Il ritorno. Testo latino a fronte 8884194261, 9788884194268

Poco tempo dopo il passaggio dei Visigoti in Italia e il clamoroso episodio del sacco di Roma (410), allorché i barbari,

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Il ritorno. Testo latino a fronte
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NAMAZIANO ritorno:campione blu grande

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poetiche e ideologiche del poemetto, traccia un’ampia panoramica della fortuna che il suo alone romantico gli ha procurato in Italia, fino a una recente rielaborazione cinematografica e alle varie e sempre differenti riscritture che continuano a inseguirne le risonanze con inesausta nostalgia.

CLAUDIO RUTILIO NAMAZIANO

Claudio Rutilio Namaziano

Sara Pozzato studia Lettere classiche presso l’Università di Padova e lavora a una tesi di laurea sul lessico e la fortuna letteraria dei luoghi ricordati da Rutilio Namaziano.

IL RITORNO

Alessandro Fo insegna Letteratura latina presso l’Università di Siena. Privilegia lo studio della tarda latinità e ha tradotto Le metamorfosi o L’asino d’oro di Apuleio (Frassinelli 2002; rist. Einaudi 2010) e, con note di commento, Il ritorno di Rutilio Namaziano (Einaudi 1994). Si occupa anche di letteratura italiana contemporanea, con particolare riguardo alla fortuna dei classici, e ha fra l’altro curato varie opere di Angelo Maria Ripellino (in particolare l’integrale delle poesie uscita in due volumi, rispettivamente presso Aragno e Einaudi, nel 2006 e 2007).

ARAGNO

Andrea Rodighiero insegna Letteratura greca presso l’Università di Verona. Ha pubblicato per Marsilio versioni commentate dell’Edipo a Colono (1998, Premio Monselice per la traduzione letteraria 1999) e delle Trachinie (2004), l’Antigone di Jean Anouilh, e insieme a Maria Grazia Ciani il volume Orfeo. Variazioni sul mito (2004). Del 2000 è una monografia dedicata a Sofocle: La parola, la morte, l’eroe. Aspetti di poetica sofoclea (Padova, Imprimitur); della fortuna letteraria dell’Edipo a Colono tratta il recente Una serata a Colono. Fortuna del secondo Edipo, Verona, Fiorini, 2007.

€ 15,00

IL RITORNO

ARAGNO

Poco tempo dopo il passaggio dei Visigoti in Italia e il clamoroso episodio del sacco di Roma (410), allorché i barbari, risalita la penisola, sono passati in Provenza e in Aquitania, per terminare successivamente nelle Spagne il loro itinerario di scorrerie e devastazioni, l’aristocratico Claudio Rutilio Namaziano lascia l’Urbe per raggiungere in Gallia le proprie terre d’origine e sovrintendervi alle necessarie riparazioni. Benché a rigore «ritorno» alle terre native, il viaggio cui Rutilio si sente costretto assume le proporzioni di un trasloco e di un viaggio di addio – probabilmente definitivo – a una città (e a un universo) cui si è profondamente ed entusiasticamente legato. Rutilio sceglie di viaggiare via mare, e salpa da Portus in autunno, a quanto pare quello del 417. La stagione è sfavorevole, e Rutilio navigherà a ridosso della costa, con piccole barche e per piccole tappe. Di questo itinerario stilerà una sorta di diario in versi: quello che per noi oggi è il poemetto in distici elegiaci De reditu suo, in due libri, mutilo di pochi versi all’inizio e poi di quasi tutto il secondo libro. Trascorrono sotto i nostri occhi paesaggi e rovine, ricordi storici e mitologici venati di nostalgia, manovre navali e attriti con nuove realtà come quella del monachesimo. Il punto di vista è quello di un nobile pagano che osserva le ferite del suo mondo, confidando in una rinascita affidata ai valori tradizionali, di cui egli stesso e gli amici via via incontrati si presentano come depositari e custodi. Il De reditu suo è qui proposto nella nuova traduzione di Andrea Rodighiero, accompagnata da essenziali note di commento di Sara Pozzato. Il saggio introduttivo di Alessandro Fo, oltre a recuperare le principali coordinate

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Claudio Rutilio Namaziano

Il ritorno a cura di Sara Pozzato e Andrea Rodighiero saggio introduttivo di Alessandro Fo testo latino a fronte

Nino Aragno Editore

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© 2010 Nino Aragno Editore sede legale via San Francesco d’Assisi, 22/bis - 10121 Torino sede operativa strada Santa Rosalia, 9 - 12038 Savigliano ufficio stampa tel. 02.34592395 - fax 02.34591756 e-mail: [email protected] sito internet: www.ninoaragnoeditore.it

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INDICE

Rutilio Namaziano e il suo viaggio: uno sguardo dalla scia di Alessandro Fo 1. 2. 3. 4.

Rutilio e il suo diario di viaggio Avvicinandosi Qualche considerazione iniziale ‘Punti di forza’ di un ‘poeta minore’

7 7 13 18 20

a) Il viaggio di restaurazione, le sue cause, le sue condizioni, 22; b) Il motivo delle rovine e della ‘decadenza’, 23; c) L’amore per Roma e l’esaltazione della sua funzione unificatrice, 24; d) Il tradizionalismo pagano, 26; e) La rete di amicizie e la pietas familiare, 26; f) La poesia del mare e dei paesaggi, 27; g) L’incompiutezza, 28; h) La disponibilità a riletture politico-sociali riattualizzanti, 29.

5.

Poeti per Rutilio

34

a) Fra apocrifi, traduzioni, imitazioni, 34; b) Viaggio e malinconia: Normanno e Pierluigi Cappello, 44; c) Iter e tristitia: il Rutilius Namatianus di Mauro Pisini, 54.

6.

Rutilio nella narrativa

63

a) Il racconto di Bondì-Ricci (1980), 63; b) Il racconto di Maria Clelia Cardona (1997), 69; c) Due romanzi: Maurizio Bettini e Paola Mastrocola (2004), 82; d) Un racconto di Fernando Acitelli (2005), 89; e) Il ‘ritorno’ del figlio: verso un nuovo racconto rutiliano, 96.

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7. 8. 9.

indice

Parentesi fra le quinte: Rutilio in palcoscenico Dalla letteratura al cinema: Rutilio sul grande schermo A scuola con Rutilio

102 111 140

a) Didattica come spettacolo, 140; b) «Rutilio, Sensazioni»: fra didattica e creatività, 147.

10. 11. 12.

I luoghi e le impronte: dagli schermi al mare, per una rievocazione del viaggio Allontanandosi (qualche appunto conclusivo) Postilla: i «palinsesti rutiliani» di Sergio Paglieri

Bibliografia

159 167 171 177

Claudio Rutilio Namaziano, Il ritorno

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Libro primo Libro secondo Frammenti

209 253 259

Note di Sara Pozzato

263

Indice dei nomi a cura di Anna Dori Index nominum a cura di Anna Dori

305 319

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Rutilio Namaziano e il suo viaggio: uno sguardo dalla scia di Alessandro Fo

Al ricordo di Aldo Bartalucci e Alessandro Ricci

rutilio Protadio, fra due o trecento anni... qualcuno… qualcuno si ricorderà di noi? protadio E chi lo sa? Magari diranno che abbiamo pensato male, amato con meno amore, odiato con poco odio e, chissà, che siamo morti quasi senza dolore. C. Bondì - A. Ricci, De reditu-Il ritorno Si è modificati da ciò che si ama, talvolta fino al punto di perdere tutta la propria identità […] cominci a sentire che dietro questi versi non sta un autore in carne e ossa, biondo, bruno, pallido, olivastro, rugoso o glabro, bensì la vita stessa: ed ecco la cosa che ti piacerebbe incontrare; la cosa con cui ti piacerebbe stabilire una prossimità umana. Dietro questo desiderio non c’è vanità, ma una certa fisica umana che spinge una minuscola particella verso una grossa calamita. J. Brodskij, Per compiacere un’ombra con la classica forza dell’elegia P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci

1. Rutilio e il suo diario di viaggio Poco tempo dopo il passaggio dei Visigoti in Italia e il clamoroso episodio del sacco di Roma (410), allorché i barbari, risalita la penisola, sono passati in Provenza e in Aquitania, per terminare successivamente nelle Spagne il loro itinerario

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di scorrerie e devastazioni1, Claudio Rutilio Namaziano, un aristocratico gallo-romano, lascia l’Urbe per raggiungere in Gallia le proprie terre e sovrintendervi alle necessarie riparazioni2. Ormai da molti anni vive a Roma. Sebbene non sia prodigo di particolari ‘privati’, tanto che ignoriamo se sia circondato o meno da una propria famiglia, è naturale immaginare che vi si sia sentimentalmente radicato. Inoltre vi ha percorso una fulgida carriera amministrativa: dopo essere stato, forse nel 412, magister officiorum (una sorta di ministro degli interni, cui erano sottoposti funzionari di varie tipologie e competenze, da economiche a cerimoniali e relative alla sicurezza), ha rivestito la prestigiosa carica di praefectus Urbi (una sorta di ‘sindaco’ di Roma: 413 o 414), che comportava addirittura la presidenza del senato. È per lui ragione di particolare orgoglio che un membro dell’aristocrazia provinciale abbia potuto assurgere 1 L’inizio del v secolo segna anche, per l’Impero Romano, l’inizio di un inarrestabile processo di disgregazione caratterizzato dall’impatto con le grandi migrazioni dei popoli germanici. Da est le regioni balcaniche e l’Italia subiscono le aggressioni dei Visigoti di Alarico e di altre orde germaniche condotte da Radagaiso; l’esercito imperiale, guidato da Stilicone, riesce ad opporvisi vittoriosamente, sconfiggendo i Visigoti a Pollenza (6 aprile 402) e Verona (403) e Radagaiso a Fiesole (406). Ma, mentre dal Nord, il 1° gennaio del 407, Vandali, Alani e Svevi dilagano nelle Gallie e poi in Spagna (409), in Italia si ripropone il pericolo visigoto. Questa volta la corte dell’imperatore d’Occidente Onorio, arroccata a Ravenna, non riesce ad opporvisi con efficacia, e nell’agosto del 410 Alarico giunge addirittura a prendere e saccheggiare Roma. Successivamente, i Visigoti piegano verso l’Italia meridionale; a Cosenza muore Alarico e gli succede il cognato Ataulfo, che li riconduce verso il nord. Lasciandosi dietro una scia di distruzione, nel 412 passano in Provenza e, proseguendo verso Occidente, conquistano la Gallia Narbonese e l’Aquitania, prendendo Tolosa e Bordeaux (413). Nel 415, anche sotto la pressione dell’esercito romano guidato dal generale Flavio Costanzo, passano nelle Spagne e il nuovo re Vallia prende accordi con Costanzo: foraggiamento e terre ove insediarsi, in cambio di prestazioni militari contro Vandali e Svevi (416). Nel 417 la crisi sembra ormai risolta alla meno peggio; i Visigoti sterminano Alani e Vandali di Spagna, e nel 418 vengono insediati nella Aquitanica secunda. Su queste vicende vd. Stein-Palanque 1968; per un «quadro storicocronologico» di sintesi più dettagliato vd. Fo 1994, pp. xix-xxv. 2 Non sappiamo esattamente dove fosse nato (e quando: forse negli anni settanta del iv secolo). Ma questo suo patrimonio di famiglia doveva situarsi in Gallia Narbonese, e verisimilmente non lontano da Tolosa, se con l’amico Vittorino – che ne era fuggito alla caduta della città nelle mani dei Visigoti –, Rutilio scrive di avere l’impressione di riabbracciare una parte di patria (I 503 s.). Sulla questione del nome (che Charlet 2005, pp. 58 s., vorrebbe correggere in Namatius), vd. ora Wolff 2007, pp. ix s.

