Sermones (I-IV). Filologia e maschera nel Quattrocento. Testo latino a fronte 8843070258, 9788843070251

Fra i testi più moderni e affascinanti della cultura accademica del Quattrocento, i "Sermones" di Codro restit

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Sermones (I-IV). Filologia e maschera nel Quattrocento. Testo latino a fronte
 8843070258, 9788843070251

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BIBLIOTECA MEDIEVALE/ 144

Collana diretta da Mario Mancini, Luigi Milone e Francesco Zambon

I lettori che desiderano informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Carocci editore Corso Vittorio Emanuele II, 229 00186 Roma telefono 06 42 81 84 17 fax 06 42 74 79 31

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Antonio Urceo Codro

Sermones (1-1v) Filologia e maschera nel Quattrocento A cura di Loredana Chines e Andrea Severi Con un saggio introduttivo di Ezio Raimondi

Carocci editore

Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell'Università degli Studi di Bologna e con i fondi PRIN 2008.

l a edizione,

novembre 2013 © copyright 2013 by Carocci editore S.p.A., Roma Realizzazione editoriale: Omnibook, Bari Finito di stampare nel novembre 2013

dalla Litografia Varo (Pisa) ISBN 978-88-430-7025-1

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Il mio incontro con Codro I 9 di Ezio Raimondi Antonio Urceo Codro Profilo bio-bibliografico I 18 Bibliografia/ 23 Nota al testo/ 29 Un maestro per l'Europa/ 31 di Loredana Chines

SERMONES I 48 DISCORSI I 49 Introduzione al Sermo I I 51 Sermo Primus I 60 Note esegetiche al Sermo I I 234 7

Introduzione al Sermo II I 271 Sermo Secundus / 276 Note esegetiche al Sermo II I 312 Introduzione al Sermo III I 319 Sermo Tertius / 324 Note esegetiche al Sermo III I 370 Introduzione al Sermo IV I 377 Sermo Quartus I 382 Note esegetiche al Sermo IV I 432 Indice dei nomi e delle opere / 439

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Il mio incontro con Codro di Ezio Raimondi

Ancora oggi mi chiedo come sia stato possibile non essere som­ merso dal mucchio di libri che accumulavo all'Archiginnasio e alla Biblioteca universitaria di Bologna. Fu in quei locali, nel­ l'immediato dopoguerra, che cominciò la mia avventura con Codro, subito dopo la correzione delle bozze del volume Alma Mater Studiorum, compito che Calcaterra mi aveva affidato nel­ la speranza che prendessi gusto a qualcuno degli argomenti che erano nel suo testo1 • In particolare, mi disse che questo Codro era un personaggio che valeva la pena di riprendere e di studia­ re approfonditamente. Codro aveva dalla sua una biografia che è tra le più vivaci e le più intense. Fortuna voleva, infatti, che nel­ l'edizione postuma fosse stata stampata anche una biografia di uno scolaro, di nome Bartolomeo Bianchini2. Qui si parlava di un incendio dello studiolo di Antonio Urceo a Forlì, della sua rabbia disperata e del suo inveire contro gli dei, della sua pervi­ cace volontà di dormire all'aperto e della successiva assunzione del nome di Codro, ripreso dal disgraziato poeta di cui parla 1. C. Calcaterra, Alma Mater Studiorum. L'Universita di Bologna nella sto­ ria della cultura e della civilta, Zanichelli, Bologna 1948 (11 ed. a cura di E. Pa­ squini, E. Raimondi, BUP, Bologna 2009). 2. Codri vita a Bartholomaeo Bianchino Bononiensi condita ad Minum Ro­ scium senatorem Bononiensem, in A. Urceo Codro, Orationes, seu sermones ut ipse appellabat, epistolae, siluae, satyrae, eglogae, epigrammata, Per loannem An­ tonium Platonidem Benedictorum bibliopolam, Bononiae 1502, die vero 7 Mar­ cii, cc. 1.X2r-cqv.

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Giovenale3• La scelta del nome era in questo caso un modello esi­ stenziale, qualcosa che andava nel profondo, non una semplice imitazione letteraria. Non è un caso che Calcaterra avesse il senso drammatico dei personaggi (lo si capisce bene sol che si pensi a co­ me riscopre Ludovico Di Breme4). Solo di recente, tuttavia, ho ve­ rificato che Calcaterra riprendeva le intuizioni di Burckhardt, il quale parlava di Codro in maniera molto significativa e dramma­ tica nell'ultimo importante capitolo del suo volume sul Rinasci­ mento italiano, quello dedicato agli effetti della religione 5 • Calca­ terra mi propose di studiare Codro, dunque, ma non mi diede nessuna direttiva precisa: il tema di ricerca era genericamente in­ dicato nella partecipazione del mondo universitario bolognese al moto umanistico-rinascimentale. Il modello erudito di Calcater­ ra, che continuava la vecchia lezione torinese di un positivismo agitato dalle forze dello spirito, consisteva nel vedere la storia co­ me storia del molteplice, entro cui mettere ordine interpretando i testi. Egli aveva ben vivo, prima ancora di Dionisotti, il senso del­ la geografia e quindi di una storia che diventava da nazionale re­ gionale con rapporti complessi e diversificati tra le varie parti. Quando non ero in biblioteca, studiavo e scrivevo in un'ex ca­ serma della Milizia che era stata occupata dagli sfollati, in parti­ colare in una cucina, una specie di camerina di prigione con le in­ ferriate alle finestre. Non c'era il riscaldamento centrale, quindi bi­ sognava stare tutti vicini alla stufa economica. Mia madre, men­ tre preparava il pranzo, mi sentiva ogni tanto mormorare delle pa3. Iuv. 1, 2; 3,203 (in entrambi i casi la tradizione manoscritta presenta la va­ riante adiafora con metatesi Codrus/Cordus). 4. C. Calcaterra, Dal Denina al Di Breme, in AA.VV., Mélanges de philologie, d'histoire et littérature ojferts a Henri Hauvette, Les Presses Françaises, Paris 1934, pp. 485-99. 5. J. Burckhardt, La civilta del Rinascimento in Italia, introduzione di E. Ga­ rin, premessa di M. Monaldi, Sansoni, Firenze 2000, parte VI (La morale e la re­ ligione), in particolare pp. 464-5.

IO

role, per cui Codro e Claricio6 erano diventati per lei due perso­ naggi familiari. Così ogni tanto mi chiedeva: «Che cosa hai fat­ to oggi con Codro e con Claricio? ». Erano dei fantasmi. Di qui il mio desiderio di parlare della letteratura per parlare della vita. Leggendo i testi e tentando di tenerli insieme, cominciai allora una esplorazione in cui lentamente componevo un insieme che ri­ prendeva la tradizione positiva dell'ultimo Ottocento - nel clima carducciano - ma introducendo nuove ragioni. Avevo una pre­ parazione disordinata, che poteva tuttavia contare su solidi stu­ di di latino e di filologia medievale, fatti per conto mio, e su let­ ture riguardanti il latino di Plauto (ma Lateinische Literatur und Sprache di Hofmann e Biichner venne solo nel 1951), che mi con­ sentivano di non bollare la lingua di Codro come un semplice fatto di scrittura indocile e irregolare, come forse avrebbe fatto uno studioso della stagione aurea della latinità. Può darsi che agisse nel mio inconscio la lezione di Longhi, che stava risco­ prendo un mondo classico-non classico e vedeva in Bologna il di­ panarsi di una novità e una nota di originalità. Il mio Codro è, per certi versi, un libro "longhiano': nel senso che in esso io faccio un profilo di una cultura che contempla un classicismo con venatu­ re anticlassiche e in cui al latino aureo si contrappone un latino successivo, più ricco e inquieto, già pronto a trasformazioni epo­ cali. Inoltre avevo alle spalle anche letture tedesche che arricchi­ vano il discorso italiano sulla funzione dell'università e sul pro­ blema dell'enciclopedia che gli umanisti promuovevano nel mo­ mento in cui si conquistavano un posto di rilievo nel panorama culturale. Devo anche dire che forse, per fermento negativo, agi­ vano in me anche le lezioni di storia della filosofia di Saitta, che nell'anno in cui frequentai il suo corso universitario vertevano su 6. Per il Claricio cfr. E. Raimondi, Il Claricio. Metodo di unfilologo umani­ sta, in "Convivium", n.s., 1-3, 1948, pp. 3-110 (rise. a cura di M. Veglia, BUP, Bolo­ gna 2009). II

Ficino e Leonardo (e sarebbero poi confluite in tre grossi volumi sull'umanesimo7). Ma rifiutavo, come cosa irreale, una storiogra­ fia idealistica che si riduceva all'analisi della pagina e non ne do­ minava i contesti: Huizinga insegnava già a integrare la ricerca storica con l'antropologia e la storia dell'arte. È probabile che an­ che Sein und Zeit di Heidegger, che mi era stato regalato quando ancora non era stato tradotto in italiano8 , abbia improntato cer­ te mie ragioni più di quanto oggi non riconosca. Un libro veramente importante per inquadrare Codro fu, tut­ tavia, un libro trovato assolutamente per caso, purtroppo quando avevo appena finito di mettere a posto il manoscritto: trovando­ mi un giorno a casa di Franco Serra, il nipote di Renato, che era proprietario di una biblioteca straordinaria con libri acquistati in cataloghi europei, avevo trovato il volume Le probleme de l'in­ croyance au XVI siede di Lucien Febvre9, e lo cominciai a leggere ignorando completamente chi fosse il suo autore, proprio come all'inizio dell'università avevo cominciato a seguire le lezioni di Roberto Longhi senza assolutamente sapere chi fosse. Ero un ignorante colpito dal sapere, ma un ignorante disposto a recepire il nuovo che incontrava: il sapere curioso è un sapere che denun­ cia la propria ignoranza e che trova sempre una misura di quello che riesce a vedere. Ad ogni modo l'efficacia del testo di Febvre era tale che a un certo punto ricordo che, nella cucina dove lavoravo, agitai le braccia in preda all'eccitazione gridando: «Questa è la storiografia che bisogna praticare!». In Febvre le vecchie scrittu­ re umanistiche erudite e curiose diventavano portatrici di signifi­ cati generali e il contratto del vivere diventava un vero destino. 7. G. Saitta, Il pensiero italiano nell'Umanesimo e nel Rinascimento, 3 voll., Sansoni, Firenze 1961. 8. M. Heidegger, Sein und Zeit, Niemeyer, Halle 1927. 9. L. Febvre, Le probleme de l'incroyance au XVI siede. La religion de Rabe­ lais, Albin Miche!, Paris 1942. 12

D'altronde, l'erudizione è vera solo quando è problematica, quan­ do usa i libri per farli diventare dei problemi legati intimamente all'individualità di un soggetto e alla sua storia; l'erudizione è tale se sa muovere le luci in modo da dare un panorama più equo e più variato di quello che è il grande dialogo culturale. All'epoca non sapevo che quella che inseguivo era la "polifonia" di Bachtin, uno degli scrittori la cui traduzione ho atteso con vera trepidazione, perché mi sembrava che in lui il formalismo russo si accordasse con l'erudizione e l'erudizione diventasse analisi del molteplice e della sua complessità10 • Andando contro corrente, ogni tanto io nascondevo gli scrittori a cui mi rifacevo per non essere accusato di ambizione: tenevo insomma le novità "a bagnomarià'. Cercavo di tessere il dialogo delle voci, per dare senso al testo di Codro e risposta ai tanti interrogativi che andavo affastellando. L'erudito è un uomo complicato, diceva Virginia Woolf, perché non disde­ gna nessuna cosa, e deve essere in grado di stabilire fra di esse del­ le relazioni che diano un significato. Non per niente Dionisotti sosteneva che la filologia che aveva in mente andava strettamente legata all'erudizione e di qui nasceva la sua robusta qualità storica, il suo vigore che lo rende simile in certe battute a Lucien Febvre. Tant'è vero che quando Dionisotti venne una volta a Bologna mi disse: «Ma tu mi hai "febvrizzato"!». E io risposi: «T i ho messo sulla buona strada!». Consegnai il manoscritto a Calcaterra. Egli mi diede un pri­ mo assenso limitandosi a criticare le pagine iniziali dove ripren­ devo il racconto di Bianchini e cominciavo la mia narrazione da un fatto di vita quotidiana (l'episodio dell'incendio), operazione che poi si sarebbe chiamata di "microstoria". Cosa avrebbe mai IO. M. Bachtin, L'opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale efe­ sta nella tradizione medievale e rinascimentale, trad. it. di M. Romano, Einaudi, Torino 1979; Id., Estetica e romanzo, a cura di C. StradaJanovic, Einaudi, Tori­ no 1979.

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detto un filologo di quella prima parte? Calcaterra, a modo suo, aveva capito che nel libro c'erano delle ispirazioni che non na­ scevano dal suo insegnamento. Ricordo che le adattai un po', ma non nella sostanza, e Calcaterra infine le accettò, perché non era autoritario e accoglieva le ragioni dei giovani, persino quando questi sbagliavano, confidando nella ragione successiva che avrebbe messo a frutto anche l'errore. Le pagine incriminate eb­ bero poi una loro storia durante il concorso per la libera docen­ za degli anni successivi: la commissione era presieduta da Toffa­ nin, il quale si compiacque personalmente del finale del libro, do­ ve si assisteva alla drammatizzazione del fantasma. Chi non ac­ cettò il libro e trovava impropria la mia scrittura fu il giovane Lanfranco Caretti, che partiva dalla lezione fiorentina di Pa­ squali; il quale Pasquali, invece, fu lettore attento e interessato so­ prattutto al capitolo sul contesto bolognese, definendole pagine « in stile epidittico». Contini aveva dato un giudizio positivo del mio Codro: sentiva che di là dagli umori narrativi del dopoguer­ ra c'era una scrittura analitica che aveva il gusto dell'erudizione come mondo mutevole e contraddittorio. Quando poi lo co­ nobbi a Bologna, mi propose di partecipare al commento dei Poeti del Duecento11 (in particolare mi avrebbe affidato Guinizel­ li), ma, consultatomi con Calcaterra, rifiutai. Una delle cose che accomunano Beroaldo a Codro è il loro tentativo di dimostrare che certe parole dialettali corrispondono a parole tecniche della tradizione latina: l'elemento parlato acqui­ stava così una sua dignità letteraria. Inoltre, sia Codro che Be­ roaldo affidavano ai loro testi eruditi testimonianze autobiografi­ che: parlando del terremoto, ad esempio, Beroaldo ricorda la pau­ ra della moglie ragazzina durante il sisma del 1505, e di come ella si nascose sotto il tavolo - suggerimento che vale ancora oggi. Nel II. G. Contini (a cura di), Poeti del Duecento, 2 voll., Ricciardi, Milano-Na­ poli 1960.

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commento a Properzio, che è importante anche per le riflessioni sopra il ruolo del commentatore, si parlava poi delle lavandaie di Capo di Lucca, che io conoscevo per la mia frequentazione quo­ tidiana di quelle parti, dove c'era un pezzo di campo in cui noi ra­ gazzi giocavamo a pallacanestro. Codro, nel Sermo I, racconta di una volta che, aggirandosi per il mercato delle erbe, che per me era la piazzola (e lo vedevo quasi camminare con una borsetta tra le donne!), si era sentito apostrofare "Barbà' da una venditrice, no­ nostante non fosse ancora cinquantenne. Qui i legami tra passato e presente si facevano inevitabili. Da ragazzino avevo conosciuto un personaggio straordinario nella storia della piccola città bolo­ gnese. Si chiamava Biavati ed era un venditore di lamette che ope­ rava in piazza VIII agosto. Egli, dopo aver raccolto una specie di pubblico, come fosse stato a Hyde Park in Inghilterra, ed essere montato sopra una cassetta - era piccoletto -, cominciava a rac­ contare e dialogare, incantando tutti gli ascoltatori. Alla fine di un'ora di spettacolo offerto gratuitamente, chiedendo quasi scu­ sa, esibiva i suoi pacchetti di lamette. Naturalmente l'uomo era di umori antifascisti: veniva da una storia di anarchia, testimoniata dal nastro nero caratteristico del socialista e dell'anarchico. Rima­ se famosa la sua battuta: «Gli inglesi hanno il tè ma noi abbiamo i limoni». La città l'ha omaggiato con una targa, in piazza VIII agosto, che lo ricorda come parlatore straordinario. Ecco, dentro di me il ritratto di Codro si sovrapponeva a quello di Biavati. Nel leggere poi Beroaldo mi resi conto che questi era anche più significativo di Codro: anche se era meno sorprendente, il commentator bolognese era curioso e umanamente vivo, e con idee più ampie e largamente espresse. Quando il professore di storia moderna e medievale, Simeoni, autore di un volume sulla storia dell'università dal Cinquecento in avanti12, ebbe tra le ma12. L. Simeoni, Storia della Universita di Bologna, voi. (I500-I888), Zanichelli, Bologna 1940.

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II,

L'eta moderna

ni il mio libro, mi disse che le pagine che valevano di più erano proprio quelle su Beroaldo. Ricordo che in quegli anni anche Ga­ rin lo stava studiando. Una cosa interessante dell'umanesimo bo­ lognese è la partecipazione degli umanisti, e Beroaldo in primis, alla produzione di libri13, oltre all'utilizzazione dei conventi con le loro biblioteche come luoghi di indagine: si pensi solo a San Salvatore, San Francesco, San Domenico. È un capitolo in parte raccontato e in parte ancora da raccontare di questa storia che va a finire in Europa. Basta aprire Erasmo, infatti, per vedere come Beroaldo e Codro abbiano avuto una loro collocazione europea, in questo che potremmo chiamare !'"umanesimo della scrittura parlata"; anzi, essi, che avevano fatto della lezione un'entità di­ versa dalla lezione aurea fiorentina, diventarono due maestri. Non dimentichiamoci che Codro, che insiste di continuo sull'u­ tilità della traduzione dei suoi testi per i matematici, gli scienzia­ ti e i medici, fu il maestro di Copernico. Dietro questo legame con la scienza c'è il rapporto tra nominalismo e tomismo: i libri di Ockham e di Scoto erano editi a Bologna con caratteri gotici che li differenziavano nettamente dalla nuova scrittura umani­ stica. Si trattava di inquietudini moderne ma al contempo pre­ moderne che si sarebbero poi proiettate su Lutero, le cui origini sono dentro le filosofie nominalistiche della fede contrapposta alla ragione. Di recente si è data un'edizione critica della Storia di Bolo gna di Giovanni Garzoni14, che appartiene a questa civiltà, anche se con una dimensione di moderato ciceroniano che lo al13. Cfr. ad esempio F. Rossi, Dalla storia della stampa alla storia di Bologna: nomi e personalita desunti da un indice, in M. G. Tavoni (a cura di), Corpus char­ tarum ltaliae ad rem typographicam pertinentium ab arte inventa ad ann. MDL, con la collaborazione di F. Rossi, P. Temeroli, Istituto tipografico e Zecca dello Stato, Roma 2004, pp. 55-83. 14. G. Garzoni, Historiae Bononienses, a cura di A. Mantovani, BUP, Bolo­ gna 2010.

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lontana dai bizzosi scrittori come Codro e Beroaldo, i quali ven­ gono subito catalogati tra gli indisciplinati e dunque tra i "cattivi" umanisti. Ma va sempre ricordato che, nonostante le censure, la scuola bolognese insegnò all'Europa per tre secoli almeno - anche solo attraverso il commento beroaldiano ad Apuleio, testo che varrebbe la pena di essere studiato sistematicamente, con tutti i suoi umori, le sue ragioni e la riscoperta del romanzesco antico. Non è un caso che proprio la cultura bolognese sarà tra le prime a sperimentare il romanzo moderno. Il commento beroaldiano al­ l'Asino d'oro è davvero uno dei regali che la cultura bolognese ha fatto all'Europa. Del resto le lezioni apuleiane di Beroaldo aveva­ no influenzato anche il collega Codro, che nel suo Sermo I, per parlare dell'esistenza umana, sceglieva il paradigma dellafabu/a, che voleva dire tante cose insieme: rappresentazione mitica, figu­ ra, personaggio, gioco dellajìctio che fa parte della realtà. Si po­ trebbe parlare di un pre-ariostismo, perché si preparano qui cate­ gorie che poi entreranno successivamente nel problema della sag­ gezza e dell'avventura dell'esistenza del Rinascimento maturo.

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Antonio Urceo Codro Profilo bio-bibliografico

Antonio Urceo1 - non ancora Codro - nacque a Rubiera nel 1446, il 14 o il 17 agosto. Il proavo Antonino, che per primo era giunto nel Reggiano dal Bresciano, in particolare da Orzi Nuovi (da qui il nome Urceus), era poverissimo. Con tinte romanzesche Bartolomeo Bianchini2 ci racconta che suo figlio ( il nonno del nostro umanista) Bartolomeo, pescatore, trovando in un campo un'ingente quantità di danaro, avviò una più redditizia attività agricola. Grazie alle rendite, il padre del nostro Antonio, Corte­ se3, era divenuto notaio e, dotato di una solida cultura, aveva ben presto incentivato l'istruzione del figlio. Rimasto orfano della madre Geraldina (morta durante il parto del fratello del nostro umanista, Pietro Antonio), il promettente ragazzo studiò prima nella città natale e poi a Modena (con l'umanista Gaspare Tri­ braco de' T irimbocchi). Tuttavia, solo a Ferrara Antonio matu­ rerà la passione per gli studia humanitatis. Nella città estense eb­ be come maestro il figlio del grande Guarino Veronese, Battista 1. Il ritratto che segue è stato ricavato dal confronto di tre testi principali: Codri vita a Bartholomaeo Bianchino Bononiensi condita ad Minum Roscium se­ natorem Bononiensem, in A. Urceo Codro, Orationes, seu sermones ut ipse appel­ labat, epistolae, siluae, satyrae, eglogae, epigrammata, Per loannem Antonium Platonidem Benedictorum bibliopolam, Bononiae 1502, die vero 7 Martii; C. Malagola, Della vita e delle opere di Antonio Urceo detto Codro. Studi e ricerche, Fava e Garagnani, Bologna 1878; E. Raimondi, Codro e l'Umanesimo a Bologna, il Mulino, Bologna 19872 • 2. Allievo di Codro e autore della citata Codri vita. 3. Antonio e suo fratello utilizzeranno spesso il patronimico Cortesi.

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Thémiseul de Saint-Hyacinthe, Matanasiana, ou Mémoires littéraires, his­ toriques, et critiques, du docteur Matanasius, S.D.L.R.G., Charles Le V ier, La Haye 1716, p. 258 (riproduzione di Giacomo Ventura)

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Guarino. Il giovane Urceo entrò nella sua scuola con entusiasmo e si cimentò da subito in un continuo esercizio di traduzioni dal greco al latino e dal latino al greco che gli consentì di acquisire una solida cultura filologica e critica. Presso Battista Guarino - a cui Codro non cessò mai di dimostrare grande stima e gratitudi­ ne - maturò inoltre la predisposizione pedagogica che caratte­ rizzò il suo magistero. Non si sa se abbia insegnato o meno a Fer­ rara come grammaticus, ma certo è che nel 1469, grazie a Luca Ri­ pa, un altro dei suoi maestri, divenne publicus litterarum praecep­ tor nella Forlì di Pino Ordelaffi. Codro si inserì con successo nella vita culturale di Forlì e pro­ babilmente si occupò anche di restaurare l'accademia forlivese dei Filergiti4• Sicuro è, comunque, che presso la corte degli Ordelaffi Codro rivestì con grande passione l'incarico di precettore del gio­ vane Sinibaldo, rampollo della famiglia. La morte precoce di Pi­ no scatenò tuttavia una serie di lotte dinastiche che portarono via la pace della città e la vita del giovane Sinibaldo. Stando sempre alla biografia dai tratti romanzeschi di Bianchini, due episodi de­ gli anni forlivesi sarebbero particolarmente degni di nota per quel che concerne la figura del nostro umanista. Il primo riguarda le circostanze per le quali Antonio Urceo prese il nome di Codro: Bianchini riporta che, passeggiando per le strade di Forlì, Anto­ nio incontrò Pino Ordelaffi e questi nel salutarlo gli si racco­ mandò. A tale saluto, non senza ironia, Antonio rispose «Dii bo­ ni quam bene se res habebat videtis: Iuppiter Codro se commen­ dat! » 5 ( «Santi numi, vedete bene in che stato siamo: Giove si rac­ comanda a Codro!»). Da qui in poi avrebbe sempre usato tale so­ prannome. Con ogni probabilità il nostro umanista trovò la sua sorte simile a quella di un oscuro poeta dell'età flavia, autore di una 4. G. V. Marchesi, Vitae virorum illustrium Foroliviensium, Ex typographia P. Sylvae, Forolivii 1726, pp. 216 ss. 5. Codri vita, cit., c. r1.7r. 20

Teseida, di cui Giovenale, in due delle sue satire (1, 2; 3, 203-2II), descrive la povertà. Il secondo episodio ci appare invece tanto più singolare quanto più caratterizzante la personalità del maestro6• Bianchini racconta che, mentre era precettore del giovane Sini­ baldo Ordelaffì, una mattina uscì di casa per sbrigare affari im­ provvisi in piazza. Probabilmente stanco per aver studiato tutta la notte, l'umanista si dimenticò la lucerna accesa e in poche ore le fiamme distrussero la sua biblioteca. All'annuncio di tale disastro Codro parve uscire di mente e nella disperazione imprecò verso Dio e la Vergine; incapace di placare l'ira, fuggì selvaggiamente nei boschi e vi rimase fìno a sera. Trovando le porte della città già serrate, con un gesto di estrema rassegnazione, si gettò su un cu­ mulo di letame e vi dormì fìno all'alba. La mattina seguente si sta­ bilì presso un falegname e vi rimase per sei mesi, un lungo perio­ do senza libri, tormentato dall'afflizione, da cui uscì solo grazie al­ le insistenti suppliche di Pino Ordelaffi. Dopo la morte di Sinibaldo, avvenuta secondo i cronisti il 14 luglio 1480, Codro si trasferì a Bologna. Forse fu grazie alla racco­ mandazione del maestro Battista Guarino che Antonio decise di trasferirsi nella città dei Bentivoglio, dove entrò in contatto, non senza polemiche, con le personalità dell'accademia bolognese. Co­ dro, a quanto risulta dai Rotuli dello Studio, fu designato profes­ sore nell'anno accademico 1482-837• Antonius de Forlivio, come viene chiamato nei Rotuli, nel 1485-86 ottenne inoltre l'insegna­ mento delle lettere greche. La sua spregiudicatezza gli alienò pa­ recchie simpatie, soprattutto da parte dei medici dello Studio. Al contempo Codro ottenne però grande successo presso gli studen­ ti, cosa tanto più rimarchevole quanto più si consideri che in pas­ sato il suo corso era stato frequentato da pochissimi allievi. È in6. lvi, c. c.t3v. 7. Cfr. a questo proposito L. Chines, I lettori di Retorica e humanae litterae allo studio di Bologna nei secoli XV-XVI, Il Nove, Bologna 1991, pp. 6- 8. 21

dubbio che il nostro umanista trasse, durante i venti anni a Bolo­ gna (che non abbandonò quasi mai), grande profitto dai suoi stu­ di. E altrettanto indubbia è la stima che gli fu accordata da alcuni colleghi, dai discepoli e dalla famiglia Bentivoglio: il grande sape­ re e il carattere faceto e giocoso con cui esponeva gli argomenti avevano fatto diventare Codro una celebre personalità di Bolo­ gna. D'altra parte, a testimoniare la fortuna del suo magistero ac­ cademico sono le stesse prolusioni dei Sermones, raccolte e pub­ blicate dagli allievi. Durante l'insegnamento nello studio felsineo, Urceo instaurò e rafforzò il rapporto con le grandi personalità del­ l'epoca, tra cui Filippo Beroaldo, Angelo Poliziano, Aldo Manu­ zio, di cui abbiamo testimonianza nelle poche lettere rimaste. Fondamentale durante gli anni bolognesi fu la protezione di Gio­ vanni II e di Anton Galeazzo Bentivoglio, ai quali Urceo non esitò a dimostrare somma gratitudine nei suoi scritti. La stima fu reci­ proca e riconosciuta dalla famiglia Bentivoglio ( in particolare da Anton Galeazzo) con la pubblicazione postuma delle opere del maestro. Oltre ai Sermones, Codro compose numerose opere poe­ tiche raccolte in due libri di Silvae e un Epigrammaton liber, ai quali si aggiungono due satire e un'egloga. Dalla raccolta curata dai suoi allievi (Bartolomeo Bianchini, Filippo Beroaldo iuniore e Jean de Pins) rimase tuttavia esclusa la sua opera di più grande dif­ fusione: il Supplementum all'Aulularia di Plauto8 , considerato dai contemporanei come il capolavoro critico e poetico del nostro umanista. Abbandonò la città felsinea solo raramente, per un viag­ gio a Roma e a Venezia e un'ambasciata a Milano (con Alessandro Bentivoglio, Mino de' Rossi e Gianfrancesco Aldovrandi). Codro morì l'n febbraio del 1 500 e fu sepolto nella chiesa di San Salvato­ re sotto l'epigrafe da lui composta: «Codrus eram».

8. Il Supplementum fu ristampato più volte al termine dell'Aulularia nelle edizioni europee del Cinquecento. 22

Bibliografia

I

Edizioni cinquecentesche delle opere di Antonio Urceo Codro Antonius Urceus, Orationes, seu sermones ut ipse appellabat, epistolae, si­ luae, satyrae, eglogae, epigrammata, Per Ioannem Antonium Plato­ nidem Benedictorum bibliopolam, Bononiae 1 502. Antonius Urceus, In hoc Codri volumine haec continentur: Orationes, seu sermones ut ipse appellabat, Epistolae, Siluae Satyrae, Eglogae, Epi­ grammata, Mandato et impensis Petri Liechtensteyn Coloniensis Germani, Venetiis 1 506. Antonius Urceus, In hoc Codri volumine haec continentur. Orationes, seu sermones ut ipse appellabat. Epistolae, Siluae, Satyrae, Eglogae, Epi­ grammata, In Sole aureo vici divi Iacobi pro Iohanne Parvo librario iurato, Parrhisiis 1 51 5. Antonius Urceus, Opera, quae extant, omnia: sine dubio non vulgarem utilitatem allatura grammaticen, dialecticen, rhetoricen et physica profltentibus, Per Henricum Petrum, Basileae 1 540. 2

Letteratura critica AGENO F., Un personaggio proverbiale: il «povero» Codro, in Ead., Stu­ di lessicali, a cura di P. Bongrani, F. Magnani, D. Trolli, CLUEB, Bo­ logna 2000, pp. 43 5-9. ANSELMI G. M., Lefrontiere degli umanisti, CLUEB, Bologna 1988. ID., Faustino, il De triumpho stultitiae e la cultura umanistica tra Bolo­

gna e la Romagna, in AA.VV. , Faustino Perisauli (Pier Paolo Fantino) 23

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3 Edizioni di traduzioni di testi classici* AGOSTINO, La Citta di Dio, traduzione e cura di C. Carena, Einaudi­

Gallimard, Torino-Paris 1992. Antologiapalatina, a cura di F. M. Pantani, 4 voll., Einaudi, Torino 1978-81.

* Laddove non diversamente segnalato, si sono utilizzate queste traduzioni per le citazioni degli autori classici (per gli autori e le opere non presenti in que­ sto elenco le traduzioni sono dei curatori).

APOLLONIO RODIO, Argonautiche, a cura di A. Borgogno, Mondadori, Milano 2007 2• APULEIO, Metamorfosi (L'asino d'oro), a cura di M. Cavalli, Mondadori, Milano 1989. ATENEO, Deipnosofisti. I dotti a banchetto, prima traduzione commenta­ ta su progetto di L. Canfora, Introduzione di Ch. Jacob, 4 voll., Sa­ lerno Editrice, Roma 2001. AULO GELLIO, Le notti attiche, a cura di G. Bernardi-Perini, 2 voll., UTET, Torino 2007 2• CICERONE, L'orazione per Lucio Fiacco, a cura di L. Giannaccari, in Id., Le tre orazioni sulla legge agraria. Per Gaio Rabirio. Per Publio Sil­ la. Per Lucio Fiacco, Mondadori, Milano 1967. ID., Epistole ad Attico, a cura di C. Di Spigno, 2 voll.,UTET, Torino 1998. ID., Opere morali [ Tusculanae disputationes, De senectute, De amicitia], a cura di A. Di Virginio, G. Pacitti, Mondadori, Milano 2007. ESIODO, Opere, a cura di A. Colonna, UTET, Torino 1977. EURIPIDE, Andromaca, introduzione, traduzione e note di C. Barone, BUR, Milano 1997. ID., Medea, introduzione e premessa al testo di V. Di Benedetto, tradu­ zione e appendice metrica di E. Cerbo, note di E. Cerbo, V. Di Be­ nedetto, BUR, Milano 2004. ID., Ecuba, a cura di L. Battezzato, BUR, Milano 2010. GIOVENALE, Satire, introduzione di L. Canali, premessa al testo, tradu­ zione e note di E. Barelli, BUR, Milano 20069 • LUCANO, Farsaglia o la guerra civile, traduzione di L. Canali, premessa al testo e note di F. Breno, BUR, Milano 1997. LUCREZIO, La natura, introduzione, testo criticamente riveduto, traduzione e commento di F. Giancotti, Garzanti, Milano 1994. MACROBIO, I saturnali, a cura di N. Marinone, UTET, Torino 1977 2• MARZIALE, Epigrammi, a cura di G. Norcio, UTET, Torino 1991. MUSEO, Ero e Leandro, a cura di G. Paduano, Marsilio, Venezia 1994. NICANDRO, Theriakd e Alexiphdrmaka, introduzione, traduzione e commento di G. Spatafora, Carocci, Roma 2007. OMERO, Iliade, Odissea, trad. di R. Calzecchi Onesti, introduzione di F. Codino, 2 voll., Einaudi, Torino 1968. ORAZIO, Tutte le opere, a cura di L. Paolicchi, introduzione di P. Fedeli, Salerno Editrice, Roma 1993. 27

OVIDIO, Metamorfosi, introduzione e traduzione di M. Ramous, note di

L. Biondetti, M. Ramous, 2 voli., Garzanti, Milano 1995. ID., Dalla poesia d'amore alla poesia dell'esilio [Amores, Ars amatoria, Re­ media amoris, Medicamina facieifeminae, Heroides, Tristia, Ibis, Epistulae ex Ponto] , a cura di P. Fedeli, Mondadori, Milano 2007. PERSIO, Satire, saggio introduttivo di A. La Penna, traduzione e note di E. Barelli, premessa al testo di F. Bellandi, BUR, Milano 20016 • PLAUTO, Le commedie, a cura di G. Augello, 3 voli., UTET, Torino 1969. PLINIO IL GIOVANE, Opere, a cura di F. Trisoglio, 2 voli., UTET, Torino 1 973• PLINIO IL VECCHIO, Storia naturale, introduzione di F. Della Corte, 5 voli., Giardini, Pisa 1984-87. SENECA, Lettere a Lucilio, traduzione e note di G. Monti, 2 voli., BUR, Milano 1985. ID., Medea, Fedra, introduzione e note di G. G. Biondi, traduzione di A. Traina, BUR, Milano 1989. ID., Le troiane, a cura di F. Stok, BUR, Milano 2007 3 • STAZIO, Opere, a cura di A. Traglia, G. Arico, UTET, Torino 1980. SVETONIO, Vite dei Cesari, traduzione di F. Dessì, 2 voli., BUR, Milano 19924. TACITO, Annali, introduzione di C. Questa, traduzione di B. Ceva, 2 voli., BUR, Milano 1981. TEOCRITO, Idilli e epigrammi, a cura di B. M. Palumbo Stracca, BUR, Mi­ lano 20045 • VALERIO FLACCO, Le Argonautiche, introduzione, traduzione e note di F. Caviglia, 2 voli., BUR, Milano 1999. VALERIO MASSIMO, Detti efatti memorabili, a cura di R. Faranda, UTET, Torino 1971. VIRGILIO, Opere, a cura di C. Carena, UTET, Torino 1971.

Nota al testo

In assenza di autografi o idiografi e di una tradizione manoscrit­ ta ad oggi nota dei Sermones, l'edizione si avvale del testo della princeps edita a Bologna nel 1 502, curata dagli allievi diretti di Codro dopo la morte del maestro, sia per quanto riguarda i testi qui proposti sia per le citazioni tratte da altre opere dell'umani­ sta. Sono state occasionalmente segnalate in nota alla traduzio­ ne, in particolari situazioni testuali di ambiguità o di errore, le eventuali lezioni riportate dall'edizione di Basilea del 1 540; è sta­ ta inoltre evidenziata nel testo latino la presenza di evidenti re­ fusi tipografici adeguatamente emendati. La grafia è stata normalizzata all'uso moderno ( v al posto di u semiconsonantica, uso delle maiuscole ecc.). Si sono utilizzate le virgolette basse per le inserzioni dialogi­ che create dalla penna dello stesso Codro, mentre le virgolette al­ te ricorrono per le citazioni degli autori. Nei casi di oscillazione grafica (monottongo/dittongo - laeta­ vitl letavit; Perottus/Perotus) oppure incertezze su parole derivate dal greco ( Tersitem/Thersita; Ptolomaeus/Ptolemaeus) si è scelto di mantenere le difformità in quanto caratteristiche peculiari e signi­ ficative del latino umanistico; si è proceduto, invece, a uniformare le grafie di forme morfologiche che compaiono talvolta in forma unitaria o perifrastica (non ne/nonne, inquantum/in quantum), onde non sviare il lettore dalla corretta lettura del testo. Si è inoltre inserita una paragrafatura che scandisse le sequen­ ze logico-semantiche del testo e si è ricorsi a segnali di interpun­ zione che ne restituissero il respiro. 29

All'interno del testo latino si è mantenuto, in assenza di una numerazione delle carte nell'edizione del 1 502, il riferimento alla fascicolatura. Per quanto riguarda il sistema di notazione, infine, si specifica che le note al testo latino, a piè di pagina, segnalano gli interventi filologici ritenuti necessari dagli editori per sanare errori o refusi dell' editio princeps, mentre le note alla traduzione, collocate in fondo ad ogni sermo, sono di carattere esegetico, sto­ rico, intertestuale.

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Un maestro p er l'Europa di Loredana Chines

Leggere i discorsi tenuti pubblicamente da un docente delrA.teneo bolognese nell'ultimo ventennio del Quattrocento è come aprire una timida finestra su un frammento quotidiano del passato, ten­ tando di carpire da una parola che non fu solo scritta, ma anima­ ta, recitata, ascoltata, espressioni vive di un'umanità lontana. A tale riflessione invitano i Sermones di Codro1 , che già nel ti­ tolo, di oraziana memoria (forse non lontano anche da un am­ miccamento parodico al genere delle prediche medievali2 ), espri­ mono la volontà di un approccio colloquiale3 , di un andamento didascalico non irrigidito in forme dogmatiche, ma aperto al di­ scorso agile, finalizzato alla comprensione immediata, recalciI. L'ordine dispositivo dei Sermones scelti per la stampa, voluta nel 1502 da Antonio Galeazzo Bentivoglio per commemorare l'opera e l'erudizione del fa­ moso maestro, non rispetta la progressiva successione cronologica di composi­ zione (antecedenti al I sono, infatti, i sermones V, VII, VIII, IX, X, XI, XIII, XIV) . 2. Si ricordi che Poliziano stesso, in gioventù (sembrano risalire agli anni 1467-78), scrisse due sermones per la compagnia dei Vangelisti. 3. Tale approccio colloquiale più volte ribadito da Codro ha poi una rica­ duta che affiora nel momento della riproposizione della parola degli antichi che caratterizza l'umanesimo: egli infatti commette, nel citare i classici, alcuni erro­ res, che, non comparendo come varianti negli apparati critici delle edizioni mo­ derne degli auctores interessati, sono la testimonianza del fatto che Urceo citava spesso i brani a memoria: nel Sermo IV, ad esempio, capita che Codro citi Virgi­ lio, Aen. II 305-307 sostituendo « gurgite» a « flumine» , e dunque scambiando due termini isoprosodici e dal significato similare; o che in Orazio, Epist. I 18, 9 sostituisca « redactum» a « reductum» , termini molto simili dal punto di vista del segno e del senso.

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trance a ogni retorica ampollosa e magniloquente. Così, in un pe­ riodare non troppo attento all'applicazione delle norme cicero­ niane, le massime erudite degli antichi saggi sono pronte a fram­ mentarsi in una serie di esempi tratti dalla realtà comune; a un'e­ rudita disquisizione sull'entità del "vero" può seguire un salace aneddoto esplicativo (e distensivo) di gusto novellistico; le nor­ me aristoteliche del "giusto mezzo" possono dar luogo a un'im­ peccabile trattazione sistematica o alla profana dichiarazione della necessaria «mediocritas unguium». E di certo questa mescolanza dei piani del reale e dei livelli di trattazione, questo scomporsi di verità sapienziali in giochi pri­ smatici di rimandi e analogie (in cui molti elementi dovettero en­ trare in gioco, non ultimo il dibattito filosofico sul rapporto tra universale e particolare) sono caratteristiche costanti del bizzar­ ro ed eruditissimo maestro che fu Codro, il cui ritratto più sug­ gestivo ed esauriente - dopo la celebre monografia ottocentesca di Malagola4 - rimane quello delineato da Ezio Raimondi 5. Il rifiuto di ogni schematismo rigido, dell'ipotesi interpreta­ tiva unitaria e definitiva (su cui in qualche modo pesarono lo spe­ rimentalismo commentario e lo spirito filologico propenso alla considerazione di una verità infieri) esprime in Codro la co­ scienza della multiformità e del divenire metamorfico del reale, che trova la propria trasposizione nell'immagine già albertiana del "camaleonte" o nella figura mitologica di Proteo, il dio che nasconde nel gioco di continui mutamenti il volto inattingibile della verità6 • 4. C. Malagola, Della vita e delle opere di Antonio Urceo detto Codro. Studi e ricerche, Fava e Garagnani, Bologna 1878. 5. E. Raimondi, Codro e l'Umanesimo a Bologna, Zuffi, Bologna 1950 (n ed. il Mulino, Bologna 1987). 6. Non è un caso che sulla figura di Proteo tornino altri umanisti della scuo­ la bolognese come Filippo Beroaldo nellaDeclamatio an orator sitphilosopho an32

Parlare di Codro significa, tuttavia, anche ragionare su aspet­ ti peculiari dell'umanesimo europeo, sullo stesso sfondo su cui si stagliano figure del calibro di Erasmo. Europeo si può definire Codro a buon diritto per una serie di ragioni: dalla fisionomia degli allievi di diverse nationes studentesche che accorrevano a sentire il brillante professore di greco, alla diffusione delle sue opere, testimoniata dal doppio versante della tradizione sia a stampa che manoscritta: quest'ultima, ad esempio, ci restituisce, anche se per excerpta e frammenti, la saggezza espressa dalla sua vena epigrammatica facile da ridurre a loci communes; senza di­ menticare i suoi rapporti con intellettuali che ebbero un peso straordinario per la cultura filologica e la cultura tout court del­ l'Europa (da Angelo Poliziano ad Aldo Manuzio), o certi straor­ dinari aspetti di modernità nel suo sistema di pensiero, che anti­ cipano istanze della sensibilità europea dei secoli successivi. Non v'è alcun dubbio che la fortuna oltralpe delle opere di Codro sia legata soprattutto al celebre Supplementum all'Aulula­ ria di Plauto, a quell'autore, cioè, che tanta fortuna filologica ed esegetica ebbe tra gli umanisti bolognesi del primo Cinquecento7. Se per Beroaldo, come si dice nella lettera dedicatoria al discepo­ lo boemo «Ladislaus Vartimbergensis» (Ladislao von Warten­ berg ), la «Plautina elegantia», che egli ha cercato di restituire ai teponendus (1487) e nei Symbola Pythagorae (ca. 1500); Giovan Battista Pio, nel Plautus integer cum interpretatione Ioannis Baptistae Pii, Per Magistrum Ulderi­ cum Scinzenzeler, Mediolani 1500, c. Ar; e, più tardi, Achille Bocchi, per cui si veda l'introduzione al Sermo I. 7. Si pensi al Plautus diligenter recognitus di Filippo Beroaldo, pubblicato a Bologna nel 1503, o al già citato commento di Giovan Battista Pio edito a Mila­ no nel 1500, sulla scia di quell'interesse già quattrocentesco per il commedio­ grafo latino che mai - a cominciare dal reperimento del celebre codice orsinia­ no con le mancanti dodici commedie plautine - smise di sedurre gli umanisti (dal Panormita al Guarino fino al Pontano), con i nodi filologici e le questioni metriche e linguistiche che portava con sé.

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testi finalmente «levigati» ed «expoliti», dovrà essere diffusa da­ gli allievi stranieri che torneranno a insegnare nelle terre d'origine, Codro, che uguale attenzione filologica dedica a tali testi, non so­ lo assume le istanze ermeneutiche profonde che vi sono sottese ( il senso della teatralità, della maschera, della prospettiva proteifor­ me e polifonica con cui la realtà si osserva e si descrive), ma entra in gara con il modello, componendo quei 122 versi di un Supple­ mentum destinato a molte edizioni europee8 • Per Codro - e di questo si resero ben conto anche i suoi numerosi allievi - Plauto è un paradigma linguistico, ermeneutico ed esistenziale profonda­ mente interiorizzato: così, se da un lato possiamo notare che la ga­ ra linguistico-mimetica con il modello porta il maestro alla crea­ zione di neologismi (come il verbo composto depulvero, sulla ba­ se del plautino pulvero9 ) , dall'altra non bisogna sorprendersi di ri­ trovare il bizzarro professore dello Studio bolognese - o, meglio, la maschera che amò indossare - come protagonista di commedie di studenti transalpini che a Bologna furono suoi allievi, come la Scornetta di Herman Knuyt van Slytershoven di Vianen e, forse, l'eponima Codrus di Johannes Kerckmeister (Johannes Limburg, Miinster 1485)10• Ma anche altre edizioni di Codro, prima dell'ultima basi­ leense del 1540 (per i tipi di Henricus Petrus), videro la luce nel cuore dell'Europa: si pensi all'edizione veneziana del 1506 (non 8. Si tratta dell'Aulularia ab Antonio Urceo perjècta cumfamiliari expositio­ ne, stampata parecchie volte tra Parigi e Strasburgo nella prima metà del Cin­ quecento. 9. Conservato in un frammento citato da Gellio (:xvm, 12). Depulvero è il solo vocabolo di un latinista moderno che ebbe l'onore di entrare nel Lexicon to­ tius latinitatis di Forcellini. IO. Cfr. E. Rickert,johannes Kerckmeisters Schulkomodie Codrus (I485) als Zeugnisfar den Humanismus im nordwestdeutschen Raum. Mit einem Faksimi­ le des Erstdrucks von I485, Neuedition, Obersetzung ins D eutsche, Kommentar und Interpretation, Aschendorff. Miinster 20n.

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importa ribadire qui l'apertura europea di una città come Vene­ zia) o a quella parigina del 1 51 5 (per i tipi di Jean Petit), com­ prendenti una riproposizione di tutti gli Opera del maestro na­ to a Rubiera già pubblicati nell' editio princeps bolognese del 1 502 (vale a dire i Sermones, le Epistolae, le Sylvae, le Satire, l'e­ gloga, gli epigrammi e la vita di Codro scritta dall'allievo Barto­ lomeo Bianchini), che si aprono con il Sermo I, il più importan­ te e programmatico. D'altra parte, su tale fortuna nella ricezione europea non po­ teva non incidere, come si è detto, l'amicizia e la stima che intel­ lettuali della statura di Aldo Manuzio e di Angelo Poliziano mo­ strarono verso il professore dello Studio bolognese. Dalla rispo­ sta di Codro a Poliziano (lettera del 5 luglio 1494), che aveva sot­ toposto al suo vaglio, prima della pubblicazione, alcuni epi­ grammi greci fra i tanti compostin, emergono la stima del colle­ ga fiorentino per Urceo e il tratto inconfondibile della simpatia umana e della modesta reticentia di Codro: Poliziano ha dato al già anziano Codro la possibilità di confrontare e, confrontando, di imparare ancora qualcosa12 • E la sentenza del professore del­ l'Ateneo bolognese non poteva che essere scontata nei toni lu­ singhieri: «et certe mihi visus es et latinus vir tersissimus et graecus facundissimus ». Ma l'ostentazione di modestia non si ferma qui: «Ego ne paucis admodum litteris e mediocri ingenio dotatus, tibi viro in omni doctrinae genere peritissimo, consi­ lium dabo? ». Grande è la dolcezza e la qualità, anche metrica, dei versi greci di Poliziano, tale da superare quasi quella degli an11. «Quaedam graeca ex multis quae composueras epigrammata» (A. Ur­ ceo Codro, Orationes, seu sermones ut ipse appellabat, epistolae, siluae, satyrae, eglogae, epigrammata, Per loannem Antonium Platonidem Benedictorum bi­ bliopolam, Bononiae 1502, c. Su). 12. «Dedisti enim mihi senescenti quid comparare, et quid comparando di­ scere possem » (ibid.).

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tichi. Dunque l'esortazione è a pubblicarli quanto prima1 3 , sia per la sua gloria sia perché gli studiosi possano giovarsi della sua dottrina. Ma più interessanti, anche nella prospettiva europea dell'in­ terlocutore, sono i rapporti con un altro grande protagonista del­ la cultura europea di inizio Cinquecento, vale a dire Aldo Ma­ nuzio, che le lettere prefatorie alle edizioni dei classici dell'edito­ re veneziano (pubblicate da Dionisotti1 4) ci consegnano cristal­ lizzati in un'idillica armonia. Com'è noto, Aldo Manuzio nel 1 4 99 dedica a Urceo i due volumi della raccolta di epistole di scrittori greci1 5, e gliene invia un esemplare in dono, sia come pe­ gno di affetto da parte sua, sia perché il maestro possa utilizzarli a lezione: «Has ad te, qui et latinas et graecas literas in celeber­ rimo Bononiensi Gymnasio publice profìteris, muneri mittimus, tum ut a te discipulis ostendantur tuis ... » 16 ; ma in realtà l'analisi delle epistole di Codro ci restituisce una maggiore ricchezza di informazioni e una più articolata complessità di relazioni, met­ tendo adeguatamente in luce certi debiti di Aldo verso l'Urceo. Da una lettera a Manuzio, scritta da Bologna il 14 ottobre 1492, si evince che Codro era stato a Venezia presso Aldo per qualche tempo e che aveva fatto da tramite fra l'editore veneziano e il grande grecista Niccolò Leoniceno, impossibilitato in quel mo­ mento ad accontentare le richieste di Aldo1 7• In quella circostan13. «Quare non te tantum hortor ut edas quae scripsisti, sed rogo et obte­ stor. Ede ede quam celerrime» (ivi, c. S1v). 14. Aldo Manuzio editore. Dediche, prefazioni, note ai testi, introduzione di C. Dionisotti, testo latino con traduzione e note a cura di G. Orlandi, 2 voli., Il Polifìlo, Milano 1975. 15. Malagola, Della vita e delle opere, cit., p. 215. 16. Aldo Manuzio editore, cit., vol. I, p. 26. 17. «Opera graeca quae flagitas, non potes nunc habere, quoniam Nicolus graecus occupatus in aliis est. Cum perfecerit quae in manibus habet, tui memor ero» (Urceo Codro, Orationes, seu sermones, cit., c. S5r).

za Manuzio dovette sottoporre all' Urceo alcune questioni inter­ pretative legate a lezioni corrotte di testi greci che ha sotto ma­ no. Da parte sua, Codro cerca di aiutare Aldo a non stampare brani senza senso: certo, dice Codro, che Aldo non può com­ prendere quel verso di Teocrito nell'epitalamio di Elena pronun­ ciato dal coro di fanciulle davanti alla stanza nuziale della fan­ ciulla a un Menelao - il più invidiato degli uomini - che si era addormentato inspiegabilmente presto la prima notte di nozze, dal momento che egli ne ha una lezione corrotta 1 8 : per capire il v. 14 dell'Epitalamio di Elena occorre leggere la forma dorica di fvav, vale a dire fVY]V, per far tornare metricamente il verso, e per corroborare tale lezione Codro cita un passo delle Nuvole di Ari­ stofane (v. 1134) e quel Giulio Polluce, lessicografo greco del II se­ colo d.C., di cui Aldo stamperà per la prima volta il Vocabularium nel 1502. Non c'è dubbio che il maestro dello Studio bolognese abbia dato in questo modo il suo piccolo ma significativo contri­ buto a quell'edizione di Teocrito che Aldo darà alle stampe tre anni dopo, nel 1495. Codro promette inoltre di sciogliere presto ad Aldo - ora non può - anche un dubbio su un verbo imperso­ nale con l'accusativo usato da Ovidio19 • Quel poco che ci rimane dello scambio epistolare tra Aldo e Codro è tutto tramato di eru­ dizione e bibliofilia: si legge ancora di una questione metrica che 18. «Versum Theocriti qui est in Helenae epithalamio corruptum habes ideo intelligere non potes. Ego integrum habeo et manu Andronici viri doctis­ simi et eloquentissimi [ si tratta di Andro nico Callisto] sic autem iacet 7t'cdòetv èç �tX6ùv op6pov È7Tel Kal evtXv [sic] 1ertl èç àw uhi evtXv legis positum pro EVYJV dorice » (ibid.). Si tratta del genitivo femminile dorico da evoç, che significa vecchio, pre­ cedente, passato, spesso legato all'aggettivo véoç, per indicare la luna vecchia e nuova insieme. Così infatti Codro prosegue: «autem significat finem et princi­ pium mensis vel lunae; dicitur tamen coniunctim, sed Theocritus primam tan­ tum partem posuit » (ibid.). 19. «Impersonale verbum quod est apud Ovidium cum accusativo cum in­ venero ad te scribam » (Urceo Codro, Orationes, seu sermones, cit., c. S5v) .

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il primo vuole sottoporre al secondo, relativa questa volta alle odi di Pindaro20 ; Codro chiede invece ad Aldo, ovviamente dietro compenso o adeguato scambio di codici, un Apollonio Rodio (se ne ha uno già trascritto, bene; altrimenti lasci perdere perché a Padova ha bene in mente chi possa fare questo lavoro per lui21 ) ; l' Urceo vuole anche sapere a quanto si vende l'opera di Boezio e se può trovare lì un Dione storico o in greco o in latino22 • Ma tra le pieghe della ricerca filologica, tra le esigenze profes­ sionali e quelle imposte dagli interrogativi dellefabulae, emerge anche il caldo lato umano del maestro bolognese. Nelle righe di congedo, infatti, egli chiede ad Aldo di salutargli alcuni umanisti del suo cenacolo, incontrati presumibilmente a Venezia, tutti ri­ gorosamente accompagnati da un aggettivo che li caratterizza: «Vale cibi me commendo et rogo ut me commendes Demetrio Mosco viro docto, M. Antonio Sabellico viro eleganti ac diserto, Raphaeli Regio viro emuncto, domino Danieli viro humano, et aliis nostrorum studiorum studiosis» 23 • Più ancora che da questi 20. «Quod de ratione metrica quae est in odis Pindari scire cupis res longa est et diffìcilis scriptu. Nam sunt aliquae odae quae habent XXIII versuum spe­ cies, aliquae quae XVIII, aliae alium numerum » . Anche se il commento di Co­ dro a Pindaro è vecchio e in cattive condizioni, egli cercherà comunque di sod­ disfare la curiosità dell'amico: «Et commentarium meum admodum vetus est ita ut vix legi possit. Curabo tamen si iusseris quoquo modo potero tibi satisfa­ cere » (ibid.). 21. «Si Apollonius transcriptus est, placet, mitte, ego tibi pecunias nume­ rari iubebo vel aliquod opus graecum quod volueris reprehendam; sin minus, omitte, ego nam Patavii habeo qui illum exarari facit» (ibid.). 22. «Boetii opera quanti veneant scire cupio, et si Dionem historicum vel graecum vel latinum istinc habere possim » (ibid.). 23. Si tratta di Demetrio Mosco, dotto grecista, spartano che fu a lungo a Ferrara, poi a Mirandola e nel 1492 a Venezia, dove conobbe probabilmente Ur­ ceo; di Antonio Coccio, detto il Sabellico, il celebre autore di una storia di Ve­ nezia e di commenti ai classici (Plinio il Vecchio, Valerio Massimo, Livio, Ora­ zio, Giustino, Floro); di Raffaele Regio - che si trovava allora probabilmente a

saluti un poco di maniera, è però dalla risposta alla polemica che Giorgio Valla aveva mosso nei suoi confronti che apprendiamo di che pasta è fatto l'autore dei Sermones; a Valla che non aveva ap­ prezzato il Supplementum all'Aulularia plautina e che lo aveva ap­ pellato «maestrucolo da trivio» (non diversamente da come Poggio aveva definito Lorenzo Valla nelle sue Invective), Urceo ri­ sponde dapprima che Giorgio, se non l'avesse offeso, avrebbe po­ tuto imparare qualcosa di prezioso da lui; poi relativizza la scher­ maglia da par suo e confida ad Aldo - ed è proprio la proverbiale maschera di Codro a parlare - che «Qui tutti viviamo con ambi­ ziosa povertà. Siamo poveri di lettere e vogliamo sembrare onni­ scienti»24. Ecco qui in nuce un tema che a Codro sta particolar­ mente a cuore e che torna a più riprese nei sermones (in particola­ re nel primo): alla fine di un secolo in cui, oltre a fare grandi sco­ perte, i filologi si sono scannati reciprocamente anche e soprat­ tutto su questioni di lana caprina, Codro insegna, sulla scorta paolina, che dovere dei letterati (e degli uomini in genere) do­ vrebbe essere quello di non insuperbire, bensì imparare l'uno dal1'altro e amarsi a vicenda; dunque, prima di disprezzare un uomo che non si conosce, bisogna pensarci tre o quattro volte2 5 • Venezia per la stampa dei suoi commentari alle Metamorfosi di O vidio presso Ottaviano Scotto -, che Erasmo ricorda di avere incontrato a Padova già set­ tantenne ma con una straordinaria tempra fisica che non lo faceva mai desiste­ re, anche nei freddi invernali più temibili, dall'insegnamento; e, infine, di Da­ niele Clari da Parma, amico di Aldo Manuzio e professore di lettere greche e la­ tine a Ragusa. 24. «Alde mi humanissime possem illud luvenalis dictum in hanc rem de qua loquor convertere. 'Hic vivimus ambitiosa paupertate omnes'. Sumus litte­ rarum pauperes et volumus videri omnia scire» (A. Urceo Codro, Orationes, seu sermones, cit., c. S5v). 25. «ltaque officium nostrum esset non superbire, sed alterum ab altero di­ scere et nos invicem amare; et hominem ignotum, ter et quater priusquam con­ temnas, versare» (ibid.).

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Ma ancor più interessante è, per i rapporti con l'editore vene­ ziano, la lettera indirizzata da Codro il 15 aprile 1498 a Battista Pal­ mieri, l'allievo che, secondo Bartolomeo Bianchini, primo bio­ grafo di Codro, il maestro «unice dilexit», da cui si apprende an­ che dell'importante mediazione svolta da Alessandro Sarti (più celebre per il decisivo ruolo giocato nella complessa vicenda del­ l'edizione dell'opera polizianea). Sarti ha portato a Codro da par­ te di Aldo due volumi greci e una lettera in cui si pregava di paga­ re al latore quanto si doveva per i libri. Si tratta del De animalibus di Aristotele e di un Vocabularium. L'Urceo ha assecondato la vo­ lontà dell'amico veneziano e ha versato a Sarti quanto gli doveva. Ma - e qui apprendiamo che Codro si dedicava anche alla pro­ mozione economica dei volumi aldini - egli aveva venduto a sua volta due Teocriti e due opuscoli sul morbo gallico26 , quindi oc­ correva fare i conti; ma in questa lettera l'Urceo lamenta non so­ lo l'avarizia dell'editore e dei suoi soci, ma pure il costo eccessivo dei volumi aldini, che sprecano carta ponendo poca scrittura nel­ la pagina, per rendere grande un'opera piccola27• Come se non ba­ stasse, il testo aristotelico che Aldo gli ha mandato non è certo im­ peccabile, presentando numerosi errori, alcuni dei quali intollera­ bili, che Codro riesce a scovare non solo grazie alla sua acribia di filologo, ma anche in quanto spettatore delle dissezioni anatomi­ che che si praticavano ancora clandestinamente, dimostrando con ciò un forte interesse per le scienze naturali che avranno da Ulis­ se Aldrovandi (1522-1605) in poi un ruolo centrale nell'Ateneo bo26. «Ego illi numeravi bisilascos quattuor et libras octo. Sed prius vendi­ deram duo opuscula de morbo gallico solidos decem et duos Theocritos. Unum solidos quadraginta quinque, alterum quadraginta » (ivi, c. S2r). 27. «Scito me nihil abeo [ab eo] deinceps empturum esse, ut credo, prop­ ter caritatem (ut ad eum scripsi) rei parvae quam ipse et sotii magnam faciunt multum papyri in chartis fere vacuis scriptura consumentes, nisi forte minoris pretii seu tolerabilioris res suas existimaverint » (ivi, c. S2v).

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lognese28 • Nella medesima lunga lettera, che forse fu scritta a più riprese, Codro annuncia di aver subito venduto il vocabolario che aveva acquistato da Aldo perché non aggiungeva niente alle sue conoscenze29 ; e anche le altre osservazioni, relative al suddetto di­ zionario non sono troppo lusinghiere30• Sarti, per vendergli due commedie di Aristofane, gli ha chiesto un bolognino d'oro, ma Codro non ha accettato, ignaro del futuro3 1 • Se vuole, l'amico Pal­ mieri può riferire ad Aldo il contenuto di questa lettera, ma con riservatezza, e senza rivelarlo ad altri32 • Si è detto prima che Codro è il dedicatario di quella edizione delle lettere greche di vari autori, pubblicate da Aldo nel 1499, e forse non è un caso che l'allievo straniero più celebre di Codro, ovvero il ventitreenne Niccolò Copernico, che studiò diritto ca­ nonico fra gli studenti della natio alemanna a Bologna tra il 1496 28. «Oesophagum, idest gulam qua cibus acque potus devoratur, positum esse intra collum et arteriam non infìcior, et ego vidi saepe in dissectionibus cada­ verum longitudinem habere cum strictura; sed ab strictura et longitudine cogno­ men seu denominationem habere non intelligo, et puto hoc esse falsum cum a delatione cibi in ventriculum nomen habeat : nam a futuro huius verbo cf>épw quod est o'io-w et cf>tiyw comedo compositum est hoc nomen olo-ocf>tiyoç. Quid er­ go diceremus, errassene Aristotelem? Minime. Impressores ? Nequaquam: quo­ niam tale habuerunt exemplar in quo hic error inveteratus erat ut ex antiquissi­ ma patet translatione. Quid ergo? Dicam tibi quod sentio. olo-ocf>tiyoç vocabulum est a medicis usurpatum. Puto ergo medicos vocabulum ab Aristotele positum glossula declaravisse sive suprasignasse et uhi Aristoteles scripserat o Te io-9 !,tòç, il­ li desuper fecerunt olo-ocf>tiyoç, et paulatim obliteratum est hoc nomen io-9 !,tòç et loco eius successit olo-ocf>tiyoç » (ivi, c. S3r). 29. «Vocabularium mihi ab Aldo missum vendidi statim cum vidissem il­ lud nihil ad meum» (ivi, c. S3v). 30. « Tabula etiam illa quae est in ultima parte libri deridetur a doctis viris » (ibid.). 31. «Voluit Alexander Sartius relinquere mihi duas Aristophanis comoe­ dias et exigere unum aureum, ego nolui, quia futura non novi » (ivi, c. S4r). 32. «Si vis haec omnia quae cibi familiarissime scripsi referre Aldo: per me licet, sed ne litteras ipsas in manus alicuius sinas pervenire» (ibid.). 41

e il 1500, apprendesse privatamente il greco da Urceo, esercitan­ dosi in una traduzione in latino delle lettere greche di Teofilatto Simocatta, incluse nell'edizione aldina, traduzione poi stampata a Cracovia nel 1509 33 • La presenza poi di certe singolari riprese tematiche fra l'ope­ ra di Codro e quella erasmiana potrebbe certo far pensare a co­ muni letture, a una comune sensibilità culturale, alla fortuna dif­ fusa di certi topoi fra Quattro e Cinquecento; eppure - vista l'im­ portanza del soggiorno veneziano nella formazione di Erasmo, unita al fatto che la seconda edizione degli Opera di Codro vede la luce, come sopra si diceva, proprio a Venezia nel 1506 - tale presenza non può nemmeno far escludere una lettura diretta del­ l'opera dell' Urceo da parte del grande intellettuale olandese. Si prenda ad esempio il motivo della precarietà e dell'incertezza di ogni sapere, soprattutto di quello dei grammatici e dei filologi, che Codro declina con il suo gusto paradossale nei Sermones, so­ prattutto nel primo (124-125), su cui si veda qui l'introduzione al Sermo I ( «O poveri filologi che vi perdete in queste minuzie e in questa incertezza di elementi! Ma i grammatici più esperti, che sdegnano di essere annoverati tra i maestri del trivio e a buon di­ ritto, dato che conoscono tutta l'enciclopedia, lo dicono a chiare lettere e si definiscono ora scrittori ora autori, si affaticano giorno e notte per scrivere commenti, notti attiche, eleganze, questioni epistolari, annotazioni, osservazioni, castigazioni, miscellanee, centurie, questioni plautine e altre questioni, proverbi, antichità, raccolte, cornucopie, paradossi, orazioni, discorsi, facezie; avanti, si stampino o si trascrivano velocemente queste opere, ma prima si aggiungano in principio lettere ai lettori o a coloro ai quali so­ no dedicati i nostri lavori composti a lume di candela» )3 4, moti33. Malagola, Della vita e delle opere, cit., p. 338. 34. «O miseri philologi qui in his minutiis et hac elementorum incertitu­ dine versamini! Sed grammatici peritiores, qui se trivialibus annumerari dedi42

vo satirico ripreso da Erasmo nel cap. 49 dell'Encomion morias; oppure si pensi al fortunatissimo tema diatribico che interseca vari generi letterari, dalla novella alla facezia alla commedia, del­ l'opportunità o meno di prendere moglie, che Codro affronta nel Sermo IV ed Erasmo nel cap. 20 dell'Encomion, con il ricorso co­ mune da parte dei due umanisti al termine coruca3 5, che, come ha ben visto una mia allieva, Chiara Maccaferri, inchioda entrambi i testi a un ramo secondario della sesta satira di Giovenale e alla intrigante questione filologica ad esso sottesa3 6• Di portata tutta europea è, inoltre, il tema del riso, della ma­ schera, della teatralità e del doppio, che ha solo nell�berti delle lntercenales e del Momus un antecedente così significativo. Il ri­ so di Codro, come del resto quello albertiano, è vicino a quel ri­ so di Democrito di cui parla Giovenale nella decima delle sue Sa­ tire (10, 28-53), contrapponendolo al pianto di Eraclito; è quel ri­ so che ha qualcosa di doloroso e che ben presto gli umanisti con­ sacrarono a topos europeo, grazie anche alla versione latina delle Epistole pseudo-ippocratiche da parte di Rinuccio Aretino e Giovanni Aurispa; è il riso che troviamo esplicitamente menziognantur et merito quoniam totam encyclopaediam noverunt ac profitentur et modo se scriptores modo auctores appellane, dies et noctes laborant ut scribant commentarla, noctes atticas, elegantias, epistolicas quaestiones, annotationes, observationes, castigationes, miscellanea, centurias, quaestiones plautinas et alias, proverbia, antiquitates, collectanea, cornucopiae, paradoxa, orationes, ser­ mones, facetias; age imprimantur seu transcribamur propere haec opera sed ad­ dantur in fronte epistolae ad lectores vel ad eos quibus dedicatae sunt lucubra­ tiones nostrae » . 35. Si tratta di un uccello che alleva nel nido figli non suoi, e dunque do­ vrebbe intendersi, fuor di metafora, come "cornuto". 36. Curuca è attestato in tutto il ramo della tradizione manoscritta della sesta satira (v. 2 76), mentre l'edizione critica moderna (che segue il ramo princi­ pale della tradizione, P) legge uruca, che significa " bruco", "verme", in senso di­ spregiativo.

