Storia dell’Italia contemporanea, 1943-2019 9788815280893, 8815280898

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Storia dell’Italia contemporanea, 1943-2019
 9788815280893, 8815280898

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A Paolo e Tommaso

Umberto Gentiioni Silveri

Storia deiritalia contemporanea 1943-2019

Società editrice il Mulino

I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull’insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: www.mulino.it

ISBN

978-88-15-28089-3

Redazione e produzione: Edimill srl - www.edimill.it

Indice

Premessa I.

IL

p.

7

Dopoguerra

11

1. 2. 3. 4.

22 34

Estate 1943: un teatro di guerra Democrazia, referendum, Costituzione Nazionale e Internazionale «Un partito di Centro che cammina verso sini­ stra»

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Le ragioni di un miracolo

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1. Dentro l’età dell’oro 2. La stanza dei bottoni 3. Magliette a strisce 4. Distensione, Concilio, dialogo

63 72 83 93

III. Anni Settanta 1. 2. 3. 4.

Il lungo Sessantotto La fine dell’innocenza In mezzo al guado Compromesso storico e solidarietà nazionale

IV. Il funerale della Repubblica 1. 2. 3. 4.

Generazione contro Il giorno più lungo L’ombra di Moro Riflusso

109 109 119 130 140 155 155 165 176 186

6

V.

INDICE

L’inizio della fine 1. 2. 3. 4.

VI.

Dal confronto al conflitto Una lenta agonia Una strana modernità Duelli senza vincitore

p. 201 201 211 221 231

Il crollo

247

1. 2. 3. 4.

247 257 268 278

Indimenticabile Ottantanove Tangentopoli Mafia e politica Media e potere

VII. Transizione mancata 1. 2. 3. 4.

Un bipolarismo imperfetto Politica e antipolitica Vizi antichi e nuove virtù Eurozona

V ili. Tra rinascita e declino 1. 2. 3. 4.

Una normalità difficile Crepuscolo I primi centocinquant’anni Europa e Mediterraneo

293 293 303 313 325 339 339 351 361 372

Conclusioni

387

Indice dei nomi

397

Premessa

Con ripetuta ostinazione e in diversi contesti vengono proposti quesiti sul senso dello studio del passato. Domande che trovano un terreno fertile e ben preparato ad accoglierle. A cosa serve la storia? Dove inizia il racconto, il giudizio, l’interpretazione? Quali sono gli strumenti e gli ambiti di riferimento? Nel mondo della connessione costante, del presente come dimensione prolungata e unica, dell’invasivo e rumoroso flusso d’informazioni continue, il passato appare come un mondo a sé, distante, misterioso, ricco di tracce silenziose e perdute. E tuttavia tale alterità rischia di scivolare verso una pericolosa distanza che prefigura l’irrilevanza di pagine lontane scritte o vissute da generazioni d’italiani. Come se si potesse fare tabula rasa di ciò che ci ha preceduti fissando di conseguenza un anno zero, un punto d’inizio che tutto cancella, adattabile alle esigenze del momento. Il passato diventa un’ingombran­ te zavorra dalla quale doversi liberare nel più breve tempo possibile per sperimentare l’ebrezza del nuovo che avanza. E così nella fretta di liberarci di un fardello appesantito la storia dell’Italia contemporanea diventa un insieme di errori, occa­ sioni mancate, misteri irrisolti, rivoluzioni tradite o modificate, approdi mai raggiunti e orizzonti irraggiungibili. Al contrario, le riflessioni più accorte e documentate sulle incertezze dei nostri tempi mettono in risalto la complessità del presente e quindi la necessità di dotarsi di linguaggi e metodi in grado di costruire percorsi e strategie di conoscenza. Il passato può essere d’aiuto per comprendere il mondo attuale se frequentato con rigore e rispetto, se indagato e co­ nosciuto a partire da interrogativi e inquietudini che nascono dalle domande di oggi, dalle sfide del contemporaneo. Non un insieme di nozioni da ricordare con affanno, né una sue-

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PREMESSA

cessione di eventi che sollecita la capacità di poterli ordinare e mettere in sequenza. La conoscenza storica procede per problemi, per quesiti inevasi che richiedono approfondimento, ricerca e confronto. Un confronto che spesso (e per fortuna) si nutre di punti di vista, approcci, critiche, visioni e analisi che si misurano senza giungere a certezze o verità acquisite. Un campo aperto e libero nel quale idee, opinioni e giudizi divergenti possono trovare conferma o essere smentiti, in tutto o in parte, dalla ricchezza e dalla profondità dell’indagine conoscitiva. La cultura critica non offre sentenze o precetti immodificabili: si può cambiare idea senza per questo smarrire convinzioni e passioni interpretative. Un antidoto verso gli usi e gli abusi strumentali, verso la diffusione di falsità e imbrogli, verso il ricorso a forme e linguaggi (antichi o social) che non rispettano né tutelano le domande di conoscenza. Compren­ dere il passato cercando una bussola di orientamento nella complessità del presente, un richiamo a un senso di marcia che indichi la provenienza e un possibile approdo lontano da percorsi precostituiti o verità ufficiali imposte dall’alto. Queste pagine nascono dal tentativo di raccontare la storia della Repubblica attraversando gli oltre settant’anni che la compongono. Un percorso incompleto e parziale seguendo cronologicamente gli snodi essenziali di un cammino segnato e condizionato dal formarsi di una comunità nazionale, de­ mocratica e tendenzialmente partecipativa, con diritti e doveri riconosciuti e riconoscibili nella Costituzione del 1948. Come punto di partenza gli interrogativi sulla dimensione internazio­ nale come problema cruciale dell’età contemporanea: l’eredità più significativa del secolo scorso dopo la cesura delle due guerre mondiali. Un tragitto organizzato su due piani, il qua­ dro interno del sistema politico italiano e le compatibilità del mondo in continua trasformazione con particolare riferimento alle dialettiche tra continuità e rottura, tradizione e innovazione. Alcune riflessioni si riferiscono ad avvenimenti recenti, altre si basano su passaggi indagati da storici e studiosi di genera­ zioni precedenti. Non sempre la qualità della documentazione, la ricchezza di studi in una bibliografia consolidata, ricca ma diseguale, permette di proporre giudizi e valutazioni convincenti frutto di un confronto storiografico non episodico. Talvolta si affacciano ipotesi, piste di ricerca in una trama di interdipen­ denze che irrobustisce il sentiero della Repubblica. Cadono le

PREMESSA

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distinzioni tra il perimetro di storie nazionali e le dinamiche internazionali che muovono e orientano i processi storici. La ricerca delle origini, di un possibile certificato di nascita con decenni di studi e migliaia di pagine alle spalle non è definita né certa. L’Italia contemporanea non nasce necessariamente nel 1943, potremmo andare indietro agli albori del processo di costruzione della nazione nel Risorgimento o percorrere a ritroso le vicende controverse di Roma capitale o addentrarci in premesse identitarie, nazionali e linguistiche precedenti. Ma la periodizzazione è una convenzione che semplifica e tenta di dare ordine allo scorrere del tempo, non una risposta né una ricetta alle tante domande su una fase lunga della nostra storia nazionale che dal crollo del fascismo si spinge fino a oggi. Non una successione cronologico-numerica di repubbliche nate trop­ po presto o tramontate senza preavvisi (la prima, la seconda, la terza) seguendo le mode, le suggestioni del confronto pubblico o gli effetti di un’iniziativa politica o giudiziaria. Altra cosa è analizzare i fatti muovendo da un’ottica di lungo periodo, evidenziando nessi e cesure, continuità e discontinuità in un percorso pluridecennale. Il tracciato dell’Italia repubblicana af­ fonda le radici nel dopoguerra europeo, nella costruzione di una democrazia rappresentativa capace di includere chi prima era escluso o ai margini e di indirizzare il cammino comune verso traguardi di pace e benessere. Oggi prevalgono insoddisfazione e paure, le incertezze del nostro tempo hanno il sopravvento sulle certezze sbiadite di un tempo lontano. Ma la storia non si può cancellare, la trama profonda dell’Italia repubblicana nel suo divenire è alle origini del presente con i suoi successi, le tante sconfitte, i traguardi ambiziosi e le cocenti delusioni o disfatte. Conoscere quella trama è un viaggio nella complessità di tempi, situazioni, linguaggi e protagonisti per sconfiggere la rassegnazione o i cantori di un declino annunciato e far sì che il lutto di «quel che non è stato» possa ancora tradursi nella volontà di quel che potrà essere1. Note alla Premessa 1 P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico 1945-1996, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 539.

Capitolo primo

Dopoguerra

1. Estate 1943: un teatro di guerra La parabola della Repubblica italiana abbraccia ormai più di settant’anni: due o forse tre generazioni, quasi la durata di una vita si sarebbe detto qualche tempo fa. Oggi nel nostro angolo di mondo si vive di più, si è allungato progressivamente il tratto di strada coperto da una biografia individuale. E le radici della storia repubblicana sono spesso parte di un passato comune, rimandano a ottiche e contesti familiari, a memorie e culture che hanno segnato e condizionato generazioni di italiani nel lungo dopoguerra che abbiamo alle spalle. Dove comincia questa storia? Quali premesse permettono di definire le origini di un processo che non ha esaurito le proprie capacità espansive pur modificandosi radicalmente in corso d’opera? Una prima risposta, quella più efficace e impegnativa col­ loca la Repubblica nel cuore del Novecento dentro le vicende che attraversano l’età della catastrofe, il tempo che unisce (o separa a seconda delle letture) il primo dal secondo conflitto mondiale. Tra il 1915 e il 1945 nella prima metà del secolo, le trasformazioni di quella che prende il nome di «società di massa» modificano le forme delle relazioni tra individuo e collettività, tra diritti e poteri. La Repubblica rappresenta innanzitutto un cammino, un orizzonte possibile, un esito non scontato di processi che conducono lontano dal suo atto di nascita formale, da quel certificato che porta la data del referendum del 2 giugno 1946. Com’è noto il tempo non ha una sua misurazione univoca o scontata quando lo si interpreta da un punto di vista storico: porzioni di passato appaiono più o meno distanti a seconda della proposta o della chiave di lettura che le sostiene e le analizza. Sono i giudizi soggettivi che definiscono contenuti e interpretazioni in un’alternanza

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continua di conferme e revisioni, punti di vista e comparazioni, smentite o parziali rettifiche. Il dopoguerra italiano è quindi uno spazio definito dalla conclusione della seconda guerra mondiale che si proietta fino al tempo presente, segnato da fratture e continuità, at­ traversato dal faticoso e complesso itinerario di una comunità nazionale. Molto è cambiato dalla stagione delle origini, è persino banale rimarcarlo. Un filo che percorre gli oltre sette decenni offrendo un orientamento, un punto di riferimento riguardo le trasformazioni nella sfera della sovranità, in quel progressivo modificarsi del rapporto fra il territorio (confini e appartenenze) e l’esercizio della democrazia come strategia e percorso di cittadinanza. In fondo la Repubblica ha vissuto stagioni diverse che ne hanno modificato tratti costitutivi in un continuo e incessante tentativo di collocare il proprio cammino all’interno di un contesto più ampio, di un quadro di riferi­ mento fatto di vincoli, compatibilità, sfide collettive: il nesso mutevole tra equilibrio interno e dimensione internazionale. Acquista senso e significato allora collocare le radici della Repubblica a un crocevia composito, una sorta di punto d’in­ tersezione tra piani e processi di natura e ragioni difformi. Come qualche grande storico affermava - ormai alcuni anni o decenni fa - un grappolo di questioni, un groviglio di situazioni incerte: l’uscita dal fascismo con la crisi del regime e le sue ricadute, la cesura della seconda guerra mondiale che taglia in due il secolo e attraversa condizionando i protagonisti della vicenda nazionale, la guerra civile che insanguina la penisola muovendo scelte e comportamenti fino a collocare gli italiani su sponde e prospettive contrapposte. Il tempo aiuta a distinguere situazioni e contesti. Ciò che appariva separato o comunque separabile in analisi spesso divisive e pretestuose oggi può essere ricomposto in un quadro articolato: la crisi interna, i soggetti coinvolti, le responsabilità individuali e quelle collettive di un cammino che non ha un verso univoco e rassicurante. In fondo la percezione della crisi del fascismo si salda con la condotta della guerra e gli insuc­ cessi registrati da Mussolini nelle sue imprese mal costruite e mal gestite. Un cammino alternativo, un’ipotesi di uscita dal fascismo è collegabile alla progressiva sconfitta dell’idea stessa di una possibile guerra parallela: da una parte Hitler e la Germania nazista, dall’altra Mussolini e l’Italia fascista,

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stessi nemici, ma percorsi e strategie non convergenti. Per il fascismo si tratta di una scommessa azzardata, fondata su presupposti non consolidati, che si manifestano a partire dalla campagna di aggressione alla Grecia nell’autunno 1940, pochi mesi dopo l’ingresso nel conflitto con la dichiarazione enfatica del 10 giugno. Con il fallimento contenuto nello slogan «spez­ zeremo le reni alla Grecia» si rompe il paradigma costitutivo e fondante dell’irresistibile ascesa di un fronte compatto e invincibile: «Se non dovessimo essere in grado di battere prontamente i greci, darei le dimissioni da italiano» aveva af­ fermato con spocchia Mussolini in una riunione del Consiglio dei ministri1 alla data 24 ottobre 1940. L’esito disastroso della campagna di aggressione segna un punto di svolta, la fine di pretese egemoniche continentali o progetti di potenza: l’Italia fascista assume il ruolo e la funzione di alleato subalterno e subordinato alle strategie belliche del Terzo Reich. Il responso va in un’altra direzione, cominciando a scavare un solco tra aspirazioni, rappresentazioni diffuse e realtà di una guerra che non appare né breve né già vinta. Ecco il punto di crisi del regime, l’inizio di un’erosione progressiva di quel consenso che pure aveva caratterizzato il fascismo nel suo rapporto con il corpo pulsante della società italiana. Contrariamente a quanto raccontato per lunghi anni, la guerra diventa una rivelazione, persino involontaria dei limiti e delle debolezze di una costru­ zione nazionale fondata sulla forza, la potenza, la capacità di sconfiggere nemici antichi e nuovi oppositori. Non regge una divisione artificiosa tra eventi e cronologie: il fascismo delle origini rovinato dagli eventi bellici o su un altro versante l’idea che si possa tenere fermo il percorso della nazione italiana senza inserirlo pienamente nelle contraddizioni della grande cesura del conflitto mondiale. Se si separano piani e situazioni i contorni sfuggono o vengono proposti come tasselli isolati di una narrazione parziale: la parabola di ascesa e declino del regime, gli esiti brutali del coinvolgimento del regio esercito italiano nelle battaglie dalla fine del 1940, le sorti delle varie opposizioni al fascismo nella dialettica tra collaborazione tra diversi e conflitto radicale. Il messaggio che il capo del fasci­ smo consegna alla radio il 2 dicembre 1942 segna la fine di un mito capace di sostituirsi alle idee di nazione e Stato che avevano retto i primi decenni post-unitari: il dissolvimento sembra avvicinarsi inesorabilmente, non ci sono contromosse

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o reazioni possibili, in sostanza l’invito era quello di arrangiarsi trovando soluzione o salvezza individuale2. La guerra prosegue, ma il controllo non è più nelle mani di chi l’aveva cercata e proposta come soluzione palingenetica. Tra la fine del 1942 e l’inizio del nuovo anno i tedeschi cominciano a trasformarsi da alleati in nemici, quel fronte compatto mostra crepe e gravi responsabilità. A partire dai primi mesi del 1943 i racconti dei soldati rientrati dalla catastrofica ritirata sul fronte russo contribuiscono a rafforzare l’immagine di una debolezza ge­ neralizzata. La paura diventa il tratto unificante, le colpe del regime sono sotto gli occhi di molti. Al contrario la Repubblica nasce dalla difficile convergenza di piani e situazioni radicati su punti di contatto, interdipen­ denze, risultato di grandi trasformazioni che affondano le radici nella prima metà del secolo scorso. Per troppo tempo ha prevalso una lettura che ha privilegiato la separazione spesso forzosa: della guerra dalla Resistenza (chi studiava la prima non s’interessava della seconda e viceversa), degli aspetti politici da quelli militari, dei percorsi delle culture da quelli delle biografie individuali. Tra le eredità più feconde e profonde del Novecento si colloca la progressiva globaliz­ zazione dei processi storici, oggi con espressione ridondante e carica di significati controversi si parla di storia globale, di un tempo passato che per essere analizzato e forse compreso allarga progressivamente confini e ambiti di riferimento. Se questo è lo scenario, quelle gabbie di separazione non tengo­ no, non aiutano, spesso creano false scorciatoie. Del resto le stesse divisioni che hanno attraversato pagine pur importanti di stratificazione del sapere storico hanno esaurito compiti e funzioni: la storia contemporanea affiancata dalla storia dei partiti e dei movimenti politici, la storia dei trattati e delle relazioni internazionali sovrapposta agli eventi riconducibili a matrici nazionali. Può quindi essere utile procedere con ordine per cercare una coerenza tra la successione degli eventi e la proposta di giudizi e interpretazioni. Il punto di partenza, riferimento obbligato, richiama la straordinaria accelerazione prodotta dagli effetti della guerra civile europea. Le due guerre mon­ diali trasformano i percorsi dei diversi nazionalismi, esaltano il ruolo e la funzione della violenza, rimandano al responso dei campi di battaglia ogni riferimento a un equilibro tra poteri e

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nazioni nella ricerca di un criterio che possa corrispondere alle logiche di potenza. I conflitti sono l’occasione per misurare coalizioni e progetti alternativi, anche il cammino del dopo­ guerra italiano si colloca in questo scenario complesso talvolta offuscato dalla scomoda eredità del fascismo e dai lasciti di una narrazione che ha privilegiato i tratti di discontinuità per dare alla Repubblica uno spazio sgombro (almeno in partenza) dalle zavorre di un passato ingombrante. E così, mentre la storiografia internazionale cerca di unire il tempo dei conflitti e della violenza in una parabola interpretativa in grado di con­ tenere la prima metà del secolo, la variante nazionale italiana punta a mantenere le distinzioni tra ambiti e cronologie: un inizio che coincide con la caduta del fascismo, i primi passi della nuova Italia segnati dalla necessità di guardare avanti, i ripetuti riferimenti a un caso particolare, una sorta di diversità costitutiva che avrebbe sorretto e condizionato il percorso della Repubblica. Al contrario il dopoguerra italiano è parte di una storia più ampia, inserito nel cammino di definizione di un ordine internazionale come risposta alle tragedie che l’umanità aveva conosciuto. L’alleanza tra fascismo e nazismo ha radici profonde. Due regimi che s’incontrano in un tratto di strada breve, tra gli inizi degli anni Venti e il decennio successivo. Condividono alcune idee guida sul destino dell’Europa e sulla natura della presenza dell’umano sulla terra, hanno nemici in comune vicini e lontani, temono la democrazia e le sue forme storiche. Per costruire il proprio disegno, per forgiare un uomo nuovo meritevole di calpestare la superficie del pianeta hanno bisogno di una grande prova, di una sfida che possa al tempo stesso allargare il pro­ prio spazio vitale e distruggere chi non rientra nelle categorie e nei dettami del nuovo ordine. Una guerra senza precedenti, dove la dimensione territoriale si accompagna e si sovrappone a un disegno ben più ambizioso e complesso: stabilire chi ha i titoli per sentirsi parte del nuovo ordine e chi invece non può partecipare, deve essere escluso, rinchiuso o eliminato. Ecco perché lo scontro ha in palio qualcosa di più che l’esito di un conflitto, molto di più della sovranità riconosciuta su un territorio conteso: non si può pareggiare, né è consentito trovare una via d’uscita a metà strada. Chi si muove nel campo avverso alle potenze dell’Asse (il nome che dall’accordo del 1936 tra Roma e Berlino si allarga fino a comprendere l’intera

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coalizione) definisce un obiettivo irrinunciabile, un traguardo per tutti nella resa incondizionata, unica garanzia per abbat­ tere una minaccia che mette in causa le ragioni stesse della convivenza tra cittadini e popoli. La caduta del fascismo, la sua crisi di legittimità, s’iscrivono quindi nella sconfitta di un disegno egemonico e nella contestuale costruzione di qualcosa di nuovo: un progetto con l’ambizione di eliminare la guerra dalla storia, la violenza dal destino delle generazioni future. Da qui il nesso con il dopo, il dopoguerra, l’espressione ricorrente di una Repubblica nata dalla cesura della guerra totale3. Basta riprendere il filo degli eventi principali per trovare il bandolo della matassa, il punto di incontro tra le dinamiche interne di un paese segnato dal ventennio fascista e il contesto internazionale che si modifica tra il 1939 e il 1945. Dopo un avvio dai grandi successi per la Germania di Hitler tutto di­ venta più complicato. La prima fase assomiglia a un’avanzata inarrestabile, in tutte le direzioni dall’Est Europa a Parigi, dai Balcani al mar Baltico. Solo l’Inghilterra resiste nella gloriosa battaglia sui cieli mentre gli Stati Uniti sono ancora alla finestra (ci resteranno incerti fino al dicembre 1941 dopo l’attacco di Pearl Harbour). Poi la svolta in una fase di stallo o di attesa. S’interrompe la marcia trionfale del nuovo ordine hitleriano e il campo avverso comincia a riorganizzarsi a partire dalle prime vittorie nei deserti del Nord Africa: le truppe dell’Asse colpite e spinte indietro. Le divisioni italiane vengono umiliate in Grecia e in Africa; la musica cambia in modo repentino, con un costo alto di mezzi e di vite umane. Dopo la resa di von Paulus a Stalingrado e la vittoria di Montgomery a El Alamein le sorti del conflitto muovono lentamente verso gli Alleati4. Il mondo appare più piccolo e più fragile, appeso a un destino comune, quello di poter organizzare la riconquista delle terre che la Germania con i suoi satelliti aveva occupato. Sono le premesse che anticipano la sfida al cuore del Terzo Reich. Maturano in questi mesi termini e progetti che segneranno un lungo tem­ po, a partire dalla carta atlantica e dall’espressione Nazioni Unite che, rovesciando il paradigma nazionalista, aprono il cantiere di un confronto verso l’ipotesi di una collaborazione reciproca: vincere la guerra per costruire il domani. In fondo la convinzione che progressivamente si fa strada è che non si dovesse soltanto vincere sui campi di battaglia, ma che la cifra più nitida della vittoria sarebbe stata quella di proporre un

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altro progetto di convivenza e solidarietà. Nella fase centrale del conflitto maturano convinzioni, obiettivi, ipotesi. La resa incondizionata di Hitler avrebbe aperto un cammino inedito rendendo possibile ciò che in passato era clamorosamente fallito. Queste le intenzioni, poi la storia avrà i suoi tanti controversi responsi di merito sui risultati conseguiti, sulle ambizioni infondate o sui traguardi mancati. Ma torniamo alla guerra e ai primi segnali di inversione di rotta che arrivano dal fianco sud del Mediterraneo. Tra la fine del 1942 e i primi mesi del nuovo anno il mito di Mussolini comincia ad andare in frantumi, mentre la tenuta delle potenze dell’Asse viene messa a dura prova dall’avvio della controffen­ siva alleata. I piani strategici s’incontrano e si sovrappongono fino alla svolta cruciale dell’estate del 1943 quando il teatro di guerra'del Mediterraneo coinvolge il territorio della penisola italiana. Tutto sembra precipitare in pochi giorni, a partire dal mese di luglio: lo sbarco alleato in Sicilia, il primo bombar­ damento sulla città di Roma, il voto del Gran consiglio del fascismo che mette Mussolini in minoranza aprendo così la crisi del regime. La Campagna d’Italia è in atto, la liberazione dell’Europa passa per un asse che dalla Sicilia punta verso Nord, la guerra migra dai deserti del Nord Africa alla terrafer­ ma italiana. Una decisione controversa, che divide i principali protagonisti: gli americani premono per portare il cuore dello scontro sul continente europeo privilegiando l’ipotesi di uno sbarco massiccio dalle coste francesi; gli inglesi al contrario propendono per un’opera di contenimento sui diversi fronti allo scopo di indebolire la Germania prima di lanciare l’offensiva finale. Invasione o accerchiamento? Un dibattito tra politici e militari che va avanti per mesi e che trova nella scelta dello scacchiere mediterraneo un punto di compromesso. Colpire l’Italia fascista assume significati diversi: avvicinarsi a Berlino, dare un segnale incoraggiante alle divisioni impegnate su altri fronti, rovesciare l’alleato storico di Hitler, creare le premesse necessarie a un esito favorevole del conflitto. Ma il cammino sarà ben più complicato di quanto gli alti comandi alleati aves­ sero immaginato. Mentre il regime fascista inizia il suo lento e drammatico declino, la guerra travolge gli equilibri politici e i confini geografici della penisola. Nulla sarà più come prima. La sola autorità rimasta è quella del pontefice a difesa della città eterna e dei suoi luoghi sacri, mentre tutto cambia nel breve

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spazio di poche settimane. Un paese diviso, attraversato dalla linea del fronte e dagli eserciti delle coalizioni che si stanno misurando nella fase decisiva del conflitto. Persino il termine Italia non aiuta, non chiarisce, non rende la giusta misura delle forze in campo: di difficile utilizzo in una nazione che perde porzioni di sovranità, dove sorgono nuovi confini basati sui rapporti di forza e dove le appartenenze subiscono le violenze identitarie di una guerra senza esclusione di colpi. La crisi del regime complica lo scenario della dialettica tra Alleati e potenze dell’Asse. Un governo provvisorio raccoglie i brandelli di potere che il fascismo aveva cercato di difendere, la Monarchia complice dell’ascesa di Mussolini vuole voltare pagina nei 45 giorni che separano il voto del Gran consiglio del fascismo il 25 luglio dall’armistizio dell’8 settembre 1943. Il nuovo governo viene irriso e mal sopportato da entrambi i contendenti: traditore per i nazisti, incerto e inaffidabile per i governi di Londra e Washington impegnati tra l’altro nei raid aerei sul territorio italiano. Si fatica a distinguere le forze in campo e a tracciare una linea certa che divida i compagni di strada dai nemici, gli interlocutori dagli avversari. Il governo provvisorio presieduto da Pietro Badoglio firma a settembre l’armistizio con gli angloamericani. Il quadro si complica: E chiaro che nessuno sa cosa ci aspetti - annota un giovane ufficiale inglese sul suo Diario a bordo della Duchess ofBedford in procinto di sbarcare a Salerno - anche se le incursioni aeree fanno ritenere che i tedeschi intendano continuare a combattere. Il riassunto in una frase sola «Non sappiamo nulla»5.

Uno storico come Claudio Pavone nelle memorie di giovi­ nezza scrive: «Se per molti l’armistizio veniva identificato con la pace, rimuovendo il problema della presenza dei tedeschi, c’era anche chi capiva che le cose non potevano finire così»6. L’Italia (o almeno una sua porzione) passa dall’altra parte, si prepara a combattere contro i suoi antichi alleati. Mussolini viene allontanato, nascosto e imprigionato prima che i tedeschi riescano a portarlo via da Campo Imperatore sul Gran Sasso per fondare quella che diventerà la Repubblica Sociale Italiana, un governo fantoccio riconosciuto dalla sola Germania che tuttavia offre agli italiani, desiderosi di proseguire la guerra

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nello stesso campo del nuovo ordine hitleriano, una sponda e una copertura affidabili. Dall’estate del 1943 l’Italia diventa un teatro di guerra di un conflitto totale che non ammette distinzioni tra chi indossa una divisa e chi no coinvolgendo popolazioni civili nei com­ battimenti dal cielo, sul mare e sulla terra. Il paese è diviso e attraversato dalle ipotesi che si fronteggiano. A Sud la lenta risalita della penisola da parte degli eserciti alleati, un cammi­ no complicato segnato da errori militari e scarse conoscenze sulla morfologia dello stivale. Tempi più lunghi del previsto e progressiva marginalità nello scenario complessivo della guerra: un anno dopo l’apertura del fronte francese con lo sbarco in Normandia - il D-Day del 6 giugno 1944 operazione Overlord, a soli due giorni dalla liberazione di Roma - sarà la risposta più efficace a chi cercava una direttrice convincente per arrivare a Berlino nel più breve tempo possibile. Se il fronte italiano nel teatro di guerra mediterraneo scivola nella scala delle priorità strategiche di chi conduce la guerra per liberare l’Europa, ciò che avviene sul territorio acuisce le contrapposizioni e le violenze. Il tempo si prolunga in una dimensione di attese e spostamenti senza che si riesca a prevedere la fine delle ostilità e l’esito del confronto fra le parti. La linea Gustav che taglia longitudinalmente lo stivale dal Tirreno all’Adriatico divide i due fronti: a Sud gli Alleati e a Nord l’occupazione tedesca a sostegno della Repubblica Sociale Italiana. Gli amici di prima diventano occupanti applicando le leggi di guerra del Reich: due coalizioni di eserciti difendono postazioni e privilegi, una doppia invasione riproduce su scala ridotta gli scenari di guerra totale che si muovono sullo sfondo. Non esistono zone franche. I volantini lanciati dal cielo dagli Alleati condannano l’Italia per colpe di Hitler e Mussolini a diventare terra di nessuno, quel settore desolato che sta fra i due opposti fronti di combattimento. Un destino annunciato senza giri di parole: «Il vostro paese sarà esposto al bombardamento, al mitraglia­ mento, alla disorganizzazione più completa. Innumerevoli case finiranno in fiamme, per città e campagne si accumuleranno cadaveri. Freddo d’inverno, infezioni d’estate, sgomento, fame si moltiplicheranno». E se i liberatori fanno riferimento a una No man’s land diffusa e popolata, gli occupanti sono feroci nel vendicarsi «degli italiani traditori» che sono passati dall’altra parte: «è vietato qualunque atto di riguardo - recita un’ordi­

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nanza della Wehrmacht del 18 settembre 1943 - nei confronti delle popolazioni, nei prossimi giorni la campagna deve essere completamente depredata di carni e ortaggi, è severamente proibito consumare provviste tedesche»7. Una nazione allo sbando, senza autorità né catene di co­ mando; divisioni abbandonate al proprio destino in campi di battaglia lontani prive di indicazioni operative: la divisione Acqui in Egeo nell’isola di Cefalonia e Corfù e tanti altri soldati o ufficiali italiani consegnati alla sorte di prigionieri nei campi di lavoro in Germania (oltre 600 mila gli Internati Militari Italiani)8. La Monarchia Sabauda scrive una delle pa­ gine più tristi e vergognose: se ne va al Sud cercando fuga e riparo, un salvacondotto per mettersi in sicurezza noncurante di ciò che si lascia alle spalle9. Il giorno stesso dell’annuncio dell’armistizio, l’8 settembre 1943, ha inizio la Resistenza, a partire dalla battaglia di Roma: italiani che scelgono di combat­ tere contro l’occupazione tedesca e coloro che la sostengono. Senza preavviso scocca l’ora delle scelte; uno scontro tra le parti che divide la società, attraversa gli schieramenti spinge inconsapevolmente nelle dinamiche di una guerra civile lace­ rante: «Questa necessità è l’aspetto più cupo della lotta che, inevitabilmente, per il suo stesso carattere, precipita a un certo momento in guerra civile, che conduce dinanzi a chi la dirige degli uomini da giudicare secondo le uniche alternative della vita o della morte»10. Sono queste le radici della Repubblica, quello spazio che si apre tra la fine di un regime logoro e inef­ ficace e l’inizio di una nuova storia, segnata dall’affermazione di un segmento di paese che partecipa all’epilogo della guerra, diventando parte della controffensiva alleata fino a ottenere l’ambiguo status di cobelligerante contro il nazifascismo. Un biennio cruciale segnato da divisioni geografiche che non si esauriscono nello spazio di quei mesi: il Sud liberato attende l’esito finale, la lotta partigiana nel Centro-Nord, le rappresaglie violente degli occupanti nazisti, la lunga strada che porterà alla Liberazione del 25 aprile 194511. La geografia aiuta a definire i confini delle appartenenze, ma ogni campo è sfumato e plurale e c’è una terra di nessuno, uno spazio che viene riempito e animato dalle dinamiche belliche di quei mesi. Tra chi si oppone al colpo di coda del fascismo troviamo percorsi differenti, culture e storie non riconducibili a un’unica matrice: un insieme di segmenti, biografie, partiti

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che si muovono nelle pieghe della società italiana o che fanno ritorno dall’esilio dove il regime li aveva costretti. Convivono e collaborano diversi programmi, bandiere, colori, punti di riferimento plurali e non facilmente riconducibili a una sintesi univoca. Da un lato una ricchezza innegabile, un laboratorio di quella che diventerà presto la Repubblica dei partiti12, dall’altro una difficile composizione tra aspirazioni legittime, capacità organizzative e militari, forme diverse d’intendere gli approdi possibili di una stagione fondante: l’esito della guerra si accompagna e si sovrappone ai progetti sull’Italia del domani, alle forme di collaborazione e confronto tra pro­ tagonisti e comprimari, alla possibilità di marcare un tratto di discontinuità con il passato fascista. In un tornante così complicato si delinea la funzione guida delle organizzazioni di massa a partire dalle vicende dell’estate 1943, soggetti popolari organizzati attorno alle diverse parole d’ordine che caratterizzano il biennio cruciale che chiude il conflitto. Anche in questo caso il discorso è più complicato di quanto potrebbe apparire a uno sguardo superficiale. I partiti ereditano la mobilitazione che aveva caratterizzato il percorso della nazionalizzazione italiana dall’impegno nella grande guerra fino alle politiche del ventennio. Sono quindi una risposta alla possibilità di ridurre lo spazio tra la società in cammino e il meccanismo del processo decisionale: una risposta possibile, non l’unica, alla spinta verso la partecipazione. Partiti diversi (di sinistra nelle varie forme, d’ispirazione cattolica o liberale, azionisti o di centro) che ancora non conoscono la propria forza, non si sono misurati elettoralmente, eppure si sentono parte di un itinerario che li accomuna: un tratto di strada che li conduce fuori dal fascismo fin dentro le fondamenta possibili di una nuova stagione. Partiti in formazione con una classe dirigente che viene fuori dall’esperienza di guerra e dalla stagione della Resistenza, dalle contraddizioni di un biennio: la vedremo pre­ sto all’opera nel tentativo di dare agli italiani una nuova casa. La Repubblica nasce per un concorso di forze, sarebbe scorretto separarle o costruire una graduatoria su meriti e medaglie. In primo luogo, gli esiti del conflitto mondiale sul territorio italiano. Quella divisione geografica e politica cui si è fatto riferimento si ricompone gradualmente tra l’estate del 1943 e la primavera del 1945: gli eserciti alleati riescono a ri­ salire lo stivale sulle due direttrici del Tirreno e dell’Adriatico,

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avevano sottovalutato la presenza dalla catena appenninica come divisore naturale del territorio conteso. La Resistenza degli italiani si muove nelle zone dove i tedeschi esercitano controlli e repressioni, l’organizzazione del pluralismo politico nei par­ titi (riuniti nel Comitato di Liberazione Nazionale) definisce un campo di forze in grado di guidare la fase di transizione al dopoguerra. Un concorso di piani, protagonisti e strategie, non sempre coerenti e coordinati, spesso in competizione tra loro su chi avesse più titoli o meriti da poter esporre o su chi tempestivamente riusciva ad arrivare per primo in una città o in una zona da liberare. La Liberazione non è una rottura figlia della cultura della rivoluzione, non è un evento dirom­ pente, semmai un processo che matura in un tempo definito e culmina nella liberazione di Milano, con la proclamazione dell’insurrezione da parte del Cln dell’Alta Italia (25 aprile 1945). Un processo fatto di passi avanti e battute d’arresto, caratterizzato dalla difficile interazione tra eventi e punti di vista: le battaglie conclusive della seconda guerra mondiale che porteranno alla resa della Germania (8 maggio 1945), l’uscita dell’Italia dal fascismo nella lenta riconquista di uno spazio e di una credibilità internazionale. Radici profonde che si ac­ compagnano alle ombre che la guerra proietta sugli anni e sui decenni successivi: cosa rimane di quel mondo? Cosa muore del vecchio e cosa nasce di nuovo? E soprattutto da dove ri­ cominciare, quali sono i sentieri più credibili per guardare al domani con fiducia, per gettare le premesse del dopoguerra in un continente distrutto, piegato materialmente e spiritualmente da una tragedia immane di proporzioni sconosciute. 2. Democrazia, referendum, Costituzione La fine della seconda guerra mondiale in Italia prende una duplice prospettiva. Se ci si volge verso il passato prevale la chiusura di una fase sostenuta da matrici diverse: guer­ ra patriottica, guerra civile e guerra di classe per dirla con Claudio Pavone13. Un insieme di percorsi che confluiscono nella cesura più profonda che il Novecento consegna alle ge­ nerazioni successive. Se al contrario, si guarda verso il futuro quella pagina rappresenta la premessa fondamentale per poter costruire le basi dell’Italia di domani. Il problema di fondo

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è che i due sguardi, i punti di vista alternativi non sono se­ parabili, molte questioni inevase rimangono sottotraccia fino a condizionare per lungo tempo il corso degli eventi: eredità e lasciti dai conflitti della prima metà del secolo si spingono fino al lungo dopoguerra che percorre la seconda metà del Novecento. Si apre così il tempo delle scelte per una classe dirigente composita e variegata, con matrici diverse, culture di riferimento alternative, parole chiave spesso in conflitto fra loro. Scegliere significa indicare una strada, tracciare un sentiero che sia percorribile e verificabile in corso d’opera. Matura così il cammino della democrazia italiana, un’opzione non scontata o precostituita, uno spazio sospeso tra l’utopia e la storia, tra l’orizzonte delle ambizioni e la realtà e i vincoli della ricostruzione. Non un approdo certo né una tavola già scritta di valori e comportamenti, ma la democrazia come processo, cammino incompiuto e incompleto. Il segno prevalente della scelta di chi esce vittorioso dalla cesura del 1945 è quello di mettersi in marcia, in cammino per costruire nuove possibilità. La democrazia non è esportabile, non è figlia di esperimenti o modelli precostituiti, vive e si modifica nel corso delle sfide del tempo che attraversa. Si tratta di un pilastro del nuovo mondo, della base più solida del lungo dopoguerra italiano. Ricostruire un paese (materialmente e spiritualmente) a partire da un’esperienza collettiva e irripetibile, dalle basi di quella stagione della Resistenza che aveva segnato un segmento significativo della popolazione italiana. E qui si apre un altro grande tema, quello dei numeri, della dimensione di un fenomeno collettivo. Quanti hanno partecipato alla Liberazione in modo attivo e consape­ vole? Quanti hanno scelto un approdo, un campo di forze con cognizione di causa? E soprattutto cosa si è mosso fuori dai contendenti in lotta? Molti sono stati alla finestra, altri hanno scelto per convenienza o comodo, altri ancora si sono fatti travolgere dal corso degli eventi, spesso dalla condizione in cui si trovavano: condizionamenti familiari, amicizie qualificanti, tornaconti personali, collocazioni geografiche lungo i confini mobili dello stivale. Un insieme di atteggiamenti che non ha un’unica matrice o spiegazione. Per lungo tempo si è ragionato di cifre come se si potesse dedurre dal numero la profondità di un processo o la sua capacità di travolgere consuetudini e appartenenze. La Resistenza è un mondo che contiene diverse

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possibilità: chi si è mobilitato scegliendo la guerra partigiana in una delle declinazioni possibili, bastino i richiami alle immagini più nitide che ci arrivano da pagine insuperate della letteratura italiana: Calvino, Fenoglio, Meneghello, Viganò in un elenco che potrebbe essere molto più lungo. Ma le resistenze sono di vario tipo, plurali, richiamano le scelte di tanti: chi nasconde renitenti alla leva o cittadini di religione ebraica ricercati o perseguitati, chi aiuta chi è in difficoltà sulla linea del fronte, chi nasconde bambini o soldati, chi distribuisce cibo, coperte o beni di prima necessità, chi semina futuro e costruisce tasselli di solidarietà, risorse per l’Italia che verrà. Può apparire un discorso complicato e lontano, ma se guardiamo alle dinamiche delle guerre, alla profondità di conflitti e lacerazioni, al peso di una discontinuità senza precedenti, allora la stagione della Resistenza assume i tratti di un itinerario plurale senza vincoli o rigidità di appartenenza. Le scelte di una classe dirigente affondano le radici nel vissuto di un paese teatro delle vicende della seconda guerra mondiale. Un paese composito, segnato da differenze geografiche, politiche, economiche profonde. La democrazia come processo storico ha quindi uno spes­ sore profondo che supera distinzioni, appartenenze, punti di vista. Li supera senza annullarli in una dialettica complicata che si proietta da subito sulla stagione costituente14. In fondo si tratta di rimettere in causa alcune costanti che avevano condizionato il processo di nazionalizzazione. La democrazia nella sua accezione più piena, la democrazia di massa rappre­ senta un’inversione di tendenza non tanto e non solo rispetto ai dettami del fascismo e alle sue forzature ma rispetto alle caratteristiche dell’Italia post-unitaria: le basi ristrette della partecipazione politica, l’opposizione del movimento cattolico che non riconosceva parti costitutive del processo risorgimen­ tale (la questione romana e il suo peso), lo scontro sociale che aveva condizionato la dialettica tra la classe dirigente liberale (ben prima del fascismo) e settori del movimento operaio e socialista. Poteva apparire, con il rischio dell’enfasi momenta­ nea, un nuovo inizio per tutti, vincitori e vinti, per chi aveva accompagnato e condiviso tratti di cammino e per chi si era opposto con vigore. Per chi si sentiva parte di una comunità e per chi invece aveva gridato con sdegno contro l’esclusione inaccettabile. Per molti la stagione costituente rappresenta l’occasione per rovesciare una piramide politica e persino

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sociale: i cattolici che da esclusi o marginali diventeranno parte fondante dei nuovi equilibri, le sinistre convinte di poter consolidare il protagonismo nella guerra di liberazione, azionisti e liberali pronti a giocare la carta di presentazione dell’antifascismo delle origini. Aspettative riposte nei nuovi equilibri incerti e indefiniti. Se il sistema politico risulta com’è noto dall’interazione tra diversi elementi: la società civile, le organizzazioni politiche e sindacali e le istituzioni, allora il quadro di incertezze appare in tutta la sua profondità15. Tutto è in movimento e ogni segmento di quel quadro non ha una dimensione certa, un confine condiviso, un contesto di cui si senta pienamente parte. Non sono previsti strumenti di mi­ surazione dei rapporti di forza né vincoli e contrappesi tra i diversi poteri di uno Stato che ha perso parte costitutiva delle proprie prerogative. Il tempo è quello della ricostruzione a partire dalle fondamenta. Un grande rischio, ma anche un’oc­ casione per lasciarsi alle spalle le lunghe ombre del fascismo e le macerie ingombranti della guerra. Sul versante dei passaggi istituzionali possiamo distingue­ re tre fasi stringendo una cronologia più ampia attorno agli snodi cruciali dell’ultimo tratto di strada16. L’inizio della tran­ sizione con i governi presieduti da Ivanoe Bonomi tra il 1943 e il 1943: l’avvio incerto nella definizione di una strategia dopo la liberazione di Roma il 4 giugno 1944. I partiti del Comita­ to di Liberazione Nazionale convergono sulla priorità di li­ quidare Badoglio come vertice dell’esecutivo investendo una figura come Bonomi, leader del Partito della Democrazia del Lavoro. Un passaggio che appare scontato e indolore, ma che in realtà evidenzia la necessità di mettere al centro di una stagione costituente le forze diverse dell’antifascismo (Bonomi stesso ne scrive sul suo Diario all’indomani del 25 luglio 1943) unite da una comune visione. Bonomi è un uomo di cerniera tra vecchio e nuovo, non tanto e non solo dal punto di vista anagrafico17. Dopo di lui il passaggio al governo presieduto da Ferruccio Parri è il risultato del vento del Nord che soffia sulla penisola. Parri, leader del Partito d’Azione ed ex capo supremo delle forze partigiane18, dopo trattative laboriose viene designato dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia. La Resistenza nelle sue espressioni più autorevoli e ri­ conosciute assume piena responsabilità delle sorti di un cam­ mino comune. I sei partiti del Cln sono rappresentati al go­

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verno; Pietro Nenni leader socialista vicepresidente, Paimiro Togliatti segretario del Pei ministro della Giustizia, Alcide De Gasperi ministro degli Esteri in procinto di occuparsi del trattato di pace è il capo della Democrazia cristiana. Questa seconda fase si protrae per il breve spazio di cinque mesi iniziati con grandi entusiasmi presto smarriti nelle sfide di un tempo complicato. Diverse spiegazioni possibili di una deriva incerta: divisioni tra i partiti, protagonismi di tanti in conflit­ to, inesperienze e incapacità di mostrare sicurezza a fronte dell’emergere di una crisi economica e sociale senza preceden­ ti. Parri deluso e amareggiato lascia il campo al primo gabi­ netto De Gasperi negli ultimi giorni di novembre 1945. Pochi mesi dopo la Liberazione il paese volta pagina spostando l’equilibrio del governo verso i partiti di massa e indebolendo progressivamente il nesso con la stagione della Resistenza, con le forze e le biografie che direttamente la rappresentano. Poteva nascere qualcosa di nuovo sulla base di un duplice indirizzo che De Gasperi riuscì a imporre in modo consensuale: un referendum avrebbe offerto agli italiani la possibilità di decidere tra Monarchia e Repubblica eleggendo contestual­ mente un’Assemblea costituente. Il referendum diventa così la chiave per aprire alla partecipazione popolare e per tratteggiare limiti e competenze della nuova assemblea rappresentativa figlia del riconoscimento dell’universalità del diritto di voto. Un passaggio stretto che vede la prima tornata delle elezioni amministrative il 10 marzo 1946 a poche settimane dal referen­ dum istituzionale fissato per il 2 giugno. Una successione di 5 domeniche (10, 17, 24, 31 marzo e 7 aprile 1946) compone la prima tornata amministrativa dell’Italia liberata. La seconda qualche mese dopo, tra ottobre e novembre. In mezzo ai due appuntamenti il referendum del 2 giugno. Il voto per i comu­ ni è quindi un passo verso il suffragio quasi a voler marcare differenze e peculiarità di un territorio segnato dalla storia e dalla presenza di tante municipalità. La prima tornata preve­ de il voto in 5.722 centri (quasi l’80% dei comuni del Nord, più dell’84 del Centro e quasi il 74% di quelli del Sud); sono chiamati alle urne quasi 20 milioni di elettori, in maggioranza donne (quasi un milione più degli uomini). L’affluenza supera di poco l’82% 19. E un successo diffuso, un fiume di parteci­ pazione che unisce il paese in un clima di festa. Le cronache locali raccontano il nuovo inizio:

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La presenza di queste donne, madri, vecchie, suore, operaie e contadine dinanzi ai seggi ove vengono per la prima volta a fare uso del più alto diritto civile e ad affermare la vera appartenenza al corpo sociale, ha consigliato gli spiriti a un rispetto quasi religioso del luogo e delle persone. Le donne sono state la grande novità di queste elezioni: popolane e signore, vecchie e giovani, sole o in compagnia. Parecchie mogli hanno potuto dividere con il marito l’attesa e poi l’emozione del voto; si sono viste giungere intere famiglie, magari divise nei pareri ma a braccetto. Anzi l’elemento femminile è accorso per primo davanti alle sezioni. Molte donne uscite dalle chiese dopo la prima Messa si sono recate subito a votare per poter tornare a casa ad accudire alle faccende domestiche. Non sono mancate le donne con il bambino in braccio. Il piccolo intruso è stato causa di un certo imbarazzo quando la mamma ha dovuto entrare nella cabina20.

Dal «Corriere della Sera» del 1° giugno: «Un certo allarme nelle file aveva prodotto l’avvertimento che se fosse rimasta traccia di rossetto sulla scheda il segno avrebbe potuto pro­ vocarne l’annullamento»21 e così si provvede alla pulizia delle labbra fino a poco prima di mettere piede in cabina. Il voto, un diritto individuale riconosciuto, a sigillo di una nuova stagione frutto delle scelte dei partiti di massa interessati a radicarsi nella nascente democrazia, nelle aperture interessate della Chiesa e della spinta di organizzazioni femminili da mesi impegnate nella campagna per ottenere il diritto di voto22. La premessa di un lungo dopoguerra è ben racchiusa nelle riflessioni autobiografiche che Norberto Bobbio ha dedicato alle origini della democrazia italiana in occasione del cinquan­ tenario del 1946: Quando votai per la prima volta alle elezioni amministrative dell’a­ prile ’46 avevo quasi trentasette anni. L’atto di gettare liberamente una scheda nell’urna senza sguardi indiscreti, un atto che ora è diventato un’abitudine, apparve quella prima volta una grande conquista civile che ci rendeva finalmente cittadini adulti. Rappresentava non solo per noi ma anche per il nostro paese l’inizio di una nuova storia23.

La Repubblica segna quindi la morte della nazione che il fascismo aveva costruito, plagiato e imposto spezzando il legame tra il percorso del Risorgimento e la tutela di libertà individuali e collettive. Poteva nascere con il referendum un nuovo patto tra gli italiani fondato sulla partecipazione visto che il suffragio universale per tutte e tutti irrompe come con­

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quista e novità dei tempi: l’Assemblea costituente eletta con un sistema proporzionale, il più rappresentativo possibile, ha il compito di scrivere la nuova Costituzione. L’uscita dalla guerra assume la forma di una base larga e condivisa su cui poggiare l’architettura istituzionale, una discontinuità di lungo corso con antichi limiti che da decenni segnano il processo di costruzione della nazione. Una scelta di rottura che attira le attenzioni di chi osserva interessato i precari equilibri politici del laboratorio italiano. Inglesi e americani sostengono la ripre­ sa, nei primi mesi del 1946 s’intensificano gli aiuti statunitensi dell’United Nations Relief and Rehabilitation Administration (Unrra) dopo che il Governo Militare Alleato (Amg) costituito dalle Nazioni Unite nei paesi occupati durante il conflitto aveva cessato le attività il 31 dicembre 1945; era in funzione dallo sbarco in Sicilia del luglio 1943, avvio della Campagna d’Italia con l’operazione Husky. Una commissione di controllo (Allied Control Commission, Acc) - presieduta dall’ammiraglio americano Ellery W. Stone - sarebbe rimasta in carica fino all’entrata in vigore del trattato di pace (14 dicembre 1947). Tra il 10 febbraio 1944 e la fine del 1947 il territorio italiano passò quindi sotto Tamministrazione italiana controllata dall’Acc, a eccezione di Trieste dove fino al 1954 rimase in vigore l’Amg Free Territory of Trieste. Con il 1946, sotto la spinta del referendum istituzionale, si consolida la strada di un processo decisionale condiviso attraverso il trasferimento al governo italiano della giurisdi­ zione sulle province settentrionali, ultima traccia del controllo alleato sul territorio. In molti temono un vuoto di potere, uno scontro incontrol­ labile, un esito ingestibile dalle urne ormai imminenti. Come sarà la prova degli italiani e delle italiane in fila ai seggi? Quali i rischi per l’ordine pubblico? Prevale un atteggiamento di fiducia rivolto a chi si appresta a decidere del proprio futuro, anche a fronte di pressioni interessate e ripetute. Dal quartier generale delle forze alleate un segnale chiaro a ridosso del voto: «I vertici militari alleati devono evitare ogni coinvolgi­ mento diretto e ogni intervento anche apparente nelle elezioni imminenti. Bisogna anche tener fuori le truppe da possibili disordini in relazione alle stesse elezioni». Una neutralità al­ leata che un telegramma del Dipartimento di Stato americano sintetizza in una felice espressione che riassume tensioni e

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interrogativi nelle giornate del dopo voto: «Neither Monarchy nor Republic Has Requested Allied Intervention»24. Nessuna richiesta riconducibile alle opzioni che si fronteggiano, non ci sono forze occulte che spingono per esiti a loro vantaggio; di converso emergono fiducia nella scelta e nella forza di una democrazia di massa, partecipata e consapevole. Atteggiamenti che confermano la delicatezza del passaggio: un paese diviso da tempo, il primo voto a suffragio universale, le modalità di organizzazione e gestione della consultazione, l’incertezza sull’esito finale e sugli atteggiamenti di chi dovrà rispondere con comportamenti conseguenti di vittorie o sconfitte. Un passaggio cruciale, l’atto di nascita della democrazia di massa e della Repubblica, l’inizio del lungo dopoguerra per voltare pagina senza paure. Partecipare è una scelta, ma è anche una condizione per esserci, poter contare, entrare nelle dinamiche costitutive di una comunità nazionale in cerca di futuro. Uno spazio possibile tra la fiducia degli Alleati (di chi aveva vinto la guerra) e i responsi delle urne, la misurazione quantitativa dei rapporti di forza tra i partecipanti alla prima consultazione elettorale di massa. Il risultato ridimensiona le aspettative delle sinistre e colloca la De in una posizione egemonica e centrale nello schieramento politico con ben 207 seggi nella nuova assemblea e un consenso equilibrato e diffuso sul territorio nazionale. Il Partito socialista italiano di unità proletaria (a sorpresa prima forza della sinistra) ne ottiene 115, il Pei 104 (sorpassato dai socialisti anche nelle città a forte insediamento operaio), l’Unione Democratica Nazionale d’ispirazione libe­ rale 41, l’Uomo Qualunque 30, il Partito repubblicano 23, il Blocco Nazionale della Libertà 16, solo 7 al Partito d’Azione e 13 a liste minori. Finiva così il monopolio ciellenista sostituito da un pluralismo frammentato, preludio alla composizione di alleanze strategiche o convergenze momentanee25. Un vero inizio poteva avvenire solo se lo scettro della decisione si fosse abbassato verso il popolo, incontrando aspiranti cittadini pronti a lasciarsi alle spalle gli orrori della guerra e le terribili contraddizioni del ventennio. Una svolta che avviene in modo inequivocabile. La Repubblica si affer­ ma con oltre il 54,27% dei consensi (12 milioni e 700 mila votanti), mentre la Monarchia raccoglie il 45,73% (10 milioni e 700 mila), le schede bianche e nulle superano il milione e mezzo. Impressionante il dato dell’affluenza: più dell’89%,

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quasi 25 milioni di italiani. Un paese che sceglie diviso, al Sud la continuità dinastica prevale, in alcune zone con distacchi significativi26. Nella difficile strettoia del dopo voto la prova appare superata, i risultati confermati, le titubanti reazioni di Umberto II travolte da un responso inatteso. Il ministro della Reai Casa, Falcone Lucifero, nel suo Diario riferisce del Re che riceve la notizia della sconfitta con serenità accettando il destino avverso e prendendosela con gli Alleati, traditori di un patto, responsabili di un esito per molti imprevedibile27. Gli angloamericani dal canto loro escono dal rispettoso silenzio dell’attesa e si adoperano per favorire uno sbocco certo nei risultati e nei tempi, sposando le ragioni di chi voleva un pas­ saggio democratico, un’investitura forte per voltare pagina. Il Consiglio dei ministri con un comunicato lapidario conferisce le funzioni di capo dello Stato ad Alcide De Gasperi; questi aggiunge di suo pugno la frase «nel compito di assicurare la pacificazione e l’unità nazionale». La proclamazione ufficiale cade il 10 giugno 1946 nella sala della Lupa di Montecitorio, seguita da una controversa dichiarazione conclusiva che lascerà una scia di veleni e di infondate dietrologie: «La Corte [...] emetterà in altra adunanza il giudizio definitivo sulle contesta­ zioni, le proteste e i reclami presentati [...]. Integrerà i risultati coi dati delle sezioni ancora mancanti; ed indicherà il numero complessivo degli elettori votanti e quello dei voti nulli»28. Tre giorni dopo il Re se ne va in Portogallo, dopo aver de­ nunciato l’atto di forza rivoluzionario e l’illegittimità dell’esito. E da questo tornante che i caratteri della nostra democrazia si definiscono e si affermano nell’itinerario difficile del dopo­ guerra. Ci appare oggi un dato acquisito e condiviso eppure non è stato cosi allora. Allargare le basi significava invertire una direzione di marcia, cambiare rotta, cercare forme e stra­ tegie per far poggiare l’architettura istituzionale su una base solida, ampia, diffusa. Sono le strategie di una nuova cittadi­ nanza che si afferma progressivamente e che ha due cardini di riferimento: il riconoscimento del diritto di voto per tutti e tutte e la definizione di un orizzonte possibile, quello di una democrazia inclusiva rafforzata dal potenziale coinvolgimento di nuovi settori della società. Si chiude così la lunga parabola di un percorso che affonda le premesse nei caratteri prevalenti del processo di nazionalizzazione e nei passaggi chiave della riunificazione geografica e politica della penisola: élite più o

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meno illuminate che guidano i processi storici espressione di una classe dirigente con un perimetro di appartenenze e compatibilità ben delineato. Si è discusso molto se il 2 giugno rappresentasse il punto di arrivo della crisi che porta il paese fuori dal fascismo e dalla guerra o il primo passo di un nuovo possibile cammino. I cittadini elettori sono i nuovi italiani, o comunque aspirano a poter entrare nell’agone di una demo­ crazia partecipata, fondata su soggetti radicati e di massa (i partiti), segnata da un progressivo cammino di avvicinamento e coinvolgimento di chi è fuori dal recinto, escluso, ai margini di quel nuovo itinerario. Per la prima volta si può pensare o tentare di diventare cittadini e cittadine, elettori e/o eletti/e. Ne scrive a caldo un lucido protagonista come Piero Calamandrei commentando il risultato di una giornata senza precedenti: La Repubblica italiana: non più un sogno romantico di cospira­ tori, un’immagine epica di poeti; non più una bandiera di ribellione e d’insurrezione. La Repubblica italiana: una realtà pacifica e giuridica scesa dall’empireo degli ideali nella concretezza terrena della storia, entrata senza sommossa e senza guerra civile nella pratica ordinaria della costituzione29.

Si afferma la cultura della costruzione di una prospettiva comune, in una laboriosa trama di relazioni, obiettivi, valori possibili. Tramonta progressivamente l’idea di una rottura rivo­ luzionaria, della ricerca di un appuntamento definitivo con la storia come chiave risolutiva. Si fa strada la logica dell’equilibrio fondato sul compromesso, sulla base di una collaborazione tra diversi organizzati all’interno delle formazioni politiche che si presentano di fronte agli elettori. Un compromesso tra culture, storie, identità, ma anche tra simboli, parole d’ordine e modelli di riferimento. Ognuno rinuncia a qualcosa per favorire le dinamiche di un incontro che possa includere i partecipanti all’impresa. Una linea di demarcazione delicata che attraversa le appartenenze ridisegnando confini e prospettive: la forza di un incontro tra tanti itinerari e differenze, la debolezza di tenere insieme un reticolo di aspettative e ambizioni non componibili. Nel riconoscimento di un diritto individuale si saldano strategie e processi di lungo periodo: la ricerca di forme di partecipazione, l’avvio di possibili esperienze collettive, le opzioni sulle scelte fondanti di chi voleva cambiare rotta. La

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Repubblica diventa lo spazio per le nuove strategie di cittadi­ nanza a partire dalle innovazioni che la qualificano. L’Assemblea costituente assume nella nuova Carta costitu­ zionale la centralità della questione sociale e il suo collegamento con i diritti civili e politici, superando le lacerazioni presenti nell’Italia liberale e poi in quella fascista. Una delle novità più significative che emergono dalla Costituente è proprio quella di aver rifondato i diritti sociali sui principi della democrazia. E questo un elemento importante e innovativo, culturalmente originale della Costituzione repubblicana. Da qui, ad esempio, l’impostazione precettiva della Carta, ovvero quella di un te­ sto che non si limita a definire regole e strutture, indicando contestualmente un percorso di sviluppo segnato dalla ricerca di quella che oggi chiameremmo (non senza un pizzico di nostalgia) una crescente coesione sociale. In secondo luogo, la cifra fondante del compromesso costituzionale, alto, basato sul riconoscimento reciproco di culture, storie e aspirazioni politiche anche profondamente antitetiche. Ognuno rinuncia a parte del proprio programma, ai colori nitidi di bandiere e appartenenze per costruire un punto d’incontro, un equilibrio possibile con gli altri. Il compromesso legittimante - sorto in contemporanea con la fine dei governi di unità nazionale dell’estate del 1947 - è destinato a condizionare il processo di formazione della cittadinanza repubblicana talvolta in ma­ niera contraddittoria, a partire da quelle che saranno definite come le cosiddette appartenenze separate (ai diversi partiti) che in alcuni frangenti contribuiscono a indebolire il quadro unitario di istituzioni condivise30. Le forze politiche svolgono il ruolo di agenzie di formazione all’interno del sistema: dalla lotta all’analfabetismo alla costruzione di spazi di socialità, dal tempo libero alle forme più diverse di cittadinanza. La Costituzione è anche l’occasione per costruire un rapporto tra intellettuali (di vario ambito e provenienza) e cittadini: una funzione primaria attraverso forme di contatto e comu­ nicazione. Le competenze - le più diverse - al servizio di un progetto comune capace di avvicinare base e vertice della piramide sociale, centro e periferia di un perimetro compo­ sito e plurale. La persona umana all’interno dell’ingranaggio complesso dello Stato, una sintesi di ispirazioni e punti di vista tra chi guardava più alla dimensione individuale e chi aveva

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sposato le appartenenze collettive come garanzia di diritti e relazioni. Un punto di equilibrio in una strategia complessiva ben illustrata dalle parole di un costituente, un padre della Repubblica come Aldo Moro: Su questa base sembra opportuno affermare la priorità e l’autono­ mia della persona di fronte allo Stato. Questo anche dal punto di vista della funzione educativa che deve esercitare la Costituzione. Non va dimenticato che lo Stato che si vuole costruire è uno Stato democratico e non totalitario. [...] Occorre soprattutto affermare la dignità della persona umana, senza sminuire però l’autorità dello Stato, creando uno Stato forte e realizzando una giustizia forte31.

Un idnerario inedito oltre ogni visione finalistica o de­ terministica, distante dalle sirene delle tradizioni religiose di riferimento: «Mettere l’accento sulla persona voleva dire richiamare l’attenzione sull’irriducibilità dell’individuo all’ente collettivo, ma nello stesso tempo cogliere nell’individuo la sua essenziale relazione all’altro, la sua “socialità”» 32. Prima di tutto una sfida difficile. Il compromesso, il con­ tratto sociale stipulato da cittadini italiani, riesce - non senza limiti e contraddizioni - a tenere insieme i diritti soggettivi e quelli sociali, i dodici principi fondamentali che aprono la Carta con le indicazioni e gli assetti che ne seguono: diritti e doveri dei cittadini, rapporti economici e politici, ordina­ mento e organi dello Stato per chiudere con le disposizioni transitorie e finali. E così l’ingresso delle masse nella costruzione dello Stato segna la discontinuità più profonda di una cesura che proietta gli effetti sulle generazioni successive: nel Novecento si com­ pleta la parabola della politicizzazione diffusa della società italiana attraverso itinerari diversi. La Repubblica è anche un cammino dall’Italia agricola a quella post-industriale: tre paesaggi, tre mondi, forse tre rivoluzioni33. A partire da queste basi nel primo settantennio repub­ blicano assistiamo a un processo di consolidamento della democrazia italiana tra straordinari passi avanti e continue battute d’arresto. La democrazia è innanzitutto un processo, una tensione ideale che si nutre di un rapporto dialettico: il frutto di una continua conquista, un cammino ininterrotto di libertà che non ammette scorciatoie, semplificazioni o facili

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approdi. Seguendo tale approccio, il passato non è un buco nero indistinto o come spesso si sente dire una zavorra da cui liberarsi. Le radici di una comunità nazionale affondano in una storia comune scandita dal passaggio tra le generazioni che si danno il cambio. Recuperare uno sguardo lungo signi­ fica avere più chiaro il senso di un cammino, la direzione di marcia. Questo è stato il punto di forza nel percorso del lungo dopoguerra italiano. 3. Nazionale e Internazionale La Repubblica nasce sulla base di un compromesso tra diversi: un punto d’incontro e di conciliazione che lascia il segno, costruisce il nesso tra la stagione della Resistenza e la Carta costituzionale. Non disperdere quell’esperienza, va­ lorizzare la coda drammatica della seconda guerra mondiale significa per molti tentare la via di una possibile codificazione, mettendo nero su bianco una successione di articoli, norme e precetti in grado di salvaguardare i contenuti di un biennio di svolta. Lo stesso accostamento di termini nella dizione «com­ promesso costituzionale» richiama il significato di un lessico che nei decenni successivi ha mutato significato, diventando progressivamente sinonimo di accordi forzosi o convenienze particolari, l’arte del compromesso, della mediazione al ribasso come vizio della politica piuttosto che ispirazione rivolta verso un punto di equilibrio nella ricerca dell’interesse generale34. E così nei tortuosi sentieri dell’Italia contemporanea il com­ promesso dei costituenti ha avuto alterne fortune, richiamato come tratto distintivo di un percorso originale, o messo sotto accusa come sigillo e prova di un vizio d’origine per una sto­ ria nata male. Interpretazioni e giudizi che aiutano a far luce sulla stagione fondante della nostra convivenza nazionale. Due letture contrapposte che hanno separato forzatamente piani e cronologie comunicanti. Da un lato un racconto basato sulla dimensione nazionale della costruzione del dopoguerra, un cammino segnato dai passaggi che la Resistenza riesce a con­ quistare, consolidare, proiettare sull’Italia che verrà a partire dagli esiti della guerra civile. Dall’altro la guerra mondiale che dai deserti del Nord Africa migra sulla penisola entrando lentamente nella fase decisiva: uno scontro tra coalizioni di

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paesi, eserciti, strategie e valori. Tenere separati i due piani non aiuta a comprendere la complessa stagione delle origini pur avendo offerto argomentazioni e narrazioni valide e for­ tunate per un lungo periodo. Una tenaglia oppressiva: il mito di una Resistenza peculiare e insindacabile o di converso l’opinione che la Liberazione sia il risultato indiretto e ma­ gari non voluto di uno scontro tra giganti dove tanti restano spettatori passivi. Letture radicalmente opposte che puntano a separare ciò che la storia ci consegna nelle sue molteplici interdipendenze. Molte le spiegazioni plausibili che tuttavia sfumano con il passare del tempo: rafforzare l’autonomia del contributo italiano alla Liberazione per avere agibilità e forza di contrattazione o, all’opposto, ridimensionare la Resistenza fino a considerarla irrilevante rispetto agli esiti dello scontro tra gli Alleati e le potenze dell’Asse. Spezzare consapevolmente o per una sorta di pigrizia il nesso tra guerra e Resistenza, tra la cesura del secondo conflitto mondiale e la stagione costituente della Repubblica per dare maggiore peso all’immediato, alle esigenze della ricostruzione e ai linguaggi contrapposti della dialettica politica. Ma le radici del nostro passato sono proprio nelle intersezioni di quei due piani, nella forza delle interdi­ pendenze diffuse, nelle trasformazioni più durature prodotte dai conflitti mondiali: allargamento progressivo dei processi storici (ampliamento dello spazio), simultaneità di eventi distanti in un tempo più rapido e mutevole. A questo livello la lettura del nostro tempo (dopo oltre settant’anni) non può che mettere in ordine momenti e situazioni: la Resistenza è parte di uno scontro più esteso e il contributo degli italiani (la dimensione nazionale del conflitto) si legge e si misura in un quadro ben più ampio. Questo non può significare denigrare i protagonisti (ridimensionare strumentalmente chi ha compiuto scelte esistenziali impegnative), sostituire soggetti e termini di un confronto che abbraccia diversi punti di vista: una società composita è fatta di luci e ombre, eroi o aspiranti tali e delatori, imbroglioni, furbi in cerca di fortuna e denaro. Mitizzare non serve, non avvicina quel necessario esercizio di comprensione che sostiene gli strumenti della conoscenza storica. Il paradigma di un caso italiano unico e distinto, insin­ dacabile e peculiare, segnato da protagonisti e comprimari che si muovono in piena autonomia definendo appartenenze, confini e compatibilità non regge a fronte delle profonde

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trasformazioni e condizionamenti che la guerra totale porta nel cuore delle società del pianeta. E su un altro versante non persuade l’immagine dell’uscita dell’Italia dal conflitto come risultato quasi automatico dei responsi che giungono dai campi di battaglia, un esito annunciato e dichiarato della vittoria contro il nazifascismo. Il quadro è più complesso, forse più interessante. Il punto di partenza richiama quel compromesso che si scioglie e si rafforza tra il 1943 e il 1948, tra l’esplosione della guerra civile e l’entrata in vigore della nuova Carta costituzio­ nale. Quel compromesso ha una scadenza, un termine di durata che è quello più generale della collaborazione tra le forze anti­ fasciste. Tornano i contenuti del confronto bellico, della sfida tra sistemi contrapposti, tra libertà e tirannide nella risposta alla minaccia portata dal nuovo ordine hitleriano. Quando la grande alleanza antifascista viene meno, tra il 1947 e il 1948, anche in Italia quel fronte si divide, comincia a prendere forma il modello militarizzato del confronto bipolare35. Non si tratta anche in questo caso di stravaganze italiane, il nuovo inizio è un processo che avviene su scala mondiale, passa per alcune grandi conferenze di pace e stabilizzazione, si rafforza nelle premesse del costituendo sistema internazionale della guerra fredda, lo scontro tra Est e Ovest che plasmerà il mondo almeno fino all’ultimo decennio del secolo XX. Un tratto di strada della Repubblica italiana è persino sovrapponibile alla parabola della guerra fredda: dalle origini fino al 1989, dalla costruzione del sistema dei partiti al suo crollo repentino36. Non un caso, ma una condizione da cui prendere spunto per meglio indagare il passato. La collaborazione antifascista si rompe a livello di esecutivo nel 1947 con l’uscita dei comunisti dalla maggioranza, per poi misurarsi nelle elezioni politiche generali dell’anno successivo. Eppure alcune caratteristiche di fondo permangono, vanno al di là delle fasi che segnano il nostro dopoguerra: la centralità del Parlamento bicamerale, la rappresentatività delle due Camere elette con sistema proporzionale (la combinazione tra parla­ mentarismo e proporzionalismo)37, un partito di maggioranza relativa, la Democrazia cristiana, architrave del sistema che rimane al governo fino al suo scioglimento, una sostanziale stabilità politica e istituzionale nel quadro condizionante della contrapposizione bipolare (simile per molti versi al tragitto del

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Giappone nel dopoguerra)38. Una contraddizione apparente e al tempo stesso cruciale nella definizione del cammino del dopoguerra italiano: oltre settant’anni di vita e circa 65 coali­ zioni di governo con quasi 30 presidenti del Consiglio che le hanno guidate. Una forte tensione tra i partiti, instabilità tra coalizioni e correnti interne, ma al tempo stesso un quadro di riferimento stabile, una relazione tra maggioranza e opposizioni misurabile nelle variazioni della rappresentanza proporzionale e nel peso delle rivendicazioni di parte o di partito. Una dia­ lettica che non si esaurisce, nasce dalla forte politicizzazione della società, innerva il sistema democratico, in alcuni passaggi ne consuma risorse e possibilità dedicate alla composizione di fratture tra i partiti e all’interno degli stessi, fino all’ultimo decennio del secolo scorso. Ma torniamo ai primi passi della Repubblica. La frattura a livello internazionale si era consumata nelle settimane del­ la campagna elettorale referendaria. Il 5 marzo 1946, in un celebre discorso tenuto al Westminster College di Fulton in Missouri, Winston Churchill aveva descritto il nuovo scenario anticipando ciò che sarebbe avvenuto a breve: Diamo il benvenuto alla Russia nel suo giusto posto tra le più grandi nazioni del mondo. Siamo lieti di vederne la bandiera sui mari. Soprattutto siamo lieti che abbiano luogo sempre più intensi contatti tra il popolo russo e i nostri popoli. E tuttavia mio dovere prospettarvi determinate realtà dell’attuale situazione in Europa. Da Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico una cortina di ferro è scesa attraverso il continente. Dietro quella linea giacciono tutte le capitali dei vecchi Stati dell’Europa centrale e orientale. Varsavia, Berlino, Praga, Vienna, Budapest, Belgrado, Bucarest e Sofia; tutte queste famose città e le popolazioni attorno ad esse, giacciono in quella che devo chiamare sfera sovietica, e sono tutte soggette, in un modo o nell’altro, non solo all’influenza sovietica ma anche a un’altissima e in alcuni casi crescente forma di controllo da Mosca39.

Il leader conservatore britannico era passato all’opposizio­ ne dopo la sorprendente vittoria laburista nelle elezioni del 1945, ma il suo prestigio di combattente, il suo legame con gli eventi della seconda guerra mondiale lo qualificano come voce autorevole per descrivere le incognite del nuovo mondo. Parla davanti al presidente degli Stati Uniti Henry Truman, soffermandosi sui grandi cambiamenti, riflesso della Conferenza

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di Potsdam: negli assetti post-bellici iniziava la cesura tra Est e Ovest, lo spazio progressivamente conquistato dalle logiche, gli strumenti, i linguaggi della guerra fredda40. L’Italia viene sospinta dai primi passi del nuovo ordine che mostra le proprie prerogative: esaurimento della collaborazio­ ne nell’alleanza antinazista, avvio della divisione in blocchi attraverso sfere d’influenza o zone che fanno direttamente riferimento al controllo di una delle due superpotenze. Pochi mesi per seguire il crepuscolo del vecchio sistema, pochi anni per iniziare a configurare il nuovo equilibrio bipolare, l’ultimo conflitto per l’Europa. Ecco lo spazio della Repubblica, uno spazio possibile e definito nel perimetro tratteggiato dalla vittoria alleata e dal contenimento dell’espansionismo sovieti­ co. Una scelta di campo che condiziona il percorso, definisce tappe e possibili approdi futuri41. Pochi mesi dopo l’intervento di Churchill spetta al pre­ sidente del Consiglio e ministro degli Esteri della neonata Repubblica italiana prendere la parola di fronte ai 21 paesi vincitori della guerra. De Gasperi parla a Parigi nella Confe­ renza di pace che porterà alla firma del trattato il 10 agosto 1946. Un intervento difficile, impegnativo; un concentrato del percorso degli anni precedenti nel rapporto tra la dimensione nazionale e il contesto internazionale che la contiene: Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: e soprattutto la mia qualifica di ex nemico che mi fa considerare come imputato e l’essere citato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione. Non corro io il rischio di apparire come uno spirito angusto e perturbatore, che si fa portavoce di egoismi nazionali e di interessi unilaterali? Signori è vero: ho il dovere innanzi alla coscienza del mio paese e per difendere la vitalità del mio popolo di parlare come italiano; ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica che, armonizzando in sé le aspirazioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, le concezioni universaliste del cristianesimo e le speranze internazionaliste dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace duratura e ricostruttiva che voi cercate e verso quella cooperazione tra i popoli che avete il compito di stabilire42.

De Gasperi mette in luce l’armonia possibile tra le compo­ nenti fondamentali del processo di nazionalizzazione: le radici

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cristiane, l’ispirazione risorgimentale, la questione sociale nel mondo del lavoro. Un equilibrio cercato come garanzia per una pace capace di rappresentare forze diverse in relazione tra loro e in tensione verso la ricerca e la difesa dell’interesse nazionale. Un passaggio stretto e complicato43. Ebbene permettete che vi dica con la franchezza che un alto senso di responsabilità impone in quest’ora storica a ciascuno di noi, questo trattato è, nei confronti dell’Italia, estremamente duro; ma se esso tuttavia fosse almeno uno strumento ricostruttivo di cooperazione internazionale, il sacrificio nostro avrebbe un compenso. [...] L’Italia avrebbe subito delle sanzioni per il suo passato fascista, ma messa una pietra tombale sul passato, tutti si ritroverebbero eguali nello spirito della nuova collaborazione internazionale44.

Il richiamo alla pace e alle responsabilità comuni come scelta di credibilità e fiducia. In quella stessa estate del 1946 l’Italia negozia la firma per aderire agli accordi di Bretton Woods perfezionata nell’ottobre dello stesso anno con l’ingresso nel Fondo Monetario Internazionale e nella Banca Mondiale ben prima degli altri paesi sconfitti (Germania e Giappone faranno il loro ingresso nel 1952). Un’intuizione politica di De Gasperi (e di Guido Carli) che irrobustisce l’impianto della costituzione economica, riferimento della stagione fon­ dante45. Un insieme di comportamenti, indicazioni e scelte che rafforzano quella difficile condizione del capo del governo nel consesso parigino. Nella conclusione del suo celebre discorso De Gasperi rafforza il legame potenziale nel nuovo mondo che è ormai in divenire: Signori Delegati, grava su di voi la responsabilità di dare al mondo una pace che corrisponda ai conclamati fini della guerra, cioè all’indipendenza e alla fraterna collaborazione dei popoli liberi. Come italiano non vi chiedo nessuna concessione particolare, vi chiedo solo di inquadrare la nostra pace nella pace che ansiosamente attendono gli uomini e le donne di ogni paese che nella guerra hanno combattuto e sofferto per una meta ideale. Non sostate sui labili espedienti, non illudetevi con una tregua momentanea o con compromessi instabili: guardate a quella meta ideale, fate uno sforzo tenace e generoso per raggiungerla. È in questo quadro di una pace generale e stabile che vi chiedo di dare respiro e credito alla Repubblica d’Italia: un popolo lavoratore di 47 milioni è pronto ad associare la sua opera alla vostra per creare un mondo più giusto e più umano46.

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Questa la cifra della collaborazione post-bellica, l’impianto di una collocazione internazionale necessaria a dare al progetto della Repubblica le basi per poter camminare. De Gasperi si reca negli Stati Uniti nelle prime settimane del nuovo anno, conferma impegni e reciproci interessi, offre la sua credibilità nella definizione di una collaborazione non episodica47. La firma del trattato è del 10 febbraio 1947: l’Italia perde le colonie eredità di un tempo ormai lontano ed è costretta a rinunciare a quasi tutti i territori conquistati sull’Adriatico durante il primo conflitto mondiale48. La Jugoslavia confinante a Est si vede riconosciuto il concetto di confine naturale, che viene fissato sulla linea che separa le Alpi Carniche e le Dinaridi dalla pianura friulana. Un ridimensionamento consistente (attorno al 50% degli abitanti) su un territorio conteso sul quale le popolazioni di lingua e tradizione italiana subiranno il peso violento dell’offensiva jugoslava (migliaia gli infoibati nelle cavità naturali del Carso)49. Al di là degli sforzi in sede di conferenza l’Italia rinuncia al concetto di confine strategico, attestandosi su una linea precaria di confine «etnico-linguistico» sulla falsariga di quello che aveva sostenuto il presidente americano Wilson dopo la prima guerra mondiale. Difficile tuttavia segnare confini omogenei e riconoscibili su territori dove per secoli hanno convissuto lingue, religioni, culture all’interno dei perimetri dei grandi imperi. Solo con il Memo­ randum di Londra del 1954 Trieste torna italiana dopo anni di governo alleato e il 7 % della Venezia Giulia viene recuperato nell’ambito nazionale50. Il dramma del confine orientale lacera storie e appartenenze, l’esodo giuliano-dalmata dopo la firma del trattato di pace conduce circa 300 mila italiani verso lidi lontani, in cerca di patria e futuro. Un pezzo d’Europa che racchiude una cifra qualificante del Novecento: Dove si sono scontrati nazionalismi feroci ed esasperati in una lotta senza quartiere in cui gli uni finivano per pareggiare, anche moralmente gli altri. I termini del conflitto trascendevano, nei loro motivi più pro­ fondi, il modesto ambito della vita regionale e si ispiravano alle correnti di idee e di passioni che fanno così feroce l’Europa contemporanea51.

Un dramma a lungo rimosso, segnato dal dolore e dall’esilio che tuttavia riemerge nella coscienza profonda del cammino della Repubblica a partire da quelle correnti di idee e passioni

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che hanno attraversato il cammino del vecchio continente. E le memorie divise che convivono nella nostra Europa sono figlie di quelle cesure, richiamano un tempo lontano sconfitto o almeno ridimensionato dalla forza unificante del progetto europeo. Nel cammino della Repubblica vive anche lo spessore di una storia incombente, la possibilità di passare alla fase della ricostruzione: materiale, morale, forse anche identitaria in grado di tenere insieme segmenti conflittuali. Ricostruire una casa per tutti uscendo dalle tragedie delle guerre, del fascismo e dei naziona­ lismi più feroci. Un’impresa che si appoggia su due direttrici, due pilastri: le capacità mostrate dagli italiani in lotta per la loro liberazione, l’affermarsi di modelli e società figlie delle trasformazioni del secolo X X rilanciate dalla vittoria contro il nazifascismo. In questa chiave le superpotenze diventano un riferimento, una sorta di modello ambiguo: guardare a Mosca o a Washington per rafforzare le fortune possibili dei percorsi di ricostruzione. Uno sguardo interessato e partecipe, una trama di attenzioni e relazioni che si trasforma in un vincolo, nella definizione di un campo di forze, regole, condizionamenti reciproci. Il vincolo esterno che interagisce con le dinamiche proprie della società italiana, diventa parte di una costruzione composita dove il quadro interno s’innesta sulle caratteristiche portanti del costituendo sistema internazionale della guerra fredda. Una fase costituente complessiva, «una duplice fase costituente» nella quale i due termini nazionale e internazionale si ridefiniscono in mare aperto in modi inediti e imprevedibili52. Per la giovane Repubblica la scelta fondante, l’indirizzo più consapevole e carico di conseguenze si colloca nell’inter­ sezione tra il processo di costruzione dell’Europa post-bellica e l’ancoraggio all’Occidente di stampo statunitense. Un ponte tra Europa e Usa, uno spazio di libero mercato, di circolazione di idee, valori, riferimenti comuni. È una chiave di lettura del dopoguerra che avvicina le sorti dell’Italia a quelle di una parte dell’Europa e del mondo, ridimensionando così le facili letture o semplificazioni che hanno attraversato parte dei decenni che abbiamo alle spalle53. Mi riferisco al peso di quei due pilastri: al ruolo dell’Europa negli indirizzi di uno dei paesi fondatori e alla partnership atlantica come irreversibile strumento di crescita, stabilizzazione, lotta al pericolo dell’avanzata del blocco orientale avverso. Il significato dell’incrocio e della sovrapposizione delle diverse prospettive rafforza il perimetro

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della Repubblica, lo inserisce in un contesto più ampio, lo colloca dentro un cambiamento radicale dei rapporti di forza e degli orizzonti di riferimento del mondo nella seconda metà del Novecento. In quel contesto vive e si sviluppa l’autonomia di un percorso nazionale, la sua capacità di essere protagonista e non subalterno, la sua forza nel condizionare e modificare parte delle compatibilità incontrate nel cammino. Si rovesciano quindi termini e semplificazioni che troppo facilmente hanno fatto breccia nel discorso pubblico, nelle ricostruzioni ispirate più dal pessimismo del dopo che dalla comprensione degli eventi: un paese a sovranità limitata, dipendente da scelte e indirizzi presi altrove, a Mosca, a Washington e più di recente nelle stanze lontane della burocrazia europea dislocata tra Bruxelles e Strasburgo. Chiavi di lettura parziali e strumentali, poco inclini a tener conto delle modificazioni che segnano il rapporto tra sovranità, territori, meccanismi di autogoverno. E il processo decisionale nel suo insieme che si sposta, perde parte della tradizionale componente territoriale, il vincolo dei confini di appartenenza per approdare in un ambito più ampio, spesso sfuggente o incerto, figlio del progressivo am­ pliamento di processi storici come risultante principale delle trasformazioni dello scorso secolo. Anche la Repubblica è al tempo stesso protagonista, beneficiaria e vittima di una pa­ rabola che ridisegna ambiti e funzioni della sovranità, mette in causa equilibri tra diritti e poteri, sposta in uno spazio più ampio i conflitti egemonici sui rapporti di forza e sui diritti riconosciuti54. Un nuovo ordine internazionale declinato e interpretato da una classe dirigente - uscita dalla guerra e dai suoi respon­ si - che si muove consapevolmente, usa termini appropriati, si sente fino in fondo legata, condizionata e attraversata da una trasformazione senza precedenti. Una classe dirigente che sceglie indirizzi e programmi, si colloca in quella zona di confine tra le dinamiche nazionali e il contesto internazionale, riesce non di rado con successo a far interagire piani e priorità in apparenza distanti. La costruzione della Repubblica è quindi un cantiere con diverse entrate e varie finestre, la stagione della ricostruzione vede i principali protagonisti - su fronti diversi, spesso alternativi - in sintonia con gli scenari di sfondo di un mondo che cambia. Da qui il peso di contraddizioni e scontri che affondano le ragioni nel­

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le radici stesse del patto costituzionale, di quel contratto tra italiani che entra in vigore il 1° gennaio 1948. Contraddizioni e scontri, tra la stabilizzazione del Piano Marshall (European Recovery Program), l’utilizzo di fondi e programmi di sviluppo che tratteggiano i confini del mondo occidentale che guarda agli Stati Uniti e l’emergere di una questione sociale come parte costitutiva del percorso di nazionalizzazione. Il Piano Marshall è un punto di osservazione privilegiato, un insieme di diverse finalità non componibili facilmente: un atto di ge­ nerosità del popolo americano, uno strumento per riattivare e liberalizzare il mercato internazionale, un’ipotesi percorribile di stabilizzazione di società in movimento e conflitto, un mezzo di diffusione di know-how e di modernizzazione ispirata ai valori d’oltreoceano, e allo stesso tempo, un’arma formidabile della guerra fredda, il cui impegno nelle zone arretrate dell’I­ talia agricola causò un alto livello di interferenza o anche di egemonia statunitense rafforzando vincoli e legami con i primi governi della Repubblica55. Prospettive e punti di vista alternativi lungo la linea an­ titetica del binomio amico-nemico, di una conflittualità che sceglie di posizionarsi a volte sul fronte interno, altre sul piano internazionale a seconda del riferimento o della dimensione del modello bipolare. La guerra fredda vive e si rinnova tanto sullo scenario di una contrapposizione sistemica tra Mosca e Washington quanto sulla sua riduzione ai protagonisti in miniatura della politica italiana. Uno scontro che divide, mette in discussione la carica inclusiva e di partecipazione del nuovo sistema politico. Una dialettica da toni e contenuti accesi; da un lato l’urgenza di intervenire sulla riforma della proprietà terriera e sullo stato di arretratezza e difficoltà di zone estese del Mezzogiorno, dall’altro la radicalizzazione di una conflittualità contadina che si consolida e si manifesta. L’emblema più nitido il 1° maggio 1947 nella prima strage dell’Italia repubblicana quando a Portella della Ginestra in provincia di Palermo vennero uccisi quattordici contadini e feriti una trentina a opera del bandito Giuliano, in una commistione di interessi tra difesa della pira­ mide sociale e ruolo attivo della criminalità organizzata. Una manifestazione contro il latifondo in occasione delle Festa dei Lavoratori, dopo che il blocco delle sinistre si era affermato nelle elezioni regionali di pochi giorni prima, diventa una

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sfida sulla tenuta del sistema, sul rispetto del responso delle urne, sugli equilibri politici e sociali della nuova Repubblica. Un’eredità difficile e controversa, un groviglio di questioni che dal Mezzogiorno si riflette sui primi passi di una classe dirigente in formazione e sugli indirizzi complessivi del sistema politico repubblicano56. La rottura della grande coalizione, la fine dell’unità antifa­ scista nel maggio 1947 radicalizza posizioni e aspettative. Lo scontro è rimandato di pochi mesi, le elezioni del 1948 sono l’occasione per misurare la forza dei contendenti e per valutare appieno il ruolo, il posto e il peso della nuova Repubblica nello scenario del mondo bipolare. Un passaggio delicato che attira attenzioni e preoccupazioni anche da chi ci guarda da lontano: cosa uscirà dalle urne, quali rapporti tra i partiti, quali equilibri di governo possibili e soprattutto quali scelte all’orizzonte nella dialettica tra mondi e opzioni contrapposte? Le scelte di collocazione internazionale contribuiscono a definire il perimetro della contesa, un perimetro condiviso che dovrebbe rafforzare la carica inclusiva del sistema, la spinta a coinvolgere settori e territori che fino a quel momento erano esclusi o lontani, marginali nelle dinamiche dello sviluppo. Ma lo scarto tra le ambizioni e la realtà si fa subito sentire consolidando interro­ gativi inevasi sul nesso continuità-discontinuità nel passaggio dal fascismo alla Repubblica: continuità di biografie e funzioni, permanenza di alti funzionari dello Stato, passaggi incerti o ambigui, costi collettivi per le mancate epurazioni57. Un elenco sempre aggiornabile e incompleto di rimpianti e di occasioni mancate, di possibilità non verificate, di rivoluzioni tradite. Un piano inclinato letto attraverso la metafora del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, dove si scontrano speranze e inganni, opportunità e chiusure con l’auspicio ricorrente che il meglio debba ancora arrivare58. 4. «Un partito di Centro che cammina verso sinistra» La notizia della morte di De Gasperi viene battuta dall’An­ sa alle prime ore dell’alba del 19 agosto 1954. «Alle tre di questa mattina è deceduto per paralisi cardiaca l’on. Alcide De Gasperi. Egli è morto in stato di perfetta lucidità mentale e munito dei conforti religiosi. Gli erano attorno i suoi fami--

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liari». Una piccola folla si ritrovò presso la casa di montagna in Sella Valsugana dove era spirato. Da pochi mesi era inizia­ ta l’era della televisione nei locali pubblici presto diventati luoghi di incontro. In tanti, stipati per l’occasione alla ricerca di immagini dello statista scomparso, partecipano anche da lontano ai funerali: quando il treno che porta la salma discen­ de lentamente lo stivale da Trento verso Roma, due ali di folla ne accolgono il passaggio. Immediata e diffusa in tutti, amici e avversari, classe politica e gente comune l’impressione che quel giorno un grande era uscito di scena e con lui si chiudeva una pagina della storia del paese. Il suo nome ha segnato un’epoca, un modo di essere e di guardare all’impegno politico, al rapporto tra Stato e mercato, alla funzione e al protagonismo dei cattolici nella società. Il richiamo a De Gasperi non si è mai interrotto. Nessun uomo politico italiano ha avuto un numero di eredi, veri o presunti, così alto duran­ te i decenni che ci separano dalla sua morte: a tratti lo scon­ tro sull’eredità contesa ha limitato giudizi e riflessioni sulla sua parabola storica59; fuori dai confini nazionali si sono chiesti a lungo chi fosse il nuovo De Gasperi di riferimento, quale politico avrebbe rappresentato meglio continuità e cer­ tezze con la stagione degasperiana. «La figura di De Gasperi si è fatta ancora più grande nella distanza, come le montagne del suo Trentino, che solo a distanza si dispiegano in tutta la loro importanza»60. Le ragioni di quella grandezza fanno par­ te della nostra storia a patto che non vengano relegate alla sola ufficialità degli anniversari. Chi era Alcide De Gasperi? Quali scelte a vari decenni di distanza lo collocano in prima fila tra i padri della Repubblica? Con i rischi della sintesi si possono individuare tre aspetti che lo qualificano in uno sguardo più lungo del suo tempo. In primo luogo, le radici profonde di un’identità di confine che s’invera in un contesto più ampio, un uomo di frontiera tra mondi diversi che attra­ versano la prima metà del secolo scorso. De Gasperi lavorò in ben tre Parlamenti: fu eletto nel 1911 rappresentante del Trentino alla Camera dei deputati del Reichsrat austriaco, dove sedette fino al 1918, fase terminale della vita dell’Impero asburgico. Divenuto cittadino italiano entrò nel Parlamento del Regno d’Italia nel 1921 e vi rimase fino al 1926 quando Mussolini fece decadere i deputati aventiniani. Come ultima tappa approdò all’Assemblea costituente e al Parlamento re­

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pubblicano partecipando da protagonista fino alla conclusio­ ne dei suoi giorni. Lo spessore del leader democristiano contiene la cifra di un percorso che alza il livello del confronto collocando le vicende della giovane Repubblica nel cuore del nuovo siste­ ma internazionale. Qui il secondo aspetto della sua attualità: il continuo tentativo di uscire dalle strettoie del giardino di casa per guardare intensamente verso gli orizzonti dei grandi problemi del dopoguerra; la convinzione che nessuno possa farcela da solo e la necessità di legare la fragilità italiana a due assi fondanti: scelta atlantica e dimensione europea come orizzonti e punti di riferimento irrinunciabili. Questa straordinaria opera di ricostruzione doveva avvenire - ultimo aspetto - non con la coercizione o l’esempio di una guida illuminata, ma attraverso il progressivo allargamento delle basi democratiche dello Stato, irrobustendo gradualmente una democrazia consensuale, partecipe e condivisa61. Da qui le scelte qualificanti: il referendum del 1946, il rapporto non confessionale tra la Chiesa e il partito dei cattolici (aveva lavorato alla Biblioteca Vaticana stringendo un’importante relazione con Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI), l’avvio nella prima legislatura di un cantiere di riforme decisivo per le sorti della democrazia dei partiti. Rimase quasi defilato durante i mesi della Costituente, presidente della Repubblica per 21 giorni nella fase provvisoria prima della nomina di Enrico De Nicola il 28 giugno 1946. Attento agli equilibri tra i poteri, sotto il suo impulso il Consiglio dei ministri del 13 giugno 1946 aveva tratteggiato ruolo e funzioni («da arbitro») del capo dello Stato62. La stagione del centrismo è così legata al nome di un politico, di un leader di partito e di un uomo di Stato che progetta e definisce fondamenta e compatibilità del nuovo corso repubblicano. Capita di rado di associare un nome a una porzione di passato, di poter descrivere attraverso la parabola di una biografia un periodo definito e circoscritto. Il centrismo degasperiano è al tempo stesso una formula semplificatrice e un prezioso indicatore di un segmento dell’itinerario post-bellico nella prima fase della ricostruzione. L’avvio della nuova stagione è legato all’esito della campagna elettorale del 18 aprile 1948. Uno scontro frontale tra partiti, coalizioni, ipotesi contrapposte giocato tanto su base nazionale

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quanto sullo scenario del sistema internazionale della guerra fredda. Una svolta complessiva, settimane di partecipazione diffusa, con la scoperta di simboli, manifesti, bandiere di an­ tica origine o nuova forgia. La propaganda elettorale irrompe nella politica italiana nelle forme dell’organizzazione, della persuasione, della promozione di comportamenti e scelte. Si sovrappongono percorsi e storie: l’eredità della mobilitazione degli anni (e persino dei decenni) precedenti convive con i nuovi esperimenti quali i Comitati civici a sostegno della De, le forme di presenza religiosa che si mobilitano o, sull’altro versante, le organizzazioni del lavoro o del sindacato in ap­ poggio alle sinistre. Una società che si organizza, si muove, partecipa per poter scegliere rappresentanti e interessi da promuovere fino alle aule del Parlamento. Con enfasi le cro­ nache del tempo parlano di un’Italia nuova, di un paese che esce dall’emergenza per trovare un posto, una collocazione nel mondo in costruzione. In una celebre e controversa intervista dalle colonne del «Messaggero» alla vigilia della consultazione popolare De Gasperi presenta i cardini della propria proposta politica: «Siamo un partito di centro che cammina verso sini­ stra, la vittoria del governo non sarà una sconfitta delle classi lavoratrici, puntiamo alla riforma agraria e della proprietà. La meta è quella di un laburismo italiano»63. Un progetto che guarda lontano, convinto di poter superare i consensi raccolti il 2 giugno «a danno delle estreme», punta a ridimensionare i conflitti latenti agganciando l’Italia a una porzione di mondo potenzialmente affine. Una lettura segnata dalla connessione profonda tra piano interno e contesto internazionale. E del resto i riflessi del sistema internazionale sono immediati, misurabili direttamente nel responso di una tornata elettorale dagli esiti non scontati, per numeri e significato64. Le forze filoccidentali raccolgono alla Camera dei depu­ tati oltre il 62% dei consensi, mentre il fronte popolare delle sinistre si attesta al 31%. Un divario significativo, per molti versi inatteso. La vittoria della Democrazia cristiana assume le dimensioni di un’affermazione netta, il 48,5% significa sfiorare la maggioranza assoluta dei voti espressi ottenendo 305 seggi su 574, il 53% della Camera dei deputati va allo scudocrociato. Il Fronte democratico popolare si ferma al 31%, l’Unità socialista raccoglie la percentuale del 7,1, mentre i repubblicani si attestano sul 2,5%, poco meno del Blocco

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Nazionale (liberali e Uomo Qualunque) che si colloca al 3%. La Destra estrema (monarchici e Movimento sociale) supera di poco il 5% . Simile lo scenario post-voto del Senato. La De con 131 seggi (sul totale di 237), il Fronte popolare fermo a 72. Un panorama cambiato in pochi mesi rispetto agli esiti della Costituente: la De diventa un perno indiscusso per costruire maggioranze parlamentari, il voto a sinistra premia il Pei prevalente su altre componenti e culture, lo scontro bipolare attraversa e plasma la definizione degli schieramenti nella I legislatura repubblicana. Poche settimane dopo la formazione del nuovo Parlamento viene eletto al vertice delle istituzioni Luigi Einaudi, rientrato dall’esilio svizzero nel 1944, governatore della Banca d’Italia dal gennaio dell’anno successivo65. Presidente della Repubblica attento alle basi economiche della ricostruzione, figura chia­ ve dei primi passi del dopoguerra, già ministro del Bilancio, nell’autunno 1947 riuscì a rassicurare settori della società italiana preoccupati dal passaggio a un sistema democratico partecipativo; garante e arbitro dei nuovi equilibri sociali e istituzionali. Il quadro politico prende il segno della discontinuità e della rottura pur mantenendo la sua carica inclusiva e con­ divisa. Un perimetro per tutti e di tutti in tensione continua. Quando il 14 luglio 1948, a poche settimane dalla sconfitta del Fronte popolare si diffonde la voce dell’attentato al leader del Pei sembra farsi strada l’ipotesi di una possibile rivincita nelle piazze. Al contrario il gesto di un esaltato studente di destra non incrina le fondamenta di una costruzione comune. Alla notizia che viaggia velocemente negli angoli della penisola «Hanno sparato a Togliatti» segue una risposta composta, un richiamo al rispetto di regole e legislazioni. Tranne casi isolati di reazioni immediate e di piazza, la rabbia del popolo di sinistra non esce dal solco tracciato nella Costituzione della Repubblica66. Una prova importante che consolida e legittima i rapporti di forza usciti dalle urne rilanciando le ragioni del conflitto ideologico. La fine della grande alleanza antifascista o della collaborazione forzata come qualcuno cominciò allora a definirla circoscrive un confronto tra modelli, linguaggi, mondi di riferimento. Un punto di equilibro faticosamente raggiun­ to: da un lato i vincoli del sistema internazionale, dall’altro il protagonismo e la dimensione crescente dei partiti italiani.

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In questo quadro la centralità della politica estera, il peso di uno sguardo che vada al di là di confini e compatibilità investe parte della classe dirigente. Un segmento significativo di personalità, intellettuali, politici che declinano le proprie convinzioni lungo l’interdipendenza crescente tra la Repubbli­ ca e la guerra fredda, tra lo spazio possibile di una comunità nazionale e le connessioni crescenti di un mondo diviso in due. L’anticomunismo delimita un campo di forze all’interno dell’equilibrio bipolare, gli echi della guerra di Corea (19501953) primo teatro di uno scontro Est-Ovest, rafforzano paure e allarmi diffusi. L’espansionismo sovietico nel blocco orientale diventa argomento di campagna elettorale e confronto dialet­ tico tra partiti su sponde contrapposte. L’ingresso dell’Italia nella Nato neH’apriìe 1949 offre stabilità: campo occidentale, alleanza militare di garanzia, protagonismo diretto nel proces­ so d’integrazione continentale. Il fallimento della Comunità Europea di Difesa nei primi anni Cinquanta ridimensiona la spinta all’integrazione e mette da parte (per lungo tempo) la possibilità stessa di un esercito europeo integrato e condiviso: la bocciatura definitiva con un voto del Parlamento francese cade beffarda pochi giorni dopo la morte di De Gasperi. Questi gli ingredienti basilari della ricostruzione post-bellica che si consolida nella stagione centrista. Cosa viene prima tra l’Europa e gli Usa? Quale asse ha più peso nelle priorità strategiche della classe dirigente italiana, quello atlantico o quello continentale? Difficile rispondere in modo univoco. Sono ambiti che si completano e si rafforzano reciproca­ mente pur con tempistiche differenti: il progetto europeo ha uno spessore culturale che ne motiva ambizioni e finalità, la partnership atlantica unisce ragioni di convenienza (basti il richiamo agli aiuti del Piano Marshall) con obiettivi strategici iscritti nella dottrina Truman del contenimento nei confronti dell’espansionismo del mondo comunista67. Più culturale la prima (Europa) e più politica la seconda (America), in una distinzione che rischia di separare un’opzione complessiva e strategica sulla collocazione internazionale della Repubblica. I termini del contesto sono la chiave per meglio collocare le scelte della ricostruzione. Nel 1951 si tiene il primo censimento su base nazionale dopo la fine della guerra: 47 milioni e mezzo di abitanti, net­ ta maggioranza di contadini. Un paese a prevalenza agricola

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(ancora per pochi anni) nel quale le parole e gli auspici del fascismo sui caratteri di una modernizzazione dinamica e uni­ ficante non avevano avuto grandi fortune. Il segno prevalente è quello della continuità di uomini, carriere, funzioni e ruoli nello Stato68. Campagne arretrate in condizioni spesso diffi­ cili con un processo di urbanizzazione lento e distante dagli standard evoluti del tempo, base industriale ristretta legata alla proprietà di alcune famiglie e alle zone del triangolo del Nord. La continuità segna la struttura portante della società italiana: quasi il 13% gli analfabeti, più del 46% i semianalfabeti, solo Yl% della popolazione giovanile riesce a laurearsi. Un paese arretrato con una scarsissima mobilità sociale, segnato dalle condizioni familiari di partenza, lontano dagli effetti legati all’immissione della cultura nelle strategie di costruzione della cittadinanza. Il censimento porta le cifre dell’arretratezza: alta mortalità infantile, condizioni igieniche precarie (solo il 10% ha il proprio bagno), malattie infettive causa di molti decessi, i beni indici di agio o ricchezza (telefono, automobile) in possesso di meno del 5% della popolazione. Negli stessi anni tra il 1951 e 1952 viene condotta l'Inchiesta sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla; il ritratto del paese è impietoso. Quasi il 12% delle famiglie vive in condizioni di povertà; solo il 40% della popolazione alloggia in strutture adeguate (non affollate); la condizione delle periferie e delle borgate nelle grandi città è particolarmente disagiata. Quasi 4 milioni e mezzo di famiglie non mangiano mai carne, poco più di 3 milioni la mangiano solo una volta a settimana; 1 milione e 700 mila famiglie non usano lo zucchero. La sintesi è che il livello alimentare è molto basso per quasi il 28% degli italiani, da modesto a buono per oltre il 51% , elevato per il 21%. La differenza nel reddito prò capite tra Nord e Sud è di 1 a 5. Solo il 54% degli italiani indossa scarpe adeguate. Una società fortemente conservatrice condizionata da tare antiche, un cammino ancora lungo e faticoso per risalire la china verso le speranze della modernità69. Di converso, il grande cambiamento dell’impegno e del protagonismo cattolico non modifica la tradizionale relazione confessionale di parti consistenti della società italiana. Senti­ menti religiosi diffusi convivono con le prime significative spinte alla cittadinanza moderna. Le relazioni tra Chiesa, strutture del mondo cattolico e meccanismi decisionali sono destinate a

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nuove tensioni, legate alle scelte della Democrazia cristiana e al pluralismo di componenti interne in competizione tra loro. L’impostazione degasperiana si afferma (contro i vecchi popolari e i nuovi dossettiani) saldandosi con le compatibilità del nuovo mondo, superando divisioni interne e letture confessionali. La scomunica della Santa Sede nei confronti dei comunisti del luglio 1949 («I fedeli che professano la dottrina del comuniSmo materialista e anticristiana e anzitutto coloro che la difendono 0 se ne fanno propagandisti incorrono ipso facto come apostati della fede cattolica nella scomunica») appare come ultimo atto di una contrapposizione frontale ormai superata dalla composizione della società italiana e dagli effetti dei processi di secolarizzazione. La dialettica comunismo-anticomunismo passa per altre vie, si alimenta di miti contrapposti, trova nella guerra fredda ragioni e limiti invalicabili70. Il centrismo è stato a lungo raccontato dai vinti, da chi ne aveva subito e pagato le conseguenze. Solo il tempo ha con­ sentito un giudizio più equilibrato, dove trovassero spazio e attenzioni gli slanci riformatori della I legislatura71. Una stagione che è stata analizzata da prospettive tra loro confliggenti: il merito delle riforme realizzate, di ciò che faticosamente entrava nella legislazione dello Stato o di converso il demerito di ciò che si sarebbe potuto ottenere. Chi sperava di più, chi era uscito dalla Resistenza con ambizioni e utopie vede ripiegare 1 propri orizzonti su alcune scelte che non soddisfano fino in fondo le aspirazioni di cambiamento radicale. Solo più avanti, quando il cammino del riformismo incompiuto si è arricchito di nuove tappe e occasioni perse, allora quelle scelte iniziali hanno ritrovato forza e ragioni; il bicchiere è cominciato ad apparire mezzo pieno, nonostante limiti e battute d’arresto che hanno attraversato il periodo 1948-195372. Alla base del riformismo della I legislatura gli effetti di una congiuntura favorevole: stabilità politica nel dopo elezioni, portato delle politiche antinflazionistiche promosse dal mini­ stro Einaudi. Il governo si fa promotore della riforma agraria con una serie di leggi in successione, indirizzate verso alcune zone del paese o in grado di fornire un riferimento quadro: gli ettari espropriati e assegnati sfiorano la cifra di 750 mila. Investimenti mirati avrebbero portano innovazioni e benefici aumentando le capacità produttive. L’orizzonte dell’intervento riformista avrebbe condotto a due significativi risultati (nelle

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intenzioni almeno): la creazione di una classe media di con­ tadini e piccoli proprietari terrieri, l’incremento significativo dei tassi di produzione. In questo quadro, a cinque anni dalla fine della guerra, nel 1950 venne istituita la Cassa per il Mezzogiorno, un ente in grado d’agire direttamente nelle zone più arretrate e bisognose con una gamma di compiti e possibilità: bonifiche, interventi sulle acque o sui terreni, costruzione di strade, villaggi, stalle, impianti industriali per innovazione agricola e tanto altro73. In pochi anni le funzioni della Cassa vennero estese al settore industriale fino al sostegno al credito e all’iniziativa privata. Uno sforzo significativo che aveva il pregio di misurarsi nel merito con gli effetti diffusi della questione meridionale senza tuttavia riuscire a invertire tendenze e comportamenti non ispirati dall’interesse generale. Un’attività di oltre tre decenni che ha così accompagnato la fase espansiva del dopoguerra italiano. A fianco della riforma agraria e della Cassa per il Mez­ zogiorno il programma riformista del quadripartito (la De con i Partiti laici repubblicano, liberale e socialdemocratico) poggia su altri campi, o settori d’intervento. Meno signifi­ cativi da un punto di vista quantitativo, ma non per questo marginali nell’impostazione degasperiana. Il solo elenco offre il ventaglio delle possibili strategie d’intervento: leggi per il rimboschimento e la promozione di cantieri di lavori pubbli­ ci, la riforma fiscale proposta dal ministro Vanoni, un piano di 7 anni per la costruzione di nuovi alloggi popolari (Ina Casa)74, un intervento legislativo di sostegno e promozione dell’addestramento professionale. Un insieme di proposte che avevano come obiettivo al tempo stesso l’assorbimento di mano d’opera disoccupata e l’innalzamento graduale del livello di formazione diffusa. Nei nuovi cantieri vennero occupati tra i 100 e i 250 mila giovani, un piccolo segmento entrava così nel mondo del lavoro. Poco si fece rispetto a quanto sarebbe stato necessario e auspicabile. Tuttavia la carica riformista del primo tratto di strada della Repubblica rimane un punto fermo, un approccio unico e per molti versi irripetibile. La cifra che lo distingue e lo qualifica, persino al di là degli esiti insoddisfacenti, è data dall’incontro positivo, dalla sinergia tra le spinte del Piano Marshall (le linee di spesa e di intervento concordate dell’European Recovery Program) e le capacità della classe

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dirigente italiana nell’individuare priorità d’intervento e stru­ menti legislativi. La nuova architettura politica e istituzionale veniva così messa alla prova sul terreno delle competenze e delle priorità individuabili. Gli anni del centrismo degasperiano sono attraversati da una diffusa conflittualità sociale, spesso di origine contadina legata alle espropriazioni di terre realizzate o minacciate. Un conflitto mai sopito che mette di fronte proprietari agrari e contadini alla ricerca di condizioni di vita e di lavoro migliori. Il ruolo del governo non è neutro. Mentre si compiono i primi passi che porteranno alla riforma agraria, lo scontro di classe non viene ammesso o tollerato, la stabilizzazione moderata passa per la capacità di gestire e governare la radicalizzazione. Oltre ai contadini sono settori di classe operaia che si mobilitano in nome di una redistribuzione di reddito e di lavoro. Casi emblematici che richiamano una conflittualità più diffusa. A Melissa, in Calabria, alla fine di ottobre 1949 l’occupazione di terre da parte di nuclei contadini sfocia in uno scontro con le forze dell’ordine. Il bilancio è di tre morti (due giovani e una donna) e di numerosi feriti. In breve diventa un episodio simbolo della difficile combinazione tra aspirazioni, ambizioni diffuse e rapporti di forza. Il mondo contadino protagonista di una riforma profonda della proprietà terriera rimane una controparte, nel migliore dei casi un interlocutore privilegiato. Da un altro punto di osservazione le logiché e le finalità dei proprietari terrieri non vengono scalfite dalle nuove iniziative legislative. L’esecutivo non esita a schierare le forze dell’ordine a difesa del sistema e delle sue prerogative. Pochi mesi dopo, all’inizio del nuovo anno una manifestazione di protesta nei pressi delle Fonderie Riunite di Modena mette di fronte forze dell’ordine e classe operaia. Un forte taglio di mano d’opera aveva portato a scioperi e serrate. Dopo quasi un mese di chiu­ sura la fonderia riprende l’attività a ranghi ridotti. Anche in questo caso lo scontro finisce nel peggiore dei modi: sei morti tra i dimostranti, una prova di forza che il governo sceglie di arginare e reprimere con durezza. Le cifre aiutano a ricostruire il clima del conflitto sociale che attraversa gli anni della ricostruzione: oltre 3 mila feriti e più di 92 mila fermati nel periodo considerato. Nel 1947 i lavoratori caduti erano stati 14, due di più l’anno successivo e ancora 15 nel 1949 e 17 nel 1950. Un clima pesante cupo,

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segnato dalle dinamiche di uno scontro tra opposti convinci­ menti: da una parte le forze dell’ordine, dall’altra contadini e operai sostenuti dalle organizzazioni politiche e sindacali della sinistra. I verbali del Consiglio dei ministri del tempo sono lo specchio di una contrapposizione frontale tra posizioni non conciliabili75. Si delinea una contraddizione non incidentale. Da un lato i propositi di una democrazia partecipata e consensuale: l’idea che si possa (e per molti si debba) uscire dalle strettoie della guerra rafforzando le basi di partecipazione, rilanciando le strategie d’inclusione alla cittadinanza e affrontando alcuni grandi, problemi (le tare storiche) che avevano caratterizzato le fasi precedenti del processo di nazionalizzazione. Il bagaglio riformista affonda le radici in queste convinzioni, nell’idea che solo le democrazie irrobustite dalle sfide del tempo possano farcela, trovare un posto nel costituendo sistema internaziona­ le. Ma dall’altra parte si muovono e si organizzano ostacoli e convinzioni che si frappongono, comportamenti che spingono verso direzioni opposte: il ricorso allo scontro per reprimere le istanze sociali, la difficoltà a modificare rapporti di forza e relazioni tra ceti emergenti e poteri consolidati. E uno spazio stretto che permette al nuovo sistema politico di fare i primi passi senza smarrire una direzione di marcia e mantenendo i tratti di fragilità, debolezza, incompletezza che ne condizio­ neranno il cammino. Una democrazia difficile, come verrà in seguito definita da un protagonista come Aldo Moro, esposta ai venti della conflittualità, protetta, sofferente o fragile, inca­ pace di rafforzare un processo di riforme necessario e urgente. La proposta politica di De Gasperi - per dirlo con le parole di uno storico come Pietro Scoppola - è figlia di tale frangente, tiene insieme le spinte al cambiamento e alle riforme con le paure sul controllo degli esiti di conflitti e lacerazioni76. È una proposta complessa che si basa su un «partito della nazione», la Democrazia cristiana (persino l’associazione dei due termini porta il segno della discontinuità difficile) che in nome della sua forza politica ed elettorale tenta di diventare una sorta di garanzia di pluralismo culturale, politico e confessionale (sul modello del cattolicesimo tedesco)77 come base della convi­ venza tra italiani. Un patto non scritto fondato sull’assunzione di responsabilità storiche e sulla possibilità di consolidare un terreno comune d’intesa e collaborazione. Un partito politico

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come parte di una collettività, espressione di convincimenti e opinioni. De Gasperi tiene a bada le spinte verso destra; emblematica in tal senso la vicenda dell’operazione Sturzo nelle elezioni comunali di Roma del 1952 quando si affaccia la possibilità di consolidare un blocco di destre alternative al centrosinistra sostenuto dal Vaticano che non convince il leader democristiano78. La De rimane nel solco dell’ispirazione inizia­ le, dal centro cammina verso sinistra cercando interlocutori e compagni di strada tentando contestualmente di controllare e governare le spinte all’autosufficienza, a fare da soli come se potesse reggere, sul grande consenso del 1948, l’insieme del sistema politico repubblicano. Il tempo è quello dei partiti di massa con milioni d’iscritti, centinaia di migliaia di militanti di ogni età e diversa estrazione sociale, distribuiti in modo uniforme sul territorio nazionale. Partiti e strutture collaterali che fungono da cinghie di tra­ smissione: organizzazioni giovanili e femminili, associazioni ricreative per lo sport e il tempo libero, forme sindacali di difesa d’interessi del lavoro. Una società composita segnata dalla ricerca del consenso, ogni parte si dota di strumenti antichi e nuovi: mezzi di comunicazione, quotidiani, periodici, forme stabili di propaganda legata alla politica. Il Parlamento ha una centralità riconosciuta e condivisa, raccoglie e rappresenta ciò che si muove nella società. L’ulti­ ma fase della vita di De Gasperi è consegnata al tentativo di modificare la legge elettorale, intervenendo sul rapporto tra voti espressi e rappresentanza parlamentare. Una pagina molto discussa e significativa che evidenzia una delle caratteristiche distintive del dopoguerra italiano: la laboriosa costruzione di maggioranze parlamentari nel quadro della Repubblica dei partiti. Dopo la morte di Stalin nel 1953, De Gasperi tenta di rafforzare la maggioranza che ha costruito e difeso. La proposta di legge, la «legge truffa» per i suoi oppositori, aveva l’obiettivo di rafforzare l’esecutivo intervenendo sostan­ zialmente negli equilibri tra i poteri dello Stato79. La riforma avrebbe consegnato un significativo 65% dei seggi alla Camera dei deputati per la coalizione che preventivamente costituita avesse raggiunto il 50% più uno dei voti validi. Un premio forte, con una soglia molta alta. Forse troppo alta per poter consolidare un consenso necessario e al contrario così alta da motivare reazioni contrarie di segno e finalità diverse. Un

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fronte che si compatta per rifiutare un’innovazione così ardita. Il premio alla fine non scattò nelle elezioni del 1953 per una manciata di voti, ma le ragioni di quella proposta, i contenuti di quella sconfitta non si esauriscono con il venir meno del dibattito sulla legge elettorale. De Gasperi voleva rafforzare l’area della governabilità, sottrarre spazio tanto alle sinistre contenendole, quanto ai rigurgiti di destra che animano settori non marginali del mondo cattolico. Tuttavia, quella soglia così alta monopolizza il confronto sui rischi di un’accentuazione eccessiva del ruolo della De (da maggioranza relativa a maggio­ ranza assoluta), sui pericoli che una maggioranza parlamentare del 65 % potesse raggiungere il quorum per proporre riforme costituzionali senza garanzie o vincoli. Per il proponente una sconfitta rotonda in tutti i sensi, un progressivo allontanarsi dall’ispirazione originaria del centrismo che dopo il 1953 diven­ ta prevalentemente una formula di sopravvivenza di equilibri e rendite di posizione. Ma rimangono intatti i termini delle debolezze strutturali da cui muovevano quelle proposte: un esecutivo incapace di intervenire, spesso in balia di maggioranze variabili o di veti incrociati di correnti o componenti interne alle forze politiche, in secondo luogo l’affermarsi progressivo del «governo ai margini», l’estendersi della prassi dell’utilizzo del potere ai fini del consenso elettorale. Un sistema di potere che si delinea progressivamente, un impianto che punterà in breve a una vera e propria occupazione delle istituzioni in grado di offrire ai partiti prospettive e finalità allora sconosciute. Con il tramonto dell’equilibrio centrista vengono meno certezze e rassicurazioni. Anche chi osserva la Repubblica dall’esterno si domanda cosa potrà succedere, quali nuovi equilibri potranno venire avanti. La fine delle certezze è un segno dei tempi, l’inizio di una fase di cambiamento e tra­ sformazione tanto nella politica quanto nelle dinamiche della società italiana. In pochi anni nulla sarà più come prima. Note al capitolo primo 1 G. Bottai, Diario 1935-1944, a cura di G.B. Guerri, Milano, Rizzoli, 1989, p. 228. 2 A. Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1942 al 1992, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 7-9.

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3 T. Judt, Dopoguerra. Come è cambiata l’Europa dal 1945 a oggi, Milano, Mondadori, 2007. 4 P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Torino, Einaudi, 1989, p. 6. 5 N. Lewis, Napoli ’44, Milano, Adelphi, 1998, p. 13. 6 C. Pavone, La mia Resistenza. Memorie di una giovinezza, Roma, Donzelli, 2015, p. 16. 7 G. Crainz, L’ombra della guerra. Il 1945, l’Italia, Roma, Donzelli, 2007, p. 13. 8 G. Hammermann, Gli internati militari italiani in Germania. 19431945, Bologna, Il Mulino, 2004; C. Brezzi (a cura di), Né eroi, né martiri, soltanto soldati. La Divisione «Acqui» a Cefalonia e Corfù settembre 1943, Bologna, Il Mulino, 2014; E. Aga Rossi, Cefalonia. La resistenza, l’eccidio, il mito, Bologna, Il Mulino, 2016; M. De Paolis e I. Insolvibile, Cefalonia. Il processo, la storia, i documenti, Roma, Viella, 2017. 9 E. Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L"'armistizio italiano del set­ tembre 1943 e le sue conseguenze, Bologna, Il Mulino, 2003. 10 R. Battaglia, Un uomo, un partigiano, Torino, Einaudi, 2004, p. 165. 11 P. Scoppola, 25 aprile. Liberazione, Torino, Einaudi, 1995; Id., La Costituzione contesa, Torino, Einaudi, 1998. 12 Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico 1945-1996, cit. 13 C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Re­ sistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991. 14 P. Pombeni, La Costituente. Un problema storico-politico, Bologna, Il Mulino, 1995. 15 P. Farneti, Sistema politico e società civile. Saggi di teoria e ricerca politica, Torino, Giappichelli, 1971. 16 Cfr. E. Di Nolfo, La Repubblica delle speranze e degli inganni. L’Ita­ lia dalla caduta del fascismo al crollo della Democrazia cristiana, Firenze, Ponte alle Grazie, 1996; Id., Gli alleati e la questione istituzionale in Italia, 1941-1946, in «Quaderni costituzionali», 2, 1997, pp. 211-246; U. Gen­ tiioni Silveri, Il passaggio istituzionale nella documentazione alleata, in G. Monina (a cura di), 1945-1946. Le origini della Repubblica, voi. I, Contesto internazionale e aspetti della transizione, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007, pp. 99-117. 17 I. Bonomi, Diario di un anno (2 giugno 1943-10 giugno 1944), Roma, Castelvecchi, 2014. 18 L. Polese Remaggi, La nazione perduta. Ferruccio Farri nel Novecento italiano, Bologna, Il Mulino, 2004. 19 P. Dogliani e M. Ridolfi (a cura di), 1946. I comuni al voto. Elezioni amministrative, partecipazione delle donne, Imola, La Mandragora, 2007. 20 Circa 650.000 milanesi hanno votato in ordine perfetto, in «Il Corriere d’informazione», 8-9 aprile 1946, ora in P. Gabrielli, Il 1946, le donne, la Repubblica, Roma, Donzelli, 2009, p. 135.

