Storia dell’America Latina contemporanea

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Storia dell’America Latina contemporanea

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Quadrante Laterza 154

Loris Zanatta

Storia dell’America Latina contemporanea

Editori Laterza

© 2010, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2010 Terza edizione 2011 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council La cartina a p. 4 è stata realizzata da Luca De Luise

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel giugno 2011 Martano editrice srl - Lecce (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9253-7

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Premessa

Questo libro risponde a taluni precisi criteri ed è frutto di alcune faticose scelte. Prima d’iniziare a leggerlo è bene specificarli, affinché chi si accinge a farlo sia avvertito delle tecniche impiegate per costruirlo. Il titolo, infatti, Storia dell’America Latina contemporanea, è di per sé talmente vasto ed ambizioso da prestarsi a eccessive o distorte aspettative e dunque ad altrettanto numerose delusioni. Cominciamo con i limiti. La prima scelta è stata la non completezza. Per due buoni motivi. Il primo, ovvio, è lo spazio: non era pensabile spingere in poco più di duecentocinquanta pagine la storia di due secoli di un intero continente. Il secondo, più importante, è il rispetto per il lettore. Una storia completa dell’America Latina contemporanea avrebbe infatti comportato un profluvio di nomi, date e circostanze per ognuna delle repubbliche che la compongono, col risultato di creare un caotico mulinello in cui solo un addetto ai lavori avrebbe potuto orientarsi e chiunque altro avrebbe invece finito per perdersi e irritarsi. Da ciò la scelta di limitare al massimo il richiamo a nomi, date e circostanze, nello sforzo di indicare solo quelli imprescindibili. Nonché quella di non seguire passo passo i singoli casi nazionali, bensì di evocarli in opportuni spazi quando s’imponevano ad emblemi dei tratti generali di un’epoca specifica. E, ciò facendo, di dare particolare spazio a quei paesi la cui storia più ha influenzato quella degli altri e della regione in generale, come Brasile, Messico e Argentina. Chiunque potrà notare questa o quella mancanza o criticare inclusioni ed esclusioni di questo o quel personaggio o evento. Tale, comunque, è stato il criterio. V

Ai dichiarati limiti di questo libro fa da contraltare un’ambizione. Esplicitarla è perciò questione di onestà intellettuale. Nonostante il suo taglio informativo e divulgativo, infatti, esso propone una peculiare chiave di lettura della storia latinoamericana, che il lettore non avrà difficoltà a cogliere fin dalle prime pagine e a ritrovare man mano nel corso del volume. Una chiave che presuppone anch’essa precise scelte e a cui si deve la particolare attenzione che esso dedica alla storia politica, alle ideologie e alla storia religiosa. E al loro intreccio. Nella convinzione che in tale intreccio stia la più efficace via per accedere alle intime stanze della storia latinoamericana e per comprenderne le più profonde fibre. Stanze e fibre di cui si vedranno perciò i peculiari tratti, ma anche quelli che rendono l’America Latina contemporanea una regione più prossima all’Europa latina di quanto non si sia solitamente disposti ad ammettere. Due parole, infine, sulla bibliografia, limitata ad appena dieci titoli per capitolo. Lungi dall’essere completa, o dal pretendere di indicare i testi chiave per ognuno dei temi trattati, essa non è altro che uno strumento per orientarsi, nel caso chi legge desiderasse approfondire questo o quel tema. Il che non vuole dire che i titoli indicati non siano stati accuratamente selezionati, ma nemmeno che quelli che non figurano non siano spesso altrettanto o ancor più significativi o validi.

Storia dell’America Latina contemporanea

Introduzione alla storia dell’America Latina contemporanea

1. Una e plurima Dimensione chiave della storia è il tempo. Il passato, per la precisione. Ma qualsiasi storia non scorre nel vuoto, bensì in precisi spazi. E non la fanno entità astratte, ma uomini in carne ed ossa. Uomini, per l’appunto, calati nel tempo e nello spazio. Da qui bisogna perciò partire anche per conoscere la storia di quella parte di mondo che si suole chiamare America Latina: dallo spazio che occupa e dagli uomini che la popolano. Ancor prima di farlo è però bene fugare taluni equivoci o stereotipi. In primo luogo, per America Latina s’intende un concetto storico, non geografico. S’intende cioè quell’area del continente americano dove dal XVI secolo s’è impiantata la civiltà iberica. L’area, insomma, colonizzata dai regni di Spagna e Portogallo. Come tale, l’America Latina evoca un’idea di civiltà. Ciò significa che in termini geografici essa si divide in tre tronconi: il Nord America, cui appartiene il Messico, il Centro America, di cui fan parte i piccoli paesi dell’Istmo e caraibici, e infine il Sud America. Ed implica che non tutte le terre che stanno a sud degli Stati Uniti siano America Latina. Nel Mar dei Caraibi e in Sud America troviamo infatti territori legati per civiltà al mondo anglosassone, come Belize o Giamaica, o ad altre potenze non latine, come il Suriname, ex colonia olandese. Questi territori non sono dunque America Latina, benché con essa e la sua storia abbiano intimi legami. 3

Da questa premessa consegue un principio di unità. C’è qualcosa, cioè, che unisce questo immenso spazio compreso tra il Messico e l’Argentina, tra l’Oceano Pacifico e l’Oceano Atlantico. E questa 4

cosa è la storia, vale a dire la secolare appartenenza ad una medesima civiltà. La quale vi ha lasciato in eredità le proprie lingue e la propria religione. Lingue e religione la cui importanza va soppesata nella sua esatta dimensione. Esse sono infatti i cardini d’una visione del mondo, di un sistema di valori che ha plasmato le società e le mentalità. Sono, in altri termini, la profonda trama di una civiltà. Sarebbe però errato e fuorviante approssimarsi alla storia dell’America Latina senza affiancare a questo principio di unità un principio di pluralità, o di differenza. Poiché se l’America Latina ha un ceppo comune è altrettanto vero che esso si presenta in forme diverse da paese a paese, da regione a regione. Per un’infinità di valide ragioni: poiché già prima della colonizzazione europea v’erano sia grandi civiltà sia popoli allo stato nomade, sia terre molto popolate sia altre semi-deserte; perché le enormi distanze da un luogo all’altro e gli ancor più giganteschi ostacoli naturali han fatto sì che sull’unità prevalesse la frammentazione anche durante i secoli del dominio iberico; perché il commercio degli schiavi prima e le grandi ondate migratorie europee poi hanno toccato in modo molto difforme le diverse aree, mischiando etnie e culture. E poi perché diversi sono climi e natura, i prodotti dell’agricoltura e quelli del sottosuolo, i livelli di sviluppo e quelli di benessere. Così come l’unità di lingua e religione non impedisce l’esistenza d’una galassia di lingue o culti, spesso minoritari, ma talvolta maggioritari in taluni gruppi sociali o etnici. Per queste ed altre ragioni il plurale s’addice a questa storia non meno del singolare e non sarebbe abusivo parlare di storie delle Americhe Latine. Parrà complesso, ma proprio da qui è bene partire: dalla realtà una e plurima dell’America Latina. Sulla cui storia è meglio evitar facili generalizzazioni. Ma della quale va anche cercato il filo comune, badando di dosare con attenzione ciò che l’unisce e quel che la divide; quel che insomma ne fa una storia e non tante e diverse storie che nulla tiene insieme. 2. Lo spazio latinoamericano Se la storia ha dato all’America Latina una civiltà unitaria, la geografia è alleata della frammentazione. La gran parte di cubani e cileni, di argentini ed ecuadoregni parla la stessa lingua e prega lo stesso Dio, ma vive in ambienti così difformi che di più non si può. E lo 5

stesso vale spesso per gli abitanti d’un medesimo paese, tra quanti per esempio vivono sulla Sierra o sulla costa nelle nazioni andine. Non sarà in poche righe ch’emergerà l’enorme varietà della geografia latinoamericana. Ma sarà bene esporne taluni tratti. Non foss’altro per orientarsi in quest’area che qualora la si guardi bene appare per quel che è: una tavolozza dai mille colori. D’altra parte, non meno della storia lo spazio plasma le civiltà. Le quali sono nella loro materialità frutto di quel che il clima e l’ambiente danno o negano, consentono o rendono impossibile. Sarà perciò bene ricordare che l’America Latina s’estende su latitudini molto diverse. E che se gran parte di essa è compresa entro le fasce tropicali, vi sono ampie zone che ne stanno fuori e dove prevalgono climi temperati: in Argentina, Cile, Uruguay, ma in parte anche in Paraguay e nel sud del Brasile. Andrà poi tenuto conto della straordinaria estensione verticale dello spazio latinoamericano, dove la presenza di un grandioso sistema montuoso impone condizioni di vita alle più diverse quote e nei più variegati climi: sia in Messico e in America Centrale, sia in tutti i paesi andini. Se a tutto ciò s’aggiungono le poco popolate ma immense zone di selva tropicale, specie nell’area amazzonica a cavallo tra i tanti paesi che vi si affacciano; quelle aride e desertiche assai estese tra Perù e Cile ma anche in Messico; o le terre basse e paludose così frequenti tra Brasile e Paraguay come a Panama e sulla costa colombiana, si capisce davanti a quale intricato labirinto ci si trovi. Con quel che ciò comporta. Non è infatti difficile immaginare che tante differenze ne avranno prodotte altre d’altro tipo. Di tipo economico, perciò anche sociale e culturale, com’è inevitabile. Che sia il Messico sia le nazioni della dorsale andina avranno sviluppato antiche vocazioni minerarie, date le materie prime di cui sono ricche le loro montagne. Che le terre basse bagnate dal Mar dei Caraibi e quelle dai climi subtropicali sull’Atlantico o sul Pacifico avranno agevolato le piantagioni intensive dei prodotti agricoli tipici di quei climi. Che delle grandi pianure alluvionali d’Argentina ed Uruguay, ma anche in parte del sud brasiliano e del nord messicano, siano state sfruttate l’attitudine all’allevamento e alla produzione di cereali. E poi che le fasce costiere avranno sviluppato più propensione al commercio e siano per natura più aperte al mondo esterno dei vasti territori che la geografia ha isolato nel cuore del continente o tra le profonde vallate delle 6

catene montuose. Né si pensi che tanta eterogeneità rispetti le frontiere nazionali. Salvo rarissime eccezioni, come i piccoli Uruguay ed El Salvador o le isole antillane, non v’è paese dell’area che non porti in gran parte in sé quest’intera varietà: sia i più estesi, come Brasile, Messico ed Argentina; sia quelli di media estensione per gli enormi standard della regione, come Colombia, Venezuela, Perù, Cile e Bolivia; ma anche i più piccoli, come Ecuador e Guatemala, per citarne un paio. Tutto ciò pone importanti questioni. L’immensità degli spazi, la varietà di climi, prodotti e culture e gli ostacoli naturali hanno reso quanto mai difficili le comunicazioni da una parte all’altra di quest’immensa area. Sia da paese a paese, sia da una zona all’altra d’uno stesso paese. Un tempo più di ora, ma non poco ancora oggi. Laddove per comunicazione s’intende tutto quel che ciò significa: persone, merci, mode, idee, informazioni, norme e così via. Quel che dunque questa breve riflessione sullo spazio latinoamericano ci lascia per proseguire con la nostra storia è in sostanza questo: che l’ingresso negli imperi iberici impose a quest’immensa porzione d’America un principio d’unità che la geografia tendeva a contraddire od ostacolare. Lo spazio divideva ciò che la storia ambiva ad unire. L’unità e il molteplice: la tensione continua. 3. I latinoamericani Quel che vale per la geografia, vale a maggior ragione per la popolazione. La quale è in America Latina non solo molto eterogenea per origini e composizione etnica, ma anche distribuita in modo assai difforme sul territorio. Il che comporta, una volta ancora, che sotto il principio d’unità storica imposto dagli imperi iberici e rimasto in eredità alle moderne nazioni dell’America Latina si celino realtà umane estremamente variegate. Realtà stratificatesi nel tempo, man mano che nuove ondate di popolamento giungevano a colmare gli immensi spazi latinoamericani. Descrivere nel dettaglio il complesso puzzle umano dell’America Latina è impossibile. Valgano allora talune antiche ma ancora valide generalizzazioni. Vi è in primo luogo un’America indiana. Un vasto territorio, cioè, dove la maggior parte della popolazione discende da quella autoctona che in America viveva ai tempi della conquista ibe7

rica. Il suo fulcro si trova perciò nelle aree dove all’epoca esistevano i più grandi imperi precolombiani e più numerosa si concentrava la popolazione: il Messico e buona parte dell’America Centrale, dove imperavano Aztechi e Maya; e l’area andina, cioè Perù, Bolivia ed Ecuador, con importanti propaggini in Cile ed Argentina, dov’erano gli Incas a dominare. V’è poi un’America bianca, laddove il grosso della popolazione discende sia dai colonizzatori iberici sia dai grandi flussi migratori che tra la metà dell’Ottocento e la prima guerra mondiale cambiarono il volto di talune aree. Quest’America coincide con l’Argentina e l’Uruguay, ma anche in buona parte col Cile e il Brasile centro-meridionale, quello più popolato e moderno. V’è infine, sempre generalizzando, un’America nera in tutte quelle aree dove la scarsità o la scomparsa di mano d’opera autoctona per il lavoro nelle piantagioni aprì le porte al commercio di schiavi dall’Africa, spesso durato fino ad Ottocento inoltrato. È un’area dove buona parte della popolazione discende perciò dagli avi africani. E che coincide per un lato con il bacino caraibico e i paesi che vi si affacciano, e per un altro con le fasce costiere tropicali, come il nord-est del Brasile o le coste di Perù ed Ecuador. A tutto ciò vanno aggiunte altre considerazioni: la prima è che tra queste Americhe non vi sono precisi confini e che sia altre ondate immigratorie, come quelle asiatiche o mediorientali, sia le migrazioni interne hanno sempre teso e ancora tendono a modificarli; la seconda è che molte o, ancor più spesso, tutte queste componenti etniche sono presenti ovunque, benché in quantità diverse da paese a paese, e che a paesi più omogenei se ne affiancano altri dove i contrasti etnici rimangono profondi; la terza è che ognuna di esse è a sua volta eterogenea, non esistendo alcun prototipo d’indiano, bianco o nero; la quarta è che il popolamento dell’America Latina è perlopiù avvenuto in seguito a violenti traumi, quali la Conquista e lo schiavismo, i quali han fatto sì che le differenze etniche tendessero a divenire anche rigide barriere sociali. Per storia e per natura, quest’intrigante mosaico umano si presta sia a rafforzare il principio d’unità, sia a dare ulteriore impulso alla frammentazione. Favorisce l’unità nella misura in cui diviene melting pot, cioè miscela etnica e culturale capace di dar vita a una raza cósmica, per usar la formula d’un celebre intellettuale messicano in cui ci s’imbatterà a tempo debito. In altri termini a un insieme umano nuovo e originale, per sua natura meticcio. Favorisce invece la 8

frammentazione quando le barriere tra le componenti etniche rimangono insormontabili. In tal caso l’etnia può diventare etnonazionalismo, cioè un’identità escludente e autosufficiente. Non a caso entrambi i fenomeni sono stati e sono ancora presenti nella storia dell’America Latina. Dove l’eterogeneità è sia risorsa che problema, sia opportunità che sfida. 4. Politica e religione, l’unità e la frammentazione Ad un panorama umano e geografico così frammentato, la storia ha imposto a un certo punto un’impronta unitaria. Riuscendovi per taluni aspetti, meno per altri. All’origine dell’unificazione di quest’immensa area prima d’allora priva di legami interni v’è un evento traumatico: la Conquista spagnola seguita dalla colonizzazione ed evangelizzazione condotte fin dal XVI secolo dalle Corone di Spagna e Portogallo. È solo da quel momento che quella che oggi chiamiamo America Latina comincia ad essere percepita, e col tempo a percepirsi, come un’unità politica e spirituale. Benché occorra precisare che colonie spagnole e colonia portoghese, cioè il Brasile, furono in realtà fin d’allora più in conflitto che in armonia. L’unità politica fu naturalmente a lungo virtuale, vista l’estensione del territorio e l’impossibilità, nelle condizioni di quei secoli, di governarlo con efficacia da Madrid o Lisbona. Ciò non toglie che i re, i loro funzionari e le loro leggi v’impiantassero un principio d’unità. Il quale consisteva nell’appartenenza ad un unico e grande impero e nell’obbedienza a un medesimo sovrano. Di tale principio d’unità politica fu corollario chiave quello d’unità spirituale. Missione degl’imperi iberici fu infatti fin dall’inizio di espandere alle nuove terre le frontiere della cristianità, convertendo al cattolicesimo i «pagani» che vi vivevano o giungevano; ora con le buone, ora con le cattive. Col che i latinoamericani, chi per amore e chi per forza, crebbero uniti nell’obbedienza alla Chiesa di Roma, di cui i re iberici e il clero al loro seguito erano garanti. Di questi potenti principi d’unità è bene individuare fin d’ora successi e fallimenti, risultati e limiti. Il principale e più duraturo successo sta, a ben vedere, proprio nel fatto che si parli di quest’intera e immensa area impiegando un termine comune: America Latina oggi, Ispanoamerica o Iberoamerica un tempo. Non solo cioè che 9

essa sia unita da lingua e religione, il che è determinante, ma che sia vissuta e intesa come un insieme nell’immaginario collettivo. L’America Latina, insomma, rimane una comunità immaginata, cioè una civiltà con tratti propri e distinti da quelli di altre civiltà. Come tale, essa rimane anche un mito. Tanto nella storia quanto nell’attualità, nel mondo politico e intellettuale come nella vita quotidiana, negli studi come nella retorica, permane infatti più che mai vivo il mito dell’unità latinoamericana. Mito politico e mito spirituale insieme. Ciò non toglie, però, che quel che i miti e l’immaginario continuano a tenere insieme la realtà abbia finito per dividere. Che il principio unitario, cioè, abbia col tempo palesato i propri limiti. L’unità politica, per cominciare, non è sopravvissuta alla caduta dell’impero spagnolo e alla progressiva decadenza di quello portoghese all’inizio del XIX secolo. I progetti unitari e le invocazioni all’unità non impedirono allora la frammentazione politica del continente nei numerosi Stati di cui è ancora oggi composta la mappa dell’America Latina. In quanto all’unità spirituale, l’unità di fede e la retorica della fratellanza latinoamericana non hanno mai del tutto assorbito gli effetti del trauma della Conquista. L’esistenza, cioè, di mondi spirituali separati, perlopiù da steccati etnici e sociali, specie nei paesi dove la popolazione è di origini più eterogenee. Spinte centripete e forze centrifughe hanno perciò sempre scandito e continuano a scandire il moto della storia latinoamericana. Da un lato, stanno cioè le forti e ricorrenti pulsioni alla cooperazione e all’integrazione, all’unità politica e alla comunione spirituale, ma dall’altro, altrettanto o ancor più forti e ricorrenti, permangono le ragioni della frammentazione. 5. L’estremo Occidente L’ultimo e fondamentale passo per varcare la soglia che introduce allo studio dell’America Latina contemporanea riguarda la sua collocazione nell’orizzonte delle civiltà moderne. In proposito è bene essere tassativi: americana per geografia, eterogenea per popolazione e culture, l’America Latina è per storia e civiltà parte integrante dell’Occidente. A suo modo, com’è ovvio, con le peculiarità imposte da spazio e popolazione e dal traumatico modo in cui vi fece ingresso. E senza negare che nelle sue pieghe permangano taluni echi di età re10

mote, precedenti l’ingresso nella civiltà occidentale. Ma è parte dell’Occidente. E non solo perché occidentali sono le lingue che vi prevalgono e la religione che vi predomina. Ma perché della civiltà occidentale e della sua parabola è stata per secoli protagonista. Da quando, cioè, inglobata agli imperi iberici, dell’espansione della civiltà occidentale condivise ogni passaggio, essendone intrisa e plasmata. In forma cosciente e determinata nelle sue élites creole, cioè americane ma di origine spagnola. In forma passiva o coatta nella sua popolazione autoctona, che nell’Occidente spinse a forza la Conquista. È questo un aspetto chiave della storia latinoamericana, su cui occorre perciò insistere. Conquistata dai re di Spagna e Portogallo, l’America iberica non fu per essi un mero bottino da cui attingere o un avamposto da cui spremere risorse. Fu anche ciò, naturalmente. Ma anche molto di più. L’America iberica divenne infatti essa stessa Spagna e Portogallo e tale restò per circa tre secoli. Porzione ad ogni effetto, cioè, degli imperi metropolitani, i quali la sfruttarono ma popolandola, la dominarono ma governandola, la controllarono ma come parte di sé, non come elemento estraneo e soggiogato. Quegli imperi vi proiettarono perciò non solo la propria fame di grandezza materiale, ma ancor più la propria ansia civilizzatrice. Quella, come s’è visto, tipica di un’epoca di imperi universalisti, che nella fattispecie ambivano ad ampliare le frontiere della cristianità. In termini concreti, ciò significa che la moderna storia politica, sociale, economica, culturale, religiosa dell’America Latina è per l’appunto parte di quella più generale dell’Occidente. Dal quale è stata forgiata ed al quale ha dato apporti chiave. Per dirla meglio: né la storia dell’America Latina è concepibile fuori da quella occidentale, né quella dell’Occidente moderno è comprensibile escludendone l’America Latina. Ma ciò non è tutto. Anzi, è solo il primo passo. Poiché detto ciò va precisato di quale Occidente è parte la storia latinoamericana, non essendo quella d’Occidente una nozione univoca né immutabile nella storia. Innanzitutto, l’America Latina entrò nell’Occidente diventando Europa. Collocata nell’emisfero americano, quella porzione d’America fu per secoli un pezzo d’Europa. Europei erano i suoi sovrani ed europei i partner commerciali; europeo era il clero che l’evangelizzava ed europee erano le origini delle sue istituzioni. Europee, per origini e cultura, idee e costumi, erano le élites che ne dirigevano le sorti. Ciò che la geografia vuole in America, insomma, la storia pose in Europa. La questione è assai importante per com11

prendere le intime affinità che ancora legano l’America Latina al Vecchio Mondo. Ma ancor più perché la sua storia negli ultimi due secoli è anche quella, come si vedrà, della dis-europeizzazione dell’America Latina e della sua progressiva americanizzazione. O del ricongiungimento, si potrebbe dire, tra geografia e storia. Non basta però dire che l’America Latina entrò nell’Occidente per la porta europea. Bisogna infatti precisare di quale Europa si sta parlando. E la porta fu quella dell’Europa latina, o per essere ancor più precisi dell’Europa cattolica in un’epoca in cui la Riforma protestante spaccava la cristianità occidentale.

Bibliografia Bakewell, Peter, A history of Latin America: c. 1450 to the present, 2nd ed., Malden (Mass.): Blackwell Pub., 2004. Bethell, Leslie (edited by), The Cambridge history of Latin America, Cambridge-New York: Cambridge University Press, 1984-2008. Bulmer-Thomas, Victor, Coatsworth, John H. e Cortés Conde, Roberto (edited by), The Cambridge economic history of Latin America, Cambridge-New York: Cambridge University Press, 2006. Carmagnani, Marcello, L’altro Occidente: l’America Latina dall’invasione europea al nuovo millennio, Torino: Einaudi, 2003. Dabène, Olivier, L’Amérique Latine à l’époque contemporaine, 5éme éd., Paris: Armand Colin, 2003. Halperín Donghi, Tullio, Historia contemporánea de América Latina, Madrid: Alianza Editorial, 1970. Lucena Salmoral, Manuel (coordinador), Historia de Iberoamérica, Tomo III, Historia Contemporanea, Madrid: Catedra, 1992. Malamud, Carlos, Historia de América, Madrid: Alianza Editorial, 2005. Meyer, Jean, Historia de los cristianos en América Latina: siglos XIX y XX, México, D.F.: Vuelta, 1989. Skidmore, Thomas E. e Smith, Peter H., Modern Latin America, 6th ed., New York: Oxford University Press, 2005.

Parte prima

Dall’indipendenza alla seconda guerra mondiale 1808-1945

1.

Il retaggio coloniale

1. L’eredità politica Per circa tre secoli, da quando nella prima metà del Cinquecento la Conquista divenne colonizzazione a quando all’inizio dell’Ottocento conquistò l’indipendenza, l’America Latina fu Europa. Furono tre secoli durante i quali cambiò il mondo, e con esso l’America iberica. Cambiarono idee e tecnologie, le merci e il modo di scambiarle, le società e la loro organizzazione. E cambiarono gli equilibri tra le potenze, dato che quelle iberiche declinarono mentre altre, specie Gran Bretagna e Francia, emergevano. Dire in breve ma in modo completo cosa furono quei tre secoli per l’America Latina non è possibile. Andrebbero poi distinti i casi dell’America ispanica, all’epoca di gran lunga la più estesa, ricca e popolata, e di quella portoghese, ancora poco abitata e perlopiù concentrata sulle coste fino almeno al Settecento. Ma alcune cose vanno dette su quel che lasciarono in eredità. Sul loro retaggio, senza il quale la successiva storia dell’America Latina perderebbe le necessarie coordinate. La prima osservazione chiave è che in quei secoli nacque in quella parte d’America una nuova civiltà. Quell’America condivise cioè da allora tratti e destino della civiltà ispanica. Civiltà il cui elemento unitario e principio ispiratore risiedevano nella cattolicità; e che nella difesa ed espansione della cattolicità aveva la sua missione politica. Bella o brutta, coatta o consensuale, controversa come ogni ci15

viltà, questo dato è incontrovertibile. Poiché per civiltà s’intende un complesso insieme di strumenti materiali e valori spirituali, di istituzioni e di costumi tali da plasmare sia l’organizzazione sociale e politica, sia l’universo spirituale e morale dei popoli che vi appartengono. In tal senso, la civiltà ispanica in America non fece eccezione. Tanto che i suoi caratteri furono ereditati dagli Stati e dalle popolazioni protagoniste della storia latinoamericana contemporanea. In termini politici, gli imperi iberici, specie quello degli Asburgo di Spagna che ressero il trono dal 1516 al 1700, furono organizzati e concepiti in modo tale da lasciare in eredità, una volta ancora, sia un principio d’unità, sia un principio di frammentazione. Su un delicato e sapiente dosaggio tra entrambi tali principi si basò infatti il regime pattizio che governò i rapporti tra il sovrano e i suoi Reinos. Tutti i suoi regni o possedimenti allo stesso modo: quelli nella penisola e quelli americani. In cosa consisteva tale patto non scritto, ma frutto d’una rodata consuetudine? Innanzitutto nell’unità imperiale. Impero universalista retto dall’universale missione di espandere la cristianità, quello spagnolo concepì se stesso in perfetta sintonia con l’immaginario religioso che l’animava: come un immenso organismo che nell’armonia tra le sue parti rifletteva l’ordine divino. Un ordine della cui unità politica e spirituale era garante il re, cuore pulsante e terminale unico di quell’organismo, titolare della legge e protettore della Chiesa. Ma come ogni patto vuole, in cambio del riconoscimento della sua sovranità e dell’obbedienza dei suoi sudditi, il re concedeva loro molto. Concedeva, cioè, quel che volgarmente venne indicato con la popolare formula la ley se acata pero no se cumple: la legge del re, insomma, era riconosciuta in segno di sottomissione al suo legittimo potere; ma il governo era altra cosa, fondato su usi, costumi e poteri delle élites locali. Le quali erano perciò parti d’un impero unitario, dagli altipiani messicani a quelli andini, unite dall’obbedienza a un solo re e ad un solo Dio. Ma godevano di ampia autonomia. In questo modo i re che in realtà non potevano governare da Madrid quei possedimenti così remoti si tutelavano dal pericolo che essi, qualora oppressi dal potere centrale, desiderassero andar per la propria strada. Ma ammettevano anche il principio di frammentazione politica prevalso poi al crollo dell’impero: a tenere infatti insieme quelle sparse membra del grande impero, estranee tra loro, v’era sol16

tanto l’obbedienza al re. Oltre al filo, forte spiritualmente ma debole politicamente, della appartenenza a una medesima civiltà. 2. La società organica Le relazioni tra le diverse parti di quelle società così diverse da zona a zona per un periodo lungo tre secoli furono assai complesse, articolate e variegate. Non esiste cioè un modello sociale valido per ognuno dei tanti e variegati territori governati dalle Corone iberiche. Per cogliere perciò i tratti delle relazioni sociali che tanto impregnarono le strutture e le mentalità dell’America iberica da più pesare poi sulla storia dell’America Latina indipendente, meglio attenersi a talune considerazioni generali. Nel complesso, si può dire che lo spirito e gli strumenti su cui poggiò l’architettura delle società iberiche in America furono tali da forgiare un ordine corporativo. Il che era la norma per le società dell’epoca, ma assunse in quell’America dai tratti spaziali e umani così particolari significato e forme peculiari. Le leggi che regolarono quelle società, e ancor più le consuetudini e le norme implicite del regime pattizio con la Corona, dettero cioè vita a una società di corpi. Una società, per essere più chiari, dove i diritti e i doveri di ogni individuo non erano uguali a quelli d’ogni altro, ma solevano dipendere dai diritti e doveri del corpo sociale cui apparteneva. Sia ai vertici della società, dove funzionari, clero, milizie possedevano i loro fueros, cioè i loro tanti privilegi e relativi obblighi; sia alla sua base, dove le masse rurali, perlopiù indiane, avevano anch’esse i loro tanti obblighi e relativi diritti. Come ogni società occidentale di quell’epoca, anche quella iberica nelle Americhe era perciò una società organica. Si trattava insomma di società i cui tratti fondamentali erano due: erano società «senza individui», nel senso che gli individui erano subordinati al tutto, cioè al corpo sociale cui appartenevano e all’organismo sociale nel suo complesso; ed erano gerarchiche, poiché, come in ogni corpo organico, anche in questo non tutte le membra avevano la medesima rilevanza e ciascuno era deputato ad occupare il ruolo che Dio e la natura gli avevano assegnato. Quelle società erano perciò colme di contrasti e ambivalenze. Contrasti poiché, essendo fondate su disuguaglianze profonde e istituzionalizzate, su così netti ruoli di dominanti e dominati stabiliti fin 17

Spagnoli, indiani e schiavi africani La popolazione bianca d’origine europea occupava ovunque i vertici della gerarchia sociale e controllava la politica e l’economia, la giustizia, le armi e la religione. Viveva inoltre in gran parte concentrata nei centri urbani. Al suo interno essa era però piuttosto eterogenea e tanto più lo divenne man mano che nuove ondate migratorie giunsero in America dalla penisola iberica nel corso dell’età coloniale. Al nucleo originario di encomenderos, cioè dei conquistatori o dei discendenti che in un primo momento avevano ricevuto in dotazione dal sovrano un territorio comprensivo della popolazione autoctona che lo abitava, e col tempo trasformatisi in grandi proprietari terrieri che possedevano numerosi schiavi o indiani, s’aggiunsero via via nuove figure. Tra di esse emersero col tempo gli artigiani, i funzionari e i professionisti, tutti organizzati in corporazioni che ne delimitavano i contorni, sancendone al contempo diritti e doveri. Numerosi, naturalmente, erano anche i bianchi dediti al commercio e all’attività mercantile in genere, oppure impiegati in numerose altre occupazioni minori. Il che faceva della società bianca il compartimento più alto di quelle società. Ma un compartimento a sua volta molto eterogeneo e differenziato. Tanto più che al suo interno divenne col tempo sempre più netta la distinzione tra creoli, nati in America e appartenenti alla società locale, e peninsulares giunti in veste di funzionari. Specie da quando dal XVIII secolo le riforme introdotte dai Borbone comportarono lo stretto controllo della Corona su tutte le più importanti cariche civili, militari o ecclesiastiche. La popolazione indiana era nettamente separata da quella bianca. Sia socialmente, essendo sottoposta a pesanti regimi di sfruttamento del lavoro, sia territorialmente, essendo perlopiù relegata ai margini delle città o nelle zone rurali. Ad essa era infatti comune riferirsi come alla República de los Indios. Al tempo stesso, la popo-



dalla Conquista, erano soggette a ricorrenti rivolte o ad una sorda ostilità verso l’ordine stabilito. Ma anche ambivalenti, poiché la loro natura organica lasciava anche ai più oppressi, per esempio alle comunità indiane, ampia possibilità di autogoverno una volta compiuti gli obblighi prestabiliti, sia prestando pesanti tributi in lavoro, sia pagando le tasse loro imposte. Il che significa che, pur venate da for18

lazione indiana della Nueva España, quella cioè del futuro Messico, si mischiò più a fondo con la popolazione bianca di quanto non avvenne nell’area andina, dov’essa mantenne perciò contorni etnici più definiti. Confinato nelle proprie comunità, il grosso della popolazione indiana conservò al proprio interno gran parte delle antiche distinzioni tra nobili e plebei, dei suoi antichi usi e costumi e l’organizzazione familiare e l’uso delle terre comunitarie già in auge prima della Conquista iberica. In quanto, infine, alla popolazione africana giunta nell’America iberica attraverso la tratta degli schiavi, secondo le stime più attendibili pari a circa 3 milioni e mezzo di individui durante l’età coloniale, essa tese a concentrarsi nelle aree tropicali dove la popolazione indiana era scarsa o assente, o dove, come nelle Antille, fu decimata e sparì a causa delle epidemie causate dal contatto con i conquistatori. In un primo momento la sua importazione fu talvolta teorizzata nei territori della Corona spagnola come un sistema per preservare dalla schiavitù gli indiani, giuridicamente liberi e alla cui protezione ed evangelizzazione era finalizzata la Conquista. Il grosso degli schiavi africani finì dunque per lavorare nelle piantagioni, ma anche per formare le numerose schiere dei servitori domestici o fungere da intermediari dei dignitari bianchi in zone perlopiù popolate da indiani. Il loro elevato valore commerciale e la grande resistenza fisica di cui dettero spesso mostra li resero in molti casi ambiti agli occhi delle élites creole. Il che consentì loro con certa frequenza, specie nell’America spagnola, di emanciparsi dal piano più basso della scala sociale. Per quanto segmentate fossero quelle società, infine, è intuibile che tra i loro compartimenti non esistessero paratie del tutto stagne. E che sia attraverso le frequenti nascite di meticci o mulatti, sia per mezzo del crescente ingresso di indiani o schiavi africani nella vita sociale della República de los Españoles, esse andassero col tempo assumendo contorni sempre più complessi e diversi da zona a zona.

ti tensioni, quelle società presentavano nei loro rigidi strati anche taluni aspetti che in seguito molti avrebbero idealizzato: senso comunitario, autonomia, protezione. Occorrerà tenerne conto per comprendere la straordinaria resistenza al tempo e al cambiamento di vari aspetti di quell’ordine antico. Un ordine corporativo, dunque, che in America Latina assunse tratti inediti o più marcati di quelli d’o19

gni altro ordine analogo. La sua caratteristica più evidente, e più gravida di conseguenze, ne era la natura segmentata. Le spesse barriere tra uno strato e l’altro di quelle società non erano infatti solo frutto della ricchezza o del lignaggio. Ma erano cumulative, cioè anche barriere etniche e culturali, che, specie dove più numerosa era la popolazione indiana o schiava, equivalevano a paratie che separavano mondi estranei tra loro ma costretti a vivere in stretta relazione. Tali erano, a grandi linee e nella loro più intima essenza, le società che i nuovi Stati dell’America Latina ereditarono dagli imperi iberici: società colme di profonde e pericolose faglie, ma anche unite da fitte reti di legami antichi. In esse «la nascita dell’individuo», cioè la politica moderna fondata sul primato dei diritti individuali, cadde perciò come un immenso macigno in uno stagno. 3. Un’economia periferica Parte ad ogni effetto di Spagna e Portogallo, l’America iberica entrò in quei grandi imperi sviluppando una vocazione economica complementare alle loro necessità globali. È noto, per citare l’esempio più famoso, che i metalli preziosi americani furono decisivi per finanziare le grandi ambizioni e le reiterate guerre europee della Corte spagnola; e in certa misura per alimentare l’accumulazione originaria da cui spiccò il volo la rivoluzione industriale. Il che non vuol dire che tra la sponda americana e quella europea di quegli imperi non vi fosse reciprocità, visto l’intenso scambio di prodotti che modificò radicalmente i consumi in entrambi i sensi. Facendo per esempio «scoprire» agli europei il pomodoro, la patata, il tabacco o l’ananas; e agli americani il caffè, la canna da zucchero o il banano: tutte colture di cui divennero grandi produttori ed esportatori al punto da incidere sulla storia alimentare, e dunque demografica, d’Europa. Quel che però è più rilevante per comprendere l’eredità economica lasciata dall’età coloniale all’America Latina indipendente è che in quei secoli quella parte d’America divenne periferia d’un centro economico lontano. Un centro, quello spagnolo assai più di quello portoghese, che esercitò e cercò di conservare il monopolio commerciale coi territori americani. Un fatto, questo, tutt’altro che originale per quell’epoca dominata dalle dottrine mercantiliste. Dall’i20

dea cioè che il monopolio economico sui propri possedimenti fosse decisivo strumento di potenza da salvaguardare ad ogni costo dalla concorrenza di altre nazioni. Ma un fatto destinato a imprimere tratti durevoli e peculiari all’economia latinoamericana. Anche perché il centro cui essa restò legata, quello delle potenze iberiche, tanto era potente nel Cinquecento quanto declinante due secoli più tardi. Perché quel centro, insomma, divenne poco a poco esso stesso periferia di un altro centro, quello che dal Nord Europa guidò la rivoluzione nei commerci e nell’industria dal Settecento in poi. Proprio questa perifericità figura perciò tra i principali retaggi economici dell’età coloniale latinoamericana. L’economia dell’America iberica tese cioè a organizzarsi in funzione del commercio verso l’esterno, sia per ottenere dall’esportazione di materie prime i necessari introiti finanziari, sia per dotarsi attraverso l’importazione di molti beni fondamentali che il centro dell’impero provvedeva a fornirle. Tale vocazione periferica continuò a caratterizzare l’economia latinoamericana anche quando il monopolio commerciale con la penisola iberica cominciò a pericolare sotto la spinta della concorrenza inglese, francese od olandese. E a maggior ragione quando il cordone ombelicale con Spagna e Portogallo si spezzò del tutto e l’economia dell’America Latina restò orfana d’un legame da cui era più che mai dipendente e di cui aveva perciò vitale bisogno. Finché non lo riallacciò con la nuova potenza egemone, quella britannica. Tutto ciò ebbe anche altri corollari, di cui la storia economica dell’America Latina portò in seguito i profondi segni. A cominciare dall’intrinseca debolezza del mercato interno, ostacolato nel suo sviluppo dagli enormi spazi continentali e dalla struttura politica dell’impero, ma ancor più dalla proiezione verso l’esterno dell’economia dell’area. E proseguendo con la propensione alla specializzazione produttiva per l’esportazione e gli scarsi incentivi allo sviluppo delle attività manifatturiere, inibite dalla complementarità economica con un centro lontano. Anche dall’economia, in sintesi, l’America Latina ebbe in eredità spinte unitarie, almeno nel senso che le sue diverse aree condivisero una medesima «sindrome della perifericità», cioè analoghi problemi e analoghe opportunità. Ma ancor di più forze centrifughe, data la naturale tendenza e convenienza d’ogni singola regione a legarsi al partner esterno più conveniente, volgendo le spalle ai territori confinanti: spesso tanto vicini quanto estranei. 21

Crescita economica e nuove potenze Se, come, quanto e perché crebbe l’economia dell’America iberica durante l’età coloniale, specie da quando i Borbone in Spagna e il marchese di Pombal in Portogallo v’introdussero nel XVIII secolo profonde riforme, è un tema che da sempre divide gli storici. Le statistiche dell’epoca, più affidabili di quelle del passato, rivelano in proposito che la crescita vi fu e che nella maggior parte dei casi fu trainata dalla forte ripresa dell’attività mineraria. Sia in Perù e Nueva España, dove l’estrazione era perlopiù d’argento, sia in Brasile, dove il boom riguardò l’oro. Tale crescita, a sua volta, fu riflesso di quella che più in generale riguardò l’Europa del tempo, dove crebbe la domanda di metalli preziosi e dove la crescita produttiva dell’incipiente industria indusse a cercare nelle colonie nuovi mercati d’esportazione. Col tempo, però, pare certo che le trasformazioni in atto in Europa agli albori della rivoluzione industriale dessero inedito stimolo non più solo alla domanda d’argento ed oro, ma anche di prodotti agricoli o di altri minerali dell’America iberica. Il che ne indusse le diverse aree a specializzarsi in funzione della domanda esterna e scavò dunque ancor più profonde fratture nel seno del già eterogeneo impero spagnolo. Fratture che le riforme commerciali introdotte dalla Corona, in base alle quali gli americani erano destinati al ruolo di fornitori di materie prime per la nascente industria spagnola e di consumatori dei suoi prodotti, non fecero che acuire. Di tutte tali fratture e della domanda americana di liberalizzazione del commercio avrebbero dato di lì a poco ampia prova le guerre per l’indipendenza. Fu comunque nel corso di quel secolo che in Messico s’impennò la crescita demografica e che dalle sue casse giunsero i due terzi degl’interi introiti fiscali spagnoli in America. E fu allora che Cuba scalò le vette dei produttori mondiali di zucchero, che i commercianti di Caracas s’arricchirono vendendo cacao, che quelli rioplatensi s’affacciarono per la prima volta alla ribalta. L’apertura di nuove rotte, specie quella di Capo Horn che spianava la via verso i porti del Pacifico, e i progressi del commercio interoceanico, divenuto più economico e sicuro grazie alle nuove e più solide costruzioni navali, crearono infine le condizioni che avvicinarono come mai prima l’Europa e l’America. Tale circostanza accrebbe la competizione in Spagna, dove il monopolio andaluso dovette cedere alle pressioni per liberalizzare il commercio americano aprendolo a nuovi porti e agli scambi con colonie d’altri paesi. Ma anche e soprattutto la competizione delle potenze europee emergenti.

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4. Un regime di cristianità Di tutto ciò che l’America Latina indipendente ereditò dall’America iberica dell’età coloniale, quel che forse più pesò sulla sua storia fu la parte meno visibile e misurabile. Fu infatti l’immaginario sociale di tipo religioso che la plasmò ed impregnò fin nelle sue più intime pieghe. Un immaginario in base al quale non solo, come s’è visto, la società soleva essere organizzata come una comunità organica, a sua volta intesa come riflesso di un ordine divino rivelato. Ma per cui non v’era alcuna lecita distinzione tra unità politica e unità spirituale, tra cittadino e fedele, tra sfera temporale e sfera spirituale. A loro modo, gli imperi iberici furono infatti dei regimi di cristianità. Luoghi, cioè, dove l’ordine politico poggiava sulla corrispondenza delle sue leggi alla legge di Dio e dove il Trono, cioè il sovrano, era unito all’Altare, cioè alla Chiesa. Anche in tal caso, non fu tanto la natura di quest’immaginario a distinguere l’America iberica dal resto dell’Occidente, dove la commistione tra politica e religione era la norma. Ma semmai le forme e l’intensità ch’esso vi assunse per effetto della sua peculiare storia. Per comprenderlo, ne vanno tenuti presenti un paio d’aspetti chiave. Il primo è che l’America iberica restò estranea alla Riforma protestante. Cioè alla spaccatura della cristianità occidentale. Il che significa che mentre tra violente guerre l’Europa entrava nell’epoca della difficile convivenza tra diverse confessioni religiose, l’America iberica, possedimento dei re cattolici al riparo dell’Oceano, rinsaldò per reazione la sua cattolicità. Divenne cioè terreno d’elezione della Controriforma, estremo baluardo della cristianità cattolica impermeabile al dissenso religioso e trincea dell’assoluta coincidenza tra unità politica e unità religiosa. Il fondamento dell’ordine politico e sociale nell’America iberica divenne insomma più che mai l’unanimità religiosa. Il secondo aspetto chiave è che in virtù di ciò la Chiesa cattolica assunse in quei territori un ruolo e un peso senza eguali altrove. Per varie ragioni. Non perché, va precisato, il clero fosse numeroso, visto ch’era semmai scarso. Né perché la Chiesa fosse un’istituzione coesa, visto che quella di quell’epoca era tutt’altro che unita e disciplinata agli ordini del papa. Né, infine, soltanto perché la Chiesa fosse ricca e potente, benché dove più solido era il potere imperiale, come in Messico e in Perù, essa lo fosse eccome. Ma in primo luogo 23

Chiesa e Stato in età coloniale Un aspetto chiave del rapporto tra potere politico e potere spirituale nei territori dell’America spagnola durante l’età coloniale è rappresentato dal Real Patronato. Il quale era un privilegio concesso ai re cattolici spagnoli dal pontefice di Roma in virtù dell’opera di evangelizzazione che essi svolgevano in America. Tale privilegio consisteva nel riconoscere ampie facoltà alla Corona spagnola nel governo della Chiesa, specie nella nomina dei vescovi. Ciò rinsaldò l’intreccio quasi indistinguibile tra politica e religione. E, così come da un lato radicò nei poteri pubblici l’idea missionaria di avere una funzione spirituale, allo stesso modo impregnò dall’altro lato la Chiesa americana dell’idea d’avere funzioni politiche. Di avere cioè diritto ad esercitare una sorta di tutela sull’unità politica e religiosa dell’impero. Tali peculiari tratti del rapporto tra politica e religione nell’America spagnola ne scolpirono più di tanti altri le istituzioni e le mentalità. Non a caso gli Stati indipendenti sorti nel primo quarto del XIX secolo non vollero rinunciare a quel privilegio e ne rivendicarono l’eredità dall’impero che avevano appena abbattuto. E ciò benché la Santa Sede non desiderasse affatto riconoscere loro ciò che aveva a suo tempo concesso ai re cattolici. Fu così nel caso di governi conservatori, poiché esso dava loro straordinaria autorità e la possibilità di impiegare la Chiesa come instrumentum regni. Ma fu così nel caso di molti governi liberali e anticlericali, poiché essi ritenevano in tal modo di affermare la sovranità del nuovo Stato e di potere così tenere sotto controllo la temibile forza e influenza della Chiesa. La mentalità di intima unione tra politica e religione e tra Stato e Chiesa insita nel Patronato rimase peraltro a lungo molto diffusa nello stesso clero, che vi trovava l’esplicito riconoscimento della sua associazione al potere politico e della sua straordinaria funzione sociale. Costò infatti molto tempo e innumerevoli conflitti alla Santa Sede disciplinare e attrarre a sé, distaccandole dall’antica unione col potere locale, le Chiese dell’America Latina.

perché di quell’ordine essa era il pilastro ideologico e politico. A rendere infatti legittima la sovranità dei re su quelle terre era, come si ricorderà, l’opera di evangelizzazione ch’essi vi avevano intrapreso e la loro preservazione dalla contaminazione dello scisma religioso. E in secondo luogo poiché proprio la cattolicità era il principio cardi24

ne dell’unità di un territorio ed una società così frammentati in ogni altro aspetto. Cosa rese quest’eredità così gravida di conseguenze per l’America Latina indipendente? Il tema tornerà spesso nei capitoli successivi, ma qualcosa va fin d’ora anticipato. Innanzitutto, viste queste premesse, s’intuisce che l’ingresso dell’America Latina nella modernità politica, di per sé complesso, risultò ancor più traumatico. Per modernità politica s’intende infatti il processo, comune all’intero Occidente, di progressiva secolarizzazione dell’ordine politico; cioè di progressivo distacco tra sfera politica e sfera religiosa. Distacco, si badi bene, da non confondersi con violenta rottura. Ma che non a caso suscitò potenti reazioni in America Latina, al punto da risultarne a lungo inibito. Oltre a ciò, è intuibile quanto spinoso risultasse a quest’area un altro passaggio chiave della modernità: quello dall’unanimismo al pluralismo: politico, ideologico, religioso. Il mito originario dell’unità politica e spirituale resisterà infatti con straordinaria forza nella storia dell’America Latina alla crescente differenziazione delle società moderne. 5. L’erosione del patto coloniale Le riforme che nel Settecento realizzarono sia i Borbone, tornati sul trono spagnolo, sia il marchese di Pombal, alla corte del Portogallo, erosero il regime pattizio che aveva fino ad allora tenuto insieme gli imperi iberici. Ognuno a suo modo, naturalmente. Non furono causa dell’indipendenza, va precisato. Ma crearono talune remote premesse perché essa divenisse immaginabile. Per capire come e perché ciò avvenne occorre chiarire quali furono tali riforme, quale ne fu il senso, perché furono adottate e quali effetti produssero. Le riforme toccarono i gangli vitali della vita imperiale. Quelli politici, dove Madrid e Lisbona accentrarono i poteri; quelli militari, dov’esse accrebbero il potere del regio esercito; quelli religiosi, dove favorirono il clero secolare, soggetto alla Corona, e penalizzarono quello regolare, fino all’espulsione dei gesuiti; e quelli economici, dove razionalizzarono ed accrebbero gli scambi, accentuando però il divario tra la madrepatria, incaricata di produrre manifatture, e le colonie, relegate al ruolo di fornitrici di materie prime. Lo spirito e il senso di tali riforme non fu un mistero: sia nel 25

Le riforme borboniche Principale obiettivo delle riforme introdotte dapprima nella prima metà del Settecento e poi in forma sistematica da Carlo III, che regnò tra il 1759 e il 1788 e fu un tipico autocrate illuminato dell’Europa del tempo, era di prelevare più imposte dai possedimenti americani. Sia per onorare la crescente domanda della Corona, sia per assicurare la difesa delle colonie. La guerra dei Sette anni finita nel 1763, durante la quale gl’inglesi avevano conquistato L’Avana e al cui termine la Spagna dovette cedere loro la Florida, ne confermò infatti la vulnerabilità. Dato il loro obiettivo, non sorprende che le riforme investissero in particolar modo l’economia e la pubblica amministrazione, nell’intento di renderle più efficienti. In tal senso andò la riorganizzazione dell’impero, dove ai due vicereami del Perù e della Nueva España s’affiancarono quelli di Nueva Granada e del Rio de la Plata. I risultati non mancarono, dato che la pressione fiscale lievitò facendo in taluni casi triplicare gli introiti delle casse reali. Lo confermarono d’altronde le proteste antifiscali scoppiate in diverse parti dei possedimenti imperiali. Cardine della riforma amministrativa fu comunque l’istituzione delle Intendencias, cioè degli organi istituiti dalla Corona e mutuati dall’ordinamento francese per creare un’amministrazione più razionale e centralizzata e per spezzare i forti legami tra le autorità coloniali e le élites creole, fonti di corruzione, malcostume e inefficienza. Il loro risultato non fu però quello sperato. Se, infatti, da un lato i nuovi organi non poterono in molti casi insediarsi o funzionare come previsto, dall’altro l’intento accentratore ch’essi comportavano suscitò enormi resistenze e sospetti sulle intenzioni del sovrano. In quanto alle riforme militari, a renderle quanto mai urgenti furono le crescenti pressioni esercitate sulle colonie spagnole dalle flotte inglesi e francesi che stazionavano nel Mar dei Caraibi, dove entrambe quelle potenze in rapida ascesa avevano a loro volta delle colonie. Il fatto poi che il continente americano fosse oramai divenuto un campo di battaglia delle guerre tra potenze europee e che

 territorio metropolitano sia in quelli d’oltremare. Tanto che coloro che le attuarono divennero eroi in patria ma tiranni agli occhi di molti nelle colonie. Ciò ch’esse intendevano fare era avviare un processo di modernizzazione degli imperi e centralizzazione dell’autorità 26

la debolezza spagnola ingolosisse quelle emergenti non fece che accelerarne i tempi. Difatti l’esercito fu riorganizzato e modernizzato. La crescita della sua forza e del suo potere ebbe però nel complesso effetti imprevisti. Da un lato generò scontento tra la maggior parte della popolazione creola, per nulla contenta del lungo servizio militare e del costo che il mantenimento delle truppe comportava. Costo che la Corona le accollò. Dall’altro lato l’americanizzazione dell’esercito, i cui soldati erano infatti in gran maggioranza americani, benché sottoposti il più delle volte ad ufficiali spagnoli, finì col tempo per rappresentare un pericolo per gli stessi spagnoli. Proprio da quelle milizie sorsero infatti gli ufficiali che guidarono le guerre d’indipendenza. La riforma religiosa dei Borbone, infine, rispose a più ragioni. In primo luogo molti intellettuali di corte giudicavano la Chiesa una zavorra per lo sviluppo economico e i piani di modernizzazione della Corona, a causa sia della sua dottrina sia delle sue enormi ricchezze improduttive. In secondo luogo essi ritenevano che l’enorme potere della Chiesa, specie di quegli ordini religiosi che come i gesuiti dominavano l’insegnamento superiore, limitasse l’autorità del re e dei suoi funzionari. E che la razionalizzazione dell’impero e l’accentramento del potere che ne era l’ineludibile corollario richiedessero lo sradicamento di quel vero e proprio Stato nello Stato che erano gli ordini religiosi, e i gesuiti in particolare. Fu in tale contesto che nel 1767, allorché i gesuiti furono accusati in Spagna d’avere ordito un ammutinamento contro il sovrano, questi ne decretò l’espulsione. Cui fecero seguito in America la secolarizzazione delle loro cospicue proprietà, cioè l’espropriazione dei loro beni, e il potenziamento del clero secolare, su cui il sovrano aveva giurisdizione attraverso il Real Patronato, rispetto al clero regolare, sul quale egli non vantava alcun privilegio. Tali misure generarono diverse reazioni. Parte del clero superiore, intriso d’ideali riformatori, le ritenne necessarie e le accolse con favore. Ma sia il basso clero sia vasti strati popolari in più punti dell’America spagnola si sollevarono contro le autorità regie accusandole di empietà. In quella che diverrà un’alleanza ricorrente in vari altri momenti della storia latinoamericana.

attraverso cui la Corona potesse meglio amministrarli, governarli in forma più diretta e spremerne più risorse in modo più efficiente. Se così vollero i regni iberici, non fu solo perché così imponeva lo spirito dei tempi, cioè l’ambiente progressista del Secolo dei Lu27

mi. Ma anche perché essi cercavano in tal modo di far fronte al declino che li assediava ed alla sfida posta loro dalle nuove potenze. Le quali s’affacciavano all’orizzonte non più come gl’imperi universali del passato, ma come moderni ed aggressivi Stati-nazione. Per tenere il loro passo, e per contenere le loro crescenti scorribande militari e commerciali nell’America iberica, Spagna e Portogallo dovevano modernizzarsi. E per farlo, stringere il controllo e intensificare lo sfruttamento di quegli enormi imperi governati in modi ormai obsoleti. A onor del vero non sempre quelle riforme furono efficaci e raggiunsero l’obiettivo sperato. Specie nell’America ispanica. O almeno lo furono per taluni aspetti ma non per altri; e in alcuni luoghi, ma non in tutti allo stesso modo. Quel che però qui importa è quel che ne conseguì. Nelle Americhe esse diffusero la percezione che il legame con la madrepatria fosse cambiato. Che se un tempo tutte le parti dell’impero erano state parimenti soggette ad un sovrano, ora v’erano delle evidenti gerarchie tra le metropoli e le colonie, dove le prime ostentavano ormai un primato nei confronti delle seconde. E che non era più l’obbedienza al re che ne teneva insieme le parti, bensì quella a Spagna e Portogallo, ormai unite al loro interno e intese come moderni Stati-nazione. Le élites creole in America cominciarono perciò a sentirsi tradite sul piano politico e danneggiate su quello economico. Tradite, perché così private dei loro diritti antichi, cioè della loro autonomia e dei loro poteri. Danneggiate, perché soggette assai più d’un tempo alle necessità economiche della Corona. Da qui al passo successivo, cioè alla perdita di fiducia nel patto coloniale, mancava ancora molto. Ma le condizioni perché ciò avvenisse maturarono molto in fretta. Valgano, infine, due annotazioni. La prima è che, seppur in termini astratti e non politici, crebbero tra gli americani sul finire del Settecento dei vaghi sentimenti patriottici. Acuiti per reazione dalla centralizzazione iberica, essi divennero poi embrione delle future nazioni. La seconda è che il panorama economico e demografico americano cominciò a cambiare. E che, al fianco dei vecchi nuclei coloniali dove il potere iberico era più radicato, ne sorsero di nuovi e pulsanti, specie intorno alle città di Caracas e Buenos Aires. Città dove il retaggio ispanico era più tenue e superficiale, dove il commercio inglese attecchì più in fretta e dove non a caso più forti furono in seguito i moti indipendentisti. 28

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2.

L’indipendenza dell’America Latina

1. Le invasioni napoleoniche A scatenare il moto che mandò in cenere i vecchi imperi e condusse all’indipendenza dell’America Latina furono gli eventi europei. Com’era inevitabile, essendo allora Europa, come s’è detto, l’America iberica. A gettare il cerino che appiccò l’incendio cui le riforme borboniche e pombaliane avevano in certa misura preparato il terreno fu infatti Napoleone Bonaparte. Sia le sue guerre, che a cavallo tra Sette ed Ottocento trascinarono la Spagna nei conflitti europei e bloccarono a lungo le comunicazioni tra la penisola iberica e l’America. Sia, soprattutto, le sue invasioni: del Portogallo nel 1807; della Spagna l’anno successivo. Quello che prese allora avvio nei regni americani di Spagna e Portogallo fu un lungo, complesso e spesso violento processo storico che cambiò volto al mondo. Per molte ragioni: perché sancì il declino dei grandi imperi cattolici e universalisti delle potenze iberiche; perché di riflesso spianò la via all’ascesa politica, commerciale e militare dei moderni Stati-nazione europei, a cominciare dalla Gran Bretagna; perché ciò facendo aprì del tutto le porte di quella parte d’America alle moderne idee del Secolo dei Lumi; perché, infine, favorendo l’emancipazione politica del Nuovo Mondo impresse un brusco strappo al cordone ombelicale che l’aveva legato all’Europa e gettò le premesse per la sua americanizzazione: cioè per l’inizio di un cammino destinato a far coincidere tempo e spazio, storia e geografia, lungo il quale l’America iberi30

ca cercò di plasmare una propria, originale civiltà. Figlia di quella iberica, ma da essa diversa e indipendente. Ma perché le invasioni napoleoniche, in fin dei conti durate alcuni anni ma chiuse dalla sconfitta francese nel 1815, innescarono un tal pandemonio nelle Americhe? Per rispondere, occorre subito distinguere il caso del Brasile da quello dell’America ispanica. Poiché, infatti, la corte portoghese dei Braganza riuscì, protetta dagli inglesi, a lasciar Lisbona prima dell’arrivo del Bonaparte, al suo impero non toccò la sorte di quello ispanico: la decapitazione. Benché attaccato, in altri termini, l’impero del Portogallo non fu privato di colui che ne garantiva l’unità e la legittimità: il re. Il quale, anzi, mettendosi in salvo con la famiglia regnante a Rio de Janeiro sancì il peso e l’importanza della colonia brasiliana. Premessa, come si vedrà, di un’indipendenza indolore. Assai diverso, anzi opposto, fu il caso della Spagna e del suo impero. A Madrid, infatti, Napoleone imprigionò il re, Carlo IV, e il figlio, cui questi cedette il trono, Ferdinando VII. Dopodiché impose al potere il fratello Giuseppe. La figura, cioè il sovrano, che per secoli aveva garantito l’unità di quell’immenso impero, era d’un tratto scomparsa. E al suo posto v’era un monarca imposto dall’invasore. Non solo, ma il re al quale gli americani erano legati da un patto d’obbedienza era imprigionato. È vero che ben presto in Spagna divampò la resistenza contro i francesi. E che a Cadice si formò una Junta che rivendicò il potere in nome del re prigioniero e in tale veste chiese obbedienza ai sudditi americani. Ma la caduta del Borbone aveva ormai imposto nell’America ispanica questioni chiave che nessuno, in quella portoghese, dovette porsi. Sia alle élites creole, sia ai funzionari della Corona. Assente il re legittimo, chi guidava il regno? E sulla base di quali diritti? Forse il re usurpatore, Giuseppe Bonaparte? O la Junta di Cadice, che del sovrano s’era arrogata la supplenza? Oppure ognuno, città o regno, in Spagna e in America, tornava libero? Padrone, cioè, del proprio destino e della propria sovranità politica finché il re non avesse recuperato il trono? Perché obbedire a Cadice, d’altronde, si domandarono molti americani? Benché implicito, il loro patto politico era col re, non con chi in Spagna pretendesse di farne le veci. Impero organico, sterminato ed eterogeneo, le cui sparse membra erano tenute insieme da un re ora senza trono, quello spagnolo si trovò perciò d’un tratto privo del suo principio d’unità. 31

Le cause e il metodo Come su quelle di ogni evento storico di dimensioni epocali, anche sulle cause che fecero crollare gl’imperi iberici in America e andare perfino in pezzi quello spagnolo vi sono molte interpretazioni. Spesso in contrasto o competizione tra loro. È d’altronde normale che un processo storico di tale portata abbia radici complesse e che nessuna causa basti a spiegarlo senza considerarne altre che la precedono o seguono. V’erano perciò cause strutturali, cioè remote, senza le quali è pensabile che l’invasione di Napoleone non avrebbe causato gli effetti a catena che invece causò. Fanno parte di tale ambito le riforme borboniche e le reazioni ch’esse causarono, ma anche il consolidamento col tempo di usi, interessi, legami sociali e identità tali da configurare a livello locale in America delle proto-nazioni. Ma contano nondimeno le cause congiunturali, essendo parimenti ipotizzabile che quelle premesse remote non sarebbero di per sé bastate a causare la rottura del vincolo americano con la Spagna qualora Napoleone non avesse, con la sua invasione, causato un vuoto di potere. Senza di essa, insomma, l’indipendenza non sarebbe avvenuta allora né in quel modo. Va poi da sé che le cause si possono catalogare altrimenti. Ecco allora imporsi all’attenzione le cause endogene. Quelle cioè che attribuiscono l’indipendenza in primo luogo ai profondi mutamenti intervenuti nella società e nella politica spagnole man mano che il vecchio impero cattolico tentava l’improba metamorfosi in un moderno Stato-nazione. E ai mutamenti che contemporaneamente investirono le società creole. Ma ecco reclamare rilevanza non minore le cause esogene, riassumibili nel clima rivoluzionario di quei tempi che già avevano visto gli Stati Uniti distaccarsi dalla Corona britannica e la Francia scuotersi nella Grande Rivoluzione. La catalogazione potrebbe continuare ancora, disponendo le cause in un altro ordine: le cause politiche, quelle sociali, per non dire di quelle ideali o spirituali. E sarebbe infine lecito e agevole osservare che non tutte le cause operarono con uguale intensità in tutti i luoghi e che le strade che condussero all’indipendenza dell’America iberica furono in realtà varie e tra loro talvolta assai diverse. Quel che qui importa è perciò stabilire innanzitutto un metodo. Quello per cui lo studio d’un complesso processo storico richiede la consapevolezza che le sue cause saranno state molteplici e altrettanto complesse.

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2. La fase autonomista Giunta in America col ritardo e l’incertezza che l’epoca e i suoi mezzi imponevano, la notizia della prigionia di Ferdinando VII vi seminò scompiglio. Proprio perché la sua improvvisa caduta dal trono poneva molti e spinosi interrogativi. Quel che vi avvenne non fu dunque lineare, bensì spesso caotico; e lungi dal replicare un copione unico ovunque, i fatti seguirono diverse vie. Due cose valgono però in generale. La prima è che, saputo della caduta del re e dinanzi al problema di chi avesse ora il diritto di esercitare il potere in modo legittimo, i principali centri amministrativi americani reagirono allo stesso modo in cui avevano reagito le città spagnole in condizioni di farlo: creando delle Juntas, cioè degli organi politici deputati all’esercizio dell’autorità. Sebbene poi soltanto alcune di esse si consolidarono, in particolare quelle di Caracas e Buenos Aires, mentre altre, da Quito a Città del Messico, caddero per vari motivi, perlopiù a causa dei dissidi tra creoli e spagnoli o tra gli stessi creoli. Dissidi sia sulla natura e la portata dei nuovi poteri, sia sul rapporto con la Junta di Cadice, presto sostituita da un Consejo de Regencia che reclamò l’obbedienza delle colonie, tanto da chiamarsi de España e Indias. Il secondo tratto generale di quel che avvenne è che le Juntas sorte in America dichiararono di assumere il potere in via transitoria; in nome cioè di Ferdinando VII, perciò chiamato el deseado, il desiderato, e fintanto ch’egli non fosse tornato sul trono. Esse non proclamarono dunque l’intenzione di separarsi dalla Madrepatria, di abbandonare per sempre l’impero. Salvo in rari casi, coloro che le formarono non espressero insomma una volontà di indipendenza. I creoli che guidarono quelle Juntas furono però consapevoli delle implicazioni dei loro atti. Pur senza minacciare il patto politico che li legava al sovrano nel seno dell’impero, infatti, essi avevano ben chiaro in mente che la sua assenza dava loro l’occasione di recuperare l’autonomia perduta o ridotta a causa della volontà centralizzatrice dei Borbone. Di riformulare insomma a loro vantaggio il vincolo con la Corona. Tanto che oltre a dichiararsi sovrane e ad esercitare i poteri dello Stato, quelle Juntas revocarono in molti casi il monopolio commerciale della Spagna e liberalizzarono il commercio con gl’inglesi. Per tale motivo questa prima fase del processo d’indipendenza, durata grosso modo fino alla restaurazione sul trono di Spagna 33

I creoli e Cadice All’inizio del 1810 la Junta di Cadice emise un decreto con cui convocò le elezioni del Parlamento, le Cortes. Precisò anche che ogni non meglio definita Provincia americana avrebbe potuto eleggere un deputato da inviarvi in propria rappresentanza. E che alle elezioni, che si tennero tra quell’anno e quello successivo, avevano diritto di partecipare anche gli indiani e i meticci. Ai creoli d’America s’aprì allora dinanzi un bivio: o rifiutavano di riconoscere l’autorità del Consejo de Regencia di Cadice e governavano in modo autonomo attraverso le loro Juntas sfidando così le autorità spagnole, oppure aderivano all’invito ricevuto e coglievano l’occasione per inviare i loro delegati nella Penisola e tutelare gli interessi delle colonie nei dibattiti costituenti. Quella che s’aprì a Cadice fu in effetti un’Assemblea moderna che riuniva i rappresentanti dell’orbe spagnolo nel suo complesso. Un’Assemblea per di più animata da un forte spirito liberale, data la composizione sociale e il profilo intellettuale della maggior parte dei suoi membri. Ed a cui nel corso del tempo parteciparono 300 deputati, 64 dei quali americani. Le rivendicazioni che costoro vi presentarono riguardavano la rappresentanza egualitaria tra spagnoli e americani, la libertà di pro-

 di Ferdinando VII nel 1814, suole essere in realtà chiamata autonomista: poiché l’autonomia, e non l’indipendenza, era perlopiù l’orizzonte delle élites creole che per la prima volta in America assunsero il potere in prima persona in quella che si configurava perciò come una rivoluzione politica. Tale quadro sarebbe però parziale e distorto se non includesse quel che intanto accadde in Spagna. Dove a Cadice il Consejo de Regencia, posto dinanzi ai medesimi dilemmi delle Juntas americane, chiamò all’elezione delle Cortes. Di un’Assemblea rappresentativa incaricata cioè di redigere una Costituzione. La quale, la Costituzione di Cadice votata nel 1812, aveva sì la funzione di creare un potere legittimo in assenza del re. Ma ancor più quella d’imporre dei limiti al potere assoluto del sovrano allorché questi, cacciati i francesi, fosse tornato sul trono. In tal senso, come si vedrà, essa era una Costituzione liberale. Fatto senz’altro eccezionale, ai dibattiti del34

duzione e di commercio, il libero accesso alle cariche civili, ecclesiastiche e militari e la garanzia che la metà di esse andasse ai residenti locali. Tali richieste furono oggetto di accesi dibattiti e il cosiddetto partito americano si trovò spesso schiacciato dalla maggioranza spagnola. Tanto che il risultato non fu alla fine quello in cui esso aveva contato. Da un lato, infatti, la Costituzione approvata a Cadice era una Costituzione liberale. Il che la rese gradita ai liberali americani ma indigesta e perciò sgradita alle élites creole più strettamente legate alla Spagna e conservatrici, come quelle del Perù e della Nueva España. Le quali ne ritardarono e ostacolarono l’attuazione. Essa demoliva infatti il vecchio assolutismo e istituiva la monarchia costituzionale, che imponeva stretti limiti al potere del sovrano. Dava inoltre esplicite disposizioni riguardanti il principio elettorale, le libertà individuali e il diritto di cittadinanza di indiani e meticci. Oltre a cancellare il tributo degli indiani, i lavori forzati e l’Inquisizione. Al tempo stesso, tuttavia, era una Costituzione centralista. Tale cioè da essere intesa dalle élites americane come una replica dello spirito accentratore delle riforme borboniche. I creoli non vi trovarono infatti sufficiente tutela del diritto di rappresentanza egualitaria e di accesso alla cariche che reclamavano. Né delle libertà economiche che da tempo rivendicavano.

l’Assemblea costituente di Cadice furono invitati anche i rappresentanti americani. In America, perciò, fatta eccezione per quei territori che in Venezuela e nel Rio de la Plata restavano sotto il controllo delle rispettive Juntas, cominciarono i preparativi per eleggere i costituenti da inviare in Spagna. Nel complesso, quell’esperienza fu assai importante per due motivi. Il primo è che a tal fine gran parte dell’America ispanica visse la sua prima esperienza elettorale, cui presero spesso parte anche vasti strati popolari. Il secondo è che, benché bendisposti verso le richieste americane, i costituenti spagnoli ribadirono il principio del primato peninsulare. Col che assestarono un altro colpo alla fiducia e alle aspettative dei creoli d’oltremare.