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a simili fastigi nella città eterna, cuore dell’Impero con cui ha unificato il ‘mondo civile’ (I 13 ss.). Benché a rigore «ritorno» alle terre native, dunque, il viaggio cui Rutilio si sente costretto assume le proporzioni di un trasloco e di un viaggio di addio – probabilmente definitivo – a una città (e a un universo) cui si è profondamente ed entusiasticamente legato3. Rutilio sceglie di viaggiare via mare, e salpa da Portus in autunno, a quanto pare quello del 4174. La stagione è sfavorevole, e Rutilio lo sa bene; tuttavia dichiara di non poter più dilazionare un viaggio divenuto ormai urgente. Navigherà a ridosso della costa, con piccole barche e per piccole tappe. Di questo itinerario terrà una sorta di diario in versi: quello che per noi oggi è il poemetto in distici elegiaci De reditu suo, in due libri, mutilo di pochi versi all’inizio e poi di quasi tutto 3 Nell’introduzione a Fo 1994 ho riproposto l’idea (già affacciata in Fo 1989, pp. 49 ss.) che egli avverta il proprio viaggio come un esilio, e per questo motivo, nel poemetto che lo ripercorre, tenda ad allineare la propria vicenda a quella di Ovidio, circostanza che avrebbe fra l’altro – almeno secondo me – determinato l’opzione metrica per il distico elegiaco. L’idea è stata variamente riproposta da molta recente bibliografia (cfr. per es. Tissol 2002; Soler 2005a, pp. 272 ss.; Squillante 2005, pp. 223 ss.; Wolff 2005, pp. 67 s.; Wolff 2006, p. 269, nota 36 e contesto; Wolff 2007 pp. xxiv s.; cfr. anche Soler 1998 e Li Causi 2007). Questa prospettiva si intreccia con la questione – molto amata e dibattuta, a partire da Paschoud 1979, dagli studi rutiliani recenti – del genere letterario cui vada ricondotto il De reditu suo (su cui oltre, nota 6). Cfr. anche più avanti, nota 84 e contesto. 4 Su Portus, il porto di Roma fondato dall’imperatore Claudio e ristrutturato sotto Traiano, rinvio alla breve sintesi di Fo 2002a, pp. 164-168, e relativa bibliografia. La questione della datazione del viaggio rutiliano è stata per anni dibattutissima. Per molto tempo si è fissato il viaggio al 416, successivamente si è imposta la datazione al 417 (con partenza il 29 ottobre), che sembra aver trovato un decisivo appoggio in uno dei due frammenti della parte del ii libro caduta in lacuna recuperati nel 1973 da Mirella Ferrari (cfr. oltre, nota 5 e contesto), e precisamente in quella che ha tutta l’aria di essere un’allusione al secondo consolato di Costanzo, rivestito dal generale appunto nel 417 (vd. ora Wolff 2007, pp. 18 ss.). Ma anche dopo la scoperta ha mantenuto vigore la tesi precedentemente sostenuta con dovizia di erudizione da Lana 1961, secondo cui il viaggio si svolse nel 415 (con partenza il 18 novembre), abbastanza a ridosso dell’evacuazione dei Visigoti dalle Gallie. Il dibattito si può seguire in Corsaro 1981, pp. 7-53. Merita una certa attenzione un’ipotesi conciliativa affacciata da Della Corte 1980, p. 97, secondo cui il viaggio sarebbe caduto nel 415, ma il poemetto sarebbe stato steso e ‘congedato’ negli anni successivi, cosa che lo avrebbe aperto a recepire dati più recenti (come appunto la menzione del secondo consolato di Costanzo). Vd. in Fo 1994 (e anche in questa edizione) le note a I 135 s. (il 1169° anno), 165-178 (prefettura urbana di Volusiano), 183 (menzione delle Chelae), 185-188 (il tramonto delle Pleiadi), 201 s. (menzione di ludi), 205 s. (la luna nuova), 373 ss. (la festa di Osiride), 633-638 (tramonto di Iadi, Lepre, Cane, Orione), e al fr. B.

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il secondo libro, del quale sopravvivono 68 versi completi e due frammenti, per un totale di ulteriori 39 versi gravemente danneggiati5. Nel poemetto, carme continuo articolato tuttavia in momenti poetici distinti che ricordano le odierne sillogi di liriche, Rutilio racconta i preparativi per la partenza, una lunga attesa di migliori condizioni meteorologiche in Portus, e infine la navigazione di piccolo cabotaggio che tocca via via le tappe di Centocelle, Porto Ercole, la foce dell’Ombrone, Falesia, Populonia, Vada Volaterrana, Villa Triturrita (nei pressi del Portus Pisanus) e Luni (qui la tradizione umanistica del De reditu suo s’interrompe)6. La fortunata, recente scoperta dei

5 Il titolo è probabilmente un semplice complemento d’argomento, non un titolo d’autore. Tende a distaccarsi da questa comune opinione Squillante 2005, pp. 161 e 190 s. Cfr. anche Wolff 2007, pp. xviii ss. Per i frammenti, Ferrari 1973, Bartalucci e altri 1975, Fo 1994, pp. 54 ss., 126 ss., 142 ss. Di recente si è registrato un tentativo di negare a Rutilio la paternità dei frammenti: si tratta di una serie di studi di Maria Pia Billanovich (culminati in Billanovich 1994 e 1996), secondo la quale i frammenti, e in particolare il fr. B con il suo tema edilizio (secondo lei da riferirsi a una presunta basilica dedicata a Santa Agnese, o almeno contenente un sacello a lei consacrato), andrebbero ricondotti ad autore ignoto di area pavese, e risalirebbero al 353 «anno del sesto consolato di Costanzo II e del secondo consolato di un altro “Constantius”: il cesare Gallo Costanzo. La cui sorella – una Galla Costanza o Costantina? – già per tutt’altre ragioni avevamo in via ipotetica riconosciuta come probabile autrice dei “versus Constantinae”, composti per una basilica non romana, ma pavese. Essa è la prima moglie di Costanzo II, quella che poi, nel 358, ospiterà papa Liberio presso S. Agnese in Roma» (Billanovich 1996, p. 25). Le tesi della Billanovich, sebbene appaiano convincere Charlet 2005 p. 59, costruiscono in realtà un complicato e tendenzioso castello di ipotesi, asseverate con sicurezza, ma non per questo meno fragili e aleatorie. Noto con piacere che è della stessa opinione l’ultimo editore di Rutilio nella prestigiosa «Collection des Universités de France» (Wolff 2007, p. xx). 6 Come accennavo sopra (nota 3), si è molto dibattuto il punto se il De reditu suo vada ascritto a uno specifico genere letterario e quale. A mio parere Rutilio non si pose il problema nei termini in cui inclinano a porselo gli studiosi moderni; decise semplicemente di narrare in versi il proprio viaggio; e, per farlo, aveva a disposizione, nel distico elegiaco, una forma aperta a qualsiasi contenuto, che in più presentava il vantaggio di essere la stessa a suo tempo sfruttata, per narrare il proprio viaggio, da quell’Ovidio esule sulle cui vicende Rutilio sembra specchiarsi. Questo punto di vista è ora attaccato da Nicoletta Brocca (2003), con argomenti che mi paiono poco consistenti (cfr. in merito anche Wolff 2007, p. xxxii, nota 79 e contesto). Mi sembra soprattutto paradossale, nel suo studio, l’intento di sostituire questa teoria, accusata di debolezza, con quella (già battuta da altri in passato, e già in passato riconosciuta come poco soddisfacente soprattutto perché – con buona pace dei ragionamenti di cui in Brocca 2003, pp. 252 s. – ineluttabilmente incrinata dall’opzione metrica di Rutilio), secondo cui il poeta si sarebbe piuttosto allineato all’odeporica di Orazio (cioè al viaggio a Brindisi della satira I 5). Sul problema del genere letterario del poemetto ha

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due frammenti attesta che il poemetto non rimase incompiuto per la morte di Rutilio o frangenti simili; ma che – così come conduce a Genova e ad Albenga – scortava Rutilio e il suo lettore fino a destinazione. È probabile che durante il viaggio Rutilio si sia limitato a prendere appunti, e magari a elaborarli ‘per zone’ nelle pause imposte dal maltempo, mentre la confezione definitiva sia maturata con calma, nei possedimenti in corso di restauro, sull’arco di alcuni mesi di lavoro di lima: si tratta infatti di un testo assai curato, limpido nell’espressione e ricchissimo di finezze stilistiche e memorie allusive7. Il mondo che Rutilio ritrae è quello di un’Italia ferita dalle scorribande barbariche, in cui singole località destano memorie storiche o mitologiche, e più spesso offrono l’occasione di segnalare il passaggio o la presenza di amici e nemici. Gli amici sono nobili esponenti di quella aristocrazia senatoria in cui Rutilio ravvisa ancora il baluardo dell’antico valore romano. I nemici sono avversari politici o ideologici: famoso è il suo attacco allo stile di vita monastico, praticato nelle isole di Capraia e Gorgona, davanti alle quali si trova a passare. Rutilio appare fermamente arroccato nel paganesimo della tradizione: vede in Roma personificata una dea, accenna con sguardo partecipe ai culti di Osiride, mentre per il suo poemetto, se si esclude molto lavorato anche Joëlle Soler, che ha proposto idee singolari, come quella secondo cui il De reditu sarebbe una sorta di racconto di pellegrinaggio pagano da contrapporre a quelli cristiani (Soler 2005b), o come quella (che mi sembra restare tuttavia formulata in modo piuttosto vago e al contempo troppo ‘moderno’ e esteriore) secondo cui sarebbe necessario abbandonare l’idea di genere letterario e ragionare piuttosto, per Rutilio, in termini di «généricité textuelle» (Soler 2006, p. 106 e 109), guardando complessivamente ai vari apporti possibili derivanti dal motivo poetico del viaggio e dal ‘sottogenere’ dell’iter (Soler 2005a, pp. 255 ss.; Soler 2006); vd. anche la sintesi di Wolff 2007 pp. xxii ss. e xxv ss. (con la conclusione di p. 30). 7 Per qualche altra ipotesi sulle fasi di composizione vd. anche Fo 2002a, pp. 8688. È probabile che, a poemetto ultimato, Rutilio ne abbia organizzata una recitazione ‘ufficiale’ per gli amici, nel quadro di una qualche riunione conviviale. Su simili forme di intrattenimento signorile ci informa una commedia adespota riconducibile agli anni di Rutilio, e dedicata proprio ad un Rutilius (che personalmente inclinerei a ritenere il nostro): il Querolus. Per un rapido cenno alla questione, con altra bibliografia, vd. Fo 1994, xvii s. e ora Wolff 2007, pp. xii s. (per il Querolus vd. Corsaro 1964 e 1965, Lana 1979, Jacquemard-Le Saos 1994). L’eleganza e raffinatezza del poemetto è stata spesso ammirata e molto studiata; per alcuni ragguagli vd. Fo 1994, pp. xiii ss. e Wolff 2007, pp. lvii ss., con ulteriori rinvii bibliografici. Sulla metrica di Rutilio ancora utile il vecchio Giannotti 1940.