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21 Non un solo incidente nelle 898 sezioni milanesi, in «Il Nuovo Cor­ riere della Sera», 3-4 giugno 1946, ora in Gabrielli, Il 1946, le donne, la Repubblica, cit., p. 152. 22 Gabrielli, Il 1946, le donne, la Repubblica, cit., pp. 93-147; Id., Il primo voto: elettrici ed elette, Roma, Castelvecchi, 2016. 23 N. Bobbio, Autogoverno e libertà politica (1946), in Id., Tra due Repubbliche. Alle origini della democrazia italiana, Roma, Donzelli, 1996, pp. 105-106. 24 Gentiioni Silveri, Il passaggio istituzionale nella documentazione alleata, cit., pp. 109-111. 25 S. Colarizi, Storia politica della Repubblica. Partiti, movimenti e isti­ tuzioni. 1943-2006, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 42-46. 26 Su questo si veda S. Lanaro, Una istituzione super partes? Il ruolo della Corona nella politica italiana, in «Cheiron. Materiali e strumenti di aggiornamento storiografico», 25-26, a cura di F. Mazzonis, La Monarchia nella storia dell’Italia unita. Problematiche ed esemplificazioni, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 19-40; F. Mazzonis, Monarchia, in Dizionario storico dell’Italia unita, a cura di B. Bongiovanni e N. Tranfaglia, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 622-631. 27 F. Lucifero, I!ultimo re. I diari del ministro della Reai Casa 1944-1946, a cura di A. Lucifero e F. Perfetti, Milano, Mondadori, 2002. 28 Gentiioni Silveri, Il passaggio istituzionale nella documentazione alleata, cit., p. 115. 29 P. Calamandrei, Miracolo della ragione, in «Il Nuovo Corriere della Sera», 9 giugno 1946; la citazione anche in Gabrielli, Il 1946, le donne, la Repubblica, cit., p. 25. 30 Cfr. A. Ventrone, La cittadinanza repubblicana. Torma-partito e identità nazionale alle origini della democrazia italiana (1943-1948), Bologna, Il Mulino, 1996; P. Scoppola, Lezioni sul Novecento, a cura di U. Gentiioni Silveri, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 23-44. 31 M. Salvati, Moro e la nascita della democrazia repubblicana, in R. Moro e D. Mezzana (a cura di), Una vita, un paese. Aldo Moro e l’Italia del Nove­ cento, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014, pp. 33-55, la citazione a p. 43. 32 N. Bobbio, Diritto e Stato negli scritti giovanili, in Cultura e politica nell’esperienza di Aldo Moro, a cura di P. Scaramozzino, Quaderni della rivista «Il Politico», Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Pavia, Milano, Giuffrè, 1982, p. 6; anche in Salvati, Moro e la nascita della de­ mocrazia repubblicana, cit., pp. 42-43. 33 Su questi aspetti si veda G. Crainz, Storia della Repubblica. L’Italia dalla liberazione ad oggi, Roma, Donzelli, 2016, pp. VII-VIII. 34 «Compromesso significa risoluzione di un conflitto mediante una nor­ ma che non è totalmente conforme agli interessi di una parte, né totalmente contraria agli interessi dell’altra, esso rientra pertanto nella natura stessa della democrazia» secondo la lettura critica proposta da Hans Kelsen, la citazione in L. Carlassare, Nel segno della Costituzione. La nostra carta per il futuro, Milano, Feltrinelli, 2012, p. 25. ‘

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55 F. De Felice, La questione della nazione repubblicana, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 41-153. 36 G. Formigoni, Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), Bologna, Il Mulino, 2016. 37 Su questo Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico 1945-1996, cit., pp. 197-207. 38 Judt, Dopoguerra. Come è cambiata l’Europa dal 1945 a oggi, cit., pp. 19-81; I. Buruma, Il prezzo della colpa. Germania e Giappone: il passato che non passa, Milano, Garzanti, 1994; Id., Anno zero. Una storia del 1945, Milano, Mondadori, 2015. 39 Discorso tenuto il 5 marzo 1946 presso il Westminster College di Fulton, Missouri (Lisa). Sulle dinamiche della guerra fredda cfr. R. Crockatt, Cinquant’anni di guerra fredda, Roma, Salerno Editrice, 1997; B. Bongiovanni, Storia della guerra fredda, Roma-Bari, Laterza, 2001; F. Romero, Storia della guerra fredda. Uultimo conflitto per l’Europa, Torino, Einaudi, 2009; J.L. Harper, La Guerra fredda. Storia di un mondo in bilico, Bologna, Il Mulino, 2013; J.L. Gaddis, La guerra fredda, Milano, Mondadori, 2017. 40 M. Gilbert, Churchill. La vita politica e privata, Milano, Mondadori, 2014; E. Ragionieri, Churchill, Palermo, Sellerio, 2002. 41 Cfr. F. Romero, Gli Stati Uniti in Italia: il Piano Marshall e il Patto atlantico, in Storia dell’Italia repubblicana, voi. 1, La costruzione della de­ mocrazia. Dalla caduta del fascismo agli anni Cinquanta, Torino, Einaudi, 1994, pp. 231-289. 42 A. De Gasperi, Il ritorno alla pace, Roma, Edizioni Cinque Lune, 1977, pp. 165-166; M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, 1866-2006, Bologna, Il Mulino, 2007; S. Lorenzini, L'Italia e il trattato di pace del 1947, Bologna, Il Mulino, 2007. 43 P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, Bologna, Il Mulino, 1977; P. Craveri, De Gasperi, Bologna, Il Mulino, 2006; P. Pombeni, Il primo De Gasperi. La formazione di un leader politico, Bologna, Il Mulino, 2007; P. Acanfora, Miti e ideologia nella politica estera De. Nazione, Europa e Comunità atlantica (1943-1954), Bologna, Il Mulino, 2013. 44 De Gasperi, Il ritorno alla pace, cit., p. 166. 45 A. Giovagnoli, La Repubblica degli italiani. 1946-2016, Roma-Bari, Laterza, 2016, pp. 32-35. 46 De Gasperi, Il ritorno alla pace, cit., p. 181. 47 G. Formigoni, La Democrazia cristiana e l’alleanza occidentale (19431953), Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 117-152; M. Del Pero, L’alleato scomodo. Gli Usa e la De negli anni del centrismo (1948-1955), Roma, Carocci, 2001, pp. 17-25. 48 G. Mammarella, L’Italia contemporanea (1943-1989), Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 107-120; P. Soddu, La via italiana alla democrazia. Storia della Repubblica 1946-2013, Roma-Bari, Laterza, 2017, pp. 74-78. 49 Cfr. G. Crainz, Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Euro­ pa, Roma, Donzelli, 2005; R. Pupo, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Milano, Rizzoli, 2005; Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, 1866-2006, cit.

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50 Una ricostruzione in R. Pupo, Trieste '45, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 279-318. 51 E. Sestan, "Venezia Giulia. Lineamenti di una storia etnica e culturale, Roma, Edizioni Italiane, 1947, p. 124, in Crainz, Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa, cit., pp. 11-12. 52 Su questi aspetti cfr. A. Varsori, L’Italia nelle relazioni internazionali, 1943-1992, Roma-Bari, Laterza, 1998; F. Romero e A. Varsori (a cura di), Nazione. Interdipendenza, integrazione. Le relazioni internazionali dell’Italia, Roma, Carocci, 2006; R. Gualtieri, Nazionale e internazionale nell’Italia del dopoguerra, in S. Pons (a cura di), Novecento italiano, Roma, Carocci, 2000, pp. 229-256; la chiave interpretativa di Formigoni, Storia d’Italia nella guerra fredda, cit., pp. 9-21. 53 Cfr. D. Preda, Alcide De Gasperi federalista europeo, Bologna, Il Mulino, 2004. 54 Su questo, C.S. Maier, Leviatano 2.0. La costruzione dello stato mo­ derno, Torino, Einaudi, 2018, pp. 211-306. 55 M. Del Pero, Dalleato scomodo. Gli Usa e la De negli anni del cen­ trismo (1948-1955), Roma, Carocci, 2001; C. Spagnolo, La stabilizzazione incompiuta. Il Piano Marshall in Italia (1947-1952), Roma, Carocci, 2001; E. Bernardi, La riforma agraria in Italia e gli Stati Uniti. Guerra fredda, Piano Marshall e interventi per il Mezzogiorno negli anni del centrismo degasperiano, Bologna, Il Mulino, 2006; W.I. Hitchcock, The Marshall Pian and thè Creation of thè West, in The Cambridge History of thè Cold War, voi. I, Origins, a cura di M.P. Leffler e O.A. Westad, Cambridge, Cambridge University Press, 2010, pp. 154-174; B. Steil, Il Piano Marshall. Alle origini della guerra fredda, Roma, Donzelli, 2018. 56 Su queste tematiche cfr. F. Barbagallo, La questione italiana. Il Nord e il Sud dal 1860 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2017. 57 H. Woeller, I conti con il fascismo. Depurazione in Italia 1943-1948, Bologna, Il Mulino, 2008; M. Salvati, Cittadini e governanti. La leadership nella storia dellTtalia contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 1997. 58 Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico 1945-1996, cit., p. 539. 59 Cfr. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, cit.; Craveri, De Gasperi, cit.; Pombeni, Il primo De Gasperi. La formazione di un leader politico, cit.; G. Tognon (a cura di), Su De Gasperi. Dieci lezioni di storia e di politica, Trento, FBK Press, 2013. 60 P. Scoppola, De Gasperi fra passato e presente, in Tognon (a cura di), Su De Gasperi. Dieci lezioni di storia e di politica, cit., p. 19. 61 Acute riflessioni in E. Gentile, Né stato né nazione. Italiani senza meta, Roma-Bari, Laterza, 2010. 62 P. Craveri, Enrico De Nicola, in S. Cassese, G. Galasso e A. Melloni (a cura di), I presidenti della Repubblica. Il Capo dello Stato e il Quirinale nella storia della democrazia italiana, Bologna, Il Mulino, 2018, voi. I, pp. 89-116; G. Tognon, Alcide De Gasperi, in Cassese, Galasso e Melloni (a cura di), I presidenti della Repubblica. Il Capo dello Stato e il Quirinale nella storia della democrazia italiana, cit., voi. I, pp. 59-88.

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63 Alla vigilia della consultazione popolare. Un’intervista con De Gasperi, in «Il Messaggero», 17 aprile 1948. 64 Romero, Storia della guerra fredda. Uultimo conflitto per l’Europa, cit., pp. 17-72. 63 Sulla figura e il pensiero di Einaudi cfr. N. Acocella (a cura di), Luigi Einaudi: studioso, statista, governatore, Roma, Carocci, 2010; A. Viarengo, Luigi Einaudi, in Cassese, Galasso e Melloni (a cura di), I presidenti della Repubblica. Il Capo dello Stato e il Quirinale nella storia della democrazia italiana, cit., voi. I, pp. 117-158. 66 G. Caredda, Governo e opposizione nell’Italia del dopoguerra 19471960, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 57-69; A. Agosti, Togliatti, Torino, Utet, 1996, pp. 359-364; G. Fiocco, Togliatti, il realismo della politica. Una biografia, Roma, Carocci, 2018, pp. 217-223. 67 G.F. Kennan, The Kennan Diaries, New York-London, W.W. Norton & Company, 2014. 68 C. Pavone, Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Torino, Bollati Boringhieri, 1995. 69 Su questi aspetti si veda Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1942 al 1992, cit., pp. 163-172. 70 G. Verucci, La Chiesa cattolica in Italia dall’Unità ad oggi, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 67-77; F. Traniello, Città dell’uomo. Cattolici, partito e stato nella storia d’Italia, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 279-332; G. Miccoli, Fra mito della cristianità e secolarizzazione. Studi sul rapporto Chiesa-società nell’età contemporanea, Torino, Marietti, 1985, pp. 356-361. 71 U. De Siervo, S. Guerrieri e A. Varsori (a cura di), La prima legisla­ tura repubblicana. Continuità e discontinuità nell’azione delle istituzioni, 2 voli., Roma, Carocci, 2004. 72 Crainz, Storia della Repubblica. L’Italia dalla liberazione ad oggi, cit., pp. 57-66. 73 Per uno sguardo d’insieme sulla vicenda della Cassa e sull’intervento straordinario cfr. S. Cafiero, Storia dell’intervento straordinario nel Mezzo­ giorno (1950-1993), Manduria, Lacaita, 2000; G. Pescatore, La Cassa per il Mezzogiorno. Un’esperienza italiana per lo sviluppo, Bologna, Il Mulino, 2008; A. Lepore, E. Felice e S. Palermo (a cura di), La convergenza possibile. Strategie e strumenti della Cassa per il Mezzogiorno nel secondo Novecento, Bologna, Il Mulino, 2015; A. Lepore, Cassa per il Mezzogiorno e politiche per lo sviluppo, in Svimez, 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud. 1861-2011, Bologna, Il Mulino, 2015, pp. 123-165; Id., Il divario tra il Nord e il Sud dal dopoguerra a oggi, in Mezzogiorno protagonista: missione possibile (Atti del Convegno di Matera, 5 giugno 2017), Roma, Presidenza del Consiglio dei ministri, 2017, pp. 19-75; L. Scoppola Iacopini, La Cassa per il Mezzogiorno e la politica 1950-1986, Roma-Bari, Laterza, 2018. 74 Fanfani e la casa. Gli anni Cinquanta e il modello italiano di welfare state. Il piano Ina-Casa, a cura dell’Istituto Luigi Sturzo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002. 75 Cfr. Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1942 al 1992, cit., pp. 199-129; Crainz, Storia della Repubblica. L’Italia dalla liberazione ad oggi, cit., pp. 51-56.

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76 Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, cit., pp. 5-23. 77 Giovagnoli, La Repubblica degli italiani. 1946-2016, cit., pp. 3-26. 78 A. D’Angelo, De Gasperile Destre e l’«operazione Sturzo». Voto amministrativo del 1952 e progetti di riforma elettorale, Roma, Studienti, 2002; A. Riccardi, Il «partito romano». Politica italiana, Chiesa cattolica e Curia romana da Pio XII a Paolo VI, Brescia, Morcelliana, 2007. 79 Diversi approcci interpretativi in Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico 1945-1996, cit., pp. 263-274; G. Quagliariello, La legge elettorale del 1953, Bologna, Il Mulino, 2003; M.S. Piretti, La legge truffa. Il fallimento dell’ingegneria politica, Bologna, Il Mulino, 2003.

Capitolo secondo

Le ragioni di un miracolo

1. Dentro l’età dell’oro L’uscita dall’emergenza della ricostruzione non è immediata né casuale. Un itinerario complesso e inatteso lega le sorti della giovane Repubblica alle dinamiche dell’Occidente, a una parte del pianeta beneficiaria di congiunture e scelte che ne cambiano radicalmente il volto. Una discontinuità profonda, un miracolo diffuso se si paragona il punto di arrivo alle dif­ ficoltà che lo precedono. Un miracolo economico che merita di essere scomposto e analizzato: la dimensione interna fissata dalle cifre del cambiamento di un paese uscito dal conflitto; lo spazio internazionale che amplifica e motiva le ragioni della rottura in un’area vasta attraversata dalle trasformazioni dell’età dell’oro1. In pochi anni in tanti passano dalla paura alla speranza, dalla miseria al benessere, dall’arretratezza allo sviluppo. Com’è stato possibile? E soprattutto quali elementi aiutano a comprendere il senso più profondo di una trasformazione radicale nel passaggio alla modernità di milioni di uomini e donne che erano rimasti ai margini, esclusi o dimenticati? Il termine «miracolo» rischia di portare fuori strada, in un contesto che non corrisponde alla profondità dei fenomeni storici. Tuttavia quel termine (abusato e riproposto in analisi successive come richiamo a un periodo florido e spensiera­ to) ha il pregio di segnalare l’eccezionaiità del momento, la vitalità di una fase che in Italia raggiunge il culmine nello scorcio finale degli anni Cinquanta, pochi anni dopo l’esaurirsi dell’equilibrio centrista. Si tratta della conferma evidente della connessione che lega e condiziona zone diverse del mondo accomunate dalla presenza di fattori e politiche capaci di de­ finirne lo sviluppo. Il quadro della guerra fredda si rafforza,

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trovano conferme linguaggi e contrapposizioni sistemiche. Ma la paura dello scontro tra i blocchi, l’incubo dell’arma atomica segna un confine non detto, una sorta di limite invalicabile che moltiplica il senso di responsabilità implicito per le sorti dell’umanità2. Se ci spostassimo di prospettiva partendo dalle macerie del 1945 le ombre che la guerra proietta sui decenni successivi sono più durevoli di quanto inizialmente si possa immaginare. L’età dell’oro nasce come conseguenza dello sviluppo del quadro internazionale, della relativa pacifica­ zione dei conflitti interni ai diversi paesi e della spinta verso la crescita economica che caratterizza e sostiene una parte costitutiva del lungo dopoguerra3. La conclusione della lunga e logorante guerra civile europea consente di sperimentare percorsi di crescita e sviluppo sconosciuti: un quadro pacifico e stabilizzato promuove opportunità e orizzonti raggiungibili. Troppo semplice accomunare situazioni e contesti, le realtà dei diversi paesi non sono facilmente assimilabili e i confini tracciati dalla guerra fredda appaiono più resistenti della con­ nessione tra economie e mondi distanti. E il sistema bipolare nel suo insieme, un sistema di precetti e comportamenti, un meccanismo di regolazione dei conflitti che permette, e in una certa misura favorisce, l’affermarsi dell’età dell’oro, il grande balzo in avanti che investe le società dell’Occidente sviluppato. La fine degli imperi coloniali facilita nuove relazioni, apre il perimetro del mercato internazionale, sollecita le possibilità di chi cerca nuove sfide, anche in spazi inesplorati o insicuri. L’impatto della crescita socializzabile e a portata di mano modifica la vita quotidiana, introduce tecnologie a uso esteso, rende la società di massa uno straordinario motore del cam­ biamento: il consumo diffuso e generalizzato coinvolge gene­ razioni diverse, paesi distanti che entrano in comunicazione, classi sociali differenti e in conflitto tra loro sorrette da una spinta inarrestabile. Alcuni fattori unificano il processo verso l’orizzonte di una dimensione internazionale piena che travalica ambiti e compatibilità dei singoli paesi. I sintomi sono chiari, utili a delineare il profilo di una discontinuità nel tracciato del dopoguerra dell’Occidente4. La centralità del dollaro come fattore di stabilità dopo che la crisi della sterlina aveva pericolosamente segnato le instabili tensioni degli anni tra le due guerre. Il sistema di Bretton Woods punta a costruire strumenti di regolazione per dirimere controversie antiche e

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per rafforzare il potere di stabilizzare il quadro del confronto Est-Ovest5.1 conflitti si snodano dentro il perimetro previsto, non alterano il ruolo delle superpotenze, facilitano la crescita e lo sviluppo di sinergie positive con altre economie nazionali. La centralità assunta così da un mercato regolato, un luogo dove possano convergere politiche diverse, istanze non facilmente compatibili. Mercati regolati segnati dalla sperimentazione di politiche attive contro la disoccupazione, ispirate dalla convin­ zione di dover ampliare le strategie inclusive: un capitalismo concertato e riformato in società complesse con la presenza di corpi intermedi, sindacati, associazioni, partiti. Interessi diversi rappresentati e organizzati tenuti insieme dalla spinta verso un nuovo orizzonte da raggiungere. La crescita non richiama esclusivamente una cifra numerica che modifica produttività e prodotto interno lordo; ben presto quella cifra diventa un segno di speranza, un’indicazione di futuro per le generazioni che sono nate dopo l’età della catastrofe, dopo le violenze e le distruzioni dei conflitti totali. Il miracolo dell’età dell’oro è soprattutto una convinzione diffusa, fino a condividere una previsione ambiziosa e coinvolgente: chi verrà dopo vivrà meglio, avrà più possibilità e mezzi, sarà integrato e protetto da relazioni e connessioni inedite. Non mancano occasioni e banchi di prova. Lo stesso passaggio delle generazioni, dai padri ai figli che oltre alla crescita vertiginosa prende il segno della fiducia verso il futuro, l’istruzione da costruire e rafforzare, l’ingresso possibile nel mondo del lavoro. Non un cambiamento di pelle superficiale, né un passaggio comodo o scontato. Il miracolo provoca una rivoluzione profonda, un punto di non ritorno che si accompagna alla sconfitta dell’emergenza: si consuma in modo inesorabile la centralità del mondo contadino, si afferma la produzione industriale consolidando processi di omologazione politica e culturale in grado di unificare e avvicinare mondi diversi. In un quadro così mutevole l’ingresso degli italiani nella modernità è attraversato da spinte diverse. Nel gennaio 1954 la televisione inizia la marcia di avvicinamento che la porterà nelle case con i primi programmi. L’avvio è lento, difficoltoso. Solo l’8% delle famiglie può disporre di elettricità, acqua corrente, servizi propri. In meno di dieci anni la cifra si quadruplica superando il 30% del totale delle abitazioni. Gli indicatori numerici sono una misura preziosa se inserita in quel conte-

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sto internazionale di crescita e sviluppo cui si è appena fatto cenno. Il consumo di carne a persona si triplica tra il 1954 e i quattordici anni successivi. Cambia la quotidianità della vita delle famiglie italiane. Nel 1958 (nel punto più alto del boom economico) la televisione ha fatto ingresso nella casa di una famiglia su dieci; due anni dopo un apparecchio ogni cinque famiglie, nel 1965 il rapporto diventa di un apparecchio ogni due nuclei familiari. L’Italia contadina, cattolica e tradizionalista è scossa nel profondo. Pio XII in un celebre messaggio insiste sulla natura contraddittoria del nuovo strumento: Spero sia un’occasione alle famiglie per rimanere unite lontano dai pericoli di compagnie e luoghi malsani. Come non inorridire - si domanda il pontefice precorrendo i tempi e le angosce di tanti - al pensiero che mediante la televisione possa introdursi tra le stesse pareti domestiche quell’atmosfera avvelenata di materialismo, di fatuità, di edonismo che troppo spesso si respira in tante sale cinematografiche?6

La trasformazione non ha limiti né approdi certi, sfugge ai controlli e alle consuetudini. I nuovi consumi si moltiplicano: frigoriferi e lavatrici diventano un acquisto diffuso, una famiglia su due per i primi, più lento l’ingresso delle seconde. Nella seconda metà degli anni Sessanta le case sono già colme di generi di consumo, oggetti, mobili in serie, elettrodomestici, apparecchi audio o video che modificano la stessa fruizione del tempo. Saltano le tradizionali divisioni tra tempo per il lavoro e tempo libero e le dimensioni dello spazio si restringono progressivamente. Ci si sposta - anche individualmente - con mezzi di trasporto che cambiano le giornate e le dinamiche di organizzazione delle famiglie. Le motociclette passano da un milione di immatricolazioni nel 1951 fino ai quasi 4 milioni e mezzo del 1963; le automobili (soprattutto le piccole utilitarie) sono meno di 2 milioni nel 1960, cinque anni dopo superano la cifra di 5 milioni e mezzo. Cambia il tempo, la percezione dello spazio, l’orizzonte delle possibilità a portata di mano: vespe, lambrette, cinquecento e seicento per muoversi, scoprire e visitare luoghi lontani, sentirsi liberi e trarre il giovamento di una vacanza di gruppo: in un decennio raddoppiano le preno­ tazioni alberghiere e si triplicano le presenze nei campeggi. Il segno della mobilità si contrappone alla statica composizione della società contadina tradizionale. In pochi anni tutto ap­

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pare in movimento in una dialettica continua tra innovazioni e conservazione tra il permanere di modelli e riferimenti o l’affermarsi di inediti processi d’innovazione7. Il cambiamento modifica la tradizionale stratificazione so­ ciale e culturale, mette in discussioni identità e appartenenze di gruppo. A partire dal 1958 il numero degli italiani impiegato nell’industria è superiore a coloro che lavorano nell’agricoltura. Un mondo inizia a declinare inesorabilmente: più di 8 milioni i contadini nel 1954, dieci anni dopo saranno 5 e nello scorcio finale del secolo poco più di un milione. Le città sono la meta di grandi spostamenti. Gli italiani che cambiano residenza da un comune all’altro sfiorano i 25 milioni (cifre inimma­ ginabili fino a poco prima), quasi 10 milioni si muovono da una regione all’altra. Mobilità in cerca di lavoro e di nuove opportunità: geografie industriali e urbane che si modellano secondo le nuove tendenze. Sistemi più complessi e articolati, segnati dall’integrazione di funzioni, servizi, bisogni emergenti. I mutamenti non hanno un confine certo e riconoscibile, toc­ cano il modo di vivere, di pensare, di studiare, di consumare, persino di sognare delle nuove generazioni d’italiani. Non si tratta della vittoria definitiva di un nuovo mondo sulla tradi­ zione stratificata della società preesistente. Al contrario i due ambiti convivono e in parte confliggono: la realizzazione di bisogni primari e antiche aspirazioni con la spinta verso nuovi orizzonti attraverso consumi inediti e opportunità sconosciute. Una dialettica irrisolvibile che si proietta sul cammino dell’Italia repubblicana condizionandone esiti e contenuti. La costruzione di identità e percorsi, lo stesso segno prevalente di una comu­ nità nazionale è il risultato del confronto continuo tra realtà e modelli di riferimento diversi. Estrazioni sociali, itinerari di formazione individuale, aree geografiche, ambiti territoriali, lasciti di culture antiche, eredità di mondi lontani diventano gli ingredienti di una complessa costruzione di strategie che tratteggiano una nuova cittadinanza repubblicana. Più che una sintesi onnicomprensiva e unificante tra la fine degli anni Cin­ quanta e il decennio successivo, il processo di nazionalizzazione tiene insieme arretratezze arcaiche e modernità, eredità del passato con fermenti rivoluzionari. L’incubazione di qualcosa che si muove, radicata nel profondo delle trasformazioni del tempo e in grado di tracciare un itinerario incerto negli esiti e negli approdi. Anche i protagonisti in cammino sono diversi,

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in tanti offrono un contributo autonomo: soggetti pubblici o istituzionali (Stato, autonomie locali, culture politiche, orga­ nizzazioni di massa) insieme ai nuovi protagonisti di primo piano: agenti acceleratori del boom, il mercato (le domande di nuovi consumi e opportunità), le comunicazioni di massa nelle forme pervasive e coinvolgenti proprie della modernità del secondo Novecento. Le cifre danno il senso della radicalità di un passaggio d’epoca, della fine di un mondo conosciuto. In un decennio, dalla metà degli anni Cinquanta, il reddito prò capite raddoppia mentre la produzione agricola viene investita da un profondo processo di meccanizzazione: riduzione del tempo di lavoro (di circa 40 volte) utilizzo di sostanze chimiche e concimi per garantire livelli di produzione e consumo. I costi ambientali saranno presto visibili e difficilmente limitabili. Il paesaggio muta, trasformato dall’irrompere di mezzi invasivi e politiche che non prevedono tutela e salvaguardia. Nello stesso arco di tempo inizia a delinearsi la nuova geografia industriale del paese, riflesso delle innovazioni del miracolo economico. Il balzo di produttività sfiora l’85%, mentre gli investimenti nel manifatturiero passano dal 4,5% al 6,3% del reddito nazionale. In pochi anni la produzione industriale italiana sale dal 9% al 12% di quella europea; il traino spetta a settori quali l’automobilistico, il chimico, il siderurgico, la meccanica. Da paese agricolo a potenza industriale in divenire mentre si riducono sensibilmente le distanze da altri paesi europei tradizionalmente più solidi e sviluppati. Il miracolo del made in Italy poggia anche sulla possibilità di un ricorso diffuso e disponibile a mano d’opera a basso costo che aumenta la competitività dei prodotti mostrando il lato strumentale di un paese povero che si mette in cammino, l’altra faccia della modernità e delle sue regole scritte o nascoste8. Un cambiamento in sintonia con la ridefinizione di assetti internazionali che lega indissolubilmente destini di economie e paesi. La mobilità diviene un tratto costitutivo, l’emigrazione aumenta dai 250 mila italiani che si muovono nel 1954 ai 380 mila dei primi anni Sessanta. Un’emigrazione composita, meno segnata dall’emergenza delle condizioni di vita. I flussi sono anche un dato interno: dalle campagne alle città, dal Sud al Nord: in cinque anni tra la fine dei Cinquanta e il decennio successivo oltre un milione di meridionali sceglie di trasferirsi nelle zone dove il miracolo sembra più convincente. Le mete

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sono le città del Centro-Nord, i nuovi quartieri industriali, gli agglomerati urbani che modificano le strutture urbanistiche dei centri abitati. A Torino ogni giorno giunge il treno del sole scaricando famiglie in cerca di lavoro, Milano cresce di 600 mila unità, Roma e Bologna di circa 400 mila. Si tratta di un flusso continuo, un viaggio di speranze e spesso di illu­ sioni: lavori sottopagati, condizioni di vita difficili, diritti non riconosciuti. Sono i volti di una modernità complessa che si muovono attraverso la penisola rafforzando i distretti indu­ striali e accrescendo sensibilmente la cifra della popolazione urbana. Mutano le campagne, le città, gli apparati produttivi e le zone agricole. Gli italiani si muovono di più con mag­ giore frequenza e velocità: si afferma il trasporto privato, nel 1958 viene inaugurato il primo tratto dell’autostrada del sole in una rete autostradale presto colma di automobili di varie cilindrate a seconda della stratificazione sociale delle famiglie italiane9. Il possesso della macchina (e di lì a poco della casa) diventa la conferma di una scalata sociale che conduce fuori dall’emergenza fin dentro le dinamiche più ambiziose dell’età dell’oro. Una spinta generale e diffusa che omologa differenze e peculiarità favorendo l’acquisto, la diffusione, la messa in mostra di nuovi beni di consumo. L’auto come un simbolo, un marchio della modernità e della sua forza e al contempo un acceleratore della dimensione di massa della società. Di con­ verso la crescita dei viaggiatori che prendono il treno è molto più contenuta (da 372 milioni nel 1959 a 385 nel 1961) poi un calo significativo fino ai 343 milioni del 1974. Gli investimenti sulla realizzazione e la manutenzione della rete stradale sono molto più cospicui e continui di quelli destinati alle strade ferrate. Una caratteristica che affonda le radici nei caratteri costitutivi del processo di unificazione nazionale. Il trasporto su gomma si afferma come principale vettore di spostamenti privati e come canale privilegiato di vecchie e nuove attività commerciali o industriali. Il segno prevalente è quello di una modernità fragile e incerta, caratterizzata da differenze e diseguaglianze che si con­ solideranno nel corso degli anni successivi. Il ciclo economico sembra poter colmare ritardi e inadeguatezze: i tassi di crescita contribuiscono a ridurre in maniera significativa l’ammontare del debito, mentre la politica tra incertezze e divisioni tenta di indicare un cammino possibile, una direzione di marcia. Ma il

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saldo del medio periodo non corrisponde alle aspettative che attraversano l’insieme della società italiana, la dialettica tra speranze e contraddizioni s’infrange sui limiti di uno svilup­ po non guidato, per molti versi estemporaneo. Un miracolo bifronte, significativo e straordinario da un lato, insufficiente e ingiusto dall’altro. Molte aree del paese restano indietro o vengono assistite da politiche miopi ispirate dal mantenimento di consensi e relazioni10. Negli anni del boom economico la società rappresenta il principale luogo di analisi e di osservazione del cambia­ mento in atto, come si è avuto modo di vedere molti ambiti vengono coinvolti dalla profondità delle trasformazioni. Tali spinte modificano indicatori e contesti ma, al tempo stesso, contribuiscono a diffondere aspettative, richieste, desideri. La mobilità è un obiettivo comune. Mettersi in moto per al­ lontanarsi potenzialmente dalle proprie condizioni di nascita o di famiglia, puntando così verso la scalata di gradini che compongono una piramide sociale troppo statica e protetta. Si tratta di processi profondi che coinvolgono una parte signi­ ficativa dell’Occidente: la stessa qualità delle diseguaglianze muta per contenuti e aspirazioni. Il sapere diventa un bene prezioso, una straordinaria possibilità per rompere gabbie e compatibilità tra chi sa di più, chi è inserito nei circuiti della conoscenza e chi invece rimane ai margini, escluso o discri­ minato. L’accesso alla conoscenza, la diffusione di cultura in una dimensione di massa accompagna e qualifica i nuovi bisogni della società dei consumi11. I percorsi di formazione (scuola e università) vengono sottoposti a una duplice tensione: quantitativa e qualitativa. Non sono sufficienti ad accogliere le domande crescenti che attraversano settori della società investiti dal boom, come se fossero piccole scatole dove il numero di coloro che vi accedono è cresciuto a dismisura, quindi non sono in grado di contenere i nuovi studenti e gli aspiranti cittadini della nuova realtà. Su un altro versante la domanda di formazione ha anche un carattere innovativo, di apertura alla società e di accesso ai nuovi saperi. E lo spessore complessivo del miracolo, la centralità del conflitto sui saperi che sfugge a molti. Uno studioso come Silvio Lanaro ha scritto giudizi acuti sulle opportunità perdute, sulle occasioni lasciate colpevolmente senza risposte:

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Dal più al meno, in definitiva, l’Italia si trasforma in tutto, dovunque e contemporaneamente. Ma cultura e produzione intellettuale, nell’in­ sieme, sembrano percepire in modo ovattato i cambiamenti che si susse­ guono freneticamente e, comunque non ne colgono il significato epocale né predispongono gli strumenti necessari a comprenderli appieno12.

La cultura degli italiani cambia, abbraccia nuovi ceti e nuove soggettività, rimane una spia accesa sui possibili effetti della modernità in arrivo. Una dialettica tutt’altro che pacificata e scontata, la sfida sul sapere è uno dei tratti del decennio in diversi angoli del pianeta13. Se la principale forma di discriminazione e controllo passa per la distanza tra proprietari e subalterni, tra chi ha di più e chi invece recrimina per una condizione d’inferiorità misurabile su beni e proprietà acquisite, negli anni Sessanta l’accesso al sapere diventa una forma di inclusione, una strategia di citta­ dinanza, uno strumento capace di costruire diritti e poteri da difendere e implementare. Un cambiamento radicale, una nuova prospettiva figlia della diffusione di domande diverse, di sogni e possibilità per famiglie che fino a quel momento avevano un orizzonte limitato, una possibilità di realizzarsi segnata in buona parte dalle compatibilità preesistenti. La cultura permette di abbattere barriere (almeno in potenza), proietta sui figli, sulle generazioni del miracolo economico aspettative e conquiste che i genitori non hanno potuto completare o inverare. La cifra della fiducia è racchiusa in questa convinzione diffusa: credere e lavorare sulla possibilità concreta che chi viene dopo possa vivere di più e meglio di chi ha già compiuto un tratto di strada. Consegnare quindi un testimone convinti che la via maestra, la direzione di marcia di una comunità nazionale vada nella direzione dello sviluppo, della crescita, del miglioramento progressivo delle condizioni di vita. Un ottimismo esteso in una parte del mondo che è l’altra faccia della fine dell’emergenza, della sconfitta di paure e terrore. Da qui il difficile giudizio sulla modernità incompleta e incompresa. Cosa si afferma nel profondo? Si può considerare un cambiamento superficiale di paesi e culture o, al contrario l’età dell’oro riesce a penetrare nelle costanti di fondo della rinascita post-bellica? Difficile rispondere in modo univoco e onnicomprensivo. Troppo diversi i quadri nazionali coin­ volti, troppo distanti i risultati dalle aspettative che spingono

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verso nuovi orizzonti. L’Italia del miracolo diventa un paese industriale, entra nel gruppo delle potenze più avanzate. Non un passaggio incidentale o marginale; il sistema paese non cambia volto o aspetto esteriore, ma modifica la sua natura, i suoi tratti costitutivi. Tuttavia, tale rivoluzione non cancella il passato, non abolisce ritardi e sperequazioni, non si afferma sotto un’unica direttrice. Molto rimane sulla carta nei tanti libri di sogni e desideri, molto si realizza senza che si abbia la percezione e il senso della direzione di marcia. Un paese fragile, diseguale, incerto e alla ricerca di un posto nel mondo attraversato dalle tensioni di una contrapposizione bipolare che sembra affievolirsi per favorire dialogo e disten­ sione. Il legame con la porzione di mondo a noi più prossima e connessa si rafforza; il destino appare comune mentre lo spazio si restringe, le comunicazioni e i consumi di massa avvicinano mondi, iniziano a incrinare barriere e confini che sembravano immodificabili. Con i rischi di una sintesi eccessiva che non tenga conto di sfumature e distinguo il giudizio stringato di uno storico pioniere degli studi sul periodo può fissare alcuni punti fermi su una stagione così cruciale: Il miracolo italiano avviene all’interno di un processo internazionale di sviluppo, ma al suo interno assume un ritmo ancor più marcato. Le trasformazioni mutavano radicalmente il volto del paese mentre l’assetto politico che si era definito fra anni Quaranta e Cinquanta viveva una crisi evidente14.

La distanza crescente tra una società in movimento con i limiti, le difficoltà e le incongruenze di cui si è detto e una politica immobile, in difesa prolungata dell’esistente o pri­ gioniera di formule e consuetudini avrebbe presto mostrato i segni di un possibile cambiamento attraverso le dinamiche complicate dell’apertura a sinistra. 2. La stanza dei bottoni La spinta che muove dalla società trasformata dal boom economico si riflette nelle dinamiche di una stagione politica che nasce sovrapponendosi al miracolo. Non una relazione automatica né tantomeno un nesso causa-effetto. Sarebbe troppo semplice e scontato pensare che una società moderniz­

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zata porti con sé la modifica di un quadro politico apparente­ mente statico e immutabile, come se si trattasse di un’osmosi obbligata, un riscontro empirico da trasportare in un ambito distinto. Le interazioni non mancano ma la questione merita di essere scomposta e analizzata da diversi punti di vista, in particolare sotto il profilo del legame della Repubblica italiana con quella parte di mondo in cerca di modernità. E l’interesse per la nuova stagione, per un possibile equilibrio inedito del quadro politico si snoda su piani diversi, con motivazioni e ragioni che non sono sempre componibili. Vediamo il merito della questione e le sue ricadute sull’itinerario del secondo dopoguerra. Un primo aspetto riguarda la mutazione che la guerra fredda imprime alle sue componenti proprio a cavallo tra la fine dei Cinquanta e gli albori degli anni Sessanta. La contrapposizione Est-Ovest non svanisce o si ridimensiona (come molti pensavano allora o vorrebbero in seguito) ma viaggia su nuovi contenuti più articolati e sofisticati15. La lotta al pericolo rosso, alla minaccia che viene dal mondo comu­ nista raccoglie interlocutori, protagonisti e linguaggi in parte figli delle trasformazioni dell’età dell’oro. Il campo di forze si allarga, si arricchisce, prevede inediti contributi che non met­ tono in causa l’obiettivo finale (sconfiggere il nemico dall’altra parte della cortina di ferro), ma propongono nuove strategie e forme per farlo, per arrivare al traguardo vittorioso. Molti le accettano, le condividono cercano di metterle in pratica, altri invece si chiudono tentando di difendere e mantenere i vecchi schemi, le tradizionali forme della contrapposizione tra blocchi. Si apre quindi una dialettica che attraversa tutti i campi, anima un confronto tra le parti e all’interno di ogni schieramento, nessuno escluso. Un segno della modernità che diventa plurale, composita, rende difficile una sintesi univoca e onnicomprensiva attorno a riferimenti precostituiti. Anche i modelli della guerra fredda non vengono risparmiati dal vento nuovo che soffia in Occidente: conservazione contro progresso come linea di confine che attraversa perimetri e identità. Si può stare dalla stessa parte con modalità, comportamenti e intenzioni molto distanti, spesso confliggenti16. A questo livello si colloca l’analisi sulla nascita del cen­ trosinistra in Italia. Un’alleanza politica tra partiti che erano avversari fino a poco prima (la Democrazia cristiana e il Partito socialista), ma anche un incontro tra settori maggio­

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ritari del mondo cattolico e parti significative del movimento operaio. La messa in discussione delle forme di uno scontro senza mediazioni e la proposizione di qualcosa di nuovo che si appoggia su una duplice motivazione: numerica e politica. Una natura composita che qualifica la nuova alleanza e defi­ nisce sostenitori e detrattori17. Il problema di fondo investe le ragioni della collaborazione tra avversari conclamati, tra componenti contrapposte del conflitto tra comuniSmo e capi­ talismo. Se prevale la dimensione numerica la collaborazione s’immiserisce, diventando nel migliore dei casi una risposta alle debolezze endemiche del sistema politico italiano: visto che il partito più forte, quello che ha avuto la maggioranza relativa dei voti e a tratti la maggioranza dei seggi nelle due Camere non riesce da solo a garantire al sistema stabilità e certezze, allora diventa necessario cercare un allargamento che possa coinvolgere segmenti e culture di un campo avverso. In­ grandire quindi l’area di centro del sistema, stringere alleanze attorno all’indiscussa centralità della De per rispondere a un problema non rimandabile: in una Costituzione che si regge sulla centralità del Parlamento la maggioranza parlamentare che vota la fiducia all’esecutivo assume i connotati di un re­ quisito sostanziale, di una necessità stringente per garantire governabilità e permettere l’esercizio della sovranità popolare18. Ecco il discrimine rispetto al passato, il nuovo equilibrio po­ litico si pone l’ambizione di contribuire a risolvere un limite strutturale, un deficit democratico che già si era manifestato durante il tramonto annunciato del centrismo degasperiano. Al dato numerico, alla risposta misurabile in termine di voti e seggi si accompagna un giudizio politico più sofisticato e qualificante. Il nuovo equilibrio di centrosinistra risponde in coerenza e continuità alle sollecitazioni che muovono la nuova fase della guerra fredda, la costruzione di alleanze più ampie e variegate, la messa in discussione delle tradizionali apparte­ nenze. E da qui la nascita di formule più o meno fortunate: centrosinistra con o senza trattino per marcare un’area distinta o favorire l’interazione tra culture di varia origine o provenien­ za. L’apertura a sinistra indica, a seconda del contesto e del contenuto che si vuol veicolare, diversi significati: un’alleanza di governo tra partiti, una collaborazione parlamentare, un incontro tra culture politiche, una contaminazione finalizzata a obiettivi e programmi di lungo periodo. La compresenza di

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definizioni e possibilità rappresenta al tempo stesso la forza di un incontro (le potenziali ragioni che lo sostengono) e la debolezza della sua realizzazione: cosa effettivamente tiene insieme diversi protagonisti, quali le priorità, gli obiettivi, gli orizzonti di riferimento19. Vengono meno le certezze del passato, l’idea e la convin­ zione che bastasse tracciare una linea di divisione tra amici e nemici per essere al sicuro, per distinguere una volta per sempre tra avversari e compagni di strada. O di converso che fosse sufficiente riferirsi alle categorie dello scontro tra siste­ mi contrapposti e sfere d’influenza frutto della divisione del pianeta tra i vincitori del conflitto mondiale. In questo caso le alleanze costruiscono i propri strumenti politici e militari che completano e integrano la dialettica tra le parti: la Nato e il Patto di Varsavia su tutti nella difesa di sovranità e conquiste. Entra in discussione la convinzione che non si possa mutare nulla, anche il riferimento internazionale produce tensioni, attraversa segmenti significativi delle società europee che si domandano se stare da una parte o dall’altra, come collocarsi lungo il binomio della contrapposizione sistemica. La guerra di Corea rilancia le ragioni di uno scontro visibile, manifesto, forse difficile da regolare con certezza20. Si affacciano le paure di un nuovo conflitto, il terrore che gli orologi della storia possano tornare indietro; e di contro si consolida la convin­ zione di dover regolare e ordinare la contrapposizione, offrire dettami condivisi sull’architettura del sistema internazionale. La doppia faccia della guerra fredda, come sostenuto da diversi studiosi: da una parte la sfida continua dello scontro possibile, dall’altra la tessitura di un perimetro riconosciuto e riconoscibile di riferimento. Nella missione Onu che si muove verso la penisola coreana è presente un piccolo contingente italiano, inserito nella di­ mensione multinazionale dell’iniziativa. Una proiezione diretta nel quadro delle Nazioni Unite come conferma della presenza in un sistema di regole, organismi e poteri che mettono in discussione le tradizionali sfere di competenza ed esercizio della sovranità. Un cammino che accompagna e sostiene il dopoguerra della Repubblica. Il centrosinistra presenta una dimensione che va al di là dell’incontro tra i partiti. Si colloca al crocevia di trasforma­ zioni internazionali e debolezze del sistema politico italiano.

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Ha inizio lentamente in concomitanza con il tramonto del vecchio equilibrio centrista, ma la sua periodizzazione è incer­ ta, contraddittoria, segnata dagli alti e bassi della collabora­ zione di governo. Il segno della stagione si proietta in avanti dalla metà degli anni Cinquanta, difficile individuare il mo­ mento conclusivo. Posizioni distanti fino ad arrivare a chi ha persino sostenuto che in fondo il centrosinistra rappresenti una sorta di biografia non detta della Repubblica, una tenden­ za continua e prolungata a far incontrare partiti e culture di tale collocazione e provenienza21. Non è una trovata estempo­ ranea o una battuta; il sistema politico si tutela e si rinnova aggregando al centro un’area, un campo di forze variabili appoggiato sul ruolo insostituibile del partito di maggioranza relativa22. In questo contesto si sovrappongono priorità nume­ rica (la costruzione faticosa di una maggioranza parlamentare) con letture politiche di lungo corso (aggregare al centro signi­ fica implicitamente escludere le estreme dalla contesa per il governo). Il dato più rilevante investe l’assenza di una dialet­ tica fisiologica tra maggioranza e opposizione, anche al di là dei contenuti della Carta costituzionale. Una sorta di costitu­ zione materiale che delimita il perimetro della contendibilità del potere esecutivo, esclude di riflesso parti del Parlamento (e del paese quindi) che non sono conciliabili con la colloca­ zione internazionale e la stabilità interna23. Una rappresentan­ za politica condizionata dal quadro delle compatibilità inter­ nazionali oltre che dall’evoluzione stessa delle posizioni dei singoli partiti. Quando i due piani si muovono contestualmen­ te entrando in fibrillazione sollecitati da eventi e trasformazio­ ni, allora l’equilibrio complessivo viene a mancare, comincia a vacillare per essere successivamente ritrovato e ridefinito con nuovi rapporti di forza. Il 1956 è uno degli anni simbolo del Novecento: simulta­ neità degli eventi, profondità dei processi, ampliamento degli orizzonti di riferimento (globalizzazione per usare un termine abusato ma in questo caso utile), una cesura che accompagna il dispiegarsi della storia, intramezzata da una serie di momenti ed eventi che turbano l’equilibrio internazionale e la dinamica geopolitica di importanti regioni del pianeta24. Un anno di svolta o di crisi, breve, indimenticabile, straor­ dinario: le definizioni stratificate da memorie di protagonisti non mancano. Il punto dirimente riguarda il superamento e

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la conseguente messa in discussione di una doppia barriera: quella tra Est e Ovest, entrambi attraversati da eventi di cambiamento spesso in comunicazione oltre i muri e quella interna ai singoli paesi, quell’equilibrio non scritto che aveva plasmato appartenenze, culture, identità. Diversi angoli del pianeta sono caratterizzati da una serie di cesure che modifi­ cano il quadro esistente. Basta richiamarle in successione per cogliere la portata della discontinuità. Alla fine di febbraio dalla tribuna del X X Congresso del Pcus, Nikita Chruscèv, mette in discussione la figura di Stalin attaccando il culto della personalità e mostrando in un rapporto inizialmente segreto i crimini efferati di un’intera stagione. Il rapporto esce dai confini sovietici e con varie peripezie giunge sulle pagine di quotidiani o periodici di mezzo mondo. Iniziano a vacillare false convinzioni e messaggi di propaganda: il vertice del bloc­ co sovietico è il principale indiziato25. Alla fine di giugno una prima rivolta scuote la Polonia: moti insurrezionali e un nuovo leader politico riformatore, Wladyslaw Gomulka, che viene riconosciuto dal nuovo corso sovietico. Resterà al potere fino al 1970. Nel mese di ottobre dal Cremlino era stata paventata la possibilità di intervenire militarmente. Nei giorni dell’Ottobre polacco il vento del cambiamento mette in discussione la lealtà a Mosca dell’Ungheria comunista. Imre Nagy presidente del Consiglio annuncia la fine del modello monopartitico, proclama l’uscita del paese dal Patto di Varsavia e indica la strada di una possibile neutralità internazionale: né con Mosca né con Washington. L’effetto immediato di una rottura si diffonde repentinamente. La repressione a Budapest è feroce, il blocco comunista serra le fila mentre il resto del mondo condanna l’ingresso dei carri armati sovietici nella capitale ungherese. Il volto del terrore ripristina ordine e disciplina dove si ma­ nifestano diritti e libertà. Le speranze di tanti, anche lontani da quegli eventi, s’infrangono nella violenza del più forte che schiaccia gli insorti. L’Onu condanna l’intervento sovietico, Pietro Nenni leader del Partito socialista italiano restituisce il Premio Stalin che aveva ricevuto nel 1953. Il terremoto arriva nel cuore della sinistra italiana. «l’Unità» quotidiano del Partito comunista difende la reazione sovietica: si può stare da una parte sola della barricata, a fianco di chi dirige il movimento comunista internazionale; la rivolta ungherese viene descritta come un’insurrezione contro la rivoluzione.

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La guerra fredda miete vittime e trova consensi. La divi­ sione nel movimento operaio va in profondità: il sindacato è con gli insorti, oltre cento intellettuali escono polemici dal Pei. Non si può stare solo da una parte, la barricata non corrispon­ de a un mondo complesso e articolato. Si possono prendere le distanze, per molti è necessario farlo prima che sia troppo tardi. Il volto del modello di riferimento, della spinta rivolu­ zionaria che viene dal 1917 non è sostenibile, presentabile, adeguato26. Giornate convulse che si sovrappongono a una crisi medio­ rientale, la seconda guerra arabo-israeliana. Il 1956 modifica e stravolge (almeno in parte) i rapporti tra i blocchi. Oltre al X X Congresso, alle vicende che scuotono Polonia e Ungheria, la crisi del canale di Suez si manifesta nelle stesse giornate della rivolta di Budapest. Il tempo non è una variabile da sottovalutare, pur non essendoci automatismi o reazioni a catena tra un evento e l’altro. La crisi di Suez è una coda del crollo del dominio coloniale (Francia e Gran Bretagna) nella regione che accentua l’interesse delle due superpotenze per lo scacchiere mediorientale. La nazionalizzazione tentata del canale apre la via alle ostilità: il conflitto tra Egitto e Israele coinvolge i protagonisti del mondo bipolare. Tutto si con­ centra in pochi giorni, a fine ottobre: l’attacco israeliano con l’ingresso nel Sinai, il successivo ultimatum anglo-francese, mentre il 31 ottobre l’Urss decide d’intervenire in Ungheria e di conseguenza Chruscév informa cinesi e jugoslavi della de­ cisione irreversibile. E probabile che gli echi di Suez abbiano accelerato le scelte del Cremlino per chiudere repentinamente uno dei fronti internazionali aperti e incontrollabili mentre occhi, intelligenze e mezzi di altri paesi erano occupati in un altro teatro di crisi. L’ambasciatore inglese in servizio nella capitale sovietica - sir William Hayter - evidenziò il nesso tra Suez e Budapest nella convinzione che la crisi del canale offrisse ben tre argomentazioni forti ai fautori dell’intervento repressivo: «distoglieva da Mosca gli occhi e le critiche dei paesi del Terzo mondo; francesi e inglesi si arrogavano, prima dei sovietici, il diritto di “farsi” legge in un altro paese; l’Urss, e soprattutto Chruscév, non potevano tollerare due sconfitte internazionali ravvicinate»27. Tutto appare in movimento. Sui diversi fronti dello scon­ tro bipolare e nel nostro caso nelle divisioni che attraversano

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anime e identità della sinistra italiana. Un passaggio chiave per comprendere lo sviluppo degli anni successivi e per mettere a fuoco le premesse che portano alla formazione del centrosini­ stra. Proprio quella frattura segnata dalle tensioni di un mondo inquieto favorisce e sostiene la possibilità che una parte della sinistra italiana, un pezzo di storia del movimento operaio possa entrare nella stanza dei bottoni da dove era esclusa. Dietro quella barricata e le sue false certezze si sgretolano le ultime convinzioni sulla modificabilità di schieramenti e rapporti di forza. Una svolta sotto diversi punti di osservazione: Il 1956 fu l’anno che rese evidente come né la divisione in blocchi né l’asprezza ideologica della guerra fredda avevano potuto impedire il formarsi di sempre più frequenti focolai di tensione internazionale. La perdita di peso dell’Europa, pur se ridimensionava solo in parte il ruolo delle potenze continentali, apriva la strada a una reale mondia­ lizzazione dei rapporti e delle influenze reciproche che rendeva insie­ me più instabile ma con maggiori possibilità di soluzione il contesto internazionale28.

In questo quadro, l’arretramento strategico del vecchio continente si accompagna al rilancio del processo d’integra­ zione che avrà una tappa significativa nei trattati di Roma dell’anno successivo quando (il 24 marzo 1957) viene istituita la Comunità economica europea pilastro del cammino verso una possibile convergenza tra paesi e governi29. Nulla rimane isolato e, al contrario, nelle dinamiche del sistema politico italiano confluiscono l’insieme delle tensioni e delle conflittualità: la crisi del colonialismo sostituita dal nuovo peso delle superpotenze, l’inizio della fine del modello sovietico di riferimento, la centralità dello scacchiere medio­ rientale, il rafforzamento del pilastro economico europeo come base dell’integrazione continentale. La rappresentazione della barricata come metafora del binomio amico-nemico non regge più; le scelte della classe dirigente italiana si muovono tra l’O c­ cidente e l’Europa, tra le indicazioni originarie dell’impianto del dopoguerra e gli interrogativi del nuovo contesto30. In questo quadro assume significato l’aggettivo «indimen­ ticabile» per un anno che segna l’avvio di una nuova stagione: dagli scenari del mondo in crisi al cuore della politica italiana. Quali i risvolti in chiave interna di un passaggio così delicato e imprevedibile? Chi comprende cosa stia avvenendo e quando?

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Quali reazioni, atteggiamenti e scelte declinano e sostengono il passaggio alla nuova alleanza? I partiti sono i principali protagonisti del nuovo equilibrio. Una lenta marcia di avvicinamento che riesce a sconfiggere contrarietà, resistenze e opposizioni di varia natura e prove­ nienza. Nelle maggiori formazioni politiche (De, Pei e Psi) il tema è molto chiaro sin dalla seconda metà degli anni Cin­ quanta: una parte della classe dirigente spinge per superare 10 schema centrista attraverso il coinvolgimento del Partito socialista in responsabilità di governo. Rompere uno schema e mettere in discussione il fronte avverso, coinvolgere parte dell’opposizione, settori del mondo operaio nella costruzione di un nuovo equilibrio. Le intenzioni non convergono: per alcuni un ampliamento delle base democratica e popolare che sostiene l’esecutivo, una risposta alle chiusure pericolose degli anni Cinquanta, per altri si tratta di una nuova tappa della lotta al comuniSmo attraverso strumenti sofisticati e diversifi­ cati, per altri ancora il frutto di una riflessione di merito sulle debolezze del sistema politico e sulle trasformazioni che hanno cambiato il volto e la pelle della società italiana. E tra chi si oppone il quadro è altrettanto vario e articolato: nostalgici del passato centrista, di certezze rassicuranti e stratificate, alfieri di uno scontro frontale con le sinistre senza distinzioni e me­ diazioni, difensori dell’ordine politico e sociale, di privilegi e rapporti di forza che lo contraddistinguono. Una dialettica vitale che come prima istanza produce un dibattito di merito, un confronto lungo e approfondito coinvolgendo protagonisti e comprimari. Aldo Moro e Pietro Nenni sono per la De e 11 Psi i principali fautori del nuovo passo, sono gli interpreti apicali di una discussione che li vede chiamati sul banco degli imputati o presi ad esempio di coraggio innovatore31. E un passaggio illuminante sulla profondità delle trasfor­ mazioni della società italiana: si discute animosamente, la De promuove tra il 1961 e il 1964 ben tre convegni nazionali di studio, l’Istituto Gramsci e il gruppo dirigente del Pei s’in­ terrogano sulle tendenze del capitalismo italiano, l’area laica e socialista si ritrova a Roma al Teatro Eliseo nel confronto che attraversa pagine di quotidiani o riviste di cultura e politica32. Sembra quasi un paradosso, ma la discussione che precede il varo del nuovo esecutivo è più matura e interessante della decisione che ne consegue. Vanno all’ordine del giorno, in

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vari modi e contesti, le questioni strutturali dello sviluppo del paese: la distanza tra società e politica, l’arretratezza e la dop­ pia velocità del Mezzogiorno, i condizionamenti e le reazioni del quadro internazionale, il portato deU’industrializzazione, l’inadeguatezza degli apparati formativi; in estrema sintesi la possibilità che un programma di riforme intercetti e valorizzi la crescita economica del tempo. Non lasciarsi sfuggire una possibilità concreta, un’occasione unica, l’opportunità che il boom economico possa dare risultati solidi e duraturi met­ tendo così in discussione limiti e ritardi antichi. Anche chi si oppone pensando di poter raccogliere e organizzare il mono­ polio dell’opposizione da sinistra (i comunisti) è attraversato da interrogativi e possibilità: prendere le distanze sperando che tutto naufraghi in un nulla di fatto o, al contrario, ten­ tare di condizionare i risultati nella convinzione che possa uscire qualcosa di utile per il mondo del lavoro? Del resto, s’incomincia a parlare di apertura a sinistra dopo le elezioni del 1953, in una chiave semplice e immediata: l’ingresso nella maggioranza del Partito socialista di Nenni si profila come rimedio efficace - almeno in termini di numeri - al logora­ mento progressivo del blocco centrista. Da quel tornante si formano correnti favorevoli o contrarie che si organizzano e si manifestano all’interno delle formazioni politiche, delle ge­ rarchie ecclesiastiche, dei sindacati, della Confindustria, della stampa e dei media in genere, dei centri di potere più diversi. I partiti affermano il proprio primato, anche in un passaggio così stretto: rappresentano il canale obbligato della decisione, sono depositari della scelta principale e quindi orientano il resto della società: la Repubblica dei partiti in una nuova tappa del suo sviluppo. Il confronto avviene principalmente tra i partiti e nei partiti, ogni istanza anche esterna prende come punto di riferimento un ipotetico o manifesto Sì o No alla nuova prospettiva. Saranno i soggetti collettivi e i loro leader a dare il via libera a seconda delle indicazioni e dei rapporti di forza che li caratterizzano. Un segno tangibile di una società vitale, moderna, plurale e pluralista che viene rappresentata e orientata dalle scelte della politica, dalle sue priorità e dai suoi indirizzi. II punto delicato di una marcia di avvicinamento tormentata investe proprio il rapporto difficile, l’osmosi mancata tra i cambiamenti della società e le dinamiche della politica, i suoi tempi, linguaggi, atteggiamenti.

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I partiti destinatari dell’apertura sono attraversati da reazioni simili, speculari: parte del gruppo dirigente attiva e favorevole, mobilitata per ottenere un consenso ampio alla nuova proposta; settori contrari che si organizzano cercando interlocutori e appoggi; una posizione di attesa che inizialmen­ te è maggioritaria, segnata da scetticismo, timore di perdere posizioni nelle gerarchie interne, illusione di poter mantenere tutto com’era. Moro e Nenni si muovono almeno su due fronti e in contemporanea: spiegare al paese potenzialità, meriti e urgenze della possibile apertura; conquistare la maggioranza dei propri mondi di riferimento, nel partito e possibilmente tra sostenitori ed elettori. Il varo degli esecutivi supera lo stallo e le resistenze incontrate nel cammino di avvicinamento e offre una verifica di merito alle intenzioni della lunga fase preparatoria. II centrosinistra è quindi al tempo stesso una formula di governo e un’espressione che a seconda dei contesti rappresenta molto di più. Indica una tendenza, una forma che plasma il sistema, una possibilità di concorrere a rafforzare l’area rap­ presentata dalla Democrazia cristiana irrobustendola e isolando le estreme. Spesso formule o termini che racchiudono una fase o un passaggio della storia del paese sono frutto di mediazioni impreviste o risultato di parole accostate per caso, a indicare con sarcasmo e ironia le tortuose vie del sistema politico ita­ liano. In questo caso la dimensione politica prevalente, vale a dire l’incontro e la collaborazione tra democristiani e socialisti, esprime la cifra dei governi della Repubblica dal 1962 al 1972 (con una premessa alla fine degli anni Cinquanta) che riemerge a più riprese esausta e consumata nella prima metà degli anni Settanta, nel decennio successivo e persino nell’ultimo scorcio di Novecento. I distinguo sono ovviamente prevalenti, difficile accostare stagioni così diverse con protagonisti, contesti e condizioni che non sono paragonabili. Tuttavia, il richiamo al primo centrosinistra rimane come condizione, vincolo, segnale originario. Non di rado alimentato da nostalgie o rimpianti. Una sorta di punto di partenza di un equilibrio raggiunto attra­ verso un cammino di confronto e dibattito stimolante. Utili le parole di uno storico che lucidamente scriveva: «Va ricordato e sottolineato come il centrosinistra sia l’unico esperimento progettato con qualche chiaroveggenza, provvisto di input strategico e preceduto da una discussione di ragguardevole dignità culturale»33. Un merito che non esaurisce l’analisi o il

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giudizio su una stagione né racchiude il significato prevalente di quella scelta originaria. Tempi e modalità che portano al nuovo equilibrio di governo sono parte di un itinerario, un difficile percorso attraverso limiti e possibilità del sistema politico italiano. 3. Magliette a strisce Con la crisi del 1956 la rottura a sinistra si manifesta con ripercussioni immediate. Il Partito socialista attira le attenzioni in Italia e fuori dai confini nazionali. Il tema dell’apertura a sinistra esce così da una dialettica astratta e spesso ripetitiva, bloccata sull’inadeguatezza di posizioni di principio a partire dai protagonisti coinvolti comincia a interessare ambiti e settori della società italiana. Speranze e illusioni animano l’attesa sul nuovo possibile asse di governo. L’obiezione sull’inconciliabilità della sinistra italiana con le regole e il perimetro della guerra fredda mostra le prime crepe. Il varo è, come si è avuto modo di vedere, un lungo processo, una discussione interessante che fa da sponda alle indicazioni che muovono parte della classe dirigente. Il contesto può essere riassunto attorno ad alcune caratteristiche di fondo: la crisi del centrismo lascia un vuoto politico nel sistema che non riesce a percorrere strade convin­ centi; nella De e nel Psi settori della leadership prendono in considerazione l’ipotesi di favorire la formazione di una nuova alleanza; la cesura del 1956 ridimensiona l’obiezione sul peri­ colo di avere una forza socialista, nel migliore dei casi neutrale tra Mosca e Washington, con responsabilità di governo. Uno stallo con oscillazioni di vario segno che permette alle diverse resistenze al centrosinistra di rafforzarsi. Resistenze agguerrite disposte su vari fronti: settori che si riveleranno minoritari dei partiti interessati (dissensi interni, correnti coalizzate contro le indicazioni di Moro e Nenni), le opposizioni da destra (il Movimento sociale) e da sinistra (il Pei), i vertici della Santa Sede e dell’amministrazione statunitense allarmati in ragione delle ricadute possibili su un equilibrio incerto e sconosciuto. Queste ultime sono le resistenze più radicate nelle compatibilità del sistema, manifestano la volontà di conservare equilibri e sinergie, temono che il centrosinistra possa mettere in discus­ sione parti costitutive dell’impianto post-bellico.

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Il nuovo decennio si apre con una svolta imprevista, di segno opposto a ciò che tanti temevano. Nel marzo 1960 il governo presieduto da Ferdinando Tambroni poggia sul de­ terminante sostegno missino. Un fulmine a ciel sereno su una figura che viene dalla sinistra democristiana incaricata dopo la crisi del governo Segni di tentare una strategia per giungere a una maggioranza parlamentare. La questione è delicata, sfugge al controllo di protagonisti coinvolti nella vicenda. Quando il governo si presenta alle Camere l’ipotesi che circola è quella di una possibile accelerazione verso la costruzione del ponte a sinistra. Il varo possibile dell’apertura prevede il coinvol­ gimento in forme non meglio definite del Partito socialista. E mentre il confronto pubblico, le analisi di intelligence e ambasciate di mezzo mondo ruotano attorno alla possibilità che il nuovo esecutivo muova i primi passi, il responso della Camera dei deputati va nella direzione opposta. Nella fiducia dell’8 aprile 1960 il sostegno della destra missina è decisivo: per la prima volta si rompe il confine dell’arco costituzionale, 10 stesso paradigma antifascista vacilla, messo in discussione dall’atteggiamento di parlamentari che manifestano da destra 11 loro sostegno al nuovo esecutivo. La De diventa l’epicentro della crisi che viaggia su due direttrici apparentemente distanti che solo la storiografia più accreditata ha rimesso in ordine negli anni e nei decenni successivi34. In primo luogo, il signi­ ficato del voto di fiducia dei deputati del Movimento sociale, la reazione che ne scaturisce fino allo scontro nelle piazze di diverse città italiane quando si fa strada la richiesta di tenere il Congresso nazionale del partito a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza. Gli organizzatori invitano come pre­ sidente onorario delle assise Carlo Emanuele Basile, prefetto della città al tempo della Repubblica Sociale Italiana, respon­ sabile di arresti e deportazioni ai danni di diversi esponenti dell’antifascismo ligure35. Sulla vicenda del governo e della sua fiducia inaspettata si inseriscono atti e provocazioni che alzano il livello dello scontro, la conflittualità tra le parti si proietta sull’immagine complessiva di una Repubblica in difficoltà. I giovani sono i nuovi interpreti, nati dopo la guerra, o negli anni stessi del conflitto, figli del boom economico, delle relative contraddizioni e aspettative. Si manifesta così un protagonismo diffuso, ampio e sorprendente, un nuovo antifascismo, sia per il dato biografico dell’attivismo dei nuovi, sia per le caratte-

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àstiche e le parole d’ordine che lo accompagnano. I giovani indossano le magliette a strisce come segno di riconoscimento, simbolo identitario di proteste che scuotono la dialettica tra le forze politiche. Una lettura superficiale potrebbe limitarsi alla considerazione pur significativa del permanere di un an­ tifascismo unificante come tessuto connettivo di una società trasformata dalla spinta del miracolo economico. Ma il nuovo antifascismo riesce a mettere in comunicazione generazioni d’italiani, unisce la difesa di valori minacciati con la ricerca di nuovi orizzonti, di possibili conquiste. Ne scrive a caldo un intellettuale impegnato come Carlo Levi: Chi sono coloro che hanno in questi giorni cambiato, inattesi, le vicende, messo in moto una realtà italiana che sembrava stagnante, corrotta, senza uscite né speranze? Sono in gran parte dei giovani, dei nuovi, degli sconosciuti, dei ventenni. Essi si muovono riunendo in uno i complessi motivi di insoddisfazione, di bisogni di libertà, di difficoltà economiche, d’intolleranza per un mondo privo di sviluppo e di prospettive36.

E il dato generazionale che colpisce, qualifica il prota­ gonismo diffuso, offre la cifra di una discontinuità carica di interrogativi e incertezze. Una protesta al tempo stesso politica e morale, un rifiuto della realtà esistente minacciata dall’imprevisto protagonismo dei neofascisti. Il governo va allo scontro pensando di sedare in breve tempo la protesta. A Genova a fine giugno sfilano oltre 100 mila persone, il corteo si trasforma in una lunga colluttazione tra polizia e manifestanti. E da quel momento la scintilla dello scontro giunge in vari angoli della penisola. La protesta ha come controparte il governo che, invece di dialo­ gare e comprendere, sceglie la via della repressione diffusa: Torino, Licata (la prima vittima), Roma con le cariche a Porta San Paolo, luogo simbolo della Resistenza nella capitale. A Reggio Emilia il 7 luglio la polizia spara su una manifestazio­ ne affollata. Il bilancio è terribile, cinque ragazzi perdono la vita. Lo sciopero nazionale che ne segue coinvolge settori del mondo del lavoro e mobilita generazioni diverse di lavoratori in uri escalation che porta a nuove vittime in Sicilia (Catania e Palermo). Non si può ricomporre lo strappo senza mettere in discussione i passi che parte della classe politica aveva scelto di compiere. Il governo barcolla, Tambroni si dimette, alla

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fine di luglio Amintore Fanfani guida un esecutivo che ottiene la fiducia con voto favorevole di socialdemocratici, liberali e repubblicani e con l’astensione di socialisti e monarchici. Il pendolo della crisi sembra nuovamente oscillare verso l’ipotesi di un centrosinistra da costruire37. L’altro versante che emerge dalla crisi della primavera-estate 1960 investe il rapporto tra partiti e governo, o per meglio dire le dinamiche di costruzione delle maggioranze parlamentari. Il programma Tambroni non era stato concordato né discusso preventivamente, un eccesso di autonomia che lascia aperte possibilità e indicazioni di voto. Alla destra estrema piacquero i contenuti presentati da chi chiedeva la fiducia alla Camere: il voto favorevole fu una conseguenza di una valutazione di merito e di un calcolo strumentale finalizzato a rientrare nel dibattito politico dal quale era rimasta sostanzialmente mar­ ginale. Si fa strada un punto dirimente nel cogliere una pos­ sibilità. L’autonomia dell’esecutivo non negoziata con i partiti che potenzialmente lo compongono può dar luogo a situazioni spiacevoli. Come sostenuto dalla direzione democristiana nei giorni della fiducia: «il dibattito e il voto della Camera avevano attribuito al governo un significato politico in contrasto con le intenzioni, le finalità e l’obiettiva funzione politica della De nella vita nazionale»38. E la funzione politica della De che viene messa in questione, all’interno degli equilibri parlamentari e più in generale nella sua capacità di rappresentare e garanti­ re il cammino del dopoguerra. La fine del centrismo, il suo tramonto inesorabile sembra aprire la possibilità a due uscite contrapposte: verso il centrosinistra o verso destra, anche al di là delle intenzioni di chi sostiene il governo Tambroni. La De sente il peso della frattura, non può far finta di nulla anche a fronte di un voto parlamentare che premia un programma di governo presentato da un suo dirigente. L’autonomia del potere esecutivo si scontra con le compatibilità di un sistema che non ammette svolte o discontinuità, appoggiato sul tracciato del centrismo e condizionato dai vincoli della contrapposizione internazionale. Nel linguaggio del confronto interno al partito di maggioranza relativa i termini testimoniano il cambiamento di fase e la conseguente presa di distanza dal varo dell’esecutivo sostenuto dal Movimento sociale. In pochi giorni si completa dal punto di vista lessicale la presa di distanza. Dalla fiducia nell’operato del governo che «con fermezza e senso di respon­

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sabilità» è intervenuto per sedare gli scontri di piazza, si passa rapidamente alla liquidazione dell’esecutivo, accompagnata da un generico quanto circostanziato ringraziamento all’onorevole Tambroni per aver «assolto il suo compito»39. Evitati i rischi e le ricadute dell’inavvertito sbandamento a destra scegliendo di conseguenza una strada percorribile, difficile ma paradossalmente rafforzata dalle vicende di quei mesi tormentati: «l’episodio Tambroni conferma che la via politica dell’apertura a sinistra era l’unica possibile per lo sviluppo della democrazia italiana era perciò obbligata»40. Una scelta obbligata ma non semplice, un cammino segnato dal mutato contesto e lastricato di resistenze vecchie e nuo­ ve, nei partiti e fuori da essi. Mentre si avvicina l’incontro e cadono i vincoli di praticabilità, dopo il 1956 che divide le forze del movimento operaio offrendo una sponda più chiara alla Democrazia cristiana, le resistenze permangono pur mo­ strandosi meno efficaci. La società italiana appare più veloce del ritmo scandito dagli incontri di vertice dei partiti. Agli inizi del 1961 in varie città s’inaugura il nuovo corso, i veti incrociati cominciano a essere sconfitti a partire dal livello amministrativo. A Washington la presidenza Kennedy muove i primi passi, diffondendo ottimismo e speranze anche nei paesi alleati. La nuova frontiera offre motivi per allargare le forme di partecipazione nei sistemi democratici dell’Occiden­ te: una nuova tappa dell’anticomunismo, una sfida che passa anche per la capacità di rinnovare un modello di riferimento e la sua leadership. Le parole e i gesti del giovane presidente varcano confini e ambiti che la guerra fredda aveva disegnato nell’immediato dopoguerra. L’amministrazione statunitense si muove con intelligenza, cerca interlocutori inediti, costruisce una rete di relazioni politiche, intellettuali, persino culturali. In questo quadro la vicenda italiana diventa un segmento di una nuova strategia di attenzione nei confronti del vecchio continente: di fatto un semaforo verde per la collaborazione tra democristiani e socialisti. Ma anche in questo caso - come per le scelte originarie dell’impianto degasperiano - il rapporto e l’interesse viaggiano lungo due direttrici, al di qua e al di là dell’Atlantico. L’amministrazione democratica allarga orizzonti e vedute in contrapposizione con le chiusure che avevano carat­ terizzato il conservatorismo di Eisenhower e dei suoi uomini. Il centrosinistra non è certo una priorità della politica estera

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della Casa Bianca nel mondo scosso da crisi e discontinuità: il Sud-Est asiatico e il Medio Oriente come aree strategiche di intervento e di attenzione sono molto più seguiti41. Tuttavia, l’Italia è un alleato consolidato e sicuro, un paese del fianco sud della Nato attraversato da tensioni interne che mettono in discussione equilibri e approdi. Sul versante opposto la disponibilità statunitense diventa una carta utilizzabile in chiave di confronto interno, anche dialogando con diversi settori del governo di Washington. Com’è noto il pluralismo è una condizione che qualifica e sostiene organismi complessi, con diverse istanze rappresentative e con processi decisionali strutturati su piani differenziati e molteplici. Ecco perché i termini Stati Uniti e Italia non sono sufficienti a dar conto della complessità del dialogo: ci sono uomini attivi nelle diverse agenzie di collegamento e studio, lavorano all’Ambasciata Usa di Roma o sono di stanza presso il Dipartimento di Stato. Relazioni personali, documenti di intelligence, telegrammi o memorandum d’incontri bilaterali costituiscono la trama di una dialettica che non è riconducibile a una sintesi univoca. Molti incaricati sanno poco, sono influenzati da categorie e contesti, spesso mostrano di non cogliere i tratti e le sfumature della politica italiana con giudizi semplicistici o inattuali42. Possiamo semplificare il quadro valorizzando le istanze apicali: la Casa Bianca mostra disponibilità e attenzioni, l’Ambasciata di via Veneto sottolinea i rischi e le ambiguità della nuova stagione ormai alle porte43. Ma la scelta di fondo la compiono i parti­ ti, la classe dirigente italiana che cerca numeri e sostegno in Parlamento e nel paese, il resto entra a far parte di una costru­ zione composita, una tessera in un mosaico di giudizi, analisi, pressioni incrociate. Non si tratta di intromissioni o ingerenze segrete, né di manovre occulte riconducibili a burattinai vicini o lontani in grado di prefigurare scenari e convergenze. Il giudizio di un dirigente di punta della Democrazia cristiana, più volte coinvolto in responsabilità di governo riassume la dialettica tra Italia e Usa nei primi anni Sessanta: «Sarebbe errato parlare di un’autorizzazione preventiva di John Fitzgerald Kennedy; non c’è mai stata un’interferenza radicale sulle questioni interne del nostro paese da parte degli Stati Uniti. L’iniziativa del presidente americano rappresentò un colpo di acceleratore all’avvio del centrosinistra»44. Una relazione stretta, una forma di interdipendenza reciproca che mette

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in discussione e ridimensiona tanto le ipotesi di subalternità quanto quelle di indifferenza o irrilevanza. Il veto statunitense si appoggia sui timori per la colloca­ zione internazionale del Psi di Nenni: il peso del neutralismo autonomista che potrebbe condizionare il nuovo esecutivo fino a spingerlo nel campo avverso, tra i potenziali simpatizzanti o addirittura sostenitori del blocco filosovietico. Quando i ter­ mini diventano più chiari grazie ai contatti romani e ai viaggi dello stesso Kennedy e dei suoi inviati, il pericolo si ridimen­ siona e le potenzialità del nuovo corso entrano in sintonia con analoghe prese di posizione in altri contesti europei. La convergenza delle due prospettive, del quadro interno e del contesto internazionale che lo condiziona si attesta su alcune convinzioni condivise dalle leadership dialoganti: la necessità di allargare la base parlamentare dell’esecutivo per dare stabilità a un quadro incerto, la piena valorizzazione della divisione che ha rotto l’unità delle sinistre dopo la repressione in Ungheria, la previsione che l’apertura a sinistra avrebbe ridimensionato l’opposizione comunista riequilibrando così le proporzioni tra i partiti storici del movimento operaio a vantaggio del Partito socialista. Una scommessa difficile, molte delle previsioni che accompagnano il varo del nuovo esecutivo non avranno confer­ ma negli anni e nei decenni successivi. L’instabilità rimane un dato strutturale e una debolezza del sistema mentre i rapporti a sinistra continueranno a premiare la collocazione del Pei come forza di opposizione, in parte collaborativa e coinvolta, in parte ispirata da richiami e atteggiamenti conflittuali o di rottura. Un partito di lotta e di governo, un doppio registro nel quadro di compatibilità e vincoli ben definiti legato all’impianto della Costituzione del 1948 e al tempo stesso inserito nelle strutture del movimento comunista internazionale. Ma torniamo alle giunte di centrosinistra nei capoluoghi di diverse regioni italiane, primo passo del nuovo equilibrio, prima manifestazione concreta della possibilità di imboccare una strada diversa. Milano, Genova, Firenze: l’esperimento si espande a macchia di leopardo. La disponibilità alla colla­ borazione è radicata in settori significativi di classe dirigente, anche a livello locale. Come prevedibile convivono istanze e aspirazioni differenti: la convinzione che il centrosinistra possa rappresentare una pagina nuova e un’opportunità di crescita e modernizzazione del paese si sovrappone alla strategia di

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autoconservazione adottata da molti, essere nel nuovo equili­ brio per mantenere posizioni di privilegio minacciate numeri­ camente e politicamente dalle novità del tempo nuovo. Ma le reazioni alle giunte Dc-Psi non si fanno attendere. Il varo della coalizione nel capoluogo ligure viene vissuto come una sfida dalla Conferenza Episcopale Italiana. Per la verità monsignor Luigi Andrianopoli aveva preso posizione il 20 gennaio 1961 contro la nuova giunta milanese. «Ci sentiamo traditi - aveva scritto dalle colonne del “Nuovo Cittadino” il direttore in una lettera aperta a Moro - e più ancora che dai risultati, dal metodo»45. Non si poteva accettare il nuovo che avanza. Dopo il voto di Genova, il 18 febbraio 1961 a meno di un mese dal varo della giunta milanese, il cardinale di Genova Giuseppe Siri decide di scrivere direttamente al leader democristiano. Toni inequivocabili, lo scontro è aperto e manifesto: Egregio onorevole, nel momento in cui si ha motivo di credere che equivoci ed artate interpretazioni stiano oscurando la verità, ho il dovere di richiamare alla di lei attenzione quanto segue: 1) l’atteggiamento della Chiesa nel giudicare i comunisti e coloro che li sostengono con la loro azione o sono loro associati non è affatto mutato; 2) la linea di portare assolutamente i cattolici a collaborare con i socialisti, prima che da questi siano state ottenute vere e sicure garanzie di indipendenza dai comunisti e di rispetto a quanto noi dobbiamo rispettare, non può essere assolutamente condiviso dai vescovi. Quanto è accaduto, il modo e la forma nel quale è accaduto, fa profondissimamente temere per l’avvenire. In nome di Dio, la prego riflettere bene sulla sua respon­ sabilità e sulle conseguenze di quanto sta compiendo46.

Una contrapposizione frontale, con antichi richiami alla dialettica risorgimentale Stato/Chiesa sovrapposti alla nuova realtà delle amministrazioni cittadine. L’insistenza sul metodo quasi che si dovesse mettere in questione il processo decisionale delle istanze democratiche locali, il richiamo all’anticomunismo ferreo della scomunica come punto di riferimento immodifi­ cabile, il rapporto stringente tra amministrazioni cittadine e governo nazionale, il richiamo implicito al rischio che l’archi­ tettura istituzionale complessiva potesse entrare in crisi. L’in­ certezza del quadro politico conduce verso un protagonismo diretto della Santa Sede; la De è il principale interlocutore, ma viste le possibilità che si aprono dopo la fine dell’equilibrio centrista, meglio occuparsi direttamente di ciò che potrebbe

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avvenire nell’agone politico e dei riflessi sui comportamenti dei cattolici. Nel vivo della vicenda Tambroni, tra la formazione del governo e il dibattito nel Consiglio Nazionale della De, «L’Osservatore Romano» pubblica un articolo Punti fermi finalizzato a orientare e condizionare il confronto di merito sugli equilibri politici47. Una sorta di manifesto con il quale si rivendica il diritto delle gerarchie nel guidare orientamenti e posizionamenti dei cattolici. Punti fermi e invalicabili negli orientamenti politici, nei comportamenti elettorali e nelle forme di partecipazione alla vita pubblica. Non si poteva prendere le distanze da quei punti senza assumersi le conseguenze del gesto. La linea del nuovo pontefice era differente, ispirata a un distacco dalle vicende politiche, nella ricerca di un messaggio evangelico autentico, distante dai compromessi materiali. La strategia stessa di Angelo Giuseppe Roncalli ha bisogno di tempo per imporsi, sconfiggere perplessità e dubbi. Quando sale al soglio pontificio il 28 ottobre 1958 la Chiesa cerca nelle certezze del passato il rifugio contro le paure dei tempi nuovi. Una scorciatoia impraticabile: quel mondo era ormai giunto al capolinea, pensare di difendere e sostenere l’equili­ brio centrista era un modo per prendere tempo nella speranza di poter mantenere il quadro delle compatibilità esistenti. Il dibattito sulla formazione del centrosinistra accelera la crisi e chiarisce le posizioni delle forze in campo. Un conto sono analisi e giudizi su rapporti di forza e possibili vie d’uscita, altra cosa gli auspici e i desideri di chi teme l’innovazione o il varo di un laboratorio politico. Una dialettica che non risparmia nessuno, protagonisti e comprimari. Il mondo cattolico si diversifica: alle aperture del pontefice, al ruolo di ponte e dialogo di papa Giovanni X X III si contrappone l’intransigenza delle posizioni della Cei ispirata dal cardinale Siri. La scena si anima di attori prò e contro il centrosinistra. Il messaggio del pontefice, la sua enciclica Mater et Magistra del luglio 1961 viene interpretata (e in parte utilizzata) come un sostegno implicito, un’apertura di disponibilità verso la sperimentazione del nuovo corso48. Ed è così che come in un sipario che si apre all’improvviso i veti cadono, vengono ridimensionati e sconfitti. Quelle paure di uno scivolamento incontrollabile verso pericolosi lidi non hanno riscontro, sono motivate dal fantasma del centrosinistra che è molto distante dalla sua immagine reale. Chi si ostina a

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essere contrario propone in alternativa il prolungamento della stagione centrista ormai agonizzante. Il confine tra il passato, colmo di certezze e rassicurazioni, e il futuro incerto e contro­ verso, viene varcato con eccessive titubanze. I veti incrociati (da Washington e da oltre Tevere) si scontrano e si richiamano più a un’immagine del centrosinistra, quella della sua ipotetica evoluzione, che alla reale consistenza delle forze in campo. La svolta attesa e preparata si manifesta nei primi mesi del 1962 quando il quarto governo Fanfani nasce con la fidu­ cia «contrattata» del Partito socialista49. Un varo difficoltoso con una formula criptica segnata da una fiducia concordata preventivamente, prima di giungere in aula. Aldo Moro aveva sconfitto le ultime resistenze interne nel Congresso nazionale della De tenuto a Napoli a fine gennaio e aperto da una sua relazione di sette ore50. Solo alla fine dell’anno successivo, nella prima settimana di dicembre 1963 prende corpo il centrosini­ stra organico presieduto dal leader De, con la partecipazione nella squadra di governo di cinque ministri che vengono dal Psi (Pietro Nenni vicepresidente del Consiglio). Il quotidiano socialista «l’Avanti!» titola con enfasi il 6 dicembre 1963 Da oggi ognuno è più libero. I lavoratori rappresentati nel governo del paese51. In pochi mesi molto era cambiato: affievolita la spinta iniziale, eletto un presidente della Repubblica di segno contrario (Antonio Segni), aperti i lavori del Concilio Vati­ cano II, morto un papa (Giovanni XXIII), eletto successore l’arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini che prende il nome di Paolo VI52. L’alleanza di governo aveva portato a termine alcune riforme: la nazionalizzazione dell’energia elet­ trica e la scuola media unica. Non era riuscita a intervenire con una legge sui suoli né aveva mostrato una capacità di misurarsi su questioni di lungo periodo, incapace di scrol­ larsi di dosso il peso dell’illusione riformista. I giudizi sono divergenti nella lettura di un bicchiere mezzo pieno (alcune importanti riforme in sintonia con la spinta di una società in via di modernizzazione) o mezzo vuoto (troppo poco per riuscire a mettere in discussione la continuità con la stagione precedente). La distanza tra le aspettative e la realtà è un dato evidente. Qualcuno si è spinto fino a sostenere che il centrosinistra nella sua forma piena era nato già morto, esausto, incapace di mostrare vitalità. Anche la sua stagione riformista è precedente al completamento del processo di costruzione del

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governo. Sono ancora valide e profonde le domande di chi nei primi anni Novanta del secolo scorso scriveva: «L’interrogativo sorge dunque spontaneo. Come mai un’alleanza preparata per quasi dieci anni, negoziata con estrema prudenza e uscita vittoriosa da scaramucce piccole e meno piccole, si rivela poi singolarmente avara di frutti concreti?»53. 4. Distensione, Concilio, dialogo Un bilancio sul primo centrosinistra della storia della Repubblica è questione complessa. Nel corso degli anni e dei decenni quella stagione ha prolungato luci e ombre sul futuro, caricandosi di significati e giudizi che vanno al di là dei contenuti dell’apertura a sinistra. Il paradosso della sua estensione temporale, di un’indeterminatezza di quadro sulla conclusione della collaborazione tra democristiani e socialisti fa sì che molti argomenti si ripresentino e vengano utilizza­ ti - non sempre con le dovute attenzioni - come termini di paragone per valutare risultati, passi avanti o battute d’arresto del cammino del sistema politico italiano tra la fine degli anni Cinquanta e il decennio successivo. L’effetto è duplice: da un lato il centrosinistra nella sua costruzione storica diventa un laboratorio perennemente aperto e disponibile, senza un peri­ metro certo di riferimenti e contesti, e dall’altro ciò che ricade sotto la dizione generica data dall’accostamento dei due termini è troppo distante dall’originale (dal primo passo) per poter fornire argomenti utili a una comparazione storica. Anche in questo caso l’itinerario della Repubblica non è separabile dal contesto della compatibilità e dei vincoli che caratterizzano una parte di mondo segnato dalla modernizzazione post-bellica. A questo livello si collocano gli interrogativi sul riformismo italiano, sul valore delle riforme realizzate e sul peso delle tante possibilità che non hanno trovato spazio o che si sono perse dopo un avvio promettente. L’impatto economico delle scelte di fondo oscilla tra due estremi. L’avvio coraggioso di forme di programmazione eco­ nomica, politiche d’indirizzo in grado di segnare una discon­ tinuità dall’emergenza del giorno per giorno, dalla navigazio­ ne a vista e, contestualmente, l’assenza di un radicamento condiviso e strutturale di tali iniziative. La difficoltà a fare

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sistema in un cammino complicato dalle inquietudini interne e dalla prossima fine del ciclo espansivo. Le problematiche dell’economia italiana si manifestano nelle deboli risposte quando negli anni Settanta tutto diventa più difficile, la spin­ ta alla crescita si esaurisce, l’età dell’oro rimane indietro come una preziosa pagina sbiadita54. Nel passaggio del 1962 la dialettica si manifesta in modo esplicito. Dopo la composizione del quarto governo Fanfani (con l’astensione contrattata dei socialisti) e l’elezione di Antonio Segni al Quirinale (tra i più autorevoli oppositori De al nuovo corso)55 il ministro del Bilancio il repubblicano Ugo La Malfa presenta alle Camere la Nota aggiuntiva alla Relazione generale sulla situazione economica del paese per il 1961. Una relazione impegnativa sulla situazione del paese che si sovrappone al dibattito politico e al confronto culturale che attraversa i convegni di studio della De a San Pellegrino, quello dell’Eliseo o il dibattito promosso dall’Istituto Gramsci (ne abbiamo già detto). Vivacità e spessore di confronti di merito su competenze e approdi nella consapevolezza di tanti che il tornante rappresentasse una sfida e una grande opportunità per il sistema paese nel suo complesso. La Nota dà voce a chi si era misurato sui contenuti giungendo persino a posizioni opposte o inconciliabili. Ne scaturisce un confronto di merito in un dibattito di rara profondità che ruota attorno alla possibilità di delineare la filosofia di fondo del centrosinistra, rendendo sta­ bile e concreto il quadro delle prospettive dentro cui collocare le riforme strutturali. Uno spaccato di questioni tenute insieme dalla fiducia nel nuovo equilibrio, dalla scommessa che si po­ tesse tentare un percorso innovativo. Il pregio dell’intervento del ministro del Bilancio (leader del Partito repubblicano) è nel risalto dato al contrasto tra lo sviluppo imponente di quegli anni e il permanere di zone arretrate diffuse e per molti versi in condizioni di incuria crescente. Gli squilibri antichi tra Nord e Sud convivono con gli effetti dello spopolamento delle campagne e dell’urbanizzazione non guidata, spesso risolta dalla costruzione di centri urbani inefficienti e degradati. Un tornante di svolta che ha proposto nuovi modelli e obiettivi; va in questa direzione la nascita dell’intervento straordinario che, proprio tra il 1957 e l’inizio degli anni Sessanta vira verso una politica di forte industrializzazione del Mezzogiorno. Anche sulla base di queste esperienze (e dei loro limiti) La Malfa

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affonda il proprio giudizio: servirebbe una programmazione dello Stato per modificare e orientare il sistema economico facendo contestualmente leva sulle pubbliche utilità quali istruzione, assistenza sanitaria, Stato sociale. Un quadro di provvedimenti tempestivi, urgenti al fine di poter beneficiare della congiuntura particolarmente favorevole. Il fattore tempo non è irrilevante: difficile coordinare la spinta al cambiamento che muove settori della società con le dinamiche di confronto e decisione che attraversano le forze politiche. Il merito dei contenuti che attraversano la Nota La Malfa sarà più chiaro e apprezzato con il passare del tempo. Una discussione che rap­ presenta un punto di osmosi e dialogo tra il paese e il palazzo, tra i partiti e gli intellettuali, tra la politica e la società. Un punto che non si consolida, non riesce a intaccare resistenze e conservatorismi. Poche settimane dopo, la nazionalizzazione dell’energia elettrica sembra un esito immediato del confronto che attraversa le forze politiche. Ma gli effetti della spinta a uscire dalle emergenze allungando lo sguardo oltre la soprav­ vivenza di un incerto quadro politico non avrà grandi fortune. Una ferita profonda che non sarà facile rimarginare. Il peso di un riformismo debole, fugace, incoerente. O se spostassimo la prospettiva e il punto di osservazione, l’incapacità delle classi dirigenti di far fronte a emergenze e interventi che vanno all’ordine del giorno, diventano urgenti e necessari, ma non abbandonano la sfera degli auspici o delle buone intenzioni più o meno condivise. Così facendo le debolezze del centrosinistra assumono un duplice significato che rafforza la centralità di una lunga stagione nel cammino della Repubblica. Il primo dato investe il rapporto contraddittorio tra società e politica, ha inizio una silenziosa separazione, una divaricazione che si tramuterà nel corso del tempo in incomunicabilità o in un conflitto manifesto. Le speranze di trasformazione rimasero deluse, inespresse e quindi iniziarono a sedimentare rimorsi, aspirazioni impossibili, distanze crescenti tra sogni e realtà. In secondo luogo, i riflessi di lungo corso del riformismo mancato, dell’incapacità di intervenire sui progetti in cantiere, sugli interventi concreti che avrebbero dato a una stagione così laboriosamente preparata uno spessore più significativo. Il giudizio di uno storico aiuta a definire la questione in un arco di tempo più ampio:

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A sfumare progressivamente, dopo i primi esordi del centrosini­ stra, non furono solo le singole riforme. Fu «il sogno di alcune cose» ad apparire perdente e irrealistico, fu il riformismo come modello a perdere fascino, capacità di attrazione e di mobilitazione: non sono stati pochi i guasti che questo appannamento ha prodotto nella vicenda successiva del paese56.

Ecco, il punto chiave dei giudizi che non si limitano alle ricostruzioni delle correnti dei partiti richiama la qualità del sistema democratico, la sua capacità di riformarsi e di resistere alle derive autoritarie. Sono gli interrogativi di fondo sulla fase della distensione internazionale, sulle forme del dialogo tra Mosca e Washington, sulle possibilità che Taffievolirsi della contrapposizione bipolare possa favorire il varo di una nuova fase della storia della Repubblica. Come se il quadro internazionale giovi ai tessitori di nuove relazioni tra antichi avversari. I protagonisti sono almeno tre: Kennedy, Chruscév e Giovanni XXIII; il peso della distensione è stato ridimensio­ nato progressivamente dalla storiografia più accreditata57. Non una nuova fase, né una scelta per il dialogo come strategia di ascolto; sono le paure per una distruzione reciproca assicurata a muovere i potenti verso relazioni più stabili. Dopo la guerra di Corea l’innovazione tecnologica applicata agli armamenti rappresenta la novità più stringente, la minaccia incombente di una prospettiva di guerra atomica con distruzione su vasta scala. A metà degli anni Cinquanta, mentre il boom economico inizia a dispiegare potenzialità sconosciute, diventano operative le bombe termonucleari con una potenza tale da distruggere intere città. Poco dopo è il turno dei missili intercontinentali capaci di condurre quelle testate in territorio nemico senza ostacoli. Facce diverse della modernità. La distensione non modifica obiettivi e tensioni che muovono i campi avversi. Il campo del confronto si allarga, nuovi paesi emergono dai processi di decolonizzazione sulle ceneri del colonialismo agonizzante. La «coesistenza pacifica» avrebbe allontanato lo scenario apocalittico di un confronto nucleare, senza tuttavia ricomporre fratture e appartenenze. Del resto, il decennio si apre con la costruzione del muro di Berlino che fissa la divisione geopolitica dell’Europa aggiornando le ragioni della guerra fredda nella città simbolo del confronto tra i blocchi58. E un anno dopo, nell’ottobre 1962 la crisi di Cuba mette

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nuovamente a rischio gli equilibri internazionali. I sovietici istallano segretamente testate nucleari sull’isola, a difesa del regime di Fidel Castro a conferma della volontà di poter agire su scala globale. I missili avrebbero potuto facilmente colpire la Florida, giungere così su territorio statunitense. Vitiescalation inaccettabile quando vennero individuati da aerei dell’aviazione Usa in ricognizione sull’isola caraibica. Giorni frenetici, con il mondo sull’orlo della guerra, trattative segrete tra la Casa Bianca, il Cremlino, la diplomazia vaticana che si muove in prima fila. Kennedy fa appello alla nazione prima che si giunga a un accordo che prevede lo smantellamento dei missili sovietici, l’impegno dell’amministrazione statunitense a non invadere l’isola (risale a un anno prima il tentativo di sbarco presso la Baia dei Porci) e il contestuale ritiro di missili della Nato posizionati in territorio turco. Un’intesa che premia nei diversi campi le colombe della pace a danno dei falchi di guerra con conseguenze non episodiche: la ricerca di un terreno comune a garanzia di sopravvivenza reciproca, l’inizio dal 1963 di ne­ goziati in grado di fissare controlli sull’uso delle armi nucleari favorendo così la stabilizzazione «di questo precario equilibrio del terrore»59. Il tempo della distensione è contraddittorio, segnato dal peso e dall’influenza dei rapporti di forza. La linea di comunicazione diretta tra i vertici delle due superpotenze riflette la volontà di rafforzare legami e controlli reciproci, far sì che la competizione possa continuare con mezzi e strumenti sempre aggiornati senza che lo sbocco obbligato sia un nuovo conflitto mondiale dalle conseguenze incontrollabili. La politica italiana vive il riflesso di questa contraddizio­ ne. Il varo del nuovo equilibrio è attraversato dalle tensioni di un mondo inquieto. La qualità stessa della democrazia va sotto osservazione quando il primo centrosinistra organico si trova in minoranza e si dimette a fine giugno 1964. Una vita breve per il primo governo Moro che non regge l’urto dei franchi tiratori e cade nel voto su un capitolo di bilancio della pubblica istruzione che incrementava le spese per la scuola privata. Uno scontro nella maggioranza, una divisione tra i partiti e nei partiti che va ben al di là dell’occasione che si era presentata. L’equilibrio non regge, si rimettono in moto resistenze e manovre di vario genere, non sempre alla luce del sole. In molti dichiarano che il centrosinistra non rappresenta una scelta irreversibile60. Una brutta pagina che vede diversi

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protagonisti (nelle istituzioni, nei partiti, nelle forze sociali e nel mondo dell’industria) animati dall’opzione favorevole o contraria al proseguimento della collaborazione di governo. Aldo Moro ottiene l’incarico dal presidente della Repubbli­ ca per tentare di rimettere in piedi l’alleanza. Il leader De annulla un viaggio nella capitale statunitense dove avrebbe incontrato il presidente Johnson. L’Ambasciata Usa a Roma comunica che «la data del viaggio dipenderà dagli sviluppi della situazione italiana»61. Una situazione complessa che si sovrappone alle minacce di un paventato golpe, ai rumori di «un tintinnio di sciabole» che fa da sfondo al Piano Solo, attribuito al generale dei carabinieri Giovanni De Lorenzo di­ rettore del Sifar (Servizio Informazioni Forze Armate). Il piano in chiave anticomunista avrebbe coinvolto l’arma mobilitata preventivamente in vista di sollevazioni eversive. La minaccia rientrò, non ci fu nessun golpe tentato o costruito62. Prevalse un confronto serrato tra le forze politiche, un ruolo attivo del Quirinale incline a interrompere l’intesa e la sconfitta di titubanze o non meglio definiti ritorni al passato attraverso il varo del secondo governo Moro: alleanza che esclude la sinistra socialista restringendo la base parlamentare di riferimento e accentuando quel tratto di difficoltà che ne segnerà il cam­ mino. Hanno la meglio Moro e Nenni, l’esperienza comune può proseguire nonostante ostacoli, numeri ridotti e trame mal celate. Il cammino sarà difficile, gli interrogativi sulla tenuta della democrazia italiana rimangono centrali. Significative in tal senso le osservazioni che Aldo Moro ha scritto nel carcere delle Brigate Rosse, nel 1978: Il tentativo di colpo di Stato del ’64 ebbe certo le caratteristiche esterne di un intervento militare, secondo una determinata pianifica­ zione propria dell’arma dei Carabinieri, ma finì per utilizzare questa strumentazione militare essenzialmente per portare a termine una pesante interferenza politica rivolta a bloccare o almeno fortemente dimensionare la politica di centro sinistra, ai primi momenti del suo svolgimento.

Bloccare il nuovo equilibrio, impedire che il governo facesse il suo corso dopo che la vicenda Tambroni, secondo lo stesso Moro «il fatto più grave e minaccioso per le istituzioni in quell’epoca», aveva mostrato la debolezza del quadro politico63.

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Analogie e differenze tra le due crisi ravvicinate: quella del 1960 con lo sbandamento a destra nell’esperimento Tambroni, e nell’estate di quattro anni dopo l’uscita dalla impasse politico­ parlamentare, l’ipotesi di golpe sullo sfondo e l’esecutivo confermato a guida di Aldo Moro. Nel primo caso la Chiesa si era opposta allo scenario dell’apertura a sinistra con prese di posizione e appelli pubblici. L’arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini aveva serrato le fila per il No nel 1960 salvo poi quattro anni dopo, divenuto pontefice, orientare l’episco­ pato verso la continuazione della collaborazione tra socialisti e cattolici64. Paolo VI interpreta un sentire diffuso, una linea di cambiamento e trasformazione che ha nel Concilio Vaticano II il suo approdo più alto e significativo65. Anche in questo caso il perimetro stretto della politica italiana viene investito da sollecitazioni che rimandano a un’istanza di rinnovamento universale, in grado di modificare la presenza del cattolicesi­ mo nelle sue forme storiche. Una discontinuità profonda che travalica confini, barriere, appartenenze. Si affievolisce la fun­ zione della De come argine anticomunista, parte dell’elettorato del partito di maggioranza relativa teme che il centrosinistra possa aprire la strada a nuove collaborazioni con i nemici di sempre. Con sprezzo la stampa di destra parla di «repubblica conciliare» come se dal Concilio e dalle sue disposizioni pren­ desse forma un nuovo rapporto tra l’anticomunismo storico e le nuove dinamiche della politica italiana. Una linea morbida di accettazione e dialogo, in sintonia con alcune forme che in modo contraddittorio segnano l’evoluzione del confronto Est-Ovest. Ma qualcosa di più profondo si muove a partire dall’impianto conciliare negli anni immediatamente successivi66. La convinzione - inizialmente minoritaria - che l’unità politica dei cattolici attorno alla De non sia un dato immodificabile e certo. Al contrario proprio l’impianto conciliare metteva in discussione il carattere del partito d’ispirazione cristiana, il suo legame con le gerarchie, l’idea stessa che si potessero confon­ dere piani diversi: la politica e la fede, il sacro e il profano. Moro difende la funzione della De, la laicità del partito acon­ fessionale, dei suoi militanti, l’autonomia del percorso di una classe dirigente. Ma la frattura non si ricompone divaricando progressivamente anime e strutture del mondo cattolico. Da una parte i moderati contrari alle innovazioni dottrinali del Vaticano II e critici verso i riflessi politici di quella discontinuità,

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sul versante opposto i progressisti spingono per rompere il cordone ombelicale tra il partito e la Chiesa, tra la presenza della De e l’impianto dottrinale del Concilio. In mezzo tra le due ali contrapposte la De cerca di difendere la propria unità evitando fratture o scissioni. Il partito punta a raccogliere tutti, organizzare un pezzo di società italiana, rappresentare le forme diverse del cattolicesimo politico e sociale. In sintesi, il permanere dell’impostazione degasperiana che si giova del magistero di Paolo VI. Il papa offre una sponda convincente al travaglio del partito cattolico, favorendo l’evoluzione di un concetto maturo di laicità fondato sul superamento definitivo delle contrapposizioni e dei retaggi antichi: la questione romana e la fine del potere temporale della Chiesa su tutti. Innovazioni che lasciano il segno e che puntano a coinvolgere mondi e realtà differenti. Il passaggio dal latino alla lingua corrente nelle celebrazioni liturgiche è un segno tangibile di apertura, di disponibilità all’incontro, di ricerca dell’altro. Questo un nodo dirimente, la discontinuità più profonda: in un contesto di mobilità e cambiamento l’accettazione dell’altro mette in discussione l’impianto gerarchico delle verità assolute, rivelate una volta per tutte. Si fa strada il pluralismo religioso, l’ecumenismo come nuova frontiera, la convinzione che il cammino di fede possa avvenire con gli altri (anche su posizioni divergenti) cercando risposte nel mare aperto della storia. Il Concilio è in fondo il tentativo di collocare pienamente la Chiesa nel suo tempo, darle una torsione verso i bisogni degli uomini e delle donne contro le rigidità e le certezze dell’ortodossia ufficiale: la fine dell’infallibilità papale, l’accettazione del pluralismo religioso, l’attenzione crescente verso i nuovi mondi emersi dai processi di decolonizzazione, i rapporti Nord-Sud e le di­ mensioni planetarie di vecchie e nuove ingiustizie. Un insieme di riforme che innovano il profilo della presenza nella società italiana contribuendo a mettere in discussione un rapporto automatico e scontato (fino ad allora) tra identità italiana e religione cattolica67. Di riflesso, nel conflitto con il blocco co­ munista si affievolisce la dimensione religiosa e nazionale che aveva motivato parte della contrapposizione frontale: nemici politico-ideologici e al tempo stesso inconciliabili con religione e identità nazionale. In questo quadro il Concilio aiuta il di­ sgelo interno, la possibilità di dar voce alle differenze sociali, antropologiche e culturali che dal mondo cattolico innervano

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la società italiana: «Non è esagerato dire che, solo dopo il Concilio, democrazia e pluralismo sono entrati definitivamente nella cultura corrente degli italiani»68. Un giudizio impegnativo che tiene conto dei tempi lunghi necessari alla valutazione di processi storici che affondano le radici nelle dinamiche più profonde del processo di costruzione della nazione; quel difficile rapporto con la democrazia richiama il ventennio fascista e, più da vicino nel nostro caso, le tappe del conflitto irrisolto tra lo Stato e la Chiesa. Il lascito del Concilio non si esaurisce quindi nel vasto perimetro dell’evento: annunciato nel 1959 e celebrato fra l’i l ottobre 1962 e l’8 dicembre 1965; due papi, una città, Roma, che diventa la capitale di una discussione uni­ versalmente riconosciuta e riconoscibile. Cercare un indirizzo a Roma è un esercizio che accomuna tanti, unisce angoli del pianeta, mette in discussione l’identificazione tra cattolicesimo e Occidente. Agli entusiasmi iniziali fanno seguito il confronto di merito, le difficoltà di scelte politiche e dottrinali. È una fase di svolta che segna il significativo ridimensionamento del vecchio continente: Il bipolarismo della deterrenza nucleare, la decolonizzazione, il riaccendersi di una lotta per l’influenza sull’Asia a partire dal martoriato quadrante sud-orientale, l’emergere del Medio Oriente come zona di frizione perpetua, la «politica della sicurezza» che stupra l’America Latina, sono tutti fenomeni che segnano la relativizzazione di ciò che il vecchio continente voleva essere69.

L’immagine e la costruzione di un’Europa tenuta insieme dall’ancoraggio ai valori cristiani mostra di non corrispondere alle novità del dopoguerra, ai nuovi assi della politica inter­ nazionale. E ancora il giudizio di uno storico come Alberto Melloni sulla responsabilità individuale di chi partecipa a un appuntamento con la storia: «I diplomatici, insomma, subiscono il fascino e scontano la difficoltà oggettiva di monitorare la più grande assemblea dotata di poteri deliberanti mai adunata sul pianeta [...] che riguarda una massa sconfinata di donne e uomini»70. Una svolta che sviluppa effetti e potenzialità nel tempo mentre la società italiana aveva cominciato ad allontanarsi dai valori tradizionali del cattolicesimo. Una secolarizzazione diffu­ sa e incompresa, un moto di autonomia e distacco dalle forme

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consolidate della presenza religiosa. Un paradosso figlio della modernità: la posizione di preminenza e controllo dei cattolici si combina con una trasformazione di mentalità, costumi, stili di vita. Una scristianizzazione, o l’altra faccia dell’Italia ricca che si manifesta nella povertà di spirito71. La «nuova cristia­ nità perduta», un paradosso carico di significati segnato dallo spontaneismo delle forze economiche, da uno sviluppo senza guida e progetto che «ha conferito alla secolarizzazione in Italia caratteri suoi propri con effetti particolarmente devastanti»72. Difficile trovare un punto di equilibrio tra la Chiesa in cerca di un rinnovamento possibile che la rimetta dentro la storia, in sintonia con i tempi nuovi e una società che prende radi­ calmente le distanze dalle stesse forme della presenza religiosa. Gli anni Sessanta sono il tempo di maturazione di queste con­ traddizioni, lo spazio dentro cui leggere la dialettica tra valori antichi e nuove sollecitazioni. In alcuni paesi la discontinuità è più marcata, in altri sarà il tempo a chiarire gli approdi di una dialettica non comprimibile. Uno storico come Pietro Scoppola ha coniato la felice espressione dell’«eterogenesi dei fini» per sottolineare l’evoluzione incontrollabile di un percorso che in parte si rivolge contro le motivazioni che ne avevano scatenato i primi passi. Un approdo imprevisto di uno sviluppo abbandonato alle regole del dinamismo spontaneo senza una guida e un efficace riferimento culturale. Lo stesso Scoppola anni dopo, nello scorcio finale del Novecento, tornava sul significato e i riflessi di lungo periodo delle trasformazioni al tempo del primo centrosinistra: In realtà, né la cultura marxista né tanto meno Pelitaria cultura laica sono state in grado di offrire al paese basi alternative al sentimento morale popolare di matrice cristiana. Il risultato è stato appunto quello di un salto in una sorta di vuoto etico del quale si percepisce oggi tutta la drammatica dimensione. Questo risultato verrà intrecciandosi con gli sviluppi del sistema politico73.

Note al capitolo secondo 1 Sulla dinamica dell’economia italiana nella seconda metà del No­ vecento cfr. P. Ciocca, Ricchi per sempre? Una storia economica d’Italia (1796-2005), Torino, Bollati Boringhieri, 2007; G. Tomolo, La crescita economica italiana, 1861-2011, in Id. (a cura di), L’Italia e l’economia

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mondiale, Venezia, Marsilio, 2013, pp. 5-51; E. Felice, Ascesa e declino. Storia economica d’Italia, Bologna, Il Mulino, 2015; F. Amatori (a cura di), L’approdo mancato. Economia, politica e società in Italia dopo il miracolo economico, Milano, Feltrinelli, 2017. 2 Su queste tematiche, O.A. Westad, La guerra fredda globale. Gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica e il mondo. Le relazioni internazionali del XX secolo, Milano, Il Saggiatore, 2015, pp. 1-81. 3 Per una ricostruzione di insieme cfr. I.T. Berend, An Economie History of Twentieth-Century Europe. Economie Regimes from Laissez-Faire to Globalization, Cambridge (MA), Cambridge University Press, 2006; B. Eichengreen, La nascita dell’economia europea. Dalla svolta del 1945 alla sfida dell’innovazione, Milano, Il Saggiatore, 2009. 4 Cfr. P. Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Milano, Gar­ zanti, 1989, pp. 479-595. 5 Una recente rivisitazione in B. Steil, La battaglia di Bretton Woods. John Maynard Keynes, Harry Dexter White e la nascita di un nuovo ordine mondiale, Roma, Donzelli, 2015. Sulle condizioni della ricostruzione del secondo dopoguerra cfr. E. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, Milano, Rizzoli, 1995, pp. 315-337. 6 Messaggio di papa Pio XII ai vescovi (1° gennaio 1954) in occasione del primo giorno di trasmissione della Tv italiana; Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, Quindicesimo anno di Pontificato, 2 marzo 1953-1° marzo 1954, Città del Vaticano, Tipografia Poliglotta Vaticana, pp. 679-686; anche in https://w2.vatican.va/content/pius-xii/it/apost_exhortations/documents/ hf_p-xii_exh_19540101_rapidi-progressi.html e http://www.chiesaecomunicazione.com/doc/esortazione-apostolica_i-rapidi-progressi_1954.php. 7 Una ricostruzione del dibattito sugli effetti e sulle conseguenze sociali del miracolo economico italiano in G. Crainz, Storia del miracolo italia­ no. Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta, Roma, Donzelli, 2005. 8 Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico 1945-1996, cit., pp. 317-337; P. Craveri, L’arte del non governo, liinesorabile declino della Repubblica italiana, Venezia, Marsilio, 2016, pp. 228-250. 9 E. Menduni, Il Autostrada del Sole, Bologna, Il Mulino, 1999. 10 Cfr. G. Pescosolido, Nazione, sviluppo economico e questione meri­ dionale in Italia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2017, pp. 167-176; Id., La questione meridionale in breve. Centocinquant’anni di storia, Roma, Donzelli, 2017, pp. 115-138. 11 Cfr. V. De Grazia, L’impero irresistibile. L’ascea del modello di consumo americano, Torino, Einaudi, 2006. 12 S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni Novanta, Venezia, Marsilio, 1992, p. 293. 13 G. Howard (a cura di), The Sixties. Art, Politics and Media of our Most Explosive Decade, New York, Paragon House, 1982; A. Marwick, The Sixties. Cultural Revolution in Britain, Trance, Italy and thè United States, c. 1958-c. 1974, Oxford-New York, Oxford University Press, 1998.

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14 Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta, cit., p. 157. 15 Cfr. J.L. Gaddis, We Now Know. Rethinking Colà War History, Oxford-New York, Oxford University Press, 1997; Crockatt, Cinquantan­ ni di guerra fredda, cit., pp. 506-518; Romero, Storia della guerra fredda. Lultimo conflitto per l’Europa, cit., pp. 335-346. 16 Cfr. O.A. Westad (a cura di), Reviewing thè Cold War. Approaches, Interpretations, Theory, London-Portland (OR), Frank Cass, 2000; J.S. Nye, Soft Power, Torino, Einaudi, 2005, pp. 7-60 e 112-160. 17 Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, cit., pp. 283-403; S. Colarizi, Storia del Novecento italiano. Cent'anni di entusiasmo, di paure, di speranza, Milano, Rizzoli, 2000, pp. 360-389. 18 Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico 1945-1996, cit., pp. 221-232. 19 Sul primo centrosinistra cfr. E. Santarelli, Storia critica della Repub­ blica. L’Italia dal 1945 al 1994, Milano, Feltrinelli, 1996, pp. 97-128; G. Mammarella, L’Italia contemporanea. 1943-1989, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 215-266; Soddu, La via italiana alla democrazia. Storia della Repubblica 1946-2013, cit., pp. 85-120. 20 Su questi aspetti si veda S. Hugh Lee, La guerra di Corea, Milano, Mondadori, 1990. 21 D. Rosati, Biografia del centrosinistra (1945-1995), Palermo, Sellerio, 1996; V. Foa, Questo Novecento. Un secolo di passione civile. La politica come responsabilità, Torino, Einaudi, 1996, pp. 268-310. 22 Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico 1945-1996, cit., pp. 239-262. 23 Cfr. G. Carocci, Il trasformismo dall’unità ad oggi, Milano, Unicopli, 2003, pp. 7-21 e 126-147; G. Sabbatucci, Il trasformismo come sistema. Saggio sulla storia politica dell’Italia unita, Roma-Bari, Laterza, 2003; M.L. Salvadori, Storia d’Italia e crisi di regime. Alle radici della politica italiana, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 63-84; L. Di Nucci, La democrazia distributiva. Saggio sul sistema politico dell’Italia repubblicana, Bologna, Il Mulino, 2016, pp. 170-212. 24 Si veda M. Flores, 1956, Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 7-10 e 128134. Sulle stesse tematiche cfr. F. Argentieri, Ungheria 1956. La rivoluzione calunniata, Venezia, Marsilio, 2006; G. Dalos, Ungheria 1956, Roma, Don­ zelli, 2006; S. Pons, L’Urss e il Pei nel sistema internazionale della guerra fredda, in R. Gualtieri (a cura di), Il Pei nell’Italia repubblicana 1943-1991, Roma, Carocci, 2001, pp. 3-46. 25 A. Graziosi, L’Urss dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione Sovie­ tica. 1945-1991, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 178-218; V. Mastny, Soviet Foreign Policy, 1953-1962, in The Cambridge History of thè Cold War, voi. I, Origins, cit., pp. 312-333. 26 G. Scroccu, Il partito al bivio. Il Psi dall’opposizione al governo (1953-1963), Roma, Carocci, 2011, pp. 90-139; P. Matterà, Storia del Psi 1892-1994, Roma, Carocci, 2010, pp. 160-170. 27 Flores, 1956, cit., pp. 128-129.

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28 Ibidem, p. 133. 29 Sulla nascita della Cee e il processo di integrazione comunitario cfr. B. Olivi, L’Europa difficile. Storia politica dell’integrazione europea. 1948-2000, Bologna, Il Mulino, 2001; B. Olivi e R. Santaniello, Storia dell’integrazio­ ne europea. Dalla guerra fredda alla Costituzione dell’Unione, Bologna, Il Mulino, 2005; G. Mammarella e P. Cacace, Storia e politica dell’Unione Europea (1926-2005), Roma-Bari, Laterza, 2011; M. Gilbert, Storia politica dell’integrazione europea, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 33-64; L. Rapone, Storia dell’integrazione europea, Roma, Carocci, 2015, pp. 19-49. 30 Cfr. L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra. Importanza e limiti della presenza americana in Italia, Roma-Bari, Laterza, 1999; Formigoni, Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), cit., pp. 229-294. 31 Cfr. P. Matterà, Moro e il Psi, in F. Perfetti, A. Ungari, D. Caviglia e D. De Luca (a cura di), Aldo Moro nell’Italia contemporanea, Firenze, Le Lettere, 2011, pp. 179-193; P. Pombeni, Moro e l’apertura a sinistra, in D. Mezzana e R. Moro (a cura di), Una vita, un paese. Aldo Moro e l’Italia del Novecento, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014, pp. 67-95; G. Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, Bologna, Il Mulino, 2016, pp. 119-228. 32 La preparazione della svolta di centrosinistra attraversa ben tre successivi convegni di studio della Democrazia cristiana che si svolgono a San Pellegrino tra settembre 1961 e ottobre 1963; il convegno dell’Istituto Gramsci Tendenze del capitalismo italiano, Roma, 23-25 marzo 1962; il convegno dell’Eliseo Prospettive di una nuova politica economica, promosso da riviste di area laica e socialista nell’ottobre 1961; il convegno organizzato dal Mulino La politica internazionale degli Stati Uniti e le responsabilità dell’Europa, Bologna, 22-24 aprile 1961. Per il merito del confronto che si sviluppa nei successivi convegni cfr. F. De Felice, Nazione e sviluppo: un nodo non sciolto, in Storia dell’Italia repubblicana, voi. 2, La trasformazione dell’Italia: sviluppo e squilibri, Torino, Einaudi, 1995, pp. 784-805. 33 Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni Novanta, cit., pp. 307-308. 34 Su questi aspetti cfr. Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico 1945-1996, cit., pp. 356-372; Giovagnoli, La Repubblica degli italiani, 1946-2016, cit., pp. 56-68; Soddu, La via italiana alla democrazia. Storia della Repubblica 1946-2013, cit., pp. 85-120. 35 Crainz, L’ombra della guerra. Il 1945, l’Italia, cit., pp. 92-96. 36 C. Levi, Le giornate di Genova, in «ABC», 10 luglio 1960, ora in Id., Il bambino del 7 luglio, a cura di S. Gerbi, Cava dei Tirreni, Avagliano, 1997; anche in Crainz, Storia della Repubblica. L’Italia dalla liberazione ad oggi, cit., pp. 105-106. 37 G. De Luna, I fatti di luglio 1960, in M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Personaggi e date dell’Italia unita, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 359-371; P. Cooke, Luglio 1960. Tambroni e la repressione fallita, Mila­ no, Teti, 2000; A.G. Parodi, Le giornate di Genova, Roma, Editori Riuniti, 2010; U. Gentiioni Silveri, Spataro ministro dell’Interno, in S. Trinchese (a cura di), Giuseppe Spataro tra popolarismo e Democrazia cristiana, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012, pp. 177-186; A. Fanfani, Diari, voi. IV, 19601963, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012, pp. 94-126.