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nato dall'Erasmo dell'Encomion; è il riso di Rabelais di fronte al­ lo spettacolo della vita umana; è il riso di Montaigne, che, do­ vendo scegliere fra Democrito ed Eraclito, scrive nei suoi Essais (1, 5 0) «Io preferisco l'umore del primo, non perché è più piace­ vole ridere che piangere, ma perché esso è più sdegnoso e perché ci condanna più dell'altro»37; è il riso che dà vertigine; è, ancora, il comico assoluto, come dice Baudelaire nel suo saggio sull'es­ senza del riso. Così non è improprio dire che per Codro la catte­ dra universitaria diventa un palcoscenico, lo spazio del teatro e della maschera, nel gioco di luci e di ombre, di vanità sceniche, di riflettori che si accendono e si spengono. Il maestro funambolo, consapevole dellajàbula che è l'esi­ stenza e della cenere a cui ogni uomo è destinato, a riflettori spen­ ti, si raccoglie assorto in improvvisi coni d'ombra, giocando con la propria immagine, con il proprio doppio, come avviene nel bell'epigramma dal titolo Lamentatio Codri in cui si specchiano i due volti del giovane maestro contornato dalla folla di studen­ ti, dal frastuono gioioso degli allievi, dai suoni della vita, e quel­ lo di un uomo repentinamente maturo, su cui avanza l'ombra ge­ lida del silenzio e della solitudine3 8 • O è il doppio allo specchio, l'immagine riflessa, quella che il maestro vede nella propria effi­ gie dipinta dal Francia per Gian Galeazzo Bentivoglio, che il si­ gnore bolognese volle nelle sue stanze e che andò malaugurata­ mente distrutta nell'incendio di Palazzo Bentivoglio del 1 5 07. Di questo ritratto si parla nella chiusa della già menzionata lettera al Palmieri, e a tale occasione Codro dedica un'elegia e un epi­ gramma. Tale epigramma compare anche come epigrafe a un ri­ tratto di Codro restituitoci, ancora una volta, dalla fortuna eu37. «J'ayme mieux la premiere humeur, non par ce qu'il est plus plaisant de rire que de pleurer, mais parce qu'elle est plus desdaigneuse, et qu'elle nous con­ damne plus que l'autre » . 38. Urceo Codro, Orationes, seu sermones, cit., c. G3rv.

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ropea del maestro: si tratta di un'incisione di François Bleyswich pubblicata nella seconda parte del primo tomo dei Mémoires lit­ teraires, historiques et critiques (cfr. supra, p. 19) che padre T hé­ miseul de Saint-Hyacinthe pubblicò all'Aia nel 1716, sotto lo pseudonimo di Docteur Matanasius: «Si Codrus tibi notus est viator / Quis Codrus magis est an hic, an ille»39 • Il ritratto è senz'altro suggestivo anche se non sappiamo a quali fonti icono­ grafiche attinga e se abbia o meno un qualche legame con l'opera del Francia; poco probabile, dal momento che nell'elegia Ad Ga­ leatium Bentivolum de immagine Codri Urceo scrive «Me quo­ que iussisti sapientum vivere coetus / Et meditabundo dieta no­ tare statu»40 ; dove quindi l'immagine sembra cogliere Codro nell'atto di annotare assorto alcune parole. Molte altre cose si potrebbero dire su affascinanti percorsi che legano Codro all'Europa, come le vicende di quel prezioso codice di Basilio proveniente da Costantinopoli che Codro la­ sciò per volontà testamentaria alla biblioteca dei canonici di San Salvatore a Bologna, ma che fu depredato durante le razzie della prima Repubblica francese e rimase presso la Biblioteca Nazionale di Parigi, come ancora oggi testimoniano i due sigil­ li rossi che vi furono apposti, prima di essere restituito nel 1815 per entrare nella Biblioteca universitaria di Bologna (ms. 2288); o ancora gustosi aneddoti si potrebbero raccontare a proposito di Codro e l' Europa, come quello narrato da T iraboschi nella sua Storia della letteratura italiana41 , secondo cui nel 1760 du­ rante un banchetto a casa del duca de La Valière era nata una di39. De imagine sua, ivi, c. H2v. Il testo dell'edizione settecentesca olandese è riportato con un errore: si legge infatti il/a al posto del corretto il/e. 40. Urceo Codro, Orationes, seu sermones, cit., c. Bu (nell'edizione del 1 502 i carmina hanno un registro a parte la cui numerazione alfanumerica ri­ comincia). 41. Vol. VI, parte III, pp. 1111-2.

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sputa fra alcuni eruditi se si potesse o meno esporre decente­ mente, in francese e senza offendere il pudore del pubblico fem­ minile, un argomento licenzioso. A tale invito uno degli erudi­ ti presenti rispose, recando al Duca un «Excerptum ex sermone sexto Urcei Codri», con la richiesta di volgerlo in francese. Qualche tempo dopo quel racconto fu tra le mani di Voltaire, che leggendo nel titolo «Ex sermone» lo scambiò per il sermo­ ne di un frate, facendo di Urceo il reverendo padre Codret e ci­ tandolo come tale in un opuscolo da lui pubblicato nel 176042 , in cui si porta come esempio di oscenità del predicare religioso; avvisato poi dell'equivoco da una lettera dello stesso duca de La Valière, Voltaire pubblicò l'epistola insieme a una sua risposta nel "Giornale enciclopedico': per poi togliere l'errore e cambia­ re il titolo all'opuscolo nella nuova edizione delle sue opere usci­ ta a Ginevra nel 176143 • Credo, per concludere, che una delle lezioni che Codro ha la­ sciato ai suoi allievi e a una certa sensibilità europea (la stessa del­ l' Erasmo dei Colloquia) sia quella di rifuggire dalle inutili am­ pollosità retoriche del linguaggio; all' Urceo, come dice anche Beroaldo il Giovane che ne fu allievo, conveniva un «sermo fa­ miliaris, quotidianus», quello stesso linguaggio che evocava, nel­ l'immaginario di un grande maestro come Ezio Raimondi, poco più che ventenne ai tempi della lettura di Codro, le scene della vi­ ta vera e i personaggi di una Bologna reale, svelando tutto il fa­ scino eterno di certo umanesimo, proprio nella dimensione in cui la letteratura si fa vita in un gioco di maschere allo specchio che si iterano e che continuano a dialogare.

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42. [Voltaire], Appe/ toutes !es Nations de l'Europe, des]ugemens d'un écri­ vain anglais ou Manifeste au sujet des honneurs du Pavillon entre !es Théatres de Londres & de Paris, et la suite Recueil des Faceties Parisiennes, pour !es six pre­ miers mois de I760. 43. Malagola, Della vita e delle opere, cit., pp. 368-9, nota 3.

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Vorrei aggiungere, in conclusione, che qui si presenta il felice frutto di un lavoro di équipe, realizzato con il contributo di allie­ vi e giovani studiosi che insieme a me si sono dedicati con pas­ sione e competenza ai testi dei Sermones. In particolare hanno la­ vorato: al Sermo I Roberta Dieci, al Sermo III Giacomo Ventura, al Sermo IV Chiara Maccaferri, al Sermo II Andrea Severi, co-cu­ ratore di questo primo volume dei tre previsti per l'intera edizio­ ne dei Sermones, a cui si aggiungerà la Vita di Codro scritta da Bartolomeo Bianchini. Un ringraziamento particolare vorrei rivolgere al professor Ezio Raimondi per il dono con cui ha voluto impreziosire que­ sto volume, a testimonianza, ancora una volta, dell'altissimo ma­ gistero umano, della generosità intellettuale e della straordinaria lezione critica che ci ha consegnato.

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Sermones

Discorsi

Sermo l

Introduzione Il Sermo I, che apre la raccolta delle prolusiones di Codro, fu scritto tra il 1494 e il 1495, come si può ricavare dalla presenza di alcuni riferimenti alla Lega di Venezia, alla discesa di Carlo VIII e al tredicesimo anno di insegnamento del magister, che ci per­ mettono di fissare le coordinate cronologiche in cui il discorso s1 1nsensce. Già nel titolo, infatti, il Sermo presenta quasi la formulazio­ ne di una chiave ermeneutica, di una specola interpretativa con cui accostarsi alla molteplicità del reale: «de metamorphosi hu­ mana in belvas». Si pone qui come centrale il motivo del meta­ morfico e del proteiforme, che rivela solo a tratti, per enigmi e con giochi illusori di specchi, il volto del vero - topos ricorrente nell'umanesimo da Alberti in poi, destinato a grande fortuna in particolare nel Rinascimento bolognese: si pensi al simbolo 61 delle Symbolicae quaestiones di Achille Bocchi (1555), che ha co­ me protagonista il dio Proteo. Nell'incipit programmatico del discorso, Codro individua il ruolo agente dell' interpres (soggetto-ermeneuta) che deve saper discernere le verità criptiche (oggetto) nascoste dai velamina poetici ( «fabulae graecae» ). La trattazione e lo studio dellafa­ bula da parte del soggetto-ermeneuta si muovono, a ben guar­ dare, su una doppia linea interpretativa, che coglie la finzione letteraria nella sua dimensione profonda e ontologica oltre la fi51

gura ( «tum graviter» ), ma anche in quella autenticamente let­ teraria, forte per sua stessa connotazione estetica difictio ( «tum facete»). Strettamente connessa alla duplicità del livello di decodifica dellafabula è la bivalente finalità dell'atto interpretativo (scopo): da un lato rivolto a carpire con multiforme sagacia un armonico enciclopedismo sapienziale ( «omnes vitae humanae partes, om­ nia studia, omnes scientiae» ), dall'altro non meno attento alla creazione di una terrena e oraziana mediocritas, di una nervosa e divertita coscienza esistenziale che trova la sua esemplificazione icastica e splendidamente prosaica nell'evocazione del piacere semplice e puerile della «merenda». Il duplice scopo dell'atto interpretativo rimanda, d'altra par­ te, al modo con cui le finalità si conseguono (metodo), anch'esso non univoco, ma ben precisato da Codro: analogico-associativo ( «congregaturus») e analitico-distintivo ( «examinaturus» ), quasi a voler sottolineare il valore esemplare della parte e la com­ plementarità del tutto nella totalità del reale. Dopo aver enucleato le componenti essenziali dell'atto inter­ pretativo, il magister si preoccupa di puntualizzare la chiarezza del registro e la familiarità dei toni con cui verranno esposti gli esiti dell'operazione ermeneutica. Il discorso sarà condotto «senza belletto» ( «sine ullo fuco») e senza alcun ornamento ( «sine cincinnis» ), in modo da poter essere compreso agevol­ mente da un fanciullo anche semianalfabeta ( «ut quivis puer etiam semilitteratus citra fastidium verba mea facile percipere potuerit» ). Chiarite doviziosamente le premesse metodologiche, Co­ dro passa ad annunciare l'oggetto del corso dell'anno, che lo ve­ drà impegnato nella lettura dellefabulae di Terenzio, di Euripi­ de, di Omero, il genitore stesso delle favole, da cui trassero ori­ gine la commedia e la tragedia, nella cui opera si racchiude in nuce Io sviluppo successivo di tutte le scienze e le arti, lì armo52

nicamente raccolte in una grande sintesi poetica di saggezza pri­ migenia. Lafabula dunque, vox media tanto comica quanto tra­ gica, che si identifica con lafictio poetica (ma anche con la di­ mensione esistenziale), sarà l'oggetto di trattazione del maestro. Dovendosi avvicinare all'argomento specifico del Sermo, la tra­ sformazione umana in fiera, Codro cita due auctoritates in pro­ blemi di metamorfosi, Luciano e Apuleio, di cui - dice, non senza un ammiccamento ironico alla polisemia del linguaggio tiene quasi ogni giorno gli asini tra le mani ( «ego quoque quo­ tidie fere Luciani et Apulei asinos in manibus habeo » ) ammi­ rando nel primo la brevità e l'originalità ( «brevitatem et inven­ tum » ), nel secondo la facondia e l'eleganza ( «copiam [ ... ] acque elegantiam » ). La penna di Codro, tra bizzarria narrativa e spirito esegeti­ co, si esibisce in una serie mirabolante di aneddoti metamorfici, che non risparmia nemmeno la razza degli dei ( è noto infatti che Zeus assunse le fattezze di lupo e la prole di Semele quelle di ca­ pro) e si inoltra nella rappresentazione compiaciuta di episodi di licantropia e di eventi magici (sostenuta dalle autorevoli voci di Virgilio e di Plinio il Vecchio) in cui si realizzò una trasmuta­ zione, della quale, aggiunge Codro al limite del sacrilegio, non esitò a servirsi neppure il nostro Redentore. Ma, abbandonato l'incalzante carosello teriomorfo offerto dalle auctoritates, il to­ no si ricompone in una nota assorta, attenta a cogliere la verità filosofica celata dai velami poetici. La metamorfosi, allora, sem­ bra divenire gioco di sembianze e allusione implicita al princi­ pio platonico della fallacia illusoria delle apparenze; qui Codro si ferma in limine, preferisce non addentrarsi in un'interpreta­ zione filosofica compiutamente articolata, in cui la trasfigura­ zione - di pitagorica memoria - diventi fino in fondo proiezio­ ne spettrale di una verità inattingibile. Egli sceglie di fermarsi davanti al baratro del non conoscibile e, con modus oraziano, preferisce passare in rassegna i vitia zoomorficamente stigma-

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tizzati in una consolidata tradizione iconografica di gusto me­ dievale, quasi ad alleggerire il peso di una riflessione ai limiti del­ la vertigine con un rassicurante ricorso a familiari raffigurazio­ ni allegorico-moraleggianti: troviamo allora rappresentato nel lupo il «violentus ereptor » dei beni altrui, nell'astuta volpe si celano i tratti dell' «insidiator et fraudolentus», mentre nel ca­ prone o nel maiale si eternano i caratteri del «libidinosus [ ... ] et spurcis voluptatibus immersus»; le chiacchiere del maldicente, invece, ben si addicono al vano blaterare del cane e così via, men­ tre in varie fiere s'incarna l'uomo che dimentica la ragione ed è sopraffatto dall'istinto. Ogni cosa, del resto, sulla terra è all'insegna della mutevo­ lezza. Tutto muta. Mutano i tempi, mutano i costumi, addirit­ tura - dice scherzosamente Codro - le femmine si mutano in maschi, mutano i denti, mutano le corna dei cervi: non ci si me­ ravigli dunque della metamorfosi umana, fenomeno di facile rea­ lizzazione. Dopo essersi allontanato, piroettando, dal limite del­ la riflessione oscura, trascinato dal ritmo scherzoso e carnevale­ sco che coinvolge ogni sfera dell'esistenza, ecco un nuovo pen­ siero che lo riporta al territorio della "vertigine": cosa ben più te­ mibile del trasformarsi in asino, incarnando un vizio eterno ma vitale dell'uomo, è diventarefabula. Che ne è stato di uomini fa­ mosissimi e poeti e oratori e re e imperatori e popoli e nazioni? «Fabulae». Che cos'è Omero? «Fabula». Cosa Demostene? «Fabula». Cosa Alessandro Magno? «Fabula». E di certo tut­ ti quelli che giacciono nelle tenebre e nell'ombra della morte so­ no «fabulae». Tuttavia, aggiunge Codro, «nomen et fama non in tenebris iacet, sed eternum vivit et in perpetuum vivet». Lafa­ bula rivela allora una complessità di valenze fin qui rimasta cela­ ta: essa è anche l'ombra oscura della morte che vanifica. Ciò che si racconta è ciò che non è più. Proprio in questo, dunque, è il va­ lore effimero e insieme titanico dellafabula, a un tempo prefigu­ razione del Tartaro che incombe e affermazione irriducibile e 54

sconsolata della dignità dell'uomo, a cui bisogna tenersi legati nella infantile ma necessaria illusione di una continuità esperien­ ziale e conoscitiva che perpetui la memoria degli uomini e delle cose. Del resto la vita stessa, come lafabula, non ha in sé cose né vere né verosimili e, dice Codro, non esistono età dell'uomo pri­ ve di guai e di affanni; sapientemente il magister illumina di nuo­ vo il palcoscenico ( che rischia di diventare troppo tetro) scim­ miottando alcuni assurdi luoghi comuni sulle bellezze della sta­ gione senile: la vecchiaia di per sé è una malattia, come dice un famoso «latinus comicus » , lo sa bene Codro, che è ormai «quinquagenarius » e, come dicono a Bologna dei vecchi, un «barba » . È evidente in Urceo la divertita volontà di sovvertire polemicamente le decantate e canoniche dolcezze della terza età e soprattutto di prendere di mira la somma auctoritas da cui so­ no tradizionalmente sostenute, menzionata poco oltre senza troppi riguardi: «Quid creditis vos? At Cicero affirmat et Co­ drus negat » . Egli si sente più vicino alle verità di altre fonti, come Ome­ ro ed Euripide, che insistono sulla fragilità della condizione umana senza false lusinghe e fallaci ottimismi. Cosciente della innegabile precarietà esistenziale, Codro, ben lungi dal ripiega­ mento interiore inerte e remissivo, dà, piuttosto, spazio alla for­ mulazione di riflessioni gnomiche di moderato gusto oraziano­ epicureo che il giusto posto assegnano al valore della virtù e del­ le lettere: «in gaudiis, in virtute et litteris quodcumque aevi da­ bitur » . Alla continua fiera della transmutatio non si sottraggo­ no i tempora e nemmeno le humanae artes. E qui Codro, con­ vinto della vanità del tutto, si cimenta (come prima ha fatto con il "gigante" Cicerone) in un'altra operazione di sovvertimento di un topos diatribico di lunga tradizione classica, quello della migliore scelta di vita che si possa compiere. Il classico latino da cui Codro prende le mosse è citato genericamente ( «ut inquit Flaccus » ), ma vi è un chiaro riferimento all'ode proemiale di 55

Orazio. A Urceo, tuttavia, non interessa, come invece al poeta latino, opporre agli altri bioi l'eccezionalità della propria esi­ stenza; egli vuole solo soffermarsi sui meccanismi affannosi e vani che muovono l'essere umano, qualsiasi attività egli svolga. Ogni gesto porta, inesorabilmente, i segni della patetica finzio­ ne della maschera, i caratteri di vanità di un atto mancato, spes­ so sapientemente inseriti in una gustosa climax che conduce con immancabile puntualità al noto refrain «fabulae sunt», al qua­ le non si sottraggono nemmeno gli illustri rappresentanti della scienza medica. Urceo li raffigura in azioni iterate e affannose, in cui l'effetto comico è freudianamente ottenuto dal dispendio di energie certo maggiori degli effettivi esiti finali conseguiti da un mestiere sedicente utile. Quali garanzie di validità oggettiva offre, infatti, questa scienza? A questo proposito Codro non si risparmia gustose considerazioni sulla pluralità delle scuole me­ diche e dei sistemi terapeutici. E non si sottraggono di certo alla condizione di vana precarietà i maestri delle arti liberali, evocati con vivace andamento elencatorio di gusto plautino ( « gramma­ tici, grammatistae, magistri triviales, pedagogi, penulati ») dove il capriccio fonico della pluralità del significante sortisce effetti di indiscutibile comicità. Essi insegnano, istruiscono, ammoni­ scono, castigano, senza alcuna certezza. Infatti non sanno nem­ meno se h sia una consonante o no, se i gerundi siano verbi o no­ mi, se le parti del discorso siano due (come vogliono i dialettici) o sette, otto, nove o più. Non riescono a stabilire con sicurezza se sia vissuto prima Esiodo oppure Omero; continuano a dispu­ tare su chi abbia inventato il verso dell'elegia. Tutto, allora, gia­ ce in una sconfortante ambiguità anche per i cultori delle litte­ rae e Codro non esita certo a inserire se stesso e la propria cate­ goria nel mondo fantasmagorico dellafabula, come ben mostra il gustoso svolgimento successivo del discorso, in cui i gramma­ tici appaiono come inquietanti presenze spettrali, ridotte allo stato larvale dalla continua ossessione competitiva e dal timore

di valide emendazioni alle loro congetture, avanzate da più eru­ diti antagonisti. Anche i Sermones del maestro rientrano naturalmente nel­ l'incanto illusorio dellafabula, a cui del resto appartiene il pote­ re anfibolico e plurivalente della parola. Il discorso di Codro si sposta con movenze bizzarre e divertite sulla capricciosa ambi­ guità del significante: all'allievo che domanda quale libro verrà letto durante la lezione il maestro risponde «officia Ciceronis», gettando lo sprovveduto discepolo nel dubbio che possa trattar­ si tanto dell'elenco dei compiti che il grande oratore era chiama­ to ad assolvere, quanto del reale trattato ciceroniano (similmen­ te si potrebbe dire per la «senectus» di Cicerone o per l' «ani­ ma» di Aristotele). Il grande gioco di specchi dell'esistenza, in cui trionfano l'ef­ fimero, il transeunte, l'apparente, non risparmia certo l'austero scenario del cerimoniale accademico, anzi trova in esso e nella sua dimensione teatrale piena ed esaustiva realizzazione: «in foribus gymnasiorum, et templorum, et in pilis platearum chirographos affigimus, vocamus Rectores Studiorum, Dialecticos, Philo­ sophos [ ... ] ornantur cathedra et sedilia tapetibus, et stragulis ve­ stibus: his congregatis tandem incipimus. Hic laudat Homerum, ille Vergilium [ ... ] quid tandem? Fabulae». Nella chiusa del Sermo si assiste, dunque, a una sorta di sov­ vertimento carnevalesco del ruolo inizialmente sacralizzato del magister-interpres. È un ribaltamento che bachtinianamente ammicca al trionfo del divenire sulla fissità, della pluralità sul monovalente, del metamorfico sullo sclerotizzato, per dar voce alle esigenze profonde di un vitalismo dinamico, che superi l'ombrosa prefigurazione della fine attraverso la negazione del circoscritto, del gerarchico e del compiuto. Nello stesso princi­ pio di mobilità, in cui oggetto trattato e soggetto trattante si confondono, in cui l'attore-autore si offre come vittima sacrifi­ cale esemplare del proprio paradigma ermeneutico, rientra il

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coinvolgimento del lettore-ascoltatore (fino a quel momento esterno fruitore della coscienza del comico) nel meccanismo va­ nificante dellafabula: inutile ascolto egli presta alle facezie di Codro, che mettono di buon umore e conferiscono precaria glo­ ria al bizzarro maestro. Anche sulla fama, aggiunge l'Urceo con movenze topiche, incombe l'ombra dell'oblio e della morte, uni­ ca certezza debolmente alleviata dalla parentetica consapevo­ lezza di un al di là: «Quam famam? Quam immortalitatem? Si post mortem aut nihil eris, aut, si eris ( ut credimus) no men tuum infinitate annorum e memoria hominum delebitur ». Co­ dro, tuttavia, non manca di sottolineare la necessità dellafabu­ la che illude di un senso le azioni umane, sapientemente orga­ nizzate nella triplice iteratio della interrogativa retorica: «At si haec exercitia sive studia humana, quea recensuisti, vana sunt et fabulosa, cur militamus? Cur exercemur? Cur appetimus? Ne­ scio certe, nisi quia hae fabulae nobis bonae et utiles videntur, aut ad eas fato seu necessitate compellimur». Nelle premesse metodologiche del Sermo I di Antonio Urceo si cela, dunque, la formulazione di un'ermeneutica asistematica, o meglio di un sistema antidogmatico in cui l' interpres si fa por­ tatore di una nuova Weltanschauung. Se nella fissità gerarchica del cosmo medievale, in cui ogni cosa è cristallina certezza, con­ dizione edenica e atemporale, non c'è posto per il riso del saggio, nell'umanesimo, in cui la conoscenza dell'uomo e della storia ha mostrato la prospettiva del divenire, del transeunte e della tem­ poralità, il riso di Democrito esprime la laica coscienza della plu­ ralità dell'esistenza, ma può a tratti adombrare il disagio di una perduta felicità primigenia. Se è vero che il riso di Codro si è nutrito della lettura degli scettici, della mordace satira classica (che aveva trovato per altri versanti voce nella cultura del "proteiforme" di un Alberti o di un Landino ), è d'altra parte difficile non riconoscere nel velleitari­ smo del beffardo maestro un'ansia di antica verità perduta, che

giace integra e assoluta soltanto nel verbo divino e solo a tratti si sottrae (o sembra sottrarsi) alla paziente ricerca dei grandi fìlo­ sofì (Aristotele) o alla primitiva ingenuità della poesia (Omero). Il riso, dunque, assurge a simbolo bivalente della condizione di inferiorità legata allo smarrimento di un assoluto infranto e al tempo stesso della cosciente superiorità dell'uomo calato nella storia, consapevole della pluralità del reale e protagonista titani­ co dello sforzo dignitoso e incessante (ma mai esaustivo) della ri­ cerca. Il comico diventa così espressione di una vertigine, di un gioco scenico, di una pantomima in cui l'uomo è maschera che gioca alla creazione di esistenze.

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Antonii Codri Urcei Sermo Primus

[c. A3r] (1) Accipite laetis animis, viri clarissimi, sermonem meum, si modo meus est qui sic a virorum doctissimorum sen­ tentiis concinatus. (2) In hoc ego, fabularum graecarum inter­ pres, de fabulis tum graviter tum facete locuturus sum, et omnes vitae humanae partes, omnia studia, omnes scientias congrega­ turus ac examinaturus sum, praebeboque vobis hodie meren­ dam, seu silatum quoddam dulce ac salutiferum, quod fortasse nimias animi perturbationes sedabit et ad mediocritatem quan­ dam hilaritatis perducet. (3) Dicamque adeo familiariter et quanta brevitate potero, sine ullo fuco, sine ullis cincinnis, ut quivis puer etiam semilitteratus citra fastidium verba mea facile percipere potuerit. (4) Quo fato mihi accidisse - dicam - nescio, viri excellentissimi, ut hoc anno totus in fabulis legendis verser: nam fabulas Terentii, fabulas Euripidis, Homerum ipsum fabu­ larum parentem, a quo tragoedia et comoedia duxerunt origi­ nem, publice lectito, et hodie fabulas Aristophanis vobis bene audientibus sum auspicaturus; non desunt etiam auditores, qui sibi fabulas Aesopi declarari veline. (5) Praeterea ego quoque quotidie fere Luciani et Apuleii asinos in manibus habeo, unius brevitatem et inventum, alterius copiam admirans acque elegan­ tiam. (6) Quare formido male, sicut Sosia Plautinus dicit, ne ego hic nomen meum commutem et e Codro fabula sive asinus fìam; quod postremum si mihi accideret, hi contentiosi admodum sophistae, me conspicati, verissime conclusionem illam in me ef­ futire possent: ergo tu es asinus. (7) Sed nulli vestrum haec hu­ mana metamorphosis, idest transfìguratio, mira esse videatur et omnino1 àoùva-roç, idest fieri non posse, cum res nova non sit; sed apud maiores nostros saepenumero haec factitata sit, unde Ly­ caona in lupum versum fuisse legimus, lo in vaccam, Calisto in 1.

Omnino ] omino.

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Primo discorso di Antonio Urceo Codro

(1) Accogliete con piacere1, uomini illustrissimi, il mio discorso, se solo può essere detto mio ciò che è stato assemblato con paro­ le di uomini dottissimi. ( 2) lo, interprete di favole greche, parlerò in esso di favole ora seriamente ora per scherzo2 e raccoglierò ed esaminerò tutte le parti della vita umana, tutte le attività, tutte le discipline e vi offrirò oggi una merenda3, o piuttosto un po' di dolce e salutare vino silato4, che placherà forse le ansie eccessive e procurerà una certa allegria. (3) Parlerò perciò in maniera col­ loquiale e quanto più concisamente potrò, senza alcun belletto, senza alcun ornamento 5, in modo tale che un ragazzo anche se­ mianalfabeta potrà capire facilmente le mie parole senza an­ noiarsi. (4) Non so perché quest'anno mi sia capitato - ve lo con­ fesso, uomini illustrissimi - di dedicarmi interamente a leggere opere teatrali: infatti leggerò pubblicamente le opere di Terenzio, quelle di Euripide, Omero stesso genitore di queste opere, dal quale la tragedia e la commedia trassero origine, e oggi comin­ cerò, se starete attenti, a leggervi le commedie di Aristofane; an­ che se non mancano tra il pubblico coloro che vorrebbero ascol­ tare le favole di Esopo. (5) Inoltre anch'io quasi quotidianamen­ te ho tra le mani gli asini di Luciano e di Apuleio, del primo am­ mirando la brevità e l'originalità, del secondo la facondia e l'ele­ ganza6. ( 6) Perciò temo proprio, come dice il Sosia di Plauto, di dover cambiare il mio nome e di diventare da Codro una favola o un asino7; cosa che se alla fine mi accadesse davvero, quei de­ trattori sofisti fino al midollo, dopo avermi guardato, potrebbe­ ro a ragione vomitarmi addosso la conclusione: dunque tu sei un asino. ( 7) Ma a nessuno di voi questa umana metamorfosi, cioè trasformazione, dovrebbe apparir mirabile, un vero e proprio àòuvcrroç, cioè una cosa impossibile, dal momento che non sa­ rebbe una cosa nuova; anzi, presso i nostri antenati queste cose avvenivano molto spesso, per cui leggiamo che Licaone fu tra61

ursam, Actaeona in cervum, Hecubam in canem et alios morta­ les in alia id genus animalia. (8) Diis quoque gentium hanc mu­ tationem accidisse giganteo bello receptissimi auctores testan­ tur: nam Iuppiter se in arietem mutavit, Delius in corvo, ut seri­ bit Ovidius ("Proles semeleia capro, / faele soror Phoebi, nivea Saturnia vacca, / pisce Venus latuit, Cyllenius ibidis alis" ). (9) Ac­ qui illa fìgmenta sunt poetarum allegorice et sub veritatis prae­ textu ad delectationem decantata? Hoc me latet. (10) Nam Vir­ gilius, antiquitatis amantissimus, de quibusdam herbis ponticis loquens dixit: "His ego saepe lupum fieri et se condere silvis / Moerim, saepe animas imis excire sepulcris / acque satas alio vidi traducere messes". (n) Et Plinius Secundus, quanquam homines verti in lupos fabulosum dicit esse, tamen narrat, ex Evanthis auc­ toris Graeci sententia, ''Arcadas scribere ex gente [c. A3v] Antaei2 quendam sorte electum ad stagnum quoddam regionis eius duci vestituque in quercu suspenso tranare acque abire in deserta trans­ fìgurarique in lupum, et cum caeteris eiusdem generis congrega­ ri per annos novem. Quo in tempore si homine se abstinuerit, re­ verti ad idem stagnum et, cum tranaverit, effìgiem recipere ad pristinum habitum addito novem annorum senio. Addit quoque Fabius eandem recipere vestem". (12) Et statim post ita subiungit: "Itaque Copas, qui Olympionica scripsit, narrat Demarchum Parrasium, in sacrificio quod Arcades Iovi Lycaeo humana etiam cum ostia faciebant, immolati pueri exta degustasse et in lupum se convertisse; eundem decimo anno restitutum achleticae restitis­ se in pugillatu victoremque Olympia reversum". (13) Haec eadem recitat ex sententia M. Varronis Augustinus additque ipsum exi-

2.

Antaei ] Ancaei.

sformato in lupo, lo in vacca, Callisto in orsa, Atteone in cervo, Ecuba in cane e altri uomini in altri animali di questo tipo. (8) Autori notissimi affermano che durante la guerra contro i gigan­ ti anche agli dei toccò questa trasformazione: Giove infatti si mutò in ariete, Apollo in corvo, come scrive Ovidio ("il figlio di Semele in un capro, la sorella di Febo in un gatto, la dea saturnia in una candida vacca, Venere si nascose sotto le spoglie di un pe­ sce, il dio di Cillene sotto le ali di un ibis" 8 ). (9) Ma queste fin­ zioni sono semplici allegorie dei poeti e narrate solo sotto il pre­ testo della verità per divertire? Questo non lo so. (10) Infatti Vir­ gilio, grande cultore dell'antichità, parlando di alcune erbe del Ponto, disse: "Per loro mezzo io spesso farsi lupo e occultarsi nei boschi vidi Meride, o anime dal fondo evocare dei sepolcri e da un campo a un altro trasferire le messi" 9 • (n) E Plinio il Vecchio, anche se dice che gli uomini trasformati in lupi sono solo favole, tuttavia, riportando ciò che dice l'autore greco Evante, narra che gli Arcadi hanno lasciato scritto che "dalla famiglia di Anto si tirò a sorte un membro e che questo sia stato condotto presso uno stagno di quella regione e, una volta appesa la veste ad una quercia, egli abbia attraversato a nuoto lo specchio d'acqua e, an­ datosene in luoghi deserti, si sia trasformato in lupo e sia rimasto per nove anni in un branco assieme ai suoi simili. Dopo questo periodo di allontanamento dal genere umano, ritornò poi in quello stesso stagno e, riattraversatolo, riacquistò il suo aspetto umano, solo invecchiato di nove anni. Fabio aggiunge che si ri­ mise persino lo stesso vestito" 1 0 • (12) E subito dopo aggiunge: "E Copa, che scrisse gli Olimpionici, narra che Demarco di Parrasia, durante un sacrificio che gli Arcadi facevano a Giove Liceo an­ cora a quel tempo con vittime umane, mangiò le viscere di un ra­ gazzo che era stato immolato e si trasformò in lupo; egli stesso, riacquistata la forma umana nel decimo anno, si esercitò nel pu­ gilato e ritornò vincitore ad Olimpià'n. (13) La stessa cosa ripor­ ta anche Agostino citando Varrone e aggiunge che questi crede-

stimasse Pani Lycaeo et lovi Lycaeo nomen esse impositum prop­ ter hanc hominum in lupos mutationem; narratque subinde se, cum esset in Italia, audivisse quasdam feminas magas in caseo ea viatoribus quibus vellent seu possent dare solere, unde illi in iu­ menta verterentur, et postquam necessaria quae illae volebant portavissent rursus in homines redirent; manente semper in illis humana ratione, ut Apuleius sibi in asinum mutato accidisse re­ fert. (14) Et hoc idem Augustinus accidisse narrat patri cuiusdam Praestantii qui in caballum versus annonam inter alia iumenta baiulavit, quae latius legere licet in libro XVIII De dei civitate. (1 5) Simonem praeterea quendam Samaritanum et Menandrum eius discipulum et Apollonium T hyanaeum et alios nonnullos qui­ busdam transfigurationibus usos fuisse historici referunt, quas vobis in praesentia non expono, ne magicam superstitionem vi­ dear astruere quae vana est et a nostris ripudiata. Illud certe mihi non negabitis Redemptorem nostrum Deum pariter et homi­ nem transfigurationibus usum. (16) Sed quid antiqua comme­ moro cum nostra tempestate huiusmodi transmutationes fieri vi­ deamus? Et si dubitatis verissima ratione quomodo id fiat, si at­ tenderitis, demonstrabo. (17) Sicut anima rationalis et proba for­ mam praestat homini, et illum divinitatis participem facie, sic ir­ rationalis et improba pecori formam tribuit, et hominem a recto discendentem transformat in belvam. Corpus ergo, ut vobis ostendo, non facie hominem sed anima. (18) Unde recte Placo, ut reor, dicere solebat "où1e EO"TLV &v9pwnoç TÒ ÒpW !-(-EVov': idest "non est homo id quod videtur". Quare vos Codrum non videtis, sed faciem sed manus et membra Codri. (19) Ergo alienarum opum violentus ereptor lupum se fecit; qui insidiator est et fraudulen­ tus astutam vapido portat sub pectore vulpem; qui libidinosus

va che il nome Liceo fosse stato imposto a Pan e a Giove a causa della loro metamorfosi in lupi1 2 ; e subito dopo narra che quando era in Italia aveva sentito dire che alcune maghe mettevano di so­ lito qualcosa nel formaggio ai viandanti che volevano o poteva­ no avvicinare, per cui essi si trasformavano in bestie da soma e ve­ nivano ritrasformati in uomini solo dopo aver portato alle ma­ ghe i pesi che esse volevano1 3 ; e mantenevano comunque sempre l'intelletto umano, come dice Apuleio a proposito della sua tra­ sformazione in asino1 4 • (14) E Agostino stesso narra che capitò la medesima cosa al padre di un tale Prestanzio che, trasformato in cavallo, trasportò il vettovagliamento per i soldati insieme ad al­ tre bestie da soma, cosa che si può leggere più diffusamente nel libro XVIII del De civitate Dei1 5 • (15) Inoltre gli storici riportano che un certo Samaritano di nome Simone1 6, il suo discepolo Me­ nandro e Apollonio di T iana1 7 e alcuni altri erano adusi alle tra­ sformazioni, che ora non vi espongo perché non sembri che io so­ stenga le credenze magiche che sono fallaci e da noi rifiutate18 • Certo non mi negherete che il nostro redentore, insieme Dio e uomo, era solito alle trasformazioni. (16) Ma perché ricordo vi­ cende antiche dal momento che trasformazioni di questo genere avvengono anche ai nostri giorni? Se ne dubitate, vi dimostrerò con un ragionamento saldissimo in che modo possano accadere, sol che mi prestiate attenzione. (17) Come l'anima razionale e proba dà l'aspetto all'uomo e lo rende partecipe della divinità, co­ sì l'anima irrazionale e improba dà l'aspetto agli animali e tra­ sforma in bestia l'uomo che si è allontanato dalla retta via. Dun­ que non è il corpo a fare l'uomo ma, come vi dimostro, l'anima. (18) Per questo Platone, credo, era solito dire giustamente " oinc fO'Tl'V &v0pwnoç -rò opw�f'VOV", cioè "l'uomo non è ciò che si vede" 19 • Dunque voi non state vedendo Codro, ma il viso, le mani e le membra di Codro. (19) E così il ladro rapace delle ricchezze al­ trui diventa un lupo; chi è macchinatore e truffaldino porta nel cuore corrotto una volpe astuta20 ; chi è libidinoso e immerso in

est et spurcis voluptatibus immersus in hircum se vel in suem trans­ mutavit; qui linguam hunc et illum mordendo exercet canis est. lta et in alias belvas hominem mutari dicimus cum deserta [c. A4r] ra­ tione irrationalem sumit appetitum. ( 20) Quod si ita est, quot lu­ pos rapaces, quot vulpes veteres, quot rabidos canes, quot inertes asinos, quot porcas, quot vaccas, quot viperas, per totum orbem dispersas bonis et veris hominibus nocere credendum est? (21) Pythagoras Samius, a quo philosophia Italica sumpsit originem, !-(,ETE!liroxoaTv post mortem esse asseveravit, at ego !-(,ETE!liroxoa"Lv etiam in viventibus fieri video, et iam vobis demonstravi. (22) Non mirum sic igitur homines mutari, cum et alia multa muten­ tur: tempora mutantur, mores mutantur, feminas in mares mu­ tantur et - ut etiam leve dicamus - dentes mutantur et cervis cor­ nua mutantur. (23) Ex altera vero parte, ut graviter aliquid refe­ ramus, nonne creditis multos homines castitate et sanctimonia vitae in caelestes spiritus mutari, multos etiam liberalitate, ma­ gnificentia et iustitia fieri semideos? (24) Indigetes divi fato sum­ mi lovis hi sunt quondam homines modo cum superis humana tuentes, largi ac munifici, ius regum nunc quoque nacti, ut est Hesiodi sentientia. (25) Et sane quid dicit Plinius verum est: "Deus est mortali iuvare mortales". Hac ratione Iulius Caesar di­ vus dictus est, hac ratione divus Augustus, divus Hadrianus, di­ vus Antoninus et alii apud gentes multi divi. (26) Apud nos au­ tem divi apostoli, divus Hieronymus, divus Augustinus et alii plures; hac ratione, cum Summum Pontificem vocamus, 'Beatis­ sime Pater' dicimus. (27) Hac ratione Senatum Venetianum no­ mine Maiestatis honoramus et legatos Venetianorum summo lo­ co, medio loco, honoratiore loco ponimus. ( 28) Hac ratio ne Ioannes Bentivolus princeps divus est et non tantum nobis

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sozzi piaceri si trasforma in un capro o in un maiale; chi tiene cal­ da la lingua mordendo or qua or là è un cane. E così diciamo che l'uomo si trasforma in diversi tipi di animali quando, abbando­ nata la ragione, assume un appetito irrazionale. (20) Ma se le co­ se stanno così, quanti lupi rapaci, quante vecchie volpi, quanti ca­ ni rabbiosi, quanti asini inerti, quanti porci, quante vacche, quante vipere dispersi in tutto il mondo dobbiamo credere che minaccino gli uomini veri e onesti? ( 21) Pitagora di Samo, da cui la fìlosofìa italica ha preso origine, sostenne esserci la metempsi­ cosi dopo la morte, ma io vedo che la metempsicosi avviene an­ che tra i viventi, e ve l'ho appena dimostrato. (22) Non stupia­ moci dunque se gli uomini mutano quando mutano tutte le altre cose: mutano i tempi, mutano i costumi, le donne mutano in ma­ schi2 1 e - per dir anche delle cose più leggere - mutano i denti e mutano le corna dei cervi. (23) Ma d'altro canto, per tornare un po' alle cose serie, non credete che molti uomini si sono mutati in spiriti celesti per la loro santa e casta condotta di vita, e che al­ tri, per la loro liberalità, generosità e senso della giustizia, sono diventati semidei? (24) Costoro, un tempo uomini, ora sono dei patrii per volere del sommo Giove e guardano dall'alto assieme agli dei le umane vicende, liberali e generosi, e ora anche insigni­ ti del titolo di re, come dice Esiodo22. (25) È certamente vero ciò che dice Plinio: "Essere dio è, per un mortale, aiutare un morta­ le" 23. Per questo motivo Giulio Cesare è detto divino, per questo motivo è divino Augusto, divino Adriano, Antonino e molti al­ tri resi divini presso i popoli. (26) Presso di noi invece sono det­ ti divini gli apostoli, divino è Girolamo, Agostino e molti altri; per questo motivo, quando invochiamo il sommo pontefice, lo chiamiamo 'Padre Beatissimo'. (27) Per questo motivo onoriamo il Senato veneziano col titolo di Maestà e diamo agli ambascia­ tori veneziani uno dei primi posti, o almeno un posto nel mezzo, ma comunque più prestigioso degli altri2 4• (28) Per questo moti­ vo il principe Giovanni Bentivoglio è divino e non solo deve es-

amandus sed etiam praesens est adorandus, qui tota Italia tu­ multu gallico perterrita et plerisque etiam urbibus aut direptis aut subiugatis nos in odo ac tranquilla pace servaverit. (29) "lam proximus arsit / Ucalegon", immo et multi nobis proximi Ucale­ gontes. Nos vero Rheni nostri aqua salubri et populo gratissima incendium a nobis reppulimus. Sed de hac re plura alias. (30) Haec autem eo dieta sunt ut ostendamus humanam mutationem facilem esse nec admodum admirandum sive novum corpus seu nova forma sumatur. (31) Verum mihi peius esset et magis ti­ mendum si fabula fierem quam si asinus; fabulam fieri intelligo vitam cum morte commutare, quomodo Persius dixit: "cinis et manes et fabula fies". (32) Hei mihi, quot clarissimi viri et poetae et oratores et reges et imperatores et populi et nationes nunc sunt fabulae? Quid est Homerus? Fabula. Quid Placo? Fabula. Quid Demosthenes? Fabula. Quid Alexander Magnus? Fabula. Quid Sci pio Aphricanus? Fabula. Quid Hannibal Poenus? Fabula. Quid antiqui Troiani et Graeci? Fabulae. Quid antiquiores As­ syrii? Fabulae. Quid Latini, Romani et tot Germano rum, Gallo­ rum, Hispaniorum et aliarum nationum milia qui praeterierunt? Fabulae. Omnes profecto qui in tenebris et in umbra mortis se­ dent fabulae sunt. (33) «At clarissimorum virorum nomen et fa­ ma non in tenebris iacet, sed eternum vivit et in perpetuum vi­ ver». Pulchrum certe est nomen suum apud posteros [c. A4v] fa­ ma fecisse diuturnum. Sed tamen, quid tum? (34) Cum vita fune­ ti aut nihil sentiant aut maioribus, ut credo, districti rebus haec humana curare non possint aut nolint, nisi tamen ea gesserint in vita, quibus in numerum deorum recepti sempiterno aevo fruan­ tur; et hoc non nisi a Christo redemptis contingere potest. De fa­ ma vero et gloria antequam sermonem nostrum finiamus fortas-

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sere da noi amato, ma anche, ora che è qui presente, adorato, dal momento che, quando tutta l'Italia era terrorizzata dal tumulto gallico e molte città erano già state saccheggiate o soggiogate, egli ci ha mantenuto in una condizione di tranquillità e di pace2 5 • (29) "È già in fiamme la casa del vicino Ucalegonte" 26, e anzi, di molti Ucalegonti a noi vicini. Ma noi, con l'acqua graditissima al popolo del nostro salubre Reno, abbiamo allontanato da noi l' in­ cendio. Comunque su tutte queste cose torneremo altrove. (30) Se qui le ho ricordate è solo per dimostrare che la trasformazio­ ne umana è frequente, per cui non c'è da meravigliarsi se si assu­ me un nuovo corpo o un nuovo aspetto. (31) Per me sarebbe peg­ gio e da temere di più se diventassi favola che se diventassi asino; con 'diventare favola' intendo la trasformazione della vita in mor­ te, come dice Persio: "Cenere e ombra e favola diventerai" 27 • (32) Oddio, quanti uomini illustrissimi e poeti e oratori e re e impe­ ratori e popoli e genti sono ora favole? Cos'è Omero? Favola. Co­ sa Platone? Favola. Cosa Demostene? Favola. Cosa Alessandro Magno? Favola. Cosa Scipione rAfricano? Favola. Cosa Anniba­ le il Cartaginese? Favola. Cosa sono gli antichi Troiani e Greci? Favole. Cosa sono gli ancora più antichi Assiri? Favole. Cosa so­ no i Latini, i Romani e tutti i Germani, i Galli, gli Ispanici e tut­ ti gli altri mille popoli che sono scomparsi? Favole. È chiaro che tutti coloro che oggi risiedono nelle tenebre, all'ombra della mor­ te, sono favole. (33) «Ma il nome e la fama degli uomini illustri non giace nelle tenebre, ma vive nell'eternità e vivrà per sempre». È certo meraviglioso il fatto che la fama abbia reso eterno il loro nome presso i posteri. Ma poi? (34) Una volta terminata la vita, i defunti o non hanno alcuna percezione o, come io ritengo, presi da cose più importanti, non possono o non vogliono occuparsi di questi pensieri umani, a meno che non abbiano compiuto in vita azioni tali per cui, accolti nel novero degli dei, godono di una vita eterna; ma questo può accadere solo ai redenti da Cristo. Sul­ la fama e sulla gloria forse diremo qualcos'altro prima di conclu-

se aliquid disseremus. (35) Sed quid timeo ne moriendo fìam fa­ bula, cum etiam viventes nos fabulae simus? Et si attenderitis, ut facitis, quomodo et quare id existimem vobis breviter demon­ strabo. (36) Si fabula est quae nec veras nec verisimiles res in se continet, quid veritatis, quid certitudinis habet haec vita nostra? Quas non potius tenebras, quas non incertitudines? Videamus si libet singulas nostrae vitae partes. (37) Quid certitudinis aut sta­ bilitatis habuit pueritia? Lusimus nucibus par vel impar, plostel­ la traximus, in arundine equitavimus, lusimus astragalis, lusimus trocho, lusimus pila; haec praeterierunt. (38) Quid certitudinis habuit adolescentia? Equitavimus, venati fuimus, ad philo­ sophos sive praeceptores itavimus, Veneri et cantilenis operam dedimus. Quid tum? Fabulae. (39) At iam, viri facci, appetivimus uxores, natos, divitias, sacerdotia, honores: in uxore multae sunt molestiae, in fìliis plures, in divitiis anxietates et labores, in sa­ cerdotiis et honoribus invidiae et odia et uhi haec sunt nulla ibi certitudo, ergo fabulae. (40) Paulatim in senium vergimus, quod est grave mortalibus pondus, ut poeta graecus scripsit: "xalsrròv TÒ y� paç ÈCITLV àv9pwrroLç �apoç" et alter poeta "y� paç 1((/..L 'ITf.VlrJ.. òuo -rpau [.LrJ..Ta òuo-9sparrsu-ra", et latinus comicus: "senectus ipsa est morbus". (41) Senectute enim vires amittimus et pulchritudi­ nem et ingenium et memoriam et sensus et voluptates: "omnia fert aetas, animum quoque", dicit Maro. Et, quod valde dolen­ dum est, contemnimur, despicimur, illudimur. Quid autem tur­ pius quam illudi? (42) Multi sunt iuvenes qui te senem audent la­ cessere, impellere, urgere et fortasse verberare, quem aequalem, si non timerent, saltem non irritarent. (43) Quam vero senes fabu­ lae sint, fabularum inicia, quae pueris narrantur, docent: 'olim se­ nex quidam fuit', 'olim quaedam anus'; immo et fabularum in-

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dere questo nostro sermone. (3 5) Ma perché temo, morendo, di diventare favola, se già in vita siamo tutti favole? Se prestate at­ tenzione, come state facendo, vi dimostrerò brevemente in che modo e perché credo che ciò avvenga. (36) Se favola è ciò che non ha in sé niente di vero né di verisimile28 , che verità, che certezze ha questa nostra vita? Quali tenebre piuttosto non ha, quali in­ certezze? Vediamo se non vi dispiace, ad una ad una, le età della nostra vita. (37) Che certezze o stabilità ha l'infanzia? Giochia­ mo con le noci a pari e dispari, tiriamo i carretti, cavalchiamo un bastone29, giochiamo agli astragali3° , giochiamo con la trottola3 1 , giochiamo a palla3 2 ; poi tutte queste cose passano. (38) Che cer­ tezze ha l'adolescenza? Cavalchiamo, cacciamo, andiamo dai fi­ losofi o dai precettori, ci dedichiamo agli amori e alle canzoni. Dunque cosa sono? Favole. (39) Poi, divenuti uomini, desideria­ mo mogli, figli, ricchezze, incarichi, onori: le mogli danno mol­ ti fastidi33 , i figli ancora di più, le ricchezze creano ansia e fatica, incarichi ed onori generano invidie e odii e dove ci sono loro non ci possono essere certezze, dunque sono favole. (40) Ci avvici­ niamo pian piano alla vecchiaia, che è un grave peso per i morta­ li, come scrisse un poeta greco: "La vecchiaia è un grave peso per gli uomini" 34 , e un altro poeta: "La vecchiaia e la povertà sono due ferite difficili da guarire" 3 5 ; e il comico latino: "la vecchiaia è di per sé una malattià' 3 6 • (41) Con la vecchiaia, infatti, perdiamo le forze, la bellezza, l'ingegno, la memoria, i sensi, i piaceri: "tut­ to porta via il tempo, anche la memorià: dice Marone37 • E ciò di cui ci si deve davvero dispiacere, siamo disprezzati, derisi, presi in giro. Cosa c'è di più turpe che essere presi in giro? (42) Ci sono molti giovani che, quando sei vecchio, osano stuzzicarti, colpir­ ti, molestarti e persino picchiarti, mentre, se tu fossi un loro coe­ taneo, qualora anche non ti portassero rispetto, almeno non ti darebbero fastidio. (43) Quanto i vecchi siano favole, lo insegna­ no gli incipit delle favole che sono raccontate ai bambini: 'C'era una volta un vecchio: 'C'era una volta una vecchià; anzi, si dice 71

ventrices dicuntur vetulae et 'aniles fabulas' res falsas solemus ap­ pellare. (44) Ego nondum sum quinquagenarius et nec filium nec nepotem habeo et iam 'paterculus' et 'avus' a iuvenis vocor! Superiore aestate, cum per forum herbarium incederem, quae­ dam hortulana iuvenis me compellans: «O barba, inquit, eme de lactucis meis!». (45) Soletis enim vos bononienses patria lingua senes ' barbas' appellare. Tunc me miserum dixi quod, accessu paucorum mensium, pro Urceo, pro Poeta, Barba Codrus appel­ labor. (46) Videtisne ergo longa dies quid conferat? «Acqui Ca­ to Censorius numquam senectutem sibi gravem esse sensit mul­ tique alii». Quid creditis vos? «At Cicero affìrmat!». Et Co­ drus negat! (47) Nemo vos seducat, nemo eloquentia et dulcibus verbis vobis persuadeat senectutem aliquid boni in [ c. A5r] se ha­ bere: quae ab oratoribus dicuntur, solatii causa dicuntur. (48) Quidque non omnibus natis per omnes vitae partes ire conces­ sum est, propter naturae humanae imbecillitatem, cui super ad­ duntur tot pericula pestilentiae, sive famis, belli, tot etiam in­ cendia, tot ruinae, tot aegritudines et corporis et animi, ut ea nihil incertius et fragilius nihil dici possit. (49) Bene Homerus: "oùòèv tÌlCLÒV6TEpov yaia TpÉUO-LlCOU òpyavLlCOU òuva t,t.eL �w�v fxov-roç" 58 2, cioè "perfezione o atto del corpo naturale orga­ nico, che ha vita in potenzà'. (484) E anche su questo nasce tra i nostri grammatici un'altra disputa: in che modo, cioè, si debba leggere "évòeléxeLa" 583 ; e alcuni prendono Cicerone per un mez­ zo filosofo 584 e ignorante delle lettere greche, dato che avrebbe letto con 'ò', "évòeléxeLav", quello che avrebbe dovuto leggere con '-r' e la spiega come una specie di movimento non interrotto e per­ petuo 58 5 . (485) Alcuni lo difendono, dicendo che si può leggere "év-reléxeLa" sia con 'ò' che con '-r', dato che gli attici spesso usano '-r' al posto di 'ò' e non per questo si deve dare una diversa defini­ zione ali' anima. Ma se l'anima non solo non si muove da sé ma non è neppure mossa, come crede Aristotele, vedremo un'altra volta in che modo Cicerone abbia correttamente interpretato. (486) Il musico Aristosseno, che fu anche filosofo, ritiene che l'a­ nima sia una sorta di tensione dello stesso corpo, come ciò che 19 7

quandam veluti in cantu et fidibus quae harmonia dicitur. (487) Sed audite rem facetam: Dicaearchus, non intelligens quid esset anima, induxit Pherecratem quendam Phthiotam, disserentem animum omnino nihil esse et 'animam' et 'animantes' et 'anima­ lia' frustra37 appellari sed inania esse vocamina cum corpus ipsum unum sic et simplex ita figuratum ut temperatione naturae vigeat et sentiat, sic enim Cicero prima Tusculana recitavit. (488) Epi­ curum Atheniensem, secutus noster Lucretius, multa de animo et anima et mente inculcar ita ut interdum sibi ipsi contradicere vi­ deatur; putat tamen animam esse ex mixtura caloris venti et aeris quae ex atomis, idest seminibus minutissimis constet3 8 composi­ tam esse una cum corpore nasci et crescere et simul interire. (489) Nunc mihi succurrit id quod nonnulli affirmant, in hominibus quattuor esse animas: vitalem, quae est in vermibus; sensualem, quae in brutis; physicam, quae in plantis; et rationalem; quam oh rem poeta dixerit "salvete, recepti / nequiquam cineres animae­ que umbraeque paternae". (490) Varro quoque ita definivit ani­ mam: "anima est aer conceptus ore, defervefactus in pulmone, temperatus in corde, diffusus in corpus". Sunt et aliae aliorum philosophorum opiniones de anima, ab Aristotele et Macrobio recitatae, quae animam ipsam legendo confundunt. (491) Nunc nonne liquido intelligitis nihil certi, nihil veri in his definitioni­ bus reperiri? Haec igitur quid vobis videntur? Fabulae. (492) Et ne mihi soli credatis, audite Ciceronem illum, quaem graecae et latinae linguae peritissimum fuisse, nemo non fatetur. Is, enume­ ratis de anima [c. D_sr] pluribus sentenciis, sic conclusit: "harum sentenciarum quae vera sic deus aliquis viderit, quae verisimilli­ ma, magna quaestio est". (493) Audite et Senecam: "Multa sunt" inquit "quae esse concedimus, qualia sunt ignoramus. Habere nos

37. frustra ] frastra. 38. constet ] constet.

nel canto e negli strumenti è definito armonia586. (487) Ma ascol­ tate un aneddoto divertente: Dicearco, non capendo cosa fosse l'anima, introdusse nel discorso un tale Ferecrate di Ftia che so­ steneva che l'animo non è niente e che 'anima', 'esseri animati' e 'animali' sono chiamati così ma sono puri nomi, esistendo unica­ mente e semplicemente il corpo, strutturato in modo tale che ab­ bia forza e sensibilità per la sua naturale organizzazione, come di­ ce Cicerone nella prima Tusculana 58 7• (488) Il nostro Lucrezio, avendo seguito Epicuro di Atene, inculca molte cose sull'animo, sull'anima e sulla mente, in modo tale che a volte sembra con­ traddirsi; crede, comunque, che l'anima sia composta dalla me­ scolanza del calore, del vento e dell'aria, e che sia tale da essere co­ stituita da atomi, cioè piccolissime particelle, e che sia creata, na­ sca, cresca e muoia insieme con il corpo. (489) Ora mi viene in mente ciò che sostengono alcuni, cioè che negli uomini ci sono quattro anime: quella vitale, che è nei vermi; quella sensitiva, che è nei bruti, quella fisica, che è nelle piante, e quella razionale; per­ ciò il poeta disse: "Di nuovo salve, ceneri ritrovate invano, anima e ombra del padre" 588 . (490) Anche Varrone definì così l'anima: "l'anima è aria scaturita dalla bocca, scaldata nel polmone, tem­ perata nel cuore, diffusa nel corpo" 589. Ci sono poi altre opinio­ ni di altri filosofi sull'anima, riportate da Aristotele e da Macro­ bio, che confondono ancora di più, leggendole, l'anima stessa 590. (491) Ora dunque capite con piena coscienza che non c'è niente di certo, niente di vero in queste definizioni? Dunque cosa vi sembrano? Favole. (49 2) E, affinché non crediate solo a me, ascoltate Cicerone, il quale nessuno dubita che fu espertissimo della lingua greca e latina. Ebbene egli, dopo aver elencato nu­ merose concezioni relative all'anima, conclude così: "di queste sentenze, quale è vera lo saprà qualche dio, dato che, stabilire an­ che solo quale tra queste sia la più verosimile, è un grave proble­ ma" 591 . (493) Ma ascoltate anche Seneca: "Ci sono molte cose delle quali noi ammettiamo l'esistenza, ma ignoriamo quale sia la 199

animum, cuius imperio impellimur et revocamur, omnes fate­ buntur; quid tamen sic animus ille rector dominusque nostri non magis cibi quisquam expediet quam uhi sic" et reliqua. (494) Au­ dite postremo Lactantium ne Codrum testibus carere credatis: "quid autem sic anima nondum inter philosophos convenir nec umquam fortasse convenite". O divina sapientia, o deus immor­ talis, hoc non est hominis, sed tuum officium! Hae partes tuae sunt, quid sic anima patefacere mortalibus. (495) Audiamus ergo theologum nostrum, divino sic ore animam defìnientem: ''Anima est substantia incorporea, intellectualis illuminationis capax ulti­ ma revelatione39 perceptivà'. Sed nec de motu, de tempore, de ge­ neratione hominis et aliarum rerum, de summo bono, de volup­ tate philosophi conveniunt; "ou1e EOTL lCLVYJ9�vaL': dixit Zeno, idest "non est moveri". (496) Pyrrho Eliensis sustulit generationem dixitque praeterea40 nihil posse affirmari. Ergo dieta philosopho­ rum fabulae. (497) De motu terrae, de ventorum nominibus, lo­ cis et causis multae sunt opiniones, de aestuariis plures, de sum­ mo bono plurimae. Summum enim bonum, idest felicitatem, alii in virtute sola posuerunt, ut Stoici; alii in voluptate corporis, ut Epicurus; alii in vacuitate doloris, hoc est sine ulla molestia vive­ re, ut Hieronymus; Carneades vero bonis naturae primis, aut om­ nibus aut maximis frui, felicitatem esse dixit; (498) Aristoteles, et ab eo peripatetici, bona animi corporis et rerum externarum; Di­ nomachus et Callipho voluptatem cum honestate; Diodorus ho­ nestatem indolentem. (499) Non desunt etiam qui lusum risum­ que summam esse felicitatem comprobaverint, ut T ibareni po­ puli, Chalybibus vicini, quorum Apollonius et Pomponius men­ tionem fecerunt. (500) Erilli vero philosophi summum bonum scientia est, sed Socrates hoc unum scire se dixit, quod nihil sci-

39. revelatione ] revelutione. 40. praeterea ] praeter ea. 200

loro natura. Tutti riconosceranno che noi abbiamo un'anima, dal potere della quale siamo spronati e dissuasi; tuttavia che cosa sia quel!' anima, nostra guida e signora, non te lo spiegherà nessuno, come nessuno ti spiegherà dove risiedà' 592 eccetera. (494) Ascol­ tate infine Lattanzio, così che non pensiate che Codro manchi di testimoni: "su cosa sia infatti l'anima i filosofi non sono ancora d'accordo e forse non lo saranno mai" 5 93. O divina sapienza, o dio immortale, questo non è compito dell'uomo, ma tuo! Spetta a te mostrare ai mortali cosa sia l'anima. (495) Ascoltiamo dunque il nostro teologo che, con voce divina, così definisce l'anima: "L'a­ nima è una sostanza incorporea, capace di illuminazione intel­ lettuale, percettiva della rivelazione estrema" 594. Ma i filosofi non sono d'accordo né sul movimento, né sul tempo, né sulla genera­ zione dell'uomo e su altre cose, sul sommo bene, sul piacere; "oihc èa--rL lCLVYJ 0�vat", dice Zenone, cioè "il movimento non esiste". (496) Pirrone di Elide nega l'esistenza della generazione e dice inoltre che non si può affermare niente. Dunque i detti dei filo­ sofi sono favole. (497) Sul moto della terra, sui nomi, i luoghi e le cause dei venti le opinioni sono molte, ancor di più sugli estua­ ri, moltissime sul sommo bene. Alcuni pongono il sommo bene, cioè la felicità, solo nella virtù, come gli Stoici; altri nel piacere del corpo, come Epicuro; altri ancora nella mancanza del dolore, cioè nel vivere senza alcun fastidio, come Girolamo; Carneade disse che la felicità sta nell'usare i beni della natura, o tutti o i più importanti; (498) Aristotele, e da lui i Peripatetici, sostengono che i beni sono dell'animo, del corpo e delle cose esterne; Dino­ maco e Callifonte dicono che la felicità consiste nel piacere uni­ to all'onestà595; Diodoro che consiste nell'onestà priva di dolo­ re 59 6. (499 ) Non mancano poi coloro che affermarono che la somma felicità consiste nel divertimento e nel riso, come i T iba­ reni, vicini dei Calibi, dei quali fanno menzione Apollonio e Pomponio 597. (500