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l’aggressione ai monaci, il cristianesimo – di recente assurto a religione ufficiale dell’impero – non sembra neppure figurare nei registri dell’esistenza. L’avventura di Rutilio è tutta qui. Si lascia condensare in poche pagine. Eppure, curiosamente, la privata vicenda di questo poeta ‘minore’, cristallizzata in un poemetto che non manca di colpire per il suo nitore espressivo e le qualità di evocazione (specialmente per le delicate marine, o le sobrie ma icastiche descrizioni di località – talora in rovina – e di momenti della navigazione)8, ha fruito di una cospicua fortuna. Si riconducono alla sua vicenda scritture poetiche e narrative, e di recente il suo viaggio ha conosciuto riduzioni teatrali e cinematografiche. Mi è già avvenuto altrove di occuparmi un po’ più da vicino delle peculiarità di Rutilio, e di accompagnarne le tappe con una rete continua di appunti. In queste pagine vorrei che la sua statura – paradossalmente grande (e oserei quasi dire «inesauribile») nel piccolo –, il profilo suo e del suo poemetto, peraltro sufficientemente perspicui a una diretta lettura dei versi, tornassero a affiorare quasi ‘indirettamente’, per frammenti, dalla storia di ciò che hanno significato per altri. Il percorso della sua ‘sopravvivenza’ oggi addita, credo, meglio di ogni altra escursione le ragioni essenziali del suo fascino, e, mentre ne segnala i tessuti sempre nuovamente vitali, ‘ritorna’ su di lui quale incremento di conoscenza, luce sul suo carattere, sulle sue inclinazioni e la sua arte. Lungo gli anelli che prendono il largo dal punto in cui la piccola flotta di Rutilio tuffò i suoi remi, si disporranno via via in queste pagine le silhouettes di molte persone che, rivolte a quel centro, ne trassero sogni, traduzioni, riscritture, rievocazioni. Incontrarle significherà ripercorrere il viaggio rutiliano sulla sua scia di emozioni e di valori, rimasta in molti che hanno amato Rutilio e lavorato a progetti che lo riguardassero, nella speranza che il suo itinerario possa comprendere anche Voi, gentili spettatori di questo libro e di ogni altra occasione rutiliana.

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Vd. in proposito qualche appunto più oltre, al § 4.

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2. Avvicinandosi A chi si accinga a questo itinerario rutiliano – ‘viaggio di un viaggio’ (o per la precisione del suo diario), impensabilmente diffuso e, come in un viaggio intersecato da imprevisti, continuamente battuto da apporti, chiose, divagazioni – potrà forse non sembrare fuori luogo che l’inizio si collochi in un punto privato e scelto a caso sulla trama dei giorni, per esempio a Parma nel dicembre 1999. Capitò in quell’arco di tempo che Marzio Pieri9 incontrasse una conoscente, bella quanto non priva di cultura:

Un lapsus

Una professoressa pensionata, ancóra piacente, mi diceva l’altra sera: «ah, Rutilio, sì, de exitu suo…» arrossendo poi sùbito si corresse, restando turbata. Deve esserle passata d’un lampo davanti agli occhi la sua vita passata, il passivo, ogni anno, delle ultime pagine del manuale che non si toccano mai. Così, Namaziano nel suo ritorno exit, come un attore di Shakespeare, il trucco era l’anima, il Castello

9 Marzio Pieri, vertiginoso saggista, è da lungo tempo docente di letteratura italiana all’Università di Parma; vive a Reggio Emilia. Fra le sue numerosissime opere mi piace ricordarne due che ho trovato particolarmente nutritive e felici: Verdi, il monumento ritrovato, in condominio con Proferio Grossi, Tiziano Marcheselli e Gian Paolo Minardi, per Ivo Zarotto Editore (Parma 1995) e l’antologia (di «de-viazioni» scrive il frontespizio) Il Novecento in schegge. I molti volti del Novecento in musica, letteratura, arti figurative, edita per conto dell’Orchestra Sinfonica dell’Emilia Romagna “Arturo Toscanini” da Grafiche Step di Parma nel 1992. Dal risguardo di quest’ultima: «Studioso, ma forse no, certo editore di testi, barocchista (da Giambattista Marino, napoletano, a Gianfrancesco Malipiero veneto), curioso dell’“immaginario” (da Tasso a Tex) tranne quello della fantascienza cui rimprovera il sociologismo, ottocentista in parte involontario (da Verdi a Verga), contemporaneista perché critico, sa che tutte le storie “vanno rifatte da capo”; se anche non si può». Nella poesia qui riportata, il verso «il trucco era l’anima» rinvia al titolo di un famoso saggio di Angelo Maria Ripellino sui maestri del teatro russo del Novecento (Il trucco e l’anima, Torino, Einaudi 19651); Ripellino a sua volta vi metteva a frutto alcuni versi che Borìs Pasternàk aveva dedicato al regista . Vsevolod Emil’evicˇ Mejerchòl’d.

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non era mai esistito perché per esistere bisogna insistere ma l’insistenza annega nell’abitudine «unde negant redire quemquam». Addio.

Come avrebbe potuto fare il poeta marginale Rutilio Namaziano, Pieri ‘trascrisse’ in versi quel minimo episodio come tanti, appunto preso in calce a un evento qualsiasi fra i tanti chiamati in vita dal caso. E non credo che abbia mai pubblicato la breve lirica, inviata – come avrebbe potuto fare Rutilio – a un amico, un po’ per le consuetudini dei literary friends, e un po’, sapendomi sacerdote di quel culto, ‘per competenza’. Ai distratti il pensoso epigramma può sembrare accamparsi al confine dell’aneddoto. I più attenti alle tessiture poetiche, nonché alle infinite trame di raccordi culturali sempre attivate dalle scritture di Pieri, avranno subito colto come intenda invece inquadrare i labili confini fra marginalità e inesistenza. Per ovviare all’inesistenza non c’è che l’«insistenza». Magia delle parole: sottrai un fonema (che poi, preso da solo, è ‘congiunzione’), e ti ritrovi addizionato al mondo, sottratto a tua volta, ma nientemeno che al nulla, e dunque forse immortale. E tuttavia anche l’insistenza di un poeta a cercare di esistere – riproponendo per esempio la sua storia in un manuale, anche se i tempi che la conobbero sono, almeno in Italia, ai confini estremi dell’odierna gittata scolastica – naufraga spesso contro l’Abitudine, quella sorta di Ade da cui, come si crede e fino a prova contraria, non si torna. Una mostruosità già maledetta da Catullo nel carme 3, a proposito del passero di Lesbia incamminato illuc unde negant redire quemquam (At vobis male sit, malae tenebrae/ Orci quae omnia bella devoratis)10. Per tutto ciò il reditus di Rutilio in patria (e il suo ‘eterno’ tentato ritorno nella nostra memoria, ad ogni anno scolastico, 10 Mi accorgo per caso che del resto «Ade» è parola interamente inscritta in «abitudine», come «magia» in «marginalità»; ma questa nota era deputata a ricordare la traduzione che di Catullo ha dato alla luce proprio in Parma per Guanda il poeta Enzo Mazza (Gaio Valerio Catullo, Carmi, 1962; così i versi che ci interessano: «ora va per una buia/ strada senza ritorno. Maledette/ voi siate, empie tenebre dell’Orco,/ che inghiottite ogni cosa bella»); essa è ora per molti carmi riproposta nel poco meno inaccessibile volumetto delle Edizioni degli Amici Li éran bái chilà zóg (Eran ben giochi quelli), versioni da Catullo di Ferdinando Cogni piacentino, Sargiano-Arezzo, 2002.

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dal fondo del manuale) diviene invece un exitus, e il poeta, forse sconfitto, si allontana. La pasta fonica intreccia e apparenta concetti (passato e passivo, esistenza e insistenza) anche opposti (insistenza e inesistenza), in uno dei mille fragili tentativi della poesia di tenere insieme l’impossibile, di rettificare una realtà i cui connotati sono ontologicamente sconnessi, imperfetti, vocati a entropia, si chiami essa (rutiliana) disgregazione o scolastica abitudine. Insistenza-esistenza-exitus-reditus. E in tema di esistenza (e di abitudine), mi sembra non inopportuno rievocare un’altra curiosa e interessante quanto ‘poetica’ circostanza rutiliana. Vale la pena di seguirla ‘in diretta’ nella cronaca che ne fece lo scrittore Adriano Accattino sulla rivista «Harta» nel dicembre 1992 11: Tanto si è ammucchiato il tempo da cui raccolgo i candidi volumetti della collana di poesia Einaudi che, mese dopo mese, l’interesse si è affievolito sino a spegnersi quasi, con dei sussulti sempre meno appuntiti e più distanziati. La lunga consuetudine e l’abitudine del collezionista me li hanno fatti acquistare tutti, indiscriminatamente e fiaccamente; ma, l’ultima volta che sono andato in libreria, una straordinaria iniziativa dell’editore mi ha riacceso il gusto: un numero (ormai compro senza neanche nominare i titoli) è risultato introvabile! Tra il 233 di Patrizia Cavalli e il 235 di Costantinos Kavafis sta un vuoto inopportuno e forse prezioso: invito i lettori a farne personalmente l’esperienza, chiedendo il fantasmatico numero 234 della nitida serie. Ridestato da questa speciale assenza, il mio cervello ha cominciato a mulinare congetture su di un fatto tanto eccezionale […]. Una nuova verità […] si affaccia irresistibile: quell’intervallo è in realtà un omaggio a ogni poeta ignorato, senza voce e senza stampa. Il Caso, il più aperto collaboratore dell’editore, ha regalato un’intercapedine alle voci insufficienti e confuse, alle passioni frustrate e alle illusioni, che non potrebbe più degnamente riempire il libro più degno né più fittamente il libro più fitto. Da questo luo-

11 Accattino 1992. Adriano Accattino è un singolare e valentissimo scrittore (e pittore) ‘irregolare’ di Ivrea. Fra i suoi titoli mi piace ricordare soprattutto lo splendido I vantaggi della difficoltà pubblicato come supplemento alla rivista «I Medicanti», 1997. Ultimamente aveva intrapreso a proprie spese la pubblicazione di un «librogiornale di un unico autore», in «omaggio a te, a lei, a voi», inviato a chi ne faccia richiesta e intitolato «La memoria di Adriano» (a p. 64 del numero 4, giugno 2004, La libreria di Adriano, elenco-esposizione delle sue principali opere letterarie).

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go aperto ai sogni, che accoglie i dorsi dei libri mai pubblicati, sprigiona un messaggio radioso per gli scrittori: esiste sempre e tuttavia uno spazio disponibile che compare e si offre anche dove tutto viene di continuo occupato; esiste immancabilmente un’eccezione dove tutte le occasioni vengono metodicamente negate. Lo dimostra l’esempio che trattiamo: ecco l’assenza salutare dopo la sfilza d’ininterrotte presenze; ecco il vuoto dopo troppi pieni, la pausa sottratta ai calcoli e alle dosature. Ecco la fetta che tocca all’ignoto: quel numero due tre quattro non appartiene più a un unico autore, ma è di molti e moltissimi. Diffido gli uomini dell’ordine e del recupero dall’occuparlo tardivamente e abusivamente.

Era avvenuto, naturalmente, che per bizzarre circostanze legate alla programmazione editoriale, il numero 234 apparisse più tardi del 235 (e forse anche di qualche altro successivo ancora): ma grazie a quell’indugio, Rutilio, alla cui edizione il numero era stato assegnato, s’è levato, sulle ali della splendida pagina di Accattino, a «luogo aperto ai sogni» e «fetta che tocca all’ignoto», intercapedine «di molti e moltissimi» per le «voci insufficienti e confuse», «omaggio a ogni poeta ignorato, senza voce e senza stampa»12. La minima avventura ci riconduce al motivo della marginalità. Ed ecco che, in uno dei poeti più grandi fra quelli unanimemente considerati invece ‘maggiori’, è tema quasi ossessivo il ripudio della gloria, il desiderio di oblìo. Un suo monodistico esprime quest’idea nella massima concentrazione possibile13:

Accattino tornò a scriverne su «Harta» (Accattino 1993), con una splendida pagina saggistica intitolata Il ritorno del sogno, che insiste, a mio vedere, nel più pertinente dei modi sulla particolare sostanza onirica – e di vero e proprio innesco di rêveries – che pertiene quasi magicamente al piccolo poemetto rutiliano («È uno strano gioco di immedesimazioni: si congiungono le ore avanzate, le luci tramontanti, le letterature di epoche di sgombero. Anche il nostro tempo, come quello di Rutilio, sembra gravato da una fine che si fa troppo attendere, mentre vorremmo toglierci da questo estenuante dissanguare, vorremmo vedere il fondo perché possiamo assaggiare il cominciamento di un’epoca nuova […] Queste poche cose ho pensato leggendo il libro […], ma della burrasca di implicazioni travolgenti, di sostituzioni e di identificazioni ancora mi trovo in balia, anche ora che il libro ho finito»). 13 Jorge Louis Borges, da Quindici monete, nella raccolta La rosa profonda, 1975 (Borges 1985, vol. II p. 691). 12

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Un poeta minore

La meta è l’oblio. Vi sono giunto prima.