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38 Gentiioni Silveri, Spataro ministro dell’Interno, cit., pp. 181-182. 39 Ibidem, p. 186. 40 Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico 1945-1996, cit., p. 367. 41 Su questi aspetti cfr. G. Valdevit, Stati Uniti e Medio Oriente dal 1945 a oggi, Roma, Carocci, 2003, pp. 60-98; W. Russell Mead, Il serpente e la colomba. Storia della politica estera degli Stati Uniti d’America, Milano, Garzanti, 2005, pp. 307-385. 42 In questo senso le riflessioni di P.E. Taviani, Politica a memoria d’uomo, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 403-407. 43 Sulla dialettica Italia-Usa negli anni del centrosinistra cfr. U. Gentiioni Silveri, L’Italia e la nuova frontiera. Stati Uniti e centro-sinistra 1958-1965, Bologna, Il Mulino, 1998; Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra. Im­ portanza e limiti della presenza americana in Italia, cit.; Formigoni, Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), cit., pp. 295-372. 44 Gentiioni Silveri, L’Italia e la nuova frontiera. Stati Uniti e centrosinistra 1958-1965, cit., p. 86. 45 L. Andrianopoli, Le giunte di Genova. Lettera aperta all’on. Aldo Moro Segretario Nazionale della D.C., in «Il Nuovo Cittadino», 20 gennaio 1961. 46 La lettera di Giuseppe Siri ad Aldo Moro del 18 febbraio 1961 venne pubblicata su «Il Quotidiano» del 2 marzo 1961; cfr. A. D’Angelo, Moro, i vescovi e l’apertura a sinistra, Roma, Studium, 2005, p. 25; G. Baget Bozzo, Dalla convergenze parallele al primo centrosinistra, in II Parlamento italiano 1861-1988, XVIII, 1959-1963. Una difficile transizione verso il centro-sinistra, Milano, Nuova Cei, 1991, p. 143. 47 Punti Vermi, in «L’Osservatore Romano», 18 maggio 1961. 48 Cfr. Crainz, Storia della Repubblica. Ultalia dalla liberazione ad oggi, cit., pp. 106-114; A. Giovagnoli, Il partito italiano. La Democrazia cristiana dal 1942 al 1994, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 106-127; Id., La Repubblica degli italiani, 1946-2016, cit., pp. 48-73; A. Melloni, Il concilio e la grazia. Saggi di storia sul Vaticano II, Milano, Jaca Book, 2016. 49 Fanfani, Diari, voi. IV, 1960-1963, cit., pp. 391-408. 50 Giovagnoli, Il partito italiano. La Democrazia cristiana dal 1942 al 1994, cit., pp. 101-106; Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, cit., pp. 150-160. 51 P. Nenni, Gli anni del centrosinistra. Diari 1957-1966, Milano, Sugarco, 1982, pp. 304-307. 52 Sul pontificato di Paolo VI cfr. Riccardi, Il «partito romano». Politica italiana, Chiesa cattolica e curia romana da Pio XII a Paolo VI, cit., pp. 247-306; X. Toscani, Paolo VI. Una biografia, Roma, Studium, 2014; G. La Bella, L’umanesimo di Paolo VI, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015; P. Chenaux, Paolo VI. Una biografia politica, Roma, Carocci, 2016. 53 Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni Novanta, cit., p. 308. 54 Felice, Ascesa e declino. Storia economica d’Italia, cit., pp. 283 ss.; Pescosolido, Nazione, sviluppo economico e questione meridionale in Italia,

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cit., pp. 171 ss.; A. Lepore, II divario Nord-Sud dalle origini a oggi. Evo­ luzione storica e profili economici, in M. Pellegrini (a cura di), Elementi di diritto pubblico dell’economia, Padova, Cedam, 2012, pp. 347-367, pp. 65-66; S. Palermo, Cicli economici e divario territoriale in Italia tra silver age e nuova globalizzazione, in G. Coco e A. Lepore (a cura di), Il risve­ glio del Mezzogiorno. Nuove politiche per lo sviluppo, Roma-Bari, Laterza, 2018, pp. 37-45. 55 Cfr. S. Mura, Antonio Segni. La politica e le istituzioni, Bologna, Il Mulino, 2017, pp. 421-486. 56 Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta, cit., p. XIV. 57 Cfr. D. Diner, Raccontare il Novecento. Una storia politica, Milano, Garzanti, 2007, pp. 193-241; G. Caredda, Le politiche della distensione. 1959-1972, Roma, Carocci, 2008; S. Pons, La rivoluzione globale. Storia del comuniSmo internazionale 1917-1991, Torino, Einaudi, 2012. 58 Romero, Storia della guerra fredda. Uultimo conflitto per l’Europa, cit., pp. 149-163; Gaddis, La Guerra fredda, cit., pp. 77-92; Harper, La guerra fredda, cit., pp. 167-180. 59 Romero, Storia della guerra fredda. Uultimo conflitto per l’Europa, cit., p. 87; L. Campus, I sei giorni che sconvolsero il mondo. La crisi dei missili di Cuba e le sue percezioni internazionali, Firenze, Le Monnier, 2014. 60 Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1942 al 1992, cit., pp. 200-219; Colarizi, Storia politica della repubblica 1943-2006, cit., pp. 76-105. 61 Gentiioni Silveri, Ultalia e la nuova frontiera. Stati Uniti e centrosinistra 1958-1965, cit., p. 264. a Sulle commissioni di inchiesta cfr. M. Franzinelli, La sottile linea nera. Neofascismo e servizi segreti da piazza Lontana a piazza della Loggia, Milano, Rizzoli, 2008; G. Fasanella, C. Sestieri e G. Pellegrino, Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro, Torino, Einaudi, 2000; riferimenti nelle pagine di diario di A. Segni, Diario (1956-1964), a cura di S. Mura, Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 261-264. 63 Gentiioni Silveri, L’Italia e la nuova frontiera. Stati Uniti e centrosinistra 1958-1965, cit., p. 270. 64 Giovagnoli, La Repubblica degli italiani, 1946-2016, cit., pp. 65-73. 65 Cfr. Storia del Concilio Vaticano II, diretta da G. Alberigo, 5 voli., Bologna, Il Mulino, 1995-2011. 66 Cfr. A. Riccardi, Il potere del Papa. Da Pio XII a Paolo VI, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 182-284. 67 Cfr. A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia. Dalla unificazione ai giorni nostri, Torino, Einaudi, 1977, pp. 311-321. 68 Ivi, p. 72. 69 A. Melloni, Ualtra Roma. Politica e S. Sede durante il Concilio vaticano II (1959-1965), Bologna, Il Mulino, 2000, p. 387. 70 Ivi, p. 389. 71 Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, cit., pp. 349-369; G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 125-182.

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72 Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico 1945-1996, cit., p. 330. 73 Ivi, p. 337; Id., La «nuova cristianità» perduta, Roma, Studium, 1985.

Capitolo terzo

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1. Il lungo Sessantotto Il paese appare cambiato, trasformato e diverso senza avere il tempo e la capacità di rendersene conto. Un grande balzo che si accompagna e si sovrappone al protagonismo diffuso di settori della società: la spinta a partecipare ac­ comuna le strategie di cittadinanza dei nuovi italiani. Per essere dentro la storia come potenziali interpreti ci si attiva, si cercano interlocutori e compagni di strada, si guarda con rinnovato interesse oltre confine, scrutando l’orizzonte per trovare stimoli e punti di riferimento. «I tempi stanno cam­ biando» cantava nel 1964 Bob Dylan, «The times they are a changing» e «l’ordine tramonta in fretta»; un tramonto che sembra una svolta, un punto di non ritorno negli equilibri globali che dall’uscita dei decenni della guerra civile europea si erano spinti fino a segnare la parabola del dopoguerra, il senso più profondo della discontinuità postwar1. Sono le fer­ ree logiche della contrapposizione bipolare a mostrare crepe e debolezze, le certezze crollano e la comunicazione tra i due mondi contrapposti passa per nuove strutture e linguaggi. La musica, l’arte, le forme di espressione delle generazioni che a Est come a Ovest sono nate e cresciute dopo il 1945 nella speranza (divenuta presto una convinzione) di poter vivere meglio: un saldo positivo nel passaggio del testimone tra figli e genitori. Le aspettative di vita contribuiscono a definire il perimetro del cambiamento. Le ricadute si distribuiscono sul versante quantitativo: si allunga la curva della durata della vita e cambiano i riferimenti temporali per misurare lo stesso passaggio da una generazione all’altra. Ma la discontinuità più incisiva e profonda chiama in causa l’aspetto qualitativo dell’innovazione: consumi diffusi, benessere individuale, ri-

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cerca di nuove aperture verso mondi emergenti, scoperta di un tempo libero dal lavoro, cura di sé e del proprio corpo. Il conflitto da latente diventa manifesto, esplicito. Al tramonto del vecchio non corrisponde una coerente e sinergica opera di rinnovamento. Molto rimane in vita, resiste e si conserva, altro muta parzialmente per poi trovare nuovi spazi, altro ancora viene travolto dal protagonismo di soggettività inedite. Una dialettica incessante, il segno della modernità, ma anche il passaggio a un tempo incerto che sedimenta aspettative alle quali in tanti non riescono a dar seguito. La frattura è trasversale, tra opportunità e chiusure, tra generazioni diverse, tra chi riesce a beneficiare delle trasformazioni e chi invece rimane emarginato, escluso e mortificato. Speranze e illusioni muovono uomini e donne verso la ricerca di nuove possibilità in grado di rompere gabbie e condizionamenti della stratifi­ cazione sociale di partenza. Una tensione costante che non si riassorbe trovando con il tempo nuovi interpreti che non si riconoscono nella centralità del binomio amico-nemico imposta dal riflesso condizionato dell’ordine della guerra fredda2. Il rapporto tra individuo e collettività entra in fibrillazione, le strutture tradizionali non soddisfano le aspirazioni di tanti: ha inizio una parabola discendente per partiti, organizzazioni collettive, sindacati o associazioni. Difficile trovare un punto di equilibrio tra la sfera della soggettività individuale che chiede sempre di più e meglio e le forme di espressione e organizzazione della collettività. Più si afferma il primo, più l’individuo cerca una propria dimensione convincente che possa realizzarlo pienamente (o pensare di poterlo conseguire) e più sembra irragionevole e irrealistico proporre l’articolazione di una società per gruppi o identità omogenee, precostituite, figlie di un tempo che volge alla conclusione, di una stagione che sta per tramontare. Il cambiamento degli orientamenti degli italiani viaggia su piani diversi: la politica, la religione, la famiglia, i luoghi della formazione, la scuola e l’università. Linguaggi e modelli che da lontano, soprattutto dalle nuove forme di espressione che scuotono il mondo anglosassone, en­ trano in contatto con i percorsi della modernizzazione italiana. Lo sguardo lungo sul decennio si è accompagnato a interro­ gativi inevasi sulla presenza di una vera e propria rivoluzione culturale che dagli anni Sessanta si spinge fino a condizionare l’ultima parte del Novecento. Un dibattito che mette in risalto

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la discontinuità di un decennio in termini di arte, politica, musica, mass media, strategie di comprensione e diffusione dei saperi. Gli Stati Uniti sono l’epicentro della rivoluzione: diritti civili, diritti di espressione, libertà di parola, libertà sessuali, movimenti che dalle università californiane attraversano confini e appartenenze creando una convivenza inedita e complessa tra amore, odio, creatività e confusione, libertà e violenza3. Il presente si popola così di attori, nuovi protagonisti che irrompono (o pensano di poterlo fare) sulla scena della storia. Di riflesso lo spazio si restringe progressivamente, il mondo viene percepito e pensato in una dimensione più contenuta e unitaria verso l’idea di un villaggio globale con più similitudini che differenze. Prevalgono le linee d’interdipendenza, i nessi che mettono in relazione angoli diversi del pianeta. Anche il tempo muta la sua natura, accelera diventando più rapido e incalzante segnato dai mutamenti della modernità applicata alla vita quotidiana. Una rivoluzione culturale? Non serve fermarsi a una definizione possibile, né considerarne le ricadute che ne deriverebbero. Il metodo storico spinge a guardare dentro i processi cercando spiegazioni plausibili, punti di vista che possano aiutare a consolidare interpretazioni e giudizi. Il cammino della Repubblica è immerso nella dialettica tra conservazione e progresso, tra le resistenze al cambiamento e il vento delle curiosità intellettuali che spira da oltreoceano. Chi sostiene il centrosinistra non avrebbe avuto riconoscimenti e successi se non si fossero consolidati orientamenti e indirizzi di cambiamento nel cuore della società italiana. Processi di lungo periodo che si manifestano con evidenza e profondi­ tà: la mobilità interna delle migrazioni e degli spostamenti di milioni di italiani; il volto delle città come universo della trasformazione produttiva e culturale, luogo d’incontro tra diversità e pensieri; l’industrializzazione che si afferma come motore trainante di un nuovo mondo che spazza via il vecchio omologando e uniformando territori e storie4. Le facce della modernità che si manifestano contemporaneamente in un segmento temporale ristretto con rapidità e vitalità. Ed è in questo contesto che il tempo diventa una variabile decisiva: un cambiamento culturale profondo che per sua stessa natura ha bisogno di potersi sedimentare poggiando su strumenti adeguati non occasionali. Il tempo della cultura non è lo stesso di processi che in pochi anni cambiano il volto della

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società italiana. Se lo osservassimo da un altro punto di vista noteremmo come l’assenza di una rifondazione culturale che possa corrispondere ai cambiamenti economico-sociali abbia inciso sulla capacità di orientare i fenomeni, governare gli esiti, indirizzare gli effetti dello sviluppo impetuoso concentrato in meno di un decennio5. Efficace in tal senso il richiamo al classico testo di Eugen Weber che segue e ricostruisce il per­ corso di evoluzione e trasformazione nazionale da contadini a francesi. In Italia lo stesso tipo di percorso è stato molto più breve, differenziato geograficamente, fragile nelle dinamiche del rapporto tradizione-innovazione6. I processi di trasformazione che attraversano il decennio culminano nell’epilogo di un evento planetario che per brevità o partecipazione viene definito come «il Sessantotto» o con diverse declinazioni e valenze semantiche «i Sessantotto» o ancora «anni Sessantotto»7. Un insieme di questioni che si rivelano contemporaneamente: un anno, un processo di lungo corso, una conflittualità diffusa, un protagonismo inedito di generazioni nate e cresciute dopo la fine del conflitto mon­ diale. Molte sono le prospettive e i punti di vista, con alcune controverse ricadute che meritano attenzione: da un lato la scansione temporale, l’irrisolta questione delle periodizzazioni possibili (inizio e fine del fenomeno) e dall’altro la non facile definizione del soggetto da analizzare. Un movimento che investe settori diversi della società, attraversa simultaneamente (o quasi) diversi paesi e continenti e si manifesta in modi e linguaggi non omogenei. La scelta dei tempi e la definizione del soggetto rappresentano un primo ostacolo che mal si combina con i racconti in stile «come eravamo». Con quel rimpianto malcelato che spesso si è affacciato nelle memorie di tanti e persino tra le pieghe delle riflessioni storiografiche. Per almeno due decenni sono mancate ricostruzioni storiche basate su documentazione non episodica o limitata. Uno studioso attento come Peppino Ortoleva si domandava - nel 1988 in occasione del ventennale - quali fossero i motivi dell’assenza di un quadro di riferimento in grado di rompere la morsa tra condanna senza appelli e revival nostalgici di chi voleva tornare alla meglio gioventù di allora8. II Sessantotto nella sua lunga durata non può che coinvol­ gere direttamente una riflessione più generale sul dopoguerra italiano, sul ruolo dei movimenti, sul peso di una stagione

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segnata dal protagonismo di soggettività e culture inedite. Una riflessione pienamente inserita nelle dinamiche del siste­ ma internazionale, nelle periodizzazioni che caratterizzano gli studi sulla guerra fredda e i suoi condizionamenti. Se sfumano i ricordi, se si affievolisce il rimpianto per un tempo lontano, allora prendono corpo gli interrogativi e le ipotesi interpreta­ tive sulle grandi questioni che il Sessantotto solleva e proietta sull’Italia e, in un’ottica più ampia, sulle trasformazioni di un mondo inquieto. La dimensione internazionale amplifica gli effetti diffe­ renziando cronologie e punti di partenza. Tutto sembra avere inizio nel Campus di Berkeley, in California nel 1964. Il segno prevalente è quello dell’inclusione nel sistema formativo, delle porte di accesso ai corsi universitari e della sfida per ottenere il riconoscimento della libertà di parola. Ribellione nel Cam­ pus titola il 30 settembre 1964 il «San Francisco Chronicle»; ventiquattr’ore dopo il «Daily Cai», periodico dell’Università di California: È guerra a Berkeley. In pochi giorni la rivolta conquista le prime pagine, irrompe nei notiziari; la più grande università pubblica degli Stati Uniti si scopre d’improvviso ribelle e conflittuale. Un tavolino all’ingresso principale di­ venta il simbolo degli studenti: comizi volanti, distribuzioni di volantini e raccolta di firme che chiedono la riduzione delle tasse d’iscrizione. Poche settimane e lo scontro si acuisce: ai divieti del rettore seguono proteste e sit-in; nei caffè, nei viali che costeggiano l’università si susseguono incontri e cortei spontanei; da un microfono nella piazza principale Sproul Plaza, si alternano interventi di tre minuti; il neonato movimento muove i primi passi comunicando a voce alta idee e slogan. Nasce così nelle turbolente settimane di autunno 1964 il Free Speech Movement (Fsm); la Bay area di San Francisco diven­ ta laboratorio della nuova sinistra americana9. «Per la prima volta non eravamo l’élite privilegiata che poteva permettersi di studiare a lungo, ci sentivamo l’avanguardia di un movimento che voleva cambiare nel profondo la società americana»10, così John Searle, protagonista di allora, a lungo docente di filosofia nel campus californiano. L’onda non si placa, il simbolo della rivolta scuote con­ venzioni e luoghi del sapere lungo tutti gli anni Sessanta; le ragioni più profonde non si esauriscono nella richiesta dei free speeches, della libertà di espressione senza limiti o restrizioni:

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l’università fa esplodere le contraddizioni vecchie e nuove della società statunitense. Protagonismo studentesco che si salda con i movimenti per i diritti civili e con le critiche all’inter­ vento militare in Vietnam. Spinte diverse che in forme simili e in tempi ravvicinati giungono negli angoli più diversi del pianeta. L’università era cambiata, i luoghi della formazione raccolgono e amplificano le parole d’ordine di un segmento giovanile che non si riconosce nelle categorie e nelle analisi della guerra fredda. Il rock, la critica all’autoritarismo e di lì a poco la dimensione internazionale della protesta superano cortine e divieti. Per tanti, figli acquisiti di un mondo nuovo da costruire, il muro di Berlino è cominciato a cadere nelle contraddizioni di quegli anni ribelli. «Questa università è la coscienza viva di una possibile civiltà degli Stati Uniti che, dal bordo dell’oceano può arrivare nel cuore del paese», così Martin Luther King saluta nel maggio 1967 gli studenti riuniti a Sproul Plaza. Una coscienza inquieta e ribelle fatta di memo­ rie e speranze, ma forse più di ogni altra cosa di un desiderio continuo di guardare avanti e cercare nuovi interlocutori. Il pastore battista, leader del movimento pacifista afroamericano viene ucciso il 4 aprile 1968 a Memphis; due mesi dopo a Los Angeles viene colpito a morte Robert Kennedy, senatore democratico candidato alle presidenziali. Nel vecchio continente la diffusione del movimento (come spesso lo si chiama con enfasi o con partecipazione) si manifesta nel biennio 1966-67 a partire dall’uccisione di Paolo Rossi sulla scalinata della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma «la Sapienza» il 27 aprile 1966. Uno studente come tanti, partecipe della vita democratica del proprio Ateneo, colpito dalla violenza squadrista e dalle menzogne sulle dinamiche di quella triste giornata: una biografia spezzata quando non s’immaginava di poter varcare il confine del rispetto della vita delle persone. Un nuovo fascismo che torna protagonista, segna il tempo della conflittualità, condiziona la stagione dei movimenti, restringe gli spazi della partecipazione compressa dalla violenza diffusa e dal terrore11. Uno scontro di prospettive: diritti da una parte, reazioni violente dall’altra. Conflittualità e protagonismo giovanile, facoltà occupate per giorni insieme all’impegno per salvare il patrimonio di Firenze colpita nel 1966 da una violenta alluvione. Il Sessantotto degli studenti si lega all’autunno caldo dell’anno successivo, all’emergere di

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una conflittualità operaia che ha un’identità politica (salari e contratti) e generazionale (una nuova leva entrata in fabbri­ ca). Una specificità italiana il nesso e l’incontro tra studenti e operai, tra l’università e la fabbrica, tra il 1968 e il 1969. I numeri aiutano a fissare i termini strutturali della questione generazionale. Nel 1951 gli iscritti alle scuole superiori sono circa il 10% degli aventi diritto, venti anni dopo uno su due va a scuola. In meno di dieci anni, dal 1960 al 1968 gli studenti delle facoltà universitarie sono più che raddoppiati toccando la cifra di 550 mila giovani. Una spinta che entra in rotta di collisione con i conservatorismi diffusi, con la qualità ostile del corpo accademico, con le resistenze di una tradizionale gerarchia dominante. La diffusione del movimento è rapida, contagiosa. Tra fine 1967 e inizio 1968 il salto di qualità, con gli eventi coin­ volgenti del maggio parigino. In una successione ravvicinata: l’Università di Pisa, Sociologia a Trento, la Cattolica di Milano, l’Università di Torino, già attraversata dagli scontri sindacali di piazza Statuto dei primi anni Sessanta. E a seguire in una cronologia lacunosa: il confronto serrato a Valle Giulia a Roma tra studenti e forze dell’ordine ai primi di marzo (celebre la poesia di Pier Paolo Pasolini che si schiera con i giovani po­ liziotti)12 e, alla fine dell’anno, la contestazione plateale alla prima della Scala a Milano con il provocatorio lancio di uova verso un mondo ostile e lontano. Scuole e università come centri di una nuova socialità giovanile, una controcultura di varie matrici, protagonista di una critica radicale ai modelli capitalistici dominanti; anche lo shopping natalizio viene preso di mira, irriso e contestato platealmente. Tutto appare in movimento, scosso dalla forza della novità: le famiglie, la Chiesa, la fabbrica, l’esercito, gli ospedali psichiatrici e le carceri. La riforma dello Stato come orizzonte possibile di un impegno civile che non trova canali e strumenti per poter incidere, decidere, condizionare. Il sistema si chiude a riccio, alcuni scelgono il ritorno a casa nel privato, altri troveranno nelle forme terroristiche del partito armato terribili punti di approdo e di militanza. A questo livello si fanno strada i nessi con gli anni Settanta e con l’esplosione del terrorismo, i fili di un legame con gli anni di piombo come possibile rivela­ zione di un percorso conflittuale. Non avrebbe molto senso confondere piani e situazioni, né si può pensare di creare un

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rapporto causa-effetto tra i giovani del movimento e i gruppi organizzati che attraversano il decennio successivo. Gli studi più seri hanno messo a fuoco le dinamiche del Sessantotto in Italia (e non solo) analizzando periodizzazioni, scelte e conse­ guenze possibili: ricercare con ostinazione le premesse, i tratti costitutivi della generazione che ha preparato il movimento, più che gli approdi del decennio successivo; non giudicare o schierarsi in modo aprioristico, ma cercare di raccontare l’«evento Sessantotto» offrendo chiavi interpretative e giudizi verificabili. Non celebrare, né condannare o giustificare, ma cercare quelle risposte ai tanti perché che accompagnano il movimento e i suoi legami con la storia del paese. Dagli Usa all’Europa, dalle università ai luoghi di lavoro sembra che il tempo del cambiamento soffi con la capacità di avvicinare spazi, contesti, situazioni e persino biografie. Un anno di rotture e discontinuità a Est come a Ovest, da Parigi (le barricate nel quartiere latino, gli scontri tra polizia e movimento studentesco) alla primavera di Praga (l’intervento sovietico contro il socialismo dal volto umano di Alexander Dubcek)13. Un evento globale o forse, più correttamente, una conferma della dimensione internazionale dei processi storici del secondo dopoguerra. Un tratto costitutivo degli anni intor­ no al Sessantotto, di un tornante della storia contemporanea nel quale la concomitanza degli eventi amplifica e mette in connessione situazioni lontane, apparentemente molto diverse tra loro. L’analisi del Sessantotto non può quindi prescindere dalla necessaria «globalizzazione di un evento». Si tratta di una questione prioritaria e indispensabile anche per capire gli sviluppi dei quadri nazionali. L’affermarsi simultaneo di un protagonismo giovanile segna l’inizio della fine della guerra fredda e l’avvento di linguaggi e messaggi che vanno al di là della contrapposizione bipolare. Diversi elementi contribui­ scono a definire il quadro degli eventi a partire dall’ampiezza geografica delle mobilitazioni e dalla cultura che le caratterizza: linguaggi e forme non riconducibili alle rigidità del confronto bipolare o alle compatibilità dei confini nazionali14. Il terremoto nel mondo comunista, la repressione violenta del riformismo cecoslovacco segna la fine di Mosca come guida indiscussa del movimento comunista internazionale13. E sull’altro versante la sporca guerra in Vietnam affievolisce il mito americano rendendolo vulnerabile e incerto. I modelli di riferimento

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scricchiolano, attirano critiche e prese di distanze, mostrano il volto contraddittorio del confronto bipolare. Il movimento costruisce un nuovo ponte tra le due spon­ de dell’Atlantico da un’ottica inedita, quella di un soggetto collettivo che appare repentinamente muovendosi tra aule universitarie e piazze in città lontane che vengono accomunate dalle parole d’ordine comuni della protesta. La ricerca di un nuovo inizio che abbia il segno di una generazione protagonista del proprio percorso, talvolta in continuità, più di frequente in rottura con le tradizionali forme di espressione della politica. La ribellione come tratto dominante, segno distintivo recu­ perando il titolo di un film inglese del 1962 che diventa una sorta di riferimento obbligato persino al di là della trama e dei contenuti della pellicola: Gioventù, amore e rabbia adattamento del romanzo di Alan Sillitoe16. Un’associazione di parole nel percorso biografico di un adolescente alle prese con un cam­ mino difficile: la rabbia dei giovani proletari, l’incertezza del domani, la voglia di costruire un orizzonte migliore. E così si giunge alla controversa questione delle eredità del movimento, dei lasciti di una stagione non riconducibile alle dinamiche di un singolo contesto nazionale. In Italia il Sessantotto si lega a una crisi più generale del sistema politico, all’indebolimento inesorabile della capacità dei partiti di essere tramite e filtro tra cittadini e istituzioni. La fine della centralità di esperienze collettive che avevano percorso i decenni del dopoguerra con la consapevolezza di rappresentare i soggetti principali di una dialettica capace di includere e coinvolgere settori diversi della società italiana. Dalle basi ristrette del passato nel lungo processo di costruzione della nazione fino alle forme moderne della democrazia di massa attraversata dalla capacità dei partiti di raccogliere e rappresentare istanze, interessi, mondi diversi. Su questi aspetti il decennio che si apre con il 1968 presenta caratteristiche unitarie e fattori di inter­ dipendenza. Il rapporto tra cittadini e istituzioni, soprattutto grazie alle nuove soggettività studentesca e giovanile, non è più mediato dalle sole forze politiche. E gli stessi partiti di massa non sono in grado di comprendere la portata del movimento: alcuni ne raccoglieranno l’eredità altri, soprattutto nella sinistra storica, avranno i benefici dell’ingresso di nuovi quadri dirigenti, ma il movimento come evento di cesura generazionale rimane ostile alla cultura e all’organizzazione dei partiti.

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Anche l’istituzione Chiesa entra in crisi sulla spinta di nuovi movimenti che sull’onda del Concilio Vaticano II spin­ gono per una riforma dei rapporti gerarchici e degli stessi meccanismi di funzionamento: una Chiesa dei fedeli, capace di privilegiare la dimensione di base, con un’identità fondata su quel «terzomondismo» che nel movimento andava per la maggiore. I caratteri costitutivi di una presenza religiosa post­ conciliare s’intrecciano con rivendicazioni, critiche, linguaggi che attraversano il movimento in angoli diversi del pianeta. Sono i temi della riforma della Chiesa, del suo essere parte della storia, partecipe delle trasformazioni di un tempo inquie­ to. Temi che si affacciano in anni successivi evidenziando l’eredità del 1968. Basti il richiamo all’appello «Noi siamo Chiesa. Appello dal popolo di Dio» che ha raccolto migliaia di firme in tutto il mondo, presentando «nel metodo (lettera aperta del “popolo di D io” al papa come per un referendum), nelle richieste (la democratizzazione della Chiesa, il sacerdozio non celibatario, la scelta dei vescovi dal basso) e perfino nel linguaggio molte somiglianze con i documenti del Sessantotto e dintorni»17. Tanti e difformi i terreni di indagine sulle eredità e le memorie del movimento: i linguaggi, le culture, le stesse meto­ dologie di lavoro. Ma il risultato è reso più difficile da quello che Peppino Ortoleva ha definito «la difficoltà di trasmettere realmente il sapere e l’esperienza del ’68», operazione diffici­ le, lontana dai revival o dalla memorialistica dei protagonisti inserita pienamente nelle riflessioni sulla crisi della democrazia contemporanea, sulle forme di partecipazione sui confini tra libertà individuali e diritti collettivi18. Sono i temi legati alla centralità della politica in Occidente e alla sua mancata riforma, nonostante da più parti venisse segna­ lata l’urgenza di modificare forme, contenuti, metodi e linguaggi dell’agire collettivo. Su questo versante il movimento (e ciò che intorno lo caratterizza) amplifica la dimensione prevalente del «politico» nella costruzione di domande e aspettative e nella politicizzazione progressiva di protagonisti vecchi e nuovi. Uno spazio segnato dall’identità della generazione del movimento attraversato dal protagonismo di soggettività inedite a partire dall’irrompere del femminismo: muta il rapporto tra individuo e collettività, tra cittadini e forme della politica. La rivoluzione delle donne va in profondità fino a toccare cardini e fondamenta

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di un sistema resistente e impermeabile al cambiamento19. Un posto di rilievo conquistato dalla straordinaria intuizione sul nesso tra potere e sapere che unisce diversi paesi attraversati dalle mobilitazioni di fine decennio. Si tratta di premesse di una dialettica che attraverserà il tempo successivo: l’accesso ai saperi, il ruolo della formazione come requisito indispen­ sabile per le strategie di cittadinanza di un tempo nuovo. Un lascito significativo che dalla fine degli anni Sessanta segna gli ultimi decenni del Novecento. Il Sessantotto, soprattutto la sua dimensione planetaria, si sviluppa sull’asse cultura-potere, sulla necessità di offrire alle nuove generazioni gli strumenti di lettura e di comprensione dei processi storici. Il conflitto non si riassorbe facilmente, semmai trova forme per arrivare al de­ cennio successivo, con radicalizzazione e approdi imprevedibili. Gli strumenti stessi del sapere cambiano senso o significato. Il libro per esempio non è più sinonimo di interrogazioni o esami di verifica, «leggere diventò all’improvviso passione gratuita per il mondo, bisogno di rintracciare una tradizione critica dall’interno della quale guardare l’esistente. Poco si è salvato oggi di quel particolare uso di massa di libri, saggi e romanzi senza distinzione»20. Conoscere per trasformare, per sentirsi parte di un’esperienza collettiva in grado di unire e avvicinare diversi angoli del mondo. 2. La fine dell’innocenza «Tempi nuovi si annunciano e avanzano in fretta come non mai»21; Aldo Moro sceglie il Consiglio Nazionale della Democrazia cristiana, convocato il 21 novembre 1968, per collocarsi autonomamente all’interno del proprio partito nella convinzione che non sia possibile accontentarsi di una posizione di attesa fondata su privilegi antichi o rendite di posizione22. Una voce autorevole che dall’interno del sistema politico evidenzia il peso delle discontinuità profonde che accompagnano la fine del decennio, le eredità irrisolte del Sessantotto. Vale la pena riprendere alcuni passaggi chiave di un intervento che segna l’apertura di una dialettica interessante tra innovatori e conservatori; il sintomo di una possibile fase nuova che s’intravede all’orizzonte.

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Il vorticoso succedersi delle rivendicazioni, la sensazione che storture, ingiustizie, zone d’ombra, condizioni d’insufficiente dignità e d’insufficiente potere non siano oltre tollerabili, l’ampliarsi del quadro delle attese e delle speranze all’intera umanità, la visione del diritto degli altri, anche dei più lontani, da tutelare non meno del proprio, il fatto che i giovani, sentendosi a un punto nodale della Storia, non si riconoscano nella società in cui sono e la mettano in crisi, sono tutti segni di grandi cambiamenti e del travaglio doloroso nel quale nasce una nuova umanità23.

Il protagonismo di una soggettività giovanile emergente mette in causa le compatibilità e gli equilibri del sistema politico. Ma nelle parole dell’esponente della De troviamo un salto di qualità che sfugge a molti osservatori di allora e alla maggio­ ranza dei suoi compagni di strada: non si tratta di cercare un piccolo aggiustamento interno, né di puntare al riequilibrio dei rapporti di forza tra le componenti del partito o del governo guidato da Giovanni Leone che aveva appena presentato, il 19 novembre 1968, le proprie dimissioni. La dimensione dei fenomeni non è comprimibile dentro gli schemi conosciuti e frequentati nel dopoguerra: «Nel profondo, è una nuova umanità che vuole farsi, è il moto irresistibile della Storia»24. Se l’analisi muove a partire dall’autonomia di una generazione che ha tanti punti in comune, rivendicazioni plurali, riferimenti da mettere in gioco, allora la crisi delle forme della politica appare nella sua rilevanza storica. Una contraddizione tra le aspirazioni al cambiamento e l’ambito di risposte che non vanno al di là della riproposizione di formule abusate. Ancora dalle parole di Aldo Moro: «Se la stabilità politica è essenziale, se è la condizione di ogni progresso civile, non si può certo dire che essa sia pagata a troppo caro prezzo»25. Ecco il punto di caduta della contraddizione di quegli anni e forse di un’inte­ ra fase. Cosa significa stabilità? Quale rapporto costruire tra il cammino che separa la Repubblica dalla fine del secondo conflitto mondiale e gli interrogativi sugli anni a venire? In fondo la maggioranza di governo aveva tenuto le redini del sistema politico, mediato e condiviso scelte importanti con le opposizioni, rilanciato e difeso il quadro costituzionale di riferimento. Un carattere inclusivo e aperto, acquisitivo e rassicurante fino a quando il perimetro non diventa troppo angusto, riservato, considerato ingiusto e diseguale per i tanti

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aspiranti protagonisti del mondo globale: ampiezza geografica e simultaneità rendono la fine degli anni Sessanta un tempo nuovo in grado di mettere in crisi l’architettura delle società occidentali26. Per le classi dirigenti una frattura difficile: chi rimuove la profondità degli interrogativi presto o tardi verrà travolto, chi al contrario tenta di sperimentare una possibile risposta non riesce a venirne a capo. Senza una guida e un ordine che componga i conflitti sociali a un livello sempre più alto di giustizia, nessuna società può vivere e progredire. Essa non comporta dunque immobilità e indifferenza al moto incessante della Storia. In tali condizioni la stabilità politica, di per sé sola non esisterebbe27.

Moro critica l’inerzia come retaggio di una fase conclusa, condizionamento che non aiuta a indirizzare e guidare i cambia­ menti. Una democrazia aperta non può chiudersi o difendersi a oltranza e del resto come non mettere in risalto nell’Italia scossa dal protagonismo dei giovani che: «è essenziale che le esigenze crescenti e presenti di una società viva abbiano la loro graduale, ma piena soddisfazione»28. Giudizi impegnativi che si spingono al di là degli eventi di un biennio cruciale. Il sistema politico italiano sembra aver perso le proprie capacità espansive, assediato da nuove richieste e condizionato da chi pensa di poter traghettare il vecchio nella nuova condizione. Il mondo inedito fa i conti con le strettoie della politica tra­ dizionale, dopo Leone due governi a guida De nella figura di Mariano Rumor. Nella V legislatura (1968-1972) ben sei esecutivi in alternanza quasi automatica tra un monocolore democristiano e una composizione di centrosinistra (De, Psi, Psu, Pri): governi di coalizione deboli, attraversati da tensioni interne, incapaci di dare prospettive e indirizzi a un paese alla ricerca di risposte a fronte di bisogni e aspirazioni condivisi29. L’impotenza manifesta di una classe politica che non sembra all’altezza dei tempi: difficile tornare a maggioranze di cen­ trosinistra per aprire pagine nuove, le divisioni e le scissioni nel mondo socialista rendono plurale un panorama confuso: Partito socialista italiano (guidato da Francesco De Martino) e Partito socialista unitario (con Mauro Ferri quale leader). Il primo più disponibile al dialogo con i comunisti, il secondo inserito nell’equilibrio di centrosinistra con la De. L’unità tra

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i partiti d’ispirazione socialista era durata meno di tre anni, il governo di riflesso non consolida maggioranze e riferimenti certi30. Da qui l’alternanza di esecutivi, le crisi ripetute, la debolezza complessiva di un quadro politico incerto e fram­ mentato, diviso da una prospettiva irrealizzabile: rilanciare il centrosinistra o rifugiarsi nella forza indebolita del partito di maggioranza relativa. Un passaggio stretto come epilogo del decennio mentre irrompe la violenza di piazza come nuovo inquietante protagonista. Il 25 aprile 1969, ventiquattresimo anniversario della Li­ berazione, un’esplosione nel padiglione Fiat alla Fiera cam­ pionaria di Milano ferisce cinque persone. Nelle stesse ore un ordigno rudimentale viene rinvenuto nella stazione centrale del capoluogo lombardo. E nel corso dell’estate, il 9 agosto in simultanea, ben otto attentati colpiscono treni in varie re­ gioni italiane; un bilancio di poco più di una decina di feriti. Ma la strada è segnata, un 'escalation continua di violenze che condizionano comportamenti e reazioni politiche. Verso la metà di novembre un agente di polizia, Antonio Annarumma, perde la vita durante uno sciopero per la casa, degenerato in una colluttazione tra manifestanti e forze dell’ordine. Il fune­ rale dell’agente è un nuovo momento di tensione: reparti della polizia chiedono di non avere vincoli o controlli per poter rispondere adeguatamente durante le mobilitazioni di piazza. Il clima è quello di uno scontro frontale, ingestibile e per molti incontrollabile31. Un contesto difficile e lacerante quando nel salone centrale della Banca nazionale dell’Agricol­ tura a piazza Fontana a Milano, nel pomeriggio del 12 dicem­ bre 1969 un ordigno uccide 17 persone e ne ferisce 88. Una violenza contro persone inermi: coltivatori diretti e imprendi­ tori agricoli alle prese con operazioni di cassa in una banca affollata e frequentata in orario di apertura. Una strage ac­ compagnata da segnali analoghi in altri luoghi. Sempre a Milano, nella sede della Banca commerciale italiana nei pres­ si della Scala viene rinvenuto un ordigno inesploso in una valigia e in quello stesso terribile pomeriggio nella capitale tre esplosioni (presso l’Altare della Patria e la Banca nazionale del lavoro) feriscono una decina di passanti. Uno dei primi soccorritori in piazza Fontana dirà che «era stata la pietà, non il coraggio a farlo restare sul luogo dell’attentato»32: stava su un autobus in transito nella piazza quando il boato raggiunse

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i passeggeri e lui si precipitò verso l’ingresso della banca da dove provenivano grida, vetri, fumo e polvere. Il racconto del coraggio di Michele Priore, allievo sottufficiale di pubblica sicurezza che scende di corsa dal bus della linea N, lascia il segno, mentre l’emozione per una tragedia inattesa scuote il paese. Tornano paure e fantasmi del passato, un giorno di svolta, quello della perdita inconsapevole dell’innocenza33. L’attentato mette in moto reazioni a catena finalizzate alla difficile ricerca di responsabilità. Le indagini delle forze dell’ordine si dirigono verso ambienti anarchici. Viene ferma­ to un ferroviere, Giuseppe Pinelli; condotto in questura e interrogato muore precipitando da una finestra dell’ufficio del commissario Calabresi. Versioni contrapposte si fronteggiano: un malore, un suicidio o un gesto deliberato. Ombre che accompagnano le ricostruzioni e le memorie degli anni e dei decenni successivi. Una feroce campagna politica condotta da ambienti dell’estrema sinistra mette il commissario Luigi Ca­ labresi sul banco degli imputati in un processo pubblico, senza contraddittorio. Il quotidiano «Lotta continua» alza i toni contro il commissario e le sue responsabilità: un simbolo della prevaricazione dello Stato, un bersaglio della contesta­ zione giovanile. Dario Fo nel 1970 mette in scena Morte acci­ dentale di un anarchico, mentre Camilla Cederna sceglie le colonne dell’«Espresso» per promuovere un appello sottoscrit­ to da oltre 750 intellettuali nel quale si definisce Calabresi un torturatore. Un clima che prefigura lo scontro tra le parti, una dialettica di posizioni lungo il binomio amico-nemico che non ammette mediazioni o ripensamenti. Sul versante delle indagini la pista rossa e la matrice anar­ chica non consolidano ipotesi o risultati, la campagna mediatica di accuse e rivendicazioni dopo aver costruito il «mostro» attorno alla figura dell’anarchico Pietro Valpreda, si esauri­ sce lasciando dietro di sé (oltre a fermi e arresti immotivati) un lascito di ferite e incomprensioni. Ma il sangue da piazza Fontana condiziona il futuro. Il 17 maggio 1972 il commissario Calabresi viene trucidato a freddo da un commando appostato sotto la sua abitazione milanese. Dopo un lungo e complesso iter processuale (conclusosi nel 1997), tre esponenti di punta di Lotta continua (Ovidio Bompressi, Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri) vengono condannati per l’omicidio a seguito delle rivelazioni del pentito Leonardo Marino.

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La sentenza del 197534 attribuisce la morte di Pinelli «a un malore attivo e all’improwisa alterazione del centro di equili­ brio»35, e assolve Luigi Calabresi, ormai scomparso da 3 anni, in quanto assente dalla stanza al momento dell’interrogatorio. Ma il lungo percorso della giustizia non corrisponde alla do­ manda di verità che accompagna l’insieme delle vicende legate a piazza Fontana e alle sue ripercussioni36. Solo le generazioni successive, figli e parenti di quella tragedia hanno permesso di rasserenare un clima intollerabile aprendo faticosamente la strada al superamento di posizioni contrapposte e al consoli­ damento di ricostruzioni dei fatti37. Quello che dagli eventi di fine 1969 si riflette nella società italiana è un clima di paure, di odio e violenza. Per molti gio­ vani di allora la fine di uno sguardo fiducioso e positivo sul futuro, la rinuncia alla partecipazione collettiva, la ricerca di un rifugio più tranquillo nella sfera individuale o nelle certez­ ze di ambiti o contesti tradizionali. In quel tornante si fa stra­ da, prima in modo sotterraneo e poi esplicito quella che alcu­ ni studiosi chiamano non senza remore o difficoltà «strategia della tensione». Una definizione che ha avuto alterne fortune e che, nonostante i limiti di una semplificazione terminologica, può aiutare a comprendere le dinamiche di una stagione con­ troversa. Nella sua accezione di uso comune in riferimento agli anni Settanta e agli sviluppi (politici e giudiziari) del dopo piazza Fontana una strategia multiforme fatta di trame, atten­ tati, agguati o stragi tenuta insieme dall’obiettivo dichiarato o implicito di creare un clima d’insicurezza diffusa, di tensione incontrollabile, di pericolo costante in grado di favorire o promuovere una svolta autoritaria ispirata da una risposta dello Stato di pari segno e intensità. Una reazione dall’alto per difendere o restaurare l’ordine minacciato e chiudere così la stagione delle contestazioni ridimensionando le forze e le am­ bizioni delle sinistre. In sintesi «la strategia della tensione doveva servire a normalizzare l’Italia»38. Le parole di Aldo Moro nel suo memoriale sono un monito prezioso: «La cosiddetta strategia della tensione ebbe la finalità, anche se fortunatamen­ te non conseguì il suo obiettivo, di rimettere l’Italia sui binari della normalità dopo le vicende del ’68 e il cosiddetto autunno caldo»39. L’inciso appare decisivo: quella terribile e sanguinosa strategia non conseguì l’obiettivo sperato, pur inquinando e condizionando, non riuscì a spezzare la trama di un cammino

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comune iniziato sulle macerie della guerra con la Costituzione repubblicana. E tra le forze e i protagonisti di tale indirizzo si muovono gruppi o settori della destra estrema che coglie un’opportunità per uscire dal proprio isolamento condizionan­ do gli equilibri dell’intero sistema: «L’estremismo di destra, forte anche dei suoi legami nazionali e internazionali con am­ bienti militari e dei servizi segreti, promosse anche veri e propri tentativi di golpe»40 a partire dall’iniziativa di Junio Valerio Borghese (7-8 dicembre 1970), comandante della X Mas durante la Repubblica di Salò, segnata dalla collaborazio­ ne in chiave di eversione antidemocratica di settori dei servizi della difesa (Servizio informazioni difesa, Sid) con militanti di Ordine nuovo e Avanguardia nazionale, riferimenti della galas­ sia dell’estremismo di destra41. Tentativi - è bene ricordarlo nonostante le zone d’ombra che ancora li circondano - margi­ nali, sconfitti e ridimensionati dall’impianto del sistema demo­ cratico, dalla capacità di reazione delle forze politiche e dall’i­ solamento complessivo che li ha circondati e sostanzialmente isolati. La tensione continua per la ricerca di verità scomode non dovrebbe nascondere gli esiti di una strategia fallimentare che non è riuscita a modificare sensibilmente le fondamenta costitutive dell’architettura politico istituzionale del dopoguer­ ra italiano. Il decennio si chiude con segnali controversi e contrastanti. Un sistema politico instabile e incerto, alla perenne ricerca di maggioranze possibili che possano dare continuità, stabilità, certezze. Di contro una società scossa da tensioni e conflitti che appaiono profondi e insanabili: tra lavoratori e padronato, tra figli e padri, tra classe operaia e sindacato. Una conflittua­ lità inedita con linguaggi e parole d’ordine sconosciuti e con matrici non componibili: una destra eversiva e antisistema, un movimento studentesco che si radicalizza, un nuovo anti­ fascismo che è al tempo stesso politico e generazionale. Ogni possibile terreno di confronto diventa un banco di prova. Quando Catanzaro viene scelta come capoluogo di regione, la rivolta di Reggio Calabria diventa (tra l’estate del 1970 e il 1972) un terreno d’incontro tra rivendicazioni cittadine e provocazioni neofasciste che bloccano la città e il passaggio nello stretto: centinaia i feriti, quattro i morti42; mesi di scontri e rivendicazioni contrapposte. Nella prima estate della rivolta, dalle fonti del Ministero degli Interni: 13 attentati, oltre 30

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blocchi stradali, 14 ferroviari e 3 portuali, 6 assalti alla prefet­ tura, 4 alla questura. La cifra della violenza sembra unificare i diversi protagonismi, una violenza diffusa, con matrice di destra o di sinistra, segnata da gruppi e sigle che si affiancano e si contrappongono ai tradizionali soggetti della rappresentanza. Da qui la fortunata e ambigua espressione di «anni di piom­ bo» come segno distintivo di una lunga stagione, della lunga notte della Repubblica43. Ma tale definizione non aiuta, non dà conto della complessità di una fase storica, non restituisce agli anni Settanta la natura composita che li ha attraversati: come se si scegliesse di privilegiare un solo aspetto, una faccia, quella più evidente e rumorosa, rischiando tuttavia di perdere di vista l’insieme delle vicende che hanno contraddistinto una stagione per molti versi fondamentale. Nei giudizi sul lungo dopoguerra dell’Occidente gli anni Settanta occupano un posto centrale non tanto dal punto di vista cronologico, del tempo trascorso dalla conclusione della seconda guerra mondiale, quanto dalla prospettiva delle trasformazioni che caratte­ rizzano il decennio. Un cambiamento di paradigmi e assetti internazionali che assomiglia a un nuovo inizio, complicato e carico di interrogativi. Una contraddizione che si ripete nel cammino della Repubblica italiana. Da un lato le cifre degli anni di piombo: vittime, feriti, attentati; dall’altro le proposte di riforma, gli interventi legislativi su materie d’interesse comune. Basta mettere a confronto le due voci per trovare conferma alla contraddittorietà di quel tempo. Il contesto nel quale emerge un’anomalia, un segno spe­ cifico e permanente dell’Italia repubblicana è proprio sul versante della violenza politica, in modo particolare su quello del terrorismo nelle sue forme più manifeste. Vediamo qual­ che cifra che può aiutarci nello sguardo a ritroso verso un tempo lontano: dal primo attentato brigatista del settembre 1970 (contro l’autorimessa di un dirigente della Sit-Siemens) o dalle azioni contro le auto dei capi della sicurezza e del personale della Pirelli Bicocca del novembre 1971 (rivendicati con comunicati della «Brigata Rossa») fino ai giorni a noi più vicini, l’attività terroristica è stata continua e di proporzioni rilevanti. Gli studi più seri ci dicono che tra il 1969 e il 1982 le vittime (morti e feriti) sono arrivate a 1.119, i caduti 351. E se guardiamo l’andamento nel tempo cercando gli anni più sanguinosi troviamo il 1969 con 105 vittime (17 morti), il 1970

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con 56 vittime (6 morti), il 1974 con 237 vittime (30 morti), il 1980 con 357 vittime e 130 caduti. «Cifre crudeli» che non esauriscono il quadro delle ricostruzioni e soprattutto degli interrogativi44. Dietro ai numeri, al lavoro di chi ha cercato di ordinarli e renderli fruibili troviamo storie e situazioni tra loro molto diverse. In 90 province italiane su 95 si è verificato almeno un episodio di violenza; in tutte è stato messo a segno almeno un attentato rivendicato: una diffusione geografica estesa e ramificata. Di certo si conferma il dato di una pre­ senza non episodica né passeggera, al contrario si può leggere una continuità che diventa parte della storia del paese, un filo robusto e sanguinoso che lo attraversa45. Sull’altro versante la riduzione schematica alla violenza diffusa sacrifica parte di un cammino segnato da straordinarie conquiste da parte della comunità nazionale. Basti il richiamo all’allargamento delle forme di partecipazione individuale o collettiva, alle riforme del mercato del lavoro, dello Statuto dei lavoratori (1970) e del diritto di famiglia, o ancora al peso del Sistema sanitario nazionale, alla spinta inclusiva (forse nelle ultime sue puntate) del sistema del welfare e dei suoi confini. Si tratta di un complesso di riforme che modificano o integrano aspetti sostanziali della costituzione materiale. Non un disegno organico né un intervento coordinato e costruito su tappe e verifiche condivise; tuttavia la spinta riformatrice sfiora o tocca ambiti e mondi distanti come se un elenco potesse dar conto di una volontà sopita che si manifesta simultaneamente nello spazio breve di alcuni anni. Le riforme riguardano il sistema del welfare (equo canone per gli affitti, psichiatria, sanità, le­ gislazione sull’interruzione di gravidanza, riconoscimento dei consultori familiari, normativa sulle sostanze stupefacenti), i diritti di proprietà, i diritti civili (diritto di famiglia, divorzio, diritto all’obiezione di coscienza, istituzione del servizio civile nazionale, normative sul sistema di detenzione e pena), l’e­ sercizio dei diritti politici (finanziamento pubblico ai partiti, referendum abrogativo, universalità del diritto di voto a 18 anni, organismi collegiali e rappresentativi nelle scuole e nelle università), la revisione dell’architettura istituzionale dello Stato (istituzione delle regioni, eleggibilità dei nuovi organismi rap­ presentativi su base regionale, decentramento amministrativo, creazione del Ministero dei Beni culturali, riforma dei servizi segreti e delle forze armate, riforma del sistema televisivo),

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diritti dei lavoratori (lo Statuto come legge fondamentale, le regole della contrattazione collettiva, l’uguaglianza tra i sessi nei luoghi di lavoro, la costituzionalità dello sciopero con motivazioni politiche, corsi di formazione per classi e comparti di lavoratori), le riforme a sfondo ambientale e territoriale (limiti alFinquinamento, edificabilità dei suoli, vincoli su piani regolatori e norme di riferimento su acqua, aria), una nuova attenzione alla dimensione continentale (adesione al sistema monetario, elezioni a suffragio del Parlamento europeo, allar­ gamento progressivo dei partecipanti alla Comunità europea, dai sei paesi fondatori ai dodici). Riforme con finalità e filo­ sofie diverse, a volte segnate da una spinta mobilitante altre volte ispirate da un disegno del legislatore. Nel caso della legge 180 (approvata nel 1978) sulla chiusura dei manicomi la spinta riformista raccoglie il portato di riflessioni, esperienze, analisi promosse sin dagli anni Sessanta da uno psichiatra come Franco Basaglia fondatore di una concezione moderna e innovativa del concetto stesso di salute mentale. Uno spirito del legislatore capace di coniugare competenze e visioni, di­ sinnescando un referendum abrogativo proposto dai radicali e collocando il paese all’avanguardia nelle politiche sul tema del disagio psichico e sociale46. In molti casi l’intervento riformista degli anni Settanta si manifesta attraverso il riconoscimento esplicito della centra­ lità di assemblee elettive: dai vertici istituzionali ai comitati di quartiere, di fabbrica o di condominio. Lo schema della centralità del Parlamento nell’architettura istituzionale si conferma articolandosi tuttavia in ambiti e contesti differenti: la rappresentanza come base di accesso alla partecipazione e quindi a una possibile cittadinanza. Molte riforme si sono rivelate parziali, limitate o anche controproducenti rispetto alle intenzioni di chi le ha sostenute e approvate. Altre hanno contribuito a modificare aspetti non secondari di una realtà politica e istituzionale in preda a grandi sommovimenti. Luci e ombre, passi avanti e battute d’arresto convivono e si danno il cambio nelle ragioni e nelle passioni di un decennio così centrale47. Una convivenza difficile e contraddittoria - per dirla con Giovanni Moro e le sue pagine del 2006 - tra speranze e tempeste; tra la primavera della partecipazione possibile e il ricatto della violenza e della restaurazione:

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Penso di poter dire che negli anni Settanta sono stato dalla parte di chi raccoglieva i cocci e costruiva, scommettendo sul fatto che, in relazione a processi sociali poco visibili ma reali, il paese e la demo­ crazia avessero un futuro. Era una parte che vedeva anche albe, cioè, e non solo tramonti, come invece era di moda, specie tra gli intellettuali impegnati. Confesso pertanto di avere una certa difficoltà a identificarmi con la definizione di gioventù bruciata per quel decennio48.

La tensione di tanti (spesso dimenticati dalle rappresenta­ zioni fondate sulla centralità della violenza e sulle dinamiche innescate dal partito armato) era volta a creare spazio, aprire ulteriormente i canali della partecipazione, irrobustire la de­ mocrazia con uno spessore civico e responsabile. La sfera dei diritti individuali e il riconoscimento di nuove istanze collettive sono iscritti nel codice degli anni Settanta, in quella contrad­ dizione profonda tra speranze e tempeste, tra aspirazioni e involuzioni. Prendo ancora in prestito le parole di sintesi di Giovanni Moro, un osservatore e protagonista (suo malgrado): A complicazioni e contraddizioni possono essere infine aggiunte le ambivalenze dei significati del decennio. Non è infatti facile stabilire se gli anni Settanta siano stati un periodo drammatico in relazione al terrorismo, alle stragi e alle crisi del tessuto sociale ed economico, oppure se abbiano avuto un segno positivo in relazione a riforme va­ rate, storture politiche superate, traguardi raggiunti. Parimenti, non è facile stabilire se quel periodo sia più caratterizzato dalla fine di molte cose (come ad esempio l’antifascismo come tessuto connettivo della repubblica), oppure dall’inizio di molte altre (ad esempio, fondamentali trasformazioni nei rapporti sociali ed economici). Personalmente, ritengo che le contraddizioni siano parte della realtà e non trovo niente di strano nel fatto che la decade dei Settanta - così come molti altri periodi storici - ne sia caratterizzata49.

È a questo livello di analisi che la dicotomia tra la meglio gioventù o la sua peggiore espressione non rende la comples­ sità di un’epoca e rischia tra l’altro di far scivolare in secondo piano tutta una serie di processi che attraversano il corpo vivo della società italiana. Il nuovo decennio si apre nel segno della violenza stragista, sotto il peso dell’incombente strategia della tensione, ma al tempo stesso vede completarsi il percorso che porta allo Statuto dei lavoratori (e delle altre iniziative di una ricca produzione legislativa) e in una fase di crisi della politica e delle sue forme

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si manifesta il tentativo di condurre in porto una serie di riforme necessarie e rimandate per molto tempo. Un equilibrio difficile tra ciò che si vorrebbe realizzare e ciò che effettivamente è conseguibile nelle compatibilità di governi con maggioranze risicate e deboli sottoposte ripetutamente tanto alla dialettica fisiologica con le opposizioni (da destra e da sinistra), quanto al condizionamento delle divisioni interne, delle correnti che cercano di ottenere riconoscimenti e vantaggi. La crisi della politica, l’inizio della crisi dei partiti come strumento e filtro tra i cittadini e le istituzioni avrebbe presto trovato conferme in una realtà in movimento. 3 . In mezzo al guado

In pochi anni si consuma la fine di un mondo: gli equili­ bri che avevano retto l’architettura del sistema internazionale post-bellico entrano in crisi. Le ragioni sono, com’è noto, di vario genere: scelte precise che modificano aspetti costitutivi del sistema, difficoltà a reggere l’ampliamento progressivo delle dinamiche internazionali, indebolimento graduale della capacità regolatrice che la guerra fredda aveva esercitato nei decenni successivi alla conclusione del secondo conflitto mondiale. Una combinazione di cause specifiche e situazioni contingenti che non risparmia un paese come l’Italia che aveva costruito la sua fortuna sulla capacità di declinare con coerenza e originalità il nesso tra il suo equilibrio interno e il contesto internazionale di riferimento. Come evidenziato da molti studiosi si tratta della fine di un mondo che tuttavia non si accompagna alla stabilizzazione di un nuovo equilibrio50. Mentre tramonta il vecchio si fa strada un senso di incertezza, una sensazione che abbraccia diversi contesti dell’Occidente capitalistico: l’età dell’oro sembra aver esaurito la propria spinta, l’ottimismo delle speranze che aveva accompagnato le generazioni venute dopo l’età della catastrofe ripiega su se stesso lasciando il posto alle paure di una crisi che irrompe senza incontrare ostacoli. Un sentimento diffuso che si alimenta a partire dalle insoddisfazioni per la perdita di una grande occasione per molti versi irripetibile. Il miracolo si allontana e si affievoli­ sce sia in termini quantitativi (indicatori di riferimento che iniziano sensibilmente a cambiare segno) sia nella capacità di

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promuovere e indirizzare aspettative, attese e possibilità per le nuove generazioni d’italiani del dopoguerra51. La crescita economica italiana attraversa un cambio di fase, in linea del resto con i mutamenti strutturali del ciclo internazionale. Basti pensare che l’incremento annuo della produzione scende dal quasi 6% del 1969 all’1,4% del 1972. Una battuta d’arresto che indica un malessere profondo, la messa in discussione di convinzioni, speranze e aspettative che avevano segnato gli anni precedenti. Le ragioni sono le più diverse, variano da paese a paese in riferimento a contesti o aree geografiche. L’Italia del miracolo ha conosciuto differenti velocità e contesti, regioni trasformate e modernizzate convivono con porzioni di terri­ torio arretrate e condizionate da vecchie e nuove miserie. La fiducia nelle capacità dello sviluppo, nella forza attrattiva di un avvenire migliore viene messa a dura prova: il passaggio di testimone da una generazione all’altra si carica di inquietudini e interrogativi sulle sorti di un paese che sembrava lanciato verso obiettivi e traguardi inimmaginabili. La crisi è profonda, legata strutturalmente alle dinamiche di assestamento di un contesto internazionale attraversato da un primo terremoto unilaterale. Nel dicembre 1971 il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon decreta l’inconvertibilità del dollaro rompendo uno dei cardini di riferimento del sistema. Messo da parte uno dei pilastri degli accordi di Bretton Woods del 1944, la regolazione concordata del capitalismo internazio­ nale non compare nella lista di priorità dell’amministrazione statunitense. Una scelta associata ad altri passi che qualificano il cambio di fase complessivo in una nuova tappa del confronto bipolare, cercando una formula di sintesi: dalle strategie di cooperazione alla ricerca del conflitto52. Il paese più forte del sistema economico internazionale aveva così virato verso una direzione chiaramente protezionista in risposta alle ricadute del teatro di guerra vietnamita e alla crescente concorrenza sui mercati internazionali da parte del Giappone e di diversi paesi europei. La svalutazione della moneta come scelta strategica, una necessità per far fronte al disavanzo nella bilancia dei pagamenti e alla contestuale perdita di competitività dell’in­ dustria statunitense. Il segno della conflittualità prevale negli equilibri internazionali, la fase della collaborazione regolata, del conflitto guidato e orientato, viene messa da parte. Un acuto osservatore come Guido Carli - allora governatore della

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Banca d’Italia - mette a fuoco un livello più profondo del cambio di fase che solo il tempo mostrerà nella sua cruciale discontinuità: «La comunità finanziaria americana puntava a sciogliere le mani degli Stati Uniti, recidendo i legami monetari con gli altri paesi dell’Occidente»53. Da questa rottura si apre uno scenario imprevedibile a partire da una vera e propria bufera finanziaria che coinvolge diversi paesi trascinati nell’in­ certezza conflittuale dalle scelte del governo di Washington. Le politiche restrittive in risposta alla crescita esponenziale della curva inflazionistica conducono presto alla caduta degli investimenti e a una contrazione non episodica della capacità produttiva delle imprese. Un fenomeno inedito e complesso che prende il nome di stagflazione: la compresenza condizionante e simultanea tra inflazione e stagnazione. Come in altre occasioni il risvolto italiano della crisi con­ ferma il venir meno di un’architettura condivisa e concordata e, su un altro versante, mette in evidenza la stretta connessione tra il percorso dei primi decenni della Repubblica e il sistema internazionale di riferimento: il quadro complesso delle inter­ dipendenze del dopoguerra al crocevia tra economia, politica e società. Impietose le cifre degli effetti sull’economia nazionale: in poche settimane la lira perde il 15% del suo valore e di conseguenza il prezzo in dollari delle materie prime aumenta progressivamente. Una tempesta che si manifesta pervasiva e profonda: crollo della produzione industriale, diminuzione di investimenti, contrazione prolungata dei consumi privati. Una battuta d’arresto non episodica né isolata dai venti di crisi che dal Medio Oriente attraversano minacciosi il bacino del Mediterraneo. Il conflitto del Kippur (6-25 ottobre 1973) ha una doppia matrice: da un lato lo scontro tra i paesi arabi e Israele, dall’altro la crisi petrolifera che ne deriva. Un biennio (1973-74) durante il quale diminuisce del 10% la produzione del greggio mentre aumenta di circa il 70% il prezzo del barile. L’impianto complessivo delle scelte dei paesi produttori associa­ ti nel cartello Opec (Organization of thè Petroleum Exporting Countries) contribuisce a determinare la recessione del 1974, la più incisiva dopo quella del 1929. Gli effetti si sommano e si sostengono vicendevolmente: fine della regolazione attorno al dollaro, aumento dei prezzi delle materie prime, crisi delle forme di cooperazione o intesa che avevano sorretto gli sforzi dei primi decenni post-bellici. La produzione mondiale subisce

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un’imprevista (nelle quantità) riduzione: il volume di scambi era cresciuto di oltre 8 punti in un decennio, tra il 1963 e il 1973; negli otto anni successivi lo stesso volume scende considerevolmente accompagnandosi a una forte tensione inflazionistica in buona parte dei paesi industrializzati. La mossa degli Usa - e la ridefinizione degli equilibri tra paesi produttori e importatori di energia - strappa la trama di un mosaico che aveva regolato le forme dello sviluppo indirizzando le tendenze generali e le scelte parziali dei sistemi nazionali. La crisi colpisce innanzitutto i più fragili. L’Italia è tra questi, l’aumento esponenziale dei costi delle materie prime, delle fonti energetiche e del lavoro supera i livelli di compensazione del sistema. Nei primi anni Settanta la produzione nazionale dipende per un buon 75% dalle importazioni di oro nero. L’aumento del 220% del prezzo del petrolio registrato nel 1974 produce ripercussioni che minano i cardini di un sistema debole. Nello stesso anno la bilancia commerciale è in rosso tanto per le materie prime (2.500 miliardi di lire) quanto per la produzione alimentare (2.000 miliardi). Segnali preoccupanti e diffusi che spingono il governo verso l’introduzione di misure che possano contrastare il disavanzo: un vincolo di deposito del 50% del valore per le importazioni (da accreditare presso la Banca d’Italia), limitazioni ai possibili trasferimenti di valuta fuori dai confini nazionali e, soprattutto, la contrazione imposta e controllata dei consumi di energia. Una sorta di freno alle convinzioni che avevano segnato i decenni precedenti: più si cresce e si consuma e meglio è, più ampio lo spazio per le dinamiche espansive dei mercati e maggiori i benefici che si potranno distribuire all’interno di una collettività. Nel cuore degli anni Settanta tali convinzioni perdono smalto e vigore, la crisi economica o lo shock petrolifero, come spesso viene definito il passaggio del biennio 1973-1974, entra nelle case degli italiani modificando abitudini, stili di vita, persino sogni e principi. La risposta nelle politiche di un esecutivo interventista che cerca di limitare i danni: riduzione del 40% deH’illuminazione pubblica e divieto di accensione notturna per insegne di attività commerciali. La notte diventa il tempo del risparmio: gli spettacoli a teatro o al cinema terminano alle 23, anche la programmazione serale dei programmi televisivi si conclude prima della mezzanotte. La dolce vita spensierata, illuminata e partecipe appare un ricordo anche se sono passati solo pochi

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anni. Di converso i mezzi privati vengono colpiti dalle misure anticrisi: divieto di circolazione per le auto nei giorni festivi, solo in seguito trasformato nell’alternanza dei numeri di targa. Anche il nucleo familiare percepisce l’incombente profondità della crisi che attraversa il sistema paese. In breve tempo - a partire dall’estate 1974 - il governo decide di aumentare le entrate del gettito fiscale; non può essere sufficiente ridurre il consumo generalizzato: le tariffe sulle utenze aumentano con tassi significativi, cresce l’imposta per le imprese e per i lavoratori autonomi con un anticipo forzoso del 10%, viene introdotta l’una tantum su immobili, auto private e natanti. Un’azione a tenaglia che punta a ridurre i consumi (a partire da quelli considerati superflui) aumentando contestualmente il gettito fiscale. I costi per lavoratori e imprese sono immediati: perdita del potere d’acquisto dei salari, recessione e inflazione incontrollata (oltre il 20% tra il 1974 e la fine del decennio)34. Una difficile condizione che accende e rilancia i conflitti tra capitale e lavoro, lo scontro tra settori industriali e rappresen­ tanze del movimento sindacale. La crisi contribuisce a incrinare e rompere il patto sociale fino a tracciare il confine di una dialettica inedita che si concentra sugli aumenti salariali e sul significato degli accordi nazionali in tema di costo del lavoro. Il quesito che si fa strada chiama in causa aspettative e traguardi maturati negli anni prosperi e progressivi del miracolo eco­ nomico e diffusi in segmenti non marginali della popolazione italiana. Chi avrebbe pagato in misura prevalente i costi della crisi? Dove scaricare restrizioni e tagli? Quale profilo di scelte e interessi avrebbe caratterizzato la classe dirigente? Come accade di sovente nei momenti di crisi la dialettica di posizioni si radicalizza. Difficile trovare una possibile com­ posizione tra gli estremi. Gli industriali se la prendono con il movimento operaio e sindacale reo di aver alzato l’asticella delle richieste sui salari regolati dalla scala mobile e sul costo del lavoro. Una polemica diretta che prende le mosse dal tas­ so d’incremento dei salari nel comparto industriale: solo nel 1970 18,3% e nel biennio successivo rispettivamente quasi il 10% e il 9% nel 1972. Una crescita costante a fronte della stabilità inflazionistica attorno al 5% . Numeri significativi che confermano un miglioramento complessivo delle condizioni di vita delle famiglie operaie in virtù di una busta paga che, colmando il ritardo accumulato negli anni precedenti, si posi­

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ziona a livello di altri paesi europei. Le risposte sono di vario genere: tentativi di mediazione con le rappresentanze sindacali, o di converso la ricerca di uno scontro che possa rafforzare le appartenenze a campi e prospettive contrapposte. Una strettoia che stritola le ultime speranze di una possibile risposta alle dinamiche di crisi. In economia le cifre si riflettono sulle scelte dei protagonisti e sugli indirizzi di un sistema politico scosso nei suoi fondamenti di riferimento. Il decennio nel suo insieme è attraversato dall’incremento della spesa pubblica: risposta parziale alle minacce della crisi, rifugio rassicurante e miope per chi si trova a gestire l’emergenza dell’inedita stagflazio­ ne. Non si tratta di un fenomeno nazionale che interessa un solo paese, l’aumento della spesa pubblica accomuna diverse economie dell’Occidente capitalistico attraversato dalle turbo­ lenze degli anni Settanta. Tuttavia tale incremento assume in Italia un tratto peculiare, una vera e propria distorsione delle compatibilità sistemiche: aumento delle spese per la cassa integrazione, per l’assistenza o la sanità, per i debiti ingenti accumulati dall’industria di Stato o per settori dell’educazione o del sistema pensionistico. Un gettito che si muove in varie direzioni per ripianare debiti o storture o - nel migliore dei casi - per compensare i saldi negativi della crisi di un mondo. Una dinamica che appare inarrestabile nelle sue espressioni più manifeste e preoccupanti. Lo Stato interviene per ripianare il deficit di imprese che lo vedono partecipe e coinvolto (basti l’esempio dell’Iri in sofferenza dal 1964) intervenendo spesso a compensazione di buchi di bilancio rilevanti. Un circolo vizioso spesso sostenuto da pratiche e costumi clientelari e corrivi: dirigenti che scalano posti e graduatorie negli apparati o nelle aziende statali o partecipate in virtù di collegamenti o affinità politiche, preoccupati di corrispondere contributi e privilegi verso i partiti di governo. Così facendo i danni per le nuove generazioni d’italiani diventano insostenibili: tra il 1960 e il 1983 (con le dovute cautele e differenze per contesti imparagonabili) il gettito di spesa pubblica cresce dal 31,2 al 65,3% del prodotto interno lordo, più che raddoppiato in 23 anni, il tempo del passaggio di una generazione che si trova le spalle appesantite e il cammino incerto. Tale incremento non ha coperture o risorse utilizzabili, si esprime nell’emergenza di un passaggio che tuttavia non è incidentale né improvviso; la strada imboccata è senza ritorno: aumento del deficit pubblico

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con ricorso a prestiti internazionali, inasprimento dei prelievi fiscali sul lavoro dipendente a fronte della mancata riforma del sistema di tassazione (cresce la piaga dell’evasione fiscale). Così facendo i costi della crisi si riversano sulle classi popolari e sulle aspirazioni compresse del ceto medio impiegatizio. Si rompono i legami generazionali, entra in crisi il patto di cittadinanza che aveva sostenuto l’itinerario del dopoguerra. In questo quadro si manifesta una nuova tappa della crisi della politica e delle sue forme tradizionali55. La fragilità dei governi riflette l’incertezza dei partiti a fronte delle emergenze che attraversano il sistema paese56. Nell’estate del 1969 Ma­ riano Rumor aveva costituito un governo monocolore democristiano che non riuscì a superare l’impatto della tragedia di piazza Fontana. Dimissioni e due mesi dopo nuovo esecutivo sempre a guida dello statista democristiano (il terzo da lui presieduto) con l’allargamento a repubblicani e socialisti. Ma anche in questo caso il tratto di strada è breve: equilibri in­ terni alla De, effetti di uno sciopero generale nel luglio 1970 uniti all’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori (previsto per l’aprile 1971) e dell’ordinamento regionale dopo 22 anni dal dettato costituzionale che lo prevedeva, modificano i rap­ porti di forza. La De tenta mediazioni e cambi di rotta nel vivo della conflittualità per le rivolte sulle designazioni delle città capoluogo. La politica s’indebolisce e l’autorevolezza del potere centrale, del governo della Repubblica viene minato dalle instabilità che lo attraversano. Emilio Colombo prende la guida dopo Rumor fino alle dimissioni del gennaio 1972. Il clima era cambiato, le rivolte avevano proposto una destra protagonista capace di raccogliere consensi nelle elezioni am­ ministrative. Il centrosinistra indebolito si divide sull’elezione del capo dello Stato: ha la meglio Giovanni Leone (con i voti di De, Pii, Msi, Psdi e Pri) mentre le sinistre si attestano sulla candidatura sconfitta di Pietro Nenni. Tensioni trasversali che mettono in fibrillazione la maggioranza o ciò che ne rimane. Quando saltano gli spazi di mediazione tra partiti o correnti interne si arriva allo scioglimento anticipato delle Camere. Elezioni politiche la prima settimana di maggio del 1972 per ridisegnare la composizione del Parlamento. Il responso delle urne non modifica la sostanza dei rapporti di forza: la De si consolida come partito che si oppone alle conflittualità incontrollabili, si attesta al 38,7% dei consensi. Le destre non

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sfondano nonostante la confluenza tra Movimento sociale e monarchici, mentre l’estrema sinistra rivoluzionaria non en­ tra neppure in Parlamento. Il Psi va sotto il 10% mentre il Partito comunista si ferma al 27%. Un quadro frammentato e instabile. Il centrosinistra si attesta poco sopra al 51% , con una maggioranza numerica (debole) e il peso delle divisioni di prima: conflitto tra i protagonisti e scontro sulla questione divorzio che - come si avrà modo di vedere a breve - diventa una priorità controversa per tutti. Nel 1970 era stata introdotta la legge e, dall’anno successivo, la raccolta di firme per tentare l’abrogazione da parte di settori apparentemente maggioritari del mondo cattolico. La scelta dell’esecutivo a guida Andreotti punta a ridimensionare la stagione della collaborazione con i socialisti favorendo un improbabile e velleitario ritorno al centrismo con esecutivi che si susseguono nel breve spazio di pochi mesi. Tra il 1972 e il 1976 la VI legislatura repubblicana è attraversata da ben cinque governi (Andreotti 2, Rumor 4 e 5, Moro 4 e 5) con un impianto politico che con gradualità scivola dal centrismo impossibile a un nuovo sbiadito centrosinistra. Nel partito di maggioranza relativa nel giugno 1973 dopo 14 anni torna alla guida Amintore Fanfani confermando l’ipotesi di un’apertura verso il Psi. Un’assenza di ricambio di classi dirigenti che consolida il blocco di riferimento attorno alla De mentre si scaricano sull’esecutivo le contraddizioni di scelte economiche difficili, impopolari: ridurre il gettito della spesa pubblica (sono i repubblicani a insistere su tale aspetto) o di converso difendere il livello raggiunto dai ceti emergenti favorendo l’intervento dello Stato a sostegno della domanda, soprattutto nel campo della lotta alla disoccupazione (i socialisti e la componente di sinistra della maggioranza). Un equilibrio a dir poco precario in una fase difficile per la democrazia italiana colpita dalle prime azioni terroristiche delle Brigate Rosse, dalle stragi di Brescia e del treno Italicus (nel 1974) oltre che dallo scandalo dei petroli che mette in risalto finanziamenti occulti a ministri e partiti di governo da parte dell’Unione petrolifera italiana in cerca di benevole indicazioni legislative. L’insieme delle contrapposizioni del tempo non si snoda lungo la fisiologica dialettica tra maggioranza e opposizione, ma si consolida nelle divisioni che condizionano l’esecutivo nelle sue componenti. Una legislatura che prosegue nel solco della precedente: governi di durata breve, disomogenei e di­

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visi, programmi irrealizzabili o di scarsa visione dettati dalle emergenze, alto livello di conflittualità tra le forze politiche e più in generale tra il paese e il palazzo. Emergenza demo­ cratica e crisi economica convivono e accentuano i tratti di una democrazia difficile e incerta. La ricerca di una nuova maggioranza incontra la disponibilità inedita dell’opposizione comunista: una strategia dell’attenzione reciproca tra i nemici di sempre, tra le facce e le versioni italiane della guerra fredda. Gli interrogativi sulla tenuta del sistema democratico, sulle risorse della Repubblica dei partiti contribuiscono ad aprire discussioni e prospettive che vanno al di là delle compatibilità tradizionali dell’equilibrio post-bellico. Persino i confini delle identità contrapposte mutano significato: anticomunismo e antiamericanismo dopo la repressione sovietica a Praga e il colpo di Stato in Cile del settembre 1973 trovano nuove ra­ gioni; complesso e contraddittorio collocarsi al di qua o al di là della barricata senza distinguo o prese di distanze57. Quel rapporto sinergico tra quadro interno e contesto internazionale viene incrinato dalla crisi dei modelli su cui si era costruito e rafforzato il cammino dell’Occidente europeo58. Il Partito comunista sotto la guida di Enrico Berlinguer accentua preoccupazioni e timori sui rischi di involuzione de­ mocratica, sul peso negativo che potrebbe arrivare da manovre che puntino a ridimensionare ruolo e funzione della sinistra di matrice comunista. Il segretario del Pei consegna nell’autunno 1973 al settimanale «Rinascita» le riflessioni sulla possibilità di costruire un’intesa con la Democrazia cristiana attorno all’ipotesi di un compromesso storico capace di unire forze popolari di diversa ispirazione e cultura: comunisti, socialisti cattolici. La De non è più un nemico da cui difendersi, né la faccia presentabile dell’imperialismo di marca statunitense. Uno spazio d’intesa per future collaborazioni tra forze fino a quel momento antagoniste o in competizione tra loro. Sull’altro versante la De dopo un iniziale disinteresse comincia a seguire con attenzione le dinamiche del dibattito in campo comunista. Aldo Moro mostra disponibilità nella convinzione che il tempo della contrapposizione frontale sia ormai esaurito. Le basi del compromesso storico richiamano la stagione delle origini nella collaborazione popolare in chiave antifascista mentre viene messa in discussione dalla questione divorzio l’unità politica dei cattolici, l’idea che la De possa rappresentare interessi,

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valori e orientamenti di un arcipelago composito. La legge sul divorzio (Fortuna-Baslini) viene approvata in via definitiva il 1° dicembre 1970 con l’opposizione della De e del Movimento sociale. Immediate le reazioni al di qua e al di là del Tevere: la De punta a organizzare e monopolizzare l’opposizione al provvedimento, la Santa Sede si mobilita fino alle prese di posizione ufficiali contro la legge che avrebbe tra l’altro violato l’articolo 34 del Concordato. Una mobilitazione trasversale che accomuna il pontefice Paolo VI e i vertici dello scudo­ crociato in una lunga campagna che si può dividere in tre fasi. Inizialmente la raccolta di firme per arrivare a un referendum abrogativo (nella primavera 1971 vengono depositate in Cas­ sazione 1.370.314 firme). Con la conclusione anticipata della legislatura e il conflitto che attraversa la questione divorzio si apre la fase delle trattative manifeste o riservate: evitare una guerra di religione, intervenire per via legislativa depotenziando il referendum o ancora cercare un’intesa per ridurre l’effetto della contrapposizione referendaria. I pontieri si muovono su entrambi i fronti, convinti che si possa evitare il pronunciamen­ to popolare. Diverse diplomazie lavorano all’intesa: i partiti, il governo, il Vaticano; sforzi congiunti e tuttavia inconcludenti. Rimane in piedi l’appuntamento del referendum popolare che si tiene il 12 e 13 maggio 1974. Contrariamente alle previsioni di tanti oltre il 59% dei votanti chiede che venga mantenuta la legge sul divorzio: l’Italia è cambiata, la De è scossa nelle sue fondamenta, il mondo cattolico si è diviso apertamente tra so­ stenitori del «N o» e fautori dell’abrogazione della legge59. Uno spartiacque imprevisto, i vertici della De avevano preparato i festeggiamenti per un trionfo annunciato, la Santa Sede inizia a fare i conti con una sua progressiva marginalità. Si afferma un’Italia laica, secolarizzata, pronta a mettere in discussione tradizionali comportamenti e costumi. Una vivacità culturale che sorprende anche il fronte dei cosiddetti vincitori. I partiti subiscono l’onda delle novità di un paese trasformato e moder­ nizzato dalle contraddittorie novità del decennio precedente. Nelle elezioni amministrative del 1975 le sinistre si affermano in molte città dando vita alla stagione delle giunte rosse: uno spostamento dell’elettorato verso le forze di opposizione (oltre il 33% per il Pei a soli due punti dalla De mentre il Psi si ferma al 12%) il primo voto ai diciottenni, una seconda bat­ tuta d’arresto dopo il referendum per la Democrazia cristiana.

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Novità significative che tuttavia non sono sufficienti ad aprire una fase nuova per la democrazia italiana sospesa e in mezzo al guado tra limiti e possibilità, ritardi e aspettative inevase. 4. Compromesso storico e solidarietà nazionale La metà del decennio diventa un punto di svolta. Convivono opzioni e interrogativi di segno opposto: i richiami all’emer­ genza di una situazione che rischia di precipitare incontrollata o di converso il tentativo di rasserenare animi e contesto cercando rifugio nella continuità ininterrotta. Una dicotomia irrisolta tra ipotesi di rottura e disfacimento contrapposte alla presunta capacità del sistema di reggere l’urto delle difficoltà. Il conflitto è un dato acquisito: ipotesi contrapposte, visioni dello sviluppo e della crescita, formule politiche che possa­ no rispondere alla fragilità dei numeri e all’incertezza delle prospettive. Piani diversi s’incontrano definendo un quadro inedito e complicato: la crisi economica in una fase regressiva del capitalismo internazionale, una dialettica politica sterile e incapace di uscire dalle strettoie del presente, il peso della conflittualità diffusa nel ritorno della violenza come fattore condizionante e permanente. Un paese in bilico, sospeso tra l’esaurimento progressivo delle antiche certezze e la faticosa ricerca di qualcosa che possa rilanciare e motivare energie, risorse, appartenenze. La proposta del compromesso storico nasce dalle strettoie di un sistema politico che non ha la forza di progettare nuove stagioni. I partiti più solidi e radicati - la De e il Pei - tesso­ no la trama di un dialogo che, seppur irrealizzato, costituisce un tentativo di affrontare i risvolti di un’incertezza condivisa che al di là delle differenze, dei punti di partenza, delle distin­ zioni sui programmi coinvolge tutti i protagonisti. E così Moro e Berlinguer cercano punti d’incontro, muovono uomini e diplomazie per conoscersi meglio e condividere un tratto di strada comune. Una dicotomia tra due partiti che rappresenta qualcosa di più profondo. Uno scontro tra visioni e culture, tra appartenenze e identità, tra letture del mondo che spingo­ no chi ci guarda da lontano a ragionare sull’Italia delle due chiese attraversate dalle nuove ragioni di un dialogo possibile. La questione è più complicata di come appare nelle analisi

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frettolose, anche nei documenti di ambasciate e governi che seguono l’evolversi della politica italiana alla metà degli anni Settanta. Comunisti e democristiani hanno condiviso pagine fondanti del cammino del dopoguerra a partire dalle scelte nella stagione delle origini: la convinzione condivisa che un compromesso vergato nella Costituzione rappresenti al tempo stesso un vincolo e un’opportunità collettiva. E lo stesso rap­ porto tra maggioranza e opposizione non ha impedito la col­ laborazione continua, la possibilità che terreni comuni potes­ sero favorire l’intesa piuttosto che la contrapposizione60. Tutto questo avviene in tempi di guerra fredda, nel contesto condizionante della contrapposizione bipolare trovando le espressioni più dirette ed efficaci nella simbologia e nelle proposte dei partiti italiani. Un nesso stringente e modificabi­ le tra le compatibilità dell’ambito internazionale e i sentieri tortuosi degli accordi tra i partiti, delle intese a livello ammi­ nistrativo (nelle giunte cittadine o regionali), delle collabora­ zioni sperimentate in settori non marginali del mondo del la­ voro o del movimento sindacale. Una contraddizione secondo alcuni: da un lato lo scontro bipolare, il linguaggio e le forme della contrapposizione frontale fra sistemi e alleanze militari; dall’altro la collaborazione fattiva del giorno per giorno, la ricerca di soluzioni e ipotesi percorribili, la costruzione di uno spazio di affermazione dell’interesse collettivo. Non sempre i piani sono compatibili o componibili. La crisi degli anni Set­ tanta nelle sue forme manifeste o carsiche fa esplodere le contraddizioni di un equilibrio difficile: il richiamo alla stagio­ ne delle origini accomuna e avvicina le parti in causa. Il com­ promesso non è un episodico ricorso alla forza altrui per raggiungere i numeri di una maggioranza parlamentare neces­ saria e più che mai incerta, persino innaturale: la stagione della Resistenza viene riproposta come esempio di convergen­ ze possibili, immagine attualizzata di un tempo con diversi protagonisti, bandiere, linguaggi e programmi politici. Un tentativo che è anche il sintomo di una debolezza del sistema, dell’esaurimento di risorse disponibili e della necessità di do­ versi affidare alla visione di protagonisti che provano a imma­ ginare un tempo nuovo. Dopo l’affermazione delle sinistre nelle elezioni amministrative (1975-1976) vengono costituite le «giunte rosse» fondate sull’asse di collaborazione tra Parti­ to comunista e Partito socialista in diverse regioni soprattutto

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del Centro Italia e in città distribuite a macchia di leopardo sul territorio nazionale. La centralità democristiana è scossa da due fattori concomitanti: il pronunciamento referendario sul divorzio che mette in discussione il paradigma dell’unità politica dei cattolici nello scudocrociato e le alleanze di sinistra che portano la De all’opposizione in contesti dove ciò non era mai avvenuto. Per il partito guida della rinascita post-bellica si tratta di un colpo ripetuto che fa sbandare gli equilibri in­ terni. Fanfani diventa una sorta di capro espiatorio delle sconfitte di varia natura, Benigno Zaccagnini, deputato roma­ gnolo, partigiano rispettato e stimato da molti, nel partito e fuori, viene eletto segretario il 26 luglio 1975. Aldo Moro regista di un’operazione che va in porto in un contesto diffi­ cile, 92 voti favorevoli e 72 schede bianche. L’unità del parti­ to non è un dato acquisito e scontato, troppe le insidie e da diversi versanti. La perdita di una funzione centrale indeboli­ ta dai processi di secolarizzazione che marginalizzano influen­ ze e peso della Santa Sede nella politica italiana. Moro prende spunto dalle novità per tematizzare la sua proposta di com­ promesso storico: il degrado della democrazia italiana minac­ ciata da violenze e scandali, il giudizio sul partito di maggio­ ranza relativa insufficiente a garantire stabilità e prospettive, l’ipotesi di poter aprire una terza fase nell’evoluzione del si­ stema politico italiano. Una fase successiva a quelle della rico­ struzione e dell’apertura a sinistra, ma anche un tratto di strada con una generazione pronta a dare il cambio a chi l’ha preceduta. Vede i rischi di un sistema ripiegato su se stesso, in assenza di alternative e opzioni percorribili, la sua proposta si appoggia sulla convinzione di dover difendere e tutelare l’unità del partito, la sua eterogenea composizione che non deve essere stravolta da scissioni o abbandoni silenziosi. Con convinzione gioca le proprie carte nel partito e si muove con i principali alleati dell’Italia cercando di rassicurarli. Incontra il presidente degli Stati Uniti e il segretario di Stato americano in occasione della conferenza di Helsinki sulla cooperazione e la sicurezza collettiva nell’estate del 1975 spiegando loro che l’ipotesi di compromesso storico non mina le ragioni dell’Al­ leanza atlantica né mette in discussione la collocazione inter­ nazionale dell’Italia61. Dall’altra parte prevalgono paure e contrarietà, da Washington temono che un effetto domino dall’Italia possa colpire il fianco sud della Nato indebolendo

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il posizionamento storico del fronte anticomunista. Il Pei è parte di un mondo, pur avendo un tracciato originale iscritto nella Costituzione repubblicana; la sua presenza nell’esecutivo di un paese Nato sarebbe un affronto agli equilibri sistemici, una difficile gestione per l’insieme della comunità internazio­ nale. Sull’altra sponda del compromesso problemi simili con soluzioni scomode. Berlinguer è stato eletto segretario nel 1972, gli scritti dedicati alla nuova stagione cadono nell’autunno dell’anno successivo62. Nel suo ragionamento prevalgono i toni apocalittici sugli effetti della crisi nel rapporto con le forme della democrazia: il segretario comunista teme che l’ingerenza di forze occulte o incontrollabili possa mettere in discussione il cammino della democrazia italiana. Forze che puntano a spargere terrore restringendo le forme della partecipazione o relegando la sinistra in una perenne condizione di margina­ lità. Berlinguer lavora a una trama composita che nel lungo periodo punta a legittimare il Partito comunista, a uscire da una condizione di storica subalternità alle compatibilità e alle logiche della guerra fredda. Ecco il punto dirimente, cogliere l’occasione delle difficoltà di una fase per andare oltre limiti e perimetri frequentati: un Partito comunista che si rafforza per via elettorale, raccoglie il consenso di oltre il 30% degli italiani tentando di uscire dai vincoli dell’alterità al sistema che faticherebbe a sopportare l’ingresso in una coalizione di governo. Il superamento di quello che sarebbe stato chiamato come «il fattore K», della conventio ad excludendum che aveva interessato il Partito comunista isolandolo all’opposizione, sarebbe avvenuto legittimando una forza politica dinamica e propositiva non rassicurata dai benefici di un’opposizione per­ manente e monopolizzata dalla forza del Pei63. Il considerevole consenso elettorale veniva così proiettato nella costruzione di una nuova proposta politica. O almeno queste le intenzioni di una parte del gruppo dirigente comunista. Berlinguer viene mal sopportato dal proprio mondo di riferimento: seguito da Mosca con interesse e preoccupazione aveva mostrato di non essere affascinato e partecipe dei successi e delle prospettive del socialismo reale. Una presa di distanza, soprattutto dopo la Primavera di Praga del 1968, che tuttavia non si consolida in uno strappo definitivo e conseguente. Il Pei mostra la sua alterità, motiva e socializza le ragioni di una sfuggente diver-

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sita comunista ma non mette in discussione i pilastri della divisione del mondo in blocchi. Ci vorrà del tempo, nuove fratture, strappi e svolte, per completare un cammino che porti la sinistra italiana fuori dagli orrori e dalle macerie del socialismo reale. Chi segue il Pei da Mosca mette in risalto i pericoli dell’autonomia delle vie nazionali (retaggio di stagioni ormai concluse) e si domanda quale potrà essere l’approdo della collaborazione con i democristiani, quale il prezzo da pagare per settori del movimento comunista in Italia e fuori dal confine nazionale. Chiare quindi le analogie tra i due partiti e i due uomini politici di riferimento: convincere i propri mondi (elettori e quadri dirigenti), rassicurare interlocutori, alleati e osservatori internazionali. Verificare se le condizioni rendono possibile un passo coraggioso che sembra manifestarsi timidamente quan­ do l’astensione del Pei permette la nascita del terzo governo Andreotti, il 31 luglio 1976 in apertura della VII legislatura repubblicana. Pochi giorni dopo, il 9 agosto, lo storico dell’ar­ te Giulio Carlo Argan viene eletto sindaco di Roma in una giunta di sinistra, candidato indipendente nella lista del Pei che supera il 35% dei consensi. Il paese si polarizza attorno ai due partiti maggiori: due vincitori, due percorsi che dialogano tenendo aperta la possibilità di costruire le condizioni per una collaborazione più stretta. Due blocchi contrapposti dalla na­ tura composita, quella del confronto-scontro in stile 1948, ma al tempo stesso incline alla collaborazione consociativa, alla ricerca di convergenze e punti d’incontro per evitare effetti degenerativi di una spaccatura inconciliabile64. Nonostante contrarietà e resistenze la rotta è tracciata: «governo della non sfiducia» (le formule contorte di una stret­ toia politica e istituzionale) e collaborazione dentro il nuovo paradigma della solidarietà nazionale come risposta alle crisi che affliggono il sistema paese. Collaborazione nell’emergenza con l’ambizione di poter costruire un’uscita dalle difficoltà che attraversano l’economia, la politica, la società. Un nuovo inizio o la riedizione di formule o ipotesi già sperimentate? Difficile offrire risposte univoche. Il dibattito sul compromesso storico motiva energie e risorse, riempie le pagine di quotidiani e set­ timanali con una crescente dicotomia tra aspettative e realtà. Le visioni dei leader politici, i risvolti del confronto culturale, le aspettative di partiti e sindacati non sempre convergono.

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Sullo stesso versante convivono ipotesi e letture contrapposte, la dialettica nei partiti e tra i partiti non si esaurisce nelle settimane di formazione dell’esecutivo. Qualcosa di più profondo mette in causa l’architettura del sistema democratico e la legittimazione popolare dei processi decisionali. I partiti e i loro mondi di riferimento appaiono segnati dalla sfiducia, da un malessere diffuso, dalla presa di distanza di settori non marginali o residuali della società italiana. Ed è così che si allarga la forbice tra la politica e la società: le discussioni appassionate sul varo di un nuovo equilibrio poli­ tico sembrano scollegate dalle preoccupazioni che coinvolgono un numero crescente di famiglie italiane colpite dalla crisi o investite dagli interrogativi inevasi sul proprio futuro. Nei primi mesi dell’anno uno scandalo si abbatte su espo­ nenti di partiti di governo accusati di essere legati da forme di corruzione agli interessi di una grande azienda americana - la Lockheed - che immette sui mercati europei i propri aerei da trasporto. Accuse che non risparmiano il vertice delle istituzioni. Ministri e presidente della Repubblica coinvolti in una campagna che evidenzia la degenerazione di un pezzo di classe dirigente, la crisi della politica nelle sue forme, la debolezza di una credibilità infranta. La questione va ben al di là dei confini del caso specifico, una giornalista, Camilla Cederna, con i suoi articoli diventa il punto di riferimento di una mobilitazione crescente. La Corte costituzionale nel marzo 1979 condannerà un ministro e ne assolverà un secondo (il socialdemocratico Tanassi e il democristiano Gui), mentre le accuse di aver ricevuto tangenti rivolte contro Rumor e il presidente Leone spingono quest’ultimo alle dimissioni il 15 giugno 1978. Ma il segno dello scandalo è quello di un atto d’accusa verso i partiti di governo e il loro ruolo. Aldo Moro difende l’integrità della De rifiutando lo scivolamento verso un processo di piazza, in una sommaria dicotomia tra «paese legale» e «paese reale», tra il palazzo assediato e la società in movimento. Sono gli anni della partecipazione politica ma anche quelli delle trame oscure. Un altro scandalo percorre la seconda metà del decennio avvolto nella figura di Michele Sindona. Banchiere intraprendente e ambiguo, legato a settori della Democrazia cristiana protagonista di fusioni e operazioni finanziarie che lo portano nel giugno 1976 alla bancarotta di­ chiarata. La liquidazione del suo patrimonio diventa un giallo

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a tinte fosche. L’avvocato Giorgio Ambrosoli, liquidatore della Banca privata italiana viene freddato da un killer ingaggiato dallo stesso Sindona. Il banchiere viene condannato dopo varie peripezie (una fuga, un finto rapimento per fare pressio­ ne sulla loggia P2 della quale ci occuperemo in seguito) che culminano nella consegna del ricercato da parte delle autorità statunitensi. Dovrà scontare in carcere 25 anni come mandante dell’omicidio Ambrosoli. Il 22 marzo 1986 viene trovato morto nella sua cella di Voghera dopo aver bevuto un caffè corretto al cianuro65. Una morte carica di sospetti, punti interrogativi, polemiche che non risparmiano la tenuta complessiva della classe politica e il suo lato oscuro e impenetrabile. Le elezioni anticipate del 1976 non producono terremoti o cambiamenti radicali come molti pensavano, temevano o speravano. I due vincitori si sostengono vicendevolmente, la De di Zaccagnini interrompe la parabola di un declino an­ nunciato frettolosamente sotto la spinta degli scandali. Una risposta importante per rilanciare credibilità e ruolo di chi aveva guidato il cammino del dopoguerra italiano. Ancora una volta la cifra di una classe dirigente che affonda le proprie radici nella stagione fondativa permette di alzare il livello del confronto assumendosi responsabilità e compiti in prima persona. Lo scudocrociato nel voto anticipato si attesta al 38,7% dei consensi confermando il risultato di quattro anni prima in un contesto in apparenza avverso (divorzio, elezioni amministrative, scandali politici e campagne mediatiche). Una possibile spiegazione della tenuta De nella paura del sorpasso a sinistra che avrebbe invertito rapporti di forza sollecitando ulteriormente il piano delle compatibilità internazionali: turarsi il naso ma votare De per fermare l’avanzata del pericolo rosso. La frase di un giornalista come Indro Montanelli diventa il punto di riferimento di una contromobilitazione moderata, silenziosa e conservatrice in linea di continuità con gli assi portanti del cammino della Repubblica. Il Pei dal canto suo compie un grande balzo aumentando del 7% rispetto al 1972, un risultato storico: il 34,4% del consenso degli italiani. Una composizione trasversale del voto comunista: il sostegno tradizionale della classe operaia e dei ceti medi, l’appoggio d’intellettuali di varia matrice e provenienza (indipendenti dal mondo cattolico o di area laica), il consenso moderato raccolto dalla proposta di compromesso storico.

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Diffìcile gestire e consolidare gli effetti di un risultato del genere, tensioni contrastanti spingono verso soluzioni alter­ native: comporre il quadro senza strappi in continuità con il passato o aprire la strada a nuove ipotesi, sperimentando i rischi di una stagione inedita. Una bipolarizzazione frontale che contiene elementi e spinte di collaborazione reciproca non si risolve nella lettura numerica né tantomeno nell’im­ patto del dato quantitativo. Il Partito socialista esce sconfìtto e ridimensionato (9,6% il risultato). E una svolta anche in questo caso. Il segretario De Martino aveva contribuito dalle colonne deU’«Avanti!» alla caduta del quarto governo Moro e alle conseguenti elezioni anticipate66. La soglia non superata del 10% rappresenta la manifestazione più evidente di una crisi di prospettive e di proposte. Il rischio è quello di essere schiacciati dall’ascesa dei due vincitori capaci di occupare tanto lo spazio della maggioranza quanto quello dell’opposizione. Al Midas, un hotel romano, il 16 luglio 1976 il comitato centrale socialista incorona a sorpresa un giovane parlamentare milanese, Bettino Craxi. A poco più di quarant’anni, recente nomina come capogruppo alla Camera, prende in mano il partito per condurlo fuori dalla crisi misurandosi con una diffusa fram­ mentazione interna. Figura chiave dell’Italia in costruzione, protagonista determinato, leader spregiudicato, innovatore di pratiche, costumi e linguaggi della politica. Ma questo si vedrà solo col tempo: in quell’estate 1976, dopo l’affermazione dei due vincitori, la costruzione di una maggioranza parlamen­ tare sembra un’impresa impossibile. Da qui prende corpo la formula dell’esecutivo della non sfiducia in una circostanza inedita e imprevista segnata da trattative serrate tra le forze politiche e tra i diversi esponenti delle correnti democristiane. La non sfiducia è anche - forse soprattutto - una non scelta a fronte delle compatibilità stringenti: continuare il dialogo e la cooperazione (programmi, commissioni parlamentari, nomine e responsabilità) senza incrinare definitivamente il perimetro delle appartenenze reciproche, il filo che separa il quadro interno della Repubblica dal contesto internazionale della guerra fredda. Il punto di equilibrio è a dir poco complicato, un bilan­ ciamento ricercato tra diversi fattori. Andreotti prende la guida del suo terzo esecutivo, un monocolore democristiano che passa la prova della fiducia grazie a una lunga lista di

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astensioni: socialisti, socialdemocratici, repubblicani, liberali, comunisti e indipendenti di sinistra. Sembra un esercizio im­ possibile quando alla Camera si contano 258 voti favorevoli (De e sudtirolesi), 44 contrari (gli estremi Democrazia pro­ letaria, Radicali e Movimento sociale) e ben 303 astensioni. Una strana dinamica parlamentare che permette all’esecutivo di nascere consegnando all’astensione comunista un significato più ampio del comportamento del gruppo parlamentare67. Un segnale molto chiaro per la fine dell’esclusione di una forza che non poteva essere estromessa dal tentativo di rafforzare le responsabilità collettive in una fase complicata, tra crisi economica e tenuta dell’ordine pubblico. Nasce così la soli­ darietà nazionale con una sorta di doppio livello a preservare appartenenze e collocazioni storiche: la De al governo e il Pei coinvolto senza entrare direttamente nella gestione dei mini­ steri o delle scelte d’indirizzo dell’esecutivo. Un’innovazione senza dubbio, un passo deciso verso la ricerca di legittimità e rassicurazioni per il principale partito d’opposizione. Ma su un altro versante un passo incerto e insufficiente, distante da quel disegno complessivo di collaborazione concordata che aveva ispirato le riflessioni di Moro e Berlinguer nei primi anni del decennio68. Non si tratta dello sblocco di un sistema politico paralizzato, né della strategia possibile per dare soluzioni sta­ bili e radicate nella ricerca di una maggioranza parlamentare. Le strettoie del sistema condizionano i protagonisti attratti e preoccupati dall’evoluzione della crisi economica. Il ciclo non si è chiuso, deboli segnali di ripresa nel 1976: diminuisce il deficit della bilancia commerciale, aumenta la produzione industriale, la curva dell’inflazione inizia ad abbassarsi. Timidi passi avanti che secondo il giudizio di molti avrebbero richiesto maggiore coraggio per toccare il costo del lavoro favorendo tagli di bilancio e potenziale crescita delle esportazioni. Non mancarono allora forme di ottimismo o d’incoraggiamento circondate tuttavia da antiche e nuove tare. Il governo decide di varare misure drastiche e impopolari: congelamento dei redditi alti, soppressione di festività, blocco della contingen­ za trasformata in titoli di Stato. Un tentativo di rispondere all’incalzante minaccia di una nuova conflittualità sociale. La sponda di Berlinguer come sostegno agli indirizzi del governo si consolida nella linea dell’austerità come scelta e occasione per risanare e costruire un modello di sviluppo alternativo69.

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Ipotesi velleitaria che non raccoglie consensi tra le forze sindacali preoccupate dell’implicito ridimensionamento delle richieste d’incremento dei salari. Settori del mondo intellettuale seguono con attenzione le riflessioni del leader comunista, il suo sostegno di fatto alle scelte del governo, la fermezza che si consolida a fronte dell’offensiva del terrorismo rosso. Verso la fine del 1977 il segretario repubblicano Ugo La Malfa avanza la richiesta di coinvolgere direttamente il Pei in responsabilità di governo superando quella strana separatezza inaugurata nell’estate del 1976 sotto il segno dell’astensione nel varo dell’esecutivo Andreotti. Il Pei conquista credibilità: sostiene manovre impopolari, combatte il terrorismo senza reticenze, rilancia (con ambiguità, ritardi e contraddizioni) in sede di conferenze internazionali le ragioni della democrazia contro le ferree imposizioni del modello sovietico. Un cammino incerto di un osservato speciale. Tra la fine del 1977 e i primi mesi del nuovo anno sembrano avvicinarsi le condizioni per un ingresso a pieno titolo nell’esecutivo, il completamento e l’inveramento dei governi di solidarietà nazionale. Andreotti si dimette, fa un ultimo tentativo quando le resistenze di tanti in Italia e fuori frenano sull’ipotesi della collaborazione. Un tempo sospeso tra una scelta possibile e le compatibilità che condizionano il quadro politico e il coraggio dei protagoni­ sti. Moro appare più aperto e disponibile, in tanti prendono tempo. Quando il quarto governo Andreotti si presenta alle Camere, nel marzo 1978, dopo un mese e mezzo di crisi senza soluzioni, lo schema non muta nella sostanza: programma con­ cordato, almeno in parte con il gruppo dirigente comunista, ma composizione monocromatica, ministri democristiani che cercano la fiducia dal Parlamento. Una strada incerta che pone le premesse di un nuovo passo falso, una battuta d’arresto o comunque il raffreddarsi progressivo dell’ipotesi di collaborazione piena. Il presidente del Consiglio fissa la data della presentazione delle linee dell’esecutivo alle Camere: 16 marzo 1978. Quella mattina Moro viene rapito dalle Brigate Rosse durante un agguato, cinque uomini della scorta assassinati. Nulla sarà più come prima. Una tragedia nazionale incombe. Il governo ottiene una fiducia lampo come condizione per gestire un momento drammatico. Il paese è scosso, la De travolta dagli eventi.

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Note al capitolo terzo 1 Judt, Dopoguerra. Come è cambiata l’Europa dal 1945 a oggi, cit., pp. 3-15. 2 G. Formigoni, La politica internazionale del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 354-372. 3 Cfr. Diner, Raccontare il Novecento. Una storia politica, cit., pp. 232-241; M. Mazower, Le ombre dell’Europa, Milano, Garzanti, 2000, pp. 283-320. 4 Una sintesi del dibattito storiografico in Felice, Ascesa e declino. Storia economica d’Italia, cit., pp. 53-112. 5 Cfr. G. Amato e A. Graziosi, Grandi illusioni. Ragionando sull’Italia, Bologna, Il Mulino, 2013; Giovagnoli, La Repubblica degli italiani. 19462016, cit., p. 69. 6 E. Weber, Da contadini a francesi. La modernizzazione della Francia rurale. 1870-1914, Bologna, Il Mulino, 1989; R. Pertici, Il pensiero storico di Roberto Vivarelli, in D. Menozzi (a cura di), Storiografia e impegno ci­ vile. Studi sull’opera di Roberto Vivarelli, Roma, Viella, 2016, pp. 213-217. 7 I contributi per il cinquantesimo: F. Socrate, Sessantotto, Roma-Bari, Laterza, 2018; M. Flores e G. Gozzini, 1968. Un anno spartiacque, Bologna, Il Mulino, 2018; A. Giovagnoli, Sessantotto. La festa della contestazione, Roma, San Paolo, 2018. 8 P. Ortoleva, I movimenti del ’68 in Europa e in America, Milano, Feltrinelli, 1988. 9 Cfr. D. Lance Goines, The Free Speech Movement. Corning of Ege in thè 1960s, Berkeley (CA), Ten Speed Press, 1993; W.J. Rorabaugh, Berkeley at War. The 1960s, New York, Oxford University Press, 1990. 10 Rorabaugh, Berkeley at War. The 1960s, cit., pp. 106-107. 11 P. Ghione e M. Grispigni (a cura di), Giovani prima della rivolta, Roma, Manifestolibri, 1988; W. Binni, Omaggio a un compagno caduto, in «Mondoperaio», 4, 1966, pp. 1-5. 12 P.P. Pasolini, Il Rei ai giovani, in «L’Espresso», 16 giugno 1968. 13 P. Kolar, Rost-Stalinist Reformism and thè Rrague Spring, in The Cam­ bridge History of Communism, voi. II, The Socialist Camp and World Power 1941-1960s, a cura di N. Naimark, S. Pons e S. Quinn-Judge, Cambridge, Cambridge University Press, 2017, pp. 170-195. 14 M. Flores e A. De Bernardi, Il Sessantotto, Bologna, Il Mulino, 1998, pp. 13-32; D. Volcic, 1968. L’autunno di Praga, Palermo, Sellerio, 2008. 15 Pons, La rivoluzione globale. Storia del comuniSmo internazionale 1917-1991, cit., pp. 325-346; A. Graziosi, L’Urss dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione sovietica. 1945-1991, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 331368; R. Gildea, The Global 1968 and thè International Communism, in The Cambridge History of Communism, voi. Ili, Endgames? Late Communism in Global Perspective, 1968 to thè Present, a cura di J. Furst, S. Pons e M. Selden, Cambridge, Cambridge University Press, 2017, pp. 23-49. 16 A. Sillitoe, La solitudine del maratoneta, Torino, Einaudi, 1964. 17 R. Beretta, Il lungo autunno. Controstoria del Sessantotto cattolico, Milano, Rizzoli, 1998; A. Giovagnoli (a cura di), 1968: fra utopia e Vangelo.

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Contestazione e mondo cattolico, Roma, Ave, 2000; D. Saresella, Dal Concilio alla contestazione. Riviste cattoliche negli anni del cambiamento (1958-1968), Brescia, Morcelliana, 2005; Id., Cattolici a sinistra. Dal modernismo ai giorni nostri, Roma-Bari, Laterza, 2011; A. Santagata, La contestazione cattolica. Movimenti, cultura e politica dal Vaticano II al ’68, Roma, Viella, 2016. 18 Ortoleva, I movimenti del '68 in Europa e in America, cit., pp. 10-12. 19 Cfr. L. Passerini, Autoritratto di gruppo, Firenze, Giunti, 20082. 20 D. Starnone, Duso di massa dei libri, in I libri del 1968. Una biblio­ grafia politica, Roma, Manifestolibri, 1998, pp. 10-12. 21 La citazione in A. Moro, Governare per l’uomo, a cura di M. Dau, Roma, Castelvecchi, 2016, p. 224. 22 A. Moro, Tempi nuovi si annunciano e avanzano in fretta come non mai, in Id., Governare per l’uomo, cit., pp. 225-239. 23 Moro, Governare per l’uomo, cit., p. 227. 24 Ibidem. 25 Ivi, p. 226. 26 Flores e Gozzini, 1968. Un anno spartiacque, cit., pp. 245-268. 27 Moro, Governare per l’uomo, cit., p. 226. 28 Ivi, pp. 226 ss. 29 Una ricostruzione in P. Craveri, Storia d’Italia, voi. 24, La Repubblica dal 1958 al 1992, Torino, Utet, 1995, pp. 441-519. 50 Cfr. P. Matterà, Storia del Psi. 1892-1994, Roma, Carocci, 2010, pp. 174-196. 31 P. Morando, Prima di Piazza Fontana. La prova generale, Roma-Bari, Laterza, 2019. 32 G. Boatti, Piazza Fontana. 12 dicembre 1969: il giorno dell’innocenza perduta, Milano, Feltrinelli, 1993, p. 15 (il volume è stato ripubblicato da Einaudi nel 2009 e nel 2019). 33 Ibidem. 34 C. Cederna, Colpi di scena e colpi di karaté. Gli ultimi incredibili sviluppi del caso Pinelli, in «L’Espresso», 13 giugno 1971 e 27 giugno 1971. 35 In A. Sofri (a cura di), Il malore attivo dell’anarchico Pinelli, Palermo, Sellerio, 1996, p. 64. 36 Cfr. B. Tobagi, Piazza Fontana. Il processo impossibile, Torino, Ei­ naudi, 2019. 37 Cfr. Crainz, Storia della Repubblica. L’Italia dalla liberazione ad oggi, cit., pp. 156-169; Soddu, La via italiana alla democrazia. Storia della Re­ pubblica 1946-2013, cit., pp. 141-151. Per le testimonianze dei familiari cfr. M. Calabresi, Spingendo la notte più in là. Storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo, Milano, Mondadori, 2007; L. Pinelli e P. Scaramucci, Una storia quasi soltanto mia, Milano, Feltrinelli, 2009. 38 G. Vecchio e P. Trionfini, Storia dell’Italia repubblicana (1946-2014), Milano, Monduzzi, 2014, p. 195. 39 S. Flamigni, «Il mio sangue ricadrà su di loro». Gli scritti di Aldo Moro prigioniero delle Br, Milano, Kaos, p. 242; M. Gotor, Il memoriale

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della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano, Torino, Einaudi, 2011; Il memoriale di Aldo Moro (1978), Edizione critica, coordinamento di M. Di Sivo, a cura di F. Biscione, M. Di Sivo, S. Flamigni, M. Gotor, I. Moroni, A. Padova e S. Twardzik, Roma, Direzione Generale Archivi, De Luca Editori, 2019. 40 Vecchio e Trionfini, Storia dell’Italia repubblicana (1946-2014), cit., p. 197. 41 G. De Lutiis, Storia dei servizi segreti in Italia, Roma, Editori Riuniti, 1991, pp. 213-242; G. Fasanella, C. Sestieri e G. Pellegrino, Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro, Torino, Einaudi, 2000, pp. 56-96. 42 Una rivisitazione in F. Cuzzola, Reggio 1970. Storie e memorie della rivolta, Roma, Donzelli, 2007. 43 S. Zavoli, La notte della Repubblica, Rai 2, 18 puntate, dal 12 dicem­ bre 1989 all’11 aprile 1990 e il volume La notte della Repubblica, Milano, Mondadori, 1992. 44 Cfr. M. Galleni (a cura di), Rapporto sul terrorismo, Milano, Rizzoli, 1981 ; D. della Porta e M. Rossi, Cifre crudeli. Bilancio dei terrorismi italiani, Bologna, Istituto Carlo Cattaneo, 1984; Presidenza della Repubblica, Per le vittime del terrorismo nell’Italia repubblicana, Roma, Istituto Poligrafi­ co e Zecca dello Stato, 2008; il portale della Rete degli archivi per non dimenticare: www.memoria.san.beniculturali.it. 45 V. Vidotto, La nuova società, in G. Sabbatucci e V. Vidotto (a cura di), Storia d’Italia, voi. 6, Idltalia contemporanea. Dal 1963 a oggi, RomaBari, Laterza, 1999, pp. 3-99, spec. 66-74. 46 Cfr. F. Basaglia, L’istituzione negata, Torino, Einaudi, 1968; J. Foot, La repubblica dei matti. Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia 19611978, Milano, Feltrinelli, 2014; D. Forgacs, Margini d’Italia. Lesclusione sociale dall’Unità a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2015, pp. 211-289. 47 Su questi aspetti cfr. P. Spriano, Le passioni di un decennio. 1946-1956, Milano, Garzanti, 1986; G. De Luna, Le ragioni di un decennio. 1969-1979: militanza, violenza, sconfitta, memoria, Milano, Feltrinelli, 2009. 48 G. Moro, Anni Settanta, Torino, Einaudi, 2007, p. 6. 49 Ivi, pp. 19-21. 50 Su questi aspetti si veda I. Kershaw, Roller-Coaster: Europe, 19502017, London, Penguin, 2019. 51 Si veda Felice, Ascesa e declino. Storia economica d’Italia, cit., pp. 283 ss. 52 Cfr. Westad, La guerra fredda globale. Gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica e il mondo. Le relazioni internazionali del XX secolo, cit., pp. 125-178; Bongiovanni, Storia della guerra fredda, cit., pp. 127-139; M. Del Pero, La guerra fredda, Roma, Carocci, 2001, pp. 67-83; F. Romero, Storia internazionale dell’età contemporanea, Roma, Carocci, 2012, pp. 79-96. 53 Carli, Cinquant’anni di vita italiana, cit., p. 245. 54 Sugli effetti dei mutamenti del ciclo economico internazionale per l’economia italiana cfr. P. Battilani e F. Fauri, Mezzo secolo di economia italiana. 1945-2008, Bologna, Il Mulino, 2008; A. Boltho, Italia, Germania e Giappone. Dal miracolo economico alla semistagnazione, in Toniolo (a

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cura di), L'Italia e l’economia mondiale, cit., pp. 147-184, pp. 162 ss. Una ricostruzione delle serie in A. Baffigi, Il Pii per la storia d'Italia. Istruzioni per l’uso, Venezia, Marsilio, 2013. 55 Cfr. M. Ridolfi, Interessi e passioni. Storia dei partiti politici italiani tra l’Europa e il Mediterraneo, Milano, Bruno Mondadori, 1999, pp. 430-450. 56 Cfr. V. Foa, Il Cavallo e la Torre. Riflessioni su una vita, Torino, Einaudi, 1991, pp. 289-312. 57 Cfr. E Romero, Cold War Anti-Communism and thè Impact of Communism on thè West, in The Cambridge History of Communism, voi. II, cit., pp. 291-314. 58 Su questi aspetti si veda U. Gentiioni Silveri, Ultalia sospesa. La crisi degli anni Settanta vista da Washington, Torino, Einaudi, 2009; L. Comincili, L’Italia sotto tutela. Stati Uniti, Europa e crisi italiana degli anni Settanta, Firenze, Le Monnier, 2014. 59 Sul referendum del 1974 cfr. G.F. Pompei, Un ambasciatore in Vati­ cano. Diario 1969-1977, a cura di P. Scoppola, Bologna, Il Mulino, 1994; G. Scirè, Il divorzio in Italia. Partiti, Chiesa, società civile dalla legge al referendum (1965-1974), Milano, Bruno Mondadori, 2007; C. Brezzi, 1974: una domenica di un anno indimenticabile, in F. Bonini, M.R. Di Simone e U. Gentiioni Silveri (a cura di), Filippo Mazzonis. Studi, testimonianze e ricordi, Pescara, ESA, 2008, pp. 137-172; M. Seymour, Debating Divorce in Italy. Marriage and thè Making of Modem Italians, 1860-1974, New York, Paigrave Macmillan, 2006; C. Brezzi, La stagione del divorzio, in C. Brezzi e U. Gentiioni Silveri (a cura di), Democrazia, impegno civile, cultura reli­ giosa. Uitinerario di Pietro Scoppola, Bologna, Il Mulino, 2015, pp. 145-160. 60 Cfr. G.M. Ceci, Moro e il Pei. La strategia dell’attenzione e il dibattito politico italiano (1967-1969), Roma, Carocci, 2013. 61 Gentiioni Silveri, L’Italia sospesa. La crisi degli anni Settanta vista da Washington, cit., pp. 156-163. 62 Cfr. Imperialismo e coesistenza, alla luce dei fatti cileni, 28 settembre 1973; Via democratica e violenza reazionaria, 5 ottobre 1973; Alleanze sociali e schieramenti politici, 12 ottobre 1973; i tre interventi raccolti anche in E. Berlinguer, La crisi italiana. Scritti su Rinascita, Roma, Editrice l’Unità, allegato a «Rinascita», n. 22, 15 giugno 1985. 63 L. Elia, Forme di governo, in Enciclopedia del diritto, voi. XIX, Mila­ no, Giuffrè, pp. 634-675; F. Bonini, Storia costituzionale della Repubblica. Profilo e documenti (1948-1992), Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1993, pp. 55-57; Id., Costituzione, partiti, istituzioni, Bologna, Il Mulino, 2009. 64 Su questo, Giovagnoli, La Repubblica degli italiani, 1946-2016, cit., pp. 87-97. 65 Sulla vicenda Ambrosoli e sul caso Sindona cfr. C. Stajano, Un eroe borghese. Il caso dell’avvocato Ambrosoli assassinato dalla mafia politica, Torino, Einaudi, 1995; R. Agasso, Il caso Ambrosoli. Mafia, affari, politica, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2005; G. Simoni e G. Turane, Il caffè di Sindona. Un finanziere d’avventura tra politica, Vaticano e mafia, Milano, Garzanti, 2009. Una testimonianza in U. Ambrosoli, Qualunque cosa succeda, Milano, Sironi Editore, 2009.

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66 F. De Martino, Soluzioni nuove per una crisi grave in «PAvanti!» 31 dicembre 1975. 67 Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, cit., pp, 4 9 9 .5 0 6 ; Craveri, Storia d’Italia, voi. 24, La Repubblica dal 1958 al 1992, cit., pp. 635-678. 68 Per un confronto sul significato della solidarietà nazionale cfr. G. Chiaromonte, Le scelte della solidarietà democratica, Roma, Editori Riuniti, 1986; G. Vacca, Tra compromesso e solidarietà. La politica del Pei negli anni ’70, Roma, Editori Riuniti, 1987; Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, cit., pp. 469-545; Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico 1945-1996, cit., pp. 381-422; Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni Novanta, cit., pp. 412-443. 69 E. Berlinguer, Austerità. Occasione per trasformare l’Italia, Roma, Editori Riuniti, 1977.