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3. La politica moderna Prima di procedere e vedere come quella ch’era sorta come una reazione antifrancese «in nome di Ferdinando VII» si rivolse contro la Spagna fino a farne crollare l’impero, occorre chiarire talune questioni chiave allora in gioco. E su cui gli storici continuano a dibattere e a dividersi. Per taluni i moti americani che approdarono all’indipendenza furono dei moti liberali. Quella ispanoamericana sarebbe perciò stata parte della più generale ondata rivoluzionaria che già negli Stati Uniti e in Francia aveva spazzato via l’ancièn régime e delle nuove correnti di idee che in tutto l’Occidente miravano ad abbattere l’assolutismo invocando la sovranità del popolo. Non v’è dubbio, in effetti, che i leader indipendentisti fossero infarciti di idee liberali, né che proclamassero la necessità di demolire le fondamenta della società corporativa per creare una società di «eguali». Di una società, cioè, in teoria fondata su individui autonomi, responsabili, proprietari, tutti dotati di uguali diritti civili a prescindere dalla loro collocazione nella scala sociale o nello spettro etnico. Cardine di quel nuovo mondo, dell’avvento della politica moderna ch’essi ambivano a far nascere dal tracollo dell’assolutismo spagnolo era la Costituzione, di cui infatti corsero a dotarsi le Juntas man mano sorte in America. Proprio come i liberali in Spagna. Un nuovo patto sociale e politico, in altri termini, che codificasse, organizzasse e delimitasse il potere politico e lo legittimasse in nome del popolo sovrano e non della mera volontà di Dio. Per altri, tuttavia, le cose stavano altrimenti. Ad assestare il decisivo colpo al legame dell’America con la Spagna sarebbe stata la progressiva trasformazione di quest’ultima da impero cattolico a moderno Stato-nazione. E ciò fin dalle riforme dei Borbone, che accentrando il potere, razionalizzando l’economia, colpendo l’autonomia delle società locali e attentando al potere ecclesiastico, avrebbero violato le libertà antiche prima d’allora garantite alle colonie. Le libertà di cui avevano cioè goduto gli americani in base al vecchio regime pattizio. La questione è assai importante, poiché in tal caso l’indipendenza dell’America Latina non sarebbe stata il frutto di una rivoluzione liberale contro l’assolutismo spagnolo che negava le libertà moderne, quelle civili e individuali. Bensì della reazione americana in difesa delle libertà antiche, quelle corporative coloniali, contro la mo36

L’immaginario antico Riferimenti antichi e nuovi si intrecciarono senza sosta nel dibattito intellettuale che precedette e accompagnò le lotte per l’indipendenza dell’America spagnola. Da un lato spirò con forza tra le élites colte il vento dell’Ilustración, la quale fu nel mondo ispanico soprattutto un nuovo modo di concepire la vita attraverso gli ideali della libertà individuale e dell’affermazione della ragione sul dogma religioso. Figlie di quel clima furono, durante le guerre contro la Spagna, le invocazioni dei rivoluzionari ai concetti su cui ambivano costruire il nuovo ordine indipendente: il popolo, la Costituzione, la libertà, la rappresentanza, la patria. Dall’altro lato rimaneva in realtà radicata a tutti i livelli della società coloniale la tradizionale concezione organicista dell’ordine sociale, in base alla quale la società era un organismo, o una famiglia alla cui testa stava il re. O chi per lui. E che priva di essa quel corpo era votato alla dissoluzione. Quell’organismo era a sua volta formato da corpi, ognuno dei quali svolgeva precise funzioni per mantenere l’armonia dell’insieme. I nobili dovevano condurre la guerra, il clero pregare per il suo successo, i ricchi contribuire con generose donazioni, i letterati lottare con la penna, le donne assistere i feriti, le comunità indiane prestare uomini e pagare tributi e così via. Collante di quell’ordine era la religione, perennemente invocata a suo fondamento. Proprio alla religione e alla sua difesa finirono perciò in molti casi per richiamarsi gli stessi rivoluzionari per mobilitare un popolo che alle loro idee rimaneva estraneo. Le quali finirono perciò per essere assorbite o neutralizzate dalla forza di quell’immaginario antico.

dernizzazione imposta dalla Spagna. Le Cortes, in tal caso, le elezioni e le stesse Costituzioni non sarebbero stati organi della moderna sovranità popolare espressa da cittadini dotati di uguali diritti politici. Ma dell’antica architettura corporativa dove i soggetti dell’ordine politico e sociale restavano le corporazioni e dove la sovranità risiedeva in ultima istanza in Dio e nella sua legge. Il tema, va da sé, è complesso ma assai meno astratto di quanto appaia. Tanto che ci accompagnerà d’ora in poi passo passo, essendo sfondo dei grandi nodi storici dell’America Latina. Resta però da chiedersi: chi ha ragione? Quale delle due letture, qui esposte in modo molto semplificato, è più fondata? Benché salomonica, la rispo37

sta più corretta è probabilmente: entrambe. Tutti e due tali filoni, benché in dosi variabili da una regione all’altra delle Americhe, finirono infatti per confluire nella reazione a quello che seppur per diversi motivi essi cominciarono a vivere come il «dominio» spagnolo. Un dominio coloniale laddove un tempo v’era stata coabitazione in un medesimo spazio imperiale. Gli uni, antesignani dei conservatori, mossi dalla reazione contro ciò che distruggeva del vecchio ordine; gli altri, liberali in nuce, per quel che quel dominio negava del nuovo ordine che volevano veder nascere. Anzi, proprio il fatto che tali correnti confluissero è forse la spiegazione del brusco crollo d’un edificio storico così antico. Caduto l’impero, non fu perciò un caso che gli Stati indipendenti si fondassero sulla Costituzione e la sovranità del popolo. Ma nemmeno che dietro tali nuove vesti restasse più che mai solida e vitale l’antica società corporativa. 4. Le guerre d’indipendenza Sconfitti i francesi e tornato sul trono spagnolo nei primi mesi del 1814, Ferdinando VII fece presto pentire molti di coloro che tanto l’avevano deseado. Complice il nuovo contesto creato in Spagna ed in Europa dalla caduta di Napoleone, quello che l’anno successivo culminò nella Restaurazione del Congresso di Vienna, il re dichiarò infatti nulla la Costituzione di Cadice. Restaurò insomma l’assolutismo, tradendo le aspettative dei liberali di Spagna e d’America, che infatti perseguitò con accanimento. Proprio in America ordinò perciò l’immediato invio di truppe per riportarvi l’ordine e l’obbedienza alla Madrepatria. Specie laddove più era stata messa alla prova la sua autorità: in Venezuela, dove i rinforzi spagnoli costrinsero alla fuga l’esercito repubblicano di Simón Bolívar, il leader indipendentista locale; e nel Rio de la Plata, dove però i creoli locali, già autori della rivoluzione del maggio 1810, proclamarono l’indipendenza e restarono fuori dalla portata degli eserciti del re. Fu allora che, a partire da quei territori, prese il via la vera e propria guerra per l’indipendenza americana dal dominio spagnolo. La guerra cioè contro un impero divenuto ormai apertamente ostile alle rivendicazioni americane di maggiore uguaglianza, libertà e autonomia. Un conflitto che per anni, fino all’atto conclusivo della battaglia di Ayacucho nel 1824, seminò morte e distruzione in Sud Ame38

Simón Bolívar Nato a Caracas nel 1783, era d’origini aristocratiche e di formazione intellettuale illuminista. Oltre che in quella militare, Bolívar lasciò una profonda impronta nella storia politica e intellettuale dell’epoca e un’eredità che elaborata in mito non cessa di esercitare forte influenza in gran parte della regione. Le funzioni politiche ch’egli svolse furono innumerevoli e di crescente importanza: fu inviato in Europa in cerca d’aiuti dalla Junta di Caracas del 1810 prima di diventare, nel 1819, presidente della Gran Colombia, carica cui nel 1824 aggiunse quella di dittatore del Perù. In tali vesti abolì la schiavitù e propose, senza successo, una grande confederazione americana per contrastare la frammentazione politica avvenuta alla caduta dell’impero. In quanto al suo pensiero, espresso sia in scritti e discorsi, sia, soprattutto, nelle Costituzioni di cui fu autore, Bolívar vi affrontò i nodi della legittimità del potere nel continente appena liberato e della forma costituzionale più adeguata alla sua realtà sociale. Deluso dal fallimento della prima repubblica venezuelana, nel Discurso de Angostura del 1819 accantonò il liberalismo dei primi tempi in nome di una pessimistica e disincantata analisi della società venezuelana. Società ch’egli trovò pervasa d’ignoranza ed arretratezza tali da impedire l’esercizio delle virtù repubblicane. Ne derivò la sua difesa d’un governo forte e centralizzato. Un governo guidato da un presidente-monarca in grado di garantire ordine e unità ai nuovi Stati, ma anche di «plasmare» il popolo con la sua azione pedagogica. Per tali ragioni la sua figura è controversa e si presta a diverse letture. Conservatore per taluni, poiché fautore d’uno Stato autoritario garante dell’ordine politico, fu leader rivoluzionario secondo altri, per lo spirito giacobino con cui ambì a unire il popolo. Di certo morì sconfitto, nel 1830, senza veder realizzati i suoi progetti.

rica, benché non ovunque con la medesima intensità. E che rischiò spesso di prendere altre pieghe: di trasformarsi cioè da rivoluzione politica per l’indipendenza dalla Spagna, come difatti in essenza fu, in guerra sociale tra castas, tra gruppi etnici. A condurla furono i due più celebri condottieri di quell’epopea combattuta in condizioni estreme, tra climi insalubri ed enormi ostacoli naturali: Simón Bolívar, che penetrato in Nueva Granada guidò la liberazione delle attuali Colombia e Venezuela, prima di puntare 39

verso l’Ecuador ed il Perù, dov’era asserragliato l’ultimo fortilizio del potere spagnolo e dove le élites creole erano in generale meno propense che altrove a sposare la causa liberale e indipendentista; e José de San Martín, il generale argentino che muovendo dal Rio de la Plata attraversò le Ande e liberò il Cile, per poi puntare anch’egli verso il Perù, dove giunse per primo, proclamò l’indipendenza e assestò duri colpi agli spagnoli senza però ottenerne il crollo. Finché i due Libertadores, bloccati da quell’ultima resistenza spagnola, s’incontrarono a Guayaquil nel 1822 e riunirono i loro eserciti. Un incontro storico sui cui dettagli aleggia il mistero, salvo sulle note divergenze tra i due leader in merito al futuro del continente. Bolívar era infatti fautore di una confederazione di repubbliche indipendenti e San Martín propendeva per una soluzione monarchica costituzionale sotto la Corona di un principe europeo. Quel ch’è certo è che mentre il secondo uscì di scena, Bolívar assunse la guida delle operazioni e condusse l’ultimo assalto agli spagnoli sulla sierra peruviana. Un assalto condotto con successo, grazie anche alle profonde spaccature che ormai fendevano l’esercito realista e le élites creole del Perù. Entrambi divisi e disorientati dalle notizie sui convulsi fatti di Spagna, dove nel 1820 la rivolta del generale Riego aveva nuovamente imposto a Ferdinando VII la Costituzione di Cadice e le libertà moderne che non tutti in America erano ansiosi di introdurre. Finché anche quell’ultima trincea cadde ponendo così fine all’impero spagnolo in Sud America. 5. Le vie all’indipendenza Quello che portò l’America iberica all’indipendenza, fatta eccezione per Cuba e Porto Rico rimaste per il momento spagnole, non fu un cammino lineare. Fu anzi un convulso processo al quale finirono per prender parte sia coloro che della Spagna temevano la Restaurazione, sia coloro che paventavano la Costituzione. Un processo che in taluni casi badò in primo luogo di non aizzare le castas, mentre in altri dovette mobilitarle; che fu talvolta lungo, violento e distruttivo, e in altri breve e indolore. Del tutto peculiare fu l’indipendenza del Brasile, avvenuta nel 1822 con lo sdoppiamento della Corona dei Braganza. Allorché, cioè, Giovanni VI, rientrato a Lisbona su insistenza delle Cortes li40

berali, lasciò al figlio Pedro I la reggenza del Brasile, dov’egli, vista l’ostilità delle élites locali alle pretese portoghesi d’imporre il centralismo prevalso prima della fuga della Corte a Rio, istituì una monarchia costituzionale indipendente. Per questo motivo, e in generale poiché, come s’è visto, in Brasile non s’era creato alcun vuoto di potere, la sua indipendenza fu assai diversa da quelle delle colonie ispaniche: fu infatti pacifica e non comportò alcuna mobilitazione popolare; e mentre dall’impero ispanico nacquero numerose repubbliche, il Brasile conservò l’unità territoriale sotto la forma monarchica, che mantenne fino al 1889. Non ovunque però le cose andarono allo stesso modo, neppure nell’America ispanica. Dove quel che accadde nella sua parte meridionale, sconvolta dalle lunghe campagne militari di quegli anni, non si replicò in Messico, dal cui destino dipese in un primo momento anche tutta l’America Centrale. Anche qui l’invasione napoleonica della Spagna aveva a suo tempo suscitato grandi fermenti politici e stimolato la nascita di una locale Junta. La quale fu però presto sciolta dalle autorità regie, il che ne indusse i sostenitori, guidati da padre Miguel Hidalgo, a radunare un esercito popolare, perlopiù formato da contadini indiani e meticci, e a scatenare la guerra agli spagnoli. Sennonché né il ricorso alla violenza fu sufficiente per sconfiggere l’esercito realista, né l’appello ai contadini indiani risultò gradito alle élites creole. Le quali, ben consce del bagno di sangue bianco occorso ad Haiti qualche anno prima, quando l’indipendenza era stata raggiunta in seguito a una violenta guerra etnica e sociale, temevano una rivolta indiana ben più del dominio spagnolo, al quale erano d’altronde assai legate. Fatto sta che gli indipendentisti furono a lungo tenuti a bada dall’esercito spagnolo guidato da un ufficiale creolo conservatore, Agustín de Iturbide. Finché questi, saputo che i liberali spagnoli avevano imposto a Ferdinando VII il ritorno alla Costituzione, si decise a farsi garante dell’indipendenza messicana sottoscrivendo nel 1821 il Plan de Iguala, che prevedeva sì un Messico indipendente dotato delle sue Cortes, ma deciso a proteggere la Chiesa e ad avere come sovrano un Borbone. Col che il Messico parve accedere all’indipendenza per la via conservatrice. Ma il piano fallì per le resistenze spagnole e la pretesa d’Iturbide d’assumere egli stesso il titolo d’imperatore cadde per mano della reazione liberale e repubblicana, che lo rovesciò e instaurò la Repubblica. 41

La dottrina Monroe Vero e proprio manifesto destinato a orientare da allora in poi i rapporti degli Stati Uniti con la parte latina dell’emisfero, la Dottrina Monroe fu enunciata nel 1823 dall’allora presidente americano, benché in realtà ne fosse autore il suo segretario di Stato. L’anno dopo, dunque, che il governo statunitense aveva riconosciuto ufficialmente l’indipendenza dell’America spagnola e quando il futuro dei nuovi Stati che ne erano sorti era più che mai incerto, sia per la loro fragilità interna, sia per le mire che su di essi avanzavano talune potenze europee, specie la Gran Bretagna, ma anche la Francia e in generale l’intera Santa Alleanza formata dalle autocrazie di Austria, Prussia e Russia. A tale contesto sono da ricondurre i due pilastri su cui si fondava la Dottrina. Il primo dei quali era un avvertimento agli Stati europei affinché non intervenissero negli affari dei nuovi Stati americani. Il che serviva a proteggerne l’indipendenza, ma era espresso in modo tale da inaugurare una lunga stagione di unilateralismo degli Stati Uniti. Ogni intervento europeo del tipo che la Dottrina voleva scongiurare, infatti, sarebbe stato inteso a Washington come una minaccia alla propria sicurezza. Col che il governo dell’Unione Americana s’erigeva a portavoce dell’intero emisfero e si premurava di

 In quanto, infine, al Sud America, le guerre prima e l’abbattimento dell’impero spagnolo poi misero le élites liberali americane che n’erano state protagoniste dinanzi alla cruda realtà che di lì in avanti toccò loro affrontare. In primo luogo non poterono evitare di constatare che il popolo sovrano ch’esse invocavano a fondamento del nuovo ordine politico era immaginario, più che reale. Che quelle società colme di indiani, schiavi e meticci d’ogni genere erano intricati puzzles e non certo «un popolo». Men che meno il popolo virtuoso presupposto dai liberali e dalle loro Costituzioni. Ma semmai un vulcano pronto ad esplodere sotto i loro piedi ora che comandavano laddove un tempo aveva regnato un re così lontano d’apparir spesso benigno a quelle genti. In secondo luogo, i leader indipendentisti non poterono impedire che, scomparso il sovrano, colui cioè che dell’impero aveva incarnato l’unità politica, l’intero organismo 42

prevenire eventuali alleanze dei nuovi Stati americani con questa o quella potenza europea. Il secondo pilastro consisteva nel corrispettivo impegno degli Stati Uniti a rimanere estranei ai litigiosi affari europei e a quelli delle colonie europee già stabilite in America. Sintesi di entrambi i pilastri era la formula «l’America agli americani», la quale alludeva ai cardini dell’eccezionalismo statunitense, di cui la Dottrina era intrisa. Un principio in base al quale tanto l’Europa rappresentava il passato, impregnato di assolutismo e costellato di monarchie, quanto l’America incarnava il futuro e dunque lo spazio dove gli Stati Uniti avrebbero proiettato la loro civiltà democratica e repubblicana. Quest’ultimo aspetto preludeva al diritto e alla missione di cui essi si sentirono da allora investiti in America Latina. Quelli di esportarvi la nuova civiltà di cui erano fondatori, di dominare l’emisfero per elevare la condizione di quei popoli ritenuti inadeguati all’autogoverno a causa dei secoli che avevano trascorso sotto il dominio di monarchi e clero. Un principio destinato però a restare poco più che virtuale nel corso dell’Ottocento, quando l’influenza delle potenze europee in America Latina non fece che crescere e i loro interventi militari furono tutt’altro che rari. Ma che funse da bussola della politica statunitense e cominciò a manifestarsi in forma concreta dove gli Stati Uniti avevano priorità strategiche e la forza per imporle: dapprima in Messico e poi nella conca caraibica.

andasse in pezzi. E che ognuno di essi, libero dal patto di lealtà al re, si ritenesse in possesso della piena sovranità. Tanto che da un impero nacquero numerosi Stati, a loro volta in preda a violente ostilità tra città e province: tutte libere, tutte sovrane.

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3.

Le repubbliche senza Stato

1. Instabilità e stagnazione L’ingresso nella vita indipendente non fu per i paesi dell’America Latina una marcia trionfale. Tutt’altro. Un po’ ovunque, benché non dappertutto allo stesso modo e non sempre con la stessa intensità e gli stessi tempi, data la loro eterogeneità fin dai tempi coloniali e i diversi modi in cui avevano raggiunto l’emancipazione politica, essi entrarono in una stagione cosparsa di stenti e frustrazioni, di aspettative tradite più che di sogni raggiunti. I primi decenni successivi alle guerre d’indipendenza furono infatti perlopiù caratterizzati da instabilità politica e stagnazione economica. Almeno come tendenza, poiché le eccezioni non mancarono qua e là. L’instabilità politica si manifestò in generale nell’impossibilità delle nuove autorità politiche di imporre l’ordine e di far valere la legge e il dettato delle loro Costituzioni sui territori delle nuove nazioni, nella maggior parte dei casi soggetti a continue lotte tra caudillos. Figure su cui si tornerà. In tal senso si può dire che nuovi Stati erano sorti, ma sulla carta più che nella realtà. E che ad essi non s’accompagnava ancora alcun definito senso di appartenenza dei loro cittadini a una nazione, intesa come un’entità storica condivisa. Lo stesso principio federalista, adottato nella maggior parte dei casi dalle nuove autorità in reazione al centralismo spagnolo e causa di aspri conflitti in vari punti del continente, si rivelò in realtà il riflesso della manifesta impossibilità di fondare un ordine stabile e della 45

Liberali e conservatori La storia politica dell’America Latina dell’Ottocento è solcata dal costante conflitto tra liberali e conservatori. A dividerli non fu di solito l’origine sociale: in quell’epoca in cui l’attività politica era appannaggio di pochi notabili, entrambe quelle correnti nacquero nel seno delle élites creole, cioè al vertice della piramide sociale. Né si può dire fossero importanti nel distinguerle gli interessi economici o l’adesione o meno ai principi del libero mercato, cui grosso modo tutti riservarono una gran fede nel corso del secolo. Più che veri e propri partiti, tali tendenze rimasero infatti a lungo dei meri comitati di personalità in vista, bianche, colte e benestanti. In molti casi l’appartenenza all’uno o all’altro dei due raggruppamenti non dipese d’altronde neppure dall’ideologia, bensì dal territorio o dal gruppo familiare d’appartenenza. Detto ciò, lo spartiacque ideologico tra liberali e conservatori vi fu e fu assai importante. Riguardò in un primo momento la forma dello Stato e la distribuzione dei suoi poteri. Temi sui quali i liberali sostennero con più convinzione federalismo e parlamentarismo, ritenendo di ribaltare così il vecchio ordine politico. Ma sui quali i conservatori furono invece fautori di centralismo e governi forti, giudicando che quanto più fosse stato



frammentazione del potere in corso. In quanto alla stagnazione economica, pur non essendo sempre e ovunque paralizzati, la produzione e il commercio soffrirono allora sia degli effetti distruttivi delle guerre laddove l’indipendenza ne aveva richieste, sia quelli della rottura del legame con la Madrepatria. Prima ancora di veder da presso quel che accadde nel concreto su entrambi tali fronti, è però bene chiedersi perché. Come mai, cioè, l’indipendenza riservò tali amare sorprese. Non che vi sia una risposta univoca, né semplice, a fenomeni così complessi e a vicende durante le quali i nuovi Stati cominciarono a fare i conti coi problemi che li assillarono di lì in poi. Ma alcune ipotesi sono possibili. Per un verso sarà infatti possibile ricondurre quegl’immani problemi a fattori strutturali. Per secoli complementari di quelle iberiche e senza poter fare affidamento su mercati nazionali perlopiù asfittici o del tutto assenti per la carenza di vie di comunicazione tra una re46

salvato dell’ordine antico, tanto più se ne sarebbe giovata la stabilità del nuovo. Ancor più di tali nodi, però, su cui le due correnti non si contrapposero sempre in modo così netto, la più profonda discriminante tra di esse riguardò il ruolo della Chiesa cattolica nei nuovi Stati. Ruolo che i liberali intendevano ridurre e di cui invece i conservatori s’erigevano a protettori. Proprio quella fu infatti la maggior causa ideologica delle violente guerre civili ch’essi inscenarono, specie dalla metà del secolo in poi dato che prima d’allora i frequenti conflitti riguardarono il potere e il suo controllo. Sia gli uni che gli altri vissero però al contempo talune profonde contraddizioni imposte dalle circostanze storiche. Benché favorevoli alla causa della Chiesa, in cui coglievano un elemento chiave dell’ordine sociale, e benché essa fosse schierata a difesa dell’origine divina dell’autorità politica, i conservatori dovettero far propri il costituzionalismo liberale e il principio della sovranità popolare, non essendovi altra via per legittimare l’ordine politico una volta caduta l’opzione monarchica. Benché fautori d’una società formata da individui eguali e liberi, proprietari e indipendenti, alleggerita dal peso di autorità forti e governi accentratori, i liberali dovettero invece spesso ricorrere alla forza dello Stato per estirpare il retaggio corporativo e imporre le libertà in quel terreno che la storia aveva reso così poco fertile per le loro idee.

gione e l’altra, le economie dell’area si trovarono d’un colpo prive dei vitali introiti del commercio coloniale. Introiti che i commerci con le potenze in ascesa non furono a breve in grado di sostituire. Ne conseguì una sostanziale stagnazione commerciale e con essa una drastica riduzione delle finanze pubbliche, perlopiù frutto del prelievo su quei commerci. Col che i nuovi Stati si trovarono privi delle risorse necessarie per edificare le loro strutture e ancor più per imporre la loro autorità sul territorio nazionale. E a maggior ragione tali condizioni inibirono la formazione di una classe dirigente forte e coesa in grado di guidare il processo di State-building. Da ciò l’instabilità politica. Per un altro verso sarà però possibile spiegare quei fenomeni sulla base di fattori culturali. O prevalentemente in base ad essi, dato che le due spiegazioni non si escludono tra loro. Si potrà cioè dire, in termini generali, che la scomparsa del principio d’unità, cioè l’im47

pero, impose a quell’immensa regione la cruda realtà della sua pluralità. E più in particolare si potrà osservare che se da un lato i principi liberali furono abbastanza forti da erodere il vecchio ordine organico minandone i pilastri, non lo furono altrettanto per fondarne uno nuovo. Si aggiunga poi che ben presto le nuove élites liberali si scontrarono coi limiti della rivoluzione, la quale aveva prodotto un grande evento politico, l’indipendenza, ma era ancora lontana dall’innescare le trasformazioni sociali e culturali necessarie per il trionfo dei loro ideali. Con la monarchia iberica, cioè, le élites creole liberali non avevano abbattuto né tantomeno sradicato la società organica ch’essa aveva plasmato per secoli. In questo limbo, sospeso tra un ordine liberale ancora debole e un ordine corporativo ancora vitale e resistente, dove la stabilità pareva possibile solo quando un leader riusciva ad imporre un potere analogo a quello esercitato dal re nel vecchio impero, prosperò l’instabilità politica. A sua volta causa, con le violenze e le divisioni che la caratterizzarono, della stagnazione economica. 2. Le Costituzioni Fin verso la metà dell’Ottocento, e date per scontate le ovvie differenze da un paese all’altro, il panorama politico dell’America Latina fu dominato da evidenti contrasti. Da un lato, infatti, caduta la monarchia e il tipo di legittimità antica ch’essa aveva dato all’ordine politico, alle repubbliche non restò che fondarne una nuova basata sul principio liberale per eccellenza: la sovranità del popolo. Un principio che aveva nella Costituzione la sua logica espressione. Difatti non vi fu governo che non l’invocasse a suo fondamento. Da un altro lato, tuttavia, quelle Costituzioni furono allora in gran parte meri strumenti politici per legittimare poteri conquistati con la forza e mantenuti attraverso metodi ben diversi da quelli presupposti dai principi liberali in esse enunciati. Tanto che esse si succedettero l’una all’altra con grande frequenza e spesso rimasero poco più che eleganti testi privi di conseguenze pratiche. Carta straccia, secondo alcuni. E ciò mentre il potere reale s’organizzava fuori da esse e in particolar modo si frammentava e ruralizzava. Mentre, cioè, l’autorità politica cadeva nelle mani dei caudillos, capi politici e militari in grado di esercitarlo con pugno di ferro su un determinato territorio; e 48

mentre lasciava le città quasi fossero vuoti simulacri di istituzioni impossibilitate a imporre le loro leggi ai potentati di provincia e di campagna. Laddove cioè il cuore della vita locale pareva giacere da quando gli scambi esteri stagnavano. Il fatto che le Costituzioni fossero in gran parte inoperanti non le rende però insignificanti. Proprio attraverso di esse e dei loro cicli è anzi possibile individuare i nodi storici dinanzi ai quali si trovò allora l’America Latina. Quelle della prima ondata, coeve all’indipendenza e alle lotte per conseguirla, espressero in molti casi un ottimista liberalismo romantico, dottrinale, talvolta così astratto d’apparire avulso dalla realtà sociale che era chiamato a regolare. Su cui, infatti, incise solitamente poco. In quanto reazioni all’assolutismo spagnolo e al timore che una nuova tirannia ne facesse le veci, quelle prime Costituzioni non si limitarono a introdurre le libertà civili individuali e ad abolire taluni retaggi corporativi, come la schiavitù e le imposte alle comunità indiane. Ma in generale previdero poteri esecutivi deboli, Parlamenti con ampie funzioni, Stati federali, diritto di voto molto esteso. Vista però l’inefficacia di quei testi e constatato che non bastava proclamare le virtù per indurre i cittadini a praticarle, specie in quei contesti dove la segmentazione sociale rendeva complesso individuare i limiti della cittadinanza, una seconda ondata costituzionale, durata più o meno dal conseguimento delle indipendenze fino a metà secolo, espresse principi più conservatori e centralisti. Ora richiamandosi alla Costituzione di Cadice, particolarmente gradita ai professionisti civili residenti nei centri urbani; ora al modello napoleonico, molto popolare tra i militari. Tale nuova ondata postulò in sintesi la necessità di adattare il principio liberale della Costituzione alle tradizioni e alla realtà sociale locali. Realtà su cui prevalse il giudizio amaro e pessimista osservato in Simón Bolívar. Non a caso le nuove Costituzioni badarono molto più all’ordine che alle libertà, limitarono l’accesso al voto in base al censo e accantonarono l’ambizione di limitare il potere ecclesiastico. Anzi, tesero a vedere nella Chiesa un efficace instrumentum regni. Infine istituirono governi forti e Stati centralisti, sotto il cui peso perì l’entusiasmo federalista dei primi anni di vita indipendente. Il che non bastò però a renderle più efficaci delle precedenti, se non per brevi periodi, durante i quali talune aree, come il Venezuela, il Cile e la vasta provincia di 49

Caudillismo Dei caudillos e delle loro gesta epiche trabocca la storia dell’America Latina della prima metà dell’Ottocento. Da Antonio López de Santa Anna che governò il Messico undici volte, ora da liberale ora da conservatore, a Juan Manuel de Rosas, che dominò l’Argentina dal 1829 al 1852 col titolo di Restauratore delle Leggi; dal paraguayano José Gaspar Rodríguez de Francia, il teologo ammiratore di Robespierre che resse i destini del suo paese isolandolo fino al 1840, al guatemalteco José Rafael Carrera, il cancerbero conservatore che nel 1854 si proclamò presidente a vita. E così via, di paese in paese, di provincia in provincia, senza dimenticare che v’erano caudillos colti e caudillos incolti, agnostici o credenti, liberali o conservatori. Erano perlopiù uomini che in virtù della loro forza e del loro carisma, nonché della fragilità o inesistenza delle istituzioni in grado di limitarne l’autorità, riunivano un vasto seguito e s’impadronivano con la violenza del potere. Potere che esercitavano nel tradizionale modo patrimonialista. Come, cioè, un bottino con cui premiare i seguaci e da cui escludere i nemici, come una proprietà privata che essi governavano al di sopra delle leggi e delle Costituzioni. Personalità spesso eccentriche, i caudillos esercitavano dunque un’autorità di tipo cari-

 Buenos Aires sotto la ferrea dittatura di Juan Manuel de Rosas, vissero stagioni di relativa stabilità. Anche sotto la giurisdizione di quelle Costituzioni, infatti, il potere politico fu per lo più esercitato da caudillos. Capi politici e militari dal profilo sociale eterogeneo, di cui importa qui il modo d’esercitare il potere. Un modo ch’era assai più consono ai vecchi costumi che al nuovo spirito costituzionale. Il loro potere, talvolta esteso a livello locale e altre volte su spazi assai più vasti, era infatti sì esercitato con la forza, ma non soltanto. Suo fondamento era un’ampia rete di clientele informali, familiari nel senso più ampio della parola. Ad essa il caudillo soleva garantire protezione in cambio di lealtà, prebende in cambio d’obbedienza. La sua autorità sovrastava leggi e norme, essendo arbitraria e personale. Col che si può ben dire che se l’ordine legale successivo alle indipendenze era assai nuovo, l’ordine reale restò in gran parte quello antico, dov’era la fitta tra50

smatico, più simile a quella di leader religiosi che di capi politici; di leader depositari di un’aura sacra capace di prospettare la salvezza e la protezione di coloro che erano loro devoti. I quali trovavano dunque concreti vantaggi nel riconoscere l’autorità di un dato caudillo e nel porsi sotto la sua protezione, non essendovi leggi e istituzioni capaci di garantirla loro. Col che si può dire che in quelle società ancora prive di Stato, quello tra il caudillo e i suoi seguaci fosse a suo modo un rapporto di scambio, per quanto ineguale, e non la mera imposizione del potere con la forza. Proprio la lealtà personale era d’altronde la chiave di quel rapporto, tipico dunque di un ordine sociale tradizionale, essenzialmente prepolitico, dove il potere era assoluto e non condiviso. Dove insomma il caudillo s’insediava transitoriamente nel luogo simbolico occupato un tempo dal re: quello di testa di un organismo omogeneo e unanime. Ciò non toglie che proprio il caudillismo fosse nella sua primitività il modo attraverso il quale si articolavano tra loro i diversi livelli del potere, laddove dopo l’indipendenza s’era frammentato in mille brandelli. Era infatti comune che i caudillos locali, capi assoluti di un villaggio, fossero a loro volta clienti di caudillos più potenti e dal potere più esteso. Cui portavano in dote il proprio «feudo» in cambio di favori e protezione. E così via sempre più in alto, lungo una piramide la cui cima si trovava spesso alla presidenza della Repubblica.

ma dei corpi sociali tradizionali, la famiglia e il territorio in testa, a regolare la vita pubblica. 3. Società ed economia in transizione Che l’indipendenza non fosse per l’America Latina un letto di rose è ormai appurato. Così come lo è che il retaggio del passato ne condizionava l’evoluzione. Non per questo, però, nulla di sostanziale mutò nelle più profonde fibre del continente nei primi decenni successivi all’emancipazione. Anzi, in termini di struttura sociale, relazioni economiche e rapporti col mondo esterno cominciarono allora a prender piede le profonde trasformazioni giunte poi a maturazione nella seconda metà del secolo. In termini sociali, la più importante fu la lenta scomparsa della 51

schiavitù, dapprima laddove era una realtà marginale, come in Messico, in Cile e in America Centrale, e solo molto più tardi dov’essa era un fenomeno massiccio. Non tanto perché così sancissero le Costituzioni, dato che in realtà sparì in forma assai più graduale di quanto esse proclamassero. Quanto per i crescenti ostacoli alla tratta di schiavi, per la loro scarsa produttività e perché fu spesso il «prezzo» pagato per reclutarli negli eserciti. Verso la metà dell’Ottocento essa rimaneva comunque vitale soltanto sulle coste caraibiche e in Brasile, dove restò in vigore fino al 1888. Anche per la popolazione delle comunità indiane l’indipendenza e le sue guerre comportarono degl’incipienti, benché lenti e ondivaghi, cambiamenti. I quali miravano a smantellarne diritti e doveri corporativi, a cominciare dal tributo indiano, per far di essi, in teoria, altrettanti cittadini eguali e liberi delle nuove repubbliche. Un obiettivo che in realtà s’imbatté spesso nei problemi di fiscalità dei nuovi Stati, che li indusse in molti casi, specie in Perù e Bolivia, a mantenere ancora a lungo i tributi indiani che s’erano proposti di liquidare. E che tese in realtà a produrre effetti assai meno virtuosi del previsto, dato che nel sottrarre gl’indiani a un regime sociale opprimente ma regolamentato li lasciò spesso in balia d’un ancor più intenso sfruttamento. Tanto da causarne talvolta la violenta reazione contro la «liberazione» dal giogo corporativo e in difesa della «repubblica degli indios» che ne era emblema. Detto ciò, laddove erano un’istituzione assai diffusa e radicata, cioè in Messico e Guatemala da una parte e nel Sud America andino dall’altro, le comunità indiane non scomparvero di certo, benché dalla metà del secolo la pressione su di esse e sulle loro terre s’accrebbe ovunque. Anche nella sfera economica e dei rapporti col mondo esterno, due ambiti tra loro indissolubili, le cose cominciarono a cambiare dopo l’indipendenza. Più lentamente fin verso la metà del secolo ed anche oltre, ma già anticipando le brusche trasformazioni avvenute da allora in poi. La più importante novità fu l’introduzione e diffusione della libertà di commercio. Specie con le potenze europee, la Gran Bretagna in primis, con cui i nuovi Stati a corto di finanze s’indebitarono molto presto e cui la rivoluzione industriale imprimeva uno straordinario dinamismo commerciale. Un dinamismo tale da indurla alla ricerca, in America Latina come altrove, di nuovi mercati e materie prime per le proprie industrie e per il consumo della propria popolazione urbana. Pur senza ancora causare il boom com52

Il secolo britannico Benché i progressi nei trasporti e nelle vie di comunicazione fossero nel Sud Atlantico assai più lenti di quelli che contemporaneamente investirono il Nord Atlantico, e benché le croniche guerre civili latinoamericane limitassero o ritardassero in molti casi i commerci e gli investimenti nei decenni centrali dell’Ottocento, la forza sprigionata dalla crescente potenza economica britannica cominciò presto a far sentire i suoi effetti anche in America Latina. Effetti sui quali gli storici e gli economisti non sono concordi. Taluni osservano che le merci britanniche che da allora giunsero in quantità rilevante nei centri urbani latinoamericani buttarono fuori dal mercato il ceto artigianale locale, riducendolo in miseria. E che la crescita degli scambi con la Gran Bretagna bloccò per sempre la differenziazione delle economie locali e la crescita del mercato interno, favorendo la produzione di materie prime richieste in misura sempre maggiore dal mercato inglese ed europeo, la cui domanda cominciò a lievitare a ritmi vertiginosi verso la metà del secolo. Altri ritengono invece che quel che fece la Gran Bretagna in virtù della libertà commerciale appena introdotta fu d’iniziare a sostituire l’asfittico monopolio spagnolo. Il quale era stato in realtà a sua volta responsabile di avere penalizzato con le sue esportazioni tessili e d’altro genere gli artigiani americani e di avere inibito sia la crescita del mercato interno sia la differenziazione produttiva in America Latina. In tal senso il capitalismo britannico, ben più vigoroso di quello ispanico, avrebbe in realtà aperto inedite prospettive alle economie locali grazie alla lenta ma costante fioritura del commercio, cui dalla metà del secolo s’affiancarono con la loro immensa forza le grandi banche di investimenti e le compagnie ferroviarie. In generale si può osservare che gli sviluppi furono in quell’epoca piuttosto difformi da zona a zona e che laddove, come in Messico, v’era da tempo un certo mercato interno, le manifatture locali ressero l’urto della competizione esterna, cosa che non accadde invece dove tali premesse erano inesistenti. Di certo iniziò comunque da allora a prender forma quella che si suole chiamare la divisione internazionale del lavoro indotta dalla rivoluzione industriale. Nel cui seno all’America Latina cominciò a toccare il ruolo di fornire materie prime minerali e agricole.

merciale che solo la rivoluzione tecnologica nei trasporti rese possibile nella seconda metà del secolo, quei fattori cominciarono perciò a pesare fin d’allora. Non tanto in termini d’espansione economica, 53

ancora di là da venire in quell’epoca stagnante. Bensì, da un lato, imprimendo un ancor più netto orientamento verso l’esterno all’economia regionale, attratta dai pingui profitti promessi da nuovi e più intensi scambi commerciali. Il che inibì ulteriormente il già rachitico sviluppo del mercato interno ma aprì la prospettiva di finanziare il bilancio pubblico, in molti paesi in gran parte frutto dei tributi indiani, con le imposte sul commercio estero. E, dall’altro, ponendo le premesse della crescente influenza politica ed economica sia del ceto commerciale in crescita nelle principali città portuali, sia dei proprietari terrieri in grado di produrre per i mercati esteri. 4. La svolta di metà Ottocento Sarà perché i leader dell’indipendenza stavano sparendo e al loro posto s’affacciava alla ribalta una nuova generazione formata da giovani intellettuali e non più da condottieri militari. Sarà perché sia in termini politici sia in termini economici quei primi decenni di vita indipendente trascorsi tra lotte intestine ed economie stagnanti avevano mortificato le grandi aspettative di vedere i nuovi Stati avviati sulla via della civiltà e del progresso. Sarà che il retaggio del passato coloniale si rivelò alle élites liberali più gravoso e pervasivo del previsto. E sarà senz’altro che gli echi del 1848 europeo, ossia delle rivoluzioni liberali che spazzarono il Vecchio Continente cui per storia e cultura esse ancora appartenevano, risuonarono oltre l’Atlantico. Fatto sta che dalla metà del secolo qualcosa cominciò a cambiare in America Latina. In tutti gli ambiti iniziò cioè a spirare un’aria nuova; a imperare un nuovo «spirito dei tempi», foriero di grandi cambiamenti e, come sempre capita in tali casi, di non meno radicali convulsioni politiche e sociali. Fu una svolta complessa, tanto per cambiare avvenuta in modi e tempi diversi da paese a paese. Ma in cui è possibile individuare un tratto comune a gran parte dell’area. A stimolarla furono le nuove opportunità che si dischiudevano alla regione attraverso l’integrazione commerciale e finanziaria alle maggiori potenze. Ma fu ancor più la consapevolezza e la constatazione sempre più diffuse in larghi strati delle élites creole che l’indipendenza era rimasta a mezza via. Quel che urgeva loro era perciò riprenderne il filo originario. La nuova e più radicale generazione liberale di metà secolo, in altri ter54

mini, rianimò il progetto di edificare in America delle società liberali e votate al progresso. Società che aspiravano a specchiarsi in quelle più avanzate dell’Occidente. In contrasto sia con l’ondata conservatrice colpevole d’essersi piegata ai condizionamenti del passato, sia con l’astratto romanticismo liberale dei primi tempi, che s’era illuso di cambiare tutto col solo far buone leggi senza dare loro la forza d’imporsi. Per quei liberali di nuovo tipo occorreva andare oltre. Bisognava recidere e sradicare una buona volta le radici del passato. Quelle ispaniche e cattoliche, organiche e corporative, responsabili ai loro occhi sia d’impedire lo sviluppo economico bloccando il libero flusso di merci e ricchezza, sia di bloccare l’affermazione delle libertà civili tenendo chiusa la popolazione nei tradizionali recinti corporativi. Per creare nazioni nuove e progressiste, popolate da cittadini indipendenti ugualmente responsabili dinanzi alla legge, occorreva dunque adottare misure drastiche. A cominciare da un deciso attacco al pilastro storico del Vecchio Ordine, la Chiesa cattolica. Sia perché i suoi ingenti beni sottratti alla circolazione della ricchezza erano per quelle élites i più palesi simboli del freno che il passato imponeva al progresso. Sia perché il suo monopolio sull’educazione intralciava la diffusione delle nuove idee e la nascita di cittadini fedeli allo Stato e alle sue leggi piuttosto che alla Chiesa ed alle sue. Sia, infine, poiché proprio la Chiesa e la sua dottrina erano i più solidi bastioni della società organica da cui i liberali volevano emanciparsi. Fu non a caso intorno alla Chiesa ed al suo ruolo politico, sociale e culturale che sorsero allora i più acuti conflitti. Talvolta contenuti, ma spesso assai cruenti, specie dove più forte e radicata in tutti gli strati sociali era la Chiesa, come in Messico. Conflitti che le leggi liberali, volte a secolarizzare i beni ecclesiastici, a laicizzare la scuola pubblica, a portar nella sfera statale l’anagrafe, i matrimoni e i cimiteri, misero in conto. E che in America come in Europa furono al centro della vita pubblica per gran parte di quel che rimaneva del secolo. Tanto che, come si ricorderà, fu intorno ad essi più che su ogni altro tema che l’élite sociale ed economica, pur così affine per tanti aspetti, si divise aspramente in due partiti: liberali e conservatori. E che anche gli altri ceti furono spesso chiamati ad esprimersi sostenendo l’una o l’altra causa.

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Teoria politica e dibattito intellettuale I passi falsi e le battute a vuoto della maggior parte degli Stati latinoamericani, una volta raggiunta l’indipendenza, stimolarono da circa la metà del secolo ampi dibattiti nelle classi dirigenti sulle loro cause e sul miglior modo per porvi rimedio. Dibattiti cui erano del tutto presenti quelli coevi che in Europa s’andavano imponendo man mano che vi si sviluppava la civiltà industriale. Di essi furono riflesso le lotte politiche che sempre più da allora investirono la regione, ma anche una produzione intellettuale assai nutrita e spesso d’eccellente qualità che spaziava dal diritto alla filosofia, dalla pedagogia alla letteratura fino alla teoria politica. Ed in cui spiccarono taluni grandi nomi come il conservatore messicano Lucas Alamán e il moderato venezuelano Andrés Bello, che svolse in Cile gran parte della sua attività, fino ai più brillanti esponenti della nuova generazione liberale, come gli argentini Juan Bautista Alberdi e Domingo Faustino Sarmiento, i cileni Francisco Bilbao e José Victorino Lastarría e numerosi altri, pur assai diversi tra loro per molti aspetti. Sul fronte conservatore prevaleva l’idea che l’ordine dovesse precedere la liberalizzazione politica. Uomini come Andrés Bello guardarono in tal senso ammirati alla monarchia costituzionale della Gran Bretagna e sostennero a spada tratta la necessità di un governo forte e centralista. La sua idea era infatti in sostanza quella



5. I casi nazionali. La norma e le eccezioni Assodato che quel che prevalse in America Latina dopo l’indipendenza furono l’instabilità politica e la violenta lotta per il potere tra caudillos nazionali o locali, rimane da vedere s’è possibile districarsi in quel ginepraio di conflitti. E se in quel caotico panorama spicca qualche eccezione. Ogni nuovo Stato, per cominciare, e ancor prima dei nuovi Stati le vecchie unità amministrative dell’età coloniale, andarono in mille pezzi. Caduto il re, infatti, ogni territorio o città d’un certo peso si appropriò della propria sovranità. O riprese possesso di quella che riteneva fosse una libertà antica e gli spettasse una volta sciolto il patto col sovrano, del quale nessun altri, men che me56

d’un governo libero dal condizionamento dei poteri locali e del popolo, che giudicava impreparato a prendere parte alla vita pubblica. Non solo, ma di un governo investito della missione pedagogica di formare i cittadini e diffondere un sentimento di nazionalità, passi previ di una graduale liberalizzazione politica. Tale concezione, oltre a quella che invece di recidere le radici del passato coloniale occorresse fondare su di esse il nuovo ordine, ne fece un ispiratore della Costituzione cilena del 1833, base del governo imposto in Cile dal suo uomo forte, Diego Portales. Ma ne fece anche uno dei bersagli prediletti dei liberali della generazione successiva. Costoro proposero infatti in forme più o meno radicali una sorta di trapianto culturale. E ritennero che non solo l’ordine, ma tantomeno il progresso avrebbero attecchito in America Latina a meno che non le fossero somministrate massicce dosi di liberalismo. La cultura ispanica, intesa nella sua veste clericale e corporativa, era per essi causa primaria d’arretratezza, cui urgeva perciò sostituire quella liberale in auge nelle potenze in ascesa, da cui era dunque bene stimolare l’ingresso di uomini e tecniche, idee e capitali. Non meno dei loro avversari conservatori, anch’essi muovevano nella maggior parte dei casi da una diagnosi pessimista sulla capacità di autogoverno dei popoli latinoamericani, che giudicavano perlopiù incolti e soggetti al clero e alla cultura tradizionale. Il che li induceva ad architettare forme politiche e costituzionali liberali, ma ben attente a garantire il governo dei «migliori» e a neutralizzare la pressione popolare, per essi fonte di demagogia e tirannia.

no una città vicina o una Capitale minacciosa, poteva ergersi ad erede. Ecco allora sciogliersi nel 1840 la Confederazione Centroamericana, nata nel 1823, e sorgere dalle sue rovine gli Stati di Guatemala, Honduras, Salvador, Nicaragua e Costa Rica. Ecco la Gran Colombia sognata da Bolívar e sorta nel 1819 crollare già nel 1830 e dar via libera alla nascita di Colombia, Venezuela ed Ecuador. Ecco il Vicereame del Perù perdere Cile e Bolivia, andate per conto proprio. E infine le Province Unite del Rio de la Plata sgretolarsi e l’Argentina non poter tenere legato a sé il Paraguay né impedir la nascita dell’Uruguay. Ma oltre che così divisi tra loro, e nella maggior parte dei casi da frontiere imprecise e contestate, fonti perciò di annosi conflitti e ten57

Il Messico. Un caso estremo Nessun caso come quello del Messico nei decenni dopo l’indipendenza è altrettanto emblematico dei dilemmi in cui l’America Latina si trovò allora avvolta. Benché quello del Messico spiccò anche per due ragioni. La prima è ch’esso fu un caso limite; com’era inevitabile che fosse, essendo stato più d’ogni altro il cuore pulsante dell’impero spagnolo, dove perciò le radici della società coloniale erano più che mai profonde. La seconda è la sua prossimità agli Stati Uniti, nella cui portentosa espansione ad ovest s’imbatté in modo traumatico. A proposito della prima ragione, non sorprenderà che proprio in Messico i conflitti tra liberali e conservatori divenissero più radicali e violenti che altrove. Prestigioso leader del liberalismo messicano fu Benito Juárez, ispiratore dal 1855 de La Reforma, un pacchetto di leggi volte a demolire i privilegi della Chiesa, cui confiscò le proprietà, a laicizzare l’educazione pubblica, a promuovere l’economia di mercato liberandola dalle pastoie corporative. Obiettivo quest’ultimo da raggiungere anche abolendo le comunità indiane, in base all’idea, rivelatasi poi illusoria, che acquistandone individualmente le terre gli indiani si trasformassero in proprietari indipendenti e cittadini eguali agli altri della nuova nazione messicana.



sioni, i nuovi Stati furono fin dal primo momento solcati da profonde spaccature al loro interno. Chi più chi meno. Ognuno per propri e peculiari motivi, tutti però in fondo simili. Tutti furono infatti in qualche modo preda di conflitti tra il Centro e la Periferia, la Costa e l’Altopiano, il Porto e l’Interno, tra città e città. Tra territori, insomma, gelosi della sovranità appena conquistata e tutt’altro che disposti a sostituire la tenue sottomissione a un re lontano con quella più rigida ad un potere assai più prossimo e invadente. Gli esempi sono infiniti. Quello del Messico dilaniato tra centralisti e federalisti; della Colombia e delle sue città in perpetua guerra; del Perù e delle sue guerre civili; dell’Argentina e dell’insanabile rivalità tra Buenos Aires e le province dell’Interno. E così via. Su tale sfondo, che dominò il panorama politico dell’America Latina fino a ben oltre la metà del secolo, le eccezioni sono rare ma si58

Contro tali leggi, condensate nella Costituzione liberale del 1857, insorsero però i conservatori, in soccorso dei quali, dopo anni di violenta guerra civile, intervenne Napoleone III, che nel 1864 impose Massimiliano d’Asburgo sul trono messicano creato all’uopo. Una misura che indusse Juárez a cercare sostegno negli Stati Uniti, irritati dall’affronto francese alla Dottrina Monroe proprio mentre essi erano nel pieno della guerra di Secessione. Finché i francesi lasciarono il paese, l’Asburgo non riuscì a mantenersi al potere e finì giustiziato e Juárez tornò in carica nel 1867, dove morì cinque anni dopo senza poter però dire d’avere pacificato il paese. In quanto invece alla seconda ragione, la prossimità agli Stati Uniti, essa segnò fin da allora la storia messicana più a fondo di quella di qualsiasi altro paese della regione. Quando infatti nel 1845 il governo statunitense si mostrò pronto ad annettere il Texas, territorio messicano proclamatosi indipendente sfidando il governo di Città del Messico, tra i due paesi scoppiò la guerra. La quale palesò non solo il contrasto tra la pulsante forza dei giovani Stati Uniti e l’intrinseca debolezza del Messico dilaniato da mille conflitti, causa della sua disfatta. Ma comportò anche, quando nel 1848 si concluse, il passaggio alla sovranità statunitense di immensi territori prima d’allora messicani, tra i quali la California, il New Mexico, il Colorado e l’Arizona. Col che gli Stati Uniti si spianarono la via verso il Pacifico, lasciando però aperto un gravoso contenzioso col vicino meridionale.

gnificative. La prima, già nota, è quella del Brasile. Dov’è vero che l’unità politica e territoriale fu più volte messa alla prova da varie rivolte scoppiate ai margini del suo immenso territorio. E dove col tempo la monarchia perse terreno dinanzi alla montante opposizione repubblicana. Ma dove l’impero di Pedro I prima, e ancor più quello di Pedro II dopo il 1840, garantirono una stabilità altrove impensabile. Grazie anche alla funzione di potere moderatore, cioè di garante dell’unità politica e territoriale, riconosciuta all’imperatore dalla Costituzione del 1824. In quanto invece all’America ispanica, l’eccezione forse più importante al desolante quadro di lotte intestine fu quello del Cile. Non perché anch’esso non cadesse vittima dopo l’indipendenza di un convulso decennio di conflitti analoghi a quelli degli altri nuovi Stati. Quanto perché dopo di esso trovò un lungo periodo di preco59

ce stabilità e consolidamento istituzionale. Se e quanto ciò si dovette alla relativa omogeneità delle sue élites e alla loro concentrazione geografica in quello ch’era all’epoca un territorio assai più ridotto di quello attuale e limitato alla sua Valle Centrale, è impossibile dire con esattezza. Fatto sta che dal 1831, sotto la ferrea e conservatrice guida di Diego Portales e i precetti autoritari della Costituzione del 1833, il Cile gettò prima di tutti le basi istituzionali dello Stato unitario. Basi in gran parte sopravvissute alla caduta di quel regime nel 1861.

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4.

L’età liberale

1. La nascita dello Stato moderno Sia che si preferisca porre l’accento sui fattori economici e sociali, sia che l’enfasi ricada su quelli più ideologici o culturali, tutto fa pensare che gli elementi che avevano causato instabilità politica e stagnazione economica nei primi decenni dopo l’indipendenza, cominciarono ad attenuarsi nella seconda metà del secolo. E in taluni casi addirittura a sparire verso la sua fine. Il che fu premessa di profondi rivolgimenti lungo tutta l’epoca grosso modo compresa tra gli anni ’70 dell’Ottocento e la prima guerra mondiale, poiché laddove l’economia stagnava iniziò una lunga stagione di crescita sostenuta e laddove dominavano i caudillos cominciò a imporsi la stabilità e presero a sorgere e consolidarsi le moderne strutture dello Stato-nazione. Cosa accadde di preciso? E come mai allora? Prima di rispondere a queste domande chiave occorre però fare un’avvertenza. Se già prima d’allora le vie dei diversi Stati s’erano andate separando, nei decenni a cavallo tra Otto e Novecento esse si divaricarono con ancor più rapidità man mano che un radicale processo di modernizzazione investì l’area. Processo cui nessun paese restò del tutto escluso, e che perciò fu in certa misura comune a tutti. Ma che ebbe intensità così diverse da un luogo all’altro che a qualche decennio dal suo inizio le distanze tra i numerosi figli degli imperi iberici erano talvolta divenute abissali: in termini di crescita e sviluppo economico, di consolidamento politico, di ricchezza e di61

«State-building» e «nation-building» Costruire lo Stato non fu in America Latina, come d’altra parte altrove, un processo breve e agevole, ma semmai lungo e irto d’ostacoli, il cui approdo fu in taluni casi più soddisfacente e molto meno in numerosi altri. Lo stesso vale a maggior ragione per l’edificazione della nazione, dunque per quel delicato processo d’ordine pedagogico e culturale, oltre che legislativo e istituzionale, attraverso cui la popolazione di un determinato territorio giunge a sentirsi e immaginarsi parte d’una stessa comunità. L’eterogeneità etnica e la frammentazione sia sociale sia territoriale furono in proposito barriere spesso insormontabili. Precisato ciò, primo e ineludibile passo compiuto allora da gran parte di quegli Stati intenti a gettare le loro fondamenta fu conoscere il proprio territorio e la popolazione che vi viveva. Essendo quanto mai chiaro alle élites che all’epoca ne presero in mano le redini che senza tale conoscenza non v’era legge ch’esse potessero adottare per «creare la nazione». È allora che furono dunque realizzati in molti paesi i primi censimenti nazionali e che fiorì l’ansia statistica di quantificare, misurare, catalogare la popolazione e i be-



namismo culturale. Con taluni paesi, l’Argentina in testa, ma anche Messico, Cile e Brasile a far da traino. E molti altri, specie nell’area andina, Colombia e Venezuela compresi, e in America Centrale, a restar più indietro, spesso in preda ancora a lungo ai vecchi demoni della violenza e del caudillismo. Cosa accadde, dunque? In termini generali, quel che avvenne fu che i governi furono per la prima volta in grado d’imporre la legge sull’intero territorio nazionale o in gran parte di esso. Perlomeno nei maggiori paesi, quelli più potenti e ricchi. Quei paesi poterono imporre e garantire l’unità politica, cioè unificare la sovranità e obbligare all’obbedienza sia i caudillos sia i territori ribelli. Presero in tal senso per la prima volta forma gli Stati moderni, con le funzioni che sono loro tipiche. A cominciar dall’esercizio del monopolio legale della violenza, che essi fecero sia colpendo gli eserciti privati e locali, sia avviando la professionalizzazione di quelli nazionali con l’ausilio di missioni militari tedesche o francesi. E continuando con la 62

ni naturali compresi nei confini della nazione, premesse di leggi scientificamente fondate e perciò razionali più di quanto lo fossero mai state in passato. A tale, primo e necessario passaggio furono ovunque connessi l’istruzione e poi l’invio nelle più remote zone dei diversi paesi di un gran numero di funzionari pubblici incaricati ora di censire gli abitanti, ora di stilare liste elettorali, ora di compilare l’anagrafe e così via. Cominciò così a prendere forma, con maggiore o minore successo a seconda dei casi e con maggiori difficoltà nei paesi più eterogenei, un’arena pubblica nazionale che tese ad attenuare il peso dei localismi e in certa misura anche l’impermeabilità delle barriere etniche e sociali. Tanto nella progressiva unificazione dello spazio nazionale come nella concreta occupazione del territorio svolsero in molti casi funzioni chiave i militari, i quali assunsero perciò uno spirito di corpo e un’immagine di sé e del proprio ruolo destinati in futuro a pesare sui destini politici della regione. Così come nell’amministrazione della giustizia e nella tutela dei diritti costituzionali, prima d’allora perlopiù virtuali, fu decisivo il ruolo del potere giudiziario a livello sia centrale che locale. Fu infatti allora che in molti paesi furono introdotti nuovi Codici sia civili che penali e che la Magistratura divenne un corpo più autonomo e professionale.

creazione di un’amministrazione fiscale, giudiziaria, scolastica nazionale. Premesse necessarie per prelevare le imposte, impartire giustizia, formare cittadini e «fare la nazione» attraverso la scuola. Le Costituzioni divennero allora più durature ed efficaci e l’orizzonte dell’azione pubblica s’ampliò in modo prima impensabile, grazie anche al boom della carta stampata e delle ferrovie che riducevano le distanze tra luoghi, persone e costumi. In tal senso quel che avvenne allora in America Latina non fu così diverso da quel che avveniva nel resto d’Occidente, seppur con le peculiarità che le erano proprie e che già ci sono note. Ma perché cominciò a prodursi allora quel che prima era stato impossibile? Per restar nel solco tracciato basti menzionare taluni fattori strutturali ed altri culturali. Che poi svilupperemo. In quanto ai primi, si può osservare che sia la rivoluzione industriale europea sia la rivoluzione tecnologica che ne seguì posero le premesse perché l’America Latina s’integrasse all’economia mondiale in fret63

ta e a fondo. Col che lievitarono i commerci e gli investimenti e con essi gli introiti degli Stati, ch’ebbero così le risorse per consolidare la propria autorità. In quanto ai secondi, più complessi ma altrettanto importanti, quel che si produsse allora fu un implicito compromesso tra liberali e conservatori e le rispettive concezioni politiche e sociali. Un compromesso basato sul comune interesse per l’ordine sociale, la stabilità politica e il progresso economico. Tra i grandi sogni liberali di trasformazione sociale e il vecchio ordine corporativo si giunse cioè infine a patti. 2. Il modello primario-esportatore Dalla metà dell’Ottocento fin verso la prima guerra mondiale, l’America Latina fu investita con forza da un’ondata di globalizzazione. Sospinto dalla rivoluzione commerciale e industriale e reso possibile in dimensioni prima impensabili dalle innovazioni tecnologiche, specie dalle navi a vapore sull’Atlantico e dalla ferrovia nell’interno dei singoli paesi, quel fenomeno vi ebbe conseguenze immani. Tanto più che su quelle navi e su quei treni non viaggiarono solo merci a prezzi più bassi, in tempi più rapidi e in condizioni di maggiore sicurezza che in passato. Al punto che il commercio lievitò a ritmi battenti e i capitali giunsero a folate. Ma transitarono anche milioni di uomini che lasciarono l’Europa per l’America. E con essi storie, culture, costumi, idee, ideologie, tradizioni che arricchirono e resero ancor più complessa la già intricata trama sociale dell’America Latina. Fu in poche parole come se le onde sollevate nella storia dall’enorme masso gettatovi in Europa giungessero nel Nuovo Mondo prendendolo per sempre con sé nella modernità che l’Occidente stava creando. Di cui esso condivise dunque ancora una volta il cammino, visto che l’America Latina s’avviò da allora lungo un turbolento processo di trasformazioni economiche, a loro volta causa di radicali mutamenti sociali, di cui ben presto risentirono la politica, la cultura, la religione, i costumi. Come avvenne l’integrazione dell’America Latina all’Occidente moderno? Quello della rivoluzione industriale di cui la Gran Bretagna era l’incontrastata capofila? A quell’Occidente intriso d’etica protestante e spirito capitalista che lo rendevano così diverso dall’Occidente ispanico di cui essa era sempre stata parte? In termini 64

economici vi s’integrò come periferia di quel vorticoso centro. Ma come periferia che di quel centro era necessario complemento, tanto che il nesso che si creò tra i due è stato talvolta definito un patto neocoloniale. Nerbo di quel nesso fu il modello economico primario-esportatore. Un modello basato sul libero mercato, in base al quale l’America Latina si specializzò nell’esportazione di materie prime verso l’Europa, sia minerali per l’industria, sia agricole per il consumo alimentare. In senso contrario viaggiarono intanto verso l’America i beni lavorati dell’industria europea, specie britannica. Ma non solo, poiché altrettanto, se non di più, lo fecero i capitali europei e statunitensi necessari per creare le infrastrutture, senza le quali il fiume in piena dello scambio atlantico si sarebbe presto prosciugato. Capitali per scavare porti d’acqua profonda, tendere migliaia di chilometri di ferrovie su quegli spazi sterminati, gettar le basi di un moderno sistema creditizio, scavar miniere fin nei luoghi più inospitali e così via. Di quel modello, in breve, quei capitali furono lubrificante e carburante e da esso trassero solitamente ingenti profitti. Come tutte le grandi trasformazioni, anche quella ebbe ovviamente luci ed ombre, tanto che il giudizio degli storici è su di esse assai diviso e ancora oggi fonte di accese diatribe. Semplificando, v’è infatti chi vi coglie l’emblema di un nuovo e letale dominio coloniale che distorse e rese strutturalmente dipendente l’economia locale, soggiogandola ai potentati esteri. E v’è chi invece vi coglie l’avvio di una promettente modernizzazione che, per quanto venata da fragilità, consentì all’America Latina di uscire dalle secche della produzione per l’autoconsumo e di sostenere e consolidare l’ordine costituzionale liberale. Quel che a mo’ di sintesi si può in breve dire è questo: da un lato l’America Latina visse allora un’impetuosa fase di crescita economica che comportò il boom dei commerci, la creazione di infrastrutture vitali, la messa a coltura di nuove e sterminate terre fertili nelle immense frontiere interne, l’avvio dell’inurbamento e l’espansione delle città: tutte premesse del consolidamento istituzionale ed economico dei nuovi Stati e dell’erosione dei legami sociali premoderni tipici del mondo rurale. Da un altro lato quel tipo di crescita fu anche causa di distorsioni e vulnerabilità: poiché le economie furono indotte a specializzarsi nella produzione dei beni richiesti dal mercato mondiale, spesso non più di uno o due per paese al cui an65

Lo spartiacque economico Nulla come i nudi numeri dà la misura dello spartiacque che i trenta o quaranta anni a cavallo tra i due secoli comportarono tra l’America Latina antica e quella moderna. Nulla come taluni dati sparsi dà l’idea di quanto difforme fu tra un paese e l’altro il peso delle trasformazioni allora avvenute. Nulla, infine, come qualche cifra particolarmente indicativa dà la proporzione dell’intensità del vincolo allacciato allora dall’America Latina con le maggiori potenze europee e con gli Stati Uniti. Il caso dell’Argentina fu in proposito unico e senza paragoni altrove. Sia in sé, poiché nessun altro paese s’integrò altrettanto a fondo all’economia internazionale e fu altrettanto rivoluzionato dagli effetti che ciò comportò. Sia per l’importanza del tutto speciale che essa assunse come fornitrice di carne e grano per la grande potenza mondiale dell’epoca, la Gran Bretagna, del cui «impero informale» l’Argentina entrò in qualche misura ad essere parte integrante e fondamentale. Basti dire che il milione e mezzo di sterline di prodotti argentini che le isole britanniche importavano nel 1860 erano diventati quasi 41 milioni alla vigilia della Grande Guerra; che i 730 chilometri di ferrovia del 1870 avevano superato i 33.000 quarant’anni dopo; che la superficie coltivata ammontava nel 1888 a circa 2,5 milioni di ettari ma s’era moltiplicata per dieci, arrivando a 24 milioni, nel 1914. E così via. Ma se il caso argentino fu unico e per certi versi estremo, non meno impressionanti sono i numeri negli altri paesi, specie i più grandi e attraenti per l’economia mondiale. La crescita della ferrovia in Messico fu per esempio altrettanto impressionante, dato che nel 1910 superava i 19.000 chilometri. Il che non era cosa di poco conto in un paese dalla geografia così tormentata, dove infatti favorì tra le altre cose la nascita di un vero e proprio mercato nazionale, il quale fece da traino alla grande crescita economica del quindicennio tra Otto e Novecento, quando il prodotto messicano crebbe di oltre il 50%. Tanto però l’Argentina si legò al capitale britannico quanto il Messico si vincolò a quello dei vicini Stati Uni-

 damento sui mercati mondiali restò perciò appesa l’intera loro economia; poiché ciò incoraggiò la concentrazione della ricchezza e della proprietà terriera acuendo le già profonde frammentazioni so66

ti, i quali presero presto il sopravvento nella ghiotta industria mineraria. Discorsi analoghi si possono fare per pressoché tutti gli altri paesi, ognuno dei quali presentava, com’è naturale, le sue peculiarità. A cominciare dal Brasile, dove il boom riguardò il caffè e si concentrò negli Stati di San Paolo e Minas Gerais. Gli investimenti britannici e statunitensi vi crebbero allora più che mai in fretta, moltiplicandosi per sette tra il 1880 e la grande crisi del 1929. Il risultato fu che l’area coltivata crebbe esponenzialmente e il Brasile finì per dominare il mercato mondiale del caffè, di cui verso il 1920 possedeva circa i due terzi delle coltivazioni esistenti al mondo. Poiché però il caffè forniva anche i tre quarti dei guadagni prodotti dalle esportazioni, si capisce che ai cicli dei suoi prezzi fosse appesa l’intera economia nazionale. La carrellata potrebbe continuare sulla stessa lunghezza d’onda spaziando da un punto all’altro del continente: dal Perù, dove l’arrivo fin sulle Ande della ferrovia dette nuovo impulso alla vocazione mineraria del paese ma dove lo sfruttamento di rame, zinco e piombo, dati gli ingenti capitali e le moderne tecnologie che richiedeva, finì sotto il controllo delle grandi imprese statunitensi, alla Bolivia, dove al nuovo boom dell’argento succedette quello dello stagno e dove l’élite locale che ne controllava la produzione s’insediò al vertice del paese, il quale visse allora una stagione di relativa stabilità; al Cile, le cui esportazioni lievitarono dipendendo all’80% dai prodotti delle sue miniere, il nitrato in primis, data l’elevata richiesta di fertilizzanti del mercato europeo, e poi sempre più dal rame, di cui col tempo divenne primo produttore mondiale; all’Ecuador, dove le esportazioni di cacao crebbero di quattro volte tra un secolo e l’altro, al Venezuela e alla Colombia, dove a far da detonatore delle trasformazioni economiche fu il decollo delle esportazioni di caffè. Sempre il caffè, d’altronde, e gli altri prodotti tipici delle aree subtropicali come cacao, zucchero di canna e banane, nella cui produzione fecero con prepotenza ingresso dall’inizio del XX secolo le grandi compagnie statunitensi, furono alla base del boom delle esportazioni in America Centrale e nei Caraibi, così come del potere delle élites politiche che in molti casi riuscirono allora a imporvi il proprio dominio.

ciali; poiché infine le brusche oscillazioni dei prezzi di quei beni fecero spesso tremare i bilanci pubblici, che n’erano più che mai dipendenti. 67

La grande immigrazione Le grandi migrazioni mondiali che dalla metà circa dell’Ottocento alla crisi del 1929 cambiarono volto a gran parte del mondo, disseminandovi milioni di uomini e donne provenienti da pressoché ogni contrada d’Europa, ebbero in taluni paesi e ancor più in specifiche regioni dell’America Latina effetti rivoluzionari. In senso letterale, dato che vi sconvolsero il profilo demografico, economico e culturale. Chi più chi meno, gli Stati dell’area cercarono durante l’età liberale di attrarre immigrati. Ora esibendo ragioni economiche, ritenendo che l’arrivo di migranti dalle zone più sviluppate del pianeta avrebbe incentivato il progresso tecnico e produttivo. Ora accampando più elaborati motivi culturali, in particolare l’idea che la sferzata di etica capitalista del lavoro di cui essi sarebbero stati latori avrebbe scosso le basi della tradizionale indolenza latinoamericana. Ora attingendo al tipico armamentario razzista caro a molti positivisti e scientisti dell’epoca. Quello in base al quale l’eterogeneità etnica rappresentava in America Latina un fardello per il progresso, per cui una corposa iniezione di sangue bianco che avviasse un virtuoso processo di «imbianchimento» della popolazione avrebbe portato un salutare giovamento. Quali che fossero le ragioni per favorire l’immigrazione, rimane il fatto che essa si diresse in modo massiccio soltanto in talune zone, schivando quelle dove viveva una copiosa popolazione contadina in-



3. Una società in trasformazione Poiché gli effetti della modernizzazione economica furono più o meno profondi da paese a paese o da zona a zona di un medesimo paese, lo stesso vale per i cambiamenti sociali ch’essi innescarono. I quali furono più estesi e rapidi nei paesi che più s’integrarono all’economia mondiale, specie i maggiori. E più tardivi e limitati in quelli che lo fecero più tardi o lentamente, dunque in paesi come Colombia e Venezuela, ma anche in vaste aree delle repubbliche andine e centroamericane. Ma così come con diverse intensità il modello economico fu ovunque analogo, lo stesso dicasi per quel ch’esso generò nella vita sociale. Con tempi e modi diversi, infatti, le nazioni dell’A68

digena o v’era un’ancora fresca tradizione di lavoro schiavo. Tipici furono in tal senso i casi del Messico e del Perù, dove, benché gl’immigrati ebbero notevole influenza economica trattandosi perlopiù di imprenditori e commercianti francesi e spagnoli, il loro numero fu esiguo. I grandi flussi migratori si diressero invece in larga parte verso le zone dell’emisfero australe dove il clima era temperato e si prospettavano ampie opportunità di miglioramento economico e sociale, vista la sproporzione tra gli immensi spazi esistenti e la scarsa popolazione che vi viveva. L’Argentina e il piccolo Uruguay, dunque, e poi il Brasile meridionale e in parte il Cile, furono i paesi che più ne furono investiti e rivoluzionati. L’Argentina in primis, ancora una volta, dove, stando a talune stime, fecero ingresso tra il 1857 e il 1930 ben sei milioni di immigrati, in maggior parte italiani e spagnoli, più della metà dei quali, cioè 3,3 milioni di individui, vi si fermò e piantò radici. Il tutto in un paese che a metà Ottocento contava appena un milione di abitanti e che in buona parte proprio per effetto dell’immigrazione ne contava già undici milioni nel 1930. E con l’Argentina l’Uruguay che, fatte le debite proporzioni, trattandosi d’un paese ben più piccolo del grande vicino, visse una trasformazione analoga. Volta ad alterare il profilo etnico della popolazione, in buona parte nera o mulatta, e a rimpiazzare il lavoro schiavo con quello salariato europeo, fu la politica migratoria del Brasile. La quale conseguì in buona parte i suoi obiettivi attraendo un’enorme quantità di italiani e portoghesi, i quali tesero sempre più a concentrarsi nell’area in più rapida crescita, quella di San Paolo.