E tuttavia, già una decina di anni prima, Borges aveva direi illustrato questo concetto – e con minor recisione, maggiore apertura – in un suo ‘acquerello’ dedicato A un poeta minore dell’Antologia. Fra i corollari di questo testo assai bello, è la constatazione (un nuovo teorema se si vuole) che il poeta minore non è stato ‘frugato’ dalla fama; posto com’è al confine dell’oblio, può essere meglio reinventato, ricreato, riscritto (come più volte vedremo avvenire, particolarmente nei paragrafi sulla prosa e sul cinema)14: Dov’è la memoria dei giorni che furon tuoi sulla terra, e intrecciarono gioia e dolore e furono per te l’universo? Il fiume numerabile degli anni li ha dispersi; sei una parola in un indice. Dettero ad altri gloria senza fine gli dèi, iscrizioni ed eserghi, monumenti e diligenti storici; di te sappiamo solo, oscuro amico, che una sera udisti l’usignuolo. Tra gli asfodeli nell’ombra, l’ombra tua vana penserà che gli dèi son stati avari. Ma i giorni sono una rete di comuni miserie, e c’è sorte migliore della cenere di cui è fatto l’oblio? Su altri gettarono gli dèi l’inesorabile luce della gloria, che guarda nell’intimo ed [enumera ogni crepa, della gloria, che finisce col far avvizzire la rosa che venera; con te, fratello, furono pietosi. Nell’estasi di una sera che non sarà mai notte, tu odi la voce dell’usignolo di Teocrito.

Jorge Louis Borges, dalla raccolta L’altro, lo stesso, 1964 (Borges 1985, vol. II p. 35).

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«Sei una parola in un indice». Lì un «usignuolo» nella lista degli epigrammi o dei temi; nel nostro caso un nome proprio nell’indice del manuale di letteratura latina. Pochi arrivano ai tuoi paragrafi e alla tua voce. Pochi fortunati, se è vero che quelle «sere» che hai cantato restano ancora accessibili e fragranti per i nostri sensi; e, sottratte all’«inesistenza», non saranno mai notte. 3. Qualche considerazione iniziale Dubbio a posteriori: i veri grandi poeti sono i “poeti minori”? G. Caproni, Pensando a Camillo Sbarbaro e a certi suoi (frettolosi) collocatori

«È capitato a tutti. Da ognuno di noi la tradizione è venuta, a tutti ha promesso un volto e, in forme diverse, per tutti ha mantenuto la sua promessa. Tutti noi siamo diventati uomini solo in quanto abbiamo amato altri uomini o abbiamo avuto occasione di farlo». Queste parole del Salvacondotto di Borìs Pasternàk – un suo scritto autobiografico del 193115 – mi sono sembrate a lungo una sorta di ‘formula definitiva’ in grado di rendere ragione di quelle repentine epifanie grazie alle quali avviene che un testimone del passato, per noi uno scrittore, improvvisamente s’imponga inatteso, con una forza tanto travolgente da riuscire a conquistare un altro uomo in un senso non solo sentimentale ma anche, direi quasi, militare, e a condizionarne in modo più o meno esteso le vicende, addirittura lo stile di vita. Più di recente mi è avvenuto d’imbattermi spesso in diari di esperienze analoghe a firma di grandi scrittori. Per esempio Josif Brodskij nella sua Lettera a Orazio – un saggio scritto in inglese nel 1995, poco tempo prima di morire, e raccolto nella silloge postuma On Grief and Reason tradotta in Lo cito dalla traduzione di Giovanni Crino per il marchio «Nobel Letterari», Bologna 1971 (concessione Editori Riuniti), p. 16.

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italiano da Adelphi –, dichiarando all’antico latino la propria affinità aggiunge: Così stanno le cose fra te e me, anche se questo discorso potrà sembrare presuntuoso a tutti. Ma non a te. «All the literati keep/ An imaginary friend» dice Auden. Perché io dovrei fare eccezione16?

Dunque, secondo la citazione nella citazione, con le parole di Auden «Tutti i letterati hanno in serbo/ un amico immaginario». E talvolta si tratta di combinazioni sorprendenti. Per lo stesso Brodskij, oltre a una ‘prima linea’ costituita da Orazio, Properzio e il poeta esule Ovidio, svetta, abbastanza inatteso, Marco Aurelio17. Colpisce, inoltre, che fra gli imaginary friends del poeta francese Valery Larbaud – che pure, per esempio, ‘riscrisse’ un proprio carpe diem – figuri in posizione eminente San Girolamo18. E analogamente colpisce, per la sua ‘casualità’, la sua – preferirei quasi dire – gratuità, il legame privilegiato che, da un certo momento della vita di Mario Luzi, lo ha strettamente e ineluttabilmente collegato a figure da lui tanto lontane quanto Sinesio di Cirene e Ipazia. Anzi, alcune sue frasi in cui riflette sulla natura misteriosa e in parte inspiegabile del legame che lo ha stretto a Sinesio e Ipazia, sono secondo me rivelatrici per chiunque abbia provato questa sorta di misteriosa affinità elettiva e si sia soffermato a riflettervi. Tornerò su questo punto in conclusione. Per quanto limitato possa essere, rispetto a questi grandi scrittori, il mio raggio d’azione, oso confessare di essermi trovato improvvisamente davanti, diciottenne, allorché studiavo per l’esame di maturità, un imaginary friend subito monumentale e ineludibile in Rutilio Namaziano. In forma di colpo di fulmine, pochi brani antologici del De reditu suo trasformarono uno studente ‘minimalista’, quanto a coinvolgimento e impeBrodskij 1999, p. 63. Per Orazio, Properzio e Ovidio vd. il saggio Lettera a Orazio in Brodskij 1999; per Ovidio anche Brodskij 1996, pp. 56 s.; per Marco Aurelio il saggio Omaggio a Marco Aurelio in Brodskij 2003. 18 Alludo a un breve e brillante scritto del poeta francese Valery Larbaud, risalente al 1946, e intitolato Sotto la protezione di San Girolamo (tradotto in italiano presso Sellerio, Palermo 1989): vd. Giannotti 2009, cap. III § I. Per la poesia Carpe diem vd. Fo 2007, pp. 238 ss. e Fo 2009 § 4. 16 17

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gno, in un embrione dello studioso che poi sarebbe divenuto. Oggi da questo poemetto è stato tratto un film; e il film a sua volta ha generato nuove imprese rutiliane, approdate a una concreta rievocazione di quell’antico viaggio – con il dispiegamento di energie, fondi, lavoro creativo e materiale che la realizzazione di simili opere comporta. E so dalla sua personale testimonianza che anche l’autore di De reditu-Il ritorno, il regista Claudio Bondì, ha potuto affrontare e condurre a termine questa impresa in forza di un analogo innamoramento per quello che sento di poter chiamare il nostro poeta: delle cui vicende venne a conoscenza – e ad amore – preparando l’esame di Letteratura Latina alla Facoltà di Lettere di Roma. Accingendomi ormai a entrare in tema vorrei che non meravigliasse il già frequente – e poi riproposto – ricorso a osservazioni generali di scrittori moderni, in particolare poeti. L’intento sarebbe inseguire non solo ciò che è stato ‘sentito’ e ricreato di Rutilio, ma anche ciò che si cerca in genere in queste operazioni: le nostalgie di architetture poetiche, di ambienti e di volti, i ‘teoremi’ che ci legano agli antichi, ciò che dirige, insomma, sulle ragioni ultime di tanto investimento di tempo e d’amore da parte di noi studiosi – se posso osare una memoria montaliana «ombre noi stessi» – nei confronti di queste «Ombre» amate, sempre19. 4. ‘Punti di forza’ di un ‘poeta minore’ L’elezione di un imaginary friend riposa su fattori imponderabili. E forse, nonostante le ‘tappe di avvicinamento’ percorse nei precedenti paragrafi, continuerà a destare una certa meraviglia che possa polarizzarsi su scrittori usualmente considerati ‘minori’. Evidentemente l’anima non bada più di tanto a simili gerarchie; e non vi bada la Tradizione quando – con Pasternàk – ci invia un suo volto, quel decisivo suo «volto non comune», come precisa ulteriormente Brodskij nel discorso di accettazio19 Riadatto qui alcuni versi che Eugenio Montale scrisse ad altro proposito: «L’amavo senza averlo conosciuto./ Fuori di te nessuno lo ricordava./ Non ho fatto ricerche: ora è inutile./ Dopo di te sono rimasto il solo/ per cui è esistito. Ma è possibile,/ lo sai, amare un’ombra, ombre noi stessi» (Xenia I 13, p. 293 dell’edizione einaudiana Contini-Bettarini, Torino, Einaudi 1980).

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ne del Nobel20. Da un diverso punto di vista, lo ha chiarito un altro grande poeta, Thomas Stearn Eliot, scrivendo21: In verità, l’amore per la poesia di tutti coloro che non custodiscono uno o due personalissimi affetti per l’opera di poeti di minima risonanza storica, dubito sia amore genuino. Sarei incline a sospettare, in chi predilige i soli poeti unanimemente giudicati i più grandi dai manuali di storia, nient’altro che uno studioso diligente, incapace di mettere un po’ di se stesso nei propri apprezzamenti. Può darsi che il mio poeta non sia molto importante, uno dovrebbe dire a mo’ di sfida, ma ciò che ha scritto va bene per me. L’incontro con questo tipo di poesia è, il più delle volte, del tutto casuale […]. Devo aggiungere che sebbene esista un ideale e oggettivo gusto ortodosso, nessun lettore di poesia può né deve proporsi di assoggettarvisi completamente.

Né posso trattenermi dal ricordare che, quello stesso Borges che abbiamo visto sopra valorizzare la marginalità e l’oblio, ha trovato modo di precisare (2001, p. 17): «se una poesia è stata scritta da un grande poeta o meno, è cosa che interessa solo agli storici della letteratura. […] Forse sarebbe meglio che i poeti non avessero nome». E Rutilio sarà anche un minore, le opere qui analizzate potranno essere talora ritenute d’inferiore risonanza storica e letteraria, ma ripercorrerle è tracciare una minima storia delle idee artistiche, talora esistenziali, condensatesi attorno a un uomo lontano – un antico, a suo modo un ‘classico’ – e già questo, come tornerò a dire alla fine, non mi pare di per sé privo di rilevanza. Ebbene, quanto a Rutilio, è più volte accaduto che, pur nella limitatezza della sua ‘avventura’, egli destasse una commossa, intensa risonanza e si determinasse come oggetto di rêverie personale o letteraria. In virtù di quali fascinazioni? Vorrei innanzitutto tentare di stilarne un regesto, che servirà anche a titolo di ricapitolazione dei principali aspetti del viaggio:

20 Memorabile brano, in cui si legge fra l’altro che il libro «è un mezzo di trasporto attraverso lo spazio dell’esperienza, alla velocità della pagina voltata»: p. 51 del volumetto Dall’esilio, Milano, Adelphi 1988, ora in Brodskij 2003, p. 65. 21 Nel saggio del 1944 Che cos’è la «poesia minore»? (in Eliot 1999, pp. 401-418: 404 e 413).

