La critica letteraria contemporanea [First ed.]

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Luigi Russo La critica

Sansoni

letteraria contemporanea Biblioteca

entre

| STACKS

METROPOLITAN TORONTO LIBRARY Languages entre

$50.7 / R79.3

Copyright © 1967 by G. C. Sansoni S.p. A., Firenze

MAR - 9 1979

Nota alla presente edizione Dedica Prologo Avvertenza alla seconda edizione Avvertenza alla terza edizione

. DAL

CARDUCCI

AL

CROCE

Carducci critico Ale Revisione del giudizio crociano

sulla critica del

Carducci

‘es

. Carducci critico del linguaggio poetico \ . Giudizi del Carducci sui classici e sulla storia d'Italia . Carducci critico antiprosastico e antidecadente . Carducci e la sua avversione al Manzoni . Le teorie linguistiche del Manzoni e del Carducci . Giudizi del Carducci sui contemporanei . Carducci e De Sanctis Tis

Maestri

della vecchia

scuola

storica

il La vecchia scuola erudita e la filosofia 2..L’avversione polemica dei giovani alla scuola erudita Il mito di D’Ancona nemico della filosofia e dellestetica Il D’Ancona e la sua parttecipazione alle lotte del Risorgimento Il D’Ancona uomo e studioso « risorgimentale » Le teorie storiche del D’Ancona La filologia, l’erudizione e gli insegnamenti morali EN del D’Ancona

Indice Ill.

Michele Barbi e la nuova filologia fhe Pe by 4.

IV.

Il Barbi Il Barbi Il Barbi Ricordi

Tendenze

filologo nato e la letteratura popolare come dantista e critico letterario dell’uomo Barbi

metodologiche

della critica contempo-

ranea

1. Lo storicismo assoluto 2. La tendenza individualizzante 3. Laltra tendenza antirazzistica

della nuova della nostra

critica critica

4, Concezione classica della poesia e della critica 5. La nuova filologia estetica 6. Descrittiva estetico-psicologica e oratoria del gusto

La critica letteraria

del Croce

e il nostro

sto-

ricismo . Gli incunaboli della critica crociana . La critica militante del Croce

. Il Croce

e la stupida

« querelle » sul « povero

Novecento »

. La critica della poesia . Critica problematica e . Analiticita del saggio . La poesia cosmica . Dal saggio sul Goethe Oo AU CON . Poesia e non poesia VI.

eterna critica definitoria sull’Ariosto al libro sulla poesia di Dante

Il Croce e la storia della letteratura il. La storia rapsodica della letteratura italiana 2. La storia dell’eta barocca e il mutamento di prospettiva della letteratura italiana . Conversione decisamente antiromantica nella stotiografia letteraria del Croce . Ritorno alla letteratura della nuova Italia . Croce e la lettura di poesia

VII.

Lo svolgimento if 2s 3: 4.

VI

dell’estetica crociana

La prima e la seconda estetica del Croce La scoperta del carattere lirico dell’intuizione Il classicismo integrale del Croce L’estetica del Croce e Videalismo attuale

Indice

5. La riforma della storia letteraria 6. Storiografia romantica e storiografia crociana

7. La terza estetica del Croce 8. Il volume« La Poesia» e l’ultima fase del pen-

Libro secondo VIII.

IX,

201 205 209

siero estetico crociano 9. Il Croce e la storia dell’« Estetica »

216

Annotazioni

229

DAL

e documenti

GENTILE

AGLI

ULTIMI

226

ROMANTICI

La critica dantesca e gli esperimenti dello storicismo

239

1. Il « Dante » del Croce e le discussioni dei dantisti 2. La genesi storica e la genesi fisica della « Commedia » 3. La preistoria del poema 4, L’unita del poema 5. Poesia e struttura

239

Giovanni Gentile storico della letteratura e filosofo dell’arte (1) 1. 2. 3. 4. 5.

Il noviziato letterario-filosofico del Gentile Il sociologismo filosofico del Gentile Storia della poesia e storia della poetica I] Gentile interprete di Dante L’allegoria dantesca e il tentativo di interpretazione gentiliana 6. La fase hegeliano-crociana dell’estetica del Gentile

Giovanni Gentile storico della letteratura e filosofo dell’arte (11) 1. Gli studi leopardiani del Gentile 2. La critica letteraria del Gentile e la « spiritualita » di uno scrittore 3. Il prammatismo gentiliano e la storia della letteratura italiana 4. L?Umanesimo e il Rinascimento e il contributo interpretativo del Gentile 5. La collaborazione del Gentile all’estetica contem-

poranea 6. L’arte come pensiero 7. L’arte come sentimento 8. Gli attributi dell’arte e la storiografia

245 249 255 258

267 267 272 277 289

297 306

313 313 318 331

340

348 spy) 364 368

VII

Ritorni a acres ae mantiche . Il genio immutabile delle singole letterature ahd — 7 . Origine impura ed egolatrica di queste riesumazioni romantiche . La tragica storiografia del Borgese . Di una mediocre passeggiata estetico-paesistica . Gli « innocenti » e il senso della letteratura ita- — liana . La poetica romantica del Borgese . Antiquata ispirazione del critico Borgese . La critica come ricerca del « dramma spirituale » . Il Papini o della critica romanzata . Adriano Tilgher e la dinastia dei « superatori » . Larte come « originalita» e « voce del tempo» 4

Appendice

Umori

della

critica

letteraria

nel dopoguerra

1919-1922 1. Carattere . .

. . . . . . .

* sofistico

e oratorio

della

mente

del

Borgese Renato Serra e la critica del frammento Emilio Cecchi mente inventiva non mente storica < Arretratezza dell’estetica del Borgese Lesperienza futurista e decadente Il futurismo e il vocianesimo. Esasperazione ea = esaurimento di vecchie religioni £ Popolarita e impopolarita del Croce L’antiromanticismo del Croce Il Croce, i crociani e gli anticrociani Italianita ed europeismo dell’opera del Croce

Annotazioni e documenti

Libro

terzo. xu.

DAL SERRA AGLI ERMETICI Renato

Serra e il decadentismo

461

Lepistolario del Serra Il Serra e la religione delle lettere La versatilita degli interessi del critico Il mito del critico puro E Paltro mito della lirica pura L’aristocrazia distante del Serra NDUBRWNHE Il romanticismo muliebre del Serra

461 464 — 466

. . . . . .

VIlt

Indice

}

a

8. Il Serra decadente e critico del decadentismo 9. Il paesaggio e il gusto e la tristezza dell’eterno 10. Lo sconsolato pessimismo sulla guerra

478 480 482

Critici letterari del Novecento

484

73

a

XIII.

4

. . . .

My |

(1)

Noviziato metamorfosi e ambizioni del Gargiulo L’opera conclusiva del Gargiulo Limpressionismo critico del Momigliano Sviluppo della critica del Momigliano

UW Fe RwWN . Il crocianesimo

di Francesco Flora e il suo « maschio » decadentismo 6. Il Flora critico « dionisiaco » dei suoi affini e

7

contemporanei 7. Il risanamento .

XIV.

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

q

;

XV.

Appendice

1.

(11)

Il « piccolo mondo moderno » del Pancrazi Il Pancrazi « artista-critico » Allargamento degli interessi del Pancrazi La critica letteraria e la « Voce» del Prezzolini La « Voce» del De Robertis Il De Robertis o del saper leggere Certame coronario della critica contemporanea La critica letteraria nei caffé La critica ermetica

Epilogo provvisorio Ricordo

di Domenico

Petrini

1. Domenico Petrini scolaro del Croce e del De Lollis

2. Gli studi critici del Petrini 3. Orientamento critico del Petrini TL.

Dino Garrone o del prammatismo politico-letterario 1. Una tesi di laurea su Verga 2. Lepistolario del Garrone politico-letterario 3. Il prammatismo generazioni

Annotazioni

e documenti

Indice di nomi propri

1. L. Russo, La critica letteraria contemporanea

544 550 560

critico del Flora

Critici letterari del Novecento

484 498 512 528

delle

nuove



presente nuova edizione riunisce i tre volumi laterziani Dal — d arducci al Croce (1942, 19467, 19533), Dal Gentile agli ultimian

antici (ie 1946*, 19543), Dal Serra agli ermetici (1am ‘ 7*, 1954 2r questa occasione una revisione sistematica di tutta Vopera * vato al testo degli autori citati e anche a quello dell’Autore.

epee

e i corsivi ricorrenti nelle citazioni sono di regola del- :

a di Pietrasanta, maggio 1967

Bu

hs

Be dico questa raccolta di saggi a mia moglie Teresa Saracinelli, — ta Sara, nel compiersi dei nostri venticinque anni di matrimon iosi assai, forse troppo, di figli, di polemiche e di libri:a 0, mio primogenito tra i maschi, che mi hai fatto nonno pre i un Luigi Russo milanese, augurio di piu sereni di; ai figli tutti, che con le nue cure addolciscono. e aR

> irato, ma Sieh mai, ee Russo. ale di Montignoso, settembre 1941.

le mie

Questi tre volumi si compongono di saggi vecchi e nuovi: i vecchi sono stati tratti da altri miei libri, per trovare qui il loro posto definitivo, e i nuovi sono stati scritti di proposito per completare il quadro dei miei interessi mentali. I] saggio pit lungo della raccolta é quello dedicato alla Critica letteraria del Croce, diviso in due pun‘tate: per la prima volta la vasta operosita del Croce, come critico letterario, prodottasi in pit di mezzo secolo di indefesso lavoro, viene qui ordinata storicamente, accompagnata e commentata nei suoi vari motivi. Segue un altro capitolo sullo Svolgimento dell’estetica crociana, in cui riprendo un mio vecchio scritto del 1920, ora rifatto e completato per l’occasione: il saggio originario riguardava i Nuovi saggi di estetica, questo abbraccia anche la prima Estetica e l’ultimo termine (per ora) della speculazione del Croce sull’arte, La Poesia. Come corollario ovvio ho voluto scrivere di seguito un saggio sulVestetica gentiliana, della quale, qualunque cosa si pensi, non si pud disconoscere la storica presenza per l’azione e reazione che essa ha provocato nella mente del Croce, nella sua prima fase di speculazione collaboratrice e poi di speculazione programmaticamente

avversa. Questi tre saggi costituiscono dunque il nodo centrale, filosofico per dir cosi, dell’opera. Un’introduzione alla critica crociana sono le pagine che riguar. dano la scuola storica, capeggiata dal Carducci e dal D’Ancona, e le pagine relative al movimento della critica postcrociana, che nel primo e pit. nei due successivi volumi occupano una parte cospicua. Nel saggio particolarmente dedicato al Croce critico, io ho voluto aggiungere, per una forma di lealta, il sottotitolo « e il nostro storicismo », e a dire il vero tale sottotitolo andrebbe congiunto idealmente a tutti i singoli scritti di questi due volumi, poiché non ho saputo e non ho voluto frenare un mio gusto prammatistico di storico, se ogni forma di storia é azione, e perd quasi di proposito ho mescolato me stesso alla critica dei critici e ho lasciato intravedere quello che pure XV

Prologo

& il mio ideale personale di essa. Cotesto ideale, pure obbiettivato —

e teorizzato anni addietro in un saggio a parte (qui riappare sotto

il titolo mutato di Tendenze metodologiche della critica contempo-

ranea), non poteva non venir fuori, nell’assidua tenzone o amicizia

con i critici criticati. Questo dunque il difetto della raccolta, ma anche la sua ragione di vita; ché l’opera per l’appunto non ha una genesi accademica, ma.vuole essere, si licet, il breviario di un ctitico militante, che ha ancora, si spera, lunga tratta di lavoro innanzi a sé. Ma ho voluto forse per questo offrire un panorama di tutta la critica contemporanea? No, sebbene essa vi sia tutta presente, come schermo, se non altro, della fantasia polemica dello scrivente. Del testo, sono troppo poco amico della critica panoramica, fastidio mercantile dei nostri tempi, la quale presuppone un interesse di storia — sociologica e informativa, a uso dei laici, che io non ho e non voglio avere. Ho voluto dunque soltanto proporre un panorama dei miei interessi mentali, quelli che pit mi urgevano alla mente e che mi accompagnano nel mio lavoro letterario da venticinque anni a questa

parte. Debbo dire che mancano due capitoli, che pure a lungo ho accarezzato nella mente, e vi mancano, perché ancora il materiale di studi é troppo frammentario o perché io ancora non mi sentivo sufficientemente preparato: un capitolo sulle Storie letterarie, e Valtro sulla Critica della terza pagina. Quest’ultima é stata trattata pur nei suoi tappresentanti pit eminenti e pit: discussi, Borgese, Cecchi, Serra, Tilgher, Gargiulo, Momigliano, Flora, Pancrazi, Prezzolini, De Robertis, gli ermetici; ma io penso sempre di aggiungere nei prossimi anni tutto un capitolo su altri scrittori di critica, per comprendervi Popera di Thovez, Ambrosini, Boine, Bellonci, e di critici-artisti come Slataper, Cecchi ancora una volta, Baldini, Bacchelli, Bontempelli, Montale, Sergio Solmi, e di altri che sono soltanto giornalisti. Ma un saggio di tal genere, confesso, per ora mi intimidiva, non tanto per conflitti di gusto e di tendenze, quanto per la difficolta di tener sott’occhio tutto il materiale di studio. Cosi egoisticamente mi sono augurato che alcuni di questi letterati da me ricordati vengano raccogliendo le loro pagine in volume, ché le ricerche in un’emeroteca non

sempre sono agevoli (e sia pure in una biblioteca come quella di Firenze) e non sempre tali per tutti i soggetti da compensare la fatica del ricercatore. _ Per Paltro capitolo, quello delle Storie letterarie, la mia ambizione sarebbe stata non solo di parlare della Storia della letteratura italiana del Momigliano (la sola che oggi sia compiuta), e della Storia del Flora, a cui pur manca ancora il secondo volume, ma anche XVI

©

Prologo

di quelle dei classicisti e dei critici di letterature straniere. Per una maggiore maturazione e allargamento dei miei studi in tal campo, e per la frammentarieta delle opere di tal genere oggi in via di completamento (il decennio in corso sara il decennio delle storie letterarie), ho perd creduto opportuno di rimandare tale trattazione a tempi pit. compiuti. Cosi mi é parso prematuro fermarmi sugli accenni di una critica linguistica, che si vien facendo strada nei nostri tempi sul ceppo della tradizionale concezione storicistica; a meno che io avessi avuto la bassa voglia di indugiarmi sui troppo noti e gid ben deflati vaniloqui di Lingua e poesia, di cui gonfiava fino a qualche anno fa il cappuccio di Giulio Bertoni. I tentativi di critica linguistica da parte di un giovane di molto ingegno e di preziosa dottrina, Gianfranco Contini, sono ancora il crepuscolo di una nuova esperienza; e crepuscolo sono i saggi pubblicati da Giacomo Devoto, e il mio studio sulla Lingua di Verga, che vuole essere soltanto il _ primo di una assai varia serie. Gli studi poi dello Schiaffini e del Migliorini si volgono pit verso la storia della tradizione linguistica, intesa nel suo valore sociologico, che verso la critica letteraria in senso individualizzante. L’autore dunque desidera che questa raccolta sia considerata come un’opera non finita: l’ho incominciata a scrivere intorno al 1920 nel fuoco degli anni del noviziato, e la vorrd continuare ancora per alcuni degli anni prossimi, forse con lo stesso ardore, pur sopraggiungendo il gelo del decimo lustro. Salvo che, la parte fondamentale, quella che mi sta pit in mente, come una specie di chiodo fisso e che forse é anche la parte che interessa la maggioranza dei lettori, é consegnata gia nelle pagine qui accolte. In cui, é superfluo che io lo noti, campeggia il Croce non per particolare affezione che io abbia a lui, come mio maestro e autore, ma perché egli é il solo critico-maestro di questi ultimi quarant’anni che meriti un tal nome senza riserve, e l’opera sua é l’unico monumento dell’eta nostra in questo campo, e tutti gli altri critici o teorici sono riflesso o corollario di cotesta sua prodigiosa attivita. Se c’é qualche lettore impaziente del titolo che appare sul frontespizio, esso lo modifichi pure in quest’altro: II Croce e la critica letteraria contemporanea. L’autore ha voluto proprio fare un libro di tal genere, dove fosse esplicito o sottinteso il nome del Croce: non per parzialita di discepolo ripeto, ma per impellente giustizia storica. Cosi un libro di storia della critica svoltasi tra il 1850 e il 1870 andrebbe intitolato a Francesco de Sanctis, e quello della critica fino alla fine del secolo al Carducci, e un libro di storia della critica dei primi decenni dell’OttoXVII

Prologo

cento a quell’altro grande maestro di critica letteraria che fu il poeta _Ugo Foscolo. Dunque siamo intesi: la critica letteraria contemporanea sotto specie crociana, ma anche, per quello che si é detto di sopra, sotto specie russiana, perché l’autore ha, come tutti i mortali, una sua soggettivita, anzi un suo soggettivismo, e, dicono i maligni, anche piuttosto prepotente. E se qualcuno ci domandasse: ma quale il vostro punto di vista nuovo? quale la vostra nuova critica? nol risponderemmo che il nuovo per il nuovo non é stata mai una ri cerca scientifica o artistica valida e fruttuosa, e che, nel campo della critica, il nuovo @ nel continuo porre nuovi problemi su nuove esperienze, e concretamente risolverli. E questa la buona legge dello storicismo che, nell’avanzare di ogni problema, si diversifica dallo storicismo di ieri, riconoscendosi che tutte le altre ambizioni si svelano per una fantasticheria di decadenti o di ignoranti puri (cid che qualche volta é lo stesso), i quali rimangono appesi a questi loro fatui desideri del nuovo per il nuovo, del trovar terre strane © morire, senza speranza, senza termine e senza concludenza alcuna, come « fiocchi di latte che restan nelle reti » direbbe un poeta dei loro! Lo storicismo é un metodo, una intuizione di vita, e come tale esso non é un uomo, una idea, un sistema, ma é tutta un’eta

e una civilta mentale in fieri. La filosofia dello Spirito, come sistema chiuso, si € venuta tramutando in questi ultimi quaranta anni in filosofia della Storia, e non nel senso hegeliano del termine; e a cotesta filosofia collaborano tutti gli storici di buona volonta e di buona lena. Quale era il motivo nuovo dei singoli spiriti e delle singole menti che parteciparono alla civilta dell’Umanesimo? La ricerca allora del nuovo era in questo esser partecipi del generale mondanismo, inauguratosi nel tempo non pit teocratico, e in cotesta collaborazione si sviluppava il tributo particolare delle singole personalita,

con il loro afflato e con il loro accento;

e gli spiriti

Operosi non si preoccupavano di collocarsi da sé nella storia, di costruirsi troppo in anticipo, nella vanita di narcisie parole, il loro loculo di incliti impiegati del Destino. Lasciavano che la loro opera si accumulasse e facesse da sé masserizia. I] gusto insomma del far la roba, alla mastro-don Gesualdo, e -nient’altro! Precisamente cosi: e ci pare che provvedessero in tal modo, intanto, alla loro pace, e anche un poco al nostro avvenire. C’erano i decadenti anche allora, i decadenti in senso psicologico, ed erano gli oziosi che conoscevano tutte le ciarle letterarie dei passeggiati marmi del Duomo, ma di essi_ nemmeno

gli eruditi serbano memoria,

e soltanto

ce ne resta immagine in qualche tratto satirico di questo o quello XVIII

Mien

penrereli ane se me a! non buoni ad altro che « andare a’

ort ti oO alleanimes dun mogliazzo », 0 «a statsene tutto la panca del Proconsolo a donzellarsi ». Ma io da vari ascetica vita e claustrale, e perd qui si fa il nome, se strazio, soltanto di qualcuno di quei trovatori di favole. Cinc ale di Montignoso, settembre 1941.

=e ro.

A distanza di pochi mesi, ricevo l’invito dall’editore di preparare la ristampa dei tre volumi sulla Critica letteraria contemporanea. 11 rapido successo dell’opera mi conforta, non per me stesso, ma perché segno dell’interessamento oggi assai diffuso per questi problemi sempre vivi, nonostante certi sviamenti e dissipazioni. In questa seconda edizione mi son limitato a fare degli spostamenti di capitoli: lo scritto su Michele Barbi e la nuova filologia trova posto nel 1° volume, subito dopo quello dei Maestri della vecchia scuola storica; il capitolo sullo Svolgimento dell’estetica crociana passa dal 2° volume in questo 1°, il quale é pienamente giustificato dal sottotitolo: dal Carducci al Croce. Nel 2° il capitolo Umori ‘della critica letteraria nel dopoguerra 1919-1922 viene spostato in appendice, perché si tratta di articoli di venti anni fa, troppo di-

versi nello stile, e percid tali che fanno brusco distacco dal resto. Il 3° volume rimane immutato nella sua fisionomia, salvo, come si é detto, il capitolo su Barbi. La materia cosi mi sembra pit equamente distribuita. Ho riveduto tutta l’opera liberandola dalle sviste tipografiche e ho tagliato varie note di polemica contingente. L’opera fu mandata a stampare che era ancora troppo calda degli umori della sua fattura. Vittoria Apuana (Lucca), giugno 1943.

P.S. Questa ristampa era preparata per andare in macchina nelVestate del ’43. Essa esce con tre anni di ritardo, per gli avvenimenti che tutti conoscono. Piccolo spazio di tempo, ma per tutti un cosi lungo e grave evo. L’autore, rivedendo le bozze, ha fatto uno sforzo per rimettersi nello stato d’animo un po’ febbrile in cui Vopera fu da lui scritta, tra il ’41 e il ’42. Perd ne ha colto Poccasione per accentuare le correzioni di tutto quello che era troppo legato al tempo e agli umori polemici del momento. Ma l’opera nel XXI

Avvertenza

suo complesso é rimasta molto fedele alla sua fisionomia originale. Solo al lettore gid lontano l’autore vorrebbe richiamare quello stato d’animo di una situazione, oggi completamente diroccata e travolta: l’opera @ scritta sotto la pressione di un’atmosfera politica, quando essa si era fatta pit irrespirabile. Perd é dato avvertire in ogni pagina la presenza di un nemico, seppure con la vaga e fremente fiducia che quel nemico sta per essere sbastigliato. Cid spiega quell’agitazione polemica, contro tutti e contro nessuno, che l’autore, rivedendo le bozze, ha avvertito in ogni rigo della sua esposizione. Quei critici che in essa sono avversati, nominatamente o reticentemente, non si lusinghino dunque della parte storica che erano chiamati a recitare: essi erano soltanto dei « pretesti », dei « simboli », di tutto un mondo, in cui la loro menzogna e vanita letteraria aveva trovato pascolo, sostegno e riconoscimenti. Pisa, febbraio 1946.

XXII

Luic1 Russo

Avvertenza

alla terza edizione

In questa terza edizione io non ho voluto modificare il testo in nessuna parte, poiché ormai consacrato da un decennio di diffusione; soltanto ho aggiornato le note. Perd prego i lettori di tenere presente i miei tre saggi sul Croce, pubblicati nel Dialogo dei popoli (Firenze, « Il sentiero », 1953 [Parenti - Editori riuniti, 19557]), il primo, Polemica col maestro, che & del ’49, il secondo e il terzo scritti su_bito dopo la morte, Conversazioni con Benedetto Croce, Nuove conversazionti. Luic1

Russo

- Marina di Pietrasanta (Lucca), 5 ottobre 1953.

XXIIL

Libro primo Dal Carducci al Croce

~

T

RPrreen

Ja critica letteraria conteriporanea

i. Carducci critico

1. Revisione del giudizio crociano sulla critica del Carducci. E noto il giudizio del Croce sul valore della ptosa critica car-

ducciana; i pregi grandi, la ricca apparenza, la vigoria rappresentativa delle immagini, l’esatta informazione e la solida erudizione, il buon gusto e l’intelligenza dei particolari della forma, che si ammirano

nei vari saggi e bozzetti e appunti del Carducci, non valgono a dissimulare la mancanza in lui « di una salda dottrina estetica, di una

coerente filosofia dell’arte ». E i suoi giudizi storici di alto stile non sono originali, ma riecheggiano motivi della letteratura critica europea e motivi della critica del suo aborrito De Sanctis; nella sua parte piu positiva e pit suggestiva, cotesta critica é un’integrazione

e un atricchimento dell’opera del poeta, alcuni passi suonano come effusioni fantastiche, brani di eloquenza poetica, che andrebbero mescolate come commento ad alcune poesie, o addirittura trapiantate, come

pezzi lirici, in un’antologia

ideale delle Rime

nuove

(quelle

_ di argomento medievale) e delle Odi barbare. Questo giudizio del Croce fu pronunziato e scritto nel 1909, ed

ebbe subito larga eco di consensi; si era nel periodo pit: ebbro del nostro rinnovamento filosofico della critica letteraria, e ci si addestrava, fanatici, ad una specie di ascesi mentale, rigore schematico di concetti, essenzialita scientifica, aborrimento

da ogni forma di ora-

toria letteraria, sistematica metodologia storica, tutto quello che doveva essere la forza travolgente della critica e dell’insegnamento crociano. Rimasero alcuni estimatori, nostalgici solitari: tutti gli antichi seguaci della scuola storica, che avevano riverito nel Carducci un maestro incomparabile. Nel giudizio del Croce si vedeva tibadita la polemica contro il cosiddetto metodo storico, e la limitazione del Carducci critico parve una condanna, la condanna non di uno scrittore, di uno studioso singolo, dell’opera personale del maremmano, ma una nuova ingiusta giustizia di quell’ostracismo generale dato alla vecchia scuola e al vecchio indirizzo dello storicismo erudito. E tale

3

Dal Carducci al Croce i

fu Vinterpretazione dei neofiti stessi del crocianesimo, i quali lasciarono sommergere la critica del Carducci, insieme con quella del D’Ancona, del Rajna, del Comparetti, e di altri illustri maestri; e del Carducci, se mai, si continud ad accarezzare quella che é forse Yopera sua pit. di dubbio gusto: la prosa del polemista e dello « stroncatore », cosi frondosa e barocca, con quell’abuso, arguto e sazievole, di metafore secentesche che vanno (care e orripilanti nella memoria!) dai « campanili dell’enfasi » alla « cerbottana dell’eloquenza ». E ci fu chi trascorse ad annotare euforicamente che ormai

alla veneranda triade Carducci-D’Ancona-Rajna, poteva bene opporsi la giovanile trinita di Borgese-Cecchi-Serra. Il giudizio del Croce veniva cosi oltrepassato nelle sue intenzioni, e deformato nella sua genuina ispirazione: dettato da una sincera ammirazione per tutta l’opera del maremmano, era anche guidato dall’interna logica del novatore. Cercando di instaurare nella critica letteraria tutta una nuova disciplina di concetti e di metodo, egli chiudeva, per un momento, gli occhi sui pregi, versatili, della critica carducciana, per cogliere quella che poteva essere la sua deficienza fondamentale. E voleva intanto il Croce operare un mutamento di prospettiva storica; le menti, incerte tra la critica di un De Sanctis e la critica di un Carducci, anzi pit: inclini a questa che a quella per una certa passivita di entusiasmi generici e tradizionali, erano portate vivacemente e non sempre giustamente a distinguere tra la disadorna ricchezza profusa a piene mani nelle pagine della Storia e dei Saggi critici dell’irpino, e la lussureggiante poverta delle pagine del maremmano. Ma, al di 1a di una semplice contrapposizione psicologico-teoretica De Sanctis-Carducci, oppure, peggiore e pit: fallace ancora, di una antitesi generica tra scuola estetica e scuola storica, si tenne fede da un piccolo gruppo di studiosi all’importanza funzionale della critica carducciana nei rispetti della critica desanctisiana, di cui pur si riconosceva la singolare complessita e originalita. Non si trattava di contrapporre il Carducci storico-erudito al De Sanctis storico-estetico, ma a un De Sanctis storico-filosofo un Carducci critico-tecnico

della poesia. I] lettore ricordera alcune pagine significative del Serra, un articolo del De Robertis, sulla « Voce » del 1914, con una ancora

pit puntuale distinzione dei termini e della diversita metodica dei due

campioni; e infine, alcune osservazioni di Domenico Petrini, un gio-

vane uscito direttamente dalla scuola crociana, ma sensibile e aperto ad altri influssi, anche eterodossi (almeno nell’apparenza). Recentemente Manara Valgimigli riassumeva e rinfrescava la tesi-limite del

4

Carducci critico

Serra-De Robertis-Petrini e, a proposito del De Sanctis, cosi sctiveva nel fascicolo d’aprile del ’35 nella rivista « Pan »: Quell’occhio acutissimo che tutto guardd, come soleva dire, da entro, la cosa piu intima e pit: singolare dell’espressione poetica, che & la parola, non la guardo; gli rimase esterna; non fece esperienza del lavoro proprio dell’arte; € insomma il senso storico della lingua e della tecnica poetica non l’occupd mai troppo, né lo preoccupd. Il quale fu una conquista del Carducci. Le pagine del Carducci, per esempio, su la lingua e su la tecnica del Giorno del Parini, il De Sanctis né le scrisse, né avrebbe potuto scriverle.

Ma di cotesta esigenza tecnico-umanistica, idealmente integratrice e fiancheggiatrice della critica di tipo desanctisiano, fu assertore, non semplicemente teorico e platonico, un maestro che, per nessun verso, forse, pud dirsi un carducciano: Cesare de Lollis. I suoi Saggi sulla forma poetica italiana, scritti, in gran parte, tra il 1904 e il 1920, sono un’esemplificazione in atto di quel che possa essere una critica della lingua e della tecnica poetica, scevra dai pregiudizi della vecchia retorica, e con l’arte di ricondurre e dedurre i particolari della forma dall’intimo spirito del poeta. Si possono discutere i singoli giudizi e le singole chiose del De Lollis, ma bisogna riconoscere che quello suo @ stato lo sforzo pit sistematico per dar corpo a quella critica tecnico-umanistica, che nel Carducci era retaggio tradizionale dei vecchi grammatici e insieme spontanea e prorompente affezione e ricchezza della sua immediata esperienza di letterato e di artista. Nell’esempio del De Lollis, si realizzava, pi consapevolmente, questa assunzione della critica umanistica sotto i termini della moderna metodologia desanctisiana-crociana. E nessuno gridava all’arbitrio. Cosi stando le cose, noi non sappiamo vedere una contrapposizione d’ordine veramente scientifico tra la critica filosofica di tipo desanctisiano e la critica « tecnica » di tipo carducciano. Quest’ultima verrebbe a essere implicita e assorbita nella prima, se il De Sanctis, per esempio, non fu alieno dall’indugiarsi a descrivere il periodo del Boccaccio, e a disseminare, dove fosse opportuno, osservazioni attente su particolarita tecniche di versi danteschi, petrarcheschi, ariosteschi e leopardiani. Il De Sanctis fu anche un lettore attento dei testi leopardiani, canti e prose. I] Valgimigli stesso ricorda le felici osservazioni desanctisiane sull’« impeto veloce degli sdruccioli nel Cinque maggio e la morbidezza lenta di quelli del coro di Ermengarda, che é pur sempre il medesimo settenario ». Sicché, se il De Sanctis non fece pit: di quel che fece, cid avvenne, non perché lui non volesse, e disconoscesse l’importanza di certe ricerche ed analisi, ma perché, assalito e premuto da maggior cura, si volse al nuovo delle sue scoperte e dei suoi interessi complessi di storico.

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Dal Carducci al Croce

Tanto @ fatale che un pensatore, un artista, un critico, nel dare sviluppo a un’idea, a un motivo, a un metodo, sia tratto a lasciare ai

margini cid che nel suo nuovo pensiero o nella sua fantasia & epi-

sodico, incidentale, ereditario, e che pud essere, per dir cosi, sottinteso. Quello che @ avvenuto al De Sanctis, é capitato ad altri pensatori, come Machiavelli che lasciava in seconda linea i rapporti tra

il problema morale e la politica, non perché egli facesse astrazione

dal problema morale, e volesse andare al di 1a della morale, ma perché in quel momento gli animi e le menti troppo erano saturi di un diffuso moralismo confessionale, e urgeva quindi il dire altro e non insistere sulle note tradizionali. Ma il ricordo assiduo che alcuni nostri studiosi, quelli pit su menzionati, hanno fatto del Carducci, come di un maestro esemplare per una critica tecnica della poesia, é stato in ogni tempo opportuno e pedagogicamente utile, a combattere certa infatuazione giovanile corrente per il genericismo filosofico, le ricostruzioni contenutistiche di personalita poetiche, la secchezza di certe formule definitorie, la schematicita di certe condanne o riconoscimenti sommarii della « poesia e non poesia »; é valso come un indiretto invito ad allargare ed affinare quell’esperienza letteraria, che é l’humus su cui pud sorgere il problema critico in concreto. Un appello alla letteratura, all’esperienza filologica dei testi, al gusto dei particolari di lingua e di stile, contro la troppo sbrigativa ed orgogliosa barbarie delle formule pure. Oggi, senza paura di essere fraintesi, si pud anche giungere a rovesciare paradossalmente il giudizio crociano, e affermare che la critica del Carducci, pur nella sua modestia e nel suo limite, vive di una salda dottrina estetica e di una coerente filosofia delParte: che non é quella, s’intende, di cui ci siamo nutriti e dissetati noi scolari del Novecento, e non @ nemmeno quella contenuta in alcuni estemporanei aforismi e in alcune proposizioni, che si incontrano nelle prose del nostro poeta: riecheggiamento scolastico della ideologia o umanistica

0 romantica o naturalistica in voga nell’eta um-

bertina. La filosofia dell’arte del Carducci @ in quella esperienza viva, sciolta, irregolare, asistematica che egli ebbe del lavoro letterario in

concreto; la sua filosofia dell’arte & nel suo riconosciuto buon gusto,

il quale non gli venne come privilegio dalla sua apollinea natura, ma fu conquista di un assiduo tirocinio umanistico, sintesi di particolari e diverse esperienze letterarie; quel buon gusto, che, se & veramente tale, é implicitamente discrezione filosofica e storica: cotesta filosofia dell’arte @ nella intelligenza dei segreti della forma, in una parola, nella stessa poetica dell’artista. Giacché, se pud sonare un po’ strano

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Carducci critico

questo nostro elogio della asistematicita e dell’irregolarita dell’espe-

rienza carducciana, noi acquetiamo il nostro e l’altrui eretico disagio,

ricordando che tale asistematicita & soltanto apparente: il termine primo e ultimo di cotesta irregolare filosofia, 8, come gia lasciavamo intendere, la poetica stessa dell’artista, cio& tutta la sua esperienza tecnica di poeta poetante, la sua ars dictandi, la sua eloquentia di polemista, tutta quella mitologia sentimentale e ideale, che nel Carducci, come in ogni altro poeta, é sempre la leva di forza, che o illude, o aiuta, o spinge alla creazione. Sicché anche per noi l’opera del prosatore-critico integra l’opera dello scrittore-poeta, ma in un senso non soltanto antologico e addizionale, ma intimo e unitario: Popera del critico é la rifrazione stessa degli interessi, degli ideali del poeta, e vuole esserne o J’indiretta trasfigurazione obbiettiva nella storia, o la propaggine polemica nei giudizi favorevoli o sfavorevoli ’ sulla letteratura contemporanea. Incentrata nella poetica stessa delVartista, la critica letteraria del Carducci si giustifica anche in quelli che possono apparire trascorsi o contraddizioni o ingenuita teoriche al lume di un’estetica pit scaltra, ed essa si rivela una specie di commento indiretto all’opera del poeta, di questa condividendo gli splendori e anche certe retoriche angustie. 2. Carducci critico del linguaggio poetico. Due motivi ducci:

a me paiono fondamentali

nella poetica del Car-

il senso della forma, il gusto del rhétoricien, la ricerca amo-

rosa del linguaggio poetico, e Vesigenza dell’umanita, della sincerita, della fede nell’esercizio dell’arte. Una poesia non sollevata e sostenuta nel suo tono e un’arte atea sono, per il Carducci, la negazione della buona letteratura. Tutti i giudizi sui classici e sui contemporanei sono costantemente ispirati a questi principi, dei quali l’uno é pretta eredita umanistica, risentito con polemica vigoria dopo la linguistica e stilistica rilassatezza del Settecento e ancor pit del romanticismo; - e Valtro procede da motivi cari all’Alfieri, al Foscolo e ai pensatori romantici.

Dove

manca

l’uomo,

manca

anche

la coscienza,

manca

quindi anche una coscienza artistica: orecchio ama educato la musa, mente ingegnosa e sensi virili. Per cotesto criterio di vita morale, riflessa nella letteratura, il Carducci si apparenta spontaneamente al De Sanctis: @ tutta la critica romantica che sbocca fatalmente in questo mito rinnovatore dell’uomo. Ma la moralita del De Sanctis ha pit un’inclinazione etico-politica, e il rigorismo dello stotico poco perdona alla virti dell’ingegno e alla buona tecnica del « dittatore »; mentre la moralita del Carducci é pit placabile, una

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Dal Carducci al Croce

moralita di tipo ancora umanisteggiante: un buon rhétoricien, un buon letterato, molti peccati si lascia perdonare da questo pur severo giudice. Da Petrarca, artefice espertissimo e perd grande poeta anche nelle liriche civili e religiose, a Boccaccio, presentato tutto perduto nel suo ideale d’artista, sovrano ed estraneo ad ogni altro richiamo; a Vincenzo Monti, « il maggior poeta ecletticamente artistico che I’Italia da gran tempo avesse avuto », erede di tutta « |’abitudine poetica dell’Italia d’allora », a Giacomo Leopardi autore delle canzoni patriottiche, difese, si, per il loro contenuto, ma anche perché rivelano il precoce scudiero dei classici, in ogni momento il

Carducci @ fedele a questo principio della moralita risoluta e conartistica. I due motivi, che avevamo per chiusa nella retorica un momento distinti, cosi confluiscono spesso e si risolvono in uno solo. « I] Sainte-Beuve, che era il Sainte-Beuve, soleva dire che molto in letteratura dipende dall’aver fatto un buon corso di retorica », scriveva il Carducci nel suo famoso saggio di Critica e arte del 1874. Ed egli ricordava ai romantici italiani che il romanticismo francese era tutto impregnato e intramato di classica disciplina; si studino i poeti del romanticismo francese per vedere « quanto dedussero e imitarono dalla versificazione e dallo stile classico, troppo classico, della vera Pleiade, dalla lingua del Ronsard e da quella del Marot, del D’Aubigné e di Régnier ». Perché non bisogna dimenticare che in Francia « il manifesto critico della nuova scuola fu il libro del SainteBeuve su Ronsard e i poeti del secolo decimosesto ». Cotesto atteggiamento spiega certi aforismi, che possono scandalizzare i bigotti dell’estetica, ma che sono aforismi pregnanti di verita e serbano un loro particolare significato, storico-polemico. « Se la poesia é e ha da essere arte, cid che dicesi forma é e ha da essere della poesia almeno tre quarti » (XXIII, p. 364). E, in forza di cotesto principio, il Carducci supera ancora la bassa concezione romantica dell’arte-genio, dell’arte-ispirazione estemporanea, dell’arte dono liberale di Apollo. « L’ispirazione @ una delle tante ciarlatanerie che siamo costretti ad ammettere e subire per abitudine ». E altrove ancora ribadisce: « Quella che i pit credono o chiamano troppo facilmente ispirazione bisogna farla passare per il travaglio delle fredde ricerche e tra il lavoro degl’istrumenti critici a provar s’ella dura. Quella che gli accademici chiamano eleganza e i pseudoestetici dicono forma non é male veder se resiste alla polvere e al grave aere degli archivi » (XXV, 404-5). E aborriva dalla gloriosa pretesa che Tarte fosse autoctona, indigena e nativa, per dir cosi, nella mente dell’artista; l’arte @ tradizione, scambio universale di esperienze, trasfigurazione di classiche bellezze. Non si ricercano le fonti di una

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Carducci critico

_ poesia per deprimere I’originalita di un artista, ma, se mai, per esaltarne la sua capacita rinnovatrice e trasfipurativan

Nella poesia di Angelo Poliziano « Omero prendea la sembianza di Dante, Virgilio quella del Petrarca; e nel tutto era Angelo, l’omerico giovinetto, che rinnovava il linguaggio poetico d’Italia » (XII, 244). E ironizzava cotesto mito dell’arte-antistoria, parto estemporaneo, nata O nascitura come una driade dalla scorza della quercia, battenne in breccia in altri esempi tipici della nostra storia civile e poitica.

E il vecchio autoctonismo degli aborigeni, per cui i nostri padri volevano essere sbucati fuora dai lecci e dai sugheri anziché provenuti da altra terra o da altra gente;

é il mistico e metafisico primato di Vincenzo Gioberti; é il monarchico « I’Italia fa da sé» di Carlo Alberto. Coteste borie di povera gente, cacciate ormai dal regno dei fatti e della critica superiore, vorrebbero mantenere

la loro ragion d’essere almeno

in letteratura (XX,364).

Cid che conferisce un significato, non soltanto polemico, ma di valutazione critica e d’interpretazione storica a quello che il Carducci scrisse a proposito del suo noviziato d’artista. « Mossi, e me ne onoro, dall’Alfieri, dal Parini, dal Monti, dal Foscolo, dal Leopardi; con essi e per essi risalii agli antichi, m’intrattenni con Dante e col Petrarca; e a questi e a quelli, pur nelle scorse per le letterature

straniere, ebbi l’occhio sempre ». I] richiamarsi a una tradizione era per il Carducci riconoscimento di poesia, era un blasone di nobilta; non si nasce da genitori ignoti; la poesia vera € sempre tramite

storico, e bisogna saper risalire ai principi, come voleva Machiavelli, quando l’anima di una nazione si sfibra in letterarie flaccidezze. Questo il significato della rivoluzione poetica da lui operata, definita con concetti e termini suggeriti dall’autore stesso: rivoluzione apparentemente antiromantica, che voleva essere invece un irrobustimento storico dell’esperienza romantica, giacché, senza il linguaggio storico della poesia, non puo nascere mai, vera, nuova poesia. 3.

Giudizi del Carducci sui classici e sulla storia d'Italia.

Accanto a queste proposizioni sulla disciplina retorica e il gusto poesia dalla dello stile e del linguaggio poetico e il senso della bella voce (dove Calliopé alguanto surga su quello che é il ritmo quotidiano della prosa o del comune favellare), abbiamo le altre proposizioni compagne sulla sincerita e virilita degli affetti delYuomo-poeta. « Dante anzi tutto é un grandissimo poeta; e grandis-



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simo poeta é, perché grand’uomo; e grand’uomo, perché ebbe una

grande conscienza » (VII, 317). Ma la grande coscienza in Dante

non é soltanto coscienza eroica dell’esule e del pellegrino, che « mendico superbo va pensoso e sdegnoso per le terre d’Italia, cercando non pane o riposo, ma il bene di tutti », ma @ anche la grande coscienza dell’artista. Primo il Carducci, nell’imperversare della facile interpretazione romantico-borghese dei famosi versi del XXIV del Purgatorio «Io mi son un», come fossero una dichiarazione della necessatia sincerita del sentimento e dell’ispirazione (quando amore spira!), primo il Carducci intravvide quella che é l’interpretazione prevalsa in quest’ultimo decennio o dodicennio, dopo assidue discussioni: non nel sentimento amoroso Dante poneva la differenza tra il vecchio e il nuovo stile (amarono o poterono amare sinceramente anche i vari rimatori della corte sveva! e Guittone e Buonagiunta!),

ma nell’aristocrazia del « dittare », nella maggiore aderenza formale dei nuovi poeti al loro contenuto (noto, e a quel modo che e’ ditta dentro vo significando). E il Carducci, infatti, scriveva fin dal 1874, che il lavoro giovanile di Dante « fu tutto di reazione contro i rimatori plebei di Toscana e di Puglia »; Dante parld « cosi rispettosamente di colori retorici », e chiamd padre suo il Guinicelli, «e seguito e compié la scuola bolognese, la quale prima applicd alle nuove rime la dottrina e la tradizione dello stile latino »; Dante prese a maestro e duce Virgilio, « da cui credé aver tolto lo bello stile »; Dante, l’autore del De Vulgari Eloquentia, fu « il campione... del volgare illustre, aulico, cardinale, curiale, il trattatista della ornata elo-

quenza, il precettore della poesia regolata, il definitore dello stile tragico e del comico e dell’elegiaco, il teorico della abitudine delle stanze » (XXIV, 250).

Quello che osservava per un poeta alle origini della nostra storia, il Carducci lo ribadiva per la poesia del rinnovamento sul finire del Settecento e ai primordi dell’Ottocento. Anche li é questione sempre della pianta uomo: Parini ed Alfieri sono dei rinnovatori perché sono degli uomini. Par di sentire il De Sanctis (e il Carducci infatti scriveva nel 1874, dopo la pubblicazione della Storia della letteratura italiana, di cui fu scontroso

e reticente

assimilatore);

ma,

invero,

Pumanita di cui parla il Carducci, & un’umanita vista sempre sotto la specie della buona letteratura, l’umanita del « dittatore » egregio, dell’artiere, che al mestiere fece i muscoli di acciaio. Con Metastasio « il ciclo dell’idealismo arcadico & pieno: la plastica della parola si é lisa, in modo che non regge pitt e cede il luogo alla plastica dei suoni, e l’antica arte italiana muore cantando come gli eroi del suo poeta ». Dopo Metastasio e Goldoni sorgono Parini ed Alfieri.

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Il Parini ritrasse anch’egli come il Goldoni la vita reale, ma con dolore e sdegno, col pungolo della censura: l’Alfieri oppose a un beato realismo un idealismo negativo: ambedue la reazione improntarono sin nelle forme, contrastando- al lassismo gesuitico di lingua e stile de’ due antecessori e contemporanei e alle ariette e a’ recitativi con la purita del cinguecento, con la rigidita del trecento, con l’asprezza eccitante e la varieta faticosa del verso sciolto e dell’ode classica (VII, 397).