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ree. (501) Huius autem summi boni quod omnes appetunt et quod propter se appetitur, veritatem scire cupiens, Varro ille, qui undecumque vir doctissimus dictus est, ita diligenter, ita subtili­ ter de eo locutus est ut ad ducentas octoginta octo sectas, non quae tum essent, sed quae esse possent, adhibens quasdam diffe­ rentias facillime pervenerit, quas, quia longum nimis esset hic exponere, qui discere voluerit decimumnonum Aurelii Augusti­ ni librum De dei civitate percurrat. (502) Ergo philosophorum sectae, seu dogmata, seu placita sint, incertitudines sunt et fabu­ lae. Et praecipue quae de felicitatae huius vitae memorantur, cum nullus sic felix, ut scribit Euripides, "9v Y] TWV yàp oùòe (ç ècrTLV eùòa(ti,wv àv� p", idest "mortalium nullus est felix vir"; et certe summum bonum est aeterna et immortalis vita, quam iuste et ex [c. D5v] fìde viventes speramus. (503) Summum vero malum ae­ terna mors et poena quae male viventibus debetur. De voluptate etiam veteres philosophi diversas protulere sentencias. Epicurus voluptatem summum bonum, ut supra diximus, posuit; Architas Tarentinus et Antisthenes socraticus summum malum unde di­ cere solebat Anthistenes " ti,avetl'] V ti,tiÀÀov � �cr0ELY]v': idest "insa­ nirem potiusquam delectarer"; (504) Speusippus et veteres aca­ demici voluptatem et dolorem duo mala dicunt esse opposita in­ ter se, bonum autem id quod utriusque medium est; Zeno vo­ luptatem censuit esse indifferens, idest neque bonum neque ma­ lum; (505) Critolaus peripateticus et malum esse voluptatem dixit et multa alia mala ex sese parere ut iniurias, desidias, obli­ viones, ignavias. (506) Platonem vero de ea multiformiter et va­ rie disseruisse refert Gellius; tamen in T imaeo haec illius verba sunt: "npw-rov ti,èv �òov�v, ti,É)' LCTrov KaKou ÒÉÀ.eap': idest "primum quidem voluptatem maximam mali escam". (507) De ratione cer­ nendi diversas esse fabulas et opiniones animadverto. Stoici di­ cune radios in ea, quae videri queunt, ex oculis emissos cum luce

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(501) Varrone, che è detto ovunque uomo dottissimo, desideran­

do conoscere la verità di questo sommo bene che tutti cercano e che è ricercato di per sé, parlò di quello così analiticamente e co­ sì accuratamente che arrivò a definire molto agevolmente, sulla base di alcune differenze, duecentottantotto scuole, non effetti­ vamente esistenti allora, ma che sarebbero potute esistere; chi vo­ lesse conoscerle, dal momento che qui sarebbe troppo lungo esporle, scorra il diciannovesimo libro del De civitate Dei di Au­ relio Agostino 598 • (502) Dunque le scuole dei filosofi, le dottrine, le opinioni, sono incertezze e favole. E soprattutto quelle che parlano della felicità di questa vita, dato che nessuno è felice, co­ me scrive Euripide: "9v Y] TWV yàp oùoe(ç ÈO'TLV eÙOlXL[-lWV àv� p" 599 , cioè "tra i mortali infatti nessun uomo è felice"; e certamente il sommo bene è una vita eterna e immortale, in cui noi, vivendo giustamente e con fede, confidiamo. (503) Il sommo male è cer­ tamente la morte eterna e la pena dovuta a chi visse male. Anche sul piacere i vecchi filosofi formulano diverse sentenze. Epicuro indicò il piacere come il sommo bene, come abbiamo detto so­ pra; Archita di Taranto e l'allievo di Socrate Antistene dicevano che il piacere è sommo male, per cui Antistene soleva dire " t-taVELY]V [-lliÀÀov � �o-9ELY]v" 600 , cioè "preferisco impazzire che pro­ var piacere"; (504) Speusippo e gli antichi Accademici dicono che il piacere e il dolore sono due mali opposti e il bene ciò che è in mezzo tra i due; Zenone pensa che il piacere sia indifferente, cioè né un bene né un male; (505) Critolao peripatetico disse che il piacere è un male e che crea da sé molti altri mali, come l'in­ giustizia, la pigrizia, l'oblio, l'ignavia. (506) Gellio riporta che Platone discusse in modo multiforme e vario sul piacere601 ; nel , cioè "primo fra tutti il piacere, gran­ dissimo incitamento al male". (507) Sul modo in cui riusciamo a vedere so che sono diverse le favole e le opinioni. Gli Stoici dico­ no che, assieme alla luce, i nostri occhi emettono dei raggi sulle

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simul videndi esse causam; Epicurus simulacra rerum sese in ocu­ los inferre, quae Catius epicureus 'spectrà appellabat; Plato exi­ stimavit esse ignis quoddam genus quod ex oculis cum luce exeat illustretque ea quae videntur. (508) De coloribus et nominibus colorum etiam variae fabulae adeo ut fuerint, qui nullum esse in rebus colorem dixerint, sed lucis ratione res videri diversicolores. Quare poeta dixerit "et rebus nox abstulit atra colorem". (509) De anno quoque maximo et de inferis et materia et forma de idaeis et aliis multis hic taceo. Uhi tot sunt philosophantium ineptiae et fabulae ut nulla in re alia plures dici aut cogitari posse facile quis existimaret? (510) Quare non possum non deridere quorun­ dam declamatorum sive theologorum arrogantiam qui, cum eo­ rum officium sit evangelia praedicare et deum ac animam catho­ lice et theologice definire, confugiunt ad philosophos, recitant omnes illorum opiniones. Citant Platonem, allegant Aristote­ lem, producunt Senecam, quorum dieta fabulas esse supra de­ monstravi. ( 5n) Insinua mihi ac expone, reverende pater, Pauli epistolas, Catenam auream divi T homae et alia huiusmodi. At­ qui pervenir ad nos frater quidam, sacrae theologiae magister eloquentissimus; cras est publice concionaturus et miranda dic­ turus. T intinabulo populus convocatur, concurrunt acadaemici, concurrunt plebeii, concionantem stupentes admirantur. Cantat poemata, recitat historias ... Quid tum? Fabulae. (512) Pervenir subinde alter maior, multo maior fit concursus; reprehendit vi­ tia, admodum acriter, exclamat, irascitur, excandescit et post va­ rias voces et exclamationes quid consecutum est? Quis finis fuit? Fabulae. Nam non persuasit. (513) Et sane vitiorum reprehensio iusta est ac utilis, sed hi reprehensores [c. D6r] in tantam liberta­ tem et audatiam loquendi excrevere, ut omnia convicia, oppro­ pria, dedecora, quae in foeneratores, adulteros, arsenocoetas,

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cose che possiamo vedere, e questa sarebbe la causa della vista; Epicuro dice che gli occhi sono colpiti dai simulacri delle cose, che Cazio epicureo603 chiama "spettri"; Platone pensa che ci sia una sorta di fuoco che esce con la luce dagli occhi e illumina le cose che si vedono. (508) Anche sui colori e sui nomi dei colori le favole sono talmente varie che si arriva a dire che nelle cose non ci sono affatto colori, ma che grazie alla luce le cose sembrano co­ lorate. Per questo il poeta dice: "agli oggetti la notte ha tolto con la sua oscurità i colori" 604 • (509) Sul grande anno60 5 , sugli inferi, sulla materia, sulla forma, sulle idee e su molte altre cose qui tac­ cio. Chi penserebbe di poter dire o pensare facilmente qualcosa riguardo quegli argomenti su cui ci sono già tante favole e inezie dei filosofanti? (510) Perciò non posso non deridere l'arroganza di alcuni declamatori o teologi che, pur essendo il loro compito predicare i vangeli e definire Dio e l'anima dal punto di vista cat­ tolico e teologico, ricorrono alla filosofia ed espongono tutte le opinioni dei filosofi. Citano Platone, chiamano come testimone Aristotele, mettono avanti Seneca, le cui parole sopra ho dimo­ strato essere favole. (5rr) Rendimi note e spiegami, reverendo pa­ dre, le lettere di Paolo, la Catena Aurea di san Tommaso e altre cose di tal genere. Ma giunge a noi un frate, maestro eloquentis­ simo di sacra teologia; domani parlerà in pubblico e dirà cose mi­ rabili. Il popolo è richiamato con il campanello, accorrono gli ac­ cademici, accorrono i plebei che, stupiti, ammirano il conferen­ ziere. Canta poemi, recita storie ... e allora? Favole. (512) Arriva immediatamente dopo uno più bravo, la folla è molto maggiore; critica i vizi, piuttosto aspramente, grida, si arrabbia, s'infiamma e dopo tante voci ed esclamazioni a cosa si arriva? Qual è la con­ clusione? Favole. Infatti non ha convinto. (513) Senza dubbio la condanna dei vizi è giusta e utile, ma questi predicatori hanno raggiunto un tale grado di libertà e audacia nel parlare che van­ no predicando, inculcando e diffondendo tutte le li ti, tutte le vergogne e le meschinità che si possono imputare agli usurai, agli 205

molles, homicidas et alios huiusmodi scelestos homines dici pos­ sint praedicent, inculcent et effundant, non recordantes se quo­ que esse homines et his vitiis aut eorum parte laborare, aut iam fortasse laboravisse, aut ut laborent accidere posse. (514) Quam bene monuit ad Geminium scribens Plinius secundus: "Mande­ mus, inquit, memoriae quod vir mitissimus et oh hoc quoque maximus Trasea crebro dicere solebat: 'Qui vitia odit, homines "' odit . (515) Sed quoniam horum mentionem fecimus, attinga­ mus et sacerdotes presbyteros et fratres cucullatos et heremitas barbigeros, in quibus, praeter divina officia, nihil certi, nihil sta­ bili tatis reperitur: hic albis utitur vestibus, ille nigris, hic leu­ cophaeis, ille baeticis, hi pedibus nudis incedunt, illi bene cal­ ceati, hi corpus curane, illi macerane, hi carnibus non vescuntur nec vinum nec ciceram bibunt, illi saliares coenas devorant, hic est haereticus, ille apostata, ille maranus. (516) Si capite obstipo et caperata fronte incedunt hypocritae habentur; si rasitata facie et sublimi pileo visuntur, lascivi existimantur; quot hic fabulae, per deum immortalem! (517) Sed audite reliqua: hic abbas sive archimandrita, ille provincialis, ut eorum vocabulo utar, hoc est provinciae praefectus, hic vicarius, ille generalis fieri cupit et la­ borat. Et quae certitudo hic est? Nulla. Ille canonicus, hic pro­ tonotarius, ille episcopus sive pontifex maximus, hic episcopo­ rum summus dici et fieri si non virtute at pecunia ingenti obti­ net ac impetrar. (518) Pece Romam dum iuvenis es, pece Romam dum imberbis es, supplica huic, supplica illi, obtinuisti, impetra­ sti, scripta sunt diplomata, signatae tabulae, habes sacerdotia, di­ gnitates, honores, divitias, thesauros. Quid tandem? Fabulae. (519) Quin et religio ipsa primo certa, postea incerta et fabulosa nondum ad catholicam fidem perduci potest: quot stulta, quot vana fuerunt in ea, quot idolatrae, quot idolothyta, quot simula­ era? Romani iam lovem adulterum et stupratorem et reliquos un-

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adulteri, agli omicidi e agli altri malfattori di tal genere, senza ri­ cordarsi che anche loro sono uomini e che sono tormentati da questi vizi o da una parte di questi, o forse lo sono già stati, o può accadere che lo siano. (514) Ha detto bene quindi Plinio Secon­ do scrivendo a Geminio: " Ricordiamo sempre ciò che diceva spesso Trasea, uomo mitissimo e per questo grandissimo: 'Chi "' odia i vizi, odia gli uomini 606 • (515) Ma dato che abbiamo fatto menzione di costoro, parliamo anche dei sacerdoti e dei presbi­ teri e dei frati incappucciati e degli eremiti barbuti, nei quali, se si escludono i compiti divini, non si trova niente di certo e di sta­ bile: questo usa vesti bianche, quello nere, questo grigie, quello di lana60 7, questi camminano a piedi nudi, quelli con dei bei cal­ zari, questi curano il corpo, quelli lo flagellano, questi non man­ giano carne né cicerchia e non bevono vino, quelli divorano ce­ ne saliari60 8 , questo è eretico, quello apostata, quello marrano. (516) Se camminano con il capo piegato da una parte e con la fronte increspata sono ritenuti ipocriti; se hanno il viso rasato e un elegante pileo609 sono ritenuti lascivi; quante favole, per Dio immortale! (517) Ma ascoltate il resto: questo desidera e si affati­ ca per diventare abate o archimandrita, quello provinciale, per usare un loro vocabolo, cioè prefetto della provincia, questo vi­ cario, quello generale. E che certezza c'è? Nessuna. Quello ri­ chiede e ottiene di essere nominato e diventare canonico, questo protonotario, quello vescovo o addirittura papa, questo arcive­ scovo, non per virtù ma sborsando una grossa cifra. (518) Vai a Roma finché sei giovane, vai a Roma finché sei imberbe, e sup­ plica questo, supplica quello, hai richiesto, hai ottenuto, sono stati scritti diplomi, scritte tavole, hai sacerdozi, dignità, onori, ricchezze, tesori. E cos'hai alla fine? Favole. (519) Anzi la religio­ ne stessa, prima certa, poi incerta e favolosa, non può ancora es­ sere ricondotta alla fede cattolica: quante cose sciocche, quante cose vane ci furono in quella, quanti idolatri, quanti sacrifici agli idoli61 0 , quante immagini? I Romani adorarono Giove adultero 207

decim deos sive deas coluerunt, quos 'selectos' vocabant, colue­ runt et consentes et infìnitos alios et alias deas quos longum esset numerare. (520) Aegyptii coluerunt animalia bruta et monstra; "Quis nescit qualia demens / Aegyptus portenta colat ?" Nostra tempestate Turci et Arabes et aliae quaedam nationes Maomet­ tum colunt, turpia nescio quae statuentem. Hebraei et Caelicolae in perfìdia etiamnum nato mundi salvatore perseverant. (521) No­ stri quoque theologi saepenumero vacillant et de lana caprina rixantur, de conceptione Virginis, de Antichristo, de sacramentis, de praedestinatione et de aliis quibusdam quae potius tacenda sunt quam praedicanda. (522) «Sed vide quid agas, Codre, et quid loquaris ne Petrum Boatianum offendas». [c. D6v] Recte consulitis; ego mihi cavebo et sic pronunciabo: omnia quae in re­ ligione fìunt aut dicuntur aut creduntur, vana esse, stulta et fabu­ losa, praeter ea quae Romana et Catholica sanxit Ecclesia. (523) Quare Avutiani, qui negant esse unius substantiae trinitatem, fa­ bulae sunt; Alogi, qui logon, idest verbum dei non credunt fabu­ lae sunt; Acephali clerici, qui sine capite sunt, hoc est qui ducem, quem sequantur non habent, fabulae sunt; Angelici, qui angelos colunt, fabulae sunt; (524) Anthropomorphitae, qui deum hu­ mana membra arbitrantur habere, fabulae sunt; Apelitae, qui Christum non verum hominem, sed phantasma dicunt, fabulae sunt; Apollinaristae, qui dicunt Christum corpus tantum sine anima suscepisse; Apostoli haeretici, qui nihil possidentes pro­ prium nequaquam recipiant aliquid in hoc mundo possidentes, fabulae sunt; Aquarii, qui aquam solam offerunt in calice sacra­ menti, nugae sunt; (525) Antidici Mariae, qui virginitati Mariae contradicunt, execrant, haeretici sunt; Arabici, dicentes animam et corpus simul mori et simul resurgere, fabulae sunt; Adamiani41, qui nudi quasi nuditatem Adae imitentur, stolidi sunt; Aeriani,

41. Adamiani ] Admiani. 208

e stupratore e gli altri undici dei e dee611 , che chiamavano 'scelti', e adorarono anche gli dei consiglieri612 e infiniti altri dei e dee che sarebbe troppo lungo enumerare. (520) Gli Egiziani adorarono animali bruti e mostri; "Chi non sa quali creature mostruose ado­ ra il folle Egitto?" 613 Ai nostri tempi i Turchi e gli Arabi e altre popolazioni adorano Maometto, che ordina non so quali turpi cose. Gli Ebrei e i Celicoli614, anche dopo che è nato il salvatore del mondo, perseverano nella loro maligna incredulità. (521) Ma anche i nostri teologi spesso vacillano e si accapigliano su que­ stioni di lana caprina, sulla concezione della Vergine, sulrAnti­ cristo, sui sacramenti, sulla predestinazione e su altre cose di que­ sto genere che sono più da passare sotto silenzio che da raccon­ tare. (522) «Ma stai attento a quello che fai e a quello che dici, Codro, per non offendere Pietro Boaziano» 61 5 • Dite bene; dun­ que starò attento e parlerò così: tutte le cose che nella religione vengono fatte, dette o credute sono vane, stolte e favolose, eccet­ to quelle sancite dalla Chiesa cattolica romana. (523) Perciò so­ no favole gli Avuziani616, che negano che esista una trinità di una sola sostanza ; gli Alogi, che non credono nel logos, cioè nel ver­ bo di Dio, sono favole; i chierici Acefali, coloro che sono senza testa, cioè che non hanno una guida da seguire, sono favole; gli Angelici, coloro che onorano gli angeli, sono favole; (524) gli Antropomorfici, che credono che Dio abbia forma umana, sono favole; gli Apeliti, che credono che Cristo non fosse un vero uo­ mo, ma un fantasma, sono favole; gli Apollinaristi, che dicono che Cristo avesse solo il corpo senza l'anima; gli Apostoli eretici, che, non possedendo nulla di proprio, non accolgono affatto (nelle loro file) chi possiede qualcosa, sono favole; gli Aquarii, che offrono solo l'acqua nel calice del sacramento, sono ridicoli; (525) gli Antidici di Maria, che negano e dissacrano la verginità di Maria, sono eretici; gli Arabici, che dicono che l'anima e il cor­ po muoiono insieme e insieme risorgono, sono favole; gli Ada­ miani, che girano nudi e imitano la nudità di Adamo, sono scioc209

qui vetant pro defunctis sacrifìcium, impii sunt et haeretici; Ar­ chontiaci, qui dicunt ea quae deus fecit opera esse angelorum, fa­ bulae sunt; (526) Arriani, qui diversas substantias patris et fìlii et spiritus sancti afferunt, fabulae sunt; et qui ab his descenderunt, Eunomiani, qui dicunt per omnia dissimilem fìlium patri et Ma­ cedoniani, qui dicunt similem quidem fìlium per omnia patri, sanctum vero spiritum cum patre et fùio nihil habere commune, et per hoc negantes spiritum sanctum esse deum, fabulae sunt; (527) Artotirytae, qui panem et caseum in sacrificio offerunt, de­ ridendi sunt; Bardesanistae, qui Christum cadeste corpus habuis­ se confìrmant, nec assumpsisse carnem ex Virgine, fabulae sunt; Basilidiani, qui Christum passum negane, fabulae sunt; Bonosia­ ci, qui dicunt Christum fìlium dei adoptivum, non proprium esse, fabulae sunt; Borboriani sive Gnostici, qui animae substantiam partem dei esse existimant, fabulae sunt; (528) Carpocratiani, qui dicunt Christum de utroque sexu progenitum, fabulae sunt; Cathari, qui, gloriantes suis meritis, peccatorum veniam negane, fabuale sunt; Cataphryges, haeretici Montani, Priscillae et Maxi­ millae42 errorem sequentes, qui adventum sancti spiritus non in apostolos, sed in se venisse asserunt, fabulae sunt; Cerdoniaci, qui abnegane Christum natum passumque, sed simulasse passionem, fabulae sunt; (529) Circiliones seu Scotopitae, qui Bonosi haere­ sim sequentes, Christum fùium dei adoptivum, non proprium es­ se dixerunt, fabulae sunt; Circuncelliones, qui insano amore martyrii, se ipsos interimebant, ut martyres vocarentur, fabulae sunt; Colutiani43, qui dicunt deum non facere mala, contra illud quod scriptum est "Ego deus creans malà: fabulae sunt; Donati­ stae, qui asserebant minorem patre fìlium et minorem fìlio [c. Eir] spiritum sanctum, repudiati sunt; (530) Ebionitae, qui dicebant Christum solum hominem prophetam iustum natum ex viro et 42. montani priscae et maximillae ] Montani, Priscillae et Maximillae. 43. Colutiani ] Colatiai. 210

chi; gli Eriani, che vietano il sacrificio per i defunti, sono empi ed eretici; gli Arcontiaci, che dicono che le cose fatte da Dio sono opera degli angeli, sono favole; (526) gli Ariani, che affermano che il padre, il figlio e lo spirito santo sono fatti di sostanze di­ verse, sono favole; gli Eunomiani, che da quelli discendono, che dicono che il figlio è dissimile in tutto dal padre, e i Macedonia­ ni, che dicono che il figlio è simile in tutto al padre, ma che lo spi­ rito santo non ha niente in comune con il padre e il figlio, e per­ ciò negano che lo spirito santo sia Dio, sono favole; (527 ) gli Ar­ totiriti, che offrono in sacrificio il pane e il formaggio, sono ridi­ coli; i Bardesanisti, che confermano che Cristo ebbe un corpo ce­ leste e non assunse il corpo dalla Vergine, sono favole; i Basili­ diani, che negano che Cristo abbia sofferto, sono favole; i Bono­ siaci, che dicono che Cristo fu il figlio adottivo e non proprio di Dio, sono favole; i Borboriani o Gnostici, che credono che la so­ stanza dell'anima sia parte di Dio, sono favole; (528) i Carpocra­ ziani, che dicono che Cristo fu generato da entrambi i sessi, sono favole; i Catari, che, gloriandosi dei loro meriti, negano il perdo­ no ai peccatori, sono favole; i Catafrigi, che seguono l'eresia di Montano, di Priscilla e di Masimilla61 7, i quali sostengono che l'avvento dello spirito santo non riguardò gli apostoli ma loro, so­ no favole; i Cerdoniaci, che negano che Cristo sia nato e abbia sofferto, ma ritengono abbia simulato la passione, sono favole; (529) i Circilioni o Scotopiti, che seguendo l'eresia di Bonosio di­ cono che Cristo fu figlio adottivo e non proprio di Dio, sono fa­ vole; i Circuncellioni, che per l'insano amore del martirio si uc­ cidevano per essere chiamati martiri, sono favole; i Coluziani, che dicono che Dio non fa il male, contro quello che sta scritto: "io sono il Dio che crea i mali" 618 , sono favole; i Donatisti, che af­ fermavano che il figlio è inferiore al padre e lo spirito santo è in­ feriore al figlio, sono stati ripudiati; (530) gli Ebioniti, che dice­ vano che Cristo era solo un uomo e un giusto profeta nato da un uomo e da una donna, sono stati condannati; Elvidio61 9, che dis2II

femina, condemnati sunt; Elvidius, qui dixit matrem domini quattuor habuisse fìlios et fìlias, haereticus et infamis habitus est; Encratitae, qui et Tatiani dicci sunt, carnes abominantes, fabulae sunt; Etinodiani, qui dicunt Mariam virginem ante partum non post partum, fabulae sunt; Eutychiani, qui Christum post hu­ manam assumptionem negane de duabus naturis, sed solam in eo divinam asserunt naturam, fabulae sunt; Floriani, qui dicunt deum creasse mala, contra illud quod scriptum est, "fecit deus omnia bona", fabulae sunt; (531) et in summa omnes Hermoge­ niani, Herodiani, Hemerobaptistae, lovinianistae, Luciferiani, Manichaei, Martionistae, Melchisedechiani, Menandriani, Me­ tangismi, Montani, Nestoriani, Nicolaitae, Nyctages, Noechia­ ni, qui et Patropassiani et Sabelliani dicuntur, Novatiani, Ophi­ tae, Origeniani, Paterniani, Patritiani, Pauliniani sive Photinia­ ni, Priscillianistae, Saturniani, Sethiani, Severiani, Simoniani, T heodosiani et Calanitae, Tertullianistae, Tritothei et omnes alii haeretici, quorum nomina et sectas non intelligo nec possum nu­ merare, inter quos ponendi sunt et illi Boemi, qui nostra tempe­ state vivunt et sanguinis sacramentum popularibus omnibus, etiam infantibus, communicant, pro falsis christianis damnati sunt. (532) Hic praetereo haruspices, augures, sortilegos, necro­ mantes, coniectores, incantatores, geomantes, chiromantes, py­ romantes, capnomantes, hydromantes, coscinomantes, metopo­ scopos superstitiosos omnes, quorum tota vita fabula est et irri­ denda. (533) Sed videamus an respublica instabilis sit ac incerta. lnstabilis, certe. Nam modo ab uno modo a paucis, modo a mul­ tis gubernatur et his modo bonis, modo malis, unde illa vocabu­ la facta sunt: �cto-LÀE Lct, -ru pavv (ç, à p LO-TOlC pct-r(a, ÒÀ L'y a px (a, ÒY] t,to1epa-r(a, òxlo1epa-r(a. (534) Scythae, Medi, Parchi, Persae, As­ syrii, a rege ad regem saepius translati sunt; Athenienses, Lace­ daemonii, Argivi, Rhodii, Cretenses, Carthaginenses et alii po­ puli multis varietatibus agitati a libertate, a summo imperio, ad servitutem delapsi sunt. Ergo fabulae sunt quoniam nihil certi 212

se che la madre di Dio ha avuto quattro figli e quattro figlie, è ri­ tenuto eretico e infame; gli Encratiti, che sono detti anche Tatia­ ni, che aborrono le carni, sono favole; gli Etinodiani, che dicono che Maria era vergine prima del parto ma non dopo, sono favo­ le; gli Eutichiani, che negano che Cristo, anche dopo il suo essersi fatto uomo, avesse due nature, ma sostengono che avesse solo quella divina, sono favole; i Floriani, che dicono che Dio creò i mali, contro quello che è scritto: "Dio fece tutte le cose buo­ ne"62 0, sono favole; (531) insomma, tutti gli Ermogeriani, gli Ero­ diani, gli Emerobattisti, i Giovinianisti, i Luciferani, i Manichei, i Martionisti, i Melchisedechiani, i Menandriani, i Metangismi, i Montanisti, i Nestoriani, i Nicolaiti, i Nittagi, i Noechiani, che sono detti anche Patropassiani e Sabelliani, i Novaziani, gli Ofi­ ti, gli Origeniani, i Paterniani, i Patriziani, i Paoliniani o Fotinia­ ni, i Priscillianisti, i Saturniani, i Setiani, i Severiani, i Simoniani, i Teodosiani e i Calaniti, i Tertullianisti, i Tritotei e tutti gli altri eretici, i cui nomi delle sette non capisco né posso enumerare, tra i quali vanno posti anche quei Boemi621 che vivono oggi e comu­ nicano il sacramento del sangue a tutta la gente del volgo, anche ai bambini, sono condannati quali falsi cristiani. (532) Lascio qui stare gli aruspici, gli auguri, i veggenti, i negromanti, gli indovi­ ni, gli incantatori, i geomanti, i chiromanti, i piromanti, i capno­ manti622, gli idromanti, i coscinomanti623 , i metoposcopi624, tut­ ti gli uomini superstiziosi, tutta la vita dei quali è favola e va de­ risa. (533) Ma vediamo se lo Stato è instabile e incerto. Certa­ mente instabile. Infatti è governato ora da uno, ora da pochi, ora da molti, ora dai buoni, ora dai malvagi, e da qui derivano i vo­ caboli: monarchia, tirannide, aristocrazia, oligarchia, democra­ zia, oclocrazia. (534) Gli Sciti, i Medi, i Parti, i Persiani, gli Assi­ ri piuttosto spesso passarono da un re a un altro re; gli Ateniesi, gli Spartani, gli Argivi, i Rodii, i Cretesi, i Cartaginesi e altri po­ poli tormentati da molte vicissitudini sono passati dalla libertà e dal sommo potere alla servitù. Dunque sono favole perché non 213

possidebant. (53 5) Romani ab initio regum imperio paruerunt, deinde, exactis regibus, sub consulibus fuerunt et postea sub de­ cem viris consulari potestate, iterum ad consules redierunt, post Imperatores Caesares successerunt, a quibus tandem ad summos pontifìces res delata est, ut videtis. Quantam varietatem romana respublica passa sit audivistis! (536) Si reliquarum varietatem co­ gnoscere vultis, libros politicos Aristotelis percurratis. In consi­ liis vero publicis, alii suadent pacem, alii bellum, alii cives augent rem publicam et exornant, alii expilant. (537) Fiant consules, fìant tribuni, fìant praetores, fìant aediles ut pax et copia et con­ cordia sit in civitatibus. (538) Quot scribae, quot iudices, quot as­ sessores, quot provinciarum praesides, quot denique [ c. EIv] ma­ gistratus fìunt propter hominem? Reges ipsi interdum divina sa­ piunt, interdum delirant, "quicquid delirant reges, plectuntur Achivi". (539) Hinc irae, hinc discordiae, hinc bella, amicus ami­ cum regis coram rege accusat: calumniatur, vituperar; rex quid credat incertus est. Perseus frater Demetrium fratrem coram pa­ tre rege insimulavit; sedit miserrimus pater iudex inter duos fì­ lios. (540) Expiravit aliquis rex: mittantur confestim ad dolen­ dum et proximos consolandum legati. Creatur novus rex seu no­ vus pontifex, mittantur congratulantes. Accedit huc princeps, seu imperator hospes, occurritur magno cum triumpho, suscipi­ tur, sternuntur triclinaria babylonica, peristrommata campanica et tapetia alexandrina, ornantur abaci auro argentoque, coenatur opipare et luxuriose, adsunt tubicines, citharoedi, cantores, sal­ tatores, gesticulatores, omnia quae ad voluptatem spectant, fìunt. Quid tum? Fabulae. (541) Operae pretium est hoc loco audire versiculos sparsos et indignationes et susurros eorum qui regibus servientes a fortuna deprimuntur in eos qui ab illa subito extol­ luntur. (542) Unus exclamat: «Concurrite omnes augures, haru-

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possedevano niente di certo. (535) I Romani all'inizio erano go­ vernati da re, poi, cacciati i re, furono governati dai consoli e do­ po dai decemviri con potestà consolare, poi di nuovo tornarono sotto i consoli, poi si succedettero i Cesari imperatori, dai quali alla fine lo Stato fu affidato ai sommi pontefici, come vedete. Avete sentito che varietà di condizioni abbia sperimentato lo Stato romano! (536) Se volete conoscere la varietà di altre realtà, scorrete i libri politici di Aristotele. Nelle pubbliche assemblee, poi, alcuni esortano alla pace, altri alla guerra, alcuni cittadini accrescono e onorano lo Stato, altri lo saccheggiano. (537) Si creino consoli, si creino tribuni, si creino pretori, si creino edili affinché la pace, l'abbondanza e la concordia regnino nelle città. (538) Quanti scribi si nominano, quanti giudici, quanti assesso­ ri, quanti presidenti di provincia, infine quanti magistrati per l'utilità dell'uomo? I re stessi a volte sanno i segreti divini, a vol­ te delirano; "ogni follia dei re la scontano gli Achei" 62 5. (539) Da qui ire, da qui discordie, da qui guerre, un amico accusa l'amico del re di fronte al re: è criticato, a sua volta offende; il re non sa a chi credere. Perseo accusò il fratello Demetrio di fronte al pa­ dre re e l'infelicissimo padre dovette fare il giudice tra due fi­ gli626. (540) Un re muore: si mandino subito ambasciatori a far le condoglianze e a consolare i parenti. Si crea un nuovo re o un nuovo pontefice, si mandi un'ambasciata gratulatoria. Arriva qui il principe o l'imperatore ospite, gli si va incontro con gran­ de sfarzo, lo si accoglie, si dispongono banchetti babilonici, co­ perte campane, tappeti alessandrini62 7, si dispongono tavoli d'o­ ro e d'argento, si cena lautamente e sontuosamente, ci sono flau­ tisti, citaredi, cantori, danzatori, pantomimi e tutto ciò che può allietare. E allora? Favole. (541) Vale la pena a questo punto di ascoltare i versi sparsi e le critiche e i pettegolezzi di coloro che, pur servendo i re, sono stati colpiti dalla sorte, e al contrario quelli che da essa sono stati all'improvviso sollevati. (542) Uno esclama: «Accorrete tutti, auguri, aruspici, è accaduto un fatto

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spices, portentum inusitatum conflatum est! Recens nam mulos qui fricabat consul factus est»; alter indignatur: «Sectus flagel­ lis hic triumviralibus / praeconis ad fastidium / arat Falerni mil­ le fundi iugera44 / et Appiam inanis terit »; alius lamentatur: «Nuper in hanc urbem pedibus qui venerar albis, nunc possidet plus Pallante et Licinis». (543) Viden tu illum, qui nunc est a se­ cretis? 1am fuerat tonsor. Viden alium, qui nunc est a responsis? 1am fuerat stabularius minister. Viden illum iuvenem qui nunc est a caliculis? Pistoris fìlius fuit. (544) O fortuna viris invida for­ tibus! Sed quid lamentatione aut indignatione opus est, cum haec fortunae blandimenta levia, instabilia et fabulae sint? Quid quod urbes, flumina, insulae et quaedam huiusmodi quae putan­ tur immortalia, fabulae sunt? Nam et a terrae tremoribus et hia­ tibus et diluviis et incendiis absorpta iam multa loca seu in cine­ rem redacta fuerunt, ut ne vestigia quidem appareant. (545) Hic video quendam iureconsultum gaudentem et secum haec verba fortasse meditantem: «Codrus omnem hominis vitam, omnes artes, omnia studia praeter leges taxavit; leges certe non taxabit: scie enim eas esse sacrosantas et honesta praecipere et prohibere contraria. (546) Legit sane illa Demosthenis verba contra Ari­ stogitonem: "1eal -rou-r6 ècrrL v6 µ.oç, 4> nav-raç ne(0ea-0aL npo0111eeL ÒLà noÀÀa, Kal µ.aÀLa-0'o-rL naç ÈOTL v6 µ.oç eupY] µ.a µ.èv Kal òwpov 0ewv, ò6yµ.a òè q,pov(µ.wv àv0 p wnwv, ènav6p0w µ.a òè -rwv é1eouo-(wv 1eal àKOUO"LW'V a µ.a pTY] !-(,r/.,TWV, 7t'MEWç ÒÈ o-uv 0�KY] lCO LV�, Kct0'�v 7t'tiO-L npo0111eeL ,�v -rotç èv Tfi n6ÀeL': quae Martianus in Digestis de legi­ bus latina sic fecit: "Et haec est lex cui omnes decet obedire prop­ ter multa et varia et [c. E2r] maxime quia omnis lex est inventio quidem et donum dei, dogma autem omnium sapientum, coer­ tio autem omnium volutariorum et non voluntariorum peccato­ rum, civitatis autem compositio communis secundum quam om-

44. iugera ] uigera. 216

portentoso! Recentemente, infatti, è stato fatto console uno che puliva i muli!»628 ; un altro si indigna: « Costui, flagellato a san­ gue dalle sferze dei triumviri, fino alla noia del banditore, fa ara­ re mille iugeri di terreno Falerno e consuma con i suoi puledri la via Appia»629 ; un altro lamenta: «Chi poco fa è giunto in que­ sta città coi piedi bianchi63 0 possiede ora più di quelli come Pal­ lante e Licinio»63 1 • (543) Vedi quello che ora è preposto ai se­ greti? Prima era un barbiere. Vedi quell'altro che ora è preposto ai responsi? Prima era stalliere. Vedi quel giovane che ora è pre­ posto ai calici? È figlio di un mugnaio. (544) O fortuna ostile agli uomini forti! Ma a che servono lamenti e indignazioni, dal mo­ mento che anche queste lusinghe della fortuna sono incostanti, instabili, insomma favole? A che servono dato che le città, i fiu­ mi, le isole e altre cose di tal genere, ritenute immortali, sono fa­ vole? Infatti, molti luoghi furono inghiottiti o ridotti in cenere dai terremoti, dalle voragini, dai diluvi e dagli incendi, al punto che non ne restano nemmeno le tracce. (545) Vedo qui un giure­ consulto che ride e forse pensa tra sé e sé: «Codro ha criticato tutti gli stili di vita degli uomini, tutte le arti, tutte le professio­ ni tranne le leggi; di sicuro non criticherà le leggi: sa infatti che esse sono sacrosante e che insegnano cose oneste e proibiscono quelle disoneste. (546) Ben conosce infatti quelle parole di De­ mostene contro Aristogitone: "1eal -rou-r6 ècrn v6 t,toç, 4> 1rav-raç 1re rnea-9 ct L 1rpoO'�lCEL O là 7rOÀÀa, lCctL t,t aÀLa-9' oTL 1raç ÈO'TL v6 t,toç eu pYj t,t ct t,t èv 1ea l òw pov 9 ewv, ò6y t,t ct òè q> pov ( t,t wv àv 9 pw1rwv è1rav6p9w t,tct òè -rwv é1eoua-(wv 1eal à1eoua-(wv à t,tctpTYj t,t&.-rwv, 1r6Àewç òè O'lJV9�lCYj lCOLV�, 1Cct9'�v 7rciO'L 1rpocn,1eeL ��V TOLç èv Tfi 1r6let" 63 2 , che Marciano in quella parte del Digesto che riguarda le leggi co­ sì volse in latino: "E questa è una legge a cui tutti conviene obbe­ dire, per molti e vari motivi e soprattutto perché ogni legge è in­ venzione e dono di dio, dogma di tutti i sapienti, contenimen­ to per tutti i peccati volontari o involontari, comune accordo ci­ vile che a tutti quelli che vivono nella città conviene seguire" »633 • 217

nibus convenir vivere qui in civitate sunt" ». (547) Legi equidem et audivi leges esse sacrosanctas, sed tamen et ipsae fabulae sunt: nam sive civiles sive pontificales sint, saepenumero mutantur; quae nunc sunt, olim non fuerunt, quae olim fuerunt, nunc abro­ gatae sunt; praeterea non semper communis lex esse potest, unde opus est ut ab aequo et bono, quod Graeci 'ènLeL1eéç' appellane, cor­ rigatur. (548) Adde quod non omnibus servatur, quare bene So­ lon sive, ut alii, Anacharsis, dixit leges esse similes telis aranearum, quae minores muscas compraehendebant, a maioribus laceraban­ tur. (549) Amplius, aliquid nobis est iustum, quod aliis est iniu­ stum; quod aliis iustum nobis iniustum videtur. Furari apud Aegyptios et Lacedaemonios honorifìcum erat, nobis fures stran­ gulantur; nobis hominem occidere capitale est, anthropophagi carne humana vescuntur, unde et nomen sortiti sunt. (550) «At in iure consultis magna est rerum scientia de fundo instructo, de supellectile legata, de verborum signifìcatione et de aliis pene in­ fìnitis titulis». Magna quidem, sed tamen iureconsulti nondum sciunt utrum iusticia animai sit nec ne, nondum statuerunt utrum diem tertium an perendinum, utrum iudicem an arbitrum, utrum litem an rem dici oporteat. (551) O viros ingeniosos, qui tot annos in Mutio, in Aquilio, in Trebatio versati sunt et nondum haec sciunt. At Cicero, vir vehementer occupatus, se triduo posse iure­ consultum fieri profìtebatur. (552) «Acqui sine emptionibus, ven­ ditionibus, permutationibus et aliis contractibus humana societas stare non posset, quibus nos iureconsulti, tot actiones, tot excep­ tiones, tot condiciones veras et fìrmas damus». (553) Fabulae. Nam nunquam tam vere aliquid praescribere potestis, quin litem contestari necesse sic, et, o dii immortales, quando lis illa fìnitur? Post annum? Non. Post X annos? Minime. Post XX? Nequaquam. (554) Unde illa Martialis in Gargilianum indignatio: "Lis te bis

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(547) Ho letto e sentito, certo, che le leggi sono sacrosante, ma tuttavia anch'esse sono favole: infatti, che siano civili o canoni­ che, spesso cambiano; quelle che sono in vigore ora, un tempo non lo erano, quelle che lo erano un tempo, ora sono state abro­ gate; inoltre, non può esserci sempre un diritto comune, quindi è necessario che la legge sia corretta in base al giusto e al buono, che i Greci chiamano 'è1nsucsç' 634. (548) Aggiungi che non si applica a tutti, per cui ha fatto bene Solone o, per altri, Anacarsi, a dire che le leggi sono simili alle ragnatele, che catturano le mosche pic­ cole, ma sono lacerate da quelle grandi635. (549) Per di più, qual­ cosa che per noi è giusto è ingiusto per altri, ciò che per altri è giu­ sto a noi sembra ingiusto. Presso gli Egiziani e gli Spartani ruba­ re era onorifico, da noi i ladri vengono strangolati; per noi ucci­ dere gli uomini è delitto capitale, gli antropofagi si cibano di car­ ne umana, da cui prendono anche il nome. (550) «Ma i giure­ consulti hanno grandi conoscenze dei terreni edificabili, delle eredità, del significato delle parole e di altri titoli quasi infiniti». Sono senz'altro grandi cose, tuttavia i giureconsulti non sanno ancora se la giustizia sia una virtù animale636, non hanno ancora deciso se il terzo giorno equivalga a posdomani, se è meglio dire giudice o arbitro, lite o contesa. (551) O uomini ingegnosi, che tanti anni hanno trascorso sulla legge Muzia637, sulla legge Aqui­ lia638, sulla legge Trebazia639 e ancora non le conoscono. Ma Ci­ cerone, uomo occupatissimo, diceva che sarebbe potuto diventa­ re in tre giorni giureconsulto640 . (552) «Eppure la società umana non può sussistere senza acquisti, vendite, scambi e altri contrat­ ti e noi giureconsulti stabiliamo per queste tanti contratti, tante eccezioni, tante condizioni stabili e sicure». (553) Favole. Infatti non potete mai prescrivere qualcosa di talmente certo che non si possa intentare un processo producendo testimoni e, o dei im­ mortali, quando finirà questo processo? Dopo un anno? No. Do­ po dieci anni? Nient'affatto. Dopo vent'anni? Macchè. (554) Da qui quella critica di Marziale contro Gargiliano: "O Gargiliano,

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decimae numerantem frigora brumae / conterie una tribus, Gar­ giliane, foris. / Ah miser et demens viginti litigat annis / qui­ squam cui vinci, Gargiliane, licet?". ( 5 5 5) Quanto melius esset sponte recte vivere, teneri patriae nec legibus ullis, ut docebat Xenocrates et monuit Virgilius! Quod si fieret nec T itus Livius leges rem surdam et inexorabilem esse dixisset, nec Domitianus imperator leges revocasset amaras omnibus. (556) At si tamen alicui legi te velis obstringere, illi te totum obstringe: "Dilige deum tuum et proximum tuum sicut te ipsum". (557) Caeterum mihi respondeatis, quaeso, si domum de Lapo emero, quis me tu­ tum praestabit? Tabularius Cicuta nodosior. Et quomodo? His verbis: "Stephanus Lapus [ c. E2v] filius quondam Petri Lapi, ci­ vis Bononiensis, dedit, vendidit, tradidit Codro, filio quondam Cortesii Urcei, presenti stipulanti et recipienti, prae se et suis haeredibus, unam domum bene materiatam positam Bononiae, in diocesi Sancti Donati". (558) Fabulam incipis ad habendum, tenendum, possidendum et quicquid dicco emptori libuerit fa­ ciendum. Fabulae. Veniet enim adversarius, qui aliquid deesse di­ cet. Addam: "et illud promittens praedictus venditor haec omnia rata habere, tenere, adimplere, nec huic venditioni contradicere vel contrafacere de iure vel de facto per se vel per alium sub poe­ na sestertium centum obligans se et sua bona praesentia et fucu­ rà'. (559) Cantilenam eandem canis, exceptionem enim aliquam opponet. Sed addam: "Renuncians exceptioni pecuniae non nu­ meratae, doli mali, actioni in factum, fori privilegio et omnibus beneficiis pro se facientibus". (560) Tricae. lurabit deos superos, inferos, medioximos. "Addam nomen Christi, annum, mensem, diem, indicionem, nomen summi pontificis, locum, testes, no­ men meum cum signo subscribam". (561) Nugae. Nonne versus

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ti affligge un processo che è stato discusso davanti a tre tribuna­ li, e sono già trascorsi venti freddi inverni. Oh uomo infelice e pazzo! C'è qualcuno, o Gargiliano, che sta a litigare per venti an­ ni, quando può perdere la causa?" 641 (555) Quanto sarebbe me­ glio vivere spontaneamente in modo retto, non essere regolato da alcuna legge patria, come insegnava Senocrate642 e ammonì Vir­ gilio!643 Che se così fosse, T ito Livio non avrebbe definito le leg­ gi cosa sorda e inesorabile644, né l'imperatore Domiziano avreb­ be ripristinato leggi amare per tutti645 • (556) Ma se vuoi proprio sottometterti ad una legge, sottomettiti totalmente a questa: ''Ama il tuo Dio e il tuo prossimo come te stesso". (557) Del resto, rispondetemi, per favore, se comprerò la casa da Lapo, chi mi po­ trà dare certezze? Il notaio Cicuta646 è troppo imbroglione. E al­ lora come faccio? Con queste parole: «Stefano Lapo, figlio del fu Pietro Lapo, cittadino bolognese, diede, vendette, consegnò a Codro, figlio del fu Cortese Urceo, presente, stipulante e rice­ vente per sé e per i suoi eredi, una casa ben costruita, posta a Bo­ logna, nella diocesi di San Donato». (558) Tu cominci una favo­ la per avere, tenere, possedere e fare qualunque cosa piaccia al suddetto compratore. Favole. Verrà infatti un nemico che dirà che manca qualcosa. Aggiungerò: «e promettendo il suddetto venditore anche ciò, che possiede, tiene ferme e adempie tutte queste condizioni e di non opporsi o di contrastarla di diritto o di fatto, lui stesso o per mezzo di un altro, obbligando sotto la pe­ na di 100 sesterzi se stesso e i suoi beni presenti e futuri». (559) Ripeti sempre la stessa cantilena647, infatti opporrà qualche ecce­ zione. Ma aggiungerò: «Rinunciando alla limitazione del dena­ ro non in contanti, al dolo, all'azione giudiziaria, al privilegio del foro e a tutti i benefici fatti a loro vantaggio». (560) Sciocchez­ ze. Giurerà sugli dei superi, inferi, di mezzo. «Aggiungerò il no­ me di Cristo, l'anno, il mese, il giorno, l'indizione648 , il nome del sommo pontefice, il luogo, i testimoni, il mio nome e sottoscri­ verò con un sigillo». (561) Sciocchezze. Non hai mai letto quei 221

illos nostros legisti unquam? "Heus tu, nostra aetas non multum fìdei gerit: tabulae notantur, adsunt testes duodecim, tempus lo­ cumque scribit actuarius, tamen invenitur rabula, qui factum ne­ get". (562) Et ut aliquando fabulam fabularum terminemus, in hac extrema pagella omnes ociosos tam divites quam pauperes, omnes moechos, mulierosos, paederastas, cinaedos, phagones, vinosos, aleatores, parasitos, lenones, perductores, tonsores, seplasiarios, unctores, mediastinos, balneatores, peraulas, lyristas, cantores, saltatores, pharmacopolas compraendamus, hi cum bene dormie­ rint, amaverint, coiverint, comederint, biberint, luserint, cantave­ rint, rasitaverint, inunxerint. Quid tandem? Fabulae. (563) Aleo Mariottus, cum Iudendo omnia fere bona consumpsisset, domum repetens exclamare coepit: "Heus Nausistrata uxor affer propere restim, qui me faciam pensilem!" 45 • "Et cur nam?". "Quia unicae fìliolae nostrae dotem amisi, miser!". (564) Et libidinosus ille vo­ cat aequales: "Ice mecum! Venerunt novae diabolares puellae for­ mosae. Eamus antequam locos madidos inveniamus!". Eunt, salu­ tem dicunt, suaviantur, amplectuntur, coeunt, et omnes numeros Cyrenes meretricis, quae a Graecis dieta est 'òwoe1eat-,t�xavoç' im­ plent et quaecumque ex Elephantidos libellis didicerunt, expe­ riuntur. Quid tum? Fabulae. (565) Nam et amissa pecunia, tem­ pore, honore, secum t-,te-ravoLav reportant; sed "cum lapidosa chi­ ragra / fregerit articulos, caeteris ramalia fagi': notum est Persii carmen. (566) 1am ad nos redeamus. Nos quoque lectores fabulae sumus. Nam cum singulis annis aliquid novi sumus interpraeta­ turi publicas facimus invitationes, in foribus gymnasiorum et templorum et in pilis platearum chirographos affìgimus, vocamus rectores studiorum, dialecticos, philosophos, medicos, iurecon­ sultos, poetas, grammaticos, [c. E3r] senatores, equites, plebeios quoque litteratos; (567) ornatur cathedra et sedilia tapetibus et

45. pensilem ] pensilom. 222

nostri versi? "Oh tu, il nostro tempo non porta con sé molta fi­ ducia. Si mette nero su bianco, ci sono dodici testimoni, il notaio registra tutto, e poi ti salta fuori un avvocato che nega tutto!" 649. (562) E per terminare, una buona volta, la favola delle favole, in questa ultima paginetta inseriamo pure tutti gli sfaccendati, ric­ chi e poveri, tutti gli adulteri, i donnaioli, i pederasti, i libidino­ si, i mangioni, gli ubriaconi, i giocatori d'azzardo, i parassiti, i le­ noni, i ruffiani, i barbieri, i venditori di profumi, i servi ungitori, i garzoni, i custodi dei bagni, i flautisti itineranti650, i suonatori di lira, i cantori, i danzatori, gli speziali, quelli che hanno ben dormito, amato, si sono accoppiati, hanno mangiato, bevuto, giocato, cantato, si sono rasati, si sono unti. Cosa sono infine? Fa­ vole. (563) Il biscazziere Mariotto, avendo consumato quasi tut­ ti i beni nel gioco, tornando a casa iniziò a urlare: "O moglie Nausistrata, porta subito una fune con cui possa impiccarmi!" 6 5 1 . "E perché mai?". "Perché ho perso la dote per la nostra unica fi­ glia, me misero!" (564) E quel libidinoso, invece, chiama i suoi compagni: "Venite con me! Sono arrivate nuove belle fanciulle, meretrici da due soldi. Andiamo prima di trovare i luoghi ba­ gnati!". Vanno, salutano, si baciano, si abbracciano, si accoppia­ no, provano tutti i numeri della meretrice di Cirene, che dai Gre­ ci è detta 'òwòe1ea!l�Xavoç' 6 52 , e sperimentano tutte le cose che hanno appreso dai libelli di Elefantide6 53. Cosa sono allora? Fa­ vole. (565) Infatti dopo aver perso soldi, tempo, onore, portano con sé pentimento; ma "quando la gotta pietrosa avrà spezzato le articolazioni, ormai niente più che ramaglia di un vecchio fag­ gio" 6 54, il carme di Persio è noto. (566) Ma torniamo a noi. An­ che noi professori siamo favole. Infatti, ogni anno, quando stia­ mo per esporre qualcosa di nuovo, facciamo pubblici inviti, nei fori dei ginnasi e delle chiese, mettiamo la nostra firma sulle co­ lonnine delle piazze6 55, chiamiamo i rettori dello studio, i dialet­ tici, i filosofi, i medici, i giureconsulti, i poeti, i grammatici, i se­ natori, i cavalieri, persino i plebei alfabetizzati; (567) si ornano le 223

stragulis vestibus, his congregatis, tandem incipimus. Hic laudat Homerum, ille Virgilium, hic Demosthenem, ille Ciceronem, hic Lucanum, ille Statium et demum, peroratione facta, quid tan­ dem? Fabulae. Et vos quoque auditores fabulae estis. "Curritis enim ad vocem iocundam et carmen amicae / T hebaidos". (568) Codrus hodie concionaturus est: curramus propere, facetus et comis est, excitabit risum, delectabit. Et ille molli sua et faceta oratione risum excitat et audientes delectat. Quid tum? Fabulae. (569) «At famam et immortalitatem legendo acquirimus». Quam famam? Quam immortalitatem, si post mortem aut nihil eris, aut, si eris, (ut credimus) nomen tuum infìnitate annorum e memoria hominum delebitur? Et hoc omnibus famam quaeren­ tibus dictum sic. (570) Quot doctissimorum hominum volumi­ na, quot fortissimorum victoriae cum nominibus etiam suis pe­ rierunt? Nolo hic nimium immorari quoniam tempus est equo­ rum fumantia solvere lora. Volo etiam id omittere, quod si mun­ dus semper fuit et semper erit, ut Aristoteli placuit, nihil sempi­ ternum, nihil immortale praeter ipsum mundum vel propter exu­ stiones, vel propter diluvia, quae statutis accidunt temporibus, servari potest. (571) Immo aliquando hae litterae, quibus nunc utimur peribunt et aliae resurgent et fortasse saepius extinctae, saepius resurrexerunt. Si vero mundus ab immortali deo per ignem consumendus est, multo minus cibi immortalem famam sperare conceditur. (572) «Sed diu quantum fieri potest nomen producere dulce est». Verum. Sed quid 'diu' dicendum est, quod fìnem aliquando habiturum sic? Ex antiquis tamen viris fuere quidam in titulis et honoribus nimis ambitiosi et in ponendis trophaeis contentiosi, quales Athenienses et Lacedaemonii et Romani quoque, ut apud Plinium legere licet de laudibus Pom­ peii Magni. (573) Sed post Pompeium crevit adhuc in Caesaribus Augustis ambitio, ex adulatione forsan nata ex pluribus; duorum

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cattedre e i sedili con drappi e con coperte e, quando sono tutti riuniti, alla fine iniziamo. Questo loda Omero, quello Virgilio, questo Demostene, quello Cicerone, questo Lucano, quello Sta­ zio, e infine, dopo aver fatto il discorso, cosa siamo? Favole. E an­ che voi uditori siete favole. "Correte infatti a udir la bella voce del poeta e la poesia della Tebaide cara al pubblico" 6 56 • (568) Codro oggi parlerà in pubblico: affrettiamoci, è ilare e comico, farà ri­ dere, ci farà divertire. Quello, col suo discorso lieve e faceto, sti­ mola il riso e diverte gli uditori. Cosa sono dunque? Favole. (569) «Ma facendo lezione acquistiamo fama e immortalità». Ma quale fama? Quale immortalità, se dopo la morte o non sarai nul­ la o, se sarai (come crediamo), l'infinità degli anni cancellerà il tuo nome dalla memoria degli uomini? E questo sia detto per tutti coloro che ricercano la fama. (570) Quanti volumi di uomi­ ni dottissimi, quante vittorie di uomini valorosissimi scompar­ vero insieme con i loro nomi? Ma non voglio indugiare troppo su questo argomento, dato che è ora di sciogliere le briglie fu­ manti ai cavalli6 57 • E voglio anche tralasciare il fatto che se il mondo c'è sempre stato e sempre ci sarà, come vuole Aristotele, non c'è niente di eterno e immortale a parte il mondo stesso, a causa o delle conflagrazioni6 58 o dei diluvi che capitano periodi­ camente. (571) Anzi, persino le lettere che noi ora usiamo peri­ ranno e ne sorgeranno altre e forse è già capitato più volte che si siano estinte e siano risorte. E se davvero il mondo deve essere di­ strutto nel fuoco da Dio immortale, ti è concesso ancor meno di sperare in una fama immortale. (572) «Ma fin tanto che dura, la fama è dolce». È vero. Ma perché usare l'espressione 'fin tanto che' a proposito di ciò che un giorno è destinato ad aver fine? Tra gli antichi ci furono sicuramente alcuni troppo ambiziosi in ti­ toli e onori e troppo ostinati nell'innalzare trofei, quali gli Ate­ niesi e gli Spartani e anche i Romani, come in Plinio si può leg­ gere riguardo alle lodi di Pompeo Magno 6 59 • (573) Ma dopo Pompeo l'ambizione, nata forse dall'adulazione dei più, crebbe

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titulum admirationis vel fabulae potius causa vobis recitabo: (574) "Imperator Caesar Galerius Maximus, lnvictus, Augustus, Pontifex Maximus, Germanicus, Aegyptiacus, T hebaicus, Sar­ maticus Quinquies, Persicus Bis, Carpicus Sexies, Armenicus, Medorum et Adiabenorum Victor, Tribuniciae Potestatis Vicies, lmperator Deciesnovies, Consul Octies, Pater Patriae, Procon­ sul". (575) Et "Imperator Caesar Flavius Valerius Constantinus Pius, Felix, Invictus, Augustus, Pontifex Maximus, Tribuniciae Potestatis, lmperator Quinquies, Consul, Pater Patriae, Procon­ sul". (576) Constantinus imperator Traianum imperatorem 'her­ bam parietariam' oh titulos multos aedibus inscriptos appellare solitus erat, ut scripsit Aurellius, cum tamen ipse laudis avidus, ul­ tra quam existimari potest, esset. De titulis vestri Iustiniani non dico, in praesentia prudentissimi iureconsulti; [c. E3v] vos quoti­ die codicem eius inter manus habetis. (577) «At non vides hos etiam nunc celebrari et his titulis esse immortales?». Celebran­ tur nunc quidem sed nondum exustio venit, quam philosophi non totius, christiani vero totius orbis expectant. Omitto etiam illud quod cum fortuna in omni re dominetur et ea instabilis sit et incerta, nihil stabile, nihil certum tibi potest polliceri. Collige ergo te vere nihil nisi fabulas posse expectare. ( 578) Hic missas etiam facio varietates linguarum, morum, ciborum, mercatuum, nundinarum in quibus hic vendit, ille emit, hic portat, ille aspor­ tar, tot vasa, tot vestes, tot arma, tot instrumenta, tot fructus quae omnia nos esse instabiles ac fabulas aperte declarant. (579) Vultis­ ne aliquid etiam de varietate sepulturae audire? Aegyptii condi­ tores -rapLxeu·rrtç habebant, qui mortuos condiebant et domi ser­ vatos in conviviis exhibebant; Persae etiam circumlitos cera con­ diebant ut quam maxime permanerent diuturna corpora. Erat

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ancora nei Cesari Augusti; vi reciterò, per stupore o piuttosto per celia, il titolo di due imperatori: (574) "Imperatore Cesare Galerio Massimo66 0, invitto, Augusto, Pontefice Massimo, Ger­ manico, Egizio, Tebano, Sarmatico cinque volte, due volte Persi­ co, sei volte Carpico, Armenico, vincitore dei Medi e degli Adia­ beni, che ha avuto per venti volte la tribunicia potestà, dicianno­ ve volte il comando militare, otto volte Console, Padre della pa­ tria, Proconsole". (575) E "Imperatore Cesare Flavio Valerio Co­ stantino66 1, Pio, Felice, Invitto, Augusto, Pontefice Massimo, che ha ottenuto la tribunicia potestà, Comandante massimo cin­ que volte, Console, Padre della patria, Proconsole". (576) L'im­ peratore Costantino era solito chiamare l'imperatore Traiano 'erba parietale', per il gran numero di iscrizioni fatte sugli edifici pubblici, come ha scritto Aurelio662, essendo avido di lodi oltre ogni immaginazione. Dei titoli del vostro Giustiniano non dico nulla, visto che è presente un giureconsulto sapientissimo; voi tutti i giorni avete il suo codice tra le mani. (577) «Ma non vedi che quelli ancora oggi sono celebrati e sono, grazie a quei titoli, immortali?». Sono certamente celebrati ora, ma non è ancora giunta la conflagrazione che non tutti i filosofi, ma tutti i cristia­ ni attendono. Tralascio anche il fatto che, essendo la fortuna pa­ drona di tutte le cose ed essendo essa instabile e incerta, non ti può essere promesso nulla di stabile né di certo. Convinciti dun­ que che non ti puoi aspettare nient'altro che favole. (578) Qui tra­ lascio anche la varietà delle lingue, dei costumi, dei cibi, dei mer­ cati, dei commerci, nei quali questo vende, quello compra, questo porta, quello prende, tanti vasi, tante vesti, tante armi, tanti stru­ menti, tanti frutti, tutte cose che ci mostrano chiaramente che siamo instabili e favole. (579) Volete sentire qualcosa anche sulla varietà delle sepolture? Gli Egizi66 3 avevano gli imbalsamatori, -rapLxeu-rac;, che preparavano i morti e li conservavano in casa per mostrarli durante i banchetti; i Persiani, invece, li spalmavano di cera, affinché i corpi si conservassero il più a lungo possibile. Era 227

enim quorundam opinio tam diu animam durare quam diu cor­ pus. (580) Magi corpora sua non sepeliebant, nisi prius a feris fuis­ sent lacerata. In Hyrcania plebs publicos alebat canes, optimates vero privatos sive domesticos a quibus post mortem comederentur. Triballi patres senes iugulabant ac purgatos et coctos advocatis co­ gnatis devorabant. (581) Hiberi cadavera sua vulturibus tradebant. Garamantes nudos arena infodiebant. Ponticae gentes corpora ser­ vabant educto prius de capitibus cerebro. Hyperborei, tantum sa­ tietate vitae defessi, in mare saliebant. Nasamones in mare cadave­ ra proiiciebant. Celte de calvariis mortuorum vasa conficiebant et, ornata auro, mensis inferebant. (582) Athenienses urebant, qui mos et a Romanis postea servatus est, cum prius terrae cadavera mandarent. Scythae vero truncis illa suffigebant et putrescere et li­ quefieri sinebant. (583) Sed quid mirum est nos esse fabulosos, cum caelum ipsum sit fabulis plenum? Nam Aries, Taurus, Gemini, Cancer, Leo, Virgo, Libra, Scorpius, Sagittarius, Capricornus, Aquarius et Pisces fabulis in mundum ascenderunt. Saturnus, Iup­ piter, Mars, Sol, Venus, Mercurius et Luna fabulis in caelum trans­ lati sunt. (584) Aliaque signa, Ursa Maior, Procyon, Ursa Minor, Equus, Serpens, Aquila, Delphin, Sagitta, Casiopea, Lepus, Per­ seus, Cetus, Andromeda, Orion, Heniochus, Centaurus, Corvus, Hydrus, Capra, Lyra, Haedi, Engonasi, Corona Borea, Argo, Co­ rona Australis, Eridanus Fluvius, Pliades, T huribulum sive Ara, Hyades, Arctophylax qui et Bootes, Ophiuchus, Cepheus, Canis, Arcus, Cygnus, Crater, Piscis et vincula quae retinent pisces cau­ darum a parte locata (ut interpraetatus est Cicero) fabulis in mun­ do collocata sunt. (585) «At si haec exercitia sive studia humana, quae recensuisti, vana sunt et fabulosa, cur militamus? Cur exerce-

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infatti opinione di alcuni che quanto a lungo durasse il corpo tanto a lungo durasse l'anima. (580) I Magi non seppellivano i corpi, se prima non erano stati sbranati dalle belve. In lrcania la plebe nutriva i cani randagi, gli ottimati, invece, quelli privati o domestici, per essere mangiati da loro dopo la morte. I Triballi strangolavano i padri vecchi e, dopo averli puliti e cucinati, chia­ mati i parenti, li divoravano. (581) Gli Iberici lasciavano i loro ca­ daveri agli avvoltoi. I Garamanti seppellivano i morti nudi sot­ to la sabbia. Le genti del Ponto conservavano i corpi dopo aver estratto il cervello dal cranio. Gli Iperborei, una volta stanchi della vita, si gettavano in mare. I Nasamoni gettavano i cadave­ ri in mare. I Celti facevano vasi con i crani dei morti e, ornati d'oro, li portavano sulle tavole. (582) Gli Ateniesi cremavano i corpi, costume che successivamente fu conservato anche dai Ro­ mani, prima che inumassero i cadaveri nella terra. Gli Sciti, in­ vece, li attaccavano a tronchi e li lasciavano putrefare e liquefar­ si. (583) Ma perché ci meravigliamo di essere favolosi, quando il cielo stesso è pieno di favole? Infatti Ariete, Toro, Gemelli, Can­ cro, Leone, Vergine, Bilancia, Scorpione, Sagittario, Capricor­ no, Acquario e Pesci sono saliti in cielo grazie alle favole. Satur­ no, Giove, Marte, Sole, Venere, Mercurio e Luna sono assurti in cielo grazie alle favole. (584) E le altre costellazioni 66 4, Orsa Maggiore, Procione, Orsa Minore, Cavallo, Serpente, Aquila, Delfino, Saetta, Cassiopea, Lepre, Perseo, Balena, Andromeda, Orione, Auriga, Centauro, Corvo, Idro, Capra, Lira, Capret­ ti66 5, Ercole Inginocchiato, Corona Settentrionale, Argo, Coro­ na Australe, Eridano, Pleiadi, Turibolo o Altare, Iadi666, Artofi­ latte che è chiamato anche Boote, Serpentario, Cefeo667, Cane, Arco, Cigno, Coppa, Pesci e i legami che tengono i pesci dalla parte delle code (come interpreta Cicerone668 ) sono stati collo­ cati nell'universo grazie alle favole. (585) «Ma se questi esercizi e studi umani che hai enumerato sono vani e favolosi, perché lottiamo? Perché ci affanniamo? Perché filosofeggiamo? Perché 229

mur? Cur philosophamur? Cur appetimus?». (586) Nescio certe, nisi quia hae fabulae nobis bonae et utiles videntur, aut [ c. E4r] ad eas fato seu necessitate compellimur: his enim lucramur, delecta­ mur, vivimus. (587) «Et tu quoque instabilis et multo magis fabu­ la es, qui in tredecim praecedentium annorum sermonibus lauda­ sti modo grammaticos, modo poetas, modo philosophos, modo Homerum speciatim, modo medicinam, modo aliud studii genus, nunc omnia haec ante memorata derisisse videris». (588) Utinam non essem! Et tamen ego doctus, dives, pulcher, iuvenis et potens esse vellem, quamvis ea fabulae sint. Et certe haec humana natura fabulis mihi delectari videtur, quae tantam mundi varietatem et tam mutabilem fecerit montium46 scilicet fluminum, camporum, urbium, arborum, herbarum, florum, frumentorum, leguminum, pomorum, piscium, avium, brutorum, insectorum, concharum, marmorum, gemmarum, lapidum et hominum et in his diversas formas, species, coloresque innumerabiles excogitaverit ac effinxe­ rit. (589) Quam oh rem qui libros Naturalis Historiae inscripsit melius Naturalis Fabulae inscripsisset. Optime igitur Homerus omnem humanam vitam omnemque naturam sub duplici fabula hoc est Iliade ac Odyssea complexus est. (590) Et quoniam fabula­ rum aliae bonae, aliae malae, aliae pulchrae, aliae turpes, aliae lon­ gae, aliae breves, aliae quae prosunt, aliae quae nocent, aliae quae delectant, aliae quae molestae sunt, nos eam fabulam legendam elegimus quae prodesset simul et delectaret; de cuius laudibus si vellem in praesentia recantare, ostenderem vobis hanc esse imita­ tionem vitae, speculum consuetudinis, imaginem veritatis. (591) Et ideo bene theatra et amphitheatra et scenae et orchestrae, opera hominum miranda, non iureconsultis, non medicis, non philo­ sophis sed fabulis sunt aedifìcata. Et praecipue47 graecas fabulas, quae totum terrarum orbem sua dulcedine compleverunt, ita vo­ bis commendarem ut nullus esset, quin miro amore et siti et fer46. montium ] muntium. 47. precipue ] precipuae. 23 0

ricerchiamo?». (586) Non lo so davvero, se non perché queste favole ci sembrano buone e utili, o siamo indotti ad esse dal fa­ to o dalla necessità: grazie a queste infatti guadagniamo, ci di­ vertiamo, viviamo. (587) «E anche tu sei instabile, e molto di più di una favola, che in tredici anni di discorsi hai lodato ora i grammatici, ora i poeti, ora i filosofi, ora in particolare Omero, ora la medicina, ora un altro genere di studi e ora sembri voler deridere tutte queste discipline prima ricordate». (588) Volesse il cielo che non lo fossi! Comunque io vorrei essere dotto, ric­ co, bello, giovane e potente, sebbene tutte queste cose siano so­ lo favole. E certamente mi sembra che si diletti con le favole questa natura umana, che ha fatto una così grande varietà nel mondo e una così variegata fisionomia di monti, fiumi, campi, città, alberi, erbe, fiori, cereali, legumi, pomi, pesci, uccelli, fie­ re, insetti, conchiglie, marmi, gemme, pietre e uomini, e per tut­ ti questi ha pensato e plasmato diverse forme, specie e colori in­ numerevoli. (589) Per questo motivo, chi intitolò i suoi libri Storia naturale avrebbe fatto meglio a intitolarli Favole natura­ li. Ottimamente quindi Omero riunì tutta la vita umana e tut­ ta la natura sotto una duplice favola, cioè l'Iliade e l' Odissea. (590) E poiché tra le favole ce ne sono alcune buone, altre cat­ tive, alcune belle, altre brutte, alcune lunghe, altre corte, alcune che giovano, altre che nuocciono, alcune che divertono, altre che annoiano, noi abbiamo scelto di leggere quella favola che potesse insieme giovare e divertire; e se ne volessi ora cantare le lodi, vi mostrerei come essa sia imitazione della vita, specchio della realtà, immagine della verità. (591) E perciò a buon diritto i teatri, gli anfiteatri, le scene e le orchestre, opere ammirevoli degli uomini, sono state edificate non per i giureconsulti, non per i medici, non per i filosofi, ma per le favole. E soprattutto vi raccomanderei le favole greche, che riempirono tutto il mondo con la loro dolcezza, in modo tale che tutti siano presi dal profondo amore, dalla sete e dal fervore d'animo di compren23 1

vore animi illas complectendi ac audiendi caperetur. (592) Sed et temporis et auditorium habenda ratio est, qui fortasse me re­ praehendent quod non ea dixerim brevitate, qua potuissem; sed reliqua in alio sermone dicemus, uhi de Aristophane quoque poeta et illius fabulis verba faciemus. (593) Nunc tantum vos hor­ tor, vos invito, vos obsecro ut, cum fabulas lecturi simus et fabu­ lis mundus gaudeat, de fabulis, cum fabulis, in fabulis, per fabu­ las loquamur, simus, versemur, vivamus, gaudeamus. (594) Et no­ stros principes Bentivolos prosequamur, comitemur, amemus, honoremus, in pace laeticiam, in bello victoriam, optimatibus ve­ netianis et bononiensi populo et omnibus foedera nostra se­ quentibus ac amantibus exoptemus. T f'Aoç. Explicit sermo primus.