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a) Il viaggio di restaurazione, le sue cause, le sue condizioni Sul piano delle coordinate generali, segnalerei innanzitutto il motivo del viaggio in sé e per sé, con l’aggiunta della specifica natura del viaggio ‘di medicazione’ che Rutilio si trova ad affrontare. La necessità di ritornare nelle proprie terre avite, per restaurarvi ciò che è stato distrutto dal passaggio dei barbari, conferisce a questa sua ‘missione’ privata un tono patetico e romantico trasparente già nel modo con cui Rutilio stesso la presenta (vv. I 19 ss.): sebbene viva in una terra diletta, ne viene ora strappato da una Fortuna che lo riconduce ai Gallica rura di cui è originario, sconciati dal protrarsi dei conflitti, ma tanto più, proprio per questo, degni di compassione. E le lacrime loro dovute vanno versate di presenza (I 25: praesentes lacrimas tectis debemus avitis), e con sollecitudine; sarebbe contro pietà ignorare ancora la teoria di rovine (I 27: nec fas ulterius longas nescire ruinas), incrementate da un colpevole ritardo: Iam tempus laceris post saeva incendia fundis 30 vel pastorales aedificare casas. Ipsi quin etiam fontes si mittere vocem ipsaque si possent arbuta nostra loqui, cessantem iustis poterant urgere querelis et desideriis addere vela meis. È tempo di costruire, dopo i feroci incendi, sui fondi laceri 30 anche soltanto casette da pastori. Che se le stesse fonti, anzi, dare voce, se i nostri arbusti potessero parlare, con giusti pianti mi stringerebbero mentre tardo mettendo al mio desiderio le vele.

In aggiunta, direi che cospira al caratteristico timbro di riservato dolore, che s’increspa qui in commozione di toni, anche l’insistenza sulle condizioni disagiate del viaggio, sul dissesto di strade, ponti, locande – che Rutilio assume a motivazione della sua scelta di viaggiare per mare (I 37-42).

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b) Il motivo delle rovine e della ‘decadenza’ Embricato già a moventi, natura e condizioni del viaggio incontriamo un motivo che molto ha affascinato nel tempo i lettori di Rutilio: quello delle rovine. Svetta – come si è visto – proprio sulle soglie del poemetto, fra gli enunciati sulla imprescindibilità del viaggio (I 27: nec fas ulterius longas nescire ruinas). E molte località ne offriranno dimostrazione, mentre le navi sfileranno lungo costa. In realtà l’atteggiamento di Rutilio di fronte a questo specifico aspetto del ‘suo mondo’ è piuttosto complesso. Oscilla fra dolente constatazione degli insulti del tempo e un ottimismo propositivo fondato sulla fiducia nell’eternità di Roma e nella capacità ricostruttiva dei Romani – da quella dei cittadini che, sotto gli auspici di Costanzo, hanno ricostruito Albingaunum a quella di chi, come lui stesso, si accinge a provvedere di persona al restauro dei propri beni. Tuttavia è un fatto che, al lettore del De reditu suo, restano nella memoria come un ‘paesaggio’ ricorrente le trafile di ruderi che Rutilio registra22. 22 Delle prime località avvistate, Alsium e Pyrgi (I 223-224), egli appunta, in un verso celeberrimo e molto chiosato, nunc villae grandes, oppida parva prius. A Castrum, invece, tempo e flutti hanno esercitato una funzione erosiva che ne ha portato a un’espugnazione (forse è così che si espresse Rutilio; il verbo è caduto in lacuna: I 227 ss.): fatto sta che il vetustus locus è attualmente semirutus, e rimane a segnalarlo solo una porta. Più avanti nel suo itinerario, ripreso il viaggio dopo la tappa a Centumcellae con la visita alle Thermae Tauri, di nuovo Rutilio insiste su desolazioni e rovine, accoppiando in un autonomo quadretto le sorti di Graviscae e quelle di Cosa. Quanto a Graviscae, allude alla sua desolazione e alle relative cause fermando il fotogramma dei suoi fastigia rara (I 281 s.): inde Graviscarum fastigia rara videmus,/ quas premit aestivae saepe paludis odor. Si noti il taglio autottico segnalato dall’esplicito verbo videmus. Parallelamente, è cernimus il verbo che introduce i ruderi di Cosa (I 285 s.): cernimus antiquas nullo custode ruinas/ et desolatae moenia foeda Cosae. Qui si tratta di rovine già antiche, e, secondo il suo gusto per le simmetrie, per gli equilibri e la precisa distillazione delle cose in poesia, Rutilio adduce una motivazione anche della fine di Cosa, una sorta di aìtion al contrario: l’origine di una sparizione, di un’‘assenza’. E la adduce di basso profilo, in parallelo alla situazione di Graviscae: Cosa sarebbe stata evacuata per un’invasione di topi (anche se lui afferma di non crederci; su questo passo vd. ora Privitera 2001). Nell’uno e nell’altro caso mi sembra evidente un atteggiamento poetico vicino a quello di un romantico ante litteram: Rutilio avverte, e intende trasmettere ai suoi lettori, il fascino melanconico e solenne che promana da questi insediamenti in disarmo, da queste località vulnerate dagli anni e dalle disparate traversie che il tempo ha comportato, ridotte a scheletri il cui silenzio e abbandono sembra volersi in qualche modo pronunciare, e voler dischiudere, pur fra le gabbie dell’inesprimibile, un suo qualche enigmatico messaggio. Dopo questi paesaggi, interviene una cursoria menzione di vestigia dei castra di un tempo, intravisti a Porto Ercole (I 295

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Naturale corollario del fascino esercitato dai rilievi in tema di rovine è la lettura dell’intera esperienza rutiliana sullo sfondo dell’idea – a sua volta molto corteggiata – di ‘decadenza’. Rutilio viene così sentito quale estrema, fievole voce di un’intera Tradizione alle soglie della sua scomparsa, come eroico ultimo araldo di un mondo in declino. c) L’amore per Roma e l’esaltazione della sua funzione unificatrice Particolarmente presso i temperamenti più nostalgici delle passate grandezze romane (con supplemento o meno di perduranti colorazioni politico-ideologiche), ininterrotta eco ha destato l’effusione rutiliana dell’amore per Roma, per i suoi splendori naturali e architettonici, per la sua funzione storica e politica di unificatrice di genti. Si può dire anzi che ogni volta che si debba sottolineare quest’ultimo punto, risulta d’obbligo il ricorso ai vv. I 63 fecisti patriam diversis gentibus unam e I 66 Urbem fecisti quod prius orbis erat (la più agguerrita ‘concorrenza’ è qui rappresentata, anche se con una minore efficacia, dovuta anche alla minore espansione del concetto, dal cuncti gens una sumus di Claudiano, De consulatu Stilichonis III 159). Naturalmente, nell’ambito di questa tematica gli episodi che maggiormente incidono sulla memoria sono l’attesa di salpare a Portus e, soprattutto, il cosiddetto ‘inno a Roma’ che vi si connette in una trama di rapporti più profonda, a mio parere (Fo 2002a), di quanto non si sia usualmente pensato. È sotto questa rubrica che ricorrono i più noti episodi di fortuna rutiliana nelle nostre lettere, legati a Giosuè Carducci e a Giovanni Pascoli (vi ritorneremo al § 5). Accanto a loro, un s.). L’acme del motivo si registra nella tappa a Populonia (I 399-414), in quello che è stato definito «Ein in sich geschlossenes Stück Ruinensentimentalität und Ruinenromantik» (Doblhofer 1977, 192). Cfr. Fo 2003, pp. 267-269 e Fo 2004, pp. 180-182. Da vedere anche Vecce 1988, pp. 156 s., per il passo di Populonia come modello per l’elegia Elegia ad ruinas Cumarum, urbis vetustissimae di Sannazaro (el. II 9). Secondo Stefano Carrai (2002; cfr. in particolare p. 54), Sannazaro è a sua volta la «matrice» mnemonica delle rovine nella Ginestra di Leopardi. Il punto del senso di decadenza e delle rovine è stato molto trattato dalla critica; di un’idea di «catastrofe» come centrale per comprendere tutto il poemetto scrive per es. Stampacchia 1989 (specialmente pp. 242 e 246). Vd. ora anche Squillante 2005, pp. 192 ss.; Wolff 2007, pp. lxvi ss. e, sulle condizioni della costa e della viabilità toscane (specie nel grossetano) al momento del passaggio di Rutilio, Citter 2007, particolarmente pp. 134 ss. e 212 ss.

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caso significativo è quello di un curioso romanzo ‘storico’ che di recente ha conosciuto un cospicuo successo di pubblico e da cui è stato in seguito ricavato un film: L’ultima legione, di Valerio Massimo Manfredi23. Si tratta di un romanzo che ha per protagonista Romolo Augustolo e che, con un interessante gesto di ‘continuità culturale’, raccorda la cosiddetta fine del mondo antico – o per lo meno la sua ‘caduta senza rumore’ – con l’aurora medievale delle saghe arturiane. Quando il drappello degli eroi che fanno corona a Romolo Augustolo scopre un vecchio deposito di armi di una leggendaria legione, fra le carte che vi si accompagnano una in particolare attrae l’attenzione di Aurelio: «c’erano dei versi: ‘Exaudi me regina mundi, inter sidereos Roma recepta polos…’. Era l’inizio del De reditu di Rutilio Namaziano, l’ultimo commosso inno alla grandezza di Roma scritto settant’anni prima, alla vigilia del saccheggio di Alarico. Sospirò e infilò quella piccola pergamena sotto il corsetto, sul cuore, come un talismano». Stupisce che un romanziere che si presenti al contempo quale studioso (è per la precisione un topografo) riesca a totalizzare in poche righe un simile numero di inesattezze: non si tratta infatti dell’inizio del De reditu suo bensì di quello del cosiddetto inno (inspiegabile, se non forse con il ricorso a una fonte antologica, la citazione in nota come verso I 3, anziché vv. I 47 s.); i versi sono riportati – forse a memoria – in modo errato e di conseguenza ametrico (questa la loro forma corretta Exaudi, regina tui pulcherrima mundi, /inter sidereos, Roma, recepta polos!); il De reditu suo è posteriore al sacco di Alarico, e dunque, rispetto al 476 in cui Manfredi immagina la vicenda del suo romanzo, anche i «settant’anni» sono cifra sovrabbondante. Ma, a prescindere da questo, si coglie qui limpidamente la natura di emblema assunta dall’inno di Rutilio, ribadita peraltro, su più vasta scala, dal fatto che l’intero romanzo nel suo Pubblicato da Mondadori nel marzo 2002, a maggio era già alla sesta edizione e, dopo essere entrato nelle classifiche dei libri più venduti, ha avuto l’onore di un’edizione tascabile ‘di massa’ nella collana economica «I Miti»; successivamente ne è stato tratto il film per la regia di Doug Lefler (L’ultima legione, 2007). Su questo libro vd. ora Giannotti 2003. La felice formulazione cui alludo subito oltre nel testo è quella di Arnaldo Momigliano, secondo cui quella di un’istituzione di simile portata sarebbe stata una sorta di caduta «senza rumore» (La caduta senza rumore di un impero nel 476 d.C., in Storia e storiografia antica, Bologna, Il Mulino 1987, pp. 359 ss.). Vd. anche oltre, nota 28 e contesto.