Giudizi che illuminano e sono illuminati da quelle numerose proposizioni, che, in ogni tempo, il Carducci effuse sul mito del poeta: non vanti, non prosopopee estetiche, non programmi verbali, ma disciplina sofferta e impetrata austerita. « Affacciarsi alla finestra a ogni variare di temperatura per vedere quali fogge vesta il gusto della maggioranza legale, distrae, raffredda, incivettisce l’anima. II poeta esprima sé stesso e i suoi convincimenti morali ed artistici pit sincero, pit: schietto, pit: risoluto che pud: il resto non é affar suo » (XXIV, 59). Tale inclinazione al fideismo, alla virilita austera, fu certamente la parte pit oratoria del pensiero carducciano, quando le sue affermazioni di fede non caddero e si appoggiarono su quistioni di lingua e di stile: il moralista De Sanctis, nel suo equo e pacato pessimismo, fu assai pit profondo e imparziale interprete di tutta la storia d’Italia, mentre il Carducci trascorse da giudizi interiettivi sulla vilta dell’Italia (Ja nostra patria é vile!) ad altri giudizi egualmente interiettivi, ma anche molto generici e grossi, sulla natura idealistica e intimamente religiosa del popolo italiano e di tutta la sua storia. « Credo ed affermo che il popolo italiano non é di sua natuta scettico e ateo, senza virti' e senza fede». « Per noi la fede della religione si chiama Dante Alighieri; la fede dell’avventura si chiama Cristoforo Colombo; la fede dell’arte si chiama Michelangelo Buonarroti; la fede della scienza si chiama Galileo Galilei; la fede della politica si chiama Giuseppe Mazzini » (XXV, 13-14). E, poiché non poteva negare e dissipare altre ombre della storia d’Italia, se la prendeva con chi dava importanza ai preti, e con i pessimistici hegeliani di Napoli. « Chi dice che questo @ un popolo di scettici, che - questa @ una nazione che non crede in sé, che non crede nell’avvenire? Soltanto quelli che giudicano l’Italia dalla menzogna cattolica di Roma papale. E lo ripetono, mi dispiace, i filosofici copiatori del protestantesimo tedesco » (XXV, 315).

Ma l’accento pit’ genuino del Carducci storico e poeta non era certamente in coteste effusioni oratorie, che potevano poi mutare di contenuto e addirittura ripresentarsi rovesciate nei termini: la fede pit. concreta di Carducci fu sempre la sua fede di artista nellarte, e piu propriamente nella storica lingua d’Italia. Egli fu il poeta di quella lingua in tutta la sua araldica nobilta, e, come critico, se il

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De Sanctis @ passato nelle storie letterarie per il critico della Forma con la effe maiuscola, il Carducci vi dovrebbe passare come il critico del linguaggio poetico: Odio la lingua accademica che prevalse in molte opere poetiche degli ultimi secoli: ma amo, adoro la lingua di Dante e del Petrarca, la lingua de’ poeti popolari del quattrocento, la lingua degli elegantissimi poeti del cinquecento, la lingua de’ poeti classici dell’ultima eta; amo e studio e uso a tempo la lingua del popolo... e con tutto questo non mi périto né vergogno di dedurre anche quello che mi par bene dal greco e dal latino (XXIV, 257).

Si sono messe in evidenza nel pensiero critico carducciano alcune formule di pretto stampo desanctisiano: La «sostanza », la materia, cioé, l’argomento... in arte non ha valore per sé, ma l’acquista tutto dal lavoro dell’artista. Mettete in versi o in prosa quante volete novita storiche, filosofiche, estetiche, politiche, sociali; se non sapete disegnarle, rilevarle, atteggiarle in quel punto e in quella mossa che é quella e non altra; se non sapete poi foggiarle, ripulirle, finirle; se delle sentenze e de’ teoremi non levate fantasmi; se della creta non cavate figure; pigliate pure le vostre novita, i vostri teoremi e la vostra creta, e restituitela alla lavorazione dell’insegnamento, della polemica, dell’aratro; ché la sostanza non x é né arte né poesia (XX, 348).

Il Carducci cosi scriveva nel 1873, e nessuno pud mettere in dubbio la derivazione di tali concetti dal De Sanctis. Altri oggi si potrebbe industriare a cercare barlumi di quelle idee ancora nel pensiero pit giovanile del Carducci, quando egli non aveva letto De Sanctis; ma sarebbe fatica sciupata, quasi che poi i libri del De Sanctis siano il Corano, e tutto cid che coincide con essi va bene,

e quello che non vi coincide va male. Quella filosofia desanctisiana della «Forma», in fondo, rimase estranea al Carducci, anche se qualche volta gli venne a taglio di riecheggiarne il formulario; molti anni pit: tardi, nella lettera-prefazione alle Liriche della Vivanti, egli doveva parlare con impazienza « di cid che nel mestiere del verseggiare italiano dicesi, con neologismo pedantesco, la forma», e doveva definire la forma « un che di postumo al concetto, per lo pit, un che di appiccato tra la posa e la smorfia »: cid che era un inaspettato svuotamento e travisamento, tra allegro e bonario, della forma-sintesi a priori e di tante altre belle cabale e diavolerie! II critico del « linguaggio poetico » si avvicinava, per cerimonia e per curiosita all’estetica della Forma, ma poi tornava volentieri a trincerarsi dietro a quegli spalti, sui quali per lui sventolava la gloria secolare della « lingua illustre » d'Italia. Lingua illustre che non era quella delle eleganze accademiche, ma la lingua, assimilata, tra-

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eae

Carducci critico

sfigurata in un trentennio o quarantennio di tirocinio umanistico, ri-

vissuta nell’interno pathos di tutta la sua storia. Col Carducci, riconosciamolo, la critica romantica, in gran parte tutta presa dalla rappresentazione drammatica dei sentimenti e dei concetti nelle opere poetiche, si arricchiva del giudizio sul valore della parola; le forme sensibili dell’arte, lascivia solitaria dei vecchi grammatici, erano, cosi, con lui, riportate alla comunione sana e feconda della vita e della storia. 4. Carducci critico antiprosastico e antidecadente.

S’intende, con tale criterio direttivo, tutto fondato sul gusto storico del linguaggio poetico, il Carducci godé tutti i vantaggi di una sicura discrezione anche nel giudicare poeti minori, e gli stessi verseggiatori contemporanei; ma pur soffri di qualche limitazione ed angustia. Il linguaggio poetico € come un genere letterario chiuso; cé divario tra la poesia e la prosa, e cid che non si pud cantare a melica voce non pud essere mai poesia. Perd sfuggi al Carducci il tono lirico della prosa d’arte; osteggid egli in maniera impressionante i tentativi di romanzo, dei quali alcuni felicemente riusciti, che si fecero ai suoi tempi in Italia, e che si erano fatti per l’addietro in Eutopa. « La impossibilita che uscisse in Italia un romanzo italiano leggibile era per me una prova e un conforto che a questo popolo rimanesse ancora una fibra delle reni antiche, era una speranza per Vavvenire. Ora sento che quella cara impossibilita va tutti i giorni diminuendo. Me ne dispiace » (XXV, 231). E nota la sua insofferenza per la prosa dello Stendhal, che, a suo parere, scriveva « falso e affettato », ed era giudicato « impotente alla creazione d’arte », « e i suoi romanzi lo mostrano, nominatamente Le rouge et le noir » (XXIV, 282); cid che non era un giudizio estroso, ma aveva la sua giustificazione in quel sistema d’idee che siamo andati esponendo. Contro le seduzioni e la corruzione del verso, lo Stendhal si vantava di esemplare il suo stile sulla prosa del codice civile; responsabili molti scrittori di Francia, a cominciare dal Malherbe, educati al razionalismo geometrico cartesiano; nei tempi vicini, la Staél e lo Chateaubriand, nonostante certo loro vago poeticismo, anzi in forza di quella loro troppo diffusa poesia, avevano dato il cattivo esempio. Prima, la Staél e lo Chateaubriand senza né il dono né l’amore del verso ammaliarono la generazione del Consolato e dell’Impero co’l romanzo lirico ed epico. Poi, il celebre recitatore tragico, il Talma, andava raccomandando al poeti: — Non pit versi belli —. Nella ristaurazione, contro il rinascente fervore della poesia metrica, il Beyle conchiudeva — Non versi del tutto (ivi, 281).

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Vorremmo questa chiamarla, ingenerosamente, aberrazione o invidia mentale, o non si trattera piuttosto di quella divina angustia, propria a tutti gli scopritori di una verita, perduti dietro al loro mito e alla loro meta, e che non hanno occhi per altri orizzonti? Probabilmente gli intelligenti di tutto sono gli indifferentia tutto, sono

i consumatori, i parassiti, i dilettanti, e non i creatori di storia. Lo

stile del codice civile, proposto ad esempio, non poteva essere per il Carducci che una forma di empieta, un avvilimento, una rovina mesta

della sua delfica deita. Ed egli tornava a ribattere sempre contro il genere romanzo, che favoriva questo traviamento e miseria dello stile, e, a proposito di romanzi celebri di Rousseau, di Balzac, di Goethe e dello stesso Manzoni, osservava: « La media della vitalita di un romanzo, a dargliela lunga, @ di venticinque anni »; il romanzo é un genere plebeo, che ha soppiantato o si é impiantato sull’epopea « come un mercante che segga fumando la pipa su le ruine di Palmira o di Eliopoli »; il romanzo @ una specie di nuovo ricco, che ha soppiantato la tragedia e la commedia, « come i fattori arricchitisi alle spalle de’ patrizi veneti li cacciavano man a mano dai palazzi del Canal grande ». Ma venga la vendetta degli dei, o delle cose o, se vi piace meglio, la nemesi storica, che per Giosué si ficca e si mischia un po’ dappertutto: « I romanzi a pena stagionati, ahimé un po’ troppo presto e ahimé un po’ troppo tutti, assomigliano ai mazzi dopo finiti i pranzi, alle camelie dopo finiti i balli, ad armadi di abiti passati di moda » (XX, 399). E non si dice nulla del romanzo sperimentale, l’ultima letteratura

da spazzaturai: il Carducci democratico in politica, non ama i mal pingui ventri (i panciuti zoliani, come egli li chiama) dei suoi nuovi colleghi in arte. Egli non vuol riconoscere il significato spirituale, anche se non artistico, che ha il romanzo sperimentale, come un ten-

tativo di uscire dalla vecchia letteratura pelasgica, generica, nebulosa dei vari paesi d’Europa, e che, particolarmente per |’Italia, pud essere un’evasione definitiva dagli ammuffiti serbatoi d’Arcadia: dedurre nuovi rivi dalle varie regioni, rivi pieni di fango e di loto, ma, a loro modo, fecondatori di una pit: unitaria civilta. Riconoscera, invece, pit: volentieri i benefici della poesia dialettale, sempre per quel gusto del suo genere chiuso che é la « poesia metrica ». E venuto su con di strane pretensioni il romanzo

sperimentale, che andra

a finire, né favola né scienza, a quella stessa guisa che il romanzo storico non era né€ epopea né storia. Alla prima acqua d’agosto, pover omo, ti conosco, dice il proverbio toscano. O panciuti zoliani, che ora vi credete demolire Vittor Hugo, come volete allora esser buffi! Mandate attorno gli spazzaturai a raccogliere su ’l lastrico le vostre descrizioni, che non ne vorranno pit né men le femmine de’ porci (XXIV, 384-385). «

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Carducci critico

In cotesta avversione, e appassionata avversione, c’era, oltre che

apollineo disdegno (I’Italia letterata era tutta dalla parte del Carducci, per tradizionale gusto retorico), anche un tantino di naziona-

lismo letterario e di eugenetica moralistica; per il romanzo, I’Italia diventava un dipartimento della Francia, e la paesana sanita si corrompeva e si contaminava dei nuovi sublimi vizi europei. La malattia

per la penitenza obbligata, la crisi di sviluppo dell’Italia che voleva farsi europea. « La pleiade nuova inquartata di russo impronta gl’intelletti, gli spiriti, i sensi. Nostra critica é la mobile nomenclatura di quel nuovo paese di effimeri [la Francia]: parnassiani, realisti, veristi, decadenti, raffinati, simbolici, mistici. Un giovane fiorentino mi domandod se non mi pareva che Dante fosse un Decadente. A me voi parete tutti degenerati » (XXV, 360).

Era una scomunica in piena regola di quell’avviamento nuovo della letteratura europea, che si disse decadentismo. Si deve correre anche qui a gridare che il Carducci non capi nulla di questa nuova vicenda letteraria, che per l’Italia poteva essere la via per sprovincializzarsi? L’Italia europea attraverso la malattia? Ma il temperamento sano e popolano del Carducci si ribellava a tali forme di ambigua fornicazione, di sofisticazione letteraria. Sennonché, pit che queste ragioni naturalistiche di temperamento, valeva la ragione piu vera e pit ideale: il Carducci, storicamente, rappresentava la reazione al vago poeticismo romantico, egli voleva essere l’archiatra, curatore impietoso della « scrofola romantica »; e proprio lui, mentre agonisteggiava con le malattie dei padri, non poteva accarezzare i nuovi squisiti mali dei figli e dei nipoti. Chi sentiva aleggiare sull’accesa fronte gli itali iddii e celebrava la serena e intera e dritta anima umana, satebbe stato un compagno strano e non desiderato in mezzo alle pallide torme dei nuovi martiri del sensualismo europeo. Anche qui, lapertezza proclive verso gli indirizzi pit discordi, pud essere segno d’intelligenza e di sensibilita, ma anche segno di dilettantismo e di fiacchezza creativa, 0, ancora peggio, di indifferenza estetizzante da -scettici e da delusi. Chi crea, ama, sceglie, ed esclude. E il Carducci non avversd la nuova letteratura per frigida alterigia accademica; giacché anche in coteste puntate polemiche, portd ardore di passione, e si irritava perché non capiva, e la stessa ira era riconoscimento della altrui nobilta e al tempo stesso riaffermazione della sua storica fede di artista. Ad un europeismo di tono eguale e diffuso, egli preferiva un europeismo pit aristocratico, singolare conquista, sul fondo della tradizione nazionale, dei grandi creatori. « Nel concilio olimpico ove seggono Dante e Shakespeare anche la Spagna, che non ebbe egemo-

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Dal Carducci al Croce

nia mai di pensiero, ha il suo Cervantes; l’Italia seguito a mandarvi — pit: d’uno, e pare, o si crede da pit d’uno, che di recente vi sieno stati accolti il Manzoni e il Leopardi » (XXV, 374). E ammoniva i suoi scolari, nel giubileo accademico del ’96: L’umanita é grande cosa; e certamente é bello che vi sia un consesso sorellevole delle letterature europee; ma per arrivare a quell’alto consesso, per esser degni di quell’abbraccio non bisogna deporre il sentimento nazionale, non bisogna portare livrea di servi né maschera di cortigiani. Noi dobbiamo riprendere la tradizione dei nostri maestri, Virgilio, Dante, Petrarca, i quali trovarono l’arte moderna e il mondo nuovo: noi dobbiamo continuando ampliare questa tradizione, senza farci schiavi e scimmie di nessuno

5.

(ivi, 399).

Carducci e la sua avversione a Manzoni.

Si pud pensare quel che si vuole di questa intransigenza nazionale del Carducci e di questo gusto esclusivo della tradizione classica,

ma bisogna pur fargli credito che questi suoi odi ed amori non avevano nulla di capriccioso e di pedantescamente accademico; sono le passioni di un poeta che ha il suo credo, e le vedute di un critico che ha tutto un suo sistema coerente di idee, con le quali veniva sostenendo ed eccitando la sua stessa produzione di artista. Anche l’avversione al Manzoni (del resto, assai corretta negli ultimi due decenni della vita), non era soltanto avversione di giacobino e di anticattolico, ma procedeva da ragioni pit: strettamente letterarie: l’avversione dell’artefice del verso contro il disertore dell’aringo poetico, contro il narratore sliricizzato, che aveva risolto o dissipato la poesia e l’arte nella prosa di un romanzo: « Mi dolsi e mi dolgo con rammarico, io che amo sopra tutto la gran poesia in versi, che il Manzoni, giunto alla maggior potenza della sua facolta poetica con PAdelchi e con la Pentecoste, quando mostrava pit simpatica caldezza di rappresentazione che non il Goethe, pit: armonica saviezza dinvenzione che non |’Hugo, mi dolsi e mi dolgo che ristesse ». E vada pure la prosa dei Promessi Sposi, se quella @ stata una buona occasione per combattere una battaglia politico-religiosa; si senta « meno acerbo il rammarico delle grandi opere di poesia » che il Manzoni « poteva ancor fare», se almeno col romanzo il grande lombardo fece « la gran vendetta su ’l dispotismo straniero e su ’1 sacerdozio servile ed ateo » (XX, 422). Curiosa concessione (il giu-

dizio & del 1891), che correggeva radicalmente la tesi affermata ancora nel 1885, che nei Promessi Sposi spirasse una « certa aria di ascetismo deprimente » (ivi, 390). Curiosa concessione, ma anche pit

singolare difesa del romanzo manzoniano: la poesia veniva lodata pet

16

Carducci critico

se stessa, per la sua araldica nobilta di espressione, e capacita rappresentativa, e la prosa veniva o combattuta o giustificata per la sua nascosta oratoria politico-religiosa. L’arte pit disinteressata sarebbe dunque sempre quella del poeta, del povero manovale che lancia il suo strale d’oro contro il sole, guarda e gode, e pit non vuole; mentre Valtra del narratore o del prosatore pud facilmente convertirsi (e godere un lasciapassare per questo) nell’oratoria dell’insegnamento e della polemica. E il Carducci, difatti, come studioso e critico, analizzd diligentemente i versi di molti rimatori e poeti, antichi e moderni (la lirica la primogenita di Dio!), ma s’indugid poco nello studio dei grandi o medi prosatori; imbattendosi nello stesso Boccaccio, senti il bisogno di osservare che « basterebbe [...] il Ninfale, perché non fosse negato al Boccaccio l’onore di poeta anche in versi, se a cid non avesse, oltre alcune rime graziose e native, un titolo forse maggiore, quello di padre naturale o adottatore dell’ottava » (XI, 321). E sulPottava boccaccesca scrisse le osservazioni pit interessanti ed originali di quel suo discorso del ’75 Ai parentali di Giovanni Boccacci (parecchie note boccaccesche dei Discorsi sullo svolgimento della letteratura nazionale sono invece un riecheggiamento e sviluppo immaginoso di pagine desanctisiane), e, sempre sull’ottava del trecentista, prodigava le sue immagini pit felici e, fra l’altro, questa sua ipotiposi: Come bella ed agevole un secolo prima del Pulci e del Poliziano esulta Vottava nel Filostrato o nel Ninfale! ella € come una fanciulla del contado toscano che novelleggi non sai se accorta o sprovveduta, se sciolta o succinta, e _ che volgasi a quando a quando con eleganti lusinghe, gittando motti fiori e sorrisi agli ascoltatori (ivi, 320).

E osservava ancora che « per il poema delle nuove generazioni popolane e borghesi, occorreva un metro men solenne e forse men triste di quel di Dante, meno uniforme di quello delle epopee feudali francesi, un metro nel quale molleggiasse la fantasia del poeta artefice, che non cantava piu né contemplava ma raccontava ». Dove il Carducci coglieva acutissimamente che le forme metriche della poesia hanno sempre un significato storico, non sono silique vuote, puro esperimento di virtt vocale, ma simbolo della stessa sostanza storica della poesia. Per ritornare al Manzoni, le osservazioni carducciane pil penetranti sono quelle relative al poeta, mentre viziate di pregiudizi settari o soltanto generiche sono parecchie definizioni e interpretazion1 sul prosatore-artista. E se pud parere che egli talvolta faccia la storia

wil + JL. Russo,

La critica letteraria contentporanea

Dal Carducci al Croce

estrinseca dei « metri », quei metri, si avverte subito, sono per lui della diversa vita morale e ispirazione degli il tono musicale artisti. Il Parini il Monti e il Foscolo avevano gia trattato maestrevolmente i metri brevi in generale e specialmente i settenari: il Manzoni ando pit oltre, abbandond le volte troppo lunghe o troppo intrecciate di endecasillabi; abbandond la stanza; serrd e varid il trotto un po’ monotono del decasillabo, incitd la lentezza dell’ottonario, svolse in tutta la sua epica solennita il verso d’arte maggiore, il dodecasillabo; e a tutti diede una sciolta ed austera concinnita tra di ode classica e di melodia metastasiana

(XX, 315).

Per cotesta sua estetica poggiata sul privilegio apollineo delI’« arma virumque cano », il Carducci cercd spesso alleati, e, fra gli altri, nel Sainte-Beuve, il Sainte-Beuve non dei Lundis e dei Portraits, ma lo storico di Ronsard, di Marot, di D’Aubigné e di Régnier. Si esagera, quando studiosi francesi e italiani riportano la critica carducciana sotto il gonfalone del pensiero del Sainte-Beuve, come critico psicologico; nulla di pit alieno in Carducci, interprete formale dei classici, dalla critica psicologica. Egli amd e riecheggio Sainte-Beuve per i suoi richiami a una disciplina retorica, all’ordine tecnico e metrico dei poeti della vecchia Pléiade cinquecentesca, e gli piacque risentire il suo rammarico personale nel rammarico espresso

dal francese sulla decadenza araldica della poesia. La poesia ebbe la pretesa di parlare come la prosa, con la meno possibile differenza. Comincid Malherbe, ricordiamocene, a vantarsi d’andare in cerca di parole pe 1 suo vocabolario tra i facchini de’ granai e tra la gente de’ mercati... A prova di bonta pe’ versi francesi, Voltaire diede la famosa ricetta: Metteteli in prosa. La poesia in Francia seguitd per questa via da Malherbe sin alla fine del secolo decimottavo. In luogo d’avere, come altrove si ebbero, quelle

che si potrebbero chiamare le logge, ella non ebbe, se @ permesso il termine, che un marciapiede, benissimo fatto, ma pochissimo sollevato di sopra alla prosa.

Queste sono le proposizioni, che il Carducci cita e traduce dal critico francese, e le fa sue e le sente come argomentazioni della propria poetica. E quasi a difesa della sua ingegnosa disciplina umanistica, e a confusione dei morditori delle sue auliche origini, & lieto di rilevare un inciso, in cui lo stesso Sainte-Beuve giustificava l’artifizio dei poeti della nuova Pléiade del 1830: A’ Nostri giorni € stato tentato di rendere alla poesia il suo linguaggio proprio, il suo stile, le sue imagini, i suoi privilegi; ma l’impresa poté parere assai artificiale, per cid che bisognd andare in cerca d’esempi nel passato piu adietro di Malherbe, esempi, per di pit, manchevolissimi e senza splendore d’autorita.

18

Carducci critico

E contro gli incitamenti del Manzoni, che predicava e praticava per suo conto lo spogliamento prosastico della poesia, il Carducci traduceva ancora quest’altro passo della prosa critica del francese: ; In italiano, la mercé di Dante e grazie alla facolta per ogni poeta moderno di riferirsi a quelli alti esempi e sollevarsi oltre il livello di tutti i giorni, la poesia tenne sempre il suo alto grado, o almeno lo ricupera ogni volta che vien su un vero poeta. Cosi potrebbesi rispondere al Manzoni, all’autore dei cori del Carmagnola e degl’Inni sacri (XXIV, 256).

Effusioni, giudizi, citazioni che ci chiariscono il significato di quei lamenti frequenti nelle prose del Carducci sulla fine della poesia nei tempi moderni.

I] quale rimpianto é parso come un riecheggia-

mento di alcune affermazioni di Angelo Camillo de Meis, suo collega nell’insegnamento a Bologna, il quale continuava a dar vita a una delle teorie pit caduche del sistema hegeliano, sulla risoluzione della poesia nella religione per aver pace definitiva poi nella filosofia, considerata come giudizio universale e novissimo bando di tutta la civilta umana nei secoli. Ma tale tesi in Carducci non aveva questa bastarda origine filosofica: procedeva invece dalla sua esperienza concreta di buon retore, che vedeva avvilite, nel mondo letterario contemporaneo, queste nobili tradizioni del lavoro mu_saico; non aveva poi un tono euforico, come

_puana

(che, per parte sua, parlava

in De Meis o in Ca-

della risoluzione

della poesia

nell’arte scientifica del verismo), ma era piena di accoramento e

di

tristezza. E il Carducci sapeva distinguere tra la poesia, che é eterna, e la poesia-arte musaica:

« La poesia dunque non muore;

Varte

della poesia muore, l’arte della poesia nel suo antico e puro significato di elaborazione

estetica, metrica, disinteressata » (XXIV, 281).

Il suo lamento era dungue ancora una volta un grido di battaglia per la difesa di uno storico retaggio: il linguaggio poetico dell’Italia di Virgilio, di Dante e del Petrarca. 6.

Le teorie linguistiche del Manzoni e del Carducci.

Nell’antimanzonismo del Carducci c’é un’altra nota positiva, che non é stata mai messa in rilievo, e che riflette buona luce sulla maggiore modernita del Carducci rispetto al pensiero e alla poetica di Alessandro Manzoni. Il Carducci fu netto avversario della teoria linguistica manzoniana, cid che potrebbe ridondare ad onore della sua spregiudicatezza di toscano: un toscano come lui, che respingeva questo blasone di nobilta, questo mito, la Toscana e Firenze, terra promessa della lingua parlata e letteraria d'Italia. Ma cotesto,

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Dal Carducci

al Croce

se mai, & merito psicologico dell’uomo; a noi importa invece rilevarne un altro, pit: profondo, del critico: la visione esatta che egli ebbe della sostanza della teoria manzoniana.

Quella teoria era una

forma di egualitarismo giacobino, che si concludeva con la tirannide oppressiva attribuita a una regione, a una citta; il Carducci, in forza dello storicismo che lievitava nell’intimo della sua teoria del linguaggio poetico, si schierava ad oste contro |’antistoricismo illuministico del grande lombardo: era il secolo xrx, il secolo della storia, che si opponeva al secolo xvii, il secolo dell’astrazione generica e dommatica pur nel suo apparente libertarismo. Cotesta dell’unita della lingua o dell’accentramento dei favellari di milioni di pensanti italiani dentro una citta sola anzi forse dentro i salotti d’un solo quartiere di quella sola citta, é, onorevole Broglio, una fissazione giacobina. Si, in quell’ampia organatura della testa di Alessandro Manzoni il razionalismo giacobino de’ primi suoi anni seguito a ramificare per entro la superedificazione cattolica scalzandola e fendendo qua e 1a di crepacci la incrostatura o intonacatura rosminiana. Ora il razionalismo giacobino, mova o da Montesquieu o da Rousseau, mira in teoria a rifoggiare la societa, senza tener verun conto, anzi con un gran disprezzo, delle cose e dei fatti, della geografia, della etnologia, della antropologia, della storia, sur un suo modello rigido e stecchito, ch’esso imbotti a priori dei postulati di una filosofia tutta tra soggettiva ed empirica e tutta cervellotica; tende poi nell’azione con smaniosa e malaticcia impazienza, e con un feroce odio dei vigori della varieta, ad appianare, a potare, a unificare, a concentrare. Cosi distrusse i diversi stati e perseguitd i dialetti; aboli i parlamenti provinciali e i cappelli a piuma; fece la costituzione e la giubba a coda di rondine, la codificazione e il cappello tondo, il sistema delle imposizioni e la cravatta bianca, la capitale e la burocrazia; dié Napoleone e monsieur Travet. E ispiré — aggiungo — la dottrina dell’unita della lingua (XXIV, 161-162).

Cosi scriveva il Carducci

sin dal 1882,

e il neo-storicismo

del

nostro secolo non ha fatto che ribadire questa sentenza lucida e chiaroveggente del poeta ottocentesco; né si pud dire che essa rimanesse isolata, accatto o prestito provvisorio ed estroso da altri anti-

manzoniani. Era la rivoluzione romantica, col rispetto del genio dei singoli popoli e delle varieta storiche e regionali e della genesi sentimentale e fantastica della lingua, che maturava nel pensiero del Carducci, apparente eversore 0 oppositore del romanticismo. E tale storicismo linguistico continuava a vigoreggiare in lui, anche nella tarda maturita, quando i « giovini », da lui satireggiati come novelli argonauti,

smaniosi

per una

specie di esperanto

artistico da impa-

rare a Parigi, sentenziavano che « letteratura italiana non esiste e non puod esistere, perché l’Italia non ha centro letterario né lingua

letteraria universalmente riconosciuta e comune ». Siamo nel 1897, e il Carducci, con decisa visione storica, doveva rivendicare la ver-

satilita spirituale dell’Italia, in forza della stessa storia diversa’ delle

20

Carducci. critico

sue regioni: il contemporaneo di Verga, di Pascarella, di Di Giacomo, della Serao, rivendicava indirettamente l’arte di cotesti scrittori, riconoscendo la legittimita di una ispirazione provinciale. Si cita Parigi? Ma Parigi, rispondeva vivacemente il Carducci, « fu il portato non invidiabile di contingenze e condizioni proprie della Francia, e specialmente delle esorbitanze della monarchia e della tivoluzione ». E aggiungeva: « Non invidiabile: perché un centro che assorbe le efficacie individue per renderle macerate in una pasta uniforme da passare per le stampe dell’uso, non pare cid che pit debba conferire alla produzione e allo svolgimento di una letteratura energica e specialmente libera e originale ». E ricordava poi l'Inghilterra, la Germania e la Grecia, e I’Italia stessa del ’500: Per lasciar da parte la Grecia, che cred la letteratura e per orrore dell’accentramento e dei tipi ebbe quattro almeno focolari ed officine di spiriti e di forme diverse — ma e l’Italia, quando nel secolo XVI pervenne alla compiutezza della sua letteratura e la imponeva all’Europa, l’Italia, dico, non ebbe ella tanti centri quante regioni, stavo per dire quante citta? e la copia e varieta di quella tanta produzione non ebbe poi finalmente un carattere di effet-

tuale unita? (XXV, 365).

Si badi a quell’effettuale unita: il Carducci coglieva bene, indirettamente, quello che era il carattere stesso dell’Italia a lui contemporanea. Nel formarsi di un nuovo mondo spirituale della nazione, si chiedeva il contributo delle singole regioni, dove vivevano tesori ancora intatti di tradizioni, di una vita ingenua e appassionata, di saggezza carica di storia e pur semplicissima nel suo tono e nelle sue forme. Solo partendo da una varieta pit profonda di tradizioni, si poteva giungere a instaurare un’unita anch’essa pit profonda, pit’ umana, pit: concreta. La letteratura dialettale o provinciale in genere aveva avuto difatti la sua massima effusione dopo il 1860, quando tale suo rigoglio pareva dovesse essere segno di disgiunzione spirituale; e testimoniava invece di un pit intimo e umano affiatamento dell’Italia tutta, fuori dai vecchi schemi dell’astratta -e vieta letteratura accademica. Cosi, l’aulico, Villustre, il curiale, il professorale Carducci collaborava amicalmente coi poeti provinciali della nuova Italia, assai pit: che non avvenisse del Manzoni e dei manzoniani, con la loro fissazione giacobina e astrattamente unitaria di Stenterello cattedrante di lingua per ctonia virtu. Bisogna attingere di continuo alla freschezza corrente della parlata: |altrimenti si rischia di fare una prosa liscia e lustrante, senza vita, senza rilievo, senza colore, o d’un color freddo di biacca, d’una freddezza sfacciata, come della scagliola. Della parlata, la correzione nelle forme e x ne’ suoni, e certa eleganza di scorci e di frasi, certa concinnita di dizione, é solo in Toscana; ma

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Dal Carducci

al Croce

gli spiriti e i colori, il muscolo e il midollo latino e la vertebratura della costruzione @ anche in quasi tutti gli altri dialetti, salvo certe singolarita celtiche al settentrione e certe poche varieta grecaniche al mezzogiorno (XXV, 371).

Si ripensi al giudizio che, senza che, il Carducci dava della poesia di di Villa Gloria «il Pascarella solleva dialetto alle altezze epiche » (XXIII,

compassate riserve accademiCesare Pascarella. Nei sonetti di bdtto con pugno fermo il 386), e nei sonetti del Morto

di campagna e della Serenata « voi sentirete [...] con ammirazione,

rappresentato il costume e il dialetto muscoloso del vero popolo romano » (XXVIII, 216). E si ripensi al giudizio dato sulla poesia di Vittorio Betteloni, poesia borghese e quotidiana, cid che potrebbe parere in contraddizione colla poetica del linguaggio illustre, se questa poetica non fosse invece poi senso del linguaggio nella sua infinita duttilita storica. E il consenso dato ai Bordatini del Ferrari era ancora esso un omaggio a questa poesia o popolaresca, 0 casalinga o dialettale, dove la tradizionale disciplina metrica («i bei metri del trecento e del quattrocento ») si accompagna al senso della vita paesana. « Quando il Ferrari si abbandona al sentimento imaginoso o cerca la poesia nella verita del paese che I’attornia, egli ha note e trova forme calde e potenti » (XXIII,

376).

7. I giudizi del Carducci sui contemporanei. E poiché siamo venuti spigolando qualche giudizio sui poeti contemporanei, non é male ricordare che proprio in tali giudizi il Carducci fa buonissima prova con la sua concreta esperienza di Jetterato. Si sa quanto sia difficile giudicare di letteratura contemporanea, specialmente per studiosi immersi nelle indagini e ricerche e analisi di letteratura classica; ogni critico militante, a rileggere i propri giudizi dopo un anno, o, se vogliamo essere generosi, dopo un

decennio,

dovrebbe

sovente

arrossare

e sfavillare

e trasmutar

sembianza, peggio di san Pietro e Beatrice, lassi nel Paradiso, quando parlavano con Dante delle pontificie fallanze. Orbene, rileggiamo i giudizi del Carducci, dopo un sessantennio di prove diversissime e obliosa fuga di stagioni; dobbiamo ammirare sempre la moderazione della mente e la sicurezza tecnica della penetrazione. Cito per tutti i giudizi sulle poesie di Guido Mazzoni e di Giovanni Marradi, due amici e seguaci, sui quali parve si diffondesse troppo aura protettrice del grande maestro di Bologna. Del Marradi si dice che «ha la fervida prontezza delle impressioni che si manifesta nel largo e rumoroso parlare » del popolo livornese, e qualche

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Carducci critico

volta il suo verso « suona soltanto e suona troppo ». « E un difetto della natura toscana, faconda, abondante, colorita; ma poco poetica, o almen poco lirica, nel sentimento e nella imaginazione »; il Marradi « ha il verso dal pieno petto, ha V’inspirazione della melodia: ma gli bisogna non lasciarsi vincere alla natura toscana; gli bisogna, avventiam

la parola, pensare

pit forte » (XXIII,

379-380).

E del

Mazzoni particolarmente egli loda la bravura metrica, la formale correttezza, la piana eleganza, ma da lui invoca «la piena intonazione di canto » che gli farebbe difetto.

Tra per la facilita dell’ingegno suo fiorentino e per lo snodamento, acquistato con la cultura e l’esercizio, delle facolta e tendenze estetiche, egli sgomi-

tola i versi e i metri pit difficili che non par fatto suo, e le forme scabre e malagevoli ad altri gli sguisciano levigate e lucide dalla mano, e cette stranezze cercate paiono nel suo stile naturali. Ma a questa sua elegante facilita il Mazzoni, diciamolo stibito, si lascia andare un po’ troppo; e qualche volta da per rappresentazione fantastica la fosforescenza della frase solleticata dal metro, e all’atteggiamento esterno non ha rispondente sempre un movimento interno

dello spirito o un guizzo dell’idea (ivi, 364-365).

E, con particolare compiacimento,

ancora rilevava:

Questo fiorentino va provando la irrequietezza de’ suoi nervi e l’agilita de’ suoi muscoli su le scale di tutti i metri (nelle ventitré poesie che finora ho percorso egli trascorre dagli endecasillabi italiani sciolti e rimati e misti di settenari agli esametri, ai distici d’esametri e pentametri, alle odi alcaiche, saf-

fiche, asclepiadee, archilochee, e dai trocaici che dird klopstockiani passa per i giambici ai novenari, agli ottonari, ai settenari, al sonetto, al triolet; si anche a un friolet, per una bambina, inconscia, poveretta, di tanta parnasseria (7v/, 370-371).

Questo @ un giudizio dell’86, ma gia fin dall’82 il Carducci aveva giustamente lodato il traduttore di Meleagro e trovato nei versi del Mazzoni « notevole e quasi esemplare la bravura e sicurezza delVesecuzione tecnica » e il maneggio ritmico, la sapienza della verche seggiatura; riconoscimenti, perd, sempre di tipo retorico, _ dovevano ancora restare i motivi di alcune sue pagine tardive del ’93 (XXVIII, 24-26). In coscienza: quanti critici d’oggi sanno essere cosi discreti, e storicamente contenuti, e umanisticamente precisi,

se parlano e lodano un libro di versi o un romanzo contemporaneo, specialmente se si tratta d’un amico di casa? L’originalita e la forza critica del Carducci vanno ricercate in questi saggi, e recensioni, e minuzzoli, e prolusioni, dove egli discorre della letteratura a lui contemporanea, o a lui molto vicina, dallo Zanella al Prati e all’Aleardi; e vanno ricercate in quegli altri saggi patticolari, in cui si discorre delle rime di Cino da Pistoia,

22

Gee Dal Carducci al Croce

e

delle rime di Dante, di Lorenzo il Magnifico, di Angiolo Poliziano, delle poesie latine dell’Ariosto, delle odi e del poema del Parini,

dei versi dell’Alfieri, e nelle sue chiose al Petrarca. Li, il suo gusto umanistico e la sua poetica del linguaggio fanno sicurissima prova. Assai meno resiste il Carducci nelle costruzioni storiche di ampio respito, come nei famosi discorsi Dello svolgimento della letteratura nazionale, che sono costruzioni ingegnose, imbastite su quegli schemi della mitologia romantico-naturalistica in voga ai suoi tempi, che lo scrittore prendeva in prestito o da critici francesi, come il Taine, o da tedeschi, come il Mommsen, o da italiani, come il Gioberti e il De Sanctis; e tutto trasfigurava in una forma immaginosa o veniva abbellendo e variando con brani di eloquenza poetica, paralipomeni o abbozzi delle Odi barbare. 8.

Carducci e De Sanctis.

Ma i canoni storici d’interpretazione generale non erano suoi, ed erano spesso intimamente contraddittori tra loro. Molte fatiche hanno fatto gli studiosi francesi (ricordo il Maugain e lo Jeanroy)', per documentare il lungo studio e il grande amore che il Carducci ebbe per gli storici francesi: ma i nostri fratelli di oltr’alpe s’interessano alla nostra letteratura, solo quando in un modo o in un altro possono dimostrare che noi siamo pensionarii del loro pensiero o della loro arte. Recentemente, un giovane, il Mattalia?, ha voluto contrapporre tesi nazionalistica a tesi nazionalistica, e ha riportato la critica carducciana nel circolo del pensiero giobertiano. Ma si contende sulla materia pit. caduca dell’opera carducciana; il Carducci ebbe una sua originalita, ma che non é certo di derivazione tainiana o giobertiana o desanctisiana, e a quella principalmente bisogna guardare. Vogliamo ancora discutere sul famigerato canone dei fattori della letteratura italiana, l’elemento ecclesiastico, il cavalleresco, i nazionale, che fanno la loro virtuosissima prova nel primo di quei discorsi? Ma enumerare i fattori storici significa concepire lo svolgimento di una letteratura come effetto di determinate cause, con Yequivalenza di cause e di effetti; cioé, guardare alla storia come 1 MAUGAIN, G. Carducci et la France, Paris, Champion, 1914; JEANROY, Carducci et la Renaissance italienne: étude sur les sources du quatriéme discours « Dello svolgimento della letteratura nazionale », nel « Bulletin Italien » di Bordeaux,

vol. XII,

? DANIELE

Orfini, 1934.

24

1912,

e vol. XIII,

MATTALIA,

L’opera

1913.

critica di Giosue

Carducci,

Genova,

Degli

Carducci critico

ee ee

il chimico guarda a un prodotto che si ottiene per combinazione di elementi. E quello & un criterio, che volentieri regaliamo e releghiamo nella critica del Taine, e dal quale ben si guardo il nostro De Sanctis. Per questi il causalismo nella storia non aveva ragione di essere, perché le cause non sono nient’altro che la genesi interna di un movimento e la storia spiegata di quella genesi. Ma il Carducci, diciamolo pure, ebbe troppo docile passivita invece per tutti cotesti schemi; cid che ci conduce a conchiudere che in lui c’era stoffa di grande critico, ma non di grande storico. Se si distingue, empiricamente, tra poeta ed artista, sia lecito distinguere ancora empiricamente tra storico e critico. Vi sono critici letterari, fini analizzatori e interpreti, per dir cosi, monografici; ma spropositatissimi nelle ve-

dute storiche e debolissimi nell’orientamento generale. Questa la piu sostanziale differenza tra il Carducci e il De Sanctis; l’uno fu solamente critico, e l’altro fu anche storico. Anche il De Sanctis si servi di schemi, caduchi e discutibili come tutti gli schemi, ma quegli schemi pur nacquero dal vivo e dall’interno del suo pensiero; mentre quegli altri del Carducci, valgano o non valgano, non si valutano e discutono perché non sono una sua produzione, non rap_presentano il suo sforzo personale. La sua virti resta sempre altrove: nella sua passione, e nel suo buon gusto di retore e nella sua capacita di interprete. L’umanesimo del Carducci, appunto perché profondamente vissuto, aveva una discrezione di giudizio nel suo interno, ma non poté mai giungere a essere storicismo spiegato. Cid che spiega la sua intolleranza per l’opera del De Sanctis, che non era tanto intolleranza contro la persona, quanto il sospetto del limite della sua critica umanistica. Del resto, le ragioni dell’opposizione Carducci-De Sanctis sono assai complesse. C’era intanto un fondamentale contrasto di cultura, allora assai vivo, tra i vichiani di Napoli, e la cultura celticoumanistica 0 piagnona di Romagna e di Toscana. E il contrasto di cultura era anche contrasto di passioni politiche: giacobino il Car-ducci, antigiacobini

e moderati

i napoletani.

Cid che diventava

an-

che contrasto di stile. Lo stile dei napoletani, analitico, storico, scientifico, la cui pre-

cisione e scrupolo tecnico doveva sfuggire ai non iniziati, per appatire soltanto ermetico ed esotico formulismo; Io stile della tradizione democratico-apollinea, a cui amava richiamarsi il Carducci, sintetico, immaginoso e poetico. Sintetico, perché astraendo da un esame pro-

fondamente storico dei problemi e appellandosi piuttosto a un ordine di miti fantasticamente o religiosamente ammessi, lo scrittore parla quasi ex tripode, per aforismi e massime, a cui si deve prestar

25

Dal Carducci al Croce

fede, pit che per l’intima persuasione critica che ne scaturisca, per il calore e l’affetto che li conduce; 1mmaginoso e poetico, perché, quando il sentimento trabocca, ogni precisione storica e scientifica si rende impossibile. Ancora: la forma, lo stile, la tacita musa del De Sanctis e dei suoi amici era l’ironia; un’ironia tanto piu sconcertante, quanto pit: bonaria e meno manifesta e voluta. Un uomo come il Carducci pud essere ironico solo a tratti; l’ironia @ in lui travolta

dalla passione, e diventa presto furore ed entusiasmo e ira. Nel De Sanctis lironia @ sistema, é la logica del suo pensiero che, comprendendo, compatisce e sorride e, costruendo, si riposa. Vorrebbe es-

sere una forma di umilta cristiana, di bonaria semplicita, in cui l'individuo, colle sua vanita personali, scompare per riconoscersi nella chiaroveggenza sovrana del pensiero stesso, fatto superiore agli uomini e alle cose. Ironia dunque religiosa e non propriamente estetica: ironia socratica, ma che pud contrariare, lo stesso, il nostro genio nei momenti di eccitata passione.

Cosi quell’umilta, quella bonarieta, quell’amabile discorsivita del De Sanctis appariva al Carducci superbia pesante, presunzione radicata, dispettosa sofisticheria. Nulla di pit irritante di quel suo sorriso a mezze labbra, per la sensibilita ingenua dell’uomo immaginativo e sensitivo; il filosofo De Sanctis, superbissimo della mente umana in re, ma umilissimo in subiecto, diventava nella fantasia dell’uomo

apollineo l’ambiguo genio dell’orgoglio, con quella modestia falsa, con quel mezzo sorriso d’amabilita, serioso sogghigno per laltrui dabbenaggine. Che cosa & mai cotesta critica filosofica, che vuol mettersi alla testa di tutta una letteratura, e chiuderla dentro al proprio pensiero, per rifarsela daccapo a immagine e similitudine di sé, dentro di sé, a forza di pensiero? Chiacchiere, fantasie, imposture, rispondevano a coro i democratici, gli apollinei, gli induttivi, i positivi. E, per conto suo, il Carducci sacramentava:

« Gli estetici [...]

sono i pit impostori fra i pedanti e i pit pedanti fra gl’impostori ». E delineava questa ipotiposi del critico De Sanctis: « Un estetico @ capace di tutto. Egli, gia, incomincia dal credere su ’1 serio ch’ei fa un onore, per esempio, a Dante rimettendogli a nuovo rilegate in prosa marocchina romantica le sue posizioni (parlan cosi cotesta gente); e poi tiene, o ha dal mestiero l’obbligo di tenere, i lettori 0 gli uditori suoi per un branco di esseri inferiori ai quali egli deve insegnare a sentire a pensare e a compitare » (XXVII, 151). E, nelle giornate cattive, il burrascoso maestro tempestava il nome del suo fantastico e illusorio antagonista fin davanti agli scolari, e ne scagliava i volumi git dalla cattedra, affermando, quando si offriva il

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Carducci critico

caso, sempre «in dispetto al celebre critico, che l’episodio della Francesca da Rimini era una delle cose meno belle della Divina Commedia » 1, Ancora una volta l’uomo sensitivo e immaginativo recalcitrava e si ribellava a Minerva oscura; e noi non riusciamo a scanda-

lizzarcene, e non sappiamo nemmeno fargliene troppo carico *. 13).

1 Cosi ALBERTAZZI, in un articolo, Opimioni e modi del Carducci, in « Giornale d'Italia », 21 febbraio 1911. Sull’opposizione Carducci-De Sanctis e -i filosofi meridionali, si veda il capitolo Polemiche politiche del mio volume Francesco de Sanctis e la cultura napoletana, nuova edizione, Bari, Laterza, 1943 {Firenze, Sansoni, 19593}. 2 Le citazioni di tutti i paragrafi del Carducci sono fatte tenendo presente l’edizione in venti volumi, curati dall’autore stesso, non gia l’edizione in trenta volumi apparsi come edizione definitiva, sempre presso lo Zanichelli, in questo secondo dopoguerra. [Ma ora ci si é valsi dell’edizione in trenta volumi}. Prego poi i lettori di tenere presenti i miei saggi sul Carducci, apparsi in « Belfagor », e ora raccolti nel IV volume dei miei Rétratti e disegni storict. Dal Carducci al Panzini {in Carducci senza retorica, Bari, Laterza, 1957 (1958?)].

Io vi discorro del poeta e dello scrittore, ma

implicitamente

anche del critico.

(1953).

27

II.

Maestri

della vecchia scuola storica

1. La vecchia scuola erudita e la filosofia.

Si torna assai volentieri a discorrere di Alessandro d’Ancona nel centenario della sua nascita', non solo per rendere sincero e cordiale omaggio ad un vecchio maestro, da tutti riverito, e a un grande lavoratore, ma anche per avere occasione di dissipare un equivoco e di chiarire un rapporto di scuole e di indirizzi. Non é vero, dico subito, che i seguaci del neo-storicismo, avviato dall’idealismo filosofico nel primo quindicennio di questo secolo, siano cresciuti avversatori e derisori, 0, comunque,

tepidi estimatori della vecchia scuola erudita.