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derle e di ascoltarle. (592) Ma si deve tener conto del tempo e de­ gli uditori, che forse mi criticheranno, poiché non ho detto le co­ se in breve, come avrei potuto; il resto lo diremo in un altro di­ scorso, dove parleremo anche del poeta Aristofane e faremo menzione delle sue commedie. (593) Ora solo vi esorto, vi invito, vi prego, visto che leggeremo le favole e che il mondo si diletta di favole, a parlare, a essere, a stare, a vivere, a gioire delle favole, con le favole, nelle favole, attraverso le favole. (594) E i nostri princi­ pi Bentivoglio seguiamo, accompagniamo, amiamo, onoriamo e auguriamo gioia in tempo di pace, vittoria in tempo di guerra ai nobili veneziani669 , al popolo bolognese e a tutti coloro che ri­ spettano e onorano i nostri patti. Fine. Termina il primo discorso.

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Note esegetiche al Sermo I I. Apul. Met. I 1: «Lector intende: laetaberis» . Sin dall'inizio Codro rende espliciti i suoi modelli. 2. Il coesistere di serio e faceto in un discorso è a più riprese lodato da Cice­ rone. Cfr. a questo proposito De orat. III 31, 1, ma anche l'esaltazione dell'elo­ quenza di Crasso, in grado di dosare serietà e riso, in Brut. 143, 158 e 198. 3. Per il vocabolo merenda cfr. Plaut. Most. 966; Vid. 52. 4. Pomp. Fese., p. 473 Lindsay: « silatum antiqui pro eo, quod nunc ienta­ culum dicimus, appellabant, quia ieiuni vinum sili conditum ante meridiem ab­ sorbebant » . 5. Il discorso semplice, senza troppi fronzoli od orpelli, trova ancora una vol­ ta una base teorica in Cicerone: cfr. De orat. II 188; III 100; III 199; Orat. 79. Cfr. anche Quine. VIII 19, 4. 6. Si tratta di una probabile stoccata contro Lorenzo Valla, che nelle Rau­ densiane note dice che i seguaci di Apuleio ragliano invece di parlare: «Quid di­ cam de Apuleio in eo presertim opere, cuius nomen est De asino aureo, cuius ser­ monem siquis imitetur, non tam auree loqui, quam nonnihil rudere videatur? » (cfr. Laurentii Valle Raudensiane note I XV 16, a cura di G. M. Corrias, Polistam­ pa, Firenze 2007, p. 299). 7. È una citazione quasi letterale dall'Anfitrione (304-305) plautino: «For­ mido male / ne ego hic nomen meum commutem et Quintus fìam e Sosia» . Si noti il doppio senso degno della commedia plautina, per cui si tratterebbe di un doppio cambio di nome, dato che Codro non è, com'è noto, il vero nome di Ur­ ceo. Cfr. anche Hor. Serm I 1, 69-70: «Quid rides? Mutato nomine de te / fa­ bula narratur » . 8. O v. Met. V 329-331. 9. Verg. Bue. 8, 97-99. IO. Citazione pressoché letterale da Plin. Nat. hist. VIII 81. 11. Plin. Nat. hist. VIII 82 (al posto di «Copas » la lezione oggi accettata dagli editori è «Apollas » ). 12. Aug. Civ. XVIII 17. 13. Aug. Civ. XVIII 18. 14. Apul. Met. III 26, 2: «Ego vero quamquam perfectus asinus et pro Lucio iumentum sensum tamen retinebam humanum » . 15. Aug. Civ. XVIII 18. 16. Si tratta di Simon Mago, samaritano di origine, il cui seguace fu, secon­ do sant'lreneo da Lione, Menandro. È incerto se il personaggio citato negli At­ ti degli apostoli (8,9-25) fosse quel Simon Mago fondatore di una scuola gnosti-

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ca ; secondo alcuni autori, infatti, visse due generazioni più tardi. Secondo la dottrina gnostica Simon Mago era in grado di presentarsi come padre in Sama­ ria, come figlio in Giudea e come spirito santo nelle altre regioni. 17. Filosofo neopitagorico (1 secolo d.C.), fautore di una sorta di monotei­ smo e di un culto interiore della divinità. Perseguitato in vita, ebbe culto e alta­ ri sotto gli imperatori pagani dei secoli III e IV, cfr. Hist. Aug.Aurel. 24; Alex. Sev. 29. Si fece di lui persino un personaggio da contrapporre a Cristo, attribuendo­ gli soprattutto facoltà taumaturgiche. I suoi viaggi leggendari in Oriente erano contenuti nella Vita di Apollonio di Tiana del retore Filostrato (II secolo d.C.), che, nella traduzione latina di Alamanno Rinuccini, era tornata in auge nell'am­ biente neoplatonico ficiniano. 18. Probabile allusione alla realtà bolognese contemporanea, dove, alcuni anni prima, aveva destato grave scandalo l'accusa di negromanzia rivolta dai do­ menicani inquisitori ad alcuni monaci carmelitani del convento di San Marti­ no, cfr. T. Herzig, The Demons and the Friars: Illicit Magie and Mendicant Ri­ valry in Renaissance Bologna, in "Renaissance Quarterly", LXIV, 2011, 4, pp. 102558. 19. Non si tratta di una vera e propria citazione, ma di una sentenza di sa­ pore platonico, per cui cfr. Ps.Plat. Axioch. 356e; Alc. 130c. 20. Pers. 5, 117: « astutam vapido servas in pectore vulpem » ; ma già in Hor. Ars 436-437: « si carmina condes, / numquam te fallent animi sub volpe latentes » . 21. Geli. IX 4, 13-16, che a sua volta cita Plin. Nat. hist. VII 36. 22. Hes. Op. 156-160. 23. Plin. Nat. hist. II 18. 24. Codro approfitta dell'occasione per una captatio benevolentiae nei con­ fronti di una città come Venezia, molto importante per Bologna, nella quale vi­ vevano diversi suoi amici, corrispondenti o colleghi (Ermolao Barbaro, Aldo Manuzio e, non ultimo, quell'.Antonio Vinciguerra, il Cronico, che dovette as­ sistere a diverse sue prolusioni accademiche ed era molto probabilmente pre­ sente anche a questa). Il posto accordato agli ambasciatori delle città nelle ma­ nifestazioni o nelle udienze ufficiali da parte dei signori aveva, come del resto oggi, un'importanza diplomatica non trascurabile. 25. Si tratta di Giovanni II Bentivoglio, signore di Bologna dal 1462 e pa­ trono del rinascimento felsineo. Il fatto storico cui si allude, e che ci offre anche un termine post quem (1494) per la datazione del Sermo, è la tristemente famosa discesa in Italia del re francese Carlo VIII col suo esercito, prodromo di una lun­ ga stagione di guerre tra Francia e Spagna per il predominio nel paese. 26. Verg. Aen. II 311; si tratta di un riferimento al celebre episodio dell'in­ cendio di Troia narrato da Enea a Didone. 235

27. Pers. 5, 1 52. 28. Cic. De inv. I 27. Per Giorgio Forni tutto il Sermo I potrebbe leggersi co­ me una « obliqua reduetio ad absurdum della definizione ciceroniana di "fabu­ là' già posta in dubbio dal Valla (nelle sue postille a Quintiliano, guarda caso uscite a stampa a Venezia nel 1494 da un editore bolognese, Pellegrino Pasqua­ li)» , cfr. G. Forni, Valla, Codro e i «miseri philologi», in G. M. Anselmi, M. Guerra (a cura di), Lorenzo Val/a e l'Umanesimo bolognese. Atti del Convegno in­ ternazionale, Bologna, 25-26gennaio 2008, BUP, Bologna 2009, pp. 38-9. 29. Hor. Serm. II 3, 248. 30. L'astragalo (in latino talus, -i) è un ossicino di forma cuboide che fa par­ te dell'articolazione del piede e possiede quattro lati facilmente distinguibili per la loro forma. L'utilizzo di questo osso come strumento di gioco è un fatto risa­ puto, così come la sua funzione di strumento per predire il futuro. Gli astragali venivano lanciati in terra e in base alle facce rivolte verso l'alto era possibile leg­ gere un risultato. Cfr. Mart. IV 14, 7; Suet. Aug. 71, 4-5. 31. Ancora una volta il riferimento è a Hor. Carm. III 24, 57; il termine è at­ testato, però, anche in Prop. III 14, 6; Ov. Ars III 383; Trist. III 12, 20; Mart. XIV 168, I e 169, 2. 32. Per « pila» cfr. anche Hor. Ars 380. 33. Cfr. sul tema uxorio il Sermo IV. 34. Men. Sententiae e eodicibus Byzantinis 830. 35. Tra gli autori greci non è stato possibile rintracciare la sentenza riporta­ ta da Codro; il brano che più si avvicina a questo testo è un passo del ciceronia­ no Cato Maior de seneetute 14: « annos septuaginta natus (tot enim vixit Ennius) ita ferebat duo quae maxima putantur onera, paupertatem et senectutem, ut eis paene delectari videretur » . 36. Ter. Phorm. 574. 37. Verg. Bue. 9, 51. 38. Poeta o Poetone era stato chiamato, anche negli atti ufficiali, Francesco Dal Pozzo, il Puteolano, grande maestro di umanità dello Studio bolognese pre­ cedente alla generazione di Beroaldo (di cui era stato maestro) e Codro. 39. Cic. De sen. 4: «Saepenumero admirari soleo cum hoc C. Laelio cum ce­ terarum rerum tuam excellentem, M. Cato, perfectamque sapientiam, tum vel maxime, quod numquam tibi senectutem gravem esse senserim quae plerisque senibus sic odiosa est» . 40. Horn. Od. XVIII 130-131. 41. Eur. Aie. 783-784 (ma «lCOÙlC EO'TL» ) 42. lvi, 802. 43. Sen. Thyes. 619-622: «Nemo tam divos habuit faventes, / crastinum ut posset sibi polliceri: / res deus nostras celeri citatas / turbine versat » .

44. Egesia di Cirene è un filosofo greco del III secolo a.C., appartenente al­ la scuola dei Cirenaici. Di questa, tuttavia, rovesciava con un radicale pessimi­ smo la dottrina principale, secondo cui fine dell'uomo è la soddisfazione del pro­ prio piacere. Per Egesia, infatti, i piaceri della vita sono pochi, molti i dolori, in­ certa la conoscenza, e tutti gli eventi sono dominati da Tyche, l'impersonale po­ tenza del caso. Non solo dunque il fine supremo dell'uomo sarebbe l'indifferen­ za tra la vita e la morte, ma la morte stessa sarebbe da considerare piacevole. Spin­ se in tal modo al suicidio diversi tra i suoi discepoli. Per questo motivo venne de­ finito "persuasore di morte" {,peisithdnatos), e gli fu proibito, da parte di Tolo­ meo I, l'insegnamento nelle scuole di Alessandria. 45. Concetto di oraziana memoria, che evoca, inevitabilmente, il celebre carme I 11. 46. Hor. Ep. I 1, 45-46 (ma « curris» ). 47. Cfr. Iuv. 14, 302, dove il naufrago chiede la carità impietosendo i passanti col quadretto della tempesta che ha causato la sua rovina. 48. Il verbo thesaurizo è attestato solo nella traduzione latina dei testi bibli­ ci, come ad esempio Mt. 6, 19. 49. Su Gades o Gadis, celebre colonia fenicia sull'isola omonima nella Spa­ gna Betica, con le famose colonne d'Ercole, cfr. Iuv. 10, 1-2: « omnibus in terris, quae sunt a Gadibus usque / Auroram» . 50. Horn. Il. VII 26. 51. Horn. Il. V 831. 52. Prop. II 15, 1-2. 53. Ov. Her. V 149: «Me miseram, quod amor non est medicabilis herbis» . 54. Ov. Met. I 524. 55. Epiteto di Venere, dalla fonte Acidalia, in Beozia, dove si bagnavano le Grazie, figlie della dea. 56. Per il termine puppis (forma geminata da pupis, rimasta poi nell'italiano "pupa" ) cfr. Pers. 2, 70: «Nempe hoc quod Veneri donatae a virgine pupae» . 57. Per il termine crotalis cfr. Plin. Nat. hist. IX 114, ma anche Petron. 67, 9. 58. Il termine stibium significa "antimonio", un cosmetico usato dagli Egizi come trucco per gli occhi. Pare avesse proprietà disinfettanti, in particolar mo­ do nei paesi caldi come l'Egitto, dove le infezioni oculari o il tracoma sono en­ demici; cfr. Plin. Nat. hist. XXIX 118; XXXIII 101. 59. Mart. I 72, 6; II 41, 12; VII 25, 2. 60. Il termine berenicata può derivare dal nome della città nord-africana, l'at­ tuale Bengasi, oppure dal nome della moglie del re d'Egitto Tolomeo Evergete. 61. Verg. Aen. IV 137. 62. Ter. Heaut. 239: « dum moliuntur, dum conantur, annus est» . 23 7

63. Plin. Nat. hist. XIII 142; Iuv. 2, 40; Mart. XIV 59; Stat. Silv. III 2, 136. 64. Hist. Aug. Maximini duo 6, 8; Triginta tyranni 14, 4. 65. Il termine viriola (cfr. Plin. Nat. hist. XXXIII 39, in cui si spiega che sono i bracciali portati dagli uomini secondo il costume celtico) equivale alla tipolo­ gia del bracciale klanion, citato negli excerpta bobiensia che contenevano estrat­ ti dall'Arte grammatica di Carisio e che, riscoperti nel 1493 da Galbiate a Bob­ bio, erano stati al centro dello scontro tra Merula e Poliziano. 66. Sericae e bombicinae significano entrambi "di setà'. 67. Specie di bracciale portato dalle donne immediatamente sopra la cavi­ glia, cfr. Hor. Ep. I 17, 56. 68. Lega fatta di tre parti di rame e una d'oro. 69. Il termine latino è palla: si tratta propriamente di una sopravveste delle donne romane, cadente fino ai piedi. Veniva portata sopra la stola e serviva co­ me abito da passeggio, quindi era di solito adorna di ricami preziosi. 70. Foliata e nardina sono sinonimi: nardum era infatti il nome dato dagli antichi a parecchie piante da cui si ricavavano profumi. PerJoliata cfr. Pomp. Fese. p. 250, 36 Lindsay; Iuv. 6, 465; Mare. XI 27, 9; XIV 110, 2. 71. Diaplasmata è un evidente calco dal greco (didplasma, -atos), che ha ge­ neralmente il significato di "cosa formata", ma quando è neutro significa « unc­ tio aut fomentum totum corpus oblinens» (Stephanus). Il termine non si ri­ scontra in nessun autore latino. 72. Plin. Nat. hist. XII 116. 73. Un incenso egiziano (1evq>L) per cui cfr. Plut. De ls. et Os. 52 (= 372c); 80 = (383e, 384b). 74. Si tratta probabilmente del moscardino, roditore che deriva il suo nome proprio dal profumo di muschio che emana la sua pelle; può darsi che qui si fac­ cia riferimento a una particolare essenza al profumo di muschio. In effetti l'e­ stratto era usato per odori esotici nelle profumerie del periodo rinascimentale. 75. Pilentum era propriamente una carrozza a quattro ruote; rheda o raeda era la carrozza a quattro ruote che serviva per viaggiare con la famiglia e con i ba­ gagli; carpentum era una vettura a due ruote usata specialmente nelle solennità dalle donne e dai sacerdoti. 76. I cagnolini provenienti da Melica, isola tra Corfù e la costa della Dal­ mazia, erano particolarmente rinomati, cfr. Plin. Nat. hist. III 152. 77. La manica era una lunga manica della tunica che scendeva fino a copri­ re la mano e fungeva quindi anche da guanto. 78. Mare. XIV 23, epigramma intitolato proprio auriscalpium. 79. Calliblepharum è un termine scarsamente attestato nella letteratura la­ tina: si trova solo in Plin. Nat. hist. XXIII 97 e in Varr. Men. 370, 1 («quos calli-

blepharo naturali palpebrae tinctae vallatos mobili saepto tenent » ) ; aesopa, un­ guento salutare e cosmetico usato dalle donne romane, è variante grafica (nel la­ tino umanistico) per oesopa, cfr. Sermo II, § 76. 80. Pianta officinale. 81. Cfr. questo farsesco canto imeneo con Catull. 61. 82. Nell'antico cerimoniale greco il paraninfo era la persona che accompa­ gnava la coppia nuziale a casa dello sposo. 83. Acqua e fuoco, simboli del focolare domestico, venivano offerti dallo sposo dopo la celebrazione del matrimonio. 84. Si tratta delle "madrine" del matrimonio; nell'antica Roma la pronuba era una sola; aveva il compito di vestire la sposa per le nozze e come requisito do­ veva avere avuto un solo marito. 85. Si tratta dei nomi delle due suonatrici di flauto alle nozze della figlia di Euclione nell'Aulularia plautina (v. 333) . Qui comincia un passo concepito co­ me un intarsio continuo di citazioni e tessere classiche. 86. Cfr. Sen. Med. 113. Il fescennino è un canto di carattere allegro e licen­ zioso, intonato in occasioni festive, di solito dai giovani durante i matrimoni. 87. Cfr. Verg. Bue. 8, 30 « sparge, matite, nuces » . Nel rituale romano veni­ vano gettate a terra noci e dal rumore che facevano i gusci cadendo si presagiva se gli sposi avrebbero avuto figli o no. 88. Plin. Nat. hist. XXVIII 142. Si tratta di rituali superstiziosi finalizzati a preservare la casa degli sposi dai malefici. 89. Si ungevano le porte della casa degli sposi come segno benaugurale, da­ to che il grasso del lupo aveva proprietà curative; cfr. Serv. in Aen. IV 458. 90. Canto nuziale. Imeneo era il dio che guidava il corteo nuziale e proba­ bilmente in origine fu la personificazione del canto omonimo ; altre tradizioni lo considerano, invece, figlio di una Musa ( Clio o Urania) e di Apollo, oppure di Dionisio e di Afrodite. 91. Sono le divinità invocate durante i matrimoni: Domiduco per accom­ pagnare la sposa nel focolare domestico ; Domizio perché resti nella casa; Man­ turna perché resti con il marito, cfr. Aug. Civ. VI 9, 3: «Cum mas et femina co­ niunguntur, adhibetur deus Iugatinus; sit hoc ferendum. Sed domum est du­ cenda quae nubit; adhibetur et deus Domiducus; ut in domo sit, adhibetur deus Domitius; ut maneat cum viro, additur dea Manturna » . 92. Il Massico è un monte tra il Lazio e la Campania, famoso per il suo vino. 93. Il garus è un pesce a noi sconosciuto, da cui si ricavava una salsa ottima per i condimenti (garum ), come insegna il De re coquinaria di Apicio. 94. Alex (allex o allec nella grafia classica) era una salsa di pesce derivata dal pesce garus, cfr. Hor. Serm. II 4, 73. 239

95. Lo zafferano era usato dagli antichi non solo in cucina, ma anche come essenza profumata. 96. Come noci, frutta e datteri; bellaria e tragemata sono sinonimi. 97. Salgmatum sarebbe della seconda declinazione (salgama, -orum), ma qui Codro lo usa della terza (con sincope della a). 98. Cibo a base di carne tritata e uova, cfr. Apic. IV 3, ma anche Mart. XI 31, 11. 99. È l'odierna polenta taragna, per cui cfr. ancora Apic. V I. 100. L'artolaganum è propriamente la focaccia fatta con farina, vino, latte, olio, grasso e pepe; il textutatium o testuacium è la focaccia cotta in un vaso di terracotta. 101. Per globuli cfr. Cat. Agr. 79. 102. Troianus vale scherzosamente "ripieno", con allusione al celebre episo­ dio del cavallo ripieno di soldati greci di Aen. II. 103. Piatto composto da quattro diverse pietanze (fagiano, maiale, pro­ sciutto e dolce), cfr. Hist. Aug. Hadr. I 20. 104. Piatto con tre diverse pietanze (murene, pesci lupi, pesci misti), consi­ derato il massimo del lusso, cfr. Plin. Nat. hist. XXXV 162 (ma tripatinium). 105. Il moretum era una pizza rustica fatta con formaggio, aglio, aceto, olio; vi accennano Virgilio (Bue. II n), O vidio (Fast. IV 367), Columella (XII 59) e nel­ l'Appendix Vergiliana è incluso un carmen ad esso intitolato. 106. Sia oxyporum che oxyzomum che hypotrimma significano "salsa pic­ cante". Sono termini scarsamente attestati nella letteratura latina; oxyzomum e hypotrimma ricorrono solo in Apicio (VI 8); oxyporum in Columella (XII 47, 1 ; XII 59, 5) e Stazio (Silv. IV 9, 36). 107. Luc. IV 373-374. 108. Dopo le nozze la sposa veniva accompagnata dalla pronuba al talamo e, quando lo sposo si apprestava a sciogliere il nodo erculeo della cintura nuzia­ le, tutti si ritiravano. 109. Allusione oscena che Codro riprende dallaMedea di Euripide (v. 679), ma dando qui al novello sposo un ordine opposto a quello che là l'oracolo aveva dato ad Egeo (al quale era stato intimato di non unirsi ad alcuna donna prima di essere ritornato in patria, vale a dire Atene). Probabilmente Codro aveva pre­ sente anche le traduzioni della plutarchiana Vita di Teseo fatte da Lapo da Ca­ stiglionchio e da Giovanni Tortelli, dove (3, 1 5) viene citato il verso euripideo. no. Eur. Med. 250-251. III. La madre di Codro, Geraldina, morì infatti di parto. n2. Plaut. Aul 191. n3. Tarquinio il Superbo, l'ultimo dei sette leggendari re di Roma; figlio o ni­ pote di Tarquinio Prisco, aveva sposato Tullia Maggiore, una delle figlie di Servio

Tullio, genero e successore di Tarquinio Prisco. Tarquinio il Superbo non esiterà a uccidere Tullia Maggiore per convolare a nozze con l'altra figlia di Servio Tul­ lio, Tullia Minore, la quale aveva a sua volta ucciso il marito; cfr. Liv. I 46, 1 ss. 114. La legge Oppia, promulgata nel21 5 a.C. dopo la disfatta di Canne, vie­ tava alle donne romane di indossare gioielli, di vestirsi con colori sgargianti e di girare per la città in carrozza. Nel 195 a.C. si discusse se abrogarla o meno. 115. Tutto questo passo segue, più o meno alla lettera, il resoconto della vi­ cenda fatto da Liv. XXXIV, 1 ss. 116. Nel senso che si sottrae ai doveri coniugali, cfr. Ov. Ars II 413; luv. 6, 37. 117. Ovvia metafora licenziosa. Posticum nel senso di "ano" è in Varr. Men. fr. 430 Cèbe. 118 . Mart. XI 104, 17-18 : «Pedicare negas: dabat hoc Cornelia Graccho, / lu­ lia Pompeio, Porcia, Brute, tibi» . 119. Letteralmente «Colei che placa gli uomini» ; divinità (forse Giunone) che nel suo tempio sul Palatino riconciliava i coniugi discordi. 120. Si tratta di un apparecchio di varia foggia, costruito con materiali di­ versi, di solito a forma di anello, che viene introdotto nelle vie genitali femmi­ nili per diversi scopi, per correggere difetti di posizione dell'utero o per impe­ dirne la discesa in caso di prolasso, o anche come contraccettivo. 121. Esculapio o Asclepio era il dio della medicina. Le leggende sulla sua na­ scita sono varie; quella seguita da Codro racconta che Apollo avesse amato Co­ ronide, figlia del re tessalo Flegia, e l'avesse messa incinta. Mentre portava que­ sto bambino in grembo, però, Coronide cedette all'amore di un mortale, Ischi, figlio d'Elato. Avvertito di questa colpa da una cornacchia (o anche dalle sue fa­ coltà divinatorie), Apollo la uccise e, mentre il corpo di Coronide era sul rogo e stava per essere bruciato, il dio strappò dal seno di lei il bambino ancora vivo. 122. Plin. Nat. hist. XXIX 2. 123. L'anulare era definito dagli antichi romani digitus medicus perché le­ gato da una stretta connessione con il cuore (anche per la medicina cinese qui passa il meridiano del cuore come pompa). Sia gli antichi latini che gli antichi cinesi ritennero che fosse impossibile toccare questo dito senza inviare messag­ gi al cuore. Nell'alto Medioevo gli speziali usavano scrupolosamente l'anulare per rimescolare le loro pozioni e insistevano (si legga Paracelso, medico e al­ chimista, vissuto tra il XV e XVI secolo) che ogni unguento dovesse essere spal­ mato con esso. 124. Il dito aveva e ha valenza fallica, come testimoniano i numerosi gesti in­ giuriosi che venivano e vengono fatti con esso; per questo motivo, il medio ve­ niva definito "infame", fino al celebre gesto di "fare le fiche" di Vanni Fucci nel­ l'Inferno dantesco (xxv 2).

125. Si tratta della verga con due serpenti attorcigliati che Mercurio portava come messaggero degli dei. 126. Hor. Serm. II 3, 103 (ma « litem quod» ). 127. Aulo Cornelio Celso (25 a.C.-50 d.C.) è stato un enciclopedista e forse un medico romano, probabilmente nativo della Gallia Narbonense. L'unico suo libro giunto fino a noi è il De medicina, la sola sezione superstite di un'enciclo­ pedia ben più ampia. 128. Erasistrato di Ceo (330-250 a.C.), anatomista greco, fu medico reale al servizio di Seleuco I Nicatore e, insieme a Erofilo, fondatore della grande scuo­ la medica di Alessandria d'Egitto. 129. Citazione pressoché letterale (a parte qualche minima inversione di pa­ rola) da Cels. prooem. 20-21. 130. Publio Flavio Vegezio Renato (fine IV-inizi V secolo d.C.) fu autore, ol­ tre che di una celebre Epitoma rei militaris, anche di Digesta artis mulomedici­ nalis, o Mulomedicina, trattato di veterinaria tratto da scritti precedenti come il classico De re rustica di Lucio Giunio Moderato Columella e la Mulomedicina Chironis, un'opera greca della quale ci resta una versione in latino volgare del principio del IV secolo. 131. Come personaggio simbolico fondatore della scienza veterinaria è sta­ to scelto per tradizione un eroe della mitologia greca, Chirone, il più celebre e il più sapiente dei Centauri, che avevano corpo per metà umano e per metà equino. Egli fu l'educatore per eccellenza, come è dimostrato dal fatto che gli furono attribuiti come discepoli tutti gli eroi più famosi e più gloriosi e che co­ me educatore divenne proverbiale nella letteratura greca. Fu maestro di Ari­ steo, Eracle, Dioniso, Achille e infine Esculapio, dio della salute e padre della dea Igea. Particolare sua competenza era la medicina, poi l'astronomia e la poe­ sia, ma era considerato maestro di equilibrio fisico e spirituale e di saggezza morale. 132. Lucio Giunio Moderato Columella (4-70 d.C.) fu uno scrittore latino di agricoltura. Dopo la carriera nell'esercito (in cui arrivò al grado di tribuno in Siria nel 34 d.C.) cominciò l'attività di fattore. Il suo De re rustica, in dodici vo­ lumi, ci è pervenuto integro e rappresenta la maggiore fonte di conoscenza sul­ l'agricoltura romana. 133. Scrittore del IV secolo d.C. autore di unaArs veterinaria. 134. Cfr. nota 130. 135. Si intende un unguento fatto con cera bianca per medicine, menziona­ ta da Celso e Plinio per impieghi terapeutici. 136. Le tibiae erano fasce per tener caldi i polpacci. 137. Circitores e circulatores sono sinonimi.

138. Propriamente i penulati sono coloro che indossano la paenula, mantel­ lo rotondo e senza maniche spesso munito di un cappuccio: « foemina [ =Gram­ matica] . . . ritu Romuleo. . . senatum deum ingressa est paenulata » (Mart. Cap. III 223-225). 139. Iuv. 7, 228-229 (ma « tamen » al posto di « et enim» ). 140. luv. 7, 158-159. 141. Dietro ognuno di questi termini c'è quasi sempre una scoperta allusione al titolo di opere filologiche di grande importanza nel Quattrocento, in una « ras­ segna implicita e arruffata dei grandi» (Forni, Val/a, Codro e i «miseri philologi» , cit., p. 36): le «noctes acticae» alludono alla poderosa opera del poligrafo Aulo Gellio (11 secolo d.C.); le « elegantias» sono gli Elegantiarum sex libri, il capola­ voro di erudizione linguistica di Lorenzo Valla (1441-49, per la prima volta a stam­ pa nel 1471); le « epistolicas quaestiones» fanno riferimento all'opera di Varrone, spesso citata dai grammatici antichi ma non pervenutaci; le « annotationes» , os­ servazioni volte a sciogliere nodi filologici di diversi autori, qui chiaramente allu­ dono alleAnnotationes centum (1488) del collega e amico Filippo Beroaldo; le « ob­ servationes » rimandano al capostipite di questo genere, vale a dire al Domizio Calderini delle Observationes quaedam (1475); le « castigationes» alle Castigatio­ nes plinianae (1493) di Ermolao Barbaro; i termini « miscellanea» e « centuria» alle due centurie di Miscellanea di Angelo Poliziano (la prima edita nel 1489, la se­ conda rimasta inedita ma di cui Codro era quasi sicuramente a conoscenza); le «quaestiones plautinas » rimandano a una celebre opera perduta ancora di Varro­ ne; il « cornucopiae» (ma « comu copiae» ) è il titolo del ponderoso lavoro filo­ logico di Niccolò Perotti sul primo libro di epigrammi di Marziale, uscito a stam­ pa nel 1489; i « sermones» sono una probabile sorniona autocitazione; le «face­ tiae » richiamano il fortunato libello di comici aneddoti di Poggio Bracciolini. 142. Il privilegio era la facoltà esclusiva di stampa e di vendita di un'opera per un determinato periodo di tempo ed entro i confini di uno Stato che veniva con­ cessa dai sovrani a tipografi e librai al fine di evitare le contraffazioni. 143. Momo, figlio della Notte e del Sonno, è nella mitologia greca e latina il dio del biasimo e della maldicenza. Presente già in Esiodo, Esopo e Luciano di Samosata, si ricordi che Momo è il protagonista dell'eponimo romanzo satirico (Momus sive de principe) di Leon Battista Alberti, composto a Roma intorno al­ la metà del secolo, che Codro poteva aver letto. 144. Tra il 1491 e il 1492, a Venezia (per i tipi di Filippo Pincio) era uscito il Vergilius cum quinque commentariis, in cui, oltre ai due antichi, Servio e Dona­ to (riassunto), furono riuniti i commenti moderni del Landino, del Mancinelli e del Calderini. 145. Eur. Andr. 319.

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146. Hor. Ep. I 1, 36-37. 147. L'espressione latina « emunctae naris» , divenuta proverbiale, deriva da Hor. Serm. I 4, 8. 148. Retore greco del v secolo a.C., considerato uno dei massimi esponenti della sofistica e inventore della retorica. Dal suo Encomio di Elena trae ispira­ zione la parte centrale del Sermo II di Codro, dedicato appunto alle lodi della re­ torica. 149. Significa "casseruola", cfr. Ven. Fort. Carm. VI 8, 12 e 19. 150. Caccabus è un termine onomatopeico, derivante dal rumore che fa la carne quando cuoce. Il verso qui riportato (di cui non si è identificato l'auto­ re) è un esametro se si considera breve la prima sillaba di caccabus e ha questo senso: « il luogo in cui si cuoce la carne in greco prende il nome caccabus dal suono» . 151. Stat. Silv. IV 9, 45. In questo caso la prima sillaba di caccabus è lunga. 152. Hymn. Hom. v 198-199 (è Venere che parla al padre di Enea, Anchise). 153. Si allude a un verso di Ennio (Ann. fr. 335 Skutsch) citato all'inizio del De senectute ciceroniano: «Ille vir haud magna cum re sed plenus fidei» . 154. Ov. Met. Xl 71. 155. Veget. Mulom. prol. 6. 156. Cioè « dal garretto gonfio» . 157. Il superlativo di parvus è minimus, non parvissimus. 158. Ermolao Barbaro (Venezia 1453/54-Roma 1493). Le sue eccellenti com­ petenze filologiche gli consentirono di interpretare e commentare Aristotele, D ioscoride, Plinio. Fu in corrispondenza con Codro. Il suo capolavoro di inge­ gno ed erudizione sono le Castigationes plinianae (1493), contenenti migliaia di correzioni alla Naturalis historia. 159. E. Barbaro, Glossemata V 14 (ed. G. Pozzi, III, p. 1471: «Dicitur et ver­ sura, quam Graeci campen vocant, flexus ipse angulorum in aedificiis et parieti­ bus exterior Vitruvio (III 2, 3; V 11, 2); propter quod et crura ipsa Vegetius in iu­ mentis gambas vocat (Mul. II 49,1), quasi campas» . 160. Lucr. I 615-616: « inoltre, se non esisterà un minimo, anche i più picco­ li corpi consteranno di parti illimitate» . Lucrezio utilizza parvissimus anche in altri due luoghi (1 621 e III 199). L'espressione è utilizzata anche da Varr.Men. 375, 3 Cèbe. 161. Il solecismo è un errore contro la purezza della lingua o contro la buo­ na sintassi, così detto perché gli abitanti di Soli (colonia di Rodi in Cilicia) ave­ vano molto corrotto la lingua patria mescolandola con quella dei Cilici. 162. Prisciano di Cesarea (in Mauritania) fu un grammatico latino vissu­ to tra la fine del V secolo d.C. e l'inizio del successivo. Si formò e insegnò a

Costantinopoli. La sua lnstitutio de arte grammatica in diciotto libri rappre­ senta la trattazione più completa di questa disciplina che ci sia stata lasciata dagli antichi. 163. Geli. V 20, 4-5. 164. Cic. Lucull. 119: « flumen orationis aureum fundens Aristoteles » . 165. Le Confutazioni sofistiche, che fanno parte degli scritti di logica. 166. Arist. SE 165b 14-15, ma nel testo manca il quinto elemento della serie annunciata, ovvero «xal 7rE f!7rTOV TÒ 7rOL�O'a.L ètòokaxrlaa.L -ròv 1rpoaÒLa.ÀE-y6 f!EVOV » ( « e il quinto, fare che l'interlocutore parli a vanvera » , cioè, come subito dopo si spiega, fargli dire più volte la medesima cosa). 167. Arist. SE 173b 18-20. 168. Ibid. 169. Arist. SE 173b 21, 26. 170. O v. Ars II 257-258. 171. Luca Ripa fu uno dei maestri di Codro. 172. La celebrazione delle Nonae Caprotinae (7 luglio) aveva luogo presso un fico selvatico nel Campo Marzio. Da Varrone (De ling. VI 18, 6 ss.) sappiamo che si definirono così perché quel giorno le donne sacrificavano a Giunone Ca­ protina. 173. Cfr. Ov. Ars II 257. Codro riporta la soluzione del suo maestro Luca Ri­ pa, fondata su Plut. Mor. 313a 4 e Plut. Rom. 29, 2-3, in un punto lasciato insolu­ to dal Poliziano stesso nella sua Centuria II (par. 30, ed. Branca-Pastore Stocchi, pp. 45-6). 174. Macrobio nei Saturnali (I 11, 37-40), come ricorda Codro stesso poco più avanti, e Varrone (De ling. VI 3, 18) narrano che, appunto dopo la cacciata dei Gal­ li, i Fidenati, i Ficulnei e altre limitrofe popolazioni latine avrebbero minacciato Roma di completa distruzione se non fossero state loro cedute in matrimonio fan­ ciulle romane di libera condizione. Il Senato inviò invece alcune schiave travestite da donne libere, su consiglio di una di loro (di nome Tutola o Filotide o Retana, a seconda delle versioni) che, salita poi su un fico selvatico mentre i nemici dormi­ vano, segnalò ai Romani il momento opportuno per far irruzione e sconfiggerli. In memoria dell'avvenimento sarebbe stato istituito quell'ancillarumfestum o "fe­ sta delle serve" durante il quale in riconoscenza e per ricordare l'affrancamento concesso dal Senato alla serva coraggiosa e alle sue compagne, nonché la possibi­ lità di usare vesti adatte a donne libere (già da loro indossate per indurre in ingan­ no i nemici), era consentito alle serve di partecipare a tale festa insieme alle donne libere con parità di diritti e col sacrificio, sembra, di una capra sotto un albero di caprifico, usando nel rituale il caustico succo lattiginoso del frutto di quest'albero. 175. Plaut. Men. 247 (letteralmente: « che cercate il nodo in un giunco» ).

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176. Pind. Olymp. IO, 4-5. 177. Si tratta dei Parallela minora, compresi nei Moralia. 178. Plut. Parali. min. 30, 313a (ma «1toÀEf.l&:>v è4'l'J f.l� 1tp6npov tivaxwp�craL» ). 179. La lezione oggi accettata per Plut.Mor. 313a4è PYJ Tliva ma un ramo della tradizione riporta effettivamente '.Apmxva. 180. Plut. Parali. min. 30, 313a. Cfr. anche Frag. Hist. Graec. 4, 320 Miiller. 181. Plut. Rom. 29, 2 ss. 182. Ov. Ars II 185. 183. Si tratta di Lattanzio Placido (seconda metà del IV secolo d.C.), che scrisse un commento alla Tebaide di Stazio. 184. Il mito narra che Atalanta non voleva sposarsi sia per fedeltà ad Arte­ mide, sia perché un oracolo le aveva rivelato che se lo avesse fatto sarebbe stata trasformata in animale. Così annunciò che avrebbe sposato solo l'uomo capace di vincerla nella corsa; se invece fosse stata lei a vincere, avrebbe ucciso il pre­ tendente. Molti giovani avevano trovato così la morte, perché Atalanta li supe­ rava e li trafiggeva con una lancia. Tuttavia, un nuovo pretendente, chiamato ora Ippomene, ora Melanione, riuscì a vincerla gettando davanti a lei alcuni pomi d'oro che la ragazza si fermò a raccogliere e perciò ottenne il premio pattuito. 185. Palefato, mitografo greco della fine del IV secolo a.C., narra effettiva­ mente una sua originale versione del mito di Atalanta e Ippomene (Melanione) nel cap. XIII del suo De incredibilibus, ma non dà affatto l'etimologia di Mela­ nione proposta qui da Codro. 186. Mus. 154. 187. T heocr. III 40-41. 188. Lact. Div. inst. VI 11, 9: «Marcus Tullius in suis officialibus libris » . 189. Cic. Ad Att. XVI 14, 3. 190. Aeschin. C. Ctesiph. 143. 191. Cic. De ojJ. I 61. Passo molto controverso: le odierne edizioni critiche leggono « < hinc no > ster Cocles» , congetturando sulla base delle lezioni tràdi­ te dai codici, tutte ritenute sbagliate ( « leutris sterchodes » , « leutris sterco­ cles » , « leutrister chodes » ). Qualche umanista aveva forse cercato di emendare il brano proponendo la lezione qui messa in dubbio da Codro, «Stratocle» . 192. Strab. VIII 4, 2. 193. Catull. 53, I. 194. Sen. Rhet. contr. VII (non IV) 4, 7: « erat enim parvolus statura, propter quod etiam Catullus in hendecasyllabis vocat illum "salaputium disertum" » . Questo luogo è già ricordato, sempre a proposito dell'arduo termine catulliano, da Ermolao Barbaro, Castigationes plinianae, VIII, 27 (ed. Pozzi, p. 585). 195. Catull. 53, 5.

196. L'edizione veneziana del 1472 legge « salapantium » , quella vicentina del 1481 legge « solopycium» , Partenio nella sua edizione del 1491 stampa inve­ ce « solopechyu m » (ma nel commento discute ampiamente il passo), cfr. J. Haig Gaisser, Catullus and His Renaissance Readers, Clarendon Press, Oxford 1993, pp. 30, 39, 296. Ermolao Barbaro, nelle sue Castigationes, cita il verso catulliano nella forma «Dii boni solpugium disertum» (cfr. nota 194). 197. Si allude qui quasi sicuramente ad Ermolao Barbaro, Glossemata S 74 (ed. Pozzi, pp. 1451-2). 198. Catuli. 58b, 1. 199. L'interpretazione presentata da Codro (Taio invece di Dedalo) era sta­ ta proposta anche dall'umanista padovano Fosco Palladio, il cui commento a Ca­ tullo uscirà però a stampa a Venezia solo nel 1496. 200. Apoll. Rhod. IV 1644. 201. "Al giorno". 202. Horn. Od. XII 105. 203. O v. Pont. IV IO, 28, ma « Ter licet epotum ter vomat illa fretum » . 204. Nella mitologia greca Taio è un gigante di bronzo, guardiano di Creta al tempo di Minosse, la cui statua vivente fu creata da Efesto per Zeus che ne fece do­ no a Europa. Il gigante era invincibile, tranne in un punto della caviglia, dove era visibile l'unica vena che conteneva il suo sangue. La leggenda vuole che quando la spedizione degli Argonauti giunse sull'isola sia stato reso pazzo da Medea e ucciso. 205. Lucian. De salt. 49. 206. Catuli. 34, 8. 207. Hymn. Hom. 3, 18. 208. Hymn. Hom. 3, 117. 209. Horn. Od. VI 163. 210. Teogn. 1, 5-6. 211. Eur. Hec. 458-460. 212. Cic. De leg. I 2, 7-9 : « aut quam Homericus Ulixes Deli se proceram et teneram palmam vidisse dixit, hodie monstrant eandem » . 213. Plin. Nat. hist. XVI 240. 214. Schol in Lyc. 401. Si tratta di un commentario alla tragedia in versiAlexan­ dra (Cassandra) del poeta ed erudito alessandrino Licofrone (III secolo a.C.). 215. Scholia Graeca in Homeri lliadem, edidit G. Dindorfius, Oxonii, e ty­ pographeo clarendoniano, 1875, pp. 7-8 (A 9). L'edizione del 1540 dei Sermones prova a correggere l'errore èutnç con E'lt'ELT' èC1EÀ9oOO"ct, mentre l'edizione di Din­ dorf legge è1eetCTÉ -re. 216. Plut. Pel. 16, 5-6. 217. Ov. Met. VI 333-336. 218. Ov. Met. XIII 634-635. 247

219. Verg. Georg. III 6. 220. Ov. Met. X 215. Passo filologicamente contrastato : le moderne edizio­ ni leggono in clausola di verso « ia ia » , ma altre lezioni attestate dalla tradizio­ ne sono, appunto, «ya » e « ai» , persino « ecce» . 221. L'allusione è al v. 215 del decimo libro delleMetamorfosi, in cui si dice che il dio Febo scrisse sulle foglie le lettere «AI AI» come espressione dei suoi gemiti. 222. Iuv. 14, 209. 223. Plin. Nat. hist. XXI 38. 224. Hor. Ars 359: «quandoque bonus dormitat Homerus» . 225. Serv. Bue. 3, rn6. 226. T heocr. IO, 28. 227. Ov. Met. XIII 632-633. 228. Cfr. nota 152. 229. Lycophr. Alex. 580 (cioè: « che cambiano l'acqua in vino » ). 230. Pherec. fr. 196 Dolcetti; cfr. Lycophr. Alex. 570. 231. Ov. Met. XIII 642. 232. Catuli. 66, 47-48. 233. Cfr. Poliziano, Mise. I 68, in cui si legge la celebre correzione a Catull. 66, 48 da «Iuppiter, ut telorum [o celitum, o celerem] omne genus pereat» al tuttora accettato «Iuppiter, ut Chalybdon omne genus pereat » . 234. Hor. Serm. II 1, 42-43 (ma « robigine telum» ). 235. Sembrerebbe quasi una citazione a memoria, come se Codro dicesse: « non ricordo bene come inizia, se con nee quaero utrum o con nescio utrum » ; se accettiamo questa lettura, tale passo è particolarmente interessante, in quan­ to potrebbe mostrare la modalità citazionale di Urceo, che riporterebbe i passi d'autore completamente a memoria. Alla luce di questa interpretazione possia­ mo spiegarci luoghi (come Hor. Ep. I 1, 45) che presentano varianti non riscon­ trabili nella tradizione del testo non catalogabili come errores. 236. Catuli. 93, 1-2. 237. Quine. XI 1, 38. 238. Hor. Ep. II 2, 189. Qui Codro sembra prelevare, senza citarle, dalle An­ notationes di Beroaldo (Ann. 36, 1, ed. Ciapponi, pp. 95-6), dove il eommentator bolognese emenda il passo catulliano sulla base, appunto, di Porfìrione (in Hor. Epist. II 2, 189) e Quintiliano, XI 1, 38. Beroaldo fu forse il primo a mettere per iscritto questa emendazione, anche se sembra che essa circolasse già tra gli allie­ vi di Partenio e di Battista Guarino (maestro, lo si ricordi, proprio di Codro): per il primo cfr. la testimonianza di Girolamo Avanzi (Emendationes in Catullum et Priapea, Johannes Tacuinus de Triclino and Innocens Ziletus, Venezia 1495, c. a5r), mentre per il secondo quella del figlio Alessandro (In Catullum Veronen-

sem per Baptistam Patrem emendatum expositiones cum indice, Per Georgium de Rusconibus, Venezia 1521, c. p3v). Cfr. Haig Gaisser, Catullus and His Renais­ sance Readers, cit., pp. 328-9, nota 135. Anche Poliziano corregge « albus an ater» a margine della lezione scorretta ( « salvus an alter homo» ) del suo incunabolo catulliano (Corsiniano 50 F 3 7, c. 35r) e nelle sue In Annotationes Beroaldi (ed. Lo Monaco, p. 159) sunteggiava l'annotatio 36 di Beroaldo senza reclamare alcu­ na primazia sull'emendazione del passo, semmai aggiungendo altri passi paralle­ li (Apul. Apol. 16; Hier. Adv. Helv. 16) a suffragio della bontà della correzione. 239. Pomp. Fest. p. 245, 8 Lindsay. 240. Horn. Od. XI 245. 241. Hymn. Hom. 5, 164. 242. Aug. Civ. IV 11. 243 . La dea Cinxia è Giunone che presiede ai matrimoni, cfr. Pomp. Fest. p. 63, 9 Lindsay; per la dea Verginense cfr. Aug. Civ. IV II 244. Apoll. Rhod. I 287-288. 245. L'espressione latina dic, sodes è tipicamente colloquiale. È attestata, tra gli altri, in Terenzio, Plauto, Apuleio, Fedro. 246. Sebo!. vet. in Apoll. Rhod. 288. 247. Ilizia era la dea delle partorienti. 248. T heocr. 17, 60. 249. Il mito di lno e Atamante si trova in O v. Met. IV 420-542. Atamante, fi­ glio di Eolo, sposò in seconde nozze lno e dalla loro unione nacquero Learco e Melicerte. Atamante, per aver accettato su richiesta dello stesso Giove di alleva­ re il piccolo D ioniso, nato dall'unione fra Giove e Semele (sorella di lno), di­ venne pazzo per l'ira di Giunone e uccise Learco. Ino allora si gettò in mare con Melicerte e vennero mutati in divinità marine: Leucotea e Palemone. 250. La storia di Ino è citata dal coro in Eur. Med. 1282-1289. 251. Eur. Med. 13 86-13 89: «Tu invece [è Medea che parla] , com'è giusto, mi­ serabile, morirai miserabilmente, colpito al capo da un frammento della nave Ar­ go, vedendo l'amara fine delle mie nozze» . 252. Pers. 1, 121: « auriculas asini quis non habet? » ; cfr. anche Prob. Vit. Pers. 57: « "auricola asini Mida rex habet" in eum modum a Cornuto, ipse tan­ tummodo, est emendatus "auriculas asini quis non habet ? " ne hoc in se Nero dictum arbitraretur » . 253 . Apul. Met. IX 15. 254. Sono tutte espressioni ricorrenti nell'opera di Igino. 255. Si tratta di Domizio Calderini (1446-1478). 256. O v. Ib. 344. 257. L'espressione compare nell'Anthologia Graeca XVI 127, I. 249

258. Val. Flacc. I 728-729. 259. Horn. Il. VI 139. 260. Ov. Ib. 329-330. 261. Horn. Il. XIII 725. L'espressione ricorre anche in altri luoghi dell'Iliade, come ad esempio XII 60; XII 210; XXIV 72; XXIV 786. 262. O v. Ib. 331. Si tratta sempre del passo sopra citato. 263. Si tratta di un tema caldo in ambiente neoplatonico ficiniano (cfr. E. Wind, Misteripagani nel Rinascimento, Adelphi, Milano 1971, cap. 5), su cui Co­ dro tornerà nel Sermo III. 264. Ps.Plut. De Hom. II 1050-1051 Kindstrand. 265. Plut. Pelop. 19, 2. 266. In Arist. Polit. II 6, 5 (= 1269b) si parla effettivamente dell'unione tra Marte e Venere, ma senza il riferimento ad Armonia. 267. Il catalogo delle navi (vewv lC�TaÀoyoç) è un celebre brano del secondo libro dell'Iliade (II 494-759) che elenca i contingenti dell'esercito acheo giunti a Troia in nave. Qui Codro si riferisce al v. 560 ( «Poi quelli di Argo e di T irinto cinta di mura, di Ermione e di Asine affacciate sul golfo» ). 268. Cfr. fr. 23, 10Jacoby. 269. Aesch. Th. 423. 270. Eur. Suppl 651. 271. Stat. Theb. VIII 355-356. 272. Ov. Met. III 13. 273. Poliziano, Misc. I 80 (ed. Aldo Manuzio, Venezia 1498, c. H6r) ; Epist. I 20 (lettera a Battista Guarino). 274. O v. Ib. 417. 275. Hes. Theog. 969-970. 276. Hes. Theog. 971-974. 277. Ov. Ib. 419. 278. Diod. V 49, 4. 279. Costellazione situata vicino all'Orsa Maggiore, che sembra seguire il carro, detta anche Boote. 280. Hygin. Astr. II 4, 7. 281. Horn. Od. V 125. 282. T heocr. 3, 50. 283. Ov. Met. IX 423. 284. Ov. Am. III IO, 25. 285. Ov. Ib. 501-502. 286. In latino i termini sono morbus e morsus: la corruzione di un termine nell'altro è quindi filologicamente ben giustificabile.

287. Val. Flacc. V 2-3. 288. Sen. Med. 652-653. 289. A Orfeo veniva attribuito un poema in esametri sulle Argonautiche, di cui non si conosce l'autore, ma databile fra il IV e V secolo d.C., che metteva in primo piano la 6.gu ra di Orfeo. La prima edizione di questa operetta apparve per Giunta a Firenze nel 1500, e dunque Codro dovette leggere il testo ancora ma­ noscritto in uno dei vari codici circolanti nella seconda metà del Quattrocento, come ad esempio quello copiato da Costantino Lascaris nel 1464 (attuale Ma­ tritensis 4562). L'operetta fu tramandata e spesso edita in un corpus innologico comprendente gli inni or6.ci, omerici, di Proclo, Callimaco, ma spesso associata anche alla Teogonia esiodea nelle edizioni del Cinquecento. 290. Apoll. Rhod. II 815-850. 291. Ov. Met. VIII 400. 292. Lycophr. Alex. 487. 293. Sen. Med. 643-644. 294. Opera di Codro perduta, citata da Bianchini nella vita dell'umanista. 295. Apoll. Rhod. I 163-164. 296. Si tratta sempre di Domizio Calderini (in lb. 503-504). 297. Ov. Met. X 503. 298. Prisc. lnst. II 37. 299. Ov. lb. 387. 300. Val. Max. IX 6, ext. 2. 301. Ov. lb. 527-528. 302. D. Calderini, in Ibis (ed. Bartholomaeus de Zanis, Venezia 1491, c. r6r); Beroaldo, Annotationes 10; Poliziano, Miscellanea, I IO e In Beroaldum, c. 265r. 303. Anth. Graec. VII 298, 3-4 (ma «-re AtnccdvLov» ). 304. «Emuli» è usato qui nel senso di altri commentatori di Marziale (Sa­ bino, Perotti, Leto, Merula ... ), non di suoi segu aci. 305. Mare. XIV 82 (ma «dedit» ). 306. Si esplicita 6.nalmente il nome del commentatore: si tratta ovviamen­ te di Domizio Calderini (1446-1478). 307. Niccolò Perotti (1430-1481) aveva composto un poderoso commen­ to ai primi epigrammi di Marziale, il Cornu copiae, che, benché pubblicato po­ stumo (1489), ebbe una grande circolazione manoscritta vivente ancora il suo autore. 308. Conosciuto come "pesce lupo" o "lupo di mare", l'anarhichas lupus è un tozzo pesce appartenente alla famiglia degli Anarhichadidae. 309. Termine che significa "pavimento fatto a mosaico". 310. N. Perotti, Cornu copiae lib. I, epig. 2, 187 (ed. Charlet et al., voi. II, p. 77).

311. Stat. Silv. I 3, 56. 312. Plin. Nat. hist. XXXVI 184. La lezione oggi accettata dalle edizioni criti­ che è « in hic genere Sosus», ma un ramo della tradizione legge « generosus» , da cui potrebbe essere sorto l'errore di lettura «Zenodorus» . 313. Si narra che Zeusi, durante una sfida di pittura contro Parrasio, dipinse un fanciullo con in mano dell'uva così realisticamente dipinta che gli uccelli si posarono sulla tela cercando di beccare la frutta. Convinto ormai della vittoria, disse a Parrasio di sollevare il velo posto sulla tela per mostrare il suo dipinto, quando si accorse, però, che il velo era, in realtà, il dipinto stesso. La vittoria ar­ rise dunque a Parrasio, perché Zeusi aveva ingannato gli uccelli, ma Parrasio ave­ va ingannato Zeusi. D ella vicenda narra Plin. Nat. hist. XXXV 65-66. 314. A proposito di Plin. Nat. hist. XXXVI 184 cfr. Barbaro, Castigationes XXXVI, 37, 1-2 (ed. Pozzi, p. 1173); autore dell'errata interpretazione è invece Pe­ rotti, Cornu copiae lib. I, epig. 2, 187 (ed. Charlet et al., voi. II, p. 77). Da apprez­ zare ilfair play di Codro, che riconosce a Barbaro la paternità dell'interpretatio, contrariamente a Beroaldo che, di lì a poco, vale a dire nel commento ad Apu­ leio (ed. per Bartholomeum de Zanis, Venezia 1504, c. 87r), la userà senza citar­ ne la fonte (cfr. M. Casella, Il metodo degli umanisti esemplato sul Beroaldo, in "Studi medievali", 16, 1975, p. 680). 315. Apophoreta è il titolo dell'ultimo libro degli Epigrammi di Marziale. 316. Martialis cum duobus commentis [Domitii Calderini et Georgii Meru­ laeJ, Bartholameum de Zanis de Portesio, Venetiis 1493, c. 146v: « apophoreta [ ... ] hoc verbum usurpavit pro muneribus quae ab imperatore civibus remitte­ bantur» ; Perotti, Cornu copiae lib. I, epig. 1, 165 (ed. Charlet et al., voi. I, p. 67) e lib. I, epig. 6, 42 (ivi, voi. IV, p. 143). 317. La spiegazione del termine non compare nelle Castigationes plinianae di Barbaro; si potrebbe quindi pensare a una comunicazione orale intercorsa tra i due umanisti. 318. Qui Codro sembra riprendere quella che era stata un'esortazione dello stesso Ermolao tanto nella Praefatio quanto nella chiusa delle sue Castigationes, a non prendere cioè come oro colato il contenuto della sua peraltro dottissima opera: «Scio quaedam inventuros adhuc qui sagacius indagare voluerint uti­ namque sit tempus unquam quo nostra haec et levia et parum necessaria esse vi­ deantur [ ... ] Non dubito et alia quoque deprehendi posse pluscula» (ed. Pozzi, pp. 2 e 1208). 319. Barbaro, Castigationes XXII IO ( ed. Pozzi, p. 866) riguardo Plin. Nat. hist. XXII 17.