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complesso reca ad epigrafe appunto il già ricordato verso I 63 fecisti patriam diversis gentibus unam. d) Il tradizionalismo pagano A sua volta connesso con l’amore per Roma lascia un’impronta non trascurabile sui lettori l’acceso tradizionalismo d’impronta pagana: sia implicitamente ‘praticante’, allorché, per esempio, all’atto di partire Rutilio rivolge una preghiera a Venere e ai Dioscuri per ottenere un mare placato; sia esplicitamente polemico, allorché Rutilio si esprime in positive sortite a favore dei culti degli avi come in aggressioni contro quelli ‘alternativi’ che si vanno imponendo. È ancora prima di tutto il caso del cosiddetto inno, con la sottolineatura della natura di divinità pertinente a Roma personificata, la celebrazione di Venere e Marte nonché dei templi pagani, e il correlato totale silenzio sulla presenza – ormai di assoluto rilievo – del cristianesimo. Ma spicca ancora, a Falesia, la menzione dei culti per Osiride. Mentre, sul simmetrico piano dell’aggressione agli universi spirituali in conflitto, svettano le due invettive contro i monaci (al passaggio davanti alle isole di Capraia e Gorgona) e l’invettiva contro i Giudei – che forse intende attaccare, indirettamente, anche il cristianesimo stesso24. Al di là delle personali convinzioni religiose, il fascino di questo aspetto del De reditu riposa soprattutto, ancora una volta, sull’ingrediente di nostalgia e di passatismo, e sulla dimensione di militanza che assume, colorandosi di una reattività che rifiuta di rassegnarsi a una posizione di soccombenza. e) La rete di amicizie e la pietas familiare Ancora in connessione con il tradizionalismo aristocratico-pagano per come si esprime nella venerazione per Roma, 24 Sull’attacco ai Giudei vd. ora anche Ratti 2005, pp. 80 ss.; Guillaumin 2006; Verbaal 2006, particolarmente pp. 164 ss. Prescindendo per ora dalle riscritture che si occupano direttamente di Rutilio (su cui oltre, §§ 5 ss.), segnalo qui che nel suo romanzo su Claudiano (cfr. più oltre, nota 31), la Haasse – naturalmente senza denunciarlo – mutua da Rutilio un attacco che il poeta egiziano rivolge ai monaci (1993, 131 sgg.): «se per caso un monaco lascia il convento, un anacoreta la grotta remota di qualche luogo inospitale per venire in questo quartiere, è seguito dai lazzi dei popolani, incapaci di comprendere che si possa abbandonare la società umana scegliendo in piena avvertenza di vivere nella sporcizia».

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la sua missione e le sue tradizioni cultuali, si schiude l’ampio spazio riservato all’insistenza sul valore dei propri amici, delle loro carriere, dei loro ideali: ecco sfilare Rufio Volusiano, Palladio con il padre Esuperanzio, il poeta Messalla, e poi Albino, Vittorino, Protadio, Decio, Lucillo, nonché – nei frammenti – Marcellino e Flavio Costanzo. Qui l’avallo dello stile di vita aristocratico si sposa con l’esaltazione di come quel fecondo fiume abbia irrigato (e naturalmente condotto a frutti felici: di prefettura urbana, per esempio, esplicitamente menzionata a I 157 ss. e 467 s.) anche Rutilio, tramite il padre Lacanio, cui la città di Pisa, riconoscente per il suo operato amministrativo, ha eretto una statua (I 575 ss.). All’esaltazione dei buoni si associa l’aggressione nei confronti di chi si discosta da questi parametri e direi quasi dai solenni archetipi monumentalizzati in questa galleria di statue in versi: i Lepidi, Stilicone25. f) La poesia del mare e dei paesaggi La non esigua fortuna dell’esiguo poemetto conosce un’ulteriore radice nella morbida delicatezza dei tocchi con cui Rutilio ritrae paesaggi, specialmente di mare e di cielo, situazioni di navigazione e manovre navali, impressionando di vivide immagini la mente del lettore. È questo, per esempio, il particolare per cui il De reditu suo viene segnalato nella biblioteca di Des Esseintes, il protagonista di A rebours di Joris-Karl Huysmans (1884): «il vago dei paesaggi riflessi nell’acqua, il miraggio dei vapori, il volo delle brume intorno ai monti»26. La mente corre alle fantasie visionarie durante l’attesa a Portus (I 185 ss.); alla descrizione del porto di Centocelle (I 237 ss.), all’alba che il secondo giorno brilla rugiadosa nel cielo di porpora (I 277: roscida puniceo fulsere crepuscula caelo), mentre il riflesso della costa fitta di macchie oscilla sul margine dei flutti (I 283 s.: sed nemorosa viret densis vicinia lucis/ pineaque extremis fluctuat umbra fretis). E ancora citerei l’attenzione al celeuma dei Sul caso dell’aggressione ai Lepidi e le tecniche crittografiche cui Rutilio sembra ricorrere nella circostanza – e di nuovo in quella, di opposto segno, delle felicitazioni a Volusiano –, vd. ora Fo 2004. Per la cospicua letteratura su Rutilio e Stilicone, vd. ad es. Doblhofer 1977, pp. 273 ss. 26 Lo cito dalla traduzione di G. Posani nei «Coralli» Einaudi (Huysmans 1989), p. 43. 25

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rematori (I 369 s.), il locus amoenus costituito dalla villa amministrata dal giudeo in cui Rutilio si ferma a Falesia (I 377 ss.), l’aurora con il passaggio davanti alla Corsica (429 ss.), la prudente navigazione fra le secche a Vada (I 453 ss.), le saline (475 ss.), Villa Triturrita e il Portus Pisanus (I 527 ss.), la scena di caccia (I 655 ss.) e poi di tempesta marina (631 ss.), preannunciata da un cielo lordo di nembi tagliati da lame di raggi (I 617 s.: …cum subitis tectus nimbis insorduit aether; /sparserunt radios nubila rupta vagos), e chiamata in scena con un convulso, biondo impasto di flutti e di sabbie (I 639 ss.), che chiude il primo libro su un cenno alle maree dell’Oceano – forse rivelatore di un uomo che un tempo, vivendo non lontano dalla costa atlantica, ha potuto registrare di persona il fenomeno, rimanendone colpito. Infine, la liberazione dall’assedio tempestoso (II 11 tandem nimbosa maris obsidione solutis…), l’avviarsi lungo un placido mare che ride agli occhi per la gibigianna dei riflessi solari, mentre carezza l’udito con un soave mormorio (II 13 s. arridet placidum radiis crispantibus aequor / et solcata levi murmurat unda sono), fino al sopravvenire dell’abbagliante candore di Luni (II 65-68). Ma rubricherei sotto questo paragrafo anche l’intero episodio della sosta forzata – per il cadere dei venti – alla foce dell’Ombrone, fra le tende di un accampamento improvvisato. Vi cogliamo il contrattempo che si tramuta in sostanza poetica; come nel distico in cui «tempesta amara diede dolce dimora», in quanto un’altra interruzione del viaggio, causata da un rovescio di maltempo, occasiona l’incontro con l’amico Vittorino (I 491-92): O quam saepe malis generatur origo bonorum! / Tempestas dulcem fecit amara moram27. g) L’incompiutezza Lo stesso stato frammentario del De reditu suo ha talora stimolato le soluzioni creative. Da un lato è avvenuto che, come si vedrà nel paragrafo successivo, invitasse a integrare di fantasia qualcosa di ciò che si è perduto. Dall’altro ha stimolato a immaginare destini che, chiudendo bruscamente, insieme al poemetto, anche la vita stessa di Rutilio, si determinassero Il v. I 491 è stato posto ad epigrafe di una bella poesia della raccolta I Merli di Albornoz di Antonio Carlo Ponti (presso Guerra edizioni, Perugia, 1995, 21) sul dolore e la poesia lirica che ne può scaturire.

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magari proprio come ciò che le attribuisce un senso e che la fa rileggere a ritroso in una determinata prospettiva. Lo vedremo in particolare nel paragrafo Rutilio nel racconto (Cardona 1997) e ancora proprio a proposito della sceneggiatura di Claudio Bondì e Alessandro Ricci. h) La disponibilità a riletture politico-sociali riattualizzanti Per il tipo di temi trattati e per il fatto stesso di aver espresso punti di vista fermi, anche se personali, sulla società e la politica del proprio tempo, in un momento per loro tanto delicato, avviene facilmente che la minuscola vicenda privata di Rutilio inviti al recupero attualizzante, alla rilettura ‘comparata’ con tratti della società e della politica di altre e lontane epoche. Passo rapidamente in rassegna qualche caso, tentando una sorta di classificazione in raggruppamenti di spunti: 1] Rovine e decadenza di ieri come di oggi. È talvolta avvenuto che il ‘senso di decadenza’, per come spira soprattutto dai rilievi rutiliani sulle rovine (vd. al punto b), abbia invitato intellettuali particolarmente attenti agli sviluppi della storia politico-sociale a un confronto con l’oggi. Così Tommaso Di Francesco (1993, p. 4): «va da sé che questo angusto testimoniare in poesia dell’epoca tardolatina è di una attualità che spaventa: è il pathos delle nostre contemporanee rovine che scorre nel viaggio in versi di Rutilio». E, quasi contemporaneamente, un poeta e saggista della statura di Franco Fortini (1993, p. 167): «…e ditemi se è possibile non avvertire il pathos della rovina, della delicata disperazione, di quest’altro (insopportabile) fine secolo»28. 28 Naturalmente tutto è sempre esposto al fuoco del travisamento, che può approdare anche ad effetti grotteschi. «Ci sono tanti modi per far tornare il passato, non tutti condivisibili» – mi scriveva in un messaggio di posta elettronica del 18 maggio 2004 l’amico storico Giuseppe Lauricella –, riportandomi il caso di «questo signore intervenuto qualche giorno fa nel forum del sito nostalgico, per tacer dell’altro, www.ilduce.net, il cui punto di vista di seguito ti sottopongo fiducioso nella tua personale sorpresa». E c’era effettivamente di che sorprendersi, leggendo, fra il molto altro, parole come «Il film “De reditu” tratto dal racconto di Rutilio Namaziano [vd. oltre, al § 8] tratta della vicenda di uno degli ultimi romani che cerca di arrestare il declino di un mondo in disfacimento con un coraggioso e disperato quanto inutile tentativo di salvare il salvabile contro tutto e tutti. […] Il film […] non è direttamente impegnato in un tema “fascista” o “anticomunista” però è evidente il riferimento ai nostri tempi disastrosi in cui

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2] Corruzione politica di ieri e di oggi. La tirata contro i funzionari corrotti di De reditu suo I 596 ss. ha fatto sì che Rutilio destasse particolare attenzione in Italia al tempo dello scandalo passato agli annali come «Tangentopoli». Un parallelo fra i giorni del poeta e quelli di questa vicenda è per esempio stilato in un suo elzeviro da Antonio Tabucchi (1993); mentre il poeta e saggista Marco Cipollini (1993, pp. 101-102) scrive: «Tangentopoli d’antan (“volano i furti dei beni pubblici in mezzo ai custodi”, ma c’è un Lucillo-Di Pietro che ci pensa lui!); […] Oh, tu costì a panfileggiare elaudante la cinemascopica Italia, “rerum domina”, ma proprio non te ne accorgevi che stavi al the end? E noi qua, del resto, a cacasennare con la scienza del poi, che ci rimane da elaudare, qua?». 3] Barbari rutiliani e odierni conflitti politico-sociali e ideologici. Come ha più volte dichiarato pubblicamente, il regista Claudio Bondì, con il suo film sul remoto passato rutiliano(cfr. § 8), ha inteso studiare i giorni di oggi. Nel sacco di Roma da parte di Alarico ha visto un parallelo al moderno attacco «al cuore del potere planetario» (Bondì-Montini 2003: cfr. nota 123 e contesto), condotto dal terrorismo fondamentalista islamico nei riguardi dell’Occidente con l’aggressione dell’11 settembre 2001. E, nei vari dibattiti seguiti alla proiezione del suo film durante la rievocazione del viaggio rutiliano di cui dirò al § 10, ha ripetutamente sottolineato come avverta l’attuale situazione ‘globale’ non lontana da quella che trascinò i popoli germanici a invadere le terre di ricchezza e benessere dell’impero romano: la sperequazione fra paesi ricchi e paesi poveri, tra l’abuso e la carenza delle risorse, è ormai tale che, se non si provvede a eliminarla, può preludere a un massiccio riversarsi dei popoli stretti dal bisogno sulle terre della ‘metà benestante’ del mondo. Del resto, il paragone fra il conflitto ufficialmente inaugurato dai fatti dell’11 settembre e le invasioni barbariche si è solo pochi si ostinano a resistere per salvare il salvabile. Camerati che hanno visto il film mi hanno detto che il regista è dei “nostri” e che sono evidenti le polemiche col nostro mondo in rovina attraverso la metafora del mondo romano ormai in rovina. Mi è stato detto inoltre che il paganesimo viene visto in una luce non negativa... (per la goduria dei neopagani). […]» (l’intervento si conclude con il significativo saluto «Fasciodicombattimento!»).