Soltanto nell’accensione della polemica, e nella fantasia dei laici, si é potuta determinare un’antitesi irriducibile fra la vecchia e la nuova scuola: l’una la scuola storica, l’altra, la cosi detta scuola estetica; Yuna tutta fondata sulla ricerca positiva dei fatti, l’altra affidata alYestro dell’ingegno e alla sensibilita personale. Non a caso ho parlato di neo-storicismo, volendo colpire nella denominazione stessa l’esigenza profondamente storica dei seguaci del nuovo indirizzo, i quali, appunto perché storici e non puri distrigatori dei geroglifici dei loro sentimenti privati e delle loro fantasie, non potevano mai disdegnare gli insegnamenti dei predecessori ed aborrire da quella disciplina metodica, per la quale l’Italia, dopo il 1860, era risalita al livello della pit alta cultura europea. Il mutamento che, negli studi storici e in quelli letterari, si € operato nell’ultimo trentennio, non é@ stato mutamento di disciplina, ma rinnovamento e rinfrescamento e restaurazione di filosofia. Senza filosofia, non @ mai possibile ricerca storica di nessun genere; e i nostri maestri nati alla vita scientifica attorno al 1860, i D’Ancona, i Carducci, i Bartoli, i Comparetti, i Rajna,

ebbero pure la loro filosofia: filosofia invisibile, ma che operd lo stesso efficacemente nelle loro menti e diede unita alla loro opera, e che non fu quella, come spesso si ripete, ispirata ai principi di un 1 Lettura fatta nell’autunno del ’35 alla Scuola Normale

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Superiore di Pisa.

Maestri della vecchia scuola storica

facile positivismo, ma una filosofia che aveva sorgenti pit lontane € annoverava fasti assai pit eroici. Cotesti maestri, che appaiono,

all’immaginazione volgare, come umbratili asceti o aridi portatori di scienza, impassibili ricercatori di documenti, ordinatori di date e di cronologie, avevano pure una loro passione, una loro poesia, che non era soltanto passione di ordine psicologico e personale, ma di ispirazione ideale e universale, e che li accomunava tutti in una fede come fossero gli apostoli di una nuova religione. E il loro movimento non aveva nulla di arbitrario, di episodico, di occasionale, di regionale o municipalistico, ma si richiamava a una comune missione nazionale ed europea. Era precisamente tutta la filosofia del romanticismo che maturava in questo loro atteggiamento e in questi loro propositi nuovi di studi: la rivoluzione romantica, come tutte le tivoluzioni profonde, agiva a distanza, e, invita Minerva, operava in

quelli stessi che si dichiaravano suoi avversari. Romantico poeta della storia, e nostalgico rievocatore del medioevo comunale, il Carducci stesso, che partiva cosi a oste contro la romantica famiglia dei lan-

guidi verseggiatori alla Prati e all’Aleardi. Chi ha mai affermato che la filologia sia un’arida scienza di tecnici puri? La filologia nasce sulla humus fecondata dai problemi storici, politici, filosofici, religiosi, artistici. E le edizioni critiche dei testi, e le ricerche d’archivio, non si fanno per puro esercizio di mestiere: si fanno per passione spirituale. E si recensiscono criticamente opere di Dante, di Savonarola, di Machiavelli, di Bruno, di Campanella, di Vico, per rispondere a problemi d’ordine pit profondamente storico,

e non meramente tecnico; e si raccolgono leggende e novelline popolari, non per semplice curiosita erudita, ma per dar vita e colore e fisionomia a quel popolo, chiamato e assurto al suo risorgimento politico; e s’indaga la storia oscura delle origini, per creare un atto di nascita, il blasone della sua remota nobilta, alla nazione risorta: a quello stesso modo come si risale ai ricordi della nostra infanzia. e dei nostri avi, con patetica tenerezza, quando siamo per arrivare al . termine di una robusta e consapevole virilita. I nostri vecchi maestri ebbero dunque la loro filosofia, e una filosofia maturata nella vita e nelle lotte quotidiane, nelle loro espetienze di uomini e di cittadini; e non hanno reso un buon servigio al loro nome e alla loro fama quei tardi scolari, che tentarono di detergere le loro fisonomie da ogni macula di pensiero e di passione, e vollero presentarli come vasi vitrei di scienza pura, quasi che il pensiero sia una specie di peccato originale da cui bisogni redimersi, quel pensiero che non @ la scienza formale dei don Ferrante, ma é fede, storia, sentimento d’arte, vita morale, passione politica, e, senza

pa)

Dal Carducci al Croce

il quale, la filologia, l’erudizione, e tutti gli altri begli studi si riducono soltanto a un esercizio vile di aspiranti a cattedre universitarie. Dove languisce la filosofia, ivi presto o tardi languisce e s’immiserisce la stessa filologia. 2. L’avversione polemica dei giovani alla scuola erudita.

Ma si dice: non potete negare la violenta reazione del neostoricismo contro la vecchia scuola del D’Ancona e del Carducci. Verissimo. La reazione c’é stata, ed @ stata violenta; ma bisogna affrettarsi a tibattere che essa non é stata rivolta contro l’opera dei D’Ancona, dei Carducci, dei Bartoli, dei Comparetti, dei Rajna, che tutti abbiamo riconosciuto incentrata in alcuni vitali principi e miti storiografici, ma contro l’ormai troppo consunta e risecchita filosofia dei loro pit tardi scolari; i quali, a poco a poco, avevano smarrito per via il senso originale dei problemi e delle ricerche, e avevano tramutato la passione degli studi in mestiere: i cattivi scolari, che non mancano mai in ogni scuola, e non mancano specialmente nelle scuole al momento del loro temporale trionfo, i quali, lontani ormai dalle idealita romantiche e risorgimentali, si erano dedicati alla ricerca per la ricerca, la prima che capitasse per le mani, la ricerca per riempire la solita lacuna, non quella che nasce da un’ispirazione interiore, e che predicavano a noi che venivamo su, ragazzi, che bisognava farsi secchi, aridi, obbiettivi, insensibili a ogni tentazione di vita, alle tentazioni della poesia e degli altri valori umani, se si voleva fare opera di scienza esatta e incontestabile. La conoscenza della letteratura dell’argomento, canone che il neostoricismo ha fatto volentieri suo, insistendo sul principio che ogni critica di poesia é implicitamente o esplicitamente storia della critica intorno a quella poesia, cotesta conoscenza della letteratura dell’argomento era diventata negli ultimi fiacchi seguaci del metodo storico una pomposa ed estrinseca bibliografia; da cui si derivava un abito di burbanza giudiziaria contro il malcapitato (e tutti si era un po’ sempre dei malcapitati), il quale quasi sempre, anche nel suo pit. scrupoloso lavoro, aveva dimenticato di consultare un qualche dottissimo libro, di un qualche tedesco, o si era lasciato sfuggire un importantissimo articolo di un qualche Jahrbuch o di una qualche Rundschau o Zeitschrift. Lo studio poi dei testi, che per noi oggi vuol essere il termine supremo di ogni ricerca letteraria, si limitava a una rassegna estrinseca delle opere, fatta nei termini pit convenzionali e tradizionali; e assai lodato era colui che riusciva a non scandalizzare e turbare la pace accademica del lettore, combinando un incontro di frasi in cui luna temperava garbatamente J’altra, o

30

Maestri della vecchia scuola storica

addirittura entrambe si neutralizzavano a vicenda. L’accertamento dei fatti e lesplorazione dei documenti era, infine, spesse volte, un sem-

plice affastellamento di notizie brute, che non servivano al raccoglitore, e non serviranno nemmeno a quel futuro geniale sintetizza-

tore, che ancora non é nato. La disposizione d’animo poi, con cui si

giudicava l’umanita dei grandi, era quella del pigmeo, che trascrive la storia di se stesso e della sua meschinita nelle vicende spirituali di un Tasso, di un Alfieri, o di un Leopardi. Meglio ancora, se invece dei grandi, si poteva tessere la biografia dei minori, degli oscuri o addirittura degli inediti. Nulla di straordinario dunque che i giovani italiani, tra il 1900 e il 1915, cominciassero a sentire fastidio di tutto questo tritume, in cui era andato a finire il grande patrimonio dei vecchi maestri dei primi decenni dell’unita nazionale. Era l’esagerazione propria di tutte le scuole, quando @ esaurita la loro ispirazione originaria; esagerazione di cui oggi, a mente adulta, non ci meravigliamo pit, come di un fenomeno fatale nel suo intrinseco processo, perché, nel caso contrario, dovremmo meravigliarci di fenomeni analoghi di altre scuole e indirizzi, che all’eruditismo puro si son voluti opporre in questi ultimi anni. Dio ci salvi dal di della gloria, e Dio salvi le scuole scientifiche dal diventare greggi facili e celebri di scolari. La troppa euforia scientifica @ sempre segno d’interna decomposizione ideale, e attorno al ’90 i seguaci del metodo storico etano diventati troppo gaudiosi di sé. Soltanto il tormento, il dubbio, l’angoscia di quello che potremo fare domani, pud essere la nostra salute. Gli ‘scolari, quando, alla loro volta, non sanno farsi scolari-maestri, esasperano le sane tendenze dei loro iniziatori, 0 meglio svuotano di ogni umanita quegli insegnamenti cosi cauti e laboriosi nel loro nascere, con |’ebbrezza e |’avidita mediocre degli occupatori, che non conoscono lo sforzo della conquista; dei viziati figliuoli di famiglia, cresciuti nell’abbondanza, che ignorano le lunghe vigilie e i digiuni e le amarezze e le lotte mute, e le perplessita, e le disperazioni dei loro padri, pur oggi vittoriosi. I] malcontento per la degenerazione della scuola erudita era, per altro, gia diffuso tra i maestri stessi e tra gli scolari pit dotati di quella scuola: dal D’Ancona al Carducci, dal Rajna al Barbi, dal Parodi al Rossi, dal Borgognoni al De Lollis, dal Torraca al Percopo, si potrebbero allineare dichiarazioni, confessioni, scatti, propositi di diversione e di rinnovamento, battute di malumore, che stavano a indicare la crisi interna della scuola e il bisogno di idee nuove. E le idee nuove sono venute, non come cancellazione radicale delle migliori tradizioni assodate dall’opera di quei maestri, ma come amplia-

J

Dal Carducci al Croce

mento di orizzonti e assorbimento di nuova linfa. Sicché, se io che esco da una scuola che non @ quella del Carducci e del D’Ancona, oggi, vengo qui, a scrivere del D’Ancona e a tessere l’elogio delVopera sua, non mi sento per questo né uno toccato dalla grazia, né un apostata: né voglio tentare una di quelle conciliazioni accademiche, alle quali mi sento scarsamente inclinato, un po’ per educazione mentale, un po’ per il peso grezzo dello stesso tempera-

mento. I giovani della mia generazione ebbero una riverenza sincera, e, direi, un contrastato amore, per i grandi lavoratori come il D’Ancona, il Carducci, il Comparetti, il Del Lungo, il Rajna, il Vitelli;

e durante il nostro noviziato di studi di nulla pit ci sdegnammo, come di certo ambiguo rispetto di cui alcuni loro tardi e spedati scolari circondavano il loro per noi onorabile esempio. Si veniva in Toscana, per una specie di muto e timido pellegrinaggio, per conoscere da vicino quei maestri: sentirli, meritare la loro attenzione, e possibilmente la loro stima ed amicizia. Se mi é lecito indulgere a tievocazioni personali, ricordo, giovinetto, studente alla Scuola Normale di Pisa, una vivace discussione tra compagni, con conseguenti arrabbiature, per un articolo che si era letto, proprio sul D’Ancona, e precisamente nel « Giornale storico della letteratura italiana », allora considerato la roccaforte della scuola erudita, e un organo che faceva testo nei giudizi di critica. L’articolo era di Rodolfo Renier, il quale riferiva di una raccolta di Scritti danteschi del maestro pisano, e ne riferiva con un tono di sopportazione, come se I’autore, adunando quei suoi scritti fosse un importuno perpetuatore di vecchie fatiche di gioventt. Ristampare lo studio sui Precursori di Dante del 1874? « Ma sul soggetto fu scritto gia tanto, e da tanti, che linteresse é naturalmente scemato ». I] D’Ancona aveva cercato di migliorare l’edizione di quei suoi vecchi saggi, con richiami e note in parentesi quadre? « Ma — rincalzava burbero il Renier — delle parentesi quadre gia notai gli inconvenienti e i pericoli: confronta Giornale, 60, 216-17 », e qui un rimando ad altro suo dotto sermone. « II lavoro, ritengo — continuava imperterrito il recensore — dovrebbesi al di presente riscrivere da capo con ben altra ampiezza ». E non bastava. I] D’Ancona accoglieva nella raccolta quel suo celebre saggio sulla realta storica di Beatrice, che era uscito trionfante dalle avverse tesi sul significato meramente simbolico della donna della Vita Nuova? Ebbene, anche per quello, commentava ironicamente il Renier: «Ce da scommettere che al D’Ancona sembra di aver trionfato, perché oggi nella critica dantesca non si suole pit porre in dubbio lesistenza reale di Beatrice, e dai pit anzi si propende a

a2

=

Maestri della vecchia scuola storica

scorgere in essa la Portinari. Ma é vittoria ben poco allegra, quando si consideri che mai come in questo tempo nostro la narrazione degli amori dell’Alighieri fu considerata spediente d’arte e collegata alle tendenze mistiche e allegoriche della mentalita medievale ». Quasi che gli inconvenienti che una veritd pud generate tra i dilettanti, possano sminuire il valore di una scoperta e di quella verita! Ma il superbioso e inclemente censore cos} continuava: « Mai, pertanto, al pari di oggi, noi fummo lontani dall’interpretazione semplicista del D’Ancona, sicché la ristampa del suo discorso viene ad avere soltanto un valore storico, come di rappresentante di un petiodo della critica dantesca ormai oltrepassato, ovvero, come altri amano dire, superato »'. Superato?! conclamavo io tra i compagni. Questi signori patlano con disprezzo del rinascente esteticume (anche questa frase era del Renier), e poi ci plagiano anche le parole! E sono forse i maestri dell’idealismo che scalzano l’opera dei vecchi studiosi, o non sono i loro scolari stessi, svuotati ormai di fede scientifica, che fanno sentire l’inutilita di un’erudizione muta di pensiero? Precisamente, quello che a noi appariva chiaro era questo: non si trattava negli ultimi rappresentanti del metodo storico di una superiorita di giudizio, che li facesse guardare con pia distanza all’opera invecchiata dei loro iniziatori; cid che é sempre lecito. Si trattava invece di quell’arido scetticismo corrodente, che sopravviene negli “scolari, quando non sanno continuare degnamente l’opera dei loro maestri. Era l’esaurimento della fede scientifica comune, quella fede che aveva portato un tempo il D’Ancona a farsi « de’ cognati e dei dispersi miti Per la selva di Europa indagatore », e ora generava gli sbandamenti, le dispersioni, i compromessi, e quelle tali smorfie d’ironica superiorita, peggiori di ogni sbandamento e diserzione e compromesso stesso. Un nostro compagno, di li a poco, si trovava a discorrere col D’Ancona stesso, a Firenze, di quella sciagurata recensione, e ci riferiva le parole accorate e le impressioni malinconiche dell’ottantenne maestro, su certi successi della sua scuola. E questo caso non restava isolato. Sentivamo dire: Rajna, un

dotto e caro vecchio, ma troppo intestato su quel problema delle fonti dell’Orlando Furioso; ha ragione il collega Cesareo: la fantasia é quella che conta, e l’immaginazione e l’invenzione sono qualita inferiori che possono avere anche gli scrittori di terz’ordine. (II Cesareo aveva scritto un brillante articolo sulla « Nuova Antologia » del 1900 per criticare l’opera del Rajna, utilizzando la famosa distinzione del De Sanctis su fantasia, immaginazione e invenzione, che 1 Cfr. « Giornale

storico », 1913, LXI, pp. 112-13.

ou 4. L. Russo,

La critica letteraria contemporanea

Dal Carducci al Croce

risale alle lezioni zurighesi del 58-59:

si citava il collega Cesareo,

ma non si citava l’aborrito nome del De Sanctis!) — Bartoli: ingegno veramente vivace, ma uomo di passioni politiche un po’ fantastiche, che gli deformavano l’obbiettiva valutazione dei « fatti ».

L’uomo di scienza deve spogliarsi delle sue passioni, e deve lasciar parlare i fatti (quei fatti, in verita, che non parlano mai, se noi non l'interroghiamo!). — Carducci: troppo poeta, troppo letterato, troppo repubblicano, troppo polemista, per poter restare maestro e incommosso maestro di fredde e impassibili ricerche d’archivio o di valutazioni obbiettive. — D’Ancona e Comparetti: editori di testi antichi, cosi alla buona, un po’ grossi, un po’ approssimativi, senza finezza e senza la cautela propria della pit) moderna e pit scaltra filologia. 3. Il mito di D’Ancona nemico della filosofia e dell’estetica.

Con questi insegnamenti, non c’é da sorprendersi che i giovani italiani, tra il 1900 e il 1915, crescessero un po’ discoli e ribelli, e

non volessero pit: saperne di certe cianciafruscole del metodo storico, a cui non credevano pit gli stessi banditori; ma poiché i giovani hanno bisogno di fede, noi lasciavamo da parte gli scribi e i farisei, e, pur presi o infatuati dei padri del nuovo testamento, guardavamo con riverenza commossa anche ai padri del vecchio, e domandavamo di loro e ne leggevamo i libri e cercavamo la loro amicizia ed approvazione. Del D’Ancona ci attirava, per l’appunto, un particolare della sua giovinezza: studente di legge all’Universita di Torino, egli era stato uno degli uditori pit appassionati di un corso sulla Divina Commedia dell’esule De Sanctis. Uditore non solo, ma attento e diligentissimo stenografo. Ed era stato proprio il D’Ancona, che aveva indotto il maestro napoletano a raccogliere quelle sue lezioni in volume, e ne aveva scritto premurosamente all’editore Barbéra. E c’é uno scambio di lettere tra il Barbéra e il D’Ancona,

in cui i due

corrispondenti si esaltano l'uno nelle parole dell’altro, per ammirare a gara la vigoria e la finezza del grande critico napoletano allora all’inizio della sua rivelazione. Il contratto editoriale non fu conchiuso per ragioni, che qui non giova riferire; ma resta il fatto che il giovanissimo D’Ancona fu il fautore, e, per dir cosi, l’editore ideale, se non effettivo, di quei saggi sulla Francesca, su Farinata, su Pier della Vigna, su Ugolino, capolavori della critica del maestro napoletano }. 1 Si vedano le Lettere di GASPERO

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BARBERA tipografo editore (1841-1879),

Maestri della vecchia scuola storica

; Ancora un altro legame di simpatia tra i giovani idealisti del 900 ¢ il vecchio maestro pisano: la sua amicizia per Bertrando Spaventa. Il D’Ancona aveva pubblicato, ancora diciottenne, un saggio su Campanella e si era fatto curatore di scritti dello stilese: Popera di questo giovanissimo appariva gid prodigiosa di erudizione, e l’autore novizio ebbe lodi da tutte le parti. Un solo stroncatore, ma assai autorevole, che valeva tutti gli altri lodatori: Bertrando Spaventa. Letta la stroncatura sul « Cimento » di Torino, il giovane D’Ancona non se ne amareggiava e non se ne irritava. Saliva a un quarto piano, a una soffitta, dove abitava il filosofo napoletano, e gli portava lomaggio della sua ammirazione e il riconoscimento della giustezza delle sue critiche, con quel senso dei propri limiti che manca nei deboli ed @ invece caratteristica delle nature vigorose, appunto

perché sicure di una loro forza e di una loro originalita’. E se passavamo dall’eta pit antica alla moderna, leggevamo nelle pagine dei maestri dell’idealismo contemporaneo o parole di affettuosa riverenza per il D’Ancona, 0 riconoscimenti sobri ma decisi e fermi. Il Croce stesso che batteva, il pit implacabile, contro le degenerazioni della scuola storica e contro le grettezze di giudizio di alcuni suoi illustri rappresentanti, si arrestava davanti al D’Ancona, e, pur segnando i limiti dell’opera sua, ne proponeva agli altri eruditi lesemplare continenza critica: « Ma il D’Ancona col suo robusto buon

senso si tiene rigorosamente,

e quasi direi superbamente, nei

confini del suo tema, che non confonde con quelli dell’arte e della filosofia » *. E leggevamo poi in un volume del Gentile, Scuola e filosofia, alcuni ricordi dei suoi anni normalistici, e in quelle pagine ancora grandeggiava, in forma bonaria ed arguta, la figura del maestro pisano: « L’avevo gia udito la mattina alla lezione dell’universita, e m’era cresciuta la riverenza per lui. Sicché, quando gli fui dinanzi, mentre parlava quasi non osavo alzare gli occhi. E ogni sua parola, detta con l’accento di franchezza cordiale che il vecchio maestro sapeva, trovava diritta la via del cuore. Non mi ricordo precisamente che mi dicesse: certo uscii dalla Direzione con un vivissimo

desiderio di meritarmi l’approvazione, la stima di quel maestro, con una gran fede nella sua opera; e ne scrissi quel giorno stesso, con eratitudine, al mio professore del liceo, che mi aveva indotto a con-

pubblicate dai figli con prefazione di A. d’Ancona (Firenze, Barbera, 1917), alle pp. 219-20, 224, 225-26. Il D’Ancona pubblico lo stesso il saggio su Pier della Vigna nello « Spettatore », n. 23, 8 luglio 1855. 1 Cfr. G. SFORZA, Commemorazione di A. d’Ancona, « Memorie dell’Accademia delle Scienze di Torino », serie II, vol. LXV, p. 6. 2 La letteratura della nuova Italia, Ill, p. 384.

BS)

2 ee Dal Carducci al Croce

cotrere per la Scuola Normale ». Né ci dispiaceva l’intransigenza antifilosofica, che veniva fuori come una nota del D’Ancona da quelle pagine del Gentile: « Un giorno mi disse che egli non sapeva concepire altri studi filosofici serii, che quelli di storia della filosofia: che dopo Platone e Aristotele non c’era pit nulla da inventare; infatti tutta la storia da allora non aveva fatto altro che ripetere ora l’'uno ora l’altro di quei due opposti sistemi, i quali avevan descritto fondo all’universo ». Anche la famosa esclamazione « ecco un’altra anima perduta », che il maestro pisano avrebbe pronunziato per un valente scolaro, che al terzo anno si era volto dagli studi letterari agli studi filosofici (e quell’anima perduta, a farlo apposta, doveva essere il Gentile stesso), era diventata simpaticamente proverbiale in mezzo a noi giovani studenti: verso il 1910, per iniziarci agli studi di critica letteraria o altro, tutti allora leggevamo libri di estetica e di filosofia, e ci consideravamo spavaldamente « anime perdute ». Ma la frase dell’antico maestro ci veniva innanzi, non come simbolo degli errori profetici dei maestri, quando vogliono sentenziare troppo sull’ingegno sempre ricco di sorprese, buone o cattive, degli scolari, ma piuttosto quale indizio della sua robusta fede e della sua sollecitudine d’insegnante. Soltanto i maestri pigri e lassi lasciano girovagare per diversi salti il petulco redo, mentre la loro liberalita é spesse volte egoistica indifferenza o inopia mentale. La battuta del D’Ancona la si sentiva invece come testimonianza di quel generoso acco-

ramento, che prende sempre i veri maestri, dubbiosi degli smarrimenti dei seguaci; per quella sollecita cura che i padri hanno per il cammino dei propri figliuoli, e i quali, per la prepotenza stessa delVaffetto, vorrebbero intervenire nelle risoluzioni pit importanti della loro vita, e sono sempre combattuti tra la speranza e il timore, e si lasciano andare a tentazione di invadenza. E Alessandro d’Ancona era per l’appunto, per concorde testimonianza di scolari, uno di questi

maestri paterni.

4. Il D’Ancona e la sua partecipazione alle lotte del Risorgimento.

Ancora un ultimo tratto completava bellamente la fisonomia del D’Ancona ai nostri occhi giovanili: egli era stato non solo giornalista per la causa della Rivoluzione e dell’Unita nazionale, uno dei fondatori e direttore del giornale « La Nazione », agli ordini e secondo Pispirazione di Bettino Ricasoli; ma, ancora ragazzo, era stato prescelto dalla sorte a rappresentare la Toscana liberale a Torino, per Pomaggio di un busto al Cavour e di una spada al Lamarmora. Sotto il busto del Cavour, i Toscani avevano voluto scrivere un’epigrafe dantesca: « Colui che la difese a viso aperto ». « Era una mattina

36

Maestri della vecchia scuola storica

dinverno molto di buon’ora — egli racconta in una sua lettera a Giovanni Sforza — quando col Farini e col Vela, salii le scale del suo palazzo. Con esso era anche il Lamarmora, al quale doveva offrire una spada... Al Cavour e al Lamarmora consegnai le liste dei soscrittori toscani, e rammento

bene che il Cavour le sciolse e si

fermd sul nome di Bastogi, che a quei tempi poteva dirsi il finanziere del Granduca. Poi mi domandd, quando i tempi e gli eventi mutassero, su quale uomo si poteva fare conto in Toscana, e io gli risposi subito: su Bettino Ricasoli. E poi chi altro ancora? Su Ubaldino Peruzzi. Gli ricordai anche il nome del Salvagnoli, che aveva suggerito l’appropriata epigrafe. Altro non rammento, se non che da quell’alba invernale data la mia conoscenza col gran Conte » !. Pochi anni dopo, il Cavour, che accompagnava Vittorio Emanuele, era accolto alla stazione di Firenze in mezzo all’alta cittadinanza officiale, anche dal D’Ancona, direttore ventiquattrenne del giornale « La Nazione »; e al Cavour dovette riuscir caro scorgere un viso gid cono-

sciuto — scrive il D’Ancona in alcune sue memorie — « sicché si mosse dal suo luogo e venne a me stringendomi caldamente la mano, e dicendomi quanto era contento di rivedermi in tale occasione ». E il D’Ancona, con arguta umilta, aggiunge: « Non rammento bene quello che rispondessi, ma dovette essere qualcosa come il famoso: Si figuri del sarto manzoniano, né mi riesce immaginare una diversa risposta. In cid dissimile dal personaggio del romanzo al quale, rimettendosi col pensiero in quelle circostanze, venivano in mente, quasi per dispetto, parole che tutte sarebbero state meglio di quell’insulso ‘ Si figuri’ »*. Si badi alla finezza della distinzione: un D’Ancona, imbrogliato davanti al gran Conte e che avesse sentito dispetto del suo impaccio, sarebbe stato una di quelle comparse delle cerimonie ufficiali, sempre preoccupate di un loro mediocre successo personale. Ma, in quell’incontro non erano in giuoco le persone, non si trattava nemmeno dell’imbarazzante presenza di un grande ministro, non c’erano né Cavour né Vittorio, e la cittadinanza ufficiale, in quella mediocre stazione granducale di Firenze, ma c’era I’Italia ‘stessa che si faceva una, un fantasma che soggiogava le menti e gli animi di tutti e tagliava corto ai convenevoli, e mozzava le parole sulle labbra. 5. Il D’Ancona uomo e studioso « risorgimentale ». Ho detto che la sorte aveva prescelto il D’Ancona, ancora ragazzo, a rappresentare la Toscana liberale e unitaria a Torino. Ma 1 Cfr. SFORZA, Commemorazione 2 Cfr. Pagine sparse, p. 314.

cit., p. 2.

ey

Dal Carducci al Croce

la sorte, checché ne dicano gli uomini, @ sempre intelligente; e la sorte era niente altro che la stessa vocazione elettiva di quello studente di leggi, che aveva lasciato la Toscana per studiare a Torino, dove allora era adunato il cuore e la mente di tutta la nazione sparsa. Il primo lavoro storico, anteriore alla stessa edizione delle Opere scelte del Campanella, é la pubblicazione delle Memorie di Toscani alla guerra del 1848, curata insieme con Mariano d’Ayala. Siamo nel 1853. Si comincia a delineare nel ragazzo la fisonomia dell’uomo e dello studioso, quale sara negli anni adulti: l’attivita del D’Ancona, io la direi, per l’appunto, di un uomo risorgimentale, e tutto il pensiero che confluisce in quel grande movimento nazionale, pensiero storiografico e politico, é riflesso anche nella pit arida delle sue memorie erudite. Lo spirito del Risorgimento nell’opera sua, lo dico subito, vi é, non come

apparato retorico,

e nemmeno

come

effusione

sentimen-

tale, che interrompa di tratto in tratto l’esposizione delle sue ricerche, ma vi scorre come animus segreto che complette in una rigorosa unita le pit disparate indagini. Scrisse il D’Ancona una volta: « La prima ventura che mi @ stata concessa, e della quale giorno per giorno, ora per ora, ringrazio la Provvidenza, é l’esser nato e vissuto

nei tempi del Risorgimento italiano ». Ebbene il Risorgimento italiano non solo diede il suggello ai sentimenti del cittadino fino agli ultimi anni della sua vita, ma anche dié il suggello a tutta lattivita dello storico e dell’erudito. Prendete i suoi studi sulla Poesia popolare italiana pubblicati nel ’78, e quelli sulle Sacre rappresentazioni del 1873, a cui fa seguito nel ’77 l’opera sulle Origini del Teatro in Italia: tutti insieme, preceduti, fin dal 1858, da alcuni sparsi articoli, cominciati a scrivere sotto l’ispirazione di Costantino Nigra. Non si tratta soltanto della insistenza sistematica di tali studi, che fanno sentire subito la tempra scientifica nemica di ogni dispersione dilettantesca; ma é Vispirazione prima del lavoro, che é tipicamente romantica e risorgimentale. Protagonista di quei lavori é il popolo, e il popolo non pit fantasma generico di un appello o di una qualche formula politica, ma il popolo nella particolarita delle sue formazioni storiche, delle sue tradizioni, dei suoi costumi, dei suoi sentimenti, delle sue disposizioni, delle sue attitudini e delle sue varie idiosincrasie. Quella ricerca erudita della letteratura popolare, novellistica o drammatica, non era fine a se stessa, non era erudizione sconnessa e senza pensiero; ma finiva con I’essere, inavvertitamente, una battaglia politica. Tutto il movimento europeo

sulle letterature popolari era una reazione all’astratto razionalismo e all’illuminismo settecentesco, che favoleggiava di uno spirito gene-

38

Maestri della vecchia scuola storica

rico e universalistico, vuoto perd di quella sostanziale umanita, che viene sempre dall’individuo e dalle individualita regionali e nazionali. Lo studio delle letterature popolari era un contributo alla formazione

e alla rivelazione delle nazioni nella loro concretezza,

al

disotto e al disopra di ogni astratta unita principesca, che venisse suggerita dall’alto. Non l’unita di un principato, quale poteva essere auspicato dalla mente di un Machiavelli nel ’500, si cercava pit nel secolo XIX, ma l’unita della nazione; e il protagonista di questa unita non poteva pit essere il principe, ma il popolo stesso e il principe in quanto popolo. Da cid la necessita di raccontare i fasti di questo popolo, anche i fasti della sua fantasia ingenua, e raccogliere le sue novelline e le sue poesiole, e studiare le sue laudi, e ricostruire anche il suo rozzo ma suggestivo teatro nel suo regolare sviluppo. Da cid l’entusiasmo dei cercatori della letteratura popolare, dal Nigra al D’Ancona, dal Pitré al Comparetti, e per la quale questi insigni italiani riuscivano ad affiatare la cultura del loro paese con quella che era la generale cultura europea. L’Italia, ricostituita recentemente ad unita, nel momento stesso in cui le sue regioni si unificavano, acquistava una coscienza riflessa, storica e letteraria, della differenza e varieta delle sue tradizioni regionali. Il riconoscimento della nostra versatile ricchezza regionale finiva con l’essere incremento, non ostacolo, all’unita politica, appunto perché dominato con visione storica 0 poetica: per quella legge intima del progresso che si attua sempre pit rigoglioso 14 dove l’unita nasce non dall’uniformita, ma da una pit ricca diversita di tendenze, e dalla coscienza critica di cotesta diversita. Fu quello anche il periodo della grande poesia dialettale italiana e del verismo provinciale, poiché I’Italia, fatta nazionale, amava bagnarsi, rinfrescarsi e ritemprarsi nelle sue eterne scaturigini della provincia. 6.

Le teorie storiche del D’Ancona.

Oggi noi possiamo discutere sulle teorie particolari che il D’Ancona emise in quei suoi lavori, e possiamo respingere alcune di coteste tesi, come quella della monogenesi del canto lirico monostrofico, sparsosi dalla Sicilia in tutta la penisola; @ mutata oggi la visione storica, ma é mutata in forza e per impulso di quella stessa teorica danconiana, che noi oggi chiamiamo pregiudizio. La poesia popolare, come canto monostrofico, non nasce in Sicilia ma nasce dappertutto; non c’é emigrazione poetica da una regione allaltra, alla stessa guisa che il volgare, il neolatino che si disse lingua italiana, non nasce né in Toscana, né in Sicilia, né a Bologna, né nell’Umbria, ma nasce in ogni regione, citta e comune, dove c’é un temperamento

oy

ai ire) ye



re

Dal Carducci al Croce

di scrittore, che sappia nobilitare, aulicizzare, raffinare il nativo dialetto parlato, avviando e favorendo V’ideale di quella lingua illustre, aulica e cortigiana, che fu l’ideale, non soltanto teorico, di Dante. Noi oggi possiamo trovare a ridire sulla concezione, di tipo

darwiniano, che c’é in queste ricerche storiche del D’Ancona, e possiamo trovare un po’ curiose alcune immagini che ci richiamano alla cultura e al gusto del tempo; perd non riusciamo a sorriderne troppo. Il passaggio dalla sestina della lauda a quella della devozione viene presentato e assimilato, per esempio, allo sviluppo della rana dal girino, e il tetrastico della poesia popolare é detto e supposto il protoplasma dell’ottava e delle altre forme metriche della lirica popolare o dotta. Rana, girino, protoplasma, ne conveniamo, sono parolette oggi piuttosto antiquate; ma antiquate alla pari degli abiti dei nostri nonni e delle nostre nonne, che perd rivestivano non ombre e manichini, ma corpi e animatissimi e talvolta anche bei corpi. Sta di fatto che il D’Ancona seppe intrecciare la prima storia rigorosamente scientifica del nascere e dello svilupparsi della poesia popolare e del dramma sacro, e del diffondersi di questo dramma liturgico e ampliarsi e arricchirsi da una regione all’altra, fino alla forma matura della rappresentazione sacra. Il D’Ancona ha illustrato magistralmente le ragioni politiche e religiose e letterarie dello sviluppo e della decadenza di tutte queste produzioni; e per tali suoi studi, egli ha preso posto fra i primi filologi e storici dell’Europa a lui contemporanea. E quel che @ venuto dopo, fino ai lavori del De Bartholomaeis, @ tutta una irradiazione e sviluppo di quelle sue dotte e allora assai pit: aspre fatiche. Quel che si dice sugli studi della poesia popolare e sulle rappresentazioni sacre, va ripetuto per le sue ricerche sulla letteratura dei secoli pit. antichi. Al D’Ancona si devono i primi saggi pit illuminati su Jacopone, su Cheli d’Alcamo', su Cecco Angiolieri, su Con1 Sctivo Cheli d’Alcamo, e non Cielo, perché congetturo che Cheli (cioa, Michele) fosse il nome del poeta del Contrasto: Cheli che in alcune province siciliane é palatalizzato in Celi (come c’é chidngiri e cidngiri, piangere, chiano e ciano, piano) che poi il copista toscano avrebbe ridotto in Cielo. Quanto a Ciullo, ormai non se ne discorre pit: Ciwllo saltd fuori da una infelice lettura di un manoscritto del Colocci, un filologo cinquecentista, e lo si fece derivare arbitrariamente da Vincezullo, e dalla sua forma abbreviativa ’Nzulo. In Sicilia, in Calabria e altrove é frequentissimo il cognome di Miceli (genitivo patronimico di Michele), e nelle campagne si dice Cheli per Michele. In una novella del Verga di Vagabondaggio c’é un personaggio, detto zio Cheli. Fu leggendo Verga, che mi balend questa congettura su. Cielo d’Alcamo. Come si vede anche i deprecati studi di letteratura moderna servono qualche volta e intendere anche i testi antichi! (1936).

40

Maestri della vecchia scuola storica

venevole da Prato. Diceva Machiavelli che, quando le nazioni si altetano, bisogna saperle ridurre « inverso i principt loro »; la nazione italiana, dopo il 1860, non si alterava ma nasceva nuovissima come nazione proprio allora, e dal punto di vista scientifico essa, nel campo della storia letteraria, viveva di rendita sulle ricerche dei grandi eruditi del ’700. Bisognava percid rinvigorirla, ringagliardirla, indagandone, come letteratura, i suoi monumenti pit antichi, tischiarando con nuove ricerche i secoli pit: oscuri, creandole, come dicevo innanzi, il suo blasone di nobilta. Da cid l’assidua cura prestata dai nostri filologi ai vari problemi delle origini; e il D’Ancona,

in questo

campo,

fu maestro

e iniziatore

per

tutti. Erano,

quelle sue ricerche, dominate bensi dal motivo del popolarismo e del primitivismo, conforme al canone della storiografia romantica che, con risentimento di motivi dell’estetica vichiana, avvertiva sempre nelle espressioni pit vive e pit fresche della letteratura la voce del popolo, la sua ingenuita, la sua vena spontanea di poesia; Jacopone riusciva, in tal modo, un poeta di popolo, un giullare di Dio; e Cheli d’Alcamo, con la sua Rosa fresca, era contrapposto alla poesia lambiccata e accademica dei poeti della corte sveva; e Cecco Angiolieri riassumeva le correnti del realismo popolare largamente diffuso in Toscana. Oggi si intende a dar valore piuttosto all’ispirazione dotta di parecchia di quella letteratura, e non basta pit questo ' mito della genesi popolaresca e del primitivismo: l’influenza della cultura dei clerici & visibilissima nel laudario jacoponico, e Jacopone é un poeta-teologo,

altro che poeta laico, poeta dottissimo,

e sia

pure con un vigoroso temperamento popolaresco di lottatore, e Dizzoccone, come egli stesso amava chiamarsi; e Cheli d’Alcamo, nella giovanile e fresca malizia del suo Contrasto, in quel siculo-napoletano illustre che egli scrive, intesse numerosi provenzalismi, francesismi e latinismi, che fanno di lui un poeta, diverso certamente dai rimatori provenzaleggianti della corte di Federico, ma diverso per felice vocazione del suo temperamento, egualmente addottrinato nell’ars dictandi del tempo, ma artisticamente meglio dotato; e non gia diverso e pit: fresco per questa sua mitica origine popolare. E mutata

l’interpretazione

storica

nei nostri

tempi,

perché

é

mutata l’estetica ispiratrice dei nostri giudizi: non pit: un’estetica ma una estetica dell ingedi natura, del’? ingenuita nuita di conquista, l’estetica che fa posto a una verginitd poetica ma riscattata attraverso la contaminazione della cultura pit: diversa. L’opera d’arte, qualunque sia il suo valore, nasce sempre da una esperienza bastarda e peccatrice di vita e di cultura, enon da una semplice primitiva e insulsa

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Dal Carducci al Croce

innocenza della fantasia. Cosi all’estetica un po’ mitologica che favoleggiava di un anonimo e generico popolo poetante, si ¢ venuta sostituendo un’estetica pit realistica, che tende sempre all’individuazione del singolo poeta poetante, e a riconoscere il suo personale ‘sforzo creativo. 7. La filologia, Verudizione e gli insegnamenti morali del D’ Ancona.

Ma, a parte questa linea storica dei giudizi oggi mutata, quale e quanta, sana, soda esauriente filologia dei particolari in quei saggi del D’Ancona! Quistioni cronologiche, il nome e l’essere del poeta, interpretazioni del testo, osservazioni sulla lingua antica, chiarimenti di battute storiche, di-allusioni od altro, tutto vi é mirabilmente vagliato, e le congetture stravaganti dissipate; sicché ancora oggi si attinge a quei saggi e si lavora sul materiale offerto da quei saggi, sia pure per un maggiore affinamento critico, ma senza mai distaccarsene indifferentemente o negativamente: cid che é il maggiore omaggio che si possa rendere a indagini gia vecchie di sessanta o settant’anni. Del resto, quel mito del popolarismo, a cui fu sempre fedele il D’Ancona, conferma la coerenza della sua filosofia, e la caratteristica che di lui davamo, testé, come di studioso uscito dalla rivoluzione romantica e risorgimentale. Tale caratteristica noi vediamo confermata nelle posteriori ricerche, anche quelle che possono parere un « fuori d’opera », un semplice spasso del ricercatore, utilizzatore ormai pacifico di una tecnica esplorativa di archivi e di vecchie carte. Voglio alludere ai suoi saggi su Viaggiatori e Avventurieri, e all’ultimo suo volume, pubblicato postumo, su Scipione Piattoli e la Polonia; ma proprio in quelle ricerche, apparentemente estravaganti, si palesava pit: aperto il suo spirito risorgimentale. Le indagini sugli avventurieri e viaggiatori italiani dal ’500 all’’800 erano una specie di preistoria di quelle altre pit generose, pit onorevoli, e pit: idealistiche avventure mazziniane, garibaldine, giobertiane, cavourriane, che dovevano portare all’unificazione della penisola. Le vicende di cotesti spiriti irtequieti che vanno dal Rucellai al Locatelli, al Pignata-Vitali, al Casanova, al Boetti, al Malaspina, fino a Scipione Piattoli, dal D’Ancona identificato nella figura dell’abate Mario di Guerra e Pace di Tolstoi, si colorivano davanti alla fantasia dell’erudito come la storia di quella « virtt' » estetica, machiavellica, ancora alla sua fase egoistica e barbarica, ingegnosa, la virtt grande delle membra, del singolo, di cui aveva parlato il Segretario fiorentino, la quale, imbattendosi e creandosi un contenuto storico organico, virile, di valore universale, avrebbe saputo compiere il miracolo del risorgimento nazionale. E questa non é un’interpretazione industriosa nostra di cti-

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Maestri della vecchia scuola storica

tici, preoccupati di ritrovare l’unita di cosi varia e apparentemente dispersa operosita scientifica, ma @ l’animus dichiaratamente espresso dall’autore stesso. Raccogliendo negli ultimi anni della sua vita tutte quelle sue ricerche in volumi miscellanei, il D’Ancona lamentava di non avere pit. ormai la capacita di riesporre e di riordinare « cosi vasta materia », e lumeggiava il suo disegno con queste parole: « L’altro disegno era di trattare degli avventurieri italiani, buoni o tei, che nel secolo xvi invasero, pud dirsi, tutta "Europa e ad ogni modo porgevano indizio di una nuova energica operosita, la quale, impedita in patria, si esercitava fuori di questa. Anche tale disegno restO in tronco, ma se la vita mi duri non dispero di condurre a termine la narrazione dei casi di uno fra essi, che pud annoverarsi fra gli avventurieri onorati: di Scipione Piattoli, fautore e vindice di liberta e indipendenza in Polonia ». Possiamo dire che gli ultimi tre decenni della vita del D’Ancona sono tutti rivolti alla storia diretta o indiretta del Risorgimento italiano: come sempre, le passioni della prima giovinezza si fanno pit patetiche, pit esclusive, nell’attivita dell’uomo al tramonto, con quella trepidazione un po’ angosciata perché si riesca a fissare le linee di quel sogno, col quale ci si é svegliati alla vita mentale e alla vita civile. Nel 1883, viene fuori la prima serie delle Varieta storiche e letterarie, dove, fra l’altro, & accolto uno studio su Giacinto Provana di Collegno; sono del 18961907 la pubblicazione e Villustrazione del carteggio di Michele Amari, in cui nella biografia morale dello storico siciliano, il D’Ancona sembra trascrivere le stesse vicende interne del suo sentimento e delle sue aspirazioni: del 1898 @ il bel libro su Federico Confalonieri; dal 1902 in poi sono stati redatti i vari saggi, i pit interessanti _ e appassionati per noi, raccolti nel volume Ricordi storici del Risorgimento italiano. A quegli stessi anni risalgono gli studi dell’altro volume Memorie e documenti di storia italiana dei secoli XVIII e XIX, e del volume Pagine sparse di letteratura e di storia. Poiché, con l’avvento delle Sinistre, egli dubito che I’Italia smarrisse la sanita delle sue originarie tradizioni liberali e conservatrici, e allora egli corse ai ripari, richiamando alla memoria i fasti dell’epopea umile e alta della unificazione della penisola. Forse si @ prestata poca attenzione a tali saggi degli ultimi tre decenni, probabilmente perché il grosso pubblico degli studiosi considerava ormai gid definito e chiuso il ciclo dell’attivita danconiana. A parte la ricchezza sempre originale delle notizie e delle esplorazioni di carte inedite, questi studi hanno un merito: quello di venire elevando la storia del Risorgimento da storia aneddotica a storia complessa di valori, e Valtro, di ritirare la genesi di quel

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Dal Carducci al Croce

periodo storico fin nel secolo xvi. Cid che € ora un canone pacifico della nostra storiografia. Per questa parte, il D’Ancona era un po iniziatore, e un po’ si metteva al passo dei nuovi indirizzi: in un pe-_ tiodo in cui pareva ancora poco scientifico occuparsi di storia quasi .

.