320. lvi, XXXIV 28, 1 (ed. Pozzi, p. 1104) riguardo Plin. Nat. hist. XXXIV 8: « Uno celebratur signo splachnorte (81). Legendum videtur "splachnopte", id est

0'7t'Àaxv67t'Tl'jç, D e hoc superius quoque diximus XXII libro. Hic Carus Perieli Atheniensium principi fuisse verna dicitur. Quidam nescio quam recte "sparga,, . nopten seri psere » . 321. Plin. Nat. hist. XXXIV 81: « Styppax Cyprius uno celebratur signo, splanchnopte; Periclis Olympii vernula hic fuit exta torrens ignemque oris ple­ ni spiri tu accendens » . 322. Plin. Ep. II 17, 21; V 6, 38 (ma « zotheca » e « zothecula» ). 323. Barbaro, Gloss. ex lit. z, 2 (cfr. Castigationes, ed. Pozzi, p. 1475). 324. Prisc. Inst. I 31; I 49. 325. Soprannome del dio Dioniso (Bacco), cfr. Cic. De leg. II 37. 326. Barbaro, Gloss. ex lit. z (cfr. Castigationes, ed. Pozzi, p. 1475). «Zeta et zetecula (EL II 8) Plinio Cecilio in Epistolis erat locus capax unius lecci cum sel­ lis duabus qui, velis obductis et reductis, modo adiicitur cubiculo modo aufer­ tur; nomen, quoniam tribus e partibus fenestras et prospectus habeat acque so­ lem multipliciter accipiat » . 327. Per molto tempo in età umanistica si rimase incerti su quale fosse l'e­ satta collocazione del Liber de spectaculis, se da collocare cioè all'inizio o alla fi­ ne degli epigrammi di Marziale. 328. Mart. De spectaculis 1, 3 (ma « nec Triviae templo molles laudentur lo­ nes » , «i molli Ioni non siano lodati per il tempio di Diana » ). Come si vede, Codro legge « honores» come tutti i suoi contemporanei, al posto di «lones» delle edizioni critiche moderne. 329. Martialis cum duobus commentis, cit., c. 3r. 330. Ibid. 331. Poliziano, Miscellanea I 51. Diana Efesia era rappresentata con molti se­ ni, simbolo di fertilità. 332. Perotti, Cornu copiae lib. I, epig. 1, 54 (ed. Charlet et al., vol. I, p. 33) (ma « ornamenta lignea» ). 333. O vvero cosa renda !'.Anfiteatro Flavio una delle meraviglie del mondo. 334. Mart. De spectaculis 1, 7 (ma « cedit» ). 335. Difficile dire esattamente di chi si tratti. L'indiziato principale potreb­ be essere Giovanni Sulpicio Verulano, maestro di grammatica e retorica nello Studio perugino e romano alla fine del Quattrocento, di cui si conservano trac­ ce di un commento a Valerio Massimo nel codice bodleiano Add. A. 177 e che nutrì un vivo interesse per il teatro antico, collaborando col cardinal Riario al tentativo di rinnovarlo, con il coinvolgimento dei suoi studenti. Campo de' Fio­ ri fu, ad esempio, il "set" per la rappresentazione della Fedra di Seneca. Cfr. D. M. Schullian, Valerius Maximus, in Catalogus translationum et commentario­ rum: Mediaeval and Renaissance Latin Translations and Commentaries, T he 2 53

Catholic University of America press, Washington 1984, voi. V, pp. 287-403, in particolare pp. 378-9. 336. Val. Max. I 1, 1. «Portendorum depulsis» è lezione di un ramo della tradizione, oggi scartata a favore di « portentorum depulsi< one> s» . 337. Si tratta dell'orazione De haruspicum responsis. 338. Val. Max. I 1, 1. La lezione oggi accettata è «Gracchano tumultu» . 339. Cic. Ver. II IV rn8 (ma « ex quibus» ). 340. Val. Max. II 4, 5. La lezione oggi accettata è « regionis Eretum» , come Codro propone. 341. Sabellico nelle sueAnnotationes in Valerium Maximum propone di emen­ dare «Fretum » in «Eretum» ; Barbaro invece (Castigationes III 73, ed. Pozzi, p. rn4), pur alludendo alla proposta congetturale di Sabellico («Non sum nescius Eretum id a quibusdam scribi» ), propende invece per la lezione «Ferentum » . 342. Verg. Aen. VII 711. 343. Val. Max. IX 10, 2. Si tratta effettivamente di Giasone di Fere, ucciso a D elfi nel 371, come riferiscono Diod. XV 60 e Xenoph. Hell. VI I, 4; 4, 22 ss. 344. Val. Max. IX I ext. 1: « la crudeltà cartaginese fu infranta e fiaccata solo quando... » . 345. Beroaldo, Ann. 77, 6 (ed. Ciapponi, p. 137): «Fuit autem Seplasia fo­ rum Capuae in quo unguentarii negotiabantur [Ascon. Pis. 24] » . 346. Plin. Nat. hist. XVI 40. 347. Plin. Nat. hist. XXXIV rn8 (un'altra lezione è: « credunt Seplasiae om­ nia fraudibus corrumpenti» ). Codro preleva disinvoltamente questa spiegazio­ ne dalle Castigationes plinianae di Barbaro (XXXIV, 36, 1; ed. Pozzi, pp. 1108-10), dove l'umanista veneziano attribuisce a Merula l'emendazione di « semplasia » in « seplasia » , con relativa spiegazione; si trattò probabilmente di una emenda­ zione fatta "a viva voce", cfr. la puntuale ricostruzione di Pozzi in Castigationes, pp. 1108-9. 348. Si riferisce sempre a Val. Max. IX I ext. 1: « cum Seplasia ei < et> Alba­ na castra esse coeperunt » . 349. Si tratta del tribuno della plebe Publio Servio Rullo, contro il quale Ci­ cerone pronunciò le tre orazioni agrarie. 350. Cic. Agr. II 94, 2; cfr. ancheAgr. II 66, 4. 351. La proposta di emendazione si trova in effetti in due luoghi delle Ca­ stigationes plinianae di Barbaro, cfr. XVI 12, 1; XXXIV 36, 1, dove il merito dell'e­ mendazione viene attribuito a Merula. 352. Preziosissimo riferimento cronologico: il primo sermo di Codro in or­ dine di tempo, il XIV, è proprio l'introduzione alla lettura di Valerio Massimo e risale all'anno accademico 1484-85. 2 54

353. Sen. Med. 579. 354. Sen. Med. 635-636. 355. Personaggio citato da Igino (Fab. 157) nell'elenco dei figli di Posidone, nato da Astipalea, fratello dell'argonauta Anceo. 356. Perotti, Cornu copiae lib. I, epig. x, 103 (ed. Charlet et al., vol. V, p. 60). 357. Ov. Met. XII 553 (ma «Nelidae» ). 358. Ov. Met. XII 556-558. 359. Periclimeno, che dal suo avo (per alcuni mitografi, invece, padre) Net­ tuno aveva ottenuto il dono di poter prendere tutte le forme di animali che vo­ leva, pensò, sotto la forma dell'aquila, di prendere la fuga in volo per sfuggire a Ercole durante la gu erra di Pilo, ma una delle frecce dell'eroe lo raggiunse e lo uccise. 360. Perotti, Cornu copiae lib. I, epig. VI, 121 (ed. Charlet eta!., vol. IV, p. 168): « sed superatus ab Hercole, quamvis in varias sese fìgu ras transformasset, uno cornu privatus est» . 361. Dieci fratelli di Periclimeno erano caduti sotto i colpi di Ercole, e solo l'undicesimo, Nestore, fu salvo perché, saggio com'era, non aveva voluto parte­ cipare alla gu erra messenica, mossa dai Pili contro Ercole, ritenendola ingiusta. 362. Sen. Herc. 561 (ma « peteres » ). 363. Isoc. Arch. 19. La decima fatica di Ercole consisteva nel catturare i buoi del mostro a tre teste Gerione, che viveva nell'isola di Eri tea. 364. Si tratta di una ripresa molto libera da Hygin. Fab. IO, 2. 365. Una nota tradizione voleva che Nestore, al momento dell'attacco di Eracle al regno pilio nel quale morirono tutti i suoi fratelli, avesse trovato rifu­ gio nella città di Gerenia (Horn . //. XI 690-693; Apollod. Bibl. I 9, 9; II 7, 3; Strab. VIII 4, 4; O v. Met. XII 549-572; Hygin. Fab. IO) ; secondo un'altra versione, Ne­ store si trovava casualmente a Gerenia. Cfr. C. Brillante, Nestore gerenio: le ori­ gini di un epiteto, in E. D e Miro, L. Godart, A. Sacconi (a cura di), Atti e memo­ rie del secondo congresso internazionale di micenologia, Gruppo editoriale inter­ nazionale, Roma 1996, vol. I, pp. 209-19. 366. Horn. Il. V 392-395. 367. Ma Sen. Med. 643 (probabile lapsus mnemonico). 368. L'epiteto si riferisce all'uccisione da parte di Meleagro del mostruoso cinghiale inviato da Artemide (infuriata per essere stata dimenticata durante il sacrificio annuale agli dei dell'Olimpo) a devastare le terre degli Etoli. 369. Cfr. §§ 243-246 e relative note. 370. Ov. lb. 503. 371. Val. Flacc. V 64; III 138 (per il riferimento ad Anceo); I 387 (per Pericli­ meno). 2 55

372. Apoll. Rhod. I 1 58. 373. Sen. Med. 655. 374. Strab. XIV 1, 27. 375. Schol in Lyc. 427. 376. I Lapiti erano un popolo che abitava intorno all'Olimpo e al Pelio, in Tessaglia. 377. Strab. IX 5, 22. 378. Apoll. Rhod. I 65. 379. Ps.Orph. Arg. 128. 380. Sen. Med. 655. 381. Ov. Met. XII 455-456. 382. Ps.Orph. Arg. 948. 383. Apoll. Rhod. IV 1 502-1 503. 384. Hes. Scut. 181. 385. Ov. Met. VIII 316. 386. Ps.O rph. Arg. 723. Codro si rende conto della lezione scorretta (i\.f,lmndÒYJV "Iòf!Wva), che attribuisce a Idrnone il patronomico ''.Ampicide" riferito di norma a Mopso. L'intuizione filologica è corretta e infatti nelle moderne edizio­ ni critiche i\.f,l7t1JlCLÒYJV è sostituito dal patronimico A�avnliÒYJV, 387. Cfr. la discussione che si sviluppa nei §§ 332-337. 388. Plaut. Cure. 340: «Dico me illo advenisse animi causa» . 389. Sen. Med. 622. La lezione oggi accettata è infatti «Aulis amissi » . 390. L'inserzione tra gli Argonauti di T ifi, beota re d'A rgolide, rappresenta effettivamente una variante del mito introdotta da Seneca. 391. Ps.Orph. Arg. 123. Un'altra lezione è "nÀ f,lYJ O'Oio". 392. Apoll. Rhod. I 105-106. 393. Sen. Med. 617 e 622. 394. Ps.Orph. Arg. 141. 395. Apoll. Rhod. I 77. 396. Plin. Nat. hist. IV 26 (ma « facit obiecta insula Euboea» ). 397. Ps.Orph. Arg. 142-143. 398. Apoll. Rhod. I 77 ss.; IV 1467 ss. 399. Val. Flacc. VII 422. 400. Il riferimento è sempre al medesimo coro della Medea senecana. 401. Codro allude qui a Filippo Beroaldo, che nel 1482 aveva pubblicato a Bologna un volumetto dove correggeva alcuni errori commessi da Servio nel commentare Virgilio (Annotationes in commentarios Servii Vergilianos). Ma al­ lude probabilmente anche a Valla e a Pomponio Leto, che avevano già rilevato parecchi errori di Servio, e a Poliziano, che aveva ripreso Servio nell'ultimo ca-

pitolo della sua prima Centuria: «Quae sint apud Maronem silentia lunae, quae­ ve tacita virgo apud Horatium, superque iis Serviana et Acroniana refutatae sen­ tentiae » . 402. Stat. Theb. 11 737-738. 403. Lact. Plac. ad !oc. (ed. Teubner, voi. I, pp. 169-170). Si tratta, quindi, di una metonimia. 404. Si tratta di una pianta chiamata vetrice o agnocasto, cfr. Plin. Nat. hist. XVI 209; XXIV 59; XXXI 44.

405. Festa che durava cinque giorni, celebrata dalle donne in onore di D emetra. 406. Plin. Nat. hist. XXIV 59. 407. Galen. De simpl. med. VI 2 (ed. Kiihn, voi. XI, p. 808). 408. Nicand. Ther. 71. 409. Verg. Aen. III 81. 410. Stat. Theb. xn 65. 411. Lact. Plac. in Statii Theb. II 737. 412. Verg. Aen. VIII 128. 413. Ma Stat. Theb. xn 491-492. 414. Lact. Plac. ad !oc. 415. Ibid. 416. Poliziano, Miscellanea I 17. Il principio metodologico che qui Codro formula, sulla scorta del Poliziano, è quello della necessità di conoscere la lingua e la letteratura greche per emendare correttamente i testi latini. 417. Achille Tazio, autore di un commento ai Phenomena di Arato. Ma in realtà la parte qui citata non è oggi attribuita ad Achille Tazio (cfr. Anonymus II, p. 206, Maas). 418. Sen. Herc. 83. 419. Lact. Plac. in Statii Theb. II 58. 420. Hes. Theog. 323. 421. Aelian. De nat. an. XII 7. 422. Epimen. fr. 2 Diels-Kranz. 423. Aristoph. Plut. 1054. 424. Ps.Erod. Vit. Hom. 464. Cfr. ivi, 481-482: «Questi versi [Iresione, cantati da Omero in compagnia di alcuni fanciulli] venivano cantati a Samo per molto tempo dai fanciulli quando si riunivano in occasione della festa di Apollo» . 425. Strab. I 2, 3. 426. Plut. Thes. 22, 6. 427. Verg. Aen. VIII 128. 257

428. Si tratta della celebre antologia planudea (dal nome del monaco bi­ zantino, Massimo Planude, che la assemblò nel 1301). La più ampia silloge di epi­ grammi greci fu stampata per la prima volta da Andrea Giovanni Lascaris (Co­ stantinopoli, 1445-Roma, 1535) a Firenze nel 1494 e oggi si legge come Appendix Planudea dopo l'ultimo libro dell'Antologia Palatina. 429. Aristoph. Plut. 383: « con in mano il ramo d'ulivo [ del supplice] » . 430. Cfr. § 344 e relative note. 431. Sen. Ag. 363-363bis (Zwierlein). 432. Stat. Theb. V 431-432. 433. Stat. Theb. xu 617. 434. Stat. Theb. XII 581-582. 435. Ov. Met. VII 433-434 (ma «Cretaei sanguine tauri» ). 436. D em. Cor. 208. Nel testo demostenico è assente la negazione où; con tutta probabilità Codro, citando mnemonicamente, crea una crasi fra il testo greco e il luogo di Quintiliano (XII 10, 24) sotto citato. 437. Quint. IX 2, 62: « Et D emosthenes iurando per interfectos in Ma­ rathone et Salamine id agit ut minore invidia cladis apud Chaeroneam acceptae laboret» ; XII 10, 24: « non illud iusiurandum per caesos in Marathone ac Sala­ mine propugnatores rei publicae satis manifesto docet praeceptorem eius Plato­ nem fuisse? » . 438. Per « curva corrigere » cfr. Sen. Apoc. 8, 3; Plin. Ep. V 9, 6. 439. Stat. Theb. IV 481-483 (ma «Persei» ). 440. Ov. Met. VII 74. 441. Cioè D iana o Artemide, sorella di Febo Apollo. 442. Hes. Theog. 409-411. 443. Cic. De nat. deor. III 46, 3-5. 444. Hymn Orph. I 4, ma la lezione oggi accettata è TTepad�v. « figlia di Perse» , T itano figlio di Euribia e di Crio e marito di Asteria, dalla quale ebbe Ecate. 445. Quest'ultimo brano sulla genealogia di Ecate è preso di peso da Fereci­ de di Atene, F 139 Dolcetti. Per Bacchilide cfr. F I B, per Museo cfr. F 2 B 16 Diels-Kranz. 446. Hes. Theog. 411-413. 447. Una delle Furie, vendicatrice degli omicidi. 448. Lact. Plac. in Statii Theb. IV 483. 449. Verg. Aen. IV 511. Servio annota questo verso: «Tria virginis ora Dia­ nae iteratio est: Lunae, Dianae, Proserpinae» . 450. Nella tradizione classica le tre teste di Ecate sono, come noto, di cane, di cavallo e di leone (o di serpente). Tuttavia, il ramo , della tradizione delleAr-

gonautiche orfiche, al v. 979, legge ect>YJ al posto di 04>Lç (cioè "serpente", così anche la giuntina del 1500, c. -y2v), e interpreta in senso antropomorfo l'aggettivo ti-ypL6 fLop4>oç (« dall'aspetto selvaggio»); invece la traduzione latina di Leodrisio Crivelli (stampata dal Pio nel 1519 assieme alleArgonautiche di Valerio Placco) è « medio fera surgit agrestis» . 451. Ps.Orph. Arg. 977-979. 452. O v. Met. VII 194. 453. Stat. Theb. IV 275 ss. 454. In Erodoto (11 2) si narra che il re egiziano Psammetico, per sapere qua­ li fossero i più antichi tra gli uomini, affidò a un pastore due neonati perché li crescesse lontano dagli uomini, esclusi dallo scambio di parola, cosicché i primi suoni che avrebbero emesso avrebbero dato la risposta al problema. La prima pa­ rola che pronunciarono fu appunto bekos o békkos, che significa "pane" in frigio, e ai Frigi fu dunque riconosciuto il primato di antichità sugli stessi Egiziani. 455. Si tratta del II dei IX libri delle Storie di Erodoto, ad ognuno dei quali venne assegnato il nome di una Musa. 456. Claud. In Eutr. n 251-254. 457. Aristoph. Nub. 398. « vecceselino» è la traslitterazione di �e1e1CECTÉÀYJ VOç, hapax coniato da Aristofane risultante dalla fusione di bekos o békkos ("pane" in frigio, cfr. nota 454) e selenos, che richiama prosélenos, che significa "più vecchio della luna", e che rimanda alla proverbiale antichità degli Arcadi: dal suolo di Ar­ cadia sarebbe infatti nato il primo uomo, il proselénaios Pelasgo. Ma potrebbe si­ gnificare anche protosélenos, che in Aristofane avrebbe il significato non solo di "vecchio", ma anche di "sciocco", "ingenuo". 458. Apoll. Rhod. IV 264. 459. Plin. Nat. hist. XXXIV 41. 460. Eustazio, vescovo di Tessalonica (Costantinopoli, 1110 ca.-1198), sti­ mato tra i più dotti del suo tempo, compose, oltre a molti trattati, ponderosi commenti a Omero e Pindaro dove compendiò secoli di tradizione esegetica. 461. Figlio di Melampo, generale degli Ateniesi, morto nella battaglia di Mantinea (418 a.C.). 462. Strab. VII 6, 1 (che però riporta che la statua di Apollo - non di Giove, secondo le moderne edizioni critiche - era sull'isola di Apollonia, colonia mile­ siana, e il suo autore era Calamis). 463. Anthol Graec. XVI 82, 1-2 (ma «òe1ect / XapYJç» ). Il cubito equivaleva a 44,4 cm. 464. Plin. Nat. hist. praef. 26, dove si spiega che gli artisti greci lasciavano appese alle loro opere scritte del tipo "Apelle o Policleto vi stava lavorando" per significare che l'opera non era ancora terminata e poter così prevenire, dato che 259

il gusto poteva mutare col tempo, eventuali critiche dei detrattori, correggendo gli errori o i difetti della loro opera. 465. Nicand. Ther. 487. 466. Diom. Ars gramm. III (ed. Keil, p. 477). 467. Il riferimento è al passo di Nicandro appena citato, per cui cfr. nota 465. 468. Ov. Met. V 449. 469. Nicand. Ther. 486-487. 470. Cfr. nota 466. 471. Ov. Met. V 451. 472. Hippocrates et Corpus Hippocraticum, De semine, de natura pueri, de morbis 30, 65 (ma «rtÙ�YJ crl� ÈO"TLV ti'Tt'ò Tou Àfu1eou Tou èv T'¾> W'¾> » ). 473. Plin. Nat. hist. x 104. 474. Hor. Serm. II 4, 14. 475. Arist. Hist. anim. VI 3 (=561a). 476. Arist. De gen. anim. III 2 (= 752b): «è tuttavia l'opposto di ciò che ri­ tengono gli uomini e afferma Alcmeone di Crotone: il latte non è costituito dal bianco, ma dal giallo, ed è questo l'alimento dei pulcini. Essi invece ritengono che sia il bianco per la rassomiglianza del colore» . Oltre che in Alcmeone, que­ sta dottrina si poteva leggere pure in Anassagora (59 B 22 D iels-Kranz) e nello pseudo-ippocratico De natura pueri, 29-30. 477. Si tratta dell'erba moly, come narrano Horn. Od. X 304-306 e Ov. Met. XIII 940-945, 478. Horn. Il. I 240; I 283; VII 228; VIII 225; VIII 372; XI 8; XI 831 ecc. 479. Grammatico greco, che criticò i poemi omerici in modo sofì.stico e maligno. 480. Ovidio, nel quinto libro delleMetamorfosi (300 ss.), narra il mito del­ le figlie di Pierio, trasformate da Calliope in gazze (picae) per aver osato snda­ re le Muse in una gara poetica. Il tramite medievale per questo mito è Dante, Purg. I 9-12: « e qui Caliopè alquanto surga, / seguitando il mio canto con quel suono I di cui le Piche misere sentiro / lo colpo tal, che disperar perdono» . 481. Cfr. Pico della Mirandola, Oratio 30: « primum id fuit, in nullius verba iurare, sed se per omnes philosophiae magistros fundere, omnes scedas excute­ re, omnes familias agnoscere » . 482. Il testo latino crea un gioco, intraducibile in italiano, intorno al verbo « excutere» nel doppio senso di "indagare", "esaminare a fondo" (i libri, gli auc­ tores) e "scrollarsi le vesti". 483. Quint. XII II, 8.

484. Per il tema della malevolenza cui si sottopone il filologo nel momento in cui mette in campo le proprie congetture cfr. la praefatio dell'Antidotum I in Pogium di Lorenzo Valla. 260

485. Si tratta di due tra i massimi autori del Trecento (invisi alla cultura uma­ nistica), il giurista Bartolo da Sassoferrato (1314-1357) e il filosofo e maestro di logica Walther Burley (1274-1344/45). 486. Colum. I I, 13. Giulio Igino (1 secolo a.C.-1 secolo d.C.) fu uno dei primi commentatori di Virgilio. 487. Plut. Fab. Max. 5, 5. 488. Ho� Ep. 1 17, 10. 489. Ov. Tr. III 4, 25. 490. Hor. Serm. I 9, 20. 491. Si tratta di Ognibene da Lonigo e di Pomponio Leto. 492. Si gioca qui col doppio significato di artifex (che in Verg. Aen. II 125 e XI 407 significa "maestro in male arti", "furfante" ). 493. Si tratta del già citato Giovanni Andrea Lascaris (cfr. nota 428) e dei due celebri editori, rispettivamente veneziano e bolognese, Aldo Manuzio e Pla­ tone de' Benedetti. 494. Qui si conclude il colloquio, espresso in forma scenica, tra i dotti e i fi­ lologi, e Codro riprende le fila del proprio discorso. 495. Cfr. Plat. Rep. II 386a ss. e X 7 605cd ss. 496. Si tratta dell'imperatore Costantino, che, come si legge nel Codice Teodosiano (438 d.C.), rese immuni i medici, i grammatici e i professori di let­ tere « cum rebus, quas in civitatibus suis possident» (CTh. 13.3.1pr). 497. luv. 10, 177-178. 498. luv. 10, 174-175 (ma « velificatus Athos» ). 499. Cic. De leg. I 5. 500. Hor. Ars 9-10. 501. Nel senso di "concernenti lefabulae". 502. Stat. Silv. IV 6, 40-41. 503. L'iconografia, fin dall'antichità, mostra Ercole proprio nell'atto di as­ salire il leone stringendolo al collo (cfr. Apollod. Bibl. II 5, 1). Ma una tradizione iconografica padana vuole il leone "smascellato", non stritolato da Ercole: essa inizia forse con Cosmè Tura negli anni Settanta del Quattrocento (vi è un suo disegno conservato oggi al Museum Boymans-van Beuningen di Rotterdam), prosegu e con Marcantonio Raimondi nel ciclo delle quattro fatiche di Ercole (ca. I509-10) e arriva sino al Bonasone del Symbolum CVII delle Symbolicae quae­ stiones di Achille Bocchi (1555). Si ringrazia per la consulenza la professoressa So­ nia Cavicchioli. 504. Plin. Nat. hist. XXXV 56. Il "cataglifo" o "catagrafo" (ma leggeva « cata­ glypha » anche Barbaro, cfr. Castigationesplinianae xxxv 11, 2, ed. Pozzi, p. 1123) è una particolare modalità di ritratto in scorcio delle figure.

505. Scultore, pittore e teorico dell'arte vissuto nel IV secolo a.C., Eufrano­ re di Corinto è considerato dagli studiosi uno dei più completi e originali eredi di Fidia. 506. Policleto di Argo (v secolo a.C.) fu uno dei massimi scultori greci del periodo classico (anche se certi elementi lo collegano anche all'ultimo arcaismo). È contemporaneo di Fidia e Mirone. 507. Fidia, il celebre scultore, pittore e architetto greco (Atene, ca. 490-ca. 430 a.C.). 508. Scultore greco del V secolo. La sua opera più celebre è il Discobolo. 509. Codro si sofferma qui sull'ambiguità del suffisso -bilis, che può avere tanto valore attivo quanto valore passivo. 510. L'asino Brunello è il protagonista del poema allegorico Speculum stul­ torum (1179-80) del monaco Nigello di Longchamps. In Matteo Maria Boiardo (Orlando innamorato, II 3, 40) Brunello è il ladro matricolato che ruba l'anello ad Angelica. 511. Per il sillogismo "acervale" o "sorite" si intende un tipo di argomenta­ zione cavillosa; cfr. Pers. 6, 80. 512. Il nome "corvo", in greco "1e6pct�," rimanda a Corace, considerato il pri­ mo maestro di retorica; cfr. Arist. Rhet. II 24 (=1402a 18); Cic. De or. I 91-92; Quint. III 1, 8. Cfr. anche qui Sermo II, § 98. 513. Un senatoconsulto del 161 a.C. (confermato dai censori nel 92 a.C.) or­ dinò che i retori e i filosofi, venuti a Roma come esuli della Macedonia, fossero cacciati dalla città, cfr. Suet. De gramm. et rhet. 25, 1; Geli. xv 11, 1-2. 514. Questo problema matematico era stato particolarmente caro agli uma­ nisti del Quattrocento, se si pensa agli interessi di Leon Battista Alberti e Nic­ colò Cusano, quest'ultimo autore del De quadratura circuii. 515. Cosa Codro intenda per "numero lungo" si può intuire da riflessioni condotte di seguito in questo Sermo, cfr. § 481. 516. Diog. Laert. VIII 12. Formulazione imprecisa del teorema di Pitagora, secondo il quale, come ben noto, la somma dei quadrati costruiti sui cateti equi­ vale al quadrato costruito sull'ipotenusa (così si legge, ad esempio, in Vitr. IX 67). La formulazione imprecisa si legge comunque già in Marsilio Ficino, Theo­ logiaplatonica XII 1 (ed. Vitale, p. rn 72). Potrebbe aver costituito problema la tra­ duzione dal greco al latino di -rrÀevpa, che può significare tanto "lato", "fianco" quanto "radice quadrata". 517. Cic. De nat. deor. III 88. 518. Lucr. V 564-587. 519. Macr. /n somn. Scip. 1 20, 31-32. 520. Cic. Lucull. 82.

521. Ptolem.Almagesto V 16: «Qua re magnitudo solis centies et septuagesies proxime terrae magnitudinem continet» (nella traduzione del Trapezunzio). 522. Plat. Tim. 11, 38d. 523. Macr. Jn somn. Scip. I 19, 2; II 3, 13. Cicerone descrive del resto in più luo­ ghi il cosiddetto planetarium di Archimede: De nat. deor. II, 35-38; Tusc. I 63; De rep. I 14. 524. Come noto, la stella Venere assume due denominazioni differenti sin dalla classicità: Lucifero ("portatore di luce") come stella del mattino; Vespero, quando appare al tramonto. 525. Cinna, fr. 6, 1-2 Blansdorf. 526. Catuli. 62, 33-35 (ma «Hespere... Eous/eosdem» ). Codro legge ve­ spere (vocativo della forma vesperus, -i); eodem - riportato dal codice veronese perduto (V ) ma ripreso da molti manoscritti di epoca medievale e umanistica che conservano le lezioni di V - avrebbe qui significato locativo di "nello stes­ so luogo". 527. App. Verg. De ros. nasc. 45-46 (ma «Eoos» ). 528. Hor. Carm. II 9, 9-12. 529. Manlius era al tempo una delle forme usate per il nome Manilius. 530. Manil. I 177. 531. Sen. Phaed. 749- 752. Come noto, la Fedra senecana era conosciuta anche con il titolo di Ippolito riportato in un ramo della tradizione medievale. 532. Stat. Theb. VI 238-241. 533. Boet. De cons. phil. I 5, 10-13 (ma « agit ... mutet » ). 534. Hygin. Astr. II 42: « eum hac de causa Veneris appellari, [et] exoriente sole et occidente videri » . 535. Citazione quasi letterale da Plin. Nat. hist. II 37: «quam naturam eius Pythagoras Samius primus deprehendit » . 536. Mare. De spectaculis 3, 5 (ma «Et qui prima bibit deprensi flumina Ni­ li» , « chi si disseta alle scoperte sorgenti del Nilo»). 537. D iog. Laert. VIII 14. 538. Publio Nigidio Figulo (98 a.C.-45 a.C.) fu un erudito e filosofo pita­ gorico romano; il cognomen Figulus ("vasaio") deriva, probabilmente, dalla sua dimostrazione, fatta utilizzando la ruota dei vasai, della rotazione della terra su se stessa ; cfr. Aug. Civ. V 3. Citazione fatta anche da Beroaldo nella lettera a Niccolò Ravacaldo che chiude l'edizione pliniana del 1476 (poi più volte ri­ stampata). 539. Plin. Nat. hist. VII 161; Plin. Ep. II 20, 3. La regola astrologica relativa al­ la legge scansile degli anni era quella per cui gli antichi credevano che certe età fossero più critiche di altre perché contenevano in sé il numero 7 o il numero 9

moltiplicati per se stessi o tra di loro. Anche Bartolomeo Bianchini, nella vita del maestro, dice che Codro morì nel cinquantaquattresimo anno di vita, un anno particolarmente insidioso proprio perché scansile: «Annum agens circiter quar­ tum et quinquagesimum: quem quia ex sexto novenario conficitur, scansilem vocant annum mala generi mortalium minitantem » (Vita Codri, in A. Urceo Codro, Orationes seu sermones, PerJoannem Antonium Platonidem Benedicto­ rum, Bononiae 1502, c. cx4v); il riferimento alla minaccia costituita dallo scansi­ lis annus si trova anche nel testamento di Codro tramandato da Bianchini e ri­ portato da C. Malagola, Della vita e delle opere di Antonio Urceo detto Codro. Stu­ di e ricerche, Fava e Garagnani, Bologna 1878, p. 502. 540. Cleonide Musico, lntroductio harmonica 5, 7 e 5, 11. 541. Dal greco mdgadis, -ddidos, sorta di arpa con molte corde, che include­ va due ottave. 542. I §§ 458-463 sono una parafrasi continua di Cic. Lucull. 118. Talete (636546 ca. a.C.), considerato il primo filosofo della storia occidentale, uno dei set­ te sapienti, individuò nell'acqua il principio fondatore della natura. 543. Horn. Il. XIV 246: «Oceano, che a tutti i numi fu origine» . 544. Verg. Georg. IV 382. 545. Anassimandro (610/609-546 a.C. ca.) fu il secondo grande filosofo di Mileto; per Anassimandro il principio di tutte le cose è 1'&7relpov, cioè l'infinito. 546. Anassimene di Mileto (586 ca.-528 a.C). 547. Anassagora di Clazomene (496 a.C.-428 a.C) 548. Cic. Lucull. 118. 549. Lucr. I 830 ss.; Serv. in Aen. IV 625. 550. Nacque nel 565 a.C. circa a Colofone, in Asia Minore, e morì forse a Elea (nell'attuale Campania) nel 470 a.C. 551. Motabilis, -e è aggettivo che compare nella Vulgata. 552. Parmenide di Elea (515 a.C.-450 a.C.). 553. Iniziatore della corrente atomistica, ben poco sappiamo di lui, vista la scarsissima quantità di materiale che possediamo. 554. D emocrito di Abdera (460 a.C.-360 a.C.). 555. Cic. De nat. deor. I 66. 556. Il termine greco corretto è cnc6TLoç, che significa, appunto, "oscuro". 557. Filosofo greco di Samo del v sec. a.C. 558. Arist. De caelo I 2. 559. Hes. Theog. 116 ss. 560. Cic. De nat. deor . I 2. 561. Protagora (481-415/414 a.C.), è un filosofo presocratico nato ad Abde­ ra, in Tracia. Anche Protagora viene citato in Cic. De nat. deor. I 2.

562. Epicuro (Samo, 341-Atene, 271/270 a.C.), filosofo greco fondatore di una delle maggiori scuole filosofiche dell'età ellenistica e romana. Secondo la fi­ losofia epicurea, diffusa nel mondo latino soprattutto dal poema didascalico di Lucrezio, gli dei vivono negli intermundia e non si curano dei mortali. 563. Comincia qui una discussione sull'anima presa quasi di peso da Cic. Tusc. I 18-24. 564. Ex-cor, cioè sciocco, stupido. 565. Vae-cor, pazzo. 566. Si tratta del terzo ventricolo cerebrale che, secondo la medicina ip­ pocratica e poi galenica, veicolava lo "pneuma psichico" che animava l'essere umano. 567. Codro segue qui quasi alla lettera Cic. Tusc. I 9. 568. È la fine del celebre episodio della morte di Didone, cfr. Verg. Aen. IV 651-705. 569. Si fa derivare il nome anima dal greco dnemos, cioè "vento". 570. Zenone di Cizio (333-263 a.C.). 571. Verg. Aen. VI 730. 572. Ippone di Reggio, per alcuni di Samo (v sec. a.C.). 573. Cioè "anima". 574. Verg. Aen. I 98. 575. Verg. Aen. IX 349. 576. Cic. Tusc. I 19. 577. Emped. fr. 109 Diels-Kranz, citato in Arist. De anima 404b 14-15. 578. Cic. Tusc. I IO. 579. I numeri lunghi sono 2 e 3; i numeri larghi o quadrati 4 e 9; i numeri al cubo 8 e 27. 580. Cic. Ad Att. VII 13, 5. 581. Secondo tale dottrina il numero costituiva l'essenza del mondo e i nu­ meri ideali si distinguevano, ovviamente, da quelli con i quali si calcola. 582. Arist. De anima 412a 28. 583. La questione, sollevata in prima istanza dalli\.rgiropulo, traduttore di Aristotele, era diventata una autentica querelle tra gli umanisti, coinvolgendo an­ che Francesco Filelfo (epistola I del libro XVII) ed Ermolao Barbaro. Beroaldo si pronuncia a favore della forma "endelechia" nel suo commento alle Tusculanae disputationes (1 22) uscito a Bologna nel 1496; a difesa della scelta ciceroniana si era schierato anche Poliziano nel primo capitolo della prima Centuria dei Mi­ scellanea, soffermandosi sulla questione anche in una lettera a Pico della Miran­ dola del maggio 1494 (la prima del libro XII delleEpistolae). 584. Cfr. Aug. Civ. II 27, 1. Il passo agostiniano (« [Tullius] Vir gravis et phi­ losophaster... » ) è stato tormentato dai copisti ed è di dubbia lettura e interpreta-

zione. Valla (Eleg. I 7), e sulla sua scorta l'allievo Perotti (Cornu Copiae III 167), non dava al termine un senso peggiorativo: «Hunc Augustinus appellar philosopha­ strum ; non, ut puto, parvum philosophum, sed imitatorem philosophorum » . Nel nostro caso, tuttavia, il contesto sembrerebbe autorizzare una traduzione di philo­ sophaster in senso diminutivo, simile a quella data al termine dal Carena nella tra­ duzione del testo agostiniano (ed. Einaudi-Gallimard, Torino-Paris 1992). Cfr.J. Ramminger, philosophaster, in Id., Neulateinische Wortliste. Ein Worterbuch des Lateinischen von Petrarca bis IJOO, www.neulatein.de/words/o/003348.htm (ulti­ mo accesso 11/10/2013). 585. Cic. Tusc. I 22: «quasi quandam continuatam motionem et perennem» . 586. Cic. Tusc. I 19. 587. Tutto il brano è una citazione quasi letterale da Cic. Tusc. I 20 ss. 588. Verg. Aen. v 80-81. 589. Sentenza di Varrone nota attraverso Lact. De op. Dei 17, 5. 590. Qui probabilmente Codro gioca sull'ambiguità del significante: ani­ mam ipsam allude a un tempo al concetto filosofico di anima ma anche alla fi­ sionomia del lettore smarrito di fronte alla varietà di opinioni. 591. Cic. Tusc. I 23. 592. Sen. Quaest. nat. VII 25, 1-2 (ma « sint... et impellimur... quisquam tibi» ). 593. Cfr. Lact. De op. Dei 17, 2. 594. Alberto Magno, Compendium theologicae veritatis, II 29. 595. Cic. De ojf. III 33. 596. Cic. Defin. II 6, 19. 597. Pomp. Mel. I 106. Apollonio Rodio, invece, non dice la stessa cosa ri­ guardo i T ibareni: in Arg. II 1009-1014 riferisce infatti che presso questi ultimi, quando le donne devono partorire, sono gli uomini che si mettono a letto e han­ no le doglie, mentre le donne li ristorano preparando loro l'acqua per il parto. 598. Aug. Civ. XIX 1. 599. Eur. Med. 1228-1229. 600. Antist.fi: var. 108a, 1 Caizzi; D iog. Laert. VI 3. 601. Gell. IX 5, 6-7: «Critolaus Peripateticus et malum esse voluptatem ait et multa alla mala parere ex sese: incurias, desidias, obliviones, ignavias. Plato an­ te hos omnis ita varie et multiformiter de voluptate disseruit» . 602. Plat. Tim. 69d 1. 603. Filosofo epicureo morto nel 45 a.C. 604. Verg. Aen. VI 272. 605. Cic. De nat. deor. II 51. L'annus maximus, detto anche "anno platoni­ co" o "anno perfetto", si realizza nell'arco di 25. 800 anni, vale a dire il tempo im-

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piegato dall'asse terrestre, in segu ito alla precessione degli equinozi, per com­ piere un giro completo rispetto alla sfera ideale delle stelle fisse. 606. Plin. Ep. VIII 22, 3. 607. Il termine latino è baeticus: si tratta di una zona corrispondente all'at­ tuale Andalusia, nel Sud della Spagna, rinomata per la sua lana. 608. I Salii erano un collegio di dodici sacerdoti preposti al culto di Marte. Ogni anno nella prima metà di marzo facevano processioni per la città e intor­ no ai luoghi sacri, organizzando, alla fine di ogni giornata, sontuosi banchetti. 609. Berretto di forma semiovale o conica portato dai Romani nei conviti, negli spettacoli e in generale in giorni di festa. 610. «Idolothyt a » , come il precedente idolatra, è un calco dal greco. 6n. Sono le dodici divinità maggiori: Giove, Giunone, Vesta, Cerere, Dia­ na, Minerva, Venere, Marte, Mercurio, Nettuno, Vulcano, Apollo. 612. Sono gli dei consiglieri delle dodici divinità maggiori, che costituivano il supremo consiglio dell'Olimpo. 613. luv. 15, 1-2: «Quis nescit, Volusi Bithynice, qualia ... » . 614. Setta ebraica che adorava gli angeli e gli astri (letteralmente "adoratori del cielo" ). 615. Da alcuni documenti notarili conservati all'.Archivio di Stato di Bolo­ gna (Niccolò Beroaldi 7/ 5, filza 9, n. 94; filza 16, nn. 64-65, 98; Niccolò Fasani­ ni 7/6, filza 23, n. 92) Pietro Boaziano emerge come un'interessante figu ra di barbiere magister particolarmente vicino alle gerarchie ecclesiastiche cittadine. Già nel 1478 risulta prosindacus et procurator della Società dell'Ospedale di San Biagio e nel 1493 procuratore di Santa Maria degli Angeli. Dalle carte di un al­ tro notaio (Costanzo Serafini, 26 marzo 1492) riemerge una confessio che Boa­ ziano rilasciò di fronte all'inquisitore Vincenzo Bandello - ed è il motivo per cui molto probabilmente viene qui nominato da Codro - in cui dichiarava di aver sovrinteso alla fabbrica del tribunale dell'Inquisizione in San Domenico. Si rin­ grazia molto Franco Bacchelli, da cui provengono queste informazioni. 616. Inizia qui un elenco di eresie interamente tratto dal primo libro del De haeresibus di Agostino, ma riorganizzate da Codro in una sorta di enciclopedia in ordine alfabetico. 617. Profetessa montanista che iniziò la predicazione insieme a Montano e Priscilla nel 156 o 157 d.C. 618. 1s. 45, 7. 619. Elvidio (ca. 340-390 d.C.) riteneva che Gesù avesse fratelli nati dall'u­ nione carnale di Giuseppe e Maria. Contro tale posizione considerata eretica Gi­ rolamo compose il suo Contro Elvidio. 620. Gen. 1, 30-31: «Et vidit D eus omnia, quae fecit, et ecce bona valde» .

621. Si tratta degli Hussiti, vale a dire i seguaci diJan Huss, arso vivo sul ro­ go a Costanza nel 1415. 622. Forma di divinazione che utilizzava il fumo che si innalzava dai sacrifi­ ci (dal greco kopnos, "fumo" ). 623. Dal greco koskinomantis, una forma di divinazione che utilizzava un se­ taccio tenuto in equilibrio precario tra due forbici. 624. La metoposcopia è un'antica arte divinatoria che consiste nell'analisi delle rughe della fronte, particolarmente studiata da Girolamo Cardano all'ini­ zio del Cinquecento. 625. Hor. Epist. I 2, 14. 626. Bocc. De cas. V 12 (De Perseo Macedonie rege), capitolo composto prevalentemente su Liv. XXXIX 53; XL 5-11 e 23-24; 56; XLII 53; XLIV 41-46; XLV 6. 627. Il passo ricalca Plaut. Ps. 146. 628. Cfr. Gell. xv 4, 3. Un'altra lezione riporta « mulas » al posto di « mulos» . 629. Hor. Epod. 4, 13. 630. Si imbiancavano di creta e gesso i piedi degli schiavi che gi ungevano a Roma per essere venduti. 631. Il passo è la citazione di due versi della prima satira di Giovenale (111 e rn9), che però non sono consecutivi nel testo dell'autore latino; tale disposizio­ ne potrebbe testimoniare, ancora una volta, il fatto che Codro citasse le sue fon­ ti a memoria. Pallante era un potente liberto di Antonia, madre di Claudio, Li­ cinio fu liberto di Augusto; entrambi erano molto ricchi. 632. Dem. In Aristog. 1, 16. 633. La citazione è tratta dal libro I delle Institutiones del gi urista Elio Mar­ ciano (II-III secolo d.C.). 634. In greco "proporzionato", "equo", "gi usto". 635. D iog. Laert. I 58 (dove si attribuisce il detto a Solone); Plut. Solon 5, 4 (dove si attribuisce ad Anacarsi). 636. Sen. Epist. 113, 1: «Desideras tibi scribi a me quid sentiam de hac quae­ stione iactata apud nostros, an iustitia, fortitudo, prudentia ceteraeque virtutes animalia sint » . 637. La legge Muzia fu promulgata da Lucio Licinio Crasso insieme a Sce­ vola per l'anno 95 a.C. e vietava a chi non fosse cittadino romano di spacciarsi come tale, obbligandolo a lasciare l'Urbe. 638. La legge Aquilia prende il nome dal tribuno della plebe Aquilio, che nel 286 a.C. fece votare la prima legge scritta in materia del risarcimento del danno di proprietà del dominus. 639. Trebazio fu consulente gi uridico di Augusto, in stretti rapporti di ami­ cizia con Cesare, Orazio, Mecenate, Cicerone, dei cui Topica risulta dedicatario.

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640. Cic. Pro Mur. 28. 641. Mart. VII 65. 642. Cic. De rep. I 3. 643. Verg. Aen. II 159. 644. Liv. II 3, 3. 645. Iuv. 2, 30-31. 646. Nome di un usuraio in Hor. Serm. II 3, 69 e 175. 647. Citazione letterale da Ter. Phorm. 495: «Cantilenam eandem canis» . 648. Si tratta di una forma di tributo non in denaro ma in natura, divenuta da Diocleziano in poi una forma di datazione. 649. Si tratta dei vv. 62-65 del Supplementum di Codro all'Aulularia plauti­ na (122 versi in tutto). Tuttavia, nel testo del Supplementum si legge « rhetor» al posto di « rabula » , che sembra dunque essere variante successiva. 650. Probabile neoformazione composta da perdo (passeggiare, andare in gi­ ro) e aulos (flauto). 651. Si tratta di una parentesi scenica, quasi quadro da commedia, costruita dallo stesso Codro come un pastiche di materiali dai commediografi latini: Nau­ sistrata è infatti la moglie di Cremete nel Phormio terenziano, mentre il « qui me faciam pensilem » riprende il v. 89 dello Pseudolus plautino. 652. Che conosce dodici espedienti o artifici. 653. Poetessa greca autrice di prose e versi di contenuto assai lascivo. Alcu­ ni la identificano con l'Elefantide citata da Plin. Nat. hist. XXVIII 8. Codro usa il genitivo greco «Elephantidos» (per cui cfr. Mart. XII 43), anziché la desinenza latina -is. 654. Pers. 5, 58-59 (ma « cum lapidosa cheragra / fregerit articulos veteris ra­ malia fagi » ). 655. Sulle colonnine della bottega i librai esponevano le liste dei libri in ven­ dita, come ricorda Hor. Serm. I 4, 71. 656. Iuv. 7, 82-83, ma senza « enim» , che rende ipermetro il verso. 657. Cfr. Verg. Georg. II 542: « Et iam tempus equum fumantia solvere colla » . 658. exustio traduce in latino la ekpyrosis degli stoici, cioè la conflagrazione che ciclicamente pone fine a questo universo e dà origine a un universo nuovo. 659. Plin. Nat. hist. VII 95-99. 660. Imperatore (250-311 d.C.) durante il periodo della tetrarchia di Dio­ cleziano. 661. Si tratta del celeberrimo Costantino I, detto anche Costantino il Gran­ de (274-337 d.C.), imperatore dal 306 sino alla sua morte. 662. Si tratta dello Pseudo-Aurelio Vittore dell'Epitome de Caesaribus 41, 13.

663. Gran parte delle notizie qui riferite da Codro sono tratte da Cic. Tusc. I 108.

664. Segue un elenco di costellazioni per cui cfr. Hygin. Astr. IV 12. 665. Due stelle della costellazione dell'.Auriga. 666. Sono le sette stelle che formano la testa della costellazione del Toro. 667. Re d'Etiopia, marito di Cassiope o Cassiopea, padre di Andromeda, suocero di Perseo, posto con quest'ultimo tra le costellazioni boreali. 668. Cic. De nat. deor. II 114. 669. Il 1494, anno di composizione del Sermo I, è anche l'anno della prima guerra italiana, in cui Carlo VIII scese in Italia e vi si opposero, fra gli altri, la Re­ pubblica di Venezia e lo Stato della Chiesa (di cui Bologna faceva parte).

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Sermo II

Introduzione Penultimo in ordine cronologico (sicuro terminepost quem è il 23 ottobre 1498, giorno del ritorno in patria di Anton Galeazzo Ben­ tivoglio dal suo pellegrinaggio in Terra Santa, ricordato qui da Codro), il Senno II è dedicato alla retorica e a Lucano, e dunque (visto che l'autore della Pharsalia era considerato già nel Medioe­ vo "il meno bugiardo dei poeti", ovvero un poeta-storico), indi­ rettamente anche alla storia, che già per Cicerone era opus orato­ rium maxime; tuttavia, dopo che nel programmatico Sermo I «la concreta certezza delle res gestae è andata irrimediabilmente per­ duta o confusa tra le vane apparenze dellefabulae» 1 , ora il pub­ blico non può che richiedere a Codro (§ 40) un pezzo di bravura retorico, vale a dire una declamatio, per dirimere l'annosa questio­ ne della collocazione di Lucano tra gli auctores antichi (uno stori­ co, un poeta, l'uno e l'altro insieme, nessuno dei due?); ma Codro, eludendo la richiesta, finisce per rispondere, sulla scorta del giu­ sto mezzo aristotelico, che la materia narrata nella Pharsalia av­ vince perché non è né troppo antica né troppo recente (§ 90). Tuttavia, in mezzo a tanti echi di dispute tra le arti e di defi­ nizioni teoriche interne al campo umanistico stesso, questo Ser­ mo potrebbe essere definito non impropriamente il "Sermo in lo­ de della bellezza". Antico era d'altronde il nesso tra la bellezza e le 1. B.

Stasi, Apologie umanistiche della historia, CLUEB, Bologna 2004, p. 192. 271

capacità persuasive della parola. Anche e soprattutto attraverso l'argomento della bellezza di Elena, infatti, Isocrate aveva prova­ to a riabilitare colei che la tradizione considerava la responsabile della guerra di Troia, componendo non una semplice apologia che la scagionasse da una colpa infamante, come aveva fatto il suo maestro, Gorgia da Leoncini, ma tessendone addirittura un en­ comio: l'Encomio di Elena dovette al tempo apparire paradossa­ le per una donna che era stata all'origine di tanti lutti e dolori, ma riscosse non poco successo. L'operetta del retore greco amato da Codro, già tradotta anni prima dall'umanista Martino Filetico, fece probabilmente da nucleo ispiratore per questo Sermo: pare, se non confermarlo, almeno suggerirlo, il fatto che una traduzio­ ne latina dell'orazione si legge in una miscellanea di studi appar­ tenuta al bolognese Pirro Vizzani, che di Codro fu allievo, la qua­ le si conserva oggi presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Fi­ renze con segnatura II VII 125 (cc. 178r-184v). Se nel Sermo I è in atto una polifonia a tratti caotica, qui la sermocinatio si attua nella prima parte in un dialogo tra il profes­ sore, ormai vecchio e stanco, e il suo pubblico, da cui si staglia, fra le tante autorità, il profilo del collega Filippo Beroaldo e dei pro­ fessori di filosofia Federico Gambalunga, Galeotto Beccadelli, Alessandro Achillini; per i suoi ascoltatori, giovani e meno gio­ vani, che costituiscono quasi un'entità collettiva, Codro è ormai, dopo diciassette anni di insegnamento, un professore che di­ spensa saggezza con humour e creatività, tanto che tutti aspetta­ no le sue lezioni inaugurali alla stregua di uno spettacolo. Prima di cominciare, però, a vestire gli abiti del suo personag­ gio prediletto, Urceo si cala nei panni di bolsi lettori di umanità, attuando una sorta di stilizzazione parodica delle lezioni che nor­ malmente gli studenti dovevano ascoltare nelle aule dello Studio. Il pubblico insorge a più riprese nel sentire il suo idolo prima rac­ contare pedissequamente la vita di Lucano, poi riassumere le vi­ cende narrate dal suo poema, vale a dire la guerra civile tra Pom272

peo e Cesare: sta infatti dicendo cose notissime, saccheggiando Floro e Svetonio, e non aggiunge niente che non si possa trovare già nei commenti di Ognibene da Lonigo (1475, poi 1486) o di Sulpicio da Veroli (1493). Va ancora peggio quando il Nostro pro­ va a rifilare ai suoi ascoltatori qualche trita definizione delle parti della retorica, comunicando l'impressione di una chiusura men­ tale che fa orrore a chi ben conosce l'ormai proverbiale verve dei suoi discorsi. È solo a questo punto, dopo essere stato ripreso, sti­ molato e incoraggiato più volte, che Urceo la smette di schermir­ si e assume ancora una volta la maschera di Codro. Messo dunque da parte ogni protocollo "deontologico" (alla praelectio era infatti affidato il ruolo di definizione e delimitazio­ ne del genere letterario cui afferiva il testo oggetto dell' expositio ), il maestro dellefabulae si profonde, da par suo, in un inno alla bel­ lezza dove le citazioni si susseguono una dopo l'altra, liberamen­ te tratte dai classici greci e latini, portate a nuovi sensi o persino stravolte affinché si adattino all' intentio del discorso: esemplare il passo in cui Codro sostiene che nel celebre giudizio sul monte Ida Paride avrebbe scelto Venere, che gli aveva promesso in cambio Elena, perché attirato dalla bellezza straordinaria della figlia di Zeus, mentre Isocrate dice espressamente che «Paride scelse Ele­ na mirando non al piacere [ ... ] ma aspirò a diventare genero di Zeus», ritenendo inoltre «di non poter lasciare ai suoi figli un'e­ redità più bella che se avesse procurato loro di essere discendenti di Zeus non solo da parte di padre ma anche da parte di madre» (Encomio di Elena, 42-43); altrettanto istruttivo il luogo in cui, con disinvoltura, il Nostro porta esplicitamente Agostino dalla sua parte ( «Augustini dictum quoddam ad propositum nostrum convertamus» ), facendogli dire «nascere bello è un felice colpo di fortuna» invece di «nascere intelligente è un felice colpo di fortuna», come correttamente si legge nel quarto libro del De ci­ vitate Dei. Ma, più in generale, il tono a tratti goliardico e il clima edonistico creato da Codro - tale da non rendere inopportuno 2 73

un richiamo al primo libro del De verofalsoque bono di Lorenzo Valla, dove parimenti si reca omaggio alla bellezza - allontanano questo Sermo da quell' «appassionato e lirico elogio della bellez­ za» incastonato proprio nel mezzo (§§ 54-58) dell'orazione iso­ cratea, dove essa, come nel Convito e nel Fedro platonici, è senti­ ta quale mezzo di elevazione umana e di conoscenza superiore; nelle parole di Codro, che non possono non suonare come bona­ riamente beffarde anche verso le istanze speculative del circolo fi­ ciniano, la bellezza è invece ben lungi dal diventare il paradigma di un'idea astratta e universale, concretandosi in un processo me­ tonimico attraverso il quale il reale si scompone, si sgrana, in elen­ chi potenzialmente infiniti di cose belle. La concretezza padana del reale sembra qui trovare, prima che in Tommaso Garzoni e in Giulio Cesare Croce, un altissimo specimen letterario, che si deve avvertire in contrasto rispetto alla cultura simbolica ed ermetica che in quegli stessi anni andava suggestionando anche il com­ mentator bolognese per eccellenza, Filippo Beroaldo. A proposito di particolari, scorci e metonimie, nella declina­ zione peculiare del genere umanistico della laus urbis ( «Preterea in pulchra sumus urbe, pulchras domos habemus, pulchra preto­ ria, pulchra plateas, pulchras vestes, pulchros libros» ), pare da Codro ripristinato e reinventato quel particolare tipo di plazer trobadorico in cui il poeta elenca le bellezze della donna amata, ad esempio Albertet, Forfagz vas vos 31-37: «Bellas fazos, bel viz plazent e dar, / bel flanc, bels oilz, bella bocha rien, / bel cors ben fag, amoros e plazen / avetz» ( «Belle maniere, bel viso, grazio­ so e chiaro, bei fianchi, begli occhi, bella bocca sorridente, un bel corpo ben fatto, amoroso e grazioso - voi avete tutto questo» )2 • Questo elogio di Bologna anticipa di quattro secoli l'appassiona2. C. Giunta, Introduzione, in Dante, Opere, edizione diretta da M. Santaga­ ta, vol. I, Rime, Vita nova, De vulgari eloquentia, Mondadori, Milano2011, p. 29.

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ca e giustamente famosa lode della città felsinea tessuta da Gio­ sue Carducci per l'Esposizione del 1888: Amo Bologna, per i falli, gli errori, gli spropositi della gioventù che qui lietamente commisi e dei quali non so pentirmi [ ... ] Ma più l'amo per­ ché è bella. A lei anche infocata nell'estate, torna il mio pensiero dalle ci­ me delle Alpi e dalle rive del mare. E ripenso a momenti con un senso di nostalgia le solenni strade porticate che paiono scenari classici, e le piaz­ ze austere, fantastiche, solitarie, ove è bello sperdersi pensando nel ve­ spero di settembre o sotto la luna di maggio, e le chiese stupende [ ... ] , e i colli [ ... ] e la Certosa [ ... ] Bologna è bella. Gli italiani non ammirano, quanto merita, la bellezza di Bologna [ ... ] Ma non sta bene catalogare le bellezze della donna amata in presenza del pubblico.

Gorgia termina il suo Elogio di Elena affermandone la natura di na{yv Lov (/usus, gioco). Codro termina invece il suo giocoso inno alla bellezza - e, in maniera metatestuale, anche alla retorica, che quella bellezza è in grado di esaltare - con una nota amara, pur presentata sotto le fattezze dell'aneddoto faceto: lo scambio di argomentazioni sofistiche, annullantesi reciprocamente, fra il primo retore Corace e il suo allievo T isia, inquieta perché mette in evidenza le enormi possibilità offerte dalla retorica non di por­ tare a galla, ma di eclissare la verità, come Platone aveva messo in guardia nel Gorgia. La persuasione dunque, lungi dall'essere l'op­ posto della costrizione, ha, come sostiene Gorgia, il suo stesso potere, «anche se non ha lo stesso discredito» (Encomio di Ele­ na 12). Prima di chiudere col consueto benevolo sorriso, il Sermo offre così lo spunto per una profonda riflessione, ricordandoci che nel serio ludere praticato da Codro, come del resto già da Leon Battista Alberti, accanto al luminoso piacere del gioco sta il cono d'ombra della verità.

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Antonii Codri Urcei sermo secundus habitus in enarratione rhetorices et Lucani

[c. E4v]

(1) «Magnam litteratae iuventutis moltitudinem huc ad

me audiendum hodie confluxisse video, viri praestantissimi, ea ut arbitror ratione, quia putant se aliquid novi, aliquid maioris doctrinae ac eruditionis a me auditum ire, postquam intellexe­ runt me huic novae lectioni et magnis collegis hoc anno fuisse ascriptum. ( 2) Huic opinioni, prius quam de lectionibus quas in­ terpretaturus sum verba faciam, volo occurrere, ne tanta virorum eruditorum concio quae honoris mei gratia huc convenit, omni­ no decepta ac frustra convenisse videatur. (3) Ego hanc lectio­ nem petivi quidem et petitam una cum erudito socio impetravi et impetratam libenter assumpsi, ex quo immortales gratias prin­ cipibus nostris ago a quibus omnis honor, omne emolumentum, omnis utilitas in populum defluit ac gubernatur. (4) Verum non ambitione, aut mentis tumore quodam, ut fortasse putatis, hoc a me factum est, quoniam hoc vicium nunquam in me fuit: quod qui in hac urbe fuerunt his septemdecim annis praeteritis videre potuerunt ut humiliter ut mansuete inter discipulorum meorum cathedras versatus fuerim. (5) Neque id etiam feci quod me so­ ciis meis, qui ingenio, memoria, affìnitatibus, propinquis opibu­ sque praestantiores sunt, exaequare voluerim, et precipue Phi­ lippo Beroaldo, quem per excellentiam quandam 'Commenta­ torem Bononiensem' appellare soleo, et certe, quoniam illum praesentem video, hac de eo utar dicendi modestia, ut dicam il­ lum quidem fortasse aliquos ingenio et doctrina pares habere, neminem vero superiorem. ( 6) Quod si vel stultitia vel levitate aliquem tentarem, profecto in illud ranunculi dictum facile in­ currere possem, "non si te ruperis". (7) Scitis enim fuisse olim quendam taurum ingentem qui sitis sedandae gratia paludem petierat, et petendo ranunculos quosdam forte contriverat prae­ ter unum qui aufugiens matri narravit fratres ab ingenti bellua

Secondo discorso di Antonio Urceo Codro tenuto sulla retorica e su Lucano

(1)

«Vedo, uomini chiarissimi, che oggi è venuta ad ascoltarmi una gran folla di giovani eruditi, e penso per questo motivo, per­ ché, dopo aver appreso che quest'anno mi sono stati assegnati una nuova lettura1 ed esimi colleghi, credono di sentire da me qualcosa di nuovo, di somma dottrina ed erudizione. (2) Voglio rispondere subito a questa aspettativa, prima di proferir parola sui testi che commenterò, perché una tale adunanza di saggi ac­ corsi qui in mio onore non sembri essersi del tutto ingannata e raccolta inutilmente. (3) lo in verità ho richiesto questa lettura e una volta richiestala, assieme a un amico erudito2, e ottenutala, l'ho assunta volentieri, per cui rendo grazie immortali ai nostri principi dai quali deriva e consegue ogni onore, ogni ricompen­ sa, ogni bene per il popolo. (4) Ma non l'ho fatto per ambizione, o per una qual sorta di presunzione, come forse pensate, dal mo­ mento che non ebbi mai questo vizio, poiché coloro che sono sta­ ti in questa città negli ultimi diciassette anni hanno potuto con­ statare quanto gentilmente e mitemente mi sia aggirato tra i ban­ chi dei miei allievi. (5) E neppure l'ho fatto perché desiderassi eguagliare i miei colleghi, che per ingegno, memoria, sostegno dei parenti acquisiti, di quelli di sangue e sostanze sono migliori di me, e soprattutto Filippo Beroaldo3 , che per una particolare eccellenza sono solito chiamare 'il commentatore bolognese' e, poiché vedo che è presente, parlerò di lui in termini moderati, di­ cendo che forse qualcuno è pari a lui per ingegno e dottrina, ma certamente nessuno gli è superiore. (6) Che se per stoltezza o leg­ gerezza io sfidassi qualcuno, potrei sicuramente incorrere in quel detto del ranocchio, "nemmeno se scoppi". (7) Sapete infatti che una volta ci fu un grosso toro che cercava una palude per placare la sete, e camminando aveva calpestato senza volerlo alcuni ra­ nocchi, tranne uno che, fuggendo, riferì alla madre che i fratelli 277

fuisse pertritos. Mater, quae fìlio se ostendere volebat esse ingens animai, inflari coepit et rogavit num tanta fuisset illa bellua. Ille "multo - inquit - maior". Illa iterum inflari et redinflari perse­ veravit. Hoc videns fìlius: "Non si te ruperis - inquit - par eris". (8) Quod dictum in proverbium elegans venie in eos qui parvae conditionis existentes se maioribus aequare conantur. Illud prae­ terea proverbium graecum ne hoc faciam me movet: "-rà a,cun, �ÀeneLv ", id est "scuticam aspicere iubeo" quo usus est Aristo­ phanes et alii scriptores graeci in eos qui renitentes maioribus fla­ gello castigantur ». (9) «Quare ergo hoc a te factum est?». (10) «Cogente paupertate scilicet et rerum domesticarum an­ gustia. Speravi enim si hanc lectionem adeptus essem [c. E_5r] la­ boribus et vigiliis meis mercedem paulo ampliorem a principibus nostris datum iri, qua aetatem iam ingravescentem facilius su­ stentare possem; quod adhuc spero et, si quid veri mens augurar, opto. (11) Quamobrem, quoniam ante prandii horam lecturi su­ mus, si quis vestrum cupiat artolaganos delicatos, pultes opiparas et alios affluentes cibos petat collegas meos, quorum mensa "�'A.Lou -rpane�a" id est "mensa solis" appellari potest, adeo omnium re­ rum referta est et inexhausta semper et exuberans. Qui vero exop­ tat minuta! aliquid frugi et pythagoricum quale ab Orario expeti­ tur ("O quando faba Pythagorae cognata simulque / uncta satis pingui ponentur holuscula lardo? / O noctes coenaeque deum" ), petat Codrum, qui puero suo accurate praecipiet (''unge unge, puer, caules!" ), ut vos suaviter et salubriter pro copia sua possit accipere. (12) Sed iam optimum factu est ut de scriptoribus quos lecturus sum verba faciam. Ex latinis elegi Lucanum et rhetoricos libros ad Herennium sive a M. Cicerone sive ab alio quopiam, ut reor, scriptos. Ex graecis Homerum et aliquem Luciani dialo-

erano stati stritolati da una grossa bestia. La madre, che voleva mostrare al figlio che anch'ella era un grosso animale, prese a gon­ fiarsi tutta e gli domandò se quella bestia era grossa così. "Molto più grossa" rispose quello. Ella allora continuò a gonfiarsi di più, e ancora di più. Vedendo ciò, il figlio disse: "Nemmeno se scop­ pi sarai uguale"4 • (8) Tale detto è divenuto un elegante proverbio riguardo coloro che, di umile condizione, si sforzano di egua­ gliare i più grandi. Inoltre quel proverbio greco mi induce a non far ciò, "-rà CilCUTI'] �Àenel'v" cioè "provare lo scudiscio" che hanno usato Aristofane e altri scrittori greci 5 contro coloro che, disob­ bedienti ai superiori, furono puniti col flagello». (9) «Per quale motivo dunque hai accettato?». (ro) «Per la pressante povertà, ovviamente, e per l'esiguità delle risorse domestiche. Speravo infatti che, una volta ottenuta questa lettura, mi sarebbe stata data dai nostri principi una ri­ compensa un po' più ampia per le mie fatiche e le mie veglie6, con cui poter sostenere più facilmente il peso di un'età sempre più gravosa; cosa che ancora spero e desidero, se la mia mente non si inganna7• (n) Perciò, poiché leggeremo prima dell'ora di pranzo, se qualcuno di voi desidera focacce fragranti e ricca farinata e al­ tra dovizia di cibi, chieda ai miei colleghi, la cui mensa si può chiamare "�'lLou -rpàne�a", cioè "mensa del sole", tanto è piena sempre di ogni cosa, imbandita e ricca. Ma chi opta per una fri­ cassea8, qualcosa di frugale e pitagorico come è richiesto da Ora­ zio ("Quando mi si porranno in tavola le fave parenti di Pitago­ ra e verdure unte di grasso lardo in abbondanza? Notti e cene di­ vine" 9 ) cerchi pure Codro, che insegnerà con cura al suo allievo (''ungi, ragazzo, ungi i cavoli!" 10 ) , così che possa accogliervi con dolcezza e affetto nella sua schiera. (12) Ma ormai è giunto il mo­ mento di dirvi qualcosa sugli scrittori che ho intenzione di leg­ gere. Tra i latini ho scelto Lucano e i libri della Retorica a Eren­ nio composti da Marco Cicerone o, come io sono convinto, da un altro autore. Fra i greci Omero e un dialogo di Luciano, che agli 279

gum, qui auditoribus aptior videbitur. (13) De Lucano locuturus, nescio quid agam, unde incipiam, nihil utique vellem recitare quod aures vestras offenderet et culpam mihi non laudem refer­ ret. (14) Vultisne sic incipiam? Corduba nobilis civitas fuit et est (ut reor) in ea Hispaniae parte quae Baetica a Baeti fluvio dieta est. Eam coloniam patriciam fuisse cognominatam, refert Plinius, a patriciis fortasse Romanis a quibus deducta est; hinc orta est illa celebris et clara Annaeorum familia ex qua fuerunt Seneca, Gal­ lio et Mela1 fratres. (15) Hi Romam temporibus Claudii romano­ rum lmperatoris se contulerunt et Seneca Neroni praeceptor da­ tus est. Ex Mela natus erat paulo ante Lucanus de quo nunc lo­ quimur, III nonas novembres L. Germanico et L. Caesiano consu­ libus, et Lucanus dictus est a nomine avi materni: mater enim eius Acilia fuit, fìlia Acilii cuiusdam Lucani dari inter oratores inge­ nii. (16) Dicitur autem Lucanus optimos ac eminentissimos ha­ buisse praeceptores, sub quibus ita perfecit ut non tantum condi­ scipulos superaverit, sed et praeceptores ipsos aequaverit. Quare, in arte poetica et oratoria praecellens, tanta dulcedine declamavit ut in Neronis principis amiciciam ab initio facile insinuaverit et quaesturam et sacerdotium quoddam adeptus fuerit. (17) Deinde principis benivolentia in odium versa est. Nam, cum Nero in re­ citationibus theatralibus neminem vellet habere parem, coepit Lucani carminum famam praemere et ne illa Lucanus ostentaret prohibere. (18) Quamobrem cum fìeret per C. Pisonem quaedam in Neronem coniuratio, Lucanus illi adhaesit et ita animose se ge­ rebat ut omnia fere eius consilio regerentur; sed tandem detecta coniuratione, inter coniuratos Lucanus captus est et a principio nihil fatebatur, post, promissa impunitate, ut scribit Cor. Tacitus, Aciliam matrem nominavit. [c. E5v] (19) Verum ea promissio va­ na fuit. Nam punitis multis ex eo numero coniuratis, Lucani mors cuidam Mario demandata fuit. Is in balneo resectis venis, ut idem 1.