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già da tempo consolidato in quello che viene definito l’‘immaginario collettivo’: basti pensare all’esplicito raccordo fra i due eventi storici che dà addirittura il titolo al recente film di Denys Arcand – a mio giudizio mediocre e ambiguo 29, e tuttavia di cospicuo successo negli ambienti intellettuali – Le invasioni barbariche (Les Invasions Barbares: Francia e Canada, 2002). Il raccordo fra il sacco visigotico dell’Urbe e i nostri tempi è tornato di attualità con l’invasione statunitense in Irak nel 2003. Cito per esempio una pagina di Mediterranee di Giovanni Campus30; quasi in conclusione di libro (pp. 203-205) figura la poesia Parole sull’Iraq in guerra, datata Roma, 23-26 marzo 2003. La segue un’ampia nota autoesegetica (pp. 205-206) che ai nostri fini è particolarmente significativa: «A prima vista il lettore, per quanto benevolo, potrebbe non accettare facilmente che si includano, in una serie di liriche “mediterranee”, queste Parole sull’Iraq in guerra, appartenenti ai giorni recenti degli scontri più sanguinosi (fanterie, aerei, carri armati) che risalivano il corso del Tigri e dell’Eufrate […] La ragione vera di questo componimento nasce […] dall’emozione e dallo sconforto suscitati dalla notizia del saccheggio – tragico ed insieme oscuro, nei moventi e nei fini – del Museo Archeologico di Bagdad, avvenuto nei primi giorni di una occupazione militare – in quel momento ancora agli inizi, ed incompleta – della grande città islamica. Questo saccheggio – come il saccheggio di Roma da parte dei Visigoti, come gli incendi antichi della Biblioteca di Alessandria, o le devastazioni compiute nell’America Centrale dai conquistadores di Cortez e di Pizarro – ci è sembrato un nuovo invito a ricordare la caducità di quelle stesse testimonianNon meno (sempre a mio personale giudizio) del precedente, e correlato, Il declino dell’Impero americano (1986). L’ambiguità risiede secondo me nel fatto che non risulta sufficientemente chiaro se il realismo con cui è riprodotta la cerchia di sedicenti intellettuali protagonista delle due pellicole abbia un’intenzione satirica o piuttosto invece inclini (come penso) a una bonaria e compiaciuta adesione a quel tipo di mentalità e stile di vita. 30 Nato a Cervia nel 1930, laureatosi a Cagliari in Lettere classiche con una tesi su Il problema della morte nei Ricordi di Marco Aurelio, ora vive a Roma. La sua raccolta Mediterranee (Campus 2003) è preceduta da un’intervista che costituisce una sorta di manifesto per la presenza dell’antico nella poesia, per una ‘poesia archeologica’ orientata a un’umanità migliore (pp. 14 ss., dove si scrive anche dell’‘ascoltare i ruderi’, dello «sforzo di far rivivere, attraverso i ruderi, la vita dei tempi trascorsi»). 29

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ze archeologiche (pensiamo ancora a Babilonia, a Palmira, a Persepoli) che pure avevamo detto, all’inizio di questo libro, dovere essere “oggetto d’amore”, e che adesso, in questi ultimi versi, ci si rivelano poter essere, talvolta, anche “divelte”, poter rimanere “esterreffatte”. E ci sono tornati alla mente i versi di Rutilio Namaziano, nel De reditu (L. I, v. 409), scritti, come si sa, nel 417 d. Chr., appena pochi anni dopo il saccheggio di Roma compiuto da Alarico nel 410, nonostante la difesa delle Mura Aureliane, un evento pauroso, che sgomentò tutto l’Impero: “Non si possono più riconoscere i monumenti dell’epoca trascorsa: mura immense ha consunto il tempo che ci divora. Fra i crolli e le rovine soltanto tracce rimangono… Non dobbiamo indignarci se i corpi mortali si disgregano: da tanti esempi vediamo come anche le città possono morire”. Il saccheggio di Bagdad, allora, diventa un monito severo a porre dunque l’uomo, più dei monumenti, l’uomo vivo e sofferente, al centro della storia (e quindi anche dell’arte e della letteratura). Un monito ad esecrare la guerra e l’idea stessa di guerra […]». 4] Spunti di polemica religiosa. Molti dei dibattiti che hanno fatto seguito alla proiezione del film De reditu-Il ritorno (specialmente nella recente rievocazione del viaggio di Rutilio – su cui vd. § 10 –: per esempio a Portoferraio e Livorno) hanno messo in evidenza la perdurante vitalità del contrasto fra i diversi approcci al problema religioso propri dell’antico mondo pagano e di quello cristiano che vi si affianca e gli subentra. La sceneggiatura di Bondì e Ricci sposa piuttosto a fondo il punto di vista ‘pagano’ proprio in quanto contrapposto a una visione cristiana del mondo sentita come incline all’integralismo, e rappresentata per tale in quelle figure dei monaci contro cui Rutilio si era scagliato. In estrema sintesi, la carta vincente della nuova fede sarebbe stata, secondo il regista, la promessa di una salvezza ultraterrena, di una vita eterna felice come premio di un determinato comportamento sulla terra; tuttavia il suo trionfo avrebbe finito per incrinare irrimediabilmente un approccio più disteso e sereno alle vicende della vita terrena, proprio invece del côté pagano. In Bondì-Ricci 2004 si avverte il bisogno di conferire a questo scontro una pronunciata evidenza; conseguentemente si trova modo di mettere in scena un colloquio fra Rutilio e i ‘suoi’ monaci, e articolarlo in vibrato diverbio. La questione

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religiosa risulta così in particolare rilievo (più marcatamente, per esempio, che nella parallela operazione narrativa di Cardona 1997). La vivacità con cui questo spunto viene recepito nelle sale mostra come sia tuttora perdurante una estrema coda di quel «conflict between Paganism and Christianism» cui s’intitola la celebre raccolta di saggi curata da Arnaldo Momigliano (1968). Si tratta del resto di una delle principali direzioni in cui viene impostata, nella creatività artistica di oggi, la rilettura di quel passato31. 5] Dal tema della decadenza a quello della rinascita. Se tanto spesso ci si è richiamati a Rutilio per stabilire collegamenti fra epoche in forza del tema della decadenza, è avvenuto tuttavia che venisse ricondotto a problemi della modernità anche il meno valorizzato ‘contrappeso’ ottimistico da lui innescato nel poemetto. In una nota di diario del 30 maggio 1940, Ranuccio Bianchi Bandinelli rifletteva fra sé sulle accuse levate contro la nuova ideologia comunista, raccordandole strettamente a quel dibattito tardoantico fra paganesimo e cristianesimo di cui si è appena detto al punto 4]. In chiusa, interpretandola con una lieve forzatura esegetica, si faceva forte di quella sentenza che nell’‘inno’ rutiliano (I 140) è la sostanza ultima di una fiducia nella ‘rinascita’ e nel progresso auspicato nel futuro (Bianchi Bandinelli 1976, pp. 75 s.): «Ordo renascenNella tesi di dottorato discussa presso l’Università di Siena sulla fortuna di intellettuali e scrittori della seconda età imperiale nella letteratura a noi contemporanea, Filomena Giannotti richiama l’attenzione su di un romanzo interessante di Hella S. Haasse, tradotto in italiano presso Rizzoli con il titolo Profumo di mandorle amare, il cui impianto è saldamente incardinato su questa contrapposizione. Il poeta Claudiano, che ne è protagonista, rappresenta (con una rosa di altri esponenti della cultura fra cui figura anche Rutilio) il prototipo ideale dell’intellettuale militante che rifiuta di sottomettersi supinamente alle nuove modalità e norme di vita che si vengono imponendo in una società radicalmente mutata. È lo stesso Claudiano a elencare i suoi compagni di fronte (Haasse 1993, pp. 98 s.): «La Roma che amavo e veneravo non c’era più, era scomparsa da tempo… ammesso che fosse mai esistita. Forse essa viveva solo nei sogni di un egiziano nutrito di cultura greca, che sotto i portici di Alessandria e nelle sale di studio, si era creato un’immagine ideale della civiltà del suo tempo. Mi pareva che ne ricadesse il riflesso su esseri come Ammiano Marcellino, Pretestato, Simmaco, Rutilio Namaziano, Serena». Casualmente, l’azione del romanzo si svolge in quel 417 (5 e 6 luglio) che oggi si ritiene la data più probabile del viaggio o almeno del poema di Rutilio.

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di est crescere posse malis: “la legge del progresso è avanzare in mezzo alle sventure” scriveva Rutilio Namaziano, poeta di quel IV secolo, così simile al nostro». A questo stesso «prezioso motto latino» inteso come principio di propulsione, come punto di avvio di un ‘nuovo corso’, si riconduce, attraverso il grande archeologo, Alberto Ronchey in un suo intervento giornalistico relativo alla situazione del patrimonio artistico italiano, che ragiona su una nuova legge sui musei, collegando il problema di «avanzare fra le sventure» con quello di «valorizzare il patrimonio storico nazionale» e con il principio civico secondo cui «non c’è legge che possa operare se non viene largamente accettata nella società del nostro tempo» (1993, p. 1). 5. Poeti per Rutilio a) Fra apocrifi, traduzioni, imitazioni Nella poesia italiana più recente le tracce di Rutilio, pur non essendo moltissime, costituiscono tuttavia una rosa non del tutto insignificante, laddove si ponga mente alla posizione pur sempre marginale – rispetto ai ‘grandi classici’ – cui il De reditu suo è condannato dalla duplice azione della collocazione cronologica di là dai confini normalmente esplorati dalla scuola e della natura molto privata del componimento. Una volta di più ardirei sostenere che queste tracce si rivelino tutte occasionate da un’impressione particolarmente profonda, da quel tratto vagamente epifanico di cui ho scritto, che tanto più ‘ferisce’ quanto più risulta inatteso. E aggiungerei che proprio il taglio molto personale dei versi rutiliani sembra invitare – in genere – ad una appropriazione altrettanto personale, liricamente ‘privata’, del loro legato. Valga come esempio di quanto intendo dire la curiosa ‘operazione’ di un traduttore ottocentesco, il livornese Arturo Trinch: nel volgere in endecasillabi sciolti alcuni segmenti dell’itinerario rutiliano – l’‘inno’ (I 47-164) e i passi relativi al Porto Pisano e i suoi dintorni (I 527-644) –, improvvisamente, senz’altro segnale che l’interruzione del testo a fronte, inserì fra i versi 630 e 631, cioè là dove ‘geograficamente’ si sarebbero collocate le località da lui personalmente amate, tre ottave

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di propria coniazione che profetizzano la nascita di Livorno e dei suoi ameni dintorni (la voce che scioglie questo nuovo ‘inno’ è naturalmente quella di Rutilio) 32: «Io più non vi vedrò, selve odorate, opachi boschi ed intricate e nere foreste, che sicuro asilo date nei vostri spechi a mille orride fiere; e voi, piagge deserte, irrefrenate via correnti nel mar basse riviere, me vate udite: fatidici accenti alle amiche confido ale dei venti. Mutar veggio le sorti: Triturrita non più, non più il Pisan Porto fiorente: a quella un Forte, a questo arida, trita sabbia succederà; Pisa or potente cadrà per dar più rigogliosa vita a te, che sorgerai bella e ridente su questo lito a splendido soggiorno, perla di questo mar, cara Livorno. E a te corona fulgida, divina faranno, al piano, e su pe’ digradanti fioriti colli e lungo la marina, ville sontuose in giro ognor festanti; Montenero, Antignano e la vicina Ardenza splenderanno a te dinanti, siccome gemme in un bel cerchio d’oro, e più superba tu n’andrai per loro».