merica Latina entrarono allora in una lunga e spesso convulsa epoca di modernizzazione sociale, destinata a proseguire e intensificarsi nel corso del XX secolo. Il che comportò la brusca accelerazione di taluni importanti fenomeni: innanzitutto la crescita demografica, in taluni casi dovuta all’immigrazione europea ma in realtà estesa all’intera regione, dunque anche a quei paesi dov’essa fu il mero frutto dell’incremento naturale della popolazione; l’inurbamento, particolarmente intenso in Argentina, Cile e Venezuela e perlopiù diretto verso una o poche città assurte a snodo chiave del legame col mondo esterno, le quali, come Città del Messico o Buenos Aires, passarono in pochi anni da grossi villaggi a pulsanti metropoli; la scolarizzazione, almeno nei centri urbani e laddove lo Stato più avanzò 69

nel creare sistemi educativi nazionali; la terziarizzazione, per la proliferazione di nuove professioni, sia in ambito pubblico che privato, legate alle necessità di un’economia e una società più articolate; perfino, in taluni casi, un’incipiente industrializzazione, almeno in quei paesi, come Brasile, Messico e Argentina, dove le élites diressero talvolta verso l’industria i capitali accumulati, e in quelli dove la crescita della produzione mineraria induceva la nascita di importanti centri industriali: un fatto inconsueto laddove l’economia s’era orientata all’esportazione e dove perciò non era l’industria a far da traino allo sviluppo. In estrema sintesi si può dire che le società dell’America Latina cominciarono a differenziarsi. Benché talune assai più di altre. E benché in tutte facesse da contraltare alla modernizzazione la più o meno estesa sopravvivenza della società tradizionale nelle regioni rimaste estranee o meno toccate dall’apertura al mondo esterno e al mercato mondiale. Le società latinoamericane divennero insomma più complesse. Se prima, semplificando molto, erano state polarizzate agli estremi della scala sociale, con una limitata élite creola in cima alla piramide ed alla sua base un’indistinta massa rurale, spesso indiana o meticcia, ora le cose presero a cambiare. Specie, naturalmente, laddove l’immigrazione di massa giunse a scuotere le gerarchie sociali tradizionali. Ma anche altrove, seppur più lentamente. La lunga e sostenuta crescita dell’economia offrì infatti nuove opportunità e stimolò la mobilità sociale e la nascita di nuovi ceti. Anche se ciò, come s’è visto, non estirpò le profonde radici di vasti settori sociali premoderni. E se la mobilità sociale rimase spesso imbrigliata dalle barriere etniche e culturali tra uno strato e l’altro di quelle società segmentate. Pur con questi limiti, le trasformazioni furono profonde e foriere di altri e ancor maggiori cambiamenti. Cambiarono le élites, poiché al fianco di quelle tradizionali, intrise di spirito aristocratico, ne sorsero di nuove e più attratte dai valori borghesi. Anch’esse in realtà come le vecchie legate alla proprietà terriera, di cui si produsse un po’ ovunque all’epoca una enorme concentrazione, non più però intesa solo come mera fonte di status sociale ma anche di progresso e ricchezza, nonché base d’incursioni nel commercio, nella finanza, anche nell’industria. Cambiarono i ceti popolari, specie nelle città, o in settori come le ferrovie, i trasporti in genere, le piantagioni e le miniere, dove spesso sorsero solidi e battaglieri nuclei proletari, sui 70

quali caddero anche le prime violente repressioni; ma anche in parte nelle campagne, almeno dove declinò la vecchia hacienda e il lavoro divenne più libero, cioè soggetto al mercato e alle sue intemperie. Crebbero, infine e soprattutto, i ceti medi, spesso meticci o immigrati, variegati e sparsi tra il commercio e l’amministrazione pubblica, le banche, la scuola e l’esercito. Ceti talvolta prossimi per redditi e condizioni di vita al proletariato delle città, ma formati anche in numero crescente da professionisti e intellettuali desiderosi d’affermazione, di prestigio, di influenza. Pronti perciò a scendere nell’area politica. 4. L’illusione delle oligarchie I regimi politici dell’età liberale erano oligarchici. Così si suole dire. Il che è insieme corretto e fuorviante. È corretto nel senso che si trattava di regimi politici dove la partecipazione era limitata e il potere politico e quello economico, concentrati in una élite ristretta, tendevano a sovrapporsi. Ma è corretto anche se in tal modo si allude al fatto che, al di là dell’appartenenza a un partito o a un altro, i membri di quell’élite rappresentavano una oligarchia sociale, quasi sempre bianca e colta, in cima a una società frammentata su basi etniche. È fuorviante, invece, qualora non consideri che tale era più o meno ovunque la politica in Occidente prima dell’avvento della società di massa: un’attività perlopiù svolta da facoltosi notabili. E che la violenza, la corruzione e le frodi che spesso caratterizzavano le elezioni in America Latina erano allora fenomeni piuttosto comuni anche in Europa. Ma ancor più fuorviante è se non si colgono i mutamenti in corso in quei decenni man mano che l’economia, le società e la cultura cambiavano; mutamenti che in non pochi casi rivelarono una chiara tendenza all’ampliamento dell’arena pubblica, alla liberalizzazione del dibattito politico, all’espansione del suffragio e a competizioni politiche più combattute che in passato, almeno nelle aree urbane. Detto ciò, va notato che pur con tutte le loro talvolta enormi differenze i regimi dell’epoca furono in materia politica conservatori. Tanto cioè le élites furono modernizzatrici in campo economico, quanto furono conservatrici in quello politico. Nel senso che cercarono di conservare il monopolio del potere politico. Al punto da far spesso delle Costituzioni dei sostanziali patti tra oligarchie e delle 71

elezioni delle finzioni democratiche messe in scena per legittimare ordini politici calati dall’alto in basso e poco o nulla rappresentativi dei diversi settori sociali. Patti tra quelle stesse élites che s’erano combattute ai tempi del caudillismo e che ora trovavano nelle opportunità economiche e nel comune interesse per la stabilità politica e la pace sociale un solido punto di convergenza. Convergenza tra liberali e conservatori. E più in generale tra i loro immaginari politici e sociali, quello più razionalista e individualista dei primi, e quello più religioso e organicista dei secondi. Una convergenza di cui fu emblema l’ideologia di quei regimi: il positivismo. Un’ideologia le cui parole chiave stanno ancora oggi inscritte nella bandiera brasiliana, Ordine e Progresso, e che dal Messico all’Argentina passando per l’Istmo centroamericano e per le nazioni andine s’espresse nell’invocazione di Pace e Amministrazione. Il positivismo si prestò in effetti a coniugare le due tradizioni politiche e filosofiche che fino ad allora avevano tentato di elidersi e annullarsi. Se è vero infatti che i positivisti erano cultori della ragione e del progresso e perciò distanti dal primato dello spirito e della fede cari ai conservatori, lo è altrettanto che i primi come i secondi concepivano la società alla stregua di un organismo naturale. L’organicismo scientista dei primi trovò così un solido punto di contatto con l’organicismo cattolico dei secondi. Della società intesa come un organismo i primi vantavano infatti la conoscenza delle leggi scientifiche che l’animavano, e i secondi del disegno divino cui corrispondeva. Entrambi ne ricavavano perciò l’altrettanto naturale diritto di guidarla, di occuparne cioè il centro nevralgico, la testa che un tempo era stato il re. In sostanza, l’ideologia positivista legittimò il patto implicito tra liberali e conservatori e il progressivo accantonamento dei furenti attacchi dei primi contro le corporazioni tradizionali, le quali, Chiesa ed esercito in testa, divennero in molti casi preziose alleate della stabilità politica e sociale. Quell’ideologia eretta in taluni casi a dogma pubblico delle nuove classi dirigenti legittimò inoltre il costume di governare prescindendo dalla politica, essendo la politica intesa da esse come artificiosa divisione di una società che Dio o la natura avevano concepito unita e armonica. In tal senso quei regimi inaugurarono una lunga e robusta tradizione antipolitica di cui troveremo in futuro numerose tracce nella storia latinoamericana. Proprio in ciò consistette però l’illusione delle élites dell’epoca. Le quali fecero col tempo i conti con gli effetti della modernizzazio72

Storie di guerre e di confini Epoca di assestamento degli Stati-nazione, d’occupazione e delimitazione del loro territorio e di definizione delle gerarchie tra i più e i meno potenti, quella tra Otto e Novecento fu perciò soggetta a forti tensioni sui confini. I quali erano in molti punti indefiniti e contestati fin dall’indipendenza: tra Argentina e Cile, Perù ed Ecuador, Colombia e Venezuela e così via in gran parte del continente, per non dire di quasi tutti i confini del Brasile. In taluni casi sia i problemi di confine sia i precari equilibri di potenza culminarono allora in cruente guerre tra vicini che causarono drastici mutamenti territoriali. Tale fu il caso della guerra del Paraguay, combattuta dal 1865 al 1870 tra gli eserciti di Argentina, Brasile e Uruguay da un lato e quello paraguayano dall’altro. Una guerra dove delicate questioni geopolitiche e il connesso problema dell’accesso alla grande rete fluviale della regione si intrecciarono, sfociando nella tragica disfatta del Paraguay, che perse 200.000 uomini, cioè circa la metà della popolazione, e vaste porzioni di territorio che Argentina e Brasile si spartirono. Non minori furono le conseguenze sulla mappa del Sud America della guerra del Pacifico, combattuta tra il 1879 e il 1883. Una guerra scoppiata per il controllo sui ricchi giacimenti di salnitro del deserto di Atacama, in cui il Cile rivelò la sua maggior forza militare e solidità statale, sconfiggendo gli eserciti di Perù e Bolivia e ampliando così a dismisura il suo territorio. Gli sconfitti persero invece cospicui territori e nel caso della Bolivia addirittura lo sbocco sull’Oceano Pacifico, che essa rivendica ancora oggi.

ne ch’esse stesse avevano promosso. La quale, trasformando a fondo la società e la cultura, creò il terreno perché nuovi ceti e ideologie bussassero alle porte della vita pubblica: ora contestando l’ordine conservatore, ora esigendo di distribuirne più equamente oneri e onori, ora pretendendo d’introdurre la politica dove le oligarchie l’avevano bandita. La nascita, fin da fine Ottocento, in diverse parti dell’America Latina di nuovi partiti politici e ancor più quella di numerosi e battaglieri movimenti di lavoratori, spesso anarchici e socialisti ma anche cattolici, dal Messico al Cile, dall’Argentina a Cuba, fu sintomo delle prime e profonde crepe che s’andavano poco a poco aprendo sulla stabile superficie dei regimi liberali. 73

5. Insieme in ordine sparso. Messico, Brasile, Argentina L’intera America Latina visse nei decenni tra i due secoli processi in sostanza analoghi. Ma in modi e intensità così variabili da configurare storie molto diverse. Le storie nazionali cominciarono infatti da allora a distinguersi in modo sempre più netto dalla storia della regione nel suo complesso. La quale si diluì in tanti rivoli quanti erano i paesi nati dalla sua unità politica originaria. In Messico l’epoca fu dominata da Porfirio Díaz, che le dette perfino il nome, il porfiriato. Fu un regime longevo, durato dal 1876 al 1910, salvo una breve e virtuale parentesi. In termini politici fu una autocrazia, cioè un regime personalista e autoritario che impose l’ordine dopo le lunghe guerre civili. Ammainate le bandiere della Reforma liberale che tante reazioni aveva causato, Díaz badò a pacificare il paese per sfruttare appieno le opportunità di progresso economico offerte dalla rapida apertura dei mercati. Per farlo ricucì i rapporti con la Chiesa e s’avvalse del sostegno dei grandi proprietari terrieri, beneficiati dal decollo delle esportazioni e dalle terre sottratte alle comunità indiane. Contro le quali, come contro le prime agitazioni anarchiche nelle miniere, Díaz non titubò a usare la forza. Benché la repressione non fosse l’unico strumento del suo governo, per il quale impiegò in abbondanza anche antichi e ben rodati metodi: le reti familiari e territoriali. In campo economico il suo fu, come gli altri dell’epoca, un regime modernizzatore, capace d’attrarre ingenti investimenti, di fare lievitare le esportazioni agricole e minerarie, di fare crescere l’economia e gl’introiti fiscali, di promuovere la diffusione della ferrovia. Non a caso si produsse allora un boom demografico, e ciò benché i bassi salari e vari altri fattori v’inibissero la grande immigrazione. In termini ideologici, infine, il porfiriato fu un tipico regime positivista, tanto che i suoi brillanti intellettuali furono chiamati los científicos, gli scienziati. Tante e tali trasformazioni lo posero però col tempo a dura prova, man mano che crebbero e si fecero più pressanti le rivendicazioni sociali e le richieste di democrazia politica. E che invecchiando Díaz s’impose il nodo della successione. Essendo però la sua una dittatura priva di canali rappresentativi, la crisi assunse forme traumatiche. A farlo cadere, infatti, fu la rivoluzione. Analogo ma anche diverso è il caso del Brasile. Dove Pedro II, soggetto per un verso all’ostilità dei repubblicani e per un altro a quella dei grandi latifondisti contrari alla sua decisione di abolire la 74

schiavitù, cadde nel 1889 per mano di un colpo di Stato militare. Anche il Brasile divenne dunque una repubblica e i militari ereditarono il ruolo di potere moderatore fino ad allora incarnato dal Monarca. Nacque allora per durare fino al 1930 la Republica Velha. Un regime la cui natura trovò espressione politica nella Costituzione del 1891, la quale sancì la natura federale dello Stato e con essa l’ampia autonomia dei singoli Stati che n’erano parte. Asse portante di quel regime fu infatti la regolare alternanza al potere, salvo rare eccezioni, tra i due più ricchi e potenti, San Paolo e Minas Gerais. In tal senso, quello del Brasile fu un patto tra oligarchie, in cui le più deboli accettarono la guida delle più forti in cambio della libertà d’azione a livello locale, dove in effetti le strutture sociali cambiarono ben poco. Chiave economica di quel regime a lungo stabile, anch’esso intriso d’ideologia positivista, fu il caffè. Bene di cui s’è detto che il Brasile arrivò a controllare gran parte del commercio mondiale e su cui fondò la sua modernizzazione economica, alla quale dettero grande impulso i capitali inglesi e gl’immigrati. I quali giunsero copiosi fornendo abbondante manodopera e un grande apporto alla nascita di una nuova borghesia. Di per sé elitista in un paese ancora in gran parte rurale ed arretrato, quel regime subì col tempo i contraccolpi della rapida modernizzazione. Lo si vide nell’incipiente agitazione dei lavoratori urbani, nell’insofferenza dei giovani ufficiali dell’esercito, i tenentes, per quel regime privo di un baricentro nazionale, ma soprattutto nell’ascesa di un nuovo Stato, Rio Grande do Sul, che finì per scompaginarne le regole e farne emergere le crepe. Tra tutti, il caso dell’Argentina è quel che forse più impressiona. La trasformazione ch’essa visse in quegli anni ha infatti pochi paralleli nella storia. O forse nessuno. Non tanto per il suo regime politico, il quale trovò espressione nel Partido Autonomista Nacional e fu anch’esso un patto tra oligarchie. Nella fattispecie tra le potenti élites della Capitale e quelle dell’interno del paese, cui le prime imposero la propria egemonia, ponendo fine agli annosi conflitti del passato. Né per la sua ideologia, non meno positivista di quelle dei regimi coevi. Quanto per la profondità senza pari con cui essa fu rivoluzionata dall’immigrazione e per l’intensità senza paragoni della sua integrazione al capitalismo britannico. E dunque anche delle sue trasformazioni sociali ed economiche, che ne fecero uno dei paesi più ricchi al mondo, cui tutti pronosticavano un grande futuro. Dati tali fattori, dato il fatto che gli immigrati europei le conferirono una 75

elevata omogeneità etnica e culturale altrove assente, e data la civiltà perlopiù urbana che vi nacque, non sorprende che le sue élites coltivassero una sorta di destino manifesto. Un senso cioè missionario e una vocazione alla leadership regionale. Né che gli effetti della modernità vi si sentissero prima e con più forza, per esempio nella precoce nascita dei moderni sindacati e partiti politici. Su tale sfondo, quando nel 1912 la ley Sáenz Peña introdusse la segretezza e obbligatorietà del voto, quello argentino parve l’unico regime di un grande paese latinoamericano sul punto d’evolvere senza eccessivi traumi dall’età liberale a quella democratica. 6. L’inizio del secolo americano La guerra del 1898 tra Stati Uniti e Spagna per l’isola di Cuba, tanto agevole per i primi quanto tragica per la seconda, al punto da rimanere impressa come el desastre nella storia spagnola e come la «piccola splendida guerra» in quella statunitense, rappresentò una radicale svolta per le relazioni internazionali dell’America Latina. Benché per l’America Centrale ed i Caraibi molto più che per i grandi paesi del Sud America. Proprio i Caraibi divennero allora un lago americano da lago europeo che erano perlopiù stati prima d’allora, coronando così l’antico sogno statunitense di esercitarvi il controllo e con esso di garantirsi la sicurezza della frontiera meridionale. Con quella guerra non solo crollò quel poco che restava in piedi dell’impero spagnolo in America, ormai orfano anche di Cuba e Porto Rico, ma iniziò a tamburo battente l’espansione militare ed economica statunitense nella parte latina dell’emisfero. Cominciando da Cuba, cui Washington riconobbe l’indipendenza ma al prezzo di riservarsi il diritto d’intervento nei suoi affari interni. Continuando con Panama, dove le truppe degli Stati Uniti aiutarono nel 1903 gli irredentisti locali a conseguire l’indipendenza dalla Colombia in cambio della concessione del diritto a costruirvi un canale interoceanico, inaugurato poi nel 1914. E proseguendo coi numerosi paesi dell’area dove si proiettò l’influenza statunitense, dal Nicaragua alla Repubblica Dominicana, dal Guatemala ad Haiti: ora attraverso i corposi investimenti delle multinazionali agricole e minerarie; ora attraverso la crescita della propaganda culturale e delle missioni protestanti; ora attraverso i cronici interventi dei marines per riportare 76

L’indipendenza di Cuba Mentre a Cuba infuriava nel 1898 la guerra d’indipendenza dalla Spagna dei patrioti locali, spesso esiliati sulle coste statunitensi, il governo di Washington decise l’intervento militare sull’isola per preservarvi la pace e proteggervi gli interessi e le vite dei cittadini statunitensi. A tale obiettivo il Congresso aggiunse poi quello di favorire l’indipendenza di Cuba, in sintonia con l’eccezionalismo degli Stati Uniti e con la vasta simpatia che vi godeva la causa cubana nell’opinione pubblica. Nei fatti, quel che però già insinuò il trattato di pace con cui si chiuse la guerra fu l’istituzione di una sorta di protettorato statunitense sull’isola di Cuba. A sua volta esempio e prova del tipo di sfera d’influenza che gli Stati Uniti s’apprestavano a stabilire in quella regione. La formula che sancì tale soluzione fu l’emendamento Platt, che prese il nome dal senatore a capo della commissione esteri del Senato di Washington e fu inserita direttamente nel testo della nuova Costituzione cubana. Un documento che riconosceva agli Stati Uniti il diritto d’intervento sull’isola per preservarne la pace interna e l’indipendenza e che limitava il diritto cubano di contrarre liberamente debiti e stipulare alleanze internazionali che rappresentassero una minaccia per la sicurezza del grande vicino. Un diritto cui negli anni a venire gli Stati Uniti non mancarono d’appellarsi. Qualche anno prima, intanto, nel 1895, era morto combattendo contro le truppe spagnole José Martí, lo scrittore e patriota cubano assurto a padre dell’indipendenza. Martí, esule negli Stati Uniti dove visse scrivendo per la grande stampa in lingua spagnola, teorizzò la necessità di conciliare la rivoluzione nazionale a Cuba con quella democratica. In tal senso fu infatti un acuto critico dei regimi oligarchici del continente, cui contrappose la necessità di dare voce alla rappresentanza popolare, e della loro ideologia positivista, cui oppose l’urgenza di integrare le varie componenti etniche. Liberale idealista, immaginò e perorò un processo di costruzione nazionale sorto dal basso, dalla società civile di cui tendeva a idealizzare forza e ruolo, e non imposto dall’alto, come vedeva accadere intorno a sé. Tali furono comunque i principi che trapiantò nel Partido Revolucionario Cubano, di cui fu fondatore nel 1892 e ideologo. Uno dei primi partiti nazionali e radicati in vari e vasti settori sociali dell’America Latina. Tipica di Martí fu la precoce consapevolezza con cui colse i segni delle mire egemoniche degli Stati Uniti, paese di cui peraltro ammirava le istituzioni e la cultura democratica. La minaccia che essi rappresentavano fin da allora ai suoi occhi lo indussero a postulare prima di tanti altri la lotta dei popoli latinoamericani per la «seconda indipendenza».

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il sempre precario ordine nei piccoli e perlopiù poveri paesi della regione. La nuova stagione che allora s’aprì nei rapporti tra Stati Uniti e America Latina trovò espressione nel corollario del presidente Theodore Roosevelt alla dottrina Monroe del 1904. Un documento nel quale egli rivendicò per il suo paese il diritto d’intervento nel resto delle Americhe per garantirvi l’ordine politico e diffondervi la prosperità economica, per tenerne lontane le potenze europee, per compiere l’opera di civilizzazione cui gli Stati Uniti si ritenevano votati. Fu quella perciò l’epoca in cui la dottrina Monroe divenne emblema della tutela politica e militare statunitense sull’area più prossima ai propri confini meridionali. E dunque oggetto prediletto dell’ostilità dell’embrionario nazionalismo latinoamericano, di cui fu tra gli altri nume il padre dell’indipendenza cubana, José Martí.

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5.

Il tramonto dell’età liberale

1. La crisi e i suoi nodi Fissare una cronologia alla crisi dell’età liberale in America Latina è per forza di cose arbitrario, tanto erano ormai differenziati i cammini dei vari paesi, alcuni dei quali vedevano già tramontare ciò che per altri era ancora un tenue bagliore all’orizzonte. E tanto i processi che la causarono erano di lungo periodo, destinati cioè a permeare la storia della regione per molti decenni dopo di allora. Fissarla perciò negli anni compresi tra la Grande Guerra e l’indomani della crisi della borsa di Wall Street è più che altro una convenzione. Tanto più che la prima guerra mondiale non ebbe certo per l’America Latina, che non vi prese parte diretta e men che meno ne fu terreno di battaglia, l’effetto devastante e periodizzante ch’ebbe invece per la storia europea. Eppure l’una e l’altra di queste date hanno un senso per delimitare una peculiare fase della storia latinoamericana. La quale era troppo legata a quella più vasta dell’Occidente per restarne estranea. E infatti non vi restò. Basti anticipare da un lato che la guerra fece suonare i primi seri campanelli d’allarme per la tenuta dei regimi oligarchici e del loro modello economico. E dall’altro che la Grande Depressione s’aprì in America Latina non solo col tracollo del modello economico imperante da vari decenni, ma anche con un’improvvisa raffica di colpi di Stato nei maggiori paesi, dove s’aprì così una lunga era militare. Tanto che il 1930 suole essere indicato come un momento chiave nella storia politica della regione. 79

Più unico che raro. Il caso dell’Uruguay Se vi fu un paese che dall’inizio del secolo imboccò una peculiare via che lo distanziò da quella della maggior parte degli altri paesi della regione e tale da consentirgli di varcare in modo tutto sommato indolore la crisi degli anni tra la prima guerra mondiale e la Grande Depressione, quello fu il piccolo Uruguay. Un paese reso ricco dal boom delle esportazioni di carne e grano, in gran parte urbano e popolato da immigrati europei che passò prima e in forma più virtuosa di altri dal liberalismo alla democrazia, gettando le fondamenta di un solido sistema democratico destinato a perdurare fino alla violenta crisi degli anni ’70, per poi rinascere in seguito con rinnovato vigore. Una democrazia che poggiava sull’elevato grado di laicità della vita pubblica e sul buon tenore di vita del grosso della popolazione, sull’elevata scolarizzazione e su servizi sociali più estesi ed efficienti che altrove. Tutti elementi le cui basi furono per l’appunto gettate a inizio secolo, proprio quando gli altri paesi stavano perlopiù imboccando la china che conduceva al tracollo liberale e all’impetuoso emergere del nazionalismo. E ciò benché l’Uruguay del XIX secolo non paresse per nulla destinato a un futuro diverso da quello degli altri, coi quali aveva infatti condiviso le frequenti guerre civili tra caudillos e il bipartitismo elitista. L’uomo che incarnò la nascita ed istituzionalizzazione di quel sistema fu José Batlle y Ordoñez, la figura che dominò la storia uru-

 Prima ancora di veder da presso le cause e le modalità specifiche di quella crisi, peraltro annunciata dai dilemmi creati ai regimi oligarchici dagli effetti della modernizzazione, occorre però fare un paio di premesse. La prima è che quelli che l’America Latina affrontò allora non furono, mutatis mutandis, problemi nella sostanza diversi da quelli affrontati dalle nazioni europee. Né le reazioni che vi prevalsero furono in generale così dissimili da quelle dei paesi latini d’Europa, con cui l’America Latina condivideva in fondo ancora l’appartenenza a una medesima civiltà. Tutti, cioè, benché taluni sotto l’enorme pressione della guerra ed altri no, alcuni più moderni ed avanzati, altri più arcaici ed arretrati, cominciarono da allora a fare i conti col passaggio dalla società d’élite alla società di massa, dall’universo reli80

guayana nei primi vent’anni del XX secolo, occupando in due casi la presidenza della Repubblica. Fu lui, infatti, a premurarsi per primo nel suo paese e nel continente di ampliare la base sociale dei due partiti tradizionali, passando precocemente al suffragio universale, poi esteso dai suoi successori negli anni ’20 e ’30 anche alle donne molto prima che lo facesse la maggior parte dei paesi occidentali. A rendere però efficaci le sue riforme politiche e duraturo il sistema che egli creò, furono le numerose altre riforme che fecero loro da corollario. Iniziando con quelle sociali, che Batlle incoraggiò fin da quando nel 1905 riconobbe ai lavoratori urbani, che nella maggior parte del continente erano allora soggetti a violenze e restrizioni, il diritto di sciopero e di formare sindacati. Riforme seguite nel decennio successivo dalla riduzione a otto ore della giornata lavorativa e da una moderna legislazione sociale. Batlle non si fermò dinanzi alla resistenza dei grandi proprietari terrieri e creò un vasto fronte sociale che spaziava dal ceto medio urbano al più ridotto ma battagliero proletariato. Fronte che la politica riformista del governo, la sua ferma adesione ai precetti costituzionali e il ruolo d’arbitro assegnato allo Stato nei conflitti sociali pilotarono su una via moderata e gradualista piuttosto che su quella radicale e rivoluzionaria che tendeva a imporsi altrove. Fu allora che, in un clima acceso ma ben diverso da quello che in altri luoghi portò a sanguinose guerre civili, furono inoltre introdotte in Uruguay talune importanti leggi laiche, sia nell’educazione pubblica, dalla quale fu bandito l’insegnamento religioso, sia nella legislazione civile, di cui entrò a far parte tra le altre anche una legge sul divorzio.

gioso a quello politico, dal liberalismo delle élites alla democrazia del popolo, dal miraggio del progresso alla realtà dei conflitti ch’esso suole recar con sé. Tutti fecero insomma i conti col delicato passaggio alla modernità, che in America Latina come in Europa generò lunghe e spesso tragiche crisi politiche, sociali, spirituali e culturali. La seconda premessa è che le crescenti difficoltà dei regimi oligarchici nel governare le sempre più complesse società sorte dopo decenni di modernizzazione ne palesarono l’incapacità di allargarne le basi sociali, cioè di costruirsi il consenso. Rivelando perciò quanto superficiale e perlopiù estranea al grosso di quelle società così frammentate fosse rimasta l’ideologia liberale ch’essi avevano invocato per legittimarsi e che tanto aveva dovuto concedere per conci81

liarsi col potere delle tradizionali corporazioni. Quanto, in altri termini, sia la struttura sociale sia la conformazione culturale dell’America Latina fossero poco propizie al suo acclimatamento. Il liberalismo, infatti, proprio come i regimi di cui era stato l’abito, finì fin d’allora nel mirino della reazione che un po’ ovunque cominciò a prendere forma. Una reazione che alzò di solito il vessillo del nazionalismo, un vessillo multicolore dietro il quale facevano capolino i tratti chiave dell’antico immaginario organicista, pronto a prendersi la rivincita. Spesso, benché non sempre, per mano di coloro che ne erano l’architrave: i militari. 2. Le cause politiche Cosa causò la crisi dei regimi oligarchici dell’età liberale? Una risposta univoca è impossibile. Tanto più che non tutti caddero. E che non tutti quelli che crollarono lo fecero all’unisono né allo stesso modo. Pur tra mille sobbalzi non crollarono del tutto, ma semmai s’evolsero in senso più democratico, i sistemi di Uruguay e Cile, benché il primo, come s’è visto, in modo tutto sommato lineare e il secondo passando attraverso varie convulsioni militari. In Messico il regime sprofondò nella rivoluzione che spalancò scenari nuovi, ma in Perù cadde per mano d’un colpo militare che ebbe piuttosto l’effetto di frenare i cambiamenti. In Brasile crollò perché obsoleto, mentre in Argentina agonizzò per tutti gli anni ’30. E così via, compresi i casi in controtendenza. Come la Colombia, dove fu il dominio clericale dei conservatori a entrare in crisi, per esser soppiantato da un’ondata di liberalismo di ritorno. E così di seguito, con una casistica quanto mai varia. Ognuno andò dunque per conto suo? O esiste un filo rosso in mezzo a tante differenze? In termini politici, quel che più erose la stabilità e la legittimità di quei regimi si suole dire che fu il montare della domanda di democrazia. Qualsiasi cosa chi l’invocava intendesse con tale parola, la quale evocava in realtà, in molti casi, soluzioni che con la democrazia avevano ben poco a che fare. Tanto che forse sarebbe più corretto dire che era la domanda di partecipazione, o di cambiamento toutcourt, che agitava i tempi. Espressioni di nuovi ceti, perlopiù dei ceti intermedi, ma spesso anche di parti delle élites insoddisfatte della gabbia oligarchica imperante, nacquero o piantarono profonde ra82

dici ovunque nuovi partiti. Come l’Unión Civica Radical in Argentina o l’Alianza Popular Revolucionaria Americana (Apra) in Perù, per menzionare due esempi che fecero scuola. O il Partido Constitucional Progresista con cui in Messico Francisco Madero sfidò nel 1910 Porfirio Díaz. Partiti il cui programma soleva per l’appunto avere al primo punto la richiesta di elezioni libere e trasparenti. Col che cercarono di metter le oligarchie con le spalle al muro, svelandone l’ovvia contraddizione. Sfidandole cioè a rispettare nei fatti i principi ch’esse proclamavano nelle Costituzioni. I regimi oligarchici entrarono perciò in crisi e poi caddero per lasciar posto al fisiologico avvento di un’età democratica? Nient’affatto. Quel che avvenne prima e dopo il 1930 nella maggior parte dei casi fu in realtà assai diverso. Laddove le élites al potere erano più solide o più deboli erano le nuove forze perché più arretrati erano i loro paesi, s’assistette in genere a una reazione autoritaria. Il che comportò che la democrazia politica perdesse allora una preziosa opportunità. Laddove invece la modernità s’era troppo imposta perché i vecchi regimi riuscissero ad arginarne gli effetti, cioè nei paesi più moderni ed avanzati, sorsero altri fenomeni tipici dell’avvento della società di massa. Sorsero infatti i populismi di cui ci occuperemo nel prossimo capitolo. Anch’essi tutt’altro che ascrivibili alla tradizione della democrazia liberale e rappresentativa, la quale dunque perse anche in quei casi il treno della storia. Si scoperchiò cioè in quei paesi il vaso di Pandora di quelle società in piena trasformazione che i nuovi partiti sorti nei primi decenni, quelli legati ai ceti medi e d’impronta in genere riformista, non poterono rappresentare né contenere. In entrambi i casi, come si vede, e proprio come alla stessa epoca nelle nazioni latine dell’Europa meridionale, il declino dei regimi liberali non spianò la via alla democrazia rappresentativa, bensì a regimi politici d’altro tipo. Emblema della medesima, generica domanda di partecipazione e cambiamento fu proprio allora il movimento della riforma universitaria. Un movimento sorto a Cordoba, in Argentina, nel 1918, nel cui programma spiccava la richiesta di democratizzare l’accesso e il governo delle Università. E i cui echi giunsero un po’ ovunque in America Latina, confondendosi con quelli sollevati poc’anzi dalla rivoluzione messicana. Ad erodere le fragili fondamenta dei regimi oligarchici contribuì infine anche l’emergere di altri partiti o movimenti, tutti sorti dal se83

L’Apra e i partiti radicali Dal partito radicale che in Argentina giunse nel 1916 al potere a quello che in Cile sostenne nel 1920 il governo riformista di Arturo Alessandri, dai primi movimenti che nel Venezuela dominato dalla ferrea dittatura di Juan Vicente Gómez ne sfidarono il potere a quelli che in Perù fecero altrettanto contro il regime autoritario e modernizzante di Augusto Leguía, ai numerosi altri che in diversi modi, con maggiore o minor forza e nei vari contesti crebbero allora come funghi un po’ in tutta l’America Latina, le nuove formazioni politiche sorte allora dal seno di quelle società sempre più complesse furono un tratto peculiare dell’epoca. Tali partiti incarnarono allora le vaste aspettative di un’incipiente democratizzazione e della nascita di un sistema politico nuovo e istituzionalizzato, in grado di dare un’articolata rappresentanza della pluralità sociale. Aspettative poi rimaste nella gran parte dei casi frustrate allorché la crisi del sistema liberale travolse in molti paesi anche i partiti politici che ne erano elemento chiave, spesso soppiantati dalla potenza delle antiche o nuove corporazioni. Tra tali partiti spicca la Alianza Popular Revolucionaria Americana (Apra), il partito fondato nel 1924 in Messico, dove si trovava esule, dal giovane leader politico peruviano Víctor Raúl Haya de la Torre. Un partito nato allora con ambizione sovranazionale, poiché espressione delle correnti che all’epoca tentavano in diversi punti dell’America Latina di conciliare democrazia, riforme sociali

 no della moderna questione sociale, quella del conflitto tra capitale e lavoro, che anche in America Latina cominciava ad imporsi un po’ ovunque. Partiti o movimenti dapprima soprattutto anarchici e socialisti, ma dopo la rivoluzione bolscevica del 1917 anche comunisti, riuniti nel 1929 nella prima Conferenza dei partiti comunisti dell’America Latina. Raggruppamenti politici e sociali spesso di dimensioni ancora ridotte ma più organizzati, motivati e attivi della maggior parte degli altri attori di quei sistemi politici spesso ancora invertebrati. E per di più spesso in grado di far sentire con vigore gli effetti delle loro lotte, essendo particolarmente forti nei settori chiave dell’economia, quelli legati alle esportazioni, come i trasporti, le 84

e nazionalismo, e divenuto poi protagonista chiave della tribolata storia politica del Perù. Ma anche un partito la cui influenza politica e ideologica si diffuse col tempo in vari paesi americani, specie dell’area andina e in altri paesi dell’America Centrale e dei Caraibi. L’Apra, la cui base sociale copriva soprattutto i ceti medi ma includeva anche talune frange di proletariato, inneggiava innanzitutto alla lotta contro l’imperialismo degli Stati Uniti. Come iniziava ad essere comune in quell’epoca di assiduo interventismo statunitense, per di più in un paese come il Perù dove gli interessi minerari americani erano in crescita e per un giovane come Haya de la Torre esiliato dapprima a Panama e poi alla corte del regime nato dalla rivoluzione messicana. A parte ciò, il programma originario dell’Apra prevedeva l’unione di quella che il suo leader definiva Indoamerica, alludendo al riscatto delle radici indiane della regione, la nazionalizzazione di terre e miniere e un generico fronte antimperialista universale. Benché molti di quei punti l’avvicinassero in un primo momento ai movimenti marxisti che stavano nascendo sull’onda della rivoluzione bolscevica, quel che presto rivelò l’ideologia dell’Apra fu un accentuato nazionalismo che conduceva a teorizzare una sorta di terza via tra capitalismo e comunismo. Un tratto tipico, come si vedrà, dei populismi latinoamericani. Detto ciò, il colpo di Stato prodottosi in Perù nel 1930 e i successivi, violenti scontri tra l’esercito e il movimento aprista preclusero al suo leader la via del governo, che l’Apra raggiunse per la prima volta molto più tardi, nel 1985, in un contesto ormai lontano anni luce da quello delle sue origini.

miniere, le industrie di congelamento della carne e così via. Sempre in bilico tra legalità e clandestinità, tra Parlamenti e sindacati, tra via riformista e via rivoluzionaria, ora tollerati, più spesso violentemente repressi, quei movimenti non divennero allora moderni partiti di massa, ma ebbero un importante ruolo nel minare le basi sociali e le certezze ideologiche dei regimi liberali-oligarchici. 3. Le cause sociali ed economiche Le certezze delle élites cominciarono a vacillare man mano che il progresso e il mito che gli era stato creato intorno venivano intacca85

La rivoluzione messicana Nella rivoluzione messicana, la cui fase armata durò dal 1911 al 1917 e fu di fatto una violenta guerra civile costata oltre un milione di vite la cui coda politica e di violenze si prolungò per molto tempo ancora dopo la fine dei combattimenti, convissero realtà e fenomeni assai diversi. A loro volta riflessi di rivendicazioni, gruppi sociali e parti del territorio molto eterogenei. La rivoluzione messicana fu insomma varie rivoluzioni insieme, con cui giunse a fine traumatica il porfiriato e furono gettate le basi di un nuovo ordine politico e sociale. Nacque come rivoluzione politica, sotto la pressione delle élites liberali del nord del paese che rivendicavano la democratizzazione del regime. Di tale rivoluzione fu leader Francisco Madero, che sfidò Díaz alle elezioni ma impugnò le armi e chiamò alla rivolta dinanzi alle resistenze in cui s’imbatté. Ottenuto l’esilio del dittatore e preso il potere, Madero fu però presto travolto dai dissensi tra i rivoluzionari e dalla reazione dell’esercito. Molti rivoluzionari, infatti, Emiliano Zapata in testa, non erano disposti a consegnare le armi fintanto che non avessero ottenuto la riforma agraria per cui le avevano imbracciate. Fu allora, col caos e la violenza ormai allo zenit, che il generale Victoriano Huerta s’impadronì con la forza del potere, avviando quella che a tutti parve l’imminente restaurazione dell’ordine pre-rivoluzionario. Per contrastare tali sviluppi nacque nel nord del paese un esercito costituzionalista sotto la guida di Venustiano Carranza, cui prestò importante sostegno anche Francisco ‘Pancho’ Villa, eccentrico prodotto di quel gran movimento tellurico che fu la rivoluzione, ben più simile al tipico caudillo latinoamericano che al moderno rivoluzionario. A sud, nel frattempo, continuarono contro Huerta le lotte contadine condotte da Zapata. Finché gli Stati Uniti, che in un primo momento avevano confidato nel ritorno in sella delle élites deposte, ma dove l’avvento alla presidenza di Woodrow Wil-

 ti da spiacevoli effetti secondari. Nella misura in cui, cioè, i conflitti che i loro regimi avevano cercato di neutralizzare cacciandoli dalla porta rientravano dalla finestra in forma di tensioni e disordine. Tutti fenomeni per affrontare i quali le oligarchie non erano preparate, e che tesero perciò nella maggior parte dei casi ad addebitare ad agenti e ideologie straniere giunti a minacciare la quieta armonia lo86

son impose un cambiamento di rotta, decisero l’invio di un contingente militare nel porto di Veracruz. Loro obiettivo era strangolare il governo di Huerta e obbligarlo ad abbandonare il campo. Nella convinzione che il Messico fosse pronto per un profondo cambiamento e che solo il sostegno agli eserciti costituzionalisti gli avrebbe garantito un governo stabile e democratico. Difatti Huerta cadde allora sotto la pressione incontenibile della tenaglia che lo stringeva da nord e sud. Il Messico si trovò allora in pratica senza Stato, in preda a lotte dove il confine tra politica e criminalità, movimenti sociali e orde di banditi era spesso labile o inesistente. Quel che nei fatti iniziò a quel punto fu dunque la resa dei conti tra le diverse e tra loro così estranee forze che avevano fino ad allora combattuto il comune nemico: gli eserciti costituzionalisti di Carranza e le truppe di Zapata e Villa. Le quali ne uscirono alla fine sconfitte. Rivoluzione politica, dunque, la rivoluzione messicana fu anche una gigantesca esplosione sociale, incarnata dalla sua poderosa corrente contadina di cui Emiliano Zapata fu indiscusso leader. Un uomo del Sud meticcio e indiano, per tempra e formazione agli antipodi dei ricchi e colti costituzionalisti del Nord, il cui obiettivo era ottenere la restituzione alle comunità contadine delle terre sottratte loro in epoca porfirista dalla crescita del latifondo. Frutto di tante e così eterogenee istanze, la rivoluzione non poteva che chiudersi con un compromesso tra i vincitori e le rivendicazioni di coloro che, pur essendo stati sconfitti, le avevano impresso una radicale impronta di sommovimento sociale. Suo approdo fu infatti la Costituzione di Querétaro del 1917. La quale per un verso accolse i principi liberali propugnati dagli eserciti vincitori, come le libertà individuali e la laicità dello Stato, imposta con misure molto dure contro la Chiesa e il suo ruolo sociale. Ma per un altro introdusse anche principi sociali e nazionalisti all’epoca del tutto inediti nella regione, laddove postulò la proprietà della nazione sui beni del sottosuolo e pose le basi di una riforma agraria.

cale. Col che buona parte di quelle élites un tempo liberali e cosmopolite corsero al riparo del rassicurante mito nazionalista della società coesa ed equilibrata, soggetta agli attacchi di un nemico esterno e dei suoi alleati interni. I regimi oligarchici non erano insomma preparati ad affrontare i moderni conflitti sociali ed ideologici, né a governare l’ormai inarrestabile pluralismo politico. Prigionieri della 87

cieca fede nel progresso e dell’ancor più solida ostilità alla politica, quei regimi avevano infatti ostruito, salvo in rari casi, i canali necessari per metabolizzare le nuove sfide e disinnescarne il potenziale distruttivo: quelli democratici. La prima guerra mondiale fu in tal senso decisiva anche in America Latina. Ed i potenti echi ch’essa sollevò non svanirono di certo nel decennio successivo, per quanto i suoi effetti paressero per un breve tempo diradarsi. Lo fu innanzitutto per quel che fece cadere: il mito dell’Europa felix, culla della cultura francese, della democrazia britannica, della scienza e delle armi tedesche. Come poteva, quell’Europa che si dilaniava nelle trincee, essere ancora un modello di civiltà? Cosa rimaneva del dogma positivista delle élites politiche e intellettuali, quello che ne aveva legittimato il potere agitando il miraggio di raggiungere la civiltà europea emulandola? Ma al di là di tali astratti ma portentosi effetti, la guerra n’ebbe di più concreti ed immediati. La gallina d’oro dei regimi oligarchici, il modello primario-esportatore, patì infatti durante la guerra i suoi primi seri cortocircuiti. Non perché non ne avesse mai avuti, ma perché stavolta ne incrinarono le basi. Com’era inevitabile, d’altronde, dato che la sua sponda europea, tutta rivolta allo sforzo bellico, venne in gran parte a mancare. Il che ebbe notevoli conseguenze. Talune immediate, poiché molte economie della regione si trovarono di colpo in ambasce, senza sbocchi sicuri per le loro merci e senza più i beni ch’erano solite importare. Ed altre più durature, dal momento che la guerra accelerò taluni fenomeni già in corso. Indusse in primo luogo i paesi americani coi capitali per farlo a sostituire parte di quel che non riuscivano più a importare: a creare insomma una certa rete di industrie, il cui effetto fu di dare ulteriore impulso alla modernizzazione sociale e alle domande politiche che già assediavano i regimi oligarchici. Agevolò poi la crescente penetrazione nella regione del capitale statunitense al posto di quelli europei, dando nuovo carburante alla già viva fiamma nazionalista. Quel che però più conta è che l’insieme di tali fenomeni scosse la convinzione che quel modello fosse eterno e sempre virtuoso. E diffuse la consapevolezza ch’esso comportava anche seri rischi, tra i quali il più evidente era la vulnerabilità delle economie dell’America Latina. Tanto più che quegli scossoni economici si tradussero ben presto in taluni intensi terremoti sociali. La scarsità di beni, l’inflazione che erodeva i salari, le grosse sacche di disoccupazione, l’assenza di si88

stemi previdenziali, cui solo in Cile, Uruguay ed Argentina si cominciò allora a metter mano: questi e molti altri problemi furono alla base della grande ondata di scioperi, spesso violenti e con ancor più violenza repressi, che attraversò l’America Latina tra il 1919 e il 1921. Dall’Argentina al Perù, dal Brasile al Cile. Quando era per di più ancora fresca l’eco della rivoluzione in Messico, che con tanta forza era risuonata per l’intera regione. Il clima, insomma, era cambiato e, quando dieci anni dopo giunsero i drammatici effetti della crisi economica mondiale, il terreno era ormai pronto per grandi sommovimenti. 4. Il nuovo clima ideologico Come sempre capita, il nuovo clima politico fu annunciato prima e accompagnato poi dal sorgere di nuove idee. Sia in campo politico, sociale ed economico. Sia, ancor prima, in campo filosofico, artistico e letterario. Dove infatti il positivismo cominciò presto a subire i primi assalti, specie da quando nel 1900 uscì l’Ariel di José Enrique Rodó, una sorta di manifesto del nazionalismo e della reazione antimaterialista proseguita poi dal cosiddetto modernismo, di cui fu rappresentante di spicco il poeta nicaraguense Rubén Darío. L’ondata di idee, sia sparse sia strutturate in ideologie, che alla fine travolse la barriera positivista, coprì un ventaglio molto ampio di espressioni. Spesso assai diverse e in contrasto tra loro. Quel che qui importa è coglierne taluni elementi essenziali e osservare come pur tra tante divergenze, le nuove idee tendessero a confluire verso un generico paradigma nazionalista. Tanto, insomma, durante l’età liberale la tendenza prevalente era stata quella d’andare cercando modelli politici e culturali fuori dalle frontiere, laddove più fiorente era la civiltà moderna, quant’ora prevalse quella di guardarsi dentro alla ricerca di una nazionalità e delle sue origini, alla cui ricostruzione o invenzione furono perciò dedicati assidui sforzi. Sia perché, come s’è visto, i vecchi modelli s’erano infranti. Sia perché, consolidati gli Stati, si trattava ora di forgiarne i cittadini. Di fare la nazione, insomma, instillando nella popolazione un senso di appartenenza e destino condivisi. Al punto che se incoraggiando l’immigrazione le élites positiviste avevano inteso attenuare la componente etnica indiana e afroamericana accrescendo quella bianca europea, nella con89

vinzione che l’eterogeneità fosse una zavorra per lo sviluppo della civiltà, nel nuovo clima maturarono talune correnti indigeniste, nonché la rivendicazione dell’America meticcia. Di un’America che offriva cioè come peculiare apporto alla civiltà la sua raza cósmica, l’uomo nuovo creato dalla sua eccezionale storia, come sostenne il messicano José Vasconcelos. Al dogma scientista subentrò allora una reazione spiritualista. Una reazione maturata fin dagli anni ’20 e sfociata in seguito in un vero e proprio revival cattolico, i cui protagonisti furono talvolta positivisti convertiti. Un revival che alimentò gruppi, partiti, movimenti e idee politiche che coniugarono la cattolicità e la nazione nella tipica miscela nazional-cattolica di molti paesi ispanici. All’ottimista fede nel progresso venne perciò un po’ alla volta a sostituirsi un’ossessiva ricerca di identità, perlopiù rivolta all’individuazione delle radici di un’identità nazionale spesso mitica. Tanto che si fece da allora un gran parlare di brasilianidade, di cubanidad, di peruanidad e così via, come a rappresentar così una identità eterna e incorrompibile della nazione. In luogo delle virtù e delle libertà dell’individuo si cominciarono allora a rivalutare l’essenza e i valori della comunità; ora intesa come comunità organica formata da corporazioni e cementata dall’unità religiosa nel caso dei cattolici; ora come unità di classe nel caso dei marxisti, tra i quali cominciarono peraltro fin d’allora ad emergere talune correnti che si sforzarono di nazionalizzare quell’ideologia di per sé internazionalista. Come nel caso del peruviano José Carlos Mariátegui e del suo sforzo di ricondurla ad una sorta di comunismo incaico primigenio, precedente cioè la conquista spagnola, vero o immaginato ch’esso fosse. Il cosmopolitismo così caro e teorizzato un tempo cominciò d’allora ad essere perciò oggetto di radicali diatribe. Prese ad esser cioè inteso come un vezzo da oligarchi ridotti a scimmiottare le élites straniere. Come un costume, soprattutto, estraneo al popolo, del cui ingresso nella storia erano così segnati quei tempi. Popolo su cui fu perciò tutto un fiorir di studi di etnografi e antropologi, di ricerche interessate a ricostruirne i costumi alimentari, musicali, religiosi e quant’altro. Alla ricerca del suo sentire e della sua identità, e con essa di quelli della nazione. Tali furono, sul piano ideologico, le premesse della marea nazionalista che cominciò a dilagare nel continente. La quale non fu una marea univoca, dato che di nazionalismi ve ne furono tanti e di di90

Il krausismo Oggi pressoché dimenticato, e in realtà ben poco noto fuori dal mondo ispanico e tedesco, esercitò ampia influenza nell’America Latina dell’epoca il krausismo. La dottrina cioè del filosofo tedesco Karl Krause, una sorta di liberalismo spiritualista giunto in America Latina attraverso la Spagna, dov’ebbe numerosi e prestigiosi estimatori e divulgatori. Il krausismo influenzò non poco la riflessione politica di uomini come José Martí e José Batlle y Ordoñez e la parabola di molti dei partiti radicali giunti alla maturità negli anni ’20 del Novecento. A renderla probabilmente così attrattiva nel clima culturale dell’America Latina, ed anche passibile di sviluppi diversi dalle premesse liberali da cui partiva, era il suo sforzo di conciliare liberalismo e organicismo.

verso tipo. Né una marea limitata agli ambiti visti finora, dato che si manifestò anche sul piano politico ed economico. Il che non toglie che il clima stava per l’appunto cambiando. 5. Le diverse vie della crisi liberale Le vie prese di caso in caso dalla crisi dei regimi oligarchici furono molteplici e farne una casistica equivarrebbe a seguirle una ad una in un florilegio di nomi, date, circostanze. E lo stesso vale per i loro esiti, tutt’altro che uniformi. Tanto vale, perciò, cercare di raggrupparli per tipologie, senza peraltro ambire ad essere esaustivi. Il caso di crisi più noto, violento e d’impatto continentale fu quello già visto del Messico, dove il porfiriato finì per diventare, dopo tanti anni, un pericoloso coperchio calato su una pentola in ebollizione. Quella della società messicana, dove le diverse voci così a lungo compresse esplosero all’unisono e scoperchiandolo gettarono le basi della transizione, lunga e violenta, verso un nuovo ordine. Non solo politico, ma anche economico e sociale. All’estremo opposto, almeno rimanendo ai paesi maggiori, si collocò all’epoca l’Argentina. Dove l’introduzione della ley Sáenz Peña nel 1912, si ricorderà, aprì le porte a quella che parve poter diventare la virtuosa metamorfosi del regime oligarchico in regime democratico con l’elezione, a suffragio universale maschile, del leader ra91

dicale Hipólito Yrigoyen nel 1916. Elezione cui nel 1922 seguì un regolare avvicendamento costituzionale, confermato sei anni dopo, quando Yrigoyen fu nuovamente eletto, finché però un colpo di Stato mise fine nel 1930 a quell’incipiente esperienza democratica. La quale cadde vittima di diverse cause. Da un lato, la più evidente fu la reazione conservatrice di vasti settori alla democrazia politica: dalle élites economiche ai vertici ecclesiastici e militari. Reazione che si rivolse contro il crescente conflitto sociale e la diffusione di ideologie rivoluzionarie, alle quali la democrazia era accusata di non saper far fronte o addirittura di spianar la via. Nacquero infatti gruppi nazionalisti antidemocratici, si diffusero correnti ideologiche autoritarie e si formarono movimenti controrivoluzionari. Dall’altro lato, però, la giovane e imperfetta democrazia argentina cadde anche per la tendenza del partito maggioritario, il radicale, o perlomeno d’una sua parte, a trasformarsi in movimento nazionale. A monopolizzare cioè il potere impadronendosi dell’identità stessa della nazione, snaturando in tal modo lo spirito pluralista della moderna democrazia. Su tutto ciò caddero come fulmini i tremendi effetti della crisi di Wall Street, col che il paese che s’ergeva a baluardo della civiltà europea nelle Americhe entrò nel tunnel d’una crisi non così dissimile da quella di tanti vicini latinoamericani. Le masse o i fantasmi ch’esse evocavano non furono ovunque altrettanto decisive nel generare la crisi dei regimi oligarchici. A cominciare dal Brasile, dove si ricorderà che a sancirne il declino furono, oltre agli ormai assodati effetti del crack economico del 1929, altri due fattori. Il primo fu l’emergere alla ribalta di un nuovo Stato, Rio Grande do Sul, la cui ascesa fece saltare la consueta alternanza al potere tra le élites di San Paolo e Minas Gerais. Proprio dal nuovo Stato veniva infatti Getúlio Vargas, l’uomo che, sconfitto alle elezioni del 1930, ne denunciò l’irregolarità e fu poi portato al potere dai militari. Per restarvi, come si vedrà, a lungo. Ma il secondo fattore, ancor più importante, furono i militari, specie i tenentes, i giovani ufficiali di grado intermedio che già negli anni ’20 inscenarono varie rivolte. Furono essi, infatti, ad incarnare più di chiunque altri il nuovo clima nazionalista, imponendo la creazione d’uno Stato accentrato e deciso a organizzare sotto la sua ala la popolazione laddove le élites avevano creato uno Stato disperso in tante autonomie e privo di seguito popolare. Tale fu il senso del colpo di Stato del 1930. 92

L’instabilità politica tornò dunque a scuotere le fondamenta del continente. Dal Perù, dove nel 1930 cadde la lunga dittatura di Augusto Leguía, al Cile, dove nel mezzo di una stagione di convulsi conflitti s’impose la breve dittatura del generale Ibañez; dal Salvador, dove un golpe blindò nel 1931 il dominio delle oligarchie del caffè sfidato dai primi moti contadini, al Venezuela, dove dalla fine degli anni ’20 cominciarono a manifestarsi i primi segni d’insofferenza verso la lunga autocrazia di Juan Vicente Gómez. A molti altri, tutti peculiari casi. Nei quali furono in generale i militari a far da protagonisti. Ad abbattere o a prender sotto la propria tutela le istituzioni liberali sorte durante i regimi oligarchici, a quanto pare troppo fragili per reggere l’urto della modernità in quelle società dove la frammentazione sociale faceva sì che esse apparissero a gran parte della popolazione l’espressione politica di un mondo estraneo: quello delle élites bianche e della loro cultura. Militari i cui interventi non furono però di senso univoco, sempre cioè a favore di una specifica classe sociale. Come si vedrà nel prossimo capitolo. 6. L’età del «big stick» e l’ascesa del nazionalismo Gli interventi militari degli Stati Uniti nell’area centroamericana e caraibica furono una trentina nei primi trent’anni del Novecento. Talvolta furono assai brevi, ma altre volte durarono vari lustri, come per esempio in Nicaragua o ad Haiti. In taluni casi ebbero il mero obiettivo di por fine alle guerre civili locali imponendo un uomo o un partito fedeli a Washington, oppure di proteggere i cittadini e le proprietà statunitensi minacciate dal disordine locale. Specie quelle delle grandi multinazionali che all’epoca ampliarono a dismisura i loro interessi, sia nell’estrazione mineraria e nei primi passi dell’industria petrolifera, sia nel campo della produzione di beni tipici dell’agricoltura subtropicale, in cui spiccò il potente ruolo della United Fruit Company. In altri casi, specie sotto Woodrow Wilson, gli interventi militari statunitensi ebbero maggiori ambizioni politiche e ideali ed espressero un chiaro intento paternalista e pedagogico. Cercarono cioè di gettare le basi istituzionali di Stati e amministrazioni economiche più solide e razionali. In tutti i casi, comunque, la politica statunitense nella regione fu riflesso della dottrina del destino manifesto e comportò non solo l’intervento militare, ma anche la 93

La guerra del Chaco Gli assestamenti di Stati-nazione dai confini spesso incerti, che già nella seconda metà del XIX secolo erano stati causa di alcune guerre tra vicini, e la fragilità di taluni governi pronti a usare l’arma nazionalista per colmare le proprie carenze di legittimità ebbero un ruolo chiave nelle crescenti tensioni che dagli anni ’20 s’addensarono sui rapporti tra Bolivia e Paraguay. Gli unici due Stati privi di sbocco al mare e, caso vuole, gli stessi sconfitti nei conflitti del secolo precedente. Benché il mito voglia che la guerra fosse dovuta alla competizione di due grandi imprese petrolifere straniere sul territorio contestato al confine tra i due paesi, a causarlo furono ben altri motivi, specie la frustrazione boliviana per il fallimentare esito dei negoziati per lo sbocco sul Pacifico, che ne indusse il governo a cercare d’aprirsi un varco verso l’Atlantico attraverso il sistema fluviale del debole Paraguay, e in generale il clima nazionalista che montava più che mai all’epoca. La guerra fu chiusa dall’armistizio firmato a Buenos Aires nel 1935, che fruttò al ministro degli Esteri argentino il premio Nobel per la Pace, al Paraguay il riconoscimento della sovranità sul territorio contestato e alla Bolivia una nuova umiliazione, causa di imminenti crisi. Sul terreno erano intanto rimasti i corpi di circa 100.000 persone.

profonda espansione commerciale, l’intento di scalzar gli interessi europei dall’area e lo sforzo di diffondere i valori della civiltà americana. In genere senza successo. L’interventismo e il senso di superiorità che gli fece spesso da contorno contribuirono comunque fin da allora ad alimentare la pianta del nazionalismo che già cominciava a crescere rigogliosa negli ancor giovani Stati dell’America Latina. Il nazionalismo latinoamericano trovò infatti non solo negli Stati Uniti e nella loro ingerenza politica, ma ancor più nelle basi stesse della civiltà che essi ambivano ad esportare, il nemico in contrapposizione al quale costruire la propria missione e la propria identità. Tipico, in tal senso, sia in sé sia per l’aura mitica che presto l’avvolse, fu il caso del piccolo esercito guidato in Nicaragua contro i marines da Augusto Sandino, una sorta di Davide nazionalista in lotta contro il Golia imperialista, ucciso nel 1934 dalla Guardia Nazionale messa in piedi dagli Stati Uniti durante la loro occupazione. Golia 94

del quale il nazionalismo latinoamericano prese dunque a rifiutare non solo l’espansionismo, ma anche il liberalismo, il capitalismo, la democrazia rappresentativa, additati ad altrettanti tratti della civiltà protestante, individualista e materialista tipica dei paesi anglosassoni contrapposta a quella cattolica basata sul comunitarismo e la democrazia organica dell’America Latina.

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Corporativismo e società di massa

1. Il declino del modello primario-esportatore Il crollo della borsa di Wall Street nell’ottobre del 1929 rivelò al mondo quant’esso fosse ormai interdipendente. E gli presentò un conto assai salato. Anche all’America Latina, perciò, che dalla sua onda fu in breve investita. Per coglierne gli effetti è però bene distinguere quelli visibili ed immediati da quelli di più lunga portata, destinati cioè ad incidere sulla struttura stessa del modello di sviluppo della regione. In quanto al primo punto, cioè gli effetti immediati, è presto detto: furono pesanti e tanto più gravi quanto maggiore era l’esposizione al mercato internazionale. Come si manifestarono? In genere attraverso il repentino crollo del prezzo delle materie prime esportate. Crollo che, insieme alla contrazione dei mercati colpiti dalla recessione e al prosciugamento del flusso di capitali esteri verso la regione, causò in tutta l’America Latina una drastica riduzione delle entrate e del valore delle esportazioni. Il quale fu mediamente del 36% in appena tre anni, ma in ben nove paesi superò addirittura il 50%. Con differenze anche notevoli da paese a paese, dato che non tutte le materie prime furono ugualmente colpite dal trend negativo. Tutto ciò causò gli effetti a catena ch’è facile immaginare. Sia sul piano economico, sia su quello sociale e politico. Da un lato, infatti, il crollo degli introiti fino ad allora garantiti dalle esportazioni colpì l’economia locale, con quel che ne conseguì in termini di occupa96

zione, di agitazioni sociali, di instabilità politica. Dall’altro, e con gli stessi effetti, i bilanci pubblici si trovarono da un giorno all’altro decurtati nella voce che ne componeva la maggior parte: il prelievo fiscale sul commercio internazionale. Ecco allora i governi costretti a tagliare le spese, a bloccare gli investimenti pubblici, a cercare insomma di tenersi a galla in mezzo a quella tormenta. Il più delle volte senza riuscirci, visto che l’esito politico di quel drammatico passaggio fu in molti casi la caduta manu militari dei governi costituzionali. Detto ciò, va però aggiunto che tali effetti non furono durevoli e che nel complesso le economie della regione si risollevarono piuttosto in fretta a partire dalla metà degli anni ’30. Diverso, invece, è il discorso sul secondo punto. Quello che riguarda il modello di sviluppo. La crisi del 1929 assestò infatti un colpo letale al modello primario-esportatore e creò le condizioni per il suo accantonamento. Sia perché a sotterrarlo furono i cambiamenti intervenuti nell’economia internazionale, dove le maggiori potenze si crearono mercati protetti da barriere doganali. Sia perché molti governi dell’area, con ritmi e tempi diversi, reagirono a quella drammatica prova di vulnerabilità orientandosi verso il nazionalismo economico e lasciandosi alle spalle il liberismo dei tempi andati, ormai additato a emblema del dominio degl’interessi oligarchici. Anch’essi ricorsero perciò spesso a misure protezionistiche. E anche in America Latina crebbe l’intervento economico dello Stato. Così come nella formazione della ricchezza tese a calare il peso del commercio e a crescere quello dell’industria. Dapprima gradualmente, poi più in fretta durante la seconda guerra mondiale, quando il nuovo tracollo degli scambi oceanici dette impulso alla produzione locale. Almeno nei paesi più grandi ed avanzati, dove maggiori erano il mercato interno e la disponibilità di capitali. Senza dimenticare, però, che quell’incipiente industrializzazione era perlopiù sostitutiva delle importazioni. Volta, cioè, alla fabbricazione locale di beni di vasto consumo la cui produzione non richiedeva moderne tecnologie e ingenti capitali: alimenti, indumenti, calzature e così via. E che né era così estesa, contribuendo quasi ovunque per meno del 20% alla formazione del prodotto nazionale; né eliminava il peso strategico delle materie prime, dalla cui esportazione dipendeva ancora in gran parte l’economia locale.