Mela ] Melas. 280

ascoltatori sembrerà più adatto. (13) Sono pronto a parlare di Lu­ cano, ma non so che cosa dirò, da dove comincerò, attento a non dire assolutamente nulla che offenda le vostre orecchie e che mi arrechi colpa piuttosto che lode. (14) Volete che cominci così? Cordova fu ed è (come credo) una famosa città in quella parte di Spagna che è detta Betica dal fiume Beti 11 • Plinio riporta che quella colonia fu chiamata Patrizia forse proprio da quei patrizi romani dai quali fu fondata12 ; da qui viene la celebre e illustre fa­ miglia degli Annei a cui appartennero i fratelli Seneca, Gallione e Mela. (15) Costoro si recarono a Roma ai tempi dell'imperato­ re Claudio e Seneca fu dato a Nerone come precettore. Da Mela era nato poco prima il Lucano di cui ora parliamo, il 3 novembre dell'anno in cui erano consoli Lucio Germanico e Lucio Cesia­ no, e fu così chiamato dal nome del nonno materno: sua madre infatti fu Acilia, figlia di un Acilio Lucano oratore di insigne in­ gegno. (16) Si dice che Lucano abbia avuto ottimi e celeberrimi precettori, sotto i quali si perfezionò a tal punto non solo da su­ perare i compagni, ma da eguagliare persino i precettori. Perciò, eccellente nell'arte poetica e oratoria, parlava in pubblico con tanta dolcezza da entrare presto in amicizia col principe Nerone e da conseguire la questura e la dignità sacerdotale. (17) Poi la be­ nevolenza del principe si mutò in odio. Siccome Nerone non vo­ leva avere pari nelle recite teatrali, cominciò ad affossare la fama delle poesie di Lucano e gli proibì di recitarle in pubblico. (18) Per questo motivo, al momento della congiura contro Nerone or­ dita da Gaio Pisone, Lucano vi aderì e si comportò così animo­ samente che quasi ogni cosa era guidata dal suo consiglio; ma, quando infine la congiura fu scoperta, Lucano fu tra i cospirato­ ri catturati e all'inizio non confessò nulla, poi, promessagli l'im­ punità, come scrive Cornelio Tacito, fece il nome della madre Acilia. (19) Ma la promessa che gli era stata fatta fu vana. Infatti, puniti molti congiurati di quella schiera, la morte di Lucano fu affidata a un certo Mario. Lucano, tagliatosi le vene nella sala da 281

refert Tacitus, "profluente sanguine uhi frigescere pedes manus­ que et paulatim ab extremis cedere spiritum, fervido adhuc et compote mencis pectore intelligit recordatus carmen a se com­ positum quo vulneratum militem per eiusmodi mortis imagi­ nem obiisse tradiderat, versus ipsos retulit acque haec illi supre­ ma vox fuit". (20) Si quis versus illos scire cupit invisat nonum Pharsaliae librum, uhi reperiet: "Impressit dentes haemorrois aspera Tullo / magnanimo iuveni miratorique Catonis". In quo­ rum periodo ea verba leccitabat: "Omnia plenis / membra fluunt venis totum est pro vulnere corpus". (21) Periit itaque, ut scribi­ tur, "pridie chalendas maias, Attico Vestino et Nerva Syliano consulibus, XXVII aetacis anno". Habuit autem uxorem quae die­ ta est Polla Argentaria, quae magno affectu Lucanum coluit adeo ut ei post mortem sacrificaret die natali. (22) Unde illud epi­ gramma Martialis extat: "Haec est illa dies quae magni conscia partus / Lucanum populis et cibi, Polla, dedit. / Heu Nero cru­ delis nullaque invisior umbra, / debuit hoc saltem non licuisse ci­ bi!". Et item illud: "Vacis apollinei magno memorabilis ortu / lux redit: Aonidum turba, favete sacris. / Haec meruit, cum te terris, Lucane, dedisset, / mixtus Castaliae Baecis ut esset aquae". (23) Praeterea Statius in Si/vis Lucani genethliacum scripsit ad Pollam: "Lucani proprium diem frequentet / quisquis collibus Isthmiae Diones / docto pectora concitatur oestro': et paulo post: "Luca­ num canimus, favete linguis; / vestra est ista dies, favete, Musae, / dum qui vos geminas tulit per artes / et iunctae pede vocis et so­ lutae, / Romani colitur chori sacerdos" ».

bagno, come riferisce lo stesso Tacito, "mentre il sangue gli flui­ va dalle vene, quando s'accorse che il gelo si diffondeva nei piedi e nelle mani e che a poco a poco gli spiriti vitali abbandonavano le estremità, con piena lucidezza di mente si rammentò un carme ch'egli aveva composto per rappresentare un soldato ferito che moriva come lui; recitò quei versi, che furono le ultime sue paro­ le" 13. (20) Se qualcuno desidera conoscere quei versi guardi nel nono libro della Farsalia, dove troverà: "Una crudele emorrois conficcò i denti su Tullo, magnanimo giovane e grande ammira­ tore di Catone" 14. In quel frangente andava recitando queste pa­ role: "Le membra colano a piene vene, il corpo è una sola ferità' 1 5 . ( 21) Morì così, come sta scritto, "l'ultimo giorno di aprile, a ven­ tisei anni, l'anno in cui erano consoli Attico Vestino e Nerva Si­ liano" 1 6. Ebbe anche una moglie che si chiamava Polla Argenta­ ria, che venerò Lucano con sì grande amore che dopo la morte di lui prese a far sacrifici nel giorno del suo compleanno. (22) Resta ancora a testimoniarcelo quell'epigramma di Marziale: "Questo è il giorno, testimone di una illustre nascita, che diede a te, o Pol­ la, e al mondo Lucano. Ahimè! O Nerone crudele e per nes­ sun'altra uccisione più odioso, almeno questo delitto non dove­ va esserti permesso!" 17. E sempre lui: " Torna il giorno memora­ bile per l'illustre nascita del vate apollineo: o schiera numerosa delle Muse, sii favorevole al sacrificio. Poiché questo giorno ha dato al mondo te, o Lucano, ha meritato che il Beti mescolasse le sue acque con quelle della fonte Castalià' 1 8. (23) Inoltre Stazio nelle Selve compose per Polla il canto genetliaco di Lucano: ''Ac­ corra alla celebrazione del giorno genetliaco di Lucano chiunque sulle colline di ione Isernia, invasato nell'animo da una dotta ispi­ razione, beve l'acqua del cavallo volante" e poco oltre: "Noi can­ tiamo Lucano, fate religioso silenzio; questo giorno è vostro, o Muse: siateci propizie mentre colui che vi esaltò atraverso la du­ plice arte e della parola legata al metro e di quella libera da vin­ coli del ritmo, è celebrato come sacerdote del coro di Romà'»1 9.

(24) «Sed iam Codre tace et ne ista nobis recita quae iam pri­ dem audivimus et legimus! Hic habemus duo in Lucanum com­ mentaria, in quibus et ea quae dixisti et alia plura scripta sunt; ha­ bemus et Statii genethliacum carmen commentatum, in quo de­ scribit opera quae Lucanus composuit et in primo aevo et mox in iuventa et ipsum Homero, Virgilio, Lucretio et multis aliis prae­ ponit poetis et Pollam laudat et dicit fuisse doctam et ingenio de­ coram, forma, simplicitate, comitate, censu, sanguine, gratia, de­ core. ltaque si quid aliud habes nobis bene audientibus refer ». (25) «Vultisne materiam belli civilis inter Pompeium et Cae­ sarem exponam? Accipite ergo summatim. Anno septuagentesi­ mo fere ab urbe condita, Romana res publica in trium nobilium virorum potestatem pervenit, Crassi scilicet Pompeii et Caesaris. (26) Crassus genere, divitiis, dignitate florebat. C. Caesar elo­ quentia et spiritu etiam consulatu allevabatur. Pompeius tamen super utrumque eminebat. (27) ltaque Caesar Galliam invasit, Crassus Asiam, Pompeius Hispaniam. Sed Crassus apud Parthos cum fìlio et XI legionibus interfectus fuit. Iulia, Caesaris ftlia, quae nupta Pompeio generi socerique [c. E6r] concordiam matrimonii foedere tenebat, e partu mortua est. (28) Quibus de rebus statim aemulatio erupit. lam Pompeio suspectae Caesaris opes et Caesa­ ri pompeiana dignitas gravis, nec is ferebat parem nec ille supe­ riorem. (29) Quare de successione Caesaris in senatu actum est et Domitius successor est designatus, nec Caesar abnuebat, si ratio eius consulatus proximis comitiis haberetur, qui a tribubus decem ei fuerat decretus et nunc, dissimulante Pompeio, negabatur. (30) Sed cum Caesar non se remissurum exercitum diceret nisi decre­ ta servarentur, cune in eum ut in hostem decernitur; ipse vero, ut sublatam tribunorum intercessionem et illos urbe cessisse intel-

(24)

«Ora basta Codro, non recitarci questi versi che abbia­ mo già ascoltato e letto. Abbiamo oggi due commenti a Luca­ no20 , in cui si trovano le cose che hai detto e molte altre; abbia­ mo anche il carme genetliaco di Stazio con commento21 , in cui si descrive l'opera che Lucano compose sia nella sua adolescenza che nella giovinezza, e lo si antepone a Omero, a Virgilio, a Lu­ crezio e a molti altri poeti e si loda Polla e si dice che fu dotta e dotata di ingegno, bellezza, semplicità, affabilità, censo, schiatta, grazia, nobiltà. Dunque, se hai qualcosa di diverso, diccelo, sia­ mo tutt'orecchie ». (25) «Volete che esponga la materia della guerra civile tra Pompeo e Cesare? Eccovela, dunque, per sommi capi. Nell'anno settecentesimo circa dalla fondazione della città, la repubblica romana finì nelle mani di una triade di illustri uomini, e cioè Crasso, Pompeo e Cesare. (26) Crasso era insigne per nascita, ric­ chezze e prestigio22. Gaio Cesare si segnalava per l'eloquenza e il coraggio e ora anche per il consolato. Pompeo tuttavia spiccava sull'uno e sull'altro. ( 2 7) E così Cesare invase la Gallia, Crasso l'A­ sia, Pompeo la Spagna. Ma Crasso fu ucciso presso i Parti assie­ me al figlio e a undici legioni. Giulia, la figlia di Cesare che ave­ va sposato Pompeo e che teneva uniti il genero e il suocero col vincolo del matrimonio, morì di parto. (28) Da tutte queste cir­ costanze subito scoppiò la rivalità. Ormai a Pompeo era sospetta la potenza di Cesare e a Cesare pesava la posizione prestigiosa di Pompeo, né quello sopportava un pari grado né questi un supe­ riore. (29) Perciò si trattò in Senato della successione a Cesare e il designato a succedergli fu Domizio, né Cesare era contrario, se si fosse tenuto conto della sua candidatura a console nei succes­ sivi comizi, che gli era stata assegnata dalle dieci tribù e che ora gli veniva negata con le false manovre di Pompeo. (30) Ma poi­ ché Cesare diceva che non avrebbe congedato l'esercito se non si fossero rispettati gli accordi presi, allora si votò un decreto con­ tro di lui come fosse un nemico pubblico; ma egli, non appena

lexit, ad Rubiconem fluvium, qui provinciae eius fìnis erat, cum exercitu pervenit, quo traiecto, Ariminum cepit, Picenum, Um­ briam, Hetruriamque occupavit, Domitio, T hermo et Libone inde pulsis. (31) Cumque Pompeius et consules et pleraque no­ bilitas Brundusium confugissent, Caesar, secutus eos pene in portu, cepit. lnde postea Romam iter convertit et se consulem fe­ cit et aerarium iussu eius effractum spoliavit. (32) Quibus ita ge­ stis, validissimas Pompeii copias quae sub Petreio Afranio et Var­ rone legatis in Hispania erant invadere decrevit, quid cum face­ ret illa verba inter suos iactasse dicitur, se ire ad exercitum sine duce et reversurum inde ad ducem sine exercitu. (33) In eo itine­ re Masilia, Galliae urbs, ei portas clausit, quam Brutus (cui bel­ lum hoc demandatum fuit) brevi terra marique perdomuit. Ipse, in Hispaniam profectus, ancipiti et cruento bello agitatus, tan­ dem Petreium et Afranium, siti obsessos, in deditionem accepit et paulo post Varronem ultro cedentem, qui in ulteriore Hispa­ nia relictus erat. (34) Inde urbem repetiit et, ordinatis a tergo om­ nibus, in Macedoniam transgressus, Pompeium maximis quibus­ dam muris obsedit et adsiduis in Pompeianorum eruptione proe­ liis2. Caesar3 postea pharsalio praelio Pompeium fudit. (35) In quo quidem prelio quaedam Caesaris voces auditae sunt, una cruenta, "Miles, faciem feri", altera ad iactationem composita, "parce civibus". (36) Cum ipse sequeretur, Pompeius ergo profli­ gatus in Alexandriam profugit et Ptolomaei iussu occisus est. Caesar, eum secutus, oblato Pompei capite et annulo in quo erat ensifer leo, ingemuit et sepulturae mandari praecepit ». (37) «Nec ista nobis placent, Codre amantissime, quoniam nihil quam tuum sit dixisti, sed modo Florum, modo Svetonium, 2. adsiduis in Pompeianorum eruptione proeliis ] et in Pompeianorum erup­ tione. In questo punto il Sermo presenta un luogo oscuro di difficile interpreta­ zione. Si è comunque individuata la fonte che fa da ipotesto (Floro II 13, 39-40) a cui si è ricorsi per integrare e cercare di spiegare il testo di Codro. 3. Caesar ] Caesus.

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comprese che ai tribuni era stato sottratto il diritto di interces­ sione e che essi erano usciti dalla città, giunse con l'esercito al fiu­ me Rubicone, che era il confine della sua provincia, e, passatolo, prese Rimini e occupò il Piceno, l'Umbria, !'Etruria, scacciati da lì Domizio, Termo e Libone. (31) E poiché Pompeo coi consoli e la maggior parte della nobiltà si erano rifugiati a Brindisi, Cesa­ re, dopo averli inseguiti, li catturò che erano quasi nel porto. Da qui poi riprese la strada per Roma e si proclamò console e ordinò di scassinarne e spogliarne l'erario. (32) Fatto ciò, decise di andar contro le fortissime truppe di Pompeo che si trovavano in Spa­ gna sotto i legati Petreio, Afranio e Varrone, e si dice che nel far ciò si vantasse tra i suoi con queste parole, che egli andava contro un esercito senza generale e sarebbe tornato da là verso un gene­ rale senza esercito23. (33) In quel viaggio gli chiuse le porte Mar­ siglia, città della Gallia, che Bruto (cui era stata affidata questa guerra) sottomise in breve per terra e per mare. Egli, partito per la Spagna e travagliato da una guerra dall'esito incerto e cruenta, ricevette alla fine la resa di Petreio e Afranio, stremati dalla sete; dopo poco cedette anche Varrone, che era stato lasciato nella Spagna Ulteriore24. (34) Quindi tornò a Roma e, dopo aver si­ stemato ogni cosa alle spalle 2 5, passò in Macedonia e assediò Pompeo con torri gigantesche e frequenti battaglie durante le sortite dei Pompeiani. Cesare in seguito mise in fuga Pompeo nella battaglia di Farsalo. (35) In tale battaglie si udirono alcune frasi di Cesare, una crudele, "Soldato, colpisci il volto", l'altra det­ ta apposta per ottenere l'approvazione, "risparmia i concittadi­ ni" 2 6. (36) Mentre Cesare lo inseguiva, lo sconfitto Pompeo cercò scampo ad Alessandria, ma qui fu ucciso per ordine di To­ lomeo. Quando a Cesare che lo aveva inseguito furono mostrati la testa di Pompeo e l'anello nel quale c'era un leone che teneva una spada, egli pianse e ordinò che venisse sepolto» . (37) «Neanche queste cose ci piacciono, Codro carissimo, perché non hai detto niente di tuo, ma hai intrecciato questa

modo hunc modo alium scriptorem secutus, hanc narrandi se­ riem contexuisti. Nos autem ea iam audivimus et maiore ambitu ac eloquentia, et non tantum ea quae a Lucano scripta sunt, ve­ rum etiam quae scripta non fuerunt, ut quae facta sunt a Caesa­ re in Alexandria contra Ptolomaeum, in Lybia contra Iubam, Sci­ pionem et Catonem, in Hispaniam apud Mundam contra Pom­ peii fìlios, uhi in tanta angustia dicitur Caesar fuisse ut de nece [c. E6v] cogitaverit. Expectamus a te aliquid quam ex tua videa­ tur officina exiisse ». (38) «Postquam haec vobis non placent, transibo ad rhetori­ cen et exponam quid sit rhetorice, unde dieta, quis inventor eius fuerit, an ars, an utilis sit, quae materia, qui fìnis, quae causae sy­ statae, quae asystatae, qui ductus, qui colores, quid thesis, quid hypothesis... ». (39) «Eodem, Codre, revolveris: omnia enim haec scimus et habemus a Quintiliano et a commentatoribus nostris relata. lta ut non solum trita sint sed pertrita et retrita. Certe aut volunta­ tem non intelligis aut dissimulas. Audivistine superioribus annis eam declamationem quae facta fuit ab eo quem 'commentatorem Bononiensem' soles appellare de philosopho, oratore ac medico quis eorum esset civitati utilissimus? Tale quiddam ex te cupimus audire, uhi ingenii cui acumen, uhi argumenta callida intelliga­ mus. (40) Exempli causa, sunt quidam qui negane Lucanum esse poetam qua scripserit historiam, unde illud extat Martialis disti­ chon: "Sunt quidam qui me dicunt non esse poetam / Sed qui me vendit bybliopola putat". In quorum numero arbitramur fuisse Servium. Vellemus declamationem unam audire, qua ostenderes Lucanum poetam esse et non historicum, sive alteram qua histo­ ricum esse colligeres et non poetam; item tertiam qua et poetam

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rassegna di fatti ora seguendo Floro, ora Svetonio, ora questo, ora quell'altro scrittore. Queste cose noi le abbiamo già sentite, in contesti più eleganti e con più fine eloquenza, e non solo quei fatti che sono stati descritti da Lucano, ma anche quelli che non lo furono, come le azioni compiute da Cesare ad Ales­ sandria contro Tolomeo, in Libia contro Giuba, Scipione e Ca­ tone, in Spagna presso Munda contro i figli di Pompeo, dove si dice che Cesare fosse in tale difficoltà da pensare al suicidio. Ci aspettiamo da te qualcosa che sembri essere uscito dalla tua of­ ficina». (38) «Poiché questi racconti non vi piacciono, passerò alla re­ torica e vi esporrò cosa sia, perché sia detta così, chi sia stato il suo inventore, se sia un'arte, se sia utile, quale sia il suo oggetto, qua­ le il suo fine, quali cause siano fondate su ragioni motivate e qua­ li non lo siano, quali i modi di organizzare i fatti, i colori, cosa sia la tesi, cosa l'ipotesi...». (39) «Codro, siamo da capo: sappiamo già tutto di queste cose e le abbiamo apprese da Quintiliano e dai nostri commen­ tatori. Così non solo risultano cose trite, ma ritrite e stratrite. O non capisci la nostra richiesta o fai finta. Non hai sentito gli an­ ni passati quell'orazione tenuta da colui che sei solito chiamare 'il commentatore bolognese' sul filosofo, l'oratore e il medico, chi di loro sia il più utile alla città?27 Anche da te desideriamo ascol­ tare qualcosa del genere, da cui venga fuori l'acume del tuo inge­ gno, gli astuti ragionamenti. (40) Per esempio, ci sono coloro che negano che Lucano sia stato un poeta dal momento che descris­ se una storia realmente accaduta, donde ci resta quel distico di Marziale: "Ci sono alcuni che dicono che io non sono un poeta, ma il libraio che mi vende è del parere che lo sono" 28 • Nel cui no­ vero crediamo ci sia stato Servio. Vorremmo ascoltare una decla­ mazione in cui tu ci dimostri che Lucano è un poeta e non uno storico, oppure una in cui deduci che è uno storico e non un poe­ ta; poi una terza nella quale potresti mettere insieme tanto il poe-

iudicares esse et historicus; et quartam esset qua nec poetam nec historicum censeres appellandum». (41) «Teneo nunc animorum vestrorum intentionem. Ve­ rum haec magna sunt quae cupitis et uhi opus sic ingenio, inven­ tione, spacio temporis multo et praecipue mihi iam senescenti. Praeterea me ad infames etiam materias vocare videmini». (42) «Quidni? Uhi labor ingens, ibi4 gloria non tenuis. Zoi­ lum, qui ' Homeromastix' dictus est, odio habemus quod sua scripta contra lliadem et Odysseam composita regi Ptolemaeo re­ citavit, tamen scripta illius desideramus, non ut aliquid de home­ rica maiestate diminuere velimus sed ut viri ingenium adnotemus. (43) Idem de eo qui 'Ciceromastix' et de eo qui 'Virgiliomastix' cognominatus est sentire nos profìtemur. Quare tu quoque ali­ quid profer, ut anno fecisti superiore, uhi de veritate multa dixis­ ti, et aliis essent annis superioribus alia non dissimilia ». (44) «Id certe agebam et fecissem vero nisi me magnis distric­ tum rebus, legendi tempus praevenisset. Quare vos oratos velim, viri clarissimi, ut mihi deprecanti hanc veniam hoc anno detis meque missum faciatis aliquando et brevi vobis satisfacturum». (45) «"Causando nostros in longum ducis amores': Codre. Per magnanimi nostri Archidiaconi in Hierosolyma discessum, per lit­ tora, per portus, per freta, per urbes, per insulas quae illum susce­ perunt ac admiratae sunt, per alapas et pugnos et labores quos eius peregrini comites passi sunt, per loca illa sancta quae illae magno cum animi fervore visitavit, per eius reditum tam felicem tam po­ pulo Bononiensi gratum, oramus te ut, in tanta omnium nostrum laeticia, aliquid dignum te et facetiis tuis nobis cum silentio magno audientibus et expectantibus [c. F.zr] exponas».

4. ibi ] uhi.

ca quanto lo storico; e pure una quarta ce ne potrebbe essere, nel­ la quale dimostrare che non va chiamato né poeta né storico»2 9 • (41) «Adesso ho capito la vostra richiesta. Ma quelle che de­ siderate ascoltare sono grandi cose, per le quali c'è bisogno di in­ gegno, di inventiva e di molto tempo, molto soprattutto per me che son già vecchio. Inoltre mi sembra che voi mi invitiate ad ar­ gomenti privi di fama»30. (42) «E perché mai? Dove c'è un lavoro arduo, lì c'è anche una gloria non piccola3 1. Abbiamo in odio Zoilo32, detto 'la fru­ sta di Omero', perché recitò al re Tolomeo i suoi scritti composti contro l'Iliade e l'Odissea, e tuttavia rimpiangiamo i suoi scritti non perché vogliamo diminuire la grandezza di Omero, ma per­ ché vogliamo saggiare l'ingegno dell'uomo. (43) Lo stesso dicia­ mo apertamente di pensare a proposito di coloro che sono chia­ mati 'la frusta di Cicerone' 33 e 'la frusta di Virgilio'. Perciò anche tu portaci qualcosa, come hai fatto l'anno scorso34, quando hai detto molte cose sulla verità, e altre cose non dissimili si potreb­ bero trovare in altri corsi precedenti». (44) «Lo feci, certo, e l'avrei fatto anche quest'anno se non fossi stato preso da grandi occupazioni e avessi avuto il tempo di leggere. Perciò quest'anno vorrei pregarvi, uomini celeberrimi, di scusarmi e di lasciarmi andare3 5 e un giorno, presto, vi accon' tentero». (45) «"Con pretesti prolunghi il nostro desiderio" 3 6. Per la partenza del nostro magnanimo arcidiacono verso Gerusalem­ me3 7, per le spiagge, i porti, gli stretti, le città, le isole che lo ac­ colsero e lo ammirarono, per gli schiaffi, per i pugni e le fatiche che i suoi compagni di pellegrinaggio sopportarono, per quei luoghi santi che egli visitò con grandissimo fervore d'animo, per il suo ritorno tanto felice quanto gradito al popolo bolognese, ti preghiamo affinché, fra tanta gioia collettiva, tu esponga qualco­ sa di degno del tuo nome e del tuo humour, a noi che ascoltiamo e attendiamo nel più totale silenzio».

(46) «Acqui facetiae meam aetatem non amplius decent, et a

cavillantibus tanquam ridiculus convellor. Praeterea non hic dies est Martino festus et dictus, quo sermone uti licentiore fas est». (47) «Immo et te facetiae decent et praeter te fortasse nemi­ nem ex his qui dicunt, et hoc tempus omnem animi hilaritatem permittit et exposcit. Cavillantibus vero nescis illud Persianum re­ spondere "Hoc ridere meum tam nil nulla cibi vendo / Iliade"?». (48) «Agite ergo cum aequanimitate et silentio audiatis. Post­ quam ex latinis lectionibus nihil quam vobis cordi sic, elicere pos­ sumus ad graecas animum. lntendamus decimum octavum Ho­ meri librum (lecturus sum hoc anno) uhi Patrocli ab Hectore in­ terfecti 5 mortem mirabilem in modum deflet Achilles et mater T hetis cum Nymphis ad eum consolandum mari egreditur et, au­ di ca fletus causa, non inultum fore amicum pollicetur et arma a Vulcano fabricata se prolaturam promittit. Vulcanus autem arma in gratiam Nymphae molitur et praecipue in clypeo formando suam operam exercet acque consumit. (49) Videamus ergo: qua­ re Achilles ita misere Patrocli mortem deflebat? Quoniam scili­ cet ab eo vehementer amabatur. Et quare amabatur? Quia pul­ cherrimus erat. A pulchritudine igitur hic fletus tam acerbus ori­ ginem ducebat; ergo non omnino proposito nostro coniunctum, sed nec omnino separatum erit si de pulchritudine hic verba fa­ ciamus. (50) Nam et Achilles pulcher erat, et Nymphae pulchrae, et clypeus ille Vulcani pulcherrimus, utpote in quo terra, caelum, mare, infatigabilis sol, crescens luna, stellae omnes plurimaque alia et visu speciosa et ingenio elaborata visebantur. (51) Praete­ rea6 in pulchra sumus urbe, pulchras domos habemus, pulchra pretoria, pulchras plateas, pulchras vestes, pulchros libros, pul­ chrum auditorium, pulchros et pulchras principes, pulchros pue­ ros - puellas volui dicere -, pulchras feminas, pulchros viros, pul5. interfecti ] intefecti. 6. Praeterea ] Praetera.

(46) «Ma lo humour non si addice più alla mia età e sono preso di mira come un buffone dagli schernitori. Oggi poi non è il giorno di san Martino, in cui si può usare un linguaggio più libero»3 8 • (47) «Al contrario, lo humour ti si addice, si addice a te for­ se come a nessun altro che parla in pubblico, e questo momento permette e richiede ogni libertà d'animo39 • Non sai rispondere ai detrattori con quel verso di Persio "Questo mio ridere, sia pur co­ sa da nulla, non te lo vendo per nessuna Iliade"?»40 • (48) «Siate dunque buoni con me e ascoltate in silenzio. Dal momento che tra i testi latini non ne trovo uno che vi stia a cuo­ re, possiamo volgere l'attenzione a quelli greci. Prendiamo il di­ ciottesimo libro di Omero (che leggerò quest'anno), dove Achil­ le piange in modo mirabile la morte di Patroclo ucciso da Ettore e la madre Teti esce dal mare con le Ninfe per consolarlo e, ap­ presa la causa del pianto, giura che l'amico non rimarrà invendi­ cato e promette che gli porterà armi fabbricate da Vulcano. Vul­ cano dal canto suo prepara le armi come favore alla Ninfa e so­ prattutto nel forgiare lo scudo ci mette tutto se stesso. (49) Ve­ diamo dunque: perché Achille piange così disperatamente la morte di Patroclo? Ma perché evidentemente era da lui amato moltissimo. E perché era amato? Perché era bellissimo. Questo pianto tanto doloroso traeva dunque origine dalla bellezza; dun­ que, anche se non del tutto pertinente al nostro proposito, non sarà neanche fuori luogo dir qui due parole sulla bellezza. (50) In­ fatti sia Achille era bello, sia le Ninfe lo erano, sia bellissimo quel­ lo scudo di Vulcano, giacché in esso si potevano vedere la terra, il cielo, il mare, il sole infaticabile, la luna crescente e tutte le stelle e moltissime altre cose sia belle da vedere che create dall'ingegno. (51) Inoltre ci troviamo in una bella città, abbiamo belle case, bei palazzi, belle piazze, belle vesti, bei libri, un bell'uditorio, bei principi e belle principesse, bei fanciulli - volevo dire fanciulle belle donne, begli uomini, belli anche gli anziani, insomma a Bo2 93

chros etiam senes, omnia denique Bononiae pulchra. Certe haec orario omnibus est placitura. (52) «Atqui - dicet ille luscus, seu claudus - mihi sane non placebit, quoniam in formosorum or­ dine numerari non possum ». Sed et tu fortasse animo formosus es, quando pulchritudo tam animi quam corporis esse dicitur. Ad haec mirum erit, cum in hac sis urbe rebus pulcherrimis affluen­ te, quin tu pulchram rem aliquam diligas? ltaque et de pulchri­ tudine sermo cibi placeat necesse est. (53) De pulchritudine igi­ tur maxime corporis locuturi duo proponemus: primum illius dignitatem, deinde quonam modo aliquandiu pulchritudo ser­ vari possit, cum bonum fragile admodum sit nisi custodiatur. (54) Dignitatem pulchritudinis ex pluribus locis extollere posse­ mus, sed nunc tantum a tribus laudibus, a generalitate, a favore et a viribus. (55) Generalitatem pulchritudinis voco eius tam latis­ sime patentem naturam ut in omnibus fere [c. Fiv] rebus tam animatis quam inanimatis tam corporeis quam incorporeis esse possit: nam solem pulchrum, lunam pulchram, sidera pulchra appellamus, idem de fluminibus, montibus, vallibus, agris, ar­ boribus, segetibus, fructibus dicimus et mundum ipsum ab or­ natu nomen accepisse scimus (quedammodum et graece 1e60-t-toç ab nomine ornamenti appellatus est); (56) nec non hominem pulchrum, equum pulchrum, mulam pulchram, canem, accipi­ trem et alias aves bene a natura dotatas formosas esse predicamus, quin et animalium partes suam servare possunt speciem. Nam et capillos pulchros, pulchros oculos, pulchra supercilia, pulchrum pectus, pulchras manus, pulchros pedes laudamus et amamus. (57) Quid sit autem haec pulchritudo si quis quaerat, dicimus es­ se quandam absolutam elegantiam qua omne animai capiatur, hoc est ut proportione et symmetria convenienti compositum sit corpus et longitudo latitudini et latitudo altitudini correspon­ deant. Nam, ut de aliis animalibus taceam, cum caput hominis thoraci et thorax cruribus convenir illud corpus pulchrum esse

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logna tutto è bello41 • Questo discorso piacerà senz'altro a tutti. (52) «Ma - dirà il guercio o lo zoppo - a me di certo non pia­ cerà, perché non posso rientrare nel novero dei belli». Ma anche tu, forse, sei bello d'animo, dal momento che si definisce bellez­ za sia quella dell'animo sia quella del corpo. Del resto che ci sarà da stupirsi se, stando in questa città che abbonda di cose bellissi­ me, tu ami qualcosa di bello? Pertanto è naturale che ti piaccia anche il discorso sulla bellezza. (53) Volendo parlare soprattutto della bellezza del corpo, divideremo in due il discorso: per prima cosa del suo prestigio, poi in che modo possa conservarsi a lun­ go, essendo un bene piuttosto fragile, se non ce ne si prende cu­ ra. (54) Il prestigio della bellezza lo possiamo esaltare a partire da moltissimi brani, ma ora ci limitiamo a tre lodi, secondo la gene­ ralità, secondo il favore e secondo le forze. (55) Chiamo genera­ lità della bellezza la sua natura tanto scopertamente evidente da poter essere quasi in ogni cosa, tanto animata quanto inanimata, tanto corporea quanto incorporea: infatti chiamiamo bello il so­ le, bella la luna, belle le stelle, lo stesso diciamo dei fiumi, dei monti, delle valli, dei campi, degli alberi, delle messi, dei frutti, e sappiamo che il mondo stesso ha preso il suo nome dalla bellez­ za (dal momento che anche in greco 1e6 aµoç prende il nome dal nome dell'ornamento); (56) diciamo inoltre bello l'uomo, bello il cavallo, bella la mula, il cane, lo sparviero e gli altri volatili ben dotati dalla natura, anzi anche le singole parti degli esseri viven­ ti possono conservare una loro bellezza. Infatti lodiamo e amia­ mo i bei capelli, i begli occhi, le belle sopracciglia, il bel seno, le belle mani, i bei piedi. (57) Se qualcuno chiedesse cosa sia mai questa bellezza, diremmo che essa è una perfetta eleganza da cui ogni essere vivente è attratto, e ciò si verifica quando il corpo è composto di proporzioni e di armonica simmetria e quando tra lunghezza e larghezza e tra larghezza e altezza ci sia proporzione. Infatti, per tacere degli altri esseri viventi, diciamo che un corpo umano è bello quando la testa si armonizza bene col torace e il to295

dicimus. (58) Postea, accedente colore et succo, pulchrius acque venustius et fortius; unde "pulchrum" pro "forti" legimus a poeta dictum: "satus Hercule pulchro I pulcher Aventinus". (59) Si quis autem scire cupiat hominis bene formati commensus et propor­ tiones quibus antiqui pictores et statuarii nobiles usi magnas lau­ des sunt assecuti, invisat Vitruvii Pollionis librum tertium, uhi vo­ ti compos proculdubio fìet. (60) Nunc favorabilem esse pulchri­ tudinem ostendamus, ut illud Virgilianum approbemus: "Gratior et pulchro veniens in corpore virtus / adiuvat". In qua quidem parte non multum esset immorandum quando quidem non viri tantum periti sed etiam pueri rerum ignari certantibus seu luden­ tibus multis semper pulchrioribus favere consueverunt. (61 ) Exemplum Pelei et T hetidis nuptiae vobis quaerentibus praesta­ bunt. In quibus cum discordia proiecisset malum aureum cum hac inscriptione "� 1eaÀ� Àa�eTw" id est "pulchra capiat': orta est inter Iunonem Palladem et Venerem de pulchritudine dissensio. Eas ad Paridem Priami fìlium cune in Ida pastorem Iupiter misit: Paris, cum deas nudas contemplatus esset, pro Venere, quae ei pul­ cherrimam promisie uxorem Helenam, scilicet pronunciavic. (62) In quo quidem iudicio quattuor advertenda sunt: primum, quod pulchritudo anteposita fuit sapientiae et fortitudini quoniam in malo titulus erat "pulchra capiat"; alterum, quod ad formosum iudicem missae deae fuerunt, formosum enim Parim semper esse dicit Homerus; tertium, quod formosissima dea malum impetra­ vit; quartum, quod speciosissimam iudici feminam, Laedae for­ mosae fìliam, spopondit. ( 63) Favorabilis ergo est pulchritudo. Sed illud nonne admiratione dignum quod ab Homero in tertiam rhapsodiam Iliados relatum est? Uhi induci e seniores troianos una cum Priamo considere in turri quadam unde omnem troia­ norum et graecorum pugnam conspicere poterant; qui, cum He­ lenam illuc ascendentem [c. F2r] conspicati essent, alter alteri in­ susurrabat: "où VÉ [lEO"Lç T pwaç lCctl fUlCV� [l LÒctç AxaLoÙç / TOLfiò' à [lcpl

race con le gambe. (58) Poi, se si aggiungono il colorito e il vigo­ re, diventa più bello, più elegante e più forte; per cui leggiamo che il poeta ha usato "bello" al posto di "forte" in quel verso: "Ge­ nerato dal bell'Ercole, è bello Aventino" 42. (59) Se qualcuno in­ vece desidera conoscere le misure e le proporzioni di un uomo ben fatto, seguendo le quali gli antichi pittori e i celebri scultori ottennero grandi lodi, vada a vedere il terzo libo di Vitruvio Pol­ lione43 , dove senza dubbio verrà ampiamente soddisfatto. (60) Ora mostriamo come la bellezza sia gradita, per approvare quel detto virgiliano: "E il suo valore, che appare più gradevole in un bel corpo, lo sostiene" 44 • A questo riguardo certo non c'è bisogno di soffermarci molto, dal momento che non solo gli uomini esperti ma anche i fanciulli ignoranti sono sempre stati soliti fa­ vorire nelle lotte e nei loro giochi i più avvenenti. ( 61) L'esempio delle nozze di Peleo e Teti vi servirà per capire. In queste nozze, avendo generato discordia una mela d'oro recante la scritta "� 1eaÀ� Àa�ifrw" (cioè "la prenda la bella" ), nacque una contesa sul­ la bellezza tra Giunone, Pallade e Venere. Giove le mandò allora sul monte Ida, dal pastore Paride, figlio di Priamo: egli, dopo aver contemplato le dee nude, si pronunciò ovviamente in favore di Venere, che gli aveva promesso in sposa la bellissima Elena. (62) In questo giudizio vanno messe in evidenza quattro cose: primo, che la bellezza fu anteposta alla saggezza e al valore, perché l'i­ scrizione sulla mela era "la prenda la bella" ; secondo, che le dee furono mandate da un bel giudice, infatti Omero dice sempre che Paride è bello; terzo, che la dea più bella ottiene la mela ; quarto, che al giudice fu promessa una bellissima donna, la figlia della bella Leda. (63) Dunque la bellezza è favorita. Non è forse degno di ammirazione ciò che dice Omero nel terzo canto del1' Iliade? Qui presenta i più vecchi troiani a sedere con Priamo su una torre da cui si può vedere tutta la battaglia tra Greci e Troia­ ni; ed essi, essendosi accorti dell'arrivo di Elena, mormoravano fra loro: "où vé t,tecnç T pwaç lCctl EVlCV� t,t LÒaç AxaLoÙç / TOLfio' à t,tq>L 29 7

yuvaud 'ITOÀÙv xpovov 7 &Àyea 7rlieJXELV, / atvwç à9ava111 0-L8 9efiç etç wTia eoncev" id est "non indignum est troianos et bene armatos graecos pro tali femina tot mala tanto temporis spacio sustinere". (64) Et quare? Quoniam "aeternis facies nimis est aequanda dea­ bus" 9. O pulchritudinem favorabilem, o rebus omnibus propo­ nendam! Cuius haec sunt verba? Non Paridis qui eam rapuit, non alicuius iuvenis aut e plebe, sed senum et prudentissimorum et Priamo assidentium. (65) Et quam maius est, Priamus qui eam odio habere debuisset, cum tot fìlios decennali bello propter eam amisisset, audit haec et iuxta se vocans illam excusat negatque cau­ sam esse malorum Troianorum. (66) Et Phrynen meretricem iu­ dices Athenienses absoluerunt, non oratione Hyperidis - quam­ quam admirabili - persuasi, sed viso illius pectore, quod speciosis­ simum diducta veste nudaverat. O favorabilem pulchritudinem! ( 67) Huic meae sentenciae Cicero prudentissimus et eloquentissi­ mus orator astipulatur, cuius verba haec sunt: ''Adsunt Athenien­ ses unde humanitas, doctrina, religio, fruges, iura, leges ortae acque in omnes terras distributae putantur; de quorum urbis possessio­ ne propter pulchritudinem etiam inter deos certamen fuisse pro­ ditum est". Propter pulchritudinem Athenarum cercasse inter se Neptunum et Palladem Cicero testatur. O favorabilem pulchritu­ dinem! (68) ltaque Homerus poeta resonantissimus deos et deas pulchritudine ut plurimum ornavit et Iunonem '1eu1ewÀevov" " id est "ulnas albas habentem': et Palladem "ylauKW'ITLOa" idest "glau­ cis oculis" (quamvis ab aliis aliter dicatur) et Venerem "xpua-Y]v" idest "auream': et Apollinem "à1eepo-e1e6 [-tY]V" idest "intonsum" et "caesariatum" appellavic. (69) Et Maro reges et reginas induxit for­ mosas et antiquitas ipsa summa imperia pulchritudini saepe defe­ rebat unde extat ille versus "7rpw-rov [-tÈV eiooç à;(ov -rupavvlooç" ». (70) «Acqui pulchritudo multis nocuit et fuit multorum malorum et caedium causa». 7. xp6vov ] xp6vov. 8. à9ixvtiT'(J m ] à9ixvà-roem. 9. Esametro latino che traduce l'ultimo verso della citazione omerica.

)'UVctllCL -rroÀùv xpovov llÀy ect 7rfX CJXELV, / aivwç à9ava-rncn 9efiç eiç w-rrct fOLKev" 45 , cioè "Non è vergogna che i Teucri e gli Achei schi­ nieri robusti, per una donna simile soffrano a lungo dolori". ( 64) E perché? Perché "il suo aspetto è davvero paragonabile alle dee eterne". O bellezza gradita, da anteporre a tutte le cose! Di chi so­ no queste parole? Non di Paride che la rapì, non di qualche gio­ vane o di uno del popolo, ma di vecchi e molto saggi che sedeva­ no con Priamo. (65) E, ciò che fa ancora più effetto, Priamo, che avrebbe dovuto averla in odio, avendo per colpa di lei perso tan­ ti fìgli in una guerra decennale, ascolta tutto ciò, la chiama ac­ canto a sé, la scusa e nega che sia lei la causa delle sventure troia­ ne. ( 66) I giudici ateniesi assolsero la meretrice Frine46 non per­ ché persuasi dall'orazione di Iperide - per quanto ammirabile ma dopo aver visto il suo bellissimo seno, che, calate le vesti, ave­ va denudato47 • O gradita bellezza! (67) Questa mia sentenza è approvata da Cicerone, oratore saggissimo ed eloquentissimo, del quale sono queste parole: "Gli Ateniesi sono coloro da cui si crede che l'umanità, la dottrina, la religione, le messi, il diritto, le leggi siano nate e distribuite in tutto il mondo; città per il cui possesso, data la sua bellezza, è stato tramandato che sorgesse una contesa persino tra gli dei" 48 • Cicerone dice che per la bellezza di Atene hanno combattuto tra loro Nettuno e Pallade. O gradita bellezza! (68) E così il celeberrimo poeta Omero dotò di moltis­ sima bellezza gli dei e le dee e chiamò Giunone 'Aeu1ewÀevov': cioè "dalle bianche braccià: e Pallade "ylau1ew1rLoa': cioè "dagli occhi cerulei" (sebbene altri interpretino diversamente) e Venere "xpu011v", cioè "aurea", e Apollo "à1ee po-e1e6 t,tY) v", cioè "dai lunghi capelli" e "zazzeruto". ( 69) Anche Virgilio rappresentò come bel­ li re e regine e gli antichi stessi conferivano spesso alla bellezza un potere enorme, da cui quel famoso verso: "un bell'aspetto è il pri­ mo requisito per regnare" »49 • (70) «Ma la bellezza nocque a molti e fu causa di parecchi mali e uccisioni». 299

«Commune id malum est: moriuntur enim tam turpes quam pulchri, tam magni quam parvi, tam divites quam pauperes et plu­ res aliis de causis quam pulchritudine: "omnia mors aequat". (71) Sed hoc ego ad vires pulchritudinis extollendas argumentum du­ co, quod propter pulchritudinem multi ipsam mortem grandi animo petunt, quare poeta mantuanus dixit "pulchrumque mori succurrit in armis" et "pulchramque petunt per vulnera mortem". (72) Hippodamia, Oenomai in Arcadia regis fìlia, speciosissima fuit; quam cum multi proci uxorem peterent, pater hanc illis im­ posuit legem: ut aut eam curruli certamine superarent aut supe­ rati capite privarentur; et tamen nullus hanc Oenomai crudelita­ tem expavescens mortem fugiebat. (73) Magnas etiam vires habet pulchritudo, quae potest homines in saxa mutare, quod Medusa, Hesperidum pulcherrima, fecit; ita enim attonitos ita stupidos aspectu suo omnes intuentes faciebat, [ c. F2v] ut saxa dici posse viderentur. (74) Quae autem sit hominis aetas pulchrior, alias di­ sputabo, nec Homerum sequar, qui saepenumero exclamat "xapLscrra111 ��Y]", (75) 1am quomodo servetur aliquamdiu forma breviter disseramus. Servatur forma natura ut si quis natus sit sa­ nus sano patre et matre non morbosa, ut de Alcibiade legimus; servatur loco, ut scilicet loca vitentur pestilentia, unde Caunii propter malum patriae aerem valitudinarii erant et luridi; serva­ tur etiam cura et mundiciis, comendo, lavando, abstergendo cor­ pus. (76) Hoc tempore non loquor de pulchritudine fucata, quae fìt oesopis et aliis medicamentis quibus deformes feminae fìunt formosae (quamvis Ovidius dixerit: "multaque, cum fìunt turpia, facta placent" ); de naturali loquor pulchritudine, quae servatur etiam vitatis his quae eam corrumpunt. (77) Corrumpunt autem formam, crapula, ebrietas, libido nimia et aegritudines. Custo-

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«Questo è un male comune: muoiono infatti tanto i brutti quanto i belli, tanto i grandi quanto i piccoli, tanto i ricchi quan­ to i poveri, e i più di cause diverse dalla bellezza: "La morte ren­ de tutto uguale" 50 • (71) Ma per esaltare il potere della bellezza io adduco questo ulteriore argomento, e cioè che per lei molti af­ frontano la morte stessa con animo coraggioso, e perciò il poeta mantovano disse: "E mi sovviene una bella morte con le armi" e "Cercano con le ferite la bella morte" 5 1 • (72) Ippodamia, figlia del re d'Arcadia Enomao, era bellissima; ed essendo richiesta come sposa da molti pretendenti, il padre impose loro questa legge: che o la superassero nella gara di corsa o, qualora vinti, fossero deca­ pitati; e tuttavia nessuno, spaventato dalla crudeltà di Enomao, ebbe paura di morire 52 • (73) La bellezza ha anche questo potere, di trasformare gli uomini in sassi, cosa che fece Medusa, la più bella delle Esperidi; rendeva tutti coloro che la guardavano in volto chi attonito chi istupidito, tanto da sembrare dei sassi. (74) Di quale sia invece l'età più bella per l'uomo tratterò altrove, ma non seguirò Omero, che afferma frequentemente: "La giovinez­ za è l'età più bella" 53 • (75) Ora dirò rapidamente in che modo la bellezza possa conservarsi almeno per un po'. La bellezza si con­ serva naturalmente in quegli individui nati da un padre sano e da una madre non ammalata, come leggiamo di Alcibiade 54 ; si con­ serva grazie al luogo in cui uno abita, cosicché si evitino natural­ mente i luoghi pestilenziali, ragione per cui gli abitanti di Cau­ no, per l'aria malsana della patria, erano pallidi e malaticci; si conserva anche con la cura e la pulizia, mangiando, lavando e de­ tergendo il corpo. (76) Non parlo adesso della bellezza artefatta, che si può ottenere con unguenti cosmetici 55 e con altre erbe me­ dicamentose, grazie a cui le donne brutte diventano belle (seb­ bene Ovidio abbia detto: "molte cose, turpi quando si fanno, piacciono poi, una volta fatte" 56 ) ; parlo invece della bellezza na­ turale, che si conserva anche evitando quelle cose che la corrom­ pono. (77) Corrompono la bellezza la crapula, l'ebbrezza, l'ec301

diunt ergo formam abstinentia, castitas, sanitas et medicina con­ servatrix est sanitatis: medicina ergo pulchritudini confere. (78) Ad rem nostram redeamus. Cibi quoque nonnulli formam con­ servane, ut de leporina carne vulgo persuasum est - quam qui comederint septem diebus pulchri esse dicuntur - quod Mar­ tialis epigramma in Gelliam confirmat et ab Lampridio in Alexandri vita relatum est. (79) Et in summa cibi omnes medioc­ rem somnum inducentes, formam conservane, quoniam somno forma nutritur: nam qui non dormiunt macilenti fìunt pallidi et deformes. (80) Concludamus igitur hunc de forma sermonem et Augustini dictum quoddam10 ad propositum nostrum converta­ mus. Divus Augustinus, sic in quarto De Civitate dei, dixit: " In­ geniosum quippe nasci felicitatis est". Nos vero sic dicamus: "For­ mosum nasci felicitatis est". (81) Et certe qui pulcher est non om­ nino infelix est et quodam divino munere ornatus videtur, quare bene Homerus Paridem inducit Hectori, qui fratris pulchritudi­ , nem reprehenderat, sic respondentem "ou TOL à1r6�ÀY] T ÈO'TL 9ewv Èpncuoea owpa I Q(]'(]'a lCEV aù-rol OW(]'LV• ÉlCWV o' OÙlC &v TLç ÈAOLTo" ("non sunt contemnenda deorum gloriosa dona, quae tamen, ab ipsis tribui sueta, multis volentibus non obtingunt" ). (82) Quare in hoc plurimum se potest nobilissima urbs Bononiensis gloria­ ri, cui inter alias Europae civitates, natura formosissimas et pluri­ mum genuit creaturas. (83) O felix iuvenis, o fortunate coniunx qui pulcher pulchram sortitus es uxorem, quae cibi illud Virgi­ lianum precor servare possit: "Omnes ut tecum meritis pro tali­ bus annos / Exigat et pulchra faciat te prole parentem". (84) De forma Pelopis, de forma Ganymedis vide Homerum u Iliade qui dicit "KaÀÀeoç eYveKa ofo" quod fuit raptus causa suae pulchritu­ dinis, qui deorum ambrosia et nectare dignati sunt. De forma

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quoddam ] quodam. 302

cessiva libidine e le malattie. Preservano dunque la bellezza l'asti­ nenza, la castità, la buona salute e la medicina, che è conservatri­ ce della salute: la medicina dunque giova alla bellezza. (78) Ma torniamo al nostro argomento. Anche alcuni cibi conservano la bellezza, come il popolo pensa a proposito della carne di lepre - si dice infatti che coloro che la mangiano siano belli per sette giorni -, cosa che Marziale conferma nell'epigramma a Gellia 57 e che Lampridio riporta nella vita di Alessandro Severo 5 8 • (79) Ma nel complesso tutti i cibi, dal momento che recano un po' di son­ nolenza, preservano la bellezza, poiché la bellezza è nutrita dal sonno: infatti, coloro che non dormono diventano macilenti, pallidi e brutti. (80) Concludiamo dunque questo discorso sulla bellezza e adattiamo al nostro proposito un detto di Agostino. Sant�gostino, nel quarto libro del De civitate Dei, dice: "Nasce­ re intelligente è un felice colpo di fortuna" 59 • Ma noi così dicia­ mo: "Nascere bello è un felice colpo di fortuna". (81) E certa­ mente chi è bello non è mai del tutto infelice e pare provvisto di un certo dono divino, per cui opportunamente Omero presenta Paride che così risponde a Ettore, il quale aveva biasimato la bel­ lezza del fratello: "ou 't'O L chr6�ÀY) T'èO"Tl 0€WV èpncuòea òwpa I Q(j(j(X lCEV aù-rol OW(J'LV• ÉlCWV ò' oùlC &v -rtç éÀo t-ro" 60 ("Non bisogna di­ sprezzare i gloriosi doni degli dei, che tuttavia, distribuiti al soli­ to dagli dei stessi, non capitano in sorte a tutti coloro che li desi­ derano" ). (82) Perciò a questo proposito può vantarsi in sommo grado la nobilissima città di Bologna, a cui la natura donò, tra le altre città d'Europa, creature bellissime e in grande numero. (83) O giovane fortunato, o fortunato marito al quale, bello, è capita­ ta in sorte una bella moglie, che ti auguro possa rispettare quel fa­ moso verso di Virgilio: "A compenso di questi servizi, gli anni trascorra con te e di splendida prole padre ti rendà' 61 • (84) Sulla bellezza di Pelope, sulla bellezza di Ganimede vedi Omero, che nel ventesimo canto dell'Iliade dice "KaÀÀEoç ELVElCct ofo" 62, poiché fu rapito a causa della sua bellezza, ed entrambi furono degni del-

Hiacynthi, Narcissi, Nirei et aliorum adolescentum, de forma antiquarum feminarum in praesentia taceo, multaque [c. F3r] alia de pulchritudine sciens pretereo alias dicenda. (85) Nunc operae pretium est ad lectiones nostras animum intendere et ser­ monem nostrum brevi epilogo concludere. Nullus poeta, sive he­ roicus, sive lyricus, sive satyricus, nullus orator, nullus historicus laudationibus nostris indiget; omnes digni, omnes utiles, omnes iocundi, quod nisi essent, non excriberentur, non legerentur, non a tanta virorum frequentia audirentur, non interpretes eorum tantis salariis afficerentur. (86) Inter caeteros tamen Lucanus non contemnendus est; nam multae plenus est utilitatis et vo­ luptatis. Trahit enim secum maiorem commentariorum Caesaris partem, trahit vitam Pompeii, vitam Caesaris, vitam Marcelli, vi­ tam Catonis, vitam Ciceronis, vitam Curionis, vitam Cleopatrae et Ptolemaei et quorundam aliorum praecellentium virorum, ita ut haec lectio semper aliquid quod prosit et delectet habere vi­ deatur. (87) De laudibus Caesaris et Pompeii quid nunc attinet dicere, cum incredibilian pene de eis a Plinio recitentur, et vos scitis nomen Caesaris adeo favorabile fuisse, ut imperatores nos­ tri aevi eo nomine consecrentur ? (88) Scitis etiam Pompeium a rebus magnis gestis 'Magnum' fuisse cognominatum, et de tribus mundi partibus Asia scilicet Aphrica et Europa triumphasse, quas quidem partes ipse cum fìliis corporibus postea suis occu­ paverunt, ex quo illud pulcherrimum Martialis extat epigramma: "Pompeios iuvenes Asia acque Europa sed ipsum / terra tegit Li­ byes, si tamen ulla tegit. / Quid mirum toto si spargitur orbe ? la­ cere / uno non poterat tanta ruina loco". (89) Praeterea non vos latet, Catonem ea integritate vitae ac frugalitate fuisse, ut semper vestibus pullis usus fuerit, castus et ab omni libidine immunis ad eam usque aetatem qua uxorem duxit, magno nostrorum iuve­ num opprobrio qui vixdum puberes hirquitallire incipiunt ac 11.

Incredibilia ] incredebilia.

l'ambrosia e del nettare degli dei. Sulla bellezza di Giacinto, Nar­ ciso, Nireo e di altri giovani, sulla bellezza delle antiche donne al momento taccio, e molte altre cose che so sulla bellezza mi riser­ vo di dire in altra occasione. (85) Ora vale la pena di concentrar­ si sulla nostra lezione e concludere il nostro discorso con un bre­ ve epilogo. Tutti i poeti, o epici o lirici o satirici, tutti gli oratori, tutti gli storici meritano le nostre lodi; tutti sono degni, tutti uti­ li, tutti piacevoli, ché se non ci fossero, non sarebbero copiati, non sarebbero letti, non sarebbero ascoltati da un pubblico tan­ to nutrito di persone, e i loro commentatori non sarebbero re­ munerati così profumatamente63 • (86) Tra gli altri tuttavia non va disprezzato Lucano; è pieno infatti di molte cose utili e piace­ voli. Egli riprende la gran parte dei commentari di Cesare, ri­ prende la vita di Pompeo, la vita di Cesare, la vita di Marcello, la vita di Catone, la vita di Cicerone, la vita di Curione, la vita di Cleopatra e di Tolomeo e di altri uomini insigni, così che questa lettura sembra sempre avere qualcosa che rechi giovamento e pia­ cere. (87) Cosa bisogna aggiungere ora alle lodi di Cesare e Pom­ peo, dopo che da Plinio sono dette cose quasi incredibili64, e voi sapete che il nome di Cesare fu caro a tal punto che gli impera­ tori del nostro tempo sono consacrati con quel nome? (88) Sa­ pete anche che Pompeo fu chiamato 'Grande' dalla grandezza delle sue imprese e che riportò trionfi sulle tre parti del mondo, ovvero l�sia, l'Africa e l' Europa, terre che in seguito lui stesso e i suoi figli occuparono coi loro corpi, da cui viene quel bellissimo epigramma di Marziale: "I figli di Pompeo sono sepolti in Asia e in Europa; quanto a Pompeo, lo ricopre la terra d�frica, se pure una terra lo ricopre. Qual meraviglia se sono dispersi per tutto il mondo? Morti così illustri non potevano giacere in un solo luo­ go" 6 5. (89) Non vi è ignoto, inoltre, che Catone fu di tale integrità di vita e frugalità che usò sempre vesti scure, casto e immune da ogni forma di libidine fino all'età in cui prese moglie, con gran­ de disonore dei nostri giovani che appena entrati nella pubertà

scortari. (90) De aliis viris, ne longum faciam, tacebo. O pul­ chram historiam, o pulchram materiam! Aristoteles nec nimis antiquam historiam, quia dubia et incerta est, nec nimis nova, quia ab omnibus visa fuit, sed mediam delectare dicit utpote quae ab illis longe sit extremis. Eius generis Lucani historia cen­ senda est. (91) De rhetorica arte, postquam vobis audire quae proposueram non placet, silebo, sed si mihi per vos licuisset, ostendissem verissimis argumentis solum illum esse sapientem qui rhetoricae det operam; caeteros omnes esse stultos qui aliis artibus seu scientiis indulgeant. (92) Quod bene intellexit ille Demosthenes atheniensis qui, cum Callistratum orantem audi­ visset et magno populi applausu et favore affectum, iudicavit be­ ne dicendi scientiam esse pulcherrimam; quamobrem, relicto Platone, cuius auditor erat, se ad eloquentiae studium totum contulit. (93) Quod utinam facerent hi dialectici seu philosophi ut relicto Alexandro Achillino, Galeotto Beccadello et Federico Gambalonga, philosophis acutissimis, ad Codrum audiendum devolarent! Quod, ut credo, non facient, quoniam Codri rhe­ torica non est cum Achillini philosophia [c. F3v] comparanda. (94) Tamen si facerent non alienum a sua facerent professione, si quidem Aristoteles, quem ipsi ducem sequuntur, motus ae­ mulatione Isocratis rhetoricam docentis et clarorum virorum auditorium plenum habentis, versum illum proclamavit "atax pòv o-tw1niv 1eat ' Io-01epliTI] V èliv Àéyetv" id est "turpe est tace­ re et Isocratem loqui sinere" et subinde luculentam et eruditio­ nis plenam scripsit rhetoricam. (95) Praeterea rhetorica parvo discrimine distat a dialectica, quare bene Zeno de hac rogatus differentia dixit dialecticam similem esse manui clausae, id est pugno, rhetoricam vero manui apertae, quia scilicet illa brevibus et quodam modo contractis uteretur argumentationibus, haec vero latioribus et amplioribus; (96) et ipse Aristoteles in princi-

cominciano a far la voce da uomini66 e ad andare a puttane. (90) Sugli altri uomini, per non farla troppo lunga, tacerò. O bella la storia, o bella materia ! Aristotele dice che avvince quella storia che non è né troppo vecchia, perché è dubbia e mal nota, né trop­ po recente, perché fu conosciuta da tutti, ma quella che sta in mezzo, che si trova lontano da quegli estremi67 • A questo genere va ricondotta la storia di Lucano. (91) Sull'arte retorica, dal mo­ mento che non vi piace ascoltare quello che intendevo proporvi, starò zitto, ma se me l'aveste permesso, vi avrei mostrato con so­ lidissimi argomenti che solo può dirsi sapiente colui che si occu­ pa di retorica; tutti gli altri che si dedicano alle altre arti o scien­ ze sono stolti68 • (92) Ciò bene comprese quel Demostene atenie­ se il quale, avendo ascoltato Callistrato parlare in pubblico so­ stenuto dal grande favore e dall'applauso del popolo, giudicò la scienza del parlar bene la più bella di tutte; motivo per cui, ab­ bandonato Platone, di cui era allievo, si diede tutto allo studio dell'eloquenza. (93) Magari lo facessero i nostri dialettici o filo­ sofi, di accorrere ad ascoltare Codro, abbandonati Alessandro Achillini69, Galeotto Beccadelli7° e Federico Gambalunga71, fi­ nissimi filosofi ! Ma non lo faranno, credo, poiché la retorica di Codro non è paragonabile alla filosofia di Achillini. (94) Tutta­ via, se lo facessero non farebbero nulla di estraneo alla loro pro­ fessione, se è vero che Aristotele, che essi seguono come una gui­ da, mosso dal desiderio di emulare Isocrate che insegnava retori­ ca e aveva l'aula piena di uomini insigni, pronunciò quel verso: "alaxpòv O"LW7t'tiV Kal 'Io-01

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teristica della lingua eolica, che utilizzò moltissimo Esiodo, è la forma contratta delle parole. In Omero la troverai spesso: egli disse 'òw' al posto di 'òwt,ta' in espressioni come '� t,té-repov òw' 19 e 'o' per ' o-rL' e ' &f' per ' ò7t'LO'O'C,/ e ' o-rp Lxaç ' per ' 6 t,t6Tp lxaç ' e '07ra-rpLov' per '6 t,to7r&.-rpLov' e '-rpetv' per '-rpé t,teLv' 20 e molte altre espressioni di questo tipo. È proprio della lingua ionica usare l' a­ feresi. Questa forma mantenne Omero in molti casi. Per questo disse '��' per 'g�Y] ' e 'òwx:ev' per 'gòwx:ev: togliendo l'aumento nei tempi passati, e sempre l'uso ionico seguì nel non contrarre i ge­ nitivi plurali come ' t,touO'&.wv' per ' t,touO'wv' e anche i participi pe­ rispomeni nel medesimo modo dicendo ' �où yÉÀ.ao-o-av" id est "illi autem quamvis tristes in ipso suaviter ri­ serunt". (124) Miscuit et amatoria carmini suo Homerus, ut in Odyssea legere licet quando Demodocus [c. G5r] apud Phaecas furtum Veneris et Martis cantat et eos in Vulcani retia dicit inci­ disse et turpiter ligatos iacuisse. Scribit et in Iliade Iovem ipsum summopere Iunonis amore esse captum honeste tamen, et senem etiam Priamum visa Helena dixisse "où VÉ [-t EO-Lç T pwaç -re 1eal ÈUlCV�[lLOaç 'AxaLOÙç I TO Lflo' &. [-toTépoLmv l9Yj lCE » («que­ gli che in mezzo a noi fe' nascere questa gu erra» ); Ps.Plut. De Hom. II 102-104. 24. Peneleo e Menelao. 25. Le parole spiegano l'uso della lingua attica. Le parole citate sono: Àéwç/Àa6ç, popolo; Toii1roç/TÒ e1roç, la parola; Toiivo!lct/TÒ ovoi-tct, il nome. 26. Quine. X 1, 96. 27. Quine. I 5, 72. 28. Horn . Il. IV 125: « l'arco suonò » . 29. Horn. Od. IX 394: « l'occhio strideva» . 30. Verg. Aen. Xl 863. 31. Amm. xx:11 16, 16. 32. L'e lenco delle figu re retoriche sembra preso da Don. Gramm. IV, 6, ma in realtà segu e l'ordine di trattazione dello scritto pseudo-plutarcheo. 33. Cfr. Sermo I, §§ 124-125. 34. Per dimostrare quello che ha appena detto, Codro mostra al pubblico la sua grande conoscenza nel campo della grammatica. Quella che segue è una spie­ gazione morfologica e storico-lingu istica di come sia in latino che in greco vi sia una parentela tra alcuni casi.

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35. vfrpov, Àfrpov: sapone; TÒv rrvEV f!OVa, 1TÀe1J f!OVa: soffio, polmone. 36. Si tratta dei cosiddetti "casi obliqui" della declinazione, a cui sotto segue la classificazione dei "casi retti". 37. Il latino ammette in questi casi una doppia costruzione sintattica che non si può rendere in italiano senza una grave sgrammaticatura. 38. TÒ ;v'Àov (nom.), TÒ ;v'Àov (ace.), w ;v'Àov (voc.): "il legno". 39. Traduzione degli esempi: «questo legno, questo legno, o legno» ; « le­ gna, questa legna, o legna » ; «questi padri (nom.), questi padri (ace.)» ; « due Enea (nom.) e due Enea (ace.)» ; « due Aiaci (nom.) e due Aiaci (ace.)» . 40. Verg. Aen. I 573-574. 41. Ter. Andr. 3. Codro sta qui descrivendo il fenomeno dell'attrazione del relativo. 42. « Parentela » . 43. Horn. Il. I 1-2: «Canta, o dea, l'ira d'Achille Pelide, rovinosa, che infini­ ti dolori inflisse agli Achei» . Cfr. Ps.Plut. De Hom. II 544. 44. Horn. Od. I 1-2; Ps.Plut. De Hom. II 547-548: «L'uomo ricco di astuzie raccontami o Musa che a lungo errò » . 45. Verg. Aen. I 1. 46. Hor. Ars 141-142. 47. « Parentela » . 48. Cic. De nat. deor. I 25. 49. Arist. Met. I 3, 983b. 50. Horn. Il. XIV 246 (ma «'.O.uavoii, oç 7rep yéveO"Lç 1TtiVTEO"O"L TÉTVx:TaL » ); Codro cita direttamente da Ps.Plut. De Hom. II 962: «'.O.uavoii, S'oç 1Tep yévemç 1TCXVTEO"O"L TÉTVx:TaL » . 51. Verg. Georg. IV 382. 52. Sulla concezione della natura di Senofane di Colofone cfr. i frammenti Sulla natura 23-38 D iels-Kranz. 53. Horn. Il. VII 99; Ps.Plut. De Hom. II 966. 54. Xen. fr. 29 Diels-Kranz. 55. Macr. Somn. I 25. 56. Horn. Il. xv 18 ss. 57. Traduce da Horn. Il. XV 187. 58. Sulla concezione della natura di Empedocle e sulla sua teoria degli elementi cfr. i frammenti Due libri sulla natura 1-111 Diels-Kranz. 59. Horn. Il. XIV 200; Ps.Plut. De Hom. II 1039-1040. 60. Horn. IL XIV 205; Ps.Plut. De Hom. II 1041. 61. Horn. Od. VIII 266-366. 62. Cfr. Sermo I, §§ 227-230.