>

contemporanea, il D’Ancona provd con |’esempio che si pud fare della scienza su materia ancora viva di passioni e, se non si volse allo studio della letteratura contemporanea per la quale i suoi interessi erano stati sempre assai fievoli, con alacrita giovanile si diede a ticerche sui recenti avvenimenti politici della storia nazionale. C’é una frase, in uno dei suoi ultimi volumi, che ci colpisce: « Chi si & cibato una volta di politica, se ne cibera ancora, sebbene ne abbia provate le amarezze »'. Una frase che illumina tutta la sua attivita scientifica, la quale era sempre stata in ogni momento manifestamente o inavvertitamente politica; politica non nel senso spicciolo, ma in quell’altro significato trascendentale, e che non pud mai mancare di esserci negli uomini profondamente operosi. Un erudito puro, come un esteta puro, come tutti gli uomini puri di questo mondo, non possono essere maestri veri; il D’Ancona fu maestro e continua ad esserlo anche ora, appunto perché ebbe una robusta unita nei suoi interessi mentali; senza unita morale, non c’é insegnamento o dottrina che valga. Cosi possiamo spiegarci come egli potesse trapassare agilmente da questa politica trascendentale dei suoi studi all’altra politica militante di amministratore quotidiano della cosa pubblica. Oltre che direttore della Scuola Normale, e per lunghi anni, fu egli, sindaco, nel 1906-1907, di Pisa, sua citta natia, a

cui fu fortemente affezionato. Io non ho la competenza per parlare delle virti: amministrative dell’uomo; ricorderd solo un gesto, che @ nella memoria di tutti: la sua famosa visita all’arcivescovo Maffi, che ritornava da Roma insignito della porpora cardinalizia. Quel suo gesto piacque allora ad una parte della cittadinanza, ma dispiacque violentemente ad altri; e il D’Ancona ebbe improperi e tempeste di dimostrazioni ostili. Lui, laicissimo di educazione, lui israelita, lui il compagno di combattimento di Giosué Carducci, fu gridato il sindaco clericale. Sono le disavventure che capitano ai galantuomini per le loro azioni disintetessate e nobilmente imparziali, le disavventure che capitarono a Renzo Tramaglino, il quale, per avere consigliato moderazione nel tumulto di Milano, passd per poco di buono e per uno scampaforche. Ricordo questo gesto, non perché oggi potrebbe essere troppo facilmente applaudito, ma quale segno di una moderazione aristocra1 Cfr. Scipione Piattoli e la Polonia, Barbéra, 1915, p. 150.

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Maestri della vecchia scuola storica

tica, superiore ad ogni settarismo. Il D’Ancona voleva rendere omaggio, come egli scrisse, ad un uomo « persona gentilissima e coltissima », amato « per luce di mente e mitezza d’animo », « fisico e direttore autorevole di un periodico di scienze fisiche »; gli rendeva omaggio, perché come egli aggiungeva in quel suo commento alVepisodio, « un tempo si obbligava a credere, non devesi ora obbligare a non credere », e lui che usciva da una razza « un giorno perseguitata » non voleva «a sua volta diventare persecutore »?. Parole di una grande temperanza morale, e gesto il suo di un uomo,

che non si arrende passivamente alla credula pazzia dei volghi; ebbene anche per questo in Alessandro d’Ancona, cosi lontano da noi per una certa sua arida arguzia e un apparente scetticismo di semita lucido e smagato, noi sentiamo e riveriamo un maestro.

1935

1 Cfr. Ricordi ed affetti, Milano, Treves,

1908, pp. 126-136.

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III.

Michele Barbi e la nuova filologia ’

1. Il Barbi filologo nato.

Il primo grosso libro, con il quale Michele Barbi esordi nel campo degli studi, @ la sua tesi di laurea, pubblicata negli « Annali » di questa scuola, nel 1890. Argomento: la fortuna di Dante, uno di quei temi allora di moda, che furono in voga a un dipresso ancora fino al 1914, quando si sostituirono con ricerche sulla storia del problema critico pit propriamente detto. La fortuna di uno scrittore

attraverso i tempi cominciava ad apparire una semplice ricerca di curiosita erudita, di notizie estrinseche, rassegna di edizioni, elenco di traduzioni, centone delle opinioni e dei giudizi che in un dato secolo o in un dato paese erano sorti e venivano circolando intorno all’opera di uno scrittore: aneddotica lettetaria, pit che vera storia. Ma se il Barbi nel 1889, quando lavorava a quella tesi, si fosse limitato anche lui a condurre la trattazione nella maniera estrinseca, consueta a parecchi studiosi del suo tempo, egli sarebbe stato uno del gregge, e la iniziale passivita mentale del novizio sarebbe stata di pessimo augurio per tutta la sua successiva carriera mentale. Mentre siamo persuasi che un maestro diventa tale negli anni suoi adulti, se fin dai lavori della sua primissima giovinezza é gid nato maestro a se stesso e denuncia, sin dalle prime prove, una sua originalita di vedute e una vocazione istintiva verso un determinato gruppo di problemi, che poi, con la mente tutta spiegata, resteranno i cardini di tutta la sua vita e della sua operosita avvenire. Uomini con la mente scientifica, di solito, si nasce a vent’anni, e gli anni posteriori non fanno che approfondire quell’area di interessi, che rapidamente si & venuta tracciando dai venti ai trenta. Orbene in quel libro sulla Fortuna di Dante ci colpisce il precoce interesse per la storia del testo critico delle varie opere di Dante: niente divagazioni sulla fortuna esteriore, niente frondosa e inganne, Discorso letto nella commemorazione Superiore di Pisa il 28 maggio 1942.

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tenuta presso la R. Scuola Normale

Michele Barbi e la nuova filologia

vole bibliografia, niente miscellanea di giudizi, quelli che i vari let-

terati cinquecenteschi pronunciarono su Dante e su Petrarca (anche

su questo punto, il Barbi portd un interesse di natura pid storica e meno di curiosita pettegola), ma rigorosa discriminazione di cid che in codesto secolo decimo sesto si compié per la divulgazione editoriale delle opere dantesche. Il capitolo terzo del volume si apre con questa proposizione:

Prima cura di chi si fa ad esporre l’opera di un antico scrittore, deve essere quella di ridurne il testo a quella forma, in cui fu pit probabilmente lasciato dall’autore. La Divina Commedia aveva, in centocinquanta anni che era corsa per le mani degli studiosi manoscritta, ricevuto molti guasti; e gia fino dall’eta di Coluccio Salutati riusciva impossibile trovare del poema dantesco un esemplare corretto.

Seguiva a queste parole un’attenta classificazione dei manoscritti e delle stampe cinquecentesche, con richiami alla precedente tradizione, proprio quella stessa che gli editori critici del nostro Novecento hanno dovuto tutte le volte riprendere e rinnovare, preludendo a edizioni delle opere di Dante: Borghini, Bembo, Manuzio, Boccaccio interpreti o possessori di codici danteschi, editori o trascrittori, intrecciano il loro animato colloquio nelle pagine di questo lungo capitolo che costituisce il nodo centrale del volume. Colla pratica dei manoscritti — osservava il Barbi — s’andava formando in molti la convinzione che un’edizione corretta e fedele della Commedia di Dante non si potesse avere senza una larga esplorazione di codici; poiché un manoscritto del tutto senza errori non si trovava, né era da fidarsi dell’antiche stampe, fatte ordinariamente esemplando il primo codice venuto alle mani.

Anche questa @ una proposizione apparentemente semplice, che pareva riecheggiasse i bisogni della comune filologia del tempo: ma pure si badi a quella « larga esplorazione di codici », e si badi a quella diffidenza per quel « un solo manoscritto senza errori », su cui esemplare la stampa di un testo. C’era implicitamente una conversione di metodo, per cui il Barbi doveva essere pit: tardi riconosciuto maestro di una nuova filologia, diversa da quella allora trionfante del Monaci, del D’Ancona, e, con temperamenti di maggior finezza, dello stesso Rajna. Tre anni dopo, nel 1893, il Barbi (aveva allora 25 anni), pubblicava un lungo saggio Sugli studi danteschi e il loro avvenire in Italia, nel « Giornale dantesco » del Passetini, dove enunciava ancora pit esplicitamente il canone di questa sua nuova filologia. Contro il parere dei maestri che predicavano la eccellenza del metodo meccanico, perché il pit obbiettivo, escludendo che si potessero contaminare tra loro tradizioni di codici diversi

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Dal Carducci al Croce

e che l’editore si dovesse limitare soltanto a riprodurre l'unico testo pitt attendibile, e a rispettarne tutte le peculiarita, il Barbi opponeva che quello non era fare l’edizione critica, ma apprestare solo il materiale di un’edizione critica, di cui veniva lasciato arbitro il lettore, perché trascegliesse tra le varianti quella che pit gli tornava comodo e grado. L’« omai per me ti ciba» di Dante non andava bene per la critica letteraria, per la quale non bastava segnare una astratta caratteristica di un’opera d’arte, ma pur bisognava cogliere i punti essenziali, poetici, di quell’opera, in una sia pur rapida analisi; ma non andava bene per la stessa filologia, perché anche la filologia vuole e deve affermare la soggettivita della mente dello studioso, il quale s’impegna proprio lui a ricostruire il testo e non lo lascia ricostruire al lettore, sempre assai meno preparato di lui. La filologia non poteva essere pura attivita diplomatica, ma implicava responsabilita critica, non per la scelta di un codice fatta una volta per tutte, ma per la sceverazione di ogni frase, paragrafo, pagina: e perd essa esigeva un lavoro lento di ricostruzione. L’editore ctitico trasceglie non solo i manoscritti pit: autorevoli, ma anche le parti di essi che meglio possano integrare le lacune e i guasti e le scorrezioni di altri manoscritti. Per il Decameron si era per tanto tempo seguito il codice di Amaretto Mannelli; poi si era scoperto che un codice Hamilton di Berlino poteva essere ritenuto piu autorevole. Ed ecco che il solito filologo meccanico si da a riprodurre la lezione di quest’altro codice, senza darsi pensiero, se non in una rassegna di varianti, di quello che pud essere stato il contributo di una diversa tradizione. Scriveva fin da quel lontano 1893 il Barbi: Alcuni reputando impossibile allo studioso moderno riconoscere con sicu-— rezza la lezione fedele in mezzo alle molte varianti dovute all’arbitrio dei copisti, credono che l’opera dell’editore di testi antichi si debba limitare alla riproduzione del codice che dopo accurati confronti paia pit: autorevole, recando in nota le varianti degli altri. Ma questo non é dare il testo critico di un’opera, si bene preparate il materiale per la critica del testo; e la scelta della lezione che ha in suo favore pit: forti ragioni diplomatiche o storiche non deve essere lasciata al lettore, il quale non potrebbe farla senza molto studio preparatorio, ma é ufficio di chi prepara la stampa.

Proposizioni queste di sapore eretico nel 1893, e che pur sapevano di eresia ancora fino a qualche anno fa, almeno fuori della scuola fiorentina che & stata sempre la piu scaltrita su questi problemi, quando il Barbi si decise finalmente a raccogliere, nel 1938, in un volume, alcuni suoi sctitti esemplari di metodologia filologica, intitolandolo: La nuova filologia e Vedizione dei nostri scrittori da Dante al Manzoni.

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Michele Barbi e la nuova filologia

_

Perché nuova filologia, si domandd allora qualche studioso distratto o ritardatario, o profano di questi problemi? E si sentiva sussutrare ancora il nome di Bédier, che era morto, praticando il verbo del codice autorevole, dell’unico manoscritto eccellente che fa testo, della incontaminabilita delle varie tradizioni. Michele Barbi, il cauto, il prudentissimo Barbi, questo sparente romito della scienza pura, si faceva dunque banditore di una scienza in cui giocava la sua parte importante la mente individuale, la dottrina di lui individuo, il suo discernimento, la sua finezza personale, il suo acume, il suo fiuto stilistico. Una filologia, parrebbe, ad arbitrio del soggetto pensante, cosi come, in campi finitimi, da altri giovani maestri, tra il 1890 e il 1900, si veniva parlando di una critica letteraria, di una filosofia, di una storia della filosofia, in cui la responsabilita del giudicare era trasferita dalle cose o dai fatti (come allora si diceva) alla mente di chi si impegnava a interpretare quelle cose e quei fatti. In questo appunto la modernita di Michele Barbi, che fino all’ultimo giorno della sua vita ebbe la riverenza non convenzionale di studiosi anziani o giovani, pur di diverse tendenze mentali, perché tutti riconoscevamo in lui un contemporaneo, e non un vecchio; un mae-

attuale, e non un sorpassato. Quando, nel 1923-24, passando a insegnare nel Magistero di Firenze io fui per qualche anno collega al Barbi nell’insegnamento delVitaliano, affezionatomi rapidamente a lui, mi diedi a ricercare ordinatamente i suoi libri e a leggere i suoi studi sparsi, che solo in questi ultimi anni hanno trovato corpo in una serie di volumi (e io stesso fui esortatore alla stampa di quelle raccolte, perché dal mio caso personale potevo misurare le difficolta che avrebbero incontrato le nuove generazioni nel conoscere l’opera sparsa di un si versatile maestro). In quell’anno 1924 m’imbattei fra l’altro in questa sua tesi di laurea sulla Fortuna di Dante; e a dire il vero mi ero accostato al libro con una certa diffidenza, sospettando di ritrovarvi il solito centone di notizie sulla fortuna esteriore di un poeta, se a curiosita di tal genere io mi ero rifiutato di collaborare, nel 1914, quando, sctivendo il mio primo libro su Metastasio sotto la guida del Flamini, un altro danconiano, avevo preferito invece tracciare una storia della critica intorno a quel poeta, nel Settecento e nell’Ottocento, preparazione e formazione e giustificazione del mio giudizio nuovo, qual mai esso potesse riuscite. Ma la lettura spiegata del volume barbiano mi persuase del contrario: non storia del problema critico, come forse io avrei voluto stro

trovarvi, per un momento, ma nemmeno rassegna erudita e aneddotica della fortuna di uno sctittore: bens) storia del problema filolo-

49 5. L. Russo,

La critica letteraria contemporanea

Dal Carducci al Croce

gico. Fin dai suoi vent’anni il Barbi vedeva dunque chiarissima la sua via, sicché, ritornando a lui, dopo la lettura di quel suo primo libro, in cui era tracciata tutta la sua futura carriera mentale, io in tono di celia affettuosa, per rispettare il suo schivo pudore, gli dissi:

« Barbi, Galileo Galilei vedeva l’universo descritto in circoli e in triangoli, tu vedi il mondo sempre come un manoscritto da decifrare, da classificare, da emendare. Niente bibliografismo estrinseco, nella tua Fortuna di Dante, ma problemi filologici ad ogni momento: sei la mente pit. problematica che sia uscita dalla scuola del D’Ancona. Tu sei un problematico, e quegli altri erano soltanto degli eruditi sdottoratori estrinseci di bibliografie ». Il Barbi scosse il capo, fece una delle sue solite risatine stridule, ricche dei pit. opposti significati, poi si aggrondd e mi parld, vivacissimo, dei suoi primi studi pisani, e dell’avversione incontrata nel D’Ancona e dell’avversione ancora di poi perpetuatasi in circoli accademici di Firenze contro le sue ereticali novita. Quando, nel 1934, si decise a raccogliere la prima serie di Problemi di critica dantesca, egli riconoscendomi una certa virtuosita di intitolatore di libri, mi chiese: « Dammi un titolo per queste mie povere pagine sparse ». E io, senza pensarci su due

volte: « Problemi di critica dantesca! ». « Problemi, problemi! mi fai diventare anche me un crociano o un gentiliano; io sono un uomo di un’altra razza! » « Ma chi pit di te, rincalzai io, ha la mente pro-

blematica? » Dopo due giorni, rividi il Barbi, fatto ironicamente dolce e mansueto, e mi disse: « Va bene, avevi ragione te; vada per problemi di critica dantesca »; e la prima serie fu varata, e si passd a ragionare di altro. Mente problematica quella del Barbi, fin dai suoi vent’anni, e perché problematica, antigenerica e antiaccademica. L’affermazione di una soggettivita discreta nel lavoro di un filologo impegnava una _preparazione minutissima, non soltanto di ordine paleografico o diplomatico, ma di ordine artistico, linguistico e storico. I testi si re-

censiscono criticamente, ma perché si interpretano bene; e per interpretare non basta la vocazione istintiva del lettore e del critico, ma ¢€ necessario un largo affatamento linguistico, con la lingua degli scrittori recensiti. Sempre in cotesta sua tesi di laurea sulla Fortuna di Dante, il Barbi si proponeva come maestro esemplare un filologo cinquecentista, filologo perché peritissimo linguista e lettore: quel Vincenzo Borghini, a cui aveva gia dedicato un anno innanzi un opuscolo Degli studi di Vincenzo Borghini sopra la storia e la lingua di Firenze

(1889). Nel suo lavoro maggiore, il novizio ritornava

a ribadire la

sua ammirazione per quel maestro di filologia nel Cinquecento:

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Michele Barbi e la nuova filologia Egli era veramente tal persona che, solo forse nel Cinquecento, poteva darci della Commedia una lezione fedele, quanto era possibile; grande perizia della lingua antica, appresa non su i testi dei maggiori trecentisti guastati dall’imperizia e dall’arbitrio degli editori, ma su molte altre pit oscure e pit: fedeli scritture, che diligentemente andava togliendo alla polvere delle librerie e degli archivi; diligenza rarissima nel confronto dei codici, per cui s’induceva a notare fin le piti piccole varianti grafiche; conoscenza delle cause, per cui tanto guasto avevano sofferto i testi; bonta e sicurezza di criteri per procedere nella loro correzione.

Il giovanissimo filologo di quella fine dell’Ottocento trascriveva e trasportava, come di solito avviene negli studiosi che hanno una personalita, quelle che erano le sue stesse esigenze di novizio della scienza filologica, nella vita e nella mente del Borghini. Grande perizia della lingua antica, e questa fu pur la virti maestra del Barbi: studio di cotesta ‘lingua, perseguito non soltanto sui testi dei maggiori trecentisti, ma anche in altre oscure e piti fedeli scritture, sepolte negli archivi. E ancora questo fu il laborioso tirocinio del nuovo maestro: che all’esplorazioni sistematiche d’archivio diede trent’anni almeno della sua attivita. Non contento di ripassare a caso filze di documenti, per pescare, come allora si diceva, particolari ghiotti e di una spiritosa novita, egli lesse e rilesse carte antiche, con la stessa passione e diletto con cui un qualche grande giornalista legge i suoi molti giornali e le sue molte riviste della stampa internazionale. Cotesta ascesi di lettore di carte d’archivio, gustate nella loro intimita linguistica, fu per l’appunto uno dei pregi sommi del nostro Barbi: egli non sentiva di affaticarsi su quelle carte, perché esse costituivano l’atmosfera contemporanea della sua mente, erano i suoi molti giornali di filologo moderno. E se a Firenze c’erano maestti insigni nella conoscenza dell’italiano antico, come Isidoro del Lungo e Raffaello Fornaciari, il Barbi si distaccava da cotesti maestri, direi con arguta coscienza critica, perché i suoi interessi non erano di riesumatore di modelli statici ed esemplari di lingua morta, ma erano interessi di storico che riviveva quella lingua soltanto come materia distaccata delle sue indagini. Cid che si rivelava nella stesso stile dei suoi scritti, in cui riscontriamo qualche inversione di periodo all’antica e qualche vocabolo dotto e un giro sintattico di tipo cinquecentesco, ma solo nei primissimi scritti dello scolaro ventenne, quasi per assonanza cortese allo stile, al galateo della scuola che egli frequentava. Ché poi, per il resto, il Barbi fu scrittore sempre agile e conversevole e moderno, e disdegnd in ogni tempo il robone accademico e le apparenze grandissime di postillatore degli antichi, amando una prosa snodata sintatticamente, chiara e nitida come la sua scrittura fisica, e senza superfluita di metafore e nemmeno di vecchie preziose e peregrine parole.

Dt

Dal Carducci al Croce

La modernita di una mente, quando c’é, redolet dappertutto;

e

come il Barbi nasceva alla vita mentale, non filologo meccanico, cosii suoi interessi linguistici nascevano fuoma filologo critico, ri della traccia del vecchio e pur ancora imperante accademismo puristico fiorentino, e si affiatavano piuttosto con gli studi moderni di glottologia. Ed egli, pur non essendo glottologo di professione, gli studi di glottologia seguiva con attenzione di specialista; ed ebbe come suo migliore amico e compagno di lavoro e suo conversatore disputante Ernesto Giacomo Parodi, con il quale resse collabord e mutd ufficio per un ventennio nella direzione del « Bullettino della societa dantesca ». Il Borghini, non si dimentichi, era ancora vantato per la « conoscenza delle cause, per cui tanto guasto avevano sofferto i testi », e per la « bonta e sicurezza di criteri » con cui procedeva all’emendazione di essi. E il Barbi, nel discutere delle famiglie dei manoscritti, portd sempre questa discrezione di storico, riguardo ai tempi e agli umori degli uomini e si rendeva ragione dei mutamenti e delle trasfigurazioni, che la tradizione manoscritta viene subendo da un decennio all’altro. Perd attraverso queste trascrizioni interne, egli riusciva a frutare e a fermare e a classificare l’eta e la dipendenza dei manoscritti. Questo filologo nasceva alla vita della sua filologia armato dunque anche di un finissimo senso artistico di lettore e di questa seconda vista dello storico, abilissimo nel cogliere la patina che il tempo e l’'umore di una civilta lasciano, inconsapevolmente, anche nel lavoro meccanico di un semplice amanuense. Da questa particolare e nuova filologia scaturirono gli interessi del chiosatore e del critico letterario degli scrittori antichi e di qualche moderno, come il Manzoni, poiché filologia per il Barbi in ogni tempo voleva essere anche lettura e godimento e assaporazione linguistica dei testi. Sono i due grandi filoni della sua operosita scientifica seguita per cinquant’anni: il ricostruttore e filologo e il chiosatore linguistico e estetico, accanto a cui, terza attivita, si spiega quella del raccoglitore e descrittore dei canti popolari.

2. Il Barbi e la letteratura popolare. E noto che il Barbi ha lasciato a questa Scuola Normale un ricco materiale di canti popolari, da lui raccolti in pit di cinquant’anni di ticerche. Scrive egli stesso, in una prefazione a un suo libriccino del ‘39 su Poesia popolare italiana, con il discreto orgoglio che francheggia sempre la coscienza di un lungo lavoro compiuto e sui cui satebbe lezioso fare degli ipocriti disconoscimenti:

D2

eT

|

Michele Barbi e la nuova fiologia Sono stati [...] — egli scrive — cinquant’anni spesi utilmente, perché con quel po’ di tenacia che natura mi ha data ho potuto salvare dall’oblio una messe ricchissima di canti toscani e non toscani, che oggi pit: non sarebbe possibile raccogliere, e che potranno esser fatti oggetto di studi seri e dare alla storia della poesia popolare quello che ancora le mancava per essere ricostruita nelle sue linee fondamentali e nelle sue pit varie manifestazioni. Visto che a me era ormai impossibile pubblicare con la debita illustrazione anche solo i testi pit. notevoli della mia raccolta, ho cercato fra gli studiosi chi potesse assumere la cura di un’edizione critica di essa.

Come si innestano questi interessi per la letteratura popolare nell’opera del filologo e in quella dell’interprete e chiosatore dei classici?

Si tratta forse di una

diversione

dilettantesca,

di uomo

stanco del suo lavoro quotidiano e che si rivolge ad altro per una qualche distrazione? E forse in giuoco il retaggio di un problema che era stato caro ai romantici dell’Ottocento e agli ultimi trasfigurati romantici che furono i maestri del positivismo erudito, e che accettato una volta in passiva eredita, non si era saputo poi condurre

a termine con l’alacrita che é sempre urgente, tutte le volte che un problema o un’indagine ci preme? A dire il vero, io non saprei ammirare uno studioso, un critico, un filologo, che si disperda in troppe cose, e che in tutte le sue ricerche non ritorni a un suo centro

ideale. I filologi estravaganti solo apparentemente sono estravaganti, e, in verita, se hanno ingegno veramente scientifico, al di 1a della forma dispersa della loro attivita, si richiamano sempre a un problema, il problema fondamentale della loro vita, che € sempre uno. Dove manca questa unita di interessi, manca in verita anche I’ingegno, e manca anche lo stimolo del Javorare e del condurre a termine le diverse imprese che veniamo investendo. Ma bisogna saper guardare al di 1a delle molteplici parvenze. I] Barbi si interessd al

problema della letteratura popolare, non per seguire la moda, perché quel problema gli fosse stato tramandato dalla storiografia del Risorgimento, e dagli ultimi maestri del positivismo; le mode hanno

sempre la virti di invecchiare rapidamente. Ed egli non fu nemmeno il collettore estetico-sentimentale di canti popolari, illudendosi di trovare in essi una freschezza e ingenuita quale i primi romantici avevano, sotto l’influsso consapevole e inconsapevole dell’estetica vichiana, scoperto e magnificato nelle produzioni di questo anonimo ; barbarico creatore, che sarebbe il popolo. Si capisce il D’Ancona, si capisce il Comparetti, si capiscono VImbriani, il Nerucci, il Pitré, raccoglitori tutti pit o meno commossi di novelline, fiabe e canti popolari, o perché vi trovavano freschezza di immagini o di eloquio, o perché ciascun canto o favola rappresentava il blasone di nobilta, l’idiosincrasia fantastica, di un

D3

Dal Carducci al Croce

loro focolare, di una loro provincia. Il Barbi non ebbe questa inclinazione estetico-sentimentale, ed ebbe anche tiepida J’inclinazione civile di restauratore del lare domestico e provinciale: per quanto nobilissimi questi fini, essi erano ideali dell’Ottocento, che avevano avuto il loro impetuoso svolgimento per tutto un secolo fin dal preromantico ultimo Settecento, e riportarli nel Novecento poteva pa-

rere fatica disperata di erudito che esplora le ultime macchie nella selva dei miti dell’Europa e aggiunge il suo tardivo fastello alla grande bica accumulata dai primi pit fortunati esploratori. Se il Barbi fosse stato soltanto un epigono di quella poetica del popolatismo che domino le menti per tutto il secolo xrx, egli si sarebbe stancato presto e inaridito, e a mezza strada avrebbe piantato l’impresa; mentre egli, di tratto in tratto, la riprendeva sempre con rinnovato e giovanile fervore. La prima sua ricerca risale al 1888 (il Barbi era nato il 10 febbraio del 1867) e troviamo I maggi della montagna pistoiese, da lui pubblicati nel volume settimo dell’Archivio per lo studio delle tradizioni popolari; del’anno 1889 & un saggio di Canti popolari pistoiesi, pubblicati nel volume ottavo dello stesso Archivio, e nel 1895 @ tracciato come un programma critico di queste sue ricerche nell’opuscolo per nozze Bacci-Del Lungo sulla Poesia popolare pistoiese, dove sono gia delineati i canoni che dirigeranno questa sua attivita rispetto a quella dei suoi maestri. Gli ultimi scritti sull’argomento sono due capitoli: Contaminazioni nei canti popolari italiani e Poesia e musica popolare, scritti e pubblicati nel 1934; e ancora nel 1939 il Barbi raccoglieva in un volumetto

di Studi e proposte i suoi vari saggi dal 1911 in poi, e negli ultimi anni della sua vita con acuto zelo invigilava, perché in questa Scuola Normale si perpetuasse un insegnamento scientifico sulla letteratura popolare, generosamente donando danari, carte e manoscritti e stimolando l’interesse dei giovani. Per esperienza tutti sappiamo, che quando un interesse mentale si esaurisce, non vale industria o di amor proprio o di vanita, perché si tenga in piedi cid che @ morto dentro di noi; ma in Barbi fu sempre vivo questo problema della letteratura popolare e fu vivo, perché egli lo visse sincronisticamente alle esigenze scientifiche del nostro tempo. Il problema della letteratura popolare in quest’ultimo decennio, per influenza del Barbi, ha fatto una notevole diversione dalla via in cui si era immesso per tutto l’Ottocento: non si studia pit la lettetatura popolare, come gia si @ accennato, per ragioni estetico-senti-

mentali o civili, ma il canto popolare rappresenta una una ricerca di filologia e di storia.

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materia,

Michele Barbi e la nuova filologia re

Procurarsi

tanto

le varie lezioni di una

stessa canzone,

necessatie

a rista-

bilirne, fra le alterazioni dovute alla trasmissione orale, il testo primitivo sue linee sostanziali, quanto i dati di fatto che servano a illustrare i canti loro origine, nel loro contenuto e nella loro forma, in relazione con quelli altre regioni d’Italia e, occorrendo, delle nazioni vicine, & cosa, piu che necessaria.

nelle nella delle utile,

Cosi scriveva il Barbi sin dal 1895: egli dunque trattava sin da quei lontani tempi un canto popolare, con la stessa dignita, con cui si cura la ricostituzione di un testo di un poeta dotto e grande: procurarsi le varie lezioni di una stessa canzone, ristabilire, fra le

alterazioni dovute alla trasmissione orale, il testo primitivo; nelle sue linee sostanziali, era lo stesso problema filologico che lo assillava nello studio del canzoniere dantesco e dei canzonieri di altri poeti minori del secolo x11 e xiv. Studiare la tradizione dei canti popolari, come si pud studiare la tradizione di una famiglia di manoscritti della Vita Nuova o del Canzoniere o della Divina Commedia. Il problema era sempre uno, e il filologo campeggiava dappertutto; soltanto che la critica dei testi popolari trasferiva il problema filologico su un piano spaziale e non pit semplicemente temporale, perché c’era da fissarne l’origine, l’area e i modi di diffusione. La tradizione dei canti popolari era non pit genealogia di manoscritti, ma estrosa diaspora di umori regionali, provinciali e individuali, del singolo poeta poetante rifacitore e contaminatore, a quel modo che il suo genio gli dettava dentro, di canti e storie diverse, venute da altri paesi. Non si trattava di ricondurre tutti quei canti ad un archetipo, come avrebbe voluto fare il D’Ancona che riportava J’origine del canto lirico monostrofico alla Sicilia, ma di attestare e descrivere una tradizione che ha valore per se stessa e non per il presunto originale da cui sarebbe scaturita. S’impiantava in tal modo una descrittiva storico-filologica della varia tradizione dei canti, in cui le varianti, come aveva gia intravisto il Tommaseo, ancora piu che nella critica dei testi dotti valevano come « studio d’estetica e dalta filologia » (Dizionario estetico, 1867, col. 758): sono parole precise del Tommaseo. In tal caso le differenti versioni di un canto popolare costituiscono la storia effettiva di quel canto, e quelle versioni sono pit: importanti che uno stesso canto nuovo.

Da cid la disciplina del nuovo raccoglitore; non andava in cerca della novita, ma della varieta ed estensione di una tradizione; e non cercava il genere letterario, quanto piuttosto voleva rivivere il genere nella sua effettiva e concreta formazione storica; cosi come nella storia letteraria, mi sia lecito il raffronto, io posso fare la storia della letteratura narrativa dei manzoniani, e poi dei veristi e poi dei deca-

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Dal Carducci al Croce

denti, esplorando le singole regioni italiane o altre isole e chiazze letterarie della penisola, e non con il proposito di mostrare la scaturigine di un genere da un altro genere, di un tipo di racconto da un altro racconto, ma soltanto per riconoscere, descrivere € circoformazione storica del raccontare scrivere questa o quella italiano. Era il principio nuovo inaugurato da Costantino Nigra con i suoi Canti popolari del Piemonte del 1888: il Nigra era il filologo ottocentista, al cui esempio il Barbi continuamente si richiamava, e di. cui avrebbe voluto rinnovare l’esempio per i canti della Toscana. Niente adunque piu raccolte svagate e dilettantesche, predilette per la freschezza e per il brio; e niente nemmeno raccolte per illustrare il patrimonio sentimentale di una provincia,

colte a scopo dimostrativo di una qualche della monogenesi o della poligenesi dei canti nari come il D’Ancona e ad altri della sua Sanesi che in un articolo nella « Critica » del la teoria monogenetica, ma restando sempre - ture teoretiche e dottrinarie.

e nemmeno

ancora rac-

tesi dottrinaria, quella popolari, care a dottriscuola, fino ad Ireneo 1906 tentd di scuotere sul piano delle conget-

A Michele Barbi, mi verrebbe voglia di dire con parole celebri, patve « pit: conveniente andare dietro alla verita effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa ». Questo nostro filologo sin dalle sue origini batté una strada assai diversa di quella dei suoi maestri: gli uni volevano la fortuna aneddotica ed erudita di uno scrittore, ed egli scriveva la storia del problema critico del testo di quell’autote; gli uni esibivano una frondosa bibliografia, e si cibavano e cibavano, con schiocchi di lingua salace, per il contributo del tale e tale altro dotto collega o valente discepolo, ed egli leggeva i testi e semmai scuoteva carte polverose d’archivio per trovare documenti e parole consonanti a quei testi; gli uni tracciavano frettolose e astratte teorie sulla nascita dei canti popolari e della loro emigrazione per tutti i paesi di Europa, ed egli raccoglieva le versioni dei canti di una regione, e dava qualche esempio, come per la Scibilia Nobili, del modo di trattarli e descriverli. Ma a me stringe l’obbligo di parlare di altre parti dell’opera del Barbi. Sennonché, voglio accennare soltanto a un episodio, a una scaramuccia, che si ebbe nel 1934 tra il Barbi e il Croce. Il Barbi si senti come disturbato dai saggi che il Croce veniva pubblicando sulla « Critica » dal 1929 in poi e che costituirono in seguito gli scritti del volume Poesia popolare e poesia d’arte; il maestro napoletano voleva ricondurre gli studiosi a un nuovo concetto del popolare, popolare come sinonimo di elementare; popolare in questo caso

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Michele Barbi e la nuova filologia

poteva essere uno scrittore anche come Franco Sacchetti; e insieme con questo concetto pil storico, e non pit sociale, del popolare, i

Croce ribadiva il principio della genesi individuale di ogni canto e di ogni novellina popolare. Parve al Barbi che con queste nuove vedute del Croce si togliesse importanza alle ricerche come egli le veniva conducendo da quarant’anni: e lui cosi paziente si trovd a scrivere nel 1934, sulla rivista « Pan », queste parole impazienti: « Non si tratta di fissare un nuovo e pit appropriato concetto teorico di quella poesia [popolare] come si provd a fare alcuni anni fa Benedetto Croce: ormai é prevalso nell’uso un dato concetto empirico, € non si pud di punto in bianco mutar nome alle cose ». Il Croce non se la tenne, e rispose epigrammaticamente ricordando ritrosie di altri uomini di studio per altre questioni di carattere letterario e scientifico, rinnovate da scoperte o meditazioni, e di cui ogni secolo aveva pur dovuto tener conto. In questa ritrosia e fastidio, da cui é preso il valente Barbi (valente segnatamente per tutto quello che sa e che c’insegna circa la poesia italiana del dugento e del trecento) rivedo un curioso atteggiamento mentale del tempo della mia giovinezza (eta positivistica): quando ogni tentativo che si facesse di pensare i problemi in termini di concetti rigorosi doveva aspettarsi il pronto rimbrotto del perdersi nelle nuvole e il duro richiamo alla « realta », cioé alle usuali e non pensate e non pensabili « classificazioni» della realta, che, so-vrapposte alla realta, eran tolte in scambio della realta stessa.

« Uno intendea, e altro mi rispuose », si potrebbe dire questa volta con un verso dantesco; ingiustificato l’allarme del Barbi, brusca la reazione del Croce. In vero il caso del Barbi poteva essere quello dello stesso Croce che aveva descritto e giudicato della lirica e della -commedia del Cinquecento, come formazione storica,e tutto questo in apparente contraddizione col teorico dissolvitore dei generi letterari; anche il Barbi giudicava della poesia popolare, come di una formazione storica, e non semplicemente come un genere letteratio che avesse una sua sociale distinzione e genesi sociale in un ente immaginario che si dice « popolo », e veniva dando la descrittiva storico-filologica di quella formazione: il filologo dunque di una realta effettuale il Barbi, che restava fedele a se stesso, e che ancora una volta dava a vedere con l’esempio che i problemi della filologia sono diversi dai problemi storici veri e propri. E perd il Croce aveva ragione di fare il suo mestiere, e il Barbi di continuare nel suo: _« la filologia ha i suoi problemi », quest’ultimo badava spesso a ripetermi: «il filologo non é lo storico; né la filologia aspira a salire alla storia, ma dovete rispettare quello che é l’ambito deinostri problemi, che sono diversi dai vostri ». E diceva cosa giustissima, e ricca

ay

Dal Carducci al Croce

di quel buon la scaramuccia a una nuvola la sua vigna e stro, e questa nante. 3.

senso che fu sempre al fondo di ogni suo lavorare. E tra lui e il maestro napoletano era dovuta a un’ombra, di passaggio, all’impazienza del vignaio che circuisce teme intanto l’incursione e l’invadenza e qualche malevolta a torto, da parte del grosso latifondista confi-

Il Barbi come

dantista e critico letterario.

Un altro aforisma che ho me lo faceva sentire vicino e blemi di critica letteraria, era testo é diverso dal problema una competenza

generica, un

sentito dalle labbra del Barbi, e che contemporaneo anche per i miei proquesto: « Il problema filologico di un filologico di un altro testo. Non c’é astratto

metodo

buono

per tutti gli

autori. Se tu mi domandi del modo come va condotta un’edizione delle liriche del Tasso o delle laudi di Iacopone, io non ti so rispondere, perché bisogna studiare in concreto quello che é il testo del Tasso e la sua storia e la sua fortuna, e quello che é il testo del laudario iacoponico e le sue varie contaminazioni ». E io dicevo: « Caro Barbi, tu sei idealista senza saperlo; anche Angelo Camillo de Meis diceva che non c’é una polmonite o una tubercolosi in generale, ma c’é la polmonite o la tubercolosi di questo o quell’organismo particolare, e il medico generico non é mai un vero medico: deve essere il medico non di una malattia, ma il medico di quel malato ». Insomma, concludevo, @ come la faccenda dei generi letterari, che non esistono se non nell’individualita dell’ispirazione del singolo cantore o del singolo narratore; come i nostri problemi di metodo critico, che devono nascere volta per volta dalla particolare natura e storia interna dell’arte nell’opera di uno scrittore, e nessuno perd possiede il metodo una volta per tutte, come intendono i balordi, ma il metodo nasce dalle cose stesse, che sono sempre diverse e volubili. Rilevo questo particolare, perché l’affermazione che io ho fatto della modernita della mente e della contemporaneita del Barbi non ha voluto essere un riconoscimento di cortesia accademica, ma pur vuol dare una spiegazione del legame che tutti a Firenze (parlo dei neodteroi), e altrove, sentimmo di aver con questo sparente e ascetico maestro di filologia pura. L’affermata e vantata soggettivita della ricostruzione del filologo (e ora sappiamo che soggettivita non significa arbitrio), Vindividualita di ogni problema filologico diverso dal problema filologico esaminato ieri per questo o quell’altro scrittore, la gelosa aderenza alla formazione storica, e non la fedelta a

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Michele Barbi e la nuova filologia

un astratto genere letterario, di una qualche letteratura come quella popolare, erano tutti canoni che non ci facevano avvertire che il Barbi fosse uomo di altro secolo o di altra scuola: e perd tutti anche i pit alieni dai suoi lavori, gli fummo vicinissimi. Questo insegnamento della individualita di ogni problema della critica del testo @ il fondamentale, con cento altri particolari, che si leva dal suo libro ricordato: La nuova filologia e V’edizione dei nostri scrittori da Dante al Manzoni. Quelli che si illudono di trovare in un manuale di metodologia le regole per comporre saggi critici o edizioni critiche di un testo devono disincantarsi alla lettura di tale volume, che, in ogni pagina, batte in breccia contro le generalita, e segna l’impostazione concreta di singole questioni o di singoli testi: il testo della Divina Commedia, il testo del Decameron, il testo delle novelle del Sacchetti, il testo dei Ricordi politici e civili del Guicciardini, il testo delle Grazie foscoliane, il testo dei Promessi Sposi. Una lezione di concretezza, a ogni pagina. L’opera pud essere ravvicinata a quella di Giorgio Pasquali, sulla Storia della tradizione e critica del testo, anch’esso un libro di apparente metodologia; ma in verita discussione delle regole critiche calate volta per volta in singoli e particolareggiati problemi testuali. Cito il libro del Pasquali, perché di un maestro dell’ultimo Novecento, e per tiaffermare anche per via di vicinanze, quella che era la freschezza ‘e la modernita di vedute del nostro Barbi. E del resto questa vicinanza era avvertita con compiacimento dal Barbi stesso, che pero aggiungeva, chinando il capo: « Ma Pasquali é un doctor universalis »; e intanto mi guardava in tralice, e faceva scintillare quella sua pupilla in cui io leggevo tante cose, proprio « come quelle molte idee sottintese, in un periodo steso da un uomo di garbo », di cui parla il Manzoni a proposito dei tizzi e tizzoni spenti nel focolare di _don Abbondio. Si potrebbe obbiettare il desiderio, che il Barbi invece di limitarsi a impostare il problema dei vari testi dei classici italiani vi si impegnasse proprio lui, dopo l’esempio felicissimo dell’edizione critica della Vita Nuova e Vedizione (pur senza apparato) del Canzoniere dantesco. Ma un’edizione critica per il Barbi era lavoro di decenni, e bisognava vederlo all’opera, come io lo vidi, quando attendeva alla ristampa della Vita Nuova, in cui aveva rimesso in crisi tutto il suo lavoro di vent’anni innanzi, e aveva voluto ricontrollare la composizione del testo, spiegando innanzi a sé come tante tavole logaritmiche delle sue varianti: poiché la ricostituzione di un testo era per lui ricomposizione minuta, particolare, di ogni parola e di ogni patagrafo, dovuta a una raffinatissima e calcolatissima combi-

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natoria, che era come il lavoro di un artista, di un orafo della filologia. E gli artisti, gli orafi non compongono le loro opere a serie, e lasciano, se mai, fare i calchi soltanto ai giovani di bottega. _-Dird che quel libro sull’« Edizione dei nostri scrittori da Dante al Manzoni » racchiude, insieme con I’edizione esemplare della Vita Nuova e gli intrigatissimi Studi sul Canzoniere dantesco, un insegnamento che si perpetua per i futuri filologi: quegli Studi sul Canzoniere dantesco in particolare non servono soltanto per Dante, ma

valgono come riordinamento della selva dei manoscritti.e delle varie questioni concernenti i canzonieri di tutta una pleiade di rimatori dei secoli x11I e xIv; e lo si vede e io lo constato, come direttore degli Scrittori d’Italia del Laterza, un po’ tutti i giorni: per le edizioni di poeti antichi gli studiosi devono far capo a quella miniera di notizie raccolte in questo grosso tomo ricordato degli Studi. Ma un particolare della filologia del Barbi era quello che ho fatto gia intravedere, dell’assidua lettura e interpretazione dei testi con la quale si correggono anche i trascorsi di un codice autorevole, anche un testo a stampa come I Promessi Sposi, riveduti pur dallo scrupolosissimo autore. Qui si innesta la valentia del Barbi come interprete e chiosatore linguistico degli scrittori, in cui tutti lo avemmo e lo riconoscemmo affabile e utilissimo e quotidiano maestro. Per Dante e per Manzoni egli in modo particolare spiegd larghissima la sua attivita, e chi domani vorra scrivere un commento della Divina Commedia o di altre opere di Dante, dovra far capo alle numerose chiose sparse nel Bullettino e poi negli Studi danteschi, e oltre che ai due volumi di Problemi di critica dantesca, al volume Con Dante € coi suoi interpreti, raccolto nell’anno stesso della morte. Al Barbi si deve l’interpretazione pit: piana e pit: documentata dei sonetti della tenzone con Forese, dove non ricorrono ingegnose congetture, ma, vorrei dire, si schiariscono oscurita offrendosi dati linguistici e dati del costume con la ricchezza e col gusto selettivo che soltanto un contemporaneo ideale del Trecento poteva avere. Né io stard a dire quanto al Barbi si deve per la illustrazione della vita e del pensiero dei tempi di Dante: questa, direi, & la parte pit: divulgata della sua opera scientifica. Nel volume Con Dante e coi suoi interpreti sono compresi due saggi di critica letteraria spiegata, uno sul canto di Francesca, l’altro sul canto di Farinata. Bellissimo il primo, meno fuso il secondo. L’atteggiamento interpretativo del Barbi & intonato sempre a quello che io vorrei chiamare un realismo psicologico o linguistico. Questa la sua forza, ma anche il suo limite. Io non sono uno di quelli che esaltano la mente critica contro

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Michele Barbi e la nuova filologia

la mente filologica, perché per me non esiste il critico letterario oil filologo, ma esiste questo 0 quel critico, questo 0 quel filologo con la loro particolare personalita. Perd, come non accetto l’antitesi polemica a favore del critico letterario nel contrasto col filologo, non accetto nemmeno I'esaltazione dell’interpretazione filologica di contro all’interpretazione artistico-umana. Perché la poesia non é soltanto quistione di vocabolario, quistione d’italiano antico e moderno, ma @ fantasia, umanita, esaltazione. Ora il Barbi, gia nelle chiose alla Vita Nuova, voleva riportare ogni espressione dantesca al paradigma del linguaggio espressivo del tempo, mentre oggi si tenta di far valere la ricerca di quello che @ il particolare linguaggio mistico di quel libello giovanile di Dante. Nelle parole di Dante c’é Vitaliano antico, c’é il linguaggio dei poeti dello stil nuovo, ma c’é innanzi tutto il rapimento religioso, la vocazione individuale alla poesia dell’uomo e del poeta Dante. Cosi, mentre il Barbi é interprete inconfutabile che ci fa ammutolire tutte le volte, quando tocca del significato preciso storico-lessicale di un verbo del suo Trecento, ci lascia perplessi quando vorrebbe esaurire il significato poetico di quel verbo riconducendolo all’uso. La poesia é l’uso, ma non @ soltanto l’uso. Noi abbiamo trovato bellissimo il saggio su Francesca, perché le osservazioni lessicali li appoggiano l’interpretazione estetico-umana di tutto l’episodio, non pit presentato, secondo la tradizione romantica, come il canto della colpa e dell’amore, ma come il canto della pieta. Allora il Barbi scrive pagine che oltrepassano i limiti della semplice chiosa linguistica; ma quando, davanti a tutto il vedrai dell’episodio del Farinata egli vuole esortarci a leggere in quel tutto un significato meramente realistico (lo vedrai del tutto, tutto fisicamente dalla cintola in su, interamente), perché quello era l’uso di futto nella lingua del Trecento (e il Barbi qui esemplifica largamente), noi allora non possiamo pit seguirlo e ci teniamo pit stretti al De Sanctis, che da una sfumatura morale a quel ¢wtto, lenta

preparazione poetica a quel « come avesse l’inferno in gran dispitto». Perché le statue i poeti le sbozzano a poco a poco e non le fanno sortire, d’un tratto, per opera di meccanico sortilegio. Quel tutto va spiegato con litaliano antico, ma anche con il tono particolarissimo che Dante gli diede in quel verso e in quell’episodio. Cosi anche nell’episodio di Francesca (e questa volta per omaggio al realismo psicologico e non pitt semplicemente linguistico) il Barbi interpreta i dubbiosi desiri, come i sentimenti di cui gli amanti non si rendevano conto e che solo la lettura di Lancillotto e di Ginevra avrebbe accesi (« ma solo un punto fu quel che ci vinse »,

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Dal Carducci al Croce

cioe essi si sarebbero presi d’amore nel momento in cui lessero del bacio di Ginevra e Lancillotto). Ma anche qui preferiamo l’interpretazione del De Sanctis, per cui i dubbiosi desiri sono i sentimenti dell’amore che gid covavano nel petto dei due cognati e che essi soffocavano e non confessavano a se stessi: e preferiamo De Sanctis, non perché si tratta di De Sanctis, ma perché pur questa é la tradizionale interpretazione artistico-umana formatasi attraverso i secoli, e la prima volta enunciata da Giovanni Boccaccio, che di queste cose come andassero nella vita e nella poesia, era, come @ noto, fortemente intendente. Il Boccaccio, commentando questo passo, aveva scritto: « Chiamagli ‘ dubbiosi’ i desideri degli amanti, perciocché, quantunque per molti atti appaia che l’uno ami l’altro e l’altro Puno, tuttavia stispicano non sia cosi come a lor pare, insino a tanto che del tutto discoperti e conosciuti sono ». I] Barbi é stato sempre per le interpretazioni tradizionali, e ha battuto spesse volte noi perché correvamo al moderno e ci facevamo forti di moderna sensibilita. Ma questa volta la polemica contro il gusto romantico e talora alquanto fantasioso del De Sanctis gli prese la mano, ed egli era andato un po’ al di 1a del giusto segno. Ma di questo non saremo proprio noi a fargli carico: la polemica é inerente a tutte le menti scientifiche, e gli uomini accomodanti e concilianti sono tali perché a loro nulla gliene importa degli studi e della scienza; e perd anche il mitissimo Barbi era polemico e talvolta inclemente nei suoi giudizi. Ma in quel saggio su Francesca tutte le altre correzioni sono saldissime e ferme, e sempre 1a dove l’interpretazione linguistica sale ad essere interpretazione estetico-umana di tutto l’episodio. Le stesse osservazioni dovrei fare per le sue chiose a Manzoni, Tinteresse per la cui arte non ebbe nel Barbi nulla di improvvisato: fin dal 1895 egli pubblicd un opuscolo di Note sull’umorismo dei Promessi Sposi: non a caso egli aveva messo l’accento sull’umorismo manzoniano, come la parte che meglio pareva riflettere questo realismo psicologico a lui caro; mentre pur c’é da dire che nel grande romanzo

la citta terrena

fa soltanto

di antifona

alla citta celeste,

anche se celebrata nel vivo di questo mondo, nel cuore stesso delPuomo, e la commedia manzoniana non & mai semplice commedia che non sia dramma dell’umanita e compatimento sorridente dei suoi limiti, nella serena fede che soltanto in Dio si riscattano questi nostri limiti. Da cid la necessita di un’interpretazione religiosa dello stesso umorismo manzoniano: cid che non attirava lo spirito del Barbi.