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2. Verso la società di massa Così come cambiarono il profilo economico dell’America Latina, la Grande Depressione e la guerra mondiale ne cambiarono anche quello sociale. In taluni casi imponendo brusche svolte. Come nel caso dell’immigrazione, che dopo avere sconvolto per decenni il panorama demografico di buona parte del continente s’arenò ora sulle secche della crisi. Chi in un modo e chi in un altro, infatti, i principali paesi d’immigrazione le imposero severe restrizioni, col che negli anni ’30 il suo flusso in pratica s’esaurì. Questo non impedì però che allo scoppio della guerra civile in Spagna un grande numero di rifugiati repubblicani, spesso artisti e intellettuali, trovassero accoglienza in America Latina, specie in Messico. Né che la popolazione continuasse a crescere a ritmi sostenuti, pari a quasi il 2% negli anni ’30 e ancor più in fretta nel decennio successivo. Grazie soprattutto all’elevato tasso di natalità, ma anche alla significativa riduzione del tasso di mortalità registrato in molti paesi. Soprattutto in quelli del Cono Sud e in Messico, dove i poteri pubblici avviarono importanti interventi per il miglioramento delle condizioni sanitarie nelle città e per debellare talune malattie endemiche, come il colera, che in effetti cessarono d’esser l’incubo ch’erano a lungo state. Se d’immigrazione si poté allora parlare, dunque, fu perlopiù di quella interna. Delle masse di popolazione rurale, cioè, che spinte dalla crescita demografica e dalla concentrazione della terra lasciò le campagne per spingersi in città. Dove peraltro fu spesso difficile trovare sbocchi, viste le dimensioni ancora limitate della nascente industria. I maggiori centri urbani, lievitati spesso in pochi anni, non furono da parte loro in grado di fare fronte alla novità predisponendo i servizi necessari, tanto che intorno ad essi crebbero allora sempre più vasti e numerosi gli agglomerati di baracche e casupole di lamiere e cartapesta, cui ogni paese dette il nome che più gli parve consono: ranchos, favelas, villas miserias e via di seguito. Quest’ultimo fenomeno, parte di un più generale e spesso caotico inurbamento, s’innestava appieno lungo il solco delle trasformazioni in corso da tempo per effetto della modernizzazione economica iniziata sotto i regimi oligarchici. A cambiare fu semmai il loro ritmo, più che la sostanza. E i tempi da un paese all’altro, visti i netti divari tra Argentina, Cile e Uruguay da un lato, dove la popolazione urbana superava già il 30%, e paesi come Messico, Perù, Brasile e 98

Colombia dall’altro, dove non raggiungeva ancora il 15% e dove la grande urbanizzazione sarebbe avvenuta soltanto in seguito. Dati che a loro volta trovavano riscontro in altri indicatori sociali, a cominciare dal tasso d’alfabetizzazione, più elevato tra la popolazione urbana, e dunque nei primi paesi, che in quella rurale, e dunque nei secondi, dove l’analfabetismo era ancora maggioritario. Nella maggior parte dei casi, dunque, il grosso della popolazione continuava a vivere in campagna. E sempre dalla campagna dipendeva il grosso dell’attività produttiva. Eppure proprio l’ambiente rurale fu il meno interessato dalla modernizzazione, benché la rivoluzione messicana e la riforma agraria ch’essa aveva propugnato avessero imposto il problema della terra e della sua pessima distribuzione al centro dell’attenzione. Il fatto è che, se da un lato l’economia d’esportazione aveva favorito grandi concentrazioni di terre perlopiù sfruttate a monocoltura per il mercato mondiale, dall’altro buona parte dell’ambiente agricolo era caratterizzato da un profilo quanto mai arcaico. Un profilo dove dominava l’autoconsumo e dilagava la miseria, dove il mercato interno rimaneva rachitico, dove la maggior parte della popolazione non possedeva terra o non ne aveva a sufficienza, dove infine i contratti d’affitto erano spesso forme legalizzate di servitù. Visti i tratti assunti dall’urbanizzazione e le tensioni che attraversavano il mondo agricolo, non sorprende che sia in campagna sia in città si creassero allora le condizioni per l’esplosione di rivolte e conflitti. Ora spontanei ora organizzati. E che essi dessero maggior sostanza ai segnali già lanciati dagli scioperi del 1919, confermando che il moderno conflitto di classe stava sbarcando in America Latina, le cui società stavano assumendo i contorni tipici delle società di massa. Di quelle società dove le gerarchie sociali tradizionali e la deferenza che soleva accompagnarle erano sul punto di saltare. Dai moti contadini promossi dall’Apra in Perù a quelli schiacciati nel sangue in Salvador; da quelli in Messico al grido di «Viva Cristo Re» alle prime leghe contadine brasiliane, le campagne furono sempre più spesso terreno di scontri sociali. E se lo furono le campagne dove l’arretratezza imperava, si può intuire che a maggior ragione lo diventassero le città. Dove infatti crebbero gli aderenti ai sindacati, sia operai sia impiegatizi. E dove i sindacati intensificarono le mobilitazioni per ottenere la giornata lavorativa di otto ore e l’introduzione di un sistema previdenziale in caso d’incidenti o malattie. Scontran99

dosi però spesso con un padronato poco propenso al negoziato e viceversa tentato ad attribuire la responsabilità di quei conflitti alla perniciosa suggestione di influenze esterne. Col che, come s’è visto, culminò l’abdicazione dal liberalismo coltivato un tempo delle vecchie classi dirigenti, ora piuttosto votate ad abbracciare un rassicurante nazionalismo. Comunque sia, cominciarono da allora a prefigurarsi le correnti sindacali che anche in futuro avrebbero continuato a disputarsi il campo, ora da fronti opposti, ora dal seno di una medesima confederazione. A cominciare dal sindacato di classe, dove socialisti e comunisti scalzarono il declinante anarchismo e nel 1938 conversero nella Confederación de Trabajadores de América Latina, un organismo collaterale ai fronti antifascisti e facente capo alla carismatica figura del messicano Vicente Lombardo Toledano. Proseguendo coi sindacati cattolici, non sempre in realtà così in grado di penetrare a fondo nel mondo operaio ma assai influenti per la capacità d’attrarre consensi intorno alla loro invocazione della dottrina sociale dei pontefici, ossia di una terza via tra comunismo e capitalismo. E finendo coi precoci sforzi compiuti fin d’allora dai sindacati statunitensi per diffondere il verbo del panamericanismo, cioè dell’unità continentale, tra i lavoratori dell’America Latina contrastando le ideologie classiste. 3. La notte della democrazia Come in Europa, dove prima negli anni ’30 e poi durante la guerra la democrazia rappresentativa capitolò nella maggior parte dei paesi, così accadde anche in America Latina, dov’essa muoveva appena i primi passi. O dove ancora non aveva neppure avuto il tempo di farlo. E come in Europa, anche in America Latina essa non solo capitolò, ma parve più che mai allora un ideale senza fascino né credito, desueto e anacronistico, inadatto a rappresentare la nuova realtà sociale. Nel clima dell’epoca, insomma, segnato dall’avvento delle masse nella vita politica e dal diffondersi del moderno conflitto sociale, prevalsero ideologie e modelli politici avversi o indifferenti alla democrazia liberale e alle istituzioni dello Stato di diritto. Le quali parvero loro mere finzioni inventate dalla borghesia per ingannare il popolo, nel caso delle correnti rivoluzionarie ispirate dalla rivo100

luzione bolscevica e dal regime sovietico. Oppure artificiose divisioni nell’organismo coeso della nazione introdotte da una classe dirigente effeminata e succube di mode altrui, nel caso dei nazionalismi attratti dai fascismi europei. Fatto sta che l’appuntamento tra le masse e la democrazia politica cominciò nella maggior parte dei casi a saltare fin dagli anni ’30. E che così accadde molte altre volte in seguito. Se da un lato le spinte verso la democratizzazione già emerse in precedenza continuarono ed anzi s’intensificarono, dall’altro trovarono sempre meno sbocchi nell’alveo delle istituzioni rappresentative, dove peraltro raramente li cercarono. E se d’altronde s’era già rivelata in molti casi ardua l’integrazione politica dei nuovi ceti medi, spesso bianchi e alfabetizzati, oltre che socialmente moderati, non è difficile immaginare l’enorme pressione che gravò su quelle fragili istituzioni quando la protesta cominciò a salire dai ceti popolari, spesso indiani o neri, non di rado analfabeti e talvolta permeati di ideologie radicali o rivoluzionarie. Diversi e profondi fattori storici pesarono allora sul destino della democrazia proprio quando il suo tempo pareva giunto. In primo luogo le abissali disuguaglianze sociali, che come si ricorderà non erano solo frutto del reddito ma altrettanto di etnia e storia. Disuguaglianze che rendevano le élites ancor più indisposte o timorose di quanto in genere già fossero ad aprir le porte della rappresentanza politica. In secondo luogo, però, le stesse disuguaglianze erano di tale natura da rendere la democrazia liberale estranea e ostile agli occhi dei settori etnici e sociali che premevano per l’inclusione. I quali si dimostrarono perciò nella maggior parte dei casi propensi a sostenere una diversa e più arcaica idea di democrazia: quella organica invocata dai leader populisti, insofferente verso le mediazioni e le istituzioni della democrazia rappresentativa e votata a unire «il popolo» contro i suoi «nemici», interni ed esterni. In terzo luogo, e in sintesi, neanche la tradizione giocò in favore della democrazia politica, dal momento che, seppur per diversi motivi, il suo spirito non aveva mai calato profonde radici nei diversi strati sociali, dove i moderni conflitti parvero un po’ a tutti altrettante patologie di un organismo sociale che per storia e per cultura tendevano a concepire fisiologicamente unito. E la mancanza ad ogni livello di una cultura del conflitto, della coscienza di quant’esso fosse connaturato alle società moderne e che governarlo richiedesse istituzioni forti e demo101

cratiche, pesò forse più di ogni altro fattore sull’esito delle tante crisi politiche dell’epoca. Difatti i casi in cui le istituzioni della democrazia liberale ressero la pressione e sopravvissero a quel delicato passaggio si contano sulle dita d’una mano. E anch’essi, come dimostrano Cile, Uruguay e Costa Rica, furono tutt’altro che esenti da pericolosi intoppi. Negli altri, invece, la spinta democratica fu arrestata da brusche reazioni autoritarie, come in Perù, Bolivia, Nicaragua e altrove, al prezzo di renderla più difficile e traumatica in futuro. Oppure assorbita nel seno dei regimi populisti, come in Messico, Brasile e Argentina. Regimi dei quali si dirà, ma di cui si può anticipare che alla crescente domanda di democrazia risposero attingendo all’armamentario nazionalista. Il quale voltava le spalle al liberalismo caro un tempo alle vecchie classi dirigenti e si sforzava di adattare alle società moderne l’antico ideale organico e corporativo. In base al quale quei regimi organizzarono le masse includendole nei nuovi ordini sociali, ma al prezzo d’una guida politica intollerante del pluralismo. 4. I militari. Come e perché Non ovunque, ma di certo nella maggior parte dei paesi, la crisi dei regimi liberali portò alla ribalta politica le Forze Armate. Sia attraverso i colpi di Stato che inscenarono, come in Argentina, Brasile e Perù; sia in generale per le funzioni politiche che assunsero, come in Venezuela, allorché si chiuse la lunga dittatura di Juan Vicente Gómez. Chi erano quei militari che così spesso s’impossessarono del potere? E perché proprio loro? Risposte univoche a tali domande, valide per la piccola ed arretrata Salvador quanto per la grande e progredita Argentina, non è ovviamente facile trovarne. Vi sono però alcuni elementi generali da tenere in conto. Innanzitutto occorre dire che di militari giunti al potere ve n’erano stati molti anche in passato. Ma se allora avevano perlopiù governato come civili, ora rivendicavano apertamente il proprio status militare e la propria appartenenza alle Forze Armate. Lungi dall’essere semplici caudillos in divisa com’era capitato un tempo, erano d’altronde ora nella maggior parte dei casi membri di istituzioni professionali, organizzate e relativamente disciplinate. Anzi, in molti casi delle istituzioni più moderne ed efficienti dello Stato: sia nel caso delle Guardie Nazio102

nali organizzate dalle Forze Armate degli Stati Uniti nell’area centroamericana, sia, a maggior ragione, nei casi degli eserciti professionali messi in piedi dalle missioni militari europee in Sud America. Che poi in America Centrale e nei Caraibi nascessero in molti casi dei regimi personalisti, simili a sultanati ereditari, come capitò coi Somoza in Nicaragua e coi Trujillo nella Repubblica Dominicana, e in Sud America dei regimi autoritari votati alla modernizzazione, come in Brasile con l’Estado Novo e in Argentina col golpe del 1943, dipese dalle diverse condizioni strutturali dei singoli paesi ancor più che dalla natura in sé degli eserciti che vi presero il potere. Ma perché proprio i militari? Anche in questo caso la risposta non è univoca. Si può osservare che in quei paesi spesso in preda a profondi conflitti, le Forze Armate surrogarono con la forza delle armi la debolezza delle istituzioni rappresentative. Si può aggiungere che laddove le divisioni sociali ed etniche erano troppo profonde per trovar soluzione nel quadro della democrazia liberale, le istituzioni militari, sotto le quali la coscrizione obbligatoria faceva in molti paesi passare giovani d’ogni classe e provincia, si ergevano ad organi «democratici». Si può infine dire che mentre i governi costituzionali stentavano ad allargare le basi del loro consenso includendovi nuovi ceti e i sistemi politici erano nella maggior parte dei casi soggetti a violente convulsioni, le Forze Armate parevano sollevarsi al di sopra della mischia: solide nel loro spirito di corpo e spesso dotate di competenze tecniche in vari campi, esse cominciarono a sentirsi in dovere ed in diritto di prendere le redini del governo e di guidare la modernizzazione nazionale, sottraendone le sorti alle élites politiche ch’esse tendevano ormai a giudicare inaffidabili ed incapaci. Tutti tali fattori sono senz’altro fondati e servono a comprendere le ragioni dell’era militare che allora cominciò nella gran parte dell’area. Al tempo stesso rinviano ad un’ulteriore considerazione, in cui forse risiede il più intimo motivo di quell’endemico militarismo. A giudicare dai diversi interventi politici delle Forze Armate, non solo nei diversi paesi ma anche da un golpe all’altro in un medesimo paese, pare evidente che la loro azione non sia riconducibile a meri fattori contingenti. Non si può dire, insomma, che sostennero sempre le élites, né che poiché gli ufficiali provenivano in gran parte dai ceti medi ne favorirono l’ascesa. Né furono sempre e comunque contro «il popolo». Quel che in realtà emerse allora e si confermò in seguito, fu che i militari tendevano in quelle società dalle così profon103

Il revival cattolico La reazione antiliberale sarebbe incomprensibile nella sua più intima essenza se si esulasse dal revival cattolico che dagli anni ’30 cominciò a investire l’America Latina. Benché, va da sé, non ovunque con la stessa intensità e con gli stessi tempi. Non essendo ovunque ugualmente forte la Chiesa e radicato il cattolicesimo. Né essendo dappertutto uguale il suo status giuridico e la sua forza politica. V’era una bella differenza, per dire, tra il Messico, dov’essa era capitolata ai lunghi e feroci scontri coi liberali prima d’essere ridotta alla marginalità dalla rivoluzione, e il Cile, dove la separazione tra Chiesa e Stato era avvenuta in modo incruento. Tra l’Uruguay laico e la Colombia clericale. Tra il quieto e tradizionalista cattolicesimo peruviano e quello inquieto e radicale dell’Argentina. Il che non impedì però che il vento del rinascimento cattolico contribuisse ovunque al tramonto dell’età liberale. E non solo dove, come in Brasile o in Argentina, in Perù o in Ecuador, i vecchi scontri con i liberali non l’avevano messa in ginocchio ma solo relegata in secondo piano. Ma anche dov’essa era più stata colpita, come in Messico, dove raggiunse infine un modus vivendi col regime rivoluzionario e dove perfino un intellettuale di punta della rivoluzione come José Vasconcelos si convertì al cattolicesimo e ne divenne prestigioso portavoce. O come in Colombia, dove il dominio liberale degli anni ’30 non impedì, ma semmai alimentò l’impetuosa reazione cattolica del decennio seguente. Chi, d’altronde, più della Chiesa cattolica incarnava l’ideale di società organica? Chi più di essa poteva credibilmente ergersi a emblema di unità politica e spirituale? A tutrice dell’identità della nazione? Per comprenderne la rinascita in ogni suo aspetto, tuttavia, occorre osservarne sia gli elementi istituzionali, sia quelli dottrinali, o per meglio dire ideologici e culturali. Sul piano istituzionale, la Chiesa latinoamericana conobbe allora un’incipiente maturazione. Grazie in particolar modo agli sforzi con cui la Santa Sede operò per centralizzarne il governo, vegliarne la disciplina e dettarne la dottrina. Oltre a ciò, anch’essa calcò le orme della generale modernizzazione del continente: ecco perciò crescere le diocesi, moltiplicarsi i seminari, riprendere quota le scuole cattoliche. Ecco proliferare le opere sociali cattoliche e poi i giornali, i periodici e anche le radio legate alla Chiesa. Ed ecco la Chiesa imporre a quel pulviscolo d’attività tali da conformare un vero e pro-

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prio mondo cattolico una guida unica e gerarchica: quella ecclesiastica, incarnata nell’Azione Cattolica, un’organizzazione di massa nata pressoché ovunque negli anni ’30 e poi cresciuta con maggiore o minor successo a seconda dei casi fino a diventare forza d’urto della Chiesa e delle sue idee. Una forza attiva nella società e nell’educazione, nel dibattito pubblico e nelle grandi dispute ideologiche, ma estranea od ostile alla politica dei partiti e semmai propensa a simpatizzare con gli ideali corporativi dei movimenti nazionalisti, coi quali in molti casi strinse intimi contatti: dall’Argentina al Cile, dal Brasile al Messico. Se però la Chiesa e la corrente ideale ch’essa incarnò ebbero tanta parte nell’accentuare la crisi dei regimi oligarchici e del liberalismo, non fu soltanto per la maturazione istituzionale ch’essa intraprese allora. Ancor più importante fu infatti il mondo ideale ch’essa evocò, intorno al quale tesero ad agglomerarsi sempre più forze sociali e intellettuali deluse dall’approdo della modernizzazione liberale o da sempre ostili ad essa. Messa all’angolo per decenni dall’offensiva liberale e poi rivalutata nella sua funzione di collante sociale dai regimi oligarchici, la Chiesa cominciò allora a coltivare il sogno di prendersi la rivincita. Di profittare cioè del tramonto della fede liberale nel progresso per tornare ad occupare il centro della società, da cui era stata scalzata. Non a caso fu quella un’epoca in cui prevalse tra cattolici ed ecclesiastici un vibrante clima revanchista e covò l’illusione di restaurare un ordine politico e sociale integralmente cattolico. In tutto conforme, cioè, ai dettami del Magistero. Un’illusione alimentata in particolar modo dalla fioritura di nuovi e dinamici cenacoli intellettuali cattolici, attraverso i quali colei che per decenni era parsa la quintessenza dell’oscurantismo, la Chiesa cattolica, risollevò il capo proponendo le sue antiche ricette ai dilemmi della modernità. Ricette politiche, invocando un ordine corporativo. E ricette sociali, richiamando alla collaborazione tra le classi sociali in sintonia con le encicliche sociali dei pontefici, specie la Rerum Novarum di Leone XIII e la Quadragesimo Anno di Pio XI. In tal modo anch’essa, non meno delle Forze Armate con cui spesso e non a caso strinse fitti rapporti, s’erse a depositaria dell’identità della nazione minacciata dalle fratture politiche e sociali e dalle ideologie rivoluzionarie. Un’identità di per sé cattolica, verso la quale essa ambì a far convergere e ad unire la nazione. Debellan-

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do il liberalismo e i suoi corollari politici ed economici, ch’essa individuava nella democrazia individualista e nel capitalismo senza freni. Combattendo il comunismo, in cui essa denunciava l’apoteosi materialista della società che aveva voltato le spalle a Dio. Ed affermando la rinascita di una civiltà cattolica, espressa in una società armonica organizzata in corporazioni e rappresentata da una «democrazia organica». Non a caso i modelli politici di quel cattolicesimo col vento in poppa furono i regimi cattolici, autoritari e corporativi di Oliveira Salazar e di Engelbert Dollfuss, quello fascista di Benito Mussolini e ancor più quello del generale Francisco Franco.

de fratture a rivendicare su di esse e sulla nazione tutt’intera una funzione tutelare. I loro interventi tesero cioè a imporre o restaurare l’unità dove le istituzioni democratiche e i patti costituzionali fallivano: l’unità politica, intesa come armonia tra ceti o classi; e l’unità spirituale, intesa come adesione all’identità eterna della nazione, di cui le Forze Armate s’ersero a depositarie, al punto da divenire i più accesi focolai di nazionalismo. In quanto dediti alla missione di vegliare sull’unità della nazione che imputavano al liberalismo d’aver diviso, i militari furono perciò il più potente veicolo della reazione organicista. Espressa in quella che allora soleva chiamarsi «democrazia funzionale», dove la rappresentanza non s’esprimeva attraverso i partiti e le mediazioni politiche, ma direttamente attraverso i corpi sociali, cioè i sindacati, le professioni, le università, la Chiesa e così via. Un classico, come s’è visto, del nazionalismo latinoamericano. Il quale, cercando le radici dell’identità locale in risposta al cosmopolitismo d’un tempo, le trovò dunque nell’antico e ancora ben radicato immaginario organicista. Che lo facessero le Forze Armate, istituzione organica per eccellenza, non è sorprendente. Come non lo è che se così esse intendevano la loro missione, i loro interventi fossero ora «conservatori» ora «riformisti». Ora cioè volti a conservare l’ordine e l’unità dalle minacce incombenti, ora a promuovere lo sviluppo e l’integrazione delle masse per riportare in armonia l’organismo sociale.

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5. I populismi La crisi del liberalismo e l’offensiva antiliberale cominciarono a sfociare in sempre più numerosi paesi, a cominciare da Brasile e Messico negli anni ’30 e dall’Argentina dopo il 1945, in peculiari fenomeni che le scienze sociali hanno solitamente chiamato populismi. Fenomeni universali, ma che proprio in America Latina trovarono fin d’allora terreno più che mai fertile. Tanto che se le prime tracce apparvero negli anni ’30, si può dire che a successive ondate essi abbiano continuato a investire la regione fino ad oggi. Di cosa si tratta? In termini sociali ed economici, i populismi furono dei regimi fondati su ampie basi popolari, di cui ottennero il consenso e guidarono l’integrazione politica attraverso più o meno vaste politiche di distribuzione della ricchezza. Politiche rese possibili dal cambiamento del modello economico imposto dalla crisi del 1929. La nuova centralità assunta dallo Stato, infatti, e la necessità di incentivare la crescita dell’industria e di ampliare il mercato interno, crearono le condizioni di una peculiare, benché transitoria, convergenza d’interessi tra produttori e lavoratori, uniti dalla prospettiva di accrescere consumo e produzione erodendo il potere prima d’allora concentrato dai settori economici legati all’economia di esportazione. In tal modo essi avrebbero creato una sorta di fronte nazionalista, cui i populismi si sarebbero ampiamente abbeverati. Benché tale interpretazione sia in parte fondata, non dà tuttavia piena ragione dei populismi di allora, e ancor meno di quelli che in seguito si sono succeduti. I quali sono innanzitutto dei fenomeni politici basati su un nucleo ideologico analogo nei diversi casi, pur all’apparenza così diversi tra loro. In quanto alla natura politica, i populismi si caratterizzarono fin d’allora per una concezione non liberale della democrazia. Anzi, visceralmente antiliberale. Nella loro accezione, la democrazia non attiene alla sfera politica, ma all’ambito delle relazioni sociali. Tanto che un regime autoritario ma popolare e votato alla «giustizia sociale», quali perlopiù furono con più o meno fortuna i populismi dell’epoca, appariva ai loro occhi la più vera delle democrazie. Tipica dei populismi fu la pretesa o la convinzione di rappresentare «il popolo» nella sua complessità. Un popolo ch’essi intendevano come una comunità coesa ed omogenea unita da una storia, un’identità e un destino comuni. Un popolo ch’essi giudicavano oppresso dai nemici che sia all’interno sia all’esterno ne mi107

nacciavano l’identità, l’unità, l’intrinseca purezza ed innocenza. Nemici che di volta in volta si presentavano perciò nelle vesti della oligarchia liberale, del comunismo ateo, dell’imperialismo anglosassone. In tal senso i populismi si proponevano di riunire ciò che imputavano al liberalismo e alla modernizzazione, che esso aveva introdotto, di avere diviso: la società, il «popolo», la nazione intesa come comunità organica. Essi infatti non solevano ergersi a rappresentanti di specifici interessi o particolari ideologie, bensì a movimenti e dottrine nazionali, cioè a vere e proprie incarnazioni politiche dell’identità eterna della nazione, che attraverso di essi resuscitava. Come tali tendevano ad assorbire il monopolio del potere politico in nome del popolo e a negare legittimità ai loro avversari, così trasformati in irriducibili nemici. Tali tratti fecero dei populismi dei fenomeni gravidi di importanti e permanenti conseguenze. Di cui il panorama storico dell’America Latina è da allora popolato. Innanzitutto, com’è evidente, essi interpretarono una reazione antiliberale che si richiamava idealmente alla tradizione organicista e corporativa così radicata nella storia della regione. Una storia dove s’erano sommate e sovrapposte unità politica e unità spirituale o ideologica. Postulando l’unità e l’omogeneità del popolo, inoltre, i populismi tesero ad esprimersi in modo univoco, essendo naturale che un popolo coeso s’esprimesse con una sola voce. Non a caso a loro capo spicca ovunque il leader carismatico, colui che dal balcone dialoga col suo popolo in un rituale volto a saltare come fastidiosi intralci le mediazioni e le istituzioni politiche. Forti della missione storica di ridare al popolo la sovranità e l’identità perdute, inoltre, i populismi tesero allora e di nuovo in seguito a trasformare la politica in guerra di religione tra virtù e peccato, verità ed errore, popolo e antipopolo. In un gioco a somma zero che avviò spesso delle annose e distruttive contrapposizioni tra di essi e i loro avversari. Con grave danno per le già fragili istituzioni politiche di quelle nazioni ancora in fase di consolidamento. Non solo, ma animati dall’afflato religioso conferito loro dalla missione di redimere e salvare il popolo, i populismi tesero ad anteporre la fede alla ragione, la volontà alla razionalità, la politica all’economia, spesso attuando politiche sociali ed economiche molto dispendiose e popolari nell’immediato, ma non sostenibili nel tempo. In sintesi, i populismi che da allora cominciarono a sorgere dalla crisi del liberalismo in America Latina contenevano un’intrinseca 108

Getúlio Vargas e l’Estado Novo Dal 1930 al 1945 la storia brasiliana fu dominata da Getúlio Vargas. Il quale ne fu in realtà protagonista fino al suicidio nel 1954. Fino al 1937 il suo governo fu costituzionale, benché alla sua origine vi fosse il colpo di Stato del 1930 e alle sue spalle il sostegno dell’esercito. In quei primi anni Vargas promosse l’accentramento politico, passando attraverso un violento scontro col più potente Stato delle federazione, San Paolo, geloso della sua autonomia. Forte del sostegno dei tenentes, coltivò un deciso nazionalismo economico, di cui furono riflesso la crescita del ruolo dello Stato nella promozione dell’industria e nella protezione del mercato interno. Nazionalismo e corporativismo trovarono espressione nella Costituzione del 1934, alla cui redazione dettero un decisivo contributo taluni importanti giuristi cattolici. Lo spirito che la guidava era infatti quello della collaborazione tra le classi e della rappresentanza politica delle corporazioni. Convinto fautore di uno Stato forte ed unitario posto a tutela della identità nazionale, la brasilianidade, nemico della democrazia liberale e insofferente verso il pluralismo, Vargas ricorse allora alla repressione. Colpì prima duramente il partito comunista, forse il più organizzato del paese, che nel 1935 s’era esposto alla reazione tentando la via rivoluzionaria. E poi mise fuorilegge anche l’altro grande partito sorto nel frattempo, l’Açao Integralista Brasileira, di chiara ispirazione fascista, di cui pure Vargas condivideva gran parte degli ideali. Dopodiché, sostenuto dalle Forze Armate e in sintonia con la Chiesa cattolica, nel 1937 impose una dittatura che, ispirandosi a quella cattolica e corporativa fondata in Portogallo da Oliveira Salazar, chiamò Estado Novo. L’Estado Novo fu quanto di più simile ai fascismi europei fu allora creato in America Latina. Tenuto conto, naturalmente, delle peculiari caratteristiche sociali e del limitato livello di sviluppo del Brasile dell’epoca. Vargas chiuse infatti il Parlamento, mise a tacere l’opposizione, censurò la stampa, ricorse senza remore alla tortura e all’incarceramento e fino allo scoppio della guerra non celò l’ammirazione per Hitler e Mussolini, forti in Brasile del seguito di molti loro connazionali che v’erano emigrati. Ciò facendo, e in coerenza con la sua visione organicista della società e la sua ferma condanna del liberalismo, impose o cercò d’imporre al paese l’unità politica e l’unità spirituale. E nel farlo non lesinò sforzi per integrare

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al regime e per attrarre verso la sua ideologia nazionalista i ceti medi e popolari che nelle grandi città dove crescevano l’industria ed i servizi s’affacciavano sulla scena politica. Da un lato gettando le basi di un sistema corporativo, dov’era lo Stato a controllare le organizzazioni dei lavoratori. Dall’altro lato introducendo talune leggi sociali e concedendo taluni vantaggi ai lavoratori dell’industria. Sia per prevenirne l’adesione agli ideali rivoluzionari ch’egli giudicava estranei alla identità brasiliana. Sia poiché così voleva la sua vaga ideologia corporativa, in base alla quale la salute dell’organismo sociale richiedeva l’equilibrio e l’armonia tra le sue diverse membra. In tal modo cominciò comunque a piantar così radici il mito popolare di Vargas «padre del popolo» e protettore degli umili, culminato poi negli anni ’50. La seconda guerra mondiale sancì il tramonto dell’Estado Novo e la caduta di Vargas, rovesciato dai militari nel 1945. Non per questo lo condannò però al declino politico. Quel che in seguito si vide fu infatti che né quei trascorsi dittatoriali lo rendevano inviso al grosso della popolazione, perlopiù estranea ai complessi meccanismi della democrazia rappresentativa, da cui erano peraltro esclusi in modo esplicito i milioni d’analfabeti brasiliani. Né il sostegno popolare ch’egli s’era conquistato allora svanì d’incanto alla sua caduta, ma, anzi, per certi versi se ne giovò, alimentando il mito della sua azione sociale in favore del «popolo». Durante la guerra, indotto dalla pressione del corpo ufficiali deciso a collaborare con gli Stati Uniti e da una scelta razionale su ciò che più conveniva al Brasile vista l’evoluzione della guerra e la sua collocazione geopolitica, Vargas rinnegò le affinità con le potenze dell’Asse e si schierò con gli Alleati. Al punto da inviare in Europa per combattere al loro fianco una Força Expedicionaria. Col che Vargas aprì la via d’una stretta alleanza con la maggior potenza mondiale ed emisferica, s’avvantaggiò nella competizione con l’Argentina, che viceversa s’attestò a lungo sulla trincea della neutralità, e ne guadagnò in termini d’aiuti militari ed economici, grazie ai quali il Brasile poté allora gettar le basi della sua industria pesante. Al tempo stesso, tuttavia, la scelta di schierarsi con gli Alleati, di lottare cioè per la democrazia contro i totalitarismi, mise Vargas dinanzi a stridenti contraddizioni, essendo a tutti evidente quanto il suo regime fosse più simile a quelli contro i quali aveva preso le armi che a



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quelli al cui fianco s’era schierato. Ciò l’obbligò infatti ad allentar la morsa della dittatura e ad avviarne la liberalizzazione. E ad ispirare quel che fino ad allora s’era negato a fondare: un partito politico per partecipare alle elezioni che ormai non poteva più negarsi a convocare. Anzi, ad essere precisi ben due partiti politici, poiché coerente con la sua ambizione di incarnare l’identità stessa della nazione e di ricondurla all’unità organica, Vargas si propose di rappresentarla tutt’intera. Da ciò la nascita del Partido Trabalhista Brasileiro, sorto per dare voce all’anima operaia e urbana del suo seguito. E quella del Partido Social Democrático, che di socialdemocratico aveva in realtà poco o nulla poiché riuniva la base più moderata dell’Estado Novo e aspirava a organizzare il consenso delle élites politiche degli Stati più arretrati del paese, dove i trabalhistas non avevano voce in capitolo. Pur avendo i tratti tipici dei populismi latinoamericani, quello di Vargas negli anni ’30 ebbe anche evidenti peculiarità. Sorto in piena notte della democrazia rappresentativa, in primo luogo, non si legittimò attraverso il rito elettorale come accadrà dopo la guerra, ma impose una dittatura, cosa a quell’epoca tutt’altro che rara. Una dittatura così ispirata a un ideale corporativo da indurre Vargas a non dotarla d’un partito ufficiale, come avevano invece fatto le più moderne dittature europee, bensì a guidarla in prima persona contando sul diretto sostegno delle più potenti corporazioni, a cominciare dalle Forze Armate e dalla Chiesa cattolica e proseguendo coi sindacati e gli organismi dei produttori. Quel che in secondo luogo distingue il populismo di Vargas negli anni ’30 è il suo profilo parziale, dovuto alle peculiari condizioni del suo paese e al suo intrinseco moderatismo. Parziale nel senso che mentre lo sforzo d’integrazione sociale di Vargas si concentrò nelle aree urbane e nei nuovi ceti che vi stavano sorgendo, non si può dire fosse incisivo o cambiasse granché nelle condizioni nelle grandi masse rurali, in gran parte ancora soggette a relazioni sociali di tipo tradizionale. In tal senso il suo populismo fu allora limitato sia socialmente che territorialmente e comportò un basso tasso di mobilitazione politica delle masse. Per finire, un’ulteriore caratteristica del populismo varguista fu la natura della sua leadership. Lungi infatti dall’essere il tipico leader istrionico capace d’incendiare le folle, Vargas fondava semmai il suo carisma sul mistero che soleva attorniare la sua figura spesso distaccata ed evanescente.

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Lázaro Cárdenas e l’eredità della rivoluzione messicana La rivoluzione aveva talmente sconquassato le più profonde fibre della società messicana da far sì ch’esse continuassero a vibrare con forza per molto tempo dopo la sua fine. Prima che se ne stabilizzasse l’eredità e ne emergesse il regime politico poi rimasto in piedi per il resto del secolo, il Messico passò infatti attraverso molte altre convulsioni. Specie negli anni ’20 e nei primi anni ’30, quelli del cosiddetto maximato, l’epoca su cui imperò Plutarco Elías Calles e di cui più che gli sforzi di sedimentare l’ordine rivoluzionario suole essere ricordata la violenta guerra cristera, combattuta tra il 1926 e il 1929. Guerra contadina e religiosa scatenata dalla sollevazione della popolazione rurale nel centro del Messico, guidata dal clero contro le dure misure anticlericali prese da Calles. L’istituzionalizzazione della rivoluzione e l’organizzazione delle masse nell’alveo del regime che n’era sorto avvennero in realtà durante il mandato presidenziale di Lázaro Cárdenas, tra il 1934 e il 1940. Un uomo che Calles aveva scelto come suo successore pensando di poterlo controllare, ma che in realtà ne prese in fretta le distanze. Le sue misure furono in proposito decisive in tutti gli ambiti. In campo sociale dette straordinario impulso alla riforma agraria, cardine del programma rivoluzionario e base imprescindibile dell’adesione al nuovo ordine della popolazione rurale, di gran lunga maggioritaria. Impulso ch’egli dette non solo distribuendo terra in grande quantità, ma anche promuovendone la gestione collettiva per mezzo dell’ejido, una pratica risalente all’età precolombiana ed ora coerente con la reazione comunitaria che Cárdenas incarnava. Altrettanto importante, sia nel rafforzare il vincolo tra lo Stato rivoluzionario e le masse lavoratrici sia nel promuovere il nazionalismo economico, fu la nazionalizzazione del petrolio sancita nel 1938, al culmine di una lunga stagione di agitazioni operaie, che Cárdenas assecondò favorendo la creazione della Confederación de Trabajadores Mexicanos. Una misura, la nazionalizzazione, da cui nacque



ambivalenza. Per un verso furono grandi e popolari canali d’integrazione e nazionalizzazione delle masse prima d’allora escluse o emarginate dalla vita politica e sociale. Integrazione economica, attraverso il conferimento di effettivi benefici. E ancor più integrazio112

la grande impresa petrolifera di Stato, Petróleos Mexicanos, e che così come causò grandi tensioni con le compagnie straniere e i loro paesi d’origine, Gran Bretagna e Stati Uniti, di riflesso rinvigorì il nazionalismo locale. Nazionalista più che socialista, figlio d’una rivoluzione che aveva combattuto la Chiesa rivendicando la tradizione liberale e generoso ospite dei repubblicani spagnoli in fuga dalla reazione franchista, Cárdenas approdò nondimeno anch’egli a un esito corporativo basato su una concezione organicista della società. Antepose cioè a tutto l’unità della nazione, moderando a tal fine l’impeto delle riforme nell’ultima parte del suo governo e scegliendo come successore un leader cattolico e moderato. Ciò col fine di assorbire i conflitti che le sue misure avevano inasprito e di riportare in equilibrio i rapporti tra i vari settori sociali e le diverse anime rivoluzionarie. Della sua concezione corporativa, che condivideva con gli altri populismi, fu fedele riflesso il partito ch’egli fondò per istituzionalizzare il regime nato dalla rivoluzione: il Partido de la Revolución Mexicana. Un partito organizzato in settori, ognuno destinato a rappresentare una parte della società ch’esso ambiva a racchiudere nel suo complesso: i contadini, i lavoratori urbani, i militari, gli altri ceti. Ed al quale era consentita l’adesione corporativa, attraverso cioè l’appartenenza a sindacati, cooperative o altri organismi. L’ordine che ne uscì fu in sostanza un regime semi-autoritario con base di massa, a lungo stabile nel suo riuscito sforzo di ricondurre all’unità politica ed ideologica rivoluzionaria la complessa nazione che il Messico era diventato dopo decenni di modernizzazione e sconvolgimenti politici. Con base di massa poiché allo Stato ed al partito che l’incarnava restarono da allora legate a doppia mandata le grandi organizzazioni popolari, sia urbane che rurali. Autoritario poiché funzionò di fatto come una sorta di regime a partito unico, dove il ruolo delle opposizioni restò a lungo confinato a quello di legittimare con la loro residuale presenza l’egemonia del partito di governo, dal 1946 denominato emblematicamente Partido Revolucionario Institucional.

ne morale, poiché i populismi dettero loro la centralità e riconobbero loro la dignità di cui in precedenza erano prive. Nel farlo, tuttavia, ricorsero a un’ideologia e a pratiche politiche autoritarie, impermeabili e anzi apertamente ostili al pluralismo in nome dell’unità 113

politica e dottrinale del popolo. Così sancendo la precoce morte della democrazia liberale in America Latina e celebrando il divorzio storico tra di essa e le masse, perlopiù entrate nella vita politica attraverso canali corporativi e in contesti autoritari. Come negli anni ’30 rivelarono i casi del Brasile di Getúlio Vargas e del Messico di Lázaro Cárdenas. 6. Il Buon Vicinato e la Guerra All’inizio degli anni ’30, l’arrivo alla Casa Bianca di Franklin Delano Roosevelt avviò taluni importanti cambiamenti nei rapporti tra gli Stati Uniti e l’America Latina. Cominciò infatti allora la politica che lo stesso presidente statunitense chiamò di Buon Vicinato. Una politica che si ripromise di accantonare il corollario di Theodore Roosevelt alla dottrina Monroe, rinunciando ai sistematici interventi militari del passato in difesa degli interessi politici ed economici degli Stati Uniti. In tal senso la nuova politica si fondò su due pilastri principali: il non intervento, rivendicato a gran voce dai paesi dell’America Latina; e il multilateralismo, inteso come disponibilità a relazionarsi con essi su un piano d’uguaglianza nel quadro di istituzioni panamericane. Le ragioni di quella svolta furono varie e tutte più che valide. La prima e più evidente fu quella che già in precedenza lo stesso Roosevelt aveva espresso: «ci odiano». Fu la consapevolezza, in altri termini, che un trentennio di ricorrenti ricorsi alla forza aveva nutrito in America Latina la pianta del nazionalismo antiamericano. E che dunque urgeva cambiare registro, come in effetti accadde con la rinuncia degli Stati Uniti all’emendamento Platt, che dava loro diritto d’intervento a Cuba, e col ritiro delle truppe dai paesi in cui ancora si trovavano. Una seconda ragione fu la constatazione che la politica del big stick non aveva dato i risultati sperati e diveniva sempre più dispendiosa. Che gli interventi non riuscivano cioè a portare l’ordine laddove avvenivano e men che meno la democrazia, obbligando gli Stati Uniti a ingerenze sempre più lunghe, costose e frequenti. A ciò va aggiunto che la crisi del 1929, spingendo le maggiori potenze a strategie protezioniste per assicurarsi mercati e fonti di materie prime, indusse gli Stati Uniti ad intensificare gli sforzi per far dell’America Latina una propria sfera d’influenza economica. E non più solo nelle regio114

ni più prossime ai loro confini, dove di fatto era già così, ma sempre più nei grandi e popolosi paesi del Sud America. Dove, e qui sta l’ultima e importante ragione di quella svolta, l’influenza europea già incrinata dalla prima guerra mondiale subì un ulteriore e duro smacco per effetto della Grande Depressione. La quale funse perciò da acceleratore del distacco dell’America Latina dalle radici europee. La débâcle europea nell’emisfero americano, insomma, agevolò Roosevelt nella scelta di cercare l’egemonia impiegando la politica più delle armi, il dialogo più dell’atto d’imperio. Vista così, la politica del Buon Vicinato può dunque essere intesa come un nuovo modo per raggiungere gli antichi obiettivi. Laddove però la forma era parte tutt’altro che secondaria dello stesso contenuto. Che effetti produsse quella politica? Per un verso non v’è dubbio ch’essa migliorò il clima tra le due parti dell’emisfero. E che consentì di gettare le basi di una comunità panamericana, di cui furono riflesso le numerose assemblee che negli anni ’30 riunirono tutti i paesi americani e nelle quali fu più volte ribadito il principio, così caro a quelli dell’America Latina per contenere le mire di Washington, del non intervento negli affari altrui. Il panamericanismo s’affermò d’altronde sempre più allora come l’ideologia attraverso la quale gli Stati Uniti aspiravano ad attrarre la parte latina dell’America verso i valori della loro civiltà: la democrazia politica e il libero mercato. E a contrastare la portentosa ascesa delle correnti nazionaliste. Le quali tendevano in America Latina a seguire le sirene europee, che in quegli anni cantavano lodi ai fascismi, specie quelli cattolici, la cui ispirazione organica e corporativa mieteva consensi in molti paesi americani. Ma se il clima migliorò e gli scambi economici tra il Nord e il Sud dell’emisfero s’incrementarono, non tutto fu rose e fiori per la politica di Roosevelt, che incontrò anche numerosi intoppi. A cominciare dalle tendenze protezioniste e dirigiste che si stavano imponendo in parte dell’America Latina a seguito della crisi del 1929. Le quali è vero ch’erano per certi aspetti in auge negli stessi Stati Uniti, dove Roosevelt stava realizzando il suo New Deal, ma che nondimeno rappresentavano seri ostacoli alla diffusione della filosofia economica liberale perorata dagli Stati Uniti, oltre che ai loro interessi economici. Lo stesso valeva d’altronde per la diffusione del liberalismo, sotto attacco in tutta la regione, e della democrazia, che la Casa Bianca rinunciò di fatto a pretendere di diffondervi aderendo al115

la politica di non intervento. Col che si espose alle dure critiche di varie forze democratiche latinoamericane, che l’accusarono così d’intrattenere proficui e amichevoli rapporti con le numerose dittature che s’affermarono dopo il 1930 nel continente. Una circostanza che non impedì peraltro agli Stati Uniti di esercitare più che discrete pressioni laddove ritennero minacciati i loro interessi in zone dell’emisfero per loro da sempre più vitali d’altre, come a Cuba quando nel 1933 l’avvento al potere di Ramón Grau San Martín parve rappresentare per loro un pericolo. Ma i dilemmi insiti nella politica di Buon Vicinato si fecero più impellenti man mano che una nuova guerra mondiale divenne imminente sotto la spinta del revisionismo hitleriano in Europa. La priorità che prima d’allora gli Stati Uniti avevano riservato all’economia prese ora ad esser data alla sicurezza dell’emisfero. E la dottrina del non intervento iniziò ad esser vissuta a Washington come un intralcio alla lotta contro la penetrazione delle potenze totalitarie nella regione. Specie mentre in vari paesi del Sud America le loro dottrine stavano prendendo più che mai piede. Difatti la politica statunitense in America Latina subì importanti aggiustamenti da quando, nel dicembre del 1941, gli Stati Uniti furono tirati a forza in guerra dall’attacco giapponese a Pearl Harbour. Loro priorità divennero infatti allora quella di assicurarsi l’unanime sostegno politico latinoamericano alla causa degli Alleati; di garantirsene la regolare fornitura di materie prime strategiche per l’industria bellica; di ottenerne la collaborazione contro le potenze dell’Asse. Tutti obiettivi che bene o male gli Stati Uniti raggiunsero, perfino in Messico, dove il contenzioso sul petrolio nazionalizzato venne infine risolto, e nel Brasile di Vargas, che nonostante le sue simpatie ideologiche s’è visto come scegliesse il fronte alleato, al punto da divenir di gran lunga il principale ricettore degli aiuti militari statunitensi nella regione. Ma obiettivi che incontrarono anche forti ostacoli. In parte in Cile, paese che restò neutrale più a lungo degli altri. E soprattutto in Argentina, per vari motivi che fecero da allora in poi di quel paese la principale spina nel fianco del panamericanismo: per i suoi antichi e ancora solidi legami con l’Europa e per la sua dipendenza dagli scambi con la Gran Bretagna, che l’induceva a restare neutrale per non mettere a repentaglio i suoi vitali commerci; perché buona parte della sua popolazione era formata d’immigrati d’origine italiana e dichiarar la guerra all’Asse, di cui l’Italia faceva parte, vi avreb116

be causato problemi politici; perché l’èlite politica e intellettuale argentina si riteneva investita della leadership tra le nazioni latine d’America, il che le faceva scartare con disdegno il riconoscimento dell’egemonia statunitense; perché, infine, il colpo di Stato del giugno 1943 vi portò al potere un governo militare intriso di nazionalismo estremo, assai prossimo ai fascismi europei e deciso a farsi portabandiera della civiltà ispanica e cattolica in America Latina in contrapposizione a quella protestante e anglosassone guidata dagli Stati Uniti. Perciò l’Argentina restò sola a riconoscere le potenze dell’Asse fino al gennaio 1944 e ultima a dichiarar loro guerra nel marzo 1945, a combattimenti quasi conclusi.

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Parte seconda

Dalla guerra fredda a oggi 1945-2010

7.

L’età del populismo classico

1. Tra democrazia e dittatura La seconda guerra mondiale lambì appena l’America Latina. La quale, fatti salvi i soldati brasiliani caduti in Europa e i piloti messicani schierati sul Pacifico, non vi prese parte direttamente. Ma com’era inevitabile vi ebbe ancor più effetti della prima e tali da farsi sentire con forza. In tutti i sensi e in tutti gli ambiti, a cominciare da quello politico. Sia subito, poiché la vittoria alleata vi favorì un’ondata senza precedenti di democratizzazione. Sia in seguito, quando l’inizio della guerra fredda vi agevolò come riflusso un ciclo di restaurazione. L’ondata democratica che spazzò la regione nella seconda metà degli anni ’40 non aveva precedenti in America Latina. Alla sua origine v’erano differenti cause, ma anche i modi in cui si espresse furono tutt’altro che univoci. In quanto alle cause, quelle economiche e sociali non erano seconde a nessuno. Durante la guerra l’inurbamento e l’industrializzazione avevano fatto passi da gigante, almeno per le dimensioni continentali, creando i presupposti di una intensa mobilitazione sociale e di una crescente domanda di partecipazione politica. Di democrazia, insomma. Il contesto era peraltro quanto mai favorevole, dal momento che proprio la democrazia era uscita vincitrice dal titanico scontro con i fascismi e che in suo favore giocava perciò l’indiscussa egemonia sul continente con cui gli Stati Uniti uscivano dal conflitto. La quale si manifestava sempre più attraverso la stampa, la radio e l’industria cinematografica, che sole121

vano svolgere un ruolo sempre più importante nel diffondere in America Latina i valori del liberalismo statunitense. L’alleanza di guerra tra Stati Uniti e Unione Sovietica, da parte sua, e le alleanze che in molti paesi della regione n’erano derivate, perfino in seno ai governi, tra i partiti e movimenti comunisti e quelli borghesi, pareva avere sciolto uno dei nodi che in passato più aveva pesato sulla democratizzazione della regione. Tant’è vero che per effetto di quell’alleanza i partiti comunisti, più attivi in Brasile e Cile, ma in genere di dimensioni assai ridotte, e i loro sindacati, più forti poiché concentrati nei settori chiave delle economie nazionali, uscirono dalla clandestinità cui erano stati costretti e predicarono l’antifascismo ancor più che la rivoluzione. Una parola d’ordine perseguita allora con determinazione dagli stessi Stati Uniti, che dalla Bolivia al Brasile, dal Paraguay all’Argentina non risparmiarono alcun mezzo pur di metter con le spalle al muro quei regimi ch’essi giudicavano versioni americane del fascismo europeo. Come, d’altronde, le stesse élites sociali dell’America Latina potevano voltar le spalle alla democrazia dopo aver sostenuto nella maggior parte dei casi durante la guerra la potenza democratica per eccellenza? I risultati, infatti, si videro, sia in termini politici che sociali. Basti dire che se ancora nel 1944 di governi dalle accettabili credenziali democratiche ve n’erano appena quattro, in Cile, Uruguay, Costa Rica e Colombia, tempo un paio di anni si moltiplicarono, lasciando pressoché sole, e costrette ad allentar la morsa repressiva, le dittature del Nicaragua e della Repubblica Dominicana. Perfino il regime militare argentino dovette liberalizzarsi e indire elezioni, da cui uscì trionfante Juan Domingo Perón. Come d’altronde quello messicano parve per un istante aprir qualche spiraglio nella sua corazza. Pressoché ovunque crebbero le manifestazioni democratiche di studenti ed impiegati, d’intellettuali e colletti bianchi in generale. Spesso furono tra l’altro dei giovani ufficiali delle Forze Armate a dare il definitivo colpo a regimi elitisti e autoritari ormai privi di seguito. A conferma di quanto i militari tendessero ad agire in funzione di quel che ritenevano il giusto equilibrio tra le diverse forze sociali nel seno della comunità nazionale di cui s’ergevano a tutori. Fatto sta che fu così che vissero la prima esperienza democratica taluni grandi paesi come Perù e Venezuela, o anche altri più piccoli e arretrati come Salvador e Guatemala. Lungi dall’esser solo un fenomeno politico, la democratizzazione fu ancor più un grande moto sociale. Il quale s’espresse nelle sem122

pre più frequenti agitazioni operaie per il conseguimento di miglioramenti salariali e l’introduzione di moderne legislazioni sociali, e nella crescita esponenziale degli iscritti ai sindacati, i quali poterono nel nuovo contesto agire con maggiore libertà e raggiunsero verso il 1946 i quasi quattro milioni. Ben presto però il clima cambiò e con tempi e modalità diverse da contesto a contesto quella stagione colma di speranze sulla democratizzazione della vita politica e sociale dell’America Latina scolorì, fino a tramutarsi in un decennio di restaurazione autoritaria che coprì la maggior parte dei paesi dell’area negli anni ’50. Dal Perù e dal Venezuela, dove nel 1948 le stesse Forze Armate da cui erano sorti gli ufficiali riformisti di pochi anni prima posero brusca fine a quella breve esperienza, ai vari paesi dell’America Centrale, dove, salvo in Costa Rica, la brezza democratica s’affievolì fino a sparire. Dall’Argentina, dove Perón non tardò a manifestare i suoi tratti dittatoriali, al Messico, dove il regime nato dalla rivoluzione sigillò le porte del suo monopolio politico. Anche Cile e Brasile, che pur conservarono i loro regimi democratici, li blindarono adottando dure misure contro i partiti e sindacati comunisti. Per non dir di Cuba, dove Fulgencio Batista pose fine nel 1952 ad un convulso decennio democratico, e del Guatemala, dove, come si vedrà, furono invece gli Stati Uniti a decretar la fine di un’esperienza per essi divenuta inquietante. Proprio a Washington, d’altronde, il primato dell’unità antifascista fu poco a poco rimpiazzato da quello dell’unità anticomunista man mano che la guerra fredda s’imponeva. Va da sé che il declino della democrazia politica non lasciò indenni neppure le organizzazioni sindacali. Le quali furono spesso soggette a severe restrizioni, ora legislative, ora repressive. Ma che in quei paesi dove s’insediarono regimi populisti, come in Argentina e Messico, Bolivia e Brasile, furono perlopiù unificate sotto l’ala dello Stato. Col che i lavoratori ottennero effettivi benefici sociali, ma i sindacati tesero a trasformarsi in cinghie di trasmissione della politica governativa presso i lavoratori, più che in rappresentanti di questi ultimi presso il governo e nei contenziosi col padronato. Non solo, ma anche a divenire corposi apparati di potere privi di democrazia interna e dipendenti dal potere corporativo ch’erano in grado di far pesare nel seno dei regimi populisti. Ma perché quella stagione democratica fu così breve? E quali ne furono le conseguenze? Una risposta valida per ognuno dei tanti ca123

si così diversi tra loro non c’è. La più intuitiva ed immediata, spesso evocata, è la guerra fredda. Sarebbe cioè in qualche modo stata la guerra fredda la principale causa del brusco cambiamento di clima politico all’indomani della guerra. Sennonché tale risposta rischia di attribuire troppo peso ai fattori esterni alla regione e di trascurare oltre il lecito quelli endogeni. I quali furono con ogni probabilità decisivi. Quel che si può senz’altro ricondurre alla guerra fredda è semmai altro. È il fatto che lo scontro politico e ideologico tra le due grandi potenze e i loro sistemi economici e sociali funse in molti casi da legittimazione della reazione di quelle forze che in America Latina ritenevano d’avere buoni motivi per chiudere o porre seri limiti a quell’incipiente democratizzazione. Al di là della guerra fredda, infatti, è piuttosto evidente che alla precoce crisi di gran parte di quelle democrazie contribuirono soprattutto altri fattori. In primo luogo la fragile cultura democratica della regione a tutti i livelli della scala sociale, dove la persistenza dell’immaginario organicista e la tendenza ad esercitare il monopolio del potere da parte di chi lo conquistava furono potenti ostacoli al consolidamento di regimi politici democratici e pluralisti. In secondo luogo lo furono le deboli istituzioni rappresentative chiamate a metabolizzare quella grande e repentina domanda di partecipazione. In terzo luogo la reazione sociale, laddove trionfò, dei ceti medi e borghesi dinanzi alla marea montante e venata di radicalismo plebeo del popolo. Tutto ciò rese la democratizzazione assai meno rosea di quanto il termine potrebbe far pensare. Sia perché spesso venata da violenza, corruzione, instabilità. Sia, soprattutto, perché prese in molti casi le forme del populismo che, come s’è visto, coniugava l’integrazione sociale con l’autoritarismo politico e l’intolleranza per il pluralismo. Il che innescava pericolose e distruttive escalation tra fazioni contrapposte. Circa un decennio dopo la fine della guerra, dunque, la lista degli Stati democratici non era più lunga, né granché diversa da quella di dieci anni prima o di dieci anni dopo. Al fianco cioè di Cile, Uruguay e Costa Rica, che pur tra vari ostacoli continuavano la marcia lungo i binari della democrazia rappresentativa, gravitavano tutti gli altri casi, incamminati su altre vie. Di modo che si può dire che sull’effervescenza politica del dopoguerra calò nella maggior parte dei casi un pesante coperchio d’acciaio, che al saltare qualche anno dopo lasciò fuoriuscire una realtà ancor più ulcerata e ingovernabi124

La «Violencia» in Colombia Il caso per tanti versi più estremo tra i tanti e così diversi dell’America Latina dell’epoca fu quello della Colombia. Dove la sfida portata all’ordine politico tradizionale, dominato da conservatori e liberali, dal leader populista Jorge Eliécer Gaitán fu stroncata dal suo assassinio nell’aprile 1948. Un crimine seguito da tremende violenze, dapprima nella Capitale e poi, nel decennio successivo, soprattutto nelle campagne, dove i cronici scontri tra le guerriglie dell’uno o dell’altro partito causò un gran numero di vittime, secondo talune stime più di 200.000. Da quella lunga stagione di violenza e instabilità, cui s’accompagnò però una rapida modernizzazione sociale ed economica, la Colombia uscì soltanto quando nel 1958 i due principali partiti raggiunsero la conciliazione, istituzionalizzando la loro spartizione del potere. Col che il caso colombiano mostra l’altra faccia dell’età populista. Quella, cioè, di quel che accadde dove il populismo fu bloccato sul nascere. E dove al tempo stesso le sue istanze d’integrazione sociale rimasero senza risposta, dal momento che i partiti tradizionali non vollero o non seppero farsene carico. Il risultato fu in quel caso la conservazione della democrazia rappresentativa. Ma di una democrazia dalle basi sociali quanto mai ristrette e perciò soggetta alle enormi pressioni e scosse che da allora agitano la storia politica della Colombia più di quella di qualsiasi altro paese dell’America Latina.

le di quant’era stata prima. Una realtà che la democrazia liberale e le sue fragili radici in quelle società e in quelle culture politiche non poterono né seppero assorbire. E che anzi le travolse. Tanto che cominciò in seguito l’epoca della rivoluzione e della controrivoluzione. 2. L’industrializzazione per sostituzione d’importazioni Fu allora, specie da quando nel 1948 assunse la guida della Commissione Economica per l’America Latina delle Nazioni Unite (Cepal), che l’economista argentino Raúl Prebisch gettò le basi teoriche del modello Isi, cioè del modello di sviluppo basato sull’industrializzazione per sostituzione delle importazioni, e di quella che dagli anni ’60, come si vedrà, prese il nome di teoria della dipendenza. 125

Una teoria stando alla quale la struttura degli scambi internazionali era causa di diseguaglianza tra il centro e la periferia del sistema economico mondiale. Nel quale perciò la forbice tra gli uni e gli altri tendeva ad allargarsi sempre più. Alla sua base vi sarebbe infatti stato un costante e progressivo peggioramento dei termini di scambio a danno dei paesi periferici, e dunque anche dell’America Latina. Ad essa, infatti, riteneva Prebisch, servivano sempre più beni esportati per acquistare dai paesi più avanzati una medesima quantità di beni lavorati man mano che le innovazioni tecnologiche ne accrescevano il valore, perlopiù trattenuto nelle economie del Nord sotto forma di profitti e di alti salari. Sulla validità o meno di tale teoria fioccarono allora e sono continuate in seguito aspre polemiche, tanto tra gli economisti quanto tra gli storici. Quel ch’è invece indiscutibile è che per tutta risposta egli propose una via di sviluppo orientata verso l’interno, incentrata dunque su misure protezioniste, sulla crescita del mercato interno e sull’integrazione economica regionale. Tutte misure che talvolta con maggiore moderazione, come voleva il loro ideatore, ma altre volte in termini più radicali, intrise cioè di nazionalismo economico, ispirarono le politiche economiche dei governi del tempo. Ma quello che col tempo divenne per l’appunto noto come modello Isi, subentrato a quello primario-esportatore ormai entrato definitivamente in crisi, aveva in realtà preso il via in modo spontaneo assai prima che ne fosse coniato il nome. A stimolarlo, si ricorderà, erano stati già gl’intoppi del vecchio modello durante la prima guerra mondiale e ancor di più vi contribuirono gli effetti della crisi del 1929 e la seconda guerra mondiale. Finché negli anni ’40 e ’50 divenne quello egemonico in gran parte della regione. Il che non vuol però dire che l’industria diventasse ovunque il settore trainante, visto che quel modello poté gettar radici più che altro in quei paesi che più erano cresciuti in passato e dov’erano disponibili sia capitali, sia mercati interni sufficienti per alimentare l’industrializzazione, come in Argentina, Brasile, Cile e Messico. Tutti paesi dove a metà degli anni ’50 l’industria contribuiva al prodotto nazionale per oltre il 20%. Una proporzione in realtà non così cospicua, ma doppia rispetto a quella della maggior parte dei paesi andini e ancor più dell’America Centrale. Né ciò significa che la transizione da un modello economico basato sull’esportazione di materie prime ad uno incentrato sulla produzione di beni per il mercato interno risolvesse la 126

cronica vulnerabilità delle economie latinoamericane. L’industria sostitutiva si concentrò infatti per la maggior parte in settori di scarso valore aggiunto e innovazione tecnologica, mentre assai più scarsi furono i passi in avanti nei comparti chiave dell’industria pesante e nei settori di punta, dove perciò la dipendenza dalle potenze economiche più avanzate non diminuì. A tal proposito pesarono non poco sull’espansione delle industrie latinoamericane anche gli aiuti e gli stimoli sia economici sia tecnologici forniti dagli Stati Uniti durante la guerra per incentivare la produzione di materie prime strategiche a fini militari. Fu in tale contesto, per esempio, che nel 1946 aprì i battenti in Brasile, a Volta Redonda, la prima grande impresa siderurgica del Sud America. Un’impresa che, oltre a far da traino all’occupazione industriale, funse da base per la nascita di un’industria pesante nazionale, simbolo d’orgoglio nazionalista e di superiorità economica nei confronti dei vicini. Specie dell’Argentina, che pagò invece la neutralità durante la guerra rimanendo in gran parte tagliata fuori dagli investimenti e dai trasferimenti tecnologici statunitensi durante l’età peronista, durata fino al 1955. Detto ciò, l’economia dell’America Latina crebbe nel decennio dopo la guerra mondiale più o meno ovunque, benché in taluni paesi come Brasile e Messico a ritmi più rapidi di altri come Perù ed Argentina. Trascinata, specie nei primi anni, dall’elevata domanda mondiale di beni primari latinoamericani, poi calata man mano che molte economie si risollevarono dai disastri della guerra, tanto che dalla metà degli anni ’50 subentrò una sostanziale stagnazione. Tale crescita non fu però così sostenuta, visto che, detratto l’elevato tasso di crescita demografica prevalente all’epoca, essa s’attestò mediamente sul 2% annuo. Né, soprattutto, fu equilibrata nei vari settori produttivi. Col che s’accentuarono talune distorsioni di fondo della struttura economica regionale, destinate ad alimentare le convulsioni sociali e politiche che già covavano per altre, già viste ragioni. Tanto infatti crebbero a ritmi sostenuti l’industria e il settore minerario, quanto invece trascinò i piedi l’agricoltura. La quale rimase in gran parte del continente afflitta da una pessima distribuzione della terra, in buona parte concentrata nei latifondi. E ancor più vittima della sua scarsa utilizzazione, anch’essa frutto della enorme concentrazione. Ragion per cui né s’avviò allora una «rivoluzione agricola» volta a migliorare la produttività delle campagne, né esse furono in 127

grado di assorbire la crescita della popolazione. La quale tese così a riversarsi a ritmi sempre più intensi verso le maggiori città. Le quali assunsero dunque definitivamente i tipici tratti delle grandi metropoli, anche laddove non li avevano assunti in precedenza. E a diventar ricettacoli delle enormi contraddizioni sociali che s’andavano addensando. Nel complesso, il motore della crescita economica rimase però anche nel dopoguerra l’esportazione di materie prime, spesso agricole. Le quali fornirono le risorse che la maggior parte dei governi impiegò poi per promuovere l’industria di sostituzione protetta da elevate barriere doganali e il consumo dei ceti urbani. Sennonché tale politica cominciò sul finire degli anni ’50 a manifestare gravi limiti, quando le esportazioni, sia per l’arretratezza dell’agricoltura sia perché i governi tendevano a spremerne i produttori per favorire la popolazione urbana, cominciarono a stagnare e l’America Latina a perdere sempre più quote nel mercato mondiale. Il che impose delicate e spesso dolorose alternative. 3. Un vulcano sempre attivo. Le trasformazioni sociali Durante gli anni successivi alla seconda guerra mondiale i cambiamenti sociali già in atto da tempo nei maggiori paesi assunsero un ritmo ancor più frenetico. E si estesero anche alle aree che fino ad allora ne erano state meno toccate. Quella che cominciò allora fu dunque una vera e propria grande trasformazione che nell’arco di un ventennio circa conferì definitivamente all’America Latina i connotati sociali che ancora oggi la caratterizzano. I quali furono tali da accentuarvi molti dei contrasti che tanto contribuirono ai grandi conflitti e alle enormi tensioni degli anni ’60 e ’70. Il dato che in proposito più colpisce è quello della popolazione. La quale crebbe a ritmi sostenuti negli anni ’40, pari cioè al 2,3%, e ancor di più negli anni ’50, quando il tasso di crescita salì al 2,7%. Per effetto di tale crescita i latinoamericani, ch’erano circa 126 milioni nel 1940, erano già saliti a 159 dieci anni dopo e a 209 nel 1960. Ma ciò non tanto, come in passato, per la spinta ricevuta dall’ondata migratoria. La quale riprese in Argentina e soprattutto in Venezuela, paese dove giunse attratta dal boom dell’industria petrolifera e che registrò dunque tassi record di crescita demografica, ma non 128

fu il fattore trainante. Tant’è vero che mentre i paesi del Cono Sud, dove maggiore era stata l’immigrazione, crebbero meno della media, la vera e propria lievitazione s’ebbe dove prima d’allora la popolazione era cresciuta più lentamente, e cioè in Messico e in America Centrale, in Brasile e nell’area andina. E ciò, stando ai dati, per precise ragioni. A causa cioè del divario che sempre più s’aprì tra i tassi di mortalità, che tesero a crollare un po’ ovunque avvicinandosi talvolta alle medie europee, e i tassi di natalità, che rimasero invece assai elevati, prossimi cioè a quelli dei paesi in via di sviluppo. Le conseguenze di quella crescita non tardarono a manifestarsi. Sia in forma virtuosa, dato che mediamente la speranza di vita della popolazione crebbe sostanzialmente. Sia in forma pericolosa, dal momento che le campagne, per i già noti motivi, non poterono assorbire l’enorme massa giovanile che ben presto s’affacciò sulla soglia del mercato del lavoro. Ma neppure vi riuscirono le città, dov’essa si riversò e dove l’industria non cresceva in fretta quanto sarebbe occorso. Proprio l’inurbamento, ancor più rapido, esteso e massiccio d’un tempo, fu comunque la nota dominante di quest’epoca. Durante la quale s’assistette a una vera e propria corsa verso le città dagli effetti profondi e duraturi, tali da configurare un quadro nel complesso schizofrenico e foriero di tensioni sociali sempre più intense. Non solo perché a lievitare furono in genere una o poche città per paese, le quali finirono così per assorbire una percentuale esorbitante della popolazione nazionale senza essere in realtà in grado di allestire per tempo le opere di urbanizzazione o le reti fognarie e idriche, col risultato che le baraccopoli crebbero a dismisura. Ma anche poiché il progressivo svuotamento delle campagne era segno d’una evidente patologia in quei paesi che in gran parte dipendevano ancora dal frutto dei loro prodotti. Proprio il divario tra città e campagna si fece perciò ancora più profondo, trovando riflesso nelle disparità abissali tra gli indicatori sociali nei due contesti. Cioè nei dati sulla mortalità infantile, la scolarizzazione, l’accesso all’acqua potabile e così via, molto migliori nei centri urbani che nelle zone rurali. Ma anche all’interno delle stesse città le differenze da zona a zona e da quartiere a quartiere divennero più violente e stridenti man mano che s’accrebbe la prossimità tra ceti, etnie, culture e naturalmente redditi tra loro così lontani. Solo una piccola parte della popolazione inurbata trovò infatti occupazione nelle fabbriche, nelle officine o in generale nei settori produt129

tivi. La maggior parte restò invece senza sbocchi o finì nel calderone dei servizi, solo una piccola porzione dei quali rappresentava il naturale indotto della modernizzazione economica. La maggior parte dei servizi equivaleva infatti alla galassia di lavori umili e poco produttivi coi quali lottava per sopravvivere la crescente fetta dei marginali. Occupazioni a tempo parziale e paghe esigue, perlopiù estranee ai limitati sistemi previdenziali e molto più simili all’arte d’arrangiarsi che a veri e propri lavori. Altri, invece, più «fortunati», finirono ad ingrassar la grande macchina clientelare dell’impiego pubblico, usato spesso da ammortizzatore sociale, poco o nulla produttivo e quasi sempre causa di crescenti voragini nei conti pubblici. Lungi dal promuovere una maggiore omogeneità sociale, dunque, si può dire che le più immediate conseguenze della modernizzazione, cioè di crescita economica, inurbamento e industrializzazione, furono quelle di portare in superficie le antiche e profonde segmentazioni di quelle società così eterogenee. Tanto più che buona parte della popolazione inurbata e rimasta ai margini della cittadinanza sociale e del mercato del lavoro soleva essere indiana o afroamericana, meticcia o mulatta. E che i problemi di sicurezza e integrazione, criminalità e moralità ch’essa generava indussero presto a reazioni conservatrici e a veri e propri sussulti d’ordine negli altri ceti sociali. Specie nei ceti medi, che di quella repentina crescita d’una società di massa spuntata spontaneamente e fuori dal controllo delle autorità, o addirittura agitata all’uopo dai governi populisti, furono coloro che più temettero gli effetti. 4. Tra nazionalismo e socialismo. Il panorama ideologico Comprendere in ogni suo aspetto quel che s’agitò nel vasto universo delle ideologie e delle correnti culturali e spirituali durante il decennio e mezzo dopo la fine della seconda guerra mondiale è tutt’altro che agevole. Specie perché la volatilità e la mobilità di idee e ideologie furono allora quanto mai intense nel quadro di effervescenza della regione, così scossa nelle fondamenta dalle trasformazioni sociali, economiche e politiche viste finora. Poiché però fu allora che andarono prendendo poco a poco forma i punti di riferimento ideologici che impregnarono i grandi conflitti del ventennio successivo, è bene cercare di coglierne taluni elementi chiave. 130

Il primo e più importante elemento da sottolineare è che, così come il modello economico tendeva ora a proiettarsi verso l’interno e così come i mutamenti sociali imponevano un po’ ovunque il problema dell’integrazione e nazionalizzazione delle masse, allo stesso modo in termini ideologici la nota dominante dell’epoca fu il nazionalismo. Il quale cessò d’essere soltanto, com’era stato prima della guerra, una corrente ideologica e politica tra altre d’altra origine, ma impregnò sempre più a fondo l’intero panorama ideologico. Divenne cioè una sorta di humus imprescindibile delle dispute ideologiche, un richiamo obbligatorio per tutte le ideologie in campo e infine anche un collante tra idee un tempo parse agli antipodi, come socialismo e nazionalismo. Le quali tesero infatti spesso a confluire nel seno dei capienti movimenti populisti. Ciò non significa, beninteso, che le ideologie in lotta nell’America Latina fossero allora avulse da quelle che nel quadro della guerra fredda confliggevano nel resto dell’Occidente. Anche in America Latina imperversarono infatti come altrove le lotte in nome della democrazia liberale o del comunismo. Ma quel che vi s’impose sempre più fu lo sforzo di declinare e legittimare quelle ideologie in termini nazionali. Ecco allora stagliarsi su quello sfondo un socialismo nazionale, un cattolicesimo latinoamericano, un modello di sviluppo adatto alla regione e alle sue peculiarità e così via di seguito. Un processo che, non a caso, culminò e trovò in molti casi la sua più compiuta sintesi nelle dottrine nazionali che i movimenti populisti, allora più che mai in voga, pretesero d’incarnare. Il secondo elemento chiave per orientarsi nel panorama ideologico del dopoguerra è la questione sociale. Se infatti il principale fronte delle dispute ideologiche era a lungo stato quello religioso, e se durante gli anni ’30 prima e la guerra poi s’era per breve tempo imposto anche in America Latina lo scontro universale tra fascismi e democrazie, nel dopoguerra l’orizzonte fu occupato dalla moderna questione sociale. Com’era inevitabile che fosse in un continente dov’essa diveniva più che mai impellente alla luce della transizione pressoché ovunque in corso verso la società di massa. Nazionalismo e questione sociale s’imposero dunque sullo sfondo delle lotte politiche e ideologiche dell’epoca. E, a dire il vero, per vent’anni ancora. Resta però da vedere in quali termini, dato che non tutte le correnti ideologiche li affrontarono allo stesso modo. E dato che talune, quelle che alimentarono i populismi, tesero ad impor131

si su altre. E che nel farlo si collegarono idealmente ad un sostrato ideologico assai antico e a noi già noto, quello organicista, di cui rivelarono così la straordinaria vitalità. Per cominciare si completò allora pressoché ovunque il declino del liberalismo. Almeno nella sua versione dottrinale elaborata dalle élites intellettuali ottocentesche. Il quale confermò così in gran parte dell’America Latina, come d’altronde aveva spesso fatto in Europa, il suo fallimento. La sua incapacità, in altri termini, di guidare la transizione verso la democrazia politica e l’inclusione sociale. Per quanto dunque l’America Latina tese proprio allora a gravitare ancor più che in passato nell’orbita della grande potenza liberale, gli Stati Uniti, e a sostenerne la causa nella guerra fredda, non si può dire che il liberalismo vi fosse allora protagonista, se non come oggetto degli strali dei suoi nemici, il populismo in primis. La tradizione liberale e democratica parve insomma residuale. O di essa tesero da allora a farsi portabandiera talune voci di ben altra origine, che si sforzarono di adeguarla agli imperativi nazionali e sociali dell’epoca. Come i cosiddetti cattolici liberali, ispirati dal filosofo francese Jacques Maritain e orientati in America Latina dal brasiliano Alceu Amoroso Lima o dai giovani che nel 1957 fondarono la Democracia Cristiana in Cile. Una corrente minoritaria che cercò di conciliare la tradizione corporativa cattolica con la democrazia liberale. Ma se il liberalismo piangeva, non fu certo il marxismo a festeggiare. E non solo perché l’ondata anticomunista che ben presto dopo la guerra spazzò l’area ne impedì l’azione e l’organizzazione. Quanto perché nella sua versione internazionalista, modellata sull’orma atea e materialista del canone sovietico, esso si rivelò ben poco adatto ad attrarre le masse. Salvo in rare occasioni, dove comunque le sue prestazioni elettorali, pur beneficiate dal prestigio dell’Unione Sovietica all’indomani della guerra, raramente toccarono il 10%. Non a caso capitò spesso ai dirigenti e agli intellettuali marxisti di vedersi soffiare le basi proletarie dai movimenti populisti in portentosa ascesa. Il che indusse perciò il marxismo dell’America Latina a nazionalizzarsi. A cercare cioè d’entrare in sintonia con le masse che ambiva a rappresentare per non condannarsi all’isolamento e alla residualità. Ciò lo indusse in molti casi a fare ingresso nei ranghi dei movimenti o sindacati di tendenza populista, dove si trovò spesso al fianco d’intellettuali o militanti d’origine nazionalista, come accadde nel peronismo argentino, nella rivoluzione boli132

viana del 1952 e in molti altri casi. Ma se tale fenomeno alimentò allora e in seguito l’anticomunismo, che tese a veder lo spettro marxista infiltrato ovunque, quel che in realtà accadde col tempo nella maggior parte dei casi è che nazionalizzandosi anch’esso imboccò la via della conciliazione con l’immaginario popolare. Il quale rimaneva in America Latina intriso di organicismo cattolico, col quale esso trovò presto molti punti di contatto. Da ciò il peculiare connubio tra cattolici e marxisti di cui si dirà trattando degli anni ’60 e ’70. Ma a dominare il panorama ideologico dell’epoca, lo s’è più volte detto, fu il populismo. Il quale non è in senso stretto un’ideologia, dal momento che nessuno suole definirsi populista, ma che ha nondimeno un nucleo ideologico sul quale ci s’è soffermati nel precedente capitolo. Nazionalismo e socialismo tesero a trovare nei populismi il punto di fusione. Essi, infatti, si collegarono idealmente a un immaginario sociale antico che consentiva loro d’ergersi per un verso ad eredi della più pura tradizione nazionale e per un altro a fautori della giustizia sociale nel nome della armonia e dell’equilibrio tra le diverse membra dell’organismo sociale. Benché l’esito di quei fenomeni che ambivano ad incarnare l’identità nazionale e perciò a monopolizzare il potere fosse o tendesse ad essere l’instaurazione di regimi autoritari, ciò non toglie che essi e l’ideologia che professavano fossero molto popolari. Tali cioè da poter contare nella maggior parte dei casi sul sostegno della maggior parte della popolazione, specie dei ceti medio bassi, e da potersi imporre in libere elezioni, salvo poi tendere ad occupare tutti i gangli del potere una volta conquistatolo. Difatti governi e leader che in qualche modo vi si richiamavano si succedettero in diversi paesi nel corso di quegli anni, benché non tutti creassero poi per varie ragioni regimi del tutto coerenti col nucleo ideologico del populismo: da Carlos Ibañez in Cile a Getúlio Vargas in Brasile, entrambi tornati al potere per via elettorale all’inizio degli anni ’50; da Velasco Ibarra in Ecuador al generale Rojas Pinilla in Colombia; da Victor Paz Estenssoro in Bolivia alla prima fase del governo del generale Odría in Perù. Senza dimenticare il peculiare caso del Messico, tutto sommato parte di quella famiglia. E soprattutto il prototipo di tali regimi, quello più maturo e compiuto e che non a caso ambì ad elaborarne un’ideologia coerente: il peronismo argentino e la sua dottrina justicialista. Per la quale quel che noi chiamiamo populismo era in realtà la via latina alla democrazia e alla giustizia sociale. Una via estranea e avversa, da 133

Perón e il peronismo Dei populismi classici dell’America Latina, quelli cioè sorti durante la transizione alla società di massa e alla civiltà industriale tra gli anni ’30 e gli anni ’50, il peronismo argentino fu il caso più emblematico. Oltre che quello più compiuto e perciò votato a far proseliti nel resto della regione. L’uomo che l’incarnò fu Juan Domingo Perón, un militare di carriera la cui meteorica ascesa politica si produsse nel seno del regime creato dalle Forze Armate nel giugno del 1943. Un regime di cui Perón esprimeva appieno il viscerale nazionalismo, il governo autoritario e la volontà di chiudere la pagina liberale della storia argentina. Ma che arricchì di un’audace politica sociale che gli consentì di ampliare le basi del regime e rafforzò riunendo i lavoratori in un sindacato unico legato allo Stato. Dapprima segretario al Lavoro, poi ministro della Guerra e infine anche vicepresidente della Repubblica, Perón s’impose poco a poco come l’uomo forte del regime. Quello dunque contro il quale manifestava l’opposizione che reclamava libere elezioni e inveivano gli Stati Uniti, che in lui coglievano l’emulo dei fascismi ch’essi stavano cancellando dalla mappa europea. Finché Perón, messo alle strette e incarcerato, tornò in sella quando il 17 ottobre 1945 una grande manifestazione popolare ne chiese la liberazione. Dopodiché si presentò alle elezioni, che vinse col 56% dei voti nel febbraio 1946, anno in cui nacque il suo regime, a capo del quale fu rieletto nel 1951 e che durò fino al 1955, quando un colpo di Stato militare lo depose costringendolo all’esilio. Il regime peronista fu lungo, complesso e passò per diverse fasi. Volendo però sintetizzarne le caratteristiche, è possibile coglierne taluni elementi sociali, economici, politici e ideologici che non solo bastano a raffigurarlo, ma danno anche la misura di quanto incarnò l’idealtipo dei populismi. Cominciando dai suoi aspetti sociali, non v’è dubbio che il peronismo nacque e rimase un grande movimento popolare, il cui nucleo più attivo e solido fu la classe operaia. Intorno alla quale gravitò però sempre una più vasta e più marginale fascia popolare dal profilo meno definito. Detto ciò, va anche precisato che, rappresentandosi il peronismo come movimento nazionale e non come partito di classe o ideologico, tese ad inglobare nelle sue basi settori assai eterogenei e con il tempo anche in conflitto tra loro. Attratti dal suo nazionalismo o dagli interessi ch’esso favoriva, entrarono infatti nelle sue fila anche radicali e conservatori, membri

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delle élites provinciali o della borghesia urbana, imprenditori e professionisti. In quanto alla politica sociale, è indubbio che il peronismo, il quale disponeva all’indomani della guerra di un’invidiabile condizione economica, favorì la distribuzione della ricchezza a favore delle sue basi sociali. Sia facendo lievitare il potere d’acquisto dei salari, sia accrescendo le prestazioni sociali, sia garantendo crediti molto agevolati all’industria nazionale. Nel complesso le condizioni di vita dei ceti popolari conobbero nei primi anni del regime un netto miglioramento, benché già intorno al 1950 la politica sociale peronista iniziò a mostrare gravi crepe. Finito il boom economico ne divenne evidente l’insostenibilità, dati gli enormi costi e sprechi e dati gli atteggiamenti parassitari che aveva incentivato, di cui erano riflesso il dilagante assenteismo, la bassissima produttività e l’abnorme crescita dell’apparato statale. Non a caso, mentre la prima presidenza di Perón fu perlopiù ispirata al dogma dei diritti dei lavoratori, la seconda lo fu da quello della produzione. Per quanto riguarda l’economia, i pilastri della politica peronista furono quelli tipici del modello Isi: lo Stato e l’industria. E la principale modalità per applicarla fu la pianificazione. Compito dello Stato fu innanzitutto quello di proteggere il mercato interno, di stimolare la crescita attraverso gli strumenti del credito e della spesa pubblica, di prendere possesso delle infrastrutture chiave, dai telefoni alle ferrovie, attraverso altrettante nazionalizzazioni e in generale di trasferire risorse dal settore esportatore ai ceti urbani e all’industria. Ciò che il governo fece per mezzo di un istituto, lo Iapi (Instituto Argentino de Promoción del Intercambio), che tra le sue tante funzioni ebbe quella di acquistare dai produttori il grano a un prezzo calmierato, per rivenderlo a prezzi molto più alti sul mercato mondiale. Col che il governo poté poi utilizzare il cospicuo ricavato per finanziare la spesa e gli investimenti pubblici, le prestazioni sociali, il consumo e così via. In quanto all’industria, la sua proliferazione fu per Perón un obiettivo sia economico sia politico. Economico essendo convinto che non vi sarebbe stato sviluppo senza industrializzazione. E politico poiché, da buon militare, egli vedeva nell’industria il necessario puntello della sovranità nazionale. La base cioè senza la quale l’Argentina sarebbe rimasta alla mercé delle economie straniere e non avrebbe avuto la forza per raccogliere intorno a sé, come ambiva a fare, le altre nazioni della regione. Quali furono i risultati di tali politiche? In proposito non v’è consenso. Di



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certo il modello parve funzionare nei primi anni ed incepparsi in seguito. Assicurò cioè crescita economica e dell’industria, oltre che distribuzione della ricchezza, fino al 1949. Ma cominciò poi a incontrare seri problemi, ora dovuti all’inflazione, ora alla rapida dilapidazione delle riserve internazionali, ora alla scarsa discriminazione tra settori strategici e secondari, ora all’impossibilità di spendere le inconvertibili sterline accumulate nelle banche inglesi per acquistare beni dell’industria statunitense, ora alla scarsa produttività di quell’industria cresciuta al riparo della protezione pubblica. A pesare però in modo particolare fu la dipendenza di quel modello dalle esportazioni agricole, le quali fruttarono enormi ricchezze finché il mondo del dopoguerra era in rovine ed affamato, ma s’inaridirono quando la situazione tornò alla normalità e i produttori argentini, colpiti dallo Iapi, ebbero meno interesse ad investire e produrre. Quando poi all’inizio degli anni ’50 giunsero anche due anni di tremenda siccità, l’economia argentina si trovò in ginocchio. Tanto che il secondo piano quinquennale, poi interrotto dalla caduta di Perón, cessò di spremere gli esportatori e puntò sui settori strategici e la produttività, mentre il governo ripose per un istante la sua violenta retorica nazionalista per attrarre investimenti esteri. In termini politici, il peronismo fu un regime ibrido, com’è peraltro tipico dei populismi. Ibrido nel senso che, pur giunto al potere per via elettorale e poi confermatosi più volte allo stesso modo, e pur mantenendo in piedi l’architettura liberale dello Stato di diritto, esso governò in modo autoritario e violandone lo spirito. Un autoritarismo popolare, per così dire, o una tirannia della maggioranza, poiché fu invocando la volontà del popolo che il peronismo imbavagliò l’opposizione, monopolizzò l’informazione, impose l’obbedienza alla Magistratura, purgò a fondo il sistema educativo e cercò infine in tutti modi d’assicurarsi la piena adesione anche di Chiesa e Forze Armate. Cioè delle due potenti corporazioni che tanto l’avevano in origine sostenuto nella sua lotta per sradicare le basi del regime liberale in Argentina. In sostanza, pur non diventando mai un regime a partito unico, quello peronista creò un groviglio così inestricabile tra Stato e partito peronista da assomigliargli molto. E pur non divenendo mai un vero e proprio regime totalitario, non v’è dubbio che la sua tendenza a concentrare i poteri e ad intridere con la sua ideologia ogni ambito sociale, ne manifestò la pulsione in tal senso.

