percorrendolo disperatamente fino in fondo si può tentare di raggiungere, forse casualmente, una meta. Una cifra eterotopica o più genericamente eteroclita agisce costitutivamente a molteplici livelli nelle Città. Essa è già implicita nella stessa genesi compositiva del libro. In una lettera a Claudio Varese del ’73, Calvino dichiara che i vari testi cittadini sono nati « pezzo per pezzo », come microtesti sparsi e occasionali, e, « se ora il libro si presenta come una costruzione elaborata e conclusa, questa costruzione è venuta all’ultimo sulla base del materiale che avevo accumulato ». 1 Solo l’ideazione successiva di una struttura macrotestuale dà cioè origine al libro, interagendo dialetticamente con la sua natura geneticamente aperta e frammentaria. Un altro dettaglio, di natura linguistico-stilistica stavolta, denuncia la stessa tendenza : la frequenza di quelle « elencazioni o enumerazioni protratte », che, pur costanti nel suo stile (oscillando tra ‘catalogo’, espressione di « un’arte combinatoria che aggrega e distingue con precisione gli aspetti del mondo », e, all’opposto, ‘enumerazione caotica’, « pluralità disordinata, dispersa, inorganizzabile », « scialo e tritume, senza centro nella sua ridondanza »), 2 trovano nelle Città uno dei luoghi di applicazione più significativi. Condizione necessaria per la costruzione di un insieme non coeso come questo è che sussista un qualche ordinamento, una griglia che accosti l’inaccostabile, provocando esso stesso l’‘effetto-eterotopia’. Ciò che infatti realmente sconvolge, e anzi crea l’eterotopia, è che i suoi eterogenei e paradossali elementi costitutivi siano inseriti in una ‘serie’ ordinata, che pretenda di accomunarli denunciandone l’inassimilabilità. È il semplice fatto che i vari elementi appaiano in sequenza alfabetica, nota Foucault, a realizzarla nel catalogo borgesiano : « ciò che sopravanza ogni immaginazione, ogni pensiero possibile, è soltanto la serie alfabetica (a, b, c, d) che lega a tutte le altre ognuna di queste categorie ». 3 Anche per le città calviniane, tessere di un quadro discontinuo, di uno spazio borgesianamente e foucaultianamente eterotopico, sorge la necessità – per trasformare i microtesti in macrotesto, dare forma al labirinto e trasformarlo in una, per quanto caotica, enumerazione –, di un’ordinazione altrettanto neutra e impassibile. Dare un nome alle città, distinguerle l’una dall’altra, ma trasformando i nomi in semplici nomenclature, alla stregua di lettere di un ordine alfabetico. A garantire tale funzione, interviene il ‘grado zero’ onomastico di cui si è detto : nomi come ‘cartellini’, che permettano di distinguere i vari pezzi del gioco montato da Calvino, così rendendo possibile ciò che solo è possibile alla letteratura : la costruzione di un’eterotopia, di una tassonomia in negativo che valga come sfida pur disperata al ‘labirinto’.  









































1

  In Dialogo sulle “Città invisibili”, « Studi Novecenteschi », ii, 1973, p. 126.   Mengaldo, Aspetti, cit., pp. 38-39. Sul catalogo calviniano come stimmate postmoderna cfr. M. Di Gesù, Palinsesti del moderno. Canoni, generi, forme nella postmodernità letteraria, Milano, FrancoAngeli, 2005, p. 70. 3   Foucault, Le parole, cit., p. 6. 2





co m p osto in car atter e dan t e m on oty pe da l la fabrizio serr a editore, p i s a · roma . stampato e r ilegato n e l la t ip o g r afia di ag nan o, ag na n o p i s a n o ( p i s a ) .

* Aprile 2010 (cz 2 · fg 13)

STUDIA ERUDITA 1. Ioannis Deligiannis, Fifteenth-Century Latin Translations of Lucian’s Essay on Slander, 2006. 2. Castiglione di San Martino, Fortezza di altura (v-ii sec. a. C.), Isola d’Elba, a cura di Orlanda Pancrazzi, con la collaborazione di Gianluca Casa, Alessandro Corretti, Michele Degl’Innocenti, Fiorella La Guardia, in preparazione. 3. Studi di onomastica e letteratura offerti a Bruno Porcelli, a cura di Davide De Camilli, 2007. 4. Etruria e Italia preromana. Studi in onore di Giovannangelo Camporeale, a cura di Luciano Agostiniani, Angelo Bottini, Dominique Briquel, Stefano Bruni, Giovanni Colonna, Giuliano De Marinis, Luigi Donati, Sybille Haynes, Fabrizio Serra, Anna Maria Sgubini Moretti, Janos György Szilágyi, 2009. 5. Napoli è tutto il mondo, International Conference of Studies, Naples, July 20-24, 2004, edited by Oreste Ferrari, Livio Pestilli, Ingrid D. Rowland, Sebastian Schütze, 2008. 6. Samantha Schad, A Lexicon of Latin Grammatical Terminology, 2007. 7. Massimiliano Canuti, Basco ed Etrusco: due isole nel mare indoeuropeo, 2007. 8. Guglielmo Cavallo, La scrittura greca e latina dei papiri. Una introduzione, 2008. 9. Unità e frammenti di modernità. Arte e scienza nella Roma di Gregorio XIII Boncompagni (15721585), a cura di Ingrid D. Rowland, in preparazione. 10. Giovanni Di Stefano, Cartagine romana e tardoantica, 2009. 11. Oggetti, uomini, idee. Percorsi multidisciplinari per la storia del collezionismo, Atti della Tavola rotonda, Catania, 4 dicembre 2006, a cura di Giuseppe Giarrizzo, Stefania Pafumi, 2009. 12. Studi di onomastica e critica letteraria offerti a Davide De Camilli, a cura di Maria Giovanna Arcamone, Donatella Bremer, Bruno Porcelli, 2010. 13. La ricezione della Commedia dell’Arte nell’Europa centrale, 1568-1769. Storia, testi, iconografia, a cura di Alberto Martino, Fausto De Michele. Con una Presentazione di Werner Helmich, 2010. 14. Corollari. Scritti di antichità etrusche e italiche in omaggio all’opera di Giovanni Colonna, promossi da Gilda Bartoloni, Carmine Ampolo, Maria Paola Baglione, Francesco Roncalli, Giuseppe Sassatelli, a cura di Daniele F. Maras, 2010.