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Michele Barbi e la nuova filologia

_ Su questa linea & l’altro opuscolo del 1915: Di alcuni pregiudizi intorno al Carmagnola del Manzoni, dove il Barbi conduce una difesa di questa tragedia manzoniana, appoggiandosi al formalismo espressivo dell’autore, che @, cartesianamente, correttissimo e coetente, ma che a noi appare solo a tratti mosso da quella esaltazione religiosa interna, la nota vera che sola in ogni tempo costituisce lo slancio poetico dell’opera manzoniana. Ma io vorrei dire a lungo, come non posso, di quel nutrito gruppo di Voci che egli pubblicd recentemente sui Promessi Sposi, nel primo volume degli Annali manzoniani, dove il suo sottilissimo e raffinatissimo acume percep} i fraintendimenti o le esagerazioni che in ogni tempo sono corsi nei commenti ad alcuni passi di quel grande romanzo. Ma la novita sua pit grande nel campo dei Promessi Sposi, sono le sue correzioni al testo manzoniano: errori che sfuggirono allo stesso Manzoni curatore attentissimo della sua opera e che si sono perpetuati in tutte le edizioni del romanzo, poiché il Barbi, con paziente discriminazione, raccolse molte copie dell’edizione originaria, dove alcuni sedicesimi portano delle correzioni postume aggiunte dallo scrittore, mentre il suo libro andava in macchina, o meglio sotto i torchi, e alcuni fogli, per la comoda lentezza con cui allora si stampava, uscirono in un modo e altri in un diverso modo. E attraverso industriose congetture e la collazione delle bozze di stampa, egli é ‘giunto ad emendare il testo, pur corretto dall’autore: esempio del modo con cui egli intendeva la filologia, che non é mai riproduzione meccanica, ma collaborazione vigilatissima di un artista alla scrittura di un altro artista. Per la legittima curiosita di tutti, ricorderd qualcuna di queste emendazioni, come quella del passo: « Con tutti questi brani di notizie, messi poi insieme, e uniti come s’usa, e con la frangia che ci si attacca nel cucire »: dove al posto di quell’uniti, bisogna leggere cuciti (messi poi insieme e cuciti come s’usa, e con la frangia che ci si attacca naturalmente nel cucire...), perché c’é rispondenza e ripresa tra il cucire e il cuciti, ma troppo approssimativa corrispondenza tra il cucire e Puniti. E cosi dove abbiamo sempre letto della visita di Lucia a donna Prassede, dobbiamo invece leggere la vista di Lucia, perché parlare di una visita da parte di quelle povere popolane a una gentildonna come donna Prassede, aveva osservato gia lo Ziino, sarebbe quanto mai improprio, mentre la vista di Lucia, si riferisce all’attenta investigazione a cui donna Prassede sottopone l’aspetto, V’espressione, e ogni atto, ogni parola di Lucia, perché la proterva signora aveva il suo pregiudizio in testa con quella contadinella che

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Dal Carducci al Croce

si era potuta promettere a un poco di buono, a un sedizioso, a uno scampaforca. E correzioni di questo tipo, acutissime e sottilissime, ce ne sono una dozzina, di quelle che farebbero la fortuna e la carriera di dieci aspiranti a cattedre di filologia: perché non si tratta di ingegnosi indovinamenti, né di risultati ottenuti da una meccanica collazione

di bozze o di manoscritti, ma di correzioni che nascono e procedono innanzi tutto dall’abito di una lettura del testo attenta e acutissima. Ebbi questo estratto del Barbi con la dedica pit affettuosa che egli mi abbia mai scritto, quasi una forma di commiato (un mese dopo egli non era pit): «al mio caro Luigi Russo con i pit affettuosi saluti M. B.», e io mi affrettai a scrivergli perché sapevo del suo stato estremo

di salute:

« Caro

Barbi, le tue correzioni

sono cosi giuste e persuasive che ho voluto subito riportarle sul testo dei Promessi Sposi, da me commentato e che ho qui al mare ». Poi non ebbi pit: nulla da lui; e dovevo rivederlo gia chiuso al nostro sguardo nella cameretta dove mi aveva ricevuto tante volte. 4. Ricordi dell’uomo Barbi.

Io non ho potuto frenare qualche reminiscenza biografica in “questo mio discorso, per quanto l’eminenza scientifica dell’opera del Barbi me ne esonerasse: se ne pud parlare, senza conoscere nulla delPuomo, tanto essa ha un valore obbiettivo in sé e per sé. Ma sono stati 18 anni di affettuosa dimestichezza; e io rileggendo i suoi libri per questa occasione vedevo quei libri come un’animata

persona

e

sempre in un animato e confidente colloquio. Ci conoscemmo la mattina del 1° dicembre del 1923, quando io ero stato chiamato al suo fianco nell’insegnamento della letteratura al Magistero fiorentino. Mi disse subito di darci del tu; e io che avevo una vaga e un po’ paurosa idea della sua alta filologia accettai l’invito, cosi, senza reagire, tanto l’accento suo era stato semplice e cordiale. Ci ritrovammo

qualche ora dopo in una seduta di laurea e la malizia della mente ci uni e ci fece subito amici. Un collega riferiva con accurato eloquio di frasi accademiche e con elogi un po’ soverchi sulla tesi di una fanciulla su Pinocchio: « Lei, diceva il relatore, non @ soltanto un critico, ma un artista ». Istintivamente, sebbene fossi imbarazzato e impacciato del mio nuovo ufficio di giudice in una seduta di laurea, mi volsi di scatto verso quell’altro lato del tavolo in cui sedeva il Barbi. Anche il suo sguardo cercava il mio, e la sua pupilla arguta s’incontrd con la mia, lampeggid come un’intesa, sicché da quel momento fermammo il nostro patto di amicizia.

64

Michele Barbi e la nuova filologia

Poi col Barbi presi l’abitudine di uscire tutte le sere e taluni si meravigliavano di questa intrinsichezza di due temperamenti cosi diversi, di due menti che parevano agli antipodi. Anche gli anni che ci dividevano erano molti, e il mio gran corpo tentava di umiliarsi, alla meglio, a lui vicino; non potevo andare a « par di lui », ma almeno « il capo chino tenea » ecc., con quel che segue nel verso di Dante. Appresi moltissimo in queste conversazioni serali, e cosi ebbi il raro privilegio di temperare la mia cultura di diversa origine al contatto del pit sottile e del pit artista dei filologi del nostro tempo. Non sentii mai disagio 0 noia di quelle conversazioni e di quella sua amicizia, anche quando si faceva ammonitoria, tanta era la cordialita dell’uomo e tanto mi lusingava il suo affetto, per essere dato a me, uomo di troppo diversa mente che non dissimulava i suoi piu veri amori e le sue pit. profonde inclinazioni. Quando nel 1928 pubblicai un volume su Francesco De Sanctis e la cultura napoletana, poiché in quel libro io contrapponevo una cultura napoletana di tipo vichiano, viva, piena di fede, animosa, antropocentrica, a una cultura fiorentina, di tipo galileiano, col senso dei particolari acutissimo, ma ormai un po’ stanca, senile, acentrica, con una sfiducia un po’ atea negli studi e nella letteratura, il Barbi, incontrandomi per Piazza S$. Marco, mi abbordd dicendomi: « Tu quoque, Brute, fili mi», e mi strinse affettuosamente il braccio. Si riferiva a un passo del mio volume, in cui mordevo |’eccessiva complicazione dell’agire nelle varie accademie fiorentine: E non mancano poi gli impedimenti di ordine pratico: tutta un’invisibile selva di lacci e lacciuoli, in cui quei valentuomini vanno a cacciarsi, per rispetto

all’autorita di questo o quel maestro e per altri riguardi mondani che finiscono col paralizzare ogni iniziativa felice e possibilita di lavoro. Ne vien fuori una segreta gerarchia con suoi pontefici ed arcivescovi, di pii torturatori e di pazienti torturati e tutti allo stesso modo vittime di una trascendente legge accademica; cid che impedisce il libero articolarsi della vita scientifica e spirituale.

« Hai ragione — mi soggiunse il Barbi — e la prima vittima sono io »; e qui i suoi dolenti sfoghi contro gli inerti o gli inetti o i gelosi che continuavano a intralciare il suo lavoro. In quegli anni, mi parlo una volta del Gentile verso il quale ebbe una nota risentita, perché Yaveva rimandato ad insegnare. «Ma un fanatico come lui non Pavremo pitt come ministro! ». In quest’ultimo decennio mi tornd a parlare dello stesso uomo, con la consueta ammirazione per la mente, ma questa volta anche con una amicizia sempre crescente per l'uomo;

opera si rallegrava molto dell’ingrandimento della Scuola Normale, s ua, e poi mi parlava della nuova impresa degli Annali manzoniani e dell’insegnamento della letteratura popolare in questa scuola

65 6. L. Russo,

La critica letteraria contemporanea

Dal Carducci al Croce

e della biblioteca che egli voleva lasciare sempre a Pisa, che era per lui la citta-mito della salvezza dei nostri studi. Un giorno mi disse:

« Quello si che € un uomo, concludente, fattivo, che mantiene quel

che promette:

ma questi di Firenze... ». E disegnava certe figurine

nell’aria, come segni di una sua cabala interna. « Che, che, che! » e qui una paroletta che la castita dell’eloquio mi vieta di riferire. Ma a proposito del Barbi insegnante, si é sempre sussurrato che

egli non amasse la scuola. Orbene egli non faceva alcun mistero di questa sua scolastica tiepidezza. « Che, che, che!!! con tutte quelle donnette! non c’é sugo». E un giorno mi disse: « Oggi compio i miei venticinque anni, non so se dire di insegnamento o di non insegnamento », e rise della sua celia. Ma egli cosi arguteggiava, perché era sicuro dentro anche per questo punto, ché non era un ozioso e sentiva che il suo lavoro di maestro era altrove, non soltanto nella conversazione e nei larghi consigli, che dava a noi adulti (era una specie di personale e ambulante Sorbonne per tutti noi), ma perché nell’opera sua & vivissima, anche fin troppo, questa preoccupazione didascalica. Il volume Con Dante e coi suoi interpreti, per non dire delle sue numerose recensioni, é il libro, a tratti, di un pedagogo, che corregge pazientemente gli errori dei suoi scolari; e i suoi scolari si chiamavano Grabher, Steiner, Pietrobono, Scarano e cento altri. E con tutti aveva una grande pazienza, mentre talvolta si sarebbe desiderato che lasciasse andare e che scrivesse lui un commento a Dante, un commento che fosse una condanna implicita degli spropositi, delle esagerazioni, degli arbitrii di altri commentatori. In questo senso, il Barbi, oltre che maestro vero, fu, o si senti fin troppo, maestro di scuola. Perd egli era serenissimo nella sua coscienza di esonerato per molti anni dall’insegnamento attivo, e nessuno di noi gli invidid quel privilegio perché quel privilegio poteva essere soltanto suo, perché di esso egli largamente ricompensava la scienza e la scuola italiana. Questa serenita arguta il Barbi ebbe sempre anche per la morte, per la sua morte, della quale discorreva come di un « partito comunale », su cui non bisognava fare piati e piagnistei. Si rammaricava soltanto dei tanti lavori che lasciava incompiuti: « Mi raccomando a te che sei, come tu dici, per il ‘non mollare’, a Gentile, e agli scolari della Normale ». Quattro o cinque anni fa egli entrava in una clinica per una laboriosa e difficile operazione; lo andai a salutare nella sua cameretta di ospedale. Era giallo e invaso dalle infezioni delle feci: mi parve un dissepolto. Ebbi paura e sconforto, poiché con questo animo e con questo corpo io ho, non di rado, paura e sconforto. Gli stesi la mano, e mi parve che lo dovessi

66

Michele Barbi e la nuova filologia

salutare per l’ultima volta. « Addio », egli mi disse, e levd lentamente la palpebra dell’occhio sinistro. Allora intravidi come una sottilissima correzione ironica al mio fanciullesco spavento, V’arguzia solita della sua pupilla, quella pupilla in cui io leggevo tante cose, poiché egli amava sempre il discorso ellittico nella conversazione e lasciava l’intendete e il comple-

tare all’ascoltatore discreto. Mi ridussi a casa; e mi buttai, soverchiato dall’angoscia, sul letto. Una persona cara, abituata a questi miei eccessi di kirchegordiano del Novecento, quando ebbe sentito il particolare della pupilla arguta, mi disse, tanto per dire qualche cosa come si fa coi ragazzi: « Va 1a, il Barbi @ troppo furbo per poter morire cosi da un momento all’altro. Se @ entrato in clinica, deve aver fatto bene i suoi conti. Vedrai che guarisce ». Il Barbi guari veramente ed io, poiché non avevo segreti per lui (ed egli mi voleva bene forse per questo), gli raccontai l’aneddoto augurale. Il Barbi, come succhiandosi compiaciuto le parole, mi disse: « Ah, queste nostre donne capiscono tante cose meglio di noi» (e alludeva anche alla sorella e alla nipote, delle quali mi parlava sempre con tenerezza grandissima e gelosa cura); poi aggiunse: « Uno di questi -giorni vengo a riverire la tua signora, e per ringraziarla ». Poi si tornd spesso su questi discorsi di morte, e una volta, nel

giardino d’Azeglio, mi ripeté alcuni versi di Cavalcanti, i soli versi che io ho sentito ripetere da lui, che conosceva tutto Dante a mente,

e molti altri poeti della nostra letteratura aveva stato intimo di Carducci e di Pascoli; ma mi estremo pudore di filologo, non volesse guastare i testi coi suoi affetti quotidiani. « Noi siam le

familiari, e che era pareva che per un quasi e contaminare tristi penne isbigot-

tite, Le cesoiuzze e ’] coltellin dolente... La man che ci movea dice che sente Cose dubiose nel core apparite ». Quel giorno il povero Barbi parlava veramente fiochetto e piano. Questo @ uno degli ultimi ricordi che mi rimangono di lui; quando nel tardo settembre del 41, ebbi al mare apuano un telegramma del Pasquali’. Mi diceva di andare a Firenze, poiché il Barbi, il nostro Barbi, non era piu, e bisognava che almeno pochi, quelli da cui egli si sentiva amato, con semplicita e senza atzigogoli di carriera, fossero presenti alle esequie. Aveva detto a Maria Vandelli, la figliuola di Giuseppe Vandelli, un altro degli amici a cui era stato legato per lunghissimi anni da grande affetto e stima (poiché Michele Barbi era capace di grandi affetti, proprio nella misura stessa con cui li dissimulava), aveva detto con grande risolutezza, poche ore prima di morire, « Mi rac1 TI] Barbi si spense il 23 di quel mese.

67

me aggini: « Saluta tanto eeamici ».

Ty

43 ead oggi qui, in questa Scuola Normale, che ise tanto amava, tutti iamo riuniti, non per una delle solite commemorazioni cade

, ma per il ticordo umano e veritieto di un maestro, di 1 co, di una persona della nostra famiglia.

IV.

Tendenze metodologiche della critica contemporanea'

1.

Lo storicismo

assoluto.

La critica letteraria italiana, nell’ultimo trentennio, & dominata,

volente o Croce, con attraverso il 1910, si

nolente, dalle teorie e riforme metodologiche, che il assidua opera di critico e di filosofo, € venuto bandendo la molteplice opera sua. In principio, tra il 1900 e profil come un’antitesi tra scuola estetica e scuola sto-

rica, tra metodo estetico e metodo filologico; sennonché, a poco a

poco, questa antitesi polemica @ venuta sparendo, e i seguaci della critica estetica sentono di fare, in tutto e per tutto, della critica storica, storia della poesia, storia della cultura, storia della vita morale, tra loro distinguentisi e intersecantisi; e i seguaci del metodo filologico-erudito tendono essi stessi a una filologia e a una erudizione, che non trascura o dimentica o abbassa l’opera d’arte a mero documento, ma sentono |’opera d’arte, l’episodio di cultura, la testimonianza della vita etica, come il termine ideale, sottinteso od esplicito, delle loro particolari ricerche. Solo qualche ritardatario continua a parlare ancora di critica estetica e di critica storica, come

di due forme nemiche o integratrici |’una dell’altra;.e in un certo senso, s’é perfino lasciato cadere l’aggettivo o estetico o storico, come un aggettivo superfluo, e si parla soltanto di un nuovo storicismo assoluto, in cui le vecchie tendenze storicistiche ed estetiche insieme sono superate, riscattate e legittimate e risanate in quello che é il loro spirito vitale. Quegli stessi studiosi, che dicono di recalcitrare a questo nuovo storicismo assoluto, per l’assidua e inquieta polemica con cui vengono seguendo saggi e monografie del nuovo indirizzo, dimostrano la loro soggezione ideale, ché il loro patimento pud anzi considerarsi come |’omaggio sempre attuale 1 Ricordo che la prima parte di questo saggio fu una lettura tenuta al congresso di storia letteraria di Budapest, nel maggio del 1931; i due capito-

letti finali sono stati redatti nel 1935-36.

69

Dal Carducci

al Croce

e vivo a quei principi a cui vorrebbero contrastare. Cosicché il loro atteggiamento di battaglia finisce con l’essere una forma di indiretto ma pit significativo riconoscimento e di laboriosa e sia pure difficoltosa assimilazione dei metodi dei presunti avversari. Anche la vecchia distinzione tra critica accademica che si occupava soltanto di problemi della letteratura classica, e critica militante, che aveva l’occhio alla letteratura moderna

e contemporanea,

si @ venuta (e oggi forse fin troppo) sempre pit: attenuando; e i nostri migliori universitari si battono per il chiarimento dei problemi letterari dell’ultimo cinquantennio, trascorrendo dall’indagine sull’arte di uno scrittore recente allo studio di un pensatore del ’500 0 allo studio filologico di un qualche poeta delle origini. Tale influenza di una critica pit sistematica, e senza esclusioni di eta e di periodi, si @ fatta sentire negli stessi critici di giornali e di riviste, i quali ambiscono sempre pit al nome di uomini di buone lettere, e, all’antico

mal dissimulato

disprezzo

per la critica acca-

demica, si @ venuto sostituendo rispetto e riconoscenza verso 1 maestri universitari di filologia e di critica classica. L’appassionamento che si @ avuto, in Italia, per un ventennio e pit, per la letteratura moderna e contemporanea, per la poesia di un Carducci, di un D’Annunzio, di un Pascoli, per l’arte di un Verga, di un Fogazzaro, di un Di Giacomo, di un Pirandello, e insieme per la letteratura filosofica che faceva capo al Croce, non era una forma di superficialita, uno sfogo in una provincia letteraria di pit facili studi, come si sforzavano di credere alcuni accademici vecchio stile; ma era soltanto una iniziazione di cultura e di vita, un tramite per lo svecchiamento di un’antiquata scolastica, era tutto un travaglioso schiarimento di una nuova visione morale della vita e dell’arte e degli studi, e lievitd fortemente negli animi e nelle menti pit capaci per ulteriori esperienze e per pit conclusive indagini. 2.

La tendenza individualizzante

della nuova

critica.

Se poi si volesse riassumere in una caratteristica generale quella che @ la fisonomia degli studi letterari italiani in quest’ultimo trentennio, bisognerebbe parlare di una storiografia di tipo monografico 0, meglio ancora, per evitare l’equivoco che il genere letterario della monogtafia rappresenta, di una storiografia di tendenza individualizzante. Monografie e saggi e storie generali e storie di un periodo letterario, di un ciclo, di un movimento di cultura, si sono configurate sempre come storie di personalita. Alla storia sociologica di tipo romantico, alla storia atomistica e perife-

70

a=

Tendenze

metodologiche della critica contemporanea

rica ed esterna di tipo positivistico, s’& contrapposta una storia che andava all’intimo delle individualita degli scrittori, e che particolareggiava la stessa storia della cultura come storia di problemi visti nel loro concreto generarsi nelle singole figure di pensatori, maestri, apostoli, uomini di azione. In questo processo individualizzante, veniva appagata in una forma superiore la curiosita d’ordine psicologico e biografico; si lasciava cadere una biografia dell’esterno e dell’effimero, per tracciare una biografia ideale dello scrittore, la descrizione del suo mondo spirituale, nella sua genesi e nel suo sviluppo. Per questo gusto di una storia trascendentale e al tempo stesso individualizzante, la cultura italiana, in quest’ultimo tempo, si é@ trovata particolarmente agguerrita a respingere le cosiddette «biografie romanzate », che da noi di fatti hanno avuto assai scarsa fortuna di imitatori e di lettori. Si sono considerate le « biografie romanzate », come un nuovo capitolo della letteratura amena, atte piuttosto a soddisfare un certo edonismo e un certo epicureismo spirituale d’ordine inferiore, che a rispondere a una profonda esigenza di vita morale e storica’. Ed @ apparsa chiara a molti la figura decadentistica di coteste epopee pittoresche dell’individuo, che poi finivano con l’essere la mortificazione della pit vera individualita, che non é tanto rilievo di fantastiche qualita solitarie, quanto accordo provvidenziale con l’intima logica delle cose e degli avvenimenti. Uno dei pit celebri costruttori di biografie romanzate, il Ludwig, @ stato definito da noi col nome di Guido da Verona della storiografia, cio@ a dire col nome del nostro romanziere che, durante le ultime stagioni della prima guerra europea e nell’immediato dopoguerra, conquistd rapidamente le folle inferiori dei lettori, per

limpeto

grossamente

mistico

con

cui veniva

drappeg-

giando la cupiditas contemporanea, la frenesia sensuale e sessuale del godimento, della ricchezza, del nomadismo. E la definizione ha avuto fortuna, e resta come simbolo di uno stato d’animo assai diffuso in Italia. Giacché lo storicismo individualizzante, di cui facciamo parola, aveva gid per suo conto radicato il sentimento dellunita tra universale e individuale, tra il movimento delle idee e quello delle persone, tra la storia e la biografia, ed era venuto educando le menti all’indagine della biografia come storia dell’uomo obbiettivata nella storia del tempo, e perd a superarla come bio1

Recentemente

conferenza

alla Radio

il Croce

ha battuto

di Lugano,

contro

le « vite romanzate »

tenuta il 4 ottobre

1936. La vedo

in una

riprodotta

in un foglietto volante, edito dal Laterza, col titolo: Le odierne « vite romanzate» e 4 vecchi « romanzi storici » (1936), e ora nel vol. V delle Conversazioni critiche.

i:

Dal Carducci al Croce

grafia nella storia; e d’altra parte a indagare la storia stessa, non come movimento di idee astratte, ma come movimento di idee incarnate negli individui, quindi a trattare questa storia come se essa fosse una specie di biografia ideale ed eterna. Nel campo pit strettamente letterario, con questa storiografia di tipo individualizzante, si é voluto reagire a un certo generico moralismo, quale si avvertiva nella stessa Storia della Letteratura del De Sanctis, e a quegli schemi sociologici e alle storie per generi letterari, che avevano avuto cosi larga fortuna per tutto il secolo x1x. Il De Sanctis, con la sua Storia della Letteratura, ci aveva

dato una dottrina implicita sul metodo di sviluppare la storia delle opere d’arte, mirando a una storia in cui le personalita dei singoli poeti s’inquadrassero e si giustificassero nella generale storia dello spirito umano, e particolarmente dello spirito italiano. Cosi la sua storia letteraria si configurd al tempo stesso come la storia morale del popolo italiano. E in verita quell’opera si colloca nella serie dei capolavori, perché fu intelligenza dell’arte nella sua pienezza, nella sua totalita, poiché ogni opera d’arte € un mondo, e come tale essa esprime |’unita della vita e non si pud fare uno stacco in essa, e non si pud eseguire la storia del suo valore puramente estetico, senza cadere nell’astrattezza. Questo intese il De Sanctis; ma poiché egli non sempre ebbe una rigida e lucidissima coscienza riflessa della sua teorica, fu tratto ad attribuire il progresso alle forme artistiche (mentre non si da progresso nelle forme individuali); quel progresso che c’é, in verita, solo se si considera l’astratto contenuto delle opere. Cosi il De Sanctis immagind progresso dalla forma dantesca alla forma shakespeariana, e poté giudicare la Divina Commedia nel suo valore poetico, come progressivamente discendente, perché il contenuto umano dell’Izferno decade in quello meno appassionato del Purgatorio, e poi in quello etereo del Paradiso. E fu errore, temperato solo in lui dal suo vivo senso dell’arte, che gli fece ammirare anche le bellezze disseminate a piene mani nel Paradiso, senza che pur giungesse a cogliere l’unitaria bellezza della cantica. Questo pericolo si nascondeva nell’insegnamento del De Sanctis, e il merito del Croce @ stato quello di aver affermato risolutamente l’autogenesi e l’assoluta improgredibilita delle forme attistiche; e la sua Riforma della storia artistica e letteraria ritiene questo merito positivo, di avere richiamato energicamente I’attenzione sul carattere assolutamente individuale e autogenetico delle opere d’arte, e di avere propugnato una rigorosa critica d’arte affatto libera da ogni interferenza di giudizi circa il valore logico e

14

Tendenze

metodologiche

della critica contemporanea

morale dell’astratto contenuto. Se l’arte & sintesi a priori estetica, come non si puo fare una storia delle « forme », che sarebbe storia di un’astratta possibilita — e la tesi @ postulata da alcuni critici darte contemporanei, i quali vorrebbero intendere la storia delParte come storia non di personalita, ma di procedimenti artistici, di stili cioé, che sono astrazioni dalle singole e concrete opere d’arte —: cosi non é possibile una storia dell’arte in cui interferiscano giudizi sul carattere intellettuale e pratico delle opere poetiche. Ora la storia per concetti generali, propria del periodo romantico, ebbe questo vizio, di astrarre i caratteri generali delle opere d’arte, cid che poi finiva coll’essere una dissipazione e volatilizzazione del quid individuale dell’arte stessa. E come i moderni « stilisti » o « formalisti », sopravvissuti e inconsapevoli seguaci di una forma di herbartismo estetico, riescono a una storia di astrazioni, cosi i romantici,

per Valtro lato, quando sacrificavano la personalita dell’artista agli schemi generici, anche essi riuscivano a una storia di astrazioni. In tal modo, la storiografia letteraria italiana contemporanea, individualizzando sempre il problema artistico nel vivo di una personalita, da una parte vuol reagire al puro estetismo formale, e dall’altra vuol reagire al moralismo e al sociologismo, e a ogni forma di puro contenutismo. 3.

L’altra tendenza antirazzistica della nostra critica.

Ancora: cotesto sentimento individualizzante della storia artistica ci ha largamente immunizzato dalle concezioni nazionalistiche o etnologiche, razzistiche, della storia civile e letteraria. Il vecchio problema dei romantici, inteso a indagare il « senso », il « carattere » o la « legge che governa la poesia di un popolo », appare oggi problema di carattere mitologico, non critico e scientifico, ma arbitrario e fantastico, che si lega al concetto della poesia come espressione dello spirito di un popolo. E da noi é caduto in disuso e in dispregio. Il tentativo da parte di qualche scrittore brillante di rinfrescare questo problema del senso delle singole letterature europee ha incontrato rapidissima reazione, e reazione non disordinata, fortuita, e sporadica, ma riflessa organica e metodica’. E la reazione era accompagnata da una disposizione anche benevola ai riconoscimenti storici: segno che si trattava di una reazione non capricciosa, ma incentrata tutta in un nuovo e adulto sistema di idee. Si é difatti riconosciuto, per giustizia storica, che quel problema del « senso » 1 Si veda nel secondo volume

teraria contemporanea,

[Libro secondo}

il capitolo Ritorni

di quest’opera La critica let-

ed esaurimento

di vecchie

ideologie

romantiche.

us:

Dal Carducci

al Croce

della letteratura dei singoli popoli ebbe pur la sua importanza critica sul finire del Settecento e dell’Ottocento, quando esso comincio a delinearsi nelle menti, sotto l’influenza dell’estetica vichiana ed hegeliana. E stato riconosciuto come tale problema rappresentasse una prima evasione dalla pura erudizione, dal puro biografismo, e come fosse valso ad avviare una visione meno superficiale delle singole letterature, e come rappresentasse ancora uno sfogo alle passioni morali e politiche, che furono l’impetuosa caratteristica della prima civilta romantica. Giacché nel problema vi era nient’altro che un riflesso di quel recente mito della nazionalita, che doveva dare una nuova configurazione alla vita dei paesi europei. Ma, insieme con questo riconoscimento,

si @ badato a rilevare

il carattere sofistico e un poco giacobino di cotesto condensare in caratteri eterni e nativi quella che é la fisonomia versatile e sempre nuova e irrequieta delle letterature dei singoli popoli. In Italia sono

cadute presto coteste

interpretazioni

nazionali-

stiche e razzistiche, non tanto per il decadere delle passioni nazionali o di razza, che pur trovarono e trovano altre vie di sfogo, ma piuttosto per l’esaurirsi del concetto romantico dell’arte, e per il maturarsi di un concetto assolutamente diverso, e per alcuni aspetti polemicamente antitetico dell’arte, quale in modo particolare é stato elaborato nel nostro paese. Difatti questo problema del senso, del carattere, delle singole letterature, era legato implicitamente od esplicitamente con I’Estetica di tipo hegeliano, con |’Estetica dell’Idea, che continud a trionfare, anche quando non se ne discorreva pit, cioé dell’estetica che intendeva la poesia e l’arte come simboleggiamento del concetto filosofico, e per cui ogni letteratura era la parvenza luminosa, l’immagine sensibile, l’incarnazione concreta e mondana di una filosofia, dell’Idea. Ma, negli ultimi trent’anni, non soltanto per vaga sensibilita, ma per sistemazione organica di principi, si & maturato il concetto delTarte non pit come simbolo dell’Idea, ma dell’arte come simbolo solo di se medesima, come atto spirituale che in sé risolve il mondo totale, e la cui storia non é la storia preordinata da un destino del « genio della stirpe », perché essa si da a ogni momento nuove leggi e si assegna nuove mete, fuori di ogni determinismo nazionale. Oggi il poeta é come l’Omero di cui parlava il giovane Manzoni nel carme sull’Imbonati, « cui poi, tolto a la terra, Argo ad Atene, e Rodi a Smirna cittadin contende: E patria ei non conosce altra che il cielo ». Il creatore di ogni tempo oggi potrebbe ripetere, e sia pure con mutato significato e spirito, le parole di Vittorio Alferi:

74

eS

Tendenze

metodologiche

della critica contemporanea

« I] mio nome é Vittorio Alfieri: il luogo dov’io son nato I’Italia: nessuna terra mi € patria». Dove non si propugna un’arte e una poesia che nascano in un terreno al di fuori delle singole patrie, ma soltanto un’arte e una poesia che sappiano risolvere la patria terrestre che ha troppo materiali confini di tempo e di spazio in quelPaltra patria che é@ cielo della sua fantasia e della sua individuale esperienza storica. Ciascun’anima di poeta @ cittadina di una vera citta, si potrebbe dire con parole dantesche, « ma tu vuo’ dire Che vivesse in Italia peregrina ». Cosi la storiografia

italiana, col suo

metodo

individualizzante,

riesce alla concezione pit universale dell’arte, e, pur nel campo della metodologia letteraria e senza svolazzi retorici ma per obbiettivita di logica scientifica, collabora a quello spirito sopranazionale che é@ la ticchezza superiore della vita morale dei popoli, e si fa propizia alVintelligenza di un’arte e di una civilta europea. E risulta vana la preoccupazione degli avversari di questa filosofia dell’arte come simbolo di se medesima, quando essi sospettano che una storiografia individualizzante possa non essere altro che una storiografia monadistica. Ma @ proprio vero che l’astratto universalismo di cotesti generici dell’arte porta alle classificazioni chiuse, e agli ordinamenti in senso etnico, o in senso altrimenti politico e pratico, mentre per noi @ in giuoco l’individuo poetico: non l’individuo particolare, ma Vuniversale nella sua forma concreta, il quale per l’appunto é aperto

a tutta la storia, perché tutta la storia si contrae in lui. Per noi, in vero, nell’arte di un creatore si assomma e si contrae tutto il passato, tutto il suo passato, come é, vivo nella sua anima di artista, di cittadino del mondo, ma anche di cittadino della sua nazione e perfino della sua provincia e di un suo villaggio e del suo stesso focolare domestico. L’esperienza romantica dei diversi umori nazionali, frutto di particolari tradizioni autoctone, non si rinnega. La faccia spagnolissima che attirava l’attenzione di uno dei primi scopritori dei diversi caratteri nazionali d’Europa dopo il generico cosmopolitismo settecentesco, resta pur faccia spagnolissima; cosi come gli italiani, sempre secondo |’Alfieri, volevano distinguersi « agli enormi e sublimi delitti » che tutto di si van commettendo nel loro paese. Ma bisognera anche aggiungere che dove tale carattere nazionale é troppo sensibile e troppo rilevato, li bisogna temere per le sorti e l’esistenza stessa della poesia. La teoresi della poesia deve fare impallidire e vanire la fisica delle nazioni, e trasmutare gli uomini dai loro primi concetti. La poesia nasce sempre soprannazionale, e in questa sua sopranita é il varco e il flusso sempre mobile verso la Weltliteratur.

iD

Dal Carducci al Croce

4. Concezione classica della poesia e della critica.

Insieme con questa tendenza individualizzante della nostra storiografia letteraria, si @ fatta strada in Italia un’altra tendenza che possiamo chiamare la tendenza classica della critica. E_mutato il rapporto tra la critica e l’arte, tra il critico e il poeta. La vecchia dottrina romantica concepiva ]’arte come la primogenita di Dio; e la critica era qualche cosa come un’attivita postuma, che giungeva dopo l’arte, e che sarebbe potuta anche non esserci. Da cid lo sforzo di nobilitare la critica, con qualche metodo esterno, o incitandola a gareggiare con l’arte, a giuocare di grazia di immagini e di scapricciamenti fantastici, e a presentarsi essa stessa come un’opera d’arte che nasca su un’altra opera d’arte. Ancora oggi la critica che adegui Varte e la poesia é la fantasticheria, il desiderio sempre ritornante, di alcuni infanti della cultura estetistica e decadente. Cosi si formd il mito del critico come artifex additus artifici, che poi, in certi casi, poteva essere un povero manovale, che si arrabattava soltanto a fare un’involontaria parodia dell’arte; sicché la superbia del critico-artista era in fondo un male dissimulato senso della inferiorita ideale della sua funzione. Ma, col nostro storicismo, la critica non @ qualcosa di postumo, che giunge dopo, nell’opera d’arte, e che pud esserci e non esserci; ma essa é gid immanente nell’opera d’arte stessa. I] critico non fa che perpetuare quel travaglio dialettico, che fu proprio dell’artista nelle vicende della sua creazione, sicché si potrebbe dire che l’opera d’arte esiste, ha solo la sua realta, nella critica, nella critica del poeta stesso o del suo eterno lettore: ha la sua realta nella critica, come un corpo nella luce, come il sogno nella veglia. Anche la lettura pit ingenua é sempre una sottintesa lettura critica, e ciascun lettore, anche se non lo sa, € un compendio di critica pit o meno rozza, pi o meno complessa, pit o meno illuminata. Lo stesso lettore comune, quando intenda e gusti il valore di un’opera d’arte, si serve inavvertitamente di quella filosofia diffusa, di quelle indagini e meditazioni e degli stessi errori dei critici di professione, che son diventati patrimonio di tutti. Non pit dunque il critico come artifex additus artifici, ma il critico come philosophus additus artifici. E perché filosofo, creatore anch’esso di un nuovo cosmo, non pit poetico ma logico, e perd non pit orgogliosamente e anche fatuamente gareggiante in un certame di immagini e di fantasie col suo poeta, ma libero e assoluto nel suo mondo di pensiero; e perd scevro di quella forma spasmodica, con cui qualcuno vorrebbe tradurre i miti dell’arte altrui intorbidandola con altri suoi miti, e offuscando le immagini con altre sue immagini. Ecco perché si dice che tal

76

Tendenze

metodologiche

della critica contemporanea

tipo di critica, da noi voluta, tutta serena nella sua creazione logica, é una critica di tendenza classica, ed essa sola, nelle sue forme riuscite, si colloca alla pari dell’opera d’arte, senza che pur voglia gareggiare con l’opera d’arte. In tal modo, un grande storico della poesia ha la potenza creatrice, ma di ordine diverso, quale si ascrive al poeta; e, in questa consapevolezza, esso non si distrae dal suo ufficio, né plora femminilmente per la sua inferiorita, né giudica con orgoglio offeso e risentito di magistrato. Giacché il suo giudicare, non é un giudicare l’opera altrui, ma & un muoversi, in pur trepidante modestia e superbia, ed un misurarsi nella coerenza e nell’ordine del proprio mondo mentale. Cid che ci induce a modificare la formula del philosophus additus artifici in quell’altra del philosophus additus sibi ipsi, perché nella prima permane sempre un equivoco dualistico e come una distinzione fenomenica dell’arte da una parte e della critica dall’altra, le quali a un certo momento entrerebbero in relazione. II critico gira intorno al monumento, ma non si identifica in esso. Mentre in verita il critico entra in relazione solo con se stesso, col mondo artistico vissuto e assorbito dentro, ed egli pensa non gia a chiarire Varte altrui, ma a chiarire se stesso, a rispondere ai suoi problemi. Il rapporto della critica e dell’arte non é@ diverso del rapporto delVarte e dell’esperienza umana, dell’arte e della vita vissuta: pare che artista si faccia a riprodurre una realta, tipi conosciuti nel mondo, e invece capta, attinge soltanto dentro di sé, quelli che sono i fantasmi della sua mente. Allo stesso modo il critico piega Varte altrui a semplice materia del suo filosofare e del suo giudicare. I] che non porta a concludere sul relativismo della critica, cosi come non si vuol far sospettare di un relativismo dell’arte: l’oggetto del nostro giudicare una volta absorto dentro la mente diventa il tiranno del nostro pensare, e ci costringe alla coerenza. La filologia si é consustanziata nella filosofia. Si parla della coerenza interna, e non pit della verisimiglianza dell’arte; allo stesso modo si parli anche della coerenza interna, e non gia della adeguazione estrinseca della critica ai testi. Il vero della critica & vero, perché esso ha gia assorbito dentro di sé il certo. . Questo mutato rapporto tra la critica e l’arte € venuto anche trasfigurando il concetto di poesia che, nella prima estetica crociana, e con risentimento della tradizionale estetica vichiana e romantica, pareva

caratterizzata

da una

ingenuita

nativa e di natura.

Ma

se

Varte porta in sé come sigillata e invisibile quella logica critica, che governd l’artista nel travaglio della creazione, e che si perpetua in ogni lettore che riflette su quell’arte, cotesta arte non puo essere

i

\

Dal Carducci al Croce

dunque vita ingenua e aurorale dello spirito, tutta al di qua da ogni riflessione metafisica. L’ingenuita dell’arte (e ingenuita ¢ certamente il suo carattere precipuo) non pud essere un’ingenuita di natura, ma una ingenuita di conquista. L’arte non nasce, ma diventa ingenua, e€ diventa ingenua attraverso una sempre pit: attenta purificazione e sublimazione di cultura. La poesia non é una barbarie naturale, ma é una barbarie che si ha per conquista; e la verginita poetica la si possiede veramente, quando la si é ben perduta. Essa non é tale alVorigine, ma nell’evoluzione di un processo spirituale. Viene oltrepassato, in tal modo, il concetto romantico dell’arte che aveva dato grande valore al primitivo, al violento, al barbarico, al passionale, all’immediato; mentre il nostro storicismo classico guarda all’arte come a qualcosa di profondamente vissuto e storica-

mente elaborato, e che pur porta un suo segno e pudore virginale. L’arte é un fiore che sorge su una ecatombe di storia. L’arte @ la forma aurorale dello spirito, ma é un’aurora che ha conosciuto contemporaneamente la vigilia notturna e il pieno mezzogiorno’. Anche le poetiche degli scrittori contemporanei, che danno tanta — importanza alla letteratura, al tirocinio, all’arte come me stiere, e fanno nascere la loro produzione poetica e letteraria da una macerazione di cultura, ribadiscono cotesto principio di un’arte e di una poesia, la cui verginita e ingenuita sono una verginita, e una ingenuita di conquista e non di natura. L’estetica vichiana, per cui

la poesia é la prima operazione della mente, é completamente trasfigurata nel nostro giudizio: non c’é una prima operazione della mente e un operazione

successiva, ma

c’é soltanto un’esperienza circolare,

e arte e la poesia nascono da questo eterno periplo dell’intelligenza e della fantasia. E una specie di ritorno di cartesianesimo, di quel cartesianesimo che voleva costruire con un atto di volonta i poemi, cosi come illuministicamente costruiva nuove societa, nuove civilta, nuovi stati ideali, col freddo ardore (se & lecito dire) del geometra

che intaglia a secco sul vetro le sue figure. Ma s’intende bene che cotesto rinnovato illuminismo e razionalismo non @ un ritorno al cartesianesimo puro e semplice, verbalmente caro ancora oggi ai letterati francesi, ma a un cartesianesimo in cui & maturato dentro tutto

il pathos del primitivismo, del barbarico, del violento proprio delPestetica di Vico e di tutte le estetiche romantiche. La poesia ingenua e sentimentale dello Schiller oggi & ingenua e sentimentale 1 Concetti analoghi io esprimevo gia nel 1926, in quel mio scritto che qui riappare (Volume II) [Libro secondo} col titolo mutato La critica dantesca e€ gli esperimenti dello storicismo. E mi sia lecito riassorbire alcune delle antiche parole di quello scritto, pur rammentandone la pid antica datazione cronologica.

78

Tendenze

metodologiche

della critica contemporanea

soltanto perché & letterata, grazie appunto agli artifici della letteratura, senza la quale cotesta spontaneita del sentire € una menzogna e una presunzione. Del resto nello stesso Vico é adombrato questo concetto di una poesia carica di tutti i succhi € le riflessioni di una civilta, se anche per lui la favella poetica dei grandi creatori sa sopravvivere e iscorrere per lungo tratto dentro

il tempo storico o eta civile. Ma il maestro del Settecento doveva piuttosto insistere sulla « sensualita » anzi che sulla « intellettualita » dell’arte e della poesia, perché il nemico allora prossimo e tiranneggiante era Vintellettualismo cartesiano, che non solo negava la fantasia, ma tentava di ridurre a forma matematica anche la me-tafisica e Detica, e propugnava la possibilita di lingue artificiali logiche pit perfette di quelle viventi, ed escogitava regole per comporre arie musicali senza essere musici, e poemi senza essere poeti. Questo

ritorno dunque del gusto dell’ordine, della finitezza, della classicita, é un po’ come la rivincita di Cartesio soffocato dalla voce barbaricamente vigorosa del filosofo Vico, celebratore dei bestioni primitivi, di quelle umane belve pur care alla fantasia poetica di Ugo Foscolo; ma é una rivincita che é trasfigurazione. Non il razionalismo ritorna, ma lo storicismo si svolge anche negli stessi spiriti che ne sono inconsapevoli, e trionfa nell’arte stessa che nasce da una esperienza storica e non da un semplice sogno o dallo stupore del risveglio alle origini del mondo, e nemmeno da una semplice bravura tecnica di geometri. Razionalismo cartesiano e romanticismo vichiano hanno oggi trovato la loro vittoria e la loro morte nello storicismo contemporaneo: lo storicismo che non é@ l’insegna di una scuola filosofica, ma é la svolgentesi intuizione del mondo contemporaneo, il nostro nuovo umanesimo di novecentisti. La rivalutazione che in questi ultimi anni si € venuta compiendo del Paradiso dantesco é un piccolo esempio di questo nuovo orientamento della critica, antitetico a quello della critica romantica, per cui l’Inferno era pit poetico, soltanto perché quello era il mondo della passione, della carne, del violento. Ma Minerva oscura sa essere pure pronuba divina di alta poesia. E il caso di Dante é il caso analogo degli altri poeti, il caso del Foscolo, del Manzoni, del Carducci, del Leopardi, miracolo quest’ultimo di dottrina, di erudizione e di tribolante riflessione, e miracolo al tempo stesso di ingenuita e primitivita poetica. Onde si puod concludere che tale nostra concezione cosmica dell’arte, mentre rigetta ogni forma di intellettualismo e acrobatismo, postulando questa sovrana innocenza e ingenuita come suo divino privilegio, finisce con l’essere al tempo stesso una battaglia contro ogni mito dell’arte-

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Dal Gentile agli ultimt romantici

stilistica psicologiche del Gréber e all’applicazione che ne faceva Carlo Vossler nel suo saggio sullo stile del Cellini. Poi le Tesi fondamentali di Estetica del 1900, un altro opuscolo crociano G. B. Vico scopritore della scienza estetica del 1901, la prima edizione del-

Estetica, e proprio su quel Giornale storico della letteratura ita-

liana che fin d’allora si assumeva l’ufficio di roccaforte della storiografia tradizionale e meramente erudita « contro il rinascente esteticume » (l’espressione é di Rodolfo Renier).