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63. Non stupisce questa affermazione di Codro. È invece da ricordare che proprio il grande Niccolò Copernico, sostenitore della teoria eliocentrica, fu molto probabilmente allievo di Codro nelle lettere greche. 64. Arist. De caelo Il 7 (=289a). 65. Horn. Il. XVIII 481-489. 66. Probabilmente si riferisce a Poseidone, cfr. Horn. Il. xx 57 ss. 67. Si può riscontrare un grande interesse cosmografico e geografico in que­ sto passo. Probabilmente avevano avuto grande influenza sul nostro umanista la Cosmografia di Tolomeo e la Geografia di Strabone. 68. Ps.Plut. De Hom. II 1211-1213. 69. Horn. Il. v 341; Ps.Plut. De Hom. II 1216 e 2481. 70. Ps.Plut. De Hom. II 1229-1231. 71. «Provvidenza» . 72. Ci si riferisce a Cic. De nat. deor. I 18. 73. Codro traduce qui da Ps.Plut De Hom. II 1314. 74. Cic. Tusc. I 38-39. 75. Ci si riferisce probabilmente al dialogo platonico Fedro. 76. Ps.Plut. De Hom. II 1348 ; Horn. Il. XXIII 65. 77. Hom. Od. XI 1-50. 78. Come nel Sermo I, § 18, cfr. Ps.Plat., Axioch. 356e; Aie. 130c. 79. Plat. Gorg. 493a 2-3: « e il nostro corpo è la nostra tomba» . 80. Verg. Aen. IV 734. 81. Horn . Il. VIII 184-197; XXIII 403-416; XIX 400-403; Horn . Od. XVII 260 e 327. 82. Horn. Od. X 198-243. 83. Ci si riferisce alle considerazioni contenute nel libro XII della Metafisica di Aristotele. 84. Horn. Il. VIII 18-27. 85. Boeth. De cons. phil III 9. 86. Cfr. le concezioni sull'anima presenti nei dialoghi platonici del Fedone e del Timeo e nel De anima di Aristotele. 87. Sulla filosofia di Pirrone di Elide cfr. i frammenti di T imone di Fliunte e il nono libro delle Vite deifilosofi di Diogene Laerzio. 88. Horn. Od XVIII 136-137; Ps.Plut. De Hom. II 1938. 89. Aug. Civ. v 8, che cita Cic. Fat., fr. 3 Plasb.-Ax. 90. Cfr. il "mito della caverna" presente nel libro VII della Repubblica. 91. Eur. fr. 638, 1-2 Nauck (ma «-rlç ò'oiòev ei TÒ ��v f!ÉV èo-rL 1ecx-r8cxvetv, TÒ 1ecx-r8cxvetv òè ��v » ). 92. Horn. Od. XVIII 130.

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93. Codro mette a confronto l'etica della scuola peripatetica con l'etica stoica. Cfr. per la prima l'Etica Nicomachea di Aristotele. 94. «Misura delle passioni» . 95. Si riferisce ovviamente ai Peripatetici. 96. Cic. Fam. xv 16, 1. 97. Horn. Il v 449; Ps.Plut. De Hom. II 1872. 98. Horn. Od. IX n ; Ps.Plut. De Hom. II 1887. 99. Cfr. la Lettera a Meneceo (o sulpiacere) di Epicuro. 100. Aristippo (435 ca.-366 ca. a.C.), fondatore della scuola filosofica dei Ci­ renaici, che fornirà un modello filosofico per l'epicureismo, pone il piacere indi­ viduale alla base dell'esistenza. 101. Horn. Od. V 149-227; XVIII 1-107. 102. Cfr. Plaut. Capt. 469. 103. Hor. Epist. I 17, 23. 104. In questa sezione del Sermo si indagano i rapporti tra Omero e Pitagora. Su quest'ultimo cfr. Diogene Laerzio, Vite deifilosofi, VIII I, 1-50. 105. «Ipse dixit» . 106. Horn. Il. II 204; Ps.Plut. De Hom. II 1764. 107. Cfr. per Platone Repubblica, Politico, Leggi e Lettera VII, per Aristotele la Politica. 108. Horn. Od. III 128; Ps.Plut. De Hom. II 1767 (ma «ètll'eva 0ut,tòv exov-re v6C() ,cal è1T(Y]O"L TOU f��EVctL· aù-ràp èyw ye I OÙlC olòa, où yap 7!W Tlç èòv y6vov aù-ròç àvéyv w". Bene ergo Iuvenalis cecinit "antiquum et vetus est alie-

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pre in ansia. Tutte le volte in cui sente parlare di cervi, di capri, di corna, teme che si dica qualcosa di sgradevole su di lui; tutte le vol­ te che sente pronunciare quel celebre verso "mutano le corna, ma il corno non cambià'20 il suo animo si muta e si incupisce. Sa in­ fatti che è grande il dissidio tra la pudicizia e la bellezza: sa che tut­ te le vicende dei matrimoni altrui sono piene di amanti. (19) Il fa­ moso Cesare Augusto, che ancora vivo fu annoverato tra gli dei, non poté evitare questa infamia: ebbe infatti una figlia e una ni­ pote adultere e il nipote Agrippa era di indole spregevole e folle, e a sentir parlare di loro, gemendo, era solito recitare quel celebre verso di Omero " a t 0 ' o q, eÀov &ya i,toç -r' &i,ti,teva L &yovoç -r' à1r0Àeo-0at" 21, cioè "ah non fossi mai nato, o morto senza nozze!': E non diversamente, come recita Svetonio, li denominava "i suoi tre ascessi e i suoi tre cancri" 22. O misero padre, o misero nonno, che stette a lungo isolato per vergogna e pensò persino di uccide­ re la figlia! (20) «Ma un uomo saggio sapientemente sorveglierà la moglie e le assegnerà dei custodi». Certo, ovviamente; "ma chi mi custodirà poi i custodi? Mia moglie è abile e comincia proprio da quelli" 23, come scrisse Giovenale. E similmente un altro poeta: benché il feroce Alcide, il crudele Ettore, il forte Achille le tenga­ no sotto controllo, "dentro ci sarà un amante" 24; benché tu rin­ chiuda questa in una fortificazione o in alte mura, le penetrabili fortezze riceveranno Giove in forma di pioggia2 5. (21) D'altro can­ to è triste e pesante nutrire i figli altrui secondo l'uso del cornu­ to26; i giovani figli legittimi sono soliti deridere e respingere i figli illegittimi e quelli nati da padre sconosciuto. E in che modo loro stessi vennero a conoscenza di essere figli legittimi? Omero, il più antico e saggio dei poeti, introduce Pallade, sotto forma di Men­ te, a chiedere a Telemaco se sia o no figlio di Ulisse, dal momento che è molto simile a lui, e Telemaco risponde e dice che certa­ mente sua madre Penelope lo dice, ma lui non lo sa: "di lui [di Ulisse] mi dice la madre, ma io non lo so. Nessuno da solo può sa­ pere il suo seme" 27. Dunque ha detto bene Giovenale: "è un'abi39 1

num, Postume, lectum / concutere" et quae sequuntur. (22) «Ac­ qui licet impudicam uxorem repudiare ». Licet quidem, sed post culpam vel culpae suspicionem, et interdum non licet sine fra­ trum et propinquorum odio et periculo vitae. Sanum igitur illud Biantis, viri sapientis, responsum, qui cum rogatus esset a quo­ dam deberet ne uxorem ducere, dixit: «Aut pulchram duces aut deformem: si pulchram habebis communem; si turpem habebis poenam. Neutrum autem bonum, non est ergo viro sapienti du­ cenda uxor». (23) Praeterea non ignoratis, auditores excellentis­ simi, sapientis viri offìcium esse reipublicae aut privatae consule­ re et divina et humana contemplari, quae quidem sine ingenio, si­ ne memoria, sine longa vita integre fìeri non possunt. Inter au­ tem naturae preclara dona sunt illa, quae nuper dicebam: inge­ nium scilicet acutum, memoria tenax, et longa vita, quae libidi­ ne seu frequenti coitu maxime minuuntur, consumuntur et pe­ reunt. (24) Nihil certe tam celeriter senescere cogit homines, quam crebra geniturae profusio, quod non in hominibus tantum sed et in aliis quoque animalibus videre licet et plantis: nam quae sunt salacia et libidinosa nimis animalia cito deficiunt et mo­ riuntur, ut passeres, ut perdices. Lactucae quoque et aliae herbae cum primum in semen abierunt arene et emarcescunt. Hominem vero coniugatum temperare a Venere perdifficile est et volenti per uxorem non licet. Ideo bene, Q. Cicero, M. Ciceronis frater, dicere solebat "libero lectulo nihil iocundius". [c. Hiv] Quod dic­ tum quisque sapientissimus in fronte seu fulcro lecci sui habere inscriptum deberet. Uxorem ergo vir sapiens ne ab officio suo de­ fìciat non ducet. (25) Postremo si vir sapiens divinitatis cuiusdam

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tudine antichissima, o Postumo, quella di scuotere il letto al­ trui" 28, con ciò che segue. (22) «Ma è lecito ripudiare una moglie impudica». Senza dubbio è lecito, ma solo dopo la colpa o il so­ spetto della colpa, e talvolta non è lecito farlo senza l'odio dei fra­ telli e dei congiunti e senza pericolo di vita. Dunque è assennato il parere del famoso Biante29, uomo saggio, il quale interrogato da qualcuno se dovesse prendere moglie, disse: " Tu prenderai o una bella donna o una donna brutta. Se prendi una bella donna, sarà di tutti; se una brutta, sarà un castigo. Né l'una cosa né l'al­ tra è accettabile; quindi all'uomo saggio non conviene prendere moglie" 3 0 • ( 23) Inoltre non ignorate, allievi eccellentissimi, che il compito dell'uomo saggio è provvedere agli affari pubblici e pri­ vati e osservare le cose divine e umane, cose che certamente sen­ za l'ingegno, senza la memoria e senza una lunga vita non si pos­ sono fare correttamente. D'altra parte, tra i doni illustri della na­ tura ci sono quelli che poco fa dicevo: certamente un ingegno acuto, una memoria resistente e una lunga vita, che sono dimi­ nuiti, consumati e poi vengono meno soprattutto a causa della li­ bidine e dei frequenti accoppiamenti. (24) Certamente niente costringe gli uomini a invecchiare tanto velocemente quanto lo sperperare il seme, cosa che si può vedere non solo negli uomini, ma anche negli altri animali e nelle piante: infatti gli esseri vi­ venti che sono troppo lascivi e libidinosi vengono meno e muoio­ no presto, come le passere e le pernici. Anche la lattuga e le altre erbe, non appena si sono trasformate in seme, si seccano e marci­ scono. In verità è molto difficile moderare nei piaceri dell'amore un uomo sposato, e non gli è permesso, anche se vuole farlo, a causa della moglie. Perciò giustamente Quinto Cicerone, fratel­ lo di Marco Cicerone, era solito dire "non c'è niente di più pia­ cevole di un lettuccio vuoto" 3 1 • Questo motto tutti gli uomini più sapienti dovrebbero averlo scritto davanti o sulla base del lo­ ro letto. Dunque un uomo saggio non prenderà moglie per non venire meno al suo compito. (25) Infine, se un uomo sapiente è 393

particeps est, quanto magis divinitati similis est, tanto sapientior est. Deum vero immortalem et divinos spiritus credimus et sci­ mus esse puros, castos integros et ab omni libidine penitus se­ motos quam ob rem et talem virum sapientem esse decet: unde 'caelibem' quidam dictum putant quasi 'caelestem vitam ducen­ tem'. (26) Sane viros castos, virgines, qui nunquam venereis rebus operam dederunt videmus esse formosos, virides, odorem quen­ dam suavem, qualis in pueris esse solee antequam sint hirquital­ li, spirantes. Contra viros libidinosos deformes cito fieri et senes et odore hircino, qualem quondam Lemnii vi vitii2 dicuntur ha­ buisse fetentes. Quare recte illa de innocentibus pueris cantata sunt: "hi sunt qui cum mulieribus non sunt coinquinati, virgines enim sunt" et quae sequuntur. (27) Quare allegorizantes merito chimaeram finxerunt, quoniam libidinosus iuvenis tanquam leo furens non parcit matri non parcit sororibus et tanquam capra humorem quendam fetidum sudat; et post factam a conscientia sceleris tanquam a draconis cauda verberatur. De chimaerae fi­ gura Hesiodus et Homerus sic: "np6o-9e Àewv, onL9ev òè Òp(ilcwv, !,lÉO-cn'j òè XL!,lrtLpa, / ori vòv ànome(ouo-a nupòç !,lEvoç ai9o!,lÉVoLo". Lu­ cretius sic: "prima leo, postrema draco, media ipsa, Chimera / ore ferens acrem flaret de corpore flammam". (28) Acqui rarissi­ mis haec vita contingere potest, quoniam ut verissime cecinit poeta "omne adeo genus in terris hominumque ferarumque / et genus aequoreum, pecudes pictaeque volucres, / in furias ignem­ que ruunt". Si ita est quid stimulatus vir sapiens faciet? Nonne melius erit ducere uxorem quam uri? Quantum poterit resistet, si non poterit, meretricem aliquam diobolarem acciri iubebit, quae si lenta aut sera veniet, illud quod de Diogene cynico legi-

2. vitii

] viti. 3 94

partecipe di una qualche forma di divinità, quanto più è simile al­ la divinità tanto più è sapiente. Certamente crediamo e sappiamo che il Dio immortale e gli spiriti divini sono puri, casti, integri e profondamente lontani da ogni libidine, per la qual cosa è bene che un uomo sapiente sia tale: per questo alcuni credono che 'ce­ libe' si dica di uno 'che conduce una vita quasi celeste' 32 • (26) Cer­ tamente vediamo che uomini casti, vergini, che mai si diedero agli atti di Venere, sono belli, giovanili, emanano un odore soave, co­ me è solito accadere ai fanciulli prima che raggiungano la pu­ bertà33. Al contrario gli uomini libidinosi sono soliti diventare su­ bito brutti, vecchi e con un odore caprino34, odore che si dice aves­ sero una volta i maleodoranti uomini di Lemno per la forza del vi­ zio. Perciò quelle cose che riguardano i fanciulli innocenti sono recitate a buona ragione: "questi sono quelli che non sono conta­ minati dalle donne, infatti sono vergini" 35 con tutto ciò che segue. (27) Quindi, giustamente, i creatori di allegorie concepirono la chimera, poiché un giovane libidinoso, come un leone furente, non risparmia la madre e le sorelle e come una capra, trasuda un certo fetido umore; dopo la violenza compiuta, è frustato dalla consapevolezza del misfatto come dalla coda di un serpente. Sul­ la figura della chimera, così Esiodo e Omero: "leone davanti, die­ tro serpente, capra nel mezzo, soffiava un flato terribile di fiamma avvampante" 3 6 • Così Lucrezio: "nella parte anteriore leone, nella posteriore drago, nella mediana lei, la Chimera, spirasse per la bocca una fiamma violenta uscita dal corpo" 37 • (28) Ma questa esperienza può accadere a pochissimi, poiché, come realmente cantò il poeta, "tutte così le specie sulla terra, degli uomini e del­ le fiere, e le specie equoree, i quadrupedi e i variopinti volatili, in furiosi ardori si precipitano" 3 8 • Se è così, cosa farà l'uomo saggio in preda agli istinti? Non sarà meglio prendere moglie che bruciare dal desiderio?39 Resisterà quanto potrà, se non potrà ordinerà che sia mandata a chiamare una qualche prostituta da due soldi, e se questa verrà lenta o tardiva imiterà quello che leggiamo su Dio39 5

mus imitabitur. Nam cum Diogenes tentigine stimularetur et meretricula accita cunctaretur, praeputium ductare coepit; et cum meretricula postea venisset, illam ut nimis seram retro mi­ sit, dicens manum suam cecinisse hymenaeum. Ex quo praecipi­ tur sapientes viros non libidinis delectatione id factitare, sed hu­ moris supervacanei expellendi necessitate sine ullo famae aut ho­ nestatis dispendio. (29) Verum si diaeta sobria et continenti quis­ piam utetur facillime ut reor castitatem seu ut nunc dicimus vir­ ginitatem servare poterit illaesam, cum libido non nisi ex supe­ ranti humore procreari intelligatur. Unde et Aristoteles merito quaesivit quare sitientes seu esurientes non puderet, aut potum, aut cibum poscere, rem vero veneream appetentes poscere pude­ ret. Ea scilicet ratione quam nuper dicebam: quoniam caeterae res naturae necessariae sunt, luxuria vero incontinentiae signum esse videtur. [c. H2r] Haec fere ab his dici solent qui sapientem in caelibatu honestius vivere posse confìrmant. (30) Nunc iam alte­ ram partem audiamus ut rectum iudicium proferre possimus; ita enim superioribus respondentes argumentantur. Supponimus, auditores ornatissimi, nihil in rerum natura esse tam bonum, tam utilem, tam perfectum, tamque expetendum, ut non aliquid ma­ li, damni imperfectionisque et aliqua in parte fugiendi in se ha­ beat; et si vultis hoc exemplo vobis ostendi. (31) Consideremus primum superiora, deinde inferiora: superiora dico solem, lunam et stellas, inferiora vero quae sub luna sunt. Sol, ut Lucanus ceci­ nit, et Plinius praedicavit, "lucem rebus ministrar aufertque te­ nebras, reliqua sidera occultar, vicesque temporum annumque semper renascentem ex usu naturae temperar, cadi tristiciam di-

gene il cinico. Infatti Diogene, essendo tormentato dalla libidine ed essendo in attesa di una prostituta mandata a chiamare, co­ minciò a masturbarsi; quanto poi giunse la prostituta, la rimandò indietro perché era stata troppo lenta, dicendo che la sua mano aveva già cantato l'imeneo40• Per questo è raccomandato che gli uomini sapienti facciano spesso ciò, non per soddisfare la libidine ma per la necessità di espellere umori superflui, senza alcuna offe­ sa alla fama e alla onestà. (29) Senza dubbio se qualcuno osserverà una dieta sobria e misurata molto facilmente, come credo, potrà conservare sia la castità sia, come si dice oggi, la verginità sana e salva, essendo chiaro che la passione non è creata se non dalla so­ vrabbondanza dell'umore. Da qui anche Aristotele, a ragione, si chiedeva perché coloro che sono assetati o coloro che sono affa­ mati non si vergognano a chiedere da bere e da mangiare, mentre quelli che desiderano il sesso si vergognano a chiederlo41 • Certa­ mente per quel motivo di cui poco fa parlavo: poiché le altre cose sono necessarie alla natura, mentre la lussuria sembra essere un se­ gno di incontinenza. Più o meno queste cose sono soliti dire co­ loro per i quali il saggio vive più onestamente da celibe. (30) Ora ascoltiamo l'altra parte, affinché possiamo proferire un equilibra­ to giudizio; così infatti argomentano rispondendo alle preceden­ ti opinioni. Premettiamo, distintissimi allievi, che non c'è niente tra le cose della natura di tanto buono, di tanto utile, di tanto per­ fetto, di tanto desiderabile che non abbia in sé qualcosa di negati­ vo, di dannoso, di imperfetto e che non sia da fuggire per qualche aspetto; se volete questo vi è dimostrato da un esempio. (31) Con­ sideriamo dapprima le cose superiori, poi quelle inferiori: con su­ periori intendo il sole, la luna e le stelle, mentre con inferiori le co­ se che sono al di sotto della luna. È il sole, come Lucano cantò e come Plinio affermò, "che fornisce la luce al creato e annienta le tenebre; è lui che nasconde o illumina gli altri corpi celesti; è lui che secondo le necessità della natura regola l'avvicendarsi delle stagioni e il continuo rinascere degli anni; è lui che scaccia la tri397

scutit acque etiam nubila humani animi serenat". Et ut dicit Ho­ merus "7ravr' èq,op� 1eal 7rctvr' È7ra1eoueL", id est "omnia videt et om­ nia audit". Et tamen sol interdum pestilentiam gignit, ut apud Homerum in lliados primo libro legere licet, unde et apud vete­ res Apollo cum arcu et sagittis pingebatur. (32) Luna vero, ut di­ cit Lucanus, "suis vicibus Tethym terrenaque miscet"; luna ven­ tos, imbres, serenitatem praedicit. Luna tamen ut uno in situ sa­ tis, arboribus, frugibus, hominibus prodest, ita alio aspectu plu­ rimum nocet quod et de reliquis stellis quae modo fortunatae modo infortunatae ab astrologis dicuntur iudicare possumus. (33) Consideremus nunc elementum ignis: utilitas ignis certe maxima est, sine quo vita mitior vivi non potuit non in cibis tan­ tum coquendis et frigoribus arcendis, sed in aliis quoque ad usum humanum spectantibus; igne enim lapides in calcem resol­ vuntur, igne lateres coquuntur, quibus habitacula aedifìcantur; igne ferrum gignitur ac donatur et, ut scribit Plinius, Empedocle et Hippocrate auctoribus, "pestilentiae quae solis obscuratione contrahitur, ignis suffitus auxiliatur". Igne steriles agri iuvantur; quaedam infìrmitates sive vulnera quae nec pharmacis nec ferro sanari possunt, igne sanantur et quae ignis non sanat incurabilia l sunt et ut verissime scripsit Hippocrates 'àv "a-ra', id est 'immedi­ cabilia'. In his tamen plurimis utilitatibus, ignis illud mali habet quod interdum et tecca et homines una cum omnibus bonis in­ cendium rapit, "ilicet3 ignis edax summa ad fastigia vento / vol­ vitur: exuperant flammae furie aestus ad auras". (34) Nec non aer ipse sine quo spirare seu vivere non possumus, saepenumero pestilens est et nocet. Etiam terra "salutiferas herbas eademque no­ centes I nutrie': ut scripsit Ovidius. (35) Aqua vero, cuius utilitas ignis utilitatem superar, quoniam multa sunt animalia, quae sine I



3. ilicet ] licet

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stezza del cielo e rasserena anche le nubi dell'animo umano"42. Co­ me dice Omero, "7ravr'èop� l(C(.L 7t'avr'è7t'aKoueL"43, cioè "tutto ve­ de e tutto sente': E tuttavia il sole, a volte, genera la pestilenza, co­ me si può leggere in Omero, nel primo libro dell' Iliade44, da cui de­ riva anche il fatto per cui Apollo presso gli antichi veniva dipinto con l'arco e le frecce. (32) D'altra parte la luna, come dice Lucano, "con le sue fasi mescola Teti e la terrà' 45; la luna comanda i venti, le piogge e il sereno. La luna tuttavia, come in una sua fase giova alle messi, agli alberi, ai frutti e agli uomini, così in un'altra posizione nuoce moltissimo, cosa che possiamo riscontrare anche per altri astri che dagli astrologi sono detti ora fortunati, ora sfortunati. (33) Consideriamo ora l'elemento del fuoco: l'utilità del fuoco è senza dubbio grandissima, senza questo la vita non avrebbe potu­ to essere vissuta così agevolmente, non solo per la cottura dei cibi e per tener lontano il freddo, ma anche per tutte le altre cose che riguardano la consuetudine umana; dal fuoco, infatti, le pietre so­ no sciolte in calce, dal fuoco sono cotti i mattoni con cui si co­ struiscono le abitazioni. Con il fuoco viene creato e donato il fer­ ro e, come scrive Plinio, adducendo come fonti Empedocle e Ip­ pocrate, "il fumo del fuoco guarisce dalla pestilenza che sorge quando si oscura il sole" 46. I campi sterili traggono giovamento dal fuoco; alcune malattie e ferite che non possono essere guarite né dai farmaci, né dal ferro, sono sanate dal fuoco; le cose che il fuo­ co non guarisce sono incurabili e, come assai giustamente scrisse Ippocrate, 'àvta-ra: cioè 'immedicabili'. Fra tutte queste molteplici utilità, tuttavia, il fuoco ha di male che talvolta un incendio tra­ volge le case e gli uomini insieme a tutti gli altri beni: "in quel mo­ mento il fuoco vorace alla sommità dei pinnacoli il vento spinge­ va, ne traboccavano le fiamme, infuriava l'incendio ai soffi dell'a­ rià' 47. (34) E l'aria stessa, senza la quale non possiamo respirare o vivere, è spesso pestilenziale e nociva. Anche la terra "nutre erbe sa­ lutifere, e sempre lei nutre quelle che nuocciono", come scrisse Ovidio48. (35) E certo l'acqua, l'utilità della quale supera quella del 3 99

usu ignis vivunt, sine vero aquae usu nullum anima! vitam ducit nec plantae ipsae nec herbae sine aqua florescunt aut fructificant. Quare bene Pindarus dixit "apLt:JTOV [-(.ÈV uowp': id est "optima qui­ dem aquà'. Aqua igitur saepenumero et homines et tecca et urbes subvertit et submergit, "aut rapidus montano gurgite torrens / sternit agros, sternit sata laeta boumque labores / praecipitesque trahit silvas': ut [c. H2v] cecinit Maro. Et superioribus diebus fie­ ri in agro nostro audivimus. (36) Ad haec ferri, auri et pecunia­ rum maximus est usus, et vitae humanae necessarius, idcirco He­ siodus "xp��a-ra yà p tux� neÀe-raL oeLÀOl(1l �po-roicn" tamen multi ferro, multi auro interficiuntur, sed plures nimia congesta pecu­ nia cura strangulat. (37) Victoria, scientia, virtutes denique om­ nes dulcissimae sunt et pretiosissimae, sudores tamen vulnera, vi­ gilias, aestus, frigora, famen, sitimque secum ferunt. (38) Ho­ mines quoque ipsi et caetera animalia hominibus utilissimi sunt, et tamen interdum homo hominem opprimit, violat, necat; apes mel dulcissimum pariunt et tamen in cauda gerunt aculeum. (39) ltaque concessa ac stabili hac propositione, facile erit quae contra connubium dieta sunt dissolvere ac enumerare, et optimis ac iustis ostendere rationibus in connubio plus boni ac utilitatis esse quam mali acque detrimenti. (40) Nam quod illi dicunt coniugium quoddam genus esse servitutis, hoc iugum, ne inficiemur, leve est et toleratu facile, cum in aliis quoque rebus servire homines vi­ deamus. Filius patri servit, discipulus praeceptori; qui cado et diis immortalibus addictus est castitati et paupertati et supplicationi­ bus; praetores iuri dicundo, imperatores militiae, doctores studiis et litteris et alia id genus exercitia quandam pro se ferunt servitu-

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fuoco, poiché sono molti gli animali che vivono senza l'uso del fuoco, ma senza l'uso dell'acqua nessun animale sopravvive, né le stesse piante, né le erbe senza acqua fioriscono e fruttificano. Per­ ciò giustamente Pindaro disse "&pLCrrov �v uòwp" 49, cioè "l'acqua è senza dubbio la cosa migliore". Ebbene, l'acqua spesso distrugge e sommerge uomini, case e città, "o rapida dai monti la corrente tor­ renziale di un fiume devasta la campagna, devasta i seminati rigo­ gliosi, fatica di buoi, e a precipizio travolge le foreste" 50 , come can­ ta Marone. E abbiamo sentito che ciò è accaduto anche nelle no­ stre campagne nei giorni scorsi. (36) Oltre a ciò, grande è l'utilità del ferro, dell'oro e del denaro, necessari per la vita umana, per cui Esiodo dice: "le provvigioni sono la vita per i poveri mortali" 51 ; tut­ tavia molti sono uccisi dal ferro e dall'oro, e la preoccupazione per l'eccessivo denaro accumulato soffoca i più. (37) La vittoria, la scienza e le virtù, infine, sono tutte dolcissime e preziosissime, tut­ tavia portano con sé sudori, ferite, veglie, caldo e freddo, fame e se­ te. (38) Anche gli stessi uomini e gli altri esseri viventi sono utilissi­ mi agli uomini, ma tuttavia talvolta l'uomo schiaccia, maltratta e uccide l'uomo; le api producono un miele dolcissimo, eppure sulla coda portano un pungiglione. (39) E così, una volta concessa e fis­ sata questa premessa, sarà facile scomporre e passare in rassegna le cose che sono state dette contro il matrimonio, e dimostrare con perfetti e giusti ragionamenti che nel matrimonio ci sono più cose buone e utili che cose cattive e dannose. (40) Infatti, riguardo al fat­ to che alcuni dicono che il matrimonio è una specie di servitù, que­ sto giogo è leggero, non neghiamolo, e facile da sopportare, dal mo­ mento che anche in altre cose vediamo gli uomini essere schiavi. Il figlio è schiavo del padre, il discepolo del precettore; colui che è consacrato al cielo e agli dei immortali lo è della castità, della po­ vertà e delle preghiere; i pretori sono schiavi dell'amministrazione della giustizia, i comandanti della gestione dell'esercito, gli inse­ gnanti degli studi e delle lettere, e altre pratiche di questo genere comportano una certa servitù. Certamente nessun bene è immune 401

tem. Nullum certe bonum sine auctoramento. (41) Sed quid ego servitutem in nuptiis esse affìrmavi? Cum potius in illis sic con­ cordia et benevolentia, quae dulci quodam sapore condit liber­ tatem. Nam si homo animai politicum est, id est civile ut philo­ sophis placet et nos videmus, quae pulchrior civilitas, quae pul­ chrior coniunctio quam ea ex qua duo sunt in carne una? Quid dulcius, quid suavius, quam habere uxorem cum qua omnia loqui audeas ut tecum? Quae te curis et laboribus fatigatum relevet, quae laetum laetiorem aspectu suo facie. (42) Sed inculcane ad­ versarii loquacitatem, morositatem, impudiciciam feminarum et quod non vitanda4 est infamia tantum, sed infamiae suspicio. Haec certe malarum feminarum vitia sunt, nonne diximus nihil esse tam bonum quod in se aliquid mali non habeat? Si suspicio malorum vicanda est, nullus ergo seminet, quoniam grando fruc­ tus auferre potest; nullus naviget, quoniam navigans tempestati subiacet; nullus vivat, quia moriendum est. (43) Huic loco fa­ ciunt illa Metelli Numidici verba, quae in censura dixit ad popu­ lum de ducendis uxoribus: "Si sine uxore possemus, Quirites, es­ se, omnes ea molestia careremus; sed quoniam ita natura tradidit, ut nec cum illis satis commode nec sine illis ullo modo vivi pos­ sit, saluti perpetuae potius quam brevi voluptati consulendum". Feminae quidem ut plurimum male audiunt et ad malum perpe­ trandum promptae dicuntur; et hoc potius "maritorum quorun­ dam culpa" sic et "iniusticià' quam "illarum naturae vitio". Sed ca­ men bonis parentibus genitae beneque et liberaliter educatae pu­ dicae sunt et modestae, nullam maritis molestiam, ut Metellus dixit, afferentes quales vere sapientum uxores esse censentur. (44) Et si Medea, Progne, Clycaemnestra, Messalina et aliquae huius­ modi mulieres genus femineum infamane [c. H3r] tamen plures

4. quod non vitanda I540 ] quod vitanda.

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dall'asservimento. (41) Ma perché ho affermato che nel matrimo­ nio c'è la servitù? In esso ci sono semmai concordia e benevolen­ za, che condiscono la libertà con un particolare sapore dolce. In­ fatti se l'uomo è un animale politico52, cioè civile, come piace ai fì­ losofì e come anche noi vediamo, quale comunione è più bella, quale unione è più bella di quella per la quale due sono in un'uni­ ca carne? Cosa c'è di più dolce, di più piacevole, che avere una mo­ glie, con la quale puoi parlare di ogni cosa come con te stesso? Che quando sei stanco ti solleva dalle preoccupazioni e dalle fatiche, che quando sei felice ti rende ancor più felice con il suo sguardo 53. (42) Ma gli oppositori insinuano la loquacità, il fastidio, l'impu­ dicizia delle donne e che non solo è da evitare l'infamia, ma anche il sospetto dell'infamia. Questi, senza dubbio, sono i vizi delle cat­ tive donne, ma non abbiamo detto che non esiste niente di tanto buono che non abbia in sé qualcosa di cattivo? Se bisogna evitare il sospetto dei mali, nessuno allora semini, poiché la grandine può portare via i frutti; nessuno navighi, perché navigando potrebbe soccombere alla tempesta; nessuno viva, perché si deve morire. (43) A questo argomento sono adatte quelle parole sul prendere moglie che Metello Numidico pronunciò al popolo durante la sua censura: "Se si potesse, o Quiriti, fare a meno della moglie, sa­ remmo tutti esenti da questa seccatura; ma come la natura ha di­ sposto che non sia possibile vivere né con loro tranquillamente né senza di loro in alcun modo, così bisogna provvedere piuttosto al­ la perpetua salute piuttosto che a un effimero piacere" 54. Le don­ ne certamente godono di una cattiva fama e si dice siano pronte a compiere il male; questo avviene "per la colpa e l'ingiustizia di cer­ ti mariti" piuttosto che "per un difetto della loro natura" 5 5. Tutta­ via quelle nate da buoni genitori, educate bene e nobilmente, so­ no pudiche e modeste, e non recano al marito nessun fastidio, co­ me disse Metello, ricordando 56 quali si creda siano davvero le mo­ gli dei sapienti. (44) E se Medea57, Procne 58, Clitemnestra 59, Mes­ salina60 e altre donne di tal fatta diffamano il genere femminile,

Lucretiae, plures Portiae, plures Hipsicrateae genus suum coho­ nestaverunt; et pudicarum mulierum dieta prudenter ac facta fortiter pro patria, pro libertate, pro pace reperiuntur et leguntur. (45) Invenias mihi trecentas uxores eodem tempore et loco im­ pudicas quot pudicae et honestae fuerunt Teutonicorum uxores quae cum, amissis maritis, impetrare a Mario non potuissent, ut ab eo virginibus vestalibus dono mitterentur affìrmantes se con­ cubitus virilis expertes futuras, proxima nocte laqueis sibi vitam eripuerunt. (46) Et si quando uxor aliqua iuvenis marito seni et imbelli nupta, moechum caute tamen peteret, quid tum? Leve id crimen est. Et si par pari referendum est, meritum certe est; iam et mariti quoque moechas aliquando petunt et semper eiusdem carnis usus fastidium movet. «At fìlios alienos nutrire grave est». Grave quidem; sed quid si uxores et liberi essent com­ munes, ut Plato censuit et apud Garamantes et Britannos iam factitatum est ? Nonne aequanimiter et concorditer ferremus ? Contemnenda est ergo haec leviuscula iniuria et danda opera ut, quod possimus, uxoribus nostris vivendi libertatem conceda­ mus: ita enim sient minus peccabiles et ab illis magnopere dili­ gemur ac amabimur. (47) Quid quod uxor morosa et iurgiosa sa­ pientem virum perfìcit et qui aliorum iniurias et petulantiam fa­ cile ferre possit ? Quod de Xanthippe uxore sibi fìeri dicere Alci­ biadi solebat Socrates, omnium oraculo Apollinis iudicatus sa­ pientissimus. (48) «Sed libido ingenium, memoriam, vitamque minuit atque subnervat ». Quis nescit hoc lasci vis et inconti­ nentibus accidere solere hominibus, sapientibus vero minime ? Cum sapiens semper secum illud habeat "ne quid nimis". Virgi­ nitatem vero seu puritatem quam illi probant et extollunt, ego quidem non vitupero, sed philosophi damnant et natura. Nam si

tuttavia numerose Lucrezie61 , numerose Porcie62 , numerose Ipsi­ cratee63 lo onorarono; inoltre si trovano scritti e si leggono paro­ le prudenti e atti coraggiosi di donne pudiche per la patria, per la libertà e per la pace64. (45) Trovami trecento mogli impudiche nel medesimo tempo e luogo quante furono le pudiche e oneste mogli dei Teutoni, le quali, perduti i mariti, non avendo potuto ottenere da Mario di essere mandate in dono alle vergini vestali, affermando che si sarebbero astenute dall'accoppiamento con gli uomini, la notte successiva si tolsero la vita impiccandosi6 5. (46) E se talvolta una moglie giovane sposata con un marito vecchio e impotente cerca, purché cautamente, un amante, che male c'è? Questo è un crimine da poco. E se bisogna comparare l'uguale al­ l'uguale, certamente è giusto; infatti anche i mariti cercano tal­ volta delle amanti, e la frequentazione sempre della medesima carne provoca fastidio. «Ma è penoso nutrire i fìgli altrui» . Pe­ noso senza dubbio; ma se le mogli e i fìgli fossero comuni, come Platone ha pensato66 e come erano soliti fare i Garamanti67 e i Britanni ?68 Forse che non lo sopporteremmo serenamente e di comune accordo? Bisogna dunque trascurare questa offesa da poco e fare in modo, per quanto possiamo, di concedere alle no­ stre mogli la libertà di vivere: così infatti sarebbero meno tenta­ te dal peccato e da loro saremmo molto apprezzati e amati. (47) E che dire poi del fatto che una moglie fastidiosa e noiosa rende l'uomo sapiente, e tale che possa facilmente sopportare le offese e la petulanza altrui? Socrate, giudicato il più sapiente di tutti dall'oracolo di Apollo, era solito dire ad Alcibiade ciò che gli ac­ cadeva con la moglie Santippe69. (48) «Ma la passione riduce e annienta l'ingegno, la memoria e la vita » . Chi non sa che ciò ac­ cade di norma agli uomini lascivi e incontinenti, ma per nulla af­ fatto ai sapienti? E questo perché il sapiente ha sempre con sé la massima "niente di troppo"70. Quella verginità o purezza che es­ si approvano ed esaltano, io certamente non la biasimo, ma la condannano i fìlosofì e la natura. Infatti la virtù è nel mezzo tra

virtus est medium vitiorum utrinque redactum: ut liberalitas in­ ter avariciam et prodigalitatem, fortitudo inter audaciam et timi­ ditatem, ita inter virginitatem et lasciviam sive luxuriam erit mo­ destia quaedam coeundi. Et sane huiusmodi homines, qui nulla veneris voluptate tanguntur, 'àva(o-0Y] TOL' quodammodo sunt, hoc est 'sensu carentes'. (49) Et quemadmodum non ignoratis libidi­ nem immoderatam corporibus nocere, ita vos latere non decet magnam esse temperatae veneris utilitatem: nam ea ut recitat Pli­ nius "athletae torpentes restituuntur, venere vox revocatur cum ea candida declinar in fuscam, medetur et lumborum dolori, ocu­ lorum hebetationi mentecaptis ac melancholicis". Quin immo ni­ mia continentia certis corporibus plurimum nocet; quare Dio­ genes concubitui, quamvis sapiens, indulgebat, ut quod ab adver­ sariis nostris de eo dictum est pro nobis facere videatur. (50) Na­ tura est quae hominem gignere non potuit immortalem, speciem illius quantum in ea est nititur facere immortalem: itaque ma­ sculo et feminae ingenuit quendam coniunctionis appetitum procreandi causa et curam quandam eorum quae procreata es­ sent. Quare virginitas, hoc est sterilitas, non minus contra natu­ ram est, quam corruptio, quam mors: [c. H3v] ideo steriles femi­ nae apud Hebraeos male audiebant et a templo dei arcebantur. Bene Phocylides poeta monuit: " ò6ç TL 1e6 oµoç, v�eç òè 6aÀaa-Ol')ç"n e ciò che segue, cioè "senza dubbio i figli sono corona dell'uomo, le torri lo sono della città, i cavalli sono ornamento del campo e le navi del mare". (77) Quanta dol­ cezza, quanta gioia pensiamo che il nostro principe Bentivoglio provi quando, grazie alla casta moglie, si vede circondato da tan­ ti figli, tante figlie, tanti nipotini e nipotine? Certo a proposito di lui possiamo pronunciare quel carme profetico: "tua moglie è come una vite rigogliosa ai lati della tua casa, i tuoi figli come gio­ vani ulivi intorno alla tua mensa" Ecco così Giovanni, che te­ me il Signore, sarà benedetto; il Signore da Sion ti benedica e possa tu vedere le bellezze di Bologna tutti i giorni della tua vita e possa tu vedere i figli dei tuoi figli; pace sul popolo bolognese. (78) Potremmo dimostrare la nostra tesi con molti altri argo­ menti, ma, per non tirarla troppo in lungo, porremo fine a que­ sto discorso con le due autorità dei due massimi poeti. Ovidio Nasone rappresentò Mirra amante del padre e la fece prorompe­ re in quelle parole: "O madre - disse - felice per lo sposo che hai!" Mirra definiva felice la madre perché aveva quel coniuge che lei stessa desiderava. E Virgilio fa piangere quelle parole alla regina Didone che si lamentava disperata per la partenza di Enea: "Non mi era concesso, priva di nozze legittime, senza crimini passare la vita, come una bestia selvaggia" la regina indicava con "vita selvaggià' il vivere senza matrimonio. (79) «O povero Codro, che senza moglie vivi una vita da bestia ! » . Io, uomini il­ lustrissimi, per dire qualcosa di me in questo finale del mio di­ scorso, ero dotato dei beni della fortuna e di una costituzione ab­ bastanza valente; fu valido l'ingegno e tuttora lo è, è salda la me­ moria; gli occhi acuti, gli organi sani sono senza difetto e senza 1

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na sana, sine vitio sunt, sine morbo, artus mei validi; non egeo amicis, non libris, non pecuniolis; ad quinquagesimus annum, preveni ad quem multi contemporanei mei non pervenere. Felix essem nisi liberi deessent. "O si quis mihi parvulus aula / luderet Aeneas, qui me tantum ore referret': cui cistam et graecos possem legare libellos, non omnino mihi desertus inopsque viderer. Sed quid mihi filios deesse queror? Cum plurimos in multis ltaliae ci­ vitatibus discipulos habuerim et hic nunc habeam, qui me pa­ rentis loco amane, colunt ac observant, qui me mortuum effer­ rent dolerent ac plorarent, non aliter quam Achilles Chironem centaurum altorem suum ac praeceptorem. (80) Haec fere sunt quae pro coniugio dieta accepi. lnsurgunt adhuc adversantes, ut quae dieta sunt refellant. Sed quoniam longum adeo esset eorum iurgia et contentiones referre, videamus si quod iudicium super his statuere possimus. Et quamvis difficile sit recte iudicare, ca­ men sic pronunciabimus: virum sapientem, si senior [c. H6r] si valitudinarius, si pauper sit, ducenda uxore abstinere debere. At si validus, si iuvenis et dives, quin ille uxorem ducat nulla mihi causa esse videtur. (81) Caeterum si ducenda sit uxor, qua aerate tempestiva sit et qua vir nunc definiamus. Hesiodus poeta sa­ pientissimus eum tempestivum esse virum dicit, qui paulo intra trigesimum sit annum vel non multum superet, feminam vero quae quintumdecimum nata sic annum: "nap0evL1e�v òè 1e'�0ea 1ee ÒLà ÒLÒli�Y] ç", suadet etiam ut virginem ducas ut mores honestos doceas. (82) Aristoteles vero in Politicis libris scribit puellam connubio aptam cum octo et decem annos impleverit, virum au­ tem cum septem et triginta vel circiter: cune enim utriusque per­ fecta sunt corpora et ad filiorum perfectam procreationem con­ venientia. Puerorum autem et seniorum coitus "cpauÀ.oç", idest

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malattia, i miei arti sono vigorosi; non manco di amici, di libri, di un po' di denaro; sono giunto al cinquantesimo anno, al quale molti miei coetanei non sono giunti. Sarei felice, se non mi man­ cassero i figli. "Se per me piccino, nella casa, giocasse un Enea, che me soltanto rispecchiasse nel volto" n 5, al quale potessi lasciare in eredità una cesta e i miei libretti greci, mi sembrerebbe di non es­ sere del tutto abbandonato e povero. Ma perché mi lamento che mi siano mancati i figli? Ho avuto infatti molti discepoli in mol­ te città di Italia e anche ora qui ne hon6, che come un genitore mi amano, mi onorano, mi rispettano, che se morissi mi porterebbe­ ro a sepoltura, si addolorerebbero e mi compiangerebbero, non diversamente da come fece Achille per il centauro Chirone, che lo allevò e fu suo precettoren7 • (80) Queste sono all'incirca le pa­ role che conosco a favore del matrimonio. Gli oppositori si solle­ vano ancora, per confutare ciò che è stato detto. Ma poiché sa­ rebbe troppo lungo riferire le loro liti e le loro contestazioni, ve­ diamo se sia possibile stabilire un giudizio su questi. E benché sia difficile giudicare con giustizia, tuttavia così ci pronunceremo: un uomo saggio, se fosse troppo vecchio, cagionevole di salute o povero, deve astenersi dal prender moglie. Ma se è sano, giovane e ricco, non mi sembra che ci sia alcun motivo per cui non debba prendere moglie. (81) Se bisogna dunque prendere moglie, stabi­ liamo ora quale sia l'età opportuna per la donna e per l'uomo. Il sapientissimo poeta Esiodo dice che l'uomo è adatto quando è po­ co prima del trentesimo anno o non lo superi di molto, mentre la donna quando ha compiuto quindici anni: "7rap0evLK�v oè 1e'�0ea 8 KE Olà OLOrt;Y] ç" 11 , consiglia, infatti, di prenderla vergine e inse­ gnarle costumi onesti. (82) Ma Aristotele nella Politica scrive che la fanciulla è pronta per il matrimonio quando ha compiuto di­ ciotto anni, l'uomo quando ne ha circa trentasetteu 9 : allora infat­ ti sono perfetti i corpi di entrambi e adatti alla perfetta procrea­ zione di figli. Ma il coito di fanciulli e di uomini troppo vecchi è "q,auÀ.oç': cioè "inefficace': "7rpÒç TYJV -re1evo7ro(tav" 120 , cioè "per la

"pravus", "npòç -r�v -re1evo1rot'fav", idest "ad filiorum procreatio­ nem" est: et parvi nascuntur fìlii et multae puellae dolore pereunt et laedentur etiam sponsi iuvenes coeuntes in corporis augu­ mento, dicit enim Aristoteles. (83) Tempus vero anni foeturae aptum bene multi, eodem auctore, hyemem determinaverunt, quo tempore ego conceptus fui; nam postridie Iduum augusti na­ tus sum. Quare fìt ut cum augustalis sim, augustales quodam­ modo diligere alliciar ac cogar. (84) Romani etiam quosdam dies infelices nuptis observabant: "mense malum maio nubere vulgus aie" ut scripsit Ovidius, quoniam "quae nupsit non diuturna fuit". (85) Subiungit deinde Aristoteles oportere praegnantes cu­ rare corpora, hoc est ut non desides sint non utantur tenui cibo, sed quotidie aliquid iter faciant et quaedam alia huic rei confe­ rentia . (86) Verum illud non placet, quod dicit "ne pl òè àno 9 eo-ewç lCctL -r p o cp � ç TWV )' LV O [l EVWV f O"TW V O [l Oç [l Y] ÒÈv 7rE7rY] pW [lEVOV -rpeq>eLv", id est "quod haec sic lex de educatione ge­ nitorum, nullum mutilatum seu mancum esse nutriendum", hoc est qui caecus natus sic, vel claudus, vel alio modo blaesus non nu­ triatur. Et quod sequitur peius est: dicit enim si nimis foecunda sic uxor, cum praegnans est, antequam sentiat et vivat foetus, fa­ ciendam esse '�v &t.t�Àwo-Lv', id est 'abortionem': inhumanum cer­ te hoc est et a religione nostra detestatum. (87) Natus vero puer lacce matris, si fieri potest, nutriendus est, quod et philosophi et medici praecipiunt; sed videndum ne colostrum sic et infantes faciat colostratos. Sin minus, nutrici bonae habitudinis et bene moratae [ c. H6v] tradendus est: saepe enim lactis alimentum mores secum vehit et imprimit. Sed illud custodiendum ne nu­ trix coeat: coitu enim menses excitantur et illa concipit et san­ guinis bonitas in foetu consumitur !acque corrumpitur; quod puero !accenti maximum affert nocumentum. (88) Assuefacien-

procreazione dei figli": e, dice infatti Aristotele, nascono figli pic­ coli e molte fanciulle muoiono per il dolore e anche i giovani spo­ si che si accoppiano con un fisico ancora in fase di sviluppo saran­ no danneggiati. (83) Inoltre, secondo lo stesso autore, molti han­ no opportunamente scelto l'inverno come stagione dell'anno adatta alla procreazione, tempo nel quale io sono stato concepito; infatti sono nato il 14 agosto. Perciò accade che, essendo io di ago­ sto, in un certo senso sono attratto e indotto ad amare quelli di agosto. (84) I Romani consideravano anche certi giorni infausti al­ le nozze: "il popolo dice che è male sposarsi nel mese di maggio': come scrisse Ovidio121 , poiché "colei che si sposò allora, non ebbe lunga vita" 122 (85) Poi Aristotele aggiunge che è necessario che le donne gravide curino i propri corpi, cioè che non siano oziose e che non si nutrano di cibo leggero, ma che facciano ogni giorno qualche passeggiata e alcune altre attività utili alla situazione. (86) Ma non piace quel detto che recita: "nepl òè àno0eo-ewç 1eal -rpoq,�ç -rwv YLVOf!ÉVwv fO'TW VOf!Oç f!Y)ÒÈv 7rf7t'Y) pwf!Évov -rpéq>eLv" 123 , cioè "che ci sia questa legge sull'educazione dei figli124, che nessuno mutila­ to o storpio sia da nutrire': cioè che non sia allevato chi sia nato cie­ co, zoppo o in altro modo leso. E ciò che segue è peggio: dice in­ fatti che se la moglie è troppo fertile, quando è incinta, prima che il feto senta e sia in vita, è da praticare 'TIJV &f-t�Àwo-Lv: cioè 'l'abor­ to': questo è certamente disumano e condannato dalla nostra reli­ gione. (87) Il bambino deve essere nutrito dal latte della madre, se è possibile, e questo prescrivono sia i filosofi, sia i medici; ma bi­ sogna stare attenti che non sia colostro e che non renda i neonati colostri 12 5• Altrimenti occorre affidare il bambino a una nutrice buona e ben educata: spesso, infatti, il nutrimento del latte porta con sé i costumi e li imprime126• Ma c'è una cosa da controllare, cioè che la nutrice non abbia rapporti: dagli incontri sessuali, infatti, sono stimolati i cicli mestruali, quella rimane gravida e la parte buona del sangue è assimilata dal feto e il latte si rovina; questo porta grandissimo danno al bambino allattato. (88) Inoltre biso-

dus est praeterea dum tener est frigoribus, et hoc utile erit et ad sanitatem, ut scribit Philosophus, et ad res bellicas obeundas, quod solebant antiqui Ausones facere, ut scivit Maro: "natos ad flumina primum / deferimus saevoque gelu duramus et undis". (89) Circa vero quintum aetatis annum tradendus est disciplinis. Erant autem quattuor quae solebant antiqui pueri discere: litte­ rae, Iucca, musica et protractiva sive ars pingendi. Grammaticam et protractivam discebant tanquam valde utiles et vitae humanae valde bonas, luctativam tanquam conferentem ad fortitudinem. Musicam vero dubium an propter voluptatem, ut nunc multi, an ne turpiter in ocio manerent. (90) De tempore vero fricandi pue­ ros et quoniam fricandi sunt et uhi fricandi, non dico in prae­ sentia, quoniam hic mos nostra tempestate, ut credo, exolevit. Si quis tamen sciendi cupidus aliquid super hac re nosse quaeritat, Galeni libros invisat qui de regimine sanitatis sunt inscripti. Item et Cornelium Celsum, qui de frictione scribens, ex auctoritate Hippocratis, dicit frictione si vaehemens sic durari corpus, si le­ nis molliri, si multa minui, si modica impleri, quod et a Plinio in XVIII libro fuit repetitum. (91) Sed et haec et alia id genus multa omitto, quae a Plutarcho iam audietis; et ea si servaveritis, filios habebitis honestissimos et favorabiles; et nec de connubio queri eo nomine, quod malos produxerit filios poteritis. (92) Verum quoniam haec praecepta, nescio quo pacco, in desuetudinem abierunt, non mirum putandum est, si nec nos nec pueri nostri similes illis sunt, quos prisca aetas habuit et instruxit. Nam Per­ sae, ut scribit Xenophon, in Paedia Cyri filios suos non solum iusticiam et temperantiam et maiorum obedentiam et venatio­ nem docebant, sed in aliis rebus diaeta tam castigata utebantur ut turpae fuerit etiam cune Persis '-rò CÌ7t'07t'TIJetv', id est 'expuere',

gna abituarlo al freddo finché è ancora piccolo, e questo sarà utile sia alla salute, sia, come dice il filosofo127, ad affrontare la vita mi­ litare, cosa che erano soliti fare gli antichi Ausoni, come sapeva Marone: "i nati alle correnti dei fiumi dapprima affidiamo e alla sferza del gelo li induriamo fra le onde" 128. (89) Certamente intor­ no al quinto anno di età è da affidare agli studi. Quattro erano le materie che i fanciulli in passato erano soliti imparare: le lettere, la lotta, la musica, la ritrattistica o arte di dipingere. Imparavano la grammatica e la ritrattistica come molto utili e molto buone per la vita umana, la lotta come giovamento alla forza. Non si sa se im­ parassero la musica per piacere, come molti fanno oggi, o per non restare vergognosamente in ozio. (90) Inoltre, riguardo al tempo in cui massaggiare i bambini e perché sono da massaggiare e dove sono da massaggiare, non lo dico al momento, perché, come cre­ do, questa abitudine ai nostri tempi è scomparsa. Se tuttavia qual­ cuno desideroso di sapere vuole conoscere qualcosa su questo ar­ gomento, vada a vedere i libri che Galeno ha scritto su come pre­ servare la salute oppure anche Cornelio Celso che, scrivendo ri­ guardo al massaggio sull'autorità di Ippocrate1 29, dice che con il massaggio, se è violento, il corpo viene rassodato, se è delicato vie­ ne infiacchito, se è frequente viene snellito, se è scarso viene rim­ pinguato13 0, cose che anche da Plinio furono ripetute nel libro xv111 1 3 1. (91) Ma lascio perdere queste cose e altre simili, che da Plutarco poi sentirete; e se le osserverete, avrete figli onestissimi e amorevoli; e non potrete lamentarvi del matrimonio perché ha prodotto cattivi figli. (92) Tuttavia non è da ritenersi sorpren­ dente il fatto che questi precetti, non so in che modo, siano ca­ duti in disuso, dal momento che né noi né i nostri figli siamo si­ mili a quelli che l'era antica ebbe e formò. Infatti i Persiani, come scrive Senofonte1 3 2 nella Ciropedia, insegnavano ai propri figli non solo la giustizia, la moderazione, l'obbedienza ai superiori e la caccia, ma anche nelle altre cose usavano uno stile di vita tan­ to misurato che sarebbe stato turpe anche allora per i Persiani '-rò

1eal '-rò &.7rOf-lUTTeo-9a t', id est 'emungere nasum', 1eal '-rò uo-riç f-tE0-9oùç a(vecr6at', id est 'ventositatis plenum videri: "ataxpòv òè fTL Kal TÒ t6v-ra 7t'Ot) avepòv yeveo-9at � TOU oùp�o-aL eve1ea � Kal &ÀÀou Ttvòç -rotou-rou", id est "turpe etiam hoc aliquem cerni sece­ dere vel urinae vel alterius huiusmodi rei causa". (93) Nostri vero pueri et spuunt palam, eructant et pedunt et publice mingunt si­ ne ulla maiorum reverentia. Germani, ut Caesar in commentariis memoriae mandavit, intra annum vigesimum feminae noticiam habuisse in turpissimis habebant rebus. Nostri pueri non dico in­ tra vigesimum annum, sed intra decimum sciunt turpia, dicunt turpia, faciunt turpia. (94) Apud veteres Romanos senectus in magno honore habebatur: putabant enim illi prisci cives illum morte dignum qui seniorem non honorasset ut satyricus poetas scribit: "Credebant hoc grande nefas et morte piandum / si iuve­ nis vetulo non assurrexerat et si / barbato cuicunque puer". «At ille iuvenis dives est, iste senior pauper». Quid tum? Audi luve­ nalem: "Licet ille videret / plura domi farra acque ingentes glan­ dis acervos, / tam venerabile erat praecedere quattuor annis, / pri­ maque par adeo sacrae lanugo senectae". (95) Nostrorum adoles­ centium plerique nec patres, nec maiores observant, immo et in­ venti sunt qui audent verberare praeceptores. O turpe factum o magnum nefas! Unde hoc fìat an praeceptorum [c. 1.zr] an paren­ tum culpa non habeo dicere. Omnino illud luvenalis verum est: "Plurima sunt, Fuscine, et fama digna sinistra / et nitidis maculam ac rugam fìgentia rebus / quae monstrant ipsi pueris traduntque parentes': (96) Tu ergo pater, si vis esse bonus pater et boni fili pa­ ter, sequere Plinii ad Corneliam Hispulam super fìlio consilium:

t:t7t'07t'TUEL'v ', cioè 'sputare', e '-rò t:t7t'O[-tUTTeo-0at', cioè 'soffiarsi il na­ so: e '-rò cpu011 ç t-teo-0oùç cpa(veo-0at', cioè 'sembrare pieno di flatu­ lenza', "alaxpòv fTL 1eal TÒ l6v-rà 7t'OU cpavepòv yeveo-0at � TOU oùp�o-at eve1ea � 1eal &ÀÀou nvòç -rotou-rou" 1 33 , ma "turpe anche il fatto che qualcuno fosse visto allontanarsi per urinare o per un'al­ tra cosa dello stesso tipo". (93) I nostri bambini, invece, sputano davanti a tutti, ruttano, scoreggiano, urinano in pubblico, senza alcun rispetto dei più anziani. I Germani, come Cesare ha tra­ mandato nei commentari, ritenevano una cosa vergognosissima conoscere una donna prima del ventesimo anno134 • I nostri fan­ ciulli non dico entro il ventesimo anno, ma entro il decimo co­ noscono cose turpi, dicono cose turpi, fanno cose turpi 13 5 • (94) Presso gli antichi Romani la vecchiaia era trattata con grande onore: quegli antichi cittadini, infatti, ritenevano che fosse de­ gno di morire chi non onorava uno più anziano, come scrive il poeta satirico: "Ritenevano che fosse un delitto da espiarsi con la morte il fatto che un giovane non s'alzasse in piedi davanti ad un vecchio o un ragazzo davanti a chi già avesse la barbà' 13 6 • «Ma quel giovane è ricco, questo anziano è povero». E allora? Ascol­ ta Giovenale: "Anche se il ragazzo in casa sua poteva vedere più pani di farro e mucchi più grossi di ghiande; tant'era il rispetto che ispiravano quattro anni di più, fino a pareggiare la prima la­ nugine alla veneranda vecchiaia!" 137• (95) La maggior parte dei no­ stri adolescenti non rispetta né i padri, né i più anziani, anzi se ne trovano anche di quelli che osano frustare i precettori. O fatto ver­ gognoso, o grande empietà! Per quale ragione accada ciò, se per colpa dei precettori o dei genitori, non so dire. Del tutto vero è quello che dice Giovenale: "Sono molte, o Fuscino, le azioni de­ gne di trista rinomanza, tali da imprimere una macchia difficil­ mente cancellabile anche in ciò che c'è di più puro, e che sono pro­ prio gli stessi genitori ad insegnare e a trasmettere ai loro figli" 1 38 • (96) Tu dunque, padre, se vuoi essere un buon padre e padre di un buon figlio, segui il consiglio che Plinio diede a Cornelia Ispulla139

os

"Proinde faventibus diis" dicit Plinius "trade eum praeceptori, a quo mores primum mox eloquentiam discat, quae male sine mo­ ribus discitur". (97) Vos ergo, adolescentes egregii, qui verba mea summa attentione auditis, hortor et moneo ut reiecta socordia, reiectis vitiis, detis operam litterarum studiis et praecipue litteras graecas amplectamini. De quarum utilitate et voluptate tot ac tanta sunt a me superioribus annis exposita, ut ea nunc repetere supervacaneum sit; praeterea vos manifesto videtis nec leges nec medicinam, nec philosophiam, nec astrologiam, nec ullum poe­ tam, nec ullum oratorem, nec grammaticum, non denique ullam liberalem artem sine litteris graecis recte percipi posse. Nec ullum vere doctum, vere eruditum dici posse, qui litteras graecas non hauserit, et non simpliciter, sed usque ad extremam satietatem hauserit. (98) Et ego quidem in huius mei sermonis fine quosdam virgilianos versus, qui sunt in agricolae doctrinam traditi, recita­ bo. Vos autem in vestram adhortationem allegorice dictos esse co­ gitatote: "Quod nisi et assiduis terram insectabere rastris / et so­ nitu terrebis aves et ruris opaci / falce praemes umbram votisque vocaveris imbrem / heu magnum alterius frustra spectabis acer­ vum / concussaque famem in silvis solabere quercu". T éÀ.oç. Explicit sermo quartus.

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per il figlio. Dice Plinio: "Perciò - e gli dei ci siano propizi! - af­ fidalo ad un precettore che è in grado d'insegnargli prima i buoni costumi e poi l'eloquenza, la quale male si impara senza i buoni co­ stumi" 140. (97) Voi, dunque, egregi adolescenti, che ascoltate le mie parole con massima attenzione, esorto e ammonisco affinché, cacciata la pigrizia e cacciati i vizi, iniziate lo studio delle lettere, e in particolare abbracciate le lettere greche141. Sulla loro utilità e sul piacere che arrecano ho già speso tante e tanto numerose parole gli anni scorsi, per cui sarebbe superfluo ripeterle ora; inoltre voi vedete chiaramente che né le leggi, né la medicina, né la filosofia, né l'astrologia, né alcun poeta, né alcun oratore, né alcun gram­ matico, né infine alcuna arte liberale può essere ben compresa sen­ za le lettere greche. E nessuno può dirsi veramente dotto ed eru­ dito se non ha assorbito le lettere greche, e non superficialmente, ma fino alla massima sazietà. (98) Quanto a me, alla fine di que­ sto mio discorso reciterò alcuni versi virgiliani che sono traman­ dati per ammaestrare il contadino. Voi, allora, pensate che questi versi siano recitati allegoricamente per vostra esortazione: "Se as­ siduamente l'erba non incalzerai coi rastrelli, se con strepiti non spaventerai gli uccelli, se di un podere incupito con la roncola non restringerai le ombre né con voti avrai invocato la pioggia, ohimè, il grosso raccolto degli altri dovrai guardare deluso e bacchiando nei boschi una quercia consolare la fame" 142. T EÀoç 143. Finisce il quarto discorso.

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Note esegetiche al Sermo IV I. Auditores è il termine specifico per indicare gli allievi. 2. Ps.Plut. De lib. ed. Si segnala la grande importanza dei Moralia plutarchei pure nel secolo successivo, tanto che verranno postillati anche da Erasmo da Rotterdam e da Torquato Tasso. 3. In questo passo Codro utilizza un lessico di tipo tecnico-retorico (cfr. ter­ mini come «questionem generalem» , « hypothesim» e « suppositionem» ). Quintiliano, nella sualnstitutio oratoria (m-v), spiega il significato e l'utilizzo di questo specifico lessico: in particolare, ragionando sulla differenza tra questio­ ne generale (quaestio generalis) e particolare (inro0éO"tç o causa), riporta proprio l'esempio di Catone. Si spiega quindi la scelta di Catone come rappresentante della categoria dei sapienti, dal momento che la questione particolare del Sermo è proprio se un sapiente debba o no prendere moglie. 4. Nel testo latino troviamo « ad ungu em » , traduzione letterale del greco « èç ovvxaç » .