Capitolo quarto

Il funerale della Repubblica

1. Generazione contro Il terrorismo politico attraversa diversi decenni della storia della Repubblica. Non un fenomeno incidentale o passeggero, né una presenza circoscritta a episodi di violenza o scontro sociale diffuso. Gruppi organizzati cercano il conflitto con lo Stato, identificano simboli e protagonisti per colpire, spezzan­ do vite e costruendo altresì le condizioni di una rottura senza precedenti. Se esiste un aspetto che distingue il cammino del dopoguerra italiano da altri contesti continentali è proprio la scia di sangue che si protrae come una costante, un tratto di lungo periodo creando instabilità, paure, risposte di vario genere1. Un’intensità variabile e spesso caotica delle azioni terroristiche, i simboli da colpire sono persone che lavorano aU’interno degli apparati dello Stato o in quelli che nel lin­ guaggio terroristico sono i centri del potere da abbattere: ma­ gistrati, politici, giornalisti, funzionari d’azienda, giuslavoristi, quadri operai o sindacali che non si piegano alle leggi della contrapposizione frontale. La cultura della rivoluzione, l’attesa messianica dell’ora giusta per travolgere equilibri e rapporti di forza si contrappongono alla costruzione per via democratica, alla fatica del giorno per giorno, alla condivisione di un tessuto di regole, relazioni, comportamenti e istituzioni. Distruggere per poter ricominciare, abbattere il presente per costruire un futuro radicalmente diverso, convincere seguaci e sostenitori che il tempo della rivoluzione è possibile e non è troppo lon­ tano. Una dialettica che affonda le radici nelle trasformazioni della modernità e nelle aspettative inevase di uno sviluppo che perde progressivamente lo smalto del decennio precedente, le convinzioni e gli orizzonti del miracolo economico. Il declino possibile di un sistema radica un’opzione diffusa, il segno di

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un fallimento o di una battuta d’arresto che si carica di un forte connotato politico e sociale: solo alcuni vanno avanti diventando più ricchi e più potenti, molti arrancano, vengono esclusi o marginalizzati, restano irrimediabilmente indietro. La forza redistributiva delle politiche di compromesso tra Stato e mercato non convince e non funziona, prevale un sentimento esteso, un complicato incontro tra frustrazioni accumulate e nuove ambizioni. In questo spazio le parole e le pratiche del partito armato trovano seguaci e fiancheggiatori all’interno di un segmento di una generazione d’italiani, giovani nati dopo l’età della ca­ tastrofe, distanti dalle guerre mondiali cresciuti nel vivo della ricostruzione e del rilancio nazionale, giovani in conflitto, alla ricerca di un terribile e disperato incontro con la storia. Le ragioni di tale frattura sono di varia natura. Per un lungo tempo letture semplicistiche e strumentali hanno costruito un legame stretto tra la fase della contestazione studentesca e giovanile e l’adesione di tanti alle strutture dell’eversione di sinistra, del terrorismo rosso. Un legame forzato e semplicistico tra il biennio 1968-1969 e quello che è venuto dopo, quasi che fosse possibile e automatico ricondurre le ragioni della violenza al nuovo protagonismo del movimento studentesco nelle sue varie fasi e forme. La questione è ben più complessa e intrigata. Non c’è dubbio che parte delle culture della nuo­ va sinistra, delle stesse parole d’ordine, dei richiami espliciti alla cultura della rivoluzione impregnati di violenza salvifica abbiano costituito un contesto favorevole alla trasmissione di pratiche, slogan, comportamenti. Una scelta non obbligata né maggioritaria. E bene ricordare che la strada senza ritorno del partito armato nelle sue varie espressioni riguarda un segmento minoritario e marginale tra coloro che avevano scoperto la politica, la partecipazione o la militanza nella lunga stagione dei movimenti. Un retroterra culturale, quello della sinistra nel suo insieme, utilizzato e utilizzabile per le scelte più diverse, anche per percorsi e soggettività in conflitto tra loro. Del re­ sto, non sarebbe possibile né corretto racchiudere il variegato mondo del protagonismo giovanile nel perimetro angusto di una sola opzione possibile, né sottovalutare le cause endogene ed esogene che portano alla rottura di un tessuto condiviso, a una conflittualità inedita che riguarda le scuole, l’università, la fabbrica, la famiglia, i luoghi e le istituzioni dell’universo

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repubblicano. Per molti della cosiddetta «generazione Sessan­ totto» la scelta diviene quella di abbandonare l’impegno dopo qualche anno, talvolta per scegliere la dimensione professionale, altre volte per tentare di costruire una nuova classe dirigente: nei partiti, nell’apparato dello Stato, nei sindacati, nel mondo dei media o nella magistratura. Un’immissione di forze nuove che contribuisce a un significativo rinnovamento generazionale in ambiti e competenze diverse. Altri scelgono la via della fuga, della distanza fisica o mentale spostandosi in luoghi o comunità segnate dal misticismo orientale o dagli effetti del ricorso a sostanze stupefacenti. Una componente di sinistra dà vita alle sigle nuove dell’arcipelago extraparlamentare in una torsione dell’impegno politico verso strumenti e strutture con programmi più radicali, critici tanto d&\Yestablishment governativo quanto di contenuti e approdi della sinistra sto­ rica di matrice socialista e comunista. I gruppi in conflitto tra loro con nomi, richiami, quotidiani e periodici di riferimento nel tempo della conflittualità diffusa: «il manifesto», «Lotta continua», «Avanguardia operaia»2. I tentativi di misurarsi nella costruzione di una rappresentanza parlamentare (dal movimento al partito) non superano le soglie della marginalità numerica. Esperimenti velleitari che non modificano il qua­ dro dei rapporti di forza tra le presenze della vecchia e della nuova sinistra più attenta e a suo agio al di fuori delle aule parlamentari. Per altri ancora lo spazio dell’impegno politico nella cornice istituzionale viene giudicato non praticabile o accettabile. A questo livello si consuma la rottura più radi­ cale: uscire dalle forme della cittadinanza politica e sociale per costruire delle presunte avanguardie capaci di guidare lo scontro con lo Stato attraverso la mobilitazione di masse di operai e sfruttati. Un’analisi a dir poco superficiale e incoeren­ te che tuttavia raccoglie adesioni e scelte individuali di tanti provenienti da storie e culture diverse, spesso dalle forme del protagonismo studentesco, dai gruppi giovanili d’ispirazione cristiana, dalle esperienze del terzomondismo anticapitalista. Chi guarda alle lotte di liberazione dei popoli nei paesi in via di sviluppo propone riferimenti alla guerriglia e alla centralità dell’azione dimostrativa rilanciando ruolo e funzione strategica delle avanguardie del movimento. Prima di addentrarci nel contraddittorio manifestarsi del partito armato, nelle forme di azioni violente che mettono

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in discussione la tenuta dell’ordine democratico, può esse­ re utile richiamare alcuni elementi unificanti di esperienze variegate del terrorismo politico per evitare di riproporre due semplificazioni opposte: il legame con i movimenti come chiave di lettura prevalente o al contrario la sottovalutazione della minaccia terroristica, del peso esercitato dalla violenza sull’insieme del sistema democratico della Repubblica. Alcuni gruppi che attraversano sin dagli albori la cosiddetta stagione dei movimenti o dei sommovimenti, sono segnati da pratiche violente, le considerano parte di un’identità, di una strategia di mobilitazione e di lotta3. Spesso anche al di là delle intenzioni dei singoli protagonisti diventano incubatori della violenza terroristica in quanto capaci di proiettare la soggettività della mobilitazione in un perimetro dove tutto è possibile, dove non esistono limiti e compatibilità condivise. Un’area magmatica e inesplorata che attorno alla frattura del 1977 contribuisce a estendere e radicare lo spazio dei fiancheggiatori potenziali, di chi non si dissocia e guarda con simpatia il salto di qualità annunciato nello scontro tra lo Stato e i nuovi sovvertitori dell’ordine4. La parabola della violenza politica e della sua presenza è quindi più lunga e coinvolgente di quanto spesso non si pensi. Inizia prima della strage di piazza Fontana, anima gruppi marginali che si muovono soprattutto nelle periferie delle grandi città, coinvolge personaggi e biografie che di lì a poco faranno il passo senza ritorno in direzione della clan­ destinità del terrorismo militante. Ma al tempo stesso quella fine dell’innocenza con la strage del 12 dicembre 1969 non risparmia nessuno: la frattura è completa, lo Stato si muove senza freni o limiti e anche i gruppi si sentono nelle condizioni di poter scegliere quell’opzione così tragica e terribile, senza ritorno. Le discussioni teoriche sulla violenza rivoluzionaria, sui richiami al giacobinismo o al bolscevismo precedenti divengono opzioni percorribili, dinamiche di lotta concrete, strategie di costruzione delle (presunte) premesse per una frat­ tura rivoluzionaria. Dopo piazza Fontana tutto cambia, nelle dinamiche dello scontro e negli approdi dei singoli militanti o aspiranti rivoluzionari. Un intellettuale come Giangiacomo Feltrinelli fonda nel 1970 i Gruppi armati proletari (Gap) e si adopera con azioni dimostrative e tentativi di sabotaggio, finendo lui stesso dilaniato da un esplosivo che stava collo­ cando su un traliccio dell’alta tensione a Segrate, nei pressi

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di Milano, il 14 marzo 19725. In questo contesto nascono le Brigate Rosse, il gruppo politico che raccoglie le parole della rivoluzione per costruire una strategia che porti alla presa del potere attraverso la violenza e il terrore. Una pagina lunga e dolorosa che inizia alla fine degli anni Sessanta (incontro tra studenti milanesi e aspiranti rivoluzionari emiliani) e si protrae per oltre due decenni. Tanti i caduti innocenti, le ferite non rimarginate, le memorie divise che hanno messo alla prova e lacerato duramente la tenuta di una comunità nazionale. Ma procediamo con ordine. Le Brigate Rosse iniziano il loro percorso dalla saldatura tra un segmento del movimento studentesco trentino e il «gruppo dell’appartamento» di Reggio Emilia: dal cattolicesi­ mo post-conciliare e militante i primi, dal mondo del comu­ niSmo reggiano i secondi. In breve tempo si aggiungono quadri operai e sindacali e nei primi mesi del 1970 viene fondata l’organizzazione. Il primo sguardo del presunto con­ testo rivoluzionario riguarda le fabbriche e la composizione che le attraversa. L’idea portante nella ricerca di un conflitto tra capitale e lavoro che avrebbe innescato la scintilla di una rivoluzione più ampia. Analisi inconcludenti e prive di ogni riferimento con la realtà della fabbrica e con le trasformazioni del mondo del lavoro a cavallo tra spinte al cambiamento del decennio precedente e segni di una crisi profonda capace di squarciare le ultime certezze. Una combinazione che diventa la premessa della lunga scia di sangue innescata dall’organiz­ zazione: una convinzione rivoluzionaria, una ferocia di intenti e prospettive fondati sulla mediocrità di un linguaggio incon­ sistente e privo di legami con la realtà. Rimane solo la violen­ za con la sua terribile carica di lutti e tragedie. Un 'escalation che condiziona un lungo arco di tempo. Azioni simboliche di sabotaggio, incendi di auto, lancio di volantini con sentenze di piazza, comparsa di scritte e minacce firmate con la stella a cinque punte. La capacità militare del gruppo cresce, le colonne locali si radicano nelle città del triangolo industriale mentre la direzione strategica dell’organizzazione si attrezza per un salto di qualità delle azioni. Inizia la stagione dei se­ questri di persona: dirigenti di azienda, il capo del personale della Fiat e il crinale di una strada senza ritorno imboccata nel 1974 con il sequestro del giudice Mario Sossi a Genova. Il simbolo di un pubblico ministero che si era adoperato per

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chiedere pesanti condanne contro la cellula terroristica di un gruppo denominato «X X II ottobre». Dai brigatisti arriva la richiesta di un baratto: liberazione dell’ostaggio in cambio della libertà dei terroristi condannati. Un gioco pericoloso che si mette in moto attraversando le vite delle persone fino a dilaniare le istituzioni: si può trattare con un’organizzazione terroristica, la si può considerare un interlocutore possibile o, al contrario, ogni cedimento lascerebbe intendere che lo Stato è fragile, esposto ai venti e alle intemperie di un’offensiva armata senza precedenti? Dopo una lunga dialettica mediatica sulle sorti del giudice Sossi e sui risvolti possibili delle scelte dei protagonisti si arriva alla liberazione dell’ostaggio. I terro­ risti nonostante il pronunciamento della Corte d’Assise d’ap­ pello di Genova rimangono in carcere visto che il procuratore generale Francesco Coco sceglie di non controfirmare il prov­ vedimento di scarcerazione. Pagherà con la vita la sua scelta di fermezza: verrà freddato da un commando brigatista l’8 giugno 1976. Una tensione diffusa che dall’episodio circoscrit­ to del capoluogo ligure si espande velocemente: simpatie e antipatie per le due parti in causa, chi cerca la salvezza degli ostaggi, chi pensa che i brigatisti abbiano qualche ragione dalla loro dopo aver liberato Sossi senza avere ottenuto nulla in cambio. Una sorta di credito verso i comportamenti dello Stato e il complesso meccanismo decisionale sotteso. Un anno cruciale per l’eversione nelle sue forme e colori: vengono fon­ dati i Nap (Nuclei armati proletari) in prevalenza al Sud col­ legandosi alla condizione carceraria e alle iniziative più diver­ se volte a finanziare la lotta armata. Lo stragismo batte un ulteriore colpo: la strage di Brescia di chiara impronta antioperaia e antisindacale (durante un comizio, nel vivo di una imponente mobilitazione) e il treno Italicus nel solco delle bombe contro civili inermi per condizionare e paralizzare la dialettica democratica introducendo le paure di violenze sen­ za nome6. Sono il segno della progressiva sconfitta di ogni argine che punti a difendere o proteggere la vita delle persone: le Br freddano due uomini facendo irruzione in una sezione missina a Padova, mentre la reazione delle forze dell’ordine riesce a colpire e ad arrestare i vertici dell’organizzazione: Franceschini, Ognibene, Gallinari, Buonavita, Curcio (fuggito e catturato nuovamente nel 1976), Mara Cagol, colpita e uc­ cisa in uno scontro a fuoco con i carabinieri. Un biennio che

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sembra poter chiudere una fase, quella dello scontro diffuso, senza esclusione di colpi tra lo Stato e le Br. Molti dei terro­ risti scelgono di entrare in clandestinità, varcare il confine che divide la vita del prima dalla violenza del dopo. Ma se agli albori del 1976 quasi tutti i capi storici dell’organizzazione sono stati identificati, colpiti, arrestati, la partita è ancora lunga e complicata. Rimangono aperti i canali di reclutamento, le forme di emulazione in settori marginali ma significativi dell’arcipelago giovanile (studentesco e operaio), la solitudine di chi si trova sulla linea di frattura e di contatto con le nuo­ ve forme del partito armato. Una svolta militarista per le Brigate Rosse tra la seconda metà del 1976 e l’anno successivo, sotto la guida di Mario Moretti un marchigiano trasferitosi a Milano, tecnico alla Sit-Siemens. Un cammino senza ritorno quello che viene tracciato: violenza e lotta armata si danno la mano nella ricerca di quello scontro decisivo e ravvicinato con i poteri dello Stato. La discontinuità sfugge a molti, del resto la violenza si era manifestata da tempo sotto varie forme e provenienze, quella perdita dell’innocenza della fine degli anni Sessanta aveva coinvolto i gruppi, parte del movimento, gli apparati dello Stato e le forze dell’ordine. Ma quasi dieci anni dopo la violenza diventa una forma di presenza e coinvolgi­ mento nella società, una terribile strategia di affermazione di identità e culture. Si carica in poco tempo di una valenza salvifica, di un significato generazionale che spazza via ogni forma di mediazione o filtro: i partiti, la famiglia, la scuola o l’università. Tutto deve essere cambiato, travolto, distrutto per poter concepire un nuovo inizio. Ed ecco che l’ala militarista del terrorismo rosso radicalizza le forme dello scontro cercan­ do interlocutori tra i giovani e gli studenti in un salto logico e teorico, dalla fabbrica alla società in un contesto che appare in movimento, sfuggito di mano ai protagonisti tradizionali, in primo luogo le culture costituenti e le forme storiche della politica del dopoguerra. Il quadro dell’estremismo si fa composito e incerto. Au­ mentano sigle e gruppi che si fondono e si scindono a seconda delle parole d’ordine di riferimento o delle convenienze. «Prima Linea» raccoglie alcune migliaia di terroristi o aspiranti tali, altre sigle rimangono attive e presenti nelle dinamiche di una nuova conflittualità sociale che aveva caratterizzato il movimento del 1977. Un movimento eterogeneo segnato da identità e appar-

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tenenze persino conflittuali: circoli di proletariato giovanile del circuito dell’«Autonomia operaia» (questo l’organismo di riferimento) che tiene insieme studenti e giovane classe lavoratrice con un’ala più creativa e innovativa, i cosiddetti «indiani metropolitani». Come per esperienze precedenti la città diventa il perimetro privilegiato per unificare i diversi segmenti della mobilitazione: studenti, lavoratori, disoccupati, una soggettività femminile di tipo nuovo. Slogan di rottura accompagnano il fiorire di riviste più o meno legate al dibattito ideologico della sinistra tradizionale. Un movimento creativo extraparlamentare che entra in rotta di collisione con i partiti e le loro rappresentanze. Il Pei diventa un bersaglio da col­ pire, il simbolo di un tradimento consumato ai danni delle generazioni più giovani convinte che la rivoluzione sia stata bloccata e limitata dalle politiche di vertice e dagli accordi tra i partiti. Si apre così una frattura che è al tempo stesso politica, istituzionale e generazionale. Da una parte le richieste, anche provocatorie, del movimento («tutto e subito», «prendiamoci tutto») e dall’altra le chiusure di una politica che appare sorda e distante. Le stesse riflessioni di Berlinguer sull’austerità e sulle caratteristiche del modello di sviluppo vengono giudicate parziali, controproducenti e irricevibili. I luoghi della formazio­ ne sono ancora il centro delle mobilitazioni, tanto nelle forme della partecipazione studentesca quanto nella saldatura con le altre anime del movimento, l’ala più creativa e irriverente: basti pensare agli «indiani metropolitani» e al loro protagonismo con richiami ai pellerossa o a forme di mobilitazione inusua­ li. Il 17 febbraio 1977 il movimento caccia Luciano Lama, segretario della Cgil, dall’Università di Roma «la Sapienza»: una contestazione che prende di mira il sindacato, il servizio d’ordine che tenta invano di salvaguardare lo svolgimento del comizio. Il muro contro muro diventa una costante: da una parte un segmento generazionale, «lo strano movimento di strani studenti», dall’altra partiti, sindacati e forze dell’ordine7. Ogni distinzione sbiadisce o viene sacrificata nella dicotomia amico-nemico che prepara il salto di qualità nella conflittualità diffusa e nelle reazioni diverse dei corpi dello Stato. La cac­ ciata di Lama è un simbolo che resta, il segno di una frattura che coinvolge luoghi di studio e soggettività diverse: il rettore della Sapienza Antonio Ruberti chiama le forze dell’ordine per sgombrare l’Ateneo occupato. Il clima rimane teso e per

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molti versi ingestibile. Poche settimane dopo all’Università di Bologna le forze dell’ordine intervengono (chiamate anche in questo caso dal rettore) per sedare uno scontro tra opposte fazioni studentesche. La città si trasforma in un perimetro di violenze incontrollabili; Francesco Lorusso, un giovane studente simpatizzante di Lotta continua perde la vita negli scontri con la polizia. Un conflitto prolungato che porta alla chiusura di Radio Alice (voce del movimento insieme a Radio popolare a Milano) e alla radicalizzazione di un conflitto che scuote il cuore dell’Emilia rossa, spingendo il Pei verso posizioni più intransigenti nei confronti del nuovo movimento accusato di essere una forza disgregatrice e violenta che mette a rischio la tenuta del sistema democratico. Ma la spirale di violenza è inarrestabile: scontri ripetuti a Roma e a Milano, giovani che inneggiano alla P38, ritratti in piazza con volto coperto da passamontagna e pistola tra le mani. I partiti fanno fronte comune, sostengono le forze dell’ordine nelle dinamiche di una repressione feroce e frontale. Gruppi d’intellettuali (Jean Paul Sartre, Michel Foucault, Roland Barthes e tanti altri in Italia e fuori dai confini nazionali) tentano di offrire una sponda al movimento temendo che le libertà fondamentali possano essere violate sotto i colpi della repressione anti-studentesca. A settembre un convegno sulla repressione a Bologna, dove la polizia si era macchiata di un terribile episodio di morte, raccoglie 25 mila giovani. La città mostra un volto dialogante e comprensivo nonostante il tono di molti slogan gridati in quei giorni. La violenza non scompare, non viene sconfitta. Al contrario il suo cammino si rinnova e si rafforza. Lo scontro non ammette zone franche o rifugi sicuri, il terrorismo affonda le proprie energie in un contesto radicalizzato e per molti versi propizio a nuove azioni. Le Br colpiscono carabinieri, poliziotti, giudici. I terroristi rifiutano l’idea che li si possa processare con le regole e gli strumenti del diritto. Tentano la carta del sabotaggio nel pro­ cesso di Torino uccidendo Fulvio Croce che avrebbe dovuto nominare i difensori d’ufficio contro Renato Curcio e il nucleo storico dell’organizzazione. Il paese è scosso dalle minacce e dal clima di terrore che accompagna la costituzione del tribu­ nale: le Br non possono accettare che una forma di giustizia riconosciuta e riconoscibile. La rivoluzione non ammette poteri che contrastino con efficacia quando il momento fatidico si

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avvicina. E dopo il magistrato tocca a un giornalista simbolo, il vicedirettore della «Stampa» di Torino, Carlo Casalegno, colpito il 16 novembre 1977: morirà qualche giorno dopo8. Giornali e giornalisti, tribunali e magistrati sono bersagli del terrore, strumenti dello Stato da colpire, intimorire, ridurre all’obbedienza e al silenzio. Un disegno che manifesta la volontà delle Br contro categorie e gruppi, bersagli a rischio di azioni simboliche o punitive come era capitato a poliziotti e carabinieri sin dagli inizi dell’offensiva del partito armato. Non si arresta la crescita della violenza terrorista: gli attentati del 1977 sono il doppio circa di quelli dell’anno precedente; il termine «gambizzato» per un ferito agli arti inferiori entra in uso nell’italiano corrente, mentre l’uscita nelle sale cinemato­ grafiche di Guerre stellari (scritto e diretto da George Lucas) e il successo che l’accompagna fa sì che l’aggettivo «spaziale» diventi il più utilizzato del 1978. In quel momento il 97% delle famiglie possiede un televisore, la Rai trasmette a colori dal 1977, il 94% ha un frigorifero, il 75% una lavatrice, il 65% un’automobile. Un italiano ogni ventiquattro compra un quotidiano, mentre un periodico finisce nelle mani di uno su trenta. E in questo tumultuoso divenire della società italiana la scia di sangue non s’interrompe: dirigenti di azienda, giovani militanti collocati su fronti opposti, giornalisti, capiservizi della Fiat, poliziotti, un notaio, magistrati, guardie giurate, un maresciallo di pubblica sicurezza. Questi i caduti tra il novembre del 1977 e il marzo 1978, alla vigilia dell’inizio della tragedia Moro. Vittime di una stagione di violenza, spesso dimenticate o rimosse dal racconto prevalente di quegli anni: nomi, volti, storie strappate dai tessuti familiari sotto i colpi della violenza politica. La loro memoria e ricostruzione è un risultato recente, figlio di un tempo nuovo, del contributo delle generazioni successive e della voglia di non smarrire tasselli perduti della nostra collettività. Torniamo ai giorni immediatamente precedenti l’agguato di via Fani, quando inizia a Torino il processo contro 48 brigatisti. Un clima di intimidazione e violenze nei confronti della giuria popolare che aveva avuto il suo momento più drammatico nell’uccisione (28 aprile 1977) del presidente dell’ordine degli avvocati Fulvio Croce a cinque giorni dalla data fissata per l’udienza (aveva 53 anni). Intimidazioni continue e reiterate;

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il nucleo storico delle Brigate Rosse viene processato e di conseguenza revoca il mandato affidato ai propri difensori minacciando di morte chi si fosse prestato a tale ruolo nel procedimento giudiziario. A pochi giorni dall’agguato all’au­ to di Moro sulle pagine dell’«Espresso» si dà conto di un documento del gruppo armato che si misura con l’imminente istanza processuale: Brigate Rosse si farà il processo? Il giudice popolare si chiama Torino ma le BR promettono un «processo guerriglia». Il contenuto fa rabbrividire, ma gli argomenti aiutano a ricostruire un clima lontano e terribile: Tra otto giorni, il 9 marzo si apre il processo alle Br. Dopo due rinvìi, dopo due omicidi (del giudice Francesco Coco e dell’avvocato Fulvio Croce) e dopo il fuggi fuggi di giudici popolari e difensori d’ufficio, questo processo è diventato una specie di prova del fuoco per le istituzioni e un saggio generale di coraggio civico.

Le Brigate Rosse vogliono usare i processi penali come azioni di guerriglia, e di sabotaggio per intimidire chi può scegliere di stare dall’altra parte. Seminano terrore e violen­ za sperando di poter organizzare un’area di simpatizzanti o fiancheggiatori. A seguire un passo della posizione brigatista: «Questo è un processo di regime che ha l’obiettivo pretenzioso di processare e condannare la rivoluzione comunista. Ma il processo alla rivoluzione proletaria non è possibile. Ancora una volta la nostra strategia sarà quella del processo guerriglia»9. Questo il clima, il linguaggio, le tensioni a pochi giorni dalla strage che segna il salto di qualità nell’attacco terrorista alle istituzioni della Repubblica. 2. Il giorno più lungo Sono le 9 e due minuti di giovedì 16 marzo 1978 quando un commando di terroristi appostato tra via Fani e via Stresa nel quartiere Monte Mario di Roma apre il fuoco contro la scorta del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro. E una strage. Muoiono sul posto Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera; Francesco Zizzi ferito grave­ mente li seguirà poche ore dopo. Le Brigate Rosse colpiscono al cuore dello Stato, il paese è scosso dalla notizia che invade i mezzi di comunicazione nello spazio breve di una mattinata.

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Aldo Moro viene caricato su una Fiat 132 di colore blu che lo condurrà lontano dal luogo dell’agguato. Da quel momento diventa un ostaggio in mano ai suoi rapitori, un uomo in balia delle strategie di un gruppo terroristico convinto di poter rove­ sciare l’ordine costituito attraverso il ricatto e la violenza. Ha inizio una vicenda che forse non si è mai conclusa del tutto. Ricerche, interrogativi, comportamenti pubblici e risvolti privati si sono susseguiti nella notte della Repubblica che si conclude con l’uccisione dell’ostaggio. Le lunghe ombre di quella sta­ gione ormai lontana si spingono fino ai nostri giorni. Storici, giornalisti, giudici, protagonisti e comprimari hanno cercato di squarciare il velo delle ipotesi cercando verità e conferme. Molto si sa grazie al lavoro di tanti, giudizi e interpretazioni si sono fatti strada, spesso a fatica, contro l’inerzia del tempo che passa inesorabile. Rimangono grandi interrogativi, versioni che non collimano, compromissioni di livelli oscuri, contiguità con settori dello Stato e uomini dei servizi che non hanno trovato nello sforzo per raggiungere la verità le adeguate ri­ sposte10. Ma quella giornata ha segnato un tempo, scandito in un prima e in un poi. Chi c’era si ricorda il momento in cui è stato raggiunto dalla forza dirompente della notizia: «Hanno rapito M oro!». Chi è venuto dopo ha cercato di riprendere il filo della narrazione: guardarsi indietro per tentare di compren­ dere un evento così traumatico per una comunità nazionale. Il caso Moro racchiude dinamiche certe e punti interro­ gativi, situazioni verificate con ipotesi appena tratteggiate. La verità delle aule giudiziarie si affianca e si sovrappone a un giudizio storico che da quella mattina si muove fino a coin­ volgere cesure e continuità della storia della Repubblica. Lo shock del momento non si è perso con la crescita della distan­ za dagli eventi, come in un terribile gioco dell’oca si torna facilmente al punto di partenza a quella rottura così trauma­ tica che tiene un intero paese con il fiato sospeso suscitando al tempo stesso paura e partecipazione. Il timore che la vio­ lenza possa avere il sopravvento viene associato alla ricerca di una partecipazione individuale o collettiva alla tragedia che si consuma in meno di due mesi. L’Italia si ferma, inchiodata alle strettoie di un tempo così difficile e si prepara nel suo insieme a vivere un’esperienza dagli esiti imprevedibili. In poche settimane si modificano assetti e consuetudini che sem­ bravano intoccabili.

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I numeri ci aiutano a definire i confini di una partecipa­ zione diffusa e radicata. Numeri sostenuti e alimentati dalle straordinarie potenzialità del sistema della comunicazione. La definizione di giorno più lungo, per il 16 marzo 1978, si riferisce all’impatto deH’informazione e alla sua capacità di entrare direttamente nelle case e nelle vite di tanti italiani per un arco di tempo prolungato e stabile. Ma la durata di quella cesura si dilata fino a coprire una lunga fase della storia della Repubblica. L’impatto assomiglia a un vero e proprio shock collettivo, anche i mezzi di comunicazione entrano a far parte della scena della tragedia, diventano una componente essenziale del percorso dei 55 giorni. Si delinea da subito una dicoto­ mia tra i fatti che accadono e i messaggi che trasmettono gli eventi alla popolazione: un paese con il fiato sospeso cerca notizie, in bianco e nero o a colori, aggiornamenti e possibili rassicurazioni. Le immagini dalla televisione si stampano nelle memorie di chi le guarda; per quella generazione l’effetto è paragonabile ai mondiali di calcio del 1978 o a quelli spagnoli di quattro anni dopo; se ci avviciniamo al nostro presente l’attentato alle torri gemelle di Manhattan provoca emozioni simili: ci si ricorda dove ci ha raggiunto la notizia e il tempo trascorso nella ricerca continua di aggiornamenti, immagini e reportage da New York. Ma torniamo al 16 marzo 1978 e all’impatto di quella terri­ bile giornata. Alle 12 e 30 del 16 marzo sono sintonizzati sugli speciali del T gl 5 milioni e mezzo d’italiani che diventano più del doppio (11 milioni e 300 mila) per il telegiornale dell’una. Lo stesso notiziario il giorno prima aveva avuto circa 3 milioni e 300 mila spettatori sintonizzati. Un balzo che riflette il livello di tensione che attraversa il paese. I telegiornali della sera nel momento del discorso alla nazione del capo del governo sfiorano i 28 milioni di telespettatori (quasi 10 milioni in più di una giornata normale di allora). Se ai dati della prima rete Rai sommiamo gli spettatori di Rai 2, si tocca la cifra dei 30 milioni di italiani che seguono le news della sera sulla vicenda Moro. La notizia monopolizza radio, televisione e carta stam­ pata; quasi 45 milioni di persone (solo dal mezzo televisivo) cercano di capire cosa sia successo e cosa li attende. Ma da quel momento l’attenzione non si spegne, non si consuma nello spazio di qualche giorno o di alcuni telegiornali. La curva dell’attenzione rimane accesa, quasi costante. Le punte

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più alte si registrano durante le false notizie che accompa­ gnano le indagini (luoghi segnalati, ritrovamenti presunti) o nelle reazioni alle lettere che il prigioniero spedisce a settori e uomini della classe dirigente. A seguire l’epilogo drammatico di maggio 1978, le immagini del ritrovamento del corpo dello statista, del dolore e della sconfitta nelle varie edizioni dei Tg, oltre 15 ore con le dirette da via Caetani: quasi 10 milioni di spettatori nel pomeriggio e il picco più alto di oltre 33 milioni per i notiziari della sera. Per 55 giorni si snodano i confronti tra fermezza e tratta­ tiva, tra chi difende una posizione intransigente da parte dello Stato e chi invece vorrebbe verificare spazi e compatibilità di un’interlocuzione con i terroristi11. E nella difesa di una comu­ nità minacciata un ruolo di primo piano viene assegnato ai più piccoli, a chi riceve le notizie senza mediazioni, a chi può essere facilmente spaventato o terrorizzato dalla minaccia terrorista. E a questo livello emerge la funzione del sistema scolastico come straordinario canale di trasmissione di idee, messaggi, informazioni. Messaggi dei giovani studenti delle scuole italiane che giungono a casa Moro da ogni angolo della penisola: temi in classe, disegni, pensieri e riflessioni spesso accompagnati da una lettera di maestre che presentano finalità e obiettivi del lavoro dei propri alunni. I canali di diffusione rimangono in prevalenza la televisione e le conversazioni in famiglia (oggi sarebbe molto diverso visto che l’accesso alle notizie anche quelle di altro genere passa per altre tipologie di media)12. E la normalità che viene meno, la rottura di quel giorno irrompe nelle vite di tutti cambiando abitudini e consuetudini. La violenza entra in confini che erano rimasti protetti. Persino i bambini attraverso i propri temi o disegni avvertono che il momento è delicato e difficile. Non è certo poca cosa. E quanta distanza dalle stridenti proposizioni di chi pensa che si possa organizzare un consenso più o meno diffuso sull’ipotesi di un salto di qualità nella lotta armata, sul coinvolgimento possi­ bile di aspiranti rivoluzionari. Un delirio di argomentazioni e analisi che si trascina per anni e decenni e che viene smentito clamorosamente tanto dalle reazioni spontanee quanto dalle forme organizzate di risposta all’attacco al cuore dello Stato. Dopo la strage e il sequestro ha inizio una lunga rincorsa alle notizie, agli spiragli di possibilità e ottimismo. Difficile immaginare quale potrà essere l’ultima scena del dramma e

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per alcuni giorni l’orizzonte rimane segnato dalle ipotesi di una conclusione non traumatica della vicenda, attraverso il possibile ritorno a casa dell’ostaggio. Si alternano speranze, tracce di presenza, lettere e segni che Moro manda dalla sua condizione di recluso con le notizie di una difficile e contrad­ dittoria ricerca. Mobilitazione generale di un paese alle prese con una prova inedita che viene scosso dalle comunicazioni che dal carcere del popolo (questo il linguaggio sinistro delle Brigate Rosse) giungono ai diversi destinatari, a quegli uomini della classe dirigente scelti da Moro come interlocutori, con­ fidenti, ricettori di messaggi e comunicazioni rilevanti. Non è questa la sede per riprendere e analizzare le lettere di Moro dalla prigionia né le pagine straordinarie e inquietanti del suo memoriale costituito in larga parte dal dialogo con i propri carcerieri e segnato da peripezie e misteri insoluti (nascondigli e ritrovamenti a distanza di anni). Anche questo aspetto ha avuto le giuste attenzioni di storici, studiosi, magistrati, giornalisti attenti che hanno ricostruito il contesto, la forma e i contenuti della scrittura di Moro nelle settimane durante le quali è stato in mano alle Brigate Rosse. Non mancano interrogativi e ipotesi non verificate, ma la conoscenza di quelle carte permette oggi giudizi e analisi profonde (antidoto efficace contro ideologie o dietrologie di comodo) anche sui risvolti del suo sguardo lucido sull’Italia di allora e sulle premesse di lungo periodo della storia della Repubblica che finiscono sotto la sua lente d’ingrandimento13. Le prime ore sono quelle della riorganizzazione delle forze dello Stato per tentare una qualche risposta immediata. Il 16 mattina alle 11.30 viene insediato al Viminale il Comitato po­ litico tecnico operativo con il compito di coordinare l’azione per la ricerca e la liberazione di Moro. Il gruppo è presieduto dal ministro deH’Interno Francesco Cossiga; ne fanno parte due sottosegretari (Interni e Difesa), i vertici delle forze di polizia, dei servizi di sicurezza e delle forze armate. I primi passi vedono la distribuzione di fotografie relative a brigatisti latitanti o ricercati. Un lungo elenco consegnato alla stampa e ai mezzi di comunicazione: si apre così un dialogo di reciproca collaborazione. Tra loro troviamo cinque brigatisti coinvolti nell’azione della mattina, ma il lungo elenco non permette di restringere l’osservazione su biografie attendibili. Ore di frenetico attivismo delle forze dell’ordine: viene segnalata la

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seconda delle tre macchine utilizzate per l’agguato, una Fiat 128 bianca rinvenuta a pochi minuti da via Fani. La prima - una Fiat 132 - di colore blu era stata abbandonata dai brigatisti la mattina del 16 marzo in via Licinio Calvo. A seguire iniziano le perquisizioni di luoghi o presunti nascondigli con scarsi risultati. Sabato 17 marzo una telefonata anonima al «Messaggero» di Roma permette di recuperare il comunicato numero 1 delle Brigate Rosse con un’istantanea di Moro prigioniero. La foto dell’ostaggio con il volto segnato dalla sofferenza diventa il simbolo di una ricerca possibile, l’obiettivo di energie che si mobilitano. Nel tardo pomeriggio di quel sabato di marzo nella capitale entrano in funzione contemporaneamente 32 posti di blocco gestiti dall’esercito, dai carabinieri, dalla guardia di finanza e dalla polizia. Il territorio sottoposto a controlli e presenze visibili viene richiamato e descritto in molte lettere che arrivano a casa Moro in quelle settimane. La quotidia­ nità modificata dall’evento traumatico, il segno tangibile nei percorsi di ogni giorno che qualcosa stava avvenendo, che la ricerca era in corso. E di converso si allontana il ritorno alla normalità. Ogni giorno vengono mobilitati dai 30 ai 40 ufficiali, 80 sottoufficiali e tra i 620 e 640 militari dei carabinieri; 40 ufficiali, 80 sottoufficiali e oltre mille effettivi dell’esercito; un numero imprecisato di uomini della guardia di finanza e 157 agenti di polizia. Uno sforzo collettivo che al di là dei limiti di coordinamento e dei punti interrogativi che ne accompagnano segmenti importanti dell’operato (basti il richiamo alle mancate perquisizioni di potenziali nascondigli o alla composizione e alle scelte del Comitato politico tecnico organizzativo), non poteva passare inosservato. L’incontro con uomini in divisa che perquisiscono macchine e moto è il segno di un tempo nuovo, la ferita di un’emergenza che non ammette zone franche e coinvolge persino le emozioni individuali. Nella prima domenica dopo la strage il pontefice entra tra i protagonisti della dialettica tra le parti: ostaggio, carcerieri, classe dirigente e opinione pubblica. Durante la preghiera dell’Angelus il primo appello di Paolo VI: «Preghiamo per l’onorevole Aldo Moro, a noi caro, sequestrato in un vile ag­ guato, con un accorato appello affinché sia restituito ai suoi cari». La sera della domenica, mentre i Tg mandano in onda le parole accorate del papa viene ritrovata la terza auto, una Fiat 128 blu rubata utilizzata per la fuga delle Br da via Fani.

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È parcheggiata in via Licinio Calvo, zona limitrofa all’agguato. E le attenzioni tornano sul luogo del sequestro e sulle zone attigue. Il quartiere viene setacciato e semiparalizzato con disagi e preoccupazioni crescenti. Sono i segni di una dialettica che percorre i 55 giorni; una forma di confronto manifesto tra le ragioni della vita e la ferocia della violenza. In fondo quel salto di qualità nell’azione terroristica aveva rotto ogni argine, reso possibile ciò che fino ad allora era soltanto un’ipotesi remota o una minaccia senza riscontri plausibili. E a poco più di una settimana dall’eccidio su parte della stampa della sinistra extraparlamentare viene coniato e diffuso lo slogan «N é con lo Stato né con le Br» come scelta distintiva di chi non si riconosce nella contrap­ posizione tra la violenza armata dei brigatisti e la difesa delle istituzioni democratiche14. In pochi giorni la vicenda Moro e la condizione di ostaggio che comunica attraverso messaggi recapitati all’esterno diventa un punto di osservazione sulle dinamiche di un paese prigioniero di paure e conflittualità15. Il 29 marzo 1978 i brigatisti contattano telefonicamente il capo della segreteria politica di Moro, Nicola Rana. Sono sette fogli manoscritti dal prigioniero l’oggetto della telefonata: il primo è diretto allo stesso Rana, il secondo alla moglie Eleonora e dal terzo foglio inizia un lungo messaggio rivolto al ministro degli Interni. Gli appunti del prigioniero scuotono il palazzo, la Repubblica è in balia degli eventi, la sorte di Moro condi­ ziona e definisce appartenenze e scelte di campo: trattare con gli assassini per cercare una via d’uscita o rilanciare le ragioni dell’intransigenza dello Stato democratico. Un’alternativa che si rafforza nel corso di quelle settimane cruciali, un bivio che rischia di semplificare il quadro delle possibilità e dei significati sottesi alle prese di posizione in pubblico. La maggioranza della classe politica e di governo sostiene la fermezza a fronte delle ragioni di una possibile trattativa con le Br. Il 2 aprile durante il 41° Congresso nazionale il leader del Psi Bettino Craxi si dice favorevole alla linea del rifiuto dell’interlocuzione con i brigatisti, pur mostrandosi interessato all’apertura di uno spazio possibile per dialogare: «se dovesse affiorare un margine ragionevole di trattativa, questo non dovrebbe essere distrutto pregiudizialmente». Sono trascorse poco più di due settimane dall’agguato di via Fani. La dialettica politica tende a comporre schieramenti definiti. Il

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giorno dopo la chiusura del Congresso socialista il vertice dei partiti che sostengono la maggioranza licenzia un comunicato congiunto: «E stata riscontrata una concorde valutazione sulla situazione e sugli atteggiamenti da adottare»; la linea della fermezza trova una sua chiara conferma16. Il giorno successi­ vo il presidente del Consiglio Giulio Andreotti si presenta in Parlamento per rispondere alle decine di interrogazioni sulle dinamiche del sequestro e sugli indirizzi dell’azione dell’e­ secutivo. In simultanea con il dibattito parlamentare le Br diffondono il loro quarto comunicato e una lettera che Moro indirizza al segretario della De Benigno Zaccagnini. Le parole di Andreotti - unite all’accorato appello di Moro ai vertici del suo partito - aumentano sconforto e preoccupazione: «Il governo manca di sicuri elementi conoscitivi sui responsabili e sul tenebroso luogo dove è tenuto sequestrato l’onorevole M oro»17. Una conferma di quella confusione diffusa: si naviga a vista immaginando a fatica le prospettive all’orizzonte. Non è un caso se il giorno dopo - mercoledì 5 aprile 1978 - Aldo Moro inizia a scrivere le prime frasi del proprio testamento politico, intuisce la gravità di una situazione che rischia di avvitarsi su sé stessa. I familiari incontrano Zaccagnini ma senza costrutto, la linea della fermezza rimane prioritaria. Il destino dell’ostaggio subordinato alle dinamiche di un quadro politico senza sbocchi o prospettive. Il segretario del Pei Enrico Berlinguer ribadisce la sua linea di fondo: esplorare le strade possibili per salvare Moro senza violare l’ordinamento dello Stato o riconoscere politicamente l’interlocuzione con l’orga­ nizzazione terroristica. Il segretario socialista sonda il terreno di una possibile trattativa, si propone di valutare l’ipotesi di un intermediario, un contatto diretto con i brigatisti. La De fa muro, si appella alle responsabilità istituzionali ribadendo la necessità di preservare e rafforzare il terreno di una risposta comune e condivisa. Moro alza il tiro delle polemiche reprimende; lo scudo­ crociato diventa un bersaglio di analisi e riflessioni che il prigioniero indirizza ai suoi compagni di partito e amici. A quasi un mese dalla strage, la direzione della De (il 13 apri­ le) approva unanime la linea della fermezza sottolineando la necessità di non lasciare inesplorata nessuna strada che possa restituire Moro «alla famiglia, al paese, al partito»18. Solo due giorni dopo giunge la doccia fredda del comunicato numero

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6 delle Brigate Rosse che segnala la fine dell’interrogatorio e la successiva sentenza di condanna a morte. I toni diventano più minacciosi: non si escludono gli scenari peggiori, tutto può succedere e il tempo stringe, non è consentito tergiver­ sare. Poche ore per un nuovo vertice della De - domenica 16 aprile - che conferma la linea della fermezza, ma apre la strada a una possibilità remota e difficile: quella di salvare l’ostaggio privilegiando un’azione umanitaria, senza considerare quindi 10 spessore politico dell’uomo nelle mani dei terroristi. Una distinzione sottile e ambigua che chiama in causa possibili protagonisti di un tal gesto, in una possibile e delicata svolta della vicenda: organizzazioni umanitarie, Santa Sede, personalità internazionali di alto profilo. Il fronte delle indagini procede senza particolari risultati: si alternano voci e conferme su comunicati delle Br di dub­ bia provenienza mentre si snodano perquisizioni in luoghi improbabili e laghi ghiacciati e mancate perquisizioni di appartamenti rivelatisi a distanza di tempo covi utilizzati dai brigatisti. Il fuoco dei terroristi non si interrompe neppure nel punto più alto della conflittualità con lo Stato: l’i l aprile viene ucciso a Torino l’agente di custodia Lorenzo Cutugno, 11 19 dello stesso mese viene colpita a Roma nella caserma dei carabinieri di Ponte Salario l’auto del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa responsabile dei servizi di vigilanza delle carceri, il giorno successivo il maresciallo Francesco Di Cataldo, vice­ comandante degli agenti di custodia del carcere milanese di San Vittore, cade sotto i colpi della colonna brigatista «Walter Alasia». Tensioni e conflittualità che accompagnano le giornate del sequestro in un continuo spostamento di attenzione tra le vicende di Moro e della sua difficile ricerca e il quadro più ampio dell’offensiva del partito armato. Durante gli attentati a Roma, Torino e Milano della seconda metà di aprile in tanti si domandano se Moro sia ancora in vita, se quella sentenza di condanna abbia effettivamente posto la parola fine alle apprensioni di coloro che sperano in un finale diverso. Il 20 aprile poco dopo mezzogiorno un segno tangibile della condizione dell’ostaggio. Dopo la consueta telefonata anonima in un cestino dei rifiuti viene rinvenuto il comunicato numero 7 delle Br accompagnato da una foto ritratto di Moro con una copia del quotidiano «la Repubblica» del 19 aprile 1978. L’ostaggio è vivo, la foto è il segno che rimette in gioco

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possibilità e scenari. Farlo vedere in quella condizione significa voler aprire uno spazio, verificare le intenzioni della contro­ parte. I brigatisti chiedono di procedere alla scarcerazione di «prigionieri comunisti» in un arco di tempo definito «48 ore alla De e al suo governo» prima di procedere sulla via della condanna a morte del prigioniero. La foto di Moro fa il giro del mondo e rompe quella attesa incerta e sospesa. Moro è vivo e da qui si può ripartire. Sono ore frenetiche. Il prigioniero scrive a Zaccagnini e al papa. Sullo sfondo prende corpo lo schieramento della trattativa mentre si analizzano le nuove lettere di Moro. La De appare frastornata e in balia degli eventi: le lettere di Moro sono un terremoto, lo spiraglio per trattare difficile e pericoloso, le divisioni interne sembrano avere la meglio sulla possibilità di aprire una riflessione di merito. L’impressione è che si vada verso un vicolo cieco: lo scambio viene bocciato da tutti i possibili interlocutori (anche la direzione socialista del 21 aprile prende le distanze), da più parti giungono appelli per esplorare altre strade ma il tempo rimane sospeso tra la realtà della condizione di Moro e le pos­ sibilità che qualcosa possa modificarne la situazione. Le scarse possibilità di una svolta umanitaria (per dirla con i toni e il linguaggio di allora) sono nelle mani del pontefice e della sua iniziativa che sceglie la famiglia come principale interlocuzione e si rivolge direttamente ai terroristi, in una qualche misura li riconosce come destinatari di messaggi e appelli accorati. Il giorno della scadenza dell’ultimatum brigatista (sabato 22 aprile), «L’Osservatore Romano» pubblica l’appello di Paolo VI alle Br, anche il linguaggio segna il passaggio a una fase nuova della dialettica tra le parti. La prima frase rompe l’in­ dugio dell’ufficialità ingessata: Io scrivo a voi, uomini delle Brigate Rosse: restituite alla libertà, alla sua famiglia, alla vita civile l’onorevole Moro. Io non vi conosco e non ho modo di avere alcun contatto con voi. Per questo vi scrivo pubblicamente e profittando del margine di tempo che rimane alla scadenza della minaccia di morte che voi avete annunciato contro di lui. [...] Ed è in questo nome supremo di Cristo, che io mi rivolgo a voi, che certamente non lo ignorate, a voi, ignoti e implacabili avversari di questo uomo degno e innocente; e vi prego in ginocchio, liberate l’onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni, non tanto per motivo della mia umile e affettuosa intercessione, ma in virtù della sua dignità di comune fratello in umanità [...]” .

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Paolo VI nella preghiera della domenica successiva da piazza San Pietro pronuncia le parole che meglio restituisco­ no il clima di paura che attanaglia il paese: «D i Aldo Moro nessun’altra notizia. Abbiamo trepidato, ieri, alla scadenza dell’ora fissata dagli uomini autocostituitisi giudici unilaterali e carnefici, e trepidiamo ancora, sempre aspettando e pregando che sia risparmiata la consumazione del criminale annunciato misfatto». E a partire da questo momento la dimensione della vicenda diventa pienamente internazionale. Il presidente di turno del Consiglio di sicurezza dell’Onu, David Young, dai microfoni del G rl (il 24 aprile) si rivolge ai carcerieri chie­ dendo loro di «consentire di riavere Aldo Moro vivo, come una visibile prova di considerazione per il genere umano» e il giorno successivo è la volta del segretario generale delle Nazioni Unite Kurt Waldheim collegato in diretta da New York via satellite sulle reti Rai. Moro scrive ancora a Zaccagnini e si alzano - soprattutto dall’interno della De - voci che mettono in discussione l’autenticità delle lettere, parlando di Moro «come di un condannato a morte che pare scrivere sotto dettatura»20. E una questione nota, ampliamente dibattuta e controversa che riguarda lo stato del prigioniero e la sua libertà di scrivere, pensare, comunicare21. Le Br continuano a uccidere e gambizzare; la spirale di sangue non s’interrompe mentre la famiglia Moro cerca spiragli o appigli per continuare a sperare. La voce di Moro non si spegne. Ancora una lettera che «Il Messaggero» pubblica il 29 aprile, rivolta alla De e alle responsabilità del partito nella difficile gestione della vicenda. E nella stessa giornata si rivol­ ge a diversi destinatari: vertici delle istituzioni, esponenti di punta della De e di altre forze politiche. Alla fine di aprile il contatto con le Br diventa una minaccia incombente. Il capo del commando brigatista Mario Moretti chiama a casa Moro per segnalare che il tempo è scaduto e che «il problema è politico, e a questo punto deve intervenire la De. Abbiamo insistito moltissimo su questo, è l’unica maniera in cui si può arrivare a una trattativa. Noi abbiamo già preso una decisione, nelle prossime ore accadrà l’inevitabile. Non possiamo fare altrimenti»22. Linguaggio minaccioso, terminologia intrisa di un politichese figlio del tempo. La De riunisce il vertice come da richiesta del prigioniero in una sua lettera; una delegazione del Partito socialista prende in considerazione l’ipotesi di una

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grazia per scarcerare detenuti che potrebbe rilanciare una dimensione umanitaria del confronto. Nulla di fatto, troppo stretto lo spazio per trattare, ambigue le ricadute di una so­ luzione concordata. Giovedì 4 maggio dalle Br giunge notizia dell’imminente uccisione dell’ostaggio: l’interrogatorio sarebbe quindi con­ cluso secondo le terribili parole del comunicato n. 9 diffuso dai brigatisti a Roma, Milano, Genova e Torino. Il cerchio si stringe, il ministro della Giustizia Bonifacio sonda la possibilità di procedere sulla strada dello scambio «uno contro uno», verificandone la praticabilità giuridica (incerta) e l’effettiva volontà delle Br (inesistente). La cosiddetta soluzione uma­ nitaria non ha spazi né volontà esplicite o basi concrete che possano davvero sostenerla e promuoverla. Troppo tardi. Alle 13 e 50 il cadavere di Aldo Moro viene segnalato e fatto trovare nel centro di Roma, in via Caetani, tra piazza del Gesù e via delle Botteghe Oscure nel bagagliaio di una Renault 4 rossa. 155 giorni si chiudono nel modo peggiore, la tragedia diventa realtà, il dibattito sulle trattative possibili, sui messaggi recapitati, sulle posizioni dei protagonisti lascia il posto al dolore e al silenzio. L’azione dello Stato non ha sortito effetto. Le cifre di un’imponente mobilitazione che emergono dal lavoro di analisi delle commissioni parlamentari d’inchie­ sta appaiono inutili e dolorose: 72.460 posti di blocco (6.296 nei dintorni della capitale), 37.702 perquisizioni domiciliari (6.933 a Roma), 6.413.713 persone individuate e controllate (167.409 a Roma), 3.383.123 ispezioni di autoveicoli (95.572 nelle strade della capitale). 3. Inombra di Moro L’epilogo tragico riassume la narrazione dell’itinerario di un paese che dal 9 maggio si sveglia incredulo e smarrito; sente che parte del proprio bagaglio di valori e obiettivi condivisi può essere messo in discussione, piegato e sconfitto dai ricatti della violenza. Nelle settimane difficili della primavera 1978 da più parti si fa appello alla mobilitazione diffusa in chiave antiterrorismo: le piazze piene con bandiere di colori diversi, la scelta di non chiudersi in ripari solitari, la condivisione di un percorso comune difficile ma praticabile alla fine del quale

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si potrà - insieme - festeggiare la sconfitta delle violenze. La politica di tutti contro la violenza di pochi, la difesa del solco di un tracciato collettivo come principale antidoto alla cultura della rivoluzione, dello strappo necessario e rigenerante. E come avviene talvolta nei momenti più difficili, nelle cesure di una storia che coinvolge tutte e tutti, la risposta si manifesta nei modi più diversi: spontanea o organizzata, dall’alto o dal basso. Come un unico disegno di segmenti e appartenenze che si sfiorano fino a potersi toccare rilanciando le ragioni e i destini di una comunità nazionale. Forse proprio questa ricchezza, la complessa e vivace reazione di quei giorni, si è smarrita con il tempo e con i duri responsi della realtà. Ritrovare le ragioni comuni, tracciare una rotta che chiarisca direzioni di marcia e possibilità, limiti presenti e opportunità da costruire rimane una condizione per irrobustire il tessuto di una democrazia partecipativa. Un paese perduto in un passato lontano, che nel corso del tempo ha modificato alcuni elementi di base: l’inclu­ sione in strutture collettive, la stratificazione di appartenenze e condivisioni, la forza coinvolgente di una narrazione comune, di un sentirsi parte di qualcosa che è in grado di travalicare confini e perimetri stabiliti23. Molti studiosi hanno sostenuto e scritto che da quel momento tutto diventa più difficile, un tornante cruciale: un’eredità incerta di una stagione ben più lontana di quanto non ci dicano gli anni che ci separano dalla conclusione del decennio e dall’impatto di quella Renault rossa parcheggiata nel centro di Roma. Dal giorno del ritrovamento del corpo di Moro l’attenzione si sposta sul tessuto che unisce una comunità, sui rischi delle lacerazioni e sulle possibilità di mantenerlo in vita nonostante tutto, magari cercando di proteggerlo o rafforzarlo. È come se si vedesse in chiaroscuro un conflitto profondo che muove i primi passi, si manifesta senza dare ancora lo scossone che maturerà negli anni e nei decenni successivi. A ben guardare si apre l’inizio di quella clamorosa divaricazione tra il paese e il palazzo, tra le forme codificate della politica e le dinamiche di una partecipazione che prende nuove strade, spesso in conflitto più o meno con­ sapevole con le forme costituite. Per molti storici, analisti e osservatori del percorso della Repubblica si tratta di un crinale decisivo, un punto di non ritorno: la discontinuità con il pas­ sato si conferma e si consolida nel tempo; quella cesura che si manifesta prenderà nuove strade: incomunicabilità, crisi dei

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soggetti della partecipazione (i partiti), prevalere di logiche e comportamenti individualistici (in senso deteriore), le premesse di quella che superficialmente si chiama antipolitica, il peso delle fratture generazionali che metteranno in discussione le forme del welfare all’italiana24. Si tratta dell’inizio della fine di un mondo, di un equilibrio politico e istituzionale, di un rapporto tra cittadini e istituzioni, di una rappresentatività inclusiva delle forme che la politica e la democrazia post-bellica avevano assunto. Paradossale ma non troppo il fatto che la voce più lucida e autorevole, chi meglio di altri ha messo a fuoco l’esaurimento di un’intera fase, di una parabola di crescita, sviluppo, diffusione di benessere e ricchezza sia proprio Aldo Moro in diverse occasioni e con lungimiranza e puntualità in vari passaggi delle sue dense pagine durante la prigionia. Moro vede i limiti, le incongruenze, le difficoltà strutturali di un cammino che è diventato difficile, affannoso, spesso irto di ostacoli insormontabili. La sua voce di denuncia chiama in causa molti, nel contesto della tragedia che lo colpisce diventa un richiamo inascoltato a responsabilità individuali e collettive, il suo sguardo attento scruta l’oriz­ zonte lasciando come eredità ipotesi incerte e complicate. Un cammino difficile per una comunità nazionale minacciata da due versanti: piegata e in difficoltà sotto i colpi di un feroce attacco terroristico senza precedenti, nelle dinamiche di una crisi (o almeno i primi sintomi di difficoltà) dei suoi punti di riferimento, dei cardini che ne avevano garantito la tenuta e la credibilità. Il crinale tra la fine degli anni Settanta e il decennio successivo è un passaggio risolutivo, una svolta irreversibile. Con questa chiave interpretativa studiosi di diverse ispirazioni hanno letto la cerimonia funebre dedicata ad Aldo Moro in San Giovanni in Laterano quasi come fosse un «funerale della Repubblica», fuori dai confini nazionali, in territorio vatica­ no. Un estremo saluto quello del 13 maggio 1978 che chiude un’epoca, una fase intera del lungo dopoguerra italiano. Tra gli altri ne ha scritto Piero Craveri più di vent’anni fa: nella basilica sono «disordinatamente stipati pressoché tutti i notabili della Repubblica»; la figura centrale del pontefice faceva da singolare contrasto con fimmagine anonima del pubblico illustre che occupava la navata della Chiesa. Poteva ben dirsi che lì,

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in un momento così drammatico e significativo, la Repubblica era scomparsa, senza più immagine e parola, e il suo posto era interamente occupato dal rito solenne della Chiesa di Roma25.

Un funerale senza feretro, con la famiglia che si ritrae a protezione dei propri spazi di dolore privato; basti il richiamo alla scena finale del film Buongiorno notte di Marco Belloc­ chio - girato nel 2003 a venticinque anni da quegli avveni­ menti - con lo stridente contrasto nelle espressioni dei volti di protagonisti inquadrati durante l’omelia di Paolo VP6. Le parole del vecchio pontefice in tono colloquiale sono un invito a chi osserva sgomento la conclusione della vicenda: «Fa che noi tutti raccogliamo nel puro sudario della sua nobile memoria l’eredità superstite della sua retta coscienza, [...] della sua dedizione alla redenzione civile e spirituale della diletta Nazione»27. In quei giorni in tanti scrissero che la Repubblica non sarebbe rimasta la stessa. Giuseppe Saragat usò parole inequivocabili: «Accanto al cadavere di Moro c’è anche quello della prima Repubblica». Eugenio Scalfari in un dialogo dai toni preoccu­ pati, figlio della cesura di quelle giornate e dei timori che la situazione potesse precipitare: «Quello che Saragat teme può diventare realtà solo se tutti insieme non affronteremo l’opera di rifondare la prima Repubblica. Al di fuori di questo obiet­ tivo non c’è che l’avventura della guerra civile». La penna di Luigi Pintor dalle colonne del «manifesto» va dritta al cuore del problema spalancato dall’epilogo delVaffaire Moro: «Ora questa società e questo Stato non possono più restare come erano e sono, neanche se lo volessero: se non cambieranno in meglio periranno»28. E a questo punto le strade si dividono tra chi pensa che molto possa e debba cambiare e chi invece tutto sommato privilegia la chiave della continuità come se si potesse assorbire il colpo e proseguire secondo l’analisi di Paul Ginsborg «grosso modo nella stessa maniera di prima»29. Ma l’illusione di uscirne in modo surrettizio o gattopardesco (cambiare tutto a parole perché nulla cambi) fa presto i conti con il peso di un’assenza e con le difficili strettoie di un sistema politico incapace di rinnovarsi nel profondo. «Il funerale di Moro - scrive Andrea Riccardi - anche nella sua drammatica solennità mette in luce come quell’assassinio rappresentò forse il momento più tragico della storia repubblicana»30, lo spartiacque del disfacimento inarrestabile dell’Italia cattolica.

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Il leader De viene sepolto nel piccolo cimitero di Torrita Tiberina, pochi chilometri a nord della capitale. Una piccola cerimonia, in forma privata lontano dalle attenzioni dei media e dagli sguardi di protagonisti imbarazzati. Uniche eccezioni ammesse il presidente del Senato Amintore Fanfani e il sot­ tosegretario alla Marina mercantile Vito Rosa. Nessuna ma­ nifestazione pubblica o cerimonia, nessun discorso ufficiale, niente lutto nazionale o funerali di Stato. La famiglia si chiude nel silenzio e chiede silenzio dopo che un fiume di parole non era riuscito a salvare la vita dell’ostaggio. Due cerimonie così distanti: l’ufficialità incerta della basilica di San Giovanni in Laterano e il piccolo cimitero del comune dell’alto Lazio, in Sabina (meno di mille abitanti allora, con il municipio che oggi è sito in Largo 16 marzo 1978). Un saluto che non chiude le spinte alla partecipazione e le attenzioni di tanti italiani. Il testo della targa che il comune di Roma appone nel primo anniversario della morte a via Caetani sul muro che fiancheggia il luogo dove venne posteggiata la Renault rossa è attraversato dalla stessa tensione: contributo alla democrazia, lucida intelligenza, rettitudine morale e squisita sensibilità umana. Lo scrive un raffinato storico del cristianesimo e dell’età medievale, senatore indipendente eletto nelle liste del Pei, Paolo Brezzi, su invito del sindaco di Roma Argan, suo compagno di studi negli anni torinesi. La dignità della persona risalta come cifra che distingue Aldo Moro nell’itinerario dell’Italia post-fascista. Una biografia che attraversa la parabola della Repubblica a partire dai primi passi e dalla scelta irreversi­ bile di operare a favore di un allargamento delle basi della democrazia italiana: accentuare il carattere inclusivo, favorire l’ingresso nel processo decisionale di tanti che erano rimasti ai margini, esclusi o dimenticati. Giovane deputato democristia­ no all’Assemblea costituente, fa parte della sottocommissione per i diritti dell’uomo e dei cittadini, incaricata tra l’altro di redigere il testo dell’articolo 2 della Carta costituzionale con il quale la «Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali»31. Il suo terribile omicidio è un colpo violento alla capacità del siste­ ma di mantenere inviolato il confine del rispetto e della tutela della vita: l’attacco al cuore dello Stato mette in discussione l’intera tenuta di un equilibrio politico e istituzionale. Il tempo e la distanza dagli eventi hanno chiarito la portata di quella

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discontinuità, il peso di un passaggio così destabilizzante. Per la verità alcuni avevano colto già allora i segni di un tornante storico senza precedenti, capace di definire un prima e un poi nel cammino dell’Italia repubblicana. Sono sorprendenti fino ad apparire senza tempo, o sospese in un tempo senza limiti le parole con le quali uno storico del calibro di George Mosse affronta l’impostazione di Moro e il suo lascito nel cammino della democrazia italiana: La carriera politica di Aldo Moro assume un significato di inte­ resse generale poiché è strettamente collegata a quella crisi del sistema di governo parlamentare che si è manifestata in tutta la sua gravità nel corso del X X secolo. [...] Credeva nell’idea dello Stato come un processo, come un qualcosa continuamente in fieri, un organismo sen­ sibile ai mutamenti e che, eccezion fatta per il principio del governo rappresentativo, non fosse un dato fissato in eterno32.

Un tema di fondo che abbraccia interpretazioni e giudizi, richiama quei pensieri lunghi di cui troppo spesso si avver­ te l’assenza. Si può quindi argomentare che «Aldo Moro è vissuto e ha operato nel corso di una crisi permanente della democrazia parlamentare italiana. Questa crisi che egli ha cercato di superare è ancora attuale»; Mosse riflette su Moro nel 1979, ma il contenuto potrebbe spingersi fino a coprire i decenni che abbiamo alle nostre spalle, fino a un tempo molto ravvicinato. «Il leader democristiano cercò di superare queste difficoltà coinvolgendo nel governo quanti più gruppi possibile, cercando nello stesso tempo (e ritengo si tratti di un punto essenziale) di apportare dei cambiamenti nella struttura del partito politico»33. Da qui la centralità di un pensiero capace di individuare diversi nervi scoperti del nostro itinerario comune. Il fine studioso della società di massa s’immerge pochi mesi dopo la tragedia nella trama della partecipazione spontanea a quella che chiama nella sua lunga e controversa intervista «una gigantesca rappresentazione drammatica avente come tema principale l’unità nazionale». In questo quadro tenuto insieme dal tentativo di superare la crisi radicando ancor di più fermamente la democrazia parlamentare italiana nel cuore delle masse, di collegare insieme miti e simboli. Aldo Moro divenne il simbolo della democrazia parlamentare italiana, il protagonista di un dramma in cui la gente poteva entrare

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a partecipare in un modo che non gli era mai stato concesso prima, durante tutta l’esperienza democratico parlamentare italiana34.

Una svolta, un tornante che indica una cesura senza pre­ cedenti. Un secolo dopo la nascita di Moro le ragioni per tornare su quelle pagine sono molteplici: lasciarsi da parte il monopolio e il ricatto esclusivo dei 55 giorni, liberarsi dalla morsa della falsa alternativa tra apologeti e denigratori inserendo finalmente la parabola politica e il pensiero di Moro in «una dimensione non solo nazionale, ma connessa, in chiave comparativa all’e­ voluzione politico-sociale europea e ai suoi problemi». Non è semplice, ma ne può valere la pena per chi voglia tentare di comprendere qualcosa in più non tanto su Aldo Moro quanto sull’Italia e sul mondo di oggi35. L’ombra di Moro si allunga sui decenni successivi fino a condizionarne parti costitutive. Gli effetti della tragica con­ clusione toccano i vertici delle istituzioni. Pochi giorni prima dell’esecuzione Aldo Moro aveva scritto al segretario del suo partito Benigno Zaccagnini una lettera dai toni drammatici e ultimativi: «Se voi non intervenite, sarebbe scritta una pagina agghiacciante nella storia d’Italia. Il mio sangue ricadrebbe su di voi, sul partito, sul paese. Pensateci bene cari amici. Siate indipendenti. Non guardate al domani, ma al dopo domani». Un tono quasi profetico in passaggi incalzanti: Altro che soluzione dei problemi. Se questo crimine fosse perpetra­ to, si aprirebbe una spirale terribile che voi non potreste fronteggiare. Ne sareste travolti. Si aprirebbe una spaccatura con le forze umanitarie che ancora esistono in questo paese, si aprirebbe, insanabile, malgrado le prime apparenze, una frattura nel partito che non potreste dominare36.

Uno sguardo lungo che si spinge fino all’orizzonte delle compatibilità di allora. Il leader della De mette in guardia i suoi interlocutori: se mi uccidono non può reggere più l’equilibrio che ha permesso e garantito lo sviluppo del dopoguerra, e la stessa difesa della De rischia di essere travolta da sentimenti e reazioni incontrollabili. Bastano poche ore per avere conferme delle ripercussioni di un lutto inimmaginabile che mette tut­ to in discussione. Il ministro dell’Interno Francesco Cossiga poche ore dopo il ritrovamento del corpo di Moro presenta

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le dimissioni. La D c è travolta, i telegiornali di mezzo mondo aprono sulla tragedia nazionale di un attacco terroristico che colpisce uno dei simboli della politica italiana. Gli effetti sono imprevedibili. Da Washington temono per la tenuta dell’ordine pubblico, per il venir meno di un punto di equilibrio capace di tessere relazioni e rapporti tra opposte fazioni politiche. Il giudizio statunitense su Moro e la sua proposta politica si modifica: dalle incomprensioni per i suoi silenzi o i lunghi discorsi sul possibile dialogo con le sinistre al rimpianto per una figura di cerniera garante della centralità della D c e della sua indissolubilità37. Dai conflitti con ciò che Moro rappresenta in termini di sviluppo possibile del sistema politico alle paure che la sua assenza possa produrre effetti indesiderati e incon­ trollabili. Un documento del Dipartimento di Stato fa ricorso a una metafora durante i giorni di prigionia: la politica italiana sembra un ponte che si proietta verso l’ignoto. Dopo la morte di Moro quello stesso ponte punta diretto verso l’abisso: il ti­ more che la trama di alleanze e interessi reciproci possa essere recisa nello spazio breve dei riflessi di un attacco terroristico. Non si esagera sostenendo che il delitto compiuto dalle Brigate Rosse chiude un’intera epoca mettendo la parola fine su una fase della politica italiana. Lo sviluppo del sistema si arresta alle porte dell’intesa tra D c e Pci costruita dallo stesso Moro e dal segretario comunista Berlinguer. Il giorno della strage di via Fani un governo di solidarietà nazionale (come perno l’intesa tra D c e Pci) avrebbe dovuto avviare un cammino complicato e incerto, segnato dalle contraddizioni di un sistema politico bloccato e indebolito. Quella pagina si chiude prima di co­ minciare lasciando come eredità rimpianti e recriminazioni di protagonisti o aspiranti tali. Chi ci aveva creduto pensando che si potesse allargare la base di partecipazione della democrazia italiana rimane colpito, senza proposte o possibilità; chi era contrario a un’innovazione ardita non immaginava i costi e le ripercussioni di quella terribile primavera del 1978. Di certo il delitto chiude un’epoca, un’intera stagione politica rafforzando la convinzione di trovarsi innanzi a un bivio nella storia della Repubblica. La risposta al ricatto del partito armato diventa la prima grande necessità, nonostante le divisioni, le apparte­ nenze, le identità contrapposte. E nella grande partecipazione popolare la conferma di un sentimento diffuso di vicinanza e condivisione dei pilastri della democrazia repubblicana: Moro

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diventa un simbolo, una tessera strappata di un mosaico condi­ viso e radicato. Sembra un terribile paradosso, eppure mentre il paese è ancora scosso dallo scontro tra fermezza e trattativa, dai rimpianti sull’esito di una vicenda così dolorosa, segnato dai timori seminati dalla violenza terroristica della Brigate Rosse, si fa strada una sensibilità diffusa, una profonda umanità popolare che taglia trasversalmente la società italiana. Quasi un rimorso condiviso, l’idea che non si sia fatto abbastanza per salvare una vita e sconfiggere le forze della violenza e del terrore. Nello spazio breve di alcune settimane cresce una sal­ datura tra paese legale e paese reale, tra il palazzo e i cittadini come raramente è avvenuto. Una risorsa diffusa e inaspettata che si disperde progressivamente pur contribuendo in maniera decisiva alla sconfitta della minaccia brigatista: coscienza civile e corresponsabilità di fronte allo Stato come condizioni di una rinascita possibile, di un cammino oltre l’emergenza per unire differenze, culture, linguaggi. Forse è proprio questa l’eredità più feconda di una tragedia nazionale per molti versi irrisolta. Di converso la politica travolta da emozioni e ripercussioni fatica a fare i conti con la nuova realtà. Il presidente del Senato Amintore Fanfani paragona l’epilogo della vicenda Moro all’o­ micidio di John Fitzgerald Kennedy di quindici anni prima38. Le democrazie sono esposte alle intemperie, condizionate da azioni violente di singoli o gruppi, minacciate da chi vuole seminare odio e terrore. Il quadro politico fatica a rimettersi in moto. I nuovi equi­ libri trovano nel segretario socialista un protagonista di primo piano, destinato a giocare un ruolo importante e innovativo negli anni a venire. Lo scudocrociato sotto la guida di Zaccagnini vive la sua stagione più complicata: ascesa di nuovi di­ rigenti che scalano posizioni (Flaminio Piccoli e Arnaldo Forlani su tutti), tentativi di rinnovamento da parte di forze esterne che si avvicinano, lacerazioni e separazioni che metto­ no in discussione la tenuta complessiva di un sistema. Pochi giorni dopo il ritrovamento del cadavere di Moro una tornata di elezioni amministrative lascia intravedere una sensibile avanzata della D c, il recupero del Partito socialista e una fles­ sione del Pci. Nel partito di maggioranza relativa la dialettica prende le caratteristiche di una dicotomia tra rinnovamento o declino, tra le forze che spingono verso il cambiamento e le tante resistenze che si oppongono difendendo privilegi o po­

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sizionamenti antichi39. Chi pensa che il terremoto sia passato e che tutto possa ricominciare come prima verrà presto smen­ tito da nuove fibrillazioni. Un nuovo colpo si abbatte sulle istituzioni il 15 giugno, poco più di un mese dall’epilogo della vicenda Moro. Il presidente della Repubblica Giovanni Leone viene accusato di irregolarità e illeciti che coinvolgereb­ bero anche suoi familiari. Lo scandalo della Lockheed si allar­ ga verso paesi e uomini politici accusati di aver ricevuto de­ naro e favori in cambio dell’acquisto di aerei militari prodot­ ti da un’azienda statunitense. Il presidente si dimette spiegan­ do a reti unificate le ragioni della sua scelta e la volontà di difendersi dalle accuse. Leone verrà prosciolto, altri verranno condannati per la vicenda o riusciranno a fuggire all’estero. Il colpo alla credibilità del sistema politico è profondo e carico di conseguenze. Il vertice delle istituzioni appare in balia degli eventi e l’elezione di una figura simbolo sembra rappresentare l’unica possibilità di unire il paese attorno alla sua storia. Viene scelto un uomo di punta del movimento partigiano, un antifascista ligure perseguitato e recluso dal regime che aveva contribuito in prima persona alla Resistenza nella fase conclu­ siva del secondo conflitto mondiale; è suo il primo comizio in piazza Duomo dopo la liberazione del capoluogo lombardo. Il socialista Sandro Pertini, indicazione condivisa e per molti versi lungimirante, sostenuta da una larga maggioranza parla­ mentare. Un uomo capace di costruire un dialogo con il paese restituendo alle istituzioni ferite credibilità e buon sen­ so. Il protagonismo della presidenza della Repubblica è un ulteriore segno di una fase nuova che si apre: i partiti indebo­ liti, alla ricerca di strategie possibili, lasciano un vuoto che in parte viene colmato dalle iniziative di un presidente che cerca un canale di comunicazione diretta con gli italiani senza filtri o mediazioni. Le stesse funzioni della presidenza della Repub­ blica iniziano a seguire un nuovo paradigma più partecipe e ravvicinato rispetto alla collocazione di arbitro imparziale e custode severo della Carta costituzionale che aveva caratteriz­ zato il primo tratto di strada della Repubblica. Vicinanza, immedesimazione e persino simpatia del presidente partigiano diventano ingredienti fondamentali di una svolta che lascerà il segno40. Anche da questo versante, dal punto più alto delle istituzioni, con la fine degli anni Settanta nulla sarà più come prima.

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La crisi della solidarietà nazionale non è soltanto ricondu­ cibile al riflesso immediato della vicenda Moro. Va scomposta in diversi ambiti e ragioni. Innanzitutto, il venir meno di un protagonista di primo piano in circostanze cosi drammatiche. In secondo luogo, la risposta difensiva dei partiti che cercano di consolidare il proprio elettorato attraverso le certezze di mondi già frequentati smarrendo progressivamente il coraggio di un’innovazione possibile anche se complicata. Da ultimo la natura contraddittoria del compromesso storico che avrebbe messo insieme temporaneamente gli opposti posizionamenti per poi riaprire la strada a una fisiologica dialettica tra posizioni contrapposte, tra maggioranza e opposizione. Tale progettualità si manifesta senza mettere mano alle regole del gioco, tanto nell’impianto istituzionale (competenze, poteri, contrappesi) quanto nell’antico problema legato alle dinamiche di costru­ zione e legittimazione della maggioranza parlamentare (la legge elettorale). Così, al tramonto traumatico della stagione del compromesso storico segue un’incerta ricerca di nuovi equilibri, con numeri e progetti politici irrealistici e insufficienti e con la persistenza dell’ombra di Moro che condiziona la politica e l’insieme della democrazia italiana. 4. Riflusso La morte di Moro non svuota né esaurisce la spinta omici­ da delle Brigate Rosse che si protrae con violenza efferata nel corso degli anni e dei decenni successivi. La risposta diffusa della società isola il fenomeno, lo ridimensiona e soprattutto rende chiara la pericolosità dell’attacco eversivo del partito armato41. Dopo la primavera 1978 il conflitto fra i terroristi e le istituzioni repubblicane si fa più chiaro, esplicito senza me­ diazioni o mezze verità. Il salto di qualità nell’attacco al cuore dello Stato non s’interrompe: cadono in agguati armati impren­ ditori, magistrati, giornalisti, forze dell’ordine. L’isolamento delle Brigate Rosse, il venir meno di ogni alibi possibile sul presunto consenso alla lotta armata non affievolisce l’intensità e la brutalità delle azioni. Numeri impietosi che non possono nascondere le tragedie di vite spezzate dalla follia e dall’odio omicida: circa 176 le vittime di attentati contro singole persone tra il 1969 e il 1988. Nello stesso arco di tempo 135 sono i

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caduti nelle stragi indiscriminate contro civili, 41 a causa di violenza politica contrapposta, quasi 60 per gli attacchi del terrorismo internazionale all’aeroporto Leonardo Da Vinci di Fiumicino (il 17 dicembre 1973 e il 27 dicembre 1985)42. Cifre crudeli di una scia di sangue che condiziona la lunga e difficile uscita dell’Italia dagli anni di piombo43. Sotto la guida del generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa arrivano i primi risultati nelle indagini sulla vicenda Moro, a partire dalla rilevante scoperta del covo milanese di via Montenevoso. Su un altro versante si consolida la risposta democratica che coinvolge cittadini, istituzioni e gruppi organizzati: condomini, consigli comunali, associazioni di volontariato e di preghiera, gruppi sportivi e ricreativi, forme diverse di presenza e testimo­ nianza che attraversano e arricchiscono il tessuto della società italiana. Ed è così che si restringono e si prosciugano le aree di attenzione o di benevola indifferenza popolate da potenziali fiancheggiatori del terrorismo politico. Una sconfitta (quella del partito armato) dolorosa ma necessaria che tuttavia non disperde gli interrogativi che accompagnano passaggi e conte­ nuti della vicenda Moro. Le indagini proseguono conseguendo significativi risultati: condanna dei brigatisti delle colonne coinvolte nella strage, nel rapimento e nell’omicidio del leader democristiano; ricostruzione delle dinamiche dell’affaire nella consapevolezza faticosamente conquistata dell’inattendibilità delle versioni offerte dai brigatisti negli interrogatori e nelle memorie che alcuni di loro pubblicano negli anni successivi44. Grazie all’impegno di tanti (storici, magistrati, giornalisti, inquirenti) si consolidano verità importanti, tessere di un mo­ saico di conoscenze e responsabilità che dalla vicenda Moro irradiano una fase intera della storia della Repubblica e dello scontro con le logiche del partito armato. Gli interrogativi, anche quelli più imbarazzanti e difficili non si dissolvono, ma vengono amplificati nel tempo che ci separa dagli eventi: cosa è successo ai documenti e alle borse di Moro? Quali i luoghi di prigionia? E la composizione completa dei terroristi coinvolti e delle figure che compongono gli apparati dello Stato e gli organismi preposti alla ricerca del prigioniero? Una tragedia italiana che trascina domande e contraddizioni fino a condizionare gli assetti futuri della Repubblica ben oltre lo smantellamento delle cellule terroristiche, come esito della mobilitazione dello Stato e della società italiana.

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Il 24 gennaio 1979 alle prime luci dell’alba un commando delle Brigate Rosse uccide un sindacalista iscritto al Pci, delegato sindacale della Fiom-Cgil, reo di aver scoperto e denunciato un postino delle Br che operava all’interno della sua fabbrica, l’Italsider di Genova. Guido Rossa, la «spia berlingueriana» nel sinistro linguaggio dei terroristi, aveva testimoniato al processo contribuendo alla decisione di condanna per il componente della cellula brigatista. Un atto di coraggio, una scelta senza mezze misure che rompe il clima di omertà o indifferenza che si respira in alcune fabbriche attraversate dai conflitti innescati dal partito armato. La testimonianza in un tribunale non è am­ messa, solo i cosiddetti tribunali del popolo possono giudicare, condannare, uccidere o redimere. Legittimare un’istanza di un potere democratico significherebbe accettare il perimetro delle regole del gioco, la dialettica di posizioni e punti di vista, il pluralismo delle idee lievito di ogni democrazia. Si tratta di un passaggio chiave, una svolta profonda che mette in chiaro i ruoli, le responsabilità, la funzione delle forze politiche e sindacali all’interno dei luoghi di lavoro. Il sacrificio di Guido Rossa non è quello di un eroe che non teme pericoli o rappresaglie, al contrario il suo comportamento è ispirato dal rispetto per i valori della responsabilità, della trasparenza, della fabbrica come perimetro da difendere e tutelare. Il suo omicidio contribuisce a chiarire il giudizio sulle Br, sulla loro strategia di attacco, sul rapporto presunto con il movimento operaio e sul significato di un’intera stagione45. Non poteva reggere l’equidistanza complice dello slogan «né con lo Stato né con le Br» né si poteva accettare una lettura ispirata da criteri di comprensione e giustificazione per giovani che compivano il passo senza ritorno della clandestinità e del partito armato: la prospettiva della rivoluzione proletaria dietro l’angolo, la ricerca dell’ora cruciale per abbattere lo Stato capitalista delle multinazionali. Dietro linguaggi deliranti e incomprensibili si nasconde una convinzione pericolosa e gravida di conseguenze: l’idea che da una rottura possa nascere qualcosa di buono, che il rispetto della vita non sia un punto irrinunciabile e che sia sufficiente innescare scintille diffuse per accelerare verso la strada della rivoluzione. Un terribile bivio che travolge un segmento significativo di una generazione d’italiani. Tra piazza Fontana e il caso Moro le opzioni si divaricano: da una parte minoranze armate e organizzate che cercano lo scontro con

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Lo Stato per legittimarsi in modo violento, conquistando così potere e visibilità, dall’altra la grande maggioranza della popo­ lazione che impaurita e smarrita cerca le forme più efficaci e diffuse per reagire, difendere il cammino tracciato, respingere le false letture proposte dall’ideologia terrorista46. Anche la violenza dello Stato, la sua reazione spropositata e talvolta incoerente, l’emergere di zone occulte, manovre o depistaggi fa parte delle componenti di una strettoia terribile. Il terrori­ smo propone in modo strumentale un paradigma immaginario e illusorio, quello fondato sull’esistenza delle condizioni per una rivoluzione violenta in Occidente che avrebbe coinvol­ to giovani, studenti e operai in una travolgente esperienza collettiva. Al contrario tutto si chiude diventando opaco e infrequentabile: nelle piazze e nelle manifestazioni si spara, la violenza supera il limite invalicabile dell’intangibilità della vita, le paure attanagliano scelte individuali fino a condizio­ nare la sfera dell’agire collettivo. Prevale la fuga, la ricerca di una dimensione sicura e protetta, il privato come rifugio e certezza dopo che il sangue aveva spezzato sogni, illusioni, innocenze. Questo il costo più grande di una stagione difficile per la democrazia italiana, dopo l’omicidio Rossa cadono gli ultimi alibi. La fine del decennio si carica di nuove speranze: lasciarsi alle spalle i ricatti della violenza per iniziare un nuovo cammino, la sconfitta del terrorismo diventa una condizione necessaria per poter guardare avanti con rinnovata fiducia. Tutto appare in movimento. L’estate 1978 è anche quella dei tre papi che si danno il cambio in una successione ravvi­ cinata e imprevedibile. Muore Paolo VI ai primi di agosto, il breve pontificato di Albino Luciani (26 agosto-28 settembre) s’interrompe tragicamente. Il 16 ottobre sale al soglio pontificio l’arcivescovo di Cracovia scegliendo il nome di Giovanni Paolo II come segno di riconoscenza per chi lo aveva preceduto di poche settimane. Un papa polacco, un non italiano dopo cir­ ca cinque secoli, un grande cambiamento delle compatibilità interne e internazionali. Si vedrà con il tempo quale passag­ gio d’epoca fosse sotteso a quella elezione: ridefinizione dei rapporti tra partito cattolico e Santa Sede, la politica italiana scivola in basso nella lista delle priorità di un pontefice ve­ nuto dall’est, dal cuore del mondo comunista47. Sono anni di tensioni internazionali che rilanciano le ragioni del confronto bipolare: il fondamentalismo islamico in Iran, l’intervento

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sovietico in Afghanistan, le fibrillazioni nella penisola indoci­ nese. Il sistema mostra crepe e segni di persistente instabilità: meno ordine regolato, più competizione senza controlli. La corsa al riarmo nucleare è solo il sintomo più evidente di un bipolarismo competitivo e conflittuale. Le connessioni con la politica italiana si manifestano nello spazio breve di poche settimane, a ridosso dell’elezione del papa polacco e della crisi definitiva delle certezze che in campo cattolico avevano consolidato la posizione della D c nei confronti di gerarchie e diplomazie internazionali. L’incertezza prevale sulle narrazioni rassicuranti: nel Mediterraneo e in Medio Oriente, lungo la linea della dialettica Est-Ovest e persino nei rapporti transatlantici il segno è quello della diffidenza, della presa di distanze da uno scenario interno che può persino approdare su sponde pericolose48. Ed è in questo quadro che sale l’attenzione per gli appun­ tamenti elettorali e per le tappe di costruzione del processo d’integrazione continentale. Una sovrapposizione di piani e letture tra equilibri interni e proiezione internazionale. Nel 1979 viene eletto a suffragio universale diretto il Parlamento europeo. Una scelta che rilancia le ragioni della politica di cooperazione e collaborazione in una dimensione inedita della sovranità continentale. Di pari passo nel dualismo che caratterizza la costruzione dell’Europa post-bellica si rafforza l’aspetto economico con la creazione di un sistema monetario comune (Sme) per i paesi aderenti alla Comunità economica europea (Cee). Non un dato scontato o provvisorio, ma una scelta che in Italia divide maggioranza e opposizione contraria all’adesione italiana (il Pci che vota contro e il Psi diviso che si astiene)49. Lo scontro sullo Sme si carica di significati che vanno al di là della questione economico-monetaria. Il consenso al governo è fragile, incerto, la solidarietà nazionale appare come un ricordo sbiadito e inefficace. Andreotti ottiene un nuovo incarico per portare il paese alle urne. Si vota il 3 giugno con un responso che da un lato rafforza la Democrazia cristiana (supera il 38% dei consensi) e dall’altro bipolarizza il sistema tra maggioranza e opposizione, allontanando le forme possibili di dialogo o intesa. Il Pci si attesta sopra il 30%, i socialisti nonostante il protagonismo del neosegretario non arrivano al 10%, calano i partiti di destra e si fa strada un consenso ai radicali in chiave di contrarietà al compromesso storico che li

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porta fino a un significativo 3,5 %. Il quadro continua a essere instabile e incerto: la sconfitta nelle urne del compromesso storico non si accompagna a indicazioni alternative. La D c tiene, il Pci subisce una brusca battuta d’arresto dopo che dal 1948 era cresciuto in modo pressoché costante. Il dato qualificante che sfugge a chi si concentra sulla costruzione di formule politiche o alleanze di governo è l’astensionismo che unisce oltre 4 milioni d’italiani. Quella distanza tra il paese e il palazzo, tra la società e le istituzioni comincia a trovare forme di espressione attraverso un distacco silenzioso che progressivamente indebolisce l’architettura complessiva del sistema. In pochi si rendono conto della profondità di una frattura insanabile; il confronto tra le forze politiche prescinde dai dati di difficoltà, dai sintomi di crisi, dalla disaffezione crescente che anima segmenti significativi della società italiana. Una settimana dopo il voto politico cade l’elezione del Parlamento europeo. E la prima volta che i parlamentari europei non sono indicati dai parlamenti nazionali, ma eletti direttamente dai cittadini. In Italia si abbassa la partecipazio­ ne da una domenica all’altra del 5% e il calo di D c e Pci alle europee avvantaggia i partiti minori: radicali, laici, socialisti. La sostanza è quella di un quadro composito dove la costru­ zione di una maggioranza parlamentare - soprattutto dopo il definitivo tramonto della prospettiva del compromesso stori­ co tra i partiti più grandi - torna a essere un problema di difficile soluzione. Si riaprono trattative e discussioni tra i partiti e all’interno delle forze politiche tra le diverse corren­ ti o componenti. La politica, sorda alle novità che la società aveva espresso, si concentra sugli equilibri di un Parlamento sempre più fragile e indebolito. Francesco Cossiga, dimissio­ nario e travolto dalla vicenda Moro, torna in gioco dopo poco più di un anno. Cossiga era il simbolo del fallimento della D c di fronte all’offensiva terroristica. Il suo ritorno rappresenta da un lato un segno di ostentata vitalità del partito che non vuole farsi processare dalle piazze, ma dall’altro la convergen­ za di rapporti di forza interni su un uomo di equilibrio che può meglio gestire la crisi numerica e politica dello scudocro­ ciato. Sembrava conclusa la sua parabola politica, eppure non è così50. Gli viene dato l’incarico di formare un esecutivo cercando numeri e sostegni possibili nelle aule parlamentari. L’VIII legislatura vede il succedersi di sei governi in quattro

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anni, i primi due a guida Cossiga tra agosto 1979 e settembre dell’anno successivo. Una sorta di quadripartito (Dc, Psi, Psdi, Pri con sostegni di singoli tecnici) che assomiglia a un ritorno al centrosinistra pur avendo numeri risicati e una pluralità di piccole forze politiche che partecipano. Si consolida il potere di coalizione dei partiti minori: alzare il prezzo per poter entrare in un governo vista la necessità di far fronte alle de­ boli maggioranze che non scaturiscono da responsi elettorali ma da una lunga trattativa tra i partiti e all’interno dei parti­ ti stessi51. I primi passi del governo sono segnati dal protrarsi dell’of­ fensiva del partito armato e dal varo del decreto antiterrorismo che offriva strumenti e possibilità nuove alle forze dell’ordine e agli inquirenti. Venne convertito in legge dopo una lunga battaglia parlamentare attraversata dall’opposizione dei radicali e di altri critici per la violazione di norme costitutive dello stato di diritto. Interventi legislativi controversi ma efficaci nel contrasto alle nuove sfide che il terrorismo propone dopo la conclusione tragica della vicenda Moro52. La striscia di sangue continua ad allungarsi. Dopo Guido Rossa è la volta di Emilio Alessandrini, ucciso da un commando di Prima Linea; il sostituto procu­ ratore aveva indagato sulla strage di piazza Fontana e sugli ambienti della destra eversiva. Verso la fine del decennio e agli inizi del successivo perdono la vita industriali, docenti universitari, appartenenti alle forze dell’ordine e magistrati. Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, protagonista del rinnovamento cattolico post-conciliare e magistrato di punta nella reazione contro il ricatto del partito armato viene ucciso dopo aver concluso la sua lezione all’Università di Roma «la Sapienza», sulle scale di accesso alla Facoltà di Scienze Politiche. Le parole pronunciate dal figlio Giovanni durante il funerale lasciano il segno, arrivano in profondità unendo identità, culture e storie mobilitate insieme a difesa dello Stato: «Vogliamo pregare an­ che per quelli che hanno colpito mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta di morte per gli altri»53. Ma dopo Bachelet perdono la vita altri magistrati nello spazio breve di poche settimane: a Roma (Girolamo Minervini), a Milano (Guido

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Galli), a Salerno (Nicola Giacumbi). E alla fine di maggio viene ucciso un giornalista d’inchiesta, una penna di punta del «Corriere della Sera» come Walter Tobagi. Si occupava di terrorismo, di poteri che condizionavano i giornali e gli assetti proprietari delle grandi testate dell’informazione. Un colpo mortale alla libertà di stampa; perde la vita un uomo coraggioso e attento54. E dopo i giornalisti vengono colpiti uomini delle forze dell’ordine, a fine anno il generale Enrico Galvaligi, responsabile dell’Ufficio di coordinamento delle carceri di massima sicurezza. Un segnale per chi era recluso, un tentativo di non accettare le dinamiche di risposta dello Stato. Un biennio di sangue che comincia a cambiare verso quando tra il 1980 e il 1981 il lavoro congiunto di inquirenti e forze dell’ordine comincia a dare i primi segnali inequivo­ cabili. La sconfitta del progetto terrorista appare evidente nei contenuti e nelle forme, i primi arresti di pentiti aiutano a definire contiguità e collusioni. Lo Stato poteva rialzare la testa iniziando a smantellare gradualmente l’organizzazione delle Brigate Rosse. Resta viva l’attività delittuosa delle cel­ lule che si muovono continuando a colpire figure di confine, uomini della collaborazione e del dialogo, esponenti diversi di culture riformiste in grado di smontare le pseudoteorie del partito armato. Vengono uccisi nel 1985 l’economista Enzo Tarantelli, l’ex sindaco di Firenze Lando Conti; nel 1988 un intellettuale cattolico come Roberto Ruffilli che si era dedi­ cato allo studio di possibili riforme innovative da introdurre nel sistema politico e istituzionale. Costi incalcolabili, vite spezzate in un clima di terrore che non si attenua nonostante i successi della complessa e articolata reazione democratica. I pentiti (così vengono chiamati i terroristi che collaborano con le indagini e le inchieste della magistratura) aiutano a definire confini e responsabilità. Sono sostenuti e incentivati attraverso riduzioni di pena e protezioni prolungate. Lo Stato si muove articolando una risposta che viaggia su piani differenti. La collaborazione tra governo e opposizione come premessa che rende possibile un’efficace strategia di risposte. Tale strategia acquisisce consensi e simpatie diffuse: il senso di una comunità nazionale prevale distintamente sulle appartenenze separate e sulle bandiere di parte o di partito. Le piazze si riempiono di italiani che manifestano con bandiere di partiti o di sindacati affiancati e partecipi di un’unica iniziativa.

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In questo quadro incerto nei primi anni Ottanta i riflessi della guerra fredda condizionano direttamente equilibri e posizionamenti. Il governo si dichiara pronto a procedere sulla strada dell’installazione degli euromissili sul suolo italia­ no. Una risposta alla minaccia sovietica dei missili a medio raggio, un segno di lealtà e partecipazione alle dinamiche dell’Alleanza atlantica. Il voto favorevole definisce una mag­ gioranza politica e numerica - il pentapartito - che si appresta a consolidare una posizione di forza. Un’alleanza tra diversi che reggerà le sorti del paese fino al crollo dei partiti più di un decennio dopo, nell’ultimo scorcio di Novecento. Il Pci torna orgogliosamente e solitariamente all’opposizione. Il Congresso democristiano ribadisce la conclusione della pro­ spettiva di dialogo con i comunisti per favorire l’incontro con il Partito socialista. In pochi mesi maturano novità e imposta­ zioni politiche che assumeranno presto le caratteristiche di una vera e propria svolta. Il secondo governo Cossiga segna il ri­ torno dei socialisti nell’esecutivo, una riedizione del centrosi­ nistra come qualcuno ironicamente sostiene e scrive. Con la segreteria Forlani i piani diventano complementari. Il governo pentapartito si basa sull’asse tra D c e Psi e sulla partecipazio­ ne all’esecutivo di forze minori che aspirano a funzioni di primo piano. La ricomposizione di un’area di governo avviene per ragioni differenti: la D c tenta di rispondere alla sua crisi di centralità mantenendosi unita e cercando di rilanciare la funzione di garanzia, ordine e stabilità. I socialisti di Craxi pensano così di poter riequilibrare i rapporti a sinistra rom­ pendo la trama del compromesso storico ritagliandosi un ruolo centrale e insostituibile: tra le due forze maggiori come perno di politiche e alleanze possibili. Il Partito comunista dopo il terribile terremoto in Irpinia (1980) sostiene una linea condivisa di alternativa alla Democrazia cristiana, la fine delle attenzioni interessate e l’affermazione delle reciproche conflit­ tualità. Una dicotomia frontale che consolida a sinistra il monopolio dell’opposizione da parte del Pci in una strategia composita che tiene in considerazione anche il riflesso inter­ nazionale: partecipazione al progetto di eurocomunismo con altri partiti europei e all’indomani del colpo di Stato in Polo­ nia le considerazioni di Berlinguer sull’esaurimento della spinta propulsiva che aveva segnato il mondo sorto dalla rivo­ luzione del 191755. Una dichiarazione importante ma insuffi-

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dente e tardiva rispetto al mondo comunista, a ciò che da tempo era conosciuto sulla realtà del socialismo reale. Il Pci giocava di rimessa, prendeva tempo conquistando uno spazio originale: criticava quel mondo senza uscirne del tutto, riven­ dicava un’alterità quasi sistemica alle regole e alle compatibi­ lità del capitalismo internazionale. In questo modo i conti col comuniSmo vengono rinviati alla fine del decennio e pericolo­ samente l’illusione di aver ritrovato un’alterità, una diversità dagli altri partiti diventa una difesa dell’esistente. Ma come abbiamo avuto modo di vedere, la crisi dei partiti e delle cul­ ture di riferimento era iniziata da tempo. Questa nuova geografia politica e istituzionale viene colpita dagli effetti dello scandalo P2: scoperti e resi noti gli elenchi dei partecipanti alla loggia massonica presieduta dal venerabile maestro Licio Gelli56. Un terremoto che scuote il palazzo, una trama di appartenenze trasversali che mette in crisi la credibilità già minacciata della politica e delle istituzioni. Uno scandalo per molti partecipanti, un piano di destabilizzazione minaccioso, una trama di affari e poteri che coinvolge istituti di credito, politici, banchieri, giornalisti, affaristi e uomini dello spettacolo. Uno spaccato del potere invisibile e condizionante, un grappolo di interrogativi inevasi sulle trame che insidiano la tenuta della democrazia. Il governo Forlani - che era succeduto a Cossiga a Palazzo Chigi - cerca di gestire l’onda d’urto dello scandalo in un contesto difficile anche per il quadro dell’economia nazionale, minacciato dalla cifra dell’inflazione oltre il 10%. Difficile mediare. Il governo concede la pubblicizzazione delle liste scovate nella villa di Gelli, ma non basta. La crisi dell’ese­ cutivo diventa una conseguenza della fibrillazione generale che mette la Dc all’angolo, nuovamente sul banco degli imputati. La sua centralità è in crisi, i partecipanti all’alleanza di governo chiedono sempre di più: visibilità, potere, incarichi di rilievo per poter mantenere in vita una collaborazione tra diversi. E il tempo di passare la mano. Nel giugno 1981 Giovanni Spadolini, un repubblicano, sarà il primo non democristiano ad assumere la guida del governo in una coalizione pentapar­ tito, la centralità della De appare il ricordo sbiadito di una stagione ormai alle spalle57. Il consolidamento del pentapartito rimane una scommessa difficile, un progetto non realizzato: due governi in successione a guida repubblicana tra il giugno del 1981 e il novembre del 1982 prima di tornare a Forlani

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e alla riscoperta della centralità democristiana nell’epilogo di una legislatura burrascosa. Note al capitolo quarto 1 Su questi aspetti cfr. V. Vidotto, La nuova società, in Sabbatucci e Vidotto (a cura di), Storia d’Italia, voi. 6, Ultalia contemporanea. Dal 1963 a oggi, cit., pp. 66-74; L. Manconi, Terroristi italiani. Le Brigate Rosse e la guerra totale 1970-2008, Milano, Rizzoli, 2008; G. Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa. La violenza politica nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, Torino, Einaudi, 2009. 2 Cfr. L. Bobbio, Storia di Lotta Continua, Milano, Feltrinelli, 1988; M. Revelli, Movimenti sociali e spazio politico, in Storia dell’Italia repubblicana, voi. 2, cit.; A. Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione. 19681978: storia di Lotta Continua, Milano, Mondadori, 1998; S. Dalmasso, L’arcipelago della sinistra: partiti e gruppi, in «Il presente e la storia», 59, 2001; N. Balestrini e P. Moroni, Corda d’oro 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Milano, Feltrinelli, 2015. 3 G. Crainz, L’Italia repubblicana, Firenze, Giunti, 2000, pp. 60-87. 4 C. Vecchio, Ali di piombo, Milano, Rizzoli, 2007. 5 Sulla vicenda cfr. C. Feltrinelli, Senior Service, Milano, Feltrinelli, 1999; Gentiioni Silveri, L’Italia sospesa. La crisi degli anni Settanta vista da Washington, cit., pp. 69 ss. 6 Franzinelli, La sottile linea nera. Neofascismo e servizi segreti da piazza Fontana a piazza della Loggia, cit., pp. 284-404; Fasanella, Sestieri e Pelle­ grino, Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro, cit., pp. 74-124. 7 Sul movimento del ’77 cfr. G. Lerner, L. Manconi e M. Sinibaldi, Uno strano movimento di strani studenti, Milano, Feltrinelli, 1978; S. Cappel­ lini, Rose e pistole. 1977. Cronache di un anno vissuto con rabbia, Milano, Sperling & Kupfer, 2007; L. Annunziata, 1977: l’ultima foto di famiglia, Torino, Einaudi, 2007; A. Gagliardi, Il ’77 tra storia e memoria, Castel San Pietro Romano, Manifestolibri, 2017; M. Galfré e’ S. Neri Serneri (a cura di), Il movimento del '77. Radici, snodi, luoghi, Roma, Viella, 2018. 8 A. Casalegno, Idattentato, Milano, Chiarelettere, 2008. 9 M. Scialoja, Brigate Rosse si farà il processo? Il giudice popolare si chiama Torino, in «L’Espresso», 5 marzo 1978; sul processo di Torino cfr. A. Aglietta, Diario di una giurata popolare al processo delle Brigate Rosse, Milano, Milano libri, 1979. 10 Ancora validi e in buona parte inevasi gli interrogativi sollevati dal fratello del leader democristiano: A.C. Moro, Storia di un delitto annunciato. Le ombre del caso Moro, Roma, Editori Riuniti, 1998. 11 Cfr. G. Acquaviva e L. Covatta (a cura di), Moro-Craxi. Fermezza e trattativa trent’anni dopo, Venezia, Marsilio, 2009. 12 Su questi aspetti si veda U. Gentiioni Silveri, Il giorno più lungo della Repubblica. Un paese ferito nelle lettere a casa Moro durante il sequestro, Milano, Mondadori, 2016.

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13 Cfr. S. Flamigni, La tela del ragno. Il delitto Moro, Roma, Edizioni Associate, 1988; A. Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, Bologna, Il Mulino, 2005; G. Bianconi, Eseguendo la sentenza. Roma, 1978. Dietro le quinte del sequestro Moro, Torino, Einaudi, 2008; A. Moro, Let­ tere dalla prigionia, a cura di M. Gotor, Torino, Einaudi, 2009; M. Gotor, Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano, Torino, Einaudi, 2011; F. Biscione, Il delitto Moro e la deriva della democrazia, Roma, Ediesse, 2012. 14 Cfr. Craveri, Storia d’Italia. La Repubblica dal 1998 al 1992, cit., pp. 714-746; Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, cit., pp. 94-98. 15 Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, cit., pp. 337-373. 16 Sulla posizione assunta dal Psi si veda S. Colarizi e M. Gervasoni, La cruna dell’ago. Craxi, il Psi e la crisi dell’Italia repubblicana, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 39-85; Matterà, Moro e il Psi, cit., pp. 197-228. 17 Atti parlamentari, Camera dei deputati, VII Legislatura, Discussioni, Seduta del 4 aprile 1978, p. 14682. 18 Cfr. Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, cit., pp. 165-170; Gentiioni Silveri, Il giorno più lungo della Repubblica. Un paese ferito nelle lettere a casa Moro durante il sequestro, cit., pp. 67 ss. 19 Sull’appello del papa cfr. Flamigni, La tela del ragno. Il delitto Moro, cit., pp. 205-206; Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, cit., pp. 196-200. 20 Un condannato a morte che pare scrivere sotto dettatura, in «Corriere della Sera», 25 aprile 1978. 21 Cfr. Flamigni, La tela del ragno. Il delitto Moro, cit., pp. 235-248; Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, cit., pp. 171 ss.; Moro, Lettere dalla prigionia, a cura di M. Gotor, cit., in particolare pp. 185-251; Gotor, Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano, cit., pp. 34-47. 22 Tra gli altri cfr. Flamigni, La tela del ragno. Il delitto Moro, cit., p. 250. 23 Su questi aspetti cfr. P. Scoppola, La coscienza e il potere, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. V-XXI; G.L. Mosse, Intervista su Aldo Moro, a cura di A. Alfonsi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015, pp. 5-24; Gentiioni Silveri, Il giorno più lungo della Repubblica. Un paese ferito nelle lettere a casa Moro durante il sequestro, cit., pp. 79 ss. 24 S. Lupo, Partito e antipartito. Una storia politica della prima Repubblica (1946-78), Roma, Donzelli, 2004, pp. 203-300. 25 Craveri, Storia d’Italia. La Repubblica dal 1958 al 1992, cit., pp. 774804. Sul «funerale della Repubblica» e la fine di un’epoca si veda anche Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra oggi, cit., pp. 538-545; A. Riccardi, Il cattolicesimo della Repubblica, in Sabbatucci e Vidotto (a cura di), Storia d’Italia, voi. 6, L’Italia contemporanea. Dal 1963 a oggi, cit., pp. 296-302; I. Imperi, Il caso Moro: cronaca di un evento mediale. Realtà e «drama» nei servizi Tv dei 55 giorni, Milano, Franco Angeli, 2016, pp. 155-168. 26 M. Bellocchio, Il coraggio di andare oltre la storia, in «la Repubblica», 15 settembre 2003. 27 In «L’Osservatore Romano», 15-16 maggio 1978.

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28 Le citazioni di Scalfari e di Saragat in «la Repubblica», 10 maggio 1978; quella di Pintor in «il manifesto», 10 maggio 1978. 29 Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra oggi, cit., pp. 538-540. 30 Riccardi, Il cattolicesimo della Repubblica, cit., p. 301. 31 Sulla figura di Moro nella storia della democrazia italiana cfr. N. Bobbio, Diritto e stato negli scritti giovanili, in P. Scaramozzino (a cura di), Cultura e politica nell’esperienza di Aldo Moro, Quaderni della rivista «Il Politico», Milano, Giuffrè, 1982, pp. 3-22; R. Moro, La formazione giovanile di Aldo Moro, in «Storia contemporanea», XIV, 4-5, 6 dicembre 1983, pp. 803-968; G. Campanini, Aldo Moro. Cultura e impegno politico, Roma, Studium, 1992; G. Formigoni, Aldo Moro. Idintelligenza applicata alla mediazione politica, Milano, Centro Ambrosiano, 1997; P. Acanfora, Un nuovo umanesimo cristiano. Aldo Moro e «Studium» (1945-1948), Roma, Studium, 2011; M. Salvati, Moro e la nascita della democrazia repubblicana, in Moro e Mezzana (a cura di), Una vita, un paese. Aldo Moro e l’Italia del Novecento, cit., pp. 33-55; N. Antonetti (a cura di), Aldo Moro nella storia della Repubblica, Bologna, Il Mulino, 2018. 32 Mosse, Intervista su Aldo Moro, cit., p. 3. 33 Ivi, p. 47. 34 Ivi, p. 86. 35 Per un confronto di giudizi sul significato dell’assassinio di Aldo Moro nella storia dell’Italia repubblicana cfr. Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, cit., pp. 259-267; Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, cit.; M. Mastrogregori, Moro. La biografia politi­ ca del democristiano più celebrato e discusso nella storia della Repubblica, Roma, Salerno Editrice, 2016; M. Damilano, Un atomo di verità, Milano, Feltrinelli, 2018. 36 Moro, Lettere dalla prigionia, a cura di M. Gotor, cit., pp. 13-17. 37 Cfr. Gentiioni Silveri, L’Italia sospesa. La crisi degli anni Settanta vista da Washington, cit., pp. 206-221. 38 Atti parlamentari, Senato della Repubblica, VII Legislatura, Seduta pomeridiana, Assemblea resoconto stenografico, 10 maggio 1978, p. 11381. 39 Su questi aspetti cfr. Colarizi e Gervasoni, La cruna dell’ago. Craxi, il Psi e la crisi dell’Italia repubblicana, cit., pp. 97-113; Giovagnoli, La Repubblica degli italiani, 1946-2016, cit., pp. 94-101. 40 Cfr. U. Gentiioni Silveri, Alessandro Pertini, in Dizionario Biografico degli Italiani, voi. 82, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2015, pp. 526-532; S. Colarizi, Sandro Pertini, in Cassese, Galasso e Melloni (a cura di), Ipresidenti della Repubblica. Il Capo dello Stato e il Quirinale nella storia della democrazia italiana, cit., pp. 295-324; A. Maccanico, Con Pertini al Quirinale. Diari 1978-1985, a cura di P. Soddu, Bologna, Il Mulino, 2014. 41 Cfr. G.M. Ceci, Il terrorismo italiano. Storia di un dibattito, Roma, Carocci, 2013. 42 I numeri in Vecchio e Trionfini, Storia della repubblica, cit., p. 249. 43 Sulla controversa questione delle vittime e dei feriti della stagione del terrorismo cfr. M. Gaileni (a cura di), Rapporto sul terrorismo, Milano, Rizzoli, 1981; D. della Porta e M. Rossi, Cifre crudeli. Bilancio dei terrorismi italiani, Bologna, Istituto Carlo Cattaneo, 1984; M. Lazar e M. Matard

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Bonucci, II libro degli anni di piombo. Storia e memoria del terrorismo italiano, Milano, Rizzoli, 2010; V. Lomellini (a cura di), Il mondo della guerra fredda e l’Italia degli anni di piombo. Una regia internazionale per il terrorismo?, Firenze, Le Monnier, 2017. 44 Tra le biografie dei brigatisti, tra gli altri, A. Franceschini, P.V. Buffa e F. Giustolisi, Mara, Renato e io. Storia dei fondatori delle BR, Milano, Mondadori, 1988; R. Curdo, A viso aperto, Milano, Mondadori, 1993; B. Balzerani, Compagna luna, Milano, Feltrinelli, 1998; A.L. Braghetti e P. Tavella, Il prigioniero, Milano, Mondadori 1998; M. Moretti, R. Rossanda e C. Mosca, Brigate Rosse. Una storia italiana, Milano, Baldini & Castoldi, 1998; P. Gallinari, Un contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate Rosse, Milano, Bompiani, 2006; P. Peci, Io l’infame, Milano, Sperling & Kupfer, 2008; A. Grandi, Uultimo brigatista, Milano, Rizzoli, 2007. 45 Sulla vicenda cfr. G. Fasanella e S. Rossa, Guido Rossa, mio padre, Milano, Rizzoli, 2006; P. Andruccioli, Il testimone. Guido Rossa, omicidio di un sindacalista, Roma, Ediesse, 2009; G. Bianconi, Il brigatista e l’operaio, Torino, Einaudi, 2011; F. Palaia, Una democrazia in pericolo. Il lavoro contro il terrorismo (1969-1980), Genova, il canneto editore, 2019, pp. 353-376. 46 Cfr. G. Galli, Il decennio Moro-Berlinguer. Una rilettura attuale, Mi­ lano, Baldini Castoldi Dalai, 2006; G. Bianconi, Figli della notte. Gli anni di piombo raccontati ai ragazzi, Milano, Baldini & Castoldi, 2014. 47 Una recente biografia di papa Wojtyla in A. Riccardi, Giovanni Paolo II. La biografia, Cinisello Balsamo, San Paolo Edizioni, 2011. 48 Sui mutamenti dello scenario geopolitico cfr. Formigoni, La politica internazionale nel Novecento, cit., pp. 286-293; Westad, La guerra fredda globale. Gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica e il mondo. Le relazioni inter­ nazionali del XX secolo, cit., pp. 325-372; Bongiovanni, Storia della guerra fredda, cit., pp. 127-139; Romero, Storia della guerra fredda. Uultimo conflitto per l’Europa, cit., pp. 252-282; Gaddis, La Guerra fredda, cit., pp. 208-250. 49 Una sintesi del processo costituente in Olivi, L’Europa difficile. Storia politica dell’integrazione europea. 1948-2000, cit., pp. 197-207; G. Mammarella, Storia d’Europa dal 1945 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 483-494; P.S. Graglia, UUnione europea, Bologna, Il Mulino, 2006, pp. 23-30; Rapone, Storia dell’integrazione europea, cit., pp. 76-82; Gilbert, Storia politica dell’integrazione europea, cit., pp. 109-128. Sui risvolti per la sinistra italiana dell’ingresso nello Sme cfr. Craveri, Storia d’Italia, voi. 24, La Repubblica dal 1958 al 1992, cit., pp. 789-804. 50 Sulla figura di Cossiga cfr. U. Gentiioni Silveri, Francesco Cossiga, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Ita­ liana, 2014; E. Galavotti, Francesco Cossiga, in Cassese, Galasso e Melloni (a cura di), I presidenti della Repubblica. Il Capo dello Stato e il Quirinale nella storia della democrazia italiana, cit., voi. I, pp. 325-363. 51 Su questi aspetti cfr. Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico 1945-1996, cit., pp. 423-428; Giovagnoli, La Repubblica degli italiani, 1946-2016, cit., pp. 124-140. 52 L. Ferrajoli, Dei diritti e delle garanzie. Conversazione con Mauro Barberis, Bologna, Il Mulino, 2013. 53 Vecchio e Trionfini, Storia dell’Italia repubblicana (1946-2014), cit., p. 245.

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34 Sulla storia e la figura di Tobagi cfr. G. Baiocchi, P. Chiarelli e A. Lega (a cura di), Walter Tobagi, profeta della ragione, Milano, Silvia Editrice, 2006; B. Tobagi, Come mi batte forte il tuo cuore. Storia di mio padre, Torino, Einaudi, 2009; G. Schiavi (a cura di), W. Tobagi. Ieri e oggi, Milano, Fondazione Corriere della Sera, 2010. 33 Su queste tematiche si veda Pons, La rivoluzione globale. Storia del comuniSmo internazionale 1917-1991, cit., pp. 371-398; Id., Berlinguer e la fine del comuniSmo, Torino, Einaudi, 2006, pp. 162-227; F. Barbagallo, Enrico Berlinguer, Roma, Carocci, 2014, pp. 371-412. 56 Cfr. Un documento storico: il complotto di Lido Gelli. Relazione di Tina Anseimi, supplemento al n. 20, in «L’Espresso», 1984; S. Flamigni, Trame atlantiche. Storia della loggia massonica segreta P2, Milano, Kaos, 1996; G. Galli, La venerabile trama. La vera storia di Lido Gelli e della P2, Torino, Lindau, 2007; A. Vinci (a cura di), La P2 nei diari segreti di Tina Anseimi, Milano, Chiarelettere, 2011. 37 Cfr. A. Battaglia, Né un soldo, né un voto. Memoria e riflessioni dell’Italia laica, Bologna, Il Mulino, 2015, pp. 221-240.

Capitolo quinto

L’inizio della fine

1. Dal confronto al conflitto Gli anni Ottanta si aprono con un inatteso protagonismo da parte delle superpotenze: sommovimenti internazionali che inaugurano l’ultimo decennio della guerra fredda. Dopo gli anni del confronto dialettico e della cosiddetta distensione, l’asse Est-Ovest viene sottoposto a nuove tensioni. Una sorta di ultimo atto della contrapposizione bipolare mentre il tramonto definitivo del dialogo tra Mosca e Washington deposita una scia di buone intenzioni e possibilità che non si realizzano. Si tratta di un passaggio inedito nella definizione dei rapporti di forza a livello internazionale, una strana convivenza di con­ testi e spinte contrastanti. Sembrava immobile e stratificato il confronto tra comuniSmo e capitalismo quando la politica estera sovietica mostra un dinamismo imprevedibile. Il versante interno statico e ingessato mentre il gigante si muove alla ricerca di nuove sfide e possibilità fuori dai confini nazionali. Una seconda guerra fredda secondo una definizione emersa anni dopo, o una guerra fredda di movimento che nelle intenzioni dei proponenti avrebbe ridimensionato la cristallizzazione dei decenni precedenti1. Di certo una sfida lanciata dall’Unione Sovietica che se sul momento apparve a molti come una mi­ naccia incombente, un salto di qualità nella conduzione del confronto amico-nemico, col tempo assumerà sempre più il segno di una debolezza nascosta, dell’incapacità di ridefinire forze e orizzonti del conflitto sistemico. Diversi i teatri di questa nuova espansione: l’invasione sovietica dell’Afghani­ stan in primis e contemporaneamente - o quasi - una linea di rafforzamento attuata (o comunque proposta) in America Latina, Africa e in parte dell’Europa occidentale. Una sfida ai nemici di sempre, un ritorno del linguaggio cristallino della

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guerra fredda, ma al tempo stesso un riequilibrio di forze e protagonisti: tra Urss e Cina le distanze aumentano definendo così nuovi rapporti di forza. I legami tra Pechino e Washington lasciano intendere interessi commerciali e vedute strategiche di lungo periodo; una svolta che avrebbe segnato il cammino dell’umanità. In Europa, nel continente diviso e attraversato dai simboli più evidenti della guerra fredda, tale fase inedita della politica estera sovietica si evidenzia nelle scelte legate alla costruzione e diffusione di una nuova generazione di missili. Uno strumento militare capace di reggere le parole e le minacce di un ravvicinato e possibile braccio di ferro. Il simbolo di una stagione nuova che avrebbe rimesso in discus­ sione equilibri, certezze e possibilità. La corsa agli armamenti attraverso gli SS-20 sovietici e le risposte che giungono da ol­ treoceano diventano un potente fattore di condizionamento che travalica confini, competenze e politiche. Il confronto serrato scuote i protagonisti dei contesti nazionali: ancora una volta il territorio europeo viene sottoposto a installazioni, decisioni condizionate, indirizzi generali di politica internazionale2. Gli scenari, le ipotesi e le stesse parole della distensione vengono ridimensionati nello spazio breve di pochi anni e tra la fine degli anni Settanta e gli albori del decennio successivo ogni epilogo sembra possibile in una sfida senza esclusione di colpi, fino alle tante illusioni sul rinnovamento possibile del comuniSmo e del suo mondo di riferimento3. Con il trascorrere del tempo il significato di quella discontinuità è apparso più nitido: più che un segno di forza una debolezza, più che una vera e propria sfida l’inizio del crollo di uno dei due conten­ denti. Un paradosso sulla parabola conclusiva della guerra fredda che giunge fino al cuore della politica italiana: mentre il prestigio dell’Urss è ancora solido, il profilo è ancora quello di un modello seguito da diversi angoli del pianeta, persino un punto di riferimento irrinunciabile, la sua crisi comincia in sordina per poi diventare irreversibile e profonda. Ha così inizio il conto alla rovescia di un ordine internazionale quan­ do i sintomi sono tutt’altro che chiari e condivisi: la potenza militare di Mosca è competitiva e in via di rafforzamento (almeno nella prima fase del decennio), le economie del blocco orientale sostanzialmente reggono nonostante crepe e impedimenti, l’Occidente è ancora scosso dalle difficoltà legate alle fonti di energia e al posizionamento conflittuale

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per esercitare un controllo sulle aree considerate cruciali per giacimenti di petrolio o percorsi delle nuove comunicazioni. Nella prima metà del 1979 una crisi energetica sembra avere riportato indietro di qualche anno gli orologi della storia; nello stesso frangente la vittoria di Khomeini in Iran contribuisce in maniera decisiva a ridisegnare lo scacchiere mediorientale. Il ritorno prepotente del sacro, dato per sconfitto con superficiale anticipo e cancellato troppo presto, l’inizio dell’offensiva di un nuovo Islam che si organizza contro lo Shah Reza Pahlavi su principi di rottura: ostilità verso la monarchia e verso tutte le forme di laicismo liberale o di islamismo modernizzante. Si tratta del primo grande successo del fondamentalismo islamico sottovalutato da molti o, come sostenuto da un uomo di punta dell’amministrazione Carter, «la più seria sconfitta americana dalla fine della guerra fredda». Il tempo ha chiarito la portata di quella rottura storica4. Nel contempo l’Occidente soffre per l’aumento dei prezzi (oltre il 50% il greggio tra gennaio e giugno 1979) e per i risvolti psicologici di una crisi che mette nuovamente in di­ scussione i cardini dell’idea del progresso e dello sviluppo. Al contrario si diffondono paure legate alla precarietà e ai conflitti che attraversano la parte più ricca del globo. Da Washington s’ipotizza una forza di pronto intervento che possa tutelare interessi minacciati: un protagonismo militare come contributo decisivo per uscire dalle strettoie della crisi e per rispondere contestualmente alle mire sovietiche. Quando il destino della sfida sulle fonti di energia sembra segnato dal precipitare verso nuove guerre dagli esiti imprevedibili il vertice dei paesi industrializzati (riunito a Tokyo il 28 e 29 giugno 1979) imbocca una strada diversa, lontana dal linguaggio muscolare della corsa agli armamenti e all’accaparramento dell’oro nero: riduzione progressiva e controllata dei consumi unita alla ricerca di nuove fonti di energia. Una svolta importante che appare a distanza nella sua centralità innovativa: viene tolto il terreno sotto i piedi a chi aveva rilanciato le ragioni di una sfida finale tra i due blocchi mentre crescevano investimenti e attenzioni verso nuove risorse da cercare o costruire. Le deboli premesse di un modello di sviluppo da ripensare cominciano a incrinare le certezze della dialettica bipolare, le verità indi­ scutibili di chi si apprestava all’epilogo di una lunga sfida tra mondi, culture, strategie.