Il Gentile ha accompagnato la nascita e lo sviluppo dell’estetica crociana anche negli anni successivi almeno fino al 1918, discutendo © annunziando le nuove speculazioni del filosofo napoletano poi raccolte nei Nuovi saggi d’estetica; ma tale discussione teorica ha avuto il suo epilogo nella Filosofia dell’arte, e perd se ne discorrera pit innanzi. Ora c’importano le dirette esperienze letterarie dell’autore, che preparano o spiegano le inclinazioni particolari della sua estetica: la quale in ogni tempo ha inteso l’arte come circolo di poesiafilosofia. E perd i cinque poeti-filosofi della letteratura italiana che impegnano la mente del Gentile sono Iacopone, Dante, Campanella, Leopardi, Manzoni. Nessun interesse per le letterature straniere, se non per qualche episodico accenno al Faust goethiano, contrapposto alla Divina Commedia per la sua meno tenace e rigorosa complessione (nel significato etimologico del termine) di poesia-filosofia. 2.

Il sociologismo filosofico del Gentile.

Noi dobbiamo giungere al 1908, quando il Gentile, appena trentatreenne, fece uscire nella collezione Generi letterari del Vallardi un

volume sulla Filosofia, che purtroppo si @ arrestato ai primi due grossi capitoli sulla Fine della scolastica e sull’Umanesimo': libro assai bene impiantato su una salda preparazione storica, e in cui, secondo gli insegnamenti del D’Ancona ancora presenti, & curata ogni minuzia di date e di nomi e di cenni biografici, e in cui sorprende il vigoroso senso speculativo e l’afflato storico sicuro con cui sono segnate e caratterizzate le varie posizioni non solo dei filosofi, ma dei mistici e poeti come Iacopone, e dei poeti come Dante e Petrarca e dei vari filologi del primo umanesimo. II libro letterariamente si arresta a Lorenzo Valla e gli inizi del naturalismo, e la pagina del volume rimasta in tronco é la 288; ma, come avviene di solito nei libri dei pensatori che hanno una personalita, esso trova N

1 Ora, l’Autore mi comunica, € stata portata a termine l’indagine per tutto l'Umanesimo. Vedi ora lano, Vallardi, 1947.

zh2

per questo

periodo

E. GARIN,

La filosofia, voll. 2, Mi-

BR iry

; Giovanni

Gentile storico della letteratura e filosofo dell’arte. I

la sua continuazione ideale negli studi sul Rinascimento, che, dopo varia fortuna di titoli, ora hanno assunto quello definitivo del Pensiero italiano del Rinascimento (1940). Resta perd il rammarico che lesposizione sistematica intrapresa con La fine della scolastica sia timasta in tronco, e che la continuazione sia affidata a saggi saltuari pit. che occasionali (questi a noi sono pur cari, se altre volte abbiamo detto che l’occasionalita in senso goethiano & un po’ la caratteristica di tutta la migliore storiografia contemporanea), come conferenze e orazioni accademiche, o analisi preliminarmente erudite: le

prime che piegano necessariamente a un tono oratorio e approssimativo il motivo che vi circola di verita, le seconde che allentano Vesposizione sotto la grave mora del programma documentario (tipico lo scritto sul Concetto dell’uomo nel Rinascimento). L’autore stesso del resto ha questa coscienza e partecipa del pio rammarico del lettore, se nell’agosto del 1939 poteva lealmente sctivere queste parole:

Il libro ha il carattere composito e frammentario di una raccolta di scritti nati in vari tempi lungo pit d’un trentennio; una raccolta in cui taluni argomenti tornano naturalmente ad essere trattati pit d’una volta, e certe ripetizioni sono inevitabili. Non é, pur troppo, il libro che un tempo, a conclusione di molte mie ricerche, pensavo di scrivere con ricchezza di concreti particolari e sviluppo di concetti aderenti alla folta e varia moltitudine degli uomini, dei loro sistemi, delle loro passioni e lotte. Non é il libro che in cuore desideravo di dedicare ai pensatori che avevan dato luce e calore alla mia anima, e ai quali fin dalla prima giovinezza avevo guardato con reverenza ed amore come a’ miei fratelli maggiori nella grande famiglia della filosofia italiana.

Di quell’ideale libro che il Gentile voleva scrivere e che per note contingenze pratiche non ha scritto (sebbene noi si sia persuasi che certi libri si scrivano o si tralascino di scrivere solo se é profonda o é meno profonda J’ispirazione interiore), a noi interessano in modo particolare le pagine su Iacopone, Dante e Petrarca. Per Iacopone, il Gentile pud considerarsi l’iniziatore di una nuova visione critica del mistico medievale, e di cui io ho tracciato la storia altrove', A un Iacopone popolaresco caro al D’Ancona e a tutti 1 positivisti, e prima di loro ai romantici (del D’Ancona

é la defini-

zione di Iacopone « giullare di Dio »), dopo il timido accenno del Novati che reputava Iacopone il teorico e Francesco d’Assisi il pratico del movimento mistico, il Gentile contrappone decisamente un 1 Si veda in Problemi di metodo critico, lacopone mistico-poeta (Bari, Lastoterza, 1929), e ora nella 2% edizione della serie terza di Ritratti e disegni poeta, lacopone su re supplementa articolo un e Trecento, e Due sul Studi rici,

in « Belfagor », novembre

1952

[entrambi

nei sansoniani

Studi sul Due e Tre-

cento, 19603}.

273

Dal Gentile agli ultimi romantici

Iacopone dottissimo di teologia anche se spregiatore della scienza

(la scienza in vento estolle!), il quale si ricollegherebbe agli inseenamenti di Bonaventura di Bagnorea e di Ugo e di Riccardo da S. Vittore. La conclusione di questi filosofi del francescanesimo @ un’esaltazione della fede rapita in Dio e dell’amore, congiunta con una depressione scettica per ogni forma di scienza. Naturalmente Bonaventura e i due Vittorini giungono a tale conclusione dissertando e argomentando filosoficamente, quindi dando indirettamente valore a quella filosofia e a quella ragione umana che vorrebbero dispregiare. Lo stesso atteggiamento ha Iacopone, ma egli si sarebbe ormai spogliato del preambolo dimostrativo dottrinario e vivrebbe pit immediatamente questa filosofia della nichilitate in Dio: Lo spirito medesimo, senza la stessa dottrina, senza la stessa attitudine alle costruzioni mistiche, ma con un senso pit intimo, pit: ingenuo, pit. poetico della virti beatifica della fede alimentato dall’ascetismo si riscontra in

quel secolo stesso, in Italia, in fra Iacopone da Todi. Il quale pud dirsi il poeta, come Bonaventura il filosofo, del movimento francescano.

Il Gentile dunque parla del poeta Iacopone e intende la poesia come una forma di immediatezza, rappresentazione e non dimostrazione; ma le pagine che seguono si limitano ad essere una rassegna rapsodica dei luoghi pit: significativi del laudario iacoponico, i quali possono essere una riprova sentimentale di un processo mistico in atto, delle teorie di Bonaventura autore dell’Itinerarium mentis in Deum

immediatamente

rivissute. Questo itinerario a Dio

sarebbe celebrato poeticamente da Iacopone: fin qui il Gentile. Ma dove si tratti veramente di poesia, e perché la poesia sia immediatezza e rappresentazione, e dove si tratti di semplice effusione oratoria, di un’esperienza mistica celebrata non per sillogismi, ma per gridi, esclamazioni, rapimenti, e dove batta l’accento del censore satirico e dell’apostolo e del confessore, lo scrittore non dice. Anche, legandosi a quella che era ancora la sua estetica in nuce, il critico si disinteressa di questo irrequieto trapasso dal momento poetico al momento mistico e gnoseologico, in cui consiste la viva originalita di Iacopone. I] suo Iacopone perd vive troppo alle dipendenze della filosofia di Bonaventura e dei due Vittorini, e si lascia indiscriminato questo problema di poesia e misticismo, che sara invece ripreso poi da critici, quali il Casella, il Sapegno, il Russo. E il problema va ancora pertrattato, per giungere a definire l’originalita poeticospeculativa del nuovo mistico rispetto ai suoi ispiratori e maestri; Iacopone non @ semplice scolaro di Bonaventura e dei due Vittorini, ché gli scolari non hanno posto nella storia.

274

rat”

Giovanni

Gentile storico della letteratura e filosofo dell’arte. I

Ma qui non si vuole rimproverare tale indiscriminazione al Gentile, perché anzi @ gia notevole il suo merito di aver liberato Iacopone dall’imprecisione e vaghezza definitoria degli storici_ romantici € positivisti, riattaccandolo a questa corrente speculativa dei francescanisti, di cui il suo spirito mistico-poetico si invasd. Solo vogliamo osservare che l’indisctiminazione non & dovuta alla precocita dell’occasione in cui il Gentile scrisse quel saggio, ma, direi, essa € una categoria immanente, insidente, alla mente stessa gentiliana. Anche se oggi egli ritornasse a scrivere di Iacopone, le sue pagine sarebbero ispirate a una indistinta caratterizzazione e del mistico e del filosofo e del poeta e dell’apostolo, visti nella loro unita attuale. Cid che importerebbe al Gentile sarebbe sempre il complessivo significato simbolico di quell’opera, il suo finale significato storico: esigenza-epilogo, momento questo dello storicismo, che certo non si pud trascurare. Noi possiamo impegnarci nella critica pit. individualizzante delle forme letterarie di un poeta, possiamo stare attentissimi alle sfumature della sua parola e del suo ritmo, ma c’é un momento in cui insensibilmente noi trapassiamo dall’analisi di quelle forme letterarie a segnare il significato storico di coteste forme nella dialettica interna, nello sviluppo di quel poeta, cid che poi é la dialettica stessa di quella poesia nella storia generale delVarte. Non si tratta di un inquadramento estrinseco, ma di un inquadramento che urge dall’interno della poesia esaminata ed analizzata nel suo specifico mezzo espressivo. Il Gentile, per questo punto, convoglia tutta l’esperienza degli

storici romantici da Hegel al De Sanctis, e questa é l’esigenza pedagogica finale della sua filosofia dell’arte: tenere in piedi questo storicismo, per dir cosi, simbolico, contro lo storicismo puro del Croce che invece @ pili vivamente preoccupato di non sacrificare il guid individuale per cui un’opera d’arte é opera d’arte e per cui, mettiamo, il Leopardi si distingue dal Manzoni nella vita della I] prevalere dello storicismo romantico, di parola-musica. cui il Gentile @ uno dei pit eloquenti rammemoratori nel pensiero contemporaneo, porterebbe a un deteriore sociologismo in cui viene sacrificata l’individualita espressiva, lingua, colore, suono, del singolo scrittore o artista; mentre il rigorismo del Croce, attuato da ingegni poveri di umori storici e alieni dal « savor delle istorie », concluderebbe ad una arida e sterile critica giudiziaria e a uno squallido monadismo. In verita nel Croce, il monadismo @ soltanto una presunzione polemica degli avversari; la ricchezza dei motivi storici, la finezza

21

Dal Gentile agli ultimi romantici

dei particolari, il senso umanistico delle immagini, la viva sensibi-

lita morale dello scrittore, la curiosita sempre all’erta per le indagini pit. diverse, fanno un continuo e mobile circolo fra loro nella sua pagina, e pero non si ha mai l’impressione di questo isolamento monadistico del poeta o del prosatore che egli imprende a indagare.

Dante, Alfieri, Foscolo, Manzoni, non sono solitariamente giudicati nella loro opera, ma questa @ immersa nella storia, anzi non si puo

parlare nemmeno di un’immersione perché potrebbe parere un’operazione postuma, mentre l’opera poetica @ vista nel suo nascere da questa storia: la poesia @ un fiore che va a fiorire su nel cielo, ma il poeta ha le sue radici sulla terra, appartiene sempre a un secolo, a un’eta particolare, a una determinata civilta, a un gusto, a una corrente, a una « poetica ».

Ma il Croce teoricamente é sempre come allarmato dallo storicismo sociologico dei romantici, di cui peccd sensibilmente anche il De Sanctis: omaggio illegittimo alla trascendenza dell’Idea che si viene incarnando nei diversi scrittori, che sarebbero come i funzionari di questo messianico destino storico. Tutti gli scrittori, secondo la vecchia estetica, sono chiamati a rappresentare una parte, e in tal caso noi assistiamo a costruzioni ingegnose in cui lo storico, come un assai abile ma anche ingannevole regista, distribuisce veci ed offici ai suoi vari personaggi e comparse, i quali tutti si raccordano e si ritrovano nella medesimezza di un’idea centrale, di cui sarebbero le molteplici parvenze. Ma un tale sociologismo romantico ci riconduce diritto all’estetica hegeliana dell’Idea per cui la letteratura @ sempre |’incarnazione di questa nascosta divinita trascendente, e che pud essere o

Videa latina o l’idea germanica o la guelfa o la ghibellina e via discorrendo. Uno storico come il De Sanctis va naturalmente immune da cosi grossi o grossolani difetti, ma anche in lui l’estetica dell’Idea, sebbene trasfigurata nell’estetica della Forma e perd tendente a risolvere la storia letteraria in storia delle singole personalita, continua ad esercitare suggestione sulla sua mente. Anche nel De Sanctis si spiega una storiografia dell’Idea e questa volta |’Idea non é il consueto mito, caro agli uomini del suo tempo, ghibellinismo, papismo, romanita, germanesimo, ecc., ma @ la nazione italiana, il moralismo civile e na-

zionale dei cui fasti e nefasti egli racconta la storia attraverso le vicende della letteratura. Non @ stato mai osservato che questo motalismo civile di uomo risorgimentale @ venuto direttamente al De Sanctis non dalle discussioni della pubblicistica europea, ma da un maestro settecentista, da Vittorio Alfieri, autore del Principe e delle

276

aa hert

Giovanni

Gentile storico della letteratura e filosofo dell’arte. I

Lettere: la pianta-uomo @ una frase cara all’Alfieri ed & anche una battuta che ricorre frequentemente nella prosa del nostro storico. Su cotesto moralismo civile @ impiantato il sociologismo del De Sanctis, energicamente corretto perd in molti tratti dal senso vigoroso e dalla irrequieta sensibilita che il grande ctitico ebbe della Forma, cioé della poesia dei singoli scrittori. Ma tutta la Storia della letteratura italiana & un combattimento tra questo sociologismo che tenta di imporre un suo schema e l’insurrezione episodica delle singole personalita, che volgonsi a riscattarsi nella loro autonomia lirica dall’oppressione della cupola del moralismo civile. L’idea hegeliana si € come alleggerita e spiritualizzata e animata,

nel De Sanctis, perché essa non

& mai considerata

nel suo

astratto contenuto, ma quando si é calata nella Forma: questo in breve il legame ira l’estetica dell’Idea e l’estetica della Forma nel critico irpino. L’estasi dell’eterna Idea & bandita dal nostro storico, perché egli, spirito antiplatonizzante e antiteologizzante, non concepisce mai nessuna idealita che non sia corposa realta d’arte, di immagine, di scrittura. Da cid l’accordo, la fusione di idealismo e realismo nella sua mente: egli concilia in anticipo in sé, e senza artificii di sillogismi, il vecchio idealismo romantico sempre platonizzante, e il realismo in fieri degli adoratori del puro fatto, trasfigurandone il gretto materialismo. Perd per un lato chiude la critica romantica, e per l’altro ritorna giovine maestro del neo-storicismo, o del neo-positivismo idealistico, nei primi decenni del Novecento, lasciandosi addietro tutta una generazione di studiosi eruditi che non l’avevano capito e che lo avevano anzi giudicato con bonario compatimento.

3. Storia della poesia e storia della poetica.

Orbene, s’intende la cautela del Croce e mica nel difendere la Riforma della storia da lui annunziata e spiegata nel noto saggio invece, almeno come storico, le suggestioni

la sua insistenza poleletteraria ed _artistica, del 1917. Nel Gentile, dell’estetica hegeliana

sono continuate, e, in ogni tempo, nella conversazione privata o per

le stampe, egli ha inculcato il parere suo personale che nel De Sanctis I’Idea hegeliana faceva centro e che tale storicismo era sempre vitale e vigoroso’. Diversamente il Croce si €¢ sempre sfor1 Si veda un vecchio saggio di uno

scolaro del Gentile, FRANCESCO

FORMI-

GARI, I/ concetto dell’arte nella critica letteraria di F. de Sanctis, nel « Giornale

critico della filosofia », 1922, pp. 33-57, 126-52.

De

Dal Gentile agli ultimi romantici

zato di spogliare il De Sanctis da questi residui di hegelismo fino a prestargli talvolta generosamente quelle che erano le sue nuove scoperte personali. Pur da due punti di vista diversi, i due filosofi si trovavano ad esaltare la fecondita dello storicismo desanctisiano. Oggi siamo lontani da quelle polemiche romantiche e vorrei dire siamo anche lontani dalla polemica croce-gentiliana che ebbe una fase critica acuta tra il 1909 e il 1925 e fu cosa interessantissima per noi che, giovani, ci trovammo in mezzo (I’altra polemica crocegentiliana che oggi si perpetua @ decaduta a una fase psicologica che ci pud interessare sentimentalmente, ma che di solito interessa i pid quasi si trattasse di una partita di calcio, dove si tirano bei

colpi, non mancando i tifosi per l’uno o per l’altro contendente: cid che é la tacita condanna della validita storica di cotesta prolungata e postuma polemica)’. Perd, rendendoci pienamente conto del rigorismo storicistico del Croce nel senso che bisogna rispettare l’individualita lirica di ogni poeta (cid che @ poi l’esigenza di tutta la critica postcrociana, la quale ha esasperato tale ricerca fino a intendere la liricita di uno scrittore nella pura materialita grammaticale, o nella tecnica dei colori o dei suoni), ci domandiamo

se al di 1a di questo storicismo

puro che puo sconfinare in una forma di frammentismo e di disper- © sivo ateleologismo, non sia possibile tornare a discutere l’esigenza romantica, e prendere in considerazione quello storicismo simbolico, come io lo chiamo, in cui il simbolo non @ anteriore all’arte ma nasce dall’arte stessa. Se il simbolismo degli storici romantici aveva carattere idealistico, soprastorico, simbolismo della Mente, proprio di chi andava indagando e misurando e pregiando e dispregiando la potenza o l’impotenza della storia ad attuare |’Idea (il Cinquecento letterario, per esempio, che falliva nell’incarnazione di un’idea etica della letteratura e si limitava a una poesia dell’arte come mera arte), il nostro vuole essere invece un simbolismo realistico, simbolismo della realta effettuale, che nasce dalla filologia, cioé dallo studio particolare del « documento », del « testo », della « tela-colore », del « marmo-forma ».

Se Dio oggi nasce dal cuore dell’uomo e a volta a volta dai suoi particolari sentimenti e non discende pit dai cieli, cos} l’opera d’arte sprigionera dal suo intimo un significato storico che trascende la troppo puntuale interpretazione grammaticale delle parole, e per 1 La morte nosa

278

vertenza

di entrambi

(1953).

i contendenti

ha scritto

la parola fine sulla pe-

Giovanni

Gentile storico della letteratura e filosofo dell’arte. I

cui, mettiamo, a un bel momento, ci é lecito parlare della solitudine superumana della poesia alfieriana, o della religiosita del vocale Elicona nelle Odi e nei Sepolcri del Foscolo, sentiti quest’ultimi come il carme religioso della nuova immortalita, 0 ci & lecito parlare della dolente armonia del paradiso delle Grazie, sospirosa elisia dolcezza di uno spirito sempre travagliato da sue secrete cure. Proposizioni « storiche » di tal genere si trovano in tutti i saggi del « monadistico » Croce, e noi siamo imbarazzati a scegliere, se quelle che abbondano nel saggio sull’Ariosto, o le altre della Poesia di Dante, o dei capitoli di Poesia e non poesia. Orbene questo storicismo simbolico porta a una nuova forma di sociologismo, che non é@ quello del De Sanctis, poiché non é@ piu. in giuoco un contenuto che sia al di fuori dell’attivita estetica, e che questa deve risolvere in sé, di una poetica che resta mondo intenzionale talvolta e non si fa effettiva poesia, ma di un contenuto che é in ogni momento forma, e che quindi ha decapitato se stesso per nascere come poesia o come non poesia. Per questo nuovo sociologismo di tipo immanentistico, ci sara lecito dire che il Foscolo si lega spiritualmente all’Alfieri, e perd la solitudine superumana di costui, che non conosce nella sua mitologia poetica che il letterato, il superuomo, l’uomo di magnanimi sensi, l’eroe, suggestionera la particolare religiosita foscoliana, che non é cristiana, ma é ancora senso aristocratico dell’oltretomba e della immortalita concepita sempre come urne dei forti, pantheon degli spiriti magni. C’é dunque qualche cosa per cui un poeta si lega ad un altro, € questo non avviene per la nota lirica individuale che rimane inconfondibile, ma per la sua non poesia, per quella che noi chiamiamo la sua poetica, che vaga al fondo di ogni espressione lirica e in essa si invola, come le anime nel fuoco furo dell’ottava bolgia, ma che pur si coglie sensibilmente, grammaticalmente isolabile, nei pensieri sull’arte, nei pensieri sulla vita dei propri sentimenti, nella confessione degli idoli amorosi o polemici della mente, di cui abbondano gli epistolari o altri scritti teorici dei poeti. E che si coglie ancora in quelle parti strutturali, oratorie, letterarie, di un’opera di poesia, di cui si sbarazzano volentieri i critici puri, senza avvedersi che essi rinunziano a intendere storicamente la poesia, per la cui intelligenza non basta un esclusivo estetismo. Tutto cid che costituisce la mitologia umana di un poeta lega storicamente il nuovo poeta all’antico suo maestro e ai suoi compagni. Gli stilnovisti sono diversissimi l’uno dall’altro, come tono lirico, specialmente Dante e Cavalcanti e Cino da Pistoia, i tre rimatori ricchi di pit rigogliosa spiritualita; ma essi vivono nell’atmosfera di una co-

249

% cou ba ye

Dal Gentile agli ultimi romantici

mune poetica, ed essi hanno debiti di gratitudine al comune padre, al Guinizelli, se Dante stesso sente bisogno di salutare costui « il padre Mio e delli altri miei miglior che mai Rime d’amore usar past dolci e leggiadre ». Il Croce bada a ripetere col De Sanctis che le intenzioni dei poeti non contano e solo conta il fatto stesso dell’opera d’arte, € vuole

ricacciare

le intenzioni,

i programmi

e le « poetiche », in-

sieme con altre cose della stessa natura (quando pur meritino alcun ricordo) nella storia della cultura. Ma quando egli scrive di Vittorio Alfieri, non pud non considerarlo « se non come strettamente affine ai contemporanei

Stirmer

und Drdanger », e osservare

che « come

eli altri consapevoli o inconsapevoli roussoviani, moventi all’assalto delle bastiglie morali, le sue passioni sono estreme per violenza ». E allora anche lui incentra Alfieri in una poetica, in un gusto, in una corrente, a cui |’Alfieri si lega per la sua non poesia (intesa nel suo valore positivo) e per quel guid che vagola al fondo stesso della sua poesia. Cosi che alcuni anni fa @ parso lecito a un crociano presentare i quattro trattati politici dell’Alfieri, come la generale poetica o mitologia dello scrittore, e non come una ideologia che possa interessare i filosofi dello stato e delle dottrine politiche (per i quali le dottrine alfieriane diventano calcina e calcinaccio per loro costruzioni di propaganda), e in cui si conferma l’amore per la liberta e il frenetico odio per la tirannia, indeterminato nel suo contenuto politico, amore o odio che @ evasione dalla storia che ci circonda e la quale ci preme e stringe, cid che poi sara il tono lirico particolare della poesia alfieriana'. In questo senso noi intendiamo il rapporto tra poetica e poesia, e poetica, é chiaro, non ha per noi |’angusto significato e l’utilitarismo prammatistico proprio delle poetiche frivole e labili dei cenacoletti o meglio delle chiesuole letterarie, oggi furiosamente di moda, cid che irrita tutti per questa mimica di « giochi da ragazzi » e che pud irritare il Croce, se lo muove al « molieresco

purgare

et repurgare

et reclysterisare », precisamente

in riguardo a questa epidemia di poetiche nella vita letteraria contemporanea. Intesa la poetica come la generale mitologia umana di uno scfittore, essa va sempre interpretata in rapporto alla sua poe1 Cfr. L. RUSSO, Ritratti e disegni storici, il saggio « La Vita» dell’ Alfieri e Lettura lirica del teatro alfieriano, in « Rivista italiana del dramma» 15 no-

vembre 1940. E ora |'Imtroduzione al Principe e delle lettere, Firenze, Le Monnier, 1943. Tutti questi miei saggi alfieriani sono stati raccolti in un volume: Ritratti e disegni storici, prima serie, Dall’Alfieri al Leopardi (Bari, Laterza, 19532) [Sansoni, 19633}.

280

tsp my

Giovanni

sia; e se il nome

Gentile storico della letteratura e filosofo dell’arte. I

di poetica da noia, la chiameremo ctocianamente

la non poesia, purché s’intenda la non poesia nel suo valore positivo € come momento

necessario, urgente, stimolante e immanente

nella

dialettica lirica del poeta-poetante. Sennonché non si tratta di un puro mutamento verbale: la nonpoesia ha pur sempre qualcosa di negativo e di spregiativo nella sua positivita e pud favorire Villusione che a questo mondo possa esistere la « poesia pura», cioé la poesia grammaticalmente isolabile, fino, mettiamo, al tredicesimo verso del canto A Silvia, e non una sillaba pit in 14, mentre la poetica rappresenta questo momento

eternamente dialettico della poesia, senza la quale la poesia sarebbe come mutilata, e senza la quale essa stessa non pottebbe nascere. Perd la positivita della poetica @ per noi una positivita non meraall’opera d’arte, quale mente verbale, e ha una fecondita interna il Croce non riconosce alla non poesia. Per la stessa ragione, in ogni tempo, abbiamo preferito parlare di animus poetico e non di liricita, o almeno di liricita nel senso di generazione lirica, perché avevamo sempre in mente questo rapporto dialettico di poesia e poetica!’, perd la poesia come animus poetico, come circulata melodia, la poesia intesa in rapporto dialettico eterno con la poetica, la poesia che va colta nel quid espressivo inconfondibile e al tempo stesso determinata storicamente nel simbolo sottinteso, ritrascritto pit esplicitamente nella sua poetica, questi tre punti hanno costituito i tre articoli del nostro credo di critici. Storicismo lirico-simbolico, per quelli che hanno bisogno di una formula mnemonica per intendere le differenze. Tutto questo discorso, per riaffermare il sociologismo nella storia letteraria, ma non pit in senso romantico-platonizzante, ma in senso

assolutamente immanentistico, in cui non c’é mai un contenuto che va in cerca di una incarnazione

lirica, ma, se mai, c’é un’incarna-

zione lirica che sprigiona da sé la suggestione di un gusto, di una poetica, di un’aura poetica, che pud costituire lo stile di un’eta?. Nulla dell’esperienza storiografica del passato pud andare 1 Si veda in questo stesso volume La critica dantesca e gli esperiments dello Way storicismo. Il saggio risale al 1926. 2 Sarebbe da ingenui confondere la poetica, il gusto, di cui qui

di cui parlava alcuni anni fa Lionello Venturi. Il consi parla, con il gusto cetto di gusto non si puo isolare dalle concomitanti concezioni di un critico, € il Venturi, € noto, é orientato verso una concezione messianica, profetica, prirelirivelazione mitiva, barbarico-vichiana della poesia (l’arte come giosa). Concezione tipicamente romantica, e da cui poteva scaturire il concetto

281

Dal Gentile agli ultimi romantici

perduto; anche la critica umanistica vive oggi in quel senso dei particolari espressivi e delle citazioni, che costituiscono il pregio di molta critica contemporanea (anche le esigenze dei vecchi grammatici hanno diritto di asilo nel nostro storicismo); cosi il vecchio sociologismo romantico dell’ideale missione della storia rivive oggi come sociologismo della realta effettuale, come una missione che non é@ preordinata, ma é volta per volta suggerita dal finale significato simbolico dell’opera di un poeta. A un sociologismo platonizzante, tutti, a incominciare dal Croce, il nemico dichiarato di ogni sociologismo, abbiamo sostituito senza avvedercene, nella critica di gusto nel senso dell’antico sociologismo romantico, come di una direzione predeterminata della storia. Per noi il gusto é la fraternita non ricercata di scrittori vicini nel tempo, di quel tempo di cui essi sono i figli soltanto perché ne sono al tempo stesso i genitori, e in cui i singoli ignorano e non vogliono impacciarsi della provvidenzialita della storia che li accomuna. Per il Venturi, il gusto imvece é una forma di confessione religiosa, mentre per noi é una

liberale

concorrenza,

un

orientamento

eslege,

una

mobilissima

socie-

tas, in cui manca la religio, il legame cioé, il termine fisso di eterno consiglio. Sociologismo liberale il nostro, che si contrappone polemicamente al sociologismo confessionale caro ai romantici fino al Venturi e al Borgese. Il consiglio di Dio, per noi, é attuato dai singoli poeti ciascuno facendo chiesa a sé, cioé lasciando nascere Dio da sé, e non richiamandosi a un’idea trascendente della storia. Per questo lato, fu istruttiva, a fare intendere il ritardato romanticismo del Venturi, la polemica che si svolse tra lui, il Cecchi e il Gargiulo in « Vita artistica » e ne « L’Arte » (anno 1917), e in cui bisogna ri-

conoscere che il formalismo degli ultimi due rappresentava una posizione teoricamente pit avanzata e pil consentanea all’immanentismo contemporaneo. Ottimamente allora osservava il Cecchi: « La responsabilita dell’artista, la sua fedelta da eroe e magari da martire a cid che gli esteti romantici e mistici possono chiamare trascendente rivelazione, o in qualsiasi maniera, consiste solo nell’aver voluto tirare quella data linea e non un’altra; e mettere quel dato tono; e regolare con una data alternazione di vuoti e pieni, il peso di

quelle date masse.

Fosse

0 no una

responsabilita

che I’artista credeva

di avere verso il trascendente, non ci interessa saperlo. Noi dobbiamo limitarci a riscontrare l’intrinseca ragione e potenza dei moventi nello stile. Cerchiamo di intendere questo stile; e in esso, e in esso solo, vedremo concreta-

mente

atteggiato quel che l’artista fu ed ebbe

da dirci... Tutta

l’azione

della

critica non € e non puod essere, insomma, che di chiarificazione stilistica, e realizzarsi di una coscienza formale » (in « Vita artistica », Un’estetica senza l’arte,

1927). Cé

poi da aggiungere che il gusto del Venturi, coerentemente a tutta la sua concezione romantica (anche lui ci ha dato un saggio sul senso dell’arte figurativa italiana, come Borgese ci aveva dato un saggio sul senso della letteratura

italiana),

era

inteso

« come

I’insieme

delle

preferenze

estetiche,

da

parte di un artista o di un gruppo di artisti », che preesistono all’opera d’arte: il gusto é il momento analitico, e l’arte é il momento sintetico, in cui la materia dell’analisi rimane pit o meno absorta. Cid che ci richiama al concetto di poetica nel senso romantico, caro al De Sanctis, cioé di mondo intenzionale in conflitto con il mondo effettivo di un creatore.

282

Giovanni Gentile storico della letteratura e filosofo dell’arte. I

letteraria, un sociologismo, per dir cosi autoctono, effettuale e puntuale. D’inquadramento storico si parla spesso nei libri del Gentile, e di inquadramenti storici si declamé nella riforma della scuola del ’23, sicché ognuno di noi arretra spaventato all’idea che l’inquadramento interno, il simbolismo effettuale ed autoctono (nascente, cioé, dalla

intimita di un’opera d’arte: ci si perdoni ancora una volta la deformazione etimologica), di cui noi parliamo, possa essere confuso con quell’inquadramento meccanico, aprioristico, facilone, in cui si distinsero tutti i maestri elementari e i sopramaestri della cultura intorno a quei primi anni dell’applicazione della riforma gentiliana per la scuola. Il Gentile invero autorizzerebbe questa forma di sociologismo romantico, per sopravviventi influssi in lui del pensiero hegeliano o almeno per polemica; ma onesta vuole che si dica che da tutta la sua filosofia si parte invece la suggestione a questo sociologismo pit intimo, immanentistico, per richiamarci al termine a lui caro. Al di qua del poetare non ci pud essere un’idea che regoli quel poetare. La pratica pero di critico letterario e di storico porta il nostro scrittore a dare eccessiva prevalenza al sociologismo romantico, mentre il suo invocato « ritorno al De Sanctis » vuole essere un pedagogico avvertimento che dell’esperienza dell’Ottocento non ci si pud sbarazzare, senza spremerne ancora tutto il succo’. In questo senso, chi scrive queste pagine ha sempre tenuto presente la « lezione » del Gentile, ma senza aver mai l’ambizione ridicola di contaminare insieme e di conciliare l’estetica del Croce e Vestetica del suo compagno e nemico, che sarebbe opera assurda e, oltre che assurda, inutile. E tutti, se mai, ne abbiamo

lasciato il

compito ai vari Giulio Bertoni che, onnivori leggitori e indistinti furatori dell’altrui, hanno finito col parlare di « linguaggio » che « sta nell’attivita del pensiero », del linguaggio che é « lo stesso momento estetico del pensiero », e abbiamo lasciati costoro a baloccarsi con altra combinatoria equivoca del genere. I] nostro mastrodon Gesualdo interiore ha badato sempre a ripeterci che non s’innestano le pesche nell’ulivo, e dove Vinnesto é tentato, non solo il a vecchio ma anche il nuovo decade. E perd in ogni tempo ci siamo fatti fautori dello storicismo monogtafico o lirico-espressivo che dir si voglia, che va sotto il nome del Croce, perché meno ci offendeva I’accusa di monadismo 1 Ma si veda oggi, A. GRAMSCI, naudi,

Letteratura e vita nazionale

(Totino, Ei-

1950).

283

Dal Gentile agli ultimi romantict

che non quella di sociologismo romantico. Nonostante cid, memori di quella tale « lezione » gentiliana e per l’assiduo studio che abbiamo fatto dell’opera del De Sanctis, abbiamo continuato a praticare una forma di storicismo, che teneva conto di questo finale significato simbolico di un’opera d’arte, e, fortificati dal senso della distinzione che ci veniva da tutta la disciplina della metodologia crociana, abbiamo sempre parlato, fin dagli anni giovanili, di una storia della poesia distinta e in urgente relazione dialettica con la storia della poetica!, una storia della poesia che coglie il guid individuale, formale, espressivo di una opera d’arte inconfondibile con altre voci,

e la storia della poetica come mitologia dello scrittore, sua poststoria poetica per dir cosi, o per non parlare di un post o di un pria, alone, cintura, collana stessa, fervoroso gurgite della poesia, schiuma del mare in cui nasce Venere. Giacché la poesia @, sempre, una divinita anadiomene. Un Foscolo che @ soltanto se stesso nei suoi singoli sonetti, nelle sue singole odi, nei suoi singoli carmi, si apparenta con se stesso da un sonetto a un’ode, a un carme, in questa dialettica in-

terna delle sue varie produzioni poetiche, diverse e une, ma di uno spirito unitario in continuo sviluppo; e al tempo stesso si apparenta con

Alfieri, con

Manzoni,

con

Leopardi,

e altri scrittori

coetanei

per la poetica, per l’aura poetica, per la mitologia, per il gusto che egli crea o a cui reagisce, e che costituisce la nota dominante del secolo letterario suo e dei grandi suoi vicini. Sul terreno della poetica noi troviamo infiniti raccordi tra un poeta e l’altro che sia storicamente prossimo, cid che ci libera dai pericoli di un monadismo claustrale, monastico, di delibatori di una poesia ritagliata dall’universo storico sol perché essa & un preteso universo per se stessa. L’universo « particolare » per essere veramente « universo » deve essere sempre

avvertito come

universo

storico. L’egoismo

li-

tico (adopero la parola egoismo non in significato dispregiativo) si risolve necessariamente, fatalmente in questo universo altruistico. Pero noi parliamo sempre di poetica oltre che di poesia, nonostante l’abuso arbitrario, prammatistico che di quella parola poetica oggi si fa dalla giovane letteratura per ogni raggruppamento di letterati che vanno allo stesso caffé, e i quali non hanno mai sospettato e non potevano sospettare la particolare ticchezza storicistica del termine. Tale senso io volli dare alla parola fin quando nel 1928 annunziai una Poetica del D’Annunzio, che per “ Si veda, in questo secondo volume particolarmente le pp. 29-36 [258-263].

284

[Libro secondo], il gia citato cap. VIII,

eens

Giovanni Gentile storico della letteratura e filosofo dell’arte. I

sopravvenuti malanni non scrissi, e poi una Poetica del decadentismo che diedi a svolgere ad altri, e che fu svolta con intuizioni assai felici e promessa fervida d’ingegno, ma non tutte le volte con quel rigoroso distinguere che io vi avrei desiderato !. La poetica dunque non solo non @ un’estetica, e non si pud mai far valere come un’estetica (fu l’errore infantile degli scrittori della « Ronda », 0 meglio dell’autodidatta Cardarelli che si assunse di parlare per tutto un gruppo, il quale esumd la poetica leopardiana, il testamento letterario di Giacomo Leopardi, per contrapporlo alVestetica del Croce!), ma non & nemmeno una semplice stilistica platonica che lo scrittore tenga presente per l’esercizio della sua arte, la sua ars dictandi, il globo delle sue idee estetiche, ma il mondo stesso e di teorie estetiche, e di miti passionali, morali, politici, che

costituiscono la Aumus su cui nasce in concreto la sua poesia, e si parte dalla sua poesia. Attraverso quella poetica i raccordi la generale storia della letteratura sono infiniti, e sta al fiuto, discrezione e alla sobrieta dello storico di accennare a quelli sono soltanto necessari, comandati

che con alla che

dai « testi». Per tal via, io mi

riservo poi tutta la liberta di interessarmi al chiuso della poesia dello scrittore (anche quell’aggettivo sostantivato chiuso non vuole avere un significato restrittivo, ma vuole essere allusione di originalita, d’inconfondibilita) e di venire giudicando e valutando quello che é il proprio dell’arte di quello scrittore. Da cid la pedagogia dei commenti che io proposi a me stesso fin dal 1925 a preservarmi dal pericolo del genericismo storico, immanente a tutta la storiografia idealistica, specialmente a quella di derivazione gentiliana, che era la pit: ebbra di sé e della sua dialettica degli aprioristici inquadramenti storici. E se nel 1925 potei soltanto scrivere delle postille alle Noterelle di uno dei mille delAbba, negli anni immediatamente successivi, dirigendo il « Leonardo », mi occupai assiduamente dei commenti ai nostri classici, intervenendo, moderando, integrando, correggendo interpretazioni particolari (e mi era buona guida e disputatore stimolante un filologo puro come il Barbi, col quale, nonostante il divario delle menti e degli anni, ebbi giovanile dimestichezza quotidiana di passeggiate e di conversazioni), e satireggiando certo impronto estetismo, che allora veniva avendo il suo ditirambico sfogo ed esaurimento. Raccolsi poi tutti quegli scritti nei miei Problemi di metodo critico; ma nel 1930, libero dalle riviste e tratto fuori da una grave crisi di salute che allora a me parve anche crisi mentale, tornai al 1 Cfr. WALTER

BINNI, La poetica del decadentismo,

Firenze, Sansoni,

1936.

285

Dal Gentile agli ultimi romantici

mio vecchio programma, con lena infaticata, e vennero fuori l’uno dopo Valtro i commenti al Principe, alle liriche e tragedie del Manzoni, ai Promessi sposi, alla Vita dell’Alfieri e poi, per non dire di commenti minori e meno impegnativi, al Decameron, alle Poesie del Foscolo e ai Canti del Leopardi. Mi confermai allora nel principio che linterpretazione mutava tono a seconda della materia diversa degli autori, perché non c’era un tipo di interpretazione estetica analoga per tutti, ma il commento fluttuava dall’interpretazione di carattere speculativo a quello di carattere formale, linguistico grammaticale. Tanto che sentii presto l’insofferenza di parlare di « commenti estetici », e misi innanzi l’altro titolo di « commenti critici ». Dodici anni di assidue fatiche, condotte allo scopo di un affatamento con i classici nei loro minuti particolari e con la riserva polemica di guardarsi da forme troppo espanse di estetismo

impressionistico e da ogni forma di approssimativo sociologismo platonizzante. Ho fatto un lungo giro, e sono venuto a parlare di me (cid che non era in programma: lungi lidea di voler fare una Selbstanzeige, ché io non Enea, né Paolo sono), per chiarire, quasi per via autobiografica, quella che @ la lezione indiretta del Gentile per un rinnovabile sociologismo storico '. Un’esigenza che non si pud trascurare, perché fu pur presente alla mente di tutti gli storici dell’800, e nulla del passato si rinnega, si @ gia detto, nemmeno la critica letteraria degli umanisti e loro discendenti; ma pur bisogna ridurre quel sociologismo romantico a nuova disciplina, e abbiamo detto quale, per non cadere nelle volgarita brillanti e speciose che troviamo nei libri di un Borgese e di un Tilgher, per citare i due sociologisti letterari contemporanei, tutti invasati di ritardato ardore romantico, pure inizialmente essendo tra i pit: dotati di ingegno e di dottrina. Perd qui si parla di uno storicismo lirico-simbolico, 0 se piace meglio simbolico-immanentistico, volendo rispettare insieme tutto l’insegnamento crociano che ci ha portato al riconoscimento storico-umanistico del guid individuale di ogni poesia, e al tempo stesso volendo caratterizzare, cogliere, quello che é il significato storico della mitologia, del cosiddetto « mondo », per riprendere la terminologia desanctisiana, del singolo scrittore in rapporto agli altri scrittori coetanei e vicini. Dovrei anche aggiungere (ma I’ho anche accennato, ma @ bene insistere per evitare equivoci) che la poetica per me non @ sol‘. Si veda ora la mia Comfessione tico

286

2,

di autore,

in Problemi

di metodo

crt-

Giovanni Gentile storico della letteratura e filosofo dell’arte. I

tanto quella accennata in prosa critica o in lettere, perché essa ticorre anche in quelle che sono le parti oratorie di un’opera di poesia e la si avverte anche, come alito che non appanna, nelle pagine della poesia vera e propria, trasfigurata dai primi concetti. Grande difficolta per il critico di captare quest’aura, quest’alito immanente alla poesia stessa, se non ci soccorresse lo studio pit: documentario della poetica effusa nei trattati, nelle lettere e nelle parti visibilmente oratorie o letterarie che costituiscono l’alterna vicenda della poesia. La poetica di Dante non @ tanto quella che egli dichiara nel De vulgari eloquentia, ma & pur quella di cotesto trattato, e del De Monarchia e del Convivio, tutta rivissuta e rinnovata e arricchita nelle parti strutturali della Commedia. La poetica di Foscolo é quella dei suoi scritti critici, ma @ pur segnata in certe pause gnomiche o oratorie dei Sepolcri o delle Grazie, e di cui noi non possiamo sbarazzarci come di cosa soltanto inferiore, perché sono coteste parti strutturali la vitalita da cui nasce la poesia, o che accompagna e seconda la sua nascita e il suo sviluppo. Conclusione: anche noi proponiamo una nuova forma di sociologismo, ma questo sociologismo postcrociano non ha nulla a che fare con quello caro al De Sanctis, e ancora, almeno pedagogicamente, caro al Gentile, sollecito di difendere il meglio della tradizione hegeliana dell’Ottocento. Combattiamo per questo anche il sociologismo umanistico e musicale venuto di moda nei nostri anni, per influenza di letterati e di autodidatti della critica, e per il quale la prosa di Leopardi si lega, mettiamo, alla prosa degli scrittori della « Ronda » e la prosa di Manzoni alla prosa di non so quali giansenisti che vorrebbero essere gia fioriti ex abrupto nei nostri tempi: cotesto sociologismo di tipo grammaticale, musicale, € ancora una pallida e decadente reincarnazione del vecchio sociologismo romantico, e nasce idealmente nell’Ottocento. Il nostro feroce, vorrei dire, monadismo lirico, che si schiude poi pit. affabilmente verso uno storicismo simbolico, vorrebbe invece far valere tutta l’esperienza della critica crociana, che, disarmato

ormai

il nemico,

il vecchio

idealismo

del De

Sanctis, non

teme, attraverso la poetica, di trovare quei raccordi, quei nessi, che sono non raccordi e nessi della poesia ma della vagante mitologia dei sentimenti e del gusto, tra un artista e l’altro, vissuti sotto lo stesso segno storico. Nessi che non devono essere mai arbitrari dialettizzamenti tra la forma di un poeta e la forma di un altro poeta, le quali restano sempre assolutamente inconfondibili e improgredibili. Per ritornare al Gentile (e sarebbe tempo), quello che non ci

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Dal Gentile agli ultimi romantict

appaga nelle sue pagine su Iacopone @ questo voler ricondurre sic et simpliciter Iacopone alla filosofia di Bonaventura e dei Vittorini, che & un’indicazione utilissima e opportunissima (storia della poetica) per avviarci ad intendere la dialettica di misticismo e poesia in Iacopone.