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Di tali ed altre tendenze fu espressione la sua ideologia, che Perón chiamò justicialismo, essendo a suo giudizio premessa di sovranità politica, indipendenza economica e giustizia sociale, i suoi tre cardini. Al di là di ciò, la sua dottrina ambì ad ergersi a Terza Posizione, sia sul piano interno sia su quello internazionale, tra l’Occidente liberale e l’Oriente comunista. Tanto da proclamarsi ostile a individualismo e collettivismo, alla civiltà protestante e a quella atea con cui egli identificava le due grandi potenze e da indicare nella sua ideologia il ritorno a una società intrisa di valori comunitari, figli della civiltà cattolica. Civiltà che Perón non cessò mai, neppure quando con la Chiesa si scontrò, d’invocare a fondamento della propria dottrina. Emblema della sua ideologia fu infatti l’obiettivo di creare una comunidad organizada, nella quale il popolo fosse unito e organizzato. Unito politicamente e spiritualmente nel peronismo. E organizzato in corporazioni, peroniste anch’esse, entro le quali Perón cercò d’includere i vari settori della popolazione, a volte riuscendovi, a volte fallendo. A capo di quell’organismo sociale così ricondotto alla sua unità primigenia ed emendato dalle divisioni inflittegli dalla modernità, Perón si stagliava come capo indiscusso e carismatico, autorizzato alla rielezione dalla riforma costituzionale del 1949. Rielezione che ottenne a man bassa nel 1951 con oltre il 60% dei voti. Per essere più precisi va tuttavia detto che quello di Perón fu in realtà un peculiare regime bicefalo. Al suo fianco, infatti, non meno potente e forse ancor più popolare, figurò fino alla precoce morte nel 1952 la moglie Eva. La quale è entrata nel mito e nella devozione popolare nei panni d’una Vergine pagana, di Madre dei diseredati cui sacrificò la vita spendendosi nelle sue innumerevoli opere sociali. Sennonché Eva fu un personaggio assai più complesso e controverso di quanto il mito non dica. Sia perché in realtà esercitò anche, nel più assoluto e arbitrario dei modi, un enorme potere politico. Potere organizzato nel partito peronista femminile, col quale canalizzò il voto delle donne ch’essa aveva contribuito a far approvare, nella potente Fondazione Eva Perón, e immenso ai vertici del sindacato, la CGT (Confederación General del Trabajo), e dei poteri pubblici in generale, dov’essa contava innumerevoli fedeli. Sia perché la sua azione sociale, che pur arrecò enormi benefici ad ampi strati popolari, non fu certo priva d’ombre. Dato che pesò in gran parte sull’erario pubblico e su esazioni imposte a imprese e lavoratori, cui sottrasse quindi enormi risorse che essa amministrò a suo piacimento senza

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rendicontare a nessuno. E dato che sull’immensa popolarità così guadagnata imbastì una continua ed assordante propaganda ideologica in favore del peronismo e di odio verso i suoi nemici. Che la ricambiarono con gl’interessi. Nel complesso, si può dire che del peronismo Eva Perón incarnò l’anima più popolare ma anche più manichea, quella più capace di infiammare l’entusiasmo delle folle ma anche così violenta da alienargli simpatie e consensi. Specie tra le corporazioni ecclesiastica e militare che l’avevano tenuto a balia. Col che si può dire ch’Eva impresse al peronismo una sorta d’afflato religioso che gli conferì straordinaria forza. Ma anche che il suo millenarismo ne rappresentò l’anima più totalitaria, quella che riducendo in cenere ogni forma di mediazione politica lo isolò nella sua popolarità. Finché, morta Eva e con l’economia in panne, la pretesa peronista di far del justicialismo una sorta di religione politica, sfociò in un violento conflitto con la Chiesa cattolica, sentitasi tradita da quel movimento in cui aveva intravisto la volontà di fare una politica cattolica, ma che aveva finito per voler assorbire la Chiesa proprio in nome della sua cattolicità. Un conflitto durante il quale Perón cancellò d’un tratto gli enormi vantaggi concessi prima d’allora alla Chiesa ed introdusse talune misure, come il divorzio, contro le quali essa mobilitò i fedeli. E che generò in molti peronisti violente crisi di coscienza, essendo la maggior parte d’essi anche cattolici. La causa della Chiesa trovò infine decisivo sostegno nelle Forze Armate. Le quali rovesciarono Perón, ma non per questo poterono riportar la pace in un paese spaccato tra peronisti e antiperonisti.

un lato al comunismo, ateo e statalista, e dall’altro al capitalismo e alla democrazia liberale del mondo protestante anglosassone. Una terza via cattolica, insomma, poiché cattolica era la più profonda fibra della civiltà latinoamericana. 5. La guerra fredda. I primi passi Ciò che i populismi combattevano e il modello Isi contrastava, vale a dire l’egemonia statunitense in America Latina, s’affermò invece dopo la guerra sul piano geopolitico. Quello della sicurezza, insomma. Non senza urti e resistenze, naturalmente. Ma nel complesso fu proprio allora che il nuovo equilibrio mondiale creò le condizioni 138

perché quell’egemonia s’esprimesse in modo più esteso e profondo che in passato. E non solo per lo strapotere globale che gli Stati Uniti vantavano in campo economico e militare, ma anche perché l’Europa era ormai per l’America Latina un socio minore, mentre l’Unione Sovietica non era in grado di pesare sui destini di quell’area tanto remota. Nulla, insomma, pareva frapporre seri ostacoli a quell’egemonia. Tale contesto consentì l’istituzionalizzazione dei rapporti interamericani. La creazione d’istituzioni emisferiche permanenti, in altri termini, di cui tutti gli Stati dell’area entrarono a far parte. Col che s’affermò lo storico obiettivo statunitense di far delle Americhe una comunità di difesa. Un continente dunque unito dal principio che la sicurezza di ognuno dei suoi membri era vitale per quella di tutti gli altri. E che dunque le minacce a quella di uno era da intendersi come un pericolo per l’emisfero nel suo complesso. Ma a far così un gran passo in avanti fu anche la premessa ideologica del panamericanismo, cui l’imperativo di fronteggiare nella guerra fredda un nemico globale dette grande impulso. L’idea, cioè, secondo cui aveva ormai perduto senso, se mai ne aveva avuto, distinguere un’America anglosassone da un’America latina, essendo l’intero continente una civiltà comune. Quella occidentale e cristiana. Un’idea indigesta ai nazionalismi latinoamericani d’ogni genere, i quali infatti non la fecero di certo propria. Panamericanismo e anticomunismo furono dunque allora i cardini della politica emisferica degli Stati Uniti. In intima connessione tra loro, naturalmente. Sia sotto la presidenza di Harry Truman, quando l’accento cadde più sul primo termine, sia sotto quella di Dwight Eisenhower, quando fu il secondo a prevalere. Benché tra l’una e l’altra non furono in realtà enormi le discontinuità. Per quanto attiene al primo punto, il panamericanismo, le sue principali tappe furono tre. La prima nel 1945, quando l’Atto di Chapultepec sancì i principi generali della nuova comunità emisferica: l’uguaglianza giuridica tra tutti gli Stati, il non intervento negli affari altrui, la sicurezza comune. La seconda e più concreta nel 1947, quando a Rio de Janeiro le nazioni americane crearono il Trattato Interamericano di Assistenza Reciproca (Tiar), un patto militare basato sul principio che un attacco ad uno Stato membro avrebbe giustificato una reazione di tutti gli altri. Un patto che legittimò la tutela militare degli Stati Uniti contro ogni eventuale minaccia comunista, reale 139

o percepita. Ma la cui portata fu in parte limitata dalle resistenze di taluni paesi, come Argentina e Messico, che si riservarono il diritto di decidere di volta in volta se partecipare o meno alla risposta collettiva. La terza tappa, infine, fu nel 1948 la fondazione, durante la Conferenza di Bogotà, dell’Organizzazione degli Stati Americani (Osa), con cui il sistema interamericano assunse la sua definitiva veste istituzionale. In quanto all’anticomunismo, non v’è dubbio che con l’incedere della guerra fredda divenisse sempre più la priorità strategica statunitense nella regione. Ma non ve n’è neanche che esso fosse condiviso dalla maggior parte dei governi dell’America Latina, non solo conservatori ma anche populisti. Per non dire delle Forze Armate. E che quand’anche essi non lo ritenessero una minaccia imminente, tesero a magnificarla cercando così d’ottenere l’attenzione di Washington. Dove è vero che il governo si mobilitò per creare un solido fronte anticomunista nelle Americhe, ma non per questo le giudicava un’area ad alto rischio, specie al cospetto d’Europa e Asia. Detto ciò, per comprendere la natura dell’anticomunismo in America Latina, sia di quello incoraggiato dagli Stati Uniti sia di quello che affondava profonde radici nella cultura politica della regione, occorre considerare che esso non soleva presentarsi tanto come reazione alla minaccia di una potenza esterna. Quanto a prendere fin d’allora la forma prevalente della reazione contro un nemico interno. Un nemico politico e ideologico, il quale prese ad esser visto sia in coloro che n’esibivano la militanza, sia, sempre di più, nella sua tendenza a confluire nel nazionalismo. In termini concreti, comunque, le pressioni degli Stati Uniti da un lato e dall’altro l’anticomunismo di molti governi dell’America Latina crearono il clima perché in molti paesi i partiti comunisti fossero messi fuori legge o sottoposti a restrizioni; perché, salvo rare eccezioni, la gran parte d’essi rompesse i rapporti diplomatici con l’Unione Sovietica; e perché trovasse appiglio lo sforzo dei sindacati statunitensi di fondare una Confederazione sindacale emisferica in grado di contenere quella guidata in Messico da Vicente Lombardo Toledano e vicina a Mosca. Col tempo, poi, specie da quando alla Casa Bianca giunse Eisenhower agitando la dottrina del roll back, cioè della «cacciata indietro» del comunismo, le misure per combatterlo s’intensificarono ancor più. Sia sul fronte militare, dove Washington firmò numerosi patti militari bilaterali con i governi dell’America 140

Latina. Sia su quello politico, dove gli Stati Uniti non lesinarono il ricorso alle covert action, cioè all’impiego indiretto della forza, pur di sbarazzarsi dei pochi governi ch’essi giudicarono in odore di comunismo, come quello guatemalteco di Jacobo Arbenz nel 1954. Tutto ciò non impedì però che l’egemonia statunitense incontrasse seri ostacoli. Taluni minori, altri maggiori. Tutti comunque forieri di quelli ancora più grandi che il futuro le riservava. Né significa che l’America Latina fosse mera spettatrice del nuovo contesto. Sia perché cercò di trarne vantaggi. Sia perché contro quell’egemonia non cessarono nel suo seno di covare reazioni. Di cui i populismi furono, come s’è visto, l’emblema. Essi infatti ereditavano e sviluppavano le più antiche e profonde radici dell’antiamericanismo ispanico e cattolico. Non solo, ma in essi tendevano sempre più spesso a confluire i nazionalismi prima dispersi, di destra e sinistra, economici e politici, spirituali e culturali. Tutti accomunati dall’avversione agli Stati Uniti e alla civiltà ch’essi rappresentavano. Uniti cioè da quel ch’essi chiamavano antimperialismo. Di tali ostacoli il maggiore fu per gran parte di quegli anni quello rappresentato dall’Argentina di Perón: per la politica di Terza Posizione ch’esprimeva; per i suoi sforzi di esportare il peronismo e di creare un fronte latinoamericano ostile agli Stati Uniti; in quanto emblema della convergenza nei populismi del nazionalismo di destra e di sinistra. Per un verso le idee e la propaganda peroniste trovarono terreno fertile per attecchire. Anche per l’enorme frustrazione causata ovunque in America Latina dagli scarsi aiuti che gli Stati Uniti le riservarono nel dopoguerra, mentre tanti ne dispensarono all’Europa. Per un altro verso, tuttavia, molti governi reagirono impauriti, cogliendovi le ambizioni egemoniche argentine. Il che giovò a spingerli ancor più verso gli Stati Uniti in cerca di protezione. Caduto Perón, non scomparvero però gli spettri che il suo governo aveva sollevato a Washington. Semmai tesero a ricomparire come un fiume carsico in diversi modi e fogge nei più svariati luoghi. Ora in Bolivia e in Guatemala. Ora in Perù e Venezuela, dove il vicepresidente Richard Nixon rischiò nel 1958 l’incolumità a causa delle proteste antiamericane. Ora, infine, a Cuba, dove il 1° gennaio 1959 trionfò la rivoluzione.

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Il Guatemala di Jacobo Arbenz La storia guatemalteca dopo la guerra racchiude in sé i principali tratti dell’epoca. I quali vi si presentano però in forma esasperata, essendo il Guatemala uno dei paesi dove più spessi erano i nodi che allora la caratterizzarono. Spiccava infatti per la rigidità della segmentazione sociale, che separava la maggioranza indiana dalla oligarchia creola. Ma anche per l’elevata concentrazione della terra, per la dilagante povertà e per la dipendenza dai prodotti tropicali per l’esportazione. In gran parte sfruttati, come altrove in America Centrale, dalle grandi compagnie statunitensi, in quel caso la United Fruit Company. La quale vi aveva creato talune infrastrutture moderne utili ai suoi commerci, ma vi possedeva anche enormi estensioni di terre praticamente esenti dal controllo dello Stato. Come altrove, il Guatemala visse allora una stagione di democratizzazione e integrazione sociale. Caduta infatti nel 1944 la lunga dittatura che vi aveva dominato negli anni ’30, s’insediò un governo costituzionale che ampliò la partecipazione politica alle donne e agli analfabeti. Presidente dal 1951, il colonnello Arbenz gli impresse una svolta radicale, elaborando una riforma agraria volta a recuperare parte delle terre della United Fruit per distribuirle tra i contadini. Una misura cui la compagnia s’oppose con le sue enormi forze e che generò un contenzioso sull’indennizzo col governo degli Stati Uniti, colmo d’uomini ad essa legati. Ma come altrove, anche quella del Guatemala si rivelò presto una democrazia fragile. Soggetta cioè da un lato alla reazione sociale delle élites, e dall’altro alla crescente tendenza del governo a monopolizzare il potere stringendo la vite sulla stampa, sui sindacati, sul Parlamento. Nel quadro della guerra fredda, Eisenhower iniziò perciò a vedere nel Guatemala un caso tipico di fusione tra nazionalismo e socialismo. Di quel, cioè, che nell’ottica del suo governo appariva un’evidente minaccia comunista. Resa ancor più sospetta dal ruolo assunto al fianco di Arbenz dal piccolo partito comunista locale. Da qui al passo successivo, cioè alla decisione di ordire contro di esso un’azione condotta da una fazione di militari guatemaltechi coperti e finanziati dai servizi segreti statunitensi, mancava solo un passo che nel 1954 fu infine compiuto. Un passo che induce spesso a ritenere quel caso l’unico di effettivo roll back riuscito all’epoca agli Stati Uniti. Non per questo, però, essi poterono cantar vittoria per l’ordine restaurato. Sia perché il Guatemala non cessò più d’allora di essere un focolaio d’instabilità. Sia perché quel precedente conferì tratti più radicali al caso che gli venne a ruota: quello di Cuba.

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8.

Gli anni ’60 e ’70. Il ciclo rivoluzionario

1. L’età della rivoluzione Dalla rivoluzione cubana del 1959 a quella sandinista in Nicaragua vent’anni dopo, l’America Latina visse una lunga stagione rivoluzionaria. Nel senso che i moti rivoluzionari scoppiarono a tamburo battente. Ma ancor più in quello che la rivoluzione divenne la parola chiave dell’epoca, quella invocata un po’ da tutti per legittimare il proprio pensiero e la propria azione, l’orizzonte verso il quale parve dover camminare l’intera regione. La rivoluzione, socialista ma nazionale, la invocarono infatti i rivoluzionari. Per definizione. Ma l’invocarono spesso anche i riformisti per far comprendere come anch’essi intendessero smuovere alle radici l’ordine esistente. A cominciare dal cileno Eduardo Frei, di essi forse il più importante, che nel 1964 assunse il governo annunciando la Revolución en Libertad. E per paradossale che possa sembrare, invocarono la rivoluzione perfino coloro che tanto fecero per combatterla. Specie i regimi militari che sorsero numerosi dalla metà degli anni ’60. I quali, come si vedrà nel prossimo capitolo, non si limitarono in realtà alla controrivoluzione. Ma si proposero di farlo rivoluzionando anch’essi l’ordine politico e sociale. Il fatto stesso che la rivoluzione divenisse allora la parola chiave è di per sé indicativo di molte cose. La prima è che le grandi trasformazioni sociali ed economiche avvenute durante e dopo la guerra e continuate a ritmi assai rapidi per gran parte degli anni ’60 esigevano ri144

sposte che non erano arrivate, non lo avevano fatto in tempo o non erano state sufficienti. La seconda cosa è che ancora una volta, come già negli anni ’30 e ancora dopo il 1945, le istituzioni democratiche non parvero nella maggior parte dei casi adeguate a dar quelle risposte. Né per i rivoluzionari, né per quanti la rivoluzione la combattevano. Sia infatti dove, dopo la guerra, la democratizzazione era stata bloccata da una svolta autoritaria e conservatrice, sia dove invece s’erano imposti regimi populisti, esse si rivelarono nella maggior parte dei casi inefficaci. Nei primi casi perché la domanda accumulata e a lungo compressa di partecipazione tese a travolgerle. Nei secondi perché la logica dello scontro amico-nemico tipica dei populismi ne aveva fatto macerie. La terza ragione è che la forza dell’orizzonte rivoluzionario segnalava la grande vitalità, in larghe fasce della popolazione di vari ceti, di un immaginario politico palingenetico. Di ideologie che aspiravano cioè a creare una comunità coesa e armonica e per le quali la democrazia era un concetto sociale, a prescindere dalla forma politica che le si dava. E che si ripromettevano perciò di sanare le profonde spaccature sociali non con gli spuntati arnesi della democrazia parlamentare, bensì con la forza della violenza rivoluzionaria. Attraverso, insomma, una sorta di catarsi religiosa. La rivoluzione cubana dette in tal senso fuoco alle polveri. Sia poiché specie nei primi anni cercò d’esportare il proprio modello, cioè la guerriglia, finanziando o addestrando i gruppi decisi a seguire quella via. Sia per l’emulazione che stimolò in molti paesi. Benché sarebbe errato ritenere che essa fosse l’unico fulcro di un fenomeno, la rivoluzione, che ebbe come s’è detto radici endogene e antiche un po’ dovunque. Lo fece tra l’altro proprio mentre l’ondata autoritaria iniziata un decennio prima era in pieno riflusso. Quando cioè la maggior parte dei paesi che n’era stata colpita era tornata a governi costituzionali: dal Perù alla Colombia, dal Venezuela all’Argentina. I quali raggiungevano così quelli che tali erano rimasti. Caduto Fulgencio Batista a Cuba, insomma, di vere e proprie dittature ne rimanevano in piedi poche. E tutte in paesi piccoli ed arretrati, come Paraguay e Haiti, Nicaragua e Salvador. Presto, però, una lunga e poderosa ondata di convulsioni politiche e sociali ne fece cadere la gran parte, perfino le antiche e solide democrazie di Cile ed Uruguay. Convulsioni che non s’espressero ovviamente solo per mezzo delle guerriglie. Le quali furono semmai la punta più estrema di un iceberg dalla base assai più ampia, fatta di 145

grandi mobilitazioni e lotte sociali. Delle quali furono allora più che mai protagonisti gli studenti e i lavoratori urbani, operai e non, ma in taluni casi anche i contadini senza terra, specie nei paesi a maggioranza indiana o meticcia dove la questione rurale e quella indiana tesero perciò sempre più a sovrapporsi. Proprio rurali furono infatti le prime guerriglie. E ispirate a quanto era avvenuto a Cuba attraverso la dottrina del fuoco guerrigliero elaborata da Ernesto «Che» Guevara, il medico argentino che tanta parte vi aveva avuto al fianco di Fidel Castro. In base alla quale la volontà e la motivazione ideologica di un nucleo di combattenti decisi e disciplinati sarebbe bastata a provocare nelle campagne della regione, soggette a così gravi ingiustizie, la scintilla capace di far divampare l’incendio rivoluzionario. Senza dunque attendere le «condizioni oggettive» presupposte a tal fine dal marxismo classico. Sorte, non a caso, in paesi dove i movimenti populisti non avevano trovato sbocchi e l’integrazione sociale e politica delle masse era dunque rimasta bloccata, quelle guerriglie fallirono però ovunque: in Guatemala e Perù, Venezuela e Bolivia, dove nel 1967 fu ucciso lo stesso Guevara. Per varie ragioni, diverse da paese a paese. Tra le quali la dura reazione dei governi e dei militari locali sostenuti dagli Stati Uniti; le condizioni spesso diverse da quelle che l’avevano resa possibile a Cuba e la difficoltà, perciò, di attecchire tra la popolazione; le divisioni tra i rivoluzionari, in molti casi avversati dai locali partiti comunisti, contrari a quelle che giudicavano strategie avventuriste, foriere di violente repressioni. Solo in Nicaragua si crearono più tardi, negli anni ’70, le condizioni per il successo di una di quelle guerriglie, quando la dittatura della famiglia Somoza finì per isolarsi dagli alleati interni e da quelli esterni, fino a cadere sotto i colpi del vasto fronte oppositore guidato dai sandinisti nel 1979. Proprio negli anni ’70, mentre i movimenti armati di tipo rurale si spegnevano o languivano, altri ne nacquero altrove. Stavolta nei paesi più sviluppati della regione, dov’ebbero base perlopiù urbana, specie studentesca, benché non solo. Nacquero in taluni casi dalle costole dei vecchi movimenti populisti e contro i regimi militari, come i Montoneros argentini. E come i gruppi sorti in Brasile tra anni ’60 e ’70, legati però al partito comunista. Oppure sorsero perché disillusi dal riformismo dei partiti tradizionali, come i Tupamaros uruguayani. Neanche essi ebbero però successo. O se l’ebbero in un primo momento lo pagarono in seguito con gl’interessi, ossia subendo violente repressioni. Quel che in generale però indicavano era la forza e la per146

Fidel Castro e la rivoluzione cubana La rivoluzione avvenuta a Cuba sotto la guida di Fidel Castro e giunta al potere il 1° gennaio 1959 ebbe diverse cause che ne fanno un caso peculiare nel panorama delle rivoluzioni socialiste del XX secolo. Tra di esse spicca la questione nazionale, cioè il nodo irrisolto dell’indipendenza cubana e del rapporto con gli Stati Uniti da quando, nel 1898, l’isola si era emancipata dalla Spagna solo per cadere sotto una sorta di protettorato politico, economico e militare statunitense. Vi si sommava una grave questione sociale: pur godendo di discreti indicatori per gli standard di vita dell’America Latina, l’espansione della coltura della canna da zucchero e dei rapporti di produzione capitalisti nelle campagne aveva trasformato gran parte dei contadini in braccianti, per di più disoccupati per gran parte dell’anno, quando il lavoro nelle coltivazioni era fermo. Più che dall’arretratezza e dalla miseria, la rivoluzione fu dunque agevolata dagli effetti delle profonde trasformazioni avvenute nella struttura sociale cubana. Il peso del capitale statunitense nell’economia dell’isola fece inoltre sì che questione sociale e nazionale apparissero facce diverse d’una medesima medaglia. A tali cause, infine, s’aggiunse dal 1952 un’esplosiva questione politica, dal momento che il golpe di Fulgencio Batista bloccò i già fragili canali della democrazia rappresentativa e spinse all’insurrezione la generazione di giovani nazionalisti che s’affacciava sulla scena politica. Poiché negli anni successivi Batista si accreditò tra i più solidi alleati nella regione dell’amministrazione Eisenhower, anche la questione politica tese a confluire con quella nazionale, preludendo allo scontro tra il regime rivoluzionario e gli Stati Uniti. Ma alle cause strutturali se ne affiancò un’altra risultata poi decisiva. Su tale, immenso pagliaio pronto ad ardere, infatti, la carismatica figura del giovane Fidel Castro ebbe l’effetto d’un cerino acceso che fece divampare l’incendio. Le principali e celebri tappe che da allora al 1959 costellarono la marcia trionfale della rivoluzione sono dunque legate al suo nome: dal fallito assalto alla caserma Moncada nel 1953 alla successiva fondazione del Movimento 26 luglio, dalla spedizione del Granma nel novembre 1956 alla creazione di un fuoco guerrigliero sulla Sierra Maestra dov’egli e gli altri barbudos, tra i quali si distinsero i comandanti Raúl Castro, Ernesto «Che» Guevara e Camilo Cienfuegos, gettarono le fondamenta del successo militare ed insieme del nuovo ordine rivoluzionario. Ma al-

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la vittoria della rivoluzione contribuirono numerose altre forze e fattori, specie l’estrema polarizzazione causata dal governo autoritario di Batista e dalla sua brutale violenza. Ciò consentì col tempo ai guerriglieri della Sierra, abili nell’invocare un programma politico e un’ispirazione ideale genericamente nazionalisti e democratici, di raccogliere intorno a sé, alla ineluttabilità della via insurrezionale e alla preminenza della guerriglia rurale sulla lotta di massa nelle città le forze più varie e disparate: dagli studenti del Directorio Revolucionario alle organizzazioni del laicato cattolico, dagli uomini di punta dei partiti tradizionali ai comunisti del Partido Socialista Popular, dapprima ostili al metodo castrista, dai liberals statunitensi ai democratici latinoamericani, ostili i primi al connubio tra la Casa Bianca e i dittatori dell’America Latina e decisi i secondi, specie il venezuelano Rómulo Betancourt, a ripulire l’area dai caudillos militari che ancora v’imperversavano. Molti di costoro, tuttavia, abbandonarono la rivoluzione o ne furono emarginati e finirono per combatterla allorché Castro, dopo una prima fase in cui acconsentì alla formazione di un governo moderato, imboccò con decisione il cammino della rivoluzione sociale e dell’antimperialismo militante, in patria e all’estero, accantonando l’impegno di restaurare la democrazia parlamentare e l’imperio della Costituzione del 1940. Quanto ciò fosse inscritto negli ideali dei leader rivoluzionari e nelle condizioni strutturali dell’isola e quanto fosse una reazione all’ossessione statunitense per rinnovare la propria tutela sui destini di Cuba è materia d’infinita diatriba storiografica e politica. Quel ch’è certo è che la rivoluzione adottò riforme economiche, sociali e politiche che col tempo l’avvicinarono sempre più al modello socialista, coronate dall’esplicita adesione ai principi del marxismo-leninismo e al versante sovietico della guerra fredda dopo la tentata invasione patrocinata nell’aprile 1961 dagli Stati Uniti alla Baia dei Porci. Sul terreno economico il governo ri-

 sistenza dei populismi, poiché in diverse dosi e in forme più radicali che in passato essi solevano proporre una miscela di marxismo e nazionalismo, autoritarismo politico e democrazia sociale. Della vitalità del populismo come risposta alle trasformazioni ed ai conflitti in corso vi furono d’altronde allora numerosi esempi. Dal governo di João Goulart in Brasile, il vecchio ministro di Getúlio 148

voluzionario procedette alla nazionalizzazione delle industrie e dei servizi e alla realizzazione d’una radicale riforma agraria: nell’arco di alcuni anni lo Stato assunse di fatto il controllo dei mezzi di produzione. Il progetto d’industrializzare l’isola e diversificare l’economia, tuttavia, non dette i risultati sperati e, complice l’embargo statunitense, a Cuba non restò che integrarsi al Comecon e affidarsi alle generose sovvenzioni sovietiche. Sul terreno sociale la rivoluzione agì mossa da un radicale afflato egualitario, sia nella politica salariale e occupazionale, sia nello sforzo, in gran parte riuscito, di migliorare e universalizzare l’accesso all’educazione pubblica e ai servizi sanitari. Sul terreno politico i rivoluzionari cubani immaginarono la realizzazione d’una democrazia popolare o diretta, alimentata dalla forza morale dell’«uomo nuovo» sorto dalla catarsi rivoluzionaria. Non diversa, nella sostanza, da quella ostile al pluralismo degli altri populismi latinoamericani. A tal fine imbastirono un sistema di partecipazione politica alternativo alla aborrita «democrazia borghese», fondando numerose organizzazioni di massa: dai Comitati di Difesa della Rivoluzione alla Federazione delle Donne Cubane, dall’Unione dei Pionieri alla Federazione Studentesca e così via. Ben presto, però, col fisiologico affievolirsi dello spirito rivoluzionario e dinanzi alla necessità di far funzionare la macchina dello Stato e dell’economia, gli organismi del cosiddetto «potere popolare» persero smalto e spontaneità per divenire perlopiù organi attraverso i quali si ramificarono il potere e il controllo sociale del partito comunista di Cuba, l’unico ammesso. Man mano che s’istituzionalizzò, dunque, il regime politico della rivoluzione cubana assunse i tratti tipici dei regimi socialisti a partito unico e ideologia di Stato. Lo sancì la Costituzione del 1976 e nuovamente la riforma costituzionale del 2002, che definisce «irreversibile» la via socialista imboccata da Cuba. In gran parte figlia d’una «questione nazionale» incancrenita, però, la rivoluzione cubana non ha mai del tutto smarrito, sotto la spessa coltre del regime socialista, la sua matrice populista originaria.

Vargas deposto dai militari nel 1964, al trionfale ritorno al potere di Juan Domingo Perón in Argentina nel 1973, dove morì l’anno dopo. Dalla presidenza di Luis Echeverría in Messico negli anni ’70, che rispose alla carneficina con cui il suo predecessore aveva messo a tacere le proteste del 1968 cercando di ridare fiato alla tradizione rivoluzionaria del regime, al caso più atipico e gravido di conseguen149

ze: quello della vittoria elettorale in Cile, nel 1970, di Salvador Allende e della sua coalizione di partiti marxisti e radicali. Di analoga tendenza, benché espressa in modi e forme diverse, furono d’altronde i numerosi populismi militari che fioccarono in quegli anni in molti paesi dove prima d’allora il populismo era stato frustrato. Regimi militari, insomma, cioè dittature, ma intrisi di nazionalismo e fautori dell’integrazione sociale delle masse. Ora come nel Perù del generale Velasco Alvarado attuando riforme agrarie, ora come a Panama col generale Omar Torrijos proponendosi di migliorare le condizioni della popolazione riappropriandosi della sovranità sul Canale e della ricchezza ch’esso produceva. 2. Lo sviluppo distorto e i conflitti sociali Quel che vale per la sfera politica, dove per motivi storici e contingenti le istituzioni democratiche furono pressoché ovunque travolte dalla polarizzazione tra rivoluzione e controrivoluzione, vale a maggior ragione per quella economica e sociale. Dove le tendenze maturate all’indomani della guerra e che tanto spiegano la polveriera che l’America Latina divenne sempre più, non solo non si placarono, ma semmai culminarono proprio tra l’inizio degli anni ’60 e la metà degli anni ’70. L’età per tanti aspetti più drammatica della storia latinoamericana nel XX secolo. Quella durante la quale anche le lotte sociali ruppero spesso gli argini istituzionali e i modelli di sviluppo furono in molti casi imposti manu militari. La crescita economica continuò infatti ad essere per tutta l’epoca piuttosto flebile. Un po’ più alta che nei due decenni precedenti, in termini assoluti, ma non soddisfacente, dato che, com’essa, crebbe anche la popolazione, il cui tasso d’incremento cominciò a ridursi, dando i primi segnali di modernizzazione demografica, solo nella seconda metà degli anni ’70. Per cui, in breve, il livello medio di crescita dell’economia continuò ad aggirarsi intorno al 2% annuo. Troppo poco per una regione dove le masse premevano in cerca d’occupazione e le aspettative di ascesa sociale dei ceti appena inurbati rimanevano perlopiù frustrate. Come in passato, infatti, cresceva l’industria ma ristagnava l’agricoltura. Che espelleva dunque popolazione dalle campagne. Ma a crescer assai più in fretta d’ogni altro settore furono i servizi. Il cosiddetto terziario, insomma, il quale 150

come s’è detto non era indice di modernità, bensì nella maggior parte dei casi dell’espansione dell’apparato pubblico, o della crescita di impieghi marginali e non produttivi. A crescere, in sintesi, non erano i settori produttivi. Il che la diceva lunga sia sui deficit strutturali di quelle economie, sia sulla loro incapacità di assorbire mano d’opera. Sia quella non qualificata che, giunta dalle zone rurali, s’accatastava nei villaggi di baracche ai margini delle città. Sia quella specializzata e scolarizzata che popolava le università, in molti paesi alla portata di gran parte dei ceti sociali urbani. Dove non a caso sorsero i conflitti più violenti e le ideologie più radicali. Per quanto riguarda la mano d’opera specializzata, si consolidò allora in America Latina un profilo sociale peculiare, più simile a quelli delle altre aree periferiche che alla tipica piramide delle società europee. Un profilo nel quale il proletariato urbano non occupava i gradini più bassi della scala sociale, dove invece giacevano le folle del subproletariato, cresciuto ovunque e a volte molto in fretta dal 1960 in poi. Dei marginali, in altre parole, che non si caratterizzavano soltanto per l’esiguo reddito o per l’etnia, o per essere in gran parte giovani senza istruzione di origine rurale recente. Ma anche per la loro sostanziale estraneità alle istituzioni pubbliche, della cui incapacità d’integrare le nuove masse erano dunque l’emblema, tanto da essere di solito chiamati il settore informale. Per quanto riguarda invece gli studenti, benché le differenze da paese a paese rimanessero enormi, e tra gli estremi di Argentina, Uruguay e Cuba da un lato e quelli di Guatemala e Haiti dall’altro vi fosse un vero e proprio abisso, vi furono allora un po’ ovunque nella regione tendenze comuni. Non solo perché dappertutto la popolazione scolastica crebbe a ritmi molto più rapidi della popolazione in generale. Ma perché tale crescita riguardò soprattutto l’insegnamento secondario e superiore, cioè le università. A tutto ciò va aggiunto che l’inurbamento non s’arrestò, ma anzi divenne ancora più impetuoso, svuotando le campagne e sovrappopolando pericolosamente le città. Tanto che se ancora nel 1960 la popolazione urbana s’attestava secondo diverse stime intorno al 50%, vent’anni dopo era schizzata ad oltre il 63%. Va aggiunto anche che il corposo flusso di capitali stranieri investiti in quegli anni nelle economie della regione, più che doppi rispetto al ventennio precedente, ne accrebbe la dipendenza. O almeno la percezione che tale ne fosse l’effetto. Il che, benché avesse anche ricadute virtuose in termini di occupazione e trasferimenti tecnologici, dette ulteriore car151

burante al nazionalismo antimperialista delle correnti rivoluzionarie. Che nelle campagne le numerose riforme agrarie introdotte all’inizio degli anni ’60, perlopiù sotto la spinta dell’Alleanza per il Progresso lanciata dall’amministrazione Kennedy, crearono numerose aspettative ma s’arenarono nella maggior parte dei casi contro le resistenze dei grandi proprietari terrieri. E infine che lungi dal ridursi, la concentrazione della ricchezza crebbe in genere ancor di più, toccando in taluni casi degli estremi senza eguali altrove. Come in Brasile negli anni ’70, dove il 5% più ricco della popolazione deteneva poco meno della metà della ricchezza nazionale, contro l’appena 3,4% in mano del 20% più povero. Un panorama economico e sociale degli anni ’60 e ’70 ridotto a tali elementi sarebbe però parziale. Per cui nel prossimo capitolo se ne vedranno taluni elementi rimasti finora in ombra. Quel che però qui importava era sottolinearne gli elementi d’instabilità. Tali addirittura da poter innescare vere e proprie implosioni. Elementi che come si vede non mancarono. Come non mancarono perciò per tutta quell’epoca grandi e cronici conflitti sociali. Studenteschi, come s’è detto, nelle maggiori città dell’America Latina: da Cordoba, in Argentina, dove nel 1969 le loro proteste ebbero un ruolo chiave nel mettere in ginocchio il regime militare del generale Juan Carlos Onganía; a Città del Messico, dove le loro rivendicazioni aprirono un varco nella corazza del regime in piedi dalla rivoluzione, il quale non trovò di meglio che usar contro di essi la violenza. Ma anche conflitti rurali per il recupero di terre comunitarie o per la distribuzione di grandi proprietà assenteiste. Conflitti spesso condotti da nuovi e vasti movimenti contadini, talvolta guidati da leader sindacali o dirigenti comunisti e ancor più spesso da sacerdoti o laici a capo di movimenti cattolici, Azione Cattolica compresa. E di cui furono emblema le organizzazioni contadine cresciute nel nord-est del Brasile, il movimento sorto a Cuzco in Perù e quelli diffusi in Messico negli anni ’70, oppure i sindacati rurali maturati in Cile durante la riforma agraria e molti altri ancora. E infine conflitti industriali, specie nelle industrie minerarie di Cile, Perù e Bolivia, ma anche dove i sindacati erano cresciuti all’ombra dello Stato nell’età dei populismi, come in Argentina, Brasile e Messico. Tutti conflitti, come si vedrà, piegati dall’ondata controrivoluzionaria che con sempre maggior forza travolse la regione in quegli anni. Ed ai quali è comunque il caso d’aggiungere due dimensioni in gran 152

parte nuove e destinate ad assumere in futuro maggior peso. La prima è l’indianismo, inteso come movimento di rivendicazione politica e culturale d’una specifica comunità etnica e culturale d’origine precolombiana, il quale fece allora capolino in taluni gruppi insorti, specie in Bolivia. E la seconda è il femminismo: più politico e intellettuale, ma anche minoritario, tra le donne istruite dei ceti medi; perlopiù culturale e spirituale, perciò spesso tradizionalista, tra quelle dei settori popolari, assai più influenti nelle correnti populiste. 3. Strutturalismo, «desarrollismo», teoria della dipendenza Tra la fine degli anni ’50 e quella degli anni ’70 maturarono, culminarono e infine cominciarono a tramontare le premesse intellettuali e le conseguenze politiche del pensiero economico elaborato nel dopoguerra da Raúl Prebisch e dalla Cepal. Pensiero, si ricorderà, che indicava nella struttura del mercato mondiale il principale ostacolo allo sviluppo della periferia, di cui l’America Latina era parte, e cui ci si suole riferire come strutturalismo. Il quale, tuttavia, nel compiere quella parabola subì anche profonde critiche e significativi cambiamenti, dovuti per la gran parte alle correnti che più impregnarono, interloquendo e spesso fondendosi tra loro, il panorama ideologico della regione negli anni ’60 e ’70: nazionalismo e marxismo. In un primo momento la corrente strutturalista assunse in America Latina la forma del cosiddetto desarrollismo, per dirlo con la parola spagnola. Una teoria dello sviluppo economico che ispirò vari governi, tra i quali spiccano quelli di Juscelino Kubitschek in Brasile tra il 1956 e il 1961 e quello di Arturo Frondizi in Argentina tra il 1958 e il 1962. Ma di cui v’era profonda traccia nei primi sforzi d’integrazione commerciale realizzati allora: la Asociación Latinoamericana de Libre Comercio (Alalc) e il Mercado Común Centroamericano (Mcca), sorti entrambi nel 1960, la Comunidad Andina de Naciones (Can) del 1969, ed altri ancora. Come i populismi che li avevano preceduti o che altrove premevano per imporsi, anch’essi fondavano lo sviluppo sull’industria, sul ruolo motore dello Stato, sulla protezione ed espansione del mercato interno. Ma a differenza di essi, che avevano fatto della distribuzione della ricchezza il fulcro della propria ideologia al punto di sacrificargli spesso la sostenibilità economica, il desarrollismo indicava proprio nello sviluppo il suo 153

principale obiettivo politico e la fonte della sua legittimità. Al punto da accantonare la tipica sottomissione populista dell’economia alla politica e da professare le virtù della tecnocrazia. Vale a dire della separazione del governo dell’economia dai condizionamenti della politica. Tipico, poiché meglio di qualsiasi altro esempio n’esprimeva lo spirito, fu in tal senso l’impegno profuso dal presidente Kubitschek e dall’architetto Oscar Niemeyer per costruire Brasilia in base a criteri di razionalità e funzionalità. E farne dal 1960 la nuova Capitale del Brasile, collocata nel cuore del suo territorio ed elevata perciò a simbolo di proiezione verso l’interno, e non più verso l’esterno, della sua vita nazionale. Il desarrollismo s’espose però presto a molte critiche. Da parte liberale gli si rimproverò di piegare e distorcere col forte intervento pubblico le leggi del mercato. Ma tanto era flebile in quegli anni la voce liberale da non poterne scuotere le certezze. Assai più influente fu semmai la critica marxista. La quale gl’imputava in primo luogo di rimanere appieno nell’ambito dell’economia capitalista. Il che era indubbio, dal momento che il desarrollismo si proponeva di sfruttare al meglio le opportunità del mercato mondiale e non di voltargli le spalle in nome del socialismo. Specie attraendo, come difatti fece, quanti più capitali esteri possibile per ampliare l’industria nazionale e rendere più autonomo il mercato interno. Come avvenne con l’insediamento delle grandi case automobilistiche nei maggiori paesi dell’America Latina. A quella marxista si sovrapponeva infine la critica nazionalista, che accusava il desarrollismo di replicare i lineamenti dello sviluppo occidentale senza proporre una via adeguata all’America Latina e dunque, come tale, di fungere da strumento di perpetuazione del dominio imperialista. Fu da tali critiche che nacque a metà degli anni ’60 la teoria della dipendenza, cui in un modo o in un altro s’abbeverarono tutte le correnti rivoluzionarie dell’epoca. La quale assunse col tempo diverse declinazioni, talune più legate alla tradizione marxista classica, altre, come quella impersonata dal sociologo brasiliano Fernando Henrique Cardoso, più eclettiche e reminiscenti dello strutturalismo. Una teoria che si configurò comunque fin dall’inizio sia come uno sforzo di coniugare marxismo e nazionalismo, sia d’instradare lo sviluppo dell’America Latina nell’orizzonte rivoluzionario del socialismo. Ciò sulla base dell’analisi delle «strutture di dominazione» nel seno delle società latinoamericane e della dottrina leninista sul154

l’imperialismo. Come tali, i teorici della dipendenza condussero aspre battaglie contro gli intellettuali di altre scuole. Con i liberali, innanzitutto, di cui condannarono la teoria dei vantaggi comparativi perché inibiva l’industrializzazione della regione. Con i teorici della modernizzazione che proprio allora avevano ispirato l’Alleanza per il Progresso. Sia perché elevavano a modello il cammino dei paesi occidentali più avanzati, sia perché stabilivano un nesso tra modernizzazione e democrazia che l’America Latina pareva smentire. Ma se sul terreno critico essi furono efficaci, tanto da impregnare del loro pensiero il clima intellettuale dell’epoca, assai meno lo furono sul piano propositivo. Giunti infatti alla conclusione che il socialismo fosse l’unica via d’uscita dalle ingiuste strutture dell’economia mondiale, non furono altrettanto specifici nel chiarire come arrivarvi e quale socialismo avessero in mente. Per cui il loro pensiero si prestò sia ad esiti utopistici, sia a numerose volgarizzazioni. 4. La guerra civile ideologica. Il fronte rivoluzionario Negli anni ’60 e ’70 l’America Latina fu lacerata da una specie di guerra civile ideologica. Ossia da un violento scontro tra visioni del mondo inconciliabili. Tutte convinte che finché non si fossero imposte a quelle avversarie la pace e la giustizia non sarebbero state raggiunte. Come altrove nel mondo, d’altronde. E come negli anni ’30, benché in America Latina in forma più intensa di allora. Vista la dimensione di massa ormai raggiunta dalla società e il boom della scolarizzazione, e viste le sempre più profonde differenze da paese a paese, è intuibile che il panorama ideologico fosse quanto mai vario. Ma con taluni tratti comuni. Che per ora vedremo nel fronte rivoluzionario, prima di affrontarli, nel prossimo capitolo, sul fronte opposto. In termini generali, s’è già visto come la nota dominante fosse, per i rivoluzionari dell’epoca, il richiamo al marxismo. Benché a un marxismo «latinoamericanizzato», sulla scia aperta molti anni prima da José Carlos Mariátegui e della diffusione, proprio dagli anni ’60, dell’opera di Antonio Gramsci. Ma nella ricerca d’una via nazionale al socialismo, i marxisti dell’America Latina fecero spesso propri taluni tratti della tradizione nazionalista. La quale, man mano che crescevano i conflitti sociali e che il ciclo populista si chiudeva, sommerso da una nuova ondata di militarismo, scoprì a sua volta nume155

rosi punti di contatto col marxismo. O con quanti lo professavano. Tanto ch’è impresa improba misurare caso per caso quanto il marxismo si nazionalizzò e quanto il nazionalismo s’intrise di marxismo. Il che acuì tra l’altro l’ossessione per la diffusione del comunismo nella regione che, complice la guerra fredda, ne indusse i nemici al sempre più brutale ricorso alla violenza repressiva. L’impressione è comunque che tale miscela radicale tra marxismo e nazionalismo riproducesse in realtà, seppur in forme inedite e in modo inconsapevole, un’antica e profonda essenza dell’universo ideale latinoamericano. Riscontrabile nella tendenza al monopolio del potere e nell’avversione al pluralismo politico in nome dell’omogeneità del popolo. Nell’ostilità verso le forme e le procedure dello Stato di diritto e della democrazia liberale, condannata perché formale, e la contrapposizione ad essa d’una generica democrazia sostanziale, frutto dell’eguaglianza imposta dalla rivoluzione. E infine nella prevalenza di un immaginario etico e non pragmatico, fondato su fede e volontà più che su ragione e convinzione. Tutti tratti già osservati nei populismi e a loro volta eredi dell’antica concezione sociale organicista nella sua essenza olistica. Termine complesso, ma che meglio d’ogni altro esprime la ricorrente pulsione, così forte nella storia politica e intellettuale dell’America Latina, a concepire l’ordine sociale come una totalità. Come un insieme, cioè, superiore alle sue parti, nella fattispecie gli individui, i quali gli sono dunque implicitamente sacrificabili. Nel nome ora della rivoluzione che purificherà quell’ordine. Ora della controrivoluzione che ne espellerà il virus rivoluzionario. Tanto che quella pulsione d’antiche ma assai profonde origini è riscontrabile in quegli anni negli uni come negli altri: nelle correnti rivoluzionarie e in quelle controrivoluzionarie. Tipico, in tal senso, fu il guevarismo. Cioè la corrente marxista che ispirandosi a «Che» Guevara attecchì un po’ ovunque nella regione. Quella che più d’ogni altra incarnò la via latinoamericana alla rivoluzione. Diversa sia dal marxismo scientifico sovietico, sia da quello rurale cinese, col quale aveva però maggiori affinità. E ancor più distante dai socialismi in voga in Jugoslavia, in Albania o nei partiti comunisti dell’Europa occidentale o della stessa America Latina. Quel che infatti più lo distinse dall’ortodossia marxista non furono i suoi cardini: la socializzazione dei mezzi di produzione, la pianificazione economica, la dittatura del proletariato, l’antimperialismo e così via. Tutti elementi che Guevara condivise e professò, imputan156

do anzi al regime sovietico d’averli traditi o snaturati. Bensì il richiamo a etica e volontà quali motori primi della rivoluzione. Tali cioè da vincere i vincoli all’apparenza imposti dalla realtà e dalla ragione. Il che ne fece l’apostolo dell’«uomo nuovo». Un uomo che la rivoluzione purificava da egoismi e imperfezioni. Non diverso da quello, emendato dal peccato e dalla schiavitù delle passioni, caro alla tradizione cristiana. Tanto che proprio Guevara e il sacrificio ch’egli fece della sua vita divennero il più solido trait d’union simbolico tra marxisti e cattolici, il cui incontro fu allora frequente e intenso, tale da impregnare l’intero panorama ideologico dell’epoca. Un incontro peraltro insito nel generale incrocio del marxismo col nazionalismo, di cui il cattolicesimo era il più solido baluardo ideale. Ideologie d’origine marxista e nazionalista trovarono infine molti punti di contatto chiave nel boom della sociologia. E nell’enorme influenza esercitata su di esse in America Latina, in modo diretto o indiretto, dai sociologi cattolici o marxisti d’Europa e degli Stati Uniti. Alla pari della teoria della dipendenza e della distinzione tra democrazia formale e sostanziale che popolò allora la vulgata rivoluzionaria, l’auge della sociologia confortò e riflesse infatti la ferma convinzione di entrambe quelle correnti che i mali e le soluzioni dei conflitti e delle ingiustizie che piagavano l’America Latina risiedessero nelle sue strutture sociali. E che al loro cospetto le istituzioni politiche fossero infrastrutture, puri riflessi dei rapporti di dominazione sociale. Tanto che il linguaggio dello strutturalismo, così familiare per gli intellettuali marxisti, intrise in quel clima anche i documenti della Chiesa. La quale denunciò, per voce dell’Episcopato latinoamericano riunito nel Consejo Episcopal Latinoamericano (Celam), le ingiustizie strutturali delle società della regione. 5. Una Chiesa lacerata Le convulsioni che scossero la Chiesa e il cattolicesimo dell’America Latina tra gli anni ’60 e gli anni ’80 sono fattori chiave per comprenderne il panorama politico e ideologico. E ancor più per intenderne le più profonde fibre e i traumi che lo lacerarono. A causarle furono vari elementi. Cominciando dai conflitti innescati dalla modernizzazione, la quale portando in superficie le violente spaccature sociali della regione interpellava la Chiesa, che della sua unità e ar157

monia s’era sempre elevata a tutrice e paladina. Quell’epoca di grandi cambiamenti non lasciava inoltre indenne la Chiesa: sia perché la secolarizzazione che prendeva piede nei centri urbani l’obbligava a ripensare i propri metodi d’apostolato e le relazioni coi diversi ceti; sia perché gli sconvolgimenti sociali ne mettevano in crisi la vita interna, cioè il rapporto della gerarchia coi fedeli e con lo stesso clero. A catalizzare i cambiamenti già in corso giunse poi il Concilio Vaticano II, realizzato a Roma dal 1962 al 1965, il quale fu per quel continente cattolico un poderoso detonatore. Le popolazioni, i governi e perfino le Chiese dell’America Latina si accorsero in realtà a rilento della sua importanza. Ciò non toglie ch’esso incoraggiasse tra i cattolici, e per reazione nei ceti e nelle istituzioni che nella Chiesa vedevano il baluardo dell’ordine, un sommovimento imponente. Seguito nel 1968 dal gran boato dei documenti approvati dal Celam nell’assemblea di Medellín. Documenti dal linguaggio inedito e dal tono radicale, specie in materia sociale, che oltre a scuotere le basi di quelle Chiese, ebbero enorme impatto sugli Stati e le società della regione. Chiuso il Concilio, infatti, buona parte del clero latinoamericano confluì nell’onda del rinnovamento ch’esso aveva sollevato, cercando di spezzare l’ostinata resistenza delle gerarchie ecclesiastiche. Erano talvolta giovani prelati intrisi di studi sociologici, o religiosi inquieti per il quotidiano contatto con ambienti operai e studenteschi, o con condizioni sociali intollerabili. L’età d’oro della revanche cattolica contro il liberalismo era d’altronde ormai alle spalle e in quelle società cui la rapida crescita dell’industria conferiva un profilo di massa e dove s’estendeva l’influenza d’ideologie estranee al cattolicesimo i metodi di evangelizzazione e l’impianto clericale efficaci trent’anni prima erano ormai inadeguati. Come in Europa, inoltre, molti sacerdoti e laici fecero proprie la prospettiva classista e la critica sociale apprese nelle fabbriche dove svolgevano apostolato e dove la voce della Chiesa suonava spesso lontana. Ma quelle esperienze s’imbatterono in molti casi nella censura delle autorità ecclesiastiche, le quali compressero così la crescente domanda di riforme sia sociali sia ecclesiali. Benché in taluni paesi, come Colombia ed Argentina, assai più che in altri, come Brasile e Cile, dov’esse si mostrarono assai più elastiche e ricettive. Ebbene, il Concilio legittimò in buona misura quei mutamenti, dando un nuovo ruolo al laicato cattolico e condividendo lo spirito di molte iniziative sociali prima d’allora in odore di eresia. Il che non annullò però 158

le resistenze, né arrestò la radicalizzazione del cattolicesimo progressista. Tanto che la Chiesa si trovò spesso spaccata tra le due trincee della guerra ideologica e politica allora in corso. Ma per comprendere l’impatto del Concilio in America Latina occorre considerare anche lo sfondo internazionale su cui cadde. Il clima creato nella regione dalla rivoluzione cubana e la tendenza degli Stati Uniti a non lesinare sforzi pur di combattere il comunismo dettero rinnovato vigore al mai domo antimperialismo cattolico. Il quale aveva profonde radici e non aveva mai digerito l’intesa anticomunista della Santa Sede con gli Stati Uniti, ch’esso vedeva come l’unica minaccia che incombeva sull’America Latina. E che non mancò di trovare in proposito un fertile terreno comune col marxismo, come s’è visto dall’assidua ricerca d’una «via latinoamericana» al socialismo. In realtà non si può dire che i religiosi progressisti rappresentassero la maggioranza del clero. E tra di essi non tutti concepivano il rinnovamento allo stesso modo, essendovene di più radicali e più moderati, di più politici e più spirituali. Ma il loro impulso riformatore crebbe al passo con quello che covava in quelle società in transizione. Tanto da impregnare i documenti dell’episcopato continentale. Documenti che fino a metà degli anni ’70, fino a quando cioè non cominciò a manifestarsi la reazione della Santa Sede e del clero moderato, rivelarono una peculiare e selettiva lettura del rinnovamento conciliare. Una lettura latinoamericana, in cui la questione sociale era preponderante e la denuncia dell’ingiustizia approdava ad esiti radicali, nei casi più estremi alla giustificazione della violenza rivoluzionaria, che taluni religiosi scelsero di sostenere o praticare, fino al caso estremo di Camilo Torres, il sacerdote colombiano ucciso in combattimento nel 1966. Nacque in tale contesto la Teologia della Liberazione, dove la contestazione dell’ordine sociale e la condanna del capitalismo si fecero più dure, il debito verso le scienze sociali più diretto, il ricorso alla critica marxista più aperto e il legame tra teologia e prassi più organico. Molti suoi seguaci colsero allora nell’impegno per la giustizia sociale una crociata rivoluzionaria necessaria per fondare un ordine terreno coerente col Vangelo. Assai meno invece il clero latinoamericano prestò attenzione ad altri frutti dell’aggiornamento conciliare, come quelli riguardanti la libertà religiosa, l’ecumenismo e la democrazia politica. Quelli cioè che meglio illustravano l’apertura del dialogo tra la Chiesa e il mondo moderno. All’enfasi sulla creazione di una società giusta e scevra da op159

La Teologia della Liberazione Prodotto originale della riflessione teologica di un settore del clero latinoamericano, ebbe le sue radici nell’aggiornamento ecclesiale promosso dal Concilio Vaticano II e poi nella II Conferenza dell’Episcopato latinoamericano, realizzata a Medellín nel 1968, che coniugò lo sforzo di adattare gli insegnamenti conciliari alla realtà continentale col fermento sociale e ideologico dell’epoca. Proprio ai dibattiti di Medellín s’ispirò Gustavo Gutiérrez, il teologo peruviano che l’inaugurò e le dette il nome. Benché fosse una corrente piuttosto eterogenea, era riconducibile a taluni elementi fondamentali. Innanzitutto alla opzione preferenziale per i poveri, cioè all’individuazione della dimensione sociale quale terreno dell’evangelizzazione, da realizzare promuovendo la liberazione dell’uomo dalle strutture sociali oppressive. In tale prospettiva, i teologi della liberazione si proposero di far prendere coscienza ai ceti popolari delle ingiustizie sociali, la concientización, nel seno di Comunità Ecclesiali di Base. Di piccoli circoli dove la lettura della Bibbia era lo strumento per interpretare la realtà ch’essi vivevano quotidianamente e che si diffusero ampiamente negli anni ’70 e ’80 soprattutto in Brasile, Cile, Perù e America Centrale. In tal senso, era una teologia fondata sulla prassi, cioè sull’azione sociale. Un’azione rispetto alla quale il clero svolgeva non soltanto un’attività pastorale, ma in molti casi un’opera di organizzazione e guida intellettuale. Ciò l’indusse al rifiuto della tradizionale distinzione teologica tra sfera naturale e sovrannaturale e ad impiegare le categorie analitiche care alla teoria della dipendenza e al marxismo. Antiliberali sul piano ideologico e anticapitalisti su quello economico, i teologi della liberazione invocarono in taluni casi la rivoluzione sociale, ma nella maggior parte dei casi s’attennero a un ruolo di testimonianza e di stimolo delle rivendicazioni popolari. Sugli aspetti più radicali della Teologia della Liberazione s’abbatté infine tra gli anni ’80 e ’90 la censura pontificia, preoccupata dalla loro eterodossia dottrinale e dalla vena antigerarchica che introducevano in seno alla Chiesa. E cui molti imputarono le violente lacerazioni che l’attraversarono in quegli anni.

pressioni non corrispose perciò in quell’impetuosa corrente cattolica che alimentò il clima rivoluzionario dell’epoca un’equivalente riflessione su democrazia e pluralismo. Temi pressoché assenti dal panorama ideologico dell’epoca. 160

L’onda d’urto del rinnovamento cattolico aprì comunque una stagione di drammatici conflitti nella Chiesa e nelle società dell’America Latina. Conflitti dottrinali, nei quali il clero conservatore imputò a quello rinnovatore di rinnegare la missione sovrannaturale della Chiesa identificandola con una particolare classe sociale, il proletariato, o con un’ideologia. Volgarizzata, quell’accusa si tradusse spesso in quella di collaborare con la sovversione marxista, spalancando la porta a feroci repressioni, di cui molti sacerdoti e militanti cattolici furono oggetto negli anni ’70. Conflitti disciplinari, che sommati ai rapidi mutamenti nel costume sociale si riflessero in un fulmineo incremento degli abbandoni del sacerdozio e nel crollo delle vocazioni ecclesiastiche. Conflitti politici e ideologici, infine, che trascesero l’arena religiosa ed investirono quella sociale e politica. Com’era inevitabile dati il potere e il radicamento sociale della Chiesa e la professione di cattolicità della maggior parte dei regimi politici. I quali furono dunque scossi nelle fondamenta quando la contestazione si manifestò in forma così radicale e massiccia proprio in seno alla Chiesa. 6. L’Alleanza per il Progresso e il riformismo mancato Schiacciato tra gli opposti estremi delle vie rivoluzionarie e delle reazioni controrivoluzionarie, quel che mancò o fallì all’epoca in America Latina fu il riformismo. Così come mancarono o fallirono i soggetti che altrove n’erano protagonisti: dai ceti medi legalitari al cattolicesimo democratico, dal socialismo riformatore ai militari professionali. Su di essi, tuttavia, sulla loro esistenza e sulla loro crescita scommise entrando alla Casa Bianca nel 1961 il presidente John Fitzgerald Kennedy, il quale lanciò il più ambizioso progetto di cooperazione con l’America Latina mai concepito dagli Stati Uniti: l’Allenza per il Progresso, simbolicamente presentata come un Piano Marshall per la regione. Quello che essa s’era attesa dopo la guerra ma che non era mai giunto. E che in sostanza fallì. Perché Kennedy lanciò quel piano? Quali ne furono le premesse teoriche? E gli obiettivi? E perché infine fallì? Le ragioni che indussero il giovane presidente statunitense ad annunciarlo furono varie. Di certo contò l’imperativo imposto dalla guerra fredda e dalla dottrina Monroe di prevenire la nascita di «nuove Cuba», ossia di regi161

mi comunisti nell’area. Cosa che l’Alleanza per il Progresso si proponeva d’ottenere promuovendovi lo sviluppo e il miglioramento delle condizioni di vita. Ma anche, come si vedrà nel prossimo capitolo, attraverso un’attenta strategia controrivoluzionaria. Il che non toglie che quel dettagliato piano di finanziamenti e riforme sociali proposto ai paesi dell’America Latina corrispondesse anche al genuino spirito riformatore di Kennedy e al disegno di rigenerare la leadership politica e morale degli Stati Uniti, appannatasi nella regione durante gli anni ’50. Lo spirito dell’Alleanza era quello che informava la teoria della modernizzazione, ai cui principali esponenti se ne dovette infatti l’ispirazione ed elaborazione, a cominciare da Walt Whitman Rostow. Una teoria che, partendo dall’individuazione degli stadi dello sviluppo sociale nei paesi più avanzati, si proponeva di stimolarne la riproduzione in quelli della periferia, nella fattispecie in America Latina. Un approccio presto oggetto delle dure critiche dei teorici della dipendenza, per i quali la struttura stessa dei rapporti tra centro e periferia impediva a quest’ultima di replicare la via percorsa dal primo. Nulla, invece, ritenevano i teorici della modernizzazione, impediva in partenza ai paesi periferici, se aiutati ed instradati, d’intraprendere un virtuoso processo di sviluppo, ch’essi erano consci non sarebbe stato privo di violenti strappi, ma i cui frutti avrebbero di gran lunga superato i sacrifici. Un processo organico, non limitato alla sfera economica, ma anzi finalizzato a creare le condizioni sociali favorevoli alla democrazia politica. Ad innescarlo sarebbero infatti stati degl’ingenti ma mirati aiuti economici. Tali da consentire il decollo dello sviluppo industriale nella regione, a sua volta causa di radicali cambiamenti sociali e in particolar modo della crescita del ceto medio. Di quel ceto che, crescendo, avrebbe ridotto le enormi distanze sociali tra la cima e la base della piramide sociale in America Latina, dando equilibrio e stabilità a quelle società in preda a croniche convulsioni. Le quali, più benestanti e guidate dall’innato spirito democratico dei ceti medi, avrebbero infine fondato democrazie politiche solide e perciò fedeli all’Occidente nella sfida globale al comunismo. In concreto, dunque, l’Alleanza per il Progresso consisteva in un cospicuo pacchetto di aiuti e investimenti economici, pari a 20 miliardi di dollari in un decennio. Ma la sua portata e i suoi obiettivi trascendevano di gran lunga l’ambito economico. Tanto che così come 162

fu oggetto delle critiche di marxisti e strutturalisti, lo fu anche di liberali e conservatori, contrari sia al ruolo attivo che il governo degli Stati Uniti e quelli dell’America Latina erano chiamati a svolgere, sia alle misure in sé ch’essa intendeva promuovere e il cui effetto sarebbe stato quello d’accrescere il ruolo dello Stato nelle economie locali. Misure in testa alle quali spiccavano la riforma agraria e fiscale, crediti per l’industria, ingenti spese pubbliche in campo sanitario ed educativo per ridurre il gap tra classi e ceti e così via. Il tutto con l’obiettivo di ottenere una crescita media del 2,5% annuo per gl’interi anni ’60 e di migliorare in modo sostanziale e quantificato dai precisi grafici dell’Alleanza i più importanti indicatori sociali. L’Alleanza per il Progresso fallì. Su questo non vi sono molti dubbi, benché sulle responsabilità del fallimento esistono varie versioni. Alcune delle quali imputano a Lyndon Baines Johnson, subentrato a Kennedy dopo il suo assassinio nel 1963, di averne tradito lo spirito, mentre altre estendono il giudizio al suo intero arco e alle sue premesse errate. Qualche risultato in realtà l’ottenne, specie in campo scolastico e sanitario, dove però i risultati furono in gran parte vanificati dalla rapida crescita demografica della popolazione latinoamericana. In quanto alla crescita economica, non si può dire non vi fosse, ma neppure che fosse così rapida e robusta come volevano le aspettative. In quanto alle riforme agrarie e fiscali che tanto dovevano servire a creare condizioni di maggiore equità sociale, si scontrarono nella maggior parte dei casi contro la resistenza dei potentati locali e l’inefficienza amministrativa dei governi latinoamericani. Per cui il loro risultato fu nel complesso deludente. Dove però più se ne misura il fallimento è nei suoi obiettivi più ambiziosi: né infatti i ceti medi agirono come i teorici della modernizzazione avevano ipotizzato, poiché impauriti dalla mobilitazione della classe operaia e dalla crescita del subproletariato tesero a privilegiare l’ordine alla democrazia e a sostenere i nuovi regimi autoritari; né la democrazia politica s’estese, bensì fu presto spazzata via in gran parte della regione. Perché fallì l’Alleanza per il Progresso? Di ipotesi e spiegazioni, perlopiù legittime e ragionevoli, è colma la storiografia. Per taluni i fondi a sua disposizione non erano commisurati alle ambizioni e furono per di più impiegati in buona parte per rifondere vecchi debiti. Per altri era in partenza errata la diagnosi sul comportamento del ceto medio, il quale, per posizione sociale e composizione etnica, era immaginabile che avrebbe teso in America Latina a fare fronte con 163

Il Cile di Salvador Allende Nel settembre del 1970 il socialista Salvador Allende fu eletto presidente del Cile a capo di una coalizione di partiti, chiamata Unidad Popular, perlopiù marxisti ma in parte anche «borghesi», tra i quali il partito comunista cileno. Tre anni dopo fu rovesciato e indotto al suicidio da un violento colpo di Stato guidato dal generale Augusto Pinochet, che dette corso a una brutale repressione e instaurò una lunga dittatura. La storia di quei tre anni fece del Cile il maggiore emblema del braccio di ferro tra rivoluzione e controrivoluzione. E del suo tragico esito. Ma anche un luogo per molto tempo al centro dell’attenzione mondiale, di cui incarnò speranze e timori. A fare del governo di Unidad Popular un caso mondiale concorsero vari fattori. Il primo e più evidente dei quali era che per la prima volta nasceva un governo marxista per via elettorale. Un governo che affermava di volere costruire il socialismo con metodi democratici. Il che faceva del Cile un caso unico, diverso da tutti quelli in cui il modello socialista s’era imposto con la rivoluzione, come l’Unione Sovietica, la Cina e Cuba. Un caso che poneva a tutti, amici e nemici, una sfida teorica e pratica di enormi dimensioni. Il secondo fattore a rendere così radicale la sfida posta dal caso cileno, era ch’esso spiccava tra i rari esempi in America Latina di antica e solida democrazia. Era dunque in teoria uno dei paesi meno sensibili alle sirene del comunismo, la cui capacità di conquistarvi il governo in modo legale appariva perciò un terremoto. Il terzo motivo è che il successo di Allende in un paese democratico dell’emisfero occidentale ne faceva di per sé una delicata crisi della guerra fredda. La sua vittoria in un paese dal regime politico per tanti versi simile a quello di taluni paesi europei, l’Italia in primis, e per di più fiore all’occhiello dell’Alleanza per il Progresso negli anni ’60, fu uno shock per gli Stati Uniti. Che non solo lo vissero come un affronto alla loro leadership e un eccellente strumento propagandistico per i sovietici, ma anche come il potenziale detonatore d’un effetto domino in grado d’estendere fino all’Europa la sua influenza. Tant’è vero che Richard Nixon, giunto alla Casa Bianca nel 1969, fu fin dall’inizio deciso a porvi fine, con le buone o con le cattive. Ma cos’aveva portato Allende alla vittoria elettorale? Vi furono cause sociali e cause politiche. In generale, si può dire che quello del Cile è l’esempio tipico di come le trasformazioni sociali fossero di-

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ventate troppo veloci perché quelle politiche riuscissero a tenerne il passo. Crescita demografica, scolarizzazione, inurbamento e tutti gli altri fenomeni già indicati cambiarono infatti allora molto in fretta il panorama sociale del paese. Tanto che lo sforzo del governo democristiano di Eduardo Frei tra il 1964 e il 1970 di metabolizzarlo attraverso una riforma agraria e ambiziose riforme scolastiche e urbanistiche non ebbe gli effetti sperati. Ai conservatori parve infatti troppo audace e alle sinistre troppo timido. Alla vigilia delle elezioni del 1970, dunque, il partito di Frei non solo aveva perso il sostegno dei cattolici più radicali, passati nella coalizione di Allende, ma si trovò schiacciato al centro di un sistema politico spaccato in tre parti. In testa alle quali emerse per l’appunto vincitore Allende, ma con appena il 36,3% dei voti e dunque senza maggioranza in Parlamento. La spaccatura tra la destra e il centro fu insomma cruciale per la sua vittoria. Così come la loro saldatura doveva rivelarsi fatale per la sua caduta. Ma cosa fece il governo di Allende? Le sue misure furono quelle tipiche dei governi socialisti, benché prese in un clima d’effervescenza rivoluzionaria e di grande mobilitazione che le resero ancor più minacciose agli occhi dell’opposizione. Oltre a nazionalizzare il rame, la risorsa chiave del paese, in realtà col voto di tutti i partiti, il governo di Unidad Popular attuò una radicale riforma agraria, prese il controllo di numerose industrie e nazionalizzò il sistema finanziario, impresse una sferzata all’economia usando il credito e la spesa pubblica, sostenne le rivendicazioni salariali dei lavoratori. Cosa ne causò dunque la crisi e il violento crollo? Le ragioni furono ovviamente varie e sul peso di ognuna di esse non v’è consenso tra gli storici. Tanto infatti la caduta di Allende spaccò il Cile e il mondo, quanto la memoria di ciò che la causò divide ancora oggi. Pesarono senz’altro fattori esogeni. Gli Stati Uniti fecero infatti il possibile per impedire ad Allende di assumere la presidenza nel 1970, sia cercando una via costituzionale per impedirglielo, sia ricorrendo a quella violenta e segreta. Ma fallirono nel loro intento, non avendo trovato il necessario sostegno nella Democrazia Cristiana e nelle Forze Armate cilene, che rimasero allora fedeli alla Costituzione. In seguito il governo di Washington adottò una politica di boicottaggio del governo di Allende e di sostegno finanziario ai suoi oppositori. Una politica la cui influenza nel causarne la caduta fu importante ma probabilmente non determinante.