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L’impatto sulla politica italiana diventa per molti aspetti immediato mentre altre questioni avranno bisogno di tempo per maturare. La sinistra nella sua componente maggioritaria rimane convinta della possibile e per molti versi ravvicinata riforma di quello che era il socialismo reale. Un’evoluzione auspicata e sognata verso approdi compatibili con forme di pluralismo democratico. Il riferimento per molti rimane la primavera di Praga del 1968 e i processi di rinnovamento tragicamente interrotti dall’intervento dei carri armati sovietici. Quando nei primi anni Ottanta esplodono le contestazioni in Polonia attorno alle manifestazioni del movimento Solidarnosc, un sindacato guidato da Lech Walpsa che mette in discussione gli assetti interni al mondo del lavoro e i rapporti tra operai e Stato polacco, la sinistra italiana si muove nell’ottica di una possibile riforma di quel mondo. Come se un’evoluzione potesse migliorare contenuti, forme e approdi di un’esperienza comu­ nista5. Tuttavia, a Varsavia la repressione arriva inesorabile: il 12 e 13 dicembre 1981 il generale Jaruzelski proclama lo stato d’assedio. Il mondo segue con attenzione le dinamiche di uno scontro che allontana le ragioni del dialogo e della reciproca influenza6. La sinistra italiana prende le distanze senza tirare le conseguenze necessarie: non una rottura totale, ma una critica serrata di presunte storture dentro un’ipotesi ancora valida. Si accumulano quindi ritardi, incomprensioni, letture distorte di modelli che non possono che allontanare possibili evoluzioni del quadro politico interno che passa per la dialettica asfittica tra maggioranza e opposizione. Più il sistema sembra bloccato e incapace di riformarsi e più si affermano posizioni conservatrici nella convinzione (diventerà presto un’illusione) che tutto possa comunque rimanere immodificato. La mag­ giore forza di opposizione, il Pei, archiviata la stagione della solidarietà nazionale, pensa così di poter ampliare il proprio orizzonte tradizionale mettendosi alla guida di un costituen­ do fronte nuovo in grado di mediare le posizioni tra Mosca e Washington: forze e culture della sinistra storica insieme a gruppi e movimenti nati sull’onda delle istanze pacifiste in reazione alla corsa agli armamenti. Un’ipotesi suggestiva che raccoglie consensi e seguaci soprattutto tra le giovani generazioni: legare le componenti tradizionali della cultura del movimento operaio alle nuove contraddizioni del mondo capitalistico non riconducibili al binomio capitale/lavoro. Una

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saldatura difficile e discutibile: la pace, l’ambiente, la giustizia internazionale, la condizione dei paesi emergenti, il cosiddetto Terzo mondo che si affaccia sulla scena della storia in cerca di fortune e appoggi. Una stagione che vorrebbe delineare una terza via possibile tra Mosca e Washington: un ponte di dialogo per occupare uno spazio tra i due blocchi uscendo così dalle strettoie delle compatibilità interne e internaziona­ li. Per la sinistra di matrice comunista l’impresa assume ben presto il significato di una strategia di attenzione verso settori del mondo cattolico post-conciliare nella ricerca comune di nuove trame e possibili convergenze. Il segretario del Pei Ber­ linguer scommette sulla nuova prospettiva e sugli spazi aperti dalla svolta nel confronto bipolare, nei primi anni del nuovo decennio. Prende così le distanze dall’ortodossia di Mosca, si smarca dai dettami del movimento comunista internazionale per cercare una via autonoma e originale. Il Pei punta così verso il sostegno ai movimenti del dissenso interno ai regimi comunisti fino a dichiarare conclusa la spinta propulsiva del movimento comunista, pochi giorni dopo la repressione polacca. Il quotidiano del Pc sovietico condanna Berlinguer e le sue parole, la base del partito è incredula e disorientata, «lo strappo da Mosca» per quanto tardivo e incompleto segna la rottura con la tradizione, l’avvio di un’incerta e confusa ricerca di qualcosa di nuovo'. Uno spazio stretto e rischioso che sollecita neologismi e prese di posizione: un’opzione da costruire, una svolta che non era ancora praticabile, un percorso alternativo per ridimensionare il binomio amico-nemico che aveva retto e garantito il sistema della guerra fredda. Ma la terza via è una strada impossibile nel mondo di allora, indefinita e suggestiva; una presa di distanza dai giganti del dopoguerra e dalle loro ferree indicazioni, una sinergia tra Stato e mercato, tra società chiuse e libertà individuali, un incontro inedito tra elementi di un sistema e dell’altro: l’orizzonte del comuniSmo con le libertà democratiche solo per richiamare un esempio significativo della proposta politica comunista8. Il crollo dell’equilibrio bipolare non è ancora all’ordine del giorno, al contrario le tensioni tra i due blocchi si ritrovano nelle risposte al protagonismo diffuso della politica estera sovietica che aveva segnato minacciosamente il passaggio tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. Gli spazi di mediazione possibili, tanto in chiave di politica interna quanto sotto il

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profilo delle relazioni internazionali si chiudono rapidamente. Ogni ipotesi di non allineamento con le direttive dei blocchi viene accantonata e inesorabilmente messa da parte. Gli Usa si muovono in risposta alla minaccia che viene da oltre cortina: l’arrivo in Italia dei missili Pershing e Cruise rappresenta una chiave per controbilanciare l’arsenale dell’avversario, misu­ rando contestualmente la disponibilità degli alleati europei nell’accogliere le nuove testate sul proprio territorio. E sulla questione dell’installazione dei missili made in Usa si accende il confronto tra le forze politiche. Sono in gioco le alleanze militari, la collocazione internazionale dell’Italia e più in profondità la possibilità di misurare distanze, lealtà, porzioni di autonomia e sovranità. I comunisti tentano la carta del rinvio di ogni decisione vincolante: allargare il quadro delle contrarietà che si muovono nell’Europa atlantica (Germania e Regno Unito in primis, socialdemocratici e laburisti) per offrire sponde e interlocuzione a un’opinione pubblica lacerata tra appartenenze e convinzioni, tra fedeltà atlantica e movimento pacifista. Lo schema di riferimento della divisione Est-Ovest si conferma come una chiave prevalente. Il governo presieduto da Francesco Cossiga segue le indicazioni del?amministrazio­ ne Reagan raccogliendo consensi trasversali: tra i primi paesi europei a compiere il passo, l’Italia dà il via libera all’arrivo dei Cruise. Nel solco di tale indirizzo, tre anni dopo, nel 1983, l’esecutivo guidato dal leader socialista Bettino Craxi approva l’installazione di 112 missili nella base militare di Comiso, nella Sicilia orientale. Un passaggio delicato che scarica tensioni tra maggioranza e opposizione e tra il sistema dei partiti e la società mobilitata sulle parole d’ordine di un nuovo pacifismo terzomondista. Le proteste diffuse coinvolgono generazioni di italiani senza tuttavia mettere in discussione il tracciato delle scelte degli esecutivi. Cossiga ha riconosciuto all’opposizione la capacità di discutere seriamente e responsabilmente una questione così delicata, Craxi dal canto suo ha rassicurato i principali alleati con un’indicazione precisa come sigillo della sua guida dell’esecutivo. La forza militare specchio della dicotomia tra Mosca e Washington diventa l’unità di misura di una dialettica che dalla direttrice Est-Ovest s’irradia all’interno dei paesi che compongono le alleanze politiche e militari. Una tensione diffusa che coinvolge i diversi protagonisti fino al cuore del

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sistema politico italiano: maggioranza e opposizione come riflessi immediati della contrapposizione bipolare, ma più in profondità, in una complessa trama di adesioni e prese di distanza: partiti, movimenti, sindacati e singoli cittadini sono chiamati in causa dalle scelte di un tempo difficile. L’equilibrio del terrore si afferma e si consolida affiancando al volto di apparente rassicurazione e stabilità la consapevolezza che si possa precipitare in una spirale incontrollabile: misurare gli effetti degli arsenali militari diffonde inquietudini e allarmi in contesti che sembravano pacificati e stabili. Il salto di qualità riguarda le linee di frattura che compongono il dibattito sul futuro del pianeta. A quelle tradizionali e consolidate (EstOvest, la Nato e il Patto di Varsavia, maggioranza-opposizione) si affiancano e si sovrappongono questioni che tagliano tra­ sversalmente le storiche identità e appartenenze. Anche l’uso dei termini riflette la portata della fase nuova: americanismo o antiamericanismo, pacifismo o imperialismo, autonomia o subalternità. Tutto appare in movimento mentre lo scontro tra le superpotenze definisce un nuovo scenario fatto di apparte­ nenze, opposizioni e tanti distinguo che si manifestano all’in­ terno degli schieramenti che avevano segnato e condizionato il dopoguerra europeo. E dallo scontro tra simboli, modelli economici, armamenti utilizzabili e mostrati con orgoglio si passa alla conquista dello spazio come terreno privilegiato di una competizione inarrestabile. Un crescendo di possibilità distruttive e di capacità tecnologiche per misurare gli esiti del confronto e per convincere eventuali interlocutori della pre­ dominanza dell’uno sull’altro. Gli ultimi fuochi delle logiche bipolari segnati dal tentativo di rilanciare le ragioni indiscusse di un equilibrio condiviso fondato sul terrore e sulle paure. Nell’aprile 1981 la navetta spaziale statunitense Shuttle va in orbita: oltre ai missili e alle loro traiettorie potenziali, lo spazio riprende una sua centralità riconoscibile e attraente. Di converso, la strategia sovietica per conquistare il control­ lo dello spazio o degli strumenti che lo popolano prevede lanci sperimentali ripetuti, volti a costruire e utilizzare una stazione orbitante permanente. Ogni iniziativa è motivo di ammirazione o frizione, si prende parte alla sfida, si parteci­ pa in un’inconsapevole gara che presenta una condizione di apparente equilibrio. In sintesi, non era immaginabile quanto fosse vicina la fine di quel mondo, di un sistema bilanciato

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diventato col tempo un dato acquisito e incontrovertibile. Una forte spallata arriva dall’annuncio di un progetto ambizioso che avrebbe stravolto le condizioni dell’equilibrio presente. Il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan nell’aprile del 1983 dichiara di lavorare alacremente alla costruzione di uno «scudo spaziale» capace di intercettare i missili sovietici e di alzare di conseguenza il livello di protezione del suolo e della popolazione statunitense. Una conferma della priorità sicurezza, ma una contestuale minaccia in grado di modifi­ care sensibilmente gli equilibri del terrore. La distanza tra lo spazio, l’orbita terrestre e la politica italiana è breve, in poco tempo il confronto sulle guerre stellari riaccende tensioni e aspirazioni di tanti incuriositi dagli effetti dell’iniziativa ame­ ricana e dalle risposte del campo avverso. Anche in questo caso l’apparenza inganna: governo e opposizione confermano le rispettive collocazioni, con gli Usa da una parte, con il mondo che si oppone al progetto di Reagan dall’altra. Ma a ben guardare i campi sono attraversati da interrogativi e di­ stinguo, non tutti si allineano con immediatezza automatica, la dialettica internazionale rimbalza fino al fulcro delle forze politiche pronte a sostenere posizioni ritenute vantaggiose o efficaci in un’ottica di consenso nazionale. L’equilibrio del terrore diventa un canale di legittimazione e confronto nazio­ nale, utile a misurare un sostegno presunto, posizionamenti o ambizioni interne a segmenti più o meno estesi del sistema politico repubblicano. Posizioni immodificabili in teoria, che in pratica si muovono per trarre vantaggi e privilegi dalle nuove tensioni internazionali. Ogni segnale di novità merita attenzione e commento. Quando ai primi di settembre 1983 un caccia dell’aviazione sovietica abbatte un Boeing 747 sudcoreano in volo sullo spazio aereo controllato da Mosca, provocando 269 morti, le tensioni reciproche - fino allora tenute sotto controllo - diventano le premesse di una vera e propria escalation. La Corea aveva rappresentato sin dai primi anni Cinquanta un banco di prova delicato dell’ordine bipo­ lare e della divisione geografica e politica in sfere d’influenza controllate e gestite dalle superpotenze. Dal governo italiano vengono pronunciate parole di condanna inequivocabili: l’abbattimento appare come una dichiarazione di guerra, un gesto ingiustificabile. Perdono la vita civili innocenti e dalla Casa Bianca l’attacco viene definito «un atto di barbarie».

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Le risposte non si fanno attendere, anche se, contrariamente a ciò che trapela dalle prime reazioni, l’opzione militare non rientra tra le priorità immediate deH’amministrazione statuni­ tense. Pochi giorni dopo il Dipartimento di Stato americano impedisce al ministro degli Esteri sovietico Andrey Gromiko di mettere piede negli Usa: non può quindi prendere parte a una seduta delle Nazioni Unite nel palazzo di vetro a New York. Crisi politica, militare e riflessi diplomatici che alzano il livello dell’attenzione e dell’allerta. Tuttavia, dopo il forte impatto iniziale, la questione torna progressivamente sotto controllo tanto che Ronald Reagan sceglie la Corea come meta di una visita di Stato nel mese di novembre. Il pre­ sidente atterra in un teatro consolidato della guerra fredda dopo che migliaia di marines avevano rovesciato a Grenada un tentativo di instaurare un governo filocubano. Il culmine della visita nella penisola contesa è il passaggio del presidente lungo la linea di confine del trentottesimo parallelo. Un segno chiaro di difesa delle prerogative statunitensi in un contesto di crisi, la conferma di un perimetro di confronto condiviso con l’antagonista sovietico. La guerra fredda rappresenta in questo caso - è una delle ultime occasioni prima del crol­ lo - una risorsa per ristabilire un ordine valido e approvato e un rifugio contro mire espansionistiche o tentazioni aggres­ sive. L’attacco contro il volo di linea viene così rapidamente archiviato, mentre le novità che scuotono il mondo comunista modificano l’immagine di gigante statico e in buona salute che aveva accompagnato il mondo sovietico nella prima parte degli anni Ottanta. Con i rischi di una sintesi eccessiva, mentre si avvicina la metà del decennio le relazioni tra i due blocchi si mantengono in tensione costante senza che il salto di qualità nella dialettica amico-nemico determini situazioni ingestibili o incontrollabili. Ma il quadro interno dei due paesi comincia a mutare in modo irreversibile; l’immagine di un campo di forze bilanciato svanisce nello spazio breve di pochi anni. Il reciproco timore dell’equilibrio del terrore perde la sua carica ordinatrice e paralizzante. Il riflesso in Italia è immediato, alle premesse della crisi del blocco comunista segue la ricerca di un’interlocuzione più aperta, meno legata alle rigidità di un passato che non rassicura, non offre né certezze né prospettive credibili. E da Mosca iniziano ad arrivare le prime informazioni su un

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cambiamento di fase che si avvicina inesorabile. Agli inizi del 1984 muore Jurij Andropov, da due anni al vertice del Pcus. La successione premia Konstantin Cernenko, affiancato da un giovane leader emergente, proiettato sulla scena internazionale: Michail Gorbacév. Sarà lui il protagonista di una nuova fase della storia delPUrss, e del suo epilogo conclusivo. Una figu­ ra che appare fuori dagli schemi tradizionali del Politburo, capace di costruire una fitta trama di relazioni e rapporti con interlocutori collocati al di qua e al di là della cortina di ferro. Un personaggio chiave che mostra un volto disteso e affabile pronto a dedicarsi al rinnovamento di un mondo chiuso e per molti versi impenetrabile. A soli 54 anni, viene eletto segre­ tario generale del partito l’i l marzo 1985, ad appena tre ore dalla morte di Cernenko9. Si apre una fase di discontinuità di uomini, metodi e atteggiamenti. Il nuovo leader punta a un consenso ampio, costruito anche fuori dai confini nazionali e dalle compatibilità del partito/Stato. Sembra un nuovo inizio per tanti, più che l’epilogo incombente di una storia iniziata con la rivoluzione del 1917. La sinistra europea (d’ispirazione socialista e socialdemocratica) e le componenti diverse della sinistra italiana dialogano e scommettono su nuovi rapporti di forza; Gorbacév parla e scrive di Casa comune europea, di sicurezza internazionale, mette in risalto i tempi dello sviluppo e delle sostenibilità ambientali, usa terminologie moderne e accattivanti: l’interdipendenza come destino co­ mune dell’umanità10. Sembra per molti giunto il momento di quel rinnovamento necessario e possibile auspicato nel 1956 o nel 1968 e soffocato nel sangue della repressione. Il capo del Cremlino si sposta frequentemente da un paese all’altro, attraversa continenti e contesti politici per affermare le pos­ sibilità di un rinnovamento del mondo comunista. Paradosso crudele di un tempo inqueto: al suo grande consenso esterno, alla credibilità e al carisma che lo accompagnano non corri­ sponde un disegno adeguato e percorribile. Le contraddizioni esplodono quando la dimensione globale dei processi travolge confini ed equilibri del campo comunista: mercati, democrazia, modelli culturali, libertà individuali, ingredienti che il nuovo leader proietta in un contesto nazionale (plurinazionale per la composizione dell’Urss) che non è né pronto né capace di conviverci. Pochi anni e tutto verrà messo in discussione fino alle estreme conseguenze di fine decennio. Sull’altro versante

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del confine bipolare si consolida uno scenario di segno opposto: Reagan si conferma nelle elezioni presidenziali di novembre 1984. Inaugura il secondo mandato con il 60% dei consensi, rinsaldando posizioni, antiche alleanze e stringendone di nuo­ ve: il dialogo con Mosca ha luogo da una posizione di forza. Percorsi differenti tra Mosca e Washington avviati verso lo scorcio conclusivo della guerra fredda, potenze asimmetriche in una dialettica che condiziona direttamente schieramenti e prospettive della politica italiana11. 2. Una lenta agonia La nuova guerra fredda dell’inizio degli anni Ottanta contribuisce a polarizzare le tendenze della politica italiana. Si chiudono rapidamente ipotesi di collaborazione tra diversi, di coalizioni ispirate a compromessi più o meno storici, mentre si rafforza la contrapposizione lungo l’asse amico-nemico12. Il 1979 scorre attorno a due appuntamenti elettorali ravvicinati: il 3 giugno le elezioni politiche e una sola settimana dopo il primo voto a suffragio per il Parlamento europeo. Il Partito comunista flette attestandosi sopra il 30% alla Camera, più di 4 punti in meno rispetto al 1976. I radicali raccolgono parte del voto comunista in uscita superando il 3 %. Il quadro politico appare in movimento, con il consenso giovanile che non premia le op­ posizioni: il Pei va sensibilmente meglio al Senato. Ma la spallata più significativa viene dal leader socialista che nel settembre del 1979 a margine di un incontro con Berlinguer comunica la sua idea di lavorare a una grande riforma dello Stato e della sua architettura complessiva. Mettere quindi all’ordine del giorno del sistema politico repubblicano la necessità di rivedere assetti e competenze. Una riforma che avrebbe interessato e coinvolto diversi ambiti: istituzionale, amministrativo, economico, sociale e morale. Una nuova pagina per un sistema in affanno che aveva l’ambizione - e forse anche il limite - di puntare a un disegno unitario e coerente, una grande riforma ispirata da un auspicato spirito costituente. Così il protagonismo di un leader in ascesa si misura su questioni delicate che attraversano schieramenti e forze politiche13. Le prime contrarietà vengono da ambienti vicini al gruppo dirigente socialista, personalità che non sono state coinvolte, o dirigenti che tentano di disarcionare il gio­

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vane segretario. Bettino Craxi riesce nella sfida di difendere e modificare la sua maggioranza interna, ma il dibattitto sulla prospettiva che avrebbe mobilitato e coinvolto tutte le forze politiche e sociali disponibili per un’opera di trasformazione sociale, istituzionale e di progresso, rimane un’avventura ipo­ tizzata senza riscontri, verifiche, passi concreti14. Le opposi­ zioni di vario tipo (interne al partito e soprattutto esterne alle dinamiche del gruppo dirigente socialista) si uniscono e nella dialettica prolungata tra l’ambizione di un grande progetto innovativo e la forza della conservazione statica dell’esistente, tutto viene rimandato a un domani imprecisato. Di certo la leadership socialista si rafforza e la morsa dell’incontro storico tra democristiani e comunisti si scioglie definitivamente ria­ prendo così scenari favorevoli a coalizioni composite che non mettono in causa il confine delle appartenenze della guerra fredda. Un nuovo centrosinistra - come molti cominciano a chiamarlo - con i comunisti e le destre all’opposizione e una maggioranza, con i soliti problemi di numeri risicati, attorno al perno della Democrazia cristiana15. Nel 1980 una dura vertenza alla Fiat si conclude con una marcia di quarantamila quadri e impiegati che sconfessa le posizioni e le modalità di mobilitazione della classe operaia. Lo scontro frontale si ridimensiona, la classe operaia perde progressivamente centralità e peso politico16. Su un altro versante si manifesta il protagonismo di settori della società italiana coinvolti dalla sfida su quesiti referendari. Con l’esito dei referendum del 17 maggio 1981 rimane in vigore la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza (approvata dal Parlamento nel 1978) con il 68% di No a fronte di un’af­ fluenza pari al 92% degli aventi diritto. Contestualmente ven­ gono respinti i quesiti sull’abolizione dell’ergastolo, del porto d’armi, e sulle norme speciali per contrastare l’emergenza del terrorismo politico. Pochi mesi dopo le Camere intervengono per cancellare l’estinzione del reato di stupro in caso di nozze riparatrici, anche se ci vorranno altri quindici anni per giungere a definire i confini della violenza sessuale stabilendo di conseguenza fattispecie, reati e pene. Un cammino complesso segnato dalla forza del protagonismo femminile e dalle spinte verso un allargamento progressivo e consapevole dei confini della cittadinanza17.

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Ma ben altri poteri influenzano i tortuosi percorsi della politica nel nuovo decennio. Nel cuore dell’estate una bomba esplode alla stazione centrale di Bologna. Il 2 agosto 1980 alle ore 10.25 il tempo sembra fermarsi. È una strage: 85 morti, oltre 200 feriti. Tornano interrogativi sui depistaggi e sulla pista neofascista degli ordigni contro la popolazione. Ai primi di ottobre del 1980 Licio Celli, un semisconosciuto imprenditore e faccendiere, in un’intervista dalle colonne del «Corriere della Sera» torna a parlare del potere granitico e oc­ culto di una loggia massonica di cui era «il capo indiscusso»18. Un potente strumento di condizionamento della politica, un gruppo variegato tenuto insieme da progetti eversivi e trame destabilizzanti. Poco tempo dopo, in occasione delle indagini sul rapimento misterioso di un banchiere legato ad ambienti della maggioranza, gli inquirenti trovarono l’elenco degli ap­ partenenti alla loggia segreta P2 (Propaganda Due, aderente al Grande Oriente d’Italia), all’interno della fabbrica «La Gioie» di proprietà di Licio Gelli in località Castiglion Fibocchi, presso Arezzo. La lista viene resa pubblica il 20 maggio 1981, tre giorni dopo la tornata referendaria; ne consegue un terremoto senza precedenti: politici, imprenditori, uomini dello Stato e dei servizi, rappresentanti delle forze armate o della magistratura. Un insieme di poteri occulti sottratti ai controlli e ai condizionamenti delle regole democratiche. Un intreccio complicato, perverso, pieno di zone d’ombra nonostante indagi­ ni, ricostruzioni storiche, inchieste giornalistiche e commissioni parlamentari19. Anche le coincidenze temporali contribuiscono a diffondere interrogativi inevasi che si proiettano sugli anni e i decenni successivi. Il giorno della comunicazione pubblica sul contenuto degli elenchi della P2 viene arrestato con l’accusa di esportazione illecita di capitali il banchiere Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano. Figura di punta della finanza cattolica (insieme a Michele Sindona), aveva stretto relazioni con l’Istituto per le Opere di Religione (Ior) del Vaticano guidato da monsignor Marcinkus, attraverso il quale avrebbe finanziato illegalmente Solidarnosc in Polonia e altre forze attive nel campo dell’anticomunismo di varia natura. L’anno dopo - nel giugno del 1982 - Roberto Calvi viene ritrovato senza vita sotto il ponte dei Domenicani (Blackfriars Bridge) a Londra, impiccato in circostanze ancora da chiarire. Il collegamento tra Calvi e Gelli, tra finanza cattolica e ambienti

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massoni sembra essere Michele Sindona con la sua rete di imprenditori e politici di area andreottiana o di riferimento in settori della classe dirigente. Una sorta di terribile trama da romanzo giallo: Sindona scappa negli Stati Uniti fingendo di essere stato rapito, viene successivamente estradato per far ritorno in Italia fino all’epilogo (suicidio?) nel supercarcere di Voghera per avvelenamento. La commissione parlamentare che ha indagato sulla vicenda si è divisa pur consolidando alcuni giudizi significativi. Conclusioni che dalla biografia del banchiere criminale, legato ad ambienti malavitosi al di qua e al di là dell’oceano, si spinge fino a descrivere uno spaccato inquietante di trame e manovre che accompagnano la storia d’Italia di quegli anni, nello scorcio conclusivo della guerra fredda. Nel testo approvato a maggioranza si può leggere che nel biennio 1978-1979 Michele Sindona aveva posto in essere atti e comportamenti addirittura criminali che erano culminati nell’assassinio dell’avvocato Ambrosoli e nel suo fal­ so rapimento dell’agosto del 1979, che aveva sollevato il velo su un inquietante scenario di ambienti massonici, droga, progetti di golpe, speculazioni edilizie e finanche riciclaggio di denaro sporco20.

Ma in un passaggio successivo le conseguenze vengono attenuate e limitate all’uomo in questione più che all’ambiente nel suo insieme. Una distinzione sottile ma impegnativa che avrebbe in sostanza assolto il sistema politico e le sue regole condannando nel merito comportamenti e legami dell’imputato in questione. Lo scontro tra giudizi contrapposti, tra mag­ gioranza e opposizione riflette tale tensione fino alle parole conclusive della stessa relazione di maggioranza che escludono una trama più articolata e consapevole: Sindona non era in alcun modo la rappresentazione di un momento di degradazione di uomini e istituzioni del nostro paese e sarebbe stato ingiustamente diffamatorio affermare che esse fossero state piegate per fellonia di esponenti politici o amministratori ai torbidi disegni di Sindona21.

Una difesa d’ufficio che non convince tutti in Parlamento e soprattutto nel paese. La relazione di minoranza, al contra­ rio, sembra un atto d’accusa che non risparmia interlocutori potenziali, politici e ambienti governativi. Giudizi che dal caso specifico puntano ad allargare il quadro delle considerazioni e

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degli effetti. Giulio Andreotti viene indicato come l’uomo poli­ tico che prima e dopo il crack dell’Ambrosiano ha intrattenuto rapporti e relazioni costanti con il banchiere. Simbolo della continuità del potere democristiano e al tempo stesso emblema delle anime e divisioni che caratterizzano lo scudocrociato (il quinto governo Andreotti era entrato in crisi nella primavera 1979, rimasto in carica 11 giorni prima di indire le elezioni politiche). Nelle considerazioni conclusive di minoranza viene affermata la convinzione che Sindona era figlio di un sistema di potere e come tale non c’era dubbio che un punto d’incontro dei «poteri occulti» e dei «poteri le­ gittimi» erano pezzi del sistema finanziario che in Italia erano privati, pubblici, laici, «religiosi», ma sempre ai margini della legge. Sindona era quindi un simbolo di questa realtà, ma non l’eccezione22.

Ecco il punto dirimente di un confronto lacerante che si trascina per molto tempo con gravi conseguenze per la tenuta complessiva del sistema democratico: un’eccezione grave e limitata, una mela marcia da combattere, o, al contrario, come sostengono le opposizioni un sistema strutturalmente corrotto e corruttibile dove la politica si lega all’economia in modi per­ versi e incontrollabili. Al di là degli effetti sul caso specifico di inizio anni Ottanta tali interrogativi rimbalzano fino a mettere in questione aspetti costitutivi dell’architettura costituzionale contribuendo così a incrinare il rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni, tra lo Stato e le sue prerogative fondamentali in un lento ma inesorabile distacco. Le parole di condanna, i termini di giudizio delle commissioni che hanno indagato su illeciti, strane fughe, omicidi coperti, non sempre hanno contribuito a mantenere distinti compiti e funzioni: la politica dalla giustizia, la ricerca delle responsabilità individuali da un giudizio più approfondito e sereno su un’intera fase storica. La P2 simbolo di trame irrisolte, di manovre ipotizzate (il fantomatico piano di rinascita democratica che avrebbe spodestato e sostituito poteri costituiti) e di legami mai recisi tra settori qualificati di classe dirigente. La tenuta della Repubblica dei partiti comincia ad apparire incerta, minacciata da più parti, esposta ai venti ostili di forze antisistema che si annidano nei gangli dei poteri dello Stato23. Difficile costruire risposte immediate, i partiti difendono le strategie di un cammino condiviso nonostante

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differenze e contrasti. La dialettica tra maggioranza e oppo­ sizione si snoda attraverso le strettoie di un sistema politico bloccato e i contraccolpi rilevanti di rivelazioni e inchieste sul segreto e influente mondo dei poteri occulti e delle trame che lo agitano. Le rivelazioni impreviste sulla P2 e i suoi componenti scuotono la politica. Il governo presieduto da Arnaldo Forlani (un centrosinistra ampio per forze politiche partecipanti, ma risicato per i numeri in Parlamento) si dimette nell’estate 1981 dopo oltre 200 giorni di navigazione burrascosa. Le critiche sono trasversali e di varia natura: sulla segretezza delle notizie trapelate, sulla necessità di chiarire i rapporti tra poteri dello Stato, sulle fratture interne ai partiti che vedono propri esponenti tra gli aderenti alla loggia massonica. Una miscela di ragioni, risentimenti, giudizi fortemente critici. Il segno prevalente di una rottura di credibilità e consensi senza precedenti: una discontinuità sistemica. Viene così individuato un itinerario di svolta possibile, indicando un laico, un non democristiano come Giovanni Spadolini per la prima volta alla guida defl’esecutivo. Nel dibattitto sulla fiducia non mancano le critiche all’operato della magistratura e alle modalità che ave­ vano accompagnato le inchieste più controverse. Prendono la parola politici che sono tra i presunti affiliati alla P2, lo scontro si polarizza lungo l’asse potere esecutivo/potere giudiziario. Con una sorprendente componente di provocazione, al limite della rottura istituzionale, settori della maggioranza ipotizzano e propongono di mettere la magistratura sotto una forma di controllo del potere politico a tutela e beneficio dell’esecutivo e delle proprie prerogative. Un vero e proprio braccio di ferro tra poteri dello Stato che dal confronto parlamentare di allora accompagnerà il corso futuro della storia della Repubblica. Da un lato la tesi di poter controllare le azioni della magistratura minando quindi l ’autonomia costitutiva di un corpo costitu­ zionale; dall’altro la ricerca di un equilibrio difficile in grado di ridimensionare protagonismi diffusi o tribunali improvvisati o mediatici. Un nervo scoperto che con insistente ciclicità si ripresenta magari in forme nuove o con protagonisti differenti durante anni e decenni successivi. Nel quadro di una tensione così lacerante nasce il governo Spadolini: coalizione di centrosinistra a guida repubblicana. Una vera e propria innovazione non tanto nella formula di alleanza (sostanzialmente invariata) quanto negli equilibri tra

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i partiti e nella presenza di un non democristiano al vertice di Palazzo Chigi24. La crisi della centralità del partito di mag­ gioranza relativa che affonda le radici a partire dalla metà degli anni Settanta trova nuove conferme. Spadolini, almeno agli inizi, gode di un sostegno diffuso che accomuna coloro che pensano sia necessario innovare, mostrare che non tutto il sistema politico è marcio e che le risorse per rispondere al ricatto di scandali e veti incrociati siano ancora sufficienti e utilizzabili. Due le emergenze del nuovo governo in carica dalla fine di giugno 1981: il peso degli scandali e della que­ stione morale che coinvolge partiti e istituzioni e la situazione economica che non promette nulla di buono visto che nel marzo che precede la fiducia all’esecutivo, la lira subisce una svalutazione del 6%. Ridimensionata l’eco delle manovre eversive e antisistema, la crisi economica diventa la priorità indiscussa. L’orizzonte dell’esecutivo (Giorgio La Malfa è al Bilancio mentre un brillante economista, già consigliere di Aldo Moro, Beniamino Andreatta, al Ministero del Tesoro) appare quello della riduzione della spesa, del contenimento progressivo delle uscite che rischiano di mettere in questione il bilancio dello Stato. Ma l’orizzonte ambizioso non collima con le compatibilità ristrette di maggioranze deboli, eterogenee e litigiose. In breve quella fiducia iniziale a favore di una svolta innovativa si esaurisce, si consuma rapidamente. L’esecutivo entra in fibrillazione per conflitti tra i dicasteri economici e per le polemiche reiterate tra socialisti e democristiani. Alla crisi dell’agosto 1982 segue la formazione di un esecutivo identico che riesce faticosamente ad arrivare fino al mese di novembre. Un’estate calda e difficile per la politica italiana esposta alle debolezze di una stagione instabile e complicata. Il paese è attraversato dall’entusiasmo contagioso per il sorprendente successo ai mondiali di calcio spagnoli, con il presidente della Repubblica Sandro Pertini che festeggia in tribuna allo stadio Santiago Bernabeu la vittoria nella finale con la Germania, al fianco del Re di Spagna. Ma l’ottimismo di una rinascita possibile non spezza il muro di sfiducia che attanaglia settori significativi della società italiana. Il calcio, sport nazionale che unifica e rassicura, appare come un antidoto potente ma mo­ mentaneo. La crisi economica morde e il quadro politico non trova la strada per stabilizzarsi: alla crisi del secondo governo Spadolini fa seguito il breve ritorno di Amintore Fanfani che

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non riesce a contenere le frizioni della sua fragile maggioranza. Con l’uscita dall’esecutivo del Partito socialista non rimane altra strada che quella di tornare a dar voce agli elettori: un nuovo appuntamento elettorale per misurare rapporti di forza, verificando contestualmente la possibilità di dar vita a maggioranze parlamentari. Problemi antichi e radicati che si ripresentano in un nuovo scenario. Le elezioni politiche vengono fissate per il 26-27 giugno 1983. Il responso delle urne conferma la sofferenza di un si­ stema esausto. La De paga il prezzo più alto perdendo più di 5 punti percentuali (si attesta alla Camera poco sotto il 33% dei consensi); la flessione comunista porta il maggiore partito d’opposizione sotto il 30%. Spadolini contribuisce alla cresci­ ta del consenso repubblicano fino alla cifra considerevole del 5,1%. Di converso la quota di consenso al Partito socialista non sembra premiare il protagonismo emergente di Bettino Craxi; i rapporti a sinistra restano inchiodati alle distanze tra i partiti tradizionali del movimento operaio senza che si pro­ fili quel riequilibrio che la nuova stagione socialista voleva inaugurare. Ma il dato più significativo che allora non viene valutato per quello che merita e per il peso che avrà nell’Ita­ lia dei decenni successivi è il consenso a una formazione po­ litica territorialmente definita, con un’identità radicata: la Liga veneta che supera il 4% nella regione dove, si presenta. Il crollo della De in una delle zone più ricche e sviluppate del paese sfiora l’8% dei consensi, la Lega raccoglie così un voto di protesta (contro Roma, lo Stato, i meridionali) e inizia a erodere il consenso che la «balena bianca» democristiana aveva consolidato in una regione chiave del Nord-Est. L’esor­ dio della Liga non allarma più di tanto, sembra un diversivo locale con contenuti innocui e inattuali: il localismo, le picco­ le patrie, la rivolta contro il centralismo che opprime e ingab­ bia sensibilità, culture e soprattutto risorse. L’inizio del tra­ monto della De si accompagna - in una regione chiave come il Veneto - alla costruzione d’istanze rivendicative che pro­ muovono in un arco di tempo breve una classe dirigente al­ ternativa e conflittuale con le tradizionali stratificazioni dei partiti di governo25. Il passaggio elettorale - nonostante i cambiamenti nei rapporti di forza - non modifica il quadro composito del Parlamento nel quale la costruzione di una maggioranza risulta

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impresa complicata. Il 4 agosto le Camere danno il via libera al primo governo a guida socialista, Bettino Craxi presiede una coalizione pentapartito. La De mantiene ministeri chiave oltre alla vicepresidenza del Consiglio nella persona di Ar­ naldo Forlani. Andreotti va agli esteri, Oscar Luigi Scalfaro agli Interni. Coalizione politicamente indebolita dai numeri e dal trascorso di simili tentativi e progetti di collaborazione tra diversi; rinvigorita dal protagonismo e dalla forza del presidente del Consiglio. Si succedono due governi Craxi, fino alla conclusione della parabola socialista a Palazzo Chigi nel marzo 1987. Il sistema rimane così in bilico tra ipotesi di rinnovamento profondo (grandi riforme, alternanza tra mag­ gioranze alternative, ridefinizione dei poteri costituzionali) e una stanca prosecuzione di esperienze che non riescono a invertire un senso di precarietà e incertezza. Difficile investire su politiche di lungo periodo quando i numeri sono impietosi, complicato intervenire con misure impopolari con una base sociale ristretta, rischioso approfondire contenuti e program­ mi quando le divisioni attraversano partiti, correnti interne e segmenti più o meno ampi della coalizione. Nella laboriosa costruzione della coalizione di governo tra socialisti e democri­ stiani il rischio è quello di scaricare all’interno dell’esecutivo la dialettica fisiologica tra governo e opposizione come se tutto possa avvenire alfinterno di un’alleanza politica o aH’interno dei singoli partiti composti da correnti in perenne competizione tra loro. La discontinuità di una guida laica o socialista (dal 1981 al 1987, dal primo governo Spadolini al secondo governo Craxi) per una coalizione composita è un tentativo che merita attenzione, tenuto insieme da due diverse ragioni e finalità. La prima è quella di innovare il quadro politico, ridimensionare il peso della De riaprendo una dialettica nell’area di governo per limitare l’egemonia storica del maggior partito italiano26. Una nuova formula e soprattutto un’inedita guida per contrastare (o tentare di farlo) sfiducia, distacco, estraneità. La seconda, in continuità con i lasciti del primo centrosinistra, quello a cavallo tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, interviene sulla difficile ricerca di una maggioranza in Parlamento per dare stabilità dove sembra difficile costruirla, per dare credibilità e certezze in una fase difficile dell’economia internazionale. Una costruzione in parte nuova che si appoggia sulla possibilità di affrontare un antico problema: la debolezza di politiche

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segnate più dall’emergenza che dalla capacità di pensare e progettare il futuro. La De soffre la morsa tra l’opposizione comunista e l’acme (1979-1983) del protagonismo del leader socialista. In prima istanza, dopo la tragica fine di Moro, il partito aveva stigmatizzato la politica craxiana e preso le di­ stanze dall’incarico offerto per la prima volta a un socialista. Sembra un rovesciamento totale della solidarietà nazionale e soprattutto una conferma ineluttabile della fine della centra­ lità democristiana. Solo con il Congresso del febbraio 1980 si afferma una linea politica figlia di una fase nuova. Una sorta di congresso risolutivo nel quale la maggioranza arriva al 57% , fotografando così un partito diviso quasi a metà. Un raro momento di chiara spaccatura attorno a una proposta politica condizionante. Come il Congresso di Napoli del 1962 che aveva dato il via libera alla politica di Moro e Fanfani per il primo centrosinistra, le assise di Roma si concludono sulla linea del cosiddetto «preambolo»: chiusura nei confronti dei comunisti, archiviazione della breve stagione della solidarietà nazionale, riavvicinamento e attenzione verso il cammino dei socialisti segnato dalla nuova leadership emergente27. Uno dei principali protagonisti della svolta è Carlo Donat-Cattin, diri­ gente di punta dello scudocrociato, padre di un militante del gruppo terroristico di Prima Linea, arrestato alla fine dell’anno nell’inchiesta per l’uccisione del giudice Emilio Alessandrini. La strada del preambolo si pone in antitesi rispetto alla tessitura che Moro aveva dedicato al Pei berlingueriano; nei contenuti di alcuni proponenti prevalgono accuse per presunte responsabilità nella nascita e nello sviluppo del terrorismo rosso o anche critiche alla gestione dell’affaire Moro nei giorni del sequestro. Risentimenti e ostilità nei confronti del tratto di strada comune con i comunisti uniti alla sorpresa di un’affer­ mazione congressuale nella quale i prosecutori potenziali della solidarietà nazionale si ritrovano in minoranza e - come nel caso di Benigno Zaccagnini duramente provato dall’epilogo della vicenda Moro - lasciano la scena. Si sommano in un passaggio così delicato ragioni antiche e circostanze momentanee: il peso del risultato negativo delle elezioni del 1979, il protagonismo attraente di Bettino Craxi, il rischio del ridimensionamento del ruolo del partito e in modo significativo il condizionamento internazionale della nuova guerra fredda che da Mosca aveva rimesso in moto ambizioni e progetti contrastanti. In questo

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quadro maturano i tentativi di aprire la De agli esterni, lavo­ rando a un possibile e per molti versi irrealistico rinnovamento del partito e della sua cultura politica28. Così, dalla breve collaborazione tra i due principali partiti italiani, immagini ridotte della contrapposizione bipolare, si passa a uno scontro esplicito e dichiarato. Speculari le mosse dei due gruppi dirigenti: la De sceglie il preambolo rilanciando le ragioni del centrosinistra e offrendo così un endorsement indiretto per chi si appresta a guidare l’esecutivo (un repub­ blicano e poi un socialista, la fine della guida ininterrotta del governo da parte di esponenti dello stesso partito dal 1945). Sull’altro versante il gruppo dirigente comunista in risposta al preambolo democristiano precisa i contenuti della nuova fase con la «seconda svolta di Salerno» all’indomani di un terribile terremoto che colpisce le regioni meridionali il 23 novembre 1980. L’opposizione poteva e doveva aspirare a governare il paese: non insieme alla De, cercando la sua legittimazione ma in alternativa al partito che aveva retto le redini dell’esecutivo dalla fine del secondo conflitto mondiale. Non insieme quindi, ma contro ciò che la De rappresentava nel paese e nella sua proiezione internazionale. Chi osserva con attenzione e interesse le mosse della politica italiana da oltre oceano si accorge della mutazione significati­ va. Il Dipartimento di Stato americano utilizza ripetutamente parole inequivocabili: centralità del nuovo corso socialista, interesse per una leadership dinamica e decisionista in ascesa, polarizzazione tra comunisti e democristiani, scontro a sinistra tra Pei e Psi e, con allarmi reiterati, una nuova instabilità che non promette nulla di buono29. 3. Una strana modernità La fine della solidarietà nazionale e quindi la crisi defi­ nitiva del compromesso storico tra i partiti più rappresenta­ tivi dell’arco costituzionale ripropone il tema dell’instabilità complessiva del sistema politico. La contraddizione è evidente e carica di conseguenze: i costi della crisi economica, a co­ minciare dall’aumento del prezzo del petrolio, mettono il sistema in una condizione delicata che avrebbe bisogno di una capacità d’intervento e di decisione politica efficace e imme­

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diata. Al contrario la politica risponde in modo inadeguato alle sollecitazioni di una fase che non può essere ricondotta alla gestione dell’esistente, alla difesa di posizioni acquisite o centralità ereditate. La stessa natura delle coalizioni soffre per la perdita progressiva di un orizzonte comune, di un disegno capace di motivare scelte, indirizzi e approdi possibili. Le coalizioni, da collaborative e complesse, tendono a diventare conflittuali scaricando al proprio interno tensioni e prospettive non componibili. Al tramonto di collaborazioni politiche con progetti unificanti, dopo l’emergenza della solidarietà nazio­ nale prevale la mera (e talvolta spregiudicata) ricerca di una maggioranza parlamentare che possa garantire uno spazio per singoli protagonisti o aspiranti tali, partiti o correnti interne in costante dialettica tra loro in una patologica confusione di ruoli tra maggioranza e opposizione. Il conflitto e il confronto democratico si spostano dentro le coalizioni di governo esclu­ dendo così una buona parte della rappresentanza e favorendo la paralisi connessa a una democrazia bloccata. Così i governi a guida laica (repubblicana e socialista) devono affrontare le emergenze dell’economia italiana in una condizione inedita: un disegno politico debole immerso in una realtà economica particolarmente complicata. Il primo banco di prova riguarda l’approvvigionamento energetico. Sin dalla metà degli anni Settanta risulta prioritario diminuire la dipendenza dal petrolio. A seguito delle tensioni internazionali del biennio 1979-1980 il prezzo del barile au­ menta fino al 70%. Un’impennata imprevista che determina nuovi problemi su economie nazionali già indebolite. Il deficit della bilancia commerciale italiana registra incrementi consi­ stenti e costanti, la dipendenza dalle importazioni di energia si fa sentire come dato strutturale30. Nella seconda metà del 1981, dopo l’avvio di un programma per la costruzione di quattro centrali nucleari, il nuovo piano energetico prevede un progetto Enel volto a potenziare impianti termici e a carbone. Il quadro economico generale rimane sospeso tra ipotesi contrapposte. I protagonisti della stagione degli anni Ottanta con orgoglio hanno rivendicato il merito di aver salvato un sistema agoniz­ zante, mentre venivano scaricati costi e lasciti impegnativi sulle generazioni successive. Parallelamente, proprio in quegli anni cambia la geografia economica: lo sviluppo industriale inizia a coinvolgere, soprattutto attraverso la diffusione della piccola

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e media impresa, nuove zone della penisola; la cosiddetta «Terza Italia» che entra così nel tempo della produzione di qualità31. Buona parte delle regioni del Centro, unite a seg­ menti significativi del Mezzogiorno, attraversano una tappa della modernizzazione, mentre il Nord più avanzato entra in una fase post-fordista (Lombardia e Piemonte) e una larga parte del Mezzogiorno più profondo (Calabria, Basilicata, Sicilia) resta palesemente indietro. Una parziale ma signifi­ cativa ristrutturazione del mondo dell’impresa che produce cambiamenti nel modo di produrre, all’interno dell’universo lavorativo spingendo a un rinnovamento generazionale di quadri e rappresentanze sindacali. Una nuova stratificazione della classe operaia in parte cresciuta dopo le grandi lotte del 1968-69. Settori trainanti e tradizionali (basti pensare al siderurgico) entrano in crisi sotto la spinta delle nuove priorità produttive e commerciali. Il vertice dell’esecutivo rivendica in questi anni (soprattut­ to sotto la guida di Bettino Craxi) un risultato combinato e positivo, anche di medio periodo: aver ridotto l’inflazione aumentando contestualmente il prodotto interno lordo. Poli­ tiche di rilancio che trovano conferma nei numeri del decennio: il Pii era aumentato dello 0,5% nel 1983, mentre nei tre anni successivi l’incremento arriva a sfiorare il 3%. Una cifra rile­ vante anche in un quadro di analisi comparata con altre eco­ nomie continentali32. Tenendo conto del sommerso e delle produzioni di non facile calcolo o indicizzazione, l’economia italiana del 1987 colloca la Repubblica al quinto posto tra le potenze industriali del tempo. Di converso la discesa del tasso d’inflazione porta ad accrescere il potere d’acquisto dei salari rilanciando, almeno in parte, i consumi delle famiglie italiane. Anche in questo caso i numeri raccontano una realtà in mo­ vimento. Ad aprile 1983 il tasso d’inflazione è al 16%, quattro mesi dopo cala di 3 punti. E nell’anno successivo la caduta prosegue fino a raggiungere l’8,5% nel novembre 1984. Una discesa che non è sufficiente ad abbattere il divario con gli altri paesi europei (su base annua l’inflazione si mantiene a due cifre anche in presenza di tale significativa riduzione) pur contribuendo in maniera decisiva alla diffusione di un effime­ ro ottimismo che attraversa gli anni Ottanta33. Con la diminu­ zione repentina del tasso d’inflazione aumentano le ragioni dei risparmiatori italiani: chi può mette da parte risorse e acquista

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titoli di Stato e Buoni del tesoro. Un investimento sul futuro certificato da un rapporto fiduciario con il sistema economico, un indirizzo diffuso, quasi un comportamento socializzato tra milioni d’italiani. I vantaggi per vecchi e nuovi risparmiatori (per i bilanci delle famiglie italiane) vengono misurati sulla base del rendimento dei titoli in rapporto all’inflazione: nel decennio precedente l’inflazione si attesta ai livelli dell’inte­ resse annuale (quindi rendimenti bassi o addirittura trascura­ bili); a metà degli anni Ottanta il rendimento supera di quat­ tro punti il tasso d’inflazione e alla fine dello stesso anno ar­ riva quasi a sette punti percentuali. Un vantaggio immediato riscontrabile e verificabile che si accompagna a quella propen­ sione al risparmio che si allarga con continuità fino a diventa­ re un fenomeno sociale e di massa34. Una svolta profonda e radicata che condiziona comportamenti individuali, stili di vita fino a modificare aspetti significativi del sistema economico italiano. Una convergenza conveniente tra famiglie, banche e imprese che si mobilitano per acquistare titoli o azioni com­ prandoli dalle emissioni dello Stato. Basti pensare al fatto che in meno di tre anni la percentuale di titoli nei bilanci delle famiglie italiane sale dal 19% del 1980 al 29% del 1983. La svolta non è incidentale, cambiano nello spazio breve di pochi anni le priorità e le strategie d’inclusione -e partecipazione nella società: mettere in sicurezza per combattere le inquietu­ dini sul futuro, cercare rendimenti o investimenti (i primi fondi comuni di metà anni Ottanta, regolamentati con una legge dello Stato, sfiorarono un rendimento medio del 17%), comprare abitazioni da trasferire ai figli come segno di vitali­ tà e benessere. Sul versante più complesso del bilancio dello Stato il ri­ sparmio non incide sulle voci di spesa. Al contrario, mentre si modifica la composizione delle economie nei nuclei familiari e nelle dinamiche del rapporto investimenti/risparmio del ca­ pitalismo italiano, la spesa pubblica continua a crescere sulla base di antiche eredità e nuove urgenze: il sistema sanitario con la riforma del 1979 e il meccanismo previdenziale squilibrato e diseguale (consentendo pensionamenti anticipati e costosi oltre a essere segnato dai costi delle incontrollate pensioni d’invalidità soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno). L’as­ senza di equilibrio nella gestione della spesa pubblica porta a un nuovo significativo aumento del debito; il tasso d’incidenza

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sul prodotto interno lordo passa dal 41,7% del 1980 a oltre il 50% del 1982. Una tendenza che ha un effetto immediato e di lungo periodo: consolida il debito pubblico che con i suoi interessi accumulati penalizza e condiziona le scelte d’indirizzo. Vengono così progressivamente ridimensionati gli investimenti sull’istruzione, sul sistema di protezione, su un necessario intervento di riforma del welfare, penalizzanti per settori significativi ed emergenti della società italiana. In uno spazio breve di alcuni anni nel cuore del decennio si consuma un grande e pericoloso paradosso. La quinta potenza industriale diventa contestualmente il paese del debito pubblico straripante e non governato, quel risparmio delle famiglie messo al sicuro pensando a figli e nipoti si trova sotto la minaccia incombente di un indebitamento che si scarica sul tempo che verrà e sulle generazioni d’italiani che inconsapevoli lo erediteranno. E i numeri in questo caso rappresentano il segno più marcato di un fardello che si proietta in un futuro indefinito. Per la verità la consapevolezza della gravità di quel debito non è immediata e sarebbe sbagliato retrodatare ad allora i termini di una que­ stione che ha condizionato tutto il cammino degli anni e dei decenni successivi, tanto in chiave di bilanci nazionali (scelte e priorità), quanto in termini di partecipazione alle tappe del processo d’integrazione continentale (vincoli e compatibilità di sistemi economici integrati e interdipendenti). Ma al di là delle prospettive e delle attenzioni con cui viene seguita la curva di incremento del debito pubblico, in quegli anni si mette in moto un circolo vizioso: il debito si autoalimenta con interessi passivi che ne accrescono la dimensione. Una crescita esponenziale e intensa. Dal 55% del prodotto interno lordo del 1981, al 92% del 198735: ciò significa che in soli cinque anni le spese per gli interessi passivi quasi raddoppiano con un meccanismo perverso e in apparenza inarrestabile. La finanza leggera riflette la sottovalutazione di un problema enorme, una zavorra ingombrante, voluminosa e scomoda che limita il cammino di una comunità nazionale condizionando il presente e soprattutto il futuro. La Repubblica si avvia in modo inconsapevole o irresponsabile a diventare il paese con il debito pubblico più corposo del continente, tra i primi nel mondo per rapporto con il Pii. L’assenza di contromisure allora e negli anni a seguire sarà una delle responsabilità più impegnative di classi dirigenti ispirate più dalla ricerca di

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consensi e risultati immediati che da uno sguardo più lungo e profondo sui destini del sistema Italia. Nello stesso arco di tempo diminuisce sensibilmente la conflittualità sociale: la spesa crescente fornisce ammortizzatori e possibilità inedite, la guida socialista dell’esecutivo porta un segmento significativo del movimento operaio e sindacale al centro della stanza dei bottoni. Fattori che sostengono un’as­ sunzione di responsabilità collettiva che si appoggia su un miglioramento delle condizioni di vita e sulla diffusione di un benessere individuale dai confini non conosciuti o sperimen­ tati. Ma oltre alle ragioni appena indicate, ha grande rilievo la presa di distanza dal clima di conflitti e violenze ereditato dal decennio precedente, la stanchezza di mobilitazioni che non ottengono risultati, l’irrisoria proposizione di dialettiche che non producono nuove sintesi. Nel 1985 il numero di ore di sciopero nel settore industriale risulta di gran lunga il più basso dal 1949, anche la perdita di ore di lavoro va di pari passo, mentre diminuiscono sensibilmente gli iscritti alle con­ federazioni sindacali. Un indebolimento costante conduce fino alle ipotesi della Confindustria e di settori della maggioranza di governo, finalizzati alla revisione dell’indicizzazione dei salari, mettendo così in questione il meccanismo della scala mobile. Alla metà del decennio si consuma una rottura profonda che spezza il rapporto tra l’inflazione e il potere d’acquisto. Il 14 febbraio 1984 con il decreto di San Valentino il governo Craxi decide di tagliare tre punti di scala mobile qualora l’inflazione non avesse superato il 10%. Un taglio di dimensioni contenute, un sacrificio in apparenza sostenibile che tuttavia diventa un simbolo non misurabile sulla scala quantitativa delle migliaia di lire che avrebbero alleggerito la busta paga dei lavoratori italiani. Un taglio simbolico a una parte costitutiva di un patto non scritto tra capitale e lavoro, tra imprese e famiglie. Questa la percezione di settori dell’opposizione, del gruppo dirigente comunista che decide di costruire nel paese e nelle istituzioni forme di contrasto verso la proposta del governo. Sull’altro versante il progetto di tagliare l’automatismo della scala mobile raccoglie consensi trasversali: governo e Confindustria insieme alle rappresentanze sindacali (Uil, Cisl e componente socialista della Cgil). L’isolamento del mondo comunista è evidente, ma la questione non sembra trovare soluzioni o compromessi. Per chi si oppone al decreto la scala mobile diventa un simbolo

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di garanzie, una rete di sicurezze e vincoli che soprattutto nel mondo del lavoro dipendente acquista rilevanza e centralità. Un pezzo di società indebolita che si sente attaccato e mi­ nacciato nelle sue convinzioni e certezze. Per economisti e addetti ai lavori l’intervento del governo colpirebbe al cuore un meccanismo perverso, una sorta di circolo vizioso: con l’inflazione in discesa mantenere l’indicizzazione dei salari avrebbe rappresentato un costo elevato e soprattutto il nesso tra aumento dei prezzi e crescita della scala mobile avrebbe costruito una spirale iniqua di crescita di entrambi, in modo incontrollabile. Tuttavia, in questo caso il merito della questione passa ben presto in secondo piano, lo scontro politico prevale sulle ragioni di possibili mediazioni. Il Pei e la Cgil (nella sua componente maggioritaria) cercano di dar voce al malcontento, alle proteste che attraversano il paese, criticando l’intervento governativo sulla busta paga36. Il 24 marzo 1984 una grande manifestazione (più di un milione di partecipanti secondo le stime degli organizzatori) attraversa le vie della capitale, Ber­ linguer partecipa al corteo dei lavoratori e il Partito comunista ricorre aH’ostruzionismo parlamentare per rendere difficile il cammino del provvedimento legislativo. Una tensione diffusa, nelle piazze e nelle istituzioni che si polarizza attorno alle scelte del gruppo dirigente comunista. Il segretario del Pei si fa ri­ prendere con una copia dell’«Unità» in mano mentre sfila nel corteo, il titolo raccoglie la valenza simbolica di uno scontro di classe: Eccoci!. La sfida non è tanto sui punti della scala mobile minacciati, quanto sulla rappresentanza del mondo del lavoro e sui rapporti di forza tra maggioranza e opposizione nelle deboli prospettive politiche che caratterizzano entrambe: il pentapartito (infiacchito da numeri risicati e litigiosità interne), l’alternativa (visione velleitaria e per molti versi irrealizzabile). Dopo settimane di rinvìi, richieste di dialogo, dichiarazioni contrapposte, il decreto viene approvato nel mese di giugno. La risposta dell’opposizione scatta con l’immediato avvio della raccolta di firme per un referendum abrogativo che si sarebbe svolto un anno dopo: strumento per mantenere unito il fronte tentando contestualmente la spallata decisiva alla credibilità e alla forza dell’esecutivo. Una radicalizzazione di posizioni e prospettive che si proietta nei mesi successivi mentre si avvicina l’appuntamento delle elezioni europee del 17 giugno 1984. Ina­ spettato, un tragico evento cambia il quadro dei protagonisti.

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Enrico Berlinguer muore a seguito di un ictus che lo colpisce durante un comizio elettorale a Padova l’i l giugno. Il popolo comunista è scosso, il paese viene attraversato da un’ondata emotiva senza precedenti: i funerali di Berlinguer raccolgono una folla imponente, persino gli avversari irriducibili rendono omaggio alla salma del leader comunista (è il caso di Giorgio Almirante, segretario del Movimento sociale, che si reca a via delle Botteghe Oscure in forma privata)37. E la fine di un mondo e la perdita di una figura che aveva accompagnato una fase della storia d’Italia ben oltre i confini e le tradizioni di riferimento. Dopo Moro anche Berlinguer esce di scena, il disegno che li aveva accomunati è un ricordo del passato, la forza del Partito comunista appare rilevante e priva di una guida certa. Le elezioni europee sull’onda dell’emozione collettiva registrano il sorpasso del Pei che con il 33,3% dei consensi diventa il primo partito italiano staccando la De di uno 0,3%. I socialisti di poco sopra l’ll% , i liberali significa­ tivamente al 6%. Un balzo dei comunisti che si accompagna a due dati altrettanto qualificanti: la De tiene e compete con l’opposizione, mentre il Partito socialista non raccoglie ciò che sperava dall’azione di governo, dall’iniziativa e la visibilità del proprio leader. Un successo, forse l’ultimo, di un partito che ormai aveva le ore contate. Un consenso composito e di varia natura che pone il Pei al centro di una vasta aggrega­ zione elettorale; quasi un italiano su tre sceglie di rafforzare l’opposizione comunista barrando la falce e martello. Un voto per il Parlamento europeo che premia la presenza di Altiero Spinelli, federalista competente e convinto, figura di punta dell’antifascismo d ’ispirazione continentale che non aveva nascosto le proprie convinzioni di critica al mondo sovietico, al movimento comunista internazionale e alle scelte del Pei nei decenni del dopoguerra38. Il Pei raccoglie i valori autentici e diffusi dell’Europa come prospettiva e riferimento senza che se ne traggano conseguenze o riflessi politici immediati. E contemporaneamente dà voce e rappresentanza al mondo del lavoro dipendente, pronto a sostenere la sfida referendaria tracciata dopo l’approvazione del decreto sulla scala mobile. Un consenso composito e variegato che a ben guardare è meno solido e promettente di quanto possa apparire allora sotto gli effetti della sorpresa (o del terrore) per il sorpasso comunista. La percentuale leggermente inferiore al 34,4 del 1976 e in

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termini di voti assoluti la flessione di circa un milione di voti. Ma anche in questo caso il dato numerico non è sufficiente a descrivere una condizione inedita: orfani di un leader amato e riconosciuto, promotori di una linea di scontro con il governo e con parte significativa del sindacato confederale, i comunisti vivono una lenta agonia in attesa di poter rilanciare le ragioni di un progetto di alternativa alla Democrazia cristiana. Ma la strada è stretta e la bipolarizzazione conflittuale tra maggio­ ranza e opposizione paralizza il paese impedendo di compiere scelte rimandate per troppo tempo. Al di là delle parole e delle buone intenzioni di tanti anche collocati su diversi ambiti degli schieramenti politici e parlamentari, le riforme non trovano spazi e interpreti adeguati. La centralità dello scontro sulla scala mobile, persino al di là delle intenzioni dei protagonisti, perde di significato, si ridimensiona progressivamente. Nel 1984 i salari crescono al ritmo deH’inflazione e la diminuzione del costo del lavoro produce effetti positivi in settori significativi dell’economia italiana. La vera emergenza per tante famiglie si chiama disoccupazione. Numeri impietosi confermano la profondità di un fenomeno diffuso, accentuato dalle grandi ristrutturazioni di gruppi industriali di riferimento (Olivetti, Montedison, Fiat) segnate dalla morsa tra conflittualità sociale e automazione tecnologica. I disoccupati (cassintegrati, giovani in cerca di prima occupazione, licenziati dai provvedimenti di ristrutturazione) sono quasi 3 milioni. Il lavoro sommerso o nero fornisce un perverso e ricattabile sistema di ammortizzatori sociali, ma il dato in sé riflette ambiguità e contraddizioni di una modernizzazione incompiuta e distorta che scarica effetti e conseguenze sulle giovani generazioni. Di converso la coesione sociale subisce il contraccolpo della conflittualità diffusa. Anche il confine tra lavoro auto­ nomo e dipendente viene attraversato da fratture inedite. Il carico fiscale sul lavoro era aumentato in modo esponenziale dal 40% al 58% . Il ministro delle Finanze, il repubblicano Bruno Visentini, propone nel 1984 una legge per combattere l’evasione fiscale nel mondo del lavoro autonomo, inasprendo le forme di controllo e gli strumenti di monitoraggio. Un oriz­ zonte necessario e lontano di maggiore equilibrio fiscale che nelle intenzioni unisce governo e opposizione. Ma la reazione delle imprese porta a scioperi autunnali (artigianato, aziende commerciali) e sul versante opposto a manifestazioni di sostegno

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alla riforma fiscale da parte dei lavoratori dipendenti che il 21 novembre 1983 per quattro ore scioperano in favore della nuova normativa. Un attivismo sindacale di segno divergente: da un lato per tentare di difendere condizioni di privilegio fiscale minacciato e dall’altro per rilanciare le ragioni di una più equa redistribuzione di risorse con politiche innovative. La stagione delle facili illusioni volge così al tramonto. Il referendum sulla scala mobile è in calendario per il 9 e 10 giugno 1985: l’acme della contrapposizione tra governo e opposizione comunista. Il conflitto a sinistra diventa un vero e proprio duello che il nuovo segretario del Pei, Alessandro Natta, porta nel cuore del pentapartito39. Il responso delle urne riflette una spaccatura profonda. Il «N o» all’abolizione del decreto si attesta vittorioso al 54,3%, circa 18 milioni di voti mentre gli sconfitti raccolgono 15 milioni di voti pari al 45,7%. Contrariamente alle semplificazioni della campagna elettorale, il voto non divide il consenso secondo le indicazioni dei vertici di partito, né segue le tradizionali appartenenze geo­ grafiche o politiche. Del resto, la semplificazione del quesito referendario aveva mostrato in altre occasioni di rispondere più alle volontà e alle coscienze dei singoli che alle indicazioni dall’alto. Votano per l’abolizione seguendo la linea del Partito comunista la maggioranza delle regioni rosse del Centro Italia (Emilia-Romagna, Umbria e Toscana), una parte del Mezzo­ giorno (Campania, Basilicata, Calabria e Sardegna) mentre le regioni del Nord e le grandi città con apparati industriali vo­ tano a maggioranza per il «N o». Il consenso alla posizione dei comunisti è considerevole, attestato su una posizione di difesa degli interessi dei lavoratori, si collega a quello che Berlinguer aveva mostrato fuori dai cancelli della Fiat nel settembre 1980, schierandosi al fianco degli operai licenziati nel vivo di una grande ristrutturazione aziendale conclusasi con una sonora sconfitta operaia. In questo quadro il risultato referendario sembra consolidare il perimetro e le capacità di tenuta dell’e­ secutivo. Il pentapartito respinge l’attacco dell’opposizione e si appresta a convergere sulla scelta di Francesco Cossiga come presidente della Repubblica eletto da una larga maggioranza (752 voti a fronte dei 977 votanti) il 24 giugno 198540. Una parabola sorprendente e per molti versi misteriosa: dimessosi da ministro dell’Interno nella tempesta della vicenda Moro, era tornato nel 1980 come presidente del Consiglio. Figura

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più debole rispetto ad altri possibili candidati (Andreotti o Forlani), non aveva mai avuto una corrente organizzata all’interno della De. In pochi anni, nonostante il suo ingombrante passato (le accuse sulla gestione della vicenda Moro e delle indagini, i legami con ambienti dei servizi segreti, la difesa in varie occasioni dei volti più aggressivi e conflittuali della guer­ ra fredda), è stato capace di raccogliere consensi trasversali, pescando copiosamente tra i banchi dell’opposizione. Aveva dichiarato più volte di volersi ritirare e invece veniva eletto al vertice delle istituzioni con un sostegno plurale. Le sue prime parole da presidente della Repubblica nel discorso alle Camere sono di attenzione e vicinanza alla gente comune, quasi a voler ricucire parte di quella distanza crescente tra paese legale e paese reale. In continuità con il presidente partigiano che lo aveva preceduto cerca un rapporto diretto, talvolta persino spregiudicato che possa legittimarlo. Ma il suo settennato sarà più inquieto e burrascoso di quanto possa apparire all’inizio. Sin dal mese di dicembre 1985, a poca distanza dalla sua ele­ zione, inizia a polemizzare con quei magistrati che prendono le distanze dal governo, accusando l’esecutivo di violare i ca­ noni dell’indipendenza tra i poteri dello Stato. L’elezione del decimo presidente della Repubblica e il protagonismo della sua iniziativa nell’esercizio innovativo di funzione istituzionale e ruolo pubblico, rilanciano le ragioni del confronto e del futuro conflitto tra i poteri dello Stato. Anche il termometro della dialettica tra De e Psi, tra i segretari De Mita e Craxi non lascia presagire nulla di buono. Più che rasserenare un quadro politico instabile e indebolito, l’elezione di Francesco Cossiga e la sua traiettoria istituzionale contribuiscono ad accelerare una crisi divenuta per molti versi irreversibile. 4. Duelli senza vincitore Lo scontro nel sistema politico cresce d’intensità, radicalizzandosi in varie direzioni. Dentro la coalizione di pentapartito, nella dialettica tra democristiani e socialisti, ma allo stesso tempo, all’interno delle forze che compongono la maggioranza nelle tensioni che segnano e caratterizzano le correnti interne in cerca di visibilità o potere. Una litigiosità sotterranea o esplicita, a seconda dei casi e dei contesti, che non di rado

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condiziona o paralizza il confronto democratico. A sinistra l’esito del referendum rilancia la leadership di Bettino Craxi che si muove con decisione lungo la prospettiva di un partito verticistico, fondato sulla centralità di un capo indiscusso. I congressi del Psi diventano grandi eventi con spettacoli e in­ stallazioni avveniristiche, la proclamazione con l’acclamazione dei delegati, oltre a far saltare ogni canale di mediazione tra base e vertice, è motivo di critiche e prese di distanza. Per dirigenti e militanti si tratta di una svolta, l’esercizio di una leadership carismatica e diretta modifica - e siamo solo agli inizi - tratti costitutivi dell’architettura costituzionale. L’en­ tusiasmo di allora per presunti esercizi di democrazia diretta dovrà presto misurarsi con le difficoltà del pluralismo interno e con i costi di una semplificazione personalistica in grado di impoverire il tessuto di partecipazione e confronto tra diversi. La parabola del governo Craxi è attraversata dall’i­ nasprimento delle tensioni a sinistra (lo scontro con il Pei) in un incompatibile confronto di prospettive, fondato sulla ricerca di consenso a partire da innovazioni politiche o stra­ tegie comunicative. Nel 1984, a un decennio dal referendum sul divorzio, lo Stato e la Chiesa cattolica siglano un nuovo concordato che sul momento raccoglie consensi trasversali sia nel mondo cattolico sia in settori non marginali delle classi dirigenti. Non mancano critiche ai contenuti di un’intesa che rischia di rilanciare una logica di scambio e contrattazione, mettendo in secondo piano altre presenze religiose ormai diffuse nella società italiana. Un accordo di vertice con un immediato ritorno d’immagine che non mette in questione l’impostazione concordataria considerata da molti superata dopo la svolta del Concilio Vaticano II41. Un terreno di conflittualità segnato da nuovi scenari è quello della politica internazionale. La guerra fredda, pur in condizioni di criticità, continua a condizionare gli equilibri interni di paesi aderenti ai due schieramenti. Può sembrare paradossale che il tratto di strada conclusivo della contrapposizione bipolare scarichi antiche tensioni e nuove possibilità sugli assetti di democrazie costruite sull’equilibrio del terrore e protette dalle compatibilità del sistema. Più si avvicina l’atto conclusivo del duello tra Mosca e Washington, più si manifesta l’incapacità del sistema di mantenere l’equilibrio e più si aprono (almeno potenzialmente) gli spazi per disegnare un ruolo crescente

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dell’Italia nello scacchiere internazionale. Componenti della maggioranza di governo giocano con spregiudicatezza la carta della politica estera anche in teatri di crisi e di difficoltà. Il governo Craxi aveva spianato la strada aH’installazione degli euromissili, confermando un’impostazione di qualche anno prima e rassicurando gli alleati oltre oceano sul tasso d’atlan­ tismo indiscutibile di cui il Psi si faceva garante. Ma il punto di rottura di equilibri e consuetudini nel rapporto con lealtà e appartenenze tradizionali riguarda lo scacchiere mediorien­ tale. Una cornice di riferimento che diventa il banco di prova di una nuova strategia di attenzioni e iniziative della politica estera italiana42. Nell’autunno 1985 un primo evento di rife­ rimento, quando il governo israeliano decide di bombardare Tunisi alla ricerca del quartier generale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina guidata da Yasser Arafat. La risposta palestinese conduce al sequestro di una nave che batte bandiera italiana, YAchille Lauro. Nel blitz, a bordo viene ucciso un cittadino americano di religione ebraica, con successive reazioni a catena sostenute dall’amministrazione Reagan e dal governo di Tel Aviv nella richiesta di reazioni di fermezza e intransigenza. Il governo italiano costruisce un ponte diplomatico, un’iniziativa complessa che porta al rilascio dei prigionieri sulla nave, alla caccia contestuale dei terroristi che vengono intercettati dall’aviazione Usa durante un volo su un aereo della compagnia egiziana. Si apre così un vero e proprio braccio di ferro tra gli americani che vorrebbero l’e­ stradizione e il governo italiano che, dopo l’atterraggio nella base di Sigonella, prende in consegna il capo dei terroristi Abu Abbas. Un incidente diplomatico che si snoda su piani diversi: a livello internazionale mette a dura prova i rapporti di forza tra gli alleati in un teatro di crisi cruciale come il Medio Oriente. Negli equilibri dell’esecutivo l’asse tra Craxi e Andreotti (rafforzare spazi e ruolo dellTtalia nel Mediter­ raneo affievolendo lealtà atlantiche e irrobustendo il dialogo con i paesi arabi) scontenta i più atlantisti o coloro come il ministro della Difesa Giovanni Spadolini che si sentono sca­ valcati o esclusi da iniziative giudicate rischiose o comunque estemporanee. Il Partito repubblicano dichiara di voler uscire dall’esecutivo per protesta. A molti sembra vicina l’ennesima crisi di governo maturata in una coalizione litigiosa e incerta, in assenza di un progetto comune di riferimento. La gestione

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della crisi di Sigonella viene così affidata a una serie di incontri bilaterali per ricucire e rassicurare il Dipartimento di Stato americano. Il presidente Cossiga sceglie il ruolo di mediatore rassicurando a fronte delle pulsioni filoatlantiche della mag­ gioranza, minacciate dall’iniziativa del governo e dall’asse tra Craxi e Andreotti, valutato come filoarabo. L’esecutivo viene mandato alle Camere dove incassa una nuova fiducia. Con un paragone azzardato il presidente del Consiglio mette in relazione la strategia palestinese con i moti mazziniani del Risorgimento italiano; si conferma così un’attenzione non episodica del governo italiano verso equilibri e rapporti di forza nello scacchiere mediorientale. Parole che vengono pesate e analizzate nel quadro dell’Alleanza atlantica, seguendo un indirizzo che contraddistingue l’Italia della metà degli anni Ottanta: da un lato la centralità di Craxi, il peso e in una certa misura l’ammirazione per il suo decisionismo, per la capacità di modificare l’immobilismo della politica italiana. Dall’altro i timori che la sua spregiudicata intraprendenza possa alla lunga mettere in discussione la trama delle reciproche lealtà e interdipendenze, soprattutto lungo l’asse di frontiera della contrapposizione Est-Ovest. Poche settimane dopo la fiducia delle Camere al gover­ no Craxi, un attacco terroristico colpisce in contemporanea l’aeroporto di Vienna e quello di Fiumicino. Un’azione san­ guinosa contro i banchi della compagnia aerea israeliana E1 Al e della statunitense Twa. Il bilancio è di 13 morti e oltre 70 feriti. Un nuovo colpo alla tenuta di alleanze e posizioni di equilibrio e controllo reciproco. Reagan tuona contro la Libia accusata di proteggere e sostenere il terrorismo di marca palestinese. Da Washington la richiesta pressante passa per la costruzione di un fronte comune richiamando gli alleati europei alle proprie funzioni, fino all’ipotesi di un vero e proprio boicottaggio economico e politico nei confronti della Libia. A parole la Nato sembra tenere, le reazioni agli attentati rafforzano legami e appartenenze di campo. Nella primavera del 1986 l’aviazione statunitense entra in azione colpendo Tripoli e Bengasi: dimostrazione di forza in rispo­ sta agli attentati verso obiettivi americani, rassicurazione agli alleati sulla volontà di non lasciare margini di ambiguità sul ricorso alla forza militare. Un 'escalation pericolosa che scuote gli equilibri della politica italiana. Chi rafforza il legame con

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Washington lo fa in nome di un atlantismo sperimentato e rassicurante, chi pensa a maggiori spazi di autonomia non si allinea alle disposizioni internazionali del dispositivo militare. Tutto si scarica sugli equilibri dell’esecutivo dilaniato dalle ripercussioni della crisi internazionale. La risposta del leader libico Muammar Gheddafi è affidata a due missili indirizzati verso un impianto radiotrasmittente americano collocato nell’i­ sola di Lampedusa43. L’attacco fallisce e le reazioni a catena rafforzano e compattano il fronte filoamericano. Il governo italiano mantiene una sua posizione peculiare affidata a una nota che stigmatizza duramente l’iniziativa libica e contestual­ mente prende le distanze dall’atteggiamento americano nella regione. Un ragionevole richiamo alla diplomazia del dialogo contro le prove di forza in un’area attraversata da interessi e tensioni contrapposti. Per l’esecutivo a guida socialista la crisi terroristica rappresenta un’occasione per ribadire le ragioni di una spinta verso scenari internazionali in parte modificabili. Lo spazio per l’Italia in aree cruciali del globo può crescere in sintonia con gli alleati tradizionali (gli Usa su tutti) anche in assenza di quell’intesa preventiva giudicata da molti neces­ saria: viene declinato sulla base della possibilità concreta di reazione, dialogo e intermediazione con protagonisti e forze che operano nella regione mediorientale. Una linea di politica estera che tenga insieme Comiso, Sigonella e Lampedusa: le modalità d’installazione delle testate nucleari statunitensi, il diniego all’estradizione di terroristi identificati sul territorio nazionale, la risposta a un attacco di missili libici diretti verso il territorio italiano. Nonostante oscillazioni e incertezze lo spazio per un’iniziativa autonoma s’intravede e Craxi in prima persona si muove lungo tale prospettiva attraverso un’iniziativa politica di forte autonomia. Un equilibrio complesso capace di ridimensionare tanto l’atlantismo oltranzista e subalterno di chi cerca sempre e comunque l’allineamento e l’intesa con l’amministrazione Reagan, quanto le tentazioni neutraliste di chi utilizza la crisi interna per riaprire la discussione sulla collocazione internazionale della Repubblica (l’opposizione certo, ma anche settori della maggioranza). Si tratta di una finestra che si chiude presto anche in virtù dell’instabilità complessiva del quadro politico: la coalizione fatica a trovare ragioni convincenti per proseguire un’esperienza comune. E tuttavia il terreno della politica internazionale più che trac-

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dare una discontinuità profonda ha il pregio di recuperare un’antica ispirazione che aveva segnato i primi passi del do­ poguerra: l’interesse nazionale si colloca così a un crocevia tra la proiezione in aree strategiche per gli equilibri del mondo e la capacità della classe dirigente (il neo-decisionismo del segretario socialista) di mostrarsi credibile e affidabile. Il colpo decisivo alla tenuta dell’esecutivo viene dal suo interno, quando componenti della maggioranza si differen­ ziano dalle indicazioni dei propri partiti di riferimento. In Parlamento nell’estate 1986 il governo va sotto ben 24 volte; il 26 giugno in occasione di una votazione in materia di finanza locale i franchi tiratori che bersagliano l’esecutivo superano le 70 unità. A quel punto Craxi sceglie la via delle dimissio­ ni, dopo aver passato più di mille giorni a Palazzo Chigi, un traguardo mai raggiunto dai governi dell’Italia repubblicana. Una stabilità minacciata dal dualismo con Ciriaco De Mita e dalle tensioni interne e internazionali che mettono a dura prova la tenuta del governo. Craxi rilancia giocando la carta della stabilità necessaria per rassicurare sulla via della go­ vernabilità e del consenso costruito nel suo lungo ministero. L’accordo tra i partiti-guida dell’alleanza di centrosinistra prende una forma inedita, prevedendo una sorta di staffetta tra Craxi e De Mita, un passaggio del testimone a distanza di venti mesi dalla strettoia di un nuovo voto di fiducia a favore del secondo governo Craxi. Un gioco complicato e soggetto a interpretazioni difformi: solo un’indicazione di disponibi­ lità o al contrario un vincolo difficilmente compatibile con l’impianto costituzionale. Le frizioni parlamentari non hanno prodotto fratture significative; il quadro complessivo, dopo la crisi e i voti segreti contro la coalizione, torna così in equili­ brio precario. Craxi riprende dal punto di partenza mentre in varie zone del paese si costituiscono alleanze locali sulla base dell’intesa tra democristiani e comunisti, considerata e bollata come anomala dai vertici dell’esecutivo. Una breve tregua che non porta lontano. Agli inizi del 1987 la prima occasione di confronto fa precipitare la situazione. La Corte costituzionale si pronuncia a favore dell’ammissibilità di referendum per l’a­ bolizione delle centrali nucleari e di quesiti che riguardano la responsabilità civile dei magistrati44. Democristiani e socialisti si schierano su posizioni opposte, questi ultimi favorevoli alla responsabilità civile e all’abolizione degli impianti nucleari. Lo

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scontro coinvolge le altre forze del pentapartito che si allinea­ no alla maggioranza dello scudocrociato. Saltano gli spazi per ogni mediazione o rinvio, il confronto parlamentare riflette il declino della dialettica politica: a fronte di un voto favorevole di Psi e radicali, la De si astiene su un governo che era una sua espressione diretta45. Non rimane che fissare la data delle elezioni, misurandosi in una nuova campagna elettorale che si lasci alle spalle l’esperienza dei governi Craxi. Lo scontro è tra governo e opposizione (pentapartito versus Pei) e all’interno dell’area della governabilità tra i due protagonisti della fase appena conclusa. Il voto del 14 giugno 1987 sembra confer­ mare le ragioni dei contendenti e dei partecipanti al duello nel perimetro dell’esecutivo. Il Psi cresce di quasi 3 punti percentuali, la De recupera parte del consenso dilapidato nel 1983. Continua la flessione dei comunisti, mentre anche i partiti laici che compongono l’esecutivo perdono più del 3% . Fanno la loro apparizione i verdi attestandosi al 2,5%, si consolida la presenza del Partito radicale. Non si registra alcuna affer­ mazione capace di indicare una via di uscita dalle strettoie del sistema politico: tenuta della De a fronte di un lieve aumento del Partito socialista che sperava di poter raccogliere frutti significativi di consenso a ridosso della stagione di governo. Il dato più rilevante è la frammentarietà della rappresentan­ za politica che presta il fianco a veti incrociati e a un crescente potere di coalizione da parte dei partiti minori. Una sorta di malcelato ricatto che condiziona il gioco politico e parlamentare. L’unica formula possibile è ancora il pentapartito, mentre voci di varia provenienza (in Parlamento o nelle piazze) iniziano a puntare il dito contro la partitocrazia inguaribile e opprimente. Nasce un nuovo governo sulla base di una coalizione consumata e ulteriormente indebolita. La crescita del Psi è sufficiente a sbarrare la strada a De Mita che tra le altre cose viene accusato di essere troppo attento al Pei e a una sua possibile evoluzione. A fine luglio il governo a guida Giovanni Goria dà inizio a una legislatura particolarmente instabile: quattro esecutivi dal 1987 al 1989, Goria, Ciriaco De Mita e due governi presieduti da Giulio Andreotti. Stessa formula pentapartito, ma con guida diversa e composizione interna che cambia, seguendo conflit­ tualità, richieste e ambizioni dei partecipanti. Ogni esecutivo è esposto all’iniziativa dei franchi tiratori (si dissociano nel segreto dell’urna dalle indicazioni delle segreterie) che bersagliano il

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governo spesso su provvedimenti di natura finanziaria. Un fuoco incrociato che accorcia la durata dell’alleanza, disseminando il cammino di imprevisti e difficoltà. Vecchie alchimie non adeguate alle nuove sfide di un tempo difficile. Nella collaborazione di governo tra democristiani e socialisti si consolida l’alleanza di pentapartito, pur modifi­ candosi la composizione dei protagonisti. De Mita perde una centralità che aveva faticosamente conquistato e la maggioranza vira verso una convergenza d’interessi tra Craxi, Andreotti e Forlani (il cosiddetto «Caf», dalle inziali dei tre protagonisti) che regge le sorti dell’esecutivo indirizzandolo verso approdi conservativi (difesa e tutela di privilegi consolidati). I temi legati alle riforme istituzionali, dopo il fallimento della com­ missione Bozzi (1983-1985)46, vengono messi da parte e uno degli uomini che più si era speso nelle proposte di riforma e dialogo tra governo e opposizione rimane freddato dalle Brigate Rosse il giorno precedente la fiducia delle Camere per l’esecutivo guidato da Ciriaco De Mita. Roberto Ruffilli, un simbolo troppo spesso dimenticato: professore al servizio della politica, impegnato in quella zona di confine tra istitu­ zioni, partiti, competenze e società civile. Con lui i terroristi colpiscono la possibilità stessa che dal confronto tra diversi possano nascere idee costruttive, possa in sostanza rafforzarsi una democrazia inclusiva, rappresentativa e funzionante47. Il cammino delle riforme rimane un sogno spezzato, un’idea che affascina senza trovare strumenti e interpreti che possano darle prospettive. Il ritorno di Andreotti alla guida della coalizione appare come la richiesta di serrare le fila attorno a certezze e posizioni di forza. Il governo traccia una linea che si basa sull’accordo condiviso tra la maggioranza della De (la sinistra viene marginalizzata) e il Partito socialista di Craxi. Su un altro versante le opposizioni sono alle prese con cambiamenti non marginali. Il Movimento sociale in un Congresso a metà decennio inizia una lenta evoluzione: Gianfranco Fini prende il posto di Giorgio Almirante, punto di riferimento indiscusso della destra italiana dopo l’esperienza di Salò48. Una successione interna lungo una linea di continuità che tuttavia lascia intravedere una possibile presa di distanze da tradizionali parole d’ordine e collocazioni politiche. Ma ci vorrà del tempo prima che tale percorso possa modificare volto e approdi della destra italiana.

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La sinistra comunista appare prigioniera della difficile eredità di Berlinguer. Il suo successore Alessandro Natta tenta nel Congresso nazionale di Firenze del 1986 di riannodare un dialogo con la sinistra europea, rilanciando al contempo le ragioni della diversità comunista in un’intesa impossibile tra l’esperimento gorbacioviano e la sinistra socialista e socialde­ mocratica del vecchio continente. Una strettoia difficile che il nuovo leader comunista Achille Occhetto cerca di portare avanti nei primi mesi della sua segreteria nel 1988. Ma anche quel tentativo è destinato ad avere vita breve49. Il quadro interno tra maggioranza di pentapartito e opposizioni va irrimediabilmente verso un vicolo cieco, scarsa progettualità, esaurimento progressivo delle aspirazioni e delle ambizioni che avevano attraversato gli anni Ottanta. E sul piano inter­ nazionale il mondo sta per essere travolto da un grande cam­ biamento che avrebbe rimesso in moto la storia, aggiornato vocabolari e approcci, abbattuto appartenenze e riferimenti della politica italiana. Un nuovo inizio per tutti, imprevisto e carico di significati. Molte storie sono sul punto di concludersi quando il de­ cennio volge al tramonto; discontinuità e fratture che solo in parte vengono colte e comprese dai protagonisti. Un contesto di frammenti, ipotesi inutilizzabili e spinte non ancora defini­ te nella direzione e nell’intensità che le caratterizza. Basti il richiamo al percorso delle coalizioni di pentapartito, riedizio­ ne sbiadita delle alleanze di centrosinistra di qualche decennio prima. L’esaurimento di un progetto comune diventa il tratto distintivo di una fase della storia della Repubblica che si con­ suma tra la fine del governo Craxi e gli ultimi sussulti di un equilibrio ormai logoro alla fine del decennio. I partiti sono tenuti insieme da interessi di corrente, dalle indicazioni dei diversi leader, da una dialettica che si rinchiude all’interno di perimetri ben conosciuti. Il confronto attraversa le dinamiche della maggioranza con geografie variabili: tra i partiti, all’in­ terno delle forze politiche e nelle aspirazioni crescenti di chi partecipa all’esecutivo puntando sulla possibilità di rafforzare peso e prestigio. Rapporti di forza che non passano per il consenso elettorale, non sono riflesso di variazioni nella rap­ presentanza politica, ma al contrario, prescindono dai canali di comunicazione e organizzazione del consenso. Una sfida tra i partiti e nei partiti che tentano così di nascondere la propria

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parabola discendente. La Repubblica dei partiti e delle coali­ zioni mutevoli mostra di aver esaurito risorse e possibilità. La fine di un mondo accelera un processo in atto, anche la cor­ nice internazionale di riferimento non rassicura né stabilizza l’incerto cammino del sistema politico repubblicano. In questo quadro il paradigma repubblicano muta nella sostanza. L’esaurimento della stagione delle coalizioni fondate sui partiti contribuisce alla sconfitta dei disegni riformatori: quelli economico-sociali che tra luci e ombre hanno segnato gli anni Settanta del Novecento, quelli istituzionali che hanno fatto la loro apparizione nell’ultimo tratto di strada. Restano stratificate e ripetute le dichiarazioni di principio sulla necessità di ridisegnare l’equilibrio tra i poteri, rafforzare le funzioni dell’esecutivo, sottrarre le istituzioni ai giochi di forze politiche contrastanti. Il fallimento della commissione bicamerale per le riforme è un primo atto significativo, ma anche nel dibat­ tito pubblico e nelle posizioni dei partiti (di maggioranza e opposizione) il tema istituzionale scivola in basso nella lista delle priorità e delle urgenze da affrontare. E così il sistema si ripiega verso un’opzione impossibile: da un lato rilanciare le ragioni di riforme necessarie e rinviate per troppo tempo (che tuttavia avrebbero bisogno di partiti in salute e di progetti politici delineati e di lungo periodo), dall’altro l’emergere di spinte diverse, non controllabili, che puntano ad abbattere il sistema o a modificarlo in tratti costitutivi dell’equilibrio post-bellico. Lo spazio di un riformismo equilibrato e non traumatico si restringe progressivamente e l’incongruenza dei propositi velleitari lascia presto il posto a conferme trasversali ispirate a un conservatorismo più o meno mascherato, sovente riconducibile al più tradizionale dei propositi gattopardeschi: cambiare tutto perché nulla cambi. Ed è in questo quadro che l’imminente conclusione della parabola della guerra fredda fa saltare ogni ipotesi di conservazione dello status quo. La politica italiana è attraversata dalle intemperie di un nuovo mondo che travolge identità, certezze, riferimenti interni e internazionali. Alla vigilia di una svolta epocale pochi avvertono il vento della storia, la spinta al cambiamento. Per molti inconsapevolmente (protagonisti o comprimari) sembra che tutto possa proseguire come se nulla fosse. La fine dell’ordine bipolare potrebbe rilanciare le ragioni del processo d’integrazione continentale. Ma anche su questo

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aspetto la seconda metà degli anni Ottanta offre delle prime significative risposte, spesso nel segno della contraddizione. Per la prima volta dai trattati di Roma del 1957 i paesi della Comunità economica europea decidono di intervenire nel merito dei trattati. Una scelta sofferta che porta alla firma dell’Atto unico europeo il 17 febbraio 198650. Modifiche ai trattati istitutivi come antidoto a una crisi che rischia di para­ lizzare il processo di unificazione continentale. Può sembrare un curioso paradosso la coincidenza temporale tra l’epilogo dell’equilibrio del terrore e il tentativo di consolidare una posizione altra, una collocazione in grado di sottrarre paesi e classi dirigenti alla morsa stringente Est-Ovest. L’atto entra in vigore il 1° luglio 1987. Assume una sua centralità negli assi della politica estera italiana, in quello sforzo di rinnovare un’antica propensione a non essere subalterni e schiacciati sui dettami degli alleati. Il governo del pentapartito, con Craxi, Andreotti e De Michelis, scommette sulle ragioni di un rilancio per andare incontro a un’ambiziosa e rinnovata presenza della Repubblica nello scacchiere internazionale a partire dal teatro Mediterraneo. In questa chiave il percorso di elaborazione del nuovo riferimento europeo corrisponde a una duplice finalità che accomuna alcuni paesi del continente: completare la co­ struzione del mercato unico senza tentennamenti o rinvìi, visti gli effetti profondi delle crisi economiche degli anni Settanta; costruire e rafforzare contestualmente un primo significativo embrione di unione politica come orizzonte necessario per rispondere alle esigenze della competizione internazionale. Un progetto di recupero dei pilastri basilari: l’economia e la politica come spazio di costruzione dell’Europa comune dopo l’età della catastrofe. Una fonte d’ispirazione certa per gli assi costitutivi della politica estera italiana. Ma la svolta è troppo profonda per permettere recuperi rassicuranti o operazioni graduali. La fine della guerra fredda si avvicina inesorabile e imprevista, molto verrà travolto; idee, culture e programmi saranno sottoposti a nuove e irriducibili tensioni. Note al capitolo quinto 1 Cfr. Bongiovanni, Storia della guerra fredda, cit., pp. 127-139; Romero, Storia della guerra fredda. Eultimo conflitto per l’Europa, cit., pp. 224-281; Gaddis, La Guerra fredda, cit., pp. 208-235.

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2 Cfr. Westad, La guerra fredda globale. Gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica e il mondo. Le relazioni internazionali del XX secolo, cit., pp. 326-337. 3 Graziosi, L’Urss dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione Sovietica. 1945-1991, cit., pp. 461-502; Pons, La rivoluzione globale. Storia del co­ muniSmo internazionale 1917-1991, cit., pp. 387-398. 4 La citazione in Romero, Storia della guerra fredda. Idultimo conflitto per l’Europa, cit., p. 274. 5 Cfr. R. Service, Compagni. Storia globale del comuniSmo nel XX secolo, Roma-Bari, Laterza, 2008, pp. 523-537. 6 Cfr. M. Flores, Il secolo-mondo. Storia del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 427-448. 7 Cfr., con analisi e interpretazioni divergenti, F. Barbagallo, Enrico Berlinguer, Roma, Carocci, 2006, pp. 401-412; Pons, Berlinguer e la fine del comuniSmo, cit., pp. 215-228; A. Tato, Caro Berlinguer. Note e appunti riservati di Antonio Tato a Enrico Berlinguer, 1969 1984, Torino, Einaudi, 2003, pp. 226-241. 8 Cfr. M. Di Donato, I comunisti italiani e la sinistra europea. Il Pei e i rapporti con le socialdemocrazie (1964-1984), Roma, Carocci, 2015, pp. 215-269. 9 Si veda Graziosi, L’Urss dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione sovietica, 1945-1991, cit., pp. 505-542. 10 Cfr. M. Gorbaciov, Verestrojka. Il nuovo pensiero per il nostro paese e per il mondo, Milano, Mondadori, 1987; Id., La casa comune europea, Milano, Mondadori, 1989. 11 Cfr. M. Del Pero, Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo 17762006, Roma-Bari, Laterza, 2008, pp. 354-387; Formigoni, La politica internazionale del Novecento, cit., pp. 303-313; M. Gilbert, Challenge to Civilization. A History of thè 20th Century 1952-1999, London, Flarper Collins, 2000, pp. 522-531 e 573-581; G. Procacci, Storia del XX secolo, Milano, Bruno Mondadori, 2000, pp. 533-539. 12 Cfr. Foa, Questo Novecento. Un secolo di passione civile. La politica come responsabilità, cit., pp. 311-383. 13 Cfr. Colarizi e Gervasoni, La cruna dell’ago. Craxi, il Psi e la crisi dell’Italia repubblicana, cit., pp. 39-113; Matterà, Storia del Psi 1892-1994, cit., pp. 197-216; Craveri, Storia d’Italia, voi. 24, La Repubblica dal 1958 al 1992, cit., pp. 809-882; G. Acquaviva e L. Covatta (a cura di), La «grande riforma» di Craxi, Venezia, Marsilio, 2010. 14 Colarizi e Gervasoni, La cruna dell’ago. Craxi, il Psi e la crisi dell’Italia repubblicana, cit., pp. 114-120. 15 Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, cit., pp. 571-576; Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico 1945-1996, cit., pp. 449-457; Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni Novanta, cit., pp. 419-455; Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1942 al 1992, cit., pp. 289-304; Soddu, La via italiana alla democrazia. Storia della Repubblica 1946-2013, cit., pp. 183-205. 16 Cfr. S. Musso, Le relazioni industriali tra prima e seconda Repubblica, in E. Bignami (a cura di), L’Italia tra due secoli, Bologna, Pendragon, 2013,

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pp. 105 ss.; e le riflessioni di B. Trentin, La città del lavoro. Sinistra e crisi del fordismo, Milano, Feltrinelli, 1997, pp. 5-124. 17 Cfr. F. Izzo, I dilemmi del femminismo nella seconda Repubblica, in Ultalia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi, II, Il mutamento sociale, a cura di E. Asquer, E. Bernardi e C. Fumian, Roma, Carocci, 2014, pp. 101-117; Soddu, La via italiana alla democrazia. Storia della Repubblica 1946-2013, cit., pp. 187-189. 18 M. Costanzo, Parla, per la prima volta, il «Signor P2», in «Corriere della Sera», 5 ottobre 1980. 19 Cfr. De Lutiis, Storia dei servizi segreti in Italia, cit., pp. 263-294; Fasanella, Sestrieri e Pellegrino, Segreto diStato. La verità da Gladio al caso Moro, cit., pp. 184-215; Vinci (a cura di), La P2 nei diari segreti di Tina Anseimi, cit., pp. 159-221; F. Biscione, Il sommerso della Repubblica. La democrazia italiana e la crisi dell’antifascismo, Torino, Bollati Boringhieri, 2003. 20 La citazione in Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1942 al 1992, cit., p. 295. 21 Ivi, pp. 293-294; cfr. M. Magnani, Sindona. Biografia degli anni Set­ tanta, Torino, Einaudi, 2016. 22 Ivi, p. 296. 23 Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico 1945-1996, cit., pp. 449-457. 24 Cfr. C. Ceccuti, Giovanni Spadolini. Quasi una biografia, Firenze, Edizioni Polistampa, 2019. 23 Sulla questione settentrionale cfr. AA.W., Questione settentrionale, in «Meridiana», 16, 1993; G. Berta (a cura di), La questione settentrionale: economia e società in trasformazione, Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, voi. IV, Milano, Feltrinelli, 2007 ; R. Chiarini, Il disagio del Nord, Vanti-politica e la questione settentrionale, in S. Colarizi, P. Craveri, S. Pons e G. Quagliariello (a cura di), Gli anni Ottanta come storia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004, pp. 231-266; I. Diamanti, Il male del Nord. Lega, localismo, secessione, Roma, Donzelli, 1996; M. Meriggi, Breve storia dell’Italia settentrionale dall’Ottocento a oggi, Roma, Donzelli, 1996; Lepore, Il divario tra il Nord e il Sud dal dopoguerra a oggi, cit., pp. 58 ss. 26 Giovagnoli, La Repubblica degli italiani, 1946-2016, cit., pp. 124-147. 27 Cfr. Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un siste­ ma politico 1945-1996, cit., pp. 459-464; G. Crainz, Autobiografia di una Repubblica. Le radici dell’Italia attuale, Roma, Donzelli, 2009, pp. 127-182. 28 Cfr. F. Bonini, Il rinnovamento della De, in Brezzi e Gentiioni Silveri (a cura di), Democrazia, impegno civile, cultura religiosa. L’itinerario di Pietro Scoppola, cit., pp. 179-197. 29 Cfr. Gentiioni Silveri, L’Italia sospesa. La crisi degli anni Settanta vista da Washington, cit., pp. 228-229. 30 Una ricostruzione, anche quantitativa, in Battilani e Fauri, Mezzo secolo di economia italiana, 1945-2008, cit.; Baffigi, Il Pii per la storia d’I­ talia: istruzioni per l’uso, cit. Sul significato del cambio di paradigma degli anni Settanta cfr. Toniolo, La crescita economica italiana, 1861-2011, cit.

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31 Cfr. A. Colli, II quarto capitalismo. Un profilo italiano, Venezia, Marsilio, 2002; E. Felice, Divari regionali e intervento pubblico. Per una rilettura dello sviluppo in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007; F. Bartolini, ha terza Italia. Reinventare la nazione alla fine del Novecento, Roma, Carocci, 2015. 32 Cfr. la sintesi di G. De Rita, «E la nave va...»: l’impennata craxiana degli anni Ottanta, in G. Acquaviva (a cura di), La politica economica italiana negli anni Ottanta, Venezia, Marsilio, 2005, pp. 197-200. 33 Cfr. con analisi e interpretazioni divergenti G. Crainz, Il paese man­ cato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Roma, Donzelli, 2003; M. Gervasoni, Storia d’Italia degli anni ottanta. Quando eravamo moderni, Bologna, Il Mulino, 2010. 34 Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1942 al 1992, cit., pp. 299 ss. 33 Su questi aspetti cfr. Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1942 al 1992, cit., pp. 300 ss.; Pescosolido, La questione meridionale in breve, cit., pp. 139-151; P. De Ioanna, Debito pubblico e classe politica: uno sguardo d’insieme sulla Prima repubblica, in LUtalia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi, voi. Ili, Istituzioni e politica, a cura di S. Colarizi, A. Giovagnoli e S. Pons, Roma, Carocci, 2014, pp. 141-158. 36 M. Magatti e G. Fullin, Stratificazione sociale e disuguaglianza in un capitalismo di marginalità, in L’Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi, voi. II, Il mutamento sociale, a cura di E. Asquer, E. Bernardi e C. Fumian, Roma, Carocci, 2014, pp. 15-34. 37 Cfr. G. Fiori, Vita di Enrico Berlinguer, Roma-Bari, Laterza, 1989; C. Valentini, Enrico Berlinguer, Milano, Feltrinelli, 2014; Barbagallo, Enrico Berlinguer, cit.; U. Gentiioni Silveri (a cura di), In compagnia dei pensieri lunghi. Enrico Berlinguer venti anni dopo, Roma, Carocci, 2007; E. Berlin­ guer, La passione non è finita, a cura di M. Gotor, Torino, Einaudi, 2013. 38 Sulla figura di Spinelli cfr. A. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, Bologna, Il Mulino, 1999; PS. Graglia, Altiero Spinelli, Bologna, Il Mulino, 2008. 39 Si veda P. Turi, LIultimo segretario. Vita e carriera di Alessandro Natta, Padova, Cedam, 1996; G. Sorgonà (a cura di), Alessandro Natta. Intellettuale e politico. Ricerche e testimonianze, Roma, Ediesse, 2019. 40 E. Galavotti, Francesco Cossiga, in Cassese, Galasso e Melloni (a cura di), I presidenti della Repubblica. Il Capo dello Stato e il Quirinale nella storia della democrazia italiana, cit., pp. 325-363; U. Gentiioni Silveri, Cossiga Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani, on line, 2014. 41 Cfr. G. Acquaviva e F. Margiotta Broglio (a cura di), Iprimi trent’anni del Concordato Craxi-Casaroli (1984-2014), Venezia, Marsilio, 2016; G. Acquaviva (a cura di), La grande riforma del Concordato, Venezia, Marsilio, 2006. E sui percorsi differenziati del mondo cattolico, G. Acquaviva, M. Marchi e P. Pombeni (a cura di), Democristiani, cattolici e Chiesa negli anni di Craxi, Venezia, Marsilio, 2018. 42 Cfr. E. Di Nolfo (a cura di), La politica estera italiana negli anni ottanta, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 2003 (poi con aggiornamenti Ve­ nezia, Marsilio, 2007).

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43 Cfr. S. Romano, Guida alla politica estera italiana. Dal crollo del fascismo al crollo del comuniSmo, Milano, Rizzoli, 1993, pp. 183-189; Di Nolfo (a cura di), La politica estera italiana negli anni ottanta, cit., pp. 3-151; Colarizi, Craveri, Pons e Quagliariello (a cura di), Gli anni Ottanta come storia, cit., pp. 119-214. 44 La Costituzione aveva previsto l’istituzione della Corte, le sue fun­ zioni fondamentali, la composizione della stessa e gli effetti delle sentenze (articoli 134, 135, 136). Tuttavia solo nel 1955 venne completata la prima composizione della Corte costituzionale in grado di funzionare sette anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica. 45 Cfr. Craveri, Storia d'Italia, voi. 24, La Repubblica dal 1958 al 1992, cit., pp. 920-964; Colarizi e Gervasoni, La cruna dell’ago. Craxi, il Psi e la crisi dell’Italia repubblicana, cit., pp. 191-228. 46 Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico 1945-1996, cit., pp. 439-449. 47 Sulla figura di Ruffilli cfr. M.S. Piretti, Roberto Ruffilli: una vita per le riforme, Bologna, Il Mulino, 2008; P. Pombeni, Roberto Ruffilli, in Di­ zionario Biografico degli Italiani, voi. 89, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2017, pp. 93-97. 48 Cfr. R. Chiarini, Profilo storico-critico del Msi, in «Il Politico», 54, 3, 1989, pp. 369-389; G. Parlato, Il Movimento sociale italiano, in G. Nicolosi (a cura di), I partiti politici nella storia dell’Italia repubblicana, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006, pp. 365-380; A. Roveri, Gianfranco Fini: una storia politica. Dal Movimento Sociale Italiano a Futuro e Libertà, Padova, Libreria universitaria, 2011; D. Conti, Il anima nera della Repubblica. Storia del Msi, Roma-Bari, Laterza, 2013; G. Orsina (a cura di), Storia delle destre nell’Italia repubblicana, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014; P. Ignazi, Postfascisti? Dal Movimento sociale italiano ad Alleanza nazionale, Bologna, Il Mulino, 1994; Id., Il polo escluso. Profilo storico del Movimento sociale italiano, Bologna, Il Mulino, 1998. 49 Cfr. A. Guiso, Dalla politica alla società civile. L’ultimo Pei nella crisi della sua cultura politica, in G. Acquaviva e M. Gervasoni (a cura di), Socia­ listi e comunisti negli anni di Craxi, Venezia, Marsilio, 2011, pp. 181-220. 50 Cfr. Gilbert, Storia politica dell'integrazione europea, cit., pp. 129-159; Rapone, Storia dell’integrazione europea, cit., pp. 83-104.

Capitolo sesto

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1. Indimenticabile Ottantanove Le vicende politiche dell’Italia repubblicana nel corso della seconda metà del 1989 vanno inserite con le dovute cautele in un quadro internazionale più ampio. Tutto appare collegato e inscindibile come mai era accaduto dalla fine del secondo conflitto mondiale. Da una parte la fine della guerra fredda, l’implosione e il crollo del sistema bipolare e dall’altra la crisi della Repubblica, il progressivo superamento dell’architettura istituzionale che aveva sorretto e caratterizzato il dopoguerra italiano. Un itinerario in apparenza sovrapponibile e coinci­ dente: la parabola del conflitto tra Est e Ovest che volge al tramonto, il sistema politico dellTtalia repubblicana che frana in modo imprevisto e irreversibile. Del resto la Repubblica era nata dentro una compatibilità ben precisa, si era inserita e collocata negli spazi possibili di un costituendo sistema inter­ nazionale, presto trasformatosi in un’opportunità significativa e stimolante. La classe dirigente nei primi passi della Repubblica era riuscita a cogliere quella tensione inedita tra un paese da ricostruire, piegato dalle macerie della guerra e le potenzialità di una rinascita che andava ben al di là dei confini nazionali. Il crollo di quel sistema di regolazione del mondo condizio­ na le politiche di molti paesi fino a trasformare i protagonisti di un cammino lungo decenni: partiti travolti, costituzioni modificate, simboli aggiornati o cancellati dalla pervasività di processi storici simultanei e prolungati1. Il 9 novembre 1989 cade il muro di Berlino, viene fatto a pezzi, sezionato e cancellato dal perimetro della città. Il simbolo di una statica contrapposizione tra forze contrastanti viene abbattuto, con il muro finisce un lungo conflitto che aveva come obiettivo primario il vecchio continente, le sue gerarchie e geografie:

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l’ultimo conflitto per l’Europa; una guerra non combattuta che ha segnato destini e identità congelando una condizione di prolungato e forzoso equilibrio. Il crollo del muro come evidente e riconoscibile effetto della storia che si mette in moto in cerca di nuovi assetti possibili2. La città simbolo della Germania nazista occupata dalle potenze vincitrici, scomposta in parti e porzioni controllate per poi essere attraversata da un muro con varchi e accessi sorvegliabili. Vie di transito tra Est e Ovest che hanno rappresentato aspirazioni o desideri irrealizzabili: muoversi verso Occidente, cercare fortuna dove non era possibile arrivare. Quella contrapposizione fin dentro il territorio di una città rimane la traccia di uno scontro tra sistemi, linguaggi, idee del mondo. Il crollo di quel muro avrebbe aperto la strada a ipotesi e politiche che porteranno alla riunificazione della Germania, il più grande processo di ricomposizione continentale e di sfida geopolitica dalla fine del secondo conflitto mondiale3. Processi a catena in poche settimane portano al tramonto definitivo di quello che era stato il blocco orientale4. Il mondo comunista viene spazzato via dal protagonismo di tanti che non vogliono mancare l’appuntamento con la storia. Viene giù tutto: statue, simboli sulle bandiere nazionali, alleanze e lealtà politiche e militari. Mosca perde legami, credibilità, consenso. Nello spazio breve di pochi anni l’Urss implode travolta dalla carica di nazionalità ritrovate o strumentalmente inventate che puntano a rompere la gabbia di una struttura complessa capace di tenere insieme, controllare e uniformare tradizioni, lingue, aspirazioni identitarie5. Poco dopo anche l’Albania e la Jugoslavia che non erano parte costitutiva dell’universo sovietico verranno interessate dalla rivoluzione pacifica o conflittuale che porterà alla fine del comuniSmo e dei suoi principali protagonisti6. Mentre la grande storia riparte, si mette di nuovo in moto il quadro della politica italiana. Una lenta e complessa attività in una legislatura inizialmente stabile che si trascina fino alla scadenza naturale del 1992; non accadeva dal 1968 di non do­ ver far ricorso allo scioglimento anticipato delle Camere. Nei primi anni Novanta Giulio Andreotti guida la coalizione di pentapartito dopo le ripetute instabilità ministeriali, le frizioni interne alla maggioranza di governo. L’equilibrio del Caf offre un’apparente copertura nei confronti delle inquietudini che

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scuotono le fondamenta del sistema. Ma il vento del cambia­ mento spinge verso nuove sollecitazioni, il vecchio equilibrio di pentapartito non può gestire una fase così straordinaria, carica di spinte e potenzialità; il crollo del muro e la fine di un mondo sono il preludio alla ricerca di una nuova collocazione dell’Italia nello scenario internazionale7. Non tanto per scelta o convinzione quanto per necessità: non si può aspettare che la tempesta sia conclusa, né mettersi speranzosi ad attenderne gli esiti. Come in passato, attraverso gli indirizzi e le scelte di politica estera si definisce il quadro delle compatibilità, degli approdi possibili di un sistema politico cresciuto e rafforzato dalle connessioni tra quadro interno e contesto internazionale. In uno strano paradosso il crollo dell’impalcatura della Repub­ blica avvicina nei primi anni Novanta del Novecento l’Italia più ai paesi comunisti (travolti dalle rivoluzioni dell’Est) che ai suoi naturali partner e alleati occidentali. Il nostro, infatti, è l’unico paese dell’Europa occidentale e atlantica nel quale la fine del comuniSmo sovietico e del bipolarismo Usa-Urss abbia influenzato il sistema politico fino a provocare l’implosione dei partiti fondatori della Repubblica. Nel corso degli anni e dei decenni trascorsi dalla cesura del 1989 è apparso sempre più evidente il rapporto stretto tra la fine della guerra fredda e la trasformazione del sistema politico italiano. Un nesso non separabile o marginale e al tempo stesso non un rapporto automatico di causa-effetto quasi che la prima dimensione in­ ternazionale potesse direttamente spiegare la ricaduta interna. Uno spartiacque che modifica i riferimenti consolidati mentre il governo italiano attraversa il vortice di un cambio radicale degli assetti internazionali. Basti il richiamo alle novità più evidenti e significative di una fase storica per molti versi costituente e fondante di un nuovo ordine possibile. Sotto le macerie di quel muro che divideva la città simbolo del conflitto bipolare cadono altri muri e terminano altre contrapposizioni: muri di altro tipo, psicologici, ambientali, vincolanti. La politica ita­ liana aveva tracciato perimetri e compatibilità adattandoli al contesto più ampio e condizionante: chi sedeva legittimamente in Parlamento e chi di converso aveva accesso alle funzioni del potere esecutivo, una distinzione non scritta o codificata tra l’area della rappresentatività e quella della governabilità8. Un muro invisibile penetrato nella politica e nella società italiana, capace di condizionare equilibri, aspirazioni e riferimenti di

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generazioni di italiani. Un’accelerazione improvvisa di processi inarrestabili in parte ravvicinati e recenti, in parte provenienti da antiche contraddizioni e opportunità. L’ultimo decennio del Novecento segna il passaggio a nuove tensioni. Al muro che ca­ deva faceva seguito l’apertura del percorso che avrebbe portato alla riunificazione tedesca, non più vincolata dalla questione controversa dell’appartenenza alla Nato. Si aprivano all’orizzon­ te nuovi terribili conflitti: nel Golfo Persico con l’invasione di Saddam Hussein del territorio del Kuwait e nella ex Jugoslavia dove identità, culture e religioni si sarebbero affrontate in un sanguinoso scontro del quale sarà difficile scrivere la parola fine. Nascono nuove repubbliche riconosciute e inserite fret­ tolosamente nella comunità internazionale, il vecchio quadro statuale viene travolto mentre riemergono dal passato i fantasmi del più bieco nazionalismo aggressivo9. Il tutto avviene a pochi chilometri dai confini italiani, destabilizzando una regione e coinvolgendo le vestigia incerte di una comunità internazionale indebolita e scossa dalla fine della guerra fredda e dagli inter­ rogativi sull’urgenza d’intervenire per fermare il massacro nei territori della ex Jugoslavia. Solo nel 1995 con gli accordi di Dayton tra limiti e contraddizioni, ritardi e responsabilità di governi e organismi internazionali si pone fine alla dinamica violenta di una guerra incontrollabile nel cuore dell’Europa. Su un altro versante, in quello stesso spazio bagnato dal mar Mediterraneo, s’intensificano i flussi migratori, gli spostamenti di popolazioni in cerca di una vita migliore o in fuga da guerre e conflitti in parte riflesso della fine di un mondo. Un conte­ sto controverso e difficile nel quale trova spazio e priorità il rilancio del processo d’integrazione continentale attraverso il negoziato e la firma del trattato di Maastricht, una scelta di politica internazionale che è anche una rotta per uscire dalle difficoltà interne: legare il destino della Repubblica al cammino europeo cogliendo l’opportunità di un nuovo inizio ambizioso e complicato al tempo stesso10. Un passaggio d’epoca definito tale senza correre il rischio dell’enfasi che accompagna talvolta espressioni del genere. Anni dopo ci si è chiesti con ragionevo­ lezza e rigore se la Repubblica dei partiti, questa felice espres­ sione per descrivere e giudicare un tratto di strada della storia italiana, non fosse anche la Repubblica della guerra fredda giunta al tramonto quando il mondo sorto dopo la seconda guerra mondiale imboccava repentinamente una direzione inedita11.

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E con uno scenario così movimentato sullo sfondo, il per­ corso del sistema politico italiano procede per strappi successivi. Inizialmente in equilibrio in una legislatura che non si scioglie anticipatamente, ma viene attraversata da segnali inequivoci di nuova e profonda instabilità. Lo scontro dialettico prevede un’opzione ben precisa: da un lato la fisiologica competizione tra forze e idee contrastanti, dall’altro la rottura traumatica di un impianto politico e istituzionale. Che si debba scegliere un nuovo cammino appare chiaro, marginali sono le posizioni di chi pensa di poter conservare o preservare l’esistente. L’inter­ rogativo riguarda il come, le modalità con cui gestire il crollo di una fase storica: con normalità, o al contrario, con il peso della discontinuità conflittuale12. E lo scossone più forte giunge dal vertice delle istituzioni. Il presidente Cossiga, dopo una prima fase di mandato inter­ pretata con profilo riservato e prudente, inizia a intervenire ripetutamente nel dibattito pubblico. Se inizialmente sembra timido e distante dal protagonismo del suo predecessore, a partire dal 1990 la sua proiezione esterna modifica sostan­ zialmente le prerogative quirinalizie13. Il presidente sceglie di intervenire con frequenza, su argomenti delicati e controver­ si, con ricorso a intensità crescente fino a togliersi di dosso persino le sembianze dell’arbitro di equilibri e competenze costituzionali. Un giocatore nella contesa politica, con una voce amplificata dai media, nella continua ricerca di spazi e interlocutori in grado di recepire proposte e indirizzi in­ novativi. Messaggi diretti che hanno come bersaglio politici e magistrati, spesso incrinando l’equilibrio tra i poteri dello Stato. Il peso di un presidente «picconatore» (l’espressione è sua) che demolisce l’esistente pensando così di poter avviare una riforma radicale dell’ordinamento e dei suoi interpreti principali. E come spesso accade nelle stagioni di svolta e ride­ finizione di rapporti di forza e appartenenza, il protagonismo del presidente della Repubblica si accompagna alla contestuale comparsa di ombre e interrogativi su vicende poco chiare. Nel 1990 forze di pubblica sicurezza ritrovano documenti delle Brigate Rosse in un covo a Milano, perquisito in precedenza; il memoriale di Aldo Moro conservato in un’intercapedine a via Montenevoso rilancia accuse e giudizi che coinvolgono direttamente il passato di Cossiga e le sue scelte di allora (era trascorso oltre un decennio) quando svolgeva le funzioni di

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ministro degli Interni. Poco tempo dopo una commissione d’inchiesta presieduta da Libero Gualtieri lancia accuse contro settori non marginali della classe dirigente, rea di non aver indagato adeguatamente sui misteri legati all’abbattimento di un DC-9 della compagnia aerea Itavia precipitato con i suoi 81 passeggeri nel mare di Ustica il 27 giugno 1980. Un muro di gomma impenetrabile mentre Cossiga è alla guida dell’esecutivo14. E da ultimo lo scontro sul passato, sulle parti nascoste della lotta al comuniSmo negli anni più duri della guerra fredda. Un giudice di Venezia, Felice Casson, indagando sui misteri di una strage del 1972 (a Peteano) si riferisce a una rete clandestina denominata Gladio, punto di riferimento di operazioni coperte, fuori da regole e controlli in chiave anticomunista. Una rete diffusa, legata ad ambienti della Nato e in una certa misura favorita e protetta da settori dello Stato e dei servizi segreti. In questo contesto la figura di Cossiga risulta centrale nella sua attenzione costante ai temi della difesa e dei servizi e nella funzione di ministro della Difesa negli anni Settanta. Stay Behind, questo il nome della struttura di riferimento, poteva giovarsi di appoggi diretti negli apparati dello Stato, di ferventi gladiatori pronti a intervenire qualora le sinistre avessero minacciato gli equilibri esistenti, di numerosi omissis che classificano parte della documentazione sulle strategie della lotta al comuniSmo. Cossiga accusa il col­ po, minaccia ritorsioni e rivelazioni, difendendo l’operato e la legittimità di Gladio, organizzazione figlia di un tempo ormai concluso. Una pagina di storia della guerra fredda che non si può condannare né ricostruire nella sua interezza, meglio voltare pagina, cercare di uscire dalle zavorre ingombranti del passato. E il conflitto si proietta sugli equilibri incerti del presente. Il presidente gioca a tutto campo, se la prende in varie occasioni con ambienti della magistratura, settori della classe politica, intellettuali e giornalisti. Si dice convinto che sia giunto il momento di cambiare, senza esitazioni di sorta, anche facendo ricorso al piccone. In un messaggio rivolto alle Camere esplicita i termini del suo disegno quando si riferisce alla necessità di riscrivere l’intero ordinamento giudiziario ponendo un limite all’esercizio dell’autonomia dei giudici. La strada per uscire dallo scontro sarebbe passata per un ricono­ scimento di poteri al presidente, uno schema presidenzialista per un approdo a una Seconda Repubblica come afferma con

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insistenza al rientro da un viaggio negli Stati Uniti nel maggio 1991. Una Repubblica con un esecutivo più forte, un presidente legittimato da un consenso diretto con gli elettori, capace di riequilibrare lo strapotere paralizzante del Parlamento. Un gioco pericoloso che si scarica su un sistema politico già sofferente e incerto. Le reazioni dei partiti prendono un segno opposto: il neonato Partito democratico della sinistra, concepito a seguito della svolta della Bolognina proposta dall’ultimo segretario del Pei, Achille Cicchetto, sceglie di presentare una richiesta di impeachment per alto attentato alla Carta costituzionale, poi respinta dalle Camere; la destra missina lo difende in Parlamento e nel paese. Il governo è attraversato da giudizi contrastanti: socialisti disponibili e favorevoli alla prospettiva di un presidente eletto, la maggioranza della De fortemente contraria. Difficile trovare punti di mediazione o di equilibrio. Il confronto divenuto conflitto attraversa tanto il governo quanto gli equilibri e le competenze tra i poteri dello Stato. Cossiga si rivolge continuamente agli italiani, cerca fiducia e partecipazione, apre canali di comunicazione mai esplorati nelle forme e nel linguaggio. Il 25 aprile 1992, nella giornata di celebrazione della liberazione dal nazifascismo, in un mes­ saggio televisivo, annuncia le proprie dimissioni anticipando la scadenza naturale. Una picconata conclusiva per segnare l’ultimo atto di un settennato turbolento. In quello stesso frangente vengono proposte e rilanciate prospettive localistiche fondate su identità e culture che met­ tono in discussione il centro del sistema. Una critica serrata lungo l’asse che dalle tante periferie della penisola punta il dito sulla capitale e quindi sulle dinamiche di lungo periodo del percorso di unificazione nazionale. Una trama di piccole e medie imprese presenti in aree con forte insediamento di partiti tradizionali e radicati15 che spinge per rinnovare forme economiche, infrastrutture obsolete e relazioni industriali. In uno spazio di critica diffusa s’inseriscono le leghe regionali, forze marginali, almeno all’inizio, capaci a sorpresa di presi­ diare zone geografiche e settori di sviluppo dove la De mostra di non reggere l’urto della modernità16. Già nel 1983 la Liga Veneta aveva superato il 4% , mentre nella vicina Lombardia la Lega iniziava a raccogliere consensi e rappresentanti in Parlamento. Il leader Umberto Bossi nei primi anni Ottanta entra in Senato mentre alla fine del decennio il movimento

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(Lega Lombarda) inizia a raccogliere, nell’indifferenza di tanti, percentuali significative. Stava così prendendo forma un sog­ getto politico che avrebbe messo in causa la cornice dell’unità nazionale, apprestandosi a diventare uno dei protagonisti del nuovo equilibrio in costruzione. Alla fine del 1989, nel mese di novembre, in contemporanea con la caduta del muro di Berlino si costituisce l’alleanza del Nord tra le due leghe, nelle elezioni amministrative dell’anno seguente la Lega raccoglie quasi il 19% dei consensi, secondo partito in Lombardia mentre in Liguria, Piemonte e Veneto si attesta attorno al 5%. Il voto alla Lega unisce percorsi e motivazioni non sovrapponibili: la protesta contro il centralismo romano, la presa di distanza dai partiti tradizionali e dal loro operato, la ricerca di un bersa­ glio possibile tra i meridionali o gli extracomunitari. Ragioni diverse in un consenso che tende a crescere raccogliendo proteste diversificate, umori e orientamenti stratificati nella società italiana, dalle intolleranze verso i diversi al recupero di istanze federaliste. Il movimento diventa un partito nelle assise del 1991, mentre il sistema politico è attraversato da nuove istanze di riforma e un segmento del ceto intellettuale discute sull’interrogativo inquietante che accompagna un’intera fase del decennio riassunta in un fortunato volume pubblicato per il Mulino da Enrico Rusconi del 1993 dal titolo: Se cessiamo di essere una nazioneì In un frangente così dinamico un movimento guidato da Mario Segni pensa di intervenire sul sistema elettorale met­ tendo in discussione il rapporto tra voti e seggi, garantito e ordinato dal meccanismo proporzionale. Un uomo che non aveva ricoperto ruoli di primo piano nel partito, figlio del pre­ sidente Antonio Segni, sceglie la via del ricorso al referendum. Atto di accusa verso l’immobilismo dei partiti e occasione di mobilitazione per cittadini in cerca di nuove speranze. Un referendum abrogativo di norme che se cassate avrebbero ri­ dotto il condizionamento del conteggio proporzionale aprendo così la strada a un sistema maggioritario per il Senato della Repubblica e per i comuni. La raccolta di firme partita in sordina trova ostilità manifeste tra partiti, Confindustria e associazionismo di vario orientamento. Il Partito comunista alle prese con la sua trasformazione post-1989 mostra dispo­ nibilità e attenzione per i quesiti referendari. Il richiamo alla società civile mobilitata e partecipe si contrappone al sistema

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dei partiti ormai proiettati verso un tramonto inconsapevole. Tra i quesiti ammessi al giudizio della Corte costituzionale l’abolizione della preferenza plurima viene considerato ammis­ sibile. Per i promotori si tratta della possibilità di intervenire sulle catene consolidate o sperimentali del voto di scambio, rendendo possibile l’indicazione di una sola preferenza per la Camera dei deputati. In realtà il referendum si carica di significati e scelte che vanno ben al di là del contenuto del quesito. Una valenza simbolica a fronte della richiesta di molti di non partecipare alla consultazione: libertà di voto per i vertici dello scudocrociato, indicazione di andare al mare per il leader socialista. In molti scommettono sul mancato raggiun­ gimento del quorum del 50% degli aventi diritto necessario per convalidare la consultazione referendaria. L’anno prima i referendum sulla caccia e sui pesticidi non avevano superato la soglia necessaria. Ma il 9 giugno 1991 l’affluenza di oltre il 62% del corpo elettorale cancella le previsioni astensioniste. Con il 95% dei Sì viene abolita la preferenza plurima sulla scheda per la Camera dei deputati: una sola indicazione per evitare accordi tra candidati, togliendo così il terreno propi­ zio alla costituzione di cordate o voti di scambio. Una spinta a cambiare regole e indirizzi, un movimento per la riforma elettorale che nello spazio di alcuni anni, nella prima metà del decennio interpreta e semplifica (anche in modo eccessivo) istanze di rinnovamento della politica e dei partiti. Sul lato sinistro dello schieramento il Pei aveva già iniziato 11 suo processo di revisione in un crocevia storico tra la frana del comuniSmo e il dibattito su una riforma elettorale di tipo maggioritario. Con il crollo del muro di Berlino il neoeletto segretario Achille Occhetto decide di accelerare tempi e mo­ dalità di una svolta per molti versi tardiva e necessaria. In un incontro a Bologna, in una storica sezione del partito il 12 novembre 1989, Occhetto inizia a profilare un cammino inedito che avrebbe condotto «a una cosa nuova e a un nome nuovo». Il segretario prende in mano le sorti di una comunità politica scavalcando organismi dirigenti, rituali e forme del popolo comunista. Da quel momento si apre un processo di cambiamento contrastato da dentro e da fuori, ma sostenuto al tempo stesso da militanti e dirigenti del Pei. Una lunga evoluzione, uno scontro prolungato che non si conclude al Congresso di Bologna del marzo 1990 dove le tesi di Occhetto

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per una nuova formazione politica della sinistra ottengono il 67% dei consensi. Le opposizioni interne si attestano poco sopra il 33%, ma la partita definitiva viene rinviata a prossimi appuntamenti. Nei mesi successivi la maggioranza del Pei mette a punto una dichiarazione d’intenti per promuovere il nascente Partito democratico della sinistra (Pds), con una quercia che simbolicamente cresce rigogliosa sopra il simbolo antico della falce e martello. La sinistra interna guidata da Pietro Ingrao non accetta la proposta e le assise di Rimini del gennaio 1991, ultimo congresso nazionale (il XX) del Pei, sanciscono la nascita del nuovo partito e contestualmente la scissione che porta alla formazione del Partito per la Rifondazione comu­ nista. La «C osa» (per riprendere l’espressione di un fortunato documentario girato da Nanni Moretti nel 1990), dopo un lacerante confronto di mesi, inizia a prendere forma nonostante le resistenze di varia natura. Un partito che punta a racco­ gliere l’eredità migliore del comuniSmo italiano senza tuttavia riuscire a intercettare e coinvolgere energie e risorse esterne in modo significativo. Persino il confronto sulla collocazione internazionale viene rinviato a una fase successiva e l’identità della nuova forza rimane sospesa tra i richiami novecenteschi (al socialismo o alla socialdemocrazia) e le suggestioni di un nuovo inizio in mare aperto alla ricerca di approdi inediti e imprevedibili17. Ma il coraggio di un’operazione così radicale e improvvisata dà alla «svolta» una grande responsabilità, quel­ la di aver tentato di costruire le condizioni per una risposta nazionale alla crisi globale del mondo comunista. E tra limiti, ritardi e resistenze, il percorso di superamento della storia e dell’identità del Pei si accompagna alla ridefinizione del sistema politico repubblicano tra la fine degli anni Ottanta e l’ultimo decennio del Novecento18. Sul versante opposto della maggioranza di governo i partiti tentano di resistere alle spinte innovative, tanto quelle che vengono da fuori (la fine della dicotomia con il movimento comunista dei paesi dell’Est) quanto quelle interne (basti il richiamo agli atteggiamenti prevalenti in materia di riforma elettorale). Così facendo la Democrazia cristiana e il Partito socialista cercano di limitare gli effetti delle novità di un mondo in tumultuoso e repentino cammino. La difesa dell’esistente rappresenta così l’ultimo atto di una classe politica insidiata da vari fronti. Quello più clamoroso richiama l’emergere di

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fenomeni di corruzione che coinvolgono settori della classe dirigente: politici, imprenditori in ricorso forsennato allo scam­ bio occulto di favori, privilegi e somme di denaro nei settori degli appalti pubblici o dei finanziamenti a partiti in cerca di sostegno. Un fenomeno radicato e diffuso che contribuirà in modo decisivo alla spallata per abbattere il vecchio mondo agonizzante. Il 17 febbraio 1992 il socialista Mario Chiesa viene arrestato in flagrante nel capoluogo lombardo: presidente del Pio Albergo Trivulzio, riceve una tangente come ricompensa di un sistema corrotto di cui è parte. Si apre così una fase delicata di rivelazioni che chiamano in causa politici e imprenditori di punta. Una stagione d’inchieste che da Milano si allarga rapidamente verso i palazzi della politica romana. È l’inizio di un terremoto, la stagione di Mani pulite, o la rivoluzione dei giudici in quella che diventerà presto la tangentopoli della Repubblica19. Una spallata senza precedenti. 2.