Perché cid che a noi pil urgentemente

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porta é definire quella che & la personalita di Iacopone fuori delle sue derivazioni, intendere cio quello che é «il senso pit intimo, pit ingenuo, pit poetico, della virth beatifica della fede alimentata dall’ascetismo », che il Gentile indica come caratteristica di Iacopone ma che poi trascura di analizzare in una discriminazione storica: forse perché il suo & assunto di storico della filosofia e non lo interessa quel guid poetico o espressivo, per cui Iacopone € veramente Iacopone e non é pit’ Bonaventura e Ugo e Riccardo da San Vittore. Sebbene io sia persuaso che anche in una storia della filosofia il misticismo di Iacopone fa chiesa e filosofia a sé, appunto perché ha un suo stile, altrimenti egli sarebbe stato un puro ripetitore. E proprio su questo punto, si @ gia detto, il problema é@ ancora aperto. Da questa mia digressione, facilmente si arguisce che in tutta la critica e storia letteraria praticata dal Gentile e che avrebbe potuto far capo alla sua estetica manca questa ricerca del guid poetico ed espressivo che costituisce l’originalita di uno scrittore, e che é la grande assidua e benefica esigenza dello storicismo crociano. Ma il Gentile ha pure questa alta funzione pedagogica: ricordarci che il vecchio sociologismo romantico aveva la sua ragione di essere e che esso va trasfigurato ma non rinnegato. In effetti anche nello stesso Croce che é per la trattazione pit rigorosamente monografica degli autori, cotesto

rinnovato

sociologismo

non

manca,

come

gia si é

accennato, perché quando egli discorre della non-poesia dei suoi poeti egli fa richiami frequenti ad altri spiriti affini o antitetici coi quali l’autore studiato fa come coro. Si prenda qualsiasi saggio del volume Poesia e non poesia e si avra la riprova di questa nostra aftermazione. Nel Gentile perd questa esigenza della ricerca del guid individuale € presupposta o & completamente obliterata. La sua inclinazione pit vera é quella di stringere i legami storici tra uno scrittore e laltro. Viene sorpassato il momento espressivo di quegli scrittori, e si fa piuttosto la storia del contenuto ideologico di essi, in cui in verita tutti possono assomigliarsi. Non si tratta soltanto di cogliere le differenze poetiche, ma anche le stesse differenze filosofiche, nel tono diverso della prosa o della poesia dei singoli au-

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Giovanni Gentile storico della letteratura e filosofo dell’arte. I

tori. Il Gentile @ cosi maestro di uno storicismo tutto al di qua della letteratura e della poesia, che pure @ il pattimonio sacro lasciatoci in retaggio dalla critica umanistica di quattro secoli. Direi anche che a lui, in ogni momento della sua speculazione, la poesia interessa soltanto perché finale filosofia.

4. II Gentile interprete di Dante.

Anche la poesia di Dante @ per lui innanzi tutto filosofia, ed egli definisce con molta puntualita la filosofia di Dante come compendio originale di razionalismo tomistico e di misticismo francescano. Ma questo ricondurre tutto alla filosofia pud giovare alla propedeutica della critica letteraria, ma non @ mai critica letteraria: giova in quanto ci fa vedere la poesia di un Alighieri non soltanto come espressione lirica, carola di belle immagini e di suggestivi ritmi, cid che potrebbe dar luogo a un’interpretazione decadente, ma anche quale poesia sostanziata del pit vario filosofare. E lo stesso atteggiamento che il Gentile terra per la poesia di Leopardi, per la quale riesce a dissolvere l’antitesi tra mente e cuore ritrovatavi dal

De Sanctis, postulando il principio che il pensiero, la mente, in Leopardi é lievitazione della stessa poesia, rigenerazione e trasfigurazione di quel cuore. Cuore metafisico quello del Leopardi, e non semplice cuore sentimentale. Senza quel pensiero, non sarebbe nemmeno nata quella poesia leopardiana del « cuore », cosi come essa si presenta. In ogni momento il Gentile si preoccupa che la poesia possa essere intesa come un’attivita fantastica assolutamente alogica, e invero di un’attivita alogica si parlava nella prima Estetica del Croce. Da cid Vimportanza della sua collaborazione polemica all’estetica crociana; da cid quel suo insistere sulla sostanza metafisica di ogni poesia. Ecco come si inizia il capitolo su Dante Alighieri: « I] doppio movimento

aristotelico

tomistico

e francescano

mette

capo

a

Dante ». Fin dalla prima proposizione abbiamo dunque I’individuazione storica della metafisica di Dante. La seconda proposizione é la seguente: « La Divina Commedia & opera filosofica oltre che poetica, allo stesso titolo di tutti i poemi filosofici antichi della Grecia e di Roma ». E su questa filosofia di Dante immanente nella poesia cosi egli discorre: Il concetto generale dell’universo non @ un presupposto della visione poetica nell’anima del poeta, ma é l’essenza stessa della trama generale delYopera. In Dante la filosofia non é il particolare e Vaccessorio, ma il generale, Pinsieme, il principale. La poesia piuttosto @ nei particolari. E questa é€

289 19. L. Russo, La critica letteraria contemporanea

Dal Gentile

agli ultimi romantici

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la differenza tra lui e i puri poeti; ciascuno dei quali ha di solito una filosofia, ma come antecedente dell’opera sua, latente, ispiratrice inconsapevole.

Il ctitico potra scoprirvela; ma il poeta I’ha obliata. Dante invece non dimentica mai il suo concetto, che adombra si del velo dell’allegoria, ma senza nasconderlo né a sé né al suo lettore; e a questo concetto ha fisso sempre lo sguardo; che, se a tratti la passione lo vince, e vive con le creature vive della sua fantasia la vita irriflessa del mondo, su cui il filosofo medita, il fine generale del poema subito lo scote e richiama a quel concetto, e lo incalza a ptoseguire Videale costruzione sopramondana, che conduce luomo dall’oscura selva terrena, in cui si ritrova nel mezzo del cammin della vita, alla grande luce del pensiero di Dio.

Come bisognera intendere la frase che «la poesia € piuttosto nei particolari »? A me pare equivoca. Per il Gentile c’é soprattutto un Dante filosofo dal quale nasce e fiorisce episodicamente la poesia. Se ci si riflette & la stessa tesi che sara annunziata dal Croce nel libro del ’21. Per il Croce c’é il romanzo teologico-politico, da cui nasce la poesia, e in altre pagine di quest’opera abbiamo dimostrato che cotesta distinzione restava troppo statica’. L’animus di Dante per noi @ innanzi tutto animus poetico, e non attitudine

speculativa, e nemmeno disposizione al romanzo teologico-politico. E la poesia che si innerva in un sistema teologico-politico che essa stessa viene creando, e viene generando per impulso di alta fan- tasia. Quindi non struttura e poesia, ma poesia e struttura. Sarebbe singolare la coincidenza dei due filosofi su questa distinzione della Divina Commedia come filosofia nel suo sviluppo generale e come poesia nei particolari, secondo l’espressione del Gentile, 0 come romanzo teologico nella struttura e poesia negli episodi singoli, secondo l’espressione del Croce. I due filosofi dunque dovrebbero essere assai vicini nel porre il problema della poesia dantesca, pit di quello che non si possa sospettare. Ma, diciamolo subito, é vicinanza illusoria, perché nel Croce la poesia si lega dialetticamente al romanzo teologico-politico, mentre per il Gentile essa € come assorbita nel circolo della filosofia del poeta e di questa poesia pero il critico ad ogni momento si disinteressa. Pure si ha l’impressione che la distinzione in Croce voglia avere un significato limitativo e censorio (donde lo scontento di molti dantisti per cotesto apparente smembramento del poema), mentre in Gentile la distinzione appena adombrata tra filosofia e poesia ha un significato, vorrei dire, gioioso-celebrativo. Come tutto il poema sia filosofia e che sia poesia soltanto nei particolari, & un’affermazione che riempie di compiacimento il filosofo; ma il vero @ che 1 Cfr. in questo

290

stesso volume

[Libro secondo],

il cit. cap. VIII.

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Giovanni

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Gentile storico della letteratura e filosofo dell’arte. I

questa unita del poema dal Gentile ritrovata nel pensiero filosofico esaurisce completamente la sua ricerca ed egli si disinteressa della poesia, donde il carattere apparentemente positivo, affermativo delPesposizione gentiliana, mentre la poesia, quella per cui Dante @ Dante, @ pienamente sacrificata. La distinzione in lui dunque @ cortesemente presupposta, ma non é vissuta. Nel Croce invece la distinzione vigoreggia ogni momento: da cid l’apparente tono censorio, che & un’effettiva celebrazione di Dante poeta. Nel Croce lo sforzo c’é stato, di intendere pensiero e poesia nella loro vicenda dialettica; il Gentile invece si fa celebratore della mera filosofia dantesca, anzi egli @ come preoccupato che il poema possa apparire una vicenda di filosofia e poesia. Difatti egli cosi scrive: Non si pud dire che la filosofia interrompa la poesia: perché la prima parola del poema — che @ la coscienza volgare, dominata dalle passioni, involta ancora nel senso — e l’ultima — Dio — sono il punto di partenza e d’arrivo di un procedimento, dell’eterno procedimento filosofico dello spirito.

E la poesia allora come viene fuori nel poema? Curioso, ma non strano: la poesia del poema é una specie di mancamento spirituale dello scrittore; Dante @ poeta, perché non riesce ad essere tutto filosofo, non riesce ad affissarsi nel mondo puro della verita e ricade percid nel mondo dei sensi (poesia). L’hegelismo di questo modo di giudicare del Gentile @ troppo evidente: la poesia non solo rappresenta una fase anteriore, ma anche una fase inferiore dello spirito umano. Secondo Hegel le eta poetiche sono sopraggiunte dalle eta religiose, e queste dalle eta filosofiche: la filosofia rappresenta un po’ il vangelo eterno del perfetto hegeliano. Orbene il Gentile attorno al 1908 si muoveva ancora nel cerchio di questi pensamenti: Dante é poeta, perché nel mondo di 14, nel mondo della verita, non riesce a spogliarsi del caduco, del temporale, dell’umano. Una proposizione questa che sarebbe stata approvata toto corde da Angelo Camillo De Meis. La Yanima Veterna terrene,

poesia erompe, non dalla concezione che Dante ha presente, ma dalsua, che in quel mondo di 1a, nel mondo dell’eterna giustizia e delverita, non si spoglia della memoria e del senso di tutte le cose individuali, temporanee.

In un’altra pagina, questo principio che la poesia

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mento all’alta ascesi della verita filosofica é ribadito anche pit esplicitamente:

294



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Dal Gentile agli ultimi romantici Direi quasi che Dante& poeta per non potere essere interamente quel che si era proposto di essere, maestro di verita . Certo egli a questo intende, a questa sacrifica quando occorre anche la sua arte: la dottrina ascosa sotto il velame dei versi strani, Vessenziale dell’opera sua; e quando bisogna rompere il legame ei non esita un istante a mettere nei versi la sua scienza prosaica; e non rifiuta il sillogismo per amore delle immagini, anzi talora pare che vi si compiaccia.

E qui un ricordo dell’episodio dell’esame di Dante davanti a san Pietro, su cui il Croce ha scritto una delle sue pit belle pagine per presentarlo come poesia della didascalica, mentre per il Gentile esso timane conferma dell’interesse filosofico persistente di Dante, e la sua gioia rievocativa, il piacere lirico della «memoria », @ arretrato alla fase psicologica, al compiacimento sentimentale di chi rivive con la mente i vecchi ricordi di scuola. Su questa via né noi né nessun altro pud seguire pit: il Gentile, giacché egli, celebratore delPunita del poema, finisce con l’impoverirlo di quel guid poetico che pur costituisce la sua pit alta gloria. Ma egli indovina, sospetta il nostro disappunto e ha un po’ l’aria di correre ai ripari: Dante, certo, @ grandissimo poeta nella Commedia, ma &@ anche filosofo; é pit. grande poeta che filosofo; ma egli intendeva riuscire pil grande filosofo che poeta. La filosofia, la scienza divenne la sua pit grande ambizione dopo la morte di Beatrice, per cui aveva scritto i suoi versi di amore. Questo é dimostrato chiaramente dal Convivio.

E qui segue un’analisi del Convivio che & perfettamente a posto: ci si trova davanti a un libro dottrinario e in cui il metodo filosofico o dottrinario del Gentile fa ottima prova. In un punto verrebbe voglia di dar ragione al Gentile, 14 dove egli dice che Dante «intendeva riuscire pit grande filosofo che poeta »; il critico qui aderirebbe pit strettamente alla poetica medievale di Dante, per cui la poesia & velame di verita filosofica o teologica. Ma questa @ pure ancora la storia del mondo intenzionale di Dante, non del mondo suo effettuale; @ storia della « poetica » nel senso romantico e desanctisiano, come qualcosa che precede l’opera di poesia, il pregiudizio del poeta poetante, per buona fortuna drammaticamente divorato dalla sua poesia in atto. Cotesta storia della poetica oggi noi la intendiamo in maniera diversa, non un antefactum e nemmeno un postfactum, ma vicenda dialettica interna della poesia. Perd la poetica medievale di Dante possiamo coglierla non come dramma, in cui il poeta riesce ora vittorioso e ora soccombente, ma come circolo perenne che governa e circuisce la sua poesia. Allora lo storicismo del Gentile, in questo punto, € uno storicismo che si arresta alla preistoria o alla post-

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storia, ma che non é la storia della poesia e della poetica di Dante nella sua attuale vicenda. La conclusione del capitolo gentiliano su Dante noi dunque sappiamo qual’é: la Divina Commedia voleva essere un sistema filosofico, un poema filosofico quale era stato il De rerum natura di Lucrezio. Dante si fece poeta, suo malgrado, per obbedire al suo genio interiore, « come quando scrisse che andava significando a quel modo che gli era dettato dentro ». Ma riconosciuta, quasi per sociale cortesia verso la credenza comune che celebra un Dante poeta, riconosciuta la vena prepotente della vocazione poetica di Dante, il Gentile torna a ribattere che Dante « filosofo volle essere; e meditd profondamente sull’universo, € scrisse un poema, ma sacro, a cui poté parergli, quando era presso al termine, che avessero posto mano e cielo e terra: le celesti ispirazioni della fede e le supreme concezioni della ragione terrena ». Per tal via il Gentile ha voluto far la storia di un Dante quale egli si illudeva in certi momenti di essere, e non di un Dante quale esso veramente fu e riusci. Critica tipicamente romantica, che si mantiene ancora nei termini del conflitto tra mondo intenzionale e mondo effettuale, quale era caro all’immaginazione del romantico De Sanctis. Storicismo questo del Gentile, ma fortemente deformante; se il De Sanctis si sforzava di dar rilievo alle vittorie del poeta sui suoi pregiudizi medievali, egli fa invece la storia di quel « pregiudizio medievale », come fosse la vera storia dello spirito di Dante, mentre la via pit retta e storicamente pit rispettosa é quella di indagare poesia e giudizio (non pregiudizio) nel loro assiduo intreccio nel corso del poema. Perd va studiata l’allegoria dantesca, non come un abito gid contratto dal poeta al momento di iniziare il suo poema, ma come costruzione animata, suggerita,

ispirata

dal-

la

fantasia del poeta poetante. Sennonché tutto questo voler ricondurre la poesia di Dante alla sua « filosofia », era il motivo polemico del giovane poco pit che trentenne nei riguardi dell’amico e maestro Croce, che amava patlare di una poesia tutta alogica. Il nuovo filosofo, sospettoso di una corruzione teorica possibile del concetto crociano, badava a tibadire il principio che la poesia non é vacuo immaginare, ma ¢€ un immaginare che trae perpetuamente il suo alimento da un interno filosofare. All’idea della poesia sensuale (sensuale nel senso vichiano) che si faceva strada nelle menti ai primi anni del secolo, sotto la stessa influenza dell’Estetica crociana, egli contrapponeva l’ideale di una poesia speculativa, di una poesia riflessa, di una poesia-filosofia.

293

Dal Gentile

,

agli ultimi romantici

La poesia pura, che di li a poco, per mode venuteci dalla Francia (una specie di rinnovato cartesianesimo, che continuava a rala poesia tutta nel verso di un momento estetico zionalizzare puro), doveva largamente divulgarsi nelle menti e nel gusto genetale, aveva questa massiccia opposizione del Gentile, sia pure dovuta all’indifferenza ottusa dell’autore per i valori lirici-formali. E doveva indurre l’amico-collaboratore Croce a classicizzare sempre pit la sua concezione della poesia, che era sensuale si, ma non sensualistica, e che non era pura, perché voleva avere un valore citcolare di espressione cosmica: é il significato della memoria crociana II carattere di totalita della espressione artistica, che

il Gentile s’affrettava ad esplicare in un articolo del 27 luglio 1918. Funzione negativa, ma integrativa nella sua negazione questo atteggiamento storico del Gentile per la poesia-pensiero di Dante; cid che gli serviva positivamente, quando egli lasciava da parte la poesia della Commedia, e passava a caratterizzare la prosa del Convivio: prosa dottrinaria questa, e perd il suo storicismo vi faceva pit coerente prova. Dante é lo scrittore che « italianizza » la scolastica, intendendosi tale italianizzamento come il passaggio dal latino medievale di Tommaso al neolatino del suo grande scolaro. I francesi amano ricordare che gl’inizi della loro prosa nazionale son dovuti a scrittori filosofici come Montaigne e Descartes. Ma I’Italia non aspettd il xvir_né il xvz secolo per produrre grandi opere filosofiche nella lingua nuova. E per questo rispetto é singolarmente importante l’opera di Dante. Tommaso e Bonaventura scrissero latino: il loro pensiero, l’anima del loro pensiero supera i limiti della nazione, @ scolastica, europea, cattolica, cristiana: é italiana solo in quanto é alimento sostanziale di un moto di pensiero senza di cui la civilta italiana sarebbe inconcepibile, e a capo di cui sta Dante. Questi italianizza, appunto, e conchiude, rispetto alla storia del pensiero vivo d’Italia, la scolastica. Dopo Dante non mancheranno mai, non mancano né pur oggi libri scolastici all’Italia: ma non rappresenteranno mai e non rappresentano la vita, il progresso dello spirito del paese. Dante conchiude e italianizza, ripeto.

Paragrafo dei migliori di questo capitolo su Dante, in cui si caratterizza storicamente la prosa della scolastica cattolica, la prosa della scolastica fatta nazionale in Dante, e si colpisce polemicamente l’esaurimento di quella tradizione di pensiero, che & necessatiamente defunta anche come tipo di prosa dottrinaria moderna. La neoscolastica difatti, a volerla giudicare anche letterariamente, non ha dato mai nulla che possa essere degno di esser letto, anche 1 Vedilo adesso in Frammenti

294

di estetica e di letteratura,

pp.

173-78.

Giovanni Gentile storico della letteratura e filosofo dell’arte. I

come semplice prosa dottrinaria. E la nazionalizzazione della scolastica in Dante non é acclamata per generosa retorica di chi vede in Dante il fondatore della nostra nazione letteraria, ma & dedotta con atgomenti e testimonianze storiche: Dante si rivolge aglilletterati, agli uomini di buona volonta, nei quali é «bonta d’animo», i quali hanno abbandonato «la letteratuta a coloro che Yhanno fatta di donna meretrice »; si rivolge insomma al pubblico dei vani poeti d’amore, ai nobili principi baroni e cavalieri e dame, «che sono molti e molte in questa lingua, volgari e non letterati ». S’indirizza a tutta la gente colta del tempo suo, intendendo di fare opera italiana e non universale, di scrivere non per le scuole, ma per i profani, per la gente solita a leggere versi d’amore e prose di romanzi. La filosofia doveva cosi uscite dal chiuso della scolastica, in che avevano interesse di mantenerla gli avari letterati, privi d’ogni nobilta d’animo, che della scienza avevano fatto un mestiere; e doveva entrare nella vita, diffondersi con l’arte fresca della nuova letteratura. i

Interessante questa genesi della prosa volgare del Convivio come € prospettata dal Gentile: c’é nello storico la confluenza delle tendenze romantiche, che volgono |’attenzione verso la popolarita delParte e della poesia, verso la letteratura che nasce tra il popolo e in mezzo al popolo, ma c’é al tempo stesso la coscienza riflessa della letteratura, che pur nasce dall’alta speculazione filosofica. Si comificia gia a far quistione di personalita, ma non di chiericato o di popolo, due finte fontane di pietra a cui un tempo si riconduceva l’origine di ogni letteratura. Nella personalita di uno scrittore pud confluire insieme il gusto vivo del popolo e il gusto magnanimo e alto del dotto. Dante @ uno scrittore popolare e al tempo stesso uno scrittore illustre, aulico, cardinale, cortigiano.

Questo duplice carattere della prosa di Dante rappresenta la sua grande novita storica: « commentare dottamente, e non per i dotti: in volgare! In un convito di scienza pane di biado, e non di for-

mento! ». Da Ermanno Tedesco che nel secolo x1 traduce |’Etica di Aristotile in latino, da Taddeo di Alderotto che spiega la sua

fisica in latino, dietro cui si affanna la turba degli scolari, dallo stesso Brunetto Latini che volgarizza la scienza medievale nel francese del Trésor, perché la lingua « plus délitable et plus commune », Dante si distacca per il suo geniale ardimento di fare opera di alta scienza in volgare. « Dante — sctive il Gentile — dice chiaro che si fida di sé pit che di altro, conscio del lunghissimo passo che la prosa volgare ha fatto dall’informe volgarizzamento di Taddeo al suo Convivio ». Non @ un’osservazione nuova questa del Gentile, ma egli la riprende felicemente dalla storiografia romantica, ed egli, piuttosto indifferente e sordo alle forme espressive, romanticamente si esalta

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Dal Gentile agli ultimi romantici

all’afflato poetico della prosa di Dante, quando questi conclude la difesa del volgare, col famoso periodo: « questo mio volgare fu consiungitore delli miei generanti, che con esso parlavano... perché manifesto @ lui essere concorso alla mia generazione, e cosi essere alcuna cagione del mio essere ». Dalla storiografia romantica, il Gentile deriva anche l’altro motivo della italianita di Dante, ma in lui il motivo é alleggerito e putificato e fatto scevro dalla tradizionale retorica nazionale. Egli parla dell’italianita di Dante, che @ concetto

scientificamente

esatto, ma

non di Dante profeta della nazione, che fu J’illusione messianica degli storici romantici e che oggi @ la turpe retorica senza fede dei ritardatari ripetitori di una formula « patriottica » d’altri tempi. Il Gentile mette in evidenza invece lo spirito italiano di tutta l’opera di Dante, noi diremmo con parola scientifica pit: precisa, lo spirito neolatino o romanzo dell’opera dantesca, che non @ tale soltanto nella lingua. La Commedia «ha nella lingua i segni fantastici di quella pit profonda italianita, che, ora pitt ora meno, manifestamente ha fatto appatire in ogni tempo Dante quasi padre spirituale della nazione »: la lingua non @ nient’altro che il pensiero, tramutato da Dante dal mondo della cattolicita nel mondo del bel paese, « che parlera poi sempre alle anime delle future generazioni, del giardin dell’imperio ora diserto», e a rinverdire il quale Dante indirizza Popera sua. Anche l’accenno al ghibellinismo di Dante @ visto in una luce pitt moderna, libero dalle contingenze della politica del Risorgimento. Per il nuovo interprete, tale ghibellinismo é la negazione « del valore del trascendente nel dominio del diritto umano e del lume naturale ». Sul piano scientifico, non é il papa gui docet ma l’imperatore: Dante é@ il primo scolastico, tomista per giunta, che si ribella al trascendente scolastico... e vi si ribella perché ghibellino, ma ghibellino d’Italia; perché profondamente convinto dell’umanita autonoma, cioé del valore assoluto, intrinseco dello stato, e per l’appunto di quello stato che egli vedeva grandeggiare, come opera umana, benché provvidenziale, nella storia, di contro alla chiesa: limpero dei Romani.

Questo spunto della storiografia politica non @ rimasto senza effetto sui nostri studi di filosofia del diritto: & il primo modo di giustificare storicamente la monarchia universale di Dante, che non sarebbe soltanto un mito ormai vecchio della fantasia nostalgica 0 reazionaria del poeta, ma avrebbe innesti di nuovo per questo spi- _ tito immanentistico che, nel campo strettamente politico del go-

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Giovanni Gentile storico della letteratura e filosofo dell’arte. I

verno del mondo, si faceva strada nella sua mente. Questi spunti di generale storicismo sono la parte pit felice del saggio gentiliano; né importa dire che si tratta di idee che circolavano in tanta pubblicistica dantesca. I] fatto stesso di aver trascelto quei principi e canoni di interpretazione, e di aver dato evidenza ad essi isolandoli, @ segno dell’elezione, dell’attitudine e dell’orientamento di una mente: ed é quello che qui a noi importa mettere in rilievo. 5. L’allegoria dantesca e il tentativo di interpretazione gentiliana.

Argomento pit spinoso e pit urgente per l’intelligenza della poesia dantesca @ il problema dell’allegoria. Sul quale noi faremo valere un principio d’ordine generale, che l’allegoria & presente non soltanto nella poesia medievale, ma nella poesia di ogni tempo, perché l’uponoia, il pensiero nascosto, é pur la vita di ogni immagine poetica. E noi non ce ne possiamo disinteressare, sol perché il poeta non ci ha tramandato la chiave di questo suo segreto. Segreto esso non é, se non nel significato generale che ogni poesia ha una sua ermetica interiorita, che criticamente sfugge allo stesso poeta poetante, ma che deve trasparire pit: limpida, obbiettivata, allo storico, se questi vuole fregiarsi di tale nome. Perd ci sono due maniere di interpretare l’allegoria dantesca: uno di considerarla sotto la specie dell’enimmistica, un fatto pratico come dice il Croce, « una forma

di scrittura

(perché la scrittura @ cosa pratica), una cripto-

grafia », e un altro sotto la specie della poetica (diciamo noi) o della filosofia di Dante (direbbe il Gentile), un fatto logico, che consustanzia di sé la poesia del poeta nel suo eterno circolo. Nell’un caso, noi ci troviamo di fronte a un problema di certezza per risolvere il quale ci vogliono dei dati sicuri che soltanto il poeta ci avrebbe potuto comunicare; nell’altro caso, ci troviamo di fronte a un problema di verita, che noi si cerca di risolvere come si risolvono tutti i problemi di verita, con Pindagare, ‘il meditare e l’esplorare storicamente i testi danteschi ¢i testi di cui lo scrittore si nutri. Per l’allegoria come fatto pratico é possibile la congettura; per Vallegoria, come sostanza storica del pensiero della Vinterpretazione vera e poesia di Dante, é possibile invece (il probabile si ha solprobabile propria, la quale non @ pit: o meno storicamente fondata. meno o pitt @ ma certo), del campo nel tanto Dice il Croce, parlando dell’allegoria come fatto pratico, come « criptografia », che « ove manchi linterpretazione autentica o la dichiarazione espressa da parte dei loro autori, ove manchi un ben fissato sistema criptografico con relativa chiave, decifrare le opere

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Dal Gentile agli ultimi romantici

allegoriche sia impresa affatto disperata, perpetuamente congetturale e, tutt’al pit, capace solo di aspirare a certo maggiore o minore grado di probabilita »!. Davanti alla lonza, al leone, alla lupa, al veltro, che sono delle allegorie statiche di tipo criptologico quindi (e che difatti sono accennati una volta sola e poi spariscono), possiamo eternamente contrastare; coteste figure sono materie di congetture, di opinioni, pitt o meno bene argomentate e arzigogolate, ma che ci lasciano indifferenti o diffidenti o annoiati. Se il Gentile si fosse fermato a quelle allegorie li, anche lui sarebbe stato uno dei tanti enimmisti, alla maniera del Flamini, del Pascoli, del Valli, del Pietrobono; ma la sua ricerca é un’altra: cogliere il significato di certi simboli, come momenti del pensiero dantesco. Quindi niente congetture,ma interpretazioni storiche. Beatrice che si avvale dell’opera di Virgilio, Beatrice che preferisce Virgilio ad Aristotile, Virgilio che corona e mitria Dante sopra lui stesso e disparisce, quando giunge nel paradiso terrestre; Beatrice che svolge la sua opera di assistenza al discepolo, senza aiuto altrui, in quasi tutto il Paradiso; Beatrice infine che all’ultimo canto si mette da parte e cede il posto a san Bernardo, devono pur significare qualcosa nel movimento del pensiero dantesco, nella sua filosofia, o nella sua poetica come preferiamo chiamarla noi, quella poetica o struttura che accompagna e urge da tutte le parti la poesia, e, storicamente interpretati come momenti di tale filosofia, debbono giovarci molto per intendere il movimento stesso della poesia. Orbene le allegorie dantesche, alcune allegorie dantesche, per il Gentile sono metafore per designare i vari momenti del pensiero filosofico medievale e la sensibilita umana con cui Dante rivive quelle vicende della sua scolastica. Dante, per la sua prepotente vena di poeta e per il gusto deciso verso le immagini sensibili, si giova del « sensato », per apprendere al lettore cid che questi poscia fara @intelletto degno; in cid, seguace della maniera poetico-religiosa della Bibbia, che « condiscende » alla « facultade » degli uomini « e piedi e mano attribuisce a Dio, ed altro intende ». Il simbolo sensibile € dunque soltanto una trasfigurazione immaginosa del ragionamento del filosofo. Appunto per questo le interpretazioni filosofiche di tali simboli ci sono necessarie e utili a intendere il movimento della poesia, se vogliamo veramente rivivere il processo della Commedia, come processo dialettico di poesia e struttura. Se noi ce ne disinteressiamo, e passiamo oltre infastiditi, & segno che 1 Nuovi saggi d’estetica.

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tale vicenda dialettica & soltanto intellettualisticamente presunta e postulata, ma in effetti ci interessa soltanto la ricerca trapsodica della poesia, al di 1a della struttura, e allora in tal caso la poesia stessa si impoverisce, perché & considerata sotto la specie del frammento o tutto al pit del’episodio. La poetica, si potrebbe dire riprendendo il discorso di altre pagine, ¢ ombra di un corpo, é ’ombra della poesia; noi non possiamo riconoscere quel corpo, senza riconoscere anche la sua ombra. E poiché ombra, corpo sono immagini, e il pensiero s’intriga quando c’é abuso di immagini, noi ci affrettiamo ad ammazzare queste metafore, rovesciando i termini, e parleremo di ombra per la poesia edi corpo perla poetica. Insomma a noi non interessa il significato interno delle immagini, cid che @ lombra e cid che é il corpo, né che valga meglio che la poesia sia il corpo e che la poetica sia l’ombra, perché vogliamo affermare con quel rapporto di corpo e ombra soltanto la indissolubilita di tale rapporto. Poesia e struttura si distinguono, ma non si separano; poesia e poetica si sceverano, ma nella discriminazione la poetica ci fa lume a ogni punto sul movimento interno della poesia. Il Gentile discute, per esempio, del simbolo di Beatrice e si avvale di quel simbolo per ricondurre Dante sempre sulla via della modernita. Dante @ moderno, non solo perché col suo ghibellinismo incide sul concetto della trascendenza, la quale é circoscritta soltanto alle cose spirituali ed é esclusa dalle temporali, ma é moderno perché gia riconosce che la fede pud nutrire, ma sempre soltanto attraverso la ragione: Beatrice per sé non beatifica: e questo é il punto in cui si appalesa il difetto necessario del trascendente. Beatrice non pud correre essa incontro a Dante sulla piaggia deserta; e fa capo a Virgilio, alla ragione: Or muovi, e con la tua parola ornata, E con cid ch’é mestieri al suo campare L’aiuta si, ch’io ne sia consolata. Venni quaggii dal mio beato scanno Fidandomi del tuo parlare onesto ecc.

E la fede dunque che si cala verso gli argomenti umani, é la fede che ha bisogno della mente dell’uomo, della sua parola ornata, del suo parlare onesto, perché essa possa avere un’efficacia e possa

beatificare. « Questa — chiosa il Gentile — non é pit trascendenza, ma vero e proprio razionalismo: quel razionalismo tomistico che

riesce in certo modo a sottomettere la teologia alla ragione ». Ma qui si potrebbe obbiettare che il Gentile modernizza troppo Dante; perd @ anche vero che la storia la si fa sempre da un termine caro allo storico, e questo costituisce non gia la parzialita, V’arbitrio, il suo soggettivismo sensu deteriori, ma la vigoria di ogni

Phy)

Dal Gentile agli ultimi romantici

‘storia degna di questo nome. Diceva il Leibniz che ogni presente é chargé du passé, gros de V’avenir; orbene anche il Gentile fa la storia del razionalismo dantesco dal punto di vista dell’esperienza razionale moderna; ed @ il solo modo di ritrovare cid che é vivo, e non soltanto cid che & morto, l’elemento migliore carico di un avvenire, parola ornata, il parnella stessa filosofia scolastica. La di Virgilio & dunque necessario, perché l’ispirazione lare onesto della fede possa avere la sua efficacia persuasiva e pedagogica. Beatrice ha bisogno di Virgilio, per aiutare Dante; ma in verita ne ha bisogno per sé stessa. « Certo é, che senza Virgilio ella non sarebbe Beatrice perché non beerebbe Dante, né potrebbe beare nessuno ». Di questo tipo sono le interpretazioni gentiliane delle allegorie: Vallegoria viene sciolta dalla sua rigidita di statua anonima, parola di una lingua morta che noi non conosciamo, e a cui tentiamo di at-

tribuire un significato perché il senso di una frase torni in qualche modo (é quello che si fa con I’etrusco); e sciolta tale rigidita, il simbolo & riportato all’esperienza storica del poeta, esperienza concreta, innegabile, alla sua cultura di uomo medievale, di quel Dante che, dopo la morte della sua Beatrice, andava a cercare la consolazione che Boezio insegnava essere data dalla filosofia, e frequentava le « scuole de’ religiosi », in cui si discuteva di Tommaso e di altri filosofi contemporanei. « Disputazioni de’ filosofanti », che davano tanta « dolcezza » a Dante, da cacciare e distruggere in lui « ogni altro pensiero », e che dovevano costituire l’humus della sua poesia, quella poetica che accompagna e seconda e abbraccia i fantasticamenti di ogni lirico. Questa interpretazione

storica,

e non

criptologica,

dell’allegoria dantesca, viene pur incontro alle nostre menti di moderni. Il sentirci ripetere che Beatrice rappresenta la fede, e Virgilio la ragione umana, lascia completamente freddo il nostro intelletto; tale cognizione inaridisce, marmorizza il testo. Ma quando il simbolo @ interpretazione animata dei rapporti tra fede e scienza, cid che fu il dramma della filosofia scolastica, allora esso torna ad essere vivo e necessario anche per noi moderni, che pur ci sen-

tiamo completamente fuori dal mondo allegorizzante del medioevo. L’allegoria non @ pit: una lingua morta. Ma & la parola di un certo momento storico della nostra civilta mentale, che vale a segnare, sotto forme sensibili, quelle che erano le esigenze speculative del pensiero in quella data eta. Interpretare l’allegoria dantesca nel suo animus filosofico, e non astrattamente enimmistico, significa riportare Vallegoria alla sua genesi interna, e perd solo allora si da una spiegazione legittima e uno scioglimento di quella allegoria.

300

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Giovanni Gentile storico della letteratura e filosofo dell’arte. I

Un altro esempio di allegoria interpretata storicamente dal Gentile @ il personaggio di Virgilio nei confronti di Aristotile. Perché Dante sceglie Virgilio a duca del suo viaggio, e non Atistotile riconosciuto maestro di color che sanno? E una domanda che si sono rivolti molti dantisti e Voziosita delle loro risposte non deve pesare e far concludere sulla illegittimita della domanda, poiché la predilezione di Dante per Virgilio & manifestazione di un particolare gusto, indica ancora una volta l’orientamento della sua poetica. Virgilio, agli occhi di Dante poeta, simboleggia la ragione umana assai meglio di Aristotile, « perché poeta oltre che savio, e maestro a Dante di quella poesia filosofica, o filosofia adombrata in figure poetiche, che egli voleva proseguire in volgare a vantaggio dei miseri, a divulgazione della scienza, per dare un grande convivio, un ammaestramento universale ». Non si tratta qui di un’interpretazione putativa e discutibile, ma di un’interpretazione storicamente esatta: Dante avesse 0 non avesse coscienza critica di questo suo atteggiamento, a noi non ci importa affermare. Ci importa soltanto fare la storia del pensiero che circolava effettivamente nella sua mente, e che egli non poteva prospettare storicamente a se stesso come lo prospettiamo noi, suoi inter-

preti. Orbene, se il centauro sara il simbolo del pensiero del Machiavelli, mente antiallegorizzante per eccellenza, a indicare la doppia natura ferina e umana della concezione rinascimentale della politica, cosi il Virgilio dantesco pud bene essere il pit alto e significativo simbolo della poetica del nostro scrittore: della poesia che é filosofia e della filosofia che si manifesta sotto il velame de li versi strani. Per questo l’interpretazione gentiliana non ha soltanto una sua astratta coerenza logica, ma ha una sua validita storica che ci aiuta a intendere certi movimenti della poesia dantesca. In questo campo, le osservazioni del Gentile sono sempre stoticamente suggestive. Ne cito ancora una terza; quella sulla sparizione di Virgilio nel Purgatorio, che lascia un senso di angoscia in Dante con quel nome di Virgilio ripetuto per tre volte e chiamato « dolcissimo patre »: Nei versi angosciosi in cui Dante esprime qui l’improvviso dileguarsi di Virgilio all’apparire di Beatrice si sente l’affanno dello spirito medievale per Pimpotenza della ragione ad innalzarsi con le sole sue forze alla conoscenza della verita. Quell’eterno vivere senza speme in disio, é l’espressione piu profonda dell’abisso che nel pensiero medievale divide la ragione e l'uomo e la natura da Dio.

Qui non si vuol dire che sarebbe opportuno accettare questa interpretazione, e che noi si voglia elogiare la particolare forma espo-

301

Dal Gentile agli ultimi romantici

sitiva del linguaggio gentiliano. Un esteta puro ci direbbe che noi ci lasciamo fuorviare dal contenuto, e per giunta dal presunto contenuto filosofico, di quelle dolcissime e angosciate parole per la disparizione di Virgilio. Noi dobbiamo lasciarci prendere dall’immagine nella sua purezza, e dal ritmo di nostalgico abbandono della terzina; e basti. Ma questa non sarebbe pit interpretazione della « forma poetica », ma della sua « superficie », non sarebbe interpretazione dello « stile » in senso moderno, ma della « grammatica » e della « lingua » nel senso caro agli scolari del Puoti. Il formalismo moderno, quando sia inteso nel suo pit: profondo significato, non esclude l’intelligenza del movimento interno della poesia, di quella circulata melodia che é sempre la sua gloria, e in cui c’é la melodia e Vanimus che fa circolo in essa e ne é come |’interno spiro. Orbene,

interpretando

quei versi danteschi,

io debbo

sentirvi

non soltanto l’angoscia di un semplice distacco umano, ma anche Vangoscia speculativa dell’uomo che si é affidato per salute alla saviezza della mente,

e che sente

a un certo momento

insuflficiente

quella saviezza della ragione, mentre pur bisogna saper salire ad altro. I] distacco di Dante da Virgilio non é il distacco sentimentale di due viaggiatori, di maestro e scolare, di due cari e bene afhatati turisti dell’oltretomba, ma @ un distacco che involge un’interna ansia speculativa. E noi non dobbiamo, non possiamo svuotare la poesia di Dante di questo suo afflato interno, che pur costituisce la profondita di quella poesia. Che eli spiriti del Limbo non diano in pianto, ma in un « che di sospiri Che l’aura eterna facevan tremare », che Virgilio senta pieta per l’angoscia delle genti che son laggit: nel primo cerchio, e pero egli ne accenni

« tutto

smorto » (cid che in quel caso

non

é tema, ma senso di fraternita con quegli spiriti, del fraterno lutto che pesa anche su Virgilio), che Virgilio nel ricordare, nel Purgatorio, Aristotile e Platone e molti altri i quali disiarono « senza frutto », chini la fronte e pit: non dica, e rimanga turbato, sono tutti momenti poetici che per essere intesi nella loro animazione pit profonda devono pur essere riportati a questa ispirazione speculativa di cui perpetuamente si alimenta la fantasia di Dante. QuelPangoscia di Dante non é una generica angoscia sentimentale, ma é qualcosa dell’Amgst, di cui si torna a discorrere nella moderna gnoseologia, propria dello spirito moderno, sgomento dei propri limiti e ansioso di una nuova ricerca, di una evasione, che da dolcezza e paura al tempo stesso: stato d’animo dei pensatori e dei poeti tutte le volte che si staccano dal loro vecchio mondo, per integrarlo in un altro pit. comprensivo.

302

Giovanni

Gentile storico della letteratura e filosofo dell’arte. I |

Questa lesigenza del Gentile: scorgere la speculazione interna di quella poesia, anche se poi egli ha il torto di fermarsi a fare la storia in sé di quella speculazione e tralasci la poesia in cui si incarna. Ma noi dobbiamo pur non dimenticare questo principio da cui Dante muove, e che é quello di Tommaso d’Aquino vigorosamente rivissuto, se vogliamo intendere tutta l’animazione musicale e il mondo delle immagini dantesche: «la trascendenza dell’assoluto, e quindi Vimpossibilita di raggiungerlo con lo sviluppo autonomo, naturale della ragione. La verita & fuori dell’uomo, fuori del mondo in cui l’uomo vive; e quindi il motivo principale della Commedia, — che ricerca la verita, e in essa la norma della vita, — é fuori del mondo e del tempo, nella visione oltremondana. Questo radicale scetticismo scolastico & proclamato in pit luoghi della Commedia ».

Con V’interpretazione filosofica dei simboli di Beatrice, di Virgilio, possiamo anche ricordare l’interpretazione del simbolo di san Bernardo: il santo della filosofia del Non, ove l’amore sta in prigione, ottenebrato nella luce di Dio, come avrebbe detto Iacopone. La ove Cristo é ensetato — tutto lo vecchio n’é moxato — L’un ne Valtro trasformato — en mirabile unitate. — Vive amor senza affetto — e saper senza entelletto, Lo voler de Dio eletto — A far la sua volontate. — Viver io e non io — e lesser mio non esser mio, Questo é un tal trasversio, — che non so diffinitate. E il momento mistico della fede; Dante concilia in sé le dottrine tomistiche e insieme le dottrine francescane: Dante, razionalista alla maniera di san Tommaso, finisce nel misticismo di san Bonaventura. Grazia sopra grazia non gli pud ottenere che fulgori e visioni ineffabili, come sogni che lasciano una dolcezza nel cuore e il vuoto nella mente, come sentenze di Sibille che si perdeano al vento sulle foglie lievi: Quasi tutta cessa Mia visione, ed ancor mi distilla Nel cor lo dolce che nacque da essa. Questa luce di Dante @ né pit né meno che la santa tenebria in cui il frate di Todi si metteva senza oggetto, accéndendo l’affetto e serrando tutto lintelletto.

Dopo di che, ci si domanda: perché Beatrice si ecclissa e al suo posto appare san Bernardo? I] Gentile cosi commenta: Beatrice, come una volta ebbe bisogno di Virgilio per giungere all’uomo, ora ha bisogno di Bernardo di Chiaravalle per giungere a Dio: di Bernardo, dello stesso indirizzo mistico dei Vittorini e di Bonaventura, che al di la della scienza umana (Virgilio) che egli chiamava opinione, al di la della teologia (Beatrice) che egli chiamava fede, pose un _terzo ed ultimo grado nel progresso della conoscenza, l’intelletto che é la visione beatifica, il rapimento estatico dello spirito che s’affisa in Dio, spogliandosi della propria individualita nel nichil glorioso di Iacopone. Questa ultima forma di sapere, corona-

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Dal Gentile agli ultimi romantici mento della filosofia e della teologia, é simboleggiata da Dante appunto in san Bernardo, per cui Dante si ricollega qui indirettamente al misticismo fran cescano. La pura contemplazione mistica é la perfezione della vita contempla. tiva, ond’é simbolo Beatrice. L’estasi dell’amore compie il raziocinio illuminato dalla fede.

E evidente che queste del Gentile non sono escogitazioni con-

getturali, non sono astrazioni se non per il fatto che esse volutamente si fermano all’animus filosofico di Dante, mentre quell’animus filosofico pur diventa immagine, ritmo, melodia; ed é quello che noi dobbiamo sempre cercare. Ma sono esse stesse interpretazioni storiche o interpretazioni che avviano alla storia. Accanto alla poesia c’é sempre la poetica,

e senza intendere storicamente

questa,

noi ci interdiciamo l’intelligenza e il gusto pit. profondo della poesia stessa.

Scriveva il Croce alcuni anni fa: [Il Gentile] in Dante, vede il filosofo e il profeta e non il poeta, e Vallegorismo, che @ convenzione e intellettualismo, l’allegorismo che si & parato sempre innanzi come un muro ai critici del Dante poeta (da Vincenzo Borghini e da Giambattista Vico al De Sanctis), toglie in iscambio con una forma poetica di espressione. I] critico letterario, l’intenditore di poesia, procede in Bence con un procedimento che non trova giustificazione nell’idealismo attuale !.

Il che @ vero; ma @ pur vero che anche il Croce, con questa nota polemica, potrebbe far sospettare che il suo procedimento sia antitetico a quello del Gentile, e perd passibile di una analoga condanna: per il Gentile, l’unica ricerca legittima la filosofia di Dante, per il Croce, l’unica ricerca legittima la poesia. Eppure bisogna rendersi dialetticamente, e in concreto, conto di questa vicenda assidua di poesia e struttura, pena il sospetto o di estetismo puro o di filosofismo puro. I critici della pura poesia di Dante e i critici della sua pura filosofia sono entrambi dei votivi mancanti. Il che non é il caso né del Croce né del Gentile; e se per il Croce @ superflua ogni dimostrazione in proposito, per il Gentile (almeno di questo periodo degli studi danteschi e degli studi leopardiani), bisognera ricordare che la filosofia di Dante &, secondo sue nette, categoriche affermazioni, soltanto labbozzo, l’ombrifero prefazio della sua poesia. Se egli si ferma a studiare soltanto l’abbozzo, cotesto pud essere senso dei suoi limiti, 0 perché ciascuno risponde sempre al suo problema; ma non si nega dal Gentile (almeno in questo momento) la ricerca della poesia come l’altro problema della Commedia dantesca. ! Conversaxioni

304

critiche, IV, p. 300.

Z

Giovanni

Gentile storico della letteratura e filosofo dell’arte. I

La conclusione del nostro discorso vuol essere questa: @ ingiusto

considerare il Gentile, interprete filosofico, storico della allegoria dantesca, sul piano dei comuni allegoristi, che sarebbe meglio chiamare enimmisti_ o scioglitori di indovinelli; egli si distacca dai Flamini, dai Pascoli, dai Valli, dai Pietrobono, perché per lui le allegorie sono incarnazioni sensibili di una filosofia, della filosofia scolastica o dantesca, in quel momento della storia del pensiero. Ci sono delle allegorie, che si sciolgono nella storia; e ci sono delle allegorie, che rimangono simboli mutoli o che gli interpreti stessi hanno la virtt. di fare ammutolire, con i loro almanaccamenti astratti (il veltro, il cinquecentodieci e cinque, ecc.). Noi non possiamo rifitutare le interpretazioni delle prime, perché ci soccorrono utili a intendere il movimento della poesia (ed é quello che sempre facciamo, non soltanto per Dante, ma per tutti i poeti in cui la non-poesia, la poetica diciamo noi, l’allegoria dicevano gli antichi, accompagna ed urge il circolo stesso della poesia); possiamo respingerle, ma solo per trovarne delle migliori e pit calzanti e pit storicamente raffinate e pit scrupolosamente atteggiate a spiegare il nesso delicato di poesia-poetica, odi poeticapoesia.