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In proposito contarono senz’altro molto di più i fattori endogeni, senza i quali, come già s’era visto nel 1970, la stessa ostilità di Washington non avrebbe prodotto gli effetti desiderati. Tra di essi quelli economici. La politica economica di Allende stimolò nel primo anno un’enorme crescita, ma si dimostrò presto insostenibile. Come già era accaduto con le economie dei populismi, l’inflazione lievitò e il governo dovette importare sempre più beni per soddisfare la domanda cresciuta troppo in fretta. In breve la bilancia commerciale e la solvenza finanziaria del Cile crollarono e l’economia precipitò nel caos. Iniziarono cioè a mancare beni di prima necessità e a dilagare il mercato nero. Ciò non fece che gettare altra benzina sui già infiammati conflitti sociali che minavano il paese e stimolare ancor più l’ansia di reazione sociale della borghesia e di buona parte dei ceti medi cileni. Minatori, trasportatori, casalinghe e vari altri settori, taluni prossimi al governo altri agli antipodi, inscenarono scioperi e proteste sempre più accese. Le cause politiche furono infine quelle che forse dettero il peggior colpo al governo. In due sensi. In primo luogo, la coalizione di Allende si mostrò molto divisa tra quanti premevano per accelerare la transizione al socialismo forzando l’ordine costituzionale e quanti viceversa ritenevano prudente procedere per la via legale per non esporsi ad una violenta reazione. Col risultato di non ottenere l’una né l’altra cosa e di spingere l’opposizione a coalizzarsi contro un governo che faceva largo uso della retorica rivoluzionaria. In secondo luogo, infatti, la destra conservatrice e il centro democristiano, prima divisi, unirono i loro voti in Parlamento ritenendo che il governo stesse violando la Costituzione e portando il Cile verso il comunismo. Fino a metterlo in minoranza denunciandone l’incostituzionalità, il che spianò la via a ciò cui i militari s’erano negati tre anni prima ma a cui s’erano ora in larga maggioranza decisi: al violento golpe dell’11 settembre 1973.

le élites minacciate dall’ascesa delle masse. Altri hanno osservato che il parallelo col Piano Marshall era fuorviante, non essendo possibile che quel ch’era accaduto in Europa, dove i paesi coinvolti erano già passati attraverso la democrazia e l’industrializzazione, fosse replicabile in America Latina, dov’entrambe quelle tappe erano in gran parte ancora da compiere e dunque foriere di immani tensioni. V’è poi chi ha osservato che quel che più mancava in America Latina era il tipo d’alleato di cui Kennedy aveva bisogno per dar le ali al suo 166

progetto. Uomini e partiti riformisti e democratici, anticomunisti ma non conservatori, di cui il continente era perlopiù privo e tra i quali spiccarono figure come il venezuelano Rómulo Betancourt e il cileno Eduardo Frei, alla cui elezione nel 1964 gli Stati Uniti dettero infatti un cospicuo contributo. La loro assenza o carenza finì perciò per far dipendere le fortune dell’Alleanza dal sostegno di governi spesso pronti a usare l’anticomunismo come arma per combattere le mobilitazioni sociali, col risultato d’ulcerare la polarizzazione. Molti, infine, hanno puntato il dito sulle contraddizioni statunitensi. Gli Stati Uniti non avrebbero considerato a dovere che il cambiamento sociale ch’essi intendevano promuovere non sarebbe avvenuto in un contesto di pace politica e sociale, per cui quando videro che le riforme erano fonte di pericolosa instabilità, vi anteposero l’imperativo della sicurezza. Al prezzo di rinunciare alle ambizioni dell’Alleanza. Come nel 1964 s’evinse dalla dottrina Mann, con la quale il governo di Washington individuò nell’anticomunismo e nella crescita economica le sue priorità in America Latina, al di sopra della democrazia politica e delle riforme sociali. Per finire, è lecito ipotizzare che il fallimento dell’Alleanza per il Progresso ne riflettesse le eccessive ambizioni. Le quali è probabile che sopravvalutassero il potere statunitense di plasmare la storia latinoamericana.

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9.

Gli anni ’60 e ’70. Il ciclo controrivoluzionario

1. L’età della controrivoluzione Colmi di venti rivoluzionari, gli anni ’60 e ’70 lo furono altrettanto, o forse ancor di più, di venti opposti: quelli controrivoluzionari. I quali spirarono talmente forte da finire nella maggior parte dei casi per indurre coloro che davano loro forza a ritenere che il solo modo per arrestare la rivoluzione fosse una soluzione drastica e definitiva. Rivoluzionaria, insomma. Tanto che i regimi militari che fioccarono allora nella regione, ricoprendola quasi per interno nella seconda metà degli anni ’70, si vollero chiamare proprio così: Rivoluzioni. Va però chiarito che non tutti i governi autoritari dell’epoca furono uguali, né furono univoche le loro cause e basi. Sia i loro diversi livelli di sviluppo, sia il diverso peso che sui loro equilibri interni esercitavano gli Stati Uniti e attraverso di essi il contesto della guerra fredda, incisero infatti in profondità sulle forme ch’essi presero e sulle modalità con cui governarono. V’erano innanzitutto delle autocrazie personaliste, come quelle della famiglia Somoza in Nicaragua e del generale Alfredo Stroessner in Paraguay, che mantennero il potere e affrontarono la sfida del cambiamento sociale impiegando qualche carota e molti bastoni, cioè da un lato una facciata costituzionale e una certa dose di paternalismo sociale e dall’altro la repressione. Sia in America Centrale, tuttavia, specie a Panama e in Salvador, sia nell’area andina, cioè in Perù, Bolivia ed Ecuador, diversi tipi di 169

autoritarismo si alternarono e combatterono tra loro: un autoritarismo nazionale e populista, che come s’è visto nel precedente capitolo prese talvolta il sopravvento; e un autoritarismo più tradizionale, paladino dell’ordine sociale e fedele alla causa occidentale nella guerra fredda. In quei paesi in via di rapida trasformazione, dove alcun movimento o regime populista s’era prima d’allora affermato, le Forze Armate, indiscusse padrone del campo dinanzi alla fragilità delle istituzioni rappresentative, si trovarono cioè spesso divise sulla via per conseguire i due obiettivi che le guidavano: la sicurezza e lo sviluppo. Per parte di esse non vi sarebbe infatti stata sicurezza senza sviluppo, per cui le priorità erano incisive riforme sociali in grado d’integrare le masse. Per altri settori militari era impensabile lo sviluppo qualora non si fosse imposto l’ordine, così da consentire il decollo della produzione e l’accumulazione del capitale necessario per lo sviluppo. Non a caso la gran parte di quei paesi visse allora una lunga stagione autoritaria, ma solcata da cronica instabilità, man mano che i golpe si succedevano e le diverse fazioni militari si subentravano l’una all’altra: come in Bolivia, dove gli ufficiali conservatori rovesciarono nel 1971 il generale populista Juan José Torres e imposero una brutale dittatura; come in Perù, dove nel 1975 gli ufficiali moderati scalzarono i populisti di Velazco Alvarado; e come in diverse altre opportunità e luoghi. Mentre, infine, il regime che in Messico ruotava intorno al Pri (Partido Revolucionario Institucional) restava saldo in sella senza bisogno di alcun sostegno militare ed affrontando le nuove sfide sociali da un lato con la repressione della polizia e dall’altro ridando fiato negli anni ’70 al suo armamentario populista, negli altri grandi e più sviluppati paesi dell’America Latina s’impose una lunga catena di interventi militari. La quale ebbe tratti tali da indurre molti studiosi a parlare di un nuovo autoritarismo, fondatore di regimi chiamati spesso burocratico-autoritari. Una catena che investì non solo Brasile e Argentina, dove i militari avevano già più volte in passato invaso l’arena politica, ma anche il Cile e il piccolo Uruguay, le democrazie prima d’allora più solide del continente. Le quali lasciarono perciò sole le poche rimaste: quella del Costa Rica, dove l’esercito era stato abolito dopo una breve guerra civile nel 1948; e quelle più imperfette ma pur sempre tali di Colombia e Venezuela. Dove, quando e perché si manifestò quel nuovo autoritarismo? Il primo e più longevo di quei regimi fu quello che s’instaurò in Brasi170

le nel 1964, il quale si istituzionalizzò e durò senza patire grandi crisi politiche fino al 1985. Assai diverso fu il caso dell’Argentina, dove un primo regime, istituito nel 1966 sotto la guida del generale Juan Carlos Onganía, non riuscì a consolidarsi perché piegato dalla reazione dell’opposizione e dalle divisioni dei militari. Fino al punto di dover spalancare le porte a colui al quale le aveva in realtà volute sbarrare: Juan Domingo Perón, che tornò trionfante in patria e vinse le elezioni presidenziali del 1973. Ben presto però le diverse anime del peronismo si dilaniarono tra loro e la sua terza moglie, Isabel Martínez de Perón, rimasta al potere dopo la morte del marito, non si rivelò in grado di governarle. Finché nel 1976 il potere cadde nuovamente in mano delle Forze Armate. Le quali fecero terra bruciata d’ogni forma d’opposizione ma fallirono ancora una volta nel tentativo di consolidare il loro regime, che crollò per gli scarsi risultati economici, le divisioni nell’esercito e la sconfitta nella guerra delle Falkland-Malvinas del 1982. Del 1973 sono invece i due colpi di Stato con cui culminarono le lunghe crisi di Uruguay e Cile, punti d’avvio di altrettanti regimi militari durati rispettivamente fino al 1985 e al 1989. Il primo, quello uruguayano, giunto al culmine di un conflitto sociale e armato durato anni e della parallela militarizzazione dello Stato. Il secondo, quello cileno, traumatico punto di partenza d’una lunga dittatura dove il potere personale del generale Pinochet si consolidò e avviò, di concerto con le Forze Armate e i tecnocrati civili, una svolta economica che inaugurò in America Latina la via delle riforme neoliberali. Via lungo la quale s’avviarono col tempo anche gli altri paesi, seppur con modalità distinte a seconda dei casi. Ma cosa rendeva «nuovo» quell’autoritarismo? Specie in un continente che di autoritarismi ne aveva visti tanti? E ammesso che nuovo fosse davvero? Quel che si vedrà in seguito sulle sue basi sociali, sui modelli economici cui s’ispirò e sulla sua ideologia, lo chiarirà meglio. Per ora basti osservare che a renderlo peculiare, benché meno di quanto a prima vista sembrasse, era l’impulso «rivoluzionario» delle Forze Armate. Ossia la loro ambizione di rigenerare la nazione. E la determinazione con cui tesero a farsi carico del potere come istituzioni, ora spartendoselo tra le diverse armi, ora delegandolo a un alto ufficiale sul quale cercarono di esercitare il controllo. In tal senso s’è spesso parlato di regimi militari istituzionali. Di regimi delle Forze Armate, in altre parole, le quali s’ergevano in realtà come in passato a tutrici della coesione politica e dell’unità ideologica della 171

Il Brasile dei militari Nata dal colpo di Stato del 1° aprile 1964, la dittatura brasiliana si prolungò fino al 1985, coprendo dunque una lunga fase della storia nazionale, durante la quale il Brasile cambiò profondamente. Alle sue origini v’erano i timori espressi dai militari sulla sicurezza e sullo sviluppo del Brasile. Sicurezza che giudicavano minacciata dal governo in carica di João Goulart, cui imputavano di simpatizzare con Cuba e il mondo comunista distaccando così il Brasile dalla causa occidentale. E sviluppo che ritenevano ostruito dal populismo del governo, che accusavano di stimolare il caos sociale e di dilapidare preziose risorse incoraggiando l’organizzazione contadina e assecondando le sempre più numerose lotte operaie, causa dell’inflazione alle stelle. Fu in base alla percezione di tali minacce e col sostegno statunitense che i militari presero il potere con un golpe incruento. S’aprì allora, con quel golpe che i militari chiamarono revoluçao, il lungo regime, che passò per varie e diverse fasi ed ebbe non poche peculiarità nel panorama delle dittature dell’epoca. In campo politico i militari governarono attraverso degli atti istituzionali che davano loro potere costituente e dal 1968 poteri assoluti. Realizzarono così profonde purghe nell’amministrazione pubblica, nelle università e nell’esercito. Proibirono poi i partiti politici tradizionali, esercitarono uno stretto controllo sui mezzi di comunicazione, smantellarono le leghe contadine, imposero i loro funzionari a capo degli Stati della federazione, mantennero aperto il Parlamento limitandone però in grande misura le funzioni. Imposero un bipartitismo coercitivo, cioè un sistema politico limitato e tutelato nel quale figurava un partito governativo e uno d’opposizione moderata. Quando a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 montò la protesta studentesca e sindacale, sorse la guerriglia e la Chiesa cattolica prese le distanze dal governo, il regime non titubò ad usare la forza. Si calcola che gli arresti furono circa 50.000, gli esuli 10.000 e gli uccisi e scomparsi diverse centinaia. La tortura divenne comune, molti sindacati furono chiusi e numerosi deputati espulsi dal Parlamento. Dal 1974, sia perché la repressione aveva da-

 comunità nazionale. A tutrici di nazioni intese come organismi ch’esse ritenevano di dover riportare in armonia e in equilibrio sradicando quelle che giudicavano le cause remote dell’instabilità politica, dell’agitazione sociale e del sottosviluppo economico. Della loro di172

to gli effetti voluti, sia perché l’opposizione tendeva a riunirsi all’ombra della Chiesa, sia perché infine le divisioni sempre in agguato tra i militari ne minavano la disciplina, il regime avviò una lunga fase di graduale liberalizzazione. Fase ch’esso riuscì in gran parte a pilotare con l’obiettivo di approdare a una democrazia forte e controllata. Tale cioè da non ricadere nel populismo. Così, imposta la sicurezza, i militari scommisero sullo sviluppo, che ne fu l’obiettivo principe, sia perché convinti che qualora il Brasile non si fosse sviluppato sarebbe stato più facile preda del comunismo, sia per il destino di grandezza che ritenevano gli spettasse. Cardine del loro progetto era approfondire il processo di industrializzazione estendendolo ai settori più avanzati e sfruttando appieno le immense risorse nazionali. E suoi protagonisti lo Stato, il capitale privato nazionale e il capitale estero. In termini assoluti non si può dire che mancarono i risultati, tanto che per vari anni il prodotto crebbe al ritmo del 10% annuo e si parlò ovunque di «miracolo brasiliano». In tal senso il Brasile visse allora una modernizzazione autoritaria, durante la quale lievitarono le esportazioni industriali e gli occupati nell’industria. Oltre che autoritaria, quella modernizzazione fu però assai diseguale. Invertendo le priorità populiste, i militari postularono infatti una politica delle due fasi: prima la crescita e poi il miglioramento delle condizioni sociali. Il quale in parte vi fu, ma non commisurato ad essa. Per un verso si produssero un boom demografico senza precedenti, una rapida urbanizzazione e una corposa riduzione dell’analfabetismo. Ma la disoccupazione rimase molto elevata e, mentre i salari crollarono, la già ampia forbice tra i ceti più abbienti e la massa dei diseredati s’allargò ancor di più. Col che i militari modernizzarono il Brasile lasciando però più che mai aperto il nodo della integrazione sociale. Ciò nonostante, essi contarono a lungo su un vasto benché implicito consenso. Specie tra i ceti medi, che beneficiarono della crescita economica e in buona parte gradirono l’ordine sociale restaurato dal regime. Finché dalla metà degli anni ’70 proprio quei ceti iniziarono a soffrire il peso dell’oppressione e a far pesare la loro voce per indurre il regime a liberalizzarsi.

visione, insomma. Cause ch’esse coglievano nel comunismo, nel senso però esteso che s’è più volte visto. Ch’esse coglievano in altri termini nelle forze sociali, nei modelli economici e negli orientamenti ideologici di cui si nutriva la miscela tra marxismo e nazionalismo 173

cresciuta col tempo in America Latina e contro la quale scatenarono la loro violenza. Non a caso i paesi in cui s’insediarono quei regimi erano anche quelli dove più forti e profonde in Sud America erano state le radici del populismo, come Argentina e Brasile. Oppure dove parve allora per la prima volta poterle gettare il socialismo, come Cile ed Uruguay. In proposito, è stato talvolta notato che proprio la percezione della minaccia portata da quelle correnti all’alleanza con l’Occidente e all’economia capitalista influì sulla natura stessa di quei regimi. I quali furono perciò in proporzione meno violenti e bendisposti verso i pilastri economici del desarrollismo negli anni ’60, quando quella minaccia parve loro debole e non imminente. Divennero invece violenti al limite del terrorismo di Stato e mutarono radicalmente modello economico, sposando il neoliberismo, quando negli anni ’70 sentirono più grave ed imminente quella minaccia. Ch’essi si proposero in tal modo di estirpare alla radice.

2. Dal «desarrollismo» al neoliberismo. L’economia dei militari I regimi militari che s’imposero all’epoca in America Latina non si può dire abbracciassero tutti lo stesso dogma economico. A tale proposito s’è già accennato come tra gli anni ’60 ed i ’70 iniziasse la transizione dal modello dirigista prevalente dopo la crisi del 1929, i cui limiti erano evidenti da quando s’era spezzato il legame virtuoso tra crescita economica e distribuzione della ricchezza, ad un modello liberista. Ad un modello, cioè, aperto al mercato mondiale che cominciava intanto ad aprirsi a ciò che in seguito sarebbe stata chiamata la globalizzazione. Ma al di là delle loro pur profonde differenze, tutti ebbero in comune un obiettivo. Che lungi dall’essere solo economico, era altrettanto politico. Fatta eccezione per quelli di tendenza populista che qua e là s’imposero sulle Ande o in Centroamerica, infatti, tutti gli altri regimi puntarono a smantellare la politica economica dei populismi e le basi sociali che li avevano nutriti. E per converso a imporre un governo dell’economia finalizzato allo sviluppo. Ossia più efficiente e competitivo, nonché orientato a favorire l’accumulazione di capitale interno e l’attrazione di capitale estero necessario per il decollo economico. A tal fine, sia i re174

gimi desarrollistas e autoritari degli anni ’60, sia quelli liberisti e ancor più autoritari del decennio seguente s’affidarono da un lato all’eliminazione della politica e dei suoi conflitti, ch’essi imposero, e dall’altro ai tecnocrati perlopiù formatisi nelle maggiori accademie statunitensi, cui consegnarono il governo dell’economia. Basi sociali e modello economico del nuovo autoritarismo furono espliciti nei regimi degli anni ’60 ed ebbero evidenti tratti classisti. E non solo in realtà in quelli militari di nuovo tipo, ma anche in Messico, cioè in un caso di autoritarismo corporativo cementatosi nel tempo ma anch’esso sotto l’enorme pressione della modernizzazione. Tutti regimi nei quali lo Stato mantenne un ruolo chiave, sia direttamente, specie nel campo delle industrie di base considerate strategiche, sia in modo indiretto, assicurando le condizioni politiche e giuridiche che i militari al potere e i loro alleati ritenevano imprescindibili per lo sviluppo. Cioè per promuovere l’accumulazione di capitale che n’era la premessa. Di uno sviluppo ch’essi concepivano come in passato connesso all’industria. Ma ad un’industria integrata, non più cioè soggetta all’importazione di beni capitali e tecnologie, bensì in grado di assicurare l’intero ciclo produttivo dei prodotti vitali per il mercato interno. A tal fine, per approfondire il grado d’industrializzazione e favorire il trasferimento tecnologico dai paesi più avanzati, essi facevano affidamento sul capitale privato nazionale, ma soprattutto su quello estero, che si sforzarono perciò d’attirare in grande quantità e di indurre ad investimenti produttivi. Cioè ad aprire stabilimenti industriali nei paesi dell’America Latina. Tale modello non si distanziava in sé da quello desarrollista, se non per la radicalità e i metodi autoritari che adottò di solito. Alla sua base era infatti esplicita la convinzione che in quei paesi periferici non esistessero le premesse sociali e culturali per la democrazia politica. La quale tendeva perciò a sfociare nel populismo, al quale spettava la responsabilità dello sviluppo mancato. La soluzione, ritennero quei regimi, risiedeva perciò nella sospensione della democrazia fintanto che lo sviluppo non avesse generato condizioni sociali tali da renderla sostenibile. Il che comportò la chiusura dei Parlamenti e dei partiti, la censura alla stampa, la repressione dell’opposizione e il controllo dei sindacati. Tutti fattori che, oltre a neutralizzare i movimenti populisti, creavano la pace sociale e la sicurezza giuridica richieste dai capitali esteri per rischiare investimenti pro175

Il Cile di Pinochet, vetrina neoliberista La lunga dittatura militare guidata dal generale Augusto Pinochet in Cile e durata dal 1973 al 1989 ebbe il tipico afflato rigeneratore dei regimi dell’epoca. Nel senso che non si concepì mai come una breve parentesi autoritaria dovuta ad una peculiare crisi, bensì come l’inizio d’una nuova epoca nella storia nazionale. Più di altri regimi, tuttavia, nel perseguire i suoi scopi ricorse a metodi nuovi e drastici. Sia non lesinando mezzi nella repressione degli oppositori, sia gettando alle ortiche le ricette economiche prevalenti da vari decenni e affidandosi a quelle liberiste dei tecnocrati in buona parte cresciuti alla scuola di Milton Friedman. I cosiddetti Chicago Boys. Solo così, essi pensarono, e con l’ausilio chiave d’un regime autoritario che impediva la reazione politica e sindacale, il Cile avrebbe liquidato l’apparato dirigista e protezionista consolidatosi negli anni. Quel sistema cioè che ritenevano ne zavorrasse lo sviluppo. E applicate le necessarie liberalizzazioni avrebbe imboccato il cammino della crescita economica e della riduzione della povertà, premesse chiave del ritorno ad un sistema democratico che il regime ipotizzava alla fine di quel lungo processo. Benché concepisse la democrazia in termini diversi da quelli liberali del resto dell’Occidente. Come cioè una democrazia protetta, sotto la tutela delle Forze Armate. A tal fine il regime cileno applicò in forma più radicale in taluni momenti, specie negli anni ’70, e in modi più blandi ed eterodossi in taluni altri, le tipiche ricette economiche liberiste. Ridusse cioè drasticamente il peso dello Stato nell’economia attuando massicce privatizzazioni. Aprì il mercato nazionale al commercio estero obbligando il sistema produttivo locale a diventare competitivo o sparire. Liberalizzò il mercato finanziario e deregolamentò quello del lavoro. Eliminò il controllo sui prezzi e incentivò le esportazioni e la loro differenziazione. E così via. Quale ne fu il bilancio? I critici mettono l’accento sui costi sociali, che furono enormi. Tanto che so-



duttivi ingenti e di lunga durata. I quali infatti si moltiplicarono circa per tre nella sola seconda metà degli anni ’60. Da ciò si evince la base sociale su cui poterono in origine contare i nuovi autoritarismi. Una base che comprendeva grosso modo i 176

lo una dittatura poteva verosimilmente imporre una politica economica talmente radicale. La recessione dei primi anni, messa in conto dal regime, portò il tasso di disoccupazione oltre il 15%. E quella causata dal crollo del sistema finanziario all’inizio degli anni ’80 fu perfino più grave, tanto da causare ampie proteste represse duramente. Alla fine della dittatura il potere d’acquisto dei salari era più basso di quello di vent’anni prima e nel frattempo la spesa sociale s’era assai ridotta. La stessa crescita economica, osservano poi le critiche, fu nel complesso tutt’altro che spettacolare e soggetta a forti oscillazioni. Al fianco delle critiche esistono però anche forti argomenti in favore del bilancio economico della dittatura. Fu la sua politica, affermano coloro che ne riconoscono i risultati, a gettar le basi della lunga, costante e straordinaria crescita economica cilena dalla metà degli anni ’80 in poi. Tanto che i governi democratici subentrati ad essa, pur sforzandosi di attenuarne i più intollerabili effetti sociali, non ne hanno demolito i cardini. Non vi sono in effetti dubbi che il regime di Pinochet abbia rivoluzionato la struttura produttiva cilena. Sia rendendola nel complesso più efficiente e in grado di resistere meglio delle altre della regione alle sfida del mercato globale. Sia pilotando la trasformazione di un paese perlopiù agricolo e prigioniero degli andirivieni del prezzo internazionale del rame, in un paese dall’economia più articolata e dalla base industriale assai più vasta. Al vertice della quale crebbe durante la dittatura una robusta classe imprenditoriale, spesso beneficiata dai legami politici col regime, ma anche frutto del decollo dell’attività produttiva. Una classe che a Pinochet assicurò ampio sostegno, come gliel’assicurarono a lungo i vasti strati del ceto medio cui la modernizzazione economica dell’epoca consentì di migliorare il tenore di vita. Tanto che pur sconfitto nel plebiscito del 1988, indetto in base alla Costituzione che il suo stesso regime aveva redatto otto anni prima, il generale Pinochet lasciò la presidenza col sostegno del 43% dei cileni. Una percentuale piuttosto elevata dopo quindici anni di governo dittatoriale.

ceti che i populismi avevano escluso. I ceti borghesi e possidenti, dunque, ma anche vasti strati dei settori sociali intermedi e di un nuovo ceto intellettuale di formazione tecnocratica. Il quale fu pressoché sempre in prima linea al fianco dei militari a perorare la cau177

sa della modernizzazione autoritaria. La quale comportò un massiccio trasferimento di risorse dalla coalizione populista, cioè dai salariati in particolare e dai ceti popolari in generale, alla nuova coalizione sociale al potere, che si proponeva di guidare lo sviluppo economico ormai libero da ostacoli politici. L’esito di tutto ciò fu diverso da paese a paese. Commisurati alle aspettative, gli unici a poter dire di aver ottenuto successi furono i due paesi col maggior mercato interno e dove quelle politiche furono condotte più a lungo e con maggior coerenza: Brasile e Messico, che a metà del secolo concentravano il 42% della produzione industriale latinoamericana, ma alla metà degli anni ’70 ne riunivano già il 60%. Il che non toglie ch’entrambi lasciassero una pesante eredità ai successori, in termini sia di disuguaglianza sociale, sia di indebitamento con l’estero. Assai peggio andarono le cose in Argentina e Cile, dove il passaggio ad una fase più matura dell’industrializzazione incontrava ben più forti limiti strutturali e dove la resistenza delle coalizioni populiste fu assai maggiore. Fu in quei paesi infatti che negli anni ’70 i regimi militari si proposero di staccare la spina del modello economico incentrato sull’industria e il mercato interno e di avviare una radicale liberalizzazione economica. Sia cercando di ridar così fiato alla teoria dei vantaggi comparativi, cioè sacrificando l’industria cresciuta al riparo del protezionismo e concentrandosi nella produzione di beni richiesti dal mercato mondiale ch’essi potevano produrre in condizioni vantaggiose. Spesso materie prime. Sia proponendosi di smantellare la coalizione d’interessi formatasi nel tempo intorno al nazionalismo economico. Ma gli esiti dei regimi di Argentina e Cile furono difformi. Mentre nel primo caso il tentativo d’introdurre manu militari il modello liberista fallì e le lotte intestine alle Forze Armate ne distorsero o limitarono gli effetti senza evitarne gli enormi costi sociali, nel caso cileno esso fu introdotto e perseguito con mano di ferro e maggior coerenza. Con risultati sulla cui valutazione vi sono giudizi in parte discordi, ma positivi nel complesso. 3. L’antipolitica e la dottrina della sicurezza nazionale Ideologia più o meno ufficiale dei regimi militari fu la Dottrina della Sicurezza Nazionale, Dsn. Una dottrina elevata a dogma nelle accademie militari dei maggiori paesi, dove si formarono gli ufficiali sa178

liti poi al governo e al vertice di grandi imprese pubbliche o altri importanti organismi. Spesso intesa come un trapianto, ossia come mero frutto del massiccio indottrinamento degli eserciti latinoamericani nelle scuole militari statunitensi, la Dsn ebbe in realtà anche ben altre, più antiche, profonde e locali radici. Non perché l’influenza professionale e ideologica esercitata sulle Forze Armate dell’America Latina da quelle degli Stati Uniti fosse insignificante. Essa infatti vi fu e crebbe allora in fretta, portando al culmine un processo avviato durante la guerra. Quello attraverso il quale l’influenza militare statunitense aveva scalzato quella europea presso gli eserciti latinoamericani. Ma di ciò si dirà in seguito. Per ora basti notare che se la Dsn fu da essi così ben accolta, è perché esprimeva idee e valori che erano loro ben noti. A iniziare dall’anticomunismo e continuando dalle funzioni ch’essa riconosceva alle Forze Armate nella tutela dell’identità e dell’unità della nazione. Tutti elementi che gli eserciti dei grandi paesi latinoamericani avevano da tempo elaborato e introiettato. E che laddove, come s’è visto, non si prestavano ad essere interpretati in sintonia coi dettami di Washington, come in Perù o a Panama, sfociarono in diversi esiti. Nella fattispecie in regimi militari ma populisti. E ciò benché i loro membri avessero frequentato le medesime accademie militari statunitensi dei commilitoni argentini o brasiliani, cileni o uruguayani. Ma in cosa consisteva la Dsn? Era innanzitutto una dottrina tipica della guerra fredda. Partiva cioè dal presupposto che il mondo era diviso in blocchi, che di essi quello occidentale rappresentava il mondo libero minacciato da un nemico totalitario e che ad esso, per storia e civiltà, apparteneva e doveva continuare ad appartenere l’America Latina. Come tale, era in secondo luogo una dottrina dai riflessi pratici immediati nel contesto successivo alla rivoluzione cubana, quando della guerra fredda l’America Latina era divenuta la frontiera forse più incandescente. Stabilite tali premesse, la Dsn definiva i tratti fondamentali della nazione che ambiva a proteggere e preservare e quelli della civiltà entro la quale voleva ch’essa restasse. L’una e l’altra si condensavano, secondo la Dsn, nella nozione di Occidente cristiano, in nome del quale quei regimi intesero legittimarsi. Una nozione che conduceva a due risultati, entrambi familiari all’humus organicista cui da sempre attingevano i militari. Un humus d’altronde comune all’immaginario dei populismi ch’essi combatte179

La repressione. L’Argentina dei «desaparecidos» La violenza politica fu di gran lunga la nota dominante degli anni ’60 e ’70 in America Latina. Quella rivoluzionaria in nome del popolo e della giustizia sociale e quella controrivoluzionaria in nome della difesa dell’Occidente cristiano. Per quantità quest’ultima superò di gran lunga la prima e anche per tipologia si differenziò spesso dalle violenze del passato. Non a caso gli anni ’70 furono quelli durante i quali il problema delle violazioni dei diritti umani nelle dittature latinoamericane s’impose all’opinione pubblica mondiale. In generale il panorama fu analogo un po’ ovunque, dal Cile del generale Pinochet al Paraguay del generale Stroessner, dalla Bolivia del generale Bánzer all’Uruguay, passando per l’Argentina del generale Videla. Tutti paesi che attraverso il Piano Condor si prestarono anche aiuti per meglio perseguire gli oppositori presso i vicini e dove gli arresti, le torture, gli assassini e la scomparsa di persone divennero la norma. E tralasciando per ora i casi perfino più gravi dell’America Centrale, cui si presterà attenzione nel prossimo capitolo. In proposito è lecito parlare di Stati terroristi, poiché tutti quanti essi, chi più chi meno, non solo attuarono brutali e vaste repressioni, ma lo fecero in molti casi violando le loro stesse leggi. La quantità di persone che subirono torture e arresti arbitrari si conta sommando tutti i casi in varie decine di migliaia, mentre coloro che persero la vita superarono i 200 nel piccolo Uruguay, i 300 in Brasile e i 3.000 Cile. Ma il caso dove la repressione assunse forme più sistematiche e modalità più odiose fu quello dell’Argentina, dove il regime militare insediatosi nel 1976 causò la scomparsa di circa 11.000 persone, stando alle stime più affidabili, o addirittura 30.000 secondo la vulgata. Quale fu il contesto di quella carneficina? Usciti mestamente dal potere nel 1973, i militari argentini vi rientrarono appena tre anni più tardi senza sparare un colpo. Il governo peronista nel frattempo eletto si sciolse infatti come neve al sole, vittima dei suoi contrasti interni e dell’incapacità di porre argine a una incontrollabile spirale inflazionistica. E ancor più di contenere l’ondata terroristica che spazzava il paese, dilaniato dagli attentati commessi da un lato dalla Alianza Anticomunista Argentina, un gruppo paramilitare d’estrema destra, e dall’altro dai Montoneros, la guerriglia peronista che invocava il socialismo nazionale. Proprio ai militari, d’altronde,



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la presidente Isabel Martínez de Perón aveva affidato il compito di sterminare la guerriglia rurale sorta nel nord del paese. Cosa ch’essi fecero lasciando solo macerie sul terreno. Quando perciò le Forze Armate presero il potere nel 1976, non solo non suscitarono proteste, ma a molti argentini, specie dei ceti medi, stanchi di tanti anni di violenze e retorica rivoluzionaria, parve naturale se non desiderabile. Tale implicito consenso e il clima di terrore che regnava nel paese e che d’allora s’accrebbe ancor di più convinsero le Forze Armate d’essere forti e legittimate quanto bastava per sradicare una volta per sempre e senza badare ai modi le radici della «sovversione». Restaurando così l’ordine occidentale e cristiano. Come Pinochet stava facendo in Cile, ma con qualche accorgimento. La decisione dei generali cileni di riunire in campi di concentramento i prigionieri politici e di eseguire condanne a morte sancite dai tribunali militari ne aveva infatti causato la condanna mondiale, l’isolamento internazionale e il crescente distacco della Chiesa cattolica. Tutte conseguenze che i militari argentini vollero evitare e che pensarono di aggirare, riuscendovi piuttosto a lungo, ricorrendo in modo massiccio alla repressione clandestina. Alla scomparsa, cioè, delle persone, ch’essi prelevavano nottetempo dalle loro abitazioni, rinchiudevano in luoghi di detenzione segreti, torturavano allo stremo e di solito uccidevano facendone sparire il corpo. Persone sul cui destino negavano poi di avere informazioni o responsabilità. Fuori d’ogni norma e controllo legale, la repressione s’abbatté così a destra e manca. Colpì studenti e militanti sindacali, religiosi e artisti, attivisti politici e sociali spesso estranei ai movimenti armati, peraltro quasi sconfitti. Ed alla violenza politica s’unì non di rado la violenza privata, su donne incinte i cui neonati furono talvolta dati in adozione agli aguzzini, su semplici cittadini che qualche delazione sotto tortura fece cadere in un girone infernale e così via. Tutto dietro una parvenza di normalità, culminata nella pacifica realizzazione in Argentina dei campionati mondiali di calcio del 1978. Proprio la repressione era d’altronde il maggior collante tra le diverse fazioni delle Forze Armate. E proprio l’ordine ch’esse avevano restaurato a ferro e fuoco era l’unico «successo» che potevano vantare agli occhi della popolazione. Alla quale non poterono invece esibire i successi economici che nel frattempo stavano ottenendo il regime brasiliano e in parte quello cileno. Finita la fase più inten-

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sa della repressione, riaffiorarono perciò con forza le antiche fratture che minavano le Forze Armate argentine. Fratture sul modello economico, dove i nazionalisti mettevano i bastoni tra le ruote dei liberisti, e fratture su tempi e modi della liberalizzazione del regime. Il quale s’avviò così sempre di più sul piano inclinato dei conflitti interni, aggravati dalla débâcle economica e dalla protesta contro le violazioni dei diritti umani, guidata con coraggio dalle Madri di Plaza de Mayo. Finché l’azzardo di ridare vigore e popolarità al regime occupando nel 1982 le isole Malvinas, sotto sovranità britannica ma da sempre rivendicate dall’Argentina, non gli si rivelò fatale.

vano, di cui replicavano le premesse, ossia l’idea di nazione come comunità organica, ribaltandone le conseguenze, cioè invertendo i ruoli tra amici e nemici, nazione e antinazione. Il primo risultato era che la nazione su cui vegliavano era un organismo dotato di un’essenza, la cristianità, e votato all’unità nell’Occidente. Il secondo era che un nemico attentava all’una e all’altra. Un nemico che aveva un nome preciso ma si manifestava in modo sfocato. Il nome di quel nemico era all’epoca sulla bocca di tutti ed era il comunismo. Il quale aveva però da tempo preso nel vocabolario e nel pensiero politico latinoamericano connotati sempre più vaghi e perciò vasti. Inteso così, infatti, come il virus che minacciava l’essenza e l’unità della nazione, il comunismo travalicava i confini di coloro che lo professavano e si confondeva con numerosi altri fenomeni. A ciò si doveva il fatto ch’esso si presentasse ai militari come un nemico mascherato, acquattato negli anfratti più reconditi e impensati. Un nemico interno e un nemico ideologico. Interno poiché, lungi dal presentarsi nei panni di una potenza straniera, popolava le più profonde fibre della società senza presentare segni di distinzione. Ideologico poiché rappresentava agli occhi dei regimi militari un nemico che, coltivando una visione del mondo incompatibile con la civiltà occidentale e cristiana, l’erodeva dall’interno. E perciò sì individuato in chi, evocando la rivoluzione, aveva imbracciato le armi. Ma col tempo anche in quanti per militanza, convinzioni ideali o stili di vita parvero loro «estranei» alla società o dediti a minarne le basi «avvelenando» la gioventù con le loro ideologie. Stanti tali premesse, non sorprende che la repressione non conoscesse precisi limiti e tendesse ad estendersi 182

a macchia d’olio, ma anche che colpisse con particolare furore gli ambienti intellettuali: studenti, docenti, giornalisti, scrittori e così via. Ma al di là della Dsn e del suo concetto di sicurezza, si ricorderà che quei regimi ambirono allo sviluppo e che a tal proposito fecero ampio affidamento sui tecnocrati in possesso della scienza economica necessaria a raggiungerlo. A tal proposito essi replicarono perciò le orme, in un contesto però ben più moderno, dei regimi oligarchici di fine Ottocento e del positivismo che li impregnava. Come quelli, essi colsero nella politica e nelle sue divisioni e conflitti un artificioso fattore di ostacolo e disturbo dello sviluppo economico e dell’armonia sociale. Furono insomma regimi antipolitici. I quali, liberi dagli impicci della dialettica politica e sociale crearono le condizioni di laboratorio nelle quali applicare le leggi e la scienza dello sviluppo economico. Con risultati alterni. 4. Gli Stati Uniti e l’egemonia a rischio Quelli compresi tra la rivoluzione cubana e gli anni ’80, quando la guerra fredda cominciò a dare i primi segni del tramonto che di lì a poco l’attendeva, furono gli anni durante i quali la presenza statunitense nella regione si fece più sentire. In termini politici ed economici, diplomatici e militari. Perfino col ritorno agli interventi diretti banditi dall’epoca del Buon Vicinato, come nel 1965 nella Repubblica Dominicana. Per non dire delle operazioni segrete, che all’epoca abbondarono. E del cordone sanitario creato intorno a Cuba con l’embargo economico e l’espulsione, decisa nel 1962, dall’Organizzazione degli Stati Americani. Se così fu si dovette al fatto che l’influenza conquistata dai sovietici grazie al regime di Castro imponeva agli Stati Uniti inediti problemi di sicurezza. Ma non solo, poiché la stessa rivoluzione a Cuba e l’ondata rivoluzionaria che in diverse forme le fece seguito in gran parte della regione, pose loro il problema dell’egemonia. Ossia della credibilità della loro leadership e della capacità di esercitarla nella loro zona d’influenza col consenso dei governanti e della popolazione. Per la prima volta dal dopoguerra, infatti, il forte vento che spirava contro l’Occidente nei paesi appena emancipatisi dal dominio coloniale o in via di decolonizzazione, s’avvertì con forza anche in America Latina. Dove la miscela che andò creando183

si tra nazionalismo e socialismo trovava proprio nell’antimperialismo il suo punto di fusione. E mise in ambasce non solo la potenza degli Stati Uniti, ma ancor più i fondamenti della loro civiltà. Quei valori, cioè, come il mercato, la democrazia politica e lo Stato di diritto liberale, ch’essi avevano già in passato stentato a diffondervi nonostante l’intensa predica del panamericanismo. Se gli Stati Uniti furono allora così presenti in America Latina, in sintesi, e se la loro presenza finì il più delle volte per manifestarsi in modo aggressivo e non benevolo, fu sì perché quell’area era per essi ormai «la più pericolosa al mondo», come notò Kennedy, cioè una frontiera della guerra fredda così incandescente d’arrivare a un passo dal causare l’incendio planetario in occasione della crisi dei missili di Cuba dell’ottobre 1962, quando gli aerei spia statunitensi ravvisarono sull’isola le rampe missilistiche sovietiche pronte ad ospitare le testate nucleari. Ma fu anche perché la loro leadership v’era in difficoltà. Era cioè debole. Il crescente impiego della forza per combattere il comunismo nella regione e per metterne le Forze Armate in condizioni di farlo, fu infatti il secondo pilastro, al fianco degli aiuti economici, dell’Alleanza per il Progresso negli anni ’60. La quale era sì una strategia riformista per rigenerare la leadership politica statunitense in America Latina favorendone lo sviluppo, ma aveva altresì lo scopo d’arginare la sfida comunista. Contro la quale il governo degli Stati Uniti cercò di premunirsi in diversi modi. Innanzitutto aggiornando la dottrina e cioè stabilendo che, nell’ottica della sicurezza emisferica, le Forze Armate dell’America Latina non erano più chiamate a vegliare contro un’eventuale aggressione esterna, bensì sulla sicurezza interna. Il nemico era già in casa, insomma, e quello che dovevano combattere, d’accordo con la Dottrina della Sicurezza Nazionale, era perciò un nemico interno. La controrivoluzione diventava in tale ottica la principale funzione degli eserciti continentali. I quali erano più che predisposti a svolgerla, almeno nella maggior parte dei casi. Le conseguenze di tale dottrina furono profonde ed immediate. Dal 1962 l’aiuto militare degli Stati Uniti alle Forze Armate latinoamericane crebbe a ritmi sostenuti. L’anno successivo il Southern Command statunitense fu trasferito a Panama per meglio coordinare i generosi Military Assistance Programs offerti ai militari dell’America Latina. I quali ne beneficiarono in abbondanza. Sia ricevendo un crescente numero di consiglieri militari statunitensi, partico184

larmente elevato nelle piccole repubbliche a rischio dell’America Centrale. Sia partecipando in quantità prima d’allora impensabili ai corsi di addestramento e indottrinamento a Panama o nelle Accademie militari degli Stati Uniti. Corsi dove gli ufficiali latinoamericani erano istruiti alla guerra irregolare contro la guerriglia e all’azione civica, cioè ad attività civili atte a contendere ai guerriglieri il consenso della popolazione, come costruire strade o scuole in luoghi appartati dove lo Stato era assente. Sia, infine, ottenendo nuove e moderne armi. Non però quelle pesanti per la guerra convenzionale, bensì quelle leggere, precise e facilmente trasportabili utili per combattere la guerriglia. Che tutto ciò rendesse più intensi e solidi i rapporti tra le Forze Armate latinoamericane e i governi degli Stati Uniti è evidente e dimostrabile. Dedurne però ch’esse agissero per conto di Washington sfiderebbe la storia e i fatti. La storia poiché s’è già visto com’esse fossero nella gran parte dei casi istituzioni professionali assurte da tempo a tutrici della sicurezza e dell’identità nazionale. I fatti, poiché non è ravvisabile relazione alcuna tra la quantità e la qualità degli aiuti statunitensi alle Forze Armate latinoamericane e il loro grado di fedeltà politica a Washington. I militari argentini e brasiliani che negli anni ’60 fondarono regimi allineati con gli Stati Uniti, per esempio, avevano rapporti meno intensi con i commilitoni statunitensi di quelli peruviani o panamensi che nel 1968 fondarono dei regimi populisti ad essi assai sgraditi. I ben nove colpi di Stato avvenuti nell’area nei primi cinque anni dell’Alleanza per il Progresso non ne rappresentarono un successo, essendo la Casa Bianca impegnata ad accreditarsi come fonte di progresso economico e democrazia politica. È vero che nel 1964 la dottrina Mann li legittimò, allorché indicò nell’anticomunismo la priorità assoluta della politica statunitense. Ma più che dare un segno di forza essa sancì il fallimento del grande disegno kennedyano, costretto a riconoscere la propria incapacità di conciliare egemonia e democrazia e a venire a patti o addirittura prediligere in nome della sicurezza i regimi militari. Quanto gli Stati Uniti fossero in difficoltà, e a ruota più che alla guida degli eventi latinoamericani, lo confermò l’amministrazione Nixon. Dapprima nel 1969, quando il rapporto ch’egli commissionò a Nelson Rockfeller non fece che benedire quel che il nuovo autoritarismo stava già facendo. Affermò cioè che gli Stati Uniti ricono185

1965, i «marines» nella Repubblica Dominicana Se l’uso della forza per imporre l’ordine nella propria sfera d’influenza è indice di debolezza più che di forza, cioè del timore che i mezzi pacifici non bastino a mantenerlo, allora i 18.000 marines e le altre truppe inviati dal presidente Lyndon Baines Johnson nel 1965 nella Repubblica Dominicana ne furono l’emblema. E ciò benché quello che fu sotto ogni punto di vista un intervento militare volto ad imporvi un governo fedele, prevenendovi al contempo l’insediamento di un presidente sospetto di simpatie comuniste, fosse mascherato da azione di pace per separare le fazioni contrapposte dell’esercito dominicano e coperto dalla foglia di fico di una risoluzione dell’Organizzazione degli Stati Americani. È infatti ampiamente dimostrato che i marines favorirono il successo della fazione che permise l’anno successivo l’elezione di Joaquín Balaguer, alleato degli Stati Uniti, e impedirono il ritorno al potere del presidente Juan Bosch, deposto dai militari nel 1963 dopo appena sette mesi di governo. Un uomo ch’essi giudicavano troppo vicino a Fidel Castro e perciò minaccioso, ma che era stato eletto democraticamente con circa il 60% dei voti. A rendere quell’intervento militare così importante e significativo, sia nella storia dominicana sia in quella più generale dell’America Latina dell’epoca, contribuivano vari fattori. Il primo è che nessun caso si prestava altrettanto bene al parallelismo con Cuba. Sia per la prossimità geografica, che faceva di Cuba il naturale santuario dei rivoluzionari dominicani. Sia perché la Repubblica Dominicana era stata per tre decenni soggetta alla feroce dittatura di Rafael



scevano di non poter imporre a chicchessia il miglior modo per camminare verso la democrazia e che laddove essa aveva fallito i militari erano gli unici in grado di garantire ordine, progresso e lealtà internazionale. E poi nel 1970, quando non seppe impedire la vittoria elettorale di Salvador Allende in Cile, né poté convincere i militari cileni a bloccarne l’insediamento. Finché il loro brutale intervento tre anni dopo soddisfò la volontà statunitense di liberarsi di quel governo scomodo, ma fondò un regime assai più longevo e assai meno docile di quant’essi avrebbero desiderato. 186

Trujillo e della sua famiglia, cui gli Stati Uniti avevano a lungo garantito protezione e amicizia, e aveva una struttura economica e sociale non dissimile da quella di Cuba ai tempi di Fulgencio Batista. È vero che nel 1961 l’uccisione del dittatore aveva contato sulla benevolenza degli Stati Uniti, ormai decisi a scaricarlo nel clima dell’Alleanza per il Progresso. Ma lo è anche che la transizione che s’aprì alla sua morte offrì loro poche garanzie contro la minaccia comunista, vista l’elezione di Juan Bosch e la convinzione statunitense che quell’intellettuale nazionalista e antiamericano si stesse facendo calamitare dall’esempio cubano. Il secondo motivo che fece di quell’intervento militare un evento chiave nella storia regionale e nei rapporti degli Stati Uniti con l’America Latina è ch’era la prima volta dagli anni ’20 che le truppe statunitensi mettevano piede e combattevano nella regione. Da quando cioè il Buon Vicinato di Franklin Delano Roosevelt aveva proclamato la dottrina del non intervento. Né in Guatemala nel 1954, infatti, quando Dwight Eisenhower aveva imbastito l’azione per rovesciare Jacobo Arbenz, né a Cuba nel 1961, dove John Fitzgerald Kennedy autorizzò il fallimentare sbarco alla Baia dei Porci nel tentativo di far cadere l’ancor fresco regime castrista, erano entrate in azione le Forze Armate statunitensi. Che esse lo facessero nella Repubblica Dominicana e che fossero decisive per l’esito di quella crisi dette la misura del grado di tensione senza precedenti raggiunto dalla guerra fredda in America Latina e dei mezzi cui la Casa Bianca era pronta a ricorrere pur di mantenere la fedeltà dell’area. Ma anche del precoce declino dello spirito originario dell’Alleanza per il Progresso e dell’ormai inarrestabile polarizzazione politica dell’intera regione. Foriera della violenza che ne costellò la storia per molti anni ancora.

I rapporti degli Stati Uniti con l’America Latina parvero cambiare dopo il 1976 con l’arrivo alla Casa Bianca di Jimmy Carter. Il quale era naturale erede della tradizione politica dei predecessori democratici. E dunque del loro intento di riaffermare la leadership politica e morale degli Stati Uniti nell’emisfero predicandovi e favorendovi la democrazia. Carter si trovava però anche dinanzi a un contesto mutato. Sia negli Stati Uniti, dove l’esito della guerra in Vietnam, lo scandalo del Watergate, lo shock petrolifero e vari altri fattori avevano ancor più indebolito il prestigio del paese e con esso 187

i poteri presidenziali. Sia in America Latina dove, salvo in America Centrale, non era più la minaccia comunista a dominare il clima, ma la marea di repressione e militarismo che copriva gran parte della regione. Una marea che al di là dell’imbarazzo morale che creava agli Stati Uniti, stretti alleati di regimi dalle credenziali talvolta sanguinarie, poneva loro anche un serio problema politico. Come sfidare infatti con efficacia l’Unione Sovietica sul terreno della libertà, dei diritti umani e della democrazia, se gli Stati Uniti non riuscivano a far vigere quei valori nella loro orbita? Date le premesse, Carter basò la sua politica su due elementi chiave. Il primo era la localizzazione dei conflitti. Lungi cioè dall’affrontare ogni conflitto nell’ottica della guerra fredda, e cioè come una sfida sovietica in America Latina, egli si propose di disinnescarli riconducendoli alla loro dimensione locale, cioè nazionale. Da ciò il suo timido disgelo con Cuba, le iniziali aperture verso i rivoluzionari giunti al potere in Nicaragua nel 1979 e soprattutto la firma nel 1977 degli accordi con il presidente panamense Omar Torrijos che prevedevano il ritorno del Canale alla sovranità di Panama nel 1999. Col che sanò l’antica ferita spesso invocata dal nazionalismo latinoamericano. Il secondo e più noto cardine furono i diritti umani. La decisione cioè di porre il loro rispetto al centro della sua politica verso l’America Latina e di minacciare a tal fine sanzioni o ritorsioni nei confronti di quei regimi che avessero continuato a violarli. Nel complesso, però, la politica di Carter non ebbe successo e finì anzi presto nel mirino dei repubblicani e della corrente neoconservatrice che proprio allora stava prendendo forma negli Stati Uniti. Né il suo sforzo di localizzare i conflitti impedì che i sandinisti nicaraguensi virassero verso Cuba e che l’America Centrale divenisse un focolaio della guerra fredda. Né la restituzione a Panama della sovranità sul Canale placò l’antiamericanismo in America Latina, mentre suscitò l’astio dei conservatori a Washington. Né, infine, la politica dei diritti umani, peraltro applicata con gran circospezione, ebbe concreti effetti: negli Stati Uniti causò l’accusa a Carter d’indebolire gli alleati facendo così il gioco dei sovietici; presso le dittature latinoamericane stimolò il sempre latente nazionalismo che ne era all’origine.

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10.

La «decada perdida» e la democrazia (ri)trovata

1. Le transizioni democratiche L’appuntamento con la democrazia politica che la gran parte dei paesi dell’America Latina aveva mancato in diverse occasioni, chi negli anni ’30, chi dopo la guerra, chi negli anni ’60 e ’70 e chi in tutte quelle occasioni, si rinnovò negli anni ’80. Come già in passato il suo esito non fu lo scontato approdo d’una lunga e virtuosa evoluzione storica. S’imbatté infatti in diversi ostacoli, più o meno importanti a seconda dei casi: crisi economica, disuguaglianze sociali, culture politiche autoritarie, conflitti intestini. E coi violenti traumi causati in molti casi dalla violenza del decennio appena finito e le loro sequele politiche, morali e giudiziarie. Al tempo stesso parvero allora per la prima volta e con tempi e modi diversi da paese a paese e da zona a zona riunirsi diversi fattori in grado di agevolare l’acclimatamento della pianta democratica. Da un lato l’ondata rivoluzionaria s’era ormai spenta o era stata recisa a forza quasi ovunque nella regione. E dove ancora c’era, come in America Centrale, si spense durante il decennio. Sia come riflesso del panorama mondiale, dove il modello socialista un tempo così capace di alimentare sogni s’avviò al suo mesto tramonto. Sia, ancor più, per le sconfitte subite e il rigetto causato in vasti strati sociali da un ventennio intriso di ideologia e di violenza. Perfino il fascino un tempo sprigionato dalla rivoluzione cubana s’appannò, avendo ormai preso il regime castrista molti tratti tipici delle dittature d’oltrecortina. 190

Ma dall’altro lato anche l’ondata controrivoluzionaria stava giungendo al capolinea e suscitando anche in quei ceti che dapprima l’avevano accettata o tollerata una massiccia reazione. Tanto che in molti paesi della regione parve per la prima volta manifestarsi in modo concreto e cosciente una nuova società civile, consapevole dell’importanza della democrazia politica in sé e dei tremendi danni causati dalle guerre ideologiche ancora fresche. Non solo, ma anche decisa a chiedere conto ai militari degli arbitrii commessi. Una società civile di cui col tempo affiorarono limiti e fragilità, ma che nel passaggio alla nuova epoca democratica suscitò grandi speranze e riunì molti consensi. Che poi il contesto internazionale mutasse al punto, nella seconda metà degli anni ’80, da portare al crollo del mondo bipolare, non poté che portar giovamento alla transizione dell’America Latina verso la democrazia. Non perché in passato esso fosse stato decisivo nel sancirne le sorti, ma perché s’attenuarono e poi scomparvero gli alibi o le ragioni che la guerra fredda aveva sempre offerto ai protagonisti della vita politica latinoamericana per negar valore alla democrazia: ora in nome della giustizia sociale e della democrazia «sostanziale», ora della sicurezza e della democrazia «protetta». Il successo dell’Occidente, poiché tale parve il progressivo crollo dell’impero sovietico, non poteva infine che dare alla democrazia un prestigio e un senso nuovi. Ma la democrazia andava innanzitutto raggiunta, dato che l’America Latina degli anni ’70 era in gran parte coperta di dittature. E la sua qualità e solidità, una volta trovata o ritrovata, dipese da molti fattori. Storici, come s’è più volte visto, ma anche politici, economici e sociali. E dal modo in cui ogni paese cambiò regime, passando cioè dalla dittatura alla democrazia. Un passaggio che avvenne in modi diversi da un paese all’altro e la cui storia coprì gran parte del decennio, il quale fu perciò per la maggior parte dei paesi latinoamericani quello delle transizioni alla democrazia e dei primi passi dei nuovi regimi politici dopo le più o meno lunghe e grevi stagioni dell’autoritarismo. Passi spesso incerti e cammini colmi di ostacoli. Lasciando ancora da parte l’istmo centroamericano, di cui ci si occuperà tra breve, l’arco cronologico coperto dalle transizioni s’estende dalle elezioni in cui l’Ecuador scelse nel 1979 il nuovo presidente a quelle dove dieci anni dopo il Cile scelse democraticamente Patricio Aylwin. Passando per le elezioni dove nel 1980 il Perù elesse Fernando Belaúnde, per quelle che nel 1983 portarono al potere 191

La guerra delle Falkland-Malvinas Falkland per gli inglesi che ne detengono la sovranità dal 1833 e Malvinas per gli argentini che da sempre la rivendicano, quell’arcipelago popolato da poche migliaia di coloni d’origine inglese ed esposto ai venti gelidi del Sud Atlantico fu causa nel 1982 dell’ultima guerra tra paesi occidentali nel XX secolo. Quella combattuta per l’appunto allora tra Argentina e Gran Bretagna, dopo che il governo militare di Buenos Aires, in deficit di popolarità e di coesione politica, profittò della paralisi dei negoziati sulla sovranità delle isole per occuparle militarmente. Ottenendo per tutta risposta ciò che in realtà confidava d’evitare: la violenta risposta del primo ministro britannico Margaret Thatcher, che inviò la flotta causando la disfatta argentina al termine d’una guerra durata 74 giorni e costata circa 900 vittime, il 70% delle quali argentine. Una guerra che accelerò la crisi del regime e gl’impedì d’imporre le condizioni della transizione alla democrazia. Guidati dal generale Leopoldo Galtieri, espressione dell’ala dura del governo decisa a impugnare le bandiere nazionaliste nel tentativo di costruirsi un consenso popolare in vista della fine del regime, i militari argentini ottennero dapprima l’effetto voluto. Saputo che la bandiera argentina sventolava sulle Malvinas, delle grandi folle si radunarono a festeggiare nelle strade del paese e con poche eccezioni sia i dirigenti politici e sindacali, sia le più influenti istitu-



in Argentina Raúl Alfonsín, quelle ancora ristrette che nel 1985 sancirono in Brasile la vittoria di Tancredo Neves e le numerose altre che nella maggior parte del Sud America posero fine alla lunga era militare. Ma del nuovo clima e della democratizzazione in corso vi furono per la prima volta evidenti segni anche in Messico, dove s’aprirono le prime serie crepe nel dominio del Pri: dapprima con le vittorie conseguite dall’opposizione nelle elezioni di taluni Stati e poi, nel 1988, quando grandi folle si radunarono in protesta contro le frodi imputate al governo in occasione dell’elezione a presidente di Carlos Salinas de Gortari. Il cui mandato non bloccò le riforme per democratizzare l’ormai consunto sistema politico messicano, le quali camminarono anzi da allora più spedite. 192

zioni, espressero il loro sostegno al governo. Il quale però scoprì presto d’avere fatto male i conti. Né, infatti, ottenne la benevola neutralità degli Stati Uniti che s’era illuso d’avere e che l’amministrazione Reagan gli negò per sostenere gli alleati inglesi. Né gli giovò la manipolazione delle informazioni cui ricorse durante il conflitto per far credere agli argentini che tutto filava liscio. Quando infatti la realtà emerse e con essa l’assai scarsa perizia politica e militare del regime, quella guerra che fino a poc’anzi era parsa il suo salvagente ne divenne la tomba, trasformandosi in un tremendo boomerang. Nulla, a quel punto, poté più impedire che i suoi numerosi fallimenti venissero a galla, specie il caos economico e le violazioni dei diritti umani di cui s’era macchiato. Sempre più argentini iniziarono infatti a chiedergliene conto e a voler voltare quella pagina traumatica della storia nazionale. Cosa che la maggioranza di essi fece alle elezioni del 1983, dove i militari non ebbero alcuna speranza di perpetuare il loro potere e dove per la prima volta nella storia argentina i peronisti furono sconfitti. Perché i disastri del governo di Isabel Martínez de Perón erano ancora freschi alla memoria di tutti. E perché il candidato radicale, Raúl Alfonsín, si guadagnò la stima della maggioranza per la sua immagine di rottura col passato e per essere stato tra i pochi dirigenti politici a prendere per tempo le nette distanze dal regime. Un regime che come gli altri della regione aveva a lungo potuto contare sulla passiva accettazione di gran parte della popolazione, ma da cui ora tutti aspiravano a smarcarsi in fretta.