5. Luc. IV 227. 6. Horn. Od. XVII 322. 7. lust. lnst. I 6. 8. Verg. Georg. I 31. È un'apostrofe a Ottaviano perché diventi genero di Teti sposandone la figlia e prendendo così possesso dei mari. 9. Verg. Aen. IV 214. IO. luv. 6, 43. 11. Cioè "governati dalle donne", cfr. Arist. Poi. II 6 (=1269b). 12. Sofista e retore greco del IV secolo d.C. 13. luv. 6, 268-269. 14. Il verso in questione riprende un ritornello medievale presente in vari te­ sti di carattere misogino. 15. Mostro mitologico che divorava le navi di passaggio nello stretto di Mes­ sina: tale figu ra nasce dalla reale presenza di un vortice marino in quel tratto di mare, dovuto all'incontro di diverse correnti, cfr. Cic. Philip. II 67. 16. Cfr. Sermo I, §§ 74 ss. 17. L'Onomasticon del Porcellini riporta Solomon come variante diffusa per Salomon. 18. Aristoph. Ra. 989-991; Men. Asp. 269; Ps.Luc. Am. 53; Apul. Apol 24; Suid. s.v. I'eÀotorepov MeÀtT{�ov, cioè "più ridicolo di Melitide". 19. Plut. Caes. 10, 6, ma anche Suet. lul. 6, 2; Cic. Att. I 12, 3; I 13, 3. 20. Non è certa l'origine di questa espressione; l'unica traccia è nel Doctri­ nale di Alexandre de Villedieu (423), trattato sulla grammatica latina composto

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nel 1199. In ogni caso le origini di questo particolare proverbio sarebbero da ri­ cercare altrove: per esempio, potrebbe essere la traduzione di un proverbio gre­ co (anche se in R. Tosi, Dizionario delle sentenze greche e latine, non se ne trova traccia), confluito nella tradizione popolare. Inoltre non è possibile stabilire in che epoca storica il termine "cornuto" sia passato ad indicare non solo ciò che è provvisto di corna, ma anche chi subisce adulterio. Una delle più antiche atte­ stazioni letterarie la troviamo nei Proverbia super naturajèminarum antologiz­ zati da G. Contini nei Poeti del Duecento (Ricciardi, Milano-Napoli 1960). 21. Horn . Il. III 40 (ma «rxiS'ocf>eÀeç &yov6ç T·e�VIXL &yrxt,t6ç T'cbrolecr9rxL» ). 22. Suet. Aug. 65, 4. 23 . luv. 6, 347-348. 24. Ov. Am. III 4, 8. 25. In questo passo Codro condensa diverse immagini mitologiche: quelle degli eroi epici e quella del mito di Danae, fecondata da Giove sotto forma di pioggia. 26. Coruca è un termine che indica l'uomo che subisce adulterio: Codro lo riprende dal ramo secondario () della tradizione manoscritta di Giovenale (che Codro segue anche altrove), scambiandolo per un nome proprio e utiliz­ zandolo come appellativo dispregiativo. Coruca viene utilizzato con lo stesso si­ gnificato anche nella satira V di Antonio Vinciguerra, letterato attivo negli stes­ si anni di Codro ( «Stassi a l'imperio di una feminuzza / servo di ogni suo cen­ no quel curruca » ), e da Erasmo da Rotterdam nel suo Elogio della follia (20): «Ridetur, cuculus, curruca, et quid non vocatur» . Il ramo principale della tra­ dizione riporta invece uruca, cioè "verme". 27. Horn. Od. I 215-216. 28. luv. 6, 21-22. 29. Biante era uno dei sette sapienti greci. 3 0. Geli. V 11, 2, dove però il sillogismo di Biante sul matrimonio è riporta­ to in greco, con un gioco di rime - che in latino si perde - tra la bella donna che sarà koiné ( « di tutti» ), e della brutta che sarà poiné (« un castigo» ). In Gellio, inoltre, Biante conclude che a nessuno (non solo al sapiente) conviene sposarsi: Codro qui piega quindi volutamente ai suoi fini la citazione. 3 1. Cic. Ad Att. XIV 13, 5. 32. Cfr. per questa paraetimologia Donat. ad Ter. Adelph. 43 . 33. Per « hirquitalli» cfr. Sermo II, nota 66. 34. G. Boccaccio, Decameron, Conclusione dell'autore, 26: « per ciò che i fra­ ti son buone persone e fuggono il disagio per l'amor di D io, e macinano a rac­ colta e noi ridicono; e se non che di tutti un poco viene del caprino, troppo sa­ rebbe più piacevole il piato loro» .

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35. Apoc. 14, 4. 36. Hes. Th. 323-324; Horn. Il. VI 181-182. 37. Lucr. V 905-906. 38. Verg. Georg. III 242-244. 39. I Cor. 7, 9. 40. Gal. Loc. aff. VI. L'episodio è ricordato anche da Filippo Beroaldo nei suoi Symbola Pythagorae mora/iter explicata, a proposito del nono simbolo com­ mentato, «A fabis abstinendum esse» . 41. Arist. Pr. IV 28. 42. Luc. X 2m-203; Plin. Nat. hist. II 13. 43. Horn. Il. III 277; Od. XI rn9; XII 323. 44. Horn. Il I 9-IO. 45. Luc. X 204. 46. Plin. Nat. hist. XXXVI 202 (ma « ignes si fiant, multifariam auxiliari certum est» ). 47. Verg. Aen. II 758-759. 48. Ov. Rem. 45-46 (ma « salutares» ). 49. Pind. O. I 1. 50. Verg. Aen. II 305-307 (ma « montano flumine» ). 51. Hes. Op. 686. 52. La teoria dell'uomo come animale politico è ripresa dalla Politica di Ari­ stotele. 53. Cic. Lael.: è quanto si dice dell'amico, qui trasferito al rapporto matrimoniale. 54. Geli. I 6, 2. 55. Libera citazione da Geli. I 6, 3. 56. Ibid. 57. Medea era una maga che, secondo il mito, non esitò a uccidere il fratel­ lo pur di dare la salvezza all'amato Giasone. Abbandonata poi da Giasone, per vendetta uccise i figli da lui avuti. 58. Procne uccise lti, figlio suo e del re tracio Tereo, per vendicare lo stupro compiuto da quest'ultimo ai danni di Filomela, sorella di Procne. 59. Clitemnestra, aiutata dall'amante Egisto, uccise il marito Agamennone al suo ritorno dalla guerra di Troia per vendicare il sacrificio della figlia Ifigenia, avvenuto prima della partenza per tale guerra. 60. Messalina, moglie dell'imperatore Claudio, fu da questi condannata a morte per adulterio assieme all'amante Gaio Silio. Parole particolarmente fero­ ci le sono rivolte da Giovenale nella sesta satira, vv. 114-132. 61. Lucrezia, moglie di Collatino, incarnava il prototipo della donna roma­ na: !ani.fica, domiseda e univira. Affascinato da lei, il figlio di Tarquinio il Su-

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perbo la violentò e la donna, per non sopravvivere al disonore, decise di toglier­ si la vita. 62. Porcia, moglie di Bruto, si suicidò inghiottendo carboni ardenti quan­ do venne a sapere che il marito era morto nella battaglia di Filippi. 63. Ipsicratea, moglie del re del Ponto Mitridate, si tagliò i capelli e indossò armi virili pur di sostenere e aiutare il marito in battaglia. 64. Una delle principali fonti in cui reperire le biografie delle più famose donne dell'antichità è il De claris mulieribus di Boccaccio. 65. Val. Max. I 6, 1-3. 66. Plat. Rep. v. 67. Plin. Nat. hist. v 46. 68. Caes. Gal!. V 14, 4. 69. Santippe, moglie del filosofo Socrate, era famosa per il suo carattere ca­ priccioso e litigioso. 70. Si tratta di una celeberrima massima dell'oracolo di D elfì che si legge an­ che in Ter. Andr. 61. 71. Hor. Epist. I 18, 9. 72. Sul tema della passione smodata cfr. il proemio del Decameron di Boccaccio. 73. Plin. Nat. hist. XXVIII 58. 74. Ps.Phoc. 176. 75. lust. II 6, 7. 76. Dem. IArist. 16, 4-6. 77. Secondo Raimondi, il Sermo IV risale all'anno 1495-96, in quanto Codro dice di avere cinquant'anni (cfr. §§ 55 e 79): l'ipotesi è confermata dal fatto che il discorso dell'anno precedente cui qui si riferisce è il Sermo I, scritto per l'anno accademico 1494-95: «Et haec est lex cui omnes decet obedire propter multa et varia maxime quia omnis lex est inventio quidem et donum dei, dogma autem omnium sapientum, coertio autem omnium voluntariorum et non voluntario­ rum peccatorum, civitatis autem compositio communis secundum quam omni­ bus convenit vivere qui in civitate sunt » . 78. Cic. De orat. I 200. 79. Cic. Leg. III 3, 7. 80. La !ex Iulia de maritandis ordinibus fu. promossa da Ottaviano Augu­ sto nel 18 a.C. e prevedeva anche sanzioni per i celibi. Ne parla tra gli altri Suet. Aug. 34. 81. Val. Max. II 9, 1. 82. Hes. Op. 405. 83. Verg. Aen. VIII 405-406.

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84. Arist. Pr. IV 13. 85. Horn. Il. III 156-158. La stessa citazione compare anche in Sermo II, § 63 e in Sermo III, § 124. 86. Vicenda narrata in Cic. De inv. II I e in Plin. Nat. hist. XXXV 64. 87. Passo che ricorda la i lettera ai Corinzi di san Paolo (13, 4- 7). 88. Sembra qui esservi un'allusione all'amore efebico e omosessuale adom­ brato, del resto, anche nella biografia di Codro scritta dal suo allievo Bartolo­ meo Bianchini. Cfr. Sermo II, § 51. 89. Alcesti non esitò a morire al posto del marito Admeto, quando nessun altro voleva farlo; questa figu ra fu protagonista di numerose opere dell'antichità (la più famosa è la tragedia A/cesti di Euripide, del 438 a.C.). 90. Val. Max. II 6, 14. 91. Si riferisce ancora alla !ex Iulia de maritandis ordinibus, per cui cfr. no­ ta 80. 92. lust. Inst. I 25. 93. «Laconas » è accusativo plurale calco dal greco (Ati1ewv, -wvoç, "Lace­ demone", ace. plur. Ati1ewwtç). 94. Arist. Poi. II 6, 13 (= 127ob). 95. «Absalon» è variante meno diffusa di «Absalom» (cfr. Porcellini, Onomasticon). 96. II Reg. 18, 33. 97. Astianatte, infatti, significa "signore della città" : cfr. Horn. Il. VI 402403. 98. Episodio che Codro riprende da Sen. Tro. 704 ss., ma narrato anche in Ov. Met. xm 415-417, in Sen. Ag. 640-644, in Hyg. Fab. rn9, 2. 99. Sen. Tro. 705- 717. rno. Si tratta dell'umanista e diplomatico veneziano Antonio Vinciguerra, detto Cronico (1440 ca.-1502), considerato il primo autore di satire in volgare scritte in terza rima (una satira di Vinciguerra è proprio dedicata al tema del ma­ trimonio e, in particolare, alla questione se il letterato debba prendere moglie). Del Cronico parlano anche, in termini lusinghieri, sia Pico della Mirandola nel proemio dell'Apologia (ed. P. E. Fornaciari, p. 23) che Marsilio Ficino nella Theo­ logia platonica (VI 1, ed. E. Vitale, pp. 426-7). Su questa importante figu ra anco­ ra fondamentale cfr. B. Beffa, Antonio Vinciguerra Cronico segretario della Sere­ nissima e letterato, Lang, Bern-Frankfurt am Main 1975. IOI. Hor. Ars 142 (con allusione ai primi tre versi dell'Odissea e riferimento a Ulisse). I02. Giovanni II Bentivoglio fu signore della città di Bologna dagli anni Ses­ santa del Quattrocento fino al 1506. Fu un protagonista del Rinascimento bolo-

gnese, incentivando il patrimonio artistico e rafforzando i legami politici della città con gli altri Stati italiani. Sposò Ginevra Sforza e da lei ebbe numerosi figli. Cfr. B. Basile (a cura di), Bentivolorum magnificentia. Principe e cultura a Bolo­ gna nel Rinascimento, Bulzoni, Roma 1984. 103. Nella seconda metà del Quattrocento Bologna era indirettamente con­ trollata dal papa per il tramite di un "cardinal legato", ma governata da un consi­ glio cittadino guidato dai Bentivoglio. I decuriones sono i membri dell'ammini­ strazione comunale; i senatores i membri dell'oligarchia aristocratica; i sexdecim viri, invece, i sedici "riformatori di libertà", uomini illustri che si occupavano di leggi e giustizia. 104. Annibale, figlio di Giovanni II, sposò la ferrarese Lucrezia d'Este e fu condottiero di ventura. Prese il nome dal nonno Annibale I, assassinato alla metà del Quattrocento. 105. Horn. Il. III 179. 106. Sall. Catil. 60, 4. 107. Anton Galeazzo Bentivoglio, figlio di Giovanni II, a differenza dei fra­ telli Alessandro ed Ermete non intraprese la carriera militare; divenne giovanis­ simo protonotario apostolico. 108. Cfr. Cic. De off. I 51; Cic. Lael. 56-59. 109. Alessandro ed Ermete, figli di Giovanni II e Ginevra Sforza. no. Potrebbe riferirsi ad Aristotele, che nei suoi Problemata fa più volte riferimento alle diversità che intercorrono tra la prole e i genitori (Pr . X IO e 32). III. Ps.Her. Vit. Hom. 425-426. n2. Ps. 127, 3. n3. Ov. Met. X 422. n4. Verg. Aen. IV 550-551. n5. Verg. Aen. IV 329-330, con voluta e divertita variatio «qui me tamen» al posto di «qui te [Enea] tamen» . n6. Questo tema era caro a Codro, che lo ripropone anche nel Sermo I. n 7. O v. Fast. V 407. n8. Hes. Op. 698. n9. Arist. Poi. VII 16 (= 1335a). 120. Arist. Poi. VII 16 (= 1335b). 121. O v. Fast. V 490 (ma « malas » ). 122. O v. Fast. V 488. 123. Arist. Poi. VII 16 (= 1335b). 124. Qui il testo latino non traduce alla lettera ma riassume in un'endiadi (educatio) il sintagma aristotelico « ti7t'60em� 1ectl -rpocJ>� » . 125. Plin. Nat. hist. XXVIII 123.

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126. Si credeva che attraverso il latte materno venissero infusi nel bambino i costumi: per questo motivo, Catone faceva allattare dalla moglie anche i figli dei servi (Plut. Cato ma. 20, 5). Si ricordi che una delle principali fonti per tale argomento è Quintiliano (1 4). 127. Arist. Poi. VII 1336a. 128. Verg. Aen. IX 603-604. 129. Hipp. Ojf 17. 130. Cels. II 14. 131. In questo libro della Naturalis historia Plinio parla dei rimedi medica­ mentosi realizzati con le erbe. 132. Si ricorda che Guarino Veronese, padre del maestro di Codro, Battista, tradusse dal greco la Ciropedia di Senofonte. 133. Senoph. Cyr. I 2, 16. 134. Caes. Gal!. VI 21, 5. 135. Cfr. Sermo II, § 89. 136. Iuv. 13, 54-56 (ma « credebant quo» ). 137. Iuv. 13, 56-59 (ma « licet ipse... fraga et maiores» ). 138. Iuv. 14, 1-3 (ma « maculam haesuram» ). 139. Cornelia Ispulla era una celebre matrona, moglie di Cornelio Rufo. 140. Plin. Epist. III 3, 7. 141. Codro insiste spesso sull'importanza dello studio della lingua greca, in particolare nei sermones VII, X, XI. L'umanista iniziò i suoi corsi di greco a Bolo­ gna nel 1485. 142. Verg. Georg. I 155-159 (ma « adsiduis herbam» ). 143. «Fine » .

Indice dei nomi e delle op ere*

Alberti Leon Battista, 43, 51, 58, 243, 262, 275, 377 Intercenales, 43, 377 Momus, 43, 243 Alberto Magno, santo, 266 Compendium theologicae veritatis, 266 Alcesti, 413, 436 Alcibiade, 301, 405 Alcide, cfr. Ercole Alcinoo, 349, 353 Alcmeone di Crotone, 169, 260 Aldrovandi Gianfrancesco, 22 Aldrovandi Ulisse, 40 Alessandro Magno, 54, 69, 179, 419 Alexandre Villedieu de, 379, 432 Doctrinale, 379, 432 Alighieri Dante, 274, 370 Inf, 241

Absalom, 417, 436 Acheloo, 14 5 Achille, 171, 242, 293, 327, 333, 343-5, 353, 357, 363-7, 391, 423 Achille Tazio, 157, 257 Achillini Alessandro, 272, 307 Acilia, 281 Acilio Lucano, 281 Admeto, 436 Adone, 133 Adriano, imperatore, 67 Ady C., 315 Afranio Lucio, 287 Afrodite, cfr. Venere Agamennone, 3 53, 419, 434 Agostino Aurelio, santo, 63-7, 121, 203, 227, 234, 249, 263, 265-7, 273, 303, 316, 347, 371, 373 De civitate Dei, 65, 203, 234, 239, 249, 263, 265 - 7, 273, 303, 316, 347, 371, 373 De Gen ad litt. , 371 De haeresibus, 267 Agrippa Marco Vipsanio, 391 Aiace, 33 5, 372 Albertet Sestaro de, 2 74

Pg., 260

Amazzoni, 387 Ambusto, 87 Aminta III, re di Macedonia, 133 Ammiano Marcellino, 371 Rerum Gestarum Libri XXXI, 371 Amore, 79

* L'indice registra i lemmi quando compaiono nella traduzione. Il nome di Co­ dro è stato indicizzato solo quando è citato come "personaggio" all'interno del testo dei Sermones. Non sono inclusi i nomi degli autori e dei curatori di volumi segnalati nella Bibliografia.

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Argonautica, 113, 149, 165, 249, 251, 256, 259, 266 Scholia vetera inApolL Rhod., 109, 117, 121, 131, 157, 249 Apuleio, 17, 53, 61, 65, 123, 234, 249, 252, 432 Apologia, 249, 432 Metamorphoseon sive Asinus au reus, 123, 234, 249 Aquilio Gallo, 268 Arato di Soli, 157, 257 Phenomena, 257 Archiloco, 179, 347 Archimede, 185 Archita di Taranto, 203 Ares, cfr. Mane Aretana (Retana), 105 Argentaria Polla, 283-5 Argiropulo Giovanni, 265 Argonauti, 113, 131, 145, 149, 179 Aristeo, 147, 163, 242 Aristide (storico), 107 Aristippo, 349, 374 Aristofane, 37, 41 e n, 61, 129, 159, 165, 233, 257-9, 279, 312, 432 Nubes, 37, 165, 259 P/utu,s, 129, 159, 257-8 Ranae, 432 Vespae, 312 Aristogitone, 409 Aristosseno, 197 Aristotele, 40 e n, 57, 59, 103, 109, 123, 127, 169, 181, 191-201, 205, 215, 225, 244-5, 250, 260, 262, 264-5, 307-9, 311, 317, 325, 327, 341- 7, 351, 361, 370, 373-4, 378, 397, 411, 419, 423, 434, 437 Categorie, 370 De anima, 109, 265, 373 De coelo, 264, 373-4 De generatione animalium, 40, 169, 260

Ampice, 149, 151 Anacarsi, 219, 268 Anassagora, 191, 260, 264 Fragmenta, 260 Anassimandro, 189, 264 Anassimene, 191, 195, 264 Anceo, 131, 147-9, 255 Anchise, 244 Androgeus/Androgeon, 129 Andromaca, 97, 367, 417 Andromeda, 270 Andronico Callisto, 37n Angelica, 261 Anio, 117-9, 155 Annibale, 69, 133, 143, 177, 361 Anselmi G. M., 236 Anteo, 149 Anthologia Graeca, 133, 249, 251, 258-9 Anticristo, 209 Antigone, 121 Antiloco, 345 Antistene, 203, 266 Fragmenta, 266 Anto, 63 Antonia minore (madre dell'imperatore Claudio), 268 Antonino Pio, imperatore, 67, 179 Antonio Marco, 314 Apelle, 167, 259, 315 Apicio Marco Gavio, 83, 239-40, 312 De re coquinaria, 239-40, 312 Apollo (Febo), 63, 113- 9, 149, 155- 7, 239, 241, 248, 257-9, 267, 299, 349, 357-9, 399, 405 Apollo Delio, 185 Apollodoro, 255, 261 Bibliotheca, 255, 261 Apollonio di Tiana, 65 Apollonio Rodio, 38 e n, 109-13, 131, 149-53, 165, 201, 249, 251, 256, 259, 266 44-0

Ethica Nicomachea, 370, 374 Historia animalium, 40, 260 Metaphisica, 372-3 Physica, 370 Politica, 127, 250, 374, 423, 432, 434, 436-8 Problemata, 4n, 421, 434, 436-7 Rhetorica, 262, 309, 317, 370 Sophistici elenchi, 103, 245 Armiona, 127 Armonia, 127, 250, 341 Arpocrate, 374 Artemide (Diana), n3-5, 163, 246, 253, 255, 258, 267, 357, 359 Artemide, sorella di Febo, 63 Artemide Efesia, 2 53 Artemide "scioglicintura� 121 Asclepiade, 91 Asclepio (Esculapio ), 89, 241-2 Asconio Pediano Quinto, 143, 254 In Pisonem, 254 Asteria, 161-3, 258 Astianatte (Scamandro), 417, 436 Astipalea, 255 Atalanta (6.glia di Scheneo), 107 Atalanta arcadica, 107, 246 Atalanta ( 6.glia di laso), 108 Atalanta di Nonacre, 107 Atamante, 121, 249

Avanzi Girolamo, 248

Emendationes in Catullum, 248

Aventino, 297

Bacchelli F., 267 Bacchilide, 163, 258 Bacco (Dioniso/Dionisio), 117-9, 239,

242, 249, 253

6.glio di Semele, 63 Libero, 161 Bachtin M., 13 e n Bandello Vincenzo, 267 Barbaro Ermolao, 101, 137-9, 235, 243-

4, 246, 252-4, 261, 265, 378 Castigationes plinianae, 145, 243-4, 246, 252-4, 261, 378 Barbaro Francesco, 377 De re uxoria, 377 Bartolo da Sassoferrato, 175, 261 Basile B., 437 Basilio Magno, santo, 45 Baudelaire Ch., 44

Beccadelli Antonio, detto il Panormita, 33n Beccadelli Bartolomeo, 317 Beccadelli Galeotto, 272, 307 Beffa B., 436 Benedetti Francesco, detto Platone,

177, 261

Bentivoglio (famiglia), 21-2, 233 Bentivoglio Alessandro, 22, 419, 437 Bentivoglio Annibale I, 437 Bentivoglio Annibale II, 419, 437 Bentivoglio Anton Galeazzo, 22, 3rn,

Atena, cfr. Pallade Ateneo, 312, 315-6

Deipnosophisti, 312, 315-6

Atepomaro, 105 Atteone, 63 Attico Tito Pomponio, 109 Augusto Ottaviano, imperatore, 67,

44, 271, 315, 419, 437

Bentivoglio Ermete, 419, 437 Bentivoglio Giovanni II, 22, 67, 23 5,

268, 391, 432, 435

419, 421, 436-7

pseudo-Aurelio Vittore, 269

Berenice, 79 Beroaldi Niccolò, 267 Beroaldo Filippo il Giovane, 22, 46

Epitome de Caesaribus, 269

Aurispa Giovanni, 43

441

Beroaldo Filippo il Vecchio, 14-7, 22, 32n, 33 e n, 236, 243, 248-9, 251-2, 254, 256, 263, 265, 272, 274, 277, 312-6, 374, 378, 434 Ann. in comm. Servii Vergilianos, 256 Annotationes centum, 243, 248-9, 251, 254, 378 Comm. in Asinum aureum, 17, 252, 312 Comm. in Cic. Tusc., 265, 312 Comm. in Prop., 312 Comm. in Suet., 312 Declamatio philosophi, medici, oratoris, 32n, 314, 316 Oratio proverbiorum, 315 Symbola Pythagorae, 33n, 434 Besomi O., 314 Bian ch in i Bartolomeo, 9 e n, 13, 18, 20-2, 35, 40, 47, 251, 264, 315 Biante, 393, 433 Biavati O., 15 Biblia Sacra Act. , 234 Apoc. , 434 I Cor. , 434, 436 Is. , 267 Mt., 237 Ps. , 437 II Reg., 436 BlansdorfJ., 263 Bleyswich François, 45 Boaziano Pietro, 209, 267 Boccaccio Giovanni, 268, 433, 435 Decameron, 433, 435 De casibus virorum illustrium, 268 De claris mulieribus, 435 Bocchi Achille, 33n, 51, 261 Boezio Severino, 38 e n, 187, 263, 371, 373 De consolatione philosophiae, 187, 263, 373

Boiardo Matteo Maria, 262 L'innamoramento de Orlando, 262 Bonasone Giulio, 261 Bonosio, 211 Bracciolini Poggio, 39, 243, 377 An seni sit uxor ducenda, 377 Facetiae, 243 Branca V., 245 Brillante G., 255 Brunello (asino), 181, 262 Bruto Giunio Marco, 87, 287, 435 Bruto Giunio T ito, 87 Biichner K., 11 BurckhardtJ., IO e n Burley Walther, 175, 261 Butre, 131 Cadmo, 127 Caizzi F. D., 266 Cajado Enrico, detto Ermico, 315 Calamis, 259 Calcagnini Celio, 374 Calcante, 149 Calcaterra C., 9 e n, IO e n, 13-4 Calcondila Demetrio, 320n Calderin i Domizio, 135- 9, 243, 249, 251-2, 313 In Ibis, 251 Observationes quaedam, 243 Calipso, 349 Callifonte, 201 Callimaco di Cirene, 113, 125, 251 Hymni, 113, 251 Ibis, 125 Calliope, 260 Callisto, 63 Callistrato, 307 Calpurnio Lucio, 143 Camillo Marco Furio, 409 Campano Gian Antonio, 320n Canto, 151-3 442

Capitolino Giulio, cfr. Scriptores Historiae Augustae Cardano Girolamo, 268 Carducci G., 275 Carena C., 266 Carete di Lindo, 165 Caretti L., 14 Cariddi, 389 Carisio, 238 Ars grammatica, 238 Carlo VIII, re di Francia, 51, 23 5, 2 70 Carneade, 201 Caruso C., 314 Casella M. T., 252 Cassandra, 247 Cassiodoro Marco Aurelio, 316 Cassiope/Cassiopea, 270 Catilina Lucio Sergio, 419 Catone Marco Porcio, detto il Censo­ re, 73, 87, 240, 305, 383, 432, 438 De agricultura, 240 Catone Marco Porcio, detto Uticense,

Cesare Galerio Massimo, imperatore,

227

Cesarini Martinelli L., 313 Cesiano Lucio, 281 Charlet J. -L., 252-3, 255 Chimera, 157 Chines L., 21n, 370 Chirone, 91, 242, 357, 423 Ciapponi L., 248, 254 Cicerone Marco Tullio, 55, 57, 73, 103,

109-n, n5, 141-5, 153, 163, 175, 179, 183-5, 191, 195-9, 219, 225, 229, 234, 236, 245-6, 253-4, 258, 262-6, 26871, 291, 299, 305, 309, 315, 317, 337, 343, 347, 351, 367, 373-5, 379, 393, 409, 419 Ad Atticum, 246, 265, 432-3 Adfamiliares, 374 Brutus, 234, 317 De amicitia, 109, 434, 437 Defato, 373 Definibus, 266 De haruspicum responsis, 141, 254 De inventione, 236, 436 De lege agraria contra Rullum, 145, 2 54 De legibus, n5, 253, 261, 435 De natura deorum, 163, 258, 262-4, 266, 270, 372-3 De ojfìciis, 109, 246, 266, 437 De oratore, 234, 262, 317, 43 5 De republica, 263, 269, 375 De senectute, 109, 236, 244 In Verre, III, 143, 254 Lucullus, 245, 262, 264 Orator, 234, 309, 317 Philippicae, 432 Pro Fiacco, 315 Pro Murena, 269 Topica, 268 Tusculanae disputationes, 199, 263, 265-6, 270, 369, 373-4, 376

283, 289

Catullo Gaio Valerio, 1n-9, 18 5, 239,

246-8, 263, 305 Carmina, 239, 246, 263 Cavicchioli S., 261 Cazio, 205, 349 Cèbe J.-P., 241, 244 Cecrope, 409 Celeo, 167 Celso Aulo Cornelio, 91, 242, 427, 438 De medicina, 242 Censorino, 316 De die natali, 316 Ceo, n5, 161 Cerbero, 179 Cerere, 129, 143, 163, 167, 267 Cesare Gaio Giulio, 67, 83, n9, 179, 268, 273, 285-9, 305, 313, 389, 429 De bello Gallico, 43 5, 438

443

Cornuto Lucio Anneo, 249 Coronide, 241 Corrias G. M., 234 Cortese Antonino (padre di Codro), 18 Cortese Bartolomeo (nonno di Codro), 18 Cortese Pietro Anton io (fratello di Codro), 18 Costantino il Grande, imperatore, 227, 261, 269 Crasso Lucio Licinio, 183, 268 Crasso Marco Licinio, 234, 285 Cremete, 269 Crio, 258 Crisippo, 181 Cristo, cfr. Gesù Critolao, 203, 266 Crivelli Leodrisio, 259 Crizia, 195 Croce Giulio Cesare, 2 74 Cron ico, cfr. Vinciguerra Antonio Curione Gaio Scribonio, 305 Cusano Niccolò, 262 De quadratura circuii, 262

pseudo-Cicerone, 279 Rhetorica ad Herennium, 2 79 Cicerone Quinto, 393 Cicuta, 221 Cigno, 145 Cinica, 133 Cinna Elvio, 185, 263 Fragmenta, 185, 263 Cinxia, cfr. Giunone Clari Daniele, 38, 39n Claricio Girolamo, n e n Claudiano Claudio, 165, 259, 316 De raptu Proserpinae, 316 In Eutropium, 165, 259 Claudio, imperatore, 268, 281, 434 Claudio Trifonino, 365 Cleonide Musico, 264 lntroductio harmonica, 264 Cleopatra, regina d'Egitto, 83, 305 Clio, 239 Clitennestra, 353, 403, 434 Cloride, 149 Coccio Antonio, detto Sabellico, 38 e n, 254 Annotationes in Val Max. , 254 Codro, 61, 65, 73, 89, 99, 103-7, 111, 125-33, 139-47, 153-63, 171-7, 201, 209, 217, 221, 225, 279, 285-7, 307, 411, 421 Collarino Lucio Tarquin io, 434 Columella Lucio Giun io Moderato, 91, 175, 183, 240, 242, 261 De re rustica, 240, 242, 261 Contini G., 14 e n, 433 Copa, 63 Olimpionici, 63 Copernico Niccolò, 16, 41, 373 Corace, 183, 262, 275, 309-11, 317 Cordon ier Hyacinthe, detto T hém iseul de Saint-Hyacinthe, 19, 45 Cornelia Ispulla, 87, 429, 438

Dal Pozzo Francesco, detto Puteolano, 236 Danae, 433 Dardano, 127 Davide, re, 417 De Capua P., 313 Decembrio Pier Candido, 320n Dedalo, 111 Demarco di Parrasia, 63 Demetra, 129, 257 Demetrio, 215 Demetrio Mosco, 38 e n De Miro E., 255 Democrito, 43-4, 58, 191, 195, 264, 347, 349 Demodoco, 365

444

Ecate, 161-3, 258 Ecuba, 63, 367 Efesto, 247 Egeo, 240 Egesia di Cirene, 73, 237 Egisto, 353, 434 Elaide, 119 Elato, 241 Elefantide, 223, 269 Elena (di Troia), 127, 272-3, 297, 363, 365, 413 Elettra, 127 Eliano Claudio, 157, 257, 311, 317 De natura animalium, 257, 317 Ellenico di Lesbo, 127 Elvidio, 211, 267 Empedocle, 191, 195, 265, 341, 372, 399 Fragmenta, 265, 372 EndtJ., 313 Enea, 99, 235, 244, 335, 372, 387, 437 Ennio Quinto, 236, 244 Eno, 119 Enobarbo Gneo Domizio, 183 Enomao, 301 Eolo, 249 Epicuro, 185, 193, 199-205, 265, 349, 374 Epistulae, 374 Epimenide, 157, 257 Fragmenta, 257 Era, cfr. Giunone Eraclito, 43-4, 191, 195 Erasistrato di Ceo, 91, 242 Erasmo da Rotterdam, 16, 33, 39n, 42-4, 46, 377, 432-3 Colloquia, 46 Encomion morias, 43-4, 377, 433 Ercole (Eracle), 145-9, 157, 179, 242, 255, 261, 297, 391 nodo d'Ercole, 89, 121 Erillo, 201 Ermes, cfr. Mercurio

Demostene, 54, 69, 161, 217, 225, 258, 268, 307, 337, 409, 435 I Arist. , 268, 435 De corona, 161, 258 Diagora di Melo, 193 Diana, cfr. Artemide Di Breme L., IO Dicearco, 199 Didone, 235, 265, 380, 421 Dieci R., 47 Digestus, 375-6, 409 Dindorfius G., 247 Dinomaco, 201 Diocleziano, imperatore, 269 Diodoro Crono, 201 Diodoro Siculo, 129-31, 250, 254 Bibliotheca historica, 250, 254 Diogene il Cinico, 195, 379, 395- 7, 407 Diogene Laerzio, 187, 262-3, 266, 268, 317, 373-4 Vitae philosophorum, 262-3, 266, 268, 317, 373-4 Diomede, 153, 167, 177, 260 Ars grammatica, 260 Dione Cassio, 38 e n Dione Crisostomo, 376 Orationes, 376 Dionisio il Periegeta, 127 Dioniso, cfr. Bacco Dionisotti C., IO, 13, 36 e n Dioscoride, 244 Dolcetti P., 248, 258 Domiduco, 83, 239 Domiziano, imperatore, 141, 221 Domizio, 83, 239, 285- 7 Donato Elio, 153, 177, 243, 363, 371, 375, 433 Arsgrammatica, 371 Commentum Terentii, 363, 375, 433 Dorippe, 119 Driante, 125

44 5

Ermione, 127, 341 Ermippo, 129 Ermonia, 12 7 Erodoto, 165, 179, 259, 320, 325, 370 Historiae, 259 pseudo-Erodoto, 159, 257, 320, 370-1, 437 Vita Homeri, 159, 257, 320, 370-1, 437 Erofìlo, 242 Eschilo, 127, 250 Septem contra Thebas, 250 Eschine, 111, 246 Contra Ctesiphontem, 246 Esculapio, cfr. Asclepio Esiodo, 56, 67, 95, 127-9, 151, 157, 1613, 191, 235, 243, 250, 256- 8, 264, 331, 378, 395, 401, 411, 423, 434-5, 437 Opera et dies, 235, 434-5, 437 Scutum, 151, 256 Theogonia, 127-9, 157, 161-3, 250-1, 257-8, 264, 434 Esopo, 61, 243 Esperidi, 301 Este Lucrezia, 437 Ettore, 125, 293, 303, 345, 367, 391, 417 Euclione, 85 Eudice, 133 Eufranore, 181, 262 Eupoli, 133 Euribia, 258 Euridamante, 125, 129 Eurimedonte, 111 Euripide, 52, 55, 61, 73, 85, 97, 113, 123, 127, 203, 236, 240, 243, 249-50, 266, 316, 347, 373, 436 Alcestis, 236, 436 Andromaca, 243 Fragmenta, 316, 373 Hecuba, 113 Medea, 85, 123, 240, 249, 266 Supplices, 250

Euripilo, 363 Europa, 113 Eustazio di Tessalonica, 127, 165, 259 Evante, 63 Fabia (figlia minore di Ambusto), 87 Fabio Massimo Quinto, 175 Fasanini Niccolò, 267 Fassina D., 313 Faustina, 179 Favello, 181 Febe, 161 Febo, cfr. Apollo Febvre L., 12 e n, 13 Fedro, 249, 312 Ferecide di Atene, 119, 163, 248, 258 Fragmenta, 248, 258 Ferecrate, 199 Festo Sesto Pompeo, 121, 165, 234, 238, 249 Ficino Marsilio, 12, 262, 436 Theologia platonica, 262, 436 Fidia, 181, 262 Filelfo Francesco, 265 Epistulae, 265 Filetico Manino, 272 Filippo II, re di Macedonia, 111, 133 Filomena/Filomela, 434 Filostrato Lucio Flavio, 235 Vita Apollonii Tianaei, 235 Filotide, 245 Flegia, 241 Floro Lucio Anneo, 38n, 2 73, 289, 313-4 Epitomae, 313-4 Focilide, 407 pseudo-Focilide, 435 Porcellin i Egidio, 432, 436 Fornaciari P. E., 436 Forni G., 236, 243 Fosco Palladio, 247

Girolamo, santo, 67, 201, 249, 267, 3 79 Adversus Helvidium, 249, 267 Adversus lovinianum, 3 79 Giuba I, re di Numidia, 289 Giulia (figlia di Cesare), 179, 285 Giunone (Era), 123, 143, 147, 157, 241, 249, 267, 297, 299, 339, 341, 365, 413 Giunone Caprotina, 105, 245 Giunone Cinxia, 121, 249 Giunone Saturnia, 63 Giunta C., 274 Giunta Filippo il Vecchio, 251 Giuseppe (padre di Gesù), 267 Giustiniano, imperatore, 227, 435-6 lnstitutiones, 435-6 Giustino, 3 8n, III Glauco, 169 Glicerio (moglie di Eupoli), 133 Godart L., 255 Gorgia da Leontini, 99, 272, 275 Gracco Tiberio Sempronio, 87, 143 Gualdo Rosa L., 312 Guarini Alessandro, 248 Guarini Battista, 18-21, 248, 321, 43 8 Guarini Guarino, detto Guarino Veronese, 18, 33n, 107, 320n, 3 78, 43 8 Guerra M., 236 Guinizelli Guido, 14 Guthmiiller B., 314

Francia Francesco, cfr. Raibolini Francesco Frine, 299 Fucci Vanni, 241 Fundanio Marco, 87 Fuscino, 429 Galbiate Giorgio, 23 8 Galeno, 155, 257, 3 78, 427, 434 De locis ajfectis, 434 De simplicibus, 155, 257 Gallione Lucio Giunio Anneo, 281 Gambalunga Federico, 272, 3 07, 317 Ganimede, 303 Gargiliano, 219-21 Garin E., 10n, 16 Garzoni Giovanni, 16 e n Garzoni Tommaso, 274 Ge llio Aulo, 34n, 103, 153, 203, 235, 243, 245, 262, 266, 268, 314, 355, 3 74, 3 79, 433-4 Noctes acticae, 34n, 153, 235, 243, 245, 262, 266, 268, 314, 374, 433-4 Geminio, 207 Geraldina (madre di Codro), 18, 240 Gerione, 255 Germanico Lucio, 281 Gesù Cristo, 69, 209-13, 221, 235, 267 Giacinto, 3 05 Giasone (marito di Medea), 123, 434 Giasone di Pere, 129, 143, 254 Giove (Zeus), 20, 53, 63, 67, 89, 105, n3, n9-21, 125, 163-5, 183, 207, 248, 259, 267, 273, 297, 339, 343-5, 357, 365, 3 85, 3 91, 433 Giove Liceo, 63-5, 249 Giovenale Decimo Giunio, IO e n, 21, 43, 99, II7, 153, 237- 8, 241, 243, 248, 261, 267-9, 3 79, 3 87, 391, 429, 432-4, 43 8 Satirae, 21, 43, 23 7-8, 241, 243, 248, 267-9, 432-4

Haig GaisserJ., 249 Heidegger M., 12 e n Herzig T., 235 HofmannJ. B., II HuizingaJ., 12 HussJan, 268 lambe, 167 lasio, lasius, lason, cfr. Giasone karius/karion, 129 Idmone, 131, 151, 256

447

Idomeneo, 127 Ifigenia, 434 Igea, 242 Igino, 123, 129, 175, 187, 249-50, 255, 263, 270, 436 Astronomica, 123, 250, 263, 270 Fabulae, 255, 436 Ilizia, 121, 249 Imeneo, 83, 239 lno, 123, 249 lo, 63 Iperide, 299 Iperione, 341 Ippocrate, 91, 169, 260, 327, 399, 419, 427, 438 Corpus Hippocraticum, 169, 260, 438 pseudo-Ippocrate, 43 Epistulae, 43 lppodamia, 301 Ippomene, 107, 246 Ippone, 195, 265 Ipsicratea, 405, 435 Ireneo da Lione, santo, 234 lro, 349 lsacio, 115 Ischi, 241 Isocrate, 111, 147, 255, 272-3, 307, 317 Archidamus, 147, 255 De pace, 111 lti, 434 KeaneyJ. J., 320n Keil H., 260 KerckmeisterJohannes, 34 KindstrandJ. F., 250, 320n Kiihn C. G., 257 La Baume Le Blanc L. C. de (duca de La Vallière), 45-6 Lachete, 165-7

Lampridio Elio, cfr. Scriptores Historiae Augustae Landino Cristoforo, 58, 243 Lapo da Castiglionchio il Giovane, 240 Lapo Pietro, 221 Lapo Stefano, 221 Lascaris Costantino, 251 Lascaris Giovanni Andrea, 159, 177, 258, 261, 320n, 322n Latona (Leto), 113-7, 161-3 Lattan zio Lucio Ce cilio Firm ian o, 201, 246, 266 De opificio dei, 266 Divinae institutiones, 246 Lattanzio Placido, 107-9, 153, 157, 165-7, 246, 257-8, 316 In Statii Theb. , 257-8, 316 Learco, 121, 249 Leda, 297 Leonardo da Vinci, 12 Leoniceno Niccolò, 36 Leto Pomponio, 177, 251, 256, 261 Leucippo, 191, 195 Leucotea, 249 Leucus/Leocon, 129 Liban io, 387 Libero, cfr. Bacco Libone Quinto Petelio, 287 Licaone, 61 Licinio, 217, 268 Licofrone, 115, 119, 131, 149, 247-8, 251 Alexandra, 247-8, 251 Scholia in Lycophronem, 115, 149, 247, 256 Licurgo, 125, 129-31, 149 Lindsay M., 234, 238, 249 Lisia, 337 Lisippo, 165 Livio T ito, 38n, 221, 241, 268-9, 375 Ab urbe condita libri, 241, 268-9, 375

Lo Monaco F., 249, 314 Longhi R., n-2 Lucan o Marco Anneo, 85, 153, 225, 240, 271-2, 279, 281-5, 289, 305- 7, 313-4, 379, 385, 397-9 Pharsalia, 240, 271, 283, 313, 432, 434 Luciano di Samosata, 53, 61, 113, 243, 2 79 De saltatione, 113 pseudo-Luciano, 432 Amores, 432 Lucifero (stella del mattino), 185-7, 263 Lucrezia, 405, 434 Lucrezio T ito Caro, 101, 185, 199, 244, 262, 264-5, 285, 395, 434 De rerum natura, 244, 262, 264, 434 Luna, 163, 258 Lutero Manin, 16

Marciano Elio, 217, 268, 365, 376, 409 lnstitutiones, 268, 376 Mario Gaio, 405 Marsuppini Carlo, 320n Mane (Ares), 127, 151, 250, 267, 341, 365 Marziale Marco Valerio, 99, 135, 13941, 219, 236-8, 240-1, 243, 251- 3, 263, 269, 283, 289, 303-5, 312-4, 316 Epigrammaton liber, 236-8, 240-1, 251-3, 263, 269, 312-4, 316 Marziano Capella, 243 De nuptiis Philologiae et Mercurii, 243 Massim illa, 211 Mazzali E., 316 Mazzetti S., 317 Mecenate Gaio Cilnio, 268 Medea, 123, 143, 249, 403, 434 Medusa, 301 Meganira, 167 Megna P., 320 e n, 321 e n, 322n Mela Marco Anneo, 281 Melampo, 259 Melanione, 107, 246 Mela Pomponio, 201, 266 Chorographia, 266 Meleagro, 147, 255 Melicerte, 249 Melisso, 191 Melitide, 389, 432 Menandro, 236, 432 Aspis, 432 Menandro (allievo di Simon Mago), 65, 234 Menelao, 37, 127, 331, 361, 371 Mercurio (Ermes), 91, 161-3, 242, 267, 343 Mercurio Cillenio, 63 Merula Giorgio, 139, 238, 251-2, 254 Messalina, 403, 434 Messalla Marco Valerio, 183

Macaone, 361 Maccaferri C., 43, 47 Macrobio Ambrogio Teodosio, 105, 185, 199, 245, 262-3, 339, 372 Commentarii in Somnium Scipio­ nis, 262-3, 372 Saturnalia, 105, 245 Malagola C., 18n, 32 e n, 36n, 42n, 46n, 264, 312, 318, 370 Mancinelli Antonio, 243 Manilio Marco, 185, 263 Astronomica, 185, 263 Manto, 149 Mantovani A., 16n Manturna, 83, 239 Manuzio Aldo, 22, 33, 35-41, 177, 235, 261 Maometto, 209 Marcello Marco Claudio, 305 Marcello U, 365, 376 Marchesi G. V., 20n 449

Ockham Guglielmo, 16 Ognibene da Lonigo, 177, 261, 273, 313 Omero, 52, 54- 7, 59, 61, 69, 73, 77, 95, 115, 125-9, 147, 159, 171, 179, 189, 225, 231, 236-7, 248-50, 255, 257, 259-60, 264, 279, 285, 291-3, 297-9, 301-3, 314-6, 319, 320 e n, 321, 325-76, 378, 385, 391, 395, 399, 411, 419, 421 llias, 109, 125, 147, 171, 231, 237, 250, 255, 260, 264, 291-3, 297, 303, 315-6, 321, 327, 329, 343, 351, 363, 365, 371-6, 399, 433-4 436-7 Odyssea, 113, 121, 129, 231, 236, 24950, 260, 291, 316, 321, 327, 329, 343, 357, 361, 363-5, 371-6, 432-3, 436 Scholia Graeca in Hom. Il , 247 pseudo-Omero, 244, 249, 327 Batracomiomachia, 327 Epigrammata, 32 7 Hymni, 99, 113, 121, 244, 249, 251 Orazio Quinto Fiacco, 31n, 38n, 55-6, 75, 97, 119, 169, 175, 179, 185, 234-9, 242, 244, 248, 257, 260-1, 263, 268-9, 279, 312, 329-31, 335, 349 Ars poetica, 235-6, 248, 261, 329, 371-2, 436 Carmina, 236, 263 Epistulae, 31n, 119, 237- 8, 244, 248, 261, 268, 374, 435 Epodi, 268 Sermones, 234, 236, 239, 242, 244, 248, 260-1, 269, 312 Orcomeno, 149 Ordelaffi Pino, 20-1 Ordelaffi Sinibaldo, 20 pseudo-O rfe o, 131, 149-53, 163, 251, 256, 258 Argonautica, 149, 163, 251, 256, 258-9 Hymni, 251, 258

Metello, 403 Mida, re, 123, 249 Milanione, 107 Milziade, 159 Minasse, 247 Minerva, 155, 267 Mirone, 181, 262 Mirra, 133, 380, 421 Miste, 185 Mitridate, 435 Momo, 95, 243 Monaldi M., IOn Montaigne Michel Eyquem de, 44 Essais, 44 Montano, 211, 267 Mopso (fìglio di Ampice e Cloride), 149, 151 Mopso (figlio di Apollo e Manto), 149, 256 Mosco Demetrio, 38 e n Mucio Publio, 143 Museo, 107-9, 163, 246, 258 Hero et Leander, 246 Narciso, 305 Nauck A., 316 Nausistrata, 269 Neleo, 145- 7 Nerone, imperatore, 249, 281, 283 Nerva Siliano, 283 Nestore, 145-7, 255, 351 Nettuno (Posidone/Poseidone), 145-9, 171, 255, 267, 299, 339, 341, 351 Nicandro, 155, 167, 257, 260 Theriakd, 167, 257, 260 Nicia (padre di Eupoli), 133 Nigello di Longchamps, 262 Speculum stultorum, 262 Nigidio Figulo Publio, 189, 263 Niobe, 359 Nireo, 305 Notte, 163 45 0

Parmenide, 191, 264 Parrasio, 137, 252 Partenio Antonio, 248 Pasquali G., 14 Pasquali Pellegrino, 236 Pasquini E., 9n Pastore Stocchi M., 245 Patroclo, 125, 293, 343, 353, 361 Pausania, 133 Pelagonio, 91 Pelasgo, 259 Peleo, 297 Pelope, 303 Peneleo, 331, 371 Penelope, 391 Peonio, 163 Periclimeno, 145-9, 255 Perisauli Faustino, 377 Trastullo delle donne, 377 Perleoni Pietro, 320n Perotti Niccolò, 135-41, 243, 251-3, 255, 266 Cornu copiae, 243, 251-3, 255, 266 Perse, 161, 258 Perseo, re di Macedonia, 215 Persio Aulo Fiacco, 69, 97, 223, 235-7, 249, 262, 269, 293, 313, 315 Saturae, 235-7, 249, 262, 269, 313, 315 PetitJean, 35 Petrarca Francesco, 377 Rerum Familiarium libri, 377 Petreio Marco, 287 Petronio Arbitro, 237 Satyricon, 237 Petrus Henricus, 34 Piccolomini Enea Silvio, 377 Epistulae, 377 Piche, 260 Pico della Mirandola Giovanni, 260, 265, 436 Apologia, 436 Oratio, 260

Orlandi G., 36n Ortalo, 119 Orero, 157 Ottaviano, cfr. Augusto Ovidio Nasone Publio, 37 e n, 39n, 63, 99, 101-5, 113-9, 123, 127-33, 145, 149, 161-3, 167, 175, 234, 236-7, 240-1, 244-51, 255-6, 258-61, 301, 316, 370, 380, 399, 421, 425, 433-4, 437 Amores, 129, 250, 433 Ars amandi, 103, 236, 241, 245-6, 316 De remediis amoris, 434 Ex Ponto, 247 Fasti, 240, 437 Heroides, 237 Ibis, 119, 123, 129, 149, 249-51, 255 Metamorphoseon libri, 39n, 101, 115, 129-31, 145, 149, 161, 167, 234, 237, 244, 247-51, 255-6, 25860, 380, 436-7 Tristia, 236, 261 pseudo-Ovidio, 370 Argum. Bue. Georg. , 370 Palamede, 119 Palefato, rn7, 246 De incredibilis, 246 Palemone, 249 Pallade, 153-9, 297-9, 343, 391, 413 Pallante, 268 Pallavicini Gentile, 314 Palmieri Battista, 40-1, 44 Panezio, 109 Pan Liceo, 63 Panormita, cfr. Beccadelli Antonio Paolo, santo, 205, 379 Paolo (giurista), 375 Paolo Diacono, 316 Paracelso, 241 Paride, 2 73, 297-9, 303, 413

45 1

Epistulae, 139, 253, 258, 263, 267, 438 Plinio il Vecchio, 38n, 53, 63, 67, 89, 109, 115-7, 135-43, 151-5, 165-9, 187-9, 225, 234-5, 237-42, 244, 248, 252-4, 256-7, 259-61, 263, 269, 281, 30 5, 313, 316, 325, 361, 378-9, 397-9, 407, 427-31, 438 Naturalis historia, 109, 141, 167, 231, 234-5, 237-41, 244, 248, 252-4, 256-7, 259-61, 263, 269, 313, 316, 370, 375, 427, 434-8 Plistonico, 91 Plutarco, 105-7, 111, 115, 127, 159, 175, 238, 245-7, 268, 316, 320, 325, 329, 355, 370, 378, 383, 427, 438 Moralia, 105, 238, 245-6, 378, 432 Vitae parallelae, 111, 115, 127, 159, 240, 245-7, 250, 257, 261, 268, 316, 320n, 432, 438 pseudo-Plutarco, 127, 250, 320 e n, 321-3, 370-6, 378, 383, 432 De Homero I-2, 127, 250, 320 e n, 321-3, 370-6 De liberis educandis, 378, 383, 432 Pluto, 129 Plutone, 147, 179, 339 Polibio, 375 Historiae, 375 Policleto, 181, 259, 262 Poliziano Angelo, 22, 3m, 33, 35, 139, 157, 238, 243, 245, 248-51, 253, 256, 265, 313, 320n, 321n, 322 e n, 323-4, 378 Adnotationes in Statii silv., 313 Epistulae, 250, 265, 313 In Annotationes Beroaldi, 249, 251 Miscellanea, 243, 245, 248, 250-1, 253, 257, 265, 378 Oratio in expositione Homeri, 32m, 322n Silvae, 321

Pierio, 260 Pincio Filippo, 243 Pindaro, 38 e n, 105, 246, 259, 401 Olimpicae, 246, 434 Pins Jean de, 22 Pio Giovan Battista, 33n, 259 Pirrone di Elide, 201, 345, 373 Pisone Gaio Calpurnio, 281 Pitagora, 67, 183, 187, 197, 262-3, 279, 343, 349, 353, 374 Planude Massimo, 258 Appendix planudea, 258 Platone, 65, 69, 109, 179, 185, 191, 195-7, 203-5, 23 5, 258, 261, 263, 266, 275, 307, 325, 343-5, 351, 373-4, 405 Alcibiades I, 109, 23 5, 373 Convivium, 274 Epistulae, 374 Gorgias, 275, 345, 373 Leges, 374 Menexenus, 111 Phaedrus, 274, 373 Phoedon, 109, 373 Politicus, 374 Respublica, 261, 373-4, 435 Timaeus, 203, 263, 266, 373 pseudo-Platone, 235, 373 Axiocus, 23 5, 373 Plauto Tito Maccio, 11, 22, 33-4, 61, 234, 240, 245, 249, 256, 268-70, 374 Amphitruo, 234 Aulularia, 22, 33, 39, 239-40, 269, 370 Captivi, 374 Curculio, 256 Maenechmi, 24 5 Mostellaria, 234 Pseudolus, 268 Vidua, 234 Plinio il Giovane, 139, 207, 253, 258, 263, 267, 438 452

Institutio oratoria, 234, 248, 258, 260, 262, 314-5, 317, 371, 432, 438

Pollione Trebellio, cfr. Scriptores Hi­ storiae Augustae Polluce Giulio, 37 Vocabolarium, 37 Pompea, 389 Pomp e o Magn o Gne o, 225, 272- 3, 285-9, 305, 313 Pomponazzi Pietro, 317 Pontano Giovanni, 33n Porcia, 405, 435 Porfirio, 327, 370 Isagoge, 327, 370 Porfirione Pomponio, 248 In Horatii epistulas, 248 Posidone/Poseidone, cfr. Nettuno Postumio, 409 Postumo, 393 Pozzi G., 244, 246, 252-4, 261 Prassitele, 315 Prestanzio, 65 Priamo, 297-9, 343, 365-7, 413, 417 Prisciano di Cesarea, 101, 133, 139, 153, 244, 251, 253, 333, 419 Institutiones, 245, 251, 253 Priscilla, 2n, 267 Probo Valerio, n7, 249 Vita Persii, 249 Proclo Licio Diadoco, 251 Hymni, 251 Procne, 403, 434 Properzio Sesto, 15, 236-7 Elegiae, 236-7 Proserpina, 163, 258 Prossagora, 91 Protagora, 103, 193, 264 Proteo, 32 e n, 51 Psammetico, re d'Egitto, 165, 259

Rabelais François, 44 Raibolini Francesco, detto il Francia, 44-5, 315 Raimondi E., 9n, nn, 18n, 32 e n, 46-7, 314, 319 e n, 435 Raimondi Marcantonio, 261 Ramminger J., 266 Ravacaldo Niccolò, 263 Rea, 339 Regio Raffaele, 38 e n Reo, n7, n9 Retana, 245 Riario Sansoni Raffaele, 253 Ricchieri Ludovico, detto Celio Ro­ digino, 312 Antiquae lectiones, 312 Rickert E., 34n Rinuccini Alamanno, 235 Rinuccio d'.Arezzo (Aretino), 43 Ripa Luca, 20, 105-7, 245 Rodigino Celio, cfr. Ricchieri Ludovico Romano M., 13n Romolo, 107 Rossi F., 16n Rossi Mino de: 22 Rufo Cornelio, 438 Sabellico, cfr. Coccio Antonio Sabino Angelo, 251 Sacconi A., 255 Saitta G., II, 12n Sallustio Gaio Crispo, 419, 437 De coniuratione Catilinae, 437 Salomone, 389, 432 Santagata M., 274 Santippe, 405, 435

Quintiliano Marco Fabio, n9, 153, 161, 234, 236, 248, 258, 260, 262, 289, 3n, 314-5, 317, 331-3, 432, 438

453

Ciropaedia, 427, 43 8 Hellenica, 254 Serafini Costanzo, 267 Serra F., 12 Serra R., 12 Servio Mario Onorato, II7, 153, 163, 23 9, 243, 248, 256- 8, 264, 289 Ad Aeneidem, 23 9, 264 Ad Bucolica, 248 Servio Rullo Publio, 254 Servio Tullio, 240-1 Sesto Lucio, 87 Severi A., 47 Sforza Ginevra, 43 7 Sigieri di Brabante, 317 Siliano Nerva Licinio, 283 Silio Gaio, 434 Simeoni L., 15 e n Simocatta Teofilatto, 42 Simo di Larissa, 12 7 Simonide, 165- 7 Simon Mago, 65, 234 Skutsch O., 244 Slytershoven Herman Knuyt van, 34 Socrate, 201-3, 405, 435 Solone, 219, 268 Spagnoli Battista, detto Mantovano, 317 De presidentia oratoris et poetae, 317 Sparziano Elio, cfr. Scriptores Historiae Augustae Spermo, II9 Speusippo, 203 Scafi.lo, II7 Stasi B., 271 Stazio Publio Papin io, 99, 107, 127, 13 7, 153-9, 163, 1 79, 1 87, 225, 23 8, 240, 244, 246, 250, 252, 257-9, 261, 263, 283, 313, 341

Sarti Alessandro, 40, 41 e n Saturno, 339 Scamandro, cfr. Astianatte Scevola Quinto Mucio, 268 Schullian D. M., 253 Scipione !'.Africano, 69, 289 Scoto Duns, 16 Scotto Ottaviano, 39n Scriptores Historiae Augustae Capitolino Giulio, Maximini duo, 23 8 Lampridio Elio, Alexander Seve­ rus, 235, 303, 316 Pollione Trebellio, Triginta tyran­ ni, 23 8 Sparziano Elio, De vita Hadriani, 240, 367, 3 76 Vopisco Flavio, Divus Aurelianus, 235 Selene, 157 Seleuco I Nicatore, 242 Semele, 53, 63, 249 Seneca Anneo, detto il Retore, III, 246 Controversiae, III, 246 Seneca Lucio Anneo, 131, 141, 145, 14951, 157-9, 187, 199, 205, 236, 239, 251, 253, 255-8, 263, 266, 268, 281, 436 Agamennon, 258, 436 Apocolocyntosis, 258 Epistulae mora/es ad Lucilium, 268 Herculesforens, 147, 255, 257 Medea, 131, 145, 239, 251, 255-6 Phaedra (lppolytus), 187, 253, 263 Quaestiones natura/es, 266 Thyestes, 236 Troades, 436 Senocrate, 197, 221, 317 Senofane, 191, 339, 347, 3 72 Fragmenta, 3 72 Senofonte, 254, 427, 43 8

454

Silvae, 99, 238, 240, 244, 252, 261, 283, 313 Thebais, 127, 153, 159, 165, 187, 225, 246, 250, 257-9, 263, 341 Strabone, 111-3, 149, 159, 165, 246, 255-7, 259, 373 Geographia, 111, 246, 255-7, 259, 373 Strabone Gaio Fanno, 183 Strada Janovic C., 13n Stratocle, 111, 246 Suida, 432 Sulpicio Giovanni, detto Verulano, 253, 273, 313-4 Svetonio Tranquillo Gaio, 109, 236, 262, 273, 289, 313, 391 De grammaticis et rhetoribus, 262 Vitae Caesarum, 236, 313, 432-3, 435

Andria, 314, 372, 435 Heaut. , 237 Phormio, 236, 269 Tereo, 434 Termo Quinto Minucio, 287 Terra, 149 Tersite, 355, 365 Teseo, 159-61 Tespi, 151 Teti, 293, 297, 341, 387, 399, 432 Thémiseul de Saint-Hyacinthe, cfr. Cordonier Hyacinthe Tideo, 153 Tifi, 151, 256 Timone, 373 Tiraboschi Girolamo, 45 Tiresia, 149 Tirimbocchi Gaspare de', detto Tribraco, 18 Tirteo, 179 Tisia, 183, 275, 309, 311 Tisifone, 163 Titone, 258 Toffanin G., 14 Tolomeo I, re d'Egitto, 237, 291 Tolomeo III Evergete, re d'Egitto, 237 Tolomeo XIII, re d'Egitto, 287-9 Tolomeo Claudio, 185, 263, 373 Almagesto, 263 Geographia, 373 Tommaso dì\.quino, santo, 205 Tortelli Giovanni, 240, 320n De ortographia, 320n Tosi R., 433 Traiano, imperatore, 179, 227 Trapezunzio Giorgio, 263 Trasea, 207 Trasillo, 125-9 Trebazio Testa Gaio, 268 Trittolemo, 129

Tacito Publio Cornelio, 281-3, 313 Anna/es, 313 Talete, 189, 264, 337-9 Taio, 113 Tantalo, 369, 376 Tarquinio il Superbo, 8 5-7, 240, 434 Tarquinio Prisco, 240- I Tasso Torquato, 316, 432 Discorsi dell'arte poetica, 316 Tavoni M. G., 16n Telemaco, 3 55, 363, 391 Temeroli P., 16n Teocrito, 37 e n, 40 e n, 107, 117, 121, 129, 246, 248-50 Idyllia, 107, 129, 246, 248-50 Teodoro di Cirene, 193 Teofrasto, 343 Teognide, 113 Sententiae, 113 Teopompo, 179 Terenzio Afro Publio, 52, 61, 236-7, 249, 269, 314, 372, 435

455

Tuberi Giovanni, 313 Tucidide, 337 Tullia Maggiore, 85, 240-1 Tullia Minore, 85, 241 Tura Cosmè, 261 Tutola, 245 Ulisse, 113, 327, 343-5, 349-55, 359-65, 391, 41 7, 436 Ulpiano Eneo Domizio, 365, 375 Urania, 239 Urceo Antonio, cfr. Codro Urceo Cortese, 221 Ursidio, 387 Vacca, 313 Vita Lucani, 313 Valerio Fiacco Gaio, 125, 131, 149, 153, 250-1, 255-6, 259 Argonautica, 125, 131, 149, 250-1, 255-6, 259 Valerio Lucio, 87 Valerio Massimo, 38n, 133, 141-5, 251, 253-4, 409, 435-6 De dictis etfactis memorab., 251, 254, 435-6 Valesio, 143 Valla Giorgio, 39 Valla Lorenzo, 39, 234, 236, 243, 256, 260, 266, 274, 314 Antidotum I in Pogium, 260 De verofolsoque bono, 274, 314 Elegantie, 243, 266 Raudensiane note, 234 Varrone Marco, 287 Varrone Marco Terenzio, 63, 105, 121, 199, 203, 238, 241, 243-5, 266 De lingua Latina, 105, 245 Quaestiones plautinae, 243 Saturae Menippeae, 238, 241, 244

Vegezio Renato Publio Flavio, 91, 101, 242, 244 Epitoma rei militaris, 242 Mulomedicina, 242, 244 Veglia M., 11n Venanzio Fortunato, 244 Carmina, 244 Venere (Afrodite), 63, 127, 237, 239, 244, 250, 267, 273, 297-9, 341, 365, 395, 413 Venere Acidalia, 79 Ventura G., 19, 47 Vergine Maria, 21, 209-13, 267 Verginense dea, 121, 249 Vespero (stella della sera), 185- 7, 263 Vesta, 267 Vestino Attico, 283 Villani Filippo, 370 Exp. seu com. super Com. D. Alle­ gherii, 370 Vinciguerra Antonio, detto Cronico, 235, 377, 417, 433, 436 Utrum deceat sapientem ducere uxorem, 377 Virgilio Marone Publio, 3m, 53, 57, 63, 71, 97, 101, 125, 143, 155, 159, 175, 185, 189, 195, 221, 225, 234- 7, 23940, 248, 254, 256- 8, 261, 264-6, 269, 285, 291, 299, 303, 314-6, 323, 327, 339, 345, 367, 370, 379- 80, 385, 401, 411, 419-21, 42 7 Aeneis, 3m, 101, 109, 143, 163, 235, 237, 240, 254, 257-8, 261, 265-6, 269, 315-6, 329, 371-3, 375, 432, 434-5, 437-8 Bucolica, 234, 239-40, 314 Georgica, 109, 117, 248, 264, 269, 314, 316, 370, 372, 432, 434, 438 pseudo-Virgilio, 185, 240, 263 Appendix, 185, 240, 263 Viriplaca, 89

Wartenberg Ladislao von, 33 Wind E., 250 WoolfV., 13

Viruno P., 320n Vitale E., 262, 436 Vitruvio Pollione Marco, 244, 262, 297, 314- 5 De architectura, 262, 314-5 Vizzani Pirro, 2 72 Voltaire, pseud. di F.-M. Arouet, 46 e n Vopisco Flavio, cfr. Scriptores Historiae Augustae Vopisco Publio Manlio, 137 Vulcano, 267, 293, 341, 363 -7

Zenodoro, 135-7, 252 Zenone di Cizio, 195, 265, 307, 317 Zenone di Elea, 201-3, 347 Zeus, cfr. Giove Zeusi, 137, 252, 413 Zoilo "frusta di Omero': 171, 291 Zwierlein O., 258

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