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In poche settimane, dopo l’arresto di Mario Chiesa, s’in­ nesca un meccanismo che porta alla luce un sistema diffuso di corruzione capace di coinvolgere settori significativi della politica e dell’imprenditoria italiana. Una rete di compor­ tamenti e vincoli, segnata da un’illegalità nascosta, tollerata e consolidata. L’azione della magistratura colpisce simboli e consuetudini in un crescendo di accuse e rivelazioni che scuote l’intero sistema paese. Dopo i primi gesti plateali, gli arresti, le manette e le conferenze stampa che alludono a nuove imminenti iniziative, iniziano a prendere corpo interrogativi profondi sulla tenuta del sistema, sugli esiti della stagione ap­ pena avviata e sulle ripercussioni possibili delle accuse contro i politici e gli imprenditori corrotti. Il clima generale mette in causa i fondamenti basilari dello Stato di diritto. Le accuse passano attraverso i media, le condanne vengono pronunciate in pubblico contesto, gli avvisi di garanzia a tutela degli inda­ gati diventano nel gergo comune una condanna senza appello. Un protagonista come Luciano Violante (magistrato, dirigente politico, a lungo parlamentare e presidente della Camera dei deputati dal 1996 al 2001) ha proposto una sorta di bilancio a distanza tra cifre e analisi di contesto:

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Le Procure della Repubblica determinarono, con un alto tasso di arbitrarietà, vincitori, superstiti e vinti. Le indagini penali acquisirono una funzione di pubblico lavacro, su sollecitazioni di gran parte della opinione pubblica e dei mezzi di comunicazione. La legalità assorbì la legittimità. Si verificò la tenuta di un paradosso: alla massima espan­ sione del principio di legalità, corrispose una sorta di arbitrarietà del diritto, calato nell’argomentazione inquisitoria e separato dal proble­ ma della sua legittimazione. La magistratura, soprattutto inquirente, si legittimava attraverso la legalità e la legalità si traduceva in pura e semplice inquisizione condotta da soggetti divenuti capaci, per la spinta dell’opinione pubblica e per l’assenza di contraddittori, di legittimare e di autolegittimarsi. Questo ruolo della magistratura non nasceva improvvisamente. Aveva alle spalle il lungo cammino dalla periferia al centro del sistema politico costituzionale, maturato tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, e il coevo abbandono del centro del sistema da parte dei partiti politici20.

Il confine tra ordinamento politico e ordinamento giuridi­ co, com’è noto, rappresenta una componente essenziale delle democrazie contemporanee. La crisi della politica e delle sue forme, la perdita di legittimità come luogo di formazione dell’in­ teresse generale determina un vuoto, un’assenza pericolosa e destabilizzante. Tracciare la linea di confine tra i due poteri (e ordinamenti) è un compito proprio della sovranità politi­ ca, necessario e salutare per l’equilibrio dei poteri e la stessa tenuta del sistema democratico. La prevalenza del giuridico, o secondo espressioni analoghe «l’imperialismo del diritto», è un fenomeno comune a molti paesi democratici nel tempo che precede tangentopoli. La rivoluzione dei giudici travolge mediazioni e compromes­ si, il fenomeno corruzione appare come uno dei tratti distintivi e consolidati dell’impalcatura del sistema e degli equilibri tra le sue parti. In tanti, troppi hanno tratto vantaggi e posizioni di privilegio da una vera e propria cultura dell’illecito che ha segnato comportamenti, mentalità, atteggiamenti verso lo Stato e le sue istituzioni. Con tangentopoli viene scoperchiato un mondo nascosto e influente, colpito dalle inchieste del pool milanese guidato da Francesco Saverio Borrelli e dagli effetti di rivelazioni sconvolgenti sui livelli apicali coinvolti. Le reazioni sono di segno opposto: da un lato il tentativo di limitarne il significato, circoscrivendo la corruzione ad ambiti e contesti ben precisi («le mele marce», o «il mariuolo» seguendo la de­ finizione che Craxi attribuisce a Mario Chiesa) o evidenziando

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una sottile e per molti versi perniciosa distinzione tra chi si arricchisce individualmente e chi invece cerca di finanziare in modo illecito il proprio partito o gruppo industriale, vista la mancata regolazione per legge dei costi della politica e della democrazia rappresentativa; dall’altro c’è chi spinge sulla discontinuità di una nuova stagione nel segno della legalità ritrovata sotto l’azione di una magistratura in grado di fare pulizia, di arrivare dove la politica non le ha mai permesso di giungere. Aprire quindi le porte per far entrare il vento del cambiamento con la convinzione (per molti sincera e persi­ no ingenua, per altri strumentale) che tutto possa cambiare in tempi rapidi e che tutti i mali di un sistema imperfetto e discutibile possano trovare ricette e risposte nel nuovo clima rigenerante. Una dialettica che attraversa l’ultimo scorcio del Novecento mentre le basi della Repubblica dei partiti vanno in discussione: corruzione penetrata nel sistema da combattere e ridimensionare o, al contrario, un sistema corrotto, corruttibile e irriformabile che deve solo essere sostituito nel più breve tempo possibile da un nuovo assetto, sospinto e motivato dal vento del cambiamento. L’ampiezza e la profondità del feno­ meno si riflette nei numeri di una lunga stagione. I processi per corruzione politica e amministrativa vedono impegnate 70 procure della Repubblica con procedimenti a carico di oltre 12 mila persone e l’emissione di 25.400 avvisi di garanzia; 4.525 arresti, 1.233 condanne. Nello stesso frangente vengono avan­ zate 507 richieste di autorizzazione a procedere per la Camera dei deputati e 172 per il Senato. Sei ministri si dimettono dopo aver ricevuto un avviso di garanzia. Nel corso del 1993, in un arco di tempo di venti settimane, meno di cinque mesi, tutti i segretari dei partiti di maggioranza lasciano l’incarico. Il 9 febbraio Bettino Craxi cede la segreteria del Psi a Giorgio Benvenuto; il 25 febbraio Giorgio La Malfa dà le dimissioni dal vertice del Partito repubblicano; il 15 marzo è la volta di Renato Altissimo dal Partito liberale e alla fine dello stesso mese Carlo Vizzini si dimette dalla segreteria del Psdi21. Il 23 giugno Mino Martinazzoli, segretario della Democrazia cristiana, annuncia lo scioglimento del partito e il contestuale inizio della diaspora De22. Sono almeno tre i piani che rafforzano le ragioni del crollo del sistema, la simultanea messa in discussione di un equilibrio in apparenza statico e immodificabile. Due in chiave interna:

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la proposta di rompere l’unità geografica e politica attorno al consenso raccolto da formazioni nuove, le leghe regionali che dal Nord minacciano il rapporto tra centro e periferia e la fisionomia stessa della Repubblica; le inchieste di tangentopoli che svelano un livello di corruzione diffuso e penetrante, un sistema illecito che ha garantito consensi, visibilità, posizioni di potere. E uno in chiave internazionale, la fine del mondo della guerra fredda nel quale si era inscritta e sviluppata la parabola del dopoguerra italiano; gli effetti dell’indimenticabile 1989 sarebbero andati ben oltre gli eventi di quel tornante storico. A distanza di decenni, fra i tre piani quello internazionale appare il più condizionante, quello più utile a ragionare sul dopo, sulle eredità di un equilibrio precario che non viene adeguatamente rimpiazzato da nuove compatibilità. Del resto, anche lo scenario globale presenta simili caratteristiche: dopo l’entusiasmo iniziale la fine del mondo bipolare lascia sul terreno molti interrogativi e poche risposte, molti conflitti disordinati e pochi indirizzi condivisi. La crisi del multipolarismo delle responsabilità globali condivise consegna alla fine del secolo una serie d’instabilità e conflitti che non trovano interpreti all’altezza delle difficoltà di una sfida inedita. Il tempo aiuta a definire protagonisti e scenari, più che una vittoria schiacciante contro l’impero del male, la fine della guerra fredda produce instabilità e disordine in teatri di guerra o di crisi mettendo in discussione la capacità di ordinare e governare antiche e nuove difficoltà. Un sistema internazionale debole, senza regole condivise e attori autorevoli e riconosciuti23. La scorciatoia della potenza tecnologica e militare (l’ordine monopolare centrato sulle scelte dell’amministrazione statunitense e sulle direttive che arrivano da Washington) si rivela ben presto un inganno che non consolida scenari rassicuranti. In questo panorama composito il crollo della Repubblica diventa parte di un più ampio scenario di ridefinizione internazionale di equilibri, assetti e rapporti di forza. Presto o tardi anche il quadro in­ terno cambia, simultaneamente travolto in modo irreversibile. I due ambiti sono connessi più di quanto non apparisse allora e gli anni che ci separano dagli eventi traumatici dell’ultimo decennio del X X secolo confermano l’interdipendenza tra crisi della Repubblica e conclusione della guerra fredda. In un passaggio così delicato la politica tradizionale mantie­ ne fino a quando è possibile i suoi riti e le sue ultime certezze.

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Come se in apparenza fossero due canali non comunicanti: il crollo del vecchio ordine mentre si avvicinano scadenze e re­ sponsi che lo caratterizzano. Come se nulla stesse accadendo, almeno in superficie. Inconsapevolmente si giunge all’appuntamento elettorale del 5-6 aprile 1992 in un clima difficile, di grande incertezza che non risparmia nessuno dei contendenti. Elezioni anticipate, concordate con il Quirinale per evitare che uno scontro sulle riforme istituzionali diventi ingestibile e lacerante. Cossiga, vertice delle istituzioni, indirizza un passaggio elettorale senza che sia aperta una vera e propria crisi di governo; il ricorso alle elezioni come stratagemma da gestire e concordare fuori da ogni dinamica istituzionale riconosciuta e riconoscibile. Ma gli accordi tra segreterie di partito e vertici istituzionali non garantiscono né la tenuta né tantomeno l’orientamento elettorale. Il terremoto politico travolge i partiti tradizionali. La De perde quasi il 5% dei voti, il Psi interrompe la sua breve parabola ascendente, attestandosi sotto il 14%, mentre il consenso del Partito democratico della sinistra è di ben 10 punti inferiori a ciò che il Pei aveva raccolto nelle ultime elezioni politiche. Rifondazione comunista, nata dalla scis­ sione avvenuta al X X Congresso del 1991, raccoglie il 5%. L’affermazione più significativa prende forma e contenuti di una chiara proposta antisistema: la Lega Nord, con oltre l’8%, diventa il quarto partito italiano pur essendo principalmente radicata nelle regioni settentrionali. Uno scenario frammentato e debole, senza alternative alla stanca riproposizione dell’alleanza di pentapartito in chiave competitiva e di sfida interna tra democristiani e socialisti e tra le diverse correnti dei partiti di governo in lizza per posti chiave. Le insidie per la coalizione dell’esecutivo sono di varia natura: la Lega e il suo consenso antisistema, i referendum istituzionali che prevedono una nuova tappa di consultazio­ ne, gli effetti su una larga parte dell’opinione pubblica della stagione di Mani pulite. La politica è sul banco degli imputati mentre un ritorno della violenza mafiosa condiziona il dibattito pubblico. In un clima di emergenza dopo l’omicidio del giudi­ ce Giovanni balcone24, visto che la maggioranza non riesce a eleggere il successore di Cossiga, una vasta convergenza par­ lamentare porta nel giugno 1992 Oscar Luigi Scalfaro, appena eletto presidente della Camera, al vertice delle istituzioni. Un

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tentativo di stabilizzare e rassicurare con un uomo della De che si era distinto per la difesa delle istituzioni da attacchi di varia natura25. Il varo dell’esecutivo non poteva discostarsi dai numeri e dalle compatibilità di un quadripartito affidato alla guida di Giuliano Amato. Il clima diffuso di critica alla poli­ tica rende impraticabile l’accordo non scritto che prevede un ritorno di Craxi a Palazzo Chigi. Amato si carica sulle spalle una crisi minacciosa, riduce il numero dei ministri e applica l’articolo 92 proponendo al presidente della Repubblica e alla fiducia delle Camere una compagine non condizionata dalle preventive trattative con i partiti. Escamotage non scontati per lanciare messaggi a un’opinione pubblica smarrita e per tentare di rimettere la politica al centro delle strategie di tenuta del sistema. Un passaggio complesso, immerso in uno scenario internazionale in continua evoluzione. Nuove responsabilità in corno d’Africa quando l’Italia partecipa a una missione internazionale in Somalia sotto l’egida delle Nazioni Unite. La forza multinazionale prende il nome ambizioso di Restore Hope, orizzonte di propositi e obiettivi che presto deve misurarsi con una realtà segnata dai conflitti armati tra le fazioni locali. Il mi­ nistro degli Esteri Emilio Colombo difende la scelta dell’Italia e il significato di essere rispettosi di alleanze e responsabilità internazionali. Il governo ne fa un punto di principio anche nelle strategie di risposta alla condizione precaria e pericolosa dei conti pubblici. La firma del trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992 traccia una strada: la fine della finanza allegra, la centralità di parametri e direttive da consolidare fino al 1996, i vincoli esterni come opportunità per intervenire sui tassi d’inflazione e sull’ammontare spaventoso del debito pubblico. Si apre così la pagina del risanamento come orizzonte necessario e priorità condivisa nell’azione di governo. L’esecu­ tivo si preoccupa di raccogliere il sostegno delle forze sociali sottolineando così le ragioni comuni per la lotta all’inflazione e il contenimento del costo del lavoro. Un’intesa costruttiva tra sindacati, Confindustria e governo come garanzia di relazioni industriali distese e premessa fondamentale per proiettare l’Italia nel cuore di una nuova tappa del processo d’integra­ zione continentale. Ma il cammino presenta difficoltà e costi. Dopo l’uscita della lira dal Sistema monetario europeo (Sme) il governo decide una nuova svalutazione della moneta e nel 1993 si rende necessaria una manovra economico-finanziaria

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di circa 93 mila miliardi con blocco dei pensionamenti di anzianità, congelamento dei contratti e degli scatti stipendiali nel pubblico impiego, contrazione della spesa sanitaria. Una sofferenza generalizzata che rischia di vanificare lo sforzo per il risanamento del bilancio. Come vedremo a breve non si tratta di un passaggio momentaneo. Tuttavia la difficoltà maggiore sulla strada della tenuta complessiva dell’esecutivo riguarda gli avvisi di garanzia che a cadenza quasi giornaliera colpiscono uomini della maggioranza. Dopo i segretari amministrativi della De e del Psi (Citaristi e Balzamo) è la volta del leader socialista che, a partire dal dicembre 1992, viene raggiunto da successivi avvisi emessi da diverse procure. Uno strumento di tutela degli indagati si trasforma in una condanna pubblica nell’agone di uno spetta­ colo che coinvolge magistrati, politici, imprenditori e media. Le accuse si ripetono, cambiano i destinatari del messaggio: corruzione e violazione della legge sul finanziamento pubblico ai partiti sono i capi d’imputazione più frequenti. Il fenomeno progressivamente si allarga: tutti i partiti di governo sono in misura variabile coinvolti, anche il Pei viene tirato in ballo dalle inchieste della procura di Venezia. La lista degli indagati si allunga arricchendosi di nomi ben conosciuti, distribuiti all’interno dei gruppi dirigenti dei partiti. Un sistema di potere ramificato che dalle forze politiche si muove verso istituzioni e dicasteri di spesa con una ramificazione profonda e di antica gestazione. La bufera travolge tutto e tutti, un’intera classe dirigente viene spazzata via. Circa un terzo dei rappresentanti che siede in Parlamento finisce sotto inchiesta o coinvolto in azioni giudiziarie di diversa natura. Si diffonde nell’immaginario collettivo la pericolosa rappresentazione di un’aula d’inquisiti delegittimata e incapace di rispondere all’onda crescente che monta nelle piazze cercando simboli e riferimenti nell’azione del pool milanese di Mani pulite. I giudici trovano così un largo consenso nell’opinione pubblica, mentre le inchieste iniziano a svelare comportamenti illeciti, beni nascosti o protetti su conti esteri segreti, connivenze diffuse con faccendieri e imprenditori spregiudicati. Un clima di scontro frontale con settori della classe politica che cerca con ostinazione di difendere onora­ bilità compromessa e comportamenti dalla dubbia moralità. Un contesto lacerante, per molti versi tragico. Basti pensare ai suicidi del deputato socialista Sergio Moroni, dell’ex presidente

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dell’Eni Gabriele Cagliari o alla morte improvvisa per arresto cardiaco di Vincenzo Balzamo. La piazza e la spettacolarizza­ zione di tangentopoli, il tintinnio di manette senza regole sono come un fiume inarrestabile: vengono diffusi verbali di interro­ gatori, pubblicati stralci di notizie riservate, trasmessi contenuti destinati alla riservatezza della fase istruttoria. Non mancano eccessi, protagonismi, comportamenti al di fuori da ogni regola scritta e condivisa. La domanda diffusa di moralità e pulizia viene intercettata nei modi più diversi e incanalata lungo un sentire generalizzato pronto a scavare una distanza incolmabile tra la vecchia politica e la nuova società civile in ascesa. Ogni mediazione appare saltata o ridimensionata rapidamente; chi difende i costi necessari di una politica fondata sulla parteci­ pazione viene accusato di fiancheggiare il moribondo sistema della corruzione e delle tangenti: favori elargiti generosamente, privilegi costruiti sulla base di comportamenti illeciti26. Oltre ai vertici dei partiti di governo e a settori non mar­ ginali dell’opposizione anche il mondo dell’impresa e della finanza, pubblici o privati che siano, vengono coinvolti dalle inchieste di tangentopoli. Una sorta di effetto domino che se non portò a condanne generalizzate e definitive contribuisce a diffondere e radicare un sentimento di distacco crescente e di critica verso la politica e le sue forme. La magistratura riempie così un vuoto di spazi, di fiducia, persino di speranze nella possibilità di ricostruire canali di partecipazione credibili. Diversi ministri vengono spinti o costretti a rassegnare le di­ missioni ben prima dei responsi giudiziari definitivi. Quando il governo mette a punto un decreto per la depenalizzazione del reato di finanziamento illecito (sotto l’egida del nuovo ministro di Grazia e Giustizia Giovanni Conso), le reazioni diffuse travolgono il contenuto stesso del dispositivo. Il presidente Scalfaro decide di non apporre la propria firma per arginare le accuse di chi gridava allo scandalo per un presunto colpo di spugna che avrebbe definitivamente rimosso gli effetti di tangentopoli. Nelle convulse giornate tra la fine del 1992 e i primi passi del nuovo anno, si fa strada un non meglio definito «governo del presidente», un protagonismo del Quirinale per colmare i vuoti e le incertezze della politica indebolita e incerta per via delle inchieste più diverse27. E sul versante della competizione tra i partiti un altro colpo avrebbe contribuito a indebolire l’immagine della politica e

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delle sue regole. Il tentativo di avviare un percorso di rifor­ me istituzionali attraverso un confronto parlamentare e nella commissione bicamerale per le riforme presieduta da Ciriaco De Mita. La contesa sui contenuti di una possibile riforma delle istituzioni passa per lo scoglio della legge elettorale che assume una centralità nel dibattito pubblico e nella dialettica tra le forze politiche. La strada indicata da molti porta verso correttivi di tipo maggioritario in una combinazione inedita tra proposte dei partiti e quesiti referendari che prevedono l’abrogazione del sistema proporzionale al Senato. Come in altre occasioni della storia della Repubblica, il referendum diventa un pretesto per spingere il legislatore a percorrere nuove strade. Ma la crisi della politica è troppo profonda per mobilitare risorse interne. Il referendum del 17 e 18 aprile 1993 si afferma con un segno ben preciso: una nuova spallata al sistema per imboccare con decisione la via di mag­ gioranze alternative in competizione tra loro. Un meccanismo bipolare che nelle migliori intenzioni dei proponenti avrebbe semplificato il quadro politico, ridotto il numero dei partiti e avvicinato il sistema politico a una dialettica tra maggioranza e opposizione. Difficile trovare un punto di equilibrio e gestire così un passaggio delicato che avrebbe ridisegnato tanto i soggetti politici quanto le regole di riferimento. Un nuovo 18 aprile che, come nel 1948, avrebbe riscritto la geografia della politica italiana privilegiando il formarsi di un polo di destra e di uno di sinistra con riferimenti espliciti o impliciti alla fi­ sionomia di modelli anglosassoni. Impresa che non ebbe molta fortuna; le coalizioni non avevano una base solida e la spinta verso un bipolarismo competitivo e semplificante non era un cammino semplice né scontato. La via referendaria raccoglie una spinta al cambiamento (diffusa, generalizzata e confusa al tempo stesso) che va ben oltre il quesito e il perimetro della legge elettorale28. Dopo la consultazione referendaria il governo Amato passa la mano. Il capo dello Stato incarica il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi di formare un nuovo esecutivo. Un governo di tecnici e competenti con il compito arduo di insistere nel solco tracciato del risanamento dei conti pubblici cercando di colmare parte del divario che si era aperto tra la società e la politica. Il primo tratto di strada risulta partico­ larmente accidentato. Ministri coinvolti nella formazione della

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squadra decidono di non entrare nel governo dopo che alla fine di aprile la Camera dei deputati nega l’autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi nei procedimenti aperti dalla procura milanese. Appare a molti come un nuovo tentativo di proteggere privilegi intollerabili; una reazione del palazzo assediato che punta a difendere le proprie prerogative minac­ ciate dalla violenza della piazza29. Il governo con insolita efficacia consolida risultati significa­ tivi in vari campi, con un mandato preciso e limitato, sostenuto trasversalmente da un consenso parlamentare diversificato. In pochi mesi vengono disegnati i collegi elettorali per garantire la possibilità di una competizione maggioritaria in circoscrizioni definite, e viene sottoscritta con enfasi condivisa un’intesa con le parti sociali per la riduzione del costo del lavoro, una forma di concertazione parte di un più generale metodo di governare collegiale e coinvolgente30. La credibilità internazionale del presidente del Consiglio gioca un ruolo significativo nel rial­ lineamento delle finanze pubbliche ai parametri di Maastricht, nella riduzione dell’inflazione e nel calo dei tassi d’interesse. Una politica combinata e virtuosa che porta al varo di una manovra finanziaria più leggera e sostenibile di quanto non fosse avvenuto nei passaggi di criticità lasciati alle spalle nel recente passato. In questo quadro la materia elettorale diventa argomento di confronto tra le parti: nella nuova legge sull’e­ lezione diretta dei sindaci nelle città, approvata dal governo Amato, e nella legge elettorale varata dal governo Ciampi in risposta all’esito del referendum di aprile. Quest’ultima prevede un mix tra un 75% di maggioritario consegnato ai responsi dei collegi elettorali uninominali e un restante 25% attribuito con un computo proporzionale secondo i voti raccolti dalle liste dei partiti. La legge, il cui primo firmatario è Sergio Mattarella, viene chiamata con ironia Mattarellum’1. Un combinato di criteri e orientamenti faticosamente (e non senza lacune e limiti) armonizzato tra Camera e Senato. Un compromesso costruito per accettare la sfida di un nuovo equilibrio senza tuttavia distruggere completamente la geografia delle forma­ zioni presenti in Parlamento. Una svolta che sembra proiettare il sistema verso una situazione inedita, una bipolarizzazione di forze e schieramenti che ben si manifesta nelle competi­ zioni elettorali di primavera e autunno 1993 per le elezioni dirette dei primi cittadini nelle maggiori città della penisola.

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Un disegno di riforma elettorale che coinvolge diverse istanze e forme della rappresentanza politica: per molti sembra un nuovo inizio, un cammino che fa ben sperare mentre la crisi dei partiti tradizionali appare inarrestabile. Ma il significato del biennio 1992-1993 è quello di una «frattura storica», come indicato dallo stesso Ciampi nelle sue memorie32, un tornante che porta l’itinerario della Repubblica fino sull’orlo del baratro in una condizione di incertezza pe­ ricolosa e destabilizzante33. Una fase che si apre senza che si abbia la percezione della direzione di marcia e degli approdi possibili34. Non sembri esagerato o fuori luogo il richiamo a un passaggio d’epoca. Nei primi anni Novanta del secolo scorso l’Italia entra nel vortice di una trasformazione senza precedenti, immersa in una fase di profondi cambiamenti de­ gli assetti internazionali. Tutto appare in movimento, difficile trovare una convincente graduatoria di urgenze e priorità che si materializzano nel breve spazio di alcuni mesi. Crisi finan­ ziaria, politica e istituzionale si sovrappongono; interrogativi inevasi riguardano la tenuta del sistema paese e le strategie di risposta delle classi dirigenti35. La «stagione di tangentopoli» mette in discussione il rapporto tra eletti ed elettori e la cre­ dibilità di un’intera architettura politico-istituzionale; la stessa identità nazionale è a rischio, sottoposta a critiche e verifiche continue36. Un contesto difficile, condizionante, per molti versi inedito e imprevedibile. Il tempo aiuta a definire contorni e problematiche, ma il passaggio tra la fine degli anni Ottanta e il decennio successivo consegna lasciti ed eredità che si spingono molto al di là degli anni e degli eventi considerati. Una lunga ombra che condiziona il cammino della Repub­ blica e le sorti di quella che ben presto verrà definita come una transizione; un cammino dagli approdi incerti, una ricerca di risposte e soluzioni che, a distanza di alcuni decenni, non trova conferme rassicuranti, pur cominciando a interessare studiosi di diverse discipline37. Più ci si allontana da quel tornante e meglio si vede la natura di cesura periodizzante che accom­ pagna il periodo immediatamente successivo al 1989. Sono almeno due gli aspetti che meritano attenzione e motivano la tensione interpretativa degli anni successivi. In primo luogo, la coincidenza e la sovrapponibilità tra il contesto internazio­ nale della guerra fredda e il quadro interno della Repubblica italiana: il crollo di quest’ultimo trova conferme e spiegazioni

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in una più ampia ridefinizione di equilibri e rapporti di forza38. Troppo spesso la scorciatoia di spiegazioni semplicistiche o monocausali ha portato fuori strada, verso ipotesi interpretative segnate dall’urgenza del momento o da un uso strumentale e distorto del passato. In secondo luogo, si evidenzia la debole valenza di una ricostruzione basata sulle presunte successioni di repubbliche non meglio definite o definibili. Cosa distingue­ rebbe la prima dalla seconda e soprattutto quando e perché sarebbe possibile narrare e interpretare una fase nuova, in base e quali assunti e riferimenti? Il cambio dei sistemi elettorali spinge verso azzardate numerazioni progressive: chi valorizza il vento del cambiamento punta a una discontinuità istituzio­ nale e politica. Ma il senso della svolta non si consolida né riesce a incidere sulle tare di lungo periodo di una democrazia difficile e per molti versi bloccata. Gli entusiasmi di allora si spengono lasciando delusione e paure. Col tempo il paradigma interpretativo si è rovesciato: dagli accenti e dalle speranze di un nuovo inizio possibile e ravvicinato si è passati agli inquieti scenari di un mondo senza regole e di una transizione interna priva di approdi rassicuranti. Interrogativi che hanno condizionato i decenni successivi, sovrapponendo in modo spesso confuso o casuale il crollo del muro di Berlino, l’avvio delle inchieste di Mani pulite, l’insta­ bilità internazionale e le spinte separatiste che si affacciano nel Nord Italia. Molti temi sono arrivati fino al tempo presente, aggravati da fattori inediti che hanno contribuito a sedimentare un senso di inquietudine e incertezza della nuova fase. 3. Mafia e politica Lo scorcio finale del Novecento scandisce il tempo di una nuova radicalizzazione nello scontro tra la mafia e settori dello Stato. Un tema antico quello della presenza dei poteri mafiosi che ha attraversato i decenni del dopoguerra, condizionando pesantemente territori, forme di sviluppo e radicamento della democrazia. La mafia ha una sua parabola storica, iscritta nella capacità di organizzarsi e trarre vantaggio dalle compa­ tibilità che la circondano e dall’assenza, dall’ignavia o dalla compromissione di potenziali argini o contropoteri. Dagli inizi degli anni Ottanta il potere dei clan vira verso uno scenario

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che tiene insieme l’attività sulla distribuzione e lo spaccio di stupefacenti con la capacità di influenzare il potere politico nell’acquisizione di commesse, appalti, finanziamenti occulti39. Dal mercato della droga uno straordinario flusso di ricchezza spinge famiglie emergenti in una nuova ascesa interna che si accompagna aH’allargamento dei tradizionali confini territoriali (patti della mafia siciliana con la camorra napoletana e così via, in buona parte del Mezzogiorno) e alla differenziazione delle attività illecite (droga, appalti, narcotraffico). Le mafie, nella declinazione plurale di un fenomeno diffe­ renziato, trovano punti di convergenza e collaborazione con la camorra, la ’ndrangheta o la sacra corona unita pugliese, in una sorta di finto equilibrio del terrore che poggia sull’inadegua­ tezza dei mezzi di contrasto e repressione e sull’omertà diffusa di settori non marginali della società italiana. La cronologia in questo caso opera come un pendolo. A momenti di stabi­ lizzazione e relativa tranquillità seguono strappi violenti, vere e proprie guerre di mafia che attraversano e condizionano i decenni dell’Italia repubblicana. La Sicilia in questo quadro è un terribile laboratorio. Con un salto di qualità di violenza e terrore si chiudono gli anni Settanta. Una scia di sangue che si conferma come una delle costanti di lungo periodo del nostro passato. Nel 1979, tra gli altri, vengono uccisi dalla mafia il capo della squadra mobile di Palermo Boris Giuliano, il magistrato Cesare Terranova con il suo autista Lenin Mancuso e l’anno successivo il presidente della regione Piersanti Mattarella, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile e il procuratore della Repubblica Gaetano Costa. Vittime assassinate da mano mafiosa con una lucidità e una violenza impressionanti. L’ascesa della famiglia dei corleonesi avviene per scelta, con una vera e propria guerra che colpisce simboli e funzioni dello Stato: politici, forze dell’ordine, magistrati, uomini in servizio in divisa o in abiti civili che diventano i bersagli di un’offensiva senza esclusione di colpi. Una lotta interna contro altri clan concorrenti (oltre mille i caduti nei primi anni Ottanta del secolo scorso) e una sfida armata allo Stato nel suo insieme per costruire una vittoria militare segnata da obiettivi ben precisi: controllo capillare del territorio, messa a punto di un sistema di potere colluso e diffuso, capacità di sfuggire alle strategie dello Stato democratico incerto e incapace di reagire con efficacia.

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La risposta delle istituzioni alla lunga catena dei delitti di mafia giunge nell’aprile 1982 quando il generale dei carabi­ nieri Carlo Alberto Dalla Chiesa viene inviato in Sicilia. Un servitore dello Stato, già qualificato nel campo della lotta al terrorismo, spedito in prima fila con compiti di coordinamento e di indirizzo nella lotta alla mafia. Una sollecitazione, quella di impegnarsi in prima fila mostrando così una complessiva strategia di attenzione volta a contrastare il fenomeno e a opporsi alla catena ininterrotta dei delitti. Viene accolto da una scia di sangue, quasi una vittima al giorno nella sola città di Palermo nell’estate 1982. Obiettivi differenziati. I politici scomodi come Pio La Torre, segretario regionale del Partito comunista, freddato a fine maggio40, insieme a uomini delle forze dell’ordine. Dalla Chiesa avverte un senso d’incertezza, una solitudine pericolosa. Il 3 settembre viene ucciso in un agguato. Era con sua moglie e un agente di scorta. «Muore così la speranza dei siciliani onesti»; una frase provocatoria che compare in via Carini sul luogo dell’attentato41. Solo cento giorni di permanenza in Sicilia, troppo poco per sconfiggere la mafia ma sufficienti per perdere la vita servendo lo Stato. In Parlamento viene approvata la legge Rognoni-La Torre che istituisce il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Una nuova legislazione, per quanto incompleta e con­ troversa, fornisce strumenti giuridici e capacità operative per combattere e contrastare la mafia nelle aule di tribunale e in una cultura della legalità che inizia a essere percepita e diffusa come valore di riferimento. Il capo dell’ufficio istruzione di Palermo, Rocco Chinnici, sollecita nuovi strumenti attraverso inchieste scottanti sui legami tra economia, politica e poteri mafiosi. Anche lui cade, ucciso da un’esplosione davanti alla propria abitazione; una bomba contro le indagini, uri escalation continua che semina morte e terrore. Cosa Nostra colpisce chi indaga su affari e amicizie che la vedono protagonista. Dopo l’omicidio di Chinnici viene istituito un ufficio speciale, un pool di magistrati guidato da Antonino Caponnetto con il compito di coordinare le indagini e le investigazioni per alzare il livello complessivo del contrasto alla criminalità. Un’azione congiunta di magistrati, forze di polizia, servizi d’intelligence. I risultati appaiono da subito significativi e tangibili; a partire dal 1984 un pentito, Tommaso Buscetta, inizia a collaborare con la giu­ stizia. È una svolta che permette al pool palermitano di creare

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le condizioni per arrivare al primo grande processo nonostante il susseguirsi di omicidi, attentati e intimidazioni ripetute. Il processo si svolge in un bunker predisposto per l’occasione in un biennio (1986-1987) prima che venga pronunciata la sentenza che porta alla condanna di 344 imputati, oltre 19 gli ergastoli e 2.500 gli anni di reclusione comminati. Una pietra miliare che scatena reazioni e plausi: finisce l’impunità, la mafia esiste; si tratta di un fenomeno radicato e pericoloso e si può combattere e sconfiggere con le armi del diritto42. Cominciano così a cadere resistenze e omertà. Il dispositivo della sentenza rafforza e rilancia le ragioni di un protagonismo mobilitato e diffuso all’interno della società italiana. Il passaggio a una nuova fase della lotta alla mafia prevede la collaborazione di tanti e la progressiva costruzione di un movimento largo in risposta alle sporadiche e simboliche iniziative di singoli. Basti il richiamo alla tragica fine di Peppino Impastato, ucciso nella primavera 1978, per interrompere la voce libera della sua «Radio Aut». Un omicidio messo in ombra dalla concomitanza con il caso Moro e dall’apparente marginalità della biografia sconosciuta di un ragazzo siciliano. Il processo alla mafia lascia il segno, spinge verso coordinamenti di gruppi e associazioni, consolida una base diffusa di protagonismo giovanile. Quando Leoluca Orlando, sindaco di Palermo nel 1985, guida la stagione della rinascita, di una possibile primavera cittadina, ogni timore nel pronunciare accuse e recriminazioni contro poteri occulti viene messo da parte. Per sconfiggere Cosa Nostra bisogna riconoscerla, sapere come si organizza, dove si nasconde, quali culture e comportamenti ne permettono la diffusione e il radicamento. Ed è in questo contesto che si muovono le nuove energie della società siciliana e meridionale. Fare della mafia una grande questione nazionale, chiedere conto alla politica e ai partiti, mettere così in discussione relazioni e consuetudini. Si fa strada una dimensione culturale della reazione possibile in una società civile consapevole: rovesciare il paradigma tradizionale della mafia buona e inoffensiva, utile e di aiuto se necessario, irrilevante nella geografia di distribuzione del potere. Al contrario bisogna creare le condizioni per una reazione in grado di scalfire le dinamiche di un potere antico che si rinnova cambiando funzioni (droga, appalti, politica) e interlocutori (i nuovi potenti).

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Viene scelto un magistrato, Giovanni Falcone, indicato come procuratore aggiunto nel capoluogo siciliano, con l’obiettivo di promuovere e coordinare una nuova stagione di lotta alla criminalità. Falcone conosce la realtà che vuole combattere, studia e da tempo compie ricerche sulle nuove strategie di Cosa Nostra43. Ha un piglio interventista e una competenza viva e intelligente, fuori daH’ordinario, su una materia così complicata. La sua nomina trova resistenze aperte e nascoste, manovre di magistrati che puntano a mettere in discussione il ruolo dei pentiti paralizzando così l’azione della nuova struttura. Il presidente Cossiga nella sua lunga stagione da picconatore se la prende con il Consiglio Superiore della Magistratura che lui stesso presiede. Punta il dito dal Quirinale contro le nomine di giovani magistrati in zone a rischio, con inchieste rilevanti. Si esprime di sovente con toni di sfida, sopra le righe (si scuserà in seguito, ma troppo tardi) usando l’espressione «giudici ragazzini» impegnati precocemente in prima linea. Uno di loro diventerà presto un simbolo, uno dei tanti eroi caduti al servizio dello Stato: Rosario Livatino, freddato il 21 settembre 1990 nei pressi di Agrigento. Le sue inchieste erano incentrate sui rapporti tra la mafia e la politica locale e sulle attività economiche favorite da coperture illegali. Azioni diverse convergono sull’obiettivo d ’indebolire l’azione della magistratura, tagliare le gambe a chi costruisce dispositivi di condanna anche a costo di smantellare la stessa esistenza del pool guidato da Falcone. E di nuovo un’oscilla­ zione pericolosa e irresponsabile del pendolo: da un lato gli strumenti e le strategie per combattere il fenomeno mafioso e il suo persistente livello di collusione e compromissione con lo Stato (o con alcune sue parti), dall’altro le reazioni violente e indiscriminate di chi non vuol perdere posizioni e privilegi. Una lotta senza quartiere che diventa più terribile e manifesta quando lo Stato punta verso il cuore del sistema criminale con le sue iniziative: scioglimento dei consigli comunali dove la presenza mafiosa è invasiva e condizionante, collaborazione tra corpi e funzioni dello Stato durante l’azione investigativa, rilancio dell’attività di protezione dei pentiti come strumento centrale per conoscere un fenomeno in evoluzione. In un qua­ dro di scontro che si radicalizza attorno a opzioni e provvedi­ menti qualificanti, il giudice Falcone viene chiamato a Roma a dirigere la sezione degli affari penali presso il Ministero di

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Grazia e Giustizia. Il guardasigilli Claudio Martelli, esponente di punta del Partito socialista, sceglie di dare un segno tangibile della volontà di promuovere - anche da Roma - un’azione coordinata e continuativa contro la mafia. E un’iniziativa la cui portata non sfugge ai diretti interessati. L’ultimo decennio del Novecento si apre con una nuova scia di sangue. La guerra riprende più cruenta di prima, senza esclusione di colpi. Il primo a cadere è un politico siciliano, un democristiano legato alla corrente di Giulio Andreotti: Salvo Lima muore as­ sassinato nel marzo 1992 dopo che il suo ruolo di mediatore e garante degli equilibri tra mafia e politica era saltato. Un punto emerge dalle dichiarazioni di pentiti e inquirenti: l’immunità non è più garantita, le condanne per i mafiosi rompono il velo di una presunta intangibilità della mafia e dei suoi uomini. Lima è il primo a saltare in una lunga lista di omicidi eccellenti. E in gioco la possibilità di mantenere il controllo del territorio nella sfida di supremazia con le istituzioni democratiche. Alzando il livello dello scontro attraverso una scia di attentati illustri la mafia pensa di difendersi contrattaccando, creando così le condizioni di una nuova stabilizzazione vantaggiosa per i poteri criminali. La dialettica presuppone il ricorso alla violenza e alle armi qualora vengano superati limiti e confini stabiliti. Quando le condanne diventano una possibilità concreta e un orizzonte possibile tutto diventa più conflittuale. Se lo Stato punta a recuperare beni e ricchezze accumulate in modo illecito e spregiudicato contando su impunità e connivenze, allora la mafia reagisce, non si lascia intimidire dalla forza della giustizia. Ed è in questo contesto che matura una nuova e intensa offensiva mafiosa: contro simboli e uomini capaci di contra­ stare con efficacia la mafia e il suo sistema di potere. Il 23 maggio 1992 Giovanni Falcone viene ucciso con un’esplosione mentre era in macchina sull’autostrada Palermo-Punta Raisi. Stava rientrando in Sicilia dalla capitale, insieme a sua moglie Francesca Mondilo e agli uomini della scorta. Sull’asfalto rimane una voragine, la macchina accartocciata balza in aria, la bomba viene innescata da un dispositivo attivato nei pressi dello svincolo di Capaci44. L’impatto sull’opinione pubblica è immediato e profondo. Con Falcone si voleva colpire uno Stato che reagiva senza compromessi o mediazioni. La giornata di lutto e lo sciopero generale uniscono diversi angoli della penisola. Un’ondata emotiva di partecipazione e vicinanza si

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stringe attorno ai familiari delle vittime. Ma il clima non è solo quello dell’omaggio a un magistrato coraggioso. Anche i funerali si svolgono tra contestazioni per le assenze dello Stato, l’isolamento del giudice e dei suoi colleghi, il pianto tardivo di chi avrebbe potuto e dovuto intervenire prima. Difficile ricomporre e tranquillizzare. Solo la vedova di uno degli agenti colpiti dall’attentato riesce a calmare un sentimento di critica radicale e diffuso che attraversa le navate della cattedrale normanna di Palermo. Rosaria Schifani nella bolgia generale sceglie di rivolgersi direttamente agli uomini di Cosa Nostra, restituendo persino una dimensione religiosa a un momento pubblico coinvolgente e conflittuale. «Uomini della mafia io vi perdono. Ma dovete inginocchiarvi. Dovete cambiare». La forza delle parole sembra fermare il tempo in un’istantanea capace di spegnere le forme di protesta verso i potenti accorsi a rendere omaggio alle vittime. Un silenzio prezioso che aiuta a pensare, a riflettere sulla posta in palio, fino a considerare il significato dell’azione repressiva dello Stato inscindibile dalla collaborazione non episodica tra magistratura e forze dell’ordine. Anche chi aveva osteggiato e contrastato l’azione della procura palermitana e le iniziative innovative del giudice Fal­ cone si mostra disponibile e attento. Molti veleni che avevano attraversato le stanze del palazzo di giustizia verranno alla luce nelle settimane successive all’attentato. Si apre da subito la discussione sul possibile successore di Falcone, sul profilo di un magistrato che garantisca continuità e rigore. Paolo Borsellino diventa una scelta obbligata, un’indicazione persino scontata: tornato a Palermo come procuratore aggiunto per molti era il candidato migliore. Impossibile fermare il tempo della violenza stragista. La mafia continua a colpire i simboli che la contrastano. Il 19 luglio, a meno di due mesi dall’o­ micidio di Falcone, Borsellino viene colpito in un attentato omicida: un’autobomba lo fa saltare in aria insieme a cinque agenti di scorta in via D ’Amelio a Palermo45. Un nuovo colpo alla credibilità dello Stato, incapace di difendere i figli migliori dalle minacce e dagli agguati. La famiglia del giudice sceglie la forma privata per il funerale mentre gli agenti vengono salutati con le esequie di Stato. Anche in questa occasione non mancano contestazioni pubbliche, persino clamorose. L’emozione di tanti si rivolge contro inadeguatezze, ritardi

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e lati oscuri della politica. La mafia colpisce ripetutamente senza che la reazione dello Stato sia in grado d’intervenire con tempestività o efficacia. Il duplice omicidio di giudici operosi e combattivi mostra una capacità di fuoco spaventosa da parte degli uomini di Cosa Nostra. Difficile difendersi, proteggere uomini e indagini, controllare porzioni di territorio che lo Stato rischia di perdere abbandonandole così al controllo serrato delle cosche. Ma il prezzo della nuova guerra di mafia è troppo alto. Si poteva e doveva reagire introducendo risorse e uomini all’altezza di una sfida inedita. E così viene messa a punto sull’onda emotiva di un colpo terribile capace di mettere in ginocchio le istituzioni, un’o­ perazione che prede il nome suggestivo di «Vespri siciliani»: migliaia di militari inviati in Sicilia con il compito di presi­ diare il territorio garantendo l’ordine pubblico. Un tentativo manifesto di costruire canali di vicinanza tra le istituzioni e la società smarrita, preoccupata dalla violenza omicida della mafia. Nella sequenza di poche settimane vengono perfezionati provvedimenti legislativi che puntano a difendere e tutelare i collaboratori di giustizia (le leggi sui pentiti) e a inasprire con­ testualmente le condizioni di reclusione per i mafiosi colpiti da condanne. Bisognava togliere ogni alibi a chi pensava di poter trovare una via ragionevole o un compromesso vantaggioso con i poteri criminali. Al contrario il sistema carcerario speciale, il 41 -bis applicato ai mafiosi, diventa il simbolo dell’isolamento da un contesto conosciuto e della ritrovata capacità dello Stato di poter reagire con efficacia. Per dirigere la procura di Palermo in uno dei momenti più difficili della vita democratica della Repubblica viene chiamato Giancarlo Caselli che nella procura di Torino aveva coordinato e guidato inchieste delicate contro il terrorismo di varia matrice. Nello spazio di poche settimane le condizioni della lotta alla criminalità organizzata cambiano radicalmente: uomini e mezzi impegnati in azioni investigative e repressive fino alla cattura del superlatitante Totò Riina, al vertice della cupola dell’organizzazione. Arrestato il 15 gennaio 1993 a conferma che la riscossa delle istituzioni passa per una stretta collaborazione tra la politica, la magistratura, l’insieme degli apparati dello Stato impegnati sul fronte anti-mafioso. Dispiegamento inedito di mezzi e una ritrovata e rinnovata volontà politica permettono di invertire una direzione di marcia così dolorosa. In quel frangente si apre il «processo

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del secolo» contro Giulio Andreotti imputato per i reati di partecipazione ed associazione a delinquere «semplice» e di tipo «mafioso». Il lungo iter (1993-2004) nei tre gradi di giudizio tra le sedi di Palermo e Roma si concluderà con una controversa assoluzione46. Tornando allo scorcio conclusivo del Novecento, gli anni Novanta del secolo scorso, il senso d’impotenza, quella sensa­ zione diffusa di smarrimento e incapacità di reagire inizia lentamente a declinare. La svolta appare coinvolgente e per­ suasiva: si può fare qualcosa per combattere la mafia mettendo a disposizione di un nuovo movimento intelligenze, capacità d’intervento e voglia di partecipazione. Una stagione che dalla Sicilia punta a coinvolgere il resto della penisola sulla spinta di un rinnovamento possibile di comportamenti e complicità consolidate. Una cultura antimafia che inizia a radicarsi, tro­ vare interlocutori e interpreti tra i più giovani e tra i tanti che si rifanno alle idee e al sacrificio di Falcone e Borsellino. I magistrati diventano simboli, icone di riferimento per assemblee scolastiche, manifestazioni cittadine, interventi di vario genere tenuti insieme dalla convinzione che «le idee non si sconfiggo­ no ma continueranno a camminare sulle gambe di altri». Il punto di svolta di una nuova energia investe i comportamenti e le tante contiguità che caratterizzano il fenomeno mafioso, il livello dello scontro rende partecipi molti che erano ai margi­ ni, protetti dall’ignavia o dal disinteresse. Dalla denuncia di un imprenditore contro l’odioso rituale del pizzo da versare nelle casse della criminalità organizzata, il segno di una possibile inversione di rotta si era già manifestato, prima della strage di Capaci. Libero Grassi ucciso nell’estate 1991, poco tempo dopo la sua denuncia, diventa argomento prezioso per chi si mobi­ lita, esempio per tanti che cercheranno l’appoggio dello Stato per poter denunciare o contrastare gli aguzzini. Sono dunque diverse forme e possibilità di mobilitazione che s’incontrano nella stagione antimafia della metà degli anni Novanta, dopo le stragi dei giudici, simbolo di un movimento che unisce il paese in una fase di difficoltà. L’impegno contro la mafia come chiave di partecipazione declinabile in vari modi o intensità, piccoli gesti o grandi iniziative: lenzuoli bianchi appesi alle finestre nelle settimane di ricorrenza delle stragi, tra il 23 mag­ gio e il 19 luglio. Forme di partecipazione morale e civile che vengono accostate con una certa enfasi alla resistenza civile

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della stagione delle origini della Repubblica. Molto viaggia per i canali della comunicazione mediatica ed è destinato a una breve parabola, ma tanta parte di quelle energie si consolida in esperienze, associazioni, segmenti di una nuova possibile classe dirigente. Don Luigi Ciotti, un sacerdote torinese, fonda insieme a Rita Borsellino sorella di Paolo, «Libera» raccoglien­ do esperienze presenti sul territorio e promuovendo la diffu­ sione di una cultura capace di andare oltre le tradizionali di­ visioni geografiche e politiche attraverso le quali venivano letti e interpretati i fenomeni criminali. La chiave di mobilita­ zione nella raccolta di firme a sostegno di una proposta di legge per il sequestro e l’utilizzo a fini pubblici e sociali di beni confiscati ai poteri mafiosi. E le iniziative dal basso, da una società civile che si organizza, trovano sponde e orecchie at­ tente nella politica che cerca d’intervenire a livello legislativo. Nel 1996 viene approvata una norma per interrompere il per­ verso meccanismo dei prestiti d’usura. Lo Stato offre protezio­ ni e assicurazioni a chi collabora, denunciando condizioni di ricatto o intimidazione. Una rete allargata che permette la valorizzazione di diversi protagonismi, un sistema di contrasto che passa per la costruzione di modelli e valori alternativi. Anche la Chiesa si muove; la denuncia dall’altare contro la presenza della mafia rovescia antiche ambiguità che avevano persino rafforzato le rassicurazioni diffuse sul fatto che la ma­ fia fosse un’invenzione di comodo di un fenomeno inesistente nella realtà. Un salto di responsabilità e atteggiamento che scuote il tessuto della società meridionale quando (rispettiva­ mente nel 1993 e nel 1994) vengono uccisi padre Giuseppe Puglisi a Palermo e don Giuseppe Diana nei pressi di Caserta. L’impegno sociale di presenze religiose entra in rotta di colli­ sione con gli interessi dei poteri mafiosi e con la stessa visibi­ lità della dialettica tra legalità e illegalità47. Il dato più rilevante nel rovesciamento di un paradigma consolidato secondo il quale la mafia veniva rappresentata come un’invenzione irrealistica o lontana. Al contrario si fa strada l’idea che il fenomeno sia radicato, condizionante e capace di cambiare natura, priorità e forme d’azione. Si può tuttavia sconfiggere a patto che il sistema nel suo insieme metta in atto politiche e comportamenti coordinati e intelligenti. Nello scorcio finale del Novecento la mafia cerca legittimità e consensi in attività economiche più che nel fuoco dello scontro

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armato con lo Stato. Scelte d’indirizzo che privilegiano il con­ trollo su nuovi territori e la capacità di investire sulla propria internazionalizzazione. Roberto Saviano, con il suo Gomorra pubblicato da Mondadori nel 2006, alimenta la conoscenza delle nuove frontiere di attività finanziarie e imprenditoriali che uniscono territori italiani con orizzonti e traffici lontani. Un sistema internazionale capace di condizionare e controllare risorse inimmaginabili. L’11 aprile di quello stesso anno viene arrestato a Corleone Bernardo Provenzano, uomo di punta della mafia siciliana; dopo di lui altri mafiosi illustri e superlatitanti vengono con­ segnati alla giustizia. Vittorie importanti e significative che confermano l’impianto d’azione che Giovanni Falcone aveva impresso alla lotta contro la mafia: conoscenza del fenomeno, capacità investigativa, contrasto da parte di un sistema de­ mocratico mobilitato nel suo insieme, centralità della cultura come terreno unificante. Un tracciato difficile, fatto di lutti, sconfitte e risultati conseguiti ma largamente insufficienti per giungere a un responso definitivo. La storia della criminalità organizzata non si chiude proiettando le sue ombre peggiori sugli anni e i decenni successivi. 4. Media e potere Nella parabola che porta la Repubblica verso una trasforma­ zione profonda, nel nuovo mondo che si profila dopo il 1989 i mezzi di comunicazione cambiano funzione e ruolo. Si tratta di un cammino lungo e complesso che s’intreccia con aspetti non marginali della modernizzazione italiana. Sin dagli anni Settanta del Novecento l’offerta di comunicazione subisce una svolta irreversibile. Una vera e propria mutazione genetica nel segno del pluralismo e della differenziazione. La prima rete televisiva privata viene inaugurata nel 1971 (Tele Biella) e di lì a poco esperienze di varia natura e orientamento comincia­ no a comporre un mosaico articolato. La società cerca nuovi canali per esprimersi e diffondere orientamenti e culture. Un argomento antico, quello del rapporto tra mezzi e contenuti, cosa viene prima e quanto gli uni possano influenzare e con­ dizionare gli altri. La comparsa delle reti private rappresenta l’inizio di un percorso fatto di linguaggi inediti, ambizioni

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e possibilità che non erano contemplate nelle compatibilità esistenti. Un segno dei tempi che oscilla tra due estremi se­ gnati da una dialettica continua: la libertà di espressione con forme e percorsi innovativi che si accompagna alla sfida di regolamentare, offrire un quadro di confronto con norme e riferimenti precisi48. Gli inizi della conflittualità tra vecchio sistema e nuove emittenti private avviene sotto la spinta di una spontaneità non regolata. Chi potrebbe intervenire, a livello politico e istitu­ zionale, sottovaluta l’irruzione di soggetti diversi, talvolta non chiaramente definiti o definibili. La qualità della democrazia è in mutazione perenne: la questione della formazione del con­ senso e del libero confronto tra opinioni e schieramenti viene rimandata a un secondo momento, in un tempo lontano. E così la crescita di emittenze e progetti comunicativi evidenzia il vuoto normativo, la necessità di tentare una regolamentazione per via democratica. Agli inizi appare a molti interessati un tema tecnico, un dibattito tra addetti ai lavori, ma col tempo la questione comincia ad avere una sua indiscussa centralità: come comunicare, cosa è lecito trasmettere, quali sono i limiti e le incompatibilità tra libero esercizio del confronto democratico e proprietà dei mezzi di comunicazione? Il nesso tra media e potere diventa un terreno di scontro che attraversa dagli anni Settanta l’itinerario della Repubblica e delle sue contraddizioni. La fase dello spontaneismo e del vuoto legislativo viene bruscamente interrotta da un intervento autorevole e vinco­ lante. La Corte costituzione decide di monitorare la situazione intervenendo per colmare una lacuna neH’ordinamento che non può essere considerata permanente. Il primo pronuncia­ mento è del 1976 quando viene stabilito che l’emittenza locale radiotelevisiva può consolidarsi qualora non si registrino le condizioni di un oligopolio ristretto. Liberalizzazione quindi con la contestuale e significativa indicazione della vitalità insita nel principio di concorrenza. La Corte anche al di là delle proprie prerogative come sigillo e conferma della possibile moltiplicazione del numero delle emittenti. Non si frappone alcun ostacolo né giuridico né amministrativo, il pluralismo dell’informazione dalle tante realtà locali di un paese pieno di diversità e squilibri avrebbe segnato il cammino del confron­ to tra le idee. Il numero delle radio private cresce seguendo un’impennata vorticosa: mezzi limitati, collocazioni spesso di

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fortuna, nuovi programmi ma soprattutto canali di comuni­ cazione tra la società e i media. Le radio libere in un tessuto capillare diventano la voce di tanti per denunciare, essere presenti, promuovere iniziative e opportunità49. Non si tratta di soggetti permanenti o strutturati, le radio libere o le tante emittenti pirata si muovono a partire dalle trasformazioni so­ ciali e dentro le cesure degli anni Settanta. Un protagonismo diffuso per dare risalto a situazioni private, a telefonate di sconosciuti, a storie di vita comune che hanno la convinzione e la possibilità di poter uscire dai confini deH’anonimato. La comunicazione rompe le barriere precostituite, apre gli spazi alla partecipazione, avvicina luoghi e culture lontani. Anche le distanze tra conduttori e ascoltatori si restringono: il carattere inclusivo delle conversazioni, la ricerca di interlocutori attivi e partecipi e la possibilità di saltare mediazioni e gerarchie rende tutto fluido e vitale. La radio come in passato rappresenta un primo passo, uno strumento diffuso nelle case degli italiani, a portata di mano come sottofondo costante e non invasivo nelle vite di tanti. E il passaggio dalla radio al piccolo schermo è un vero e proprio salto di qualità, tanto nella capacità del mezzo per la forza delle immagini, quanto nella promozione di com­ portamenti, stili di vita, messaggi riconosciuti e riconoscibili. Nello spazio breve di pochi anni i percorsi si differenziano: da una parte lo spontaneismo di radio ed emittenti locali, dall’altra la costruzione di una proposta comunicativa strutturata in grado di utilizzare i circuiti della pubblicità nella raccolta di fondi e nella promozione di prodotti sponsorizzati. Un salto di qualità verso una forma imprenditoriale nel settore delle comunicazio­ ni: orizzonte d’impegno per competenze e investimenti in uno sforzo coordinato mentre aumentano protagonisti o aspiranti tali del nuovo panorama della comunicazione radiotelevisiva. La dialettica frontale con il sistema radiotelevisivo diventa una realtà quando si fa strada il progetto di un imprenditore milanese spregiudicato e capace. In poco tempo diventerà un attore di primo piano del capitalismo italiano: Silvio Berlusconi. Il disegno prende origine dal lancio di Tele Milano alla metà degli anni Settanta, un canale che trasmette via cavo nella nuova città satellite costruita e finanziata dallo stesso imprenditore: Milano 2. Dopo le prime sperimentazioni, il passaggio dal cavo all’etere si accompagna al progressivo allargamento della zona raggiunta dal segnale: dal locale al regionale, da Milano

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alla Lombardia, con un orizzonte che progressivamente si allarga. L’ambizione di Berlusconi è una molla irrefrenabile, la prospettiva di una trasmissione su base nazionale diventa realistica e possibile: la sfida finale al monopolio della Rai può muovere i primi passi dal grattacielo Pirelli dove viene istallata l’antenna del nuovo soggetto. E i risultati non si fan­ no attendere, in pochi anni gli ascolti crescono su un crinale innovativo e carico di contraddizioni: la Tv commerciale si affianca al servizio pubblico entrando stabilmente nelle case delle famiglie italiane. La tecnologia disponibile segna un salto di qualità considerevole: velocità di trasmissione, diffusione ampia e soddisfacente, programmi d’intrattenimento che riem­ piono vuoti quotidiani, sogni e aspirazioni di tanti italiani. Tra il 1976 e il 1980 gli indici di ascolto quadruplicano. Mentre il nuovo decennio muove i primi passi si contano oltre 10 milioni di spettatori attratti e catturati dall’offerta di una televisione «leggera e coinvolgente», in grado di articolare contenuti e forme di un’offerta plurale. Una svolta radicale, un tornante persino antropologico. La pubblicità diventa una presenza ob­ bligata e costante, i messaggi che passano nel piccolo schermo condizionano comportamenti e scelte: consumatori omologati a modelli semplificati e immediati, l’intrattenimento come risorsa trascinante e identitaria. Sono le basi di una nuova cittadinanza diretta e inconsapevole che transita attraverso mezzi e contenuti di un nuovo soggetto imprenditoriale, un pilastro permanente del sistema paese. In pochi riescono allora a valutare la portata della discontinuità, l’incontro inedito e pervasivo tra tecnologia, messaggi semplificati e diretti, le forme di un intrattenimento diffuso che costruisce nel tempo un potenziale popolo di teledipendenti partecipi e coinvolti. La Rai sull’altro versante sottovaluta o blandisce il nuovo che avanza, convinta di potersi appoggiare sul prestigio e la professionalità di una presenza considerata irrinunciabile. Ma il cammino è lastricato di insidie e novità imprevedibili. I programmi della televisione di Stato iniziano a virare verso generi considerati più adatti alle trasformazioni di un tempo incerto. In sintesi, un palinsesto che progressivamente aumenta le ore di programmi in grado di competere con la cifra della televisione commerciale: telefilm, commedie, quiz e intratte­ nimento di vario genere. Tutto a danno della cultura, della prosa e delle impostazioni tradizionali e consolidate della Tv

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di Stato. Una pericolosa sovrapposizione tra finalità e ruoli del servizio pubblico che vengono mescolati e, in una certa misura, confusi con la ricerca ossessiva di una platea più ampia in grado di sottrarre spettatori e risorse pubblicitarie a una concorrenza agguerrita. Il settore privato concorrenziale si stringe progressivamente attorno alla figura, ai mezzi e al protagonismo di Silvio Berlu­ sconi. La Rai tenta di differenziare la propria offerta fino alla dimensione regionale della terza rete: un pluralismo territoriale per contrastare la dimensione locale dell’offerta commerciale. Un breve intermezzo che conferma la sostanziale sottovaluta­ zione del nuovo fenomeno emergente. Non era sufficiente né efficace differenziare generi e offerte, radicare una presenza in loco più consona alle diversità di un territorio multiforme. Negli anni Ottanta la potenza di fuoco del settore privato inizia a prendere le sembianze di un vero e proprio gigante poten­ zialmente in grado di ambire a un salto di qualità. Tele Milano spinge per definire una rete con oltre venti emittenti private e agli inizi degli anni Ottanta il quiz Sogni nel cassetto diretto da un ex uomo simbolo della Rai, Mike Bongiorno, crea le condizioni economiche e politiche per l’avvio delle trasmissioni di Canale 5. Pochi anni dopo Berlusconi rafforza il proprio potenziale acquistando in sequenza Italia 1 e Rete 4 rispetti­ vamente da Edilio Rusconi e dalla Mondadori. Il panorama dell’etere appare mutato profondamente, lo stesso confronto democratico tra idee e programmi ne risente. In modalità del tutto inedite si pone il tema del controllo, degli indirizzi politici a tutela di un’informazione libera e pluralista. Ma le buone in­ tenzioni dichiarate da molti devono fare i conti con il dilagare di costumi e atteggiamenti spartitori. Una prima fase si snoda sulla dialettica fittizia tra maggioranza e opposizione: i comunisti beneficiano della spartizione che caratterizza la nuova terza rete a base regionale mentre le forze di governo si concentrano sulle nomine e gli indirizzi dei due canali guida. Un equilibrio precario e dequalificante che lascia irrisolti i nodi del controllo e della gestione del mezzo televisivo mentre la sua diffusione con­ tinua a crescere toccando gli angoli più diversi della penisola. In assenza di regole e meccanismi certi, l’incuria di una classe politica convinta di poter trarre vantaggio dagli effetti di una deregulation tollerata e condivisa, favorisce la radicalizzazione di indirizzi spartitori: una vera e propria lottizzazione

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della Rai, dei suoi vertici e delle funzioni di indirizzo e governo delle reti. Mentre i partiti si dividono sulle ipotesi naufragate di leggi o regolamenti vincolanti, si fa strada velocemente e senza freni un groviglio perverso di comportamenti e interessi tra industria, finanza, settori politici e imprenditoriali legati al mondo dei media. Una competizione nascosta e per molti versi sottratta alle regole del confronto democratico, alla vigilanza degli istituti preposti a garantire una dialettica fisiologica tra poteri dello Stato e forme della rappresentanza politica. Così s’impoverisce progressivamente un tessuto di competenze e saperi che ha innervato e sostenuto il sistema radiotelevisivo pubblico: una competizione al ribasso che avrebbe presto indebolito l’insieme del sistema delle telecomunicazioni. Su un altro versante s’insinuano pericolosi disegni desta­ bilizzanti volti a utilizzare messaggi e strumenti mediatici per orientare e condizionare vasti strati dell’opinione pubblica italiana. Una finta pace tra pubblico e privato scossa dalle polemiche sull’appartenenza di uomini di punta del mondo dell’informazione alle liste della loggia massonica P2. Una pagina oscura e inquietante che porta alle dimissioni dal ser­ vizio pubblico degli affiliati alla setta e rilancia gli interrogativi sul ruolo dei media, sul peso del condizionamento imposto attraverso la diffusione di modelli e stili di comportamento. Lo schema che si afferma dopo il parziale e fittizio plura­ lismo degli anni Settanta è quello della dicotomia pubblico­ privato, in una sfida che non ha regole o perimetri di riferi­ mento. Dalla comunicazione televisiva il passo che conduce alla competizione per le risorse pubblicitarie è breve, persino obbligato. Vengono coinvolti i rapporti con il mondo dell’edi­ toria e della carta stampata, il variegato sistema imprenditoriale che si appoggia sulle vecchie e nuove vie di comunicazione. Un sistema misto o integrato che spinge per esaltare la concorren­ zialità degli attori protagonisti: la Rai e la Fininvest impegnate nella contesa e irreparabilmente condannate a un destino comune, quello di assomigliare sempre di più l’una all’altra50. Il mercato come scenario prevalente, la funzione di servizio pubblico ridimensionata o comunque misurata sulle compa­ tibilità e sulle priorità di una scala commerciale. Le stesse espressioni di sistema misto, o di competizione tra attori di­ versi vengono riformate dalle compatibilità di una concorrenza superficiale e non regolata.

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I fruitori del nuovo duopolio aumentano a ritmi vertiginosi: la programmazione si quintuplica in pochi anni (meno di un decennio tra il 1976 e il 1985) distribuendosi in tutte le fasce orarie possibili: la Tv scandisce la vita delle famiglie, fa com­ pagnia a chi è solo e anziano, propone messaggi e orizzonti di riferimento a chi è nell’età della formazione. Un apparecchio dal flusso ininterrotto di suoni e immagini capace di carpire l’attenzione e di modificare abitudini consolidate. Un sotto­ fondo costante, una colonna sonora invasiva e diversificata che s’impone nella vita degli italiani da Nord a Sud, senza distin­ zioni sociali o culturali. La programmazione è inframezzata da spot e pubblicità continue: il pubblico in costante aumento rappresenta innanzitutto un bacino imponente di potenziali consumatori. Nell’arco di pochi anni ogni distinzione o confine tra prodotti di cultura e proposte commerciali viene travolto dall’accessibilità delle produzioni di massa. L’allocazione di risorse orienta produzione e consumi, determina acquisti e distribuzione, facilita una semplificazione del marketing e degli stessi contenuti mediatici che invadono le case delle famiglie italiane. Ma è la qualità stessa della democrazia che si modifica, attraversata da tensioni e circuiti inediti. L’assenza di regole contribuisce a dilaniare un tessuto connettivo tra­ dizionalmente refrattario a ogni istanza di cambiamento. Una corsa scomposta per accaparrarsi strumenti, mezzi, forme di comunicazione nella morsa di un duopolio pubblico e priva­ to. Nei primi anni Ottanta del secolo scorso alcune sentenze per lo più a livello regionale pongono un freno alla pervasiva invasione delle reti Fininvest: pretori che sollevano un tema delicato e inesplorato, quello della possibilità di trasmettere senza limitazioni geografiche o normative. Il gruppo guidato da Silvio Berlusconi viene così limitato nella sua capacità di veicolare messaggi e prodotti, le sue reti vengono oscurate nelle zone di competenza delle procure pronunciate in tal senso: Lazio, Abruzzo, Piemonte. Ma la ferita si estende ben al di là della geografia di competenza. Intervenire dove non è prevista una normativa di riferimento diventa il simbolo di un’aggressione contro un soggetto privato che compete con il sistema pubblico della comunicazione. Un decreto-legge del governo Craxi ristabilisce le condizioni iniziali cassando il di­ vieto e proiettando così la programmazione delle reti Fininvest in una tutelata dimensione nazionale. La Camera boccia il

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primo decreto sollevando la questione d’incostituzionalità per una materia non regolata da una legge dello Stato. In risposta l’esecutivo predispone un decreto «Berlusconi-bis» a tutela delle reti private rafforzandone la proiezione di competizione su scala nazionale: assenza di una regolamentazione normativa come premessa per garantire la permanenza dei due soggetti in concorrenza tra loro. Un gesto di sfida anche nei confronti delle prerogative del Parlamento: il doppio decreto del governo Craxi conferma e rilancia le ragioni e le condizioni di una con­ flittualità continua e selvaggia, senza regole o freni. Protezioni e garanzie al settore privato in espansione: Berlusconi chiude questa parte della contesa con un risultato significativo ponen­ do le basi per il rafforzamento di una presenza che avrebbe segnato l’identità del capitalismo italiano. Il conflitto con la Rai attraversa la seconda metà del decennio e si proietta verso l’ultimo scorcio del Novecento. Il principale misuratore di equilibri mancati e di rapporti di forza diventa l’Auditel, un sistema di rilevamento che dal 1986 tiene sotto osservazione i comportamenti dei «consumatori» di televisione. Una sorta di termometro delle preferenze degli italiani e quindi uno straordinario veicolo per spostare risorse pubblicitarie dove la platea diventa più ampia. La programmazione (pubblica e privata, con significative eccezioni su ambo i lati) rincorre lo spettatore cercando di uniformare e omologare linguaggi e approcci. Il successo passa per numeri di ascolti e introiti pubblicitari misurabili e verificabili con gli strumenti di una competizione esplicita. Viene coniato il termine «Tv spazzatu­ ra» per evidenziare lo scivolamento complessivo verso forme di intrattenimento leggero, colloqui su temi frivoli e privati, interlocuzione diretta con spettatori in prevalenza passivi. Potenziali consumatori di offerte varie che i pubblicitari con sagacia veicolano attraverso immagini e parole del piccolo schermo. L’offerta di cultura nella sua accezione più ampia si restringe progressivamente, anche la funzione di alfabetizza­ zione e modernizzazione che ha accompagnato il profilo del sistema dei media nel lungo dopoguerra italiano appare come un lontano ricordo. Il fascino di uno strumento invasivo senza limiti né confini in grado di accompagnare costantemente generazioni diverse di italiani è un dato incontrovertibile, un punto di non ritorno. Le case si riempiono di apparecchi che popolano le diverse stanze riempiendo ore diverse della gior­

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nata, sui tetti le antenne modificano il paesaggio urbano. La dialettica tra Rai e Fininvest attraversa la parabola conclusiva di un assetto politico e istituzionale che aveva già mostrato sintomi di difficoltà e incertezza. Un pendolo continuo che oscilla fra i toni accesi di una guerra dichiarata e ineliminabile e le lusinghe di una pacificazione formale che possa garantire ai contendenti vantaggi e privilegi acquisiti. Nel 1990 la questione della regolamentazione del sistema radiotelevisivo torna prepotentemente al centro di tensioni accese. Il governo presieduto da Giulio Andreotti è scosso da un’iniziativa del ministro delle Poste e Telecomunicazioni, il repubblicano Oscar Mammì. Una proposta di legge (la Mammì appunto) che viene approvata con voto di fiducia dopo che l’aula del Senato aveva apportato modifiche significative su punti controversi dell’articolato. Un tema delicato che divide l’esecutivo fino a provocare una rottura: la maggioranza della De e il Partito socialista sostengono la legge e la scelta del ricorso alla fiducia, la sinistra democristiana si oppone fino alle dimis­ sioni di alcuni ministri che vengono tempestivamente sostituiti. Il segnale è netto, indiscutibile: si va avanti senza deviazioni dalla linea tracciata approvando il primo tentativo di costruire una normativa organica del sistema delle comunicazioni. Una legge che fotografa e certifica la situazione presente, gli equi­ libri scaturiti dal duello tra pubblico e privato, tra la Rai e la Fininvest. La cornice legislativa introduce novità e vincoli: tetto alla concentrazione delle reti a diffusione nazionale (massimo tre), incompatibilità nella proprietà di mezzi di comunicazione diversi (etere e carta stampata), limite per la raccolta pubbli­ citaria, per l’interruzione di film e documentari, per il tempo delle dirette, oltre ai divieti per programmi vietati ai minori. Viene confermato e rilanciato per via legislativa l’obbligo di informare attraverso le reti diffuse su scala nazionale. E così, due anni dopo, iniziano i telegiornali sui canali Fininvest affiancandosi o sovrapponendosi al tradizionale sistema dei notiziari Rai. Un’articolazione di proposte per una contesa che si consolida e si allarga a inediti scenari. Il senso della legge appare inequivoco: sanare una condi­ zione di fatto cresciuta e sviluppatasi nel quadro di un vuoto normativo. Chi prende le distanze dall’impianto della legge, allora e negli anni successivi, lo fa in nome di una regolamen­ tazione necessaria e urgente che tuttavia non trova spazi e

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contesti per prendere forma. Con l’approvazione della legge Mammì le concessioni per trasmissioni su scala nazionale ven­ gono attribuite anche a Videomusic e Telemontecarlo, senza intaccare il prevalente bipolarismo tra il pubblico e il sistema Berlusconi. Quest’ultimo rafforza posizioni aprendo - poche ore dopo l’approvazione della nuova normativa - il progetto Telepiù in accordo con la famiglia Cecchi Gori: una televisione via etere, a pagamento, primo passo verso un futuro incerto, non vincolato all’articolato di legge appena approvato. Una nuova fase quindi, con un quadro normativo controverso e la­ cunoso che contribuisce a consolidare il confronto a due. Dopo le elezioni del 1992 e la crisi dei partiti tradizionali, il vento del cambiamento spinge verso una nuova normativa che nelle intenzioni di alcuni avrebbe limitato il controllo della politica sulla Rai. Nel 1993 una nuova legge incarica i presidenti di Camera e Senato di nominare il Consiglio di amministrazione dell’azienda pubblica come segno di maggiore autonomia dai veti incrociati e dai vincoli di cordata. La questione di una possibile regolamentazione viene messa da parte: non si trova traccia di incompatibilità o riferimento a possibili conflitti d’in­ teresse, non si delinea un profilo certo che distingua l’ambito della gestione da quello proprietario. Ben altro sarebbe stato necessario quando il vuoto nella presenza di soggetti politici venne riempito dalla «discesa in campo» di Silvio Berlusconi nei primi mesi del 1994. Un messaggio semplice, registrato e mandato in onda simultaneamente dai due colossi dell’etere. La televisione racconta il passaggio a una nuova contrapposi­ zione; viene utilizzata per comunicare messaggi ma anche per sottolineare una presenza originale, quella di un imprenditore delle comunicazioni pronto alla sfida nell’agone politico. Un video con una regia accorta, un’immagine a effetto, la scrivania di uno studio bianco, ordinato e curato nei minimi particolari: foto di famiglia, sorrisi, vaso di fiori, sopramobili ben visibili, una libreria senza libri. Il modello è quello di uno spot televisivo rassicurante e coinvolgente: «L’Italia è il paese che amo», con riferimenti alla necessità di impegnarsi per evitare il peggio51. Tutto è ancora possibile nelle parole e nelle argomentazioni di un nuovo protagonista della vita politica italiana, persino un nuovo miracolo che avrebbe retto il paragone con anni lontani. Un’operazione di vicinanza e di immedesimazione con il successo di un imprenditore, con la sua indiscussa

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forza economica e con la possibilità di mettersi in moto per raggiungere nuovi traguardi. La forma del sistema politico stava cambiando repentinamente, lo scontro tra pubblico e privato, tra proprietari e gestori dei mezzi di comunicazione si sarebbe presto spostato su altri terreni. Note al capitolo sesto 1 Sulla fine della guerra fredda cfr. Romero, Storia della guerra fredda. Ilultimo conflitto per l’Europa, cit., pp. 306-346; Westad, La guerra fredda globale. Gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica e il mondo. Le relazioni inter­ nazionali del XX secolo, cit., pp. 449-461; Harper, La guerra fredda, cit., pp. 259-291; Gaddis, La Guerra fredda, cit., pp. 251-283. 2 Su questi aspetti Scoppola, Lezioni sul Novecento, cit., pp. 130-146. 3 Cfr. C.S. Maier, Il crollo. La crisi del comuniSmo e la fine della Ger­ mania Est, Bologna, Il Mulino, 1999. 4 Cfr. Europe’s «1989» in Global Context, in The Cambridge History of Communism, voi. Ili, cit., pp. 224-249. 5 V.M. Zubok, The Collapse of thè Soviet Union, in The Cambridge History of Communism, voi. Ili, cit., pp. 250-278. 6 Cfr. Pons, La rivoluzione globale. Storia del comuniSmo internazionale 1917-1991, cit., pp. 387-407; O.A. Westad, The Cold War and thè Interna­ tional History of thè Twentieth Century, in The Cambridge History of thè Cold War, voi. I, Origins, cit., pp. 1-19. 7 Si veda Italy and thè Cold War, in «Journal of Cold War Studies», a cura di L. Nuti, IV, 3, 2002, pp. 3-118. 8 Cfr. G. Carocci, Il trasformismo dall’unità ad oggi, Milano, Unicopli, 1992; Id., Destra e sinistra nella storia d’Italia, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 145-196; Sabbatucci, Il trasformismo come sistema. Saggio sulla storia politica dell’Italia unita, cit. 9 Cfr. J. Krulic, Storia della Jugoslavia, Milano, Bompiani, 1997; J. Pirjevec, Le guerre jugoslave. 1991-1999, Torino, Einaudi, 2002. 10 Cfr. A. Varsori, L'Italia e la fine della guerra fredda. La politica estera dei governi Andreotti (1989-1992), Bologna, Il Mulino, 2013. 11 Formigoni, Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), cit., pp. 9-20. 12 Cfr. S. Guarracino, Storia degli ultimi cinquant’anni. Sistema interna­ zionale e sviluppo economico dal 1945 a oggi, Milano, Bruno Mondadori, 1999, pp. 391-451.

13 Gentiioni Silveri, Francesco Cossiga, cit.; Galavotti, Francesco Cossiga, cit., pp. 325-363. 14 Sulla vicenda cfr. E. Amelio e A. Benedetti, IH870. Il volo spezzato. Strage di Ustica: le storie, i misteri, i depistaggi, il processo, Roma, Editori Riuniti, 2005; G. Fasanella e R. Priore, Intrigo internazionale. Perché la guerra in Italia. Le verità che non si sono mai potute dire, Firenze, Chia-

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relettere, 2010. La vicenda viene raccontata in un film di Marco Risi del 1991. Il muro di gomma. 15 Cfr. C. Trigilia, Grandi partiti e piccole imprese, Bologna II Mulino, 1986; Vecchio e Trionfini, Storia dell’Italia repubblicana (1946-2014), cit., pp. 274-279. 16 Si veda su questo G.M. Ceci, La fine della Democrazia cristiana, in «Mondo contemporaneo», 2-3, 2018, pp. 283-294. 17 Cfr. giudizi e analisi divergenti in V. Foa, M. Mafai e A. Reichlin, Il silenzio dei comunisti, Torino, Einaudi, 2002; A. Schiavone, I conti del comuniSmo, Torino, Einaudi, 1999; A. Asor Rosa, La sinistra alla prova. Considerazioni sul ventennio 1976-1996, Torino, Einaudi, 1996; B. Trentin, Diari 1988-1994, a cura di I. Ariemma, Roma, Ediesse, 2017, pp. 106-188. 18 Cfr. G. Napolitano, Dal Pei al socialismo europeo. Un’autobiografia politica, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 204-269; G. Vacca, Vent'anni dopo. La sinistra fra muta?nenti e revisioni, Torino, Einaudi, 1997, pp. 179-230; A. Reichlin, Il midollo del leone. Riflessioni sulla crisi della politica, RomaBari, Laterza, 2010, pp. 117-142. 19 Sulla stagione di Mani pulite cfr. E. Biagi, Era ieri, Milano, Rizzoli, 2005; M. Damilano, Eutanasia di un potere. Storia politica d’Italia da tan­ gentopoli alla seconda Repubblica, Roma-Bari, Laterza, 2012; A. Cariucci, 1992. Danno che cambiò tutto, Milano, Baldini & Castoldi, 2015. 20 L. Violante, Il ruolo della magistratura, contributo al convegno 19921993. Uno spartiacque nella storia dell’Italia contemporanea, a cura di F. Amatori e F. Cavazzuti, Ancona, 30 novembre-10 dicembre 2018; per uno sguardo d’insieme di lungo periodo A. Meniconi, Storia della magistratura italiana, Bologna, Il Mulino, 2012; e le riflessioni di un protagonista: E. Bruti Liberati, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, Roma-Bari, Laterza, 2018. 21 Per i dati ho fatto riferimento al contributo di Violante, Il ruolo della magistratura, al convegno 1992-1993. Uno spartiacque nella storia dell’Italia contemporanea, cit. 22 Ceci, La fine della Democrazia cristiana, cit.; Giovagnoli, La Repubblica degli italiani, 1946-2016, cit., pp. 189-197. 23 Cfr. C.S. Maier, Thirty Years After: The End of European Communism in Historical Perspective, in The Cambridge History of Communism, voi. Ili, cit., pp. 600-621. 24 II 23 maggio 1992; ce ne occuperemo in seguito. 25 L. Ceci, Oscar Luigi Scalfaro, in Cassese, Galasso e Melloni (a cura di), I presidenti della Repubblica. Il Capo dello Stato e il Quirinale nella storia della democrazia italiana, cit., voi. I, pp. 365-405. 26 Per un confronto interpretativo si veda Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, cit., pp. 546-576; Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico 1943-1996, cit., pp. 459-488; Gio­ vagnoli, La Repubblica degli italiani, 1946-2016, cit., pp. 172-225; Soddu, La via italiana alla democrazia. Storia della Repubblica 1946-2013, cit., pp. 205-252. 27 Cfr. Crainz, Storia della Repubblica. L’Italia dalla liberazione ad oggi, cit., pp. 291-315; Colarizi, Storia del Novecento italiano, cit., pp. 453-493.

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28 Cfr. M. Segni, La rivoluzione interrotta. Diario di quattro anni che hanno cambiato l’Italia, Milano, Rizzoli, 1994; Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico 1945-1996, cit., pp. 459-498; P.L. Ballini, Le «regole del gioco»: dai banchetti elettorali alle campagne disciplinate, in P.L. Ballini e M. Ridolfi (a cura di), Storia delle campagne elettorali in Italia, Milano, Bruno Mondadori, 2002, pp. 1-64 e in particolare pp. 35 ss. 29 Cfr. Craveri, Storia d’Italia, voi. 24, La Repubblica dal 1958 al 1992, cit., pp. 1010-1038; U. Gentiioni Silveri, Contro scettici e disfattisti. Gli anni di Ciampi 1992-2006, Roma-Bari, Laterza, 2013, pp. 3-56; Crainz, Storia della Repubblica. L’Italia dalla liberazione ad oggi, cit., pp. 291-306; Soddu, La via italiana alla democrazia. Storia della Repubblica 1946-2013, cit., pp. 205-218. 30 C.A. Ciampi, Un metodo per governare, Bologna, Il Mulino, 1996. 31 Espressione introdotta nel lessico politico dal politologo Giovanni Sartori in un editoriale Riforma, de profundis, in «Corriere della Sera», 12 giugno 1993, in Id., Come sbagliare le riforme, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 39. 32 Gentiioni Silveri, Contro scettici e disfattisti. Gli anni di Ciampi 1992-2006, cit., pp. 3-19. 33 Cfr. L. Cafagna, La grande slavina. L’Italia verso la crisi della demo­ crazia, Venezia, Marsilio, 2012. 34 Cfr. G. Napolitano, Dove va la Repubblica. 1992-94. Una transizione incompiuta, Milano, Rizzoli, 1994. 35 Sulla crisi del sistema politico italiano dei primi anni Novanta cfr. G. De Rosa, La transizione infinita. Diario politico 1990-1996, Roma-Bari, Laterza, 1997; Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico 1945-1996, cit., pp. 459-539; N. Tranfaglia, La transizione italiana. Storia di un decennio, Milano, Garzanti, 2003; Scoppola, Lezioni sul Novecento, cit., pp. 119-146; S. Colarizi e M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica, Roma-Bari, Laterza, 2012; G. Mammarella, Ultalia di oggi. Storia e cronaca di un ventennio 1992-2012, Bologna, Il Mulino, 2012; Damilano, Eutanasia di un potere. Storia politica d’Italia da Tangentopoli alla Seconda Repubblica, cit.; G. Crainz, Il paese reale. Dall’assassinio di Moro all’Italia di oggi, Roma, Donzelli, 2012. 36 Per una rassegna del dibattito storiografico cfr. U. Gentiioni Silveri, Identità italiana tra crisi e trasformazioni. Il dibattito sull’ultimo decennio, 1989-1998, in «Storia e problemi contemporanei», n. 22, dicembre 1998, pp. 111-133. Si veda inoltre: Scoppola, 25 aprile. Liberazione, cit.; E. Galli della Loggia, La morte della patria. La crisi dell’idea di nazione fra Resistenza, antifascismo e Repubblica, Roma-Bari, Laterza, 1996; S. Lanaro, Patria. Circumnavigazione di un’idea controversa, Venezia, Marsilio, 1996; E. Gentile, La grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione nel ventesimo secolo, Milano, Mondadori, 1997; G.E. Rusconi, Se cessiamo di essere una nazione, Bologna, Il Mulino, 1993; Id., Resistenza e postfascismo, Bologna, Il Mulino, 1995; Id., Patria e repubblica, Bologna, Il Mulino, 1997; R. Bodei, Il noi diviso. Ethos e idee dell’Italia repubblicana, Torino, Einaudi, 1998.

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37 Su questi temi cfr. U. Gentiioni Silveri (a cura di), Italy 1990-2014: The Transition That Never Happened, in «Journal of Modera Italian Studies», voi. 20, n. 2, Special Issue, marzo 2015. 38 Sull’evoluzione del contesto internazionale cfr. C.S. Maier, Secolo corto o epoca lunga? Lunità storica dell’età industriale e le trasformazioni della territorialità, in C. Pavone (a cura di), Novecento. I tempi della storia, Roma, Donzelli, 1997, pp. 29-56; Formigoni, La politica internazionale nel Novecento, cit.; Judt, Dopoguerra. Come è cambiata l’Europa dal 1949 a oggi, cit.; Romero, Storia della guerra fredda. Liultimo conflitto per l’Europa, cit. Sul rapporto tra mutamenti intemazionali ed evoluzione del quadro interno italiano cfr. A. Giovagnoli e S. Pons (a cura di), Liltalia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, voi. I, Tra guerra fredda e distensione, Atti del ciclo di convegni (Roma, novembre-dicembre 2001), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003; Romero e Varsori (a cura di), Nazione, interdipendenza, integrazione. Le relazioni internazionali dell’Italia (1917-1989), cit.; U. Gentiioni Silveri, Sistema politico e contesto internazionale nell’Italia repubblicana, Roma, Carocci, 2008; i numeri speciali: Italy and thè Colà War, in «Journal of Cold War Studies», cit.; Italie: la présence du passé, in «Vingtième Siècle. Revue d’hstoire», 100, ottobre-dicembre 2008. 39 Per un’analisi del fenomeno cfr. S. Lupo, Storia della mafia. La cri­ minalità organizzata in Sicilia dalle origini ai giorni nostri, Roma, Donzelli, 2004 (nuova edizione 2018); N. Tranfaglia, Mafia, politica e affari 1943-2008, Roma-Bari, Laterza, 2008. 40 Cfr. F. La Torre e R. Ferrigato, Ecco chi sei. Pio La Torre, nostro padre, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2017; G. Bascietto e C. Camarca, Duomo che incastrò la mafia. Pio La Torre, Correggio, Aliberti, 2018; T. Baris e G. Sorgonà (a cura di), Pio La Torre dirigente del Pei, Palermo, Istituto Poligrafico Europeo, 2018. 41 Sulla vicenda Dalla Chiesa cfr. P. Arlacchi, Morte di un generale. L’assassinio di Carlo Alberto Dalla Chiesa, la mafia, la droga, il potere politico, Milano, Mondadori, 1982; N. Dalla Chiesa, Delitto imperfetto. Il generale, la mafia, la società italiana, Roma, Editori Riuniti, 1984; S. Lodato, Trentanni di mafia, Milano, Rizzoli, 2008; A. Bolzoni, Domini soli. Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Milano, Melampo, 2012. 42 Sul maxiprocesso di Palermo cfr. A. Caponnetto, I miei giorni a Palermo. Storie di mafia e di giustizia raccontate a Saverio Lodato, Milano, Garzanti, 1992; G. Ayala e F. Cavallaro, La guerra dei giusti, Milano, Mondadori, 1993. 43 Sull’esperienza di Falcone si veda G. Falcone e M. Padovani, Cose di Cosa Nostra, Milano, Rizzoli, 1991; S. Lodato, Ho ucciso Giovanni Falcone. La confessione di Giovanni Brusca, Milano, Mondadori, 1999; M. Falcone e F. Barra, Giovanni Falcone un eroe solo, Milano, Rizzoli, 2012. 44 Cfr. G. Bianconi e G. Savatteri, Dattentatuni. Storia di sbirri e di mafiosi, Torino, Baldini & Castoldi, 2001; A. Corbo, Strage di Capaci. Paradossi, omissioni e altre dimenticanze, intervista di D. Billotta, a cura di S. Tamborrino, Figline Valdarno, Diple, 2016. 45 Sulla figura e l’omicidio Borsellino cfr. U. Lucentini, Paolo Borsellino.

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II valore di una vita, Milano, Mondadori, 1994; G. Bongiovanni (a cura di), Giustizia e Verità. Gli scritti inediti di Paolo Borsellino, Ed. Associazione Culturale Falcone e Borsellino, 2003; R. Borsellino, Il sorriso di Paolo, Ragusa, EdiArgo, 2005; A. Borsellino e S. Palazzolo, Ti racconterò tutte le storie che potrò, Milano, Feltrinelli, 2013. 46 Cfr. S. Lupo, Andreotti, la mafia, la storia d’Italia, Roma, Donzelli, 1996; G. Caselli e G. Lo Forte, La verità sul processo Andreotti, RomaBari, Laterza, 2018. 47 Sulla figura di don Puglisi cfr. B. Stancanelli, A testa alta. Don Giuseppe Puglisi: storia di un eroe solitario, Torino, Einaudi, 2003; F. Anfossi, E li guardò negli occhi, Milano, Edizioni Paoline, 2005; e un quadro d’insieme in S. Lodato, Dall’altare contro la mafia. Inchiesta sulle chiese di frontiera, Milano, Rizzoli, 1994. 48 Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, cit., pp. 306-312; F. Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia. Costume, società e politica, Venezia, Marsilio, 2003. 49 Cfr. G. Cordoni, P. Ortoleva e N. Verna, Radio FM 1976-2006. Trent’anni di libertà d’antenna, Bologna, Minerva, 2006. 30 Su questi aspetti cfr. G. Gamaleri, La fabbrica dell’immaginario. Produzione e consumo delle idee, Roma, Kappa, 2004. 51 Una recente rivisitazione in A. Gibelli, 26 gennaio 1994, Roma-Bari, Laterza, 2018. Per un confronto di vedute cfr. Crainz, Storia della Repub­ blica. L’Italia dalla liberazione ad oggi, cit., pp. 313-344; Giovagnoli, La Repubblica degli italiani, 1946-2016, cit., pp. 204-225; Colarizi, Storia politica della Repubblica, cit., pp. 204-216; Soddu, La via italiana alla democrazia. Storia della Repubblica 1946-2013, cit., pp. 227-238; Craveri, L’arte del non governo, cit., pp. 450-489.

Capitolo settimo

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1. Un bipolarismo imperfetto Nella tempesta del dopo Ottantanove il sistema politico italiano prende una nuova fisionomia. Un contesto che sem­ brava immodificabile e congelato in una dimensione perenne, senza tempo, inizia a trasformarsi sulla spinta di diversi fattori: interni (la crisi dei partiti, le inchieste della magistratura, gli effetti dei referendum elettorali) e internazionali (le ripercus­ sioni del crollo dell’ordine della guerra fredda). Con il passare degli anni la rilevanza del contesto internazionale si è andata progressivamente affermando: la Repubblica dei partiti è anche, contestualmente e consapevolmente, la Repubblica della guerra fredda, segnata da vincoli e rapporti che s’iscrivono pienamente nella parabola del bipolarismo internazionale post-bellico1. In questa chiave interpretativa la svolta dei primi anni Novanta del Novecento appare come un bivio. Da una parte le possibilità incerte di un nuovo inizio politico e istituzionale, riflesso dei referendum sulla legge elettorale e della partecipazione a una stagione fondativa di nuovi equilibri, dall’altra il calcolo di convenienze di parte o di partito che puntano ad accrescere il proprio consenso ottenendo risultati spendibili nel breve spa­ zio di una sfida elettorale. E così si arriva alla crisi anticipata del governo Ciampi, nei primi giorni del 1994: un segno dei tempi pericoloso e carico di conseguenze. Viene bruscamente interrotta una stagione che aveva contribuito, nell’emergenza del momento, alla definizione di alcuni indirizzi fondamentali: la riforma della legge elettorale, la gestione della prima tornata amministrativa con l’elezione diretta dei sindaci, l’accordo sul costo del lavoro con le parti sociali, il rilancio di una strate­ gia di attenzione e coinvolgimento a livello europeo. Primi contributi e pilastri di un nuovo cammino mentre il vecchio

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mondo giunge inesorabilmente al tramonto. La fine di quella stagione comporta l’archiviazione di un metodo di lavoro che aveva guidato e caratterizzato l’esercizio del potere esecutivo in una contingenza segnata dalla fine delle forze politiche tradizionali2. Con spregiudicatezza e calcoli di convenienza o di parte in molti scommettono sulle nuove elezioni pensando di poter ottenere un risultato significativo: il presidente della Repubblica scioglie così le Camere mentre il sistema entra contestualmente in una lunga e complicata campagna elettorale. Le aspettative di molti vengono smentite nello spazio breve di poche settimane, persino l’ipotesi che il voto amministrativo possa trovare conferme nelle elezioni generali viene travolta dal nuovo scenario. Una geografia politica radicalmente alternativa alle forme del passato: la De a inizio 1994 esce di scena, si scioglie. Al suo posto prende forma il Partito popolare gui­ dato da Mino Martinazzoli, il tentativo ambizioso di riferirsi al popolarismo d’impianto sturziano appare come un’ultima spiaggia, prima che tutto possa essere travolto dal nuovo che avanza3. E così in un breve arco di tempo la diaspora democri­ stiana si distribuisce nei poli in formazione di un bipolarismo spurio e per molti versi non definito: alcuni nel centrodestra, altri a sinistra nel costituendo campo progressista, mentre il Partito popolare gioca la carta centrista restio ad accettare il progressivo cammino indirizzato verso un sistema bipolare. Il quadro politico si muove in uno spazio inedito senza punti di riferimento. Tutti i calcoli sulle possibili sommatorie di consensi elettorali o sulla contiguità tra voto amministrativo e orienta­ menti generali si riveleranno infondati e forieri di confusione. Nelle amministrative di fine 1993 l’elezione diretta dei primi cittadini consolida le alleanze che sostengono candidati in prevalenza esponenti delle coalizioni di centrosinistra: a Roma, Torino, Napoli, Venezia, Trieste, Palermo. Una combinazione vincente proposta come ricetta sperimentabile per i tempi nuovi: coalizioni di partiti con settori della società civile tenuti insieme da figure indipendenti di varia e plurale estrazione o collocazione. Uomini di partito, imprenditori emergenti, intel­ lettuali o tecnici in grado di irrobustire il campo di forze che fa riferimento al centrosinistra dopo la frattura dei primi anni Novanta. Le premesse della controversa stagione dei sindaci costruiscono aspettative e sostengono ipotesi più ambiziose: uscire dalla crisi del sistema politico cercando di applicare la

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medesima formula in un’alleanza che nel vivo della campagna elettorale prende il nome dei progressisti, una gioiosa macchina da guerra secondo l’espressione azzardata coniata dal segretario del Partito democratico della sinistra Achille Cicchetto4. Ma il vuoto politico seguito alla dissoluzione dei vecchi partiti è troppo invitante per rimanere tale e di converso il campo momentaneamente sconfitto punta a riorganizzarsi con forme, parole e uomini nuovi. La sfida è solo agli inizi quando il Movimento sociale italiano (Msi) guidato da Gianfranco Fini si trasforma in Alleanza nazionale, offrendo così una sponda inedita e un riferimento possibile oltre le nostalgie del ventennio e dei suoi interpreti tardivi: uscire dall’isolamento della destra tradizionale per far breccia in un elettorato orfano della De e della sua funzione di garanzia e tutela contro la minaccia rossa. Ancora una volta la crisi delle categorie della guerra fredda, la messa in discussione del binomio amico-nemico favorisce la radicalità di una nuova dialettica per molti versi imprevedibile. La continuità con il fascismo viene progressi­ vamente affievolita per promuovere richiami a schieramenti della destra europea: una collocazione inedita oltre l’eredità della parabola mussoliniana e fuori dal perimetro consolidato dell’antifascismo costituzionale5. Una nuova destra inedita, un ibrido ancora in formazione tra culture, movimenti, riferimenti ideali. La Lega Nord, forte di un consenso significativo, punta a raccogliere il vento delle proteste contro la politica corrotta puntando sul target privilegiato della capitale: nel 1992 il leader leghista Umberto Bossi inizia ad alzare il tiro delle sue rivendicazioni antiromane. Comincia lentamente a profilarsi un nuovo orizzonte che dal Nord di un paese attraversato da interrogativi e tensioni mira alla rivendicazione di un impianto federalista come antidoto disgregante di fronte alla continuità dello Stato in difficoltà. Ma la partita delle imminenti elezioni anticipate spinge la Lega verso l’alleanza con altre forze, tra loro molto distanti. Anime diverse di una destra composita e per molti versi non facilmente componibile: spinte separatiste nei riferimenti leghisti, impianto centralista nella cultura di riferimento di Alleanza nazionale; radicamento al Nord da un lato, consenso in prevalenza al Centro-Sud dall’altro; richiami a patrie da scoprire o rivalutare (il mito agitato della «Padania» come culla di civiltà lontane) o la difesa di simboli e linguaggi dell’universo patriottico di stampo tradizionale o nazionalistico.

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Una miscela che non sarebbe stata neppure immaginabile nel tempo ormai sepolto della Repubblica dei partiti. In questo spazio dinamico s’inserisce un nuovo attore, il protagonista principale nella politica italiana durante lo scorcio finale del Novecento: Silvio Berlusconi. Il suo disegno ha una duplice funzione, immediata e di lungo periodo. Saldare le anime diverse e confuse di una destra in cerca d’autore e, al tempo stesso, offrire un progetto forte per una rappresentanza di interessi e ricchezze minacciati dagli esiti incerti della crisi. L’imprenditore milanese si colloca fuori dal recinto della po­ litica tradizionale, si era già espresso a favore di Gianfranco Fini nel ballottaggio per il sindaco di fine 1993 nella capitale, quando Francesco Rutelli ottiene la maggioranza guidando una coalizione di sinistra composita. Un’operazione profonda che punta a sdoganare sacche marginali non rappresentate pienamente e a costruire attraverso Forza Italia un contenito­ re capace di saldare i richiami calcistici al Milan vincente e i successi imprenditoriali di un uomo d’affari con le esigenze di un sistema politico alla ricerca di una leadership riconoscibile. La struttura d’impresa diventa il primo immediato riferimento, la base per appoggiare proposte e possibilità, forze mobilita­ te insieme a sogni e illusioni diffusi e socializzati tra milioni d’italiani. Una chiamata alle armi senza precedenti in un tempo molto breve: oltre 8 mila club in giro per la penisola, la struttura imprenditoriale in osmosi con il nascente partito si occupa di candidature, propaganda, selezione della futura classe dirigente. Un nucleo ideologico che tiene insieme richia­ mi alla cultura liberale, spirito imprenditoriale e un rilancio aggiornato dell’anticomunismo come collante di riferimento. Berlusconi salda segmenti diversi di un paese incerto, motiva aspiranti protagonisti, offre una cornice per sommare destre diverse separate da storie e culture tradizionali. Un messaggio salvifico che richiama, anche nel lessico, le possibilità di un nuovo miracolo italiano paragonabile all’ascesa degli anni del boom economico. Alle 17.30 del 26 gennaio 1994, attraver­ so gli schermi di una delle sue televisioni, Silvio Berlusconi «scende in campo», mostrando un sorriso rassicurante. Il messaggio dura poco più di nove minuti e arriva a 26 milioni d’italiani. E una svolta, nulla sarà più come prima anche se pochi si rendono conto dell’inizio di una nuova era. In breve tempo un imprenditore detentore di mezzo sistema televisivo,

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presidente e proprietario di una squadra di calcio, inarresta­ bile e vincente in Italia e in Europa, riuscirà a conquistare la maggioranza parlamentare fino a diventare capo del governo. Poche settimane, da gennaio a marzo, per voltare pagina, vin­ cere le elezioni per costruire un paese diverso, distante dalle compatibilità del passato, pronto a rispondere alle aspirazioni e ai sogni di tanti italiani6. La campagna elettorale assomiglia a una vittoriosa cavalcata. I cartelli elettorali dei partiti tradizionali, più o meno compositi e associati insieme, non possono reggere l’urto del nuovo fronte che avanza. L’alleanza progressista illusa dal voto amministrativo e convinta di poter ancora cavalcare l’onda di reazione alle inchieste della magistratura (gli effetti di tangentopoli) non si avvede del profondo cambiamento in atto. Berlusconi usa Forza Italia come collante: da una parte verso la Lega e dall’altra verso Alleanza nazionale. Così facendo il fascino evocativo del miracolo possibile si combina con una proposta capace di riempire il vuoto politico lasciato dal crollo della De e dei suoi alleati di governo. Una spallata fondata sul confronto tra schieramenti contrapposti e sull’inedito responso elettorale del sistema maggioritario. Il successo del nuovo partito è segnato dalla combinazione ben riuscita di fattori diversi. Innanzitutto, il fascino della discontinuità contrapposto alle ritualità della politica tradizionale: la rottura del nuovismo come categoria palingenetica che attraversa la Repubblica dopo il crollo del 19927. La ricerca di un nuovo inizio, della forza propulsiva di una frattura profonda capace di ridimensionare o addirittura azzerare il peso e il condizionamento del passato. In secondo luogo, il nucleo ideologico e culturale della proposta berlusconiana recupera l’ispirazione liberale, di tipo europeo, rin­ tracciabile nel documento originario promosso dal politologo Giuliano Urbani e da un nucleo d’intellettuali protagonisti della nuova stagione: Alla ricerca del Buongoverno. Appello per la costruzione di un’Italia vincente8. Un testo che rimane una carta d’ispirazione, progressivamente ridimensionata e poi sepolta dalla tempesta degli eventi e dagli indirizzi prioritari del nuovo leader in ascesa. Un contributo non irrilevante agli esiti della contesa viene dalla confusa pattuglia delle opposizioni; programmi incom­ patibili, leadership incerta e la convinzione non verificabile di poter trarre vantaggio dalla combinazione di fattori con­

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comitanti: l’ombra positiva del voto amministrativo che si allunga, gli effetti delle inchieste della magistratura contro le forze di governo imbrigliate nel vecchio mondo dei partiti tradizionali. La campagna elettorale, conclusa da un confronto all’ame­ ricana tra Occhetto e Berlusconi condotto da Enrico Mentana negli studi di Canale 5 il 23 marzo 1994, segna il passaggio al nuovo imperfetto sistema bipolare. Il rapporto tra consenso degli elettori e conteggio dei seggi non è così immediato e automatico. La vittoria del centrodestra, sotto la denomina­ zione di «Polo delle libertà», presenta le caratteristiche con­ traddittorie del nuovo tempo della Repubblica: numeri solidi e convincenti alla Camera (una maggioranza di 366 deputati su 630 nell’assemblea di Montecitorio), precario il risultato del Senato con una risicata maggioranza di 156 senatori sui 315 che compongono l’assemblea di Palazzo Madama. Un dato, quello della debolezza dei numeri a fronte delle nuove proposte politiche, che non viene valorizzato per quello che rappresenta: una strettoia difficile nel percorso che avrebbe condotto il sistema politico in una nuova condizione. La rap­ presentanza parlamentare prevede un quarto di eletti con il sistema proporzionale che si affianca alla preponderante spinta maggioritaria confluita nei collegi uninominali e rilanciata dai referendum elettorali d’inizio decennio. Una miscela complessa: nei collegi uninominali la sfida maggioritaria tra le coalizioni rappresentate dai singoli candidati, sull’altro lato della scheda elettorale l’indicazione sul simbolo di un partito. E alla Camera dei deputati il partito guidato da Silvio Berlusconi, con poche settimane di vita alle spalle, ottiene il 21% dei consensi, mentre il Partito democratico della sinistra di Achille Occhetto supera di poco il 20%. A seguire Alleanza nazionale con il 13,5% e il Partito popolare poco oltre l’l l % , la Lega Nord si attesta all’8,4% su scala nazionale con un radicamento pressoché esclusivo nelle regioni settentrionali. Un terremoto elettorale e politico che lascia il sistema in mezzo al guado: la compo­ sizione dei gruppi parlamentari riflette le scelte delle singole forze politiche mentre il condizionamento delle segreterie dei partiti si sposta al momento della scelta dei candidati nei collegi. Un puzzle difficile segnato da indicazioni personali, composizione delle coalizioni, capacità di raccogliere segmenti anche marginali di un elettorato senza certezze o convinzioni.

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Il cambio di nomi e offerte politiche non riesce a rispondere alla domanda di partecipazione che aveva animato gli anni precedenti, la possibilità di avvicinare il momento della scelta all’esercizio del diritto di voto: far scegliere ai cittadini da chi essere rappresentati e governati. Il guado non attraversato del tutto e in modo convincente restituisce spazi e possibilità alla mediazione dei partiti che tuttavia avevano perduto parte della loro dimensione nazionale ed erano in cerca di una nuova auto­ revolezza possibile. I tavoli per decidere candidati e indicazioni elettorali dei diversi componenti delle coalizioni diventano il luogo di estenuanti trattative di difficile composizione tra seg­ menti di ceto politico e aspirazioni di forze emergenti. Il segno dei tempi, si sarebbe detto anni dopo: coalizioni eterogenee, litigiose, tenute insieme da un calcolo momentaneo fondato sulla capacità di ottenere vantaggi e quindi elette dal nuovo meccanismo elettorale. Vincere numericamente senza avere un orizzonte solido con indirizzi chiari e priorità condivise per governare un paese inquieto. In questo contesto, che appare più nitido a distanza di tempo rispetto al momento dell’immediato responso delle urne, la vittoria del centrodestra rappresenta un dato certo e rilevante. La coalizione composita e spuria tiene insieme partiti e culture politiche, spinte separatiste con rafforzamenti centralisti, ambizioni liberali con rigurgiti protezionisti, richia­ mi all’efficienza con ammiccamenti alle compatibilità della pubblica amministrazione. L’architetto dell’impresa, Silvio Berlusconi, si appresta a ricevere l’incarico dal capo dello Stato per formare il suo primo governo. Un vincitore inaspettato che attira attenzioni e interpretazioni dagli osservatori di mezzo mondo: un imprenditore di successo che raccoglie consensi costruendo un’alleanza tra diversi e garantendo la tenuta e la coesione della nuova coalizione vincente. Per gli sconfitti si tratta di un passaggio chiave. Diverse le ragioni dell’insuccesso che si riflettono anche sulle biografie dei protagonisti coinvolti. Il Partito popolare, guidato da Mino Martinazzoli, non riesce a consolidare uno spazio alternativo alla bipolarizzazione tra le due coalizioni: il centro del sistema che aveva caratterizzato il posizionamento e l’azione della De­ mocrazia cristiana appare consumato e travolto dall’irruzione del nuovo spirito maggioritario e dei suoi blocchi portanti. Nel Pds il risultato prende le sembianze di una sconfitta storica:

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invece di raccogliere la maggioranza dei consensi come pre­ ventivato con enfasi superficiale, il partito di Occhetto viene sopravanzato da Forza Italia e sconfitto nella competizione tra le due coalizioni. Il segretario si dimette mentre a sinistra si apre la discussione sul futuro del paese consegnato alla carica pervasiva deH’esperimento innovativo berlusconiano. Il nuovo esecutivo segna una linea di demarcazione con il passato di culture politiche non rappresentate nell’area della maggioranza: i partiti della Costituzione o i loro eredi diretti sono fuori dal governo, in posizione marginale o minoritaria mentre il quadro istituzionale è in movimento. Tra osserva­ tori e addetti ai lavori si fa strada la strana e contraddittoria espressione «Seconda Repubblica», risultato della frattura del 1994. Ma l’itinerario da percorrere appare ben più complesso di quanto gli stessi vincitori non potessero allora immaginare. Il governo entra in carica nel maggio 1994, fa perno sul partito di Berlusconi, gli azzurri di Forza Italia, capace di tenere insieme un segmento della diaspora democristiana (Centro cristiano democratico), Alleanza nazionale e Lega Nord. Una coalizione variegata e composita che sembra poter affrontare il peso di una non meglio definita transizione. Una fase di passaggio verso un incerto futuro a portata di mano, immerso nel tempo delle coalizioni competitive9. L’illusione dura poco. Il cammino appare irto di ostacoli e la maggioranza che apre la X II legislatura non riesce neppure a concludere l’anno solare. Dopo le trattative d’insediamento con i delicati equilibri tra partiti e componenti interne, la ricerca della maggioranza al Senato fa vacillare le ultime convinzioni suha collocazione delle nuove forze politiche e sull’appartenenza dei singoli eletti. La fiducia a Palazzo Madama avviene con l’abbassamento del quorum grazie all’assenza di alcuni senatori, mentre Giulio Tremonti, eletto nel Patto Segni, diventa un uomo di punta dell’esecutivo targato Forza Italia, assumendo la carica di ministro delle Finanze. Una navigazione difficile, con maggioranza esigua numericamente e incerta politica­ mente. Nonostante la debolezza congenita, il passo iniziale tenta di rispondere alla spinta al cambiamento che attraversa la società italiana nello scorcio conclusivo del Novecento; le nomine per ruoli e funzioni rilevanti non vengono concordate con le opposizioni: vertici dei servizi segreti, consiglio di am­ ministrazione della Rai, le presidenze di Camera e Senato. Un

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equivoco dello spirito maggioritario lungo gli anni e i decenni successivi alla svolta delle elezioni del 1994 che accomuna per molti versi centrodestra e centrosinistra: chi vince può governare imponendo regole e decisioni non tenendo conto della debolezza dei numeri e dell’opportunità di procedere a colpi di maggioranza con strappi che rischiano di lacerare il tessuto connettivo della comunità nazionale. Su un altro versante il conflitto con l’esecutivo diventa manifesto. Il ministro di Grazia e Giustizia interviene con un decreto per depenalizzare diversi reati quali la corruzione e la concussione. Settori della magistratura protestano con insistenza fino a chiedere il trasferimento dalle proprie sedi di competenza. Il pool milanese impegnato nelle indagini di «Mani pulite» dà voce a una protesta diffusa, persino settori del governo (Lega Nord in primis) prendono le distanze dal dispositivo del decreto. In breve lo scontro diventa lacerante: poteri dello Stato contrapposti. Da una parte il governo, dall’al­ tra la magistratura alla guida delle inchieste di tangentopoli. Il ministro Biondi alza la posta, fino all’esposto del Consiglio Superiore della Magistratura rivolto contro il vertice del pool di Milano. L’organo di autogoverno dei giudici decide di ar­ chiviare le richieste del governo, ma la tensione non si placa. Francesco Saverio Borrelli (capo del pool) e Antonio Di Pietro (uomo di punta delle inchieste) diventano oggetto di attenzioni e programmate ispezioni da parte dell’esecutivo. Alla fine di novembre, nel quadro di un vertice internazionale a Napoli, un avviso di garanzia viene recapitato al presidente del Consiglio. La crisi non offre tregua, la polemica non risparmia le parti in causa: il partito dei giudici e coloro che si stringono attorno al governo democraticamente eletto nella tornata di marzo. Per protesta Di Pietro si dimette, esce dalla magistratura in polemica con le posizioni del governo. Ha inizio una nuova osmosi tra poteri: i protagonisti della stagione di Mani pulite vengono corteggiati dalle opposizioni e proposti come modelli di riscossa possibile nei confronti dell’esecutivo. In poche settimane la luna di miele del miracolo italiano sbiadisce. La legge finanziaria del 1995 interviene con tagli significativi sulla previdenza e la spesa sociale. Lo scontro con i sindacati fa va­ cillare la coalizione: una grande manifestazione riempie le vie della capitale mentre la funzione di collante di Berlusconi tra Alleanza nazionale e la Lega Nord vacilla. Il governo non tiene,

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la Lega minaccia uno strappo lacerante per le compatibilità della coalizione. Sull’altro versante, quello delle opposizioni, il voto amministrativo offre l’opportunità di far convergere il Partito popolare e il Pds su una piattaforma alternativa all’alleanza guidata da Berlusconi, si fa strada la costruzione di un’architettura appoggiata sui pilastri del centrosinistra (sulle due gambe di riferimento, il Pds e il Partito popolare). Il risultato positivo dell’opposizione fa aumentare litigiosità e smarrimento all’interno dell’esecutivo. Lina fragilità complessiva che si manifesta per chi vince nella faticosa formazione di alleanze incoerenti non forgiate da progetti politici o ipotesi di sviluppo. Alleanze segnate dall’orizzonte di un risultato nel breve periodo, dalla ricerca di vantaggi da spendere nel mercato politico immediato. Anche la coalizione di governo, che sembra tutto sommato solida e ben cementata dalla forza di Berlusconi, non regge l’urto dei tempi nuovi. Le dimissioni arrivano pochi giorni prima del Natale 1994 in risposta a un’iniziativa della Lega Nord, pro­ mossa direttamente da Irene Pivetti, la più giovane presidente della Camera della storia repubblicana, che aveva proposto d’istituire una commissione parlamentare per il riordino del sistema televisivo. Tema delicato e cruciale vista la peculiare biografia del capo del governo. La proposta, approvata con il consenso della Lega e delle opposizioni, manda in pezzi la coalizione incapace di gestire un conflitto così esplicito e la­ cerante. Berlusconi si dimette scagliandosi contro l’alleato del Nord, il leader leghista Umberto Bossi: si sente tradito e offeso da comportamenti che non tengono conto delle ripercussioni immediate e incontrollabili sul quadro politico. Il presidente Scalfaro gestisce la crisi, cerca di limitare i danni sul versante della tenuta economica e delle relazioni internazionali, fa appello alle prerogative costituzionali del capo dello Stato. Contrariamente a quanto auspicato da Berlusconi prende corpo in Parlamento una maggioranza contraria allo scioglimento anticipato delle Camere. Il capo del governo sfida il Quiri­ nale, alludendo a un golpe che lo colpirebbe favorendo una larga convergenza parlamentare: un governo di tecnici, non parlamentari, guidato da Lamberto Dini che era stato mini­ stro del Tesoro nell’esecutivo guidato da Silvio Berlusconi. Il Parlamento definisce il perimetro di una nuova maggioranza, la legislatura prosegue con nuove formule e priorità. In carica

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dal 17 gennaio 1995, il governo Dini resterà in sella fino al gennaio dell’anno successivo. 2. Politica e antipolitica La capacità seducente di Forza Italia viene in pochi mesi messa alla prova. La fine della vecchia politica e l’irruzione del linguaggio del nuovo mondo che avanza non stabilizza un quadro certo. La coalizione è troppo composita, tenuta insieme da calcoli spregiudicati e differenze insanabili. Il governo Dini bollato da Berlusconi e dai suoi più stretti collaboratori con il termine «ribaltone» mette a soqquadro l’impianto dicotomico tra forze politiche moribonde e nuovi soggetti fondati sulla crisi della politica e persino sull’idea di un suo necessario ribaltamento. L’antipolitica diffusa e informe viene utilizzata come chiave di accesso per rovesciare priorità e contenuti della Repubblica dei partiti10. Una sorta di tornante radica­ le: chi non ha esperienze politiche, competenze o capacità provate può meglio riuscire nell’esercizio della cosa pubblica saldando così le spinte al rinnovamento con le possibilità e le potenzialità di altri mondi (impresa, media, società civile). Ma come d’incanto tutto sembra franare sotto i colpi di una maggioranza parlamentare di segno diverso. L’affermazione di Berlusconi fa i conti con i complessi meccanismi della democrazia rappresentativa, il nuovo esecutivo raccoglie una fiducia trasversale (Partito popolare, Patto Segni, Lega Nord e parte del fronte progressista) mostrando così limiti e incongruenze del neonato bipolarismo post-guerra fredda. Al di là dei proclami, delle dichiarazioni roboanti e dei tentativi di difendere la retorica del muro contro muro, il governo si misura da subito con urgenze e priorità che ne qualificano la natura e il mandato temporaneo. Difficile distinguere l’urgenza degli interventi dell’esecutivo dal quadro complessivo delle compatibilità che lo tengono in vita. Il governo presieduto da Lamberto Dini interviene sulle politiche economiche nel solco del risanamento che Amato e Ciampi avevano posto come stella polare della Repubblica in cammino11. La manovra finanziaria correttiva punta al rientro nei parametri europei con una legge di bilancio onerosa e impegnativa: sacrifici per non perdere terreno con il nucleo trainante del processo d’integrazione.