In nessun caso la transizione alla democrazia seguì vie rivoluzionarie. I militari, insomma, non se ne andarono dal potere perché cacciati. Il che è assai importante per comprendere il grande peso che in molti casi essi conservarono ancora a lungo nel seno dei nuovi regimi democratici. Perfino laddove il loro fallimento fu più evidente, come in Argentina, non fu la pressione popolare a causarne la frettolosa ritirata, bensì le loro insanabili divisioni interne e l’umiliazione cui esposero se stessi ed il paese nella guerra delle Falkland-Malvinas. Assai più salde in mano alle Forze Armate furono però le redini della transizione democratica dov’esse vantavano successi in campo economico ed erano col tempo riuscite a creare regimi stabili e istituzionalizzati. Come nei casi di Brasile e Cile, dove il dominio 193

militare non si chiuse in gloria, a conferma che la spinta democratica era cresciuta e chiedeva ormai strada, ma la transizione seguì il tracciato istituzionale predisposto dalle dittature. Fu così in Brasile, dove nel 1985 le piazze si colmarono di folle che reclamavano elezioni dirette, ma il nuovo presidente fu eletto dal Parlamento, d’accordo con le procedure previste dal regime. E dove ancor più che le pressioni civili erano stati i timori per l’effetto d’un così lungo governo sulla disciplina delle Forze Armate a convincerle ad avviare la transizione. Che fu lunghissima e pilotata dall’alto dai militari stessi, i quali mantennero perciò grande influenza nel regime democratico. E fu così anche in Cile, dove il plebiscito con cui il generale Pinochet sperava di prolungare il suo governo non andò com’egli aveva sperato, poiché ne bocciò l’ambizione col 56% dei voti. Ma dove la transizione seguì le tappe previste dalla Costituzione che il regime s’era dato nel 1980 e in base alla quale, pur sconfitto Pinochet, i militari conservarono a lungo enormi poteri, anche dopo il ritorno della democrazia. Spesso le transizioni comportarono veri e propri negoziati e patti tra i militari e le opposizioni. E i primi imposero alle seconde le amnistie ch’essi approvarono per sottrarsi agli eventuali processi per i diritti umani violati. In Uruguay, per esempio, dove la sconfitta subita dal governo militare nel referendum con cui cercò di legittimarsi aprì sì la strada al ritorno della democrazia nel 1985. Ma ciò non gl’impedì di negoziare con i partiti tradizionali le condizioni della transizione e di garantirsi l’immunità per i crimini commessi. Il patto tra militari e civili caratterizzò d’altronde la transizione democratica anche in Perù, dove però la democrazia incontrò in seguito enormi difficoltà a piantar radici. 2. L’economia negli anni ’80. Il decennio perduto A rendere più che mai complessi i primi passi di quelle giovani democrazie già in gran parte minate da una storia di convulsioni politiche e dall’eredità lasciata loro dai regimi militari, contribuì per tutto il decennio la pessima congiuntura economica. Accompagnata dal peggioramento dei più significativi indicatori sociali: dalla disoccupazione alla percentuale di popolazione sotto la soglia della povertà, dalla distribuzione della ricchezza alla mobilità sociale. Una con194

giuntura negativa al punto che ancora oggi si ricorda quel decennio come quello perdido. Cioè come un decennio senza sviluppo, durante il quale la regione nel suo complesso fece passi indietro in campo sia economico che sociale. Alla fine degli anni ’80 i dati parlavano chiaro: il prodotto medio per abitante era minore di quello di dieci anni prima e il debito estero era cresciuto a dismisura, al punto che la sua restituzione era divenuta una enorme zavorra per le economie della regione. La quale, infatti, fu attraversata da crisi così profonde da destabilizzare l’intero sistema economico internazionale, di cui l’America Latina era allora di gran lunga l’anello più debole. A cominciare dalla crisi messicana del 1982, esplosa quando il governo del Messico annunciò di non esser più in grado di pagare il debito estero e adottò una drastica svalutazione della moneta. Una crisi che rischiò di dilagare travolgendo i creditori e che indusse perciò i governi, le banche e gli organismi finanziari internazionali a cercar di porvi rimedio. E finendo con quella argentina del 1989, dove l’inflazione andò fuori controllo e divenne iperinflazione. Un fenomeno che causò panico economico, drammatici effetti sociali e un’acuta crisi politica. E che lungi dal rimanere confinato alla sola Argentina si manifestò in forme virulente, benché in tempi diversi, anche in vari altri paesi: dal Brasile al Perù, dalla Bolivia al Nicaragua. Alla base di quella profonda crisi che colpiva l’America Latina proprio nel delicato passaggio della democratizzazione e quando perciò più avrebbe necessitato d’una robusta crescita economica che le consentisse di rispondere alle grandi aspettative, v’erano vari fattori. Alcuni esogeni, cioè connessi all’economia mondiale e fuori dalla portata dei governi latinoamericani. Ma molti altri endogeni e tali da imporre a tutti delle dolorose scelte. Tra i primi spiccano la stagnazione economica mondiale, il conseguente prosciugamento dei flussi di investimenti e crediti che prima d’allora s’erano diretti verso l’America Latina e soprattutto la brusca ascesa dei tassi di interesse. La quale comportò che i generosi prestiti ottenuti a tassi ridotti negli anni ’70 andarono ora in scadenza a tassi molto elevati, trasformando così il debito in una valanga sul punto di travolgere le già fragili economie regionali. I secondi, cioè i fattori endogeni di quella crisi, ne rivelavano però la natura strutturale. Rivelarono cioè che il modello di sviluppo seguito in diversi modi negli ultimi decenni, quello dirigista e rivolto al mercato interno, aveva chiuso la sua parabola. Quale che ne fosse il bilancio, apparve infatti chiaro 195

La crisi del debito estero All’origine della crisi del debito che negli anni ’80 strangolò i paesi dell’America Latina vi era la peculiare congiuntura finanziaria mondiale del decennio precedente. Negli anni ’70, infatti, quando i prezzi del petrolio s’impennarono a livelli vertiginosi, i paesi esportatori di greggio si trovarono a disporre di enormi capitali che depositarono in gran parte nelle banche statunitensi ed europee. Le banche cercarono a loro volta di trarre il maggior profitto possibile da quell’ingente liquidità facendo generosi e abbondanti prestiti ai paesi in via di sviluppo, tra cui in modo particolare i più grandi e industrializzati dell’America Latina. I quali ritennero di poter così finanziare il loro sviluppo. Proprio all’inizio degli anni ’80 quel meccanismo all’apparenza virtuoso, ma in realtà assai pericoloso, s’inceppò. La stagnazione mondiale, la contrazione delle esportazioni latinoamericane e soprattutto il rialzo dei tassi di interesse fecero di quei debiti dei cappi al collo. E dei cappi così stretti che per diversi anni la regione divenne esportatrice netta di capitali verso i paesi centrali. Da quando nel 1982 il Messico sospese il servizio del debito facendo traballare i creditori, e da quando negli anni successivi cominciò in America Latina ad aleggiare il fantasma di un cartello dei debitori, ventilato in forma radicale da Fidel Castro e in termini più moderati dal presidente peruviano Alan García, la soluzione al problema del debito s’impose in cima all’agenda del continente. E non solo quella economica, ma anche quella politica.



nel corso degli anni ’80 che era ormai obsoleto e che la sua parabola era conclusa. Non solo, ma che si stava trasformando in pericoloso ostacolo. La struttura produttiva dell’America Latina apparve infatti allora inadeguata per reggere la sfida di un mercato sempre più aperto e globale, nel quale essa perdeva quote di commercio e stava mancando l’appuntamento con la rivoluzione tecnologica in corso in molte altre aree del globo. Tali fenomeni erano osservabili nell’inefficienza del parco industriale, in gran parte cresciuto all’ombra del protezionismo e inadatto ad assorbire i giganteschi flussi di popolazione giunti nelle città, e nell’invecchiamento delle infrastrutture. Nonché nei sempre più ingovernabili squilibri dei conti pubblici, afflitti da enormi deficit e 196

Il bubbone del debito cominciò a sgonfiarsi solo sul finire del decennio. Non perché il problema svanisse, ma per la nuova strategia adottata dal governo statunitense di George Bush. Il cosiddetto Piano Brady del 1989, infatti, dal nome del segretario al Tesoro degli Stati Uniti, prendeva atto che la maggior parte dei paesi dell’America Latina non era in condizioni di pagare il debito nei termini previsti. E che i costi sociali che essi avevano sopportato in quel decennio erano talmente elevati da mettere a serio rischio i nuovi regimi democratici. Con la seria eventualità di far precipitare nel caos l’intera regione proprio mentre si chiudeva la guerra fredda e per la prima volta dopo tanto tempo i timori statunitensi per la sicurezza nell’area s’attenuavano. Il Piano Brady accantonò perciò l’ormai tradizionale strategia di ristrutturare di volta in volta il debito e di fornire nuovi crediti per servirne gli interessi in scadenza. Previde invece un pacchetto di misure volte a ridurlo e teso a incoraggiare le riforme economiche dei paesi beneficiari. Riforme liberali, tali cioè da ridurre il peso economico dello Stato, da aprire i mercati alla competizione estera, da incentivare l’ingresso di capitali stranieri e così via. Al Piano, che nel complesso ebbe risultati positivi, aderirono i maggiori e più indebitati paesi della regione. I quali poterono perciò presto attingere nuovamente al mercato dei capitali che s’era chiuso dinanzi a loro per tutti quegli anni. Nel 1991, per la prima volta dall’inizio della crisi del debito, entrarono nelle economie latinoamericane più capitali di quanti ne uscirono.

spesso sul punto d’innescare le spirali inflazionistiche che spazzarono la regione, e nella cronica depressione degli investimenti. La massiccia fuga di capitali verso le rassicuranti rendite garantite dalle banche dei paesi più avanzati, infine, grosso modo pari nel decennio all’ammontare del debito estero, dette il colpo di grazia a quelle economie in affanno e con l’urgente bisogno di riconvertirsi. Cioè di aprirsi e divenire competitive. Ovviare a quegli handicap e risanare i conti non erano però compiti da nulla. Né indolori, dati i costi sociali che comportavano. Costi pesanti, di cui erano riflesso i piani di aggiustamento strutturale negoziati dai governi dell’area col Fondo Monetario Internazionale. I quali prevedevano bruschi tagli alla spesa pubblica per riportare in 197

equilibrio i bilanci pubblici, politiche monetarie restrittive per contenere l’inflazione e radicali svalutazioni per stimolare le esportazioni. Tutte misure gravose per quelle democrazie ancora giovani e lungi dal consolidarsi, dove la fiducia nelle istituzioni politiche rimaneva bassa e dove l’adozione di dure misure sociali, per di più imposte dai creditori esteri, rischiava di alimentare la sempre latente reazione nazionalista. O di risvegliare le appena sopite crociate ideologiche contro l’imperialismo, di cui vi furono infatti taluni segni quando Fidel Castro cercò di assumere, senza riuscirvi, la guida dei paesi debitori. Oppure di scatenare vere e proprie rivolte sociali laddove s’erano accumulati più fattori di scontento. Come accadde nel 1989 in Venezuela, dove il presidente Carlos Andrés Pérez, messo alle strette dal crollo degli introiti petroliferi dopo l’età d’oro degli anni ’70, adottò un piano d’austerità che, tagliando i sussidi a taluni beni primari, scatenò un’ondata di proteste popolari. Proteste la cui violenta repressione, costata circa 300 morti in quello che ancora oggi rimane noto come il caracazo, segnò l’avvio della profonda crisi di uno dei rari regimi politici passati indenni per gli anni ’60 e ’70. Per tutti questi motivi il panorama economico e sociale degli anni ’80 fu in America Latina quanto mai scuro. Ma comunque tale da indurre la Cepal a definirli un doloroso apprendistato. Verso la fine del decennio era qua e là infatti osservabile la ripresa di taluni settori industriali e agricoli divenuti competitivi. L’approccio ai problemi economici tendeva inoltre ad assumere un profilo meno ideologico d’un tempo e più pragmatico. Stavano inoltre gettandosi talune promettenti basi per una più stretta integrazione regionale, specie tra i paesi del Cono Sud, impensabile appena un decennio prima. Cominciavano insomma a profilarsi i profondi cambiamenti degli anni ’90. 3. L’America Centrale in fiamme Mentre l’autoritarismo e la violenza politica andarono scemando negli anni ’80 in molti paesi della regione, lo stesso non valse per l’America Centrale, dove entrambi quei fenomeni raggiunsero proprio allora lo zenit. Per varie ragioni. In primo luogo perché fatta eccezione per il peculiare caso del Costa Rica, dove la democrazia politica era piuttosto solida e gli indicatori sociali assai migliori che altrove nonostante i colpi inferti dalla crisi economica di quel decen198

nio, gli altri paesi dell’istmo avevano strutture sociali e regimi politici assai più arretrati del resto dell’America Latina. La modernizzazione che dagli anni ’60 vi s’era accelerata pose però le basi di radicali rivolgimenti politici e sociali analoghi a quelli che già avevano interessato i paesi più avanzati. Rivolgimenti sorti dalla crescente domanda d’integrazione sociale che incontrò un insormontabile ostacolo nelle rigide gerarchie etniche e sociali che ancora vi prevalevano e nella violenta reazione delle oligarchie al potere. Col risultato che ben tre guerre civili insanguinarono a lungo l’area: in Guatemala, in Salvador e in Nicaragua, dove i rivoluzionari giunsero al potere nel 1979. Il che sollevò lo spettro dell’effetto domino, cioè della caduta sotto i colpi delle guerriglie anche degli altri regimi a rischio. Il secondo, evidente motivo che fece allora dell’istmo centroamericano la zona più conflittuale dell’America Latina ed una delle più calde al mondo fu la rilevanza che assunse nel contesto internazionale dell’epoca. Sia per la sua collocazione geografica e i suoi rapporti da sempre speciali con gli Stati Uniti, sia per l’influenza che Cuba e attraverso di essa l’Unione Sovietica esercitavano nell’area, sia infine per la piega imposta alla guerra fredda dal presidente Ronald Reagan quando nel 1981 entrò alla Casa Bianca, essa divenne allora il crocevia di conflitti che la trascendevano di gran lunga. I già gravi e radicali problemi dell’America Centrale, dunque, si internazionalizzarono. E internazionalizzandosi divennero ancor più laceranti e violenti. Delle guerre civili centroamericane la più lunga e sanguinosa fu quella del Guatemala, dove tra gli anni ’60 e gli anni ’90 le vittime furono circa 200.000, al 90% causate dai massacri dell’esercito e delle squadre paramilitari. Una guerra che aveva la sua lontana origine nella brusca interruzione dell’esperimento populista di Jacobo Arbenz nel 1954 ma che subì un’impennata sul finire degli anni ’70. Da un lato, il governo militare attuò allora una politica di terra bruciata, tesa cioè a fare il vuoto intorno agli insorti ricorrendo alla violenza indiscriminata e alla concentrazione in villaggi speciali della popolazione rurale, nella gran parte indiana. Un processo che raggiunse il culmine quando nel 1982 prese il potere con la forza il generale Efraín Rios Montt che recuperò in tal modo buona parte del territorio un tempo sotto il controllo della guerriglia. La quale, sul fronte opposto, si riunì lo stesso anno in un’organizzazione unica, l’Unidad Revolucionaria Nacional Guatemalteca (Urng), le cui azioni furono tuttavia col tempo sempre più limitate. 199

Monsignor Romero e la Chiesa L’assassinio di monsignor Óscar Romero, mentre diceva messa a San Salvador il 24 marzo 1980, sollevò ovunque un’ondata di indignazione e fu al contempo emblema di quella stagione di cieca violenza che seminò la morte in America Centrale. Una stagione di cui la Chiesa cattolica fu testimone e protagonista, oltre che spesso vittima designata. Tanto che i conflitti che dilaniarono la regione si presentarono nella maggior parte dei casi come guerre religiose che la fendevano al suo interno. Come in Salvador, dove a un governo che pretendeva di legittimare lo sterminio invocando la difesa dal comunismo dell’Occidente cristiano s’opponeva una guerriglia dove militanti cattolici e marxisti lottavano fianco a fianco. O come in Nicaragua, dove la Chiesa contribuì alla caduta dei Somoza ma si trovò presto spaccata dinanzi al governo sandinista. Il quale rivendicò dal primo istante la sua natura insieme cristiana e socialista e nominò ministri ben tre sacerdoti, acuendo così i conflitti con le autorità ecclesiastiche che ne divennero le più intransigenti oppositrici. Perché su tutti i fronti l’invocazione di Dio e della cristianità risuonò così forte a legittimazione di cause opposte? E perché tanti martiri cattolici in paesi cattolici? Governati da militari cristiani in lotta contro guerriglie un po’ marxiste e un po’ cristiane? Come in precedenza altrove, nell’America Centrale si sommarono a quell’epoca crisi da modernità e crisi della cristianità. Innescata la prima dalla rapida erosione dei rapporti sociali tradizionali e dall’apertura al mondo delle comunità tipiche dell’universo rurale e provinciale d’un tempo. E dai loro corollari: la frattura dell’ordine politico elitario e il boom della domanda di partecipazione politica e democrazia sociale. Basti dire, per esempio, che nei vent’anni precedenti l’assassinio di Romero la popolazione del Salvador era quasi rad-



Più breve, ma nei primi anni ’80 altrettanto brutale fu la guerra civile in Salvador. Nel più piccolo ma intensamente popolato paese della regione, dove le violenze erano in corso da tempo ma proprio allora sfociarono in guerra civile aperta. Quando cioè all’indomani del successo rivoluzionario nel vicino Nicaragua, il Salvador divenne per i militari locali e l’amministrazione statunitense la nuova trincea del contenimento prima e del rovesciamento poi di quella che es200

doppiata e quella urbana ancor di più, che il prodotto nazionale si era moltiplicato per tre, il commercio estero per dieci e che la scolarizzazione era triplicata. Riflessa la seconda nella lettura latinoamericana dell’aggiornamento ecclesiale avviato dal Concilio Vaticano II, che trovò nelle condizioni sociali dell’America Centrale terreno quanto mai fertile. Tanto che vi prosperò la Chiesa dei poveri, o Chiesa progressista, ispirata dalla Teologia della Liberazione. In quelle società in rapida modernizzazione e solcate da abissali spaccature, la Chiesa cattolica conservava un vasto potere morale e un profondo radicamento sociale. Non solo, ma alla dottrina cattolica si richiamavano per legittimarsi le opposte fazioni. Si trattava insomma di società poco secolarizzate dove non era comune distinguere tra «popolo» e «popolo di Dio», tra politica e religione. E dove ai militari che s’erano sempre eretti a pilastri dell’unità politica e spirituale della nazione e che nella Chiesa avevano sempre avuto la più salda alleata, risultò inconcepibile e intollerabile che dei giovani imbracciassero le armi in nome di quella stessa cristianità ch’essi invocavano. Cioè che disputassero loro le fonti della legittimità politica e spirituale su cui avevano costruito il loro ruolo e la loro funzione. Contro di essi, perciò, e contro il clero cui imputarono la tolleranza verso il nemico scatenarono la furia tipica di chi si scaglia contro l’eretico, colpevole di aver tradito la causa comune. Quella della nazione cattolica di cui essi si sentivano ancora i guardiani. Visti attraverso il prisma dell’immaginario del corpo ufficiali, quei militanti spesso mossi dal sogno di far la rivoluzione per gettar le basi d’una società veramente cristiana, visceralmente antiliberali e antiamericani, altro non erano che la manifestazione del virus che aveva intaccato l’organismo della nazione; un virus che occorreva debellare, se necessario eliminando anche gli avvelenatori delle menti, i deboli, i «traditori». Tutte odiose imputazioni cui monsignor Romero non sfuggì. E che pagò con la vita.

si giudicavano la sfida comunista. La violenza dell’esercito e ancor più degli squadroni della morte organizzati dalle destre politiche si fece allora endemica e non risparmiò nessuno, nemmeno l’arcivescovo di San Salvador, monsignor Óscar Romero, che ne cadde vittima nel 1980 per averla denunciata. Da parte sua l’opposizione politica e militare si riunì in un comando unico, chiamato Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional-Frente Democratico Re201

volucionario (Fmln-Fdr), che esercitò il controllo su ampie zone rurali e tentò più volte senza successo l’assalto alla Capitale. Proprio l’imperativo d’impedire i flussi di armamenti per la guerriglia salvadoreña e il timore del contagio rivoluzionario furono tra gli argomenti addotti all’epoca dalla Casa Bianca e dai militari del Salvador, cui essa fornì ingenti aiuti e assistenza per attuare una politica aggressiva nei confronti del governo sandinista in Nicaragua. Presieduta da Daniel Ortega, dapprima a capo della Giunta di governo creata dopo la rivoluzione e poi eletto presidente nel 1984 in elezioni disertate da gran parte dell’opposizione, l’esperienza del Nicaragua sandinista suscitò grandi speranze e causò non meno delusioni. Da un lato subì il vero e proprio accerchiamento della maggiore potenza al mondo, gli Stati Uniti, i quali ricorsero a ogni mezzo, salvo l’intervento militare, pur di piegarla: embargo economico, covert actions e soprattutto il finanziamento di un esercito controrivoluzionario, i contras, alle frontiere del paese. Un esercito che col tempo attrasse molti scontenti del nuovo corso politico e che contribuì in grande misura a minare l’economia del paese e la popolarità del governo. Dall’altro lato il governo sandinista manifestò i tipici tratti del populismo latinoamericano. Avviò cioè ambiziosi piani sociali volti a integrare le masse, specie la riforma agraria e una massiccia campagna di alfabetizzazione. Ma tese anche a concentrare il potere e a monopolizzarlo in nome della rivoluzione, alienandosi così il vitale sostegno della Chiesa e del settore privato, presto passati all’opposizione. Contribuirono in tal senso anche gli stretti rapporti con Cuba del governo sandinista. Date tali premesse, non sorprende che la transizione democratica in America Centrale, pur avviata ovunque nella seconda metà degli anni ’80, risultasse per molti aspetti ancor più precaria di quella in corso altrove. E che le istituzioni democratiche nate allora dalle pieghe dell’autoritarismo fossero nella maggior parte dei casi fragili e poco rappresentative, nonché soggette a forti condizionamenti. Sia da parte degli eserciti locali, sia da parte degli Stati Uniti. Così fu in Guatemala, dove il governo sorto dalle elezioni del 1986 fu soggetto a enormi pressioni militari ed evitò di investigare sulle violazioni dei diritti umani. E così fu anche in Salvador, dove le elezioni del 1984 non misero fine alla violenza, la quale bloccò i negoziati tra le parti in lotta, ripresi soltanto all’inizio degli anni ’90. In quanto infine al Nicaragua, gli sforzi diplomatici dei vicini posero le premesse 202

del dialogo tra governo e contras, sfociato nelle elezioni del 1990 dove il dispiegamento di forza statunitense e il tracollo economico causarono la disfatta sandinista e la vittoria elettorale di Violeta Chamorro, candidata dell’opposizione. Col cui successo si chiusero gli scontri armati. 4. La dottrina Reagan e l’America Latina La politica dell’amministrazione Reagan, insediatasi nel 1981 e durata due mandati, individuò nell’America Latina, e in quella Centrale in modo particolare, uno scenario chiave del braccio di ferro con l’Unione Sovietica. Ossia dell’ultima e decisiva fase della guerra fredda che pose fine a un decennio di distensione e si chiuse con l’implosione dell’impero sovietico. In tal senso la politica di Reagan impresse una significativa svolta all’approccio verso la regione del suo predecessore. Tanto infatti Jimmy Carter s’era sforzato di regionalizzare i conflitti locali, quanto Reagan fece il possibile per globalizzarli. Per cogliere cioè in essi una tessera del più grande mosaico della guerra fredda, in cui era la credibilità della potenza statunitense ad essere in discussione e la sua capacità di piegare il braccio dei sovietici e dei loro alleati. Così fu col Nicaragua, contro il quale il suo governo si scagliò fino a ricorrere a mezzi illegali. Cioè a circuire il Congresso che gli aveva negato i fondi per i contras procurandoseli attraverso la vendita clandestina di armi all’Iran, che degli Stati Uniti era nemico. Così fu col Salvador, il cui esercito ottenne più aiuti di qualsiasi altro nella regione. E così fu in generale per l’America Centrale, un’area dove gli interessi statunitensi erano ridotti ma che per sua disgrazia assurse con la rivoluzione sandinista a terreno di scontro tra le grandi potenze. E così fu infine con la piccola Grenada, un’isola caraibica che di latino aveva in realtà ben poco, ma dove Reagan inviò nel 1983 i marines a deporre un regime troppo filocubano. Quel che Reagan e i suoi collaboratori imputarono alla precedente amministrazione fu d’essere stata forte con gli amici e debole con i nemici. Di avere cioè imposto sanzioni e fatto pressioni sui regimi alleati denunciandone la violazione dei diritti umani, senza ottenere risultati se non quello di indebolirli. E di avere viceversa coccolato i regimi nazionalisti, come nel caso di Panama e della restituzione della sovranità sulla zona del Canale, o comunisti, quale Rea203

gan riteneva fosse il Nicaragua sandinista e cui Carter aveva riservato una discreta apertura. Il criterio su cui si basò da allora la politica statunitense verso la regione fu reso esplicito da Jeane Kirkpatrick, Ambasciatrice presso le Nazioni Unite. La quale distinse tra regimi autoritari e regimi totalitari, «recuperabili» i primi, «irrecuperabili» i secondi. Una distinzione che incluse tra i primi le dittature amiche, censurabili ma passibili d’evolvere verso la democrazia. E tra i secondi i regimi di tipo comunista, compresi Cuba e Nicaragua, che di diventare democrazie non avevano alcuna intenzione. Verso i primi, dunque, gli Stati Uniti dovevano tenere una politica ferma ma amichevole. Tale cioè da incoraggiarli alla democratizzazione verso cui già tendevano, purché essa approdasse alla nascita di regimi politici compresi nell’alveo occidentale. Verso i secondi non lesinarono mezzi per renderne completo l’isolamento, nel caso di Cuba, o strangolarli, in quello del Nicaragua. La dottrina che lo stesso Reagan enunciò nel 1985 e in cui proclamò l’impegno degli Stati Uniti a sostenere chiunque nel mondo combatteva l’aggressione comunista, non fece di fatto che ribadire principi analoghi, ai quali in effetti il suo governo s’attenne. Quell’interpretazione in chiave bipolare e in termini ideologici dei conflitti in America Centrale generò anche reazioni e tensioni con vari paesi latinoamericani. Molti dei quali, pur avendo buoni o regolari rapporti con Washington, la ritenevano sia inadeguata, poiché eludeva le radici sociali ed economiche delle crisi in corso, sia potenzialmente minacciosa, poiché legittimava l’interventismo degli Stati Uniti nell’area. Nacque perciò nel 1983 il cosiddetto Grupo de Contadora, formato da Colombia, Messico, Panama e Venezuela, cui due anni dopo dettero il loro sostegno i grandi paesi del Sud America nel frattempo tornati alla democrazia. Col che prese piede il primo serio sforzo diplomatico con cui i paesi dell’America Latina si proponevano di risolvere «in famiglia» le crisi regionali. Uno sforzo che si scontrò con l’ostilità degli Stati Uniti, determinati a non riconoscere in alcun modo il governo del Nicaragua, ma che ebbe comunque un ruolo chiave nella firma degli accordi di pace raggiunti dai presidenti dell’America Centrale nel 1987. I quali valsero il premio Nobel per la pace al presidente del Costa Rica, Oscar Arias. Quando nel gennaio 1989 George Bush s’insediò alla Casa Bianca e tempo pochi mesi il crollo del Muro di Berlino rivoluzionò d’un tratto l’ordine internazionale, il contesto dell’America Latina era profon204

1989, invasione a Panama Avvenuta mentre il mondo e l’America Latina seguivano stupefatti il fragoroso crollo dell’impero sovietico in Europa orientale, l’operazione Giusta Causa, come fu denominata in codice l’invasione a Panama, fu un’operazione militare in vecchio stile. Ossia un intervento armato volto a cambiare il regime politico locale e ad esportarvi la democrazia che Manuel Noriega teneva in ostaggio. Il fatto che lo stesso Noriega fosse stato in passato un prezioso collaboratore dei servizi segreti statunitensi alle prese coi conflitti centroamericani non bastò a preservarne il potere. Nel momento, infatti, in cui quei conflitti s’avviavano a soluzione e la minaccia sovietica svaporava d’incanto, anche coloro che come Noriega erano stati degli utili per quanto indigesti alleati tornavano ad essere per gli Stati Uniti ciò che da alcuni anni si sapeva che fossero. Nella fattispecie, un uomo non solo dedito all’esercizio di poteri dittatoriali che rappresentava ormai una macchia nel mezzo d’una regione in fase di democratizzazione, ma anche un corrotto protettore dei traffici di droga il cui terminale erano gli Stati Uniti. In quel caso la politica di sanzioni avviata da Reagan nel 1987 per liberarsi di quell’uomo ormai scomodo e favorire la transizione democratica a Panama non aveva sortito effetti. Semmai aveva spinto Noriega a cavalcare la causa nazionalista e ad irrigidire ancor più il suo regime, macchiatosi di numerosi crimini, il più noto dei quali fu l’assassinio di Hugo Spadafora, un noto oppositore. Fu allora che, incurante delle reazioni internazionali, tanto indignate quanto inefficaci, e forte dell’enorme prestigio e potere che agli Stati Uniti conferiva il concomitante crollo del nemico sovietico, George Bush e il suo governo ritennero d’impiegare le vecchie maniere, reminiscenti dell’ormai lontanissima epoca del big stick. Con successo, dal momento che Noriega, dapprima rifugiatosi nella Nunziatura vaticana, finì per essere catturato e deportato negli Stati Uniti, dove fu processato e condannato. E che il grosso della popolazione panamense confidò alle inchieste il suo favore per quanto accaduto. Ma anche con costi molto esosi, dato che, lungi dall’essere chirurgica come promesso, l’operazione Giusta Causa comportò vasti bombardamenti nei quartieri dove maggiore era il seguito popolare del dittatore deposto. Bombardamenti che causarono numerose vittime, tra le 1.000 e le 4.000 secondo diverse stime, in gran parte civili.

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damente cambiato rispetto ad un decennio prima. E non solo in Sud America, dove anche il Cile s’avviava a concludere la sua transizione e di lì a poco fu deposto il più longevo dittatore della regione, il generale Stroessner in Paraguay. Ma anche in America Centrale, dove i negoziati di pace erano in corso e s’annunciavano elezioni in Nicaragua. Che tutto ciò si dovesse alle politiche di Ronald Reagan, come sostengono taluni, che avvenisse nonostante esse, come altri ritengono, o che infine fosse il frutto di un’evoluzione storica su cui gli Stati Uniti incidevano in realtà fino a un certo punto, rimane il fatto che l’amministrazione Bush si trovò dinanzi un contesto molto meno conflittuale del predecessore. E forse per questo iniziò a voltar la pagina della politica statunitense verso la regione, prediligendo un approccio più diplomatico e meno ideologico ai suoi conflitti e badando in particolar modo di contribuire a tappare le profonde falle aperte dal «decennio perduto». Da qui l’impegno assunto sul fronte economico col già ricordato Piano Brady. Col nemico sovietico in ginocchio, d’altra parte, l’ossessione statunitense per la sicurezza scemò di colpo e i rapporti con l’America Latina tornarono poco a poco ad instradarsi su binari più tradizionali. In un caso, però, l’arma usata da Bush non fu quella della politica e della diplomazia, bensì l’invasione militare. Fu a Panama, dove nel dicembre 1989 sbarcarono 20.000 militari statunitensi per deporre e catturare il generale Manuel Noriega, l’uomo forte che vi deteneva le redini del potere. Con essa i rapporti tra Stati Uniti e America Latina entrarono in una fase nuova, non più dominata come la guerra fredda dallo spettro comunista che aleggiava per l’emisfero ma da altri, più prosaici ma non meno importanti, problemi. In testa ai quali spiccavano la produzione e il traffico di stupefacenti in numerosi paesi dell’America Latina. 5. Le nuove democrazie. Speranze e limiti Il ritorno della democrazia o il suo inedito avvento in gran parte dell’America Latina suscitò un po’ ovunque, sia nelle opinioni pubbliche che nelle scienze sociali, un accalorato dibattito e ancor più accese speranze sull’età nuova che vi s’apriva. Le grandi manifestazioni che l’accompagnarono in molti paesi erano in effetti tali da nutrirle e da far pensare che il futuro sarebbe stato molto diverso dal passato. Quel che in esse si soleva infatti rivendicare non era un or206

dine giusto e puro in nome di qualche ideologia redentrice, bensì elezioni trasparenti e giustizia per i crimini delle dittature contro i diritti umani; libertà e democrazia, insomma. In America Latina pareva insomma aver attecchito una nuova cultura democratica prodotta da una ancor più nuova società civile, capace di mettere per sempre fine al cronico alternarsi tra inclusione populista ed esclusione militare e di rendere per la prima volta sostenibile nel tempo la democrazia. Una società civile che si caratterizzava sia per la sua fiducia nelle istituzioni democratiche come naturale mezzo per raggiungere più equità sociale, sia per la sua indipendenza dallo Stato. Con i numerosi movimenti sociali che formavano quella nuova galassia, sia movimenti sindacali sia gruppi religiosi, sia organizzazioni per i diritti umani sia associazioni femministe, parve insomma in quel clima d’effervescenza chiudersi la lunga parabola storica del corporativismo latinoamericano e del suo immaginario olistico. Quello che concependo l’ordine sociale come un’unità organica portava in un modo o in un altro a negarne la pluralità, a inibirne le istituzioni deputate a governarla e a imporre l’unanimità politica e spirituale. E parve per contro aprirsi una stagione propizia perché infine attecchissero nella regione la cultura del diritto e delle libertà individuali, della tolleranza e del pluralismo. Non tutte tali speranze si rivelarono infondate. Difatti molti paesi gettarono in quegli anni le fondamenta dell’ordine democratico che ancora perdura. Ma non tutto quel che accadde allora e in seguito confortò le aspettative e dette ragione a tanto entusiasta ottimismo. Molti fatti e numerose crisi indussero infatti presto a riconoscere che né la società civile era sempre così robusta e virtuosa come si pensava, né le strutture mentali e materiali del passato s’erano d’un tratto polverizzate. Complice la drammatica crisi economica, infatti, molti e ben aggrovigliati nodi giunsero al pettine nella gran parte di quelle giovani democrazie. O anche in quelle che pur essendo più antiche non per questo godevano di miglior salute. Gli esempi si sprecano, a cominciare dai più grandi paesi della regione. E in particolar modo dal caso argentino, dove il divario tra aspettative e risultati fu forse maggiore. Giunto alla presidenza sull’onda d’una catarsi democratica senza precedenti e da essa condotto al processo dove i comandanti della dittatura furono condannati davanti agli ammirati cronisti di tutto il mondo, Raúl Alfonsín si trovò presto schiacciato tra la reazione militare e quella sindacale. La prima 207

espressa in numerose rivolte nelle caserme e la seconda nella lunga teoria di scioperi generali che costellò quegli anni, finché colui che nel 1983 aveva impersonato la rinascita del paese sei anni dopo fu costretto dall’iperinflazione a cedere anzitempo il potere al successore. Nemmeno in Brasile la nuova democrazia s’avviò subito su un letto di rose. La nuova Costituzione approvata nel 1988 le fece senz’altro fare numerosi passi in avanti, introducendo l’elezione diretta a suffragio universale del presidente, restaurando il principio federale calpestato dai militari, riconoscendo il diritto di sciopero e varie altre libertà civili. Ma la sua rigidità si dimostrò in fretta d’ostacolo alle profonde riforme economiche e sociali di cui il paese aveva urgente bisogno per ovviare al fallimento del piano d’austerità poc’anzi introdotto. La prima presidenza democratica si chiuse perciò con una grave crisi economica e numerosi scandali, il che giovò all’elezione di Fernando Collor de Mello. Un outsider che ricorse alla tipica retorica antipolitica dei populismi, rappresentando una parentesi poco propizia al consolidamento della democrazia in Brasile. Ma una parentesi breve, che già nel 1992 si chiuse quando Collor lasciò l’incarico perché implicato in una rete di corruzione. Ma anche in Messico le aspettative democratiche degli anni ’80 si schiantarono alla fine del decennio contro vecchi e noti ostacoli. L’ormai decrepito sistema del Pri parve infatti giunto allora al capolinea, man mano che i suoi piani d’austerità fallivano, lo scontento cresceva e la popolazione reclamava cambiamenti eleggendo i candidati dell’opposizione in taluni Stati della Federazione. Dal corpo del Pri si distaccò allora una costola che, invocando più democrazia ed equità, fondò un nuovo partito e si coalizzò con le altre opposizioni in vista delle elezioni presidenziali del 1988. La svolta pareva imminente, ma la vittoria che vi riportò ancora una volta il Pri nel mezzo di insistenti denunce di massicce frodi la ricacciò indietro. Benché per poco. Ma se tali e tanti erano gli intoppi della democrazia nei più grandi paesi, e se ancor maggiori e ben più gravi quelli che l’attanagliavano nelle piccole repubbliche dell’America Centrale, la situazione non era per nulla rosea nemmeno nei paesi andini. Dove la democrazia palesava ancor più che altrove evidenti segni di fragilità. Cominciando dal Perù, dov’essa visse sotto la spada di Damocle della violenta guerriglia di Sendero Luminoso, un movimento terrorista uscito dal partito comunista peruviano creatore di un’ideologia rivoluzionaria indigenista che resuscitava il mito del comunismo in208

Venezuela e Colombia, democrazie malate Quando negli anni ’70 l’America Latina giaceva per la gran parte sotto il tallone militare, Colombia e Venezuela spiccavano come rare oasi di governo civile e democrazia rappresentativa. Quando però negli anni ’80 la regione s’avviò verso la democrazia, le pecche di entrambe divennero più evidenti e se la Colombia, pur piagata dalla violenza, non cambiò regime politico, il Venezuela entrò in una lunga crisi che nel decennio successivo ne causò il drastico mutamento. La violenza che sempre aveva caratterizzato la storia colombiana divenne negli anni ’80 ancor più aspra ed endemica, facendone uno dei paesi più pericolosi al mondo. A contenerne le cause si rivelò insufficiente il sistema politico tradizionale, monopolizzato dai partiti liberale e conservatore, i cui piani di pacificazione fallirono costantemente. Le origini della violenza erano molteplici, ma due prevalevano sulle altre. La prima era la guerriglia, sopravvissuta nelle zone rurali della Colombia mentre andava sparendo nel resto della regione, e il suo opposto, i violenti gruppi paramilitari sorti in vaste zone del paese per combatterla. Forze cui s’aggiungevano i servizi di sicurezza statali, sia l’esercito che la polizia, dove il ricorso alla violenza indiscriminata divenne sempre più frequente. La seconda causa della violenza era il narcotraffico, al cui vertice s’imposero in quegli anni i grandi cartelli criminali di Medellín e Cali, i cui ricchi e potenti tentacoli si spinsero in ogni ganglio della vita nazionale, dalla politica alle Forze Armate, dalla guerriglia ai suoi nemici, ora corrompendo, ora uccidendo. I bruschi saliscendi del prezzo internazionale del petrolio dettero invece allora un colpo brutale alla tenuta del sistema politico venezuelano. Dove i due partiti tradizionali, il democristiano Comité de Organización Política Electoral Independiente (Copei) e la socialdemocratica Acción Democratica, avevano profittato delle vacche grasse degli anni ’70 per avviare ambiziosi piani di sviluppo e ampliare la propria base elettorale distribuendone la rendita, ma soffrirono ora di quelle molto magre del successivo decennio. Quando perciò ricorsero a drastici piani d’austerità, le proteste dilagarono. Sia nei ceti popolari, che ne sopportarono il maggior peso; sia in quelli intermedi, cui risultava difficile adattarsi a severi tagli in quel paese cresciuto nel mito dell’infinita ricchezza petrolifera. Il tragico e già ricordato caracazo del 1989 e il golpe tentato tre anni dopo dal colonnello Hugo Chávez furono evidenti sintomi che il sistema era allo stremo.

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caico. E dove il mandato del giovane Alan García, che per la prima volta portò alla presidenza l’Apra, si chiuse nel mezzo del disastro economico e di gravi scandali. E continuando con Bolivia ed Ecuador, dove la recessione economica aggravò ancor più le lacerazioni di un tessuto sociale già profondamente diviso in termini sia etnici che sociali. Tanto che i rigidi piani di aggiustamento strutturale adottati dai governi di entrambi i paesi vi sollevarono vaste proteste e che dalla fine del decennio l’opposizione iniziò a coniugare le vecchie correnti marxiste e il nuovo indigenismo. Una miscela da allora destinata a crescere sempre più e a contestare le basi della democrazia liberale appena fondata. Bibliografia Coronil, Fernando, The magical state: nature, money, and modernity in Venezuela, Chicago: University of Chicago Press, 1997. Crandall, Russell, Gunboat democracy: U.S. interventions in the Dominican Republic, Grenada, and Panama, Lanham: Rowman & Littlefield Publishers, 2006. De Giuseppe, Massimo (a cura di), Oscar Romero: storia, memoria, attualità, Bologna: Emi, 2006. Devlin, Robert, Debt and crisis in Latin America: the supply side of the story, Princeton, N.J.: Princeton University Press, 1989. LeoGrande, William M., Our own backyard: the United States in Central America, 1977-1992, Chapel Hill, NC: University of North Carolina Press, 1998. Morley, Samuel A., Poverty and inequality in Latin America: the impact of adjustment and recovery in the 1980s, Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1995. O’Donnell, Guillermo, Schmitter, Philippe C. e Whitehead, Laurence, Transitions from authoritarian rule, Latin America, Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1986. Palermo, Vicente, Sal en las heridas: las Malvinas en la cultura argentina contemporánea, Buenos Aires: Sudamericana, 2007. Stern, Steve J.(edited by), Shining and other paths: war and society in Peru, 1980-1995, Durham: Duke University Press, 1998. Waisman, Carlos H. e Rein, Raanan (edited by), Spanish and Latin American transitions to democracy, Portland: Sussex Academic Press, 2005.

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L’età neoliberale

1. Mercati aperti e globalizzazione Se la politica aveva dominato l’agenda latinoamericana negli anni ’80, il decennio della transizione democratica, gli anni ’90 sancirono il primato dell’economia. Fu allora che la svolta liberista che alcuni paesi, Cile in testa, avevano già avviato, s’impose ovunque dando la sua impronta a gran parte del decennio. E non solo sul piano economico, ma anche politico e ideologico, dov’essa occupò il centro della scena, sia per chi ne era fautore, sia per chi nel corso degli anni organizzò contro di essa una crescente opposizione. Benché però le misure economiche fossero più o meno le stesse ovunque, e benché la vulgata abbia poi descritto quegli anni a tinta unica, quasi che tutto e tutti camminassero all’unisono in un’unica direzione, le profonde riforme adottate allora non lo furono allo stesso modo né in contesti ovunque uguali. Né ebbero perciò dappertutto gli stessi esiti politici e le stesse conseguenze sociali. Vediamo intanto di cosa si trattò, ricordando innanzitutto che sulla necessità di una svolta esistette per gran parte del decennio ampio consenso. E che i governi che ne furono protagonisti contarono spesso e a lungo su un ampio voto popolare. A tale consenso contribuirono vari motivi, tra i quali pesò forse più di ogni altro il punto senza ritorno raggiunto in molti paesi dalla crisi economica. Il che obbligò i governi entranti ad attuare le riforme di mercato fino ad allora rinviate. In taluni casi, per esempio quelli più noti di Argentina 211

e Perù, «senza anestesia», come si disse all’epoca. Cioè in tempi ristretti e modi imperativi. In altri casi, come ad esempio in Uruguay e in certa misura Brasile e Messico, con maggiore gradualità e rispetto per le procedure democratiche. Ma in cosa consistettero in concreto quelle riforme? Per iniziare furono riforme strutturali. Tali cioè da modificare le basi stesse del sistema produttivo e finanziario dei paesi dell’America Latina così come s’era formato durante i decenni di sviluppo verso l’interno. Il loro obiettivo di fondo fu nel complesso quello di aprire le economie locali alla competizione internazionale per obbligarle a divenire più efficienti e innovative e di accrescervi il ruolo del capitale privato a spese di quello dello Stato. Dal commercio alla finanza, dal mercato del lavoro alla previdenza sociale, ogni settore ne fu perciò investito, benché non ovunque in modi e quantità eguali. Loro priorità fu quella di ristabilire le condizioni dell’equilibrio macroeconomico, riassorbendo gli enormi deficit pubblici, riportando sotto controllo l’inflazione, risanando la bilancia dei pagamenti. Per raggiungere tali obiettivi i governi della regione ricorsero a massicci piani di privatizzazioni d’imprese pubbliche, alla liberalizzazione di settori prima considerati strategici e perciò preclusi al capitale privato, alla riduzione delle barriere commerciali. Tutte misure a loro volta tali da incoraggiare l’afflusso d’ingenti capitali esteri, spesso attratti da legislazioni molto favorevoli. Quale fu il bilancio di quelle misure? Quello economico, per ora, poiché su quello sociale e politico si tornerà in seguito. Prima che alla fine del decennio iniziasse una grave recessione destinata a far tremare e a volte crollare il nuovo modello, l’economia crebbe, benché più in fretta nella prima che nella seconda metà del decennio. Non a ritmi eccezionali, poiché inferiori a quelli di molte altre aree e a quelli registrati in passato dall’America Latina, né sufficienti a colmare i gravi gap sociali dell’area, ma almeno tali da invertire il segno negativo del «decennio perduto». Negli anni ’90 il prodotto pro capite crebbe infatti in media dell’1,6% annuo. Benché a ritmi diversi da paese a paese, con Cile, Perù e Argentina in testa e Venezuela, Ecuador e Paraguay in coda. Più corposi furono il costoso sforzo di ripianare i conti pubblici, i cui deficit scesero pressoché ovunque a livelli fisiologici, e quello non meno colmo di sacrifici di ridurre l’inflazione, poco a poco condotta ai livelli più bassi da molti decenni. Un risultato, questo, che tanto giovò ai successi elettorali di vari governi, ai quali andò il 212

Il «Washington Consensus» Dati i loro tratti dominanti, gli anni ’90 sono spesso ricordati come l’età del Washington Consensus. Col che si allude, spesso con fare polemico, ad un’epoca di armonica sintonia tra il governo degli Stati Uniti e i grandi organismi finanziari internazionali, tutti d’intesa decisi a imprimere una brusca accelerazione alla liberalizzazione dei mercati latinoamericani. In tal senso, sia eminenti critici sia la vulgata hanno spesso fatto di quell’espressione un sinonimo di neoliberalismo, cioè di una filosofia economica fedele ai dettami del monetarismo e determinata a smantellare lo Stato. A creare in altri termini uno Stato minimo, disinteressato alle politiche di welfare. Col risultato di imputare alle politiche che ne scaturirono l’aggravamento della povertà e delle disuguaglianze in America Latina. Benché tale lettura sia ammissibile, purché distingua tra differenti casi ed esiti, ed è comunque ormai corrente, è giusto ricordare che l’espressione Washington Consensus fu coniata nel 1990 dall’economista John Williamson. Il quale non ne scrisse per proporre un determinato modello di sviluppo, per di più neoliberale, ma alludendo a quel che avevano in comune e di più adeguato all’America Latina le ricette economiche consigliate ai suoi governi dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca Mondiale e dal Tesoro degli Stati Uniti. Tutte istituzioni con base a Washington. E cioè le raccomandazioni di liberalizzare il commercio, di privatizzare, di adottare tassi di cambio tali da favorire la competitività, di favorire l’ingresso di capitali esteri, di dare garanzie giuridiche alla proprietà privata. Ma anche di adottare riforme fiscali capaci di ampliare la base impositiva e di concentrare la spesa pubblica nei settori sanitario ed educativo, in modo da favorire la distribuzione della ricchezza. Misure, queste ultime, di cui Williamson difese l’estraneità alla filosofia neoliberale.

massiccio voto dei vasti strati sociali cui l’inflazione aveva assestato colpi letali. E fu inoltre allora che l’economia dell’America Latina si può dire ch’entrò appieno nel flusso della cosiddetta globalizzazione. Che s’integrò cioè a ritmi serrati alla rapida crescita degli scambi internazionali, cui partecipò non solo col boom delle esportazioni, cresciute allora a tassi più elevati di qualsiasi altra epoca della sua storia, col Messico a far la parte del leone. Ma anche con la loro crescente dif213

L’integrazione regionale Benché negli anni ’90 l’America Latina non sia stata esente da conflitti e perfino, nel 1995, da una breve guerra tra Perù ed Ecuador per una antica e mai sopita questione confinaria, il decennio fu semmai connotato dalla rapida crescita dei rapporti tra paesi latinoamericani. Rapporti economici, ma anche politici. Se è infatti vero che i primi ed ambiziosi tentativi di promuovere l’integrazione economica dell’area o di talune sue parti risalivano agli anni ’60, lo è anche che le istituzioni create a tal uopo avevano nella maggior parte dei casi avuto portata limitata o bruschi saliscendi. Complice l’apertura delle economie locali, quel che si produsse invece nell’ultimo decennio del secolo fu una forte crescita degli scambi tra paesi latinoamericani, sia all’interno degli accordi preesistenti, come il Patto Andino, sia di quelli appena sorti, come il Mercosur, il Mercato Comune del Sud fondato nel 1991 da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay. Della crescente differenziazione della struttura produttiva di taluni paesi, specie i più grandi e industrializzati come Brasile e Messico, dette prova nella stessa epoca la moltiplicazione degli investimenti diretti realizzati da talune loro compagnie, sia pubbliche che private, negli altri della regione, specie per acquisire diritti nel campo minerario e



ferenziazione, cioè l’inclusione di un maggior numero e diverse tipologie di merci, benché assai più in America Centrale e in Messico che nelle repubbliche del Sud America, dove il processo fu assai più lento. Le riforme strutturali, in sintesi, giovarono più alla disciplina economica e all’apertura commerciale che alla crescita, la quale ne ricevette solo una tenue spinta. E cui non contribuirono i bassi tassi d’investimento e la ridotta competitività del tessuto industriale latinoamericano. I quali rallentarono la necessaria trasformazione della struttura produttiva regionale e la crescita della sua produttività, rimasta in generale piuttosto bassa, salvo nei settori appena privatizzati, così diversi dagli altri da configurare una vera e propria eterogeneità strutturale. La maggior parte dei paesi latinoamericani accrebbe inoltre durante gli anni ’90 la dipendenza dai flussi finanziari internazionali. 214

in generale nello sfruttamento di materie prime. I duri effetti su tali sviluppi della grave crisi di fine decennio ne misero però in luce i limiti strutturali e in particolar modo la debolezza istituzionale dei processi di integrazione in America Latina. Un caso a parte, in tale quadro, è quello del North American Free Trade Agreement (Nafta) formato da Canada, Stati Uniti e Messico. Entrato in vigore nel 1994 dopo lunghi e complessi negoziati, il Nafta creò la più vasta zona di libero commercio al mondo, estesa a circa 450 milioni di persone. Sui suoi effetti esistono pareri molto difformi, pur essendo indiscutibili taluni dati, specie la lievitazione del commercio tra i paesi partner dopo la firma del trattato e il crescente radicamento in Messico di numerose industrie statunitensi, perlopiù di assemblaggio e nel nord del paese, le cosiddette maquiladoras. In generale il Nafta ha contribuito a ridurre la povertà in vari Stati messicani accrescendovi l’occupazione e il reddito pro capite. Al contempo ha danneggiato taluni settori agricoli, colpiti dalla competizione dei prodotti statunitensi. Di certo ha avuto l’effetto di stringere ancor più i legami tra Messico e Stati Uniti. Legami che la storia, la geografia e i milioni di messicani trapiantanti a nord del confine, molti legalmente e altrettanti in clandestinità, rendono speciali e fanno del Messico un paese in gran parte avulso dai dilemmi sull’integrazione politica ed economica che assillano invece il Sud America.

Fintanto che nella prima metà del decennio giunsero in quantità attratti dalle ghiotte privatizzazioni in corso, le riforme dettero nel complesso buoni risultati e parvero sostenibili. Quando invece il ciclo s’invertì e il flusso s’interruppe o si fece più erratico, si palesò l’elevata vulnerabilità delle economie latinoamericane ai fattori esterni, specie ai cicli del mercato finanziario globale. Non a caso le crisi finanziarie, ora più lunghe e gravi ora meno, si succedettero in diversi paesi, a cominciare da quella scoppiata in Messico nel 1994 e al cosiddetto effetto tequila che contagiò l’area, e culminando in quella argentina del 2001, la più drammatica e profonda, quando il governo di Buenos Aires annunciò la cessazione dei pagamenti ai creditori, entrando così in ciò che tecnicamente si suole chiamare default. Crisi dovute alla enorme volatilità dei capitali esteri ma anche alle politiche monetarie di molti paesi dell’America Latina. 215

2. La società latinoamericana negli anni ’90. I nuovi movimenti Il panorama sociale dell’America Latina nell’età neoliberale non fu per nulla brillante. Anzi, si produsse allora un evidente scarto tra il ritorno alla crescita economica, non imponente ma concreta, e il peggioramento di numerosi indicatori sociali. Con grandi differenze da paese a paese, dato che le cose andarono meglio in taluni casi, come Uruguay e Cile, Messico e Panama, e decisamente peggio in altri. Ma tale fu nel complesso il tratto dominante dell’epoca. A partire dall’occupazione, che diminuì invece di crescere e che dove fu in parte riassorbita fu nella maggior parte dei casi per la crescita di impieghi marginali, poco o nulla produttivi. Se è poi vero che molte più donne che in passato entrarono in quegli anni nel mondo del lavoro, il che rappresentò un chiaro segno di modernizzazione sociale, lo è anche che la breccia tra i guadagni dei lavoratori specializzati e quelli del vasto settore informale s’ampliò ancor più, a conferma della eterogeneità strutturale già menzionata, cioè dell’esistenza di settori produttivi e mercati del lavoro del tutto estranei gli uni agli altri. All’aumento della disoccupazione e della sottoccupazione fece in parte da contraltare la crescita della spesa sociale. Una circostanza forse inattesa in un’età neoliberale, ma comunque tale da portarla su livelli mai raggiunti prima nella storia dell’area. Sia in taluni paesi già noti per guidare le graduatorie in materia, come Costa Rica, Uruguay, Panama e Brasile, ma anche in altri che prima d’allora le avevano dedicato quote assai minori del bilancio, come Bolivia e Colombia. Il che non toglie che la qualità dei servizi sociali così prestati variasse molto a seconda del ceto che ne beneficiava, essendo in molti casi molto deficitaria nelle zone rurali e nei quartieri popolari. I riflessi di queste tendenze sugli elevati tassi di povertà dell’America Latina non furono tali da farli recedere granché. O meglio, le famiglie che vivevano in povertà si ridussero dal 41% al 37% dall’inizio del decennio al 1997, salvo tornare a crescere quando al volgere del millennio iniziò una nuova recessione. Ma in termini assoluti i poveri restarono oltre 200 milioni, più di quanti fossero prima del «decennio perduto». Detto ciò, le differenze da un paese all’altro furono o rimasero talmente ampie da rendere sempre più acute le distanze tra diversi livelli di sviluppo. Sia per l’enorme divario tra i paesi dove il tasso di povertà fu contenuto entro il 20% della popola216

zione, come Uruguay, Argentina, Cile e Costa Rica, e quelli dove s’attestò intorno al 50%, come Bolivia, Ecuador e Colombia. Sia perché tanto quel tasso scese in taluni casi, soprattutto in Cile, ma anche in Brasile, Perù ed Argentina, quanto invece lo fece assai meno o non lo fece affatto in molti altri. La vera nota dolente dello scenario sociale latinoamericano negli anni ’90 è però la disuguaglianza, già molto acuta prima d’allora e in generale rimasta immutata, o addirittura peggiorata nel corso del decennio. Salvo in Uruguay, dove crescita economica e distribuzione del reddito camminarono più in sintonia che altrove, e Cuba, dove le differenze sociali rimasero minori che negli altri paesi della regione ma s’associarono in quegli anni a una forte riduzione del reddito per abitante. Storici ed economisti non sono però concordi nel valutare tale fenomeno. Nel determinare cioè se e fino a che punto tali disuguaglianze siano imputabili al modello economico dell’età neoliberale o a tendenze di ben più lungo periodo. Per i critici del liberalismo, vecchio e nuovo, non v’è dubbio che esso abbia ancora una volta causato la lacerazione di un tessuto sociale altrimenti più equo e coeso. Per altri, liberali o di altre tendenze, gli elevati livelli latinoamericani di disuguaglianza sociale, tra i peggiori al mondo, avrebbero subito l’impatto negativo delle politiche neoliberali del tempo, ma sarebbero in quanto tali assai più antichi e frutto delle fratture storiche che lacerano le società dell’area fin dalle origini. Fratture per sanare le quali non basterebbero perciò talune riforme economiche, ma più lunghe, lente e faticose trasformazioni politiche e culturali. Ma il panorama sociale dell’America Latina negli anni ’90 apparirebbe monco se non si segnalasse la crescente nascita nelle sue pieghe o perfino alla sua ribalta di vari movimenti sociali. Movimenti talvolta solidi e duraturi, altre volte più effimeri, a volte spontanei e autonomi e altre volte legati a soggetti tradizionali come sindacati e chiese o allo Stato e alle sue clientele, a volte sorti tra ceti medi e professionali ed altre, la maggior parte, tra gruppi marginali. Tali movimenti nacquero dal ritorno della democrazia in poi per dare risposta e rappresentanza a una grande varietà di istanze sociali: dal femminismo all’ecologismo, dalla difesa dei servizi pubblici all’auto-organizzazione di quartiere per far fronte a crisi e disoccupazione, da nuove forme di sindacalismo come nel caso dei cocaleros boliviani, produttori di foglie di coca contrari ai piani di sradicamento, all’or217

Il Chiapas zapatista Stato indiano per eccellenza, ed ancor più da quando negli anni ’80 cominciarono a confluirvi in massa i rifugiati in fuga dal conflitto in corso nel vicino Guatemala, indiani anch’essi, che vi acuirono le già forti contraddizioni, lo Stato messicano del Chiapas possedeva all’epoca, come possiede in gran parte ancora oggi, una struttura sociale più simile alle repubbliche centroamericane che alla maggior parte degli altri Stati messicani. A caratterizzarla era infatti la sovrapposizione tra due profonde spaccature sociali: quella di classe, tra una ristretta élite di proprietari terrieri e la maggioranza priva di terra, e quella etnica, essendo la minoranza meticcia e la maggioranza indiana. Data tale premessa, sia la crescita del clero dedito alla difesa e organizzazione della popolazione indiana, sia la nuova attenzione prestata da molti militanti marxisti alla questione indiana dopo il riflusso delle ideologie rivoluzionarie crearono le condizioni dell’insurrezione. La quale assunse significato antimperialista iniziando il giorno in cui entrava in vigore il trattato di libero commercio che legava il Messico a Stati Uniti e Canada, nel quale gl’insorti denunciarono la svendita della sovranità nazionale. Rivendicazioni sociali, la riforma agraria in primis, e rivendicazioni etniche, cioè il riconoscimento del diritto della popolazione indiana locale ad una larga autonomia e di governarsi in base ai propri costumi comunitari, furono i pilastri del programma dell’Ezln. Il quale era nel complesso un esercito di ridotte dimensioni, circa 2.000 uomini, composto in gran parte da contadini indiani ma ispirato dal suo leader informale, il subcomandante Marcos, un intellettuale di città divenuto celebre per le sue abili e originali tecniche comunicative. Anche la fase più acuta della guerriglia durò in realtà poco e non fu molto cruenta, specie se rapportata ai feroci conflitti conclusisi poc’anzi in America Centrale: causò infatti circa 150 vittime. Nel 1996 l’Ezln e il governo messicano firmarono degli accordi di pace sul cui mancato rispetto da parte delle élites locali, resesi responsabili di violente repressioni, e dell’esercito cominciarono presto a manifestarsi tensioni, che indussero i guerriglieri a dichiarare unilateralmente l’autonomia di taluni municipi. Nonostante un nuovo accordo tra governo ed Ezln raggiunto nel 2000, cui il Parlamento pose però presto numerosi ostacoli, il conflitto è andato poco a poco sgonfiandosi, un po’ per i piani sociali adottati dal governo per alleviarne le radici e un po’ per consunzione interna. Più che sparire, si può insomma dire che sia rientrato nel suo alveo locale.

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ganizzazione dell’occupazione delle grandi proprietà terriere per ottenerne la distribuzione, come in quello dei Sem Terra brasiliani. Pur così diversi tra loro, ciò che in genere tese fin da allora ad avvicinarli fino a farne per certi versi una rete che dal 2001 dette vita a Porto Alegre al Forum Sociale Mondiale fu sia il radicale antiliberalismo, sia l’invocazione di un orizzonte sociale comunitario. Il che li fece i naturali eredi, nel nuovo contesto, dell’humus culturale e ideologico accumulatosi nel tempo come riflesso della confluenza di marxismo e cristianesimo in America Latina. Un humus di cui comunitarismo e antiliberalismo erano e rimanevano gl’ingredienti principali. La loro anima più robusta e radicata nella storia e la società locali fu fin d’allora l’indianismo. Il quale aveva alle spalle una lunga storia ma che dagli anni ’90 cominciò a manifestarsi nei paesi o nelle regioni dell’America Latina dove le divisioni etniche restavano profonde ed insolute. E non più solo come un movimento sociale in grado d’attrarre un crescente seguito, ma sempre più come una corrente ideologica e un movimento politico. O addirittura come un movimento armato, come accadde in Chiapas, nel Messico meridionale, dove il 1° gennaio 1994 l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (Ezln) annunciò d’avere imbracciato le armi contro lo Stato. 3. Luci e ombre delle democrazie latinoamericane In termini generali è corretto dire che la democrazia continuò negli anni ’90 a diffondersi in tutta l’America Latina. Così infatti come dall’inizio del decennio anche il Cile la recuperò e nel corso degli anni cominciò a liberarla dalla camicia di forza costruitale intorno dai militari, lo stesso si può dire del Messico, che proprio allora completò la sua lunga liberalizzazione politica. Ed anche i piccoli paesi dell’America Centrale dal passato tormentato e dalle ferite dei recenti conflitti ancora sanguinanti s’avviarono, nella maggior parte dei casi per la prima volta nella loro storia, verso la democrazia. Le elezioni, il pluralismo, la tutela dei diritti individuali divennero insomma ovunque, con l’eccezione della Cuba castrista, i cardini dei regimi politici latinoamericani. Il che parve confermare che, finita la guerra fredda, l’America Latina era infine sul punto di completare il suo lungo e assai travagliato viaggio verso la confluenza politica col resto dell’Occidente. 219

Tale medaglia presentò tuttavia allora anche il suo rovescio. Tanto infatti s’era parlato nel decennio precedente di transizioni alla democrazia quanto nell’ultimo del secolo politici e scienziati sociali s’interrogarono sul suo consolidamento. Si domandarono cioè se quelle giovani democrazie fossero davvero sulla stessa strada percorsa un tempo da quelle dei paesi occidentali più avanzati o se in realtà non continuassero a manifestare talune evidenti storture strutturali. Non v’era infatti dubbio che, così come in taluni paesi la democrazia stava gettando radici profonde, specie in quelli come Uruguay e Cile che già l’avevano a lungo sperimentata, e che in altri come Brasile e Messico fece notevoli passi in avanti, sia in America Centrale sia in quella andina essa s’imbatté in molti degli ostacoli che già in passato ne avevano inibito il radicamento. Ostacoli sociali, economici e culturali. A proposito dei primi casi, quelli delle democrazie in via di consolidamento, ciò che li caratterizzò fu la solidità, la legittimità e l’efficienza delle istituzioni politiche. Solidità poiché poggiarono su un vasto consenso e una diffusa cultura democratica, ossia sulla convinzione della gran parte della popolazione che la democrazia rappresentativa fosse il migliore, o il meno imperfetto, dei regimi politici e andasse perciò tutelata. Legittimità poiché pressoché tutti gli attori politici, sia i partiti sia le corporazioni, riconobbero nelle procedure democratiche l’unica modalità per affermare le proprie idee e programmi, mentre sparivano o si riducevano alla residualità le forze estreme. Efficienza poiché, per quanto quelle democrazie si rivelassero spesso più lente e macchinose nel prendere decisioni di altre dove i poteri erano più concentrati, proprio tale gradualità conferiva alle loro scelte un più elevato grado di credibilità e contribuiva a cementare lo Stato di diritto, garantendo che ogni potere svolgesse le sue funzioni senza invadere o assorbire quelle degli altri. Quello più tipico fu in proposito il caso del Cile, dove alla presidenza si succedettero negli anni ’90 i candidati della Concertación, una coalizione di partiti in passato ostili tra loro ma ora alleati per consolidare insieme la democrazia cilena. Emancipandola perciò da quel che di autoritario le era stato imposto dal regime uscente, come la proibizione dei partiti marxisti e la nomina di numerosi senatori a vita, senza violare la Costituzione vigente. Al punto da essere talvolta accusata di troppa moderazione, come quando nel 2000, dopo l’arresto avvenuto due anni prima a Londra del generale Pinochet, il 220

governo cileno si batté per evitarne il processo in Spagna e ne reclamò il rientro in patria, affinché fossero i tribunali cileni a occuparsi dei suoi crimini. E ciò benché la legge d’amnistia approvata a suo tempo dal governo militare limitasse assai la libertà d’azione della giustizia in Cile. Ma non meno emblematico fu il caso del Messico, dove le elezioni divennero per la prima volta competitive e si completò infine la riforma del sistema elettorale. Col risultato che nel 1997 il Pri perse per la prima volta nella sua storia la maggioranza parlamentare e che nel 2000 la transizione democratica messicana culminò con l’elezione alla presidenza di Vicente Fox, del Partido Acción Nacional: un partito di matrice cattolica e da tempo portavoce dei ceti produttivi. Orientato perciò a favore dell’economia di mercato e di una stretta cooperazione con gli Stati Uniti. Finì in tal modo il monopolio politico degli eredi della rivoluzione del 1910. Notevoli progressi fece infine il consolidamento della democrazia in Brasile, dove chiusa la breve e fallimentare parabola di Collor de Mello, s’aprì un nuovo ciclo politico dominato dalla figura di Fernando Henrique Cardoso, il vecchio teorico della dipendenza ora deciso fautore dell’urgenza d’introdurre riforme economiche liberali badando però di non aprire crepe nella giovane democrazia brasiliana. Cosa che fece dapprima come ministro delle Finanze e poi, dal 1994 al 2002, come presidente, rispettando le procedure legali e costituzionali oltre che con ampio consenso. Meno incoraggianti furono i casi delle nuove democrazie in America Centrale e nell’area andina, dove vari fattori contribuirono a rallentarne il consolidamento o a deviarne col tempo il corso verso nuove forme di populismo. Fattori storici, come le mai sanate fratture etniche e sociali di quei paesi così eterogenei e perciò la scarsa fiducia di una cospicua parte della popolazione nelle istituzioni della democrazia rappresentativa, spesso viste e vissute come estranee perché elitarie. E fattori politici ed economici, dato che le crisi degli anni ’80 agevolarono la già naturale tendenza in molti paesi alla concentrazione del potere nelle mani dei presidenti. Così come la loro propensione a governare scavalcando i passaggi e controlli istituzionali tipici delle democrazie mature. Il risultato fu spesso quello di indebolire le già fragili istituzioni rappresentative e di ampliare a dismisura il fossato tra rappresentanti e rappresentati. Tutte premesse della pericolosa instabilità politica che sul finire del 221

Neopopulismo e neoliberalismo. Il Perù di Fujimori e l’Argentina di Menem L’idea che le politiche neoliberali degli anni ’90 fossero sempre escludenti e impopolari non è fondata. S’è infatti già visto come in diversi casi esse non impedirono il graduale consolidamento di taluni sistemi democratici nei grandi paesi della regione. Ma non è nemmeno fondato ritenere che esse fossero incompatibili con la cultura e le pratiche politiche del populismo, di cui in teoria erano agli antipodi. I casi di Alberto Fujimori in Perù e di Carlos Menem in Argentina furono in proposito emblematici. Entrambi condussero campagne elettorali all’insegna delle tipiche promesse populiste ma cambiarono bruscamente rotta una volta giunti al potere, dove introdussero dei radicali piani di riforme economiche liberali. Data la stabilità che così ristabilirono in paesi sconvolti dall’iperinflazione, e data la crescita economica che quelle politiche garantirono nella prima metà del decennio, entrambi godettero di un vasto sostegno popolare. Lungi però dal consolidare i cardini istituzionali della democrazia liberale, le loro politiche ne accentuarono i tratti plebiscitari tipici dei populismi. Tratti che confermarono in tal modo di appartenere al profondo sostrato della cultura politica prevalente nella storia della maggior parte dei paesi latinoamericani. Una cultura politica resistente in molti casi alle diverse forme dei regimi politici e dei modelli economici applicati. Sia Fujimori sia Menem tesero infatti ad appellarsi alla sovranità del popolo per accentrare il potere e prevaricare l’autonomia del Parlamento e del potere giudiziario. Entrambi, insomma, impiegarono la popolarità di cui godettero per perseguire il classico obiettivo populista dell’unanimità a discapito del pluralismo e a tal fine impiegarono le cospicue risorse garantite loro dalle massicce privatizzazioni, di cui fecero spesso uso clientelare. Detto ciò, i contesti in cui essi agirono furono assai diversi. Alberto Fujimori, eletto presidente del Perù nel 1990, basò la sua popolarità su una radicale retorica antipolitica, cioè sulla condanna senza appello della classe politica tradizionale rispetto alla quale egli si presentò come un outsider privo di macchie, e sulla determinazione a combattere con ogni mezzo Sendero Luminoso, il movimento guerrigliero passato nel frattempo al terrorismo urbano e inviso al grosso dei peruviani. Cosa che in effetti egli fece, decapitandolo e poi annientandolo, ma anche impiegando mezzi illeciti e arbitrari che seminarono il terrore in varie regioni del paese sottoposte allo stato di



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guerra interno e lasciando una gravosa scia di violazioni dei diritti umani. Fujimori si sentì per tali ragioni abbastanza forte da introdurre un drastico piano di riforme economiche neoliberali che dapprima causò un’acuta recessione ma in seguito avviò una sostenuta crescita. E da compiere nel 1992, col decisivo sostegno delle Forze Armate, un autogolpe, cioè un colpo di Stato per liberarsi dei limiti imposti al suo potere dal Parlamento e dalla Costituzione, che egli riformò per potere concorrere alla rielezione. Cosa che fece nel 1995, quando fu eletto col 65% dei voti, e ancora nel 2000, quando però il clima era ormai cambiato e sia i clamorosi scandali che ne avevano nel frattempo minato il governo, sia le frodi imputategli alle elezioni, sia infine la recessione giunta ad azzoppare i risultati del suo modello economico, ne sancirono la caduta e l’incriminazione. In quanto invece a Carlos Menem, eletto presidente dell’Argentina nel 1989, basò anch’egli la sua popolarità su due elementi chiave. Il primo fu la stabilità economica che riuscì a restaurare dopo la drammatica stagione dell’iperinflazione attraverso il cosiddetto Piano Cavallo, dal nome del suo ministro dell’Economia. Un piano fondato sulla legge di convertibilità, la quale impose la parità valutaria tra il peso argentino e il dollaro statunitense e strangolò l’inflazione, benché col tempo costrinse l’economia argentina entro una camicia di forza da cui divenne difficile uscire. Il secondo cardine del suo consenso fu il peronismo, di cui Menem era un dirigente storico. Il quale fu sottoposto dal suo governo a forti tensioni, essendo le drastiche politiche neoliberali di Menem agli antipodi di quelle distributive del primo peronismo, ma gli garantì la stabilità sociale che aveva negato al suo predecessore e un vasto bacino di voti fedeli. Forte del consenso così ottenuto e invocando l’emergenza in cui giaceva il paese, Menem governò scavalcando spesso il Parlamento, placò le tensioni nelle caserme amnistiando i militari imprigionati per i diritti umani violati, si assicurò il controllo del potere giudiziario cambiando la composizione della Corte Suprema e promosse una riforma costituzionale che gli consentì di ripresentarsi alle elezioni del 1995, dove fu comodamente rieletto. Come in Perù, tuttavia, e in gran parte della regione, anche in Argentina alla fine del decennio il vento cambiò, sia perché la recessione stava facendo strali, sia perché anche il governo di Menem era ormai minato da vari scandali e numerose fratture. Tanto che alle elezioni del 1999 i peronisti uscirono sconfitti.

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secolo e ancor più nel primo decennio del nuovo iniziò a manifestarsi in quelle aree. I casi tipici si sprecano. Dall’Ecuador, dove nessun governo riuscì a consolidarsi e crebbe di anno in anno il seguito dei movimenti indianisti, alla Bolivia, dove le politiche neoliberali e la lotta alle coltivazioni di coca finanziata dagli Stati Uniti alimentarono la reazione dei contadini indiani. Dal Guatemala, dove gli accordi di pace non misero fine alla violenza, al Nicaragua, dove gli scandali e il personalismo esasperato misero a dura prova le istituzioni democratiche. Dalla Colombia, dove una nuova e moderna Costituzione non solo non pose argine alla escalation del conflitto armato, ma nemmeno al dilagare della corruzione alimentata dal narcotraffico, entrato in forze nella campagna elettorale del 1995, al Venezuela, dove la corruzione, la crisi finanziaria e le rivolte militari misero in ginocchio i partiti tradizionali creando le condizioni per la vittoria elettorale di Hugo Chávez nel 1998, il quale, forte d’un vasto seguito popolare, annunciò di voler creare un regime rivoluzionario e non celò la sua avversione per la democrazia rappresentativa impugnando le tipiche bandiere nazionaliste e socialiste.