Nel Gentile, che in questo momento era sotto l’influenza amichevole del Croce, c’era vivo ancora il senso dei limiti dell’allegoria, presentata come una specie di propedeutica alla poesia, mentre pit tardi, polemicamente distaccato dal pensiero del Croce per provvedere alla sistemazione della sua filosofia, doveva trascorrere a dare all’allegoria un valore espressivo analogo a quello della poesia, scrivendo che l’allegoria, « come ogni altra forma o figura onde la fantasia si rappresenta il suo obbietto, é legittima, purché osservi la legge essenziale della forma, di non restar fuori del suo obbietto »'. Ma non si tratta, é chiaro, di interpretare l’allegoria, come una diversa forma di poesia, « carca di mistero e singolare di potenza, di cui sia ancora

da ricercare e determinare

il vero concetto » (sono

parole del Croce’), ma di interpretare l’allegoria come un atto logico, e non semplicemente un atto pratico, un atto, come dice sempre il Croce, « di arbitrio onde tra le pause di una serie di parole s’inseriscono serie di parole di senso diverso, tra le linee di una scrittura una diversa scrittura »*. E a noi dunque sempre presente questo concetto della imminenza della poetica, nel movimento della 1 GENTILE, Dante e Manzoni, Firenze, 2 Conversaziont critiche, V, p. 8. 3 Ibid., p. 7.

1923,

pp.

79-80.

305

Dal Gentile

agli ultimi romantict

poesia, che noi possiamo e dobbiamo distinguere dalla poesia, ma non senza avvertire la necessita dialettica e la fecondita di quella vicinanza. Il Croce ha ancora scritto, in altra occasione, « che allegoria e poesia sono come !’acqua e l’olio, due atti mentali radicalmente diversi e non unificabili tra loro » !, e immagine troppo fisica ci rende ancora

pitt renitenti ad accettare

questa interpretazione

« statica »

che il Croce, forse per necessita didascalica, da della sua tesi dialettica e dinamica della poesia e struttura nella Divina Commedia, altre volte invece presentata nella sua pit: elastica storicita. Ma il Gentile non interpreta (nel 1908) Vallegoria dantesca come arbitraria uponoia, come allegoria-enimma, ma l’allegoria come Ja stessa filosofia di Dante, il romanzo teologico-politico dell’uomo medievale, il precedente della poesia, la sostanza circolare di quella poesia. Da cid la legittimita della sua interpretazione; noi possiamo discuterla e controbatterla sul piano storico, ma non possiamo rifiutare di prenderne conoscenza, cosi come non ci riftutiamo di prender conoscenza di tutte le interpretazioni dei critici che arretrano la spiegazione della poesia al mondo morale del poeta da cui quella poesia si origind e di cui si consustanzio. Se il Gentile pretendesse che noi ci si fermasse a questa interpretazione filosofica della Commedia, noi reagiremmo vivacemente; ma per lui, bisogna essere giusti, la filosofia di Dante é soltanto l’abbozzo, l’avvio, la sostanza, circulato della poesia di Dante.

il movimento

6. La fase hegeliano-crociana dell’estetica del Gentile.

E questa la fase, che io chiamerei hegeliano-crociana, dell’estetica del Gentile. Per una parte il Gentile fa capo alle teorie di Hegel e di De Meis, che interpretavano la poesia come una mancanza, una forma di impotenza rispetto al termine ultimo del pensiero a cui essa tendeva, e per l’altra egli si tiene vicino alla teoria dell’amico Croce che nella sua speculazione ha sempre battuto sulla autonomia della poesia: studiare dunque la filosofia di un poeta come lievito della sua stessa poesia. Non bisogna dimenticare che un anno innahzi o contemporaneamente a questo capitolo su Dante Alighieri e la sua filosofia, proprio nel 1907, il Gentile recensiva due volumi del prof. Pasquale Gatti, Esposizione del sistema filosofico di Giacomo Leopardi, e badava a ripetere che la filosofia del Leopardi « va studiata per intendere la poesia, e valutata in quanto poesia, 1 Tbid., p. 104.

306

Giovanni

Gentile storico della letteratura e filosofo dell’arte. I

per quella vita poetica che riusci a vivere nello spirito del Poeta ». La filosofia dunque & riconosciuta dal Gentile come anticipazione, fermento, abbozzo, ombrifero prefazio della poesia, che si scioglie e si deve risolvere nella poesia, ultimo e pit vero termine a cui deve interessarsi il critico letterario. Direi che questa é una proposizione della pit stretta ortodossia

crociana, e, soltanto, a differenza del Croce o almeno del Croce di quegli anni, il Gentile vuol tener presente questo fervore filosofico che fermenta nella immagine di ogni poeta; la sensualita vichiana

della poesia nasce per lui da questa cava caverna della speculazione filosofica. Scrive il Gentile in quella recensione leopardiana del 1907 parole non equivoche:

In fondo a ogni mente umana, sopra tutto in fondo a quella dei grandi poeti, € incontestabile che una filosofia c’é: e perd é lecito parlare cosi di una filosofia del Leopardi, come di una filosofia del Manzoni, dell’Ariosto, di Shakespeare, di Omero.

E con cautela tipicamente crociana, l’autore badava a soggiungere: Questa filosofia dei poeti non @ la filosofia dei filosofi, e bisogna tatla, per non snaturarla e non distruggerla, con molta delicatezza.

trat-

E richiamandosi all’esempio di Dante, egli riconosce che esso é il solo esempio di un filosofo-poeta, in cui la filosofia pud essere trattata e discussa come un sistema preesistente:

in questo sistema

preesistente, confluiscono anche le cosi dette allegorie. Per il Gentile, Dante

é « unico

[...] e€ se non

sempre,

quasi costantemente

mirabilissimo esempio dell’energia, onde @ capace lo spirito umano, di individualizzare e stringere nella fantasia e nel sentimento d’un’anima singolarmente potente il sistema pit intellettualisticamente universale ed astratto che la storia della filosofia ci presenti ». Per questo rispetto, il Gentile crede che la Commedia non possa “nemmeno essere patagonata, se non a distanza grandissima, al Faust del Goethe, « dove Punita dell’opera, come arte e come filosofia, rimase lungi dall’esser raggiunta ». E una proposizione questa che troppo distintamente risente del concettualismo hegeliano e insieme dell’estetica intuizionistica del Croce. Ci piace, in questo anno cruciale del 1908 in cui il Gentile forse scrive le pagine pit persuasive della sua storia letteraria im nuce, la polemica che egli conduce contro il Vossler proprio nella « Critica », combattendo il paragone, accolto e sviluppato dal dottissipoeta del mo critico tedesco-italiano, tra Dante e Goethe, Dante

307

Dal Gentile agli ultimi romantici

trascendente Puno che esce dalla assume e incarna la non c’é trascendenza

e Goethe poeta dell’immanente, filosofia medievale e la incarna, e l’altro che filosofia moderna. E il Gentile a ribattere che ed immanenza che distingua i due poeti, perché

arte, in quanto arte, é sempre immanente: Non @ men vero che tutto il mondo, che Dante concepisce come trascendente in forza della sua filosofia, al pari del cielo goethiano soltanto nella forma esteriore rimane trascendente; e in sostanza, nella sua realta estetica, € il mondo vivo dell’anima dantesca: il mondo di quaggit, colle sue fazioni, co’ suoi filosofanti, con i suoi papi e frati, e principi e gente d’ogni risma, conosciuta da Dante traverso l’esperienza, la storia, la tradizione, la leggenda: tutta agitata dalle passioni ed aspirazioni, per le quali Dante ha un interesse. L’arte di Dante & assai pit: potente della sua filosofia; e quella stessa filosofia, che Dante personalizza quasie fonde nel fuoco della sua anima energica d’artista, cessa per cid appunto' di essere la filosofia medievale, in quel che essa ha di specifico e transeunte, per noi morta, e gid morta a tempo del Goethe, e resta, a parer mio, perennemente viva, eterna, come elemento integrale dell’arte di Dante!.

Dove, se non ci inganniamo, la filosofia di Dante é travasata nella poesia, e, come tale, liberata dalla sua contingenza storica di

filosofia medievale. In tale proposizione si chiarisce meglio quella che é la posizione del Gentile; non la filosofia per se stessa egli vuole valutare nella Commedia (cid che poteva essere talvolta il compito scolastico del trattatista della Filosofia nei Generi letterari del Vallardi), ma la filosofia come interno spiro della poesia. Su per git: la stessa posizione che egli assumera, esaminando la filosofia e la poesia del Leopardi. Credo anzi che questo sia il contributo pit effettivo e pit concreto del Gentile all’estetica contemporanea: liberarci da una concezione puramente imma ginistica o sensuale (in senso vichiano) della poesia, e far valere tutta la cosmica esperienza che sta dietro all’immagine di un poeta. Il saggio del Croce del 1917, Il carattere di totalita delVespressione artistica, viene incontro precisamente a questa esigenza

che il Gentile formulava tra il 1907 e il 1908. Nel Croce c’@ una pit netta liberazione da ogni traccia della filosofia di Hegel e di Schelling, se questi due filosofi raccostavano « larte alla religione e alla filosofia, con le quali si pensava che ella avesse comune

il fine —

la conoscenza

di estetica

e letteratura,

della realta ultima — », e

se pensavano « che lo attuasse ora in guisa concorrente con le altre due, ora provvisoria e preparatoria a quella delle due che aveva 1 Frammenti

Lanciano,

1920,

pe

267

ail para-

gtafo citato éN tolto da un articolo apparso nella « Critica » del 1908, pp. 53-57.

308

Giovanni Gentile storico della letteratura e filosofo dell’arte. I

grado supremoe definitivo, ora, infine, come costituente essa stessa

questo grado supremo e definitivo ». Per il Croce la poesia rimane

intuizione lirica pura, ma intuizione lirica piena, in cui «cé tutto l'umano destino, tutte le speranze, le illusioni, i dolori e le

gioie, le grandezze e le miserie umane, il dramma intero del teale, che diviene e cresce in perpetuo su se stesso, soffrendo e gioiendo ». E questo voleva essere un criterio per distinguere l’arte profonda dall’arte elementare o superficiale, la vigorosa dalla fiacca, la perfetta dalla variamente imperfetta. In questi anni tra il 1907 e il 1912, la cosmicita dell’arte per il Gentile invece oscilla tra una ritardata concezione hegeliana e una anticipata concezione crociana del tipo su descritto. Nel capitolo vallardiano sulla filosofia dantesca (rifuso e confermato nel volume I problemi della scolastica, \etture alla Biblioteca filosofica di Firenze nei giorni 21, 23, 28 e 30 maggio 1911) egli insiste troppo sulla filosofia di Dante come filosofia, e invece nella polemica col Vossler, quando si trova a discutere con il critico tedesco per una pretesa superiorita del Goethe perché poeta dell’immanenza su Dante preteso poeta della trascendenza, il nostro filosofo allora si fa vigorosamente crociano e di quel crocianesimo del Croce, che avra la sua maturazione teorica nel 1917, e cosi ribatte: [In Dante]

il trascendente

@ solo nella sua filosofia;

cioé, nella sua filo-

sofia considerata di qua dell’arte, fuori della sua visione in cui il Poeta la risolve. Che fa che egli ci dica di sognare, cioé di trasferirsi fantasticamente nell’al di 14? In realta ei non ci presenta un groviglio d’immagini sconnesse, come fa a se stesso chi sogna, ma il tessuto della realta nella sua logica vivente: e nessun colore delle sue immagini oltremondane pud dirsi che non sia tolto ai raggi del sole, di cui s’allegra l’aer dolce di questa vita.

E poi ancora rincalza: Se Pombra della filosofia medievale si stendesse su tutta quanta la Divina Commedia, e nella sua poesia, che cosa resterebbe di vivo in questo poema del medio evo? Esso resterebbe per noi come un documento storico della filosofia gia dal Rinascimento superata; ma il suo valore estetico sarebbe nullo. Invece: Goethe filosofo ha ragione di Dante filosofo; ma Goethe poeta deve rendere omaggio al vicin suo grande. L’arte dell’uno, non che vincere, non pud né anche incontrarsi in quella dell’altro... Tra la filosofia di Dante poi e quella di Goethe corrono si cinquecento anni, in cifra tonda. Ma dove sono coteste filosofie? In realta noi abbiamo la loro poesia, la Commedia e il Faust: i quali, in quanto poesia, non sono paragonabili, perché sono uma cosa sola: poesia.

Nell’ultima parte di cotesto saggio (Pensiero e poesia nella Com-

media: composto di articoli del 1908, 1909 e 1912), il Gentile torna

alla carica contro le troppe distinzioni che il Vossler fa tra un Dante

309

Dal Gentile agli ultimi romantict

religioso, un Dante filosofo e un Dante poeta. Il Vossler nell’opera sua, come abbiamo detto altrove, fa la preistoria della poesia dantesca, storia del contenuto, attraverso i secoli, prima che si incarnasse nella poesia di Dante. E il Gentile, antipositivisticamente, a ribattere: La storia del contenuto di un poema, qual’é quella indagata sistematicamente dal Vossler pud esser fatta, ma per essere dimenticata. Serve cioé solo ad affiatarci con lo spirito del poeta; dove, realizzato che sia, non c’é pit V’attuale coscienza storica della propria genesi, ma solo quella data creazione vivente che é il poema. Quindi é che la interpretazione estetica, o la vera critica letteraria, presuppone la storia come propria condizione indispensabile, ma & la negazione della storia, che le é servita di scala a salire al piano che @ suo.

E seguono

altre affermazioni, a correggere

alcune aporie dello

storicismo del De Sanctis, a richiamare il De Sanctis sotto la nuova

disciplina del Croce. Erano corollari questi della divulgata filosofia del Croce che un po’ tutti respiravamo nell’aria in quegli anni attorno al 1912, ma é pur significativo che il Gentile vi calchi l’accento e formuli « due corollari essenziali, che sono due canoni capitali della critica »: 1) che non ¢’é propriamente una storia delle forme artistiche, e cioé delsolo dell’astratto contenuto dell’arte; 2) che non c’é un contenuto . ° . per sé estetico o inestetico. Parte, er)ma

Di qui la critica alla Storia del De Sanctis, dove talvolta é confuso « quello che é svolgimento e progresso del contenuto della letteratura con un assurdo svolgimento e progresso della stessa letteratura ». Altro &, diciamo noi nel 42, la storia della poesia che é qualcosa di inconfondibile, un guid individuale, irripetibile, che si puo tichiamare solo a se stessa, e altro é la storia della poetica. La poetica ha uno svolgimento, la poesia & senza svolgimento: essa é canto fermo nell’aria. Zola non progredisce su Manzoni, se non nella poetica che da romantica si fa verista, e Shakespeare non progredisce su Dante, perché « nessuno Shakespeare potra mai fare scendere le figure dantesche dal piedistallo su cui le eresse la fantasia del poeta, per gittarle nel tumulto della vita; poiché tutta la loro vita é li appunto, su quel piedistallo, da cui non possono scendere se non per cascare nell’abisso del nulla ». Questo, il Gentile crociano. Ma Vesigenza pit importante, dal punto di vista storico, di questi saggi danteschi del 1908-1912, & quella dell’unita dello spirito dantesco. Contro il Vossler che parla delle contraddi-

310

Giovanni

zioni della lativa la sua

Gentile storico della letteratura e filosofo dell’arte. I

del pensiero dantesco, le quali si pacificherebbero nell’unita poesia, il Gentile ribatte che se viene negata l’unita specudi Dante, viene compromessa anche la sua unita, la sua vita, energia poetica. E perd egli passa a dire:

Nell?anima di Dante, nella sua coscienza, tutto & fuso, tutto &@ uno: la teligione @ filosofia; e la filosofia &x arte; cioé, a rigore non c’é né religione, né filosofia, ma arte; un’arte, come non ce n’era stata mai; un’arte che raccoglie nel fuoco della fantasia la visione dell’universo, natura e uomo; e Puomo con tutte le passioni vitali, dagli amori bestiali all’amore del divino; € pero con tutte le forme del sapere, dalla descrizione delle cose sensibili alla speculazione della realta sopramondana. La poesia non ha da conciliar nulla in quest’anima; perché sorge dall’unita straordinaria di quest’anima completa e fortemente personale.

Per il Vossler ci sarebbe stato un miracolo da parte di Dante poeta, che avrebbe sanato le contraddizioni esistenti nella sua filosofia, salendo al piano della poesia, e per il Gentile invece Dante poeta sana i dissidi, perché questi dissidi erano gia sanati nella sua anima, cioé nel suo unitario sentire, pensare e poetare.

pensare

e

poetare

Sentire,

per il Gentile non sono tre momenti,

ma un momento solo. Scrive in una lettera al Vossler, anch’essa pubblicata nella « Critica » del 1908: Il dissenso rimane [tra noi due] intorno al rapporto della filosofia con la religione fuori e innanzi di questo spirito dantesco, che, secondo voi, avrebbe ridotto ad unita res olim dissociabiles, operando addirittura un miracolo: laddove, per me, Vunita era gia nella natura delle cose, storicamente e idealmente. Per voi la poesia come tale celebra il trionfo finale dell’eroe, quando questi si vede innanzi schierate le fila nettamente distinte dell’esercito nemico. Io ritengo che la poesia, per sé, innanzi a questo nemico sarebbe rimasta fatalmente sconfitta, o sarebbe stata tutt’altra da quella serena e veramente trionfante poesia che &é. Non che io neghi affatto il miracolo: ma credo che sia il miracolo dello stesso pensiero, potentemente poet ico, dell’Alighieri.

Tra la interpretazione speciosamente unitaria, ma invero troppo quella empiricamente discriminata, della poesia dantesca, quale del Vossler, e la interpretazione immediatamente e indistintamente unitaria del Gentile, la critica dantesca dopo il libro del Croce si € orientata verso una interpretazione unitaria-distinta, tesi in cui confluiva tutta la tradizione di cui era ricca l’esperienza multiforme del Vossler e in cui al tempo stesso era rispettata l’esigenza unitaristica

del Gentile.

;

|

Ma non é caduto dalla memoria un avvertimento pedagogico del Gentile, che si potrebbe riassumere in questo principio: non basta affermare l’unita di un’opera, bisognera farla sentire ipsis rebus dic-

Sukh

Dal Gentile agli ultimi romantict

tantibus, nella stessa esposizione e ricostruzione critica. Che il Vossler propugni una critica unitaria della poesia dantesca, solo astrattamente, lo si desume dalla maniera espositiva stessa del critico. Ed & questa un’osservazione di carattere formale, che ci fa piacere di cogliere nel Gentile. Un indizio estrinseco del carattere di questa critica parmi di scorgerlo nel suo svolgimento, che si risolve nell’esame particolare e successivo delle singole cantiche, e, in ognuna di esse, dei singoli canti, uno dopo altro. Procedimento che sarebbe legittimo soltanto se si provasse che nel poema manca lunita dell’intuizione animatrice.

In verita la lettura rapsodica della Commedia, come di qualsiasi opera, per cercarvi, per esempio, la poesia e lasciar cadere il resto, pud apparire insufficienza del critico, che non ha la capacita di dominare nell’esposizione tutto il poema o tutto un romanzo; ma in verita questa mancanza di dominio nell’esposizione, che cosa significa effettivamente, se non scarsa compenetrazione mentale del sentimento unitario o unitario-distinto di quella poesia o di quel romanzo? Non basta affermare l’unita della Commedia, Vunita dialettica di poesia e struttura, o l’unita poetica dei Promessi Sposi, anch’essa come vicenda di fantasia religiosamente commossa ed episodicamente oratoria del cattolicesimo, ma pur traspiri quel dinamico movimento dalla vivezza espositiva di tutto il nostro quaderno! Cid che spiega la polemica che c’é stata in quest’ultimo ventennio sulla poesia-struttura della Commedia, che non ha voluto essere un’eversione della nota tesi crociana, ma soltanto un inveramento di quella tesi nella critica in atto, e a cui ha finito col partecipare lo stesso Croce, quando é tornato a discorrere della bellissima poesia che fiorisce nel XXXI e nel XXXIII canto del Paradiso, distinguendola dalla parte strutturale di quei canti e sovratutto del canto XXXII, « quasi del tutto nudo di poesia »!. Non si tratta invero di semplici esemplificazioni o di letture analitiche, in cotesto caso, quasi postille di una prima tesi in generale, ma un riprofondamento di quella tesi generale nel vivo della critica in atto perché, nell’animazione del discorso, traspiti e rifletta in sé lo spirito di una dottrina, di una veduta, che potrebbe a ogni momento irrigidirsi e diventar soltanto una troppo comoda e infeconda premessa. 4

:

:

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J

Cfr. in Poesia antica e moderna, L’ultimo canto della « Commedia », pp. 151-61, e nella « Critica », 20 marzo 1942, Esemplificazioni critiche di pro-

posiziont estetiche, pp. 113-15.

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Sia

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Sg

Giovanni Gentile storico della letteratura e filosofo dell’arte (11)

1. Gli studi leopardiani del Gentile. Qui bisognera dire esplicitamente qualcosa di pit di questo crocianesimo del Gentile. E nota la polemica del Croce sul Gentile « uomo anestetico », « chiuso e impenetrabile alla poeticita della poesia, ignaro e incurioso

delle opere dell’arte, inesperto dei pro-

blemi a cui esse danno luogo, scrittore privo di qualsiasi finezza ed eleganza, in odio alle Muse »!. Invero il Gentile non si & disinteressato della poesia, e soltanto la sua esperienza é assai stretta e limitata: Iacopone, Dante, Campanella, Leopardi, Manzoni sono i cinque poeti che hanno impegnato la sua mente, e cotesti poeti non sono stati scelti a caso. Erano quelli che pit si prestavano a giustificare la concezione sua dell’arte intesa come circolo poesia-filosofia, o meglio come poeticita-filosofia. La sensibilita dei critici @ sempre adeguata alla filosofia dell’arte che c’é in ciascuno di noi, implicita o esplicita. La strettezza delle esperienze poetiche del Gentile @ strettezza della sua visione speculativa dell’arte (troppo larga poi per un altro rispetto), e la sua Filosofia dell’arte @ una di quelle espetienze in vitro, che, nel campo della medicina e della chimica, si fanno nei gabinetti scientifici. Estetico di « gabinetto » il Gentile, e non estetico nato dalla lunga e versatile pratica della letteratura ‘e delle varie arti. Ma soltanto nella polemica si pud dire che il Gentile sia uomo anestetico; chi ha una sua attivita di filosofo e di storico, vivace e cospicua, non é possibile che sia del tutto sordo ai valori della poesia. Sarebbe una forma di mostruosita, che la stessa

natura

non

ammette.

Anche per il Croce si & fatto talvolta quistione di insensibilita; ma la insensibilita in una mente come quella del Croce di cosi vasto raggio di esperienze artistiche, & chiaro che non potrebbe 1 Conversazioni

critiche, IV, pp. 337-38.

314

ar ee

Dal Gentile agli ultimi romantici

essere una deficienza della mente, ma un limite stesso della sua estetica o meglio della sua poetica: nella poetica crociana umanisticoromantico-classica, con un gusto plastico della forma e con un vivo pathos della vita morale che circola in quella forma, non entra quasi per nulla il gusto della poesia quale @ maturata sotto il segno del decadentismo (e il saggio recente sulla poesia del Verlaine insegni). Anche il decadentismo pud essere generatore di poesia, o meglio accompagnatore e incubatore di poesia (la poetica, per noi, @ la crosta sotto cui matura la salute della poesia, e se ripugna allo sguardo la crosta, non per cid possiamo avere a dispetto il fiore

della bellezza che di sotto di quella viene sbocciando: allo stesso modo non disdegniamo i buoni chicchi di grano perché involti nelVasprezza dei loro paglioli. Non riconoscere la spiga, significa aver dispetto per lo stesso fruttuoso grano)!. Il Croce, perché aderi sinceramente e profondamente alla poetica del barocco, ha potuto avere Vanimo disposto a cogliere quel tanto di poesia che germind nei due secoli della nostra letteratura che parvero di assoluta decadenza. Sicché il limite della sensibilita crociana @ soltanto un limite storico, superabile tutte le volte che egli lo volesse, e non un difetto di natura. Nel caso del Gentile, la sua anestesia artistica pud essere altresi frutto soltanto della sua troppo pit limitata esperienza storica. Ma anch’egli ha la sua poetica, e potremmo chiamarla la poetica delParte speculativa, quella che pud aiutare a intendere la poesia di un Iacopone, di un Dante, di un Campanella, di un Leopardi, di un Manzoni, ma non lo fa certamente adatto a intendere la poesia di un Petrarca, di un Ariosto, di un Tasso, per non dire di un Foscolo o di un qualsiasi grande poeta dell’Ottocento europeo. Poetica dell’arte speculativa che finisce con l’opprimere ogni altra ispirazione, in quegli stessi cinque poeti menzionati, quando non si possa ricondurre alla poesia filosofica, e a cui necessariamente sfuggono tutte le finezze umanistiche che in quell’arte pur si sono largamente macerate. I] Gentile un teologo moderno delTarte, che non ha voluto saperne di quell’eta dell’Umanesimo e del Rinascimento

che sarebbe,

secondo

un

canone a lui caro, incarna-

1 Le critiche del Croce alla poesia decadente vanno accolte non come una negazione di quella poesia, ma soltanto come una limitazione. Egli non nega, per es., la poesia di Morike e di Rilke, ma la definisce poesia impressionistica,

mancante

cioé

di

cosmica

profonditd.

Tale

fiserva,

in

verita,

é

creata a intendere storicamente la poesia di quei due poeti, sicché é ingiustificato l’allarme dei lettori superficiali o frettolosi di quei saggi crociani. Cfr. « La Critica», 20 maggio 1943.

314

_


. L’esuberanza e la giovinezza della mente (come sinonimo di acerbita), non si misurano, anche quelle, dall’esterno, ma dall’interno, dal contenuto

effettivo che fa circolo nella mente. E abbiamo detto altrove che Pesuberanza degli entusiasmi protratta nel tempo (a cui non risponda un effettivo appoggio e versatilita di pensieri) € sempre crudele infallibile indizio di poverta. : 3.

LA

CRITICA

ERMETICA

E

POLEMICHE

SULL’ERMETISMO

(cft.

cap. XIV, p. 630 e sgg.). Io sono responsabile di una grossa e torbida polemica che si svolse sui giornali italiani dal gennaio del °39 fino alla primavera inoltrata di quello stesso anno. Ne diede l’appiglio un mio articolo, apparso, per un’Inchiesta sulla letteratura, sulla « Gazzetta », quotidiano

fascista

della

Sicilia

e della

Calabria

(Messina,

22

gennaio

1939-xv11). Davo rilievo in quell’articolo all’antiprammatismo politico dei giovani, o meglio al loro apoliticismo , che pero al tempo stesso era loro feroce e sistematico prammatismo letterario: fe roce e sistematico politicismo nel campo proprio della politichetta letteraria. Coglievo dunque una contraddizione interna nell’atteggiamento di questi giovani. Tiepidi o indifferenti in politica (governi chi vuole e come vuole), diventavano feroci politici in letteratura, dove predicavano e prtaticavano un gusto della « solidarieta di partito », che a me, uomo solitario, e intollerante di ogni forma di « fazione », impressionava

non

troppo favorevolmente. Quali grossolane e scandalose interpretazioni fossero date in quelPoccasione di questo mio distante e serenissimo scritto, non mi é piacevole ricordare; bastera solo che io rinfreschi genericamente la memoria degli articoli di Giuseppe Villaroel sul « Resto del Carlino », sul « Regime Fascista» e su altri giornali; le note, palinodia compresa, che scrisse un giovane (Vittorio Sereni, mi pare) su « Corrente », e la chiosa che si compiacque di aggiungere il De Robertis nell’« Orto » (riprodotta poi in Scrittori del Novecento). Poiché io ho perdonato a tutti, a quelli che fraintesero lo spirito del mio articolo o per grossezza di cervello © per innocenza (e fu il caso dei giovani di « Corrente ») o anche irosa malafede, riproduco, a titolo di curiosita, la parte di esso che fece sobbollire tanti petti, tante coscienze, e mosse le loro penne in offesa o a difesa della patria letteraria dei giovani. E riconosco intanto un mio torto costituzionale. Io porto dentro di me una fonte di guai: non mi riesce di parlare prudente ed evasivo, e dico qualche verita in maniera troppo disadorna e grezza, come se tutti me ne dovessero essere gratii Io penso ad alta voce, mi disse una volta un uomo politico che mi voleva bene. E una forma questa fanciullesca del mio spirito, che cerco di correggere o infrenare (ma non troppo, perché non vorrei diventare vecchio prima del tempo), e pero guodquod tempto dicere, versus est: cioé, mi nasce come polemica o meglio come bonaria ed esplosiva lealta

696

Annotazioni

di giudizi.

e documenti

Cid che soltanto nelle apparenze & desiderio di pole-

mica, mentre, in sostanza, si tratta di un gusto

viscerale

della ve-

rita, di sanita barbarica, in momenti in cui si avverte troppa senescente accortezza di modi, troppa atmosfera di menzogna, e non si & disposti ad una connivente solidarieta. Inde irae contro il sistematico e involontario guastatore dei giuochi altrui. Quellarticolo fu letto da pochi, perché un giornale siciliano non attiva facilmente in Toscana e in Lombardia, che sono i centri di maggiore animazione letteraria; e la riproduzione integrale, in cui & rispettata anche linterpunzione, pud dunque riuscire gradevole a quelli stessi che rimasero estranei alla polemica, ma si sentirono spettatori un po’ turbati per quella fisonomia improvvisamente falsa di un Luigi Russo, « compiaciuto denunciatore politico », a cui essi, nella loro one’ sta, non potevano prestar credito:

« Non si pud parlare di un indirizzo dominante oggi nel mondo letterario italiano; in ogni modo, tra i giovani, é molto diffuso il gusto della ‘letteratura’, intesa come studio di stile, aborrimento dei luoghi comuni, antiborghesismo, quasi preziosita. La si giudichi pure severamente cotesta ‘letteratura’, essa é pur segno di aristocrazia. Non @ puro caso che la migliore rivista d’avanguardia, che oggi esce a Firenze, s’intitoli « Letteratura ». E la ripresa di quel gusto stilistico, di quella sensibilita tutta letteraria, promossa dalla « Ronda », subito dopo la guerra. Si voleva reagire ad ogni forma di genericismo culturale, e si voleva rivalutare la figura del ‘letterato’. Molti giovani letterati oggi vanno alla ricerca di uno

‘ stil nuovo’, che non

sia cascante e comoda conces-

sione agli schemi della vecchia poesia e della vecchia prosa. Cosi si parla di poesia ermetica; ma la poesia ermetica é gia di ieri, e oggi é in maggiore sviluppo la prosa oscura. C’é tutto un linguaggio di iniziati tra i giovani, del quale é@ facile sorridere (io stesso lo chiamo il trobar-cluz dei nostri tempi); ma, sebbene si tratti di una malattia dell’acerbo, delVinforme, e molto é anche un fenomeno di incultura che per acutezza di ingegno vuol apparire in qualche modo cultura nuova, questo tirocinio del difficile e dell’oscuro pud essere un lodevole tentativo di uscire dal trito, dal luogo comune, dai motivi tradizionali. Gli ingegni migliori, di questo si pud essere sicuri, si staccano e si staccheranno a pocoa poco da una

tal maniera, che a lungo andare si rivelerebbe per ridicolo dilettantismo; e resteranno a scrivere oscuro i mediocri, gli accademici del dilettantismo, che sono, quando ci si mettono, accademici peggiori di noi stessi, pedanti di professione. Come ispirazione, bisogna riconoscere che tale letteratura *oscura non ha alcun afflato politico, anzi vuole essere un’evasione dalla politica.

Questi

giovani

letterati

non lo discutono, non contro. La loro fantasia loro disciplina politica. che si possa offtire alla

accettano

con

disciplina

il fascismo,

ma

se ne investono, non se ne infiammano pro o letteraria € una cosa assolutamente a parte della Hanno V’aria di dirci che il migliore omaggio x politica € quello di scavare qualcosa di pit pre-

697

Appendice

zioso, di pit segreto, di pit intimo, sul quale i maestri o i gerarchi non possano legiferare. E una forma come un/altra, di autarchia intellettuale. Questo qualche cosa, al di sopra degli interessi quotidiani, é la letteratura’. Anche nel campo del pensiero, avere idee, seguire un indirizzo, sembra a loro compromettere la propria liberta, discendere a una specia di volgarita. E perd i giovani letterati, come sono indifferenti alle premesse politiche, cosi sono indifferenti alle premesse metodologiche o filosofiche. a Che cosa possa venire da questo aristocratico e schivo agnosticismo, Dio solo lo sa; e c’é forse da combatterlo? Ma i giovani sono come il Proteo della favola; pit tentate di captarli e di legarli, piu essi vi sfuggono, come l’omino di fumo del Codice di Perela. Nel Medioevo ceran i Fedeli d’amore, oggi ci sono i Fedeli della letteratura, che non vogliono rovesciare né il Papa, né l’Imperatore, né il Duce, ma vogliono soltanto far della letteratura. In un tempo in cui sono assidue le pressioni dall’esterno, € istintivo questo ritroso rinchiudersi in se stessi, questo preservare la propria

intimita,

questo far centro

autarchico

in sé e per sé.

Una differenza fondamentale, tra i vecchi scrittori consumatisi poco dopo la guerra europea e i nuovi, consiste in questo: nella vecchia letteratura c’era sempre il senso della tradizione, oggi questo senso della tradizione é disdegnato. La frattura del futurismo non c’é stata per nulla. La tradizione per i giovani é soltanto Leopardi, a cui si fa l’onore di riconoscerlo come il precursore della ‘ nuova letteratura’, il Guittone d’Arezzo, o ancora meglio il Guido Guinizelli del nuovo stile, ‘il padre mio e degli altri miei migliori’. Accanto a questo gusto di un Leopardi novecentizzato (i libri, i libercoli, le tesi di laurea su Giacomo Leopardi sono diventati l’ossessiva accademia quotidiana), quello che impressiona é il tono prammatico di tanta poesia, di tanta critica, di tanta filosofia. C’é in colui che oggi scrive una tendenza a rispondere alle pressioni altrui con altre pressioni. La letteratura di oggi ha un carattere intimidatorio. La poesia, che io scrivo, pud non essere una bella poesia, ma io voglio che sia considerata una bella poesia, e tutti i miei amici debbono lodarla, pena Vesclusione dal ‘ circolo’; la critica che io faccio pud apparire inintelligibile, ma guai al fesso che non la sa interpretare; la filosofia, la mia filosofia, la mia interpretazione storica della filosofia, non ha il rispetto filologico e storico dei testi; ma cid non importa: io voglio che tale mia filosofia e storia della filosofia sia rilevata nella sua importanza. Non é dunque in giuoco la verita, ma la capacita di influenza, di stordimento, sul cervello altrui. Da tale prammatismo, procede la violenza sistematica e capricciosa del vocabolario (€ uomo di pochi e vecchi vocaboli; & l’accusa pit feroce che oggi si pud lanciare contro un letterato anziano), della metrica, della grammatica, del linguaggio quotidiano, dei testi. Se io dovessi dare un nome complessivo alla tendenza prevalente nella letteratura e nella cultura contemporanea, dovrei parlare di prammatismo, di volontario irrazionalismo.

698

a e i

e —

my

Annotazioni

e documenti

Un giorno interrogai un giovane perché mi decifrasse un paragrafo di

una rivista, che io non capivo, e me lo traducesse latinamente, cioé chia-

ramente. Il giovane si offuscd, si ingrognd, meditd, ponzd, e poi cost sibils come una vipera dolce: ‘Non lo capisco nemmeno io, eppure mi piace! ’. Racconto l’aneddoto non per fare dell’ironia, ma per cogliere quello che é l’atteggiamento di parecchi giovani letterati. C’é diffuso un certo misticismo espressivo, che non si appaga delle cose reali, ma delle non parventi. Davanti ai mistici, non resta altro se non invocare prammatismo, la grazia anche per noi. Cosi ermetismo, misticismo espressivo, a me appaiono le tre faccie di un solo fenomeno. Io qui mi accontento di annotare e non di discutete, come si trattasse di un fenomeno storico distaccato nel tempo. Io discuto molto con i giovani ed ho l’abitudine di ascoltarli. Quale possa essere la mia funzione in questi colloqui, non é qui il caso di illustrare e descrivere; del resto, tutta la mia opera di studioso e di magister parla chiaro ». 4. AppEenpice. Nel secondo capitolo dell’Appendice, dedicato al Garrone si parla del problema dei giovani; poiché su esso io ho sctitto in varie occasioni (e per tutto rimando ai miei articoli citati dell’Elogio della polemica, pp. 194-228 e a un mio articolo I giovani nel venticinquennio fascista, in « Belfagor », 15 gennaio 1946, poi nel vol. De vera religione, Torino, Einaudi, 1948), credo opportuno riferire qui in nota un mio arti-

colo apparso in « Primato», sull Universita e la cultura.

il 15 febbraio

1941, in un

referendum

« Di questo distacco tra la cultura universitaria e la cultura extra-universitaria, del quale si parla e che esiste soltanto a zone e per determinate cattedre e scuole, il responsabile e la causa principale é sempre l’insegnante: l’insegnante mediocremente dotto nella sua disciplina, e l’inse_ gnante dilettantesco che si da aria di essere affiatato coi tempi e di voler seguire le cosiddette correnti giovanili. I] maestro universitario, consapevole del suo compito, e che sappia impegnarsi a fondo nel suo magistero, non esclude nulla di quel che si muove e si agita fuori del mondo della scuola; in quell’apparente isolamento, di uomo che va diritto per il suo cammino, c’é pit. comprensione dei bisogni extra-scolastici dei giovani, che non sia in tanti facili lusingatori di una demagogia culturale trionfante. Trent’anni fa, alla scuola di un Pio Rajna e di un Girolamo Vitelli, s’imparava assai pit il gusto della poesia e della letteratura moderna, che non alle lezioni di un qualche insegnante divagante e salottiero, preoccupato troppo di compiacere ai desideri di un uditorio mondano. Si pud fare un corso rigoroso sulla letteratura del Duecento, e non mortificare per nulla l’interesse dei giovani sulla letteratura ultima degli Ungaretti e dei Montale, e sull’esperienza suggerita dal teatro, dal cinema e dalla radio. I giovani vogliono innanzi tutto misurare e sentire la competenza del maestro; e quando c’é quella, tutte le loro passioni sono suscitate, alimentate e acctesciute. Alle universita bisogna chiedere dei rigorosi specialisti; nel pit rigoroso e profondo specialismo é implicita anche tutta la

699

Appendice

scienza dell’avvenire, la scienza in fieri e quell’altra scienza vaga e germinale che si agita nei caffé, nei giornali, nei ritrovi teatrali e artistici, nelle famiglie. Vi @ implicita allo stesso modo che nella nota lirica di un vero

poeta sono implicite le nostre passioni e le vicende particolari della nostra fantasia, di cui quel poeta per davvero non sapeva nulla di nulla. Perd dove si avverte questo iato tra la cultura universitaria e la cultura extra-universitaria, io batterei contro l’insegnante, o perché rattrappito in una scienza piccina che non é mai stata scienza, 0 petché spenditore di troppi sorrisi e lusinghe al pettegolezzo del giorno. I mediocri ‘ classicisti’ e i dilettanteschi ‘ modernisti’ concorrono alla pari, all’isolamento della scuola universitaria. E ancora tra un mediocre ‘classicista’ e un dilettantesco e improvvisato ‘ modernista’, meno nocivo é il primo. I giovani, quel che non trovano in lui lo cercheranno nei libri e altrove e, se

hanno ingegno, lo troveranno. Ma il surrogato brillante, l’inebbriante droga, li pasce di vento; ed essi allora errano per vari anni, ubriachi di nulla, e difficilmente, chi erra negli anni giovanili e se ne compiace, si riprende dopo. Non direi poi che il distacco tra la cultura universitaria e la cultura extra-universitaria oggi sia maggiore di quello che non fosse ai nostri tempi giovanili, tra il 1910 e il 1915. Anche allora sulle riviste e sui libri di originali maestri e pensatori si agitavano problemi a cui restavano sordi i nostri maestri ufficiali; orbene, un po’ tutti allora sperimentammo che la nostra formazione spirituale e mentale si compié meglio dove urtammo in docenti che onestamente difendevano le loro vecchie posizioni, e la cui refrattaria ma proba intelligenza ci costrinse ad approfondire le nostre esigenze e a farle valere polemicamente. La scuola universitaria non pud essere un idillio né un conversevole salotto, e importa solo che ci sia quell’affiatamento superiore tra maestri e scolari, che porta agli accordi profondi anche nella superficiale discordia. C’@ un estremo pudore dei giovani, che non va gualcito con adescamenti a precoci esperienze e anticipazioni; negli scambi della vita scientifica mi pare che debba avvenire qualcosa di simile di quello che pud capitare nella vita amorosa. Le facili condiscendenze sono una forma di corruzione e creano ben presto il disgusto e il distacco. La vita nazionale delle Universita italiane oggi & radicalmente mutata. | Alla vigilia dell’altra guerra europea tutti vivevamo dei miti tramandatici dal nostro risorgimento. La nostra vita politica era un ‘ piccolo mondo moderno’, nel quale, pur militanti in partiti diversi, tutti ci si ritrovava e ci si riconosceva fratelli. La patria del libro di lettura aveva piena rispondenza nel nostro sentire, e acquistava rapidamente freschezza di vita, uscendo dalle sue forme convenzionali non appena un qualche grande avvenimento ci chiamava alla prova. Oggi gli umori dei giovani sono cambiati; parlare di ‘ patria’ con loro parrebbe troppo mediocre discorso, ricordi di quel nostro ‘ piccolo mondo moderno’ del ’14, diventato, ahimé, antico. Al di sopra della patria si viene formando una nuova teligione politica, di tono e indirizzo europeo e d’interesse sociale. I miti dei nostri giovani hanno tutti un carattere sopranazionale, perché tutti volti

700

e —

e

Annotazioni

e documenti

consapevolmente e inconsapevolmente alla creazione di un’anima e di una

unita europea. Fascismo, Nazismo, Comunismo, Liberal-socialismo, Demo-

crazia, fedi antitetiche fra loro, sono comunque presenti alla loro fantasia, O per essere accettate o per essere combattute; e in ogni modo questi sono miti che chiamano i giovani fuori dagli schemi usati, per il superamento dei vecchi nazionalismi dell’800. La guerra stessa oggi & sentita non tanto come guerra di patrie, ma come guerra di religioni e di ideologie di partito. ; Come in tutti i momenti storici di violenta dilatazione di orizzonti, ci sono smarrimenti, ingenuita, crisi, rivolte silenziose, lo stato d’animo dominante pud essere riavvicinato a quello delle generazioni dei tempi di Alfieri e di Foscolo, in cui si formava il mito moderno della ‘ nazione’. Anche oggi si viene formando il mito nuovo della sopranazione, di una Europa unitaria, di quella che si potrebbe chiamare, in un senso tutto traslato, la nuova romanita o la nuova cattolicita europea, e i giovani vi collaborano con quelle contraddizioni e coi dissidi e gli andirivieni che furono propri dei nostri primi padri della nazionalita: i quali nel sognare

Punita della penisola sembravano i traditori di Napoli o di Firenze o di Venezia, e talvolta se ne rimordevano

e tornavano

indietro. Formazione

di un nuovo mito soprannazionale, che @ difficile regolare perché non si legifera su un avvenire, la cui gestazione laboriosa abbraccera un giro di ‘vari decenni; bastera accontentarsi che l’interesse politico sia vivo tra i giovani e non si spenga nell’indifferenza da ‘ puri grammatici’ o da ‘ puri letterati’ o da ‘ aridi geometri’. E anche qui non giovano tanto gli insegnanti ‘ missionari’, cioé quelli che politicizzano dall’esterno i loro insegnamenti scientifici, ma pit giovano gli insegnanti maestri, i tecnici coscienziosi, quelli che hanno serieta di preparazione e alta idea del loro compito delicato, e rispettano il sentire altrui. Costoro finiscono con l’avere successo anche come maestri politici, appunto perché non parlano di politica, e perché l’uomo esperto profondamente di una sua disciplina é tutto un compendio, necessariamente, di una umanita totale, che é implicitamente politica. Dove lo spirito si risveglia, redolet dappertutto. Anche in questo campo, la migliore, la pit spregiudicata e genuina collaborazione alla storia e alla mitologia politica contemporanea viene quindi dai buoni ‘ specialisti’, e non dai ‘ generici’, che fanno i catechisti. I catecumeni,

nei casi di una nostra eccessiva invadenza, si rivoltano si-

lenziosamente e passano dall’altra banda. E non si imprigionano le ombre di fumo che scappano per i comignoli.

Nei nostri giovani @ vivissima l’ambizione di cultura e di esperienze europee. Direi che questo é@ un grandissimo vantaggio € rappresenta una netta superiorita sulle ambizioni che avemmo noi nella nostra giovinezza. La guerra europea del 714-18 dilatd il gusto dei viaggi all’estero (quel-

Lestero conosciuto talvolta nei campi di prigionia), che primadi quella

data eta limitato a pochi. Io conosco diversi maestri universitari, che alla

data del 1914 non avevano mai varcato le frontiere e perché non le varcarono allora non le hanno varcate neppure dopo. Oggi i ragazzi di pri-

701

Appendice

mo o secondo anno di universita sono sempre li a chiederci una qualche borsa, un qualche posto di scambio, per recarsi fuorivia, e questo in accordo segreto con quel mito di sopranazione, a cui tutti sentono ~ di collaborare. Le scuole italiane fondate all’estero dal nostro Ministero degli esteri, i lettorati, le borse numerose, sommuovono le ali dei giovani,

che, appena laureati, esperimentano la loro cultura nei vari paesi di Europa, per ampliare i loro orizzonti e perdere quella timidezza provinciale che é ancora la caratteristica di molti novizi, specialmente centro-meridionali.

Senza dubbio questo &s un grande beneficio; ma codeste ‘cellule di_ vita europea’, si sperdono facilmente se restano a lungo fuori. Un tiro- | a cinio di cinque o sei anni é pit che sufficiente per la europeizzazione del aeae gusto dei nostri giovani e della loro cultura; poi bisogna saper rientrare — nei focolari della provincia, e se anche si avvertira un certo disagio per quell’improvvisa restrizione di uffici e mutamento economico, si sentira una pit vivificante linfa per il lavoro costruttivo con quell’affondare le radici in una terra con tradizioni determinate e che ci sono care. Poiché se davvero la vecchia patria del libro di lettura € morta, é immortale quell’altra patria del nostro cervello, che rappresenta un compendio ideale di storia a cui pur bisogna appoggiarsi per creare una letteratura, un’arte, una scienza. Gli sradicati, che non hanno una patria mentale finiscono con l’inaridire la loro stessa vena di piccoli o grandi lavoratori ».

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