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Il risanamento spinge per limitare l’effetto del debito storico accumulato cercando di valorizzare le possibilità inedite di un vincolo europeo come garanzia di sviluppo possibile12. Tra un primo intervento iniziale e la manovra successiva, il governo interviene per circa 50 mila miliardi, chiedendo alle famiglie degli italiani di partecipare con generosità e dedizione. Su un altro versante l’esecutivo riesce ad affrontare la matassa com­ plicata del sistema pensionistico, mettendo a punto un accordo con le parti sociali e rilanciando, nella prospettiva di breve periodo, le ragioni della concertazione. Un passaggio stretto ma significativo, la riforma delle pensioni mette nuovamente in luce la debolezza dell’impianto che aveva segnato il cammino di Forza Italia: vincere non significa poter governare, la ricerca del consenso immediato appare preferibile a ogni strappo o dichiarazione unilaterale. In pochi mesi le ragioni della me­ diazione politica, del confronto parlamentare, del dibattito tra posizioni differenti tornano al centro del contendere. Basti il richiamo alla nuova legge elettorale per le regioni, approvata con una larga convergenza parlamentare e fondata su un si­ stema proporzionale corretto con un premio di maggioranza che rafforza la coalizione vincente. La fragilità delle coalizioni viene messa a dura prova dalle tensioni internazionali che scuotono contesti e compatibilità chiedendo assunzione di responsabilità e indicazioni certe: un contingente italiano partecipa a fine 1995 a una missione Nato in Bosnia13. L’esecutivo cerca di rassicurare alleati e punti di riferimento, smussando gli angoli del conflitto con le opposizioni. La tenuta del governo è a rischio, troppi fronti aperti e troppe titubanze. Berlusconi disarcionato inizia a tessere la tela di una sua possibile rivincita. Serve un pretesto, un’occasione utile per rovesciare il tavolo delle alleanze. La bocciatura di referendum che toccano aspetti controversi del sistema ra­ diotelevisivo (massimo due reti per soggetti privati, limiti alla raccolta di pubblicità, divieto di spot nei film) sembra ridare forza e consensi a Berlusconi. La sua natura d’imprenditore televisivo emerge come dato centrale di una fase che allontana progressivamente il governo Dini dalle forze di centrodestra che lo avevano promosso e in una certa misura lanciato nell’a­ gone politico. Tra la fiducia all’esecutivo, la sua breve stagione legata a

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obiettivi e priorità circoscritte (manovre finanziarie, leggi sulla previdenza, riordino del sistema radiotelevisivo, legge elettorale regionale) e il crinale della sua crisi, si consuma un terremoto ulteriore che modifica il profilo di diversi protagonisti. La fine anticipata della legislatura inaugurata dal primo governo a guida Berlusconi travolge parte della nuova geografia politica e parlamentare. La Lega Nord è attraversata da un dissenso interno (Maroni contro Bossi) e dalla tenaglia soffocante di un partito che raccoglie proteste e spinte al cambiamento pur essendo collocato in una posizione di maggioranza, prima nell’alleanza con Berlusconi e poi nel sostegno all’esecutivo Dini. La formula implicita del partito di lotta e di governo non convince chi pensa di poter organizzare un fronte vasto e radicato contro il predominio del centralismo soffocante della capitale bocciata con l’epiteto «Roma ladrona». Bossi, in equilibrio tra spinte e aspirazioni contrastanti, gioca la carta dell’autonomia o della secessione minacciata per poi trattare da una posizione di forza con i suoi interlocutori più vicini. Si uniscono così progetti reali e a loro modo innovativi (il Parla­ mento del Nord a Mantova o la proposta di un mito fondativo nella Padania da riscoprire e valorizzare) con la capacità di dar voce a proteste diffuse e differenziate, rivolte contro ca­ ratteristiche e risultati del lungo processo di nazionalizzazione. Contraddizioni difficili da tenere insieme nonostante capacità e spregiudicatezze del gruppo dirigente leghista14. L’altro alleato della coalizione di centrodestra vive la sua stagione più inquieta. Il Movimento sociale italiano si scioglie, riassorbendosi definitivamente in Alleanza nazionale, nel genna­ io 1995 quando a Fiuggi vengono poste le basi per una svolta politica e ideologica che punta a una convergenza con le destre conservartici di stampo continentale. Accettazione del metodo democratico, incontro tra libertà e autorità, superamento in via definitiva dell’equivoco di essere una forza che si richiama al fascismo nel quadro di un sistema democratico. Un congresso per qualificarsi come soggettività di governo, rompendo con­ testualmente con i vincoli e le eredità più imbarazzanti della destra italiana. Non mancano oppositori interni, nostalgici del ventennio o convinti assertori del cammino della fiamma tricolore. Dubbi e interrogativi arrivano dall’altro fronte sulle reali ragioni della svolta e sulla credibilità dell’operazione Fiuggi proposta da Gianfranco Fini. Al di là delle valutazioni

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di allora e dei percorsi che seguono i primi mesi del 1995, il volto e la fisionomia della destra italiana cambia radicalmente; nella coalizione che si definisce strada facendo, oltre il peso e la centralità di Berlusconi, altre forze (nuove o trasformate) si preparano alla sfida per il governo del paese. Tra gli eredi della Democrazia cristiana la svolta prende le sembianze di una lancinante conflittualità senza esclusione di colpi: la polarizzazione tra centrodestra e centrosinistra finisce davanti ai magistrati che devono intervenire sulla spartizione e sui lasciti contesi: sedi, giornali, simboli, riferimenti parlamenta­ ri. Un mondo che crolla fragorosamente, lasciandosi alle spalle la stagione e persino le tracce di quella che era stata l’unità politica dei cattolici italiani. Anche gli uomini di riferimento sono contesi: Sturzo, De Gasperi, Moro o Fanfani vengono utilizzati per sostenere le ragioni degli uni o i torti degli altri15. Una discontinuità inattesa squarcia dubbi e interrogativi quando Romano Prodi annuncia di volersi candidare alla guida di una coalizione di centrosinistra. Vuole rispondere con un’i­ niziativa tangibile alla forza espansiva del campo rappresentato da Berlusconi e dai suoi alleati. Un uomo dello scudocrociato, esponente della sinistra democristiana, già presidente dellTri, legato agli ambienti cattolici e laici del riformismo bolognese. Prodi spinge il cattolicesimo politico verso una scelta: non si può stare in mezzo occupando il centro in attesa di tempi migliori. E così altri si spostano, popolando la coalizione di centrodestra con percorsi, biografie, simboli e richiami fino alla spaccatura tra il segretario del Partito popolare, Rocco Buttigliene (che va verso il centrodestra) e il presidente del partito, Giovanni Bianchi (che si colloca nel campo del centrosinistra). Il neo­ segretario Gerardo Bianco, dopo i postumi della separazione, si allea con il centrosinistra nelle elezioni regionali del 1995, i Cristiano Democratici Uniti di Buttigliene si muovono verso la direzione opposta. Le nuove alleanze prefigurano all’orizzonte una competizione con soggetti e coalizioni inedite16. Sulla sponda sinistra la breve stagione del governo Dini produce effetti non secondari. L’operazione Prodi mette in moto energie e rivalità sopite. Nell’ala più estrema di Rifon­ dazione comunista un gruppo prende le distanze chiedendo di sostenere il governo come opzione per contenere il pericolo dell’avanzata delle destre. La costruzione della nuova alleanza di centrosinistra accende in forme inedite le antiche divisioni

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tra riformisti e massimalisti, tra chi punta alla costruzione di una proposta di governo e chi si concentra sulla difesa di po­ sizioni e culture alternative, testimoniando la propria esistenza. Un passaggio chiave della lunga fase di trasformazione delle culture politiche della sinistra novecentesca, la distinzione tra socialisti, comunisti e socialdemocratici non regge l’urto, né gli ambiti di ricerca che attraversano la riflessione politica e intellettuale in Europa e in mezzo mondo. La fine del comu­ niSmo e la crisi del bipolarismo internazionale modificano in modo irreversibile il contesto: cambiano i soggetti, le culture di riferimento, le stesse forme e i contenuti della contesa. Ogni tentativo di stabilizzazione in chiave interna s’inserisce in un quadro in movimento, dagli approdi incerti e dalle connessioni imprevedibili. La navigazione a vista delle coalizioni litigiose o l’esperimen­ to dell’esecutivo guidato da Lamberto Dini rappresentano la conferma più evidente che la strada del bipolarismo è lastricata di difficoltà e incertezze. Il sistema nel suo complesso non si stabilizza, mentre lo scontro tra i poteri dello Stato si alimenta di nuove occasioni. Il centro del contendere rimane il confine tra politica e magistratura. La tensione si alza quando Antonio Di Pietro viene raggiunto da un avviso di garanzia. Il ministro di Grazia e Giustizia del governo Dini - Filippo Mancuso - si muove per chiedere che vengano presi provvedimenti contro il pool milanese: ispezioni e iniziative che possano coinvolgere l’organo di autogoverno della magistratura, il Csm. L’urgenza finanziaria per l’approvazione della legge di bilancio fa slittare di poche settimane il redde rationem. Solo dopo aver messo i conti in sicurezza il guardasigilli viene sfiduciato dalla mag­ gioranza di centrosinistra che sosteneva il governo dal gennaio 1995; nel versante opposto il centrodestra chiede le dimissioni del governo approvando contestualmente le iniziative di Man­ cuso. Un complicato intreccio di posizionamenti, appartenenze politiche e parlamentari, un calcolo spregiudicato da parte di molti su cosa potesse risultare conveniente a breve e nel me­ dio periodo. Il governo non può reggere spinte contrastanti e incontrollabili: la Lega cerca ripetutamente ragioni e occasioni per rompere con la strana coalizione di governo; tornano a fine anno in auge i temi dell’inasprimento delle politiche di accesso e le richieste di controllo sui flussi migratori. Una sorta di richiamo all’elettorato leghista che indebolisce ulteriormente

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la tenuta dell’esecutivo. Il Polo delle libertà, sotto la guida rassicurante di Berlusconi, cerca di rilanciare possibili accordi istituzionali svuotando così il governo da prerogative e compiti d’indirizzo costituente. All’orizzonte 1’awicinarsi della presi­ denza italiana del semestre europeo contribuisce a rafforzare le voci e le insistenti argomentazioni volte a offrire un ambito più credibile e solido. Sembra uno sbocco ragionevole e quasi obbligato quello di rafforzare una convergenza parlamentare, ampliare numeri e priorità condivise per misurarsi sulla scena continentale. Ma le dimissioni persino scontate di Dini, visto il venir meno del quadro precario che lo sorreggeva, aprono la strada a una trattativa che non corrisponde alle necessità di un passaggio delicato. I richiami condivisi sulla necessità d’intervenire sulle regole del gioco, rivedendo assetti e mecca­ nismi istituzionali, non restano che buone intenzioni sulla carta. Il presidente Scalfaro insiste sulla strada della ricerca di una possibile maggioranza parlamentare: larghe intese per mettere a tema le riforme istituzionali, impegnandosi nella presidenza dell’Unione. Il compito di sondare possibili interlocutori al progetto del Quirinale viene affidato ad Antonio Maccanico, uomo delle istituzioni, tessitore di relazioni e rapporti tra­ sversali da lunga data17. Il suo compito si rivela presto una vera e propria impresa. Da una parte la ricerca di un’ampia convergenza parlamentare per mettere in cantiere riforme giudicate da tutti urgenti e necessarie, dall’altra le esigenze delle singole forze politiche proiettate verso un’imminente campagna elettorale. Maggioranze variabili, quindi, e difficil­ mente componibili: sui sistemi elettorali o le riforme istituzio­ nali si affaccia l’ipotesi di una forma di semipresidenzialismo (modello francese come base) quale terreno d’incontro tra i partiti più grandi: Forza Italia, Pds e probabilmente Alleanza nazionale. Ma il resto del Parlamento teme la marginalità di una rappresentanza che non sarebbe in grado di competere, nelle forme previste, dalla sfida nei collegi uninominali. La paura prevale sul coraggio dell’innovazione, si ripresenta in forme nuove il celebre paradosso di Kelsen secondo il quale più un’assemblea (un Parlamento in questo caso) ha bisogno di riforme e innovazione e meno trova le risorse al proprio interno18. Così vengono messi da parte i tentativi orchestrati da Maccanico per rafforzare il cammino di possibili riforme e prendono corpo, al contrario, temi caldi del confronto tra

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le coalizioni: la giustizia innanzitutto, le garanzie su interessi e proprietà delle aziende del mondo Fininvest. Dopo i primi segnali su una verifica di comuni intenti, ogni ipotesi di com­ promesso tra le parti viene bollato preventivamente con il termine «inciucio», segno indelebile di un tempo nel quale i contenuti restano sullo sfondo, marginali e talvolta irrilevanti. Prevale lo scontro, il muro contro muro, tanto che la caduta del governo Dini e il fallimento del mandato esplorativo di Maccanico avvicinano la scadenza elettorale compattando le opposte fazioni. Il centrosinistra guidato da Romano Prodi fa ricorso alla simbologia deH’Ulivo come schieramento e campo di forze. Un albero ben piantato nelle radici delle culture riformiste del vecchio continente, riferimento alla ricchezza e alla peculiarità del paesaggio mediterraneo. L’Ulivo nasce da una strana mi­ scela di partiti antichi (Pds, Ppi, Verdi, Socialisti) e nuovi (il Rinnovamento italiano guidato da Dini e l’Unione democratica promossa da Antonio Maccanico) e di aspirazioni che ne defi­ niscono un percorso più ambizioso delle stesse componenti che 10 animano. Per esaltare il meccanismo della legge elettorale l’Ulivo mette a punto un patto di reciproca desistenza con 11 partito di Rifondazione comunista, formalmente fuori dal perimetro dell’alleanza. Una collaborazione strategica decisa a tavolino e calata nei diversi collegi dove l’elettorato si sarebbe espresso per il candidato dell’Ulivo o, in altre circoscrizioni elettorali, per i candidati scelti con Rifondazione comunista e rappresentati sotto il simbolo dei progressisti. Un appoggio condizionato e preventivo; una nuova conferma delle tortuose strade imboccate dal bipolarismo italiano e della natura incerta e contraddittoria delle coalizioni che lo esprimono. Sull’altro versante il centrodestra si ritrova nel nuovo «Polo per le libertà» guidato dal perno di Forza Italia e dalla leadership indiscussa di Silvio Berlusconi. Ne fanno parte quat­ tro partiti, quello del candidato premier, Alleanza nazionale e due segmenti della diaspora democristiana: il Centro cristiano democratico e i Cristiano democratici uniti. La Lega Nord, invece, rispolvera la sua natura antisistema e si scaglia contro le due coalizioni, espressioni di un potere romano-centrico, da combattere e rifiutare con ogni mezzo. In un clima segnato da inchieste e presunte rivelazioni giudiziarie che coinvolgono uomini di punta del gruppo dirigente di Forza Italia, il paese

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si avvia verso una nuova consultazione elettorale. Lo scenario è simile a quello del 1994 con una dialettica delineata e più matura lungo l’asse centrodestra/centrosinistra: due coalizioni spurie e forzatamente allargate con alcuni partiti che rimangono fuori. La scelta di chi punta al successo passa per l’allargamento del proprio campo di forze. Più ampia è la coalizione e più possibilità ci sono di ottimizzare il meccanismo di conteggio previsto dal sistema elettorale. Le elezioni generali si tengono il 21 aprile 1996; il dato elettorale riflette le contraddizioni di un tempo inquieto. Nella quota proporzionale il Polo per le libertà è avanti alla Camera dei deputati, la Lega Nord, pur crescendo, non va al di là dei suoi tradizionali radicamenti nel Nord del paese. Ma nel riparto complessivo dei seggi l’Ulivo esce vincitore, con la maggioranza al Senato e un successo significativo nei collegi uninominali, pur avendo bisogno del sostegno di Rifondazione comunista per costruire una maggioranza nella Camera dei deputati. Una conferma del bipolarismo di coalizione in un sofferto cambio di maggioranza che tuttavia non consolida certezze e possibilità. Il Polo s’interroga sulle ragioni di una sconfitta imprevista mentre l’Ulivo festeggia il risultato dell’ac­ cesso al governo per forze e culture rimaste a lungo escluse o marginali. Sfuggono inizialmente i necessari riferimenti a una debolezza strutturale del sistema che condizionerà il percorso della legislatura; tra i vincitori la conquista di un traguardo rischia di sbiadire i termini della contesa o di celebrare con largo anticipo (immotivato e superficiale) la fine di Berlusconi e della sua coalizione. Il tempo darà la giusta misura alla prima affermazione dell’Ulivo e ai contenuti contraddittori di quel passaggio di consegne. In poco meno di un lustro erano cambiate molte cose. Pri­ ma l’uscita dalla terribile crisi economico-finanziaria del 1992 attraverso i tentativi di risanamento, a seguire l’affermazione del bipolarismo di marca berlusconiana: la polarizzazione vincente del 1994 e la successiva implosione di quel mondo, l’esaurimento apparente dei richiami salvifici al nuovo mira­ colo italiano. Dopo la controversa parentesi del governo Dini un cambio di direzione verso il centrosinistra nella forma che aveva preso l’Ulivo guidato da Romano Prodi. Il risultato sospinge il sistema verso l’attraversamento del guado, superando così limiti e condizionamenti di quella che

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molti chiamano, a sproposito, transizione: l’auspicio di un pas­ saggio verso un nuovo contesto politico e istituzionale capace di condurre il paese fuori dalle secche della precarietà. Le ragioni dopo il voto del 21 aprile 1996 appaiono più evidenti e condivise. Da un lato l’accesso alla stanza dei bottoni degli eredi della cultura e della tradizione del comuniSmo italiano, una parte maggioritaria del movimento operaio novecentesco che attraverso il consenso democratico viene legittimata a governare. Cade così uno degli ultimi tabù della dicotomia comunismo/anticomunismo e uno dei più solidi argini che la guerra fredda aveva costruito nel mondo occidentale. Tale percorso avviene nel contesto di un’alternanza di coalizioni nel breve spazio di pochi anni, nel passaggio da una legi­ slatura conclusa anticipatamente, all’altra: la XIII dell’Italia repubblicana. Piani diversi convergono simultaneamente: la legittimazione delle forze di sinistra e le spinte per l’alternanza fisiologica tra maggioranza e opposizione si collocano dentro un dato elettorale più fragile e contraddittorio di quanto non appaia nei primi passi della legislatura targata Ulivo. Il primo atto della nuova maggioranza prevede l’elezione dei presidenti di Camera e Senato. Come era avvenuto due anni prima a seguito dell’affermazione del Polo delle liber­ tà, il centrosinistra sceglie due uomini di punta del proprio schieramento: Luciano Violante e Nicola Mancino. Prodi viene chiamato dal presidente della Repubblica per formare il governo che si qualifica con un programma improntato al risanamento di conti pubblici ancora in bilico. Il vincolo europeo diventa una guida irrinunciabile e condivisa: la manovra finanziaria del 1997 prevede una riduzione della spesa e l’introduzione contestuale di una eurotassa finalizzata al progressivo avvici­ namento ai parametri richiesti dal trattato di Maastricht, in particolare al 3% nel rapporto tra debito pubblico e prodot­ to interno lordo. Politiche di risanamento per mettere sotto controllo i conti rafforzando così una credibilità da costruire e proteggere; il traguardo per molti sarebbe stato l’ingresso nell’Unione monetaria europea come previsto dall’impianto degli accordi firmati qualche anno prima. Mentre il governo mette a punto le strategie di politica economica, nei primi mesi del 1997 prende avvio la Commis­ sione parlamentare per le riforme costituzionali presieduta dal segretario del principale partito della coalizione di cen­

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trosinistra, Massimo D ’Alema. Dopo i tentativi del 1983-85 (commissione Bozzi) e del 1993-94 (commissione De Mita e lotti) si apre una possibilità per mettere mano, in modo condiviso e consensuale, all’impalcatura dello Stato. I lavori si snodano lungo la dialettica tra D ’Alema e Berlusconi, impegnati nella costruzione di una proposta che possa rispondere alle sollecitazioni di modernizzazione ed efficienza manifestatesi a più riprese. Ma il terreno del confronto viene continuamente insidiato dalle strategie dei partiti e dalle dinamiche delle due coalizioni. Il Partito popolare con la segreteria Marini (eletto nel gennaio 1997) rilancia la collocazione di centro nello schie­ ramento di centrosinistra, mentre l’anno dopo il Pds continua la propria evoluzione nominalistica e identitaria prendendo la dizione di Democratici di sinistra e favorendo contestualmente la confluenza di segmenti provenienti dal mondo cattolico e socialista. Nell’altro campo l’iniziativa di Francesco Cossiga porta alla nascita di un nuovo partito (Unione democratica per la Repubblica) che contribuisce a modificare la collocazione delle componenti cattoliche nel centrodestra a guida Berlusconi con il crescente protagonismo competitivo di Gianfranco Fini19. Il quadro politico generale appare in movimento, scosso dalle tensioni trasversali mentre i lavori della commissione bicamerale procedono in parallelo. Una sorta di fittizia divi­ sione dei compiti: il governo, le sue scelte e le forze politiche da una parte, il tavolo delle riforme dall’altra. Ma come pre­ vedibile i due piani paralleli finiscono per indebolire l’azione dell’esecutivo rendendo precario il quadro d’insieme. Tutti si dicono pronti a un impegno condiviso per rinnovare in modo sostanziale l’impalcatura dello Stato, ma quando si tratta di dar seguito alle proposte istituzionali, prevalgono calcoli di parte o strategie per costruire presunti scenari vantaggiosi. Alla fine di giugno 1997 un compromesso condiviso consolida i lavori della commissione per le riforme, un testo riassume l’insieme delle proposte da sottoporre al confronto pubblico e parla­ mentare. Ma si tratta di una breve illusione. Berlusconi decide di rompere la trama che aveva contribuito a tessere. Un anno dopo la bicamerale è morta e sepolta. Una nuova occasione persa. Un dirigente dei Democratici di sinistra dichiara con enfasi «La Bicamerale è morta. Sia chiaro che non è né un suicidio né un ictus. E un omicidio e l’assassino si chiama Silvio Berlusconi»; il leader del centrodestra stigmatizza difendendo

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la scelta di rottura: «H o sentito che qualcuno vuole farmi un monumento. Credo che sia un titolo di assoluto merito avere evitato cattive riforme. Quindi se qualcuno mi sta costruendo un monumento lo ringrazio»20. Naufragato malamente il possibile percorso costituente, ogni precario equilibrio viene travolto da nuove sollecitazioni. La crisi più profonda nasce nel cuore della maggioranza che aveva vinto le elezioni quando - a fine estate 1998 - il gruppo dirigente di Rifondazione comunista prende le distanze dalle politiche del governo di cui fa parte. Inizia un braccio di ferro dentro l’esecutivo : il rigore delle politiche economiche per irrobustire il cammino europeo diventa un bersaglio di critiche e prese di distanza. La sinistra dell’Ulivo chiede una non meglio definita svolta sociale contro il rigore dei conti a favore dei ceti più poveri. Una dialettica che si esaurisce nel momento in cui Romano Prodi si sottrae al ricatto e rifiuta contestualmente l’aiuto di altri gruppi parlamentari (Cossiga si era dichiarato interessato). Il voto è il riflesso immediato e crudele di una crisi parlamentare21. Il governo perde, va sotto in una conta drammatica interna alla maggioranza. Nasce un gruppo di scissionisti che da Rifondazione comunista esce per sostenere l’esecutivo. Il 9 ottobre 1998 si chiude la prima stagione dell’Ulivo: la sconfitta per un solo voto conferma le debolezze della nuova democrazia dell’alternanza. 3.

Vizi antichi e nuove virtù

Il giorno dopo la sconfitta parlamentare, nella coalizione di centrosinistra si manifesta una dialettica tra chi chiede di andare al più presto alle elezioni e chi è persuaso di poter proseguire il cammino della legislatura. Il presidente Scalfaro prende in mano le redini della crisi incaricando il segretario dei Democratici di sinistra di formare un nuovo esecutivo. Venuto meno il sostegno di Rifondazione comunista, non esistono le condizioni per proseguire con la stessa formula. Il nascente esecutivo può tuttavia contare sull’appoggio del nuovo gruppo parlamentare guidato da Cossiga (Udeur) e su quello del drappello di deputati e senatori appena usciti da Rifondazione comunista (il Partito dei comunisti italiani), guidato da Armando Cossutta, punto di riferimento della com­

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ponente filosovietica del vecchio Partito comunista italiano. Una strana convergenza tra un ex capo dello Stato che era stato bersaglio di critiche e iniziative d’impeachment da parte delle sinistre e un partito che mantiene l’identità comunista guidato da un esponente della minoranza filosovietica, avverso alla linea berlingueriana. Un inizio per la nuova compagine di governo inimmaginabile. Massimo D ’Alema si presenta alle Camere nel solco delle politiche dell’Ulivo, pur modificando la composizione del proprio riferimento parlamentare: sei donne entrano nella squadra dei ministri, la continuità con la prima fase della legislatura viene messa in causa da chi critica il ritorno delle mediazioni tra partiti e settori di classe diri­ gente in assenza di un pronunciamento elettorale legittimante. D ’Alema cerca di sospingere il proprio esecutivo fuori dalle secche delle polemiche interne alla coalizione e al riparo dalle critiche sul fallimento recente della commissione bicamerale. Per i nuovi sostenitori si tratta del segno più marcato della fine di un’epoca: il percorso di un dirigente di punta che dal Partito comunista approda a Palazzo Chigi attraverso i passi individuali e collettivi di una lunga e sofferta trasformazione. Anche i commenti internazionali, le reazioni delle sedi diplo­ matiche, le analisi che giungono da Washington o dall’Unione europea confermano che non si tratta di una svolta marginale, né di un semplice aggiustamento di una coalizione in crisi. La cifra qualificante dell’esecutivo che entra in carica il 21 ottobre 1998 riprende le linee guida della politica economica del governo precedente: risanamento dei conti pubblici, Europa come scenario e prospettiva di riferimento, gestione a bassa intensità della conflittualità tra le componenti della maggio­ ranza; l’Ulivo più piccolo e indebolito, l’Udeur e il Partito dei comunisti italiani. Il cammino per entrare nell’Unione monetaria andava difeso e valorizzato, fino alla conseguenza rilevante di condurre Romano Prodi nella primavera 1999 alla guida della Commissione europea. Un riconoscimento prestigioso per il fondatore dell’Ulivo, un sigillo alla politica che aveva guidato le scelte di austerità e rigore negli anni immediatamente suc­ cessivi alla firma del trattato di Maastricht. Un esecutivo che nasce nel solco della maggioranza uscita dalle urne, modificata dalle scelte di parlamentari e neonati gruppi politici. Il primo banco di prova è particolarmente impegnativo. La crisi in Kosovo agli inizi del 1999 porta la Nato verso la scelta

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di un’offensiva militare contro la Serbia. L’Italia è coinvolta, partecipa nella cabina di comando nel quadro di un intervento militare che punta a fermare la pulizia etnica contro la popola­ zione albanese di stanza nella regione. L’impatto della guerra in Kosovo scuote l’opinione pubblica internazionale. L’Italia è geograficamente vicina, le basi di partenza per i raid aerei pre­ senti sul territorio italiano vengono messe a disposizione dell’Al­ leanza atlantica. Il governo D ’Alema è attraversato da tensioni, distinzioni, posizionamenti: chi chiede di proseguire per mettere il governo serbo di fronte alle proprie responsabilità, chi si ri­ chiama all’articolo 11 della Carta costituzionale (al ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali), chi insiste sulla natura multipolare dell’intervento e sul carat­ tere umanitario di una missione così delicata. La maggioranza tiene, il governo acquista credibilità e fiducia in un consesso di alleati preoccupati per le ripercussioni dei raid aerei. L’op­ posizione di centrodestra si allinea sulle indicazioni del vertice Nato22. La dialettica politica sui temi internazionali restituisce un’unità di fondo alle principali forze politiche e culture della Repubblica. Un prezioso risultato che rafforza le ragioni della maggioranza: priorità d’impegno in teatri di crisi come poten­ ziale rilancio della credibilità complessiva del sistema paese. Nel tempo della guerra nei Balcani si tiene un nuovo refe­ rendum elettorale con al centro il quesito sulla possibilità di abrogare la quota proporzionale che era rimasta in piedi nel sistema di elezione della Camera dei deputati. Per poco meno dello 0,5% non viene raggiunto il quorum, il referendum salta segnando pesantemente la misura di un crescente distacco dalle forme di democrazia diretta che avevano rappresentato in vari momenti risorse preziose cui far riferimento. Il referendum del 18 aprile 1999, nonostante il simbolismo di una data che richiama le origini del percorso costituente, rappresenta un colpo alla credibilità del processo riformatore, un richiamo alla crescita della divaricazione tra politica e società, tra forme di partecipazione e processi decisionali. Tale pericolosa deriva sembra arrestarsi nel momento della scelta del successore di Scalfaro al Quirinale. In poco tempo si crea una convergenza convinta e trasversale sul nome di Carlo Azeglio Ciampi che raccoglie consensi da partiti e schieramenti contrapposti. Sembra una boccata d’aria che

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interrompe tanto la dialettica asfittica tra le coalizioni quanto il precipitare di un sentimento di critica e presa di distanze dalla politica. La credibilità di un uomo di Stato che aveva servito le istituzioni con dedizione e rigore diventa la cifra distintiva di una scommessa sulla possibilità di pacificare e stabilizzare il confronto politico. Tuttavia la tensione tra le coalizioni non si placa, molto si muove anche all’interno dei due schieramenti in competizione nelle elezioni europee e in una tornata amministrativa dal significato cruciale. Per la prima volta nella storia della Repubblica il centrodestra si afferma nella roccaforte rossa di Bologna. Un segno dei tempi, la fine di certezze e perimetri certi. La contendibilità di posizioni e ruoli, in apparenza immodificabili, evidenzia ripercussioni diffuse, legate alla fine del voto di appartenenza e alla crisi non episodica delle identità tradizionali. Il voto bolognese mette alle corde il centrosinistra attraversato da una dialet­ tica in parte nascosta e in parte manifesta tra chi pensa di trasformare la coalizione dell’Ulivo in una formazione politica stabile e unitaria e chi invece punta a mantenere le distinzioni formali e sostanziali all’interno del campo del centrosinistra. Il governo appare nuovamente indebolito, dopo l’approvazione della legge di bilancio, nuove fibrillazioni mettono in causa la tenuta dell’esecutivo. Il presidente della Repubblica conferma il presidente del Consiglio e D ’Alema incassa una fiducia risicata e a tempo negli ultimi giorni del 1999. Il cammino appare segnato in modo indelebile, le elezioni regionali della primavera 2000 sono il capolinea della coalizione guidata dal segretario dei Ds. Il risultato appare inequivoco: il centrodestra si ricompatta acquisendo nuovamente in pianta stabile la Lega Nord tra le sue file e la sconfitta in molte regioni suona come una bocciatura nei confronti delle politiche che il governo aveva assunto. Le dimissioni del terzo governo della XIII legislatura portano la data del 19 aprile 2000. Due segnali importanti e in larga parte sottovalutati accom­ pagnano il primo passaggio elettorale del nuovo millennio. Il calo dei votanti che modifica una sostanziale curva di parteci­ pazione che aveva caratterizzato l’itinerario del dopoguerra23, la centralità che assume il tema dell’immigrazione e della pro­ paganda contro i clandestini (presunti o censiti) presenti sul territorio nazionale. Una questione che qualifica il centrodestra fino a diventare un collante significativo dell’accordo tra Bossi

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e Berlusconi: la costituenda «Casa delle Libertà», capace di superare la frattura dolorosa del 1994. Il centrodestra unito si propone nuovamente alla guida del paese dinanzi alle divisioni e debolezze che caratterizzano il fronte avverso. Le attenzioni si spostano sulle scelte del pre­ sidente Ciampi che non intende accelerare verso elezioni in calendario per la primavera successiva, secondo la scadenza fisiologica di una legislatura complicata. Il nuovo presidente incaricato, Giuliano Amato, torna a Palazzo Chigi dopo aver gestito e coordinato la stagione del risanamento dei primi anni Novanta del Novecento. La maggioranza che lo sostiene si assottiglia, ma le scadenze sono ravvicinate. La fiducia arriva il 25 aprile, poche settimane dopo le regionali. Nel mezzo di una crisi di governo un nuovo referendum chiama gli italiani alle urne. Diversi i quesiti della tornata referendaria del 21 maggio 2000; alcuni rilevanti (ancora sull’abolizione della quota proporzionale in Parlamento), altri marginali al limite dell’insussistenza. E il responso sulla partecipazione degli aventi diritto traccia un solco senza precedenti, una frattura divaricante: poco meno di un terzo si reca alle urne, la curva dell’attenzione verso le forme di partecipazione, anche quelle dirette della democrazia referendaria, si ripiega pericolosa­ mente verso il disinteresse o la disaffezione. I promotori del referendum sono i principali sconfitti; il governo mantiene una sostanziale neutralità sul merito dei quesiti e sull’opportunità di un pronunciamento popolare su questioni specifiche e delicate. L’abuso dell’istituto referendario, il ricorso ripetuto al corpo elettorale finisce per togliere peso e significati al momento della scelta. La conferma della crisi delle forme della politica (anche nella manifestazione legata al voto diretto) non attenua la contrapposizione tra le parti ormai proiettate verso una lunga e combattuta campagna elettorale. Tutto appare in movimento, senza regole o appigli certi. Con sorprendente improvvisazione il governo sceglie di far fronte all’insistente sollecitazione dell’opposizione per forme più o meno regolate di federalismo fiscale (la cosiddetta devolution che avrebbe rafforzato competenze regionali in settori strate­ gici) modificando il Titolo V della Costituzione, convinto di poter così rispondere a una sfida sui contenuti e le regole del gioco. S’interveniva così sull’architettura dello Stato, rischiando di lasciare un vuoto di competenze e una sovrapposizione di

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ambiti e indirizzi che si trascinerà nel corso degli anni e dei decenni successivi. Lo stesso capo dello Stato non nasconde contrarietà e timori verso un’iniziativa unilaterale dagli esiti imprevedibili e quindi pericolosi. Il campo del centrosinistra continua a essere attraversato da divisioni e protagonismi. Dopo la crisi del governo Prodi e le dimissioni di D ’Alema, anche Amato sarebbe stato sosti­ tuito dalla scelta di candidare il sindaco di Roma Francesco Rutelli alla guida della coalizione di centrosinistra. Passaggi di consegne, scelte condivise o imposte per prepararsi alla sfida elettorale. Il sindaco di Roma aveva gestito con successo ricono­ sciuto il grande evento del giubileo 2000; si appresta a guidare il composito centrosinistra, forte di una stagione amministrativa di rilancio e valorizzazione della capitale, anche sullo scenario internazionale. La sfida si protrae fino al voto del 13 maggio. La vittoria del centrodestra appare schiacciante, anticipata da una mossa ad effetto di Berlusconi, pronto a firmare solenni promesse in un contratto sottoscritto durante la partecipazione a un noto programma televisivo. Il dato numerico non lascia adito a equivoci: una maggioranza schiacciante di 368 deputati alla Camera e di 177 senatori nell’altro ramo del Parlamento. Una novità rilevante che somma il successo della coalizione nei collegi uninominali all’affermazione di Forza Italia nella parte riservata al proporzionale, primo partito con oltre il 29% dei consensi. L’immagine di compattezza e leadership della nuova fisionomia del centrodestra raccoglie nuovamente una domanda di semplificazione e ordine diffusa nella società. Sembrano tornare le condizioni del 1994: sintesi attorno a un leader carismatico, radicamento territoriale, tenuta della coalizione variegata. Dall’altra parte le divisioni e le incer­ tezze del centrosinistra non fanno breccia in un elettorato segnato dalle strategie e dalle debolezze che avevano colpito gli esecutivi nati e cresciuti nel solco dell’Ulivo. Troppi leader in competizione tra loro, il ricorso alle costruzioni floreali, margherita (che ebbe un risultato ragguardevole di quasi il 15%) o girasole, non riescono a mascherare una debolezza strutturale della coalizione in debito di ossigeno. L’esito immediato del risultato porta alla formazione del secondo governo Berlusconi, in carica dallT l giugno 2001. La XIV legislatura si apre nel segno della stabilità, con una maggioranza schiacciante che elegge i presidenti di Camera e

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Senato. I primi passi confermano la forza della coalizione ma già in estate l’entusiasmo dei vincitori viene ridimensionato dalle dinamiche legate all’organizzazione e alla gestione del vertice dei paesi più industrializzati del mondo che si tiene a Genova. La riunione del G8 offre una finestra di visibilità e prestigio, ma anche un palcoscenico ghiotto per catalizzare forme diverse di contestazione. Cortei di protesta che attra­ versano la città mettendola a dura prova mentre i potenti della terra s’incontrano all’interno di una zona delimitata e circoscritta della città. La tensione è altissima e la situazio­ ne diventa incontrollabile quando le frange più estreme dei contestatori cercano lo scontro causando feriti e contusi tra le forze dell’ordine e i tanti pacifici manifestanti giunti da mezza Europa. La città a margine del meeting internazionale diventa il teatro di scontri prolungati. In una colluttazione perde la vita un giovane manifestante, Carlo Giuliani, colpito a morte da un carabiniere in servizio. Frange di manifestanti distruggono negozi, vetrine, automobili in una guerriglia ur­ bana dagli esiti imprevedibili e dai costi altissimi. In serata, quando sembra tornare la calma, la polizia fa irruzione in una scuola base e alloggio per giovani partecipanti al social forum. Studenti e studentesse che in parallelo seguivano i lavori del G8 con incontri e manifestazioni scegliendo questa forma di partecipazione e di protesta. Secondo il giudizio pronunciato dal capo della polizia alcuni anni dopo, «una delle pagine più buie delle forze dell’ordine nella nostra democrazia»24. L’incursione nella scuola Diaz è un atto che viola diritti uma­ ni fondamentali, perché compiuto contro studenti inermi. Un’ombra sinistra accompagna reazioni e comportamenti delle forze dell’ordine in un frangente delicato; le responsabilità e la catena di comando verranno accertati anni dopo: una forma di repressione che allora condiziona reazioni e prese di distanze dell’opinione pubblica. Il ministro degli Interni Clau­ dio Scajola viene accusato dalle opposizioni per una gestione giudicata inadeguata e violenta. Il governo fa quadrato, difen­ de le proprie prerogative per ridimensionare la portata degli scontri. Ma non durerà molto. La verità a fatica si fa strada, grazie alle inchieste di magistrati e giornalisti e al venir meno di coperture e connivenze sulla gestione dell’ordine pubblico e sulle responsabilità (individuali e gestionali) per ciò che era accaduto all’interno di una scuola in una notte di mezza estate.

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Nonostante i numeri rassicuranti di una maggioranza con­ sistente, la dialettica tra le parti non si attenua per intensità e livore. Nei primi giorni di ottobre viene fissato il primo referendum confermativo della storia repubblicana: il quesi­ to - senza necessità di quorum - riguarda l’approvazione della riforma introdotta dal centrosinistra nell’epilogo conclusivo della legislatura precedente: la modifica del Titolo V della Costituzione come chiave, almeno nelle intenzioni dei propo­ nenti, per conferire agli enti locali maggiori competenze. La riforma diventa così legge; le parole del presidente Ciampi, raccolte nei suoi Diari il 28 febbraio 2001, stigmatizzano la superficialità maldestra di un intervento che avrebbe creato confusione e incertezza: «Infondata euforia maggioranza per voto parlamentare su federalismo, invito al realismo»25. Oltre ai lasciti e alle eredità della maggioranza di centrosi­ nistra in tema di riforma dello Stato, lo scontro più agguerrito investe ancora una volta i temi della giustizia. Il governo sceglie una linea intransigente che di fatto alimenta lo scontro con il potere giudiziario. La proposta di un pacchetto di prov­ vedimenti contribuisce in maniera significativa a far salire la tensione tra i poteri dello Stato: prima la depenalizzazione del falso in bilancio, poi una norma limitativa sull’accessibilità alle informazioni nelle rogatorie internazionali in processi pendenti nei quali è coinvolto il presidente del Consiglio. Nel 2002 l’ultimo atto di sfida con l’approvazione della legge Cirami (dal nome del primo firmatario) che permette agli imputati di optare per il cambiamento della sede giudicante. Il clima complessivo ne risente, condizionato da una conflittualità senza fine, trascinatasi da tempo con intensità variabile. Berlusconi si scaglia contro il pool di Mani pulite puntando il dito contro la magistratura politicizzata (le toghe rosse); le opposizioni abbandonano l’aula gridando allo scandalo di leggi costruite ad personam, per tutelare interessi e prospettive del capo del governo, fino alla crisi acuta per un progetto di legge fina­ lizzato alla tutela delle alte cariche dello Stato attraverso il ripristino di una forma d’immunità parlamentare. Il costo di una dialettica lacerante e prolungata diventa sempre più alto, al limite della sostenibilità per le istituzioni coinvolte e per la credibilità complessiva del sistema politico. La conferma più significativa di un tessuto comune debole e lacerato giunge dalle scelte fondamentali di politica interna­

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zionale che provocano reazioni di segno opposto. All’alba del nuovo millennio, la mattina dell’ 11 settembre 2001 il mondo è sconvolto dall’attacco alle Torri Gemelle di New York e alla sede del Pentagono di Washington. Sono migliaia le vittime del più imponente attentato terroristico perpetuato sul suolo americano. Il mondo occidentale è scosso e cerca una risposta comune, con il proprio perno nuovamente attorno al ruolo degli Stati Uniti guidati da un nuovo presidente, George W. Bush, eletto al termine di una campagna elettorale difficilissi­ ma, che lo ha visto superare di pochissimi (e contestati) voti il vicepresidente democratico uscente, Al Gore. Dopo il terribile attentato, lo schieramento guidato dall’amministrazione Bush definisce una piattaforma fondata sul paradigma della lotta al terrorismo internazionale26. Il significato, com’è noto, va ben al di là dell’aggressione terroristica e del costo in termini di vite umane e di paure diffuse. Violato il suolo degli Stati Uniti, proposto al mondo uno scontro tra civiltà e culture fondato su presunte differenze e superiorità; di nuovo l’odio e il ter­ rore come motore della storia in un portato di contraddizioni segnate dall’emergere di vecchie e nuove pulsioni, di antichi e moderni nazionalismi. Il contingente internazionale Euduring Ereedom concentra la propria attenzione in Afghanistan per colpire il cervello pensante del terrorismo, connivente con il regime talebano. Maggioranza e opposizione, escluse le frange estreme, trovano un terreno d’intesa e convergenza per con­ tribuire a sostenere la forza della coalizione internazionale. Diverso il responso sui temi europei dove il ministro degli Esteri, Renato Ruggiero, si trova spiazzato a fronte di posizioni e distinguo provenienti dalla sua stessa compagine: settori non marginali della maggioranza di governo avversi alle dinamiche del processo d’integrazione continentale e al conseguente alli­ neamento dell’Italia ai principali partner europei. Il ministro presenta le dimissioni nel 2002, poco dopo l’entrata in vigore della moneta unica europea27. Divisioni non componibili che torneranno in forma ben più drammatica e conflittuale nell’ambito della condotta politica e militare italiana nel teatro di guerra iracheno, a partire dall’intervento statunitense a inizio 2003. Il contingente italiano di quasi 3 mila unità diventa bersaglio di azioni e attentati: più di 30 tra militari e civili perdono la vita, il 12 novembre 2003 a Nassirya, in un agguato contro l’arma dei carabinieri. Lo

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scontro investe il merito e il metodo. Nel primo ambito voci autorevoli (dal pontefice a diversi governi europei) contrastano la scelta di Washington d’impegnarsi direttamente nella lotta al terrorismo con mezzi e risorse in un’area di crisi difficilmente stabilizzabile. Come si vedrà poco tempo dopo, gli effetti e le ripercussioni saranno di difficile gestione e indirizzo su tutto lo scacchiere mediorientale. Sul versante del metodo, la spregiudicata iniziativa personale del presidente del Consiglio mette alle strette le forme e i controlli nelle linee guida della politica estera italiana: il Quirinale denuncia una sua messa ai margini, la Farnesina viene scavalcata da relazioni e dinami­ che che accompagnano l’impegno italiano in Iraq. Berlusconi difende le proprie ragioni, rafforza un asse con Bush e Putin mettendo in tensione una parte costitutiva dell’equilibrio tra i poteri. Senza esagerazioni, si tratta della crisi più profonda e lacerante della Repubblica bipolare. Il piano delle relazioni tra quadro interno e contesto internazionale scivola su un crinale pericoloso, i compiti d’indirizzo e vigilanza dalla condivisione di responsabilità comuni passano sotto l’attivismo individua­ le di quella che il presidente della Repubblica chiamerà «la diplomazia parallela di Palazzo Chigi»28. Emblematica in tal senso la tensione diplomatica che s’innalza quando, in apertura del semestre italiano di presidenza dell’Unione europea, il presidente del Consiglio Berlusconi accusa Martin Schulz (par­ lamentare tedesco, capogruppo del Partito socialista europeo) di assumere atteggiamenti da «kapò», riesumando grossolani stereotipi discriminatori (2 luglio 2003 )29. Di converso la dimensione interna è attraversata da una conflittualità crescente che si manifesta sui temi del mercato del lavoro a partire da una mozione governativa che si propone di intervenire sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori cassando il principio della giusta causa nelle procedure di licenziamen­ to. La Cgil decide di non accettare la proposta e di costruire le condizioni di una grande mobilitazione confluita nelle vie della capitale il 23 marzo 2002, in difesa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e contro il terrorismo. Uno scontro sul tema lavoro che mette di fronte su sponde opposte settori del sindacato e maggioranza di governo, dopo che l’offensiva brigatista colpisce il 19 marzo 2002 il giurista Marco Biagi, consulente del lavoro e collaboratore del ministro leghista Roberto Maroni. Un nuovo segno di degenerazione, con una

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sorprendente e sinistra simmetria. Tre anni prima era stato freddato dal piombo brigatista Massimo D ’Antona collabo­ ratore del ministro del Lavoro Antonio Bassolino, nel primo governo D ’Alema. Il terrorismo torna a uccidere colpendo figure di confine, uomini delle competenze e del dialogo, come era avvenuto negli anni e nei decenni precedenti. Il profilo del governo nel riformismo interventista che lo contraddistingue radicalizza le posizioni e i fronti contrappo­ sti: il sindacato si oppone attirando consensi e interlocutori nella funzione di catalizzatore di una crescente opposizione al disegno berlusconiano. Il fronte organizzato o spontaneo va ben al di là del significato di merito sull’articolo 18 e delle aziende italiane che avrebbero potuto far ricorso a una nuova normativa con minori tutele per il lavoratore. Il tema diventa scottante e divisivo, una delle cifre qualificanti dello scontro sociale tra destra e sinistra. La mancata protezione del professor Biagi e le successive frasi infelici e imbarazzanti del ministro Scajola a proposito di disposizioni ministeriali sul servizio di scorta, portano il ministro alle dimissioni lasciando una scia di interrogativi e accuse incrociate. Il patto di collaborazione tra le sigle sindacali viene indirettamente rinsaldato dal con­ fronto con il governo sulla riforma delle pensioni varata nei primi mesi del 2004. Nonostante il successo e il conseguimento di una consi­ derevole forza numerica in Parlamento, la navigazione dell’e­ secutivo non risulta semplice né costruttiva. Alle roboanti dichiarazioni sulle opere pubbliche da inaugurare o sulla centralità dell’avvio della costruzione del ponte di Messina, si affiancano insuccessi e battute d’arresto. Da settori della mag­ gioranza rimbalzano con insistenza posizioni che confermano un impianto di tipo secessionista. Dal 2004 la Lega Nord ri­ prende il filo di un’iniziativa che scuote la coalizione ponendo al centro del dibattito temi controversi e divisivi: la devolution che avrebbe favorito competenze e poteri legislativi alle regio­ ni, la prospettiva di un Senato federale e più in generale un quadro di contrapposizione disordinata alle forme dell’archi­ tettura dello Stato. Nel frattempo si manifestano ulteriori tensioni con il potere giudiziario sul tema delle carriere dei giudici e su una possibile divisione tra pubblico ministero e collegio giudicante. Conflitti manifesti o striscianti tra politica e magistratura che ormai attraversano una lunga fase della

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storia della Repubblica, condizionando la dialettica tra mag­ gioranza e opposizione. Le consultazioni europee del 2004 confermano la realtà di un paese spaccato a metà: un sostanziale pareggio tra forze riconducibili alle due coalizioni impegnate continuamente in una competizione con regole e contenuti difformi. Nelle tornate amministrative, anche in significativi comuni, il centrosinistra riprende consensi e visibilità a fronte di un inasprimento del confronto interno alla maggioranza in chiave antileghista. Berlusconi cerca di attenuare litigiosità e divisioni. Con deci­ sione interviene sulla composizione della squadra dei ministri sollevando dalle responsabilità istituzionali controverse figure chiave: il ministro dell’Economia Tremonti, il referente più di­ retto delle posizioni della Lega, viene così sostituito nel luglio del 2004 da Domenico Siniscalco. La firma dei Trattati costitu­ zionali europei che si tiene a Roma il 29 ottobre 2004 sembra rinsaldare il posizionamento italiano nello scenario continentale, rassicurando alleati e possibili interlocutori sulla natura e le priorità della coalizione. Una breve tregua che tuttavia non consente di invertire la rotta. Dopo il passaggio delle elezioni regionali l’esecutivo va in crisi, il collante non sembra tenere più, si affacciano nuovamente fantasmi del passato sull’insopprimibile litigiosità delle coalizioni. Pochi giorni d’incertezza, poi il presidente Ciampi incarica nuovamente Berlusconi che riesce a ottenere la maggioranza del consenso parlamentare il 23 aprile 2005. Un breve intermezzo interrompe così la strada all’esecutivo più longevo della storia della Repubblica. Il terzo governo a guida Berlusconi si muove nell’ottica di un’imminente sfida elettorale in un’estenuante campagna che si protrae per poco più di un anno. Due le novità sostanziali. Il cambiamento della legge elettorale su proposta della Casa delle Libertà e successiva approvazione delle Camere il 21 di­ cembre 2005: si torna al meccanismo semi-proporzionale, con un premio di maggioranza del 55% alla Camera dei deputati per la coalizione più votata e un premio analogo distribuito su base regionale al Senato. La fase incerta del sistema ten­ denzialmente bipolare si chiude, senza particolari contrasti o conflitti. Un tragitto troppo breve, una pagina colma di spe­ ranze e contraddizioni viene repentinamente messa da parte. L’altra novità riguarda il campo dell’opposizione che si organizza in vista del voto. Un campo ampio di forze variegate

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confluite nell’Unione che nell’ottobre 2005 sceglie attraverso le primarie il proprio candidato. L’affermazione attesa di Romano Prodi si accompagna alla rilevante cifra dei partecipanti al processo decisionale, frutto di una straordinaria mobilitazione nelle elezioni primarie, le prime che si svolgono su scala nazio­ nale nel nostro paese: oltre 4 milioni d’italiani contribuiscono attivamente a definire lo sfidante di Berlusconi. 4. Eurozona Nella confusa alternanza di coalizioni e governi, una scelta sembra consolidare e guidare i riferimenti del centrosinistra (può essere utile richiamarlo prima che la campagna eletto­ rale del 2006 entri nel vivo): il varo della moneta unica. Una sorta di missione, un punto di riferimento che dalle strategie di risanamento dei governi Amato e Ciampi viene rilanciata e rafforzata dall’impegno di successivi esecutivi fino all’ingresso dell’Italia tra i promotori durante il primo governo Prodi. D e­ cisivo in tal senso l’impegno e la caparbietà di Carlo Azeglio Ciampi, convinto che si sarebbe aperto uno spazio importante, quello del rilancio di un impegno continentale nella prospettiva storica della moneta unica. Rimane il lascito più forte di un’intera stagione, persino al di là delle intenzioni dei protagonisti. Chi è convinto della scelta per l’euro pensa che la prospettiva sia percorribile e lega a tale indirizzo ogni ipotesi di sviluppo e rafforzamento del sistema paese. Un nuovo vincolo esterno in grado di rac­ cogliere energie e risorse, proiettandole al di là delle strettoie contingenti. Un orizzonte ideale e concreto al tempo stesso; un indirizzo di lavoro in una cornice identitaria che non dif­ ferisce da altri momenti del passato fondati sulla centralità e il vincolo di una nuova Europa da costruire. Per molti si tratta dell’eredità e del compimento di una generazione che ritrova slancio e funzioni tornando alle proprie radici e ai lasciti più fecondi del secondo conflitto mondiale. Quando tutto sembra complicato e difficile sotto il peso di veti incrociati, sfiducie e ricatti celati, la missione di far entrare l’Italia nell’euro diventa un rifermento che unisce, mitiga differenze e litigiosità, offre una prospettiva credibile oltre il caos apparente delle coalizioni instabili. Un ragionamento condiviso che sin dalle prime mosse

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si presenta sotto diversi profili: un disegno articolato di politica economica e monetaria, una prospettiva da offrire al paese, un progetto politico, un’impresa e una sfida che può unire e rafforzare la ragioni di una comunità. L’Europa come orizzonte e antidoto contro le guerre del passato, le paure del mondo contemporaneo, le chiusure negli egoismi e nei particolarismi nazionali. Consolidare il cammino di conquiste e risultati del lungo dopoguerra europeo significa misurarsi su obiettivi e progetti ambiziosi dopo la fine della guerra fredda. Un passaggio che col tempo si è confermato cruciale per il cammino dell’Italia e per le sorti del disegno continentale. Il progetto dell’euro senza l’Italia sarebbe rimasto schiacciato su una prevalenza franco-tedesca, perdendo la caratteristica geopolitica della proiezione sul Mediterraneo, su culture e storie differenti tenute insieme da un possibile destino comune. L’esito della partecipazione italiana sin dall’inizio degli anni Novanta del Novecento non era scontato, in molti prevedevano un insuccesso annunciato, un’incapacità strut­ turale insormontabile. Le debolezze del sistema paese, unite agli interessi dell’Europa dei forti, non lasciavano spazio a facili ottimismi. Per chi s’impegnava nella nuova missione, la strategia perseguita assumeva i tratti di una lunga rincorsa dall’esito positivo, motivata dalla convinzione che bisognasse partecipare sin dall’inizio, dai primi passi della moneta unica in linea con la storia di un paese fondatore dell’Europa comune post-bellica. Una scelta in sintonia con le stringenti necessità economiche dell’Italia e con un diffuso sentimento di simpatia e partecipazione verso l’Europa, fino al punto di poter fissare una tassa per le famiglie (nel decreto di fine anno del 1996) e poi creare le condizioni di una successiva restituzione. Come ha ricordato Carlo Azeglio Ciampi: C’è stata una condivisione oltre ogni previsione. In un anno po­ nemmo il paese di fronte alla scelta di accelerare il risanamento dei conti pubblici in modo da integrarci subito nell’euro, a costo di sacrifici per tutti. Si arrivò ad adottare una sorta di «tassa sull’Europa» per raggiungere i criteri di Maastricht e l’Italia corrispose; una partecipa­ zione piena per un’occasione che non si doveva perdere. Riuscimmo a trasmettere e comunicare la vera posta in palio perché si trattava di una scelta europea, e le scelte europee sono sempre state condivise a larga maggioranza dal popolo italiano30.

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A fine secolo la strategia complessiva comincia a prendere le sembianze di una convincente rincorsa, un impegno di lunga lena. Più si procede nell’accreditamento dell’Italia come di un possibile socio fondatore e più si ottengono vantaggi immediati sui tassi d’interesse e sulla credibilità del sistema fuori dai confi­ ni nazionali. Abilità o astuzia? Ci si è chiesti successivamente31. Probabilmente entrambe le componenti hanno avuto un ruolo in quelle frenetiche settimane di avvicinamento all’obiettivo ambizioso. Il contesto rimane particolarmente difficile, anche in presenza di timidi segnali di incoraggiamento. Motivazioni di fiducia condivisa che, dopo le prime timide reazioni, diven­ tano motore di una strategia vincente. Entrare sin dall’inizio nell’Eurozona significa abbattere il divario e godere dei vantaggi di tassi d’interesse ridotti progressivamente. Non mancano, com’è ormai noto, resistenze, difficoltà, atteggiamenti diffusi di distacco da una prospettiva giudicata poco credibile e irrea­ lizzabile. Un dato positivo e incoraggiante viene dall’assenza di ostacoli precostituiti e opposizioni pregiudiziali. Chi non ci crede si fa da parte in attesa del responso finale, pronto magari a presentare il conto. Una convergenza d’interessi e atteggiamenti non banale. Un filo che lega stagioni e passaggi del sistema politico italiano; una lettura delle strategie economiche proiettata verso obiettivi finali e conquiste realizzabili. Se allarghiamo l’orizzonte di osservazione comprendendo un periodo di tempo più lungo nella transizione italiana, questo atteggiamento costruttivo si ridimensiona e anche il filo di continuità nelle politiche eco­ nomiche o della spesa è meno robusto e duraturo. Si tratta di un dato non secondario che qualifica il periodo evidenziando come sia stato molto complicato poter mantenere quella unità di intenti e azione che caratterizza (non in modo univoco e costante) il tempo che va dai primi anni Novanta del Nove­ cento fino all’ingresso nell’euro. Venuto meno il contesto di quella stagione tutto diventa più difficile. Spesso si è perso di vista l’obiettivo di riferimento. In quella rincorsa inattesa si mobilitano risorse diverse. Uno spirito di squadra comple­ tato dalla convergenza tra sindacati e Confindustria, partecipi dell’accordo del 1993 e sostenitori delle politiche di ingresso nell’Eurozona. I vantaggi confermano un interesse trasversale; del resto quando scendono i tassi il beneficio riguarda tutti. Anche la Banca d’Italia fa la sua parte, collaborando alla riuscita

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dell’obiettivo finale. Si tratta quindi di uno sforzo collettivo, un’opera di convincimento empirico, dati alla mano, inserita e collocata in un disegno di ampio respiro in una visione che va al di là del contingente. Più il tempo ci allontana da quel passaggio e più appare sbiadita e compromessa quella visione d’insieme sottesa alla rincorsa verso l’euro. E non di meno quel diffuso sentimento di favore e partecipazione verso l’Europa e i suoi sentieri si è progressivamente indebolito32. Un terreno di confine, un crocevia tra la ricerca di una nuova Repubblica e le suggestioni di un possibile allargamento degli orizzonti, conseguenza dei mutati confini dell’Unione europea. Il varo della moneta unica raccoglie entusiasmi e conferme dai partecipanti all’impresa. L’Eurozona diventa un campo di forze in grado di prefigurare nuovi scenari anche sulla scala della competizione globale. Il risultato del governo italiano appare come la sorpresa più grande, un traguardo inatteso sul quale in pochi avrebbero scommesso, anche poco tempo prima. Alla sconfitta di resistenze e scetticismi si ac­ compagna un diffuso sentimento di condivisione, l’orgoglio di aver raggiunto un risultato di primaria importanza per il futuro del paese. Si afferma una chiave di lettura che fa della moneta il perno di un possibile nuovo equilibrio tra l’Italia, l’Europa e il sistema internazionale. Quasi che si potesse tornare all’origine dell’integrazione continentale e al ruolo svolto dai paesi fondatori, pionieri di una scelta che avrebbe prodotto esiti e ripercussioni anche nel lungo periodo. Il vecchio continente prova a rialzare la testa sintoniz­ zandosi con le sfide del nuovo mondo e i contenuti della competizione globale. La chiave di volta di un rafforzamento sostanziale di un’area vasta, ricca di storie, culture e tradizioni può rappresentare il punto di approdo per una nuova mone­ ta e contestualmente un traguardo significativo sulla strada dell’unificazione continentale. Il percorso di una generazione incontra un nuovo tornante: la sfida sul futuro è figlia del cammino precedente, ancorata alle tradizioni e alle storie del lungo dopoguerra europeo. Il merito principale di chi si è impegnato in prima persona, senza calcoli o timidezze, risiede nella capacità di cogliere la grandezza del disegno, anche quando appare sfumato e contraddittorio e di riuscire a condurre in porto un progetto che sembra irrealistico. Si saldano progressivamente i piani tra la ricerca di una funzione

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nel mondo globalizzato e la necessità di consolidare economie e mercati, istituzioni e politiche. A distanza di tempo quella rincorsa e quel risultato emergono come pilastri nell’incerta e controversa transizione italiana, un periodo troppo lungo di inquietudini e conflittualità. Ma, allo stesso tempo, affiora la difficoltà di non aver mantenuto il livello di quella ambizio­ ne, di non essere riusciti a rispettare impegni e prerogative, di non aver costruito un’architettura complessiva in grado di supportare e integrare la scelta della moneta. Temi di stringente attualità che dal giudizio sul significato di quella stagione si proiettano negli anni successivi. Una grande rilevanza nel completamento della lunga rincorsa all’euro occupa la partecipazione del paese, la con­ divisione diffusa di un cammino comune come strategia di rafforzamento collettivo. La lettura di tale passaggio storico non può che avvenire su piani diversi, valutando le ricadute e gli effetti di una conclusione non preventivabile. L’Italia si conferma una nazione segnata da un europeismo non ricon­ ducibile esclusivamente ad ambienti economici o relegato alle riflessioni di élite più o meno illuminate. Del resto, già altre pagine del passato avevano prodotto una sinergia positiva tra le dinamiche di inclusione nel processo continentale e la percezione delle stesse in vasti strati dell’opinione pubblica. Nel profondo della società italiana si era annidata, spesso carsicamente, una disponibilità di fondo, un sentire ampio in grado di avvicinare i destini dell’Italia a quelli del continente europeo, eredità preziosa dei padri fondatori. Il disegno dei governi alle prese con la difficile compatibilità di numeri, parametri, differenziali e scenari avviene in un contesto atten­ to e partecipe; il traguardo di una nuova Europa non viene quindi vissuto come un’imposizione forzata o la «tradizionale» richiesta di un incremento di gettito fiscale fine a se stesso. Il percorso a ostacoli, la rincorsa di quel necessario e famigerato 3% nel rapporto tra deficit e Prodotto interno lordo avviene mostrando al paese contenuti del sacrificio, indirizzo di marcia e traguardo da raggiungere. Molti osservatori rimangono col­ piti e favorevolmente incuriositi dalle dinamiche interne della Repubblica durante l’ultimo decennio del secolo scorso e nei primi passi del nuovo. La contraddizione appare stridente: da un lato i termini di una crisi economica profonda che mette in causa le stesse ragioni di appartenenza a un contesto na­

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zionale di riferimento oltre i vincoli internazionali; dall’altra un risultato raggiunto in un tempo breve e complicato con una straordinaria collaborazione, fino al plauso generale che scandisce i passaggi chiave, i simboli di un nuovo inizio. La capacità della classe dirigente si colloca a questo livello; nella tenuta di un disegno complessivo fatto di richiami e politiche di rigore, nel nesso tra economia, società, identità stessa di una nazione. Per una fase l’euro viene percepito come un traguardo possibile, una frontiera necessaria per non essere ridimensionati, un punto di approdo dai significati più diver­ si. Partendo dal dato numerico, dalla verifica sulle cifre e sui differenziali, si apre una breccia che investe diversi ambiti: la politica e le istituzioni, l’economia e le sue regole, la società nella sua spinta verso obiettivi e traguardi. Si tratta di uno spazio non scontato o garantito ma di un processo profondo che sembra poter rilanciare le ragioni e le ambizioni di una comunità nazionale. Ma sarà una breve primavera, un passaggio chiave che non avrà la forza e la capacità di intaccare costanti antiche, vecchie e nuove debolezze di un sistema paese fiaccato dalle proprie difficoltà. A distanza di tempo il quadro appare tratteggiato nel suo insieme: una nuova sinergia con l’Europa e con il mondo si affianca e si sovrappone ai limiti e ai difetti dell’Italia che non riesce a modernizzare apparati, costumi, consuetudini. Lo stesso passaggio alla moneta unica si carica di difficoltà perdendo in pochi mesi parte di quella spinta innovativa che lo aveva caratterizzato durante la lunga rincorsa. La gestione del tragitto dalla lira alla nuova moneta lascia molte ombre. Aumenti incontrollati si possono ridimensionare sotto l’egida di una guida sicura; in molti paesi europei si è registrato il temuto aumento dei prezzi, ma non con un valore cosi ampio come in Italia. Si è trattato di un passaggio signifi­ cativo della nostra storia economica e sociale su cui ha pesato il rapporto - più o meno esplicito - tra il governo Berlusconi e una parte di categorie, gruppi e interessi che hanno tratto vantaggio dalla gestione del change over con la lira. Un tempo inquieto dalla duplice lettura: appare lontano se si mette in primo piano il contesto da allora modificato, vicino se si osservano l’insieme delle problematiche sottese a una stagione così decisiva. Basti il richiamo alle tante eredità di allora: il nesso con l’Europa e il peso del vincolo esterno, il ruolo della moneta unica in relazione alle istituzioni conti­

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nentali, il ritardo della politica nei confronti dell’economia e, nel perimetro nazionale, il ruolo e la funzione di una classe dirigente in grado di andare al di là della gestione quotidiana delle emergenze ravvicinate. Il tornante dell’euro richiama in modi diversi e spesso contraddittori un insieme di questioni che investono la qualità dello sviluppo del paese, le sue di­ namiche di coesione interna in rapporto al mutato contesto internazionale di riferimento. Non sfugge a un’analisi attenta lo spessore unificante di un obiettivo politico che, nonostante i suoi effetti complicati e contraddittori sulla vita delle famiglie, rimane un orizzonte comune di coesione e stabilizzazione. Le argomentazioni di Ciampi, regista principale della lunga rincorsa, nel suo ricordo appassionato, diventano categoriche: «G li inconvenienti sono stati di gran lunga inferiori ai vantaggi che abbiamo avuto e che abbiamo proiettato sugli anni a venire». Un saldo positi­ vo, un importante cammino a favore delle generazioni future che tuttavia trova spesso critici e detrattori. Di tanto in tanto si affacciano distinguo, prese di distanza sganciate da ogni riferimento al cammino della moneta unica e al portato di un traguardo che andrebbe vissuto come un potenziale punto di partenza. Nella continua revisione del passato di una comunità nazionale si rischia di perdere di vista il rapporto tra costi e benefici o - come spesso avviene per le vicende italiane - di decontestualizzare gli eventi, smarrire il quadro complessivo ridimensionando significati e contenuti. Un passaggio come quello degli anni Novanta del Novecento non può essere ridotto a un duello tra euroscettici e fautori dei parametri di Maastricht. La complessità aiuta a definire qualità delle scelte e importanza dei punti di approdo. Il giudizio a distanza di decenni non può che tener conto del punto di partenza e della successiva evoluzione di un processo storico profondo. Il contesto di quegli anni definisce i parametri di confronto necessari a un’analisi equilibrata in grado di limitare il ricorso a usi strumentali o a espressioni a effetto, figlie della contin­ genza politica. Il peso del passato aiuta il consolidarsi di una lettura di più lungo periodo svincolando il giudizio di analisi dai calcoli di parte, dagli interessi di nuovi protagonisti. Lo spartiacque della moneta costituisce un punto di non ritorno; l’euro interviene sull’insieme delle debolezze strutturali

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della nostra economia, il vincolo esterno produce - progressi­ vamente e in modo contraddittorio - una cultura del rigore, un’attenzione alla disciplina che tendenzialmente modifica com­ portamenti e modelli e comunque impone forme di revisione e controllo inedite rispetto al passato. Un misuratore attento e operante, un monitoraggio continuo a partire dal termometro dello spread (il celebre differenziale attraverso il quale viene ormai comunemente indicata la forbice di differenza tra il rendimento offerto dai Buoni del tesoro e dal suo omologo tedesco, il Bund) che segnala problemi o ripercussioni negative di scelte o comportamenti. Il nesso tra le compatibilità della dimensione interna e i condizionamenti del vincolo esterno qualifica il ruolo e la funzione di una classe dirigente. Solo a quel livello, su un terreno sensibile, crocevia di trasformazio­ ni del mondo globalizzato, si comprende appieno la cifra di un processo politico, le ripercussioni di scelte e indirizzi che modificano lo stato di cose presenti. La stessa cultura delle riforme vive se riesce a collocarsi all’interno di modifiche che incidono sul perimetro della sovranità territoriale, nel cuore delle sfide di un nuovo mondo. A fianco dei grandi risultati, alla tenuta di un progetto che va al di là del dato economico, emergono i limiti e le contraddizioni. Il tempo sbiadisce le memorie, ma non cancella il significato di scelte così importanti. Da più parti nel corso degli anni Duemila si è insistito sulla necessità di mettere al centro il binomio stabilità-crescita, attraverso uno stretto raccordo con le scelte di politica economica. Una critica che appare attuale e stringente, alla luce dei problemi economici e finanziari che hanno interessato l’Europa e l’euro dopo la crisi del 2008 e che ha spinto, pur tra incertezze e resistenze, verso tentativi di riforma del funzionamento del Patto di stabilità e della governance dell’Unione33. Si è anche sostenuto che i due ambiti fossero alternativi e in competizione tra loro. L’ispira­ zione iniziale, al contrario, prevedeva una sinergia positiva, un reciproco vantaggio rafforzato in corso d’opera attorno alle scelte di indirizzo34. Il tempo sembra assegnare a questi temi una centralità crescente, rilanciata dai grandi cambiamenti degli ultimi anni e dai rischi insiti nella competizione globale e nei limiti strutturali del vecchio continente. In fondo è un ritorno alle origini, all’impostazione del sogno europeo come orizzonte di rifermento per uscire dai drammi del secondo

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conflitto mondiale individuando un possibile cammino e destino comune. Quando questa prospettiva si affievolisce o scompare, anche le politiche dei governi nazionali appaiono asfittiche, senza missioni o motivazioni rilevanti. Il traguardo dell’euro coincide con il punto più alto e condiviso dell’azio­ ne di governo, da quel momento tutto diventa più difficile, incerto, sottoposto a veti e calcoli di parte. L’orizzonte della moneta unica ha rappresentato uno straordinario collante, in grado di unificare aspirazioni e obiettivi diversi declinandoli nel quadro dell’azione di governo e nelle proiezioni di crescita e sviluppo per vasti settori della società italiana. Venuto meno l’ambito principale di riferimento, la compagine dell’esecutivo mostra crepe e fratture interne, emergono aspirazioni individuali e logiche di appartenenza, si affievolisce quella spinta verso il bene generale che aveva sostenuto e motivato la lunga rincorsa verso la moneta unica33. Come in un terribile paradosso il traguardo dell’euro rende tutto più evidente: la maggioranza non tiene più, la sua com­ posita struttura paralizza ogni possibile iniziativa. Quando si ripresentano gli antichi rituali dell’instabilità politica e dei veti incrociati, tutto appare fragile e in discussione, esposto alle più diverse intemperie; la via maestra faticosamente tracciata mostra di non reggere l’urto del tempo. E così, qualche anno dopo, mentre si sgretola il castel­ lo del successo elettorale del centrodestra, l’altro campo si appresta a competere senza poter fare affidamento su una missione unificante e condivisa che ne aveva segnato le tappe precedenti. Lo scivolamento inconsapevole verso un crinale che riguarda l’insieme del sistema politico: il mutamento della legge elettorale mette da parte lo sforzo complessivo di costruire coalizioni competitive cancellando anche le ragioni che avevano mobilitato energie e risorse nella ricerca di una cittadinanza di tipo nuovo (segnata dal peso e dall’illusione della partecipazione referendaria). Può apparire una strana coincidenza, fortuita e involontaria: il ritorno a un sistema proporzionale in assenza di partiti politici radicati e capaci quindi d’interpretarlo appieno, coincide con l’esaurirsi pro­ gressivo delle certezze basate sul rafforzamento del progetto europeo. Troppe contraddizioni e battute d’arresto segnano la lunga vigilia europea della campagna elettorale 2006. Non tanto i giudizi e le controverse valutazioni sull’impatto della nuova

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moneta, quanto i tortuosi sentieri del processo costituzionale. Un’accelerazione che sembra decisiva quando nel 2003 viene varato il progetto ambizioso di una Costituzione europea: una cornice in grado di offrire all’Unione europea un nuovo assetto politico e istituzionale per rafforzare così competenze, capacità decisionali, piani di intervento comune. Un salto concettuale verso una nuova tappa del tragitto dell’Unione. Non una vera e propria Costituzione capace di fondare una sovranità auto­ noma e prevalente sugli Stati che l’avessero adottata, ma un testo di riferimento che senza trasferire porzioni di sovranità avrebbe messo in ordine e armonizzato i riferimenti giuridici del tempo. Un’impresa complessa che sembra giungere a buon fine quando il testo diviso in quattro parti per ben 448 articoli viene firmato (il 24 ottobre 2004) nella cornice della Sala degli Orazi e Curiazi nel Palazzo dei Conservatori in Campidoglio36. La stessa prestigiosa cornice che aveva accolto nel 1957 i sei paesi fondatori della Cee e firmatari dei trattati di Roma. Da quella cerimonia solenne con la firma dei 25 capi di Stato o di governo trasmessa in diretta dalle televisioni di mezzo mondo si dipana un sistema differenziato che avrebbe sancito diverse strategie di ratifica: attraverso il voto del Parlamento (come nel caso dell’Italia) o con un referendum popolare. Tuttavia, tra maggio e giugno 2005 il voto popolare in Francia e nei Paesi Bassi ha bocciato la proposta, bloccando di fatto il cammino delle adesioni e l’insieme del processo costituente. Una tego­ la imprevista, e per molti versi definitiva, sulle possibilità di rilancio e rinnovamento. In molti hanno insistito in quel frangente nell’uso impro­ prio del termine «costituzione» quando in realtà si trattava di armonizzare e coordinare testi e leggi già esistenti. Non era quindi all’ordine del giorno la possibilità di intaccare i confini della sovranità divisa fra la tradizionale cornice territoriale degli Stati nazionali e l’impianto innovativo di un costituendo sistema sovranazionale. Al di là dei giudizi sulle ragioni del fallimento, sulla permanenza di un’antica linea di demarcazio­ ne tra l’Europa degli Stati e dei governi o l’embrione di una nuova entità sovrana, rimane il dato più duraturo e carico di conseguenze: il fallimento di un cammino comune finito ina­ spettatamente in un vicolo cieco. Le forme vecchie e nuove di nazionalismi presenti o in gestazione troveranno nelle debolezze del processo continentale un punto di partenza per criticare,

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prendere le distanze, tentare di ridimensionare o picconare ciò che l’Europa aveva costruito e difeso. Nella lunga campagna elettorale del 2006 l’ombra del fal­ limento europeo appiattisce sogni e aspirazioni: per vincitori e vinti si tratta di un nuovo inizio. Note al capitolo settimo 1 Cfr. la chiave interpretativa di Formigoni, Storia d’Italia nella guerra fredda, cit., soprattutto pp. 9-22 e 523-528 e le riflessioni nella recensione al volume di Formigoni proposte da F. Romero in «Il mestiere di storico», 1, 2017, p. 188. 2 Ciampi, Un metodo per governare, cit. 3 Su questi aspetti, cfr. Ceci, La fine della Democrazia cristiana, cit.; E. Bernardi, La De e la crisi del sistema politico. Temi e personaggi (1989-94), in L’Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi, III, Istituzioni e politica, cit., pp. 227-237; la testimonianza di un protagonista, M. Martinazzoli, No­ nostante tutto. Autobiografia, a cura di T. Bino, Brescia, Morcelliana, 1993. 4 Cfr. A. Occhetto, La gioiosa macchina da guerra. Veleni, sogni e speranze della sinistra, Roma, Editori Internazionali Riuniti, 2013. 5 Cfr. R. Chiarini, Destra italiana dall’Unità d’Italia a Alleanza Nazio­ nale, Venezia, Marsilio, 1995; G. Parlato, Il Movimento sociale italiano, in G. Orsina (a cura di), Storia delle destre nell’Italia repubblicana, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014, pp. 85-122. 6 Cfr. M. Calise, Il partito personale. I due corpi del leader, Roma-Bari, Laterza, 2000; Id., La democrazia del leader, Roma-Bari, Laterza, 2016; P. Ginsborg, Berlusconi. Ambizioni patrimoniali in una democrazia mediatica, Torino, Einaudi, 2003; G. Orsina, Il berlusconismo nella storia d’Italia, Venezia, Marsilio, 2003; Id., La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica, Venezia, Marsilio, 2018, pp. 110-126; M. Lazar, Demo­ crazia alla prova. L’Italia dopo Berlusconi, Roma-Bari, Laterza, 2007; M. Giannini, Lo statista. Il ventennio berlusconiano tra fascismo e populismo, Milano, Baldini & Castoldi, 2008; Gibelli, 26 gennaio 1994, cit. e Id., Berlusconi passato alla storia. L’Italia nell’era della democrazia autoritaria, Roma, Donzelli, 2010. 7 Cfr. gli spunti nelle pagine di Trentin, Diari 1988-1994, cit., pp. 269324 e le testimonianze raccolte in G. Acquaviva e L. Covatta (a cura di), Il crollo. Il Psi nella crisi della prima Repubblica, Venezia, Marsilio, 2012. 8 Cfr. P. Ginsborg, Italy and Its Discontents: Family, Civil Society, State 1980-2001, New York, Paigrave, 2003, pp. 288 ss.; Orsina, Il berlusconismo nella storia d’Italia, cit., pp. 167-178 e soprattutto Gibelli, 26 gennaio 1994, cit., pp. 155-215. 9 P. Pombeni, Il sistema dei partiti dalla Prima alla Seconda Repubblica, in L’Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi, III, Istituzioni e politica, cit., pp. 307-332. 10 S. Lupo, Partito e antipartito. Una storia politica della prima Re­

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pubblica (1946-78), Roma, Donzelli, 2004; Id., Antipartiti. Il mito della nuova politica nella storia della repubblica (prima, seconda e terza), Roma, Donzelli, 2013; D. Saresella, Tra politica e antipolitica. La nuova «società civile» e il movimento della Rete (1985-1994), Firenze, Le Monnier, 2016; Colarizi, Politica e antipolitica dalla Prima alla Seconda Repubblica, in L’Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi, III, Istituzioni e politica, cit., pp. 333-347. 11 Su questi aspetti cfr. S. Rossi, La politica economica italiana 19682007, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 88-110. 12 Cfr. F. Romero, L’Europa come strumento di nation-building: storia e storici delTItalia repubblicana, in «Passato e Presente», XIII, 36, 1995, pp. 19-32. 13 Cfr. Pirjevec, Le guerre jugoslave. 1991-1999, cit., pp. 506-536; M. Glenny, The Pali of Yugoslavia, London, Penguin, 1996. 14 Sulla parabola della Lega Nord cfr. G. Passalacqua, Il vento della Padania. Storia della Lega Nord, 1984-2009, Milano, Mondadori, 2009; A. Cento Bull e M. Gilbert, The Lega Nord and thè Northern Question in ltalian Politics, New York, Pagrave, 2011; P. Segatti, La nascita della Lega: un capitolo di una storia che ci appartiene... e F. Sbrana, Nord non chiama Sud. Genesi e sviluppi della questione settentrionale, entrambi in L’Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi, III, Istituzioni e politica, cit., rispettivamente pp. 351-359 e 361-381; G. Passarelli e D. Tuorto, La Lega di Salvini: estrema destra di governo, Bologna, Il Mulino, 2018. 15 Cfr. Giovagnoli, Cattolici e politica dalla prima alla seconda fase della storia repubblicana, in L’Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi, III, Istituzioni e politica, cit., pp. 185-204. 16 Su questi aspetti cfr. G. De Rosa, La transizione infinita. Diario politico 1990-1996, Roma-Bari, Laterza, 1997; G. Bianco e N. Guiso, La balena bianca. L’ultima battaglia, 1990-1994, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011. 17 Sulla figura di Maccanico si veda S. Cassese, Antonio Maccanico e la misura dell’ideale, in «Nuova Antologia», 611, 2267, 3, 2013, pp. 70-72; e i volumi dei diari, in particolare A. Maccanico, Il tramonto della Repubblica dei partiti. Diari 1985-1989, a cura di P. Soddu, prefazione di S. Cassese, Bologna, Il Mulino, 2018. 18 Cfr. N. Bobbio, Diritto e potere. Saggi su Kelsen, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1992. 19 Giovagnoli, La Repubblica degli italiani,1946-2016, cit., pp. 198-225; Crainz, Storia della Repubblica. L’Italia dalla liberazione ad oggi, cit., pp. 306-327. 20 Le due citazioni in S. Buzzanca, Cancellare la Bicamerale. Anche il finale è al veleno, in «la Repubblica», 10 giugno 1998. 21 Cfr. M.L. Salvadori, Storia d’Italia. Il cammino tormentato di una nazione. 1861-2016, Torino, Einaudi, 2018, pp. 476-479. 22 Sulla guerra del Kosovo cfr. G. Scotto e E. Arielli, La guerra del Kosovo. Anatomia di un’escalation, Roma, Editori Riuniti, 1999; P. Orteca e M. Saija, La guerra del Kosovo e la questione balcanica, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2001; Pirjevec, Le guerre jugoslave, cit., pp. 553-646.

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23 Su questi aspetti cfr. Ballini e Ridolfi (a cura di), Storia delle campagne elettorali in Italia, cit.; P. Corbetta e M.S. Piretti, Atlante storico-elettorale d’Italia. 1861-2008, Bologna, Zanichelli, 2009. 24 Cfr. C. Bonini, «Il G8 di Genova fu una catastrofe»: Gabrielli e le responsabilità di quei giorni. «Al posto di De Gennaro mi sarei dimesso», in «la Repubblica», 19 luglio 2017; F. Gabrielli, Genova 2001, una storia da raccontare per intero, in «il manifesto», 8 aprile 2018. 25 La citazione in Gentiioni Silveri, Contro scettici e disfattisti. Gli anni di Ciampi 1992-2006, cit., p. 148. 26 II risultato della commissione istituita dal presidente degli Stati Uniti e dal Congresso americano in 9/11 Commission Report. Final Report of thè National Commission on Terrorist Attacks upon thè United States, 22 luglio 2004. 27 Nominato ministro degli Esteri del secondo governo Berlusconi il 10 giugno 2001, Renato Ruggiero si dimette il 6 gennaio 2002; cfr. A. Puri Purini, Dal Colle più alto. Al Quirinale, con Ciampi negli anni in cui tutto cambiò, Milano, Il Saggiatore, pp. 116-122. 28 Su questi aspetti cfr. Gentiioni Silveri, Contro scettici e disfattisti, cit., pp. 162 ss. 29 Uno sguardo sintetico sulla percezione di Berlusconi da altri paesi europei nel fascicolo Berlusconi in Europa, a cura di I. Biagioli e A. Botti, in «Storia e problemi contemporanei», 64, settembre-dicembre 2013, pp. 5-173. 30 II riferimento è al «Contributo straordinario per l’Europa» approvato dal governo Prodi con la legge finanziaria del 30 dicembre 1996. La cita­ zione di Ciampi in Gentiioni Silveri, Contro scettici e disfattisti. Gli anni di Ciampi 1992-2006, cit., p. 87. 31 Cfr. L. Spaventa e V. Chiorazzo, Astuzia o virtù? Come accadde che l’Italia fu ammessa all’Unione monetaria, Roma, DE, 2000. 32 D. Preda, Il lungo travaglio istituzionale europeo (1992-2012), in L’I­ talia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi, I, Fine della Guerra fredda e globalizzazione, a cura di Pons, Roccucci e Romero, cit., pp. 299-315. 33 Cfr. gli accordi siglati nel Consiglio europeo di Bruxelles del 22 e 23 marzo 2005 con cui venivano riviste per la prima volta la procedura sanzionatoria e la governance del Patto di stabilità e crescita; ancora più significativo il dibattito riapertosi in Europa a seguito della difficile crisi dei debiti sovrani nell’estate del 2011 sul fiscal compact e le possibili mo­ dificazioni dell’architettura europea (ruolo della Banca centrale europea, eurobonds). Cfr. J.D. Savage, Making thè EMÙ. The Politics of Budgetary Surveillance and thè Enforcement of Maastricht, Oxford, Oxford University Press, 2005; Fauri, Uintegrazione economica europea, cit., pp. 171-216; F. Spinelli e C. Trecroci, Maastricht. New and Old Rules, in «Open Economies Review», 17, 2006, pp. 477-492. 34 Su questi aspetti cfr. T. Padoa Schioppa, La lunga via per l’euro, Bologna, Il Mulino, 2004; G. Magnifico, L’euro. Ragioni e lezioni di un successo sofferto, Roma, Luiss University Press, 2005. 35 S. Fabbrini, Sdoppiamento. Una prospettiva nuova per l’Europa, Roma-Bari, Laterza, 2017. 36 L. Rapone, Storia dell’integrazione europea, cit., pp. 133-159; Gilbert, Storia politica dell’integrazione europea, cit., pp. 212-228.

Capitolo ottavo

Tra rinascita e declino

1. Una normalità difficile Il voto della primavera 2006 inaugura la legislatura se­ gnando un ulteriore passaggio nella lunga marcia verso una difficile stabilità. Un passaggio stretto caratterizzato dagli esiti di un’ennesima sfida elettorale tra le due coalizioni, il paese continua a essere diviso tra centrodestra e centrosinistra, con margini ristretti di distanza nel consenso ottenuto da maggio­ ranza e opposizione, ma il premio previsto dalla nuova legge elettorale offre al vincitore una chiave di accesso numerico alla governabilità. Le urne del 9 e 10 aprile confermano una spaccatura con lievi percentuali di distacco tra i contendenti. Il centrosinistra si afferma con poco più di venticinquemila voti alla Camera dei deputati, sufficienti tuttavia a far scattare il premio di maggioranza e a ottenere di conseguenza 348 seggi contro i 281 della Casa delle Libertà. L’Ulivo si conferma per­ no della coalizione, superando il 31% dei consensi. Tuttavia la compagine che si appresta a guidare il paese è il risultato di una coalizione composita e fortemente eterogenea: Partito della Rifondazione comunista, la Rosa nel pugno di radicali e socialisti, il Partito dei comunisti italiani, l’Italia dei Valori dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, uomo di punta della stagione di tangentopoli, i Verdi e un partito di centro d’ispi­ razione cattolica guidato da Clemente Mastella. Si conferma quindi un dato profondo solo apparentemente nascosto dalla dinamica del premio di maggioranza: la stagione delle coali­ zioni privilegia lo stare insieme motivato dalla prospettiva di una momentanea affermazione elettorale che non prevede il consolidamento di progetti o programmi definiti. Quella spinta alla partecipazione, al coinvolgimento dei cittadini attraverso l’esercizio del diritto di voto sembra nuovamente arrestarsi

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di fronte alla complicata architettura politica e istituzionale del nuovo confronto bipolare. Chi aveva auspicato e previsto uno sbocco ravvicinato, ipotizzando una transizione avviata e un approdo possibile a una Repubblica dei cittadini, comin­ cia a ricredersi o comunque a criticare le nuove forme della dialettica politica1. Sul versante dell’opposizione la trasformazione elettorale del 2006 porta il partito a guida Berlusconi a perdere oltre cinque punti rispetto all’appuntamento del 2001, attestandosi al 23,7% dei consensi. Parte della flessione di Forza Italia favorisce l’affermarsi degli altri componenti nella coalizione di centrodestra: Alleanza nazionale cresce di poco, significativo il saldo positivo della Lega Nord (quasi un punto) e dell’Unione democratica di centro che con il 6,7% raddoppia i voti del 2001. Una fotografia del quadro politico che si conferma sostanzial­ mente nei voti al Senato della Repubblica dove l’assenza del premio di maggioranza nazionale assottiglia le differenze. Solo uno spoglio lungo e laborioso nel cuore della notte conferma l’affermazione del centrosinistra, grazie al contributo degli italiani residenti all’estero che si esprimono eleggendo propri rappresentanti in virtù del sistema proposto da un ministro di Alleanza nazionale (Mirko Tremaglia) e approvato nella conclusione della legislatura precedente. Lo scarto tra le due coalizioni appare minimo: 158 contro 156 senatori. Nell’imme­ diata euforia post-voto il margine ristretto del successo viene rimosso da ogni considerazione sugli equilibri tra i competitor. Il responso elettorale per quanto esiguo consolida la posizione del vincitore: il bipolarismo ha fatto breccia fino a definire un confine netto (almeno in teoria) tracciato dalla linea che separa vincitori e vinti. I primi si apprestano a esercitare le proprie funzioni di maggioranza mentre chi ha perso si organizza per tentare una rivincita non troppo lontana. Ma il dato elettorale ha un significato che va al di là della divisione manichea tra due blocchi contrapposti, oltre la fisiolo­ gica definizione di maggioranza e opposizione in competizione secondo le regole della contesa democratica. Il paese è spaccato in due e il confronto prolungato non stabilizza un quadro cer­ to e funzionale né da una parte né dall’altra. Le coalizioni si presentano per molti versi speculari e simmetriche: un partito come perno dell’alleanza attorno al quale si distribuiscono forze plurali di collocazione e ispirazione diversa. Entrambe

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presentano una forza di centro d’ispirazione cattolica, un erede possibile della diaspora democristiana e sui due versanti rac­ colgono proposte politiche a destra e a sinistra contribuendo così ad ampliare il raggio d’azione della coalizione medesima. Una squadra distribuita su culture e versanti differenti della geografia politico-parlamentare con gli estremi inseriti nel mo­ saico variegato e plurale di posizioni e candidature possibili: dalla Lega Nord e i post-fascisti fino ai diversi segmenti delle eredità del comuniSmo italiano. Una contraddizione che si conferma e si acuisce: il peso delle coalizioni passa prevalen­ temente per la propria costituzione, per la definizione delle appartenenze, attraverso i patti e le reciproche assicurazioni che i vertici dei diversi partiti stringono nelle settimane della campagna elettorale. E un voto così divisivo e bipolare, invece di consegnare al vincitore un campo di forze stabile e coeso, un programma di riferimento, un’indicazione sulle priorità di governo, porta a un fragile e litigioso accordo che pur avendo promosso il dato numerico, pur consolidando una condizione di vantaggio nel trovarsi davanti all’altra coalizione, non offre garanzie rassicuranti e prospettive percorribili. Tale responso incerto e instabile si conferma come con­ dizione ripetuta nel tempo successivo alla conclusione della Repubblica dei partiti e della guerra fredda. Ogni ipotesi di svolta verso un modello di coalizioni competitive si insabbia dopo i primi passi (basti pensare ai confronti elettorali dello scorcio conclusivo del Novecento), mentre la dialettica tra centrodestra e centrosinistra, tra Silvio Berlusconi e Romano Prodi, si snoda lungo fibrillazioni continue in parte legate all’utilizzo delle leggi elettorali e in parte segnate dalla profonda spaccatura che taglia trasversalmente il quadro politico. Un bipolarismo debole e frammentato che definisce compatibilità e rapporti di forza quando il Parlamento della XV legislatura s’insedia2. Primo compito impegnativo l’elezione del presidente della Repubblica. Carlo Azeglio Ciampi riceve pressioni dai due schieramenti per candidarsi una seconda volta; rifiuta con tenacia e convinzione3. La scelta per la successione cade su Giorgio Napolitano, eletto al quarto scrutinio il 10 maggio 2006 con 543 voti; è il primo ex comunista a sedere sul colle più alto, al vertice dell’architettura dello Stato. Un altro segno della fine di con­ trapposizioni e compatibilità del passato: un dirigente di punta

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del Pei, un uomo delle istituzioni (già presidente della Camera e ministro degli Interni) guida i delicati passaggi istituzionali della nuova legislatura. Il primo atto di rilievo costituzionale riguarda l’incarico di affidare le chiavi della nuova maggioranza a chi aveva vinto le elezioni. Il leader dell’Ulivo Romano Prodi ottiene così la fiducia dal Parlamento. Poteva contare, come si è avuto modo di vedere, su un ampio margine di sicurezza alla Camera dei deputati grazie al premio di maggioranza, mentre al Senato aveva solo 2 eletti in più rispetto all’opposizione. Una navigazione difficile che deve da subito fare i conti con quella variegata miscela di forze, culture, aspirazioni individuali che sostiene l’Ulivo. Alla presidenza delle due Camere vengono eletti il leader di Rifondazione comunista, Fausto Bertinotti, e Franco Marini, un politico con un passato da sindacalista nella sinistra democristiana. Si conferma l’impostazione che mette il vincitore nelle condizioni di rivendicare cariche istituzionali di punta senza tener conto della rappresentanza dell’opposizione. Uno spirito dei tempi che esalta le ragioni del maggioritario a scapito di una possibile condivisione di responsabilità e indirizzi comuni. Il governo alla fine delle trattative conta quasi cento componenti, ministri, sottosegretari con o senza deleghe e viceministri in un difficile equilibrio tra fazioni, aspirazioni personali e rapporti di forza interni alla coalizione. E la ripartenza dell’Ulivo non è semplice: i numeri sono risicati, la coalizione troppo eterogenea e come spesso accade nei momenti di passaggio si susseguono incessanti nuovi appuntamenti elettorali, praticamente ogni anno e con sistemi elettorali radicalmente differenti. Poco dopo le elezioni generali e l’ingresso in carica del secondo governo Prodi (17 maggio 2006), un’importante tor­ nata amministrativa interessa le grandi città. Il centrosinistra si afferma a Roma, Napoli e Torino mentre il centrodestra vince a Milano e nelle elezioni regionali siciliane. Scossoni continui che misurano il peso delle coalizioni, i rapporti di forza interni alle stesse e la capacità di tenuta del governo che sembra prendere fiato quando a fine giugno il referendum costituzionale boccia la riforma precedentemente proposta dal governo Berlusconi (con oltre il 60% dei contrari). Ma ancora una volta il tempo per consolidare collocazioni e appartenenze è attraversato dall’emergenza dei conti pubblici. Il governo vara una manovra impegnativa, sotto la guida di un

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europeista autorevole e convinto, Tommaso Padoa Schioppa4. Una finanziaria che punta a ridurre il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo per avvicinarsi a quanto richiesto dai parametri europei. Una strategia di contenimento del debito per evitare procedure d’infrazione e per consolidare il riferimento europeo nella base del centrosinistra che aveva vinto le elezioni. Tornano i richiami alle scelte di qualche anno prima: un disegno complesso che punta sul vincolo esterno per valorizzare un cammino comune e rendere così evidenti gli obiettivi dei sacrifici richiesti a famiglie e imprese. Sul versante interno gli equilibri della coalizione sono precari, a rischio di costante rottura. I temi della sicurezza vengono rilanciati da settori dell’opposizione quando il governo vara un provvedimento d’indulto a favore di detenuti con a carico reati minori. L’obiettivo di chi governa è quello di intervenire sul sovraffollamento delle carceri con misure immediate. Ma una parte dell’opinione pubblica reagisce duramente. Anche l’elettorato del centrosinistra è scosso e distante dalle finalità di un intervento che appare a molti incomprensibile e irra­ gionevole. Su un altro versante, il piano delle liberalizzazioni varate dal governo (ordini professionali, farmacie, licenze) tocca interessi consolidati di corporazioni o gruppi economici. E così il tema principale della politica economica torna ben presto a essere quello dei riferimenti ai parametri europei. Dopo le spinte inclusive della moneta unica che aveva dato alla prima stagione dell’Ulivo una sua missione condivisa e propositiva, una sorta di collante interno e riferimento nel paese, il nuovo orizzonte della riduzione del debito non riesce a prefigurare un terreno di riscatto comune nel cammino indicato al sistema paese. La maggioranza appare divisa e incerta: si ritrova unita sulla proposta di alleggerire il costo del lavoro attraverso la riduzione del cuneo fiscale mentre si divide sul significato del vincolo esterno imposto dall’Europa5. Una componente lo ritiene virtuoso e necessario, altri prendono le distanze in­ sistendo sulla necessità di favorire investimenti e politiche di sostegno per le fasce più deboli. Una dialettica non episodica tra le potenzialità del rigore economico nell’allineamento con politiche continentali e la richiesta di privilegiare nuovi indi­ rizzi di spesa in chiave di riequilibrio sociale. Sono temi che dividono il paese e le coalizioni rendendo ogni scelta occasione di scontro e dialettica interna. La politica internazionale non è

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immune dallo stesso tipo di sindrome: divisiva e conflittuale, spesso a più facce. Da un lato il rilancio del multilateralismo come chiave di accesso nel teatro mediorientale, emblemati­ co in tal senso il ruolo di ponte tra Libano e Israele assunto dall’Italia nella «guerra del 2006», culminato nella risoluzione approvata alla Conferenza di Roma del 26 luglio6. La politica estera della Repubblica come ritorno a un’ispirazione origi­ naria, figlia delle compatibilità della guerra fredda, ma anche del protagonismo possibile della classe dirigente italiana. Su un altro terreno la proposta statunitense di ampliamento e rafforzamento strategico della base di Vicenza inciampa nelle divisioni della maggioranza che non tiene alla prova del voto in Senato il 31 gennaio 2007, quando una mozione di sostegno all’ampliamento, presentata dalla Casa delle Libertà, ottiene 152 voti favorevoli e vede l’astensione di alcuni senatori dell’Ulivo. Venti di crisi minacciosi che tuttavia vengono velocemente riassorbiti in una crisi lampo tra febbraio e marzo 2007. Il governo tiene rilanciando alcune scelte comuni e condivise. Ma la quiete dura lo spazio breve di poche settimane, troppo debole è la maggioranza (politicamente e numericamente), divergenti sono gli interessi di chi avrebbe dovuto mantenere la rotta di una navigazione comune e sicura. Tali fibrillazioni non svaniscono. La dialettica tra maggio­ ranza e opposizione si accende tra la fine del 2006 e i primi mesi del nuovo anno quando va all’ordine del giorno la discussione su una proposta di legge che punta a regolamentare le unioni civili come forme di convivenza di coppia analoghe o simili al matrimonio. Prima una mediazione complicata all’interno della maggioranza e poi lo scontro con l’opposizione fino allo scenario delle piazze contrapposte: le organizzazioni favorevoli alla nuova normativa da una parte, e dall’altra il family day che riunisce settori del mondo cattolico dopo che il quotidiano dei vescovi «Avvenire» aveva addirittura riesumato termini antichi legati alla questione romana e al conflitto Stato-Chiesa con un editoriale dal titolo Non possumus1. La tenuta del governo appare precaria e indebolita; ogni occasione sembra quella decisiva per poter aprire una crisi o una conflittualità senza mediazioni. Un nuovo voto ammi­ nistrativo premia le forze del centrodestra nella primavera 2007. Secondo molti osservatori in Italia e fuori la caduta del governo è imminente (solo questione di tempo), le opposi­

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zioni spingono cercando argomenti e occasioni per mostrare debolezze e fragilità altrui. Nei due campi i partiti maggiori polarizzano attenzioni e processi. Il Partito democratico rac­ coglie così la sfida dell’unificazione dell’area dell’Ulivo in un unico contenitore, semplificando percorsi e identità, mentre Berlusconi cerca di inglobare segmenti e protagonisti in un nuovo progetto unificante. Due forze centrali nei rispettivi schieramenti a completamento di un itinerario di costruzione e semplificazione della rappresentanza politica. Il Pd raccoglie l’eredità delle stagioni dell’Ulivo e mette in comunicazione vecchie e nuove culture: gli eredi delle tradizioni novecentesche (con matrici cattoliche e di sinistra) e le nuove soggettività della politica post-ideologica; Berlusconi sull’altro versante riduce il ventaglio dell’offerta nel campo del centrodestra, rafforzando contestualmente il proprio ruolo di sintesi propulsiva. Ma la sostanza del confronto dialettico non si modifica, ormai la strada è segnata: coalizioni di centrodestra e centrosi­ nistra con un partito prevalente al centro, le ali che concorrono ad allargare il campo e un’endemica e ormai sperimentata litigiosità interna. Fuori dal confronto tra le due coalizioni il contesto inizia a muoversi e modificarsi, in anticipo sulla definizione della dialettica prevalente tra maggioranza e opposizione. La socie­ tà italiana è attraversata da inedite tensioni che si riflettono sulla stessa idea della politica e sulle forme conosciute della rappresentanza parlamentare. A partire dall’autunno del 2007 si radicalizza lo scontro tra chi è dentro e chi è fuori dalle dinamiche del palazzo, nel confronto tra schieramenti cristal­ lizzati e incapaci di governare. Un noto attore comico, Beppe Grillo, alla testa di un inedito movimento lancia la provoca­ zione del V-Day. Uno slogan volgare e gridato che non passa inosservato quando l’8 settembre del 2007 le piazze si riem­ piono di critiche e improperi contro le degenerazioni della politica e i privilegi di quella che comincia a essere definita una casta8. Con superficiale distacco viene da molti bollata come un’iniziativa isolata e grottesca, ma nel profondo della società italiana si sta muovendo qualcosa. Un sentimento di critica diffusa. Mobilitarsi contro la politica e le sue forme offre a tante e tanti la possibilità di riconoscersi, di potersi contare e di organizzarsi con le armi del web nell’arena spe­ rimentabile dei social network. Ci vorrà del tempo, ma in

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pochi anni quel sentimento di opposizione e contrarietà tro­ verà forme ed espressioni, fino a diventare adulto e addirit­ tura maggioritario. E così tra la crisi del bipolarismo di coalizione, imperfetto e litigioso, e l’emergere del nuovo collante dell’antipolitica, l’esecutivo guidato da Romano Prodi giunge al termine del suo percorso, ben prima della scadenza naturale della legisla­ tura. Le dimissioni traumatiche a fine gennaio 2008 dopo che al Senato viene a mancare la fiducia a seguito della presa di distanza di partiti minori componenti della coalizione (l’Udeur di Mastella e la lista Dini). Segmenti di maggioranza che in un contesto così fragile diventano necessari e insostituibili per la tenuta del quadro complessivo. Difficile andare avanti 0 cercare soluzioni momentanee. La frana avviene per una convergenza di fattori, tra l’incapacità della maggioranza di tenere unità e propositi e la spinta delle opposizioni pronte a una nuova sfida elettorale. La legislatura si conclude in anticipo. Il presidente Napolitano scioglie le Camere mentre si acuisce la crisi della compagnia aerea di bandiera. Un pa­ radosso drammatico e doloroso. L’Alitalia vive un passaggio angoscioso senza precedenti, il governo tenta un salvataggio in extremis ipotizzando una trattativa finalizzata all’acquisto da parte di Air France che tuttavia non conduce a un accordo definitivo. Nulla di fatto, un simbolo di un declino annunciato e per molti irrefrenabile. Berlusconi si oppone alla cessione e l’imminente campagna elettorale fa il resto. Il voto viene fissato il 13 e il 14 aprile 2008. Si conferma la divisione nei due schieramenti, nonostante si manifesti una maggiore articolazione nella distribuzione del consenso. A sinistra il Partito democratico, guidato dall’ex sindaco della capitale Walter Veltroni, tenta un’operazione di ricomposizione di aree e culture. Contestualmente diverse formazioni politi­ che s’intestano la rappresentanza della diaspora comunista e socialista. Sul versante opposto Berlusconi unifica nel nuovo Popolo della libertà partiti e spezzoni di rappresentanza. Una sorta di federazione (Alleanza nazionale e Lega Nord 1 principali) che non esaurisce la disponibilità di un campo di forze: a destra la fiamma tricolore e sul versante di centro l’Udc come sintesi di percorsi d’ispirazione cattolica collocati nel centrodestra. Una semplificazione almeno apparente che non riduce la frammentazione, né contribuisce a chiarire prò-

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grammi e priorità degli schieramenti elettorali. Nelle settimane più accese della campagna elettorale Beppe Grillo rilancia le sue giornate d’insulti e critica contro le degenerazioni della politica, prendendosela con i protagonisti vecchi e nuovi dei due fronti contrapposti. Il responso delle urne non lascia adito a equivoci. Il suc­ cesso della coalizione che fa riferimento a Silvio Berlusconi è più convincente e univoco superando le più ottimistiche previsioni. Quasi cento seggi dividono alla Camera il Popolo della libertà dal Pd e dai rispettivi alleati: 344 contro 246; più di 40 unità il margine di vantaggio del centrodestra al Senato della Repubblica. Le formazioni di centro raccolgono percentuali marginali. La bipolarizzazione si conferma come immagine prevalente del sistema politico, pur semplificata da operazioni di riduzione che avevano modificato la fisionomia di entrambe le coalizioni (il peso crescente dei partiti maggiori anche attraverso fusioni con forze minori). Se si va al di là della superficie, il voto consegna lasciti significativi capaci di influenzare lo sviluppo successivo del paese. Il centrodestra in percentuale supera il 46%, il centrosinistra si attesta attorno al 37% mentre l’Unione di centro prende il 5,6%, la Destra il 2,4% e il Partito socialista una percentuale pari allo 0,9%. La Sinistra Arcobaleno, lista formatasi tra i partiti a sinistra del Pd (sinistra radicale, Rifondazione comunista, Partito dei comunisti italiani, Verdi e Sinistra democratica) si ferma al 3 % senza ottenere seggi e lasciando per la prima volta senza rappresentanza parlamentare l’ala di sinistra più estrema. Frammentazione diffusa in un contesto dialettico tra centrodestra e centrosinistra. Ma all’interno del risultato conseguito dai vincitori, la Lega Nord supera l’8% con un consenso su base nazionale che si allarga a territori che sembravano fino a quel momento impenetrabili, mentre nel centrosinistra il successo dell’Italia dei Valori (più del 4% ) a guida Di Pietro ridimensiona la presenza di culture e percorsi che affondano le radici nella storia della Repubblica. I partiti che si richia­ mano in modo diretto alla tradizione socialista o all’eredità del comuniSmo italiano non vengono rappresentati in Parlamento. Il Pd cerca faticosamente una nuova cultura politica a partire dai lasciti dei protagonisti dell’arco costituzionale sospeso e anche paralizzato nella morsa tra i richiami alle tradizioni no­ vecentesche e le suggestioni di un nuovo inizio in mare aperto.

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Il voto amministrativo conferma la sconfitta di una parte. A Roma viene eletto Gianni Alemanno (al ballottaggio nell’aprile 2008) primo cittadino. Un esponente di punta della destra sociale di origine missina, già ministro dell’Agricoltura nel governo Berlusconi. Le tornate elettorali del 2008 tracciano una svolta, sembra che la vittoria del centrodestra così ampia e indiscutibile stabilizzi il quadro politico del paese. La XVI legislatura si apre ancora una volta nel segno di Silvio Ber­ lusconi con il sigillo dell’8 maggio quando ottiene la fiducia dalle Camere. Il leader del centrodestra guida una coalizione (federazione di forze) in apparenza coesa e più omogenea che in passato. E in effetti l’inizio del nuovo governo si manifesta sotto il segno di un decisionismo non episodico a partire dalla proposizione di una formula a effetto che prevede la «tolleranza zero» contro delinquenza comune e reati legati all’immigrazione clandestina. Viene proposto e progressivamente rafforzato un asse di priorità d’azione sui temi della sicurezza dei cittadini che segnerà in profondo il cammino della Repubblica. Altro tema che irrompe nella campagna elettorale, trasformandosi presto in provvedimento legislativo, riguarda l’abolizione della tassa di proprietà sulla prima casa. Anche in questo caso un paradigma politico e culturale che mette al centro il diritto di proprietà, abbassando di conseguenza la pressione fiscale in modo indiscriminato, senza tener conto della progressivi­ tà del reddito e delle condizioni economiche e patrimoniali dei proprietari beneficiari. La scelta apre un conflitto con i comuni che vedono ridursi il gettito e le risorse disponibili. Il governo rilancia con interventi su questioni controverse e divisive: la riforma dello Stato in senso federalista, il conflitto con la magistratura sui confini dell’autonomia tra i poteri dello Stato, gli interventi sulla scuola e l’università con riforme che modificano consuetudini e riferimenti legislativi. Ma la stagione del riformismo governativo s’interrompe bruscamente quando i venti della crisi economica sferzano il sistema internazionale. L’autunno è già un tempo di crisi: recessione e crollo delle borse evidenziano i limiti e le fragilità del cammino della Repubblica. La zavorra del debito ripren­ de a salire in maniera particolarmente sostenuta (essendosi interrotte le politiche di riduzione o contenimento volute dal secondo governo Prodi) e le ripercussioni dei titoli andati in fumo iniziano a colpire settori non marginali del sistema eco­

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nomico. L’ottimismo che aveva caratterizzato l’affermazione della maggioranza di centrodestra viene così messo duramente alla prova. Una contraddizione che si palesa nello spazio breve di poche settimane: da un lato il sorriso per ridimensionare o nascondere gli effetti della crisi; Berlusconi guida il fronte di chi punta a rassicurare nel segno della continuità, senza interventi particolari o di emergenza. Dall’altro il peso di una cesura che non ha termini di paragone per estensione territo­ riale, profondità, capacità di indebolire e impoverire settori significativi delle società sviluppate. Crolla il potere d’acquisto del ceto medio, il sistema bancario entra in fibrillazione, e i dati del prodotto interno lordo confermano l’andamento recessivo. Il consolidamento della competizione globale come scenario di riferimento mette in crisi settori tradizionali poco sensibili a innovare nei meccanismi di produzione o distribuzione: il tessuto del capitalismo italiano soffre dell’incapacità di trovare una strada convincente. Troppe occasioni mancate in termini di ricerca e formazione, innovazione, investimenti in settori produttivi e vitali nella competizione globale delle economie nazionali. Un lascito di lungo periodo che attraversa stagioni, colori politici e azioni di governo. La grande crisi cominciata in America tra il 2007 e il 2008 arriva prima gradualmente, poi sempre più impetuosamente in Europa e in Italia, amplificando e mettendo a nudo le tare strutturali di un sistema paese inadeguato9. In questo quadro gli interventi del governo appaiono tardivi, insufficienti e divisivi. La centralità degli incentivi nel settore edilizio suona come una vecchia ricetta in un contesto totalmente cambiato. Persino la Confindustria si schiera apertamente chiedendo misure straordinarie, investimenti e interventi sul credito e sul costo del lavoro. Le forze sociali, colpite duramente dagli effetti della crisi, puntano all’estensione della cassa integrazione per tamponare l’ondata di licenziamenti nella piccola e media industria. Le classifiche sul potere d’acquisto e valore dei salari sono impietose. Nel 2008, ancora prima dell’arrivo del picco della crisi, l’Italia è già il fanalino di coda dopo la Spagna e la Grecia. Ogni ostentazione di ottimismo, ogni proclama di successi, annunciati o in arrivo, viene progressivamente messo da parte. La crisi morde e la politica non reagisce tempesti­ vamente. Si diffonde l’incertezza, la paura che tutto possa crollare, il venir meno di quella necessaria base comune che

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tiene insieme comunità e istituzioni. Si tratta di una minaccia reale, la più pericolosa dalla fine del secondo conflitto mon­ diale. Diffìcile trovare ricette o sperimentare strade sicure. Di certo ogni chiusura identitaria, ogni parziale consolazione non contribuisce a segnare una possibile direzione di marcia per uscire dalle secche della crisi economica. E come se nulla fosse, come se la tempesta mondiale potesse risolversi senza danni, le coalizioni si concentrano egoisticamente sull’ennesima prova elettorale: atteggiamento miope e di chiusura che inaridisce il terreno di una risposta complessiva dell’intero sistema. Tor­ nano le scadenze elettorali ripetute come termometro e punto di riferimento dei rapporti tra maggioranza e opposizione. Il centrodestra si afferma nelle elezioni regionali sarde che, come spesso accade nelle disordinate e saltuarie tornate amministrati­ ve, si carica di un significato che va ben al di là del confine della regione contesa. La sconfitta della coalizione di centrosinistra accelera il processo di disgregazione del gruppo dirigente del Partito democratico: accuse e veti incrociati che partono dalla responsabilità della sconfitta per poi coinvolgere questioni più generali, in prevalenza a sfondo personale. In seguito a tale implosione, riferibile a condizioni simili in un passato recente (una successione tra gli uomini di punta del centrosinistra con una persistente e mal gestita conflittualità interna e personale), Walter Veltroni si dimette da segretario e di lì a poco Dario Franceschini viene eletto alla guida del partito. Sarebbe ridut­ tivo far riferimento esclusivo alla chiave personalistica dello scontro interno al perimetro del centrosinistra. Tuttavia, una distinzione profila nettamente i due contendenti. Un campo coeso, ben controllato e guidato da un leader onnipresente (la forza semplificatrice e riconoscibile di Silvio Berlusconi), l’altro al contrario lacerato da divisioni e scontri prolungati. Basti l’elenco della successione di capi del governo o leader di partito che vengono sostituiti, disarcionati o messi da parte nello spazio breve di alcuni anni: Amato, Ciampi, Prodi, D ’Alema, Rutelli, Fassino, Veltroni, Franceschini. Le due coalizioni sono attraversate da significative analogie: composizione ampia di forze eterogenee tenute insieme dalle urgenze di competere con successo in una sfida elettorale. Non di meno si evidenziano sostanziali divergenze: la fun­ zione semplificatrice della leadership, con la sintesi compiuta da Berlusconi attorno alla sua persona, nel centrodestra e di

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converso il pluralismo litigioso che caratterizza il campo del centrosinistra. 2. Crepuscolo Il continuo confronto attraverso sporadici appuntamenti elettorali mette gli schieramenti in condizione di misurare le rispettive ambizioni su vari livelli e contesti. Ma le scadenze ravvicinate impediscono di cogliere la profondità di un dato che tende a consolidarsi senza incontrare ostacoli efficaci: l’astensionismo crescente. Si tratta di una forbice divaricante, un segno di distacco progressivo tra la politica e la società. Un fenomeno profondo, in discontinuità con numeri e competi­ zioni del passato della Repubblica, che non viene pesato adeguatamente né valutato, dai principali protagonisti delle campagne elettorali, come sintomo di una svolta imminente. Del resto, la degenerazione del confronto pubblico non aiuta, la contrapposizione tra la maggioranza di governo e le oppo­ sizioni passa prevalentemente attraverso il giudizio su Silvio Berlusconi che diventa l’emblema e il riferimento di un’intera fase della storia della Repubblica. E come se si giocasse con­ temporaneamente su due tavoli: le elezioni, il responso delle urne da un lato e le vicende private e personali del capo del governo dall’altro. Così facendo i due tavoli rischiano di pro­ durre disaffezione, distanza, una sorta di cortocircuito in grado d’investire le ragioni stesse della politica come esercizio di diritti e possibilità. Nel giugno 2009 la contraddizione diventa evidente e nello spazio breve di poche settimane fa il giro del mondo. Elezioni europee e tornata amministrativa vengono scossi dalle ripercussioni del confronto pubblico tra Berlusconi e Veronica Lario, la moglie chiede la separazione accusando il presidente del Consiglio di comportamenti censurabili nella frequentazione di giovani ragazze inserite nelle liste elettorali del centrodestra. Uno scambio perverso di frequentazioni e favori che inquinerebbe l’agone politico a partire dagli interrogativi sulla credibilità di un uomo pubblico e sui confini labili tra profili giudiziari e giudizio politico10. Un uragano che scuote la credibilità internazionale del paese suscitando un’ondata di reazioni e mobilitazioni.