4. Bill Clinton e l’America Latina Giunto alla Casa Bianca nel 1992, Bill Clinton non impresse svolte alla politica latinoamericana avviata da George Bush. Rispetto alla quale prevalse nel complesso la continuità, specie durante il primo mandato, nel corso del quale il presidente degli Stati Uniti non ebbe mai occasione di recarsi in America Latina. Due fattori stavano alla base di tale continuità. Il primo è che, finita la guerra fredda e disinnescati i conflitti centroamericani, la regione aveva cessato d’essere una priorità per l’amministrazione statunitense, alle prese con ben altri e più urgenti problemi altrove. Il secondo è che, placatasi l’ansia d’imminenti minacce alla sicurezza emisferica, gli Stati Uniti s’attennero a una politica orientata alla promozione della democrazia e delle riforme economiche di mercato in America Latina. Le cui crisi tesero perciò a coinvolgere la Casa Bianca quando quei principi correvano pericoli o ancor più se avevano riflessi immediati sulla politica interna statunitense. Tanto che a dominare l’agenda dei rap224

porti emisferici furono in quel decennio le questioni del narcotraffico, dell’immigrazione e della criminalità internazionale. Continuità e priorità della politica interna caratterizzarono il primo ed importante passo compiuto da Clinton nel panorama degli affari latinoamericani: la ratifica del Nafta, per cui egli si batté con convinzione non minore del predecessore, badando al contempo che l’inserimento di talune clausole sulla tutela ambientale e le leggi sul lavoro ne garantissero l’approvazione nel Congresso. Segno di continuità, nonché dell’inedito clima di fiducia e ottimismo che caratterizzava i rapporti tra Stati Uniti e America Latina nel pieno di quell’epoca di democratizzazione e apertura economica, fu anche il vertice dei presidenti americani realizzatosi a Miami nel 1994. Un vertice dove molti paesi latinoamericani premettero ancor più degli Stati Uniti per accelerare l’integrazione economica emisferica, fino a creare un’area di libero commercio estesa all’intero continente. Un progetto poi divenuto noto come Alca, Área de Libre Comercio de las Américas, e imbattutosi in mille ostacoli che ne hanno bloccato il cammino. Stando così le cose, non sorprende che il governo di Bill Clinton tendesse ad essere coinvolto nelle ricorrenti crisi latinoamericane ogniqualvolta raggiungevano il livello di guardia o toccavano temi sensibili per la politica interna statunitense, ma anche a tenersene il più possibile ai margini una volta condotte sotto controllo. Tanto da essere spesso accusato dai suoi critici di disinteressarsi della regione. Nei cui confronti, tuttavia, non si può dire ch’egli non manifestasse precisi intenti e non assumesse posizioni coerenti. Non fece mancare, per esempio, il deciso impegno della sua amministrazione a sostegno della democrazia dove era in pericolo. Per di più in collaborazione con i maggiori paesi dell’America Latina, i quali assunsero da allora un ruolo sempre più influente nel governo delle crisi locali. Tipico fu in tal senso il caso di Haiti, dove il golpe che vi depose il presidente eletto spinse la Casa Bianca a sostenere una risoluzione di condanna del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e su suo mandato ad approntare una spedizione militare il cui imminente sbarco indusse i militari impadronitisi del potere sull’isola a farsi da parte. Ma non meno importanti furono gli sforzi profusi per evitare rotture costituzionali in Ecuador e Paraguay, per giungere ai tanto sospirati accordi di pace sotto l’egida delle Nazioni Unite in Guatemala, per siglare infine l’accordo sui confini tra Perù ed Ecuador. Tutto ciò e la transitoria assenza durante i suoi mandati di particola225

Cuba dopo la guerra fredda Il crollo dell’Unione Sovietica e del Comecon, di cui essa era stata il perno, obbligarono il regime di Fidel Castro a prendere importanti contromisure per garantirsi la sopravvivenza senza i generosi aiuti sovietici. Aiuti che da decenni gli consentivano la vendita dello zucchero a prezzi maggiorati e l’accesso a forniture petrolifere agevolate. Non a caso quello che s’aprì allora sull’isola prese il nome di «periodo speciale», durante il quale il governo introdusse importanti riforme economiche senza però toccare le fondamenta del regime politico a partito unico e ideologia di Stato. Senza più il sostegno sovietico ma sempre soggetto all’embargo imposto dagli Stati Uniti, Castro adottò in campo economico talune misure tese a incentivare gli investimenti esteri sull’isola, in particolar modo per stimolarvi il turismo, e ad accrescere la scarsa efficienza del sistema produttivo aprendo un po’ di spazio all’attività privata e rimpiazzando le gigantesche e improduttive fattorie statali con nuove e più agili cooperative agricole. Ciò creò di fatto nell’economia dell’isola un canale parallelo dove circolavano beni e monete, dollaro compreso, assenti in quello ufficiale. Un canale che se consentì al governo di conservare integri i pilastri dell’economia socialista dove la proprietà privata era bandita, accrebbe però il divario tra la maggior parte dei cubani e una nuova élite formata da dirigenti e funzionari del partito unico, che avendo accesso al circuito parallelo poté permettersi numerosi vantaggi. Nel complesso gli anni ’90 furono però soprattutto caratterizzati a Cuba dalle ristrettezze imposte alla vita quotidiana dal razionamento di numerosi beni e dai lunghi blackout dovuti alla scarsità di approvvigionamenti energetici. In campo politico e ideologico non si può invece dire che il regime castrista attuasse cambiamenti significativi. Sua priorità fu anzi d’impedire che le trasformazioni sociali indotte dalla timida apertura economica avessero riflessi politici. Unico significativo cambiamento fu infatti l’apertura del partito all’iscrizione dei cattolici,

 ri dispute tra le due parti dell’emisfero fecero di Clinton il presidente degli Stati Uniti più popolare in America Latina da molto tempo a quella parte. Il paese alla cui crisi l’amministrazione Clinton tributò però più attenzione fu la Colombia. Paese dove diversi fattori si sommavano 226

il che più che un passo storico fu il doveroso riconoscimento dell’affinità ideologica che fin dalle sue origini il regime cubano vantava con le correnti populiste sorte in America Latina dalla confluenza tra socialismo e cattolicesimo radicale sotto le bandiere del nazionalismo. Per il resto il governo non lesinò il consueto ricorso alla repressione dei dissidenti e del crescente numero di cubani che l’ideologia o il bisogno spingeva a chiedere visti per espatriare, al punto d’affondare nel 1995 un’imbarcazione di esuli diretti in Florida. Salvo poi, dinanzi alle proteste sorte a L’Avana, aprire le porte dell’emigrazione, la quale funse dunque come in passato da valvola di sfogo delle tensioni nell’isola. Nel clima degli anni ’90, mentre l’America Latina procedeva sulla via della democrazia politica e dell’economia aperta, l’isolamento di Cuba raggiunse il culmine e parve annunciare la caduta del regime. La stessa amministrazione Clinton, spinta dalle pressioni del Congresso e come reazione all’abbattimento di due aerei con cui il regime cubano intese stroncare l’attività di un gruppo anticastrista di Miami impegnato a prelevare in mare gli esuli in fuga dall’isola, indurì l’embargo. Sul finire del decennio il panorama cominciò però a mutare e Castro a risollevare il capo. Da un lato l’economia latinoamericana entrò nel tunnel di una profonda recessione che distrusse l’ottimismo prevalso prima d’allora, mentre quella di Cuba recuperò un po’ d’ossigeno dopo avere toccato il fondo. Dall’altro lato le crisi politiche che minarono la stabilità di numerose democrazie dell’area riportarono in auge l’antiliberalismo tipico del populismo, a cominciare dal Venezuela. Col quale Castro non tardò a ritrovare la naturale sintonia. La storica visita a Cuba di papa Giovanni Paolo II nel 1998, infine, che molti pensarono avrebbe incoraggiato la liberalizzazione dell’isola, contribuì invece ad allentarvi le tensioni e rompere l’isolamento. Il regime di Castro sopravvisse dunque alla fine della guerra fredda, a conferma che, per quanto avesse abbracciato la causa del comunismo mondiale, le sue radici affondavano nella storia e nella cultura politica dell’America Latina.

per farne sia una spina nel fianco statunitense sia il potenziale anello debole della stabilità regionale. Il narcotraffico, innanzitutto, essendo la Colombia il paese da cui partiva la gran parte della cocaina smerciata nelle città degli Stati Uniti. E dove la criminalità organizzata dimostrò nel corso del decennio di avere abbastanza potere da 227

avvelenare le già deboli istituzioni politiche. E la guerriglia delle Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (Farc), l’unica ancora attiva ed influente in America Latina, legata a Cuba e all’ideologia marxista e in grado, con le sue azioni ai confini con l’Ecuador e il Venezuela, paesi in preda a profonde crisi, di internazionalizzare il conflitto colombiano. Si dovette a ciò, oltre all’elezione nel 1998 di Andrés Pastrana a presidente della Colombia, cioè di un uomo in cui gli Stati Uniti riponevano particolare fiducia, l’annuncio del Plan Colombia. Di un robusto piano di aiuti statunitensi alla Colombia senza uguali altrove e in gran parte destinato a combattere con nuove e più moderne armi il narcotraffico. Un Piano che indusse i critici ad accusare gli Stati Uniti di intervenire nel conflitto colombiano e che Clinton difese a spada tratta come uno sforzo per aiutare il governo locale ad estirpare la radice dei mali che affliggevano il paese. 5. La crisi del neoliberalismo Negli anni a cavallo del nuovo secolo un profondo sommovimento scosse la fiducia sul futuro della regione che aveva caratterizzato gran parte degli anni ’90. Un sommovimento sia economico sia politico. Non ovunque, né dappertutto ugualmente intenso, dato che dalla crisi che allora s’aprì vi furono paesi, come Cile e Brasile, che uscirono quasi indenni sul piano economico e rafforzati su quello istituzionale. Ma abbastanza forte da causare crolli in molti casi, a cominciare da quelli di Argentina e Venezuela, che ne furono tra i più colpiti. Se per certi versi quella crisi presentò tratti inediti, per molti altri ne rivelò taluni ben più antichi e noti. Il liberalismo politico ed economico che aveva dominato per gran parte del decennio s’imbatté infatti nei limiti che già più volte nel corso della sua storia gli avevano impedito di piantare solide radici in America Latina. Limiti endogeni, dovuti al fatto ch’esso, come s’è visto, si presentò in molti casi in modo distorto, forzando o stravolgendo lo spirito dello Stato di diritto e del costituzionalismo liberale. Limiti esogeni, imposti dal contesto globale da cui esso era più che mai dipendente ed ai cui cicli si dimostrò perciò altamente vulnerabile. E limiti imposti dalla reazione nazionalista che, come già in passato, anche stavolta generò. Una resistenza che assunse particolare vigore dove più deboli 228

erano le istituzioni politiche, minore lo sviluppo economico e più profonde le fratture sociali o etniche. Specie negli Stati andini e dell’America Centrale. E che si manifestò coi tratti tipici della tradizione populista: reclamando cioè da un lato l’integrazione sociale delle masse escluse e la lotta ai potentati stranieri e imponendo dall’altro severi limiti alla separazione dei poteri e al pluralismo politico. In termini economici la crisi che già più volte era stata sul punto d’esplodere, tanto da indurre gli organismi finanziari internazionali a intervenire in aiuto del Messico nel 1994 e del Brasile nel 1998 per evitarne il crollo finanziario, si palesò ovunque intorno al 1998. La recessione mondiale trascinò infatti con sé l’economia della regione, i cui indicatori furono stagnanti o negativi per circa quattro anni, durante i quali non solo peggiorarono le già gravi condizioni sociali, ma si diffuse tra le élites politiche e le opinioni pubbliche dell’America Latina la convinzione che l’epoca del Washington Consensus fosse al tramonto. Sia per un problema di vulnerabilità, cioè dell’eccesso di dipendenza della stabilità economica delle economie regionali da flussi molto volatili di capitali soggetti alle crisi che di tanto in tanto scuotevano l’intero sistema, dall’Asia alla Russia. Sia per una questione di sostenibilità, cioè di tenuta di un modello economico che oltre a non avere garantito una crescita robusta e costante, ben poco aveva fatto per ridurre le disuguaglianze sociali. Il che imponeva ormai i temi del consenso politico e dell’integrazione sociale al vertice dell’agenda politica dei governi latinoamericani. Si chiuse insomma allora l’era del primato dell’economia e se ne aprì una dove ad imporsi era il primato della politica, chiamata a dimostrare la sua capacità di conciliare consenso e crescita, democrazia e sviluppo. Tale consapevolezza cominciò allora lentamente a prendere piede anche a Washington, dove sia il Tesoro americano sia i vertici del Fondo Monetario Internazionale iniziarono a constatare che le ricette economiche così a lungo annesse ai crediti erogati erano rigide e onerose, tanto da rischiare di trasformarsi in boomerang e generare l’instabilità che miravano a ovviare. Il drammatico tracollo argentino del 2001 causò in tal senso un boato che annunciava la fine di un’epoca. Non solo né tanto per il suo effetto in sé, dal momento che la cessazione dei pagamenti dichiarata dal governo argentino non ebbe sul sistema finanziario mondiale l’impatto devastante che avrebbe avuto qualora a dichiararla fossero stati paesi ben più potenti e indebitati, come Brasile e Messico. Ma soprattutto perché più 229

2001, il tracollo argentino Sul finire degli anni ’90 vari fattori aprirono profonde crepe nel modello economico argentino, rivelandone l’enorme vulnerabilità: la crisi finanziaria asiatica e la contrazione che ne seguì per i prezzi delle esportazioni argentine; la rivalutazione del dollaro, che causò un’ulteriore perdita di competitività delle merci argentine, già grave per effetto della legge di convertibilità, quella con cui il Parlamento aveva congelato l’inflazione stabilendo la parità del peso col dollaro; la svalutazione brasiliana, cioè del maggiore partner commerciale dell’Argentina. Tutto ciò ridusse drasticamente la capacità argentina di onorare le scadenze del debito estero e ne obbligò il governo a procacciarsi nuovi crediti per poterle pagare. In un momento, tuttavia, in cui l’instabilità finanziaria globale e la pessima condizione dei conti argentini inducevano i creditori a liberarsi della pericolosa esposizione nei confronti dell’Argentina piuttosto che ad accollarsi nuovi rischi. Stando così le cose, dal 2000 iniziò la fuga di banche e imprese dal debito argentino. E l’anno successivo, temendo l’imminente svalutazione che ne avrebbe decurtato gli averi, i risparmiatori argentini iniziarono a trasferire in massa all’estero i dollari depositati negli anni precedenti. Mentre il governo statunitense e il Fondo Monetario dibattevano se e a quali condizioni intervenire con un nuovo pacchetto di aiuti per colmare quello che a molti pareva ormai un pozzo senza fondo, il governo argentino si trovò con le spalle al muro. Per bloccare la fuga dei capitali introdusse perciò il cosiddetto corralito, una misura estrema con cui limitava in modo drastico l’accesso dei cittadini ai conti correnti. Quel che ne seguì fu una crisi senza precedenti che andò ben oltre la sfera economica. Crisi politica, dal momento che le proteste di tutti i ceti sociali causarono la caduta con ignominia del governo guidato dal radicale Fernando De la Rúa, che tante aspettative aveva generato sul rinnovamento del sistema politico argentino, e la successione di ben cinque presidenti in appena due settimane. E crisi sociale, dato che la cessazione dei pagamenti e la svalutazione imposte dalla drammatica crisi finanziaria fecero lievitare al 25% in pochi mesi il tasso di disoccupazione e portarono sotto la linea della povertà circa la metà della popolazione di uno dei paesi da sempre più progrediti dell’America Latina.

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di ogni altro paese l’Argentina era stata negli anni ’90 l’allievo modello, quello che con più zelo aveva applicato le ricette degli organismi finanziari, di cui col suo crollo sanciva perciò il fallimento anche agli occhi altrui. Ma la crisi che allora s’aprì non si limitò all’orizzonte economico. Investì infatti anche l’arena politica, dove gli effetti furono assai diversi da paese a paese. In taluni casi essa causò infatti la sconfitta elettorale dei governi che sulla più o meno stretta adesione al modello del Washington Consensus s’erano basati. Senza però produrre alterazioni nell’ordine politico e costituzionale né alcun ritorno al nazionalismo economico. Andò così in Brasile, dove nel 2002 fu eletto presidente l’ex sindacalista Inácio Lula da Silva, ma anche in Messico e Colombia, con le elezioni di Vicente Fox e Álvaro Uribe, e perfino in Perù, una volta passata la buriana sollevata dalla movimentata fine del regime di Alberto Fujimori. Altrove, invece, dapprima in Venezuela ma poco a poco anche in Bolivia, Ecuador e Nicaragua, si manifestarono già allora o cominciarono a covare talune vere e proprie crisi di regime. Crisi che preludevano a radicali mutamenti costituzionali e all’invocazione del ritorno a modelli economici dirigisti e nazionalisti.

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12.

Il nuovo secolo, tra futuro e déjà-vu

1. La svolta a sinistra Il panorama politico dell’America Latina nel primo decennio del XXI secolo è per molti aspetti inedito. Eccezion fatta per Cuba, infatti, tutti i paesi dell’area hanno regimi democratici e la loro democrazia è quella rappresentativa. Il che non era mai accaduto. Non a caso taluni storici colgono in tale fenomeno un indicatore della progressiva confluenza della regione col resto dell’Occidente di cui è in fondo parte. Ma il bicchiere mezzo pieno può apparire mezzo vuoto qualora di molte democrazie si osservino carenze e limiti, tali in taluni casi da esporle a pericolose regressioni e alla vecchia oscillazione tra populismo e militarismo. Come nel caso della crisi scoppiata in Honduras nel 2009, dove le Forze Armate hanno deposto il presidente, tentato dalla carta dell’appello diretto al popolo per scavalcare i limiti costituzionali al suo potere. Prima che verso la fine del decennio si proiettasse sull’America Latina l’ombra della grave crisi che ha colpito l’economia globale, l’orizzonte pareva comunque dischiudere grandi speranze. Così rivelavano gli istituti demoscopici, stando ai quali la stragrande maggioranza dei latinoamericani, circa il 70%, esprimeva soddisfazione per il presente e fiducia nel futuro. Dire in che misura tali aspettative fossero frutto degli anni di forte crescita economica appena trascorsi e in quale invece della maggiore stabilità politica dei loro paesi è pressoché impossibile. Ma ciò non toglie che nel primo decennio del nuovo 233

secolo la democrazia politica si sia come mai prima consolidata in molti paesi, dove la pacifica alternanza dei governi è divenuta norma, le crisi politiche si sono mantenute nell’alveo costituzionale, i presidenti hanno terminato i loro mandati regolarmente, le elezioni sono competitive e, in un crescente numero di casi, trasparenti. Come già s’era però visto fin dai tempi delle transizioni democratiche, la qualità, legittimità ed efficienza delle istituzioni politiche e la diffusione della cultura democratica sono tutt’altro che uniformi nella regione. Né sono ovunque favorevoli al consolidamento della democrazia. Per cui al fianco di democrazie più o meno consolidate e stabili, come quelle di Uruguay, Cile e Costa Rica, e ad altre che pur tra tante imperfezioni e sfide lo sono in buona parte, come in Brasile, Messico e Argentina, se ne affiancano molte assai più traballanti. Specie sulla dorsale andina e in America Centrale, dove la concentrazione del potere nelle mani del presidente è spesso priva di adeguati contrappesi a causa della scarsa autonomia di Parlamento e Magistratura, dove i sistemi e partiti politici sono fragili e volatili, dove la società civile è debole e solcata da ataviche fenditure. Riflesso di tali carenze sono le ricorrenti tentazioni di vari leader di governare in forma plebiscitaria. Di cavalcare cioè la propria popolarità per riformare a furor di popolo la Costituzione, creando così le condizioni della propria perpetuazione al potere, come avvenuto in paesi agli antipodi politici quali il Venezuela di Hugo Chávez e la Colombia di Álvaro Uribe. In molti paesi, infine, la corruzione endemica e la capillare diffusione di pratiche clientelari minano la credibilità della classe politica e alimentano l’ideologia antipolitica che tanto contribuisce ad erodere le istituzioni rappresentative. Laddove, insomma, permangono profonde disuguaglianze sociali sommate ad antichi steccati etnici, le istituzioni democratiche stentano maggiormente a soddisfare le enormi aspettative di integrazione simbolica e miglioramento materiale dei vasti settori emarginati. Tra i quali conserva in molti casi straordinaria vitalità la nozione populista di democrazia. La quale promette loro la sospirata integrazione a costo di minare il pluralismo e di trasporre alla sfera politica la logica manichea tipica dell’immaginario religioso. Logica che tende a trasformare il conflitto politico in guerra tra amici e nemici che si escludono mutuamente. Detto ciò, la prima decade del XXI secolo resterà scolpita nella storia come l’epoca della svolta a sinistra. Svolta che ha caratterizza234

to gran parte della regione, con le rilevanti eccezioni di Colombia e Messico, e tra le cui cause spicca il fallimento o l’esaurimento delle esperienze neoliberali in voga negli anni ’90. Fenomeni cui ha fatto seguito una crescente domanda di protezione sociale e di ritorno al primato della politica contro la «tirannia» imputata ai dogmi economici. Al tempo stesso, tuttavia, vanno distinte nel mezzo di tale ondata diverse sinistre e diversi contesti, poiché non tutte le sinistre procedono all’unisono né tutti i contesti sono ugualmente caratterizzati dalla rottura col passato. V’è da un lato una sinistra riformista, perlopiù cresciuta nei contesti dove la democrazia è più consolidata. I suoi tratti chiave sono la scelta strategica della democrazia rappresentativa e la cultura politica pluralista; la ricerca dell’equità sociale nel rispetto dei vincoli macroeconomici; il pragmatismo volto alla conquista dei ceti medi, perlopiù decisivi nel conferirle la vittoria elettorale; una politica estera aperta e multilaterale, scevra dalla tentazione del nazionalismo antiamericano; la consapevolezza che i miglioramenti sociali richiedono tempo e non ammettono scorciatoie, per cui l’evoluzione è preferibile alla rivoluzione. Non è un caso che i rappresentanti di tale corrente, Lula da Silva in Brasile, Michelle Bachelet in Cile, Tabaré Vázquez in Uruguay e per certi versi Alan García in Perù, siano divenuti più moderati al governo di quanto non fossero all’opposizione e si siano guardati dal rivoluzionare l’assetto istituzionale ereditato dai predecessori. V’è poi su un altro versante la sinistra populista, perlopiù cresciuta in contesti di crisi politica e profonde fratture etniche e sociali. Decisamente più radicale, esprime un linguaggio rivoluzionario e ambisce a rigenerare le strutture materiali e spirituali della società. Pur adeguandosi alle procedure formali della democrazia liberale, aspira a soppiantarla con un modello partecipativo, nel quale il popolo, inteso come comunità omogenea per storia, etnia o condizione sociale, troverebbe riscatto e protezione. All’economia di mercato oppone il dirigismo e al pragmatismo la polarizzazione, sia nei termini del conflitto tra le classi sia, ancor più, di contrapposizione etica tra popolo e oligarchia. Sul piano internazionale è artefice di un fronte antiamericano, di cui è emblema l’Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América (Alba), un organismo di cooperazione politica ed economica nato nel 2004 da un accordo tra Hugo Chávez e Fidel Castro, cui hanno aderito in seguito i governi di Bolivia, Ecuador e Nicaragua. Dove si afferma, la sinistra populista rinnega il contesto isti235

Lula e Chávez, destini incrociati Delle due tendenze che grosso modo formano l’eterogenea sinistra latinoamericana sono emblemi Lula e Chávez: l’operaio brasiliano e il soldato venezuelano, cresciuto il primo nei sindacati in lotta contro il regime militare e poi nel Partido dos Trabalhadores (Pt) di cui fu tra i fondatori, e il secondo nelle scuole militari del suo paese intrise di nazionalismo. Lula, il riformista, è giunto al governo del Brasile trionfando alle elezioni del 2002 e nuovamente nel 2006 dopo aver più volte fallito. Nel frattempo il suo partito s’è ampliato e istituzionalizzato, ha formato quadri, governato città e Stati, tessuto alleanze e col tempo moderato il programma radicale d’un tempo. Chávez, il populista, è invece giunto al potere come un outsider, dapprima tentando di scardinare con le armi l’agonizzante bipartitismo venezuelano e poi formando un movimento popolare che da allora gli ha assicurato numerosi successi elettorali e sul quale esercita la sua leadership carismatica. Tanto il potere di Lula è perciò soggetto ai limiti imposti dal contesto istituzionale del suo paese, quanto quello di Chávez sfugge a controlli e tende a diventare assoluto. Tali differenze si trovano nei loro governi. Lula ha avviato una politica pragmatica e gradualista, avviando ambiziosi piani sociali senza creare squilibri fiscali, aumentando la spesa pubblica senza smettere d’onorare il debito, continuando la riforma agraria ma molto lentamente per non far sentire minacciata la proprietà privata. Esponendosi così alle critiche della sinistra radicale e raccogliendo consensi nei ceti medi, ma cadendo anche in gravi scandali dovuti a numerosi casi di corruzione. La crescita economica ottenuta dal suo governo è stata piuttosto lenta, ma anche costante e solida, tale da consentirgli di attenuare in parte gli enormi gap sociali

 tuzionale ereditato e procede, col sostegno della maggioranza ma a costo di aspri conflitti, alla sua radicale trasformazione attraverso la redazione di nuove Carte costituzionali. 2. La crescita economica e i suoi limiti Se l’ingresso dell’America Latina nel nuovo secolo era stato, in termini economici, tutt’altro che trionfale, molto meglio le cose hanno 236

del Brasile. Tutto ciò nel quadro politico e costituzionale ereditato e attraverso complessi negoziati politici. In un contesto, perciò, di stabilità istituzionale e ridotta conflittualità sociale, nonché di esponenziale crescita dell’influenza e del prestigio brasiliani nel mondo. Chávez ha invece invocato la rivoluzione bolivariana e cambiato radicalmente l’assetto politico e istituzionale del Venezuela nel mezzo di furenti scontri con l’opposizione e di violente polemiche con gli Stati Uniti. Scontri culminati nel golpe che nel 2004 lo depose ma da cui uscì alla fine indenne. Nel suo disegno d’edificare ciò che egli chiama il socialismo del XXI secolo ha mutato due volte Costituzione garantendosi il virtuale diritto della perpetua rielezione e ampliato il controllo sia sul potere giudiziario sia sui mezzi di informazione. Sul piano sociale ha impiegato parte delle enormi risorse ottenute grazie agli elevati prezzi del petrolio per avviare numerose missioni volte a portare istruzione e sanità ai settori popolari. Missioni non esenti da spirito clientelare che hanno riassorbito in parte la povertà ma anche svolto funzioni di indottrinamento politico. Un estremo grado di polarizzazione ha caratterizzato il suo governo, proiettato verso la creazione di un nuovo ordine attraverso la demolizione del vecchio e dei suoi reduci. Tale stato di rivoluzione permanente e di assoluto dominio della maggioranza sulla minoranza rende instabile e sempre soggetto a colpi di scena il panorama venezuelano. Forte della ricchezza petrolifera e della vocazione rivoluzionaria del suo regime, Chávez non ha infine lesinato sforzi per diffonderne l’ideologia nel resto della regione. Ottenendo successi dove il nazionalismo e l’antiliberalismo che la connotano trovavano terreno fertile, cioè in Bolivia ed Ecuador, Honduras e Nicaragua. Ma anche veementi reazioni tra i tanti che vi colgono la riedizione del populismo autoritario, ostile al pluralismo e alla democrazia rappresentativa.

iniziato ad andare quando dal 2002 la congiuntura mondiale ha virato al bello. E così è stato fino al 2008. In quegli anni la crescita economica dell’area è stata infatti rapida e costante, a tassi medi di circa il 6% annuo, pari al doppio del trend storico. Lungi dal limitarsi a taluni virtuosi casi, essa ha interessato tutti, prescindendo dagli orientamenti economici e ideologici dei singoli governi. Quando poi sul finire del decennio la crisi finanziaria statunitense ha innescato una nuova e profonda recessione, l’America Latina ne ha ovviamen237

te risentito, subendone pesanti effetti. Ma meno di quanto ne avrebbe verosimilmente patito un ventennio prima e di quanto ne hanno sofferto molti altri e più potenti paesi occidentali. A conferma che la crescita degli anni precedenti non era stata un mero fuoco fatuo, ma aveva irrobustito le basi economiche della regione. Per taluni economisti la crescita del primo decennio del XXI secolo è stata infatti diversa da quella del passato. A renderla più robusta e sana sarebbero stati il pragmatismo e la razionalità con cui è stata nella maggior parte dei casi amministrata. Criteri opposti a quelli ideologici spesso prevalsi in passato. L’economia latinoamericana sarebbe perciò divenuta meno vulnerabile d’un tempo alle crisi economiche internazionali. Lo confermerebbero la forte crescita dell’ingresso di capitali esteri, il boom delle borse locali e il rafforzamento delle valute latinoamericane. E il fatto che l’inflazione, la più temuta e antica piaga, sia stata tenuta sotto controllo. Per non dire dei bilanci pubblici spesso in attivo, della riduzione del debito, delle riserve internazionali accumulate, delle bilance dei pagamenti in attivo. Tanto che molti paesi si sono guadagnati ciò che più in passato è mancato loro: credibilità e, nel caso del Cile, perfino prestigio agli occhi degli investitori. Altri economisti ritengono tuttavia che la crescita economica dell’America Latina sia in realtà stata durante il decennio meno promettente di quanto parrebbe poiché in gran parte dovuta a fattori esterni e da essa indipendenti: alla crescita mondiale, ai prezzi elevati delle materie prime, alle condizioni finanziarie propizie. Assenti tali fattori, le economie dell’area sarebbero cresciute a ritmi normali. Senza considerare il fatto che tali circostanze non hanno impedito che l’America Latina crescesse meno e con tassi di produttività più bassi delle altre aree emergenti. Sempre a tali fattori, più che al virtuoso governo dell’economia, sarebbero infine riconducibili i risultati ottenuti in materia fiscale, di bilancio, di conti con l’estero e così via. La vulnerabilità agli shock esterni rimarrebbe perciò alta e, salvo eccezioni, i governi dell’area avrebbero perso l’occasione per attuare profonde riforme volte a contenere la spesa e incentivare innovazione e produttività. Ma l’inizio del XXI secolo si è caratterizzato anche per la crescente contestazione dell’economia liberale in gran parte dell’America Latina. E per le reazioni tendenti ad accrescere il ruolo dello Stato nel governo dell’economia. Reazioni riformiste laddove le istituzioni po238

La variante cinese Il panorama economico dell’America Latina è mutato nel primo decennio del XXI secolo al passo dei rapidi cambiamenti degli equilibri mondiali. Di tale mutamento sono in gran parte rappresentanti i nuovi partner economici affacciatisi nella regione. Partner tra i quali spicca la Cina e che senza scalzare i vecchi, gli Stati Uniti in primis, ne hanno spesso ridotto il peso. Per talune tra le più importanti economie latinoamericane fino al punto di ergersi a corpose alternative, sia come mercati per le proprie materie prime, sia come preziose fonti di investimenti, specie in campo energetico. I viaggi realizzati nel corso del decennio dalle più alte autorità di Pechino in diversi paesi della regione hanno in tal senso aperto la via all’intensificazione dei rapporti con l’America Latina. I cui scambi con la Cina si sono infatti moltiplicati all’incirca per dieci nell’arco di pochi anni, tanto da farne per paesi come Argentina, Brasile, Cile e Perù, un partner strategico. Tutto ciò nel quadro di un vero e proprio boom del commercio estero latinoamericano, triplicatosi nei primi otto anni del secolo per effetto della crescita mondiale e dell’apertura commerciale della regione.

litiche erano più salde, le società meno divise e l’eredità del modello neoliberale meno negativa. Come in Cile, Brasile e Uruguay, ma in parte anche Messico, Perù e Colombia. Paesi dove lo Stato ha ampliato il proprio raggio d’azione senza però combattere l’economia di mercato, ma semmai attivando politiche pubbliche per temperarne taluni effetti sociali. E reazioni nazionaliste, dove hanno coinciso col crollo del sistema politico tradizionale, come in Venezuela, con l’esplosione di antiche fratture etniche, come in Bolivia ed Ecuador, o con profonde crisi come nel peculiare caso dell’Argentina. In tali casi sia i governi sia vari movimenti sociali e indianisti hanno avversato in blocco l’economia di mercato e teorizzato il ritorno a modelli economici dirigisti e nazionalisti, spesso sfociati in nuove nazionalizzazioni e regolamentazioni. Il che non toglie che in una regione come l’America Latina, solcata da profonde spaccature etniche e sociali, pervasa nella sua storia da un immaginario sociale ostile al capitalismo, spesso imposto manu militari a popolazioni attratte da politiche populiste, la maggior parte dei latinoamericani viva all’inizio degli an239

ni 2000 sotto governi democratici che con diversi gradi di efficacia e trasparenza praticano politiche economiche di tipo capitalista. 3. Le società latinoamericane nel nuovo millennio Come l’economia, anche gli indicatori sociali che misurano povertà, disuguaglianza e occupazione sono passati nel corso del primo decennio del XXI secolo attraverso diverse fasi. Ossia da quella grigia dei primi anni al netto miglioramento iniziato nel 2002 fino al nuovo scossone del 2008. Per i più ottimisti i risultati sono incoraggianti. La percentuale di popolazione povera, pari a circa il 30% dei latinoamericani, s’è ridotta di circa il 10% durante il decennio e ancor più è diminuita quella degli indigenti, benché rimanga abissale il divario tra i paesi più benestanti come Cile, Argentina e Uruguay, e quelli più poveri, come Honduras, Paraguay e Bolivia. E benché tale diminuzione sia stata nella maggior parte dei casi il mero riflesso della crescita economica più che di efficaci politiche di ridistribuzione della ricchezza. Politiche che hanno prodotto risultati apprezzabili solo in pochi casi, tra i quali quelli di Bolivia, Brasile e Cile. I più scettici osservano in proposito che, per quanto l’America Latina continui ad avere mediamente un reddito che la colloca a metà tra i paesi più avanzati e le aree più povere, in quanto a disuguaglianze sociali ha un poco invidiabile primato. E se è vero che taluni miglioramenti sono avvenuti nel primo decennio degli anni 2000, quando la disuguaglianza ha raggiunto il livello più basso dell’ultimo ventennio, lo è altrettanto che i progressi sono stati lenti e assai difformi da paese a paese. La riduzione della povertà e della disuguaglianza sociale dipendono in buona misura dalla creazione di impieghi qualificati e più produttivi, dunque meglio pagati. Tali cioè da consentire il graduale riassorbimento nell’economia formale delle enormi sacche di marginalità cresciute nei decenni. A tal proposito va osservato che la disoccupazione è regredita a ritmi piuttosto rapidi dal 2002 in poi, il che non era scontato se si considera che la crescita economica degli anni ’90 non aveva prodotto più posti di lavoro. Ma va anche aggiunto che giovani, donne e poveri rimangono spesso settori relegati ai margini del mercato del lavoro e che rimane vastissimo il settore informale, cioè il vasto ambito di occupazioni di bassa qualità e 240

L’indianismo radicale L’elezione di Evo Morales in Bolivia nel 2005 e quella di Rafael Correa in Ecuador nel 2006, due leader molto diversi ma entrambi sostenuti da vasti movimenti indianisti in due paesi dove massiccia è la componente indiana della popolazione e più rigide sono storicamente state le barriere etniche, è chiaro indice della forza inedita raggiunta dall’indianismo nel primo decennio del XXI secolo. Forza confermata poi in diverse elezioni e referendum volti a legittimarne le ambizioni costituenti. Ossia l’idea che il nuovo ordine di cui si reputano interpreti prende corpo nelle nuove Costituzioni destinate a inaugurare una stagione di riscatto dei popoli indiani discriminati. Costituzioni che hanno sollevato veementi proteste nelle opposizioni e che nel caso boliviano hanno acuito le già profonde divisioni tra le diverse regioni del paese. Elementi innovativi ed elementi arcaici convivono nel nuovo indianismo, nato dalla confluenza di vari e spesso eterogenei apporti e perciò soggetti a forti tensioni interne e passibili di evolvere in direzioni assai diverse tra loro. Non solo, infatti, nascono dall’esperienza sociale delle popolazioni indiane, ma ancor più dai contributi di correnti marxiste, cristiani progressisti, antropologi nativisti. La loro maggiore novità storica sta nel fatto che, attraverso di essi, la popolazione indiana, perlopiù rimasta ai margini della politica e alla base della scala sociale, s’avvia verso l’emancipazione materiale e simbolica. Procedendo così verso l’integrazione all’arena pubblica attraverso i mezzi da cui è stata solitamente esclusa o che ha sempre percepito estranei: le elezioni, i partiti politici, la Costituzione. Non meno forti sono però in essi gli elementi tradizionali. Sia in campo culturale, dove l’appello all’autodeterminazione della nazione indiana rischia talvolta di sfociare nell’esclusivismo etnico. Sia in campo sociale, dove l’invocazione del comunitarismo indiano riprende spesso i temi della tradizione antiliberale cattolica e marxista. Sia in campo economico, dov’essi s’inseriscono nel solco scavato in passato dal nazionalismo. Sia in campo politico, dove i governi indianisti calcano le orme del populismo laddove tendono a monopolizzare il potere e limitare il pluralismo nel nome dell’unità di popolo e nazione, della giustizia sociale e dell’omogeneità etnica.

produttività che non garantiscono sicurezza né accesso alla previdenza sociale. Basti dire che, salvo in Cile, dove il 70% degli occupati versa contributi al sistema previdenziale contro l’appena 30% 241

di paesi come Perù e Bolivia, tale settore occupa oltre il 40% dei lavoratori. La conseguenza è che in America Latina è quanto mai diffusa la figura del lavoratore povero, il quale ha sì un’occupazione ma essa non basta a dargli di che vivere. E che la povertà tra i lavoratori è calata in modo sensibile dopo il 2000 laddove, come in Cile, Brasile e Messico, è cresciuta la produttività del lavoro e con essa il salario medio. A favore del miglioramento degli indicatori sociali dei paesi latinoamericani hanno infine iniziato a incidere alcuni altri fattori. Alcuni politici e perciò soggetti a variare. In particolare la propensione di taluni governi ad accantonare almeno in parte la logica della distribuzione indiscriminata di risorse a fini elettorali e clientelistici. E a realizzare in cambio investimenti sociali destinati a dare frutti col tempo. Altri strutturali, trovandosi gran parte della regione in pieno bonus demografico. Cioè nel pieno o all’inizio di quella peculiare fase in cui la quantità di popolazione in età produttiva cresce a ritmi più sostenuti di quella in età non produttiva, come bambini e anziani. Una circostanza che durerà a lungo e consentirà di alleviare la pressione demografica su molti servizi pubblici, ma che darà frutti solo se sfruttata con corposi investimenti sulla formazione del capitale umano. Un capitolo a parte nel panorama sociale dell’America Latina contemporanea va riservato al tema della violenza. La quale non è in alcun modo inedita nella regione, ma ha teso ad assumere vesti e portata nuove e funge in molti paesi da grave ostacolo al consolidamento della democrazia e al progresso delle condizioni sociali. L’azione di grandi e potenti gruppi criminali che controllano la produzione di stupefacenti e il loro commercio attraverso vaste e capillari reti si è col tempo estesa nella regione fino ad esercitare il controllo informale di talune zone e da penetrare a fondo le società e istituzioni locali. Specie in Messico, Colombia e Venezuela, paesi tra i più violenti dell’area. Così come sono cresciute altre attività illegali quali l’estorsione, la rapina, i rapimenti e altre ancora, spesso praticate da bande giovanili in forte crescita soprattutto nei paesi dell’America Centrale. Né i piani di prevenzione sociale né la repressione hanno per ora dato in genere risultati soddisfacenti. Tanto che in molti paesi dell’America Latina la sicurezza spicca in vetta all’agenda politica e tra i timori dell’opinione pubblica.

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4. La trasformazione del panorama religioso La cultura politica e l’immaginario sociale di gran parte della popolazione latinoamericana sono stati, come s’è più volte visto, plasmati o profondamente influenzati nel corso della storia dall’antica e peculiare appartenenza della regione alla civiltà cattolica. Questa considerazione vale per l’età coloniale, quando l’America iberica era parte ad ogni effetto degli imperi cattolici di Spagna e Portogallo, ma vale anche per l’età contemporanea, quella iniziata con le indipendenze, dato che al sostrato ideale o morale cattolico si sono con più o meno consapevolezza richiamate molte correnti politiche e ideologiche che hanno animato la storia dell’America Latina. Correnti che ne hanno spesso dato declinazioni divergenti o addirittura agli antipodi, come nelle dispute tra cattolici liberali e integralisti, conservatori e progressisti, ortodossi o liberazionisti. O sono entrate in collisione tra loro proprio perché si disputavano lo stesso spazio politico e lo stesso universo ideale, com’è accaduto con le tensioni tra la Chiesa istituzionale e i movimenti populisti o radicali, o talvolta tra le autorità ecclesiastiche e i governi dittatoriali che ambivano a legittimarsi esibendo la loro cattolicità. La storia politica e sociale dell’America Latina è perciò intimamente permeata ad ogni livello dalla sua storia religiosa. Il che induce a pensare che talune importanti trasformazioni avvenute in tale ambito nel corso del tempo, ma acceleratesi negli ultimi decenni, avranno in futuro profonde ripercussioni su tutti gli ambiti della vita e della storia latinoamericana. Due in particolare, benché per tanti aspetti opposte tra loro. La prima è la progressiva trasformazione dell’America Latina da continente cattolico che aveva fatto dell’unanimità religiosa un fattore chiave della sua identità in continente dove vige un sostanziale pluralismo religioso. Dove cioè il cattolicesimo rimane di gran lunga la confessione preminente, cui dichiara d’appartenere tra il 70 e l’80% dei latinoamericani. Ma dove, lungi dall’essere in posizione di monopolio com’era ancora trent’anni prima, quando quella percentuale superava il 90%, e di potere in tale veste reclamare privilegi pubblici o rivendicare la tutela sull’identità delle singole nazioni, si trova sempre più a convivere con altri culti e credi. Specie protestanti di diverso tipo e origine, ma non soltanto. Questa trasformazione di lungo corso riduce e muta l’influenza del cattolicesimo in America Latina, sottoponendola a nuove sfide. 243

Ma non indica l’attenuazione dello spirito religioso nella regione. Anzi, al contrario indica l’esistenza di una domanda spirituale insoddisfatta, specie tra i ceti popolari e marginali, sia rurali sia recentemente inurbati, che cerca e spesso trova risposte che giudica più consone ai propri bisogni in nuove confessioni. Di segno e natura assai diversi è la seconda, vasta e profonda trasformazione in corso. Anch’essa con radici antiche e di lunga durata, ma acceleratasi dal ritorno della democrazia in poi, quando il contesto culturale e istituzionale le ha permesso di sprigionarsi in libertà. Si tratta della crescente secolarizzazione della popolazione latinoamericana. Di quella urbana più che di quella rurale e dei ceti medi ed istruiti più che di quelli popolari e meno istruiti, dei giovani e delle giovani più che delle persone adulte o anziane. Ma a ritmi e in dimensioni maggiori che in qualsiasi altra epoca del passato. Laddove per secolarizzazione s’intende sia la crescita delle persone che si definiscono atee o agnostiche e che non s’ispirano perciò nella loro vita sociale a precetti di natura religiosa; sia, soprattutto, la forte crescita di coloro che, pur dichiarandosi cattolici, tendono sempre più a decidere e comportarsi in base alla propria coscienza individuale senza prestare particolare ascolto al clero e alla dottrina della Chiesa. E ciò non solo in campo politico, ma ancor più sul terreno morale e sessuale. Il che denota la crescente diffusione di una cultura della responsabilità e dei diritti individuali di cui la storia politica della regione è stata spesso carente. E induce a ritenere che in molti paesi si stia restringendo l’immenso bacino cui hanno in passato attinto le culture politiche di tipo organicista, fondate sulla preminenza del tutto sulle parti, dell’uno sul molteplice, della comunità sull’individuo. Nel complesso, tali trasformazioni indicano taluni divergenti sommovimenti in corso nelle più profonde faglie delle società latinoamericane. Gli uni che premono per accrescere il peso della dimensione religiosa nella vita pubblica. Gli altri, viceversa, per distinguere in modo più netto tra i due ambiti. Sommovimenti tali da indicare, parafrasando la formula incontrata trattando dello strutturalismo, una spiccata e crescente eterogeneità spirituale. Della quale vi sono infatti evidenti segni nella storia politica dell’area. Storia dove convivono movimenti populisti intrisi di spirito palingenetico di evidente matrice religiosa, al punto in taluni casi, come quello di Evo Morales in Bolivia, di riscoprire o reinventare antichi riti precolombiani; e regimi politici più spiccatamente laici. 244

5. L’America Latina e il mondo Visto dall’America Latina, il mondo è divenuto all’inizio del XXI secolo assai diverso da quello di solo un ventennio prima. Da un lato perché la guerra fredda è ormai un lontano ricordo e la regione non è più come un tempo posta in gioco e terreno della competizione tra grandi potenze. Dall’altro lato perché i flussi commerciali e finanziari vi sono lievitati al punto di fare dell’intera area uno spazio economico molto più aperto di un tempo e dunque sia più permeabile agli eventi esterni sia più autonomo nella scelta e ricerca di partner e mercati. Ma al di là di tali, evidenti fattori, le novità che più saltano agli occhi sono essenzialmente due: la prima è la dimensione assai più concreta che in passato assunta nell’agenda politica latinoamericana dal tema dell’integrazione regionale; la seconda è l’attenuazione dell’influenza statunitense, sia in termini politici ed economici, sia di egemonia ideologica. L’intera regione manifesta perciò sul piano dei rapporti internazionali una maggiore maturità e indipendenza rispetto al passato. Una condizione che presenta sia opportunità sia rischi. E che comunque vale sia per quanti vi agitano le bandiere del nazionalismo sia per quanti mantengono rapporti amichevoli col resto dell’Occidente. In quanto al primo aspetto, l’integrazione regionale, essa è incoraggiata da numerosi fattori: dalle sfide della globalizzazione, dalla necessità di rafforzare il potere negoziale della regione nei forum internazionali, dalla tendenza universale a creare macroaree regionali e dal consolidamento delle istituzioni e dei valori democratici quali fondamento della comunità latinoamericana. Tant’è vero che la rete di organizzazioni politiche ed economiche regionali s’è più che mai infittita. Al tempo stesso appare col tempo sempre più chiaro che nell’orizzonte dell’integrazione l’America Latina tende a scomporsi in diverse parti. Per un verso, cioè, il Messico, l’America Centrale e l’area caraibica gravitano maggiormente nell’orbita di Washington. Come impone il peso della storia, dell’economia e della geopolitica. Per un altro verso le nazioni del Sudamerica tendono ad accorparsi tra loro, pur incontrando corposi ostacoli sul loro cammino: storici e politici, geografici ed economici. Ostacoli che rendono complesso lo sforzo di fare convergere l’area andina e il Cono Sud e le istituzioni che già vi sorgono, il Mercosur e la Comunidad Andina, in un unico organismo regionale. A sua volta premessa del futuro passag245

gio dall’ambito commerciale alle più impegnative sfere monetaria, militare e politica. Tale è l’idea forza della Unión de Naciones Suramericanas (Unasur) creata a Brasilia nel 2008. Un’istituzione che ha dato le prime prove del suo potenziale politico assumendosi con relativo successo la gestione di talune delicate crisi, come quella scoppiata in Bolivia nel 2008 tra il governo e le province contrarie alla nuova Costituzione. Crisi che ai tempi della guerra fredda avrebbero spianato la via all’intervento politico e diplomatico degli Stati Uniti. Faro, ispiratore e chiave di tale politica è sotto ogni punto di vista il Brasile. Sia per l’oggettiva egemonia che gli deriva dalle sue dimensioni e dalla sua potenza; sia per la peculiare condizione di cerniera in cui si trova tra l’America indiana e l’America europea; sia, infine, per l’indubbio prestigio acquisito nell’arena internazionale. Dalla sua capacità diplomatica e dal tatto con cui saprà svolgere il ruolo di leadership che gli compete dipenderà in grande misura il successo di tali sforzi. Nel primo decennio del nuovo millennio la regione ha comunque compiuto taluni importanti passi verso una maggiore integrazione. Passi però non così rapidi ed efficaci com’era lecito aspettarsi. Gli ostacoli che da sempre frenano la cooperazione regionale rimangono infatti spesso insormontabili. Si pensi ai frequenti contrasti tra i diversi interessi nazionali, specie tra paesi grandi e popolosi interessati a proteggere i propri mercati, come il Brasile, e paesi più piccoli e assai dinamici più che mai proiettati verso l’esterno, come il Cile, perciò indisposti a farsi legare le mani da troppo alte e rigide barriere tariffarie. O al risorgere in diversi paesi di ideologie nazionaliste poco propense a gettar le basi di accordi e istituzioni sovranazionali, senza le quali sarà difficile transitare da una fiacca integrazione commerciale a una più robusta integrazione politica. Lo stesso strapotere del Brasile rappresenta un problema, essendo difficile che gli altri paesi dell’area, comprensibilmente timorosi che l’integrazione si tramuti in implicita annessione, ne riconoscano senza obiezioni la leadership e non cerchino in qualche modo di bilanciarla. Non giovano infine alla causa dell’integrazione i continui sforzi dei regimi politici più radicali di ideologizzarla. Di farne cioè lo strumento per ampliare e potenziare il fronte antiamericano. Lungi dal promuovere l’unione e l’istituzionalizzazione essi tendono infatti ad alimentare contrasti e defezioni, rigidità e instabilità. Di fatto il primo decennio del nuovo millennio è stato costellato di tensioni re246

gionali, talvolta acute e gravide di durature conseguenze. Quelle per esempio tra Argentina ed Uruguay su una spinosa questione politica e ambientale alla frontiera tra i due paesi. Tra la Colombia ed i vicini sulle basi della guerriglia nel loro territorio e per la decisione del governo di Bogotà di bombardarli. Tra il Brasile e quei paesi come Ecuador e Bolivia che nel nazionalizzare i settori estrattivi hanno colpito taluni ingenti investimenti brasiliani. Specchio fedele di tali difficoltà è il Mercosur, il più ambizioso sforzo d’integrazione mai tentato in Sudamerica. Il quale ha stimolato gli scambi commerciali favorendone il sostanzioso incremento, ma in quasi vent’anni di vita non si può dire abbia all’attivo un bilancio entusiasmante. Sia perché in termini economici rimane più una vaga area di libero scambio che un vero e proprio mercato comune. Un’area per di più minata dai cronici contenziosi tra i paesi membri a causa delle enormi asimmetrie tra le loro economie. Sia perché è rimasto a mezza via tra un progetto di integrazione economica ed uno di integrazione politica. Come rivelano la sua scarsa istituzionalizzazione e l’assenza di qualsiasi forma di coinvolgimento della popolazione nei processi decisionali. Il secondo, peculiare tratto dei rapporti internazionali dell’area latinoamericana nel primo decennio del XXI secolo è la riduzione del peso che vi esercitano gli Stati Uniti. Il che non va inteso in modo erroneo, poiché di riduzione si tratta, non certo di ininfluenza. Riduzione peraltro non uniforme e comunque assai maggiore in Sudamerica che altrove nella regione. Fatta d’altronde eccezione per il peculiare caso colombiano, che la violenza politica, il narcotraffico e i rischi di destabilizzazione regionale che comporta rendono prioritario agli occhi di Washington, che nella Colombia ha infatti il più fido alleato di tutta l’area, nel complesso l’America Latina non è stata al vertice degli interessi statunitensi. Specie da quando dopo l’11 settembre del 2001 essi si sono ancor più di prima rivolti altrove. In America Latina, per contro, sia le reazioni generate dal Washington Consensus, sia le tendenze unilaterali manifestate da George W. Bush dopo l’attacco terrorista alle Torri Gemelle del 2001, hanno dato nuovo vigore al sempre latente antiamericanismo della regione. Dove nel primo decennio del nuovo secolo la popolarità degli Stati Uniti e del loro presidente sono crollati. La stessa elezione di Barack Obama nel 2008, seppur gradita alle opinioni pubbliche latinoamericane e coronata da taluni iniziali gesti tesi ad aprire una nuova sta247

George W. Bush e l’America Latina L’arrivo nel 2001 di George W. Bush alla Casa Bianca aveva sollevato grandi aspettative sul futuro dei rapporti tra Stati Uniti e America Latina. Sia perché durante la campagna elettorale egli aveva criticato il presidente uscente per la scarsa priorità riservata alla regione. Sia per l’inedita decisione di realizzare il suo primo viaggio in Messico e di conferirgli particolare enfasi. Tale impegno parve trovare conferma nella sua attiva partecipazione al vertice dei capi di Stato americani in Québec, dove fu approvata una cosiddetta clausola democratica. L’impegno cioè a difendere la democrazia nella regione, fatto di lì a poco proprio dall’Organizzazione degli Stati Americani. Gli attentati dell’11 settembre giunsero proprio allora a cambiare il contesto. Da un lato poiché la decisione della Casa Bianca di concentrarsi nella guerra globale al terrorismo islamico fece cadere l’America Latina in fondo alle sue priorità, essendo essa l’area del globo dove quella minaccia era meno presente. Dall’altro poiché la reazione talvolta tiepida dei governi e quella in taluni casi ostile delle opinioni pubbliche latinoamericane minarono la fiducia di Bush nella loro cooperazione alla politica che stava intraprendendo. Cosa che confermò la ferma contrarietà della netta maggioranza dei latinoamericani e dei loro governi alla decisione unilaterale presa nel 2003 dall’amministrazione statunitense di sferrare l’attacco all’Iraq di Saddam Hussein. Tanto che le enormi pressioni ch’essa esercitò nei confronti dei governi di Cile e Messico per ottenerne il voto nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di cui erano allora membri non ottennero alcun risultato. E ciò benché quelli di quei due

 gione nei rapporti tra Stati Uniti e America Latina, non ha suscitato particolari aspettative. A conferma che per la maggior parte dei sudamericani ciò che avviene a Washington non dà l’impressione di pesare come un tempo sul proprio destino. Non che gli Stati Uniti si siano rassegnati al declino dell’egemonia sull’emisfero perseguita per due secoli e fondamentale per la loro sicurezza e prosperità. Ma è pressoché impossibile ch’essa torni ad essere quella che è stata in passato, poiché gli ormai vari lustri di globalizzazione hanno ampliato gli orizzonti internazionali dell’America Latina, specie del Su248

paesi fossero tra i governi più in sintonia con la Casa Bianca dell’intera regione. La totale assenza di senso dell’opportunità politica manifestato poi dal governo di George W. Bush allorché nel 2002 s’affrettò a riconoscere le autorità che in Venezuela avevano appena deposto il governo di Hugo Chávez ne peggiorò ancor più la credibilità e l’immagine in America Latina. Dove quel gesto ricordò a molti l’inveterato interventismo statunitense. Il quale uscì peraltro sconfitto da quella crisi, visto che il caudillo venezuelano tornò subito in sella. Crisi che aveva peraltro messo in luce il nuovo approccio degli Stati Uniti ai problemi emisferici. Quello che ricollocava la sicurezza, e dunque la neutralizzazione dei potenziali focolai ostili agli Stati Uniti nell’emisfero americano, sullo stesso piano della democrazia e dello sviluppo, tanto che la dimensione militare del Plan Colombia fu potenziata dall’amministrazione Bush a discapito di quella sociale delle sue origini. Un approccio destinato a procurare ben poche simpatie all’amministrazione Bush in America Latina e tale da impedirle di esercitare con efficacia la leadership politica nell’area attraversata allora da delicate tensioni politiche e ideologiche. L’importanza assunta dall’ideologia nella politica di Bush verso la regione gli ha attratto molti nemici e non gli ha permesso in molti casi di svolgere la funzione stabilizzatrice che la potenza egemone suole assumere. Ma non gli ha comunque impedito di consolidare i rapporti con taluni governi di tendenze opposte alla sua. Specie col Brasile, dove il governo Lula ha garantito agli Stati Uniti sia una costruttiva cooperazione in numerosi campi, a cominciare da quello energetico, sia una politica estera pragmatica e moderata in grado di garantire l’equilibrio regionale che la politica statunitense non pareva in grado di assicurare.

damerica, i cui paesi coltivano per la maggior parte con più intensità e profitto d’un tempo i rapporti con altri partner, che si tratti dell’Unione Europea o della Russia, delle tigri asiatiche o della Cina. Tutto ciò non toglie tuttavia che l’America Latina rimanga una regione periferica del nuovo ordine internazionale, di cui vive in forma più attenuata di altre aree i vorticosi cambiamenti soffrendone però anche meno d’altri i violenti traumi. Solcata da divisioni interne, stenta a far sentire la propria voce in modo univoco e a farsi percepire come un’area coesa nella difesa di interessi comuni. Tra i pae249

si della regione, solo il Brasile e in misura assai minore il Messico possiedono il potenziale per essere protagonisti delle relazioni internazionali. Gli altri hanno invece prestigio ma non potenza, come il Cile, ambizione ma poche doti politiche, come il Venezuela, molto potenziale ma scarsa affidabilità, come l’Argentina, e procedono in ordine sparso, alcuni con successo ed altri meno, nella politica globale del XXI secolo.

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Indici

Indice dei nomi

Alamán, Lucas, 56. Alberdi, Juan Bautista, 56. Alessandri, Arturo, 84. Alfonsín, Raúl, 192-193, 207. Allende, Salvador, 150, 164-166, 186. Amoroso Lima, Alceu, 132. Arbenz, Jacobo, 141-142, 187, 199. Arias, Oscar, 204. Aylwin, Patricio, 191. Bachelet, Michelle, 235. Balaguer, Joaquín, 186. Bánzer, Hugo, 180. Batista, Fulgencio, 123, 145, 147-148, 187. Batlle y Ordoñez, José, 80-81, 91. Belaúnde, Fernando, 191. Bello, Andrés, 56. Betancourt, Rómulo, 148, 167. Bilbao, Francisco, 56. Bolívar, Simón, 38-40, 49, 57. Bonaparte, Giuseppe, 31. Bosch, Juan, 186-187. Bush, George H.W., 197, 204-206, 224. Bush, George W., 247-249. Calles, Plutarco Elías, 112. Cárdenas, Lázaro, 112-114.

Cardoso, Fernando Henrique, 154, 221. Carlo III, re di Spagna, 26. Carlo IV, re di Spagna, 31. Carranza, Venustiano, 86-87. Carrera, José Rafael, 50. Carter, James (Jimmy), 187-188, 203204. Castro, Fidel, 146-148, 183, 186, 196, 198, 226-227, 235. Castro, Raúl, 147. Chamorro, Violeta, 203. Chávez, Hugo, 209, 224, 234-237, 249. Cienfuegos, Camilo, 147. Clinton, William J. (Bill), 224-228 Collor de Mello, Fernando, 208, 221. Correa, Rafael, 241. Darío, Rubén, 89. Díaz, Porfirio, 74, 83, 86. Dollfuss, Engelbert, 106. Echeverría, Luis, 149. Eisenhower, Dwight, 139-141, 147, 187. Ferdinando VII di Borbone, re di Spagna, 33-34, 36, 38, 40-41.

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Lula da Silva, Luiz Inácio, 231, 235236.

Fox, Vicente, 221, 231. Franco, Francisco, 106. Frei, Eduardo, 144, 165, 167. Friedman, Milton, 176. Frondizi, Arturo, 153. Fujimori, Alberto, 222-223, 231. Gaitán, Jorge Eliécer, 125. Galtieri, Leopoldo, 192. García, Alan, 196, 210, 235. Giovanni VI di Braganza, re del Brasile, 40. Giovanni Paolo II (Karol Wojtyła), papa, 227. Gómez, Juan Vicente, 84, 93, 102. Goulart, João, 148, 172. Gramsci, Antonio, 155. Grau San Martín, Ramón, 116. Guevara, Ernesto, detto «Che», 146147, 156-157. Gutiérrez, Gustavo, 160. Haya de la Torre, Víctor Raúl, 84-85. Hidalgo, Miguel, 41. Hitler, Adolf, 109. Huerta, Victoriano, 86-87. Hussein, Saddam, 248.

Madero, Francisco, 83, 86. Marcos, subcomandante, 218. Mariátegui, José Carlos, 90, 155. Maritain, Jacques, 132. Martí, José, 77-78, 91. Martínez de Perón, Isabel, 171, 181, 193. Massimiliano d’Asburgo, re del Messico, 59. Menem, Carlos, 222-223. Morales, Evo, 241, 244. Mussolini, Benito, 106, 109. Napoleone Bonaparte, imperatore dei Francesi, 30-32, 38. Napoleone III, imperatore dei Francesi, 59. Neves, Tancredo, 192. Niemeyer, Oscar, 154. Nixon, Richard, 142, 164, 185. Noriega, Manuel, 205-206. Obama, Barack, 247. Odría, Manuel, 133. Onganía, Juan Carlos, 152, 171. Ortega, Daniel, 202.

Ibañez, Carlos, 93, 133. Iturbide, Agustín de, 41. Johnson, Lyndon B., 163, 186. Juárez, Benito, 58-59. Kennedy, John F., 152, 161-163, 166, 184, 187. Kirkpatrick, Jeane, 204. Krause, Karl, 91. Kubitschek, Juscelino, 153-154. Lastarría, José Victorino, 56. Leguía, Augusto, 84, 93. Leone XIII (Vincenzo Gioacchino Pecci), papa, 105 Lombardo Toledano, Vicente, 100, 140. López de Santa Anna, Antonio, 50.

Pastrana, Andrés, 228. Paz Estenssoro, Victor, 133. Pedro I, imperatore del Brasile, 41, 59. Pedro II, imperatore del Brasile, 59, 74. Pérez, Carlos Andrés, 198. Perón, Eva, 137-138. Perón, Juan Domingo, 122-123, 134138, 142, 149, 171. Pinochet, Augusto, 164, 171, 176177, 180-181, 194, 220. Pio XI (Achille Ratti), papa, 105. Pombal, marchese di, 22, 25. Portales, Diego, 57, 60. Prebisch, Raúl, 125-126, 153.

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Reagan, Ronald, 193, 199, 203-206. Riego, Rafael del, 40. Rios Montt, Efraín, 199. Rockfeller, Nelson, 185. Rodó, José Enrique, 89. Rodríguez de Francia, José Gaspar, 50. Rojas Pinilla, Gustavo, 133. Romero, Óscar, 200-201. Roosevelt, Franklin D., 114-115, 187. Roosevelt, Theodore, 78, 114. Rosas, Juan Manuel de, 50. Rostow, Walt W., 162. Rúa, Fernando de la, 230. Salazar, Oliveira, 106, 109. Salinas de Gortari, Carlos, 192. Sandino, Augusto, 94. San Martín, José de, 40. Sarmiento, Domingo Faustino, 56. Somoza, Anastasio, 103, 146, 169, 200. Spadafora, Hugo, 205. Stroessner, Alfredo, 169, 180, 206.

Thatcher, Margaret, 192. Torres, Camilo, 159. Torres, Juan José, 170. Torrijos, Omar, 150, 188. Trujillo, Rafael, 103, 187. Truman, Harry, 139. Uribe, Álvaro, 231, 234. Vargas, Getúlio, 92, 109-111, 114, 116, 133, 149. Vasconcelos, José, 90, 104. Vázquez, Tabaré, 235. Velasco Alvarado, Juan, 150, 170. Velasco Ibarra, José María, 133. Videla, Jorge Rafael, 180. Villa, Pancho, soprannome di Doroteo Arango, 86-87. Williamson, John, 213. Wilson, Woodrow, 86, 93. Yrigoyen, Hipólito, 92. Zapata, Emiliano, 86-87.

Indice del volume

Premessa

V

Introduzione alla storia dell’America Latina contemporanea

3

1. Una e plurima, p. 3 - 2. Lo spazio latinoamericano, p. 5 3. I latinoamericani, p. 7 - 4. Politica e religione, l’unità e la frammentazione, p. 9 - 5. L’estremo Occidente, p. 10

Parte prima

Dall’indipendenza alla seconda guerra mondiale. 1808-1945 1.

Il retaggio coloniale

15

1. L’eredità politica, p. 15 - 2. La società organica, p. 17 3. Un’economia periferica, p. 20 - 4. Un regime di cristianità, p. 23 - 5. L’erosione del patto coloniale, p. 25 Box Spagnoli, indiani e schiavi africani, p. 18 - Crescita economica e nuove potenze, p. 22 - Chiesa e Stato in età coloniale, p. 24 - Le riforme borboniche, p. 26

2.

L’indipendenza dell’America Latina 1. Le invasioni napoleoniche, p. 30 - 2. La fase autonomista, p. 33 - 3. La politica moderna, p. 36 - 4. Le guerre d’indipendenza, p. 38 - 5. Le vie all’indipendenza, p. 40 Box Le cause e il metodo, p. 32 - I creoli e Cadice, p. 34 - L’immaginario antico, p. 37 - Simón Bolívar, p. 39 - La dottrina Monroe, p. 42

257

30

3.

Le repubbliche senza Stato

45

1. Instabilità e stagnazione, p. 45 - 2. Le Costituzioni, p. 48 - 3. Società ed economia in transizione, p. 51 - 4. La svolta di metà Ottocento, p. 54 - 5. I casi nazionali. La norma e le eccezioni, p. 56 Box Liberali e conservatori, p. 46 - Caudillismo, p. 50 - Il secolo britannico, p. 53 - Teoria politica e dibattito intellettuale, p. 56 - Il Messico. Un caso estremo, p. 58

4.

L’età liberale

61

1. La nascita dello Stato moderno, p. 61 - 2. Il modello primario-esportatore, p. 64 - 3. Una società in trasformazione, p. 68 - 4. L’illusione delle oligarchie, p. 71 - 5. Insieme in ordine sparso. Messico, Brasile, Argentina, p. 74 - 6. L’inizio del secolo americano, p. 76 Box «State-building» e «nation-building», p. 62 - Lo spartiacque economico, p. 66 - La grande immigrazione, p. 68 Storie di guerre e di confini, p. 73 - L’indipendenza di Cuba, p. 77

5.

Il tramonto dell’età liberale

79

1. La crisi e i suoi nodi, p. 79 - 2. Le cause politiche, p. 82 3. Le cause sociali ed economiche, p. 85 - 4. Il nuovo clima ideologico, p. 89 - 5. Le diverse vie della crisi liberale, p. 91 - 6. L’età del «big stick» e l’ascesa del nazionalismo, p. 93 Box Più unico che raro. Il caso dell’Uruguay, p. 80 - L’Apra e i partiti radicali, p. 84 - La rivoluzione messicana, p. 86 - Il krausismo, p. 91 - La guerra del Chaco, p. 94

6.

Corporativismo e società di massa

96

1. Il declino del modello primario-esportatore, p. 96 - 2. Verso la società di massa, p. 98 - 3. La notte della democrazia, p. 100 - 4. I militari. Come e perché, p. 102 - 5. I populismi, p. 107 - 6. Il Buon Vicinato e la Guerra, p. 114 Box Il revival cattolico, p. 104 - Getúlio Vargas e l’Estado Novo, p. 109 - Lázaro Cárdenas e l’eredità della rivoluzione messicana, p. 112

Parte seconda

Dalla guerra fredda a oggi. 1945-2010 7.

L’età del populismo classico 1. Tra democrazia e dittatura, p. 121 - 2. L’industrializzazione per sostituzione d’importazioni, p. 125 - 3. Un vulcano

258

121

sempre attivo. Le trasformazioni sociali, p. 128 - 4. Tra nazionalismo e socialismo. Il panorama ideologico, p. 130 5. La guerra fredda. I primi passi, p. 138 Box La «Violencia» in Colombia, p. 125 - Perón e il peronismo, p. 134 - Il Guatemala di Jacobo Arbenz, p. 142

8.

Gli anni ’60 e ’70. Il ciclo rivoluzionario

144

1. L’età della rivoluzione, p. 144 - 2. Lo sviluppo distorto e i conflitti sociali, p. 150 - 3. Strutturalismo, «desarrollismo», teoria della dipendenza, p. 153 - 4. La guerra civile ideologica. Il fronte rivoluzionario, p. 155 - 5. Una Chiesa lacerata, p. 157 - 6. L’Alleanza per il Progresso e il riformismo mancato, p. 161 Box Fidel Castro e la rivoluzione cubana, p. 147 - La Teologia della Liberazione, p. 160 - Il Cile di Salvador Allende, p. 164

9.

Gli anni ’60 e ’70. Il ciclo controrivoluzionario

169

1. L’età della controrivoluzione, p. 169 - 2. Dal «desarrollismo» al neoliberismo. L’economia dei militari, p. 174 3. L’antipolitica e la dottrina della sicurezza nazionale, p. 178 - 4. Gli Stati Uniti e l’egemonia a rischio, p. 183 Box Il Brasile dei militari, p. 172 - Il Cile di Pinochet, vetrina neoliberista, p. 176 - La repressione. L’Argentina dei «desaparecidos», p. 180 - 1965, i «marines» nella Repubblica Dominicana, p. 186

10. La «decada perdida» e la democrazia (ri)trovata

190

1. Le transizioni democratiche, p. 190 - 2. L’economia negli anni ’80. Il decennio perduto, p. 194 - 3. L’America Centrale in fiamme, p. 198 - 4. La dottrina Reagan e l’America Latina, p. 203 - 5. Le nuove democrazie. Speranze e limiti, p. 206 Box La guerra delle Falkland-Malvinas, p. 192 - La crisi del debito estero, p. 196 - Monsignor Romero e la Chiesa, p. 200 - 1989, invasione a Panama, p. 205 - Venezuela e Colombia, democrazie malate, p. 209

11. L’età neoliberale

211

1. Mercati aperti e globalizzazione, p. 211 - 2. La società latinoamericana negli anni ’90. I nuovi movimenti, p. 216 3. Luci e ombre delle democrazie latinoamericane, p. 219 4. Bill Clinton e l’America Latina, p. 224 - 5. La crisi del neoliberalismo, p. 228 Box Il «Washington Consensus», p. 213 - L’integrazione regionale, p. 214 - Il Chiapas zapatista, p. 218 - Neopopulismo

259

e neoliberalismo. Il Perù di Fujimori e l’Argentina di Menem, p. 222 - Cuba dopo la guerra fredda, p. 226 - 2001, il tracollo argentino, p. 230

12. Il nuovo secolo, tra futuro e déjà-vu

233

1. La svolta a sinistra, p. 233 - 2. La crescita economica e i suoi limiti, p. 236 - 3. Le società latinoamericane nel nuovo millennio, p. 240 - 4. La trasformazione del panorama religioso, p. 243 - 5. L’America Latina e il mondo, p. 245 Box Lula e Chávez, destini incrociati, p. 236 - La variante cinese, p. 239 - L’indianismo radicale, p. 241 - George W. Bush e l’America Latina, p. 248

Indice dei nomi

253