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Il voto europeo (6-7 giugno 2009), contrariamente alle previsioni di tanti, premia le forze del centrodestra. Il Polo della libertà si attesta sopra il 35%, la Lega Nord supera il 10%. Il distacco con le opposizioni cresce, la maggioranza sembra poter superare indenne gli strascichi pubblici della tempesta privata di Berlusconi. L’immagine delle coalizioni fragili e inadeguate viene rilanciata dai nuovi scandali mediatici che colpiscono il pre­ sidente del Consiglio. Un’inchiesta della magistratura di Bari, su presunti illeciti nella sanità della regione, denuncia un giro di prostituzione organizzata in riferimento a un imprenditore locale. Un desolante quadro di favori e connivenze; alcune ragazze coinvolte dichiarano di aver partecipato a incontri e feste nella residenza romana di Berlusconi. E da quelle di­ chiarazioni si scatena una martellante campagna di stampa in Italia e fuori dai confini nazionali sul limite controverso che separa pubblico e privato, persino la Conferenza Episcopale Italiana sceglie di intervenire con parole chiare di richiamo al necessario comportamento morale dei politici11. Una sfida sottile che espone l’esecutivo a una ridda di critiche e prese di posizione. Il peso dello scontro con la magistratura rimane un filo ininterrotto degli anni e dei decenni a cavallo della fine del Novecento e gli albori del nuovo secolo. Anche l’opposi­ zione viene scossa da uno scandalo clamoroso che colpisce il presidente della regione Lazio, Piero Marrazzo, riproponendo i dilemmi sui comportamenti individuali di chi ricopre cariche pubbliche. Il 27 ottobre 2009 il governatore si dimette, un nuovo colpo alla credibilità della politica accentua la distanza con settori non marginali della società italiana. In questo quadro di scontri e accuse reciproche il Partito democratico viene incalzato dal protagonismo del «popolo viola», sostenitore della strategia di un’opposizione più inci­ siva; Pierluigi Bersani (già ministro dei Trasporti dal 1999 al 2001 e dello Sviluppo economico nel secondo governo Prodi) si afferma nelle primarie del 25 ottobre 2009 conquistando la leadership del partito. L’equilibrio tra maggioranza e opposizio­ ne non subisce contraccolpi particolari nonostante le occasioni non manchino: scandali ripetuti, scontri con la magistratura in diverse occasioni, fragilità complessiva di coalizioni che appaio­ no talmente deboli da non consentire una programmazione di medio periodo. Quando un sottosegretario del governo, Nicola

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Cosentino, viene accusato di collusioni con clan camorristici, sembra l’annuncio di una nuova implosione. Ma la frattura non degenera, tutto si regge, nella precarietà di un momento di passaggio prolungatosi ulteriormente. I colpi più severi alla tenuta del quadro politico vengono dai risvolti della crisi economica. La narrazione berlusconiana non ne dà conto, la rimuove come se potesse trattarsi di un piccolo inciampo. E invece impietosa la crisi morde nelle di­ namiche profonde dell’economia italiana. La stagnazione del Pii - cominciata già negli anni precedenti il fallimento della Lehman Brothers - oltre a ridurre la ricchezza degli italiani, genera ulteriore pressione nel rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo; su un altro versante l’insieme del sistema creditizio finisce sotto osservazione con ripetuti e dif­ fusi segnali di allerta. La tanto auspicata ripresa non solo non s’intravede neppure all’orizzonte, ma i tassi di crescita della produttività si mantengono costantemente al di sotto della media europea. Il richiamo all’ottimismo della maggioranza, alla fiducia, alla presenza (secondo le parole di Berlusconi) di ristoranti pieni di consumatori, non corrisponde alla realtà di un sistema paese che progressivamente perde terreno scivolando pericolosamente verso contesti incerti. Un impoverimento com­ plessivo nel quadro di una crisi internazionale senza precedenti che avrebbe richiesto misure drastiche e interventi straordinari. Tra la fine del 2009 e i primi mesi del nuovo anno il tasso di disoccupazione subisce un’ulteriore impennata, soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno, di converso la contrazione della domanda interna conferma la fine di ogni facile ottimismo: l’insistenza sul consumo come volano della ripresa, una ricetta del passato, non corrisponde alla gravità della situazione. E in questo contesto il fattore tempo è una spia utile alla comprensione di un passaggio delicato e complesso. La reazione ai colpi infetti dalla crisi si fa attendere a lungo; la stessa percezione di una condizione di difficoltà viene prima negata, poi rimandata e rimossa fino a quando è possibile. La contraddizione appare stridente: una crisi generalizzata che tuttavia non incide, almeno in superficie, sul consenso del blocco delle forze di governo impegnate nella perenne e incessante campagna elettorale che si muove da un’elezione all’altra. E una nuova prova di voto amministrativo (28-29 marzo 2010) rilancia le ragioni e i successi della maggio-

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ranza di governo. Il centrodestra si afferma in sei regioni, conquistandone quattro che erano di segno politico opposto. Continua il calo dell’affluenza mentre il Movimento 5 stelle che fa riferimento a Beppe Grillo e alle sue giornate d’insulti e proteste inizia a raccogliere consensi significativi in diverse aree della penisola. Quella distanza crescente tra forme antiche della politica e diversi settori della società comincia a divenire un vuoto, uno spazio che forze nuove, movimenti di protesta o di contestazione iniziano a riempire con successo. Con una buona dose di presunzione o superiorità tutto questo viene inizialmente descritto e raccontato nella chiave interpretativa dell’antipolitica, in una forma conflittuale che si muoverebbe fuori e contro il sistema consolidato. Ma l’idea che tutto possa essere ricondotto a una dialettica tra vecchio e nuovo, tra il sistema esistente e forze esterne ostili e minacciose, mostra tutta la sua debolezza. La stessa chiave dell’antipolitica semplifica un confronto che mette in discussione le fondamenta della lunga transizione apertasi dopo il crollo del 1989. Al di là del consenso apparente al governo, mentre la maggioranza si conferma anche a livello amministrativo, il quadro complessivo è lontano dall’essere stabile e certo. La coalizione vincente viene scossa da una ripetuta com­ petizione interna: da una parte la Lega Nord e dall’altra gli eredi del percorso di Alleanza nazionale. Aveva subito e patito gli effetti delle diverse componenti in cerca di nuove fortune; anche questo un dato che si ripeteva pericolosamente in un arco di tempo limitato. Ma questa volta lo strappo appare più profondo. Gianfranco Fini, diventato presidente della Camera con il voto del 2008, a settembre 2010, dopo ripetute occasioni di scontro anche pubblico con Berlusconi, decide di uscire dal Popolo della libertà per fondare un gruppo parlamentare autonomo e poi una nuova formazione politica: Futuro e li­ bertà12. Il consenso elettorale confermato, a livello nazionale e locale, non appare sufficiente a consolidare la tenuta di un blocco, la struttura di una coalizione composita. Del resto, anche sull’altro versante il centrosinistra perde pezzi in usci­ ta disordinata dai partiti maggiori che lo compongono. Si fa strada l’ipotesi di dar vita a un nuovo polo centrista con forze provenienti dal Partito democratico e dal Popolo della libertà. Un incontro per sancire la fine del bipolarismo di coalizione che non trova grandi consensi.

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Ben altre spallate nella seconda metà del 2010 vengono dalle inchieste sulla corruzione in materia di appalti. Una lista di politici, tecnici e imprenditori in condizione di pilotare assegnazioni e finanziamenti. Alcuni sono uomini di punta del governo o dei partiti che lo compongono. Anche in questo frangente, alle dimissioni dei presunti beneficiari di favori e attenzioni, segue un’ondata di discredito che contribuisce ad accrescere lo spazio e la proposta dei movimenti di protesta. La politica appare malata, vulnerabile, piegata alle ragioni di gruppi di pressione o di poteri criminali incontrastati. In tale contesto il presidente del Consiglio diventa il bersaglio delle accuse, il punto di riferimento di ogni richiesta di ricambio, un modello di potere esercitato in modo intollerabile. Una china pericolosa e incontrollabile. Se lo scandalo della lista dei sospettati tocca un ministro e il vertice della Protezione civile, Berlusconi rimane in sella pur in presenza di tensioni che mettono a rischio l’intero sistema. La stessa cultura dello scandalo irrompe nei comportamenti dei protagonisti: ogni accusa si riflette nell’amplificazione mediatica che la contrad­ distingue e nelle reazioni di chiusura o rilancio di chi direttamente o indirettamente si sente chiamato in causa. Un gioco pericoloso che sfugge alle dinamiche fisiologiche del confronto democratico e alle sedi istituzionali che dovrebbero ospitarlo. Lo sfondo prevalente è ancora quello del confine tra pub­ blico e privato, tra comportamenti individuali che condizionano l’esercizio di funzioni di garanzia e indirizzo complessivo. Verso la fine dell’anno il presidente del Consiglio torna al centro di un’inchiesta che coinvolge una giovane ragazza, «Ruby», fermata dalla questura di Milano e rilasciata dopo una telefonata dello stesso Berlusconi. La giovane marocchina, presentata come la nipote del presidente egiziano Mubarak, avrebbe partecipato (secondo le accuse dei processi degli anni successivi) a una serie di incontri e festini con contenuti ambigui e spettacoli a sfondo sessuale nella villa di Berlusconi ad Arcore. Un copione sperimentato che prevede l’intreccio perverso tra responsabilità individuale e comportamenti pub­ blici. Due gli ambiti che accompagnano una vicenda triste che getta una luce sinistra sull’insieme del paese in un tornante delicato, a ridosso della grande crisi del 2007-2008. Il tema dell’abuso di potere per via di una telefonata, volta a evitare un arresto, e di riflesso l’insieme di comportamenti ripetuti

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che coinvolgono un ambiente vicino al capo del governo fatto di promozioni e frequentazioni di ragazze, intriso di maschi­ lismo e seduzioni strumentali, fatalmente rilanciato dai media di mezzo mondo. Una pagina che non passa inosservata, in parte modifica gli orientamenti di settori della società italiana che avevano sostenuto convintamente le ragioni del miracolo e il tempo salvifico del berlusconismo13. La politica mantiene almeno in apparenza una continuità di fondo. Le opposizioni scelgono di affrontare il confronto parlamentare a partire dalla legge di bilancio e dai tagli che la caratterizzano: intervenire in una dialettica con il governo per verificare se l’indebolimento di Berlusconi possa aprire fratture all’interno del variegato mondo di sostenitori o alleati. E il con­ senso non si sgretola, tiene anche quando le opposizioni a fine 2010 presentano una mozione di sfiducia con l’obiettivo di offri­ re una sponda (nel Parlamento e nel paese) a potenziali delusi, pronti a lasciare le file della maggioranza. Il risultato, almeno sul momento, conferma le ragioni del governo che si assicura quasi in blocco i numeri della rappresentanza parlamentare. Ma la parabola discendente dell’ottimismo ingiustificato è iniziata da tempo, con origini lontane. Gli appelli del presidente della Repubblica cadono nel vuoto. Lo scontro tra maggioranza e opposizione produce lacerazioni senza costrutto. E sul ver­ sante economico i numeri non ammettono sconti né ritardi. I conti pubblici mostrano le difficoltà di un sistema paese piegato dall’effetto congiunto della grande crisi e dell’inaffidabilità di una classe dirigente inadeguata. La produzione industriale subisce delle preoccupanti battute d’arresto: della crescita auspicata e prevista non si trova traccia mentre il debito pub­ blico s’impenna fino a superare il 120% del prodotto interno lordo. Una fotografia impietosa che apre contestualmente due fronti di difficile armonizzazione. Il primo, interno alla tenuta della maggioranza: passata indenne dalle tempeste giudiziarie e dai riflessi degli scandali non tiene alla prova dell’emergenza economica. Le ricette sono diverse, i messaggi non collimano: chi punta a rassicurare ridimensionando la portata dei numeri deve fare i conti con chi, al contrario, si prepara a chiedere sacrifici ingenti, lacrime e sangue per portare la navigazione in acque sicure. Dalle nuove elezioni amministrative di primavera (15 e 16 maggio 2011) vengono rilanciate le ragioni dell’op­ posizione. Il simbolo riconoscibile è la conquista del comune

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di Milano, roccaforte del centrodestra, per due decenni perno indiscusso della struttura e dell’identità del potere riconducibile al capo del governo. Anche il consenso non è più in sicurezza. Lacerazioni interne sui temi della giustizia (le preoccupazioni per i processi di Berlusconi), l’assenza di politiche economiche per fronteggiare la crisi e, come di consueto, la tenuta della coalizione, mettono il governo all’angolo. Il ministro della Giustizia Angelino Alfano nel 2011 viene promosso a segretario del Popolo della libertà nel tentativo di rasserenare il conflitto e diversificare la leadership del centrodestra; le dimissioni di Sandro Bondi (fedelissimo di Berlusconi)14 da ministro dei Beni culturali, dopo un crollo nel sito archeologico di Pompei, sono il simbolo di un crepuscolo inarrestabile. Una parte della società italiana avverte un cambio di direzione, in molti casi la possibilità di una svolta. Nel mese di giugno ben quattro quesiti referendari ottengono il quorum, dopo il fallimento ripetuto di simili appuntamenti per oltre un decennio. Un’occasione per dare un colpo al governo anche al di là del contenuto dei referendum (acqua come bene comune, controllo sulle politiche energetiche, cancellazione del legittimo impedimento per la comparizione nei processi) come conferma di un sentimento diffuso che prova a esprimersi anche attraverso gli strumenti della consultazione democratica. Di lì a poco nuovi segnali colpiscono la figura del presiden­ te del Consiglio, a partire dal pronunciamento della Corte di Appello di Milano sul cosiddetto lodo Mondadori: la sentenza impone alla Fininvest il pagamento di un’ingente somma come risarcimento al gruppo editoriale guidato dall’ingegnere Carlo De Benedetti. Il caso rimanda a un arbitrato del 1991 nell’asse­ gnazione della casa editrice al gruppo della famiglia Berlusconi in presenza di un’accusa di corruzione pendente su un giudice. Una nuova tegola che acuisce distanze e conflittualità. Il secondo fronte che si apre è quello esterno, verso l’Europa, i mercati e le istituzioni internazionali. Una crisi di credibilità colpisce le risorse di un sistema, la sua capacità di reazione e intervento. La legge di stabilità è un passaggio stretto, un ostacolo che non è facile superare. Le misure per ottenere il pareggio di bilancio entro il 2014 appaiono impopolari e dolorose. I conti del paese preoccupano, troppi indicatori convengono nella previsione di stagioni difficili con nubi che si addensano all’orizzonte. Lo strumento più utilizzato che entra

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nel linguaggio comune è lo spread, il calcolo del differenziale tra i titoli di Stato italiani e tedeschi. Una misura come termometro di una febbre fuori controllo. Quasi 400 i punti del differenziale nel mese di agosto, milioni di euro in fumo, a rischio rispar­ mi di famiglie e imprese. Inizia così una sorta di braccio di ferro tra il governo e le istituzioni europee pronte a misurare la coerenza degli interventi dell’esecutivo. Una lettera della Banca centrale europea firmata dal governatore uscente, JeanClaude Trichet, e da quello entrante, Mario Draghi, rappresenta la classica goccia che fa traboccare il vaso. La missiva contiene indicazioni dettagliate e precise su provvedimenti da assumere con urgenza, pena la crisi dei rapporti tra l’Italia e il contesto internazionale del vecchio continente. Il governo viene colto di sorpresa, incredulo di fronte all’incalzare delle argomentazioni. Berlusconi guida la protesta contro una presunta violazione di sovranità che nel linguaggio forbito e conflittuale dei giorni successivi si trasforma in accusa di golpe ordito da forze av­ verse in Italia (il Quirinale su tutte) e all’estero. In breve, la dialettica tra quadro interno e contesto europeo si trasforma nella ricerca di un capro espiatorio sul quale scaricare la dura legge dei numeri di un sistema che non cresce più, accumu­ lando debiti e incertezze. La difesa della sovranità minacciata sembra riportare indietro gli orologi della storia, mettendo in causa la costruzione di alleanze e interdipendenze del lungo dopoguerra della Repubblica, la sfida per l’onorabilità ferita si ripercuote altresì sulla conflittualità interna alla maggioranza. Quando ai primi di novembre va in discussione il Rendicon­ to generale dello Stato, i numeri della maggioranza vacillano. Il picco dello spread diffonde paure e spazza via i residui di ottimismo che il governo aveva seminato dentro un terreno inadeguato. La maggioranza va sotto (308 a fronte dei 316 ne­ cessari) e il 12 novembre 2011 Berlusconi presenta le dimissioni al capo dello Stato augurandosi contestualmente una possibile rivincita di tipo elettorale. Si apre una crisi, imprevedibile visti i numeri di avvio della legislatura. Il sistema paese si ritrova «in circostanze politiche più gravi di quelle del 1992-94: fram­ mentazione e paralisi dei partiti; episodi continui di corruzione e malgoverno; consapevolezza dell’insufficienza di istituzioni che però nessuno riesce a riformare; ondate alte e robuste di antipolitica»15. Un fallimento senza appello del progetto del nuovo miracolo italiano. La caduta del quarto governo a guida

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Berlusconi segna una discontinuità politica e istituzionale16. Nessuno era rimasto in sella così a lungo (mettendo insieme i quattro periodi) nella stagione delle coalizioni bipolari, ma questa volta una maggioranza solida si dissolve, senza che si manifesti la possibilità di costruirne una alternativa come nel caso dell’epilogo del primo governo presieduto da Romano Prodi. La gestione della crisi passa nelle mani del presidente della Repubblica. Giorgio Napolitano si appella all’interesse nazionale chiedendo ai partiti rappresentati in Parlamento un gesto di responsabilità. La strada di una campagna elettorale in un clima cosi divisivo avrebbe accentuato gli effetti della crisi; un’economia fuori controllo avrebbe condotto il paese in una dinamica imprevedibile. Le due coalizioni e il polo centrista accettano l’idea di non anticipare lo scioglimento della legislatura per favorire la costruzione di una maggioranza trasversale. Accantonare interessi e calcoli di parte per lavorare alla prospettiva di un risanamento economico come condizione per qualificare lo scorcio conclusivo della legislatura. Una svolta non solo in termini di scelte e comportamenti. L’immagine di una dialettica bipolare viene rimossa e di conseguenza ridi­ mensionata. L’urgenza istituzionale richiede la collaborazione tra diversi, un compromesso possibile di forze e intelligenze per salvare il salvabile prima che gli effetti della crisi possano travolgere parti costitutive del sistema. La gestione del presidente della Repubblica sfocia nell’in­ dividuazione di un economista prestigioso nella persona del prof. Mario Monti, già commissario europeo dal 1995 al 2004 (prima al Mercato comune, poi alla Concorrenza) e poi pre­ sidente dell’Università Bocconi di Milano. Una competenza riconosciuta a livello internazionale che si misura nelle dina­ miche di un Parlamento instabile. Il ruolo di Napolitano attira attenzioni e critiche, la stampa internazionale gli attribuisce il titolo di «Re Giorgio» per una sovraesposizione ripetuta, dettata dall’urgenza del momento. Monti raccoglie l’incarico per formare un nuovo esecutivo dopo la nomina a senatore a vita del 9 novembre 2011. Obiettivo diventa la prospettiva di un governo tecnico capace di condurre il paese fuori dalle strettoie della crisi. Sin dalle prime battute si manifesta una fiducia larga, trasversale e composita: centrodestra e centrosi­ nistra nelle loro componenti maggioritarie si uniscono all’area del centro, tratteggiando così un possibile cammino comune.

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Un vasto schieramento sostiene il professore quando indica la strada di una rilevante manovra economica per mettere i conti in sicurezza. Il presidente incaricato tiene per sé la delega alle politiche economiche come segno tangibile di una strategia definita: ridurre il debito, seguire le indicazioni dell’Europa, tagliare drasticamente la spesa per rassicurare mercati e inve­ stitori. Una terapia d’urto che punta a rovesciare il declassa­ mento annunciato da diverse agenzie di rating. Il rischio è alto, il sistema paese potrebbe scivolare verso un rovinoso default mettendo in crisi la tenuta dell’Eurozona. Il governo si presenta con un profilo tecnico, recuperando una categoria che già aveva segnato fasi precedenti, a partire dalla crisi del 1992. Difficile e ambigua la distinzione tra tec­ nici e politici quando si tratta di compiere scelte definendo indirizzi e priorità. Come in pagine recenti della storia della Repubblica, il ricorso a competenze e professionalità esterne ha una precisa connotazione, punta a riempire il vuoto delle insufficienze e dei fallimenti dei processi decisionali per indi­ rizzare l’insieme del sistema verso nuovi orizzonti. Monti mette da subito il Parlamento di fronte a scelte drastiche, misure dolorose: liberalizzazioni, interventi sul mercato del lavoro e sul sistema pensionistico, lotta all’evasione fiscale. Messaggi e provvedimenti legislativi che scontentano le parti sociali e le basi di riferimento dei partiti, coinvolgendo i sostenitori del governo in una difficile e impopolare impresa. I conti faticosamente cominciano a migliorare, viene così allontanato 10 spettro del fallimento (la «sindrome greca», come allora viene con superficiale alterigia definito) e il vincolo esterno del rapporto con l’Unione europea viene nuovamente considerato un punto imprescindibile e qualificante dell’azione di governo. 11 giudizio si fa sempre più complesso, e anche le ricadute di una strategia straordinaria non consolidano soluzioni durature; gli interventi sulla previdenza mostrano inadeguatezze discu­ tibili, in particolare nel caso degli «esodati» che giovandosi di incentivi per la buonuscita previsti da un decreto del governo, si ritrovano in una condizione di assoluta incertezza giuridica. Segnali incoraggianti e contraddittori al tempo stesso: i tassi d’interesse iniziano a scendere mentre i tassi di disoccupazione (oltre il 9%) e di crescita continuano a essere preoccupanti. La pressione fiscale in aumento condiziona le possibilità di rilancio dell’economia italiana. Un giudizio lapidario della Corte dei

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Conti mette in risalto i costi (200 miliardi di euro) legati alla corruzione diffusa e all’evasione fiscale come sistema consoli­ dato. Un malcostume difficile da estirpare nonostante i buoni propositi e le iniziative della compagine guidata dal professor Monti. Una linea di pericolosa continuità che non s’interrompe. Scandali per corruzione durante l’azione del governo tecnico colpiscono i vertici della Lega Nord, il tesoriere di un partito confluito nel Pd (la Margherita) e in modo clamoroso il go­ verno delle due regioni principali (in termini di Pii) guidate dal centrodestra, la Lombardia e il Lazio, centri del sistema economico o espressione diretta del potere politico. Le accuse sono di varia natura e fattispecie: truffa, peculato, concussione o corruzione nell’esercizio di funzioni pubbliche. Le spese pazze delle regioni diventano il simbolo di degenerazioni che si sono nutrite di regole spesso opache e che ora colpiscono diversi protagonisti fino a indebolire il senso complessivo dell’azione di risanamento e di appartenenza a una comunità nazionale. 3. I primi centocinquant’anni L’anno che si chiude con il varo del governo presieduto da Mario Monti cade nel centocinquantesimo anniversario dalla proclamazione dell’unità d’Italia. Un anno particolare, per molti versi contraddittorio e di passaggio da una fase all’altra nella navigazione incerta di quella che tanti, con un’espressione troppo vaga e generica, chiamano la «Seconda Repubblica»17. Un frangente nel quale si accavallano, sovrapponendosi, diverse tensioni. La parabola discendente dell’uomo che più di tutti ha segnato il tempo del dopo guerra fredda: Silvio Berlusconi appare incerto, non in grado di controllare una maggioranza forte e consistente che lo aveva premiato. Sulla sua persona si concentrano interrogativi impegnativi che lacerano la società italiana coinvolgendo gli osservatori internazionali. Un «caima­ no», come era stato definito già nel 2006 da un celebre film di Nanni Moretti, che cambia pelle a seconda del momento, nella sua dimensione pubblica di uomo di Stato o nel privato delle sue relazioni personali: statista o evasore? Imprenditore impropriamente sceso nell’arena pubblica o incompreso modernizzatore di un paese immobile? In pochi mesi la tempesta economica travolge le fragili compatibilità del nuovo quadro

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politico: governo tecnico di emergenza per salvare il salvabile e riprendere la rotta di una navigazione sicura. Ma il 2011 è stato anche un anno di celebrazioni che ri­ propongono interrogativi inevasi sul peso del passato e sugli indirizzi del futuro. Il clima è distante da analoghi anniversari; dal clima dimesso e soddisfatto «dell’italietta giolittiana» del 1911 alle prese con le sfide della prima nazionalizzazione e dall’euforia modernizzante del miracolo economico del 196118. Vige un senso di incertezza e quasi di incredulità. In tanti sono convinti che passerà quasi inosservato l’anniversario dei 150 anni di unità nazionale. Troppo insistite le critiche e le polemiche tra Nord e Sud, la Lega elegge il bersaglio preferito nella capitale che tutto ruba e nasconde, il disinteresse sembra inizialmente prevalere sulla programmazione del comitato incaricato di avviare le celebrazioni. Nelle cronache di quei giorni, all’avvicinarsi inesorabile della scadenza di marzo 2011, si manifestano posizioni ufficiali di chi si pronuncia contro le celebrazioni con motivazioni riconducibili al separatismo strisciante o a una forma di rilettura strumentale della stagione del Risorgimento. Critiche infondate dal punto di vista storico e dei contenuti che tuttavia aprono una breccia nella possibile condivisione di un anniversario unificante. Due tempi scandiscono il crinale delle contraddizioni di­ stribuite lungo il 2011. Un’iniziale previsione di disinteresse e distacco verso la scadenza istituzionale viene modificata progressivamente dal protagonismo intelligente di Giorgio Napolitano19. Il presidente della Repubblica inizia nel maggio 2011 il suo viaggio attraverso la penisola accompagnando e valorizzando le diverse iniziative celebrative. Le risposte diffuse travolgono nello spazio breve di poche settimane l’indifferenza o le contrarietà di tanti. Il vertice delle istituzioni viene coperto di partecipazione, affetto, riconoscenza per parole e atti che richiamano il senso più profondo di un cammino comune20. Con parole colme di soddisfazione il presidente della Repubblica commenta nel marzo 2011 il lungo cammino delle celebrazioni: Si è dunque largamente compresa e condivisa la convinzione che ci muoveva e che così formulerò: la memoria degli eventi che condus­ sero alla nascita dello Stato nazionale unitario e la riflessione sul lungo percorso successivamente compiuto, possono risultare preziose nella difficile fase che l’Italia sta attraversando, in un’epoca di profondo e incessante cambiamento della realtà mondiale21.

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E così l’anniversario diventa un’occasione d’incontro che avvicina generazioni diverse d’italiani, territori e regioni distan­ ti, piccoli centri o grandi città. Parole e simboli uniscono, a partire dall’esposizione del tricolore su finestre o balconi per finire nella ritrovata vicinanza con l’inno nazionale cantato da scolaresche piene di nuovi italiani (figli di immigrati, nati e cresciuti nell’Italia del nuovo millennio) o celebrato un anno dopo da Roberto Benigni in una trasmissione televisiva di successo dedicata alla Costituzione del 194822. La narrazione secessionista o separatista, la critica serrata alle modalità di co­ struzione della nazione italiana viene, almeno momentaneamen­ te, messa da parte. Una spinta autentica a ritrovarsi tra italiane e italiani cercando radici e momenti unificanti: una comunità smarrita che insegue punti fermi, indicazioni e segnali precisi per rafforzare la propria unità. Efficaci le parole di uno storico in uno sguardo non banale su quella partecipazione inattesa: «una sorta di plebiscito sommesso e senza retorica ma, a suo modo, autentico»23. Anche dall’altra sponda del Tevere arrivano parole di simpatia e partecipazione dal pontefice Benedetto XVI, antichi dissidi tra Stato e Chiesa ormai consegnati al dibattito sulla conoscenza del passato. E così la partecipazione diffusa trova canali istituzionali (comuni, province e regioni mobilitate) o forme spontanee di coinvolgimento. Il comitato per le celebrazioni promuove un attento recupero di luoghi e simboli di un cammino come riferimento comune: dal museo di Garibaldi a Caprera alle tracce della Repubblica romana nella capitale sul Gianicolo. Energie plurali mobilitate lungo una cronologia che si snoda per tutto il 2011 e oltre quell’anno. Si tratta di piani paralleli che pur influenzandosi reciproca­ mente, non s’incontrano: le difficoltà di tenuta del quadro politico da un lato, le celebrazioni dei 150 anni dall’altro. Le piazze si riempiono tanto delle manifestazioni per difendere e valorizzare la dignità e l’emancipazione femminile in chiave antiberlusconiana (come in occasione del movimento Se non ora quando, che arriva a mobilitare oltre un milione di persone nel febbraio del 2011) quanto delle bandiere che sventolano nel richiamo a una nazione ritrovata o da risollevare. Un passaggio che cade nel vivo di una grande trasformazione internazionale. Anche sotto questo profilo il 2011 segna una discontinuità profonda capace di modificare paesi, relazioni, consuetudini. Un decennio dopo gli attentati dell’ 11 settembre,

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la logica del muro contro muro non produce risultati signi­ ficativi. La stessa sfida contro il terrorismo internazionale si nutre di nuove parole e strategie. Il Mediterraneo torna pre­ potentemente al centro dell’attenzione quando dalla Tunisia ha inizio un movimento di riforma e rinnovamento che si allarga a macchia d’olio verso paesi limitrofi. Con una buona dose di ottimismo (in larga parte si rivelerà ingiustificato) gli osservatori internazionali e i governi occidentali parlano di «primavere arabe», di una stagione di disgelo e collaborazione capace di rovesciare il paradigma dello scontro di civiltà e della guerra inevitabile. L’Italia è coinvolta direttamente, per la sua collocazione geopolitica, per il ruolo che ricopre nelle dinamiche delle alleanze internazionali a partire dal fianco sud della Nato e per le ripercussioni immediate che modificano assetti e rapporti di forza dell’intero Medio Oriente. Dalla piazza centrale di Tunisi con il rimbalzo immediato dei social network la rivolta si diffonde in Egitto, in Libia (con la fine inattesa di Gheddafi) e in Siria nelle dinamiche scatenanti una sanguinosa guerra civile. Una complessiva stagione d’instabilità che conduce al ritorno prepotente dei militari al Cairo, a una difficile e contraddittoria dinamica democratica in Tunisia e alla contestuale polarizzazione nelle posizioni di un nascente fantomatico e minaccioso stato islamico (Daesh) sostenitore di un’affermazione per via violenta di una componente islamica (in chiave anti-sunnita) lanciata verso la sfida all’Occidente24. Una sfida plurale di conquista e controllo di territori, sui valori di riferimento, sulle culture che hanno attraversato i decenni successivi al secondo conflitto mondiale. Una minaccia ine­ dita e inaudita che si manifesta inizialmente con crisi locali e segnali di frattura in larga parte sottovalutati dalle potenze europee impegnate a difendere e consolidare i propri interessi economico commerciali. La comunità internazionale nel suo insieme non appare sintonizzata sui pericoli di una minaccia dai caratteri sconosciuti. La guerra santa punta ad allargare i confini di un territorio per farne uno Stato, esercitando in loco una sovranità diretta attraverso la violenza e la sopraffa­ zione. Una minaccia che s’irradia coinvolgendo diversi contesti geopolitici. La partecipazione italiana si concentra sul sostegno a un’iniziativa a guida francese in Libia. Diversi paesi europei vengono coinvolti e la risoluzione del presidente Napolitano

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spinge per il consolidamento di un quadro europeo e mul­ tilaterale capace di motivare il coinvolgimento italiano nel teatro libico. Ma se da un lato l’iniziativa del presidente della Repubblica mostra le debolezze della coalizione di governo, dall’altro non sfugge la natura inadeguata e strumentale della comunità internazionale intenzionata a proteggere interessi nazionali di componenti tra loro in conflitto. Dopo la grande crisi del 2008 diversi paesi vivono una fase d’incerto equili­ brio: la Grecia e la Spagna sono attraversate dalla difficoltà di mantenere i conti in ordine rispetto ai vincoli di parametri europei da rispettare. La sponda sud del Mediterraneo si presenta sconvolta e modificata dai nuovi assetti25. La crisi dell’Italia targata Berlusconi si consuma proprio a partire da un crocevia che mette in relazione il quadro interno e il contesto internazionale. Sul primo versante l’intervento delle autorità europee preoccupate della tenuta dei conti pubblici apre la strada a una discontinuità profonda. Il presidente della Repubblica indirizza la crisi (come si è appena visto) verso la strada del governo dei tecnici, risposta di emergenza a una situazione definita e percepita come tale. Si tratta di una conferma diretta del peso di un vincolo esterno che tiene insieme paesi, economie, obiettivi europei comuni. Ma sull’altro versante il cambiamento dei riferimenti internazionali mette in evidenza la debolezza e l’isolamento del governo italiano. Berlusconi ha perso credibilità e consenso, la sua proiezione pubblica attira critiche e distinguo da varie parti. Il tessuto delle relazioni internazionali appare più complesso, delicato, centrale per la tenuta di una comunità nazionale colpita dagli effetti della crisi. I primi passi del nuovo millennio oltre ad aver mostrato il volto terribile del terrorismo internazionale sono anche quelli dell’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto nel 2001) e dell’affermazione significativa di nuovi giganti sullo scenario globale, i cosiddetti Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica). Una dirompen­ te ascesa che modifica progressivamente la distribuzione di risorse, le capacità di governo degli organismi internazionali, la stessa concezione dei rapporti di forza. Non si tratta di un dato accessorio o marginale. La contraddizione è stridente. La fase internazionale richiede attenzione e un coordinamento non banale tra i paesi europei. Più si allarga il campo dei protagonisti partecipanti, più l’ordine internazionale diven­

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ta declinabile su una dimensione pienamente globale e più dovrebbero stringersi le forme di collaborazione e intesa in un quadro europeo. Solo una dimensione continentale può reggere il confronto con altre aree geografiche, con sistemi integrati in ascesa verso la possibile definizione di nuove posizioni di prestigio. Al contrario, il progressivo isolamento dell’esperimento del Popolo della libertà si muove verso una direzione opposta esaltando i caratteri autonomi, nazionali, tendenzialmente autosufficienti di un governo dell’Unione europea. Non erano mancati segnali in tal senso anche in passato: il confronto dialettico nel semestre di presidenza italiana, le incomprensioni ripetute con ambasciatori di altri paesi di stanza a Roma, la diplomazia parallela di Berlusconi che scavalca poteri e organi preposti durante la guerra in Iraq o ancora la crescente diffidenza verso la ricerca di una posizione comune a livello europeo. In fondo, la crisi della seconda metà del 2011 porta alla disgregazione della maggioranza di governo che, seppur numericamente forte, non appare coesa e convinta delle proprie ragioni. Una dissoluzione difficile da prevedere, figlia di uno smottamento interno e della progressiva perdita di credibilità e fiducia a livello internazionale. Una paralisi del sistema politico condizionato da una classe dirigente divisa, litigiosa, scossa da continui e ripetuti episodi di corruzione e malgoverno. Il governo Monti si appoggia su una fiducia trasversale di forze politiche in passato conflittuali e ora pronte a collaborare, nella gravità del momento, lasciandosi alle spalle l’impianto bipolare, la dicotomia amico-nemico. I primi passi sono segnati da un consenso diffuso nell’opinio­ ne pubblica: un governo tecnico sganciato dai partiti con una larga fiducia parlamentare sembra poter stabilizzare il contesto rasserenando animi e comportamenti. Ma il governo Monti è qualcosa di più di un governo tecnico, se paragonato a esperimenti simili nel passato più recente (Ciampi o Dini per citare i più significativi). La sua navigazione avviene in un mare in burrasca, senza riferimenti certi nel cuore di una frattura internazionale dagli esiti imprevedibili. Una scommessa che, pur in presenza di significativi traguardi da raggiungere, rischia di indebolire la tenuta complessiva del sistema. I costi del risanamento colpiscono strati deboli e poco protetti, la prospettiva della ripresa appare proiettata in un tempo non definito.

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La fiducia del presidente della Repubblica nel nuovo esecutivo coinvolge gran parte del Parlamento: emerge una domanda diffusa finalizzata a superare la forma competitiva del bipolarismo di coalizione, un’intera fase della storia della Repubblica dopo il crollo del 198926. Il quadro politico e istituzionale spinge per una direzione di marcia alternativa alle sirene mediatiche di un confronto continuo, lacerante e prolungato, tra centrodestra e centrosinistra, tra Berlusconi e il fronte dei suoi oppositori. Monti inizia a modificare forme e linguaggi, scegliendo la sobrietà, il rigore, esprimendosi a partire dall’esistenza di una «responsabilità nazionale» come asse di riferimento: correggere i conti, dare fiducia a mer­ cati e investitori, puntare sulla capacità di stabilizzare una componente essenziale dell’Eurozona. Una crisi irreversibile dell’economia italiana avrebbe prodotto effetti incontrollabili sull’architettura condivisa del vecchio continente. E da un punto di vista economico, partendo dalla dura legge dei numeri, i risultati sembrano dar ragione al tratto di strada percorso sotto la guida del nuovo esecutivo. Lo spettro del default viene scongiurato e cancellato dalle analisi internazionali sullo stato dei conti pubblici, lo spread scende costantemente fino a 216 punti nel corso del 2013: più che dimezzato in meno di due anni. Il risanamento si conferma una strada percorribile e per molti versi necessaria a fronte di un fallimento preventivato e persino auspicato da molti. Più delicato e controverso il bilancio dell’azione di governo, come si è già avuto modo di vedere: pensioni, tagli lineari sulla spesa, contrazione del potere d’acquisto dei salari producono effetti rilevanti sulle condizioni di vita di milioni d ’italiani che perdono stabilità e certezze. In due ambiti la discontinuità con la fase berlusconiana si manifesta con nettezza: l’approvazione delle norme della legge Severino che definisce incompatibilità restrittive sull’accesso a cariche pubbliche, oltre a stabilire la decadenza dalle stesse (parlamentari compresi) in caso di condanne superiori a due anni; una nuova attenzione ai fenomeni migratori del Mediterraneo di segno opposto rispetto alla chiusura prevalente proposta dalla Lega nella lunga stagione del berlusconismo. Come dato generale riferibile all’insieme del sistema politico si conferma l’indebolimento progressivo della forma bipolare e l’emergere (sin dalle amministrative del 2012) di una nuova presenza fissata nelle posizioni di Beppe Grillo: chiamate a

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raccolta in piazza attorno a parole d’ordine di contrapposizione e scontro frontale con l’esistente. Un movimento di protesta che rifiuta la definizione di partito e si muove soprattutto nel web per costruire un tessuto di relazioni e condivisioni diffuse. Vagiti e primi passi di una presenza che si radica progressiva­ mente fino a prendere le sembianze di un possibile e potenziale terzo polo che si affianca alle esauste e lacerate coalizioni di centrodestra e centrosinistra. Progressivamente nella stagione tecnica del governo Monti il comico, approdato dal mondo dello spettacolo nell’agone politico, appare come un vincitore incontrastato: a Parma elegge a maggio 2012 il primo cittadino e in diversi appuntamenti elettorali erode consenso tanto alla Lega quanto al Partito democratico. Alla fine dell’anno il go­ verno presenta le dimissioni con l’ottimismo di chi ha compiuto un tratto di strada difficile e con la volontà di competere da protagonista nell’imminente campagna elettorale. Il voto politico viene fissato per febbraio 2013. Una cam­ pagna elettorale invernale con protagonisti in parte diversi dal passato recente. Il presidente del Consiglio uscente, attraverso la formazione di «Scelta civica», punta a dare una base di con­ senso e credibilità alla breve stagione appena conclusa. Le due coalizioni contrapposte, accomunate dal sostegno all’esecutivo, tornano a duellare con l’entusiasmo precario di chi ritrova nel bipolarismo della competizione un’antica ragione di vita. Ma sia il Popolo della libertà che il Partito democratico vivono una crisi di prospettiva e una difficoltà confermata dalle ere­ dità delle stagioni precedenti. Come conciliare le spinte alla collaborazione per evitare il default del sistema con la ripro­ posizione di una dialettica bipolare? E ancora, come lasciarsi alle spalle il peso della prolungata querelle tra berlusconismo e antiberlusconismo in un paese che ha disperatamente bisogno di aprire una fase nuova? La competizione prevede ben 184 liste in un panorama frastagliato che somma vecchi e nuovi protagonisti, proposte politiche con eccentrici e confusi pro­ positi di testimonianza. Il responso delle urne indica la fine di un equilibrio spe­ rimentato senza che tuttavia si possa intravedere qualcosa di nuovo, una strada diversa e percorribile. I due partiti maggiori perdono sensibilmente terreno: il Popolo della libertà dal 37,3 passa al 21,5%, il Partito democratico dal 33,1 al 25,4%. La Lega Nord quasi dimezza i propri voti, attestandosi a meno

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del 5 %. Due le gradi novità che completano lo sgretolamento del quadro bipolare del passato, dell’impianto della Repubblica nel dopo guerra fredda: il partito di Mario Monti supera il 10% e il Movimento 5 stelle conquista una percentuale pari al 25,5% dei consensi, un successo di proporzioni inimmaginabili fino a qualche mese prima. Quelle piazze radunate da Beppe Grillo con insulti volgari ripetuti e rivolti al quadro dei poteri dello Stato (dal Vaffa day delle origini allo Tsunami tour della campagna elettorale 2013) si ritrovano nelle urne configurando una discontinuità profonda che avrebbe segnato politicamente e culturalmente il cammino dell’Italia più di quanto allora si potesse persino immaginare. Elezioni di svolta o comunque di grande cambiamento, paragonabili nel tempo dell’incerta definizione dell’itinerario della Repubblica a quelle del 1994, segnate dalla scesa in campo e dall’affermazione imprevista di Silvio Berlusconi. Nei due week-end, a distanza di quasi due decenni, si registra un alto tasso di rinnovamento della rappresentanza parlamentare (la fine di partiti tradizionali, l’irrompere di nuove forze): ben il 75% dei parlamentari è alla prima esperienza nello scorcio conclusivo del secolo scorso, mentre nel 2013 la cifra scende a un significativo 64% di rappresentanti eletti in Parlamento per la prima volta. La maggior parte dei nuovi è anche inserita all’interno delle liste di soggetti che si sottopongono al giudizio degli elettori senza aver termini di riferimento attendibili. L’af­ fluenza subisce una flessione di quasi il 5% , pur in presenza di una spinta esterna mobilitante promossa da settori di una non meglio definita società civile ben sintonizzati sulle nuove opportunità - blog o piattaforme digitali costruite e proposte nella rete. Più chiaro il dato numerico che riguarda i grandi partiti nelle loro trasformazioni successive (di nome o di com­ posizione): perdono voti con continuità e pur guidando le due coalizioni non riescono a consolidare una forza rassicurante e sicura. Nel 2008 il 70% dei consensi aveva premiato i due partiti maggiori (i perni del centrodestra o del centrosinistra), nelle politiche del 2013 tale indicazione scende fino al 46%. Un saldo negativo che riflette l’esaurirsi progressivo (o comunque la debolezza strutturale) della dialettica di riconoscimento e competizione, di legittimazione e scontro tra i protagonisti principali di una lunga fase. Sempre in tema di crisi del bipo­ larismo e delle sue forme, se nel 2008 più dell’84% dei voti

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si era indirizzato su una delle due coalizioni, nel passaggio del 2013 la somma dei voti alle coalizioni non arriva al 59%. S’impone quindi una domanda impegnativa sull’effettiva tenuta dell’impianto bipolare nello scontro competitivo tra centrodestra e centrosinistra. A vent’anni dal referendum del 1993 potrebbe sembrare conclusa e definitivamente archiviata la stagione dell’alternanza al governo di partiti e coalizioni. Molti pronunciano una sentenza anticipata e inappellabile, un segno dei tempi basato sulle debolezze di un ventennio incerto e dif­ ficile27. Ma la questione è più complessa, il quadro del sistema politico si tinge di tracce del passato e di nuove sollecitazioni, della presenza di coalizioni bipolari che si alimentano a vicenda e dell’irruzione di movimenti di protesta che puntano a rompere il quadro di riferimento. Tuttavia, mentre il livello amministra­ tivo (comuni e regioni soprattutto), anche in virtù di una legge elettorale pienamente maggioritaria, conferma la presenza di coalizioni legate a sindaci o governatori in competizione tra loro, la definizione di maggioranze parlamentari si scontra con diversi ostacoli. Il quadro parlamentare post-voto e i complicati meccanismi elettorali per Camera e Senato non consegnano un vincitore chiaro. I numeri e i calcoli di tanti spingono verso la formazione di un nuovo governo di grande coalizione con una base parlamentare ampia in grado di valutare compatibilità e scelte. La fase inedita del 2013 conferma il segno di un incerto cammino che, se da un lato esaurisce le risorse del bipolarismo imperfetto precedente, dall’altro non è in grado di prefigurare un itinerario alternativo convincente o comunque percorribile. La legislatura parte con grande difficoltà, attraversata dalle tensioni vecchie e nuove di un contesto sofferente. Il premio di maggioranza alla Camera mette il centrosinistra nella condizio­ ne di compiere le prime mosse. Ma il quadro politico appare confuso. Bersani guida le consultazioni cercando di raccogliere consensi, accettando persino la cosa del tutto singolare di una discussione in diretta streaming con la delegazione dei 5 stelle. Posizioni che restano cristallizzate, non si fa strada una maggioranza possibile mentre il nuovo Parlamento viene chiamato a una prova di responsabilità impegnativa: l’elezione del presidente della Repubblica. Il Pd vorrebbe gestire la dialettica parlamentare, ma la si­ tuazione gli sfugge di mano. Prima l’ipotesi fallita di convergere sulla figura di Franco Marini, poi le tensioni sulla candidatura

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di Stefano Rodotà lanciata dal Movimento 5 stelle, attraverso una pseudo consultazione, «le quirinarie», su una piattaforma on line. Giornate frenetiche per la coalizione di centrosinistra che sembra momentaneamente ritrovarsi attorno alla figura del fondatore dell’Ulivo, Romano Prodi, simbolo di affermazioni e successi, già presidente della Commissione europea. Ma il sospiro di sollievo dura lo spazio di una mattinata; Prodi vie­ ne vigliaccamente impallinato da lotte intestine. Ben 101 tra deputati e senatori tolgono nel segreto dell’urna il sostegno al professore che viene così sottratto alla contesa, ritirato dalla mischia. Si consuma, imprevista, la fine di un progetto poli­ tico, la sua peggiore sorte in un’implosione disordinata. Una impasse terribile che conduce alla rielezione, il 20 aprile 2013, di Giorgio Napolitano dopo che lo stesso aveva confermato una sua indisponibilità. E la prima volta nella storia della Repubblica. Napolitano accetta pronunciando un discorso di sfida ai partiti, ai loro ritardi, all’urgente necessità di mettere mano a riforme non dilazionabili: Negli ultimi anni, a esigenze fondate e domande pressanti di riforma delle istituzioni e di rinnovamento della politica e dei partiti - che si sono intrecciate con un’acuta crisi finanziaria, con una pesante reces­ sione, con un crescente malessere sociale - non si sono date soluzioni soddisfacenti: hanno finito per prevalere contrapposizioni, lentezze, esitazioni circa le scelte da compiere, calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi. Ecco che cosa ha condannato alla sterilità o ad esiti minimalistici i confronti tra le forze politiche e i dibattiti in Parlamento28.

Viene così prolungata contro ogni previsione la permanenza di un inquilino sul colle più alto29. La responsabilità di formare l’esecutivo finisce nelle mani di Enrico Letta, vicesegretario del Pd, dopo il fallimento di Pierluigi Bersani. Il governo nasce nel segno di un’emergenza istituzionale inedita e im­ prevista, indebolito dalla deriva distruttrice che attanaglia le file del centrosinistra. Prende corpo una coalizione di larghe intese con la fiducia trasversale di ciò che resta delle coali­ zioni di centrosinistra e di centrodestra, un patto per avviare la legislatura cercando di rispondere alle parole e alla sfida del presidente della Repubblica. Non si poteva tergiversare ulteriormente, meglio cercare una strada condivisa per mettere in cantiere interventi strutturali, riforme istituzionali attese da troppo tempo.

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4. Europa e Mediterraneo Il nuovo esecutivo s’insedia il 28 aprile 2013: una coalizione composta da ministri di provenienza Pd, Scelta civica e Pdl. Una base larga in Parlamento, sostenuta dalla convinzione di poter voltare pagina valorizzando così elementi di collabora­ zione e intesa tra diverse componenti dell’esecutivo. Per molti ministri o sottosegretari (numerosi per rispondere ai deside­ rata di chi entra in squadra) si tratta di una prima volta nella speranza che il vento del cambiamento sospinga la compagine verso obiettivi condivisi. Il giovane presidente del Consiglio sceglie da subito il profilo di una proiezione internazionale costante. Da quel versante strategico possono arrivare energie e consensi per stabilizzare il cammino della Repubblica e per lenire le recenti ferite di uno scontro aspro che ha consumato protagonisti e risorse disponibili. La valorizzazione del nesso con il quadro esterno contribuisce a rilanciare una potenziale ripresa della collocazione della Repubblica in un contesto più ampio e della risposta comune alle ripercussioni della grande crisi del 2007-2008. Enrico Letta incontra la cancelliera Angela Merkel quando ottiene la fiducia delle Camere: il posto che spetta all’Italia è tra i padri fondatori dell’Europa, nella faticosa costruzione di una strategia comune. Un primo gesto significa­ tivo che collega l’esecutivo della grande coalizione alle tappe recenti dell’integrazione continentale, a partire dalla costituzio­ ne dell’Eurozona. Così facendo, in modo inconsapevole, viene tracciato un confine immaginario tra chi difende e protegge il sistema (partiti e culture politiche che affondano le radici nel passato recente della Repubblica, nel tempo del dopo guerra fredda) e chi lo vorrebbe invece abbattere per conseguire un grande cambiamento (le forze e i movimenti antisistema). In questa morsa difficile l’Europa diventa uno dei tavoli prolun­ gati di confronto mettendo continuamente in causa le certezze sulle radici condivise dell’europeismo che attraversa la società italiana. Il governo stringe le compatibilità, legando i propri successi al destino del cammino europeo; una scelta coraggiosa e dagli esiti non scontati. Il cammino appare da subito in salita. I numeri sulla disoccupazione giovanile, soprattutto nel Mez­ zogiorno sono diventati impressionanti. Una buona fetta della popolazione giovanile, spesso intellettualmente preparata, non trova sbocchi né opportunità. Su un altro versante il governo

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decide da subito di rifinanziare la cassa integrazione per chi ha perso il lavoro, avviando con un provvedimento legislativo lo sblocco dei pagamenti nella pubblica amministrazione. Il cosiddetto «decreto del fare» varato dal Parlamento a inizio agosto punta a rilanciare forme di sviluppo e intervento in linea con l’impianto di una piattaforma europea che avrebbe condotto il paese fuori dalle secche della crisi. Le radici an­ tiche dell’Europa comune proiettate nella sfida di misurare gli effetti di una pervasiva crisi internazionale sulle economie del vecchio continente. La declinazione interna dell’impianto condiviso prevede la messa a punto di una grande coalizione chiamata a scelte impopolari non rinviabili. Il governo si qualifica per una strategia di attenzione e intervento nel mare Mediterraneo che prende il nome (carico di significati e memorie controverse) di Mare Nostrum. L’Italia interviene con la flotta della marina militare, mette in sicurezza famiglie in cerca di futuro in fuga da miserie e guerre, conso­ lida l’orizzonte del primo approdo nel fianco sud dell’Unione europea. I numeri testimoniano il salvataggio in mare di quasi un milione di persone, una mano tesa contro l’odio e le paure. Una svolta rispetto al clima e alle politiche del decennio pre­ cedente ispirate a barriere e chiusura e alla ricerca di definire una fattispecie penale per il reato d’immigrazione clandesti­ na. Un punto cruciale per comprendere sentimenti e paure contrastanti che attraversano la società italiana: la solidarietà diffusa come gesto di accoglienza e partecipazione convive e spesso si sovrappone con nuove fragilità che colpiscono chi è in difficoltà, chi vede la trasformazione del proprio quartiere e chi è privato di una prospettiva lavorativa. L’immigrato, il migrante viene spesso indicato come bersaglio, una scorcia­ toia pericolosa o un capro espiatorio per dare spiegazioni o argomentazioni a una condizione d’incertezza o inquietudine diffuse. L’operazione del salvataggio in mare secondo le regole antiche della navigazione «la prima cosa è offrire assistenza, aiutare chi è in difficoltà o a rischio della propria vita» dato che il soccorso in mare costituisce un fondamento del sistema universale dei diritti umani. Tale impostazione che faticosa­ mente si fa strada ribalta almeno in parte un senso comune che spinge nella direzione opposta, amplificando i risvolti e i pericoli connessi ai fenomeni migratori. La Lega Nord ha un ruolo non incidentale in questo processo di radicamento

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e diffusione della paura delPimmigrato. L’azione del governo posiziona l’Italia in prima fila nelle politiche di soccorso e di accoglienza con i rischi di deresponsabilizzare altri paesi eu­ ropei, allontanando una possibile politica condivisa, una presa di responsabilità da parte dell’insieme dell’Unione. Un tema condizionante per le scelte dei governi italiani e la proiezione continentale della nuova classe dirigente che emerge dalle trasformazioni del bipolarismo di coalizione. Come in altre realtà del mondo le questioni legate ai flussi migratori assu­ mono una centralità evidente nella formazione di orientamenti e nelle strategie di organizzazione del consenso, persino al di là della rilevanza quantitativa del fenomeno che in Italia non presenta allarmi numerici di particolare intensità. Le cifre sono impietose e dolorose in una linea di continuità modificata e interrotta dalle politiche che negli anni hanno ridotto il numero degli sbarchi cercando di regolare i flussi di arrivo nei diversi paesi e nei porti di competenza. Gli agenti delle paure hanno spesso ingigantito rischi e numeri offrendo l’immagine di un processo fuori controllo, dagli esiti apocalittici. Su un altro versante molti paesi non hanno offerto disponibilità all’ac­ coglienza, si sono chiusi serrando frontiere o alzando muri e usando il linguaggio di un nuovo terrore dai risvolti contagiosi. Dagli inizi del 1993 alla fine di aprile 2018 i morti accertati nel Mediterraneo sono stati 34.361; il numero stimato è molto maggiore, ma la questione è ben documentata dalla terribile forza di cifre che non necessitano di ulteriori spiegazioni30. In tale contesto va inquadrata la coraggiosa iniziativa del governo Letta. Il principio ispiratore dell’azione dell’esecuti­ vo rimane il salvataggio di vite in mare, il dovere di prestare soccorso come premessa di ogni passo successivo. Un clima nuovo, in parte risultato del più grande sconvolgimento mondiale che cade alla metà del 2013: l’elezione di un nuovo pontefice dopo le dimissioni di Benedetto XVI. Una circo­ stanza del tutto peculiare che porta alla presenza di due papi nel perimetro della città di Roma dopo che il conclave sceglie Jorge Mario Bergoglio. Un argentino che viene «dalla fine del mondo», il primo non europeo dopo 1.700 anni. Una svolta che porta attenzione e interesse sulle dinamiche della Chiesa cattolica e sulle caratteristiche di una nuova globalizzazione che condiziona sguardi, aperture mentali, confini di riferimento. Papa Francesco è una figura rilevante, contribuisce a rompere

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schemi e appartenenze consolidate. Il suo messaggio va al cuore dei fedeli, ma parla a un popolo molto più vasto e articolato. Gli effetti immediati favoriscono un distacco marcato tra la Chiesa e la politica italiana mentre si rafforzano i percorsi di dialogo e comunicazione tra istituzione religiosa e società civile. Vengono meno le mediazioni o i filtri: la Chiesa povera di Francesco scuote coscienze e comportamenti, chiedendo coerenze e radicalità. Il primo viaggio di un pontificato così innovativo ha come meta l’isola di Lampedusa (luglio 2013), luogo di vacanze estive, spazio europeo in mezzo al Mediterraneo, approdo voluto o trovato per migliaia di profughi e migranti in cerca di futuro. Papa Francesco parla di acco­ glienza, vicinanza, della forza della solidarietà come messaggio e comportamento conseguente. Sarebbe fuorviante leggere un rapporto di dipendenza o un nesso causa-effetto tra le posizioni del nuovo papa e le scelte politiche dell’esecutivo guidato da Enrico Letta. Ma certo il clima generale in poche settimane muta di segno. La decisione di impegnarsi «senza se e senza ma» in una strategia protesa a incontrare richieste di aiuto da parte di chi si trova in mezzo al mare viene messa a punto dopo un terribile naufragio al largo di Lampedusa nel quale perdono la vita 366 migranti. Intervenire per via legislativa (ottobre 2013) significa anche assumersi una responsabilità, un compito per l’intero sistema paese e per l’Europa nel suo insieme. Il quadro degli impegni dell’esecutivo diventa via via più complesso e diversificato: uscire dalla grande crisi del 2007, senza smarrire le priorità di azione e intervento in Italia e fuori dai confini nazionali. Una rotta difficile in una navigazione piena di ostacoli imprevisti e di resistenze di varia natura. Come in altre occasioni vicine o lontane, alla responsabilità storica di condurre la Repubblica fuori dalla crisi non corri­ sponde la tenuta di una maggioranza parlamentare credibile; bastano pochi passaggi per entrare in uno stato di fibrillazione continua. Divisioni tra i partiti e fratture interne tra orientamen­ ti o correnti diverse mettono il governo di fronte a un’imprevista difficoltà. Crepe che si aprono a ripetizione, di varia origine e provenienza, limitano azione e credibilità dell’esecutivo. Alla fine di settembre dopo ripetute battute d’arresto con voti contrari in commissione e al Senato, la delegazione del Popolo della libertà decide di ritirare i propri ministri prendendo così

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le distanze. Berlusconi inizia la campagna di critiche serrate sulla questione fiscale (il mancato aumento di un punto in percentuale dell’Iva), rafforzando le ragioni del centrodestra che rischiano di essere schiacciate dentro l’azione di emergenza del governo. La tensione comincia a scendere quando all’oriz­ zonte si profila un voto di fiducia con il quale Letta riesce a serrare momentaneamente le fila della maggioranza. Tuttavia il carattere progettuale della grande coalizione si affievolisce inesorabilmente. Rimane la sfida tra le sue componenti interne quando Berlusconi decide di rilanciare il partito Forza Italia (una sorta di ritorno alle origini) in attesa della decadenza da parlamentare in seguito all’applicazione della legge Severino e alla condanna riportata il 1° agosto 2013 nel processo sulla compravendita dei diritti televisivi Mediaset. Ma la navigazione del governo è piena di ostacoli e imprevisti. Se da un lato le scelte di fondo s’ispirano alle dinamiche di risposta a livello continentale, dall’altro la progressiva erosione della maggioran­ za rende ogni prospettiva incerta e ricattabile. Dopo la rottura da destra il governo subisce la scissione di Scelta civica mentre nel Pd Matteo Renzi, sindaco di Firenze, si afferma nella sfida delle primarie interne. Un dinamismo che da più parti mette l’azione dell’esecutivo in secondo piano. Tornano prepotenti atteggiamenti e fantasmi del passato: il prevalere di calcoli di parte, la spinta di percorsi individuali che hanno la meglio su strategie legate alla ricerca di un interesse generale. Difficile uscire dalle strettoie della crisi. L’esecutivo continua a perdere pezzi: per scelte politiche non componibili o per nuovi scandali giudiziari che mettono a rischio la tenuta generale. Nel primo tratto di strada il presidente del Consiglio rilancia le ragioni di una politica comune, mantenendo una rotta concordata fino alla presentazione, verso la fine dell’anno, di un ambizioso «Impegno per l’Italia» con il quale punta a consolidare alcuni timidi segnali positivi: lo spread che era sceso sotto i 200 punti, una sensibile inversione di tendenza che lascia ben sperare sui numeri della crescita del prodotto interno lordo. Ma lo spazio del rilancio si chiude irrimediabilmente ancora prima di poter verificare potenzialità e progetti di merito. L’inizio del 2014 porta il segno dell’instabilità conflittuale quando la direzione del Pd sfiducia il governo, indicando nella leadership di Mat­ teo Renzi una possibilità di rilancio e crescita. Il giorno dopo (14 febbraio) Letta presenta le dimissioni al capo dello Stato.

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Pochi giorni e l’incarico esplorativo del sindaco di Firenze ot­ tiene la fiducia. Il 22 febbraio 2014 il governo con l’età media più bassa e con il più alto numero di donne in posizione di ministro ottiene il via libera dalle Camere. Letta era rimasto in carica per dieci mesi. Il passaggio di consegne tra i due avviene in un clima di scontro e diffidenza: la crisi nel partito di maggioranza provoca un cambiamento nella composizione e nella guida dell’esecutivo. Tre uomini del Pd di generazioni e biografie distanti, Giorgio Napolitano, Enrico Letta e il nuovo presidente del Consiglio Matteo Renzi sono il centro pulsante di una difficile e controversa trasformazione. Il centrodestra dal canto suo si aggrappa alla leadership di Berlusconi che gioca la carta della persecuzione politica (nulla di nuovo rispetto agli anni precedenti) puntando così a raccogliere un’area vasta di malcontento nei confronti degli indirizzi politici ed economici dell’esecutivo e degli stessi riferimenti ideali, a partire dalla stella polare europea. Le forze nuove della protesta, i movi­ menti di rottura e discontinuità si preparano a una dialettica rivolta verso il sistema nel suo complesso, tracciando una linea tra chi è dentro e chi è rimasto fuori, tra chi è partecipe delle responsabilità politiche e chi invece ne è ai margini, o contro. La scelta di un nuovo inizio nel giovane protagonista che prende in mano le sorti dell’esecutivo è un tentativo di cavalcare la spinta delle novità, il vento delle innovazioni, la retorica diffusa del nuovo che avanza per sostituire le ultime vestigia di un mondo travolto dai responsi della storia. Il presidente del Consiglio ha 39 anni, è il più giovane nella storia della Repubblica. La chiave di accesso di un protagoni­ smo interventista è quella dell’innovazione nella spinta di una nuova generazione che vuole affermarsi. L’esecutivo presenta volti diversi, un bilanciamento di genere: molte donne ministro anche in ruoli chiave. La parola d’ordine che si ripete in modo quasi ossessivo è «rottamazione»; titolo di un volume che Matteo Renzi aveva dato alle stampe poco prima31. Il concetto racchiuso in un sostantivo diventa la cifra di un’operazione più ampia che utilizza la dicotomia conservazione/innovazione come elemento identitario. Rottamare significa spingere per modificare rapporti di forza, relazioni generazionali, percorsi di militanza e di esperienza negli itinerari della politica. Un colpo all’immobilismo della sinistra tradizionale e delle forme cristallizzate, una strategia di attenzione e dialogo con un biso­

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gno radicale di cambiamento che attraversa la società italiana. Voltare pagina per ritrovare fiducia e soprattutto dar voce a un coraggio volontaristico e soggettivo che trova nel giovane presidente del Consiglio un interprete combattivo e loquace. Si afferma una concezione della proposta politica dell’esecu­ tivo incentrata sulla necessità di rimuovere freni e resistenze, spingendo sulle forme possibili di una modernizzazione capace di modificare il processo legislativo, le istituzioni, la pubblica amministrazione. Un cammino di rottura e discontinuità con le tradizionali forme della dialettica politica e parlamentare. La rottamazione è uno slogan condiviso e motivazionale, la strategia iniziale prevede l’orizzonte ambizioso e per molti versi ambiguo di un partito della nazione in grado di riformare e rifondare il paese32. Una volontà inclusiva, egemonica e to­ talizzante che dal gruppo dirigente del Pd avrebbe coinvolto energie, competenze e interessi plurali. Senza limiti o recinti certi. Il 18 gennaio 2014 Matteo Renzi e Silvio Berlusconi s’in­ contrano per costruire una possibile intesa comune. L’oggetto principale di quello che viene ricordato come il «patto del Nazareno» (dal nome del quartier generale del Pd) riguarda possibili interventi di riforma sulla seconda parte della Carta costituzionale. Un incontro di vertice motivato dalla ricerca di scelte comuni su punti condivisi: modifica della legge elettorale, intervento concordato sul Titolo V per rivedere i rapporti tra Stato e regioni, abolizione del bicameralismo perfetto. Un’intesa controversa foriera di reazioni contrarie in entrambi i campi: il popolo lacerato del centrosinistra appare scettico e critico di fronte alla legittimazione di un avversario così ingombrante. Il governo cerca di tracciare una rotta a partire dai contenuti dell’intesa qualificando e distinguendo le priorità d’intervento dell’esecutivo dai contenuti del patto del Nazareno. Un primo passo riguarda ceti sociali più deboli e redditi medio-bassi, sostenuti con un bonus di 80 euro che dall’apri­ le 2014 irrobustisce la busta paga di un segmento di società italiana. Un gesto di apertura, una sorta di consenso filtrato e costruito a partire da una misura economica. E il dato delle elezioni europee del 14 maggio 2014 sembra sostenere la strategia dell’esecutivo: un consenso inaspettato consolida posizioni e ambizioni di chi dirige una fase nuova della politica italiana. Il Pd ottiene oltre il 40% dei voti, i 5 stelle prendono poco oltre il 21%, Forza Italia non arriva al 17%, mentre la

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Lega si ferma poco sopra i 6 punti percentuali. Le dimensioni di un trionfo significativo, una base larga a conferma di una svolta politica e generazionale. Il responso delle urne rilancia l’azione del governo alle prese con la definizione di un pro­ filo riformista, intervenendo su diversi terreni controversi: il mercato del lavoro attraverso il Jobs Act come tipologia di possibili nuovi contratti, la riforma della «buona scuola» e una serie di provvedimenti legislativi volti a snellire tempi e burocrazia nella pubblica amministrazione. Un pacchetto di riforme capace di attrarre consensi e opposizioni dentro e fuori l’area dell’esecutivo. Il presidente del Consiglio mette in testa a un’ipotetica lista di priorità d’intervento la riforma della seconda parte della Costituzione. Si gioca tutto, ambizioso e presenzialista, con l’idea di poter realizzare un cambiamento storico e profondo. Come primo passo significativo mette mano alla legge elettorale attraverso una nuova legge, Yltalicum, che avrebbe dovuto sostituire quella in vigore dal 2006. L’impianto della normativa introduce un sistema maggioritario a doppio turno, con un premio di maggioranza del 55% alla Camera dei deputati (unico ramo del Parlamento eletto direttamente dai cittadini) per il partito che superi il 40% dei voti al pri­ mo turno; in alternativa, nel secondo turno la competizione avrebbe riguardato i due partiti con maggiori consensi. Una legge con una filosofia ben precisa: rafforzare il vincitore, dandogli numeri e possibilità per poter governare. Con il proposito di cancellare il bicameralismo perfetto, la Camera diventa il fulcro della sovranità popolare, centro del potere legislativo. Un quadro di riforme innovativo e coraggioso che tuttavia non raccoglie la necessaria maggioranza qualificata del Parlamento. Da qui la necessità di passare attraverso un referendum popolare. Uno spostamento nella tempistica che non intacca le posizioni cristallizzate prò o contro la riforma del governo Renzi. Mentre slitta il quesito referendario, il governo si adopera sul fronte di nuovi interventi legislativi: una legge dello Stato (maggio 2016) legittima le unioni civili, aprendo una discussione nel paese sulle tipologie di matrimonio e di relazione tra uomini e donne o persone dello stesso sesso. Nel frattempo, il quesito referendario che si profila all’orizzonte inizia a erodere segmenti significativi della maggioranza: nello stesso Pd molti prendono le distanze, le forze sociali alzano il livello delle critiche sulla politica economica dell’esecutivo.

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Un nuovo regista osserva e cerca d’indirizzare su vie co­ stituzionali le dinamiche complesse della dialettica politica italiana. Il 31 gennaio 2015 Sergio Mattarella viene eletto con 665 voti presidente della Repubblica. Il lungo tempo di Giorgio Napolitano si chiude, un consenso significativo confluisce su una figura di esperienza, competenza, di indubbio spessore umano e politico. Ma l’elezione rompe il terreno condiviso dal patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi. Quest’ultimo non ci sta, grida allo scandalo e radicalizza le posizioni contro il governo accentuando critiche e distinguo sui propositi di riforma costituzionale. Una strategia che polarizza attenzioni e schieramenti. Di nuovo il muro contro muro, spingendo verso la personalizzazione dei quesiti referendari anche al di là dei contenuti degli stessi. Così facendo il centrodestra conquista nuovamente il terreno perduto, ponendosi alla guida di un vasto movimento di critica alle forme e ai contenuti del riformismo dall’alto proposto dal gruppo dirigente del Pd. I risvolti elettorali premiano le opposizioni. Il centrosinistra mette in fila una serie di battute d’arresto che portano nella capitale e in altre grandi città alle prime affermazioni di sindaci del Movimento 5 stelle o espressione di liste civiche connotate da forme di protesta contro l’esistente. Un clima antisistema caratterizza la campagna elettorale referendaria, mentre l’affer­ mazione di Trump negli Stati Uniti e soprattutto l’imprevista vittoria della Brexit nel Regno Unito fanno vacillare le ultime possibilità di tenuta e garanzia delle compatibilità esistenti. Molti osservatori internazionali iniziano a guardare all’ap­ puntamento referendario italiano come segno di possibile tenuta o stabilizzazione in un paese dell’Eurozona. Le notizie che arrivano dalla Libia, dalla Siria, dall’Iraq e da buona parte dell’Africa settentrionale e del Medio Oriente contribuiscono ad accrescere interrogativi e preoccupazioni sulla capacità di tenere sotto controllo flussi migratori e percorsi di cambiamen­ to geopolitico. Diversi paesi dell’Unione europea (Polonia e Ungheria su tutti) promuovono posizioni di chiusura contro la possibile accoglienza di migranti in cerca di futuro, mettendo così a rischio l’equilibrio complessivo delle responsabilità con­ divise. Le posizioni dell’Italia e di altri paesi del Mediterraneo vengono criticate e accusate di eccessiva disponibilità ad acco­ gliere i nuovi arrivati. Il vento della xenofobia, della chiusura nazionalistico-identitaria soffia con decisione sull’Europa e sulle

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prospettive di un nuovo dialogo tra Nord e Sud. Il dibattito suH’immigrazione coinvolge parti significative delle opinioni pubbliche continentali, condizionando posizioni, atteggiamenti e persino linguaggi. Un terreno scivoloso, utilizzato di sovente per rilanciare paure irrazionali contro l’immigrato, simbolo di pericoli e inquietudine. Il clima generale della campagna elettorale non lascia spazio a mediazioni. Uno scontro frontale tra Renzi e i suoi oppositori in una progressiva personalizzazione che trasfor­ ma il quesito istituzionale in un plebiscito sul governo e sul suo leader di riferimento. Una strada pericolosa verso una dialettica di polarizzazione senza mediazioni possibili o punti d’incontro condivisi. In tanti si uniscono al coro degli scon­ tenti contro le proposte targate Renzi, una grande alleanza che il presidente del Consiglio definisce con aria di sfida e presunzione «un’accozzaglia impresentabile». Sull’altro ver­ sante il peso della crisi condiziona famiglie e imprenditori; le paure prendono lentamente il sopravvento sulle speranze di un cambiamento positivo. Il referendum costituzionale viene fissato per il 4 dicem­ bre 2016. Alta l’affluenza, oltre il 65% degli aventi diritto. Il risultato non lascia adito a equivoci: quasi il 41% di Sì (circa 13 milioni e mezzo), oltre il 59% di No (quasi 19 milioni e mezzo di votanti). Una sconfitta senza appello che affossa la strategia del capo del governo, il suo intervenire dall’alto con decisione e ambizione, confermando altresì l’incapacità (almeno dal 1983) di riuscire a modificare sostanzialmente la seconda parte della Carta costituzionale. Renzi presenta le dimissioni. Si chiude una fase mentre la legislatura prosegue nel suo scorcio conclusivo con la stessa maggioranza: il 12 dicembre 2016, una settimana dopo il referendum, dà la fiducia a Paolo Gentiioni già ministro degli Esteri dell’esecutivo guidato da Renzi. Una crisi profonda che trova nel Parlamento una soluzione momentanea in grado di garantire la tenuta del sistema, evitando traumi o ripercussioni incontrollabili. Il profilo del nuovo esecutivo è segnato da due obiettivi prioritari. In primo luogo, la via della riflessione condivisa: rasserenare il clima di divisioni e scontro che aveva caratterizzato la campagna elettorale referendaria per tornare così a una dialettica fisiologica tra maggioranza e opposizione sotto l’attenta regia del capo dello Stato. Il governo sceglie le priorità d’intervento, costruisce consenso

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e partecipazione, guidando il paese con competenza verso un terreno di sicurezza e stabilità. L’altro impegno riguarda la proiezione internazionale come garanzia e bussola dell’interesse nazionale. Riprendere una tessitura paziente tanto sul versante atlantico quanto su quello europeo: l’Italia non deve prescin­ dere dalla sua collocazione, dal ruolo e la funzione che può svolgere sulla scena internazionale. Il successo del vertice del G7 di Taormina (26 e il 27 maggio 2017) conferma le ragioni di chi punta a una rinnovata presenza politica, economica e culturale. Ma la legislatura è ormai agli sgoccioli, un nuovo appuntamento elettorale e alle porte. Le elezioni del 4 marzo 2018 modificano strutturalmente il quadro politico italiano. Per la prima volta nella storia della Repubblica, le forze che per convenzione sono definite «anti­ sistema» (Lega e Movimento 5 stelle), seppure muovendo da posizioni molto differenti e non sempre compatibili, con­ quistano circa la metà dell’elettorato. Al contrario, i partiti appartenenti alla tradizione socialista e popolare, alternatisi nell’ultimo venticinquennio - sotto varie forme e coalizio­ ni - alla guida del paese (Partito democratico e Forza Italia su tutti), subiscono un sensibile arretramento; il centrosinistra tocca il suo minimo storico. Si apre così un’altra pagina della storia italiana, destinata a diventare un caso di studio parti­ colarmente interessante per le dinamiche che attraversano il sistema politico-istituzionale e per il collegamento tra queste e i cambiamenti presenti a livello internazionale33. L’Italia di oggi, sotto diversi punti di vista, può essere considerata come incubatore - e forse anticipatore? - di meccanismi e problemi che superano i confini del Bel paese. In una convergenza di interessi e prospettive si sono ritrovate spinte nazionaliste che hanno dato forza e forma a nuovi soggetti «nazionalpopulisti» o «sovranisti», secondo le espressioni di uso frequente34. Uno scontro che va al di là dei confini nazionali e investe le stesse ragioni di fondo del processo d’integrazione continentale. Non è un caso che, per la prima volta nella sua storia, a settembre 2018 il Parlamento europeo abbia approvato una mozione di censura contro uno Stato membro - l’Ungheria - per violazio­ ne dei principi fondamentali dell’Unione. In questo quadro il tema della riforma delle istituzioni europee torna a essere una delle questioni centrali del dibattito pubblico, sia allo scopo di garantire un miglior funzionamento delle istituzioni comu­

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nitarie, sia quale rappresentazione di un patto di solidarietà stretto dai diversi paesi membri deH’Unione. La tradizionale antinomia tra spinte federaliste e confederali, o tra approccio funzionalista e utopista che hanno contribuito a definire la storia della Comunità, dalle sue origini agli eventi più recenti, si colora così di nuove tinte e problematiche. Questo è ancora più evidente nel momento in cui la presidenza Trump rimet­ te in discussione aspetti non marginali di quel binomio tra atlantismo ed europeismo che, pure in presenza di elementi di contraddizione o difficoltà, aveva costituito uno degli assi portanti della ricostruzione internazionale nel corso della seconda metà del Novecento. Dopo le elezioni del 2018 e la nascita di un nuovo go­ verno una domanda diffusa interessa osservatori di mezzo mondo. Siamo alle prese con un passaggio chiave, un tornante di svolta nella storia della Repubblica? Interrogativi inevasi che condizionano tanto il quadro interno quanto il contesto internazionale di riferimento. In questo passaggio delicato gli smottamenti elettorali del biennio 2018-2019 rappresentano una delle principali novità di un tempo per molti versi impre­ vedibile: movimenti e partiti antisistema e antieuropei hanno conseguito una significativa affermazione elettorale.

Note al capitolo ottavo 1 P. Scoppola, La democrazia dei cristiani. Il cattolicesimo politico nell’I­ talia unita, intervista a cura di G. Tognon, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 190-228; Id., La democrazia dei cittadini. Dall’Ulivo al Partito democratico. Interventi 2002-2007, saggio introduttivo e cura di I. Ariemma, Roma, Ediesse, 2009. 2 Cfr. G. Rizzoni, Il bipolarismo italiano tra politics e policies, in N. Genga e F. Marchiano (a cura di), Miti e realtà della Seconda repubblica, Roma, Ediesse, 2012, pp. 146 ss. 3 Su questi aspetti, Gentiioni Silveri, Contro scettici e disfattisti. Gli anni di Ciampi 1992-2006, cit., pp. 204 ss. 4 Si veda C. Fenu e A. Padoa Schioppa (a cura di), Due anni di governo dell’economia, maggio 2006-maggio 2008, Bologna, Il Mulino 2011. 5 Si veda R. Prodi, La mia visione dei fatti, Bologna, Il Mulino, 2008; Id., Missione incompiuta, intervista a cura di M. Damilano, Roma-Bari, Laterza, 2015 e Id., Il piano inclinato, Bologna, Il Mulino, 2017. 6 Notizie sulla Conferenza in E. Giunchi, La guerra in Libano, in A. Colombo e N. Ronzitti (a cura di), L'Italia e la politica internazionale, a cura dell’Istituto Affari Internazionali, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 67-80.

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7 Circa la bozza sulle unioni di fatto. Il perché del nostro leale «non possumus», in «Avvenire», 6 febbraio 2007. 8 Sulla nascita del concetto di casta cfr. G.A. Stella e S. Rizzo, La casta. Così i politici italiani sono diventati intoccabili, Milano, Rizzoli, 2007 ; sui primi V-Day e le origini del Movimento 5 stelle si veda P. Corbetta e E. Gualmini, Il partito di Grillo, Bologna, Il Mulino, 2013; J. Jacoboni, L’e­ sperimento. Inchiesta sul Movimento 5 Stelle, Roma-Bari, Laterza, 20185. 9 Su questi aspetti V. Zamagni, L'economia italiana nell’età della globa­ lizzazione, Bologna, Il Mulino, 2018. 10 II primo passo pubblico del confronto con V. Lario, Mio marito mi deve pubbliche scuse, lettera al direttore di «Repubblica», 31 gennaio 2007 ; e nelle tempestose giornate di due anni dopo Veronica, addio a Berlusconi. Ho deciso, chiedo il divorzio, in «la Repubblica», 3 maggio 2009. 11 La manifestazione più evidente qualche anno dopo nella Prolusione del cardinale Bagnasco al Consiglio permanente della Conferenza Episcopale Italiana il 26-29 settembre 2011. 12 Cfr. G. Fini, Il futuro della libertà, Milano, Rizzoli, 2009; Ignazi, Postfascisti? Dal Movimento sociale italiano ad Alleanza nazionale, cit.; Id., Il polo escluso. Profilo storico del Movimento sociale italiano, cit.; Orsina (a cura di), Storia delle destre nell’Italia repubblicana, cit.; Roveri, Gianfranco Pini: una storia politica. Dal Movimento Sociale Italiano a Futuro e Libertà, cit.; R. Charini, La Destra alla prova del bipolarismo, in L’Italia contempo­ ranea dagli anni Ottanta a oggi, voi. Ili, cit., pp. 471-483; A. Ungari, Da Fini a Fini. La trasformazione del Movimento sociale italiano in Alleanza nazionale 1987-1995, in M. Gervasoni e A. Ungari (a cura di), Due Repub­ bliche. Politiche e istituzioni in Italia dal delitto Moro a Berlusconi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014, pp. 229-265. 13 Orsina, Il berlusconismo nella storia d’Italia, cit.; Id., La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica, cit.; Ginsborg, Berlusconi. Am­ bizioni patrimoniali in una democrazia mediatica, cit.; M. Salvati, Tre pezzi facili sull’Italia. Democrazia, crisi economica, Berlusconi, Bologna, Il Mulino, 2011, pp. 103 ss.; A. Botti, Per una storia del berlusconismo e dell’Italia berlusconiana oltre Berlusconi, in «Storia e problemi contemporanei», 64, settembre-dicembre 2013, pp. 13-34. 14 Autore tra l’altro della poesia dedicata A Silvio-, cfr. M. Viroli, La libertà dei servi, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 59. 15 G. Orsina, Il Cavaliere, la destra e il popolo. Per una comprensione storica del berlusconismo, in Id. (a cura di), Storia delle destre nell’Italia repubblicana, cit., p. 276. 16 Giovagnoli, La Repubblica degli italiani, 1946-2016, cit., pp. 278-297. 17 Lupo, Antipartiti. Il mito della nuova politica nella storia della Re­ pubblica (prima, seconda e terza), cit. 18 Sul 1961 cfr. La celebrazione del Centenario, a cura del Comitato na­ zionale per le celebrazioni del primo centenario dell’Unità d’Italia, Torino, 1961. Una rivisitazione del significato delle celebrazioni del 1961 in E. Gentile, La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo, Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 355-373; Id., Né Stato né Nazione. Italiani senza meta, Roma-Bari, Laterza, 2010.

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19 Cfr. S. Pons, Giorgio Napolitano, in Cassese, Galasso e Melloni (a cura di), I presidenti della Repubblica. Il Capo dello Stato e il Quirinale nella storia della democrazia italiana, cit., voi. I, pp. 439-476; P. Franchi, Giorgio Napolitano. La traversata da Botteghe Oscure al Quirinale, Milano, Rizzoli, 2012. 20 G. Napolitano, Una e indivisibile. Riflessioni sui 150 anni della nostra Italia, Milano, Rizzoli, 2012. 21 Discorso del presidente della Repubblica di fronte alla Camere riunite in occasione della festa dell’Unità d’Italia, 18 marzo 2011. 22 R. Benigni, La più bella del mondo, Rai 1, 17 dicembre 2012. 25 Giovagnoli, La Repubblica degli italiani, 1946-2016, cit., p. 293. 24 Un’analisi della questione in prospettiva storica cfr. P.-J. Luizard, La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna, Torino, Rosenberg & Sellier, 2016; A. Orsini, Isis. I terroristi più fortunati del mondo e tutto ciò che è stato fatto per favorirli, Milano, Rizzoli, 2016. 25 Cfr. A. Varsori, Le relazioni internazionali dopo la guerra fredda 19892017, Bologna, Il Mulino, 2018, pp. 225-249. 26 Giovagnoli, La Repubblica degli italiani, 1946-2016, cit., p. 298. 27 In questo senso Giovagnoli, La Repubblica degli italiani, 1946-2016, cit., pp. 300 ss. 28 Atti parlamentari, Camera dei deputati, Senato della Repubblica, XVII Legislatura, Seduta congiunta, 22 aprile 2013, Giuramento e messaggio del presidente della Repubblica, pp. 1-6, la citazione a p. 2. 29 Dal discorso d’insediamento del presidente Napolitano: «Come voi tutti sapete, non prevedevo di tornare in quest’aula per pronunciare un nuovo giuramento e messaggio da presidente della Repubblica», 22 aprile 2013, ivi, p. 1. 30 Cfr. M. Colucci, Storia dell’immigrazione straniera in Italia. Dal 1945 ai nostri giorni, Roma, Carocci, 2018, pp. 165-205. Per i riferimenti alle cifre cfr. Global Trends Unhcr (www.unhcr.org) e World Migration Report dello Iom (www.iom.int); N. Petrovic, Rifugiati, profughi, sfollati. Breve storia del diritto d’asilo in Italia, Milano, Franco Angeli, 2016; C. Cattaneo, Naufraghi senza volto. Dare un nome alle vittime del Mediterraneo, Milano, Raffaello Cortina, 2018. 31 M. Renzi, Oltre la rottamazione. Nessun giorno è sbagliato per provare a cambiare, Milano, Mondadori, 2013. 32 Salvadori, Storia d’Italia, cit., p. 509. 33 Cfr. U. Gentiioni Silveri (a cura di), The Italian Question: Systemic Crisis, Global Change and New Protagonists (1992-2018), in «Journal of Modera Italian Studies», 24, 3, giugno 2019. 34 Cfr. I. Foot, The Archipelago. Italy since 1945, London, Bloomsbury, 2018, p p. 349-379.

Conclusioni

La Repubblica italiana ha più di settant’anni mentre la guerra fredda si è conclusa, almeno nei suoi aspetti più evidenti, da tre decenni. Il passato non si misura con automatismo o con strumenti certi, la distanza dagli eventi contribuisce a se­ dimentare piste di ricerca o domande socializzabili. L’itinerario seguito in queste pagine è un viaggio con tante possibili devia­ zioni: scorciatoie o percorsi più ampi carichi di interrogativi e questioni aperte. L’Italia del lungo dopoguerra che abbiamo alle spalle ha vissuto stagioni diverse, segnate da continuità e progresso, talvolta colpite da fratture violente. Una tensione continua che ha legato le sorti di una comunità nazionale a un contesto più ampio, definito nel corso del tempo dalle grandi trasformazioni di processi storici andati ben al di là dei confini della penisola. Il contesto nazionale si è costantemente immerso in una rete di vincoli, relazioni, interdipendenze. Una costruzione continua fatta di compatibilità, limiti, aspirazioni e interessi. E così, progressivamente, sono cadute le chiavi di lettura che avevano raccolto fortune e interpretazioni: quella di un paese a sovranità limitata, gestito o diretto da altri po­ sizionati a migliaia di chilometri di distanza, a Washington o a Mosca, a Bruxelles o a Pechino. E su un altro versante si è contestualmente esaurito il racconto dell’Italia contemporanea come traiettoria autonoma e originale, diversa da tutto e da tutti, incomparabile e per molti versi persino incomprensibile con gli strumenti dell’analisi storica. Al contrario, il nostro tempo incerto prevede connessioni e relazioni continue che ridimensionano in modo irreversibile tanto l’impianto dell’eterodirezione da parte di forze lontane e oscure quanto quello della piena autonomia di una classe dirigente nazionale. In questo quadro interpretativo si collocano gli ultimi re­ sponsi che hanno caratterizzato il cammino della Repubblica tra il 2018 e il 2019. La difficile ricerca di risposte dopo la

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grande crisi che dieci anni prima aveva colpito e scosso buona parte dell’Occidente. L’architettura del sistema internazionale si è modificata progressivamente. La nuova globalizzazione ha spazzato via ogni residuo di certezza rassicurante: iniziata a cavallo tra il X X e X X I secolo, ha promosso e radicato forti cambiamenti sia negli assetti interni ai singoli paesi che nel complesso degli equilibri geo-politici mondiali. La solitudine dell’uomo globale è diventata un paradigma diffuso e con­ solidato. La ripresa del ciclo economico parte dall’ascesa di nuove potenze internazionali, mentre i paesi di più antica industrializzazione hanno visto un’accentuazione delle disegua­ glianze interne con conseguente difficoltà di tenuta dei welfare tradizionali. Si è così determinata l’apertura di una generale fase di ristrutturazione delle società occidentali, dagli esiti non definibili. Questi fattori contribuiscono - ovviamente non da soli - a spiegare le cause delle difficoltà di rappresentanza attraversate in molti paesi occidentali dalle forze politiche tradizionali. Ne sono un esempio i risultati delle elezioni degli ultimi anni, in primo luogo negli Stati Uniti, dove il presidente Trump da outsider quale era riesce prima a conquistare la nomination repubblicana e poi a imporsi. O ancora le tornate svoltesi nei principali paesi europei dove si è registrato un tendenziale arretramento dei partiti della sinistra socialista o socialdemocratica di antica formazione. Questo anche in Francia e Germania, nazioni nelle quali le grandi tradizioni popolari sono state determinanti nell’implementazione del processo co­ stituente europeo. Oltretutto, la vittoria della Brexit, ponendo in discussione quel delicato equilibrio tra la Gran Bretagna e il continente, rappresenta un ulteriore colpo all’idea di Europa con la quale ci siamo confrontati nei decenni successivi alla fine della seconda guerra mondiale. In un contesto di grandi mutamenti globali dove le cosiddette spinte sovraniste trovano nuovi spazi di rappresentanza (si pensi all’alleanza dei paesi dell’Europa orientale nota come Gruppo di Visegrad), gli stessi principi che fino a pochi anni fa sembravano acquisiti rischiano di essere rimessi in discussione. Forze emergenti hanno raccolto consensi proponendo rotture e discontinuità con i tracciati del passato: un’affer­ mazione diffusa di proposte politiche figlie delle inquietudini e delle paure di un tempo nuovo. In tanti angoli del pianeta le forme storiche della democrazia appaiono in sofferenza, in

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crisi di prospettive, incapaci di consolidare rappresentanza e stabilità. Il confronto investe uno dei cardini di lungo perio­ do dell’età contemporanea: l’esercizio della sovranità e le sue forme. Il cammino dell’umanità, dopo le tragedie delle due guerre mondiali, ha proposto e sperimentato forme e percorsi plurali, attraverso gli Stati nazionali, ma anche in altre dire­ zioni, cercando di contenere i rischi e le prerogative dei tanti nazionalismi e promuovendo la cessione condivisa di porzioni significative di sovranità sospinte verso una piena dimensio­ ne internazionale. Il cammino di costruzione dell’Europa ha rappresentato la risposta più alta a tali tensioni: una trama comune per indicare un orizzonte di pace e cooperazione per le generazioni del futuro. Non stupisce che oggi sia proprio la costruzione europea il principale bersaglio di chi si richiama al sovranismo nazionale come antidoto e risposta alla crisi delle forme della democrazia: la nazione come paradigma centrale, riesumando cosi vecchi linguaggi e parole d’ordine del passato. Con la crisi del multilateralismo internazionale il destino degli organismi internazionali si colora di interrogativi che vanno al di là dei confini e delle compatibilità dei singoli Stati. Inserite in tale quadro appaiono più chiare alcune delle ragioni dell’attuale crisi e riorganizzazione dell’assetto politico e istituzionale italiano. Muovendo dal riconoscimento del biennio 1992-1994 quale momento di cesura nella storia del secondo Novecento, il ventennio intercorso tra la crisi della cosiddetta e indefinita «Prima Repubblica» e le elezioni poli­ tiche del 2013 viene analizzato non tanto come il frutto di una presunta e mai realmente avvenuta «transizione» da un vecchio a un nuovo modello politico-istituzionale, quanto come una fase peculiare della storia del paese che si apre e si chiude con due crisi economiche finanziarie (quella del 1993 e quella del debito sovrano del 2011) e con la messa in opera di due go­ verni tecnici (Ciampi, 1993-1994; Monti, 2011-2013). I rifles­ si sugli anni successivi sono profondi. Con la crisi politica ed economica del biennio 1992-1994 mutano in pochi anni e molto rapidamente i parametri che avevano sostenuto l’archi­ tettura politico-istituzionale italiana e che avevano garantito la crescita economica e sociale del paese nel secondo dopoguer­ ra. Come si è visto nelle pagine precedenti, la stessa identità nazionale e la lettura complessiva della storia della Repubbli­ ca diventano oggetto di dibattito e confronto. L’Italia sembra

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travolta dai contemporanei mutamenti del contesto internazio­ nale (caduta del muro di Berlino, fine del bipolarismo mon­ diale, avvio della nuova globalizzazione e della rivoluzione delle Information technologies) e del quadro interno (crisi fi­ nanziaria, esplosione di tangentopoli e della questione morale, ricerca di un nuovo assetto politico-istituzionale) in quella che già all’epoca appariva come una vera e propria «crisi di siste­ ma». Il paese arriva così fragile e impreparato alle sfide del dopo guerra fredda e della nuova globalizzazione. Dopo la breve stagione dei governi tecnici (prima Ciampi e poi Dini), il sistema si assesta intorno a un nuovo, fragile, bipolarismo tra centrodestra e centrosinistra, i cui perni sono da un lato l’ascesa del berlusconismo e dall’altro l’eredità della tradizione socialista e popolare. Contemporaneamente, dalla metà degli anni Novanta, anche in virtù della nascita del sistema di Ma­ astricht, la Repubblica è posta di fronte alla necessità di ade­ guare le proprie strutture organizzative al nuovo contesto globale. A questo livello, il rapporto tra autonomia delle classi dirigenti e vincolo esterno si trasforma, diventa più co­ gente, fino a definire ruolo e funzione del sistema paese nel contesto globale. La sfida tra innovazione e tradizione si spo­ sta lungo l’asse delle cosiddette «riforme strutturali» tra chi considera necessario modernizzare gli assetti produttivi e istituzionali e chi sembra resistere o rallentare i processi di riforma. L’approdo all’euro compiuto dal centrosinistra alla fine degli anni Novanta appare come l’ultima grande occasio­ ne di rincorsa e coesione nazionale; l’Europa viene vissuta e presentata come una possibile via di uscita dalla crisi italiana. Una crisi destinata ad aggravarsi negli anni successivi. Ai mu­ tamenti del contesto globale che spingono l’Italia sempre più lontano dal centro del sistema economico, si sommano incer­ tezze e difficoltà interne in cui gioca un ruolo non marginale il cambio di paradigma imposto dall’arrivo al governo di Berlusconi e della Lega Nord. Più in generale tra gli anni Novanta e Duemila le difficili eredità delle stagioni preceden­ ti (l’alto debito pubblico o la bassa produttività del lavoro) si accompagnano - come in un circolo vizioso - all’incapacità di completare il percorso di riforme avviate alcuni anni prima (si pensi, ad esempio, alla contraddizione rappresentata dalla nascita di un mercato del lavoro instabile in assenza di una vera riforma del sistema di welfare o alla mancata moderniz­

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zazione del tessuto produttivo). A partire dallo scorcio con­ clusivo del Novecento tre elementi qualificano la condizione economica del paese: l’impossibilità, per la prima volta nella storia unitaria, di agganciare la ripresa del ciclo economico internazionale; l’avvio di quella che è stata definita come una lunga fase di «stagnazione» dell’economia italiana; l’amplia­ mento del divario interno tra il Sud e le altre aree del paese. L’irrompere degli effetti della grande recessione del 2008 in un contesto di bassa crescita, crescente debito e alta instabili­ tà politica determina una forte pressione sulla tenuta dei conti pubblici e sull’insieme delle compatibilità sistemiche. Questo filo che lega il biennio 1992-1994 a quello 2011-2013 è ben presente negli interrogativi e negli studi sui destini dell’Italia contemporanea. Le elezioni politiche del 2013 producono una svolta, un cambio di fase nel quale si afferma il Movimento 5 stelle, fino a diventare il primo partito italiano. Il bipolarismo tra centrosinistra e centrodestra si spegne progressivamente lasciando il posto a un assetto tripolare fragile e incerto. Contestualmente crescono ruolo e pulsioni di segmenti antisistema tra i quali comincia ad annoverarsi la Lega che, da partito radicato in determinate zone del Nord Italia con rivendicazioni marcatamente autonomiste, assume la funzione di nuova destra na­ zionale (con un repentino cambiamento nelle parole d’ordine e nelle strategie). La domanda che oggi molti osservatori si pongono è se la nascita del nuovo governo dopo le elezioni del 2018 rappresenti uno sviluppo possibile dell’offerta po­ litica fondata su tre pilastri rappresentativi di quote simili di elettorato (centrosinistra, centrodestra e Movimento 5 stelle). O se, al contrario, lo strano contratto di governo sottoscritto dai rappresentanti della coalizione giallo-verde a inizio legisla­ tura non prefiguri una dialettica tra vecchio e nuovo, tra forze antisistema contrapposte agli eredi delle tradizioni politiche e culturali di stagioni precedenti. La crisi delle forme della rappresentanza politica spinge tutti i protagonisti verso nuove sperimentazioni. Difficile e rischioso fare previsioni, ma la stra­ da di una stabilizzazione consensuale appare ancora lontana. La dialettica politica investe il confronto tra maggioranza e opposizione senza tuttavia risparmiare laceranti divisioni che attraversano l’esecutivo dilaniato da aspirazioni e interessi non componibili.

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CONCLUSIONI

L’ultima revisione di queste pagine coincide con la fine dell’esecutivo fondato sul contratto tra la Lega e il Movimento 5 stelle. Divisioni interne alla maggioranza, calcoli su presunti vantaggi elettorali hanno la meglio: l’atto finale, inatteso e conflittuale, si consuma tra chi chiede a gran voce pieni poteri senza ostacoli o resistenze e chi si appella alle prerogative minacciate del sistema parlamentare. Nel mese di agosto 2019 si chiude una pagina e si aprono contestualmente interroga­ tivi e ipotesi: una maggioranza parlamentare di altro segno e composizione o le elezioni anticipate in autunno dopo che la legislatura ha percorso poco più di un anno. L’intelligente guida del presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha indirizzato il sistema politico verso una possibile via d’uscita. Non è un passaggio semplice né scontato. Tra mille incertezze sembra farsi strada un accordo fondato sull’intesa tra il Movimento 5 stelle e il Partito democratico: continuità nella figura del presidente del Consiglio (Giuseppe Conte), discontinuità di programmi, uomini e donne per allungare il cammino di una legislatura per molti versi imprevedibile. Giudizi contrastanti all’interno o all’esterno dei confini nazionali sulla coalizione giallo rossa: una svolta incoraggiante, una scommessa e una sfida o, al contrario, il preludio di una lenta agonia per chi avrebbe preferito altre soluzioni. Il futuro è in buona parte legato alla capacità di mettere in sintonia lo sviluppo del sistema politico italiano con le dinami­ che ampie di un’area del pianeta. Nel cuore del Mediterraneo, nella capacità di misurarsi con crisi o stabilizzazioni, venti di guerra o accordi condivisi, si gioca il destino di un paese (e forse del vecchio continente), la sua capacità di rinnovare identità e missione di una comunità nazionale. Se prevarranno gli agenti delle paure, la chiusura identitaria di nuovi muri o porti non accessibili, tutto rischia di essere più complicato e incerto. Se gli assi di riferimento della politica estera e della sicurezza nazionale verranno modificati in modo significativo per favorire altri interlocutori, mettendo così in causa i legami con l’Europa, la Nato, il quadro degli organismi internazionali di riferimento, lo strappo con il passato rischierebbe di essere lacerante e carico di conseguenze. Tutto è ancora in gioco, previsioni di scenari inediti e dirompenti si sovrappongono alla possibile conservazione di consuetudini e rapporti di forza. Nelle difficili compatibilità

CONCLUSIONI

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del nostro tempo la storia della Repubblica può essere un’in­ dicazione non banale, un consapevole richiamo a un itinerario comune che tra alti e bassi, tra passi avanti e battute d’arresto può aiutare a tracciare nuove rotte senza traumi, abiure o salti nel vuoto.

Indice dei nomi

Indice dei nomi

Abu Abbas (Muhammad Zaydan), 233 Acanfora, P., 59, 198 Acocella, N., 61 Acquaviva, G., 196,242,244,245, 335 Aga Rossi, E,, 57 Agasso, R., 153 Aglietta, A., 196 Agosti, A., 61 Alberigo, G., 107 Alemanno, G,, 348 Alessandrini, E., 192, 220 Alfano, A., 357 Alfonsi, A., 197 Almirante, G., 228, 238 Altissimo, R., 259 Amato, G„ 150, 262, 265, 303, 317, 318, 350 Amatori, E, 103, 289 Ambrosoli, G., 146, 153, 214 Ambrosoli, U., 153 Amelio, E., 288 Andreatta, B., 217 Andreotti, G., 137,144,147,149,172, 190,215,219, 230, 231,233,234, 237, 238, 241, 248, 273, 276, 286 Andropov, J.V., 210 Andruccioli, P., 199 Anfossi, F., 292 Annarumma, A., 122 Annunziata, L., 196 Antonetti, N., 198 Arafat, Y., 233 Argan, G.C., 144, 180 Argentieri, F., 104 Arielli, E., 336 Ariemma, I,, 289, 383 Arlacchi, P., 291 Asor Rosa, A., 289 Asquer, E,, 243, 244 Ayala, G„ 291

Bachelet, G.B., 192 Bachelet, V., 192 Badoglio, P., 18, 25 Baffigi, A., 153, 243 Baget Bozzo, G., 106 Bagnasco, A., 384 Baiocchi, G., 200 Balestrini, N., 196 Ballini, P.L., 290, 337 Balzamo, V., 263, 264 Balzerani, B., 199 Barbagallo, E, 60, 200, 242, 244 Baris, T., 291 Barra, F., 291 Barthes, R., 163 Bartolini, F., 244 Basaglia, F., 128, 152 Bascietto, G., 291 Basile, C.E., 84 Basile, E., 269 Bassolino, A., 323 Battaglia, A., 200 Battaglia, R., 57 Battilani, P., 152, 243 Bellocchio, M., 179, 197 Benedetti, A., 288 Benedetto XVI (J. Ratzinger), 363,374 Benigni, R., 363, 385 Benvenuto, G., 259 Berend, I.T., 103 Beretta, R., 150 Berlinguer, E., 138, 140,143, 148,153, 154, 162, 172, 183, 194,205,211, 227, 228, 230, 239, 244 Berlusconi, S., 280-282, 284, 285, 287, 296-306, 308-310, 312, 317, 318, 320, 322, 324, 325, 330, 337, 340-342, 345-359, 361, 365-367, 369, 376-378, 380, 390 Bernardi, E., 60, 243, 244, 335

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INDICE DEI NOMI

Bersani, P., 352, 370, 371 Berta, G., 243 Biagi, E., 289 Biagi, M., 322, 323 Biagioli, I., 337 Bianchi, G., 306 Bianco, G., 306, 336 Bianconi, G., 197, 199, 291 Bignami, E., 242 Billotta, D., 291 Binni, W., 150 Bino, T., 335 Biondi, A-., 301 Biscione, F„ 152, 197, 243 Boatti, G., 151 Bobbio, L., 196 Bobbio, N„ 27, 58, 198, 336 Bodei, R., 290 Boltho, A., 152 Bolzoni, A., 291 Bompressi, O., 123 Bondi, S., 357 Bongiorno, M., 282 Bongiovanni, B., 58,59,152,199,241 Bongiovanni, G., 292 Bonifacio, F.P., 176 Bonini, F„ 153, 243, 337 Bonomi, I., 25, 57 Borghese, J.V., 125 Borrelli, F.S., 258, 301 Borsellino, A., 292 Borsellino, P., 274, 276, 291 Borsellino, R., 277, 292 Bossi, U„ 253, 295, 302, 305, 316 Bottai, G., 56 Botti, A., 337, 384 Braghetti, A.L., 199 Brezzi, C., 57, 153, 243 Brezzi, P„ 180 Bruti Liberati, E., 289 Buffa, P.V., 199 Buonavita, A., 160 Buruma, I., 59 Buscetta, T., 270 Bush, G.W., 321, 322 Buttigliene, R., 306 Buzzanca, S., 336 Cacace, P., 105 Cafagna, L., 290

Cafiero, S., 61 Cagliari, G., 264 Cagol, M., 160 Calabresi, L., 123, 124 Calabresi, M., 151 Calamandrei, P,, 31, 58 Calise, M., 335 Calvi, R., 213 Calvino, I., 24 Camarca, C., 291 Campanini, G., 198 Campus, L., 107 Caponnetto, A., 270, 291 Cappellini, S., 196 Caredda, G., 61, 107 Carlassare, L., 58 Carli, G., 39, 107, 131, 152 Cariucci, A,, 289 Carrocci, G., 60, 151, 243, 244 Carter, J., 203 Casalegno, A., 196 Casalegno, C., 164 Caselli, G„ 275, 292 Cassese, S., 60, 61, 198, 199, 244, 289, 336, 385 Casson, F., 252 Castro, F., 97 Cattaneo, C., 385 Cattaruzza, M., 59 Cavallaro, F., 291 Cavazzuti, F., 289 Caviglia, D., 105 Cazzullo, A., 196 Cecchi Gori, famiglia, 287 Ceccuti, C., 243 Ceci, G.M., 153, 198, 289, 335 Ceci, L., 289 Cederna, C., 123, 145, 151 Cento Bull, A., 336 Cernenko, K.U., 210 Chenaux, P., 106 Chiarelli, P., 200 Chiarini, R„ 243, 245, 335 Chiaromonte, G., 154 Chiavarelli, E,, 171 Chiesa, M., 257, 258 Chinnici, R., 270 Chiorazzo, V., 337 Chruscev, N., 77, 78, 96 Churchill, W., 37, 38, 59

INDICE DEI NOMI

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Ciampi, C.A., 265-267, 290, 293,303, 315, 317, 320, 324-326, 331, 335, 337, 341, 350, 366, 389, 390 Ciocca, P., 102 Ciotti, L„ 277 Citaristi, S., 263 Coco, F., 160, 165 Coco, G., 107 Colarizi, S„ 58, 104, 107, 197, 198, 242-245, 289, 290, 292, 336 Colli, A., 244 Colombo, A., 383 Colombo, E., 136, 262 Colucci, M., 385 Comincili, L., 153 Conso, G., 264 Conte, G., 392 Conti, D., 245 Conti, L., 193 Cooke, P., 105 Corbetta, P., 337, 384 Corbo, A., 291 Cordoni, G., 292 Cosentino, N., 353 Cossiga, F„ 169, 182, 191, 192, 194, 195, 199, 206, 230, 231, 234, 251253,261,272,312,313 Cossutta, A., 313 Costa, G., 269 Costanzo, M., 243 Covatta, L,, 196, 242, 335 Crainz, G„ 57-61, 103-107, 151, 196, 243, 244, 289, 290, 292, 336 Craveri, P, 59, 60,103,151,154,178, 197, 199, 242, 243, 245, 290, 292 Craxi, B., 147, 171, 194, 206, 212, 218-220, 223, 226, 231-239, 241, 258, 259, 262, 266, 284, 285 Croce, F., 163-165 Crockatt, R., 59, 104 Curdo, R., 160, 163, 199 Cutugno, L., 173 Cuzzola, F., 152

D’Angelo, A,, 62, 106 D’Antona, M., 323 Dau, M., 151 De Benedetti, C., 357 De Bernardi, A., 150 De Felice, F., 59, 105 De Gasperi, A., 26, 30, 38-40, 44, 45, 47, 49, 54-56, 59, 306 De Grazia, V,, 103 De Ioanna, P., 244 della Porta, D., 152, 198 De Lorenzo, G., 98 Del Pero, M„ 59, 60, 152, 242 De Luca, D., 105 De Luna, G„ 105, 152 De Lutiis, G., 152, 243 De Martino, F., 121, 147, 154 De Michelis, G., 241 De Mita, C., 231, 236-238, 265 De Nicola, E., 46 De Rita, G., 244 De Rosa, G., 290, 336 De Siervo, U., 61 Diamanti, I., 243 Diana, G., 277 Di Cataldo, F., 173 Di Donato, M., 242 Diner, D„ 107, 150 Dini, L„ 302-310, 366, 390 Di Nolfo, E., 57, 244, 245 Di Nucci, L., 104 Di Pietro, A., 301, 307, 339, 347 Di Simone, M.R., 153 Di Sivo, M„ 152 Dogliani, P., 57 Donat-Cattin, C., 220 Draghi, M„ 358 Dubcek, A., 116 Dylan, B. (R.A. Zimmerman), 109

D’Alema, M„ 312, 314-316, 318, 323,350 Dalla Chiesa, C.A., 173,187,270,291 Dalla Chiesa, N., 291 Dalmasso, S., 196 Dalos, G„ 104 Damilano, M., 198, 289, 290, 383

Fabbrini, S., 337 Falcone, G„ 261, 272-274, 276, 278, 291 Falcone, M., 291 Fanfani, A., 86, 92, 94, 105,106, 137, 142, 180, 184, 217, 220, 306 Farneti, P., 57

Eichengreen, B., 103 Einaudi, L., 48, 51 Elia, L„ 153

400

INDICE DEI NOMI

Fasanella, G„ 107, 152, 196, 199, 243, 288 Fassino, P., 350 Fauri, F., 152, 243, 337 Felice, E., 61,103, 106, 150,152, 244 Feltrinelli, G., 158 Fenoglio, G., detto Beppe, 24 Fenu, C., 383 Ferrajoli, L., 199 Ferri, M., 121 Ferrigato, R., 291 Fini, G., 238, 295, 296, 305, 312, 354, 384 Fiocco, G., 61 Fiori, G., 244 Flamigni, S., 151, 152, 197, 200 Flores, M„ 104, 150, 151, 242 Fo, D., 123 Foa, V., 104, 153, 242, 289 Foot, J., 152, 385 Forgacs, D., 152 Forlani, A., 184, 194, 195, 216, 219, 231, 238 Formigoni, G., 59, 60, 105, 106, 150, 197-199, 242,288, 291,335 Foucault, M., 163 Franceschini, A., 160, 199 Franceschini, D., 350 Francesco I (J.M. Bergoglio), 374,375 Franchi, P., 385 Franzinelli, M., 107, 196 Fullin, G., 244 Fumian, C., 243, 244 Furst, J., 150 Gabrielli, R, 57, 58, 337 Gaddis, J.L., 59, 104, 107, 199, 241, 288 Gagliardi, A., 196 Galasso, G., 60, 61, 198, 199, 244, 289, 385 Galavotti, E., 199, 244, 288 Galfré, M., 196 Galleni, M„ 152, 198 Galli, Giorgio, 199, 200 Galli, Guido, 192 Galli della Loggia, E., 290 Gallinari, P., 160, 199 Galvaligi, E., 193 Gamaleri, G., 292 Gelli, L., 195, 213

Genga, N., 383 Gentile, E., 60, 290, 384 Gentiioni, P., 381 Gentiioni Silveri, U., 57, 58, 105-107, 153, 196-199, 243, 244, 288, 290, 291, 337, 383, 385 Gerbi, S., 105 Gervasoni, M., 197, 198, 242, 244, 245, 290, 384 Gheddafi, M„ 235, 364 Ghione, P., 150 Giacumbi, N., 193 Giannini, M., 335 Gibelli, A., 292, 335 Gilbert, M., 59, 105, 199, 242 , 245, 336, 337 Gildea, R., 150 Ginsborg, P„ 57, 104, 107, 154, 179, 197, 198, 242, 289, 335, 384 Giovagnoli, A., 59, 62, 105-107, 150, 153, 197-199, 243, 244, 289, 291, 292, 336, 384, 385 Giovanni XXIII (A.G. Roncalli), 91, 92, 96 Giovanni Paolo II (K. Wojtyla), 189 Giuliani, C., 319 Giuliano, B., 269 Giuliano, S., 43 Giunchi, E., 383 Giustolisi, F., 199 Glenny, M., 336 Gomulka, W., 77 Gorbacev, M.S., 210, 242 Gore, A.A., 321 Goria, G., 237 Gotor, M„ 151, 152, 197, 198, 244 Gozzini, G., 150, 151 Graglia, P.S., 199, 244 Grandi, A., 199 Grassi, L., 276 Graziosi, A., 104, 150, 242 Grillo, G.P., detto Beppe, 345, 347, 354, 367, 369 Grispigni, M., 150 Gromiko, A.A., 209 Gualmini, E., 384 Gualtieri, L., 252 Gualtieri, R., 60, 104 Guarracino, S., 288 Guerri, G.B., 56 Guerrieri, S., 61

INDICE DEI NOMI

Gui, L„ 145 Guiso, A., 245 Guiso, N., 336 Hammermann, G., 57 Harper, J.L., 59, 107, 242, 288 Hayter, W„ 78 Hitchcock, W.I., 60 Hitler, A., 12, 16, 17, 19 Hobsbawm, E., 103 Howard, G., 103 Hugh Lee, S., 104 Hussein, S., 250 Ignazi, P., 245, 384 Impastato, G., detto Peppino, 271 Imperi, I., 197 Ingrao, P., 256 Insolvibile, I., 57 Iozzino, R., 165 Isnenghi, M., 105 Izzo, E, 243 Jacoboni, J., 384 Jaruzelski, W., 204 Jemolo, A.C., 107 Johnson, L.B., 98 Judt, T„ 57, 59, 150, 291 Kelsen, H., 58, 308 Kennan, G.F., 61 Kennedy, J.F., 88, 89, 96, 97, 184 Kennedy, P., 103 Kennedy, R.F., 114 Kershaw, I., 152 Khomeini, R., 203 King, M.L., 114 Kolar, P., 150 Krulic, J., 288 La Bella, G., 106 Lama, L., 162 La Malfa, G., 217, 259 La Malfa, U., 94, 95, 149 Lanaro, S„ 58, 70,103,105,106,154, 242, 290 Lance Goines, D., 150 Lario, V., 351, 384 La Torre, F„ 291 La Torre, P., 270 Lazar, M., 198, 335 Leffler, M.P., 60

401

Lega, A., 200 Leonardi, O., 165 Leone, G„ 120, 121, 136, 145, 185 Lepore, A., 61, 107, 243 Lepre, A., 56, 61, 107, 242-244 Lerner, G., 196 Letta, E., 371, 372, 374-377 Levi, C„ 85, 105 Lewis, N., 57 Lima, S., 273 Livatino, R., 272 Lodato, S., 291, 292 Lo Forte, G., 292 Lomellini, V., 199 Lorenzini, S., 59 Lorusso, F., 163 Lucas, G., 164 Lucentini, U., 291 Lucifero, A., 58 Lucifero, F., 30, 58 Luizard, P.-J., 385 Lupo, S„ 197, 291, 292, 335, 384 Maccanico, A., 198, 308, 309, 336 Mafai, M., 289 Magatti, M., 244 Magnani, M., 243 Magnifico, G., 337 Maier, C.S., 60, 288, 289, 291 Mammarella, G., 59, 104, 105, 199, 290 Mammì, O., 286 Mancino, N., 311 Manconi, L., 196 Mancuso, F., 307 Mancuso, L., 269 Marchi, M., 244 Marchiano, F., 383 Marcinkus, PC., 213 Margiotta Broglio, F., 244 Marini, F„ 312, 342, 370 Marino, L., 123 Maroni, R., 305, 322 Marrazzo, R, 352 Martelli, C., 273 Martinazzoli, M., 259, 294, 299, 335 Marwick, A., 103 Mastella, C., 339, 346 Mastny, V., 104 Mastrogregori, M., 198 Matard Bonucci, M., 198

402

INDICE DEI NOMI

Mattarella, P., 269 Mattatila, S., 266, 380, 392 Matterà, P„ 104, 105, 151, 197, 242 Mazzini, G., 38 Mazzonis, F., 58, 153 Melloni, A., 60, 61, 101, 106, 107, 198, 199, 244, 289, 385 Menduni, E., 103 Meneghello, L., 24 Meniconi, A., 289 Menozzi, D., 150 Mentana, E., 298 Meriggi, M., 243 Merkel, A.D., 372 Mezzana, D„ 58, 105, 198 Miccoli, G., 61 Minervini, G., 192 Monina, G., 57 Montanelli, I., 146 Monteleone, F., 292 Montgomery, B.L., 16 Monti, M., 359-361, 366-369, 389 Morando, P., 151 Moretti, M„ 161, 175, 199 Moretti, N., 256, 361 Moro, A., 33, 54, 80, 82, 83, 90, 92, 97-99,106,119-121,124,137,138, 140, 142, 145, 147-149, 151, 164188, 191, 197, 198, 217, 220, 228, 230, 231,251,271,306 Moro, A.C., 196 Moro, G., 128, 129, 152 Moro, R„ 58, 105, 198 Moroni, I., 152 Moroni, P., 196 Moroni, S., 263 Morvillo, F., 273 Mosca, C., 199 Mosse, G.L., 181, 197, 198 Mubarak, H., 355 Mura, S., 107 Musso, S., 242 Mussolini, B., 12, 13, 17-19, 45 Nagy, I., 77 Naimark, N., 150 Napolitano, G„ 289, 290, 341, 346, 359, 362, 364, 371, 377, 380, 385 Natta, A., 230, 239 Nenni, P„ 26, 77, 80-83, 89, 92, 98, 106, 136

Neri Serneri, S., 196 Nixon, R.M., 131 Nuli, L„ 105, 106, 288 Nye, J.S., 104 Occhetto, A., 239, 253, 255,295, 298, 300, 335 Ognibene, R., 160 Olivi, B„ 105, 199 Orlando, L., 271 Orsina, G„ 245, 335, 384 Orsini, A., 385 Orteca, P., 336 Ortoleva, P„ 112, 118, 150, 151, 292 Padoa Schioppa, A., 383 Padoa Schioppa, T., 337, 343 Padova, A., 152 Padovani, M., 291 Palaia, F., 199 Palazzolo, S., 292 Palermo, S., 61, 107 Panvini, G., 196 Paolo VI (G.B. Montini), 46, 92, 99, 100, 106, 139, 170, 174, 175, 179, 189 Parlato, G., 245, 335 Parodi, A.G., 105 Parri, F., 25, 26 Pasolini, P.P., 115, 150 Passalacqua, G., 336 Passarelli, G., 336 Passerini, L., 151 Paulus, F. von, 16 Pavone, C., 18, 57, 61, 291 Peci, R, 199 Pellegrini, M., 107 Pellegrino, G., 107, 152, 196, 243 Perfetti, F., 58, 105 Perdei, R., 150 Pertini, S„ 185, 217 Pescatore, G,, 61 Pescosolido, G., 103, 106, 244 Petrovic, N., 385 Piccoli, F., 184 Pietrostefani, G., 123 Pinelli, G., 123, 124 Pinelli, L., 151 Pintor, L., 179, 198 Pio XII (E. Pacelli), 66, 103 Piretri, M.S., 62, 245, 337

INDICE DEI NOMI

Pirjevec, J., 288, 336 Pivetti, I., 302 Polese Remaggi, L., 57 Pombeni, P„ 57, 59, 60, 105, 244, 245, 335 Pompei, G.F., 153 Pons, S„ 60, 104, 107, 150, 200, 242245, 288, 291, 337, 385 Preda, D., 60, 337 Priore, M., 123 Priore, R., 288 Procacci, G., 242 Prodi, R„ 306, 309-311,313,314, 318, 325, 337, 341, 342, 346, 348, 350, 352, 359, 371, 383 Provenzano, B., 278 Puglisi, G„ 277, 292 Pupo, R., 59, 60 Puri Purini, A., 337 Putin, V.V., 322 Quagliariello, G., 62, 243, 245 Quinn-Judge, S., 150 Ragionieri, E., 59 Rana, N„ 171 Rapone, L., 105, 199, 245, 337 Reagan, R.W., 206, 208, 209, 211, 233-235 Reichlin, A., 289 Renzi, M„ 376-381, 385 Revelli, M„ 196 Reza Pahlavi, M., 203 Riccardi, A., 62, 106, 107, 179, 197-199 Ricci, D., 165 Ridolfi, M., 57, 153, 290, 337 Riina, S., detto Totò, 275 Risi, M„ 289 Rivera, G., 165 Rizzo, S., 384 Rizzoni, G., 383 Roccucci, A., 337 Rodotà, S., 371 Romano, S., 245 Romero, E, 59-61,104,107,152,153, 199, 241, 242, 288, 291, 335-337 Ronzini, N., 383 Rorabaugh, W.J., 150 Rosa, V., 180

403

Rosati, D., 104 Rossa, G„ 188, 192 Rossa, S., 199 Rossanda, R., 199 Rossi, M„ 152, 198 Rossi, P., 114 Rossi, S., 336 Roveri, A., 245, 384 Ruberti, A., 162 Ruby (Karima E1 Mahroug), 355 Ruffilli, R„ 193, 238, 245 Ruggiero, R., 321, 337 Rumor, M, 121, 136, 137, 145 Rusconi, Edilio, 282 Rusconi, Enrico, 254 Rusconi, G.E., 290 Russell Mead, W„ 106 Rutelli, F., 296, 318, 350 Sabbatucci, G., 104, 152, 196, 197, 288 Saija, M., 336 Salvadori, M.L., 104, 336, 385 Salvati, M„ 58, 60, 198, 384 Santagata, A., 151 Santaniello, R., 105 Santarelli, E., 104 Saragat, G., 179, 198 Saresella, D., 151, 336 Sartori, G., 290 Sartre, J.-P., 163 Savage, J.D., 337 Savatteri, G., 291 Saviano, R., 278 Sbrana, F., 336 Scajola, C., 319, 323 Scalfari, E., 179, 198 Scalfaro, O.L., 219, 261, 264, 302, 308, 313, 315 Scaramozzino, P., 58, 198 Scaramucci, P., 151 Schiavi, G., 200 Schiavone, A., 289 Schifani, R., 274 Schulz, M., 322 Scialoja, M., 196 Scirè, G., 153 Scoppola, P„ 9,54,57-60, 62,102-106, 108, 153, 154, 197, 199, 242, 243, 245, 288-290, 383

404

INDICE DEI NOMI

Scoppola Iacopini, L., 61 Scotto, G., 336 Scroccu, G., 104 Searle, J., 113 Segatti, P., 336 Segni, A., 84, 92, 94, 107, 254 Segni, M., 254, 290 Selden, M., 150 Service, R., 242 Sestan, E., 60 Sestieri, C„ 107, 152, 196 Seymour, M., 153 Sillitoe, A., 117, 150 Simoni, G., 153 Sindona, M„ 145, 146, 153, 213-215 Sinibaldi, M., 196 Siniscalco, D., 324 Siri, G., 90, 91, 106 Socrate, E, 150 Soddu, P., 59,104,105,151,198,242, 243, 289, 290, 292, 336 Sofri, A., 123, 151 Sorgonà, G., 244, 291 Sossi, M., 159, 160 Spadolini, G., 195, 216-219, 233 Spagnolo, C., 60 Spaventa, L., 337 Spinelli, A., 228, 244 Spinelli, F., 337 Spriano, P., 152 Stajano, C., 153 Stalin (I.V. Dzugasvili), 55, 77 Stancanelli, B., 292 Starnone, D., 151 Steil, B., 60, 103 Stella, G.A., 384 Stone, E.W., 28 Sturzo, L., 306 Tamborrino, S., 291 Tambroni, F., 84-87, 91, 98, 99 Tanassi, M., 145 Tarantelli, E., 193 Tato, A., 242 Tavella, P., 199 Taviani, P.E., 106 Terranova, C., 269 Tobagi, B., 151, 200 Tobagi, W., 193, 200 Togliatti, R, 26, 48 Tognon, G., 60, 383

Tomolo, G., 102, 152, 243 Toscani, X., 106 Tranfaglia, N„ 58, 290, 291 Traniello, F., 61 Trecroci, C., 337 Tremonti, G., 300, 324 Trentin, B„ 243, 289, 335 Trichet, J.-C., 358 Trigilia, C., 289 Trinchese, S., 105 Trionfini, R, 151, 152, 198, 199, 289 Truman, H.S., 37 Trump, D., 380, 388 Tuorto, D., 336 Turi, P„ 244 Turone, G., 153 Twardzik, S., 152 Umberto II di Savoia, 30 Ungari, A., 105, 384 Urbani, G„ 297 Vacca, G„ 154, 289 Valdevit, G., 106 Valentini, C., 244 Valpreda, P., 123 Vanoni, É., 52 Varsori, A., 60, 61, 288, 291, 385 Vecchio, C., 196 Vecchio, G., 151, 152, 198, 199, 289 Veltroni, W„ 346, 350 Ventrone, A., 58 Verna, N., 292 Verucci, G., 61 Viarengo, A., 61 Vidotto, V., 152, 196, 197 Viganò, R., 24 Vinci, A., 200, 243 Violante, L., 257, 289, 311 Viroli, M„ 384 Visentini, B., 229 Vizzini, C., 259 Volcic, D., 150 Waldheim, K., 175 Walgsa, L., 204 Weber, E., 112, 150 Westad, O.A., 60,103, 104, 152, 199, 242, 288 Woeller, H„ 60 Young, D., 175

IN D IC E D E I N O M I

Zaccagnini, B., 142, 146, 172, 174,

175, 182, 184, 220 Zamagni, V., 384

ZavoJi, S., 152 Zizzi, F., 165 Z u bo k, V.M., 288

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