Un episodio per alcuni rispetti analogo a questo si riscontra in una plaquette di poesie a firma Celestino Marzo, edita per Una Cosa Rara-LIM di Lucca nel 2000. L’integrazione dettata da nostalgia è qui, però, a carico del segmento caduto in lacuna. Con duplice omaggio al poeta e ad un luogo entrambi oggetto d’investimento sentimentale, questi versi si volgono a 32 Trinch 1895; vd. Fo 1994, p. 118 e cfr. Bettini 1991, p. 21 e Fornari 1995, pp. 50-52. È in certo modo parallelo un caso richiamato da Wolff 2007 p. xix, n. 40: nel 1844, Emile-Auguste Bégin, nel primo dei tre tomi della sua Histoire des rues de Metz depuis dix-huit siècles, presentava, come da lui tradotte dal latino, due pretese lettere di Rutilio Namaziano; questi testi, che finora non ho potuto reperire, sono segnalati da Quérard 1964, coll. 479-480.

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un fantasticato passaggio di Rutilio nella Baia di Noli, elaborandone il resoconto in un «frammento immaginario»33: Attracco nella baia di Noli (417 d.C.) (frammento immaginario del De reditu) ragione Nell’inverno del 417 d.C., Claudio Rutilio Namaziano, un nobile galloromano che si era stabilito a Roma, lasciò l’adorata città eterna per rientrare nelle terre avite devastate dai Visigoti e sovrintendervi alla ricostruzione. Del suo viaggio per mare, a piccole tappe, con una flottiglia leggera, lungo le coste d’Italia e poi di Gallia, tenne un diario in poesia, che ci è pervenuto mutilo, noto come Il ritorno, collana di episodi e momenti lirici. Per il percorso in Liguria e in Provenza restano solo frammenti: le tappe di Genova e di Albenga. Fra loro affiori questa ‘integrazione’ di una vigile nostalgia, socchiusa sull’insenatura appena dopo Bergeggi (allora Insula Liguriae), appena prima che, come pare, da un presidio bizantino contro i Vandali, l’insediamento prendesse il nome di Neapolis (trasformatosi poi in Noli). Sale Aurora e salpiamo da Vada Sabatia nel cielo grigio ormai del pieno inverno. Sul mare, agitato, non molto lontano si doppia l’Isola di Liguria che, tozza fronte, affiora, testuggine rivolta verso il largo: ruderi di una torre la dicono un tempo abitata. Fosche si addensano nubi tempestose, grida in volo i gabbiani a pelo d’acqua. Laggiù si leva, cono mozzo, un monte che schiude una profonda baia calma.

Marzo 2000, pp. 15-16 (a p. 35 il curatore Claudio Vela stila un profilo del poeta). Grazie alla mediazione di un passaggio in internet (nel sito della rivista telematica «Vico Acitillo»), la poesia è ora anche tradotta in inglese da Peter Spagnuolo sulla rivista della University of Notre Dame (USA) «Dánta», n. 2, 2003, pp. 77-78 (Mooring in the Bay of Noli (417 A.D.)-imaginary fragment from the De reditu). Vd. anche il mio Corpuscolo, uscito presso Einaudi nel 2004, pp. 73 s. Ho tentato qualche verso che si riallaccia alla lettura di Rutilio e alla passione per il suo poema in Otto febbraio (Milano, Scheiwiller 1995), pp. 38 (A una damina cortese dopo una visita), 44 s. (Morte di un amico lontano: è Rutilio il «poeta prediletto»), 64 (Iugoslavia e Francia), e in Giorni di scuola (Città di Castello, Edimond 2000), 67 (La penna). Cfr. anche il ricordato Corpuscolo, p. 19. Anche su Rufio Volusiano ho tentato qualche verso, ora in Vecchi filmati, Lecce, Manni 2006 pp. 122 s. (e 147 s.).

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Prendiamo terra e, più pronti della pioggia, siamo alle case fra le pendici e il piano. Ci alberga un pescatore. Sul suo tetto scroscia ormai il temporale nella sera. Così è più dolce, chiglie in secco, il riposo sicuro, crepita profumata la preda sulle braci. Dodici giorni, florido seno, il lido ci riparò in attesa del bel tempo: contrattempo sereno al viaggio. Il villaggio senza nome, di casupole e barche, ospitale fra rupi, ritornò lì profilo familiare, nota casa degli avi. Né ha poi lì per sé le meraviglie di Roma eterna, mia seconda patria. Né, della patria che torno a restaurare, porte e prodigi architettonici feriti. Solo il cielo, le balze brune, il mare e spiaggia, reti, cacce, canti, fuochi: ma, al congedo, lasciai mia nuova patria la piccola dimora provvisoria.

Naturalmente, e soprattutto se si guarda un po’ più indietro nella nostra tradizione poetica, spiccata risonanza ha conosciuto nella memoria letteraria l’ampio e appassionato segmento dell’‘inno a Roma’. Basti fare i nomi di Carducci e Pascoli. Oltre a tradurne in prosa alcuni brani34, Carducci riecheggiò alcune espressioni del cosiddetto ‘inno a Roma’, e in particolare le famose sententiae dei vv. I 63 ( fecisti patriam diversis gentibus unam) e I 66 (Urbem fecisti quod prius orbis erat), in un paio di Odi barbare. Per esempio nelle strofi alcaiche di Nell’annuale della fondazione di Roma, datata 22-23 aprile 1877: 15

[…] e tutto che al mondo è civile, grande, augusto, egli è romano ancora.

34 Per la precisione i vv. I 43-140, con qualche salto; tale traduzione è nell’Introduzione a I trovatori della corte dei marchesi di Monferrato, saggio letto nel 1879 e pubblicato postumo nel IX vol. della Edizione Nazionale delle Opere di G. Carducci (Zanichelli, 1944, pp. 132-34). Per questa traduzione, e le vicende del suo non così semplice ‘recupero’, vd. Fornari 1995, 41 s. e 70 ss., con trascrizione della traduzione carducciana.

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[…] Salve, dèa Roma! Chinato a i ruderi del Fòro, io seguo con dolci lacrime e adoro i tuoi sparsi vestigi, patria, diva, santa genitrice.

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Son cittadino per te d’Italia, per te poeta, madre de i popoli, che desti il tuo spirito al mondo, che Italia improntasti di tua gloria.

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Ecco, a te questa, che tu di libere genti facesti nome uno, Italia, ritorna, e s’abbraccia al tuo petto, affisa ne’ tuoi d’aquila occhi.

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[…] ma il tuo trionfo, popol d’Italia, su l’età nera, su l’età barbara, su i mostri onde tu con serena giustizia farai franche le genti35.

E ancora nei distici elegiaci barbari della poesia Roma, datata 9 ottobre 1881: Roma, ne l’aer tuo lancio l’anima altera volante: accogli, o Roma, e avvolgi l’anima mia di luce. 4

Non curïoso a te de le cose piccole io vengo: chi le farfalle cerca sotto l’arco di Tito?

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[…] Cingimi, o Roma, d’azzurro, di sole m’illumina, o Roma: raggia divino il sole pe’ larghi azzurri tuoi.

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Ei benedice al fosco Vaticano, al bel Quirinale, al vecchio Capitolio santo fra le ruine; e tu da i sette colli protendi, o Roma, le braccia a l’amor che diffuso splende per l’aure chete36. […]

Per il v. 24 cfr. ancora Rut. I 49 exaudi, genitrix hominum genitrixque deorum; per i vv. 25 ss. cfr. alla lontana il tema rutiliano di Roma che ‘assorbe’ gli stranieri e li fa suoi (I 13 ss.); per i vv. 41 ss., cfr. l’appello finale di Rutilio a sottomettere i barbari, I 141 ss. 36 Cfr. principalmente il tema rutiliano della speciale luce irradiata da Roma in Rut. I 95 s. e soprattutto 189 ss. (su cui Fo 2002a, pp. 171 ss.). 35

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A sua volta anche Giovanni Pascoli tradusse De reditu suo I 47-66 con il titolo A Roma nella sventura, Inno d’un celta: anno 416 D.C. A Roma nella sventura Inno d’un celta: anno 416 D.C. Del tuo mondo bellissima regina, o Roma, ascolta; o Roma, nell’empireo ciel tra le stelle accolta madre non pur degli uomini ma de’ celesti. Noi siam presso al cielo per i templi tuoi. Or te, te quindi cantisi sempre, finché si viva; dimenticarti e vivere chi mai potrebbe, o diva? Prima del sol negli uomini vanisca ogni memoria, che il ricordo, nel cuor, della tua gloria. Già come il sol risplendere per tutto, ognor, tu sai. Dovunque il vasto Oceano ondeggia, ivi tu vai. Febo che tutto domina si volge a te: da sponde romane muove, e nel tuo mar s’asconde. Co’ suoi deserti Libia non t’arrestò la corsa; non ti respinse il gelido vallo che cinge l’Orsa; quanto paese agli uomini vital, Natura diede, tanta è la terra che pugnar ti vede. Desti una patria ai popoli dispersi in cento luoghi: furon ventura ai barbari le tue vittorie e i gioghi: ché del tuo dritto ai sudditi

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mentre il consorzio appresti, di tutto il mondo una città facesti37.

Peraltro Pascoli si spinse oltre, e non solo imitò il gesto rutiliano nel suo complesso, scrivendo anch’egli un suo personale inno a Roma, ma vi inserì anche, ‘naturalmente’, specifica memoria dell’inno rutiliano38. Tuttavia il discorso della presenza di Rutilio in vari ‘inni’ a Roma e anche ad altre città ci porterebbe ora lontano e sarà preferibile rinviarlo eventualmente ad altra sede39. Pascoli 1971, II vol., pp. 1674-1675. Va innanzitutto segnalato, a chiudere i Poemata Christiana (1901-1911), il poemetto esametrico del 1907 Post occasum Urbis («Dopo il tramonto dell’Urbe»: Pascoli 1951, pp. 330-349, trad. di Onorato Tescari). Già Marino Barchiesi, commentandolo, registrava – per i vv. 303-304 haec urbem fecit quod erat prius urbis, et omni/ devicto populo mundi caput extitit atque arx – una «reminiscenza di Rutilio Namaziano, De reditu 63 sgg.» (cito da Pascoli 1951, 654). E annotava quindi (ibid., con puntuale registrazione delle occorrenze interessate) che molti versi del Post occasum furono da Pascoli nuovamente sfruttati nel successivo Hymnus in Romam. Quest’ultimo ebbe una prima stesura per il Natale di Roma nel cinquantesimo dell’Italia Unita (21 aprile 1911); subito dopo fu ampliato e quindi pubblicato (giugno 1911) presso Zanichelli, con una traduzione italiana dello stesso Pascoli in endecasillabi sciolti. Anche in questo Hymnus v’è molto di rutiliano, sia nella prima stesura (Pascoli 1951, pp. 666-668, con la traduzione in prosa dello stesso Pascoli riportata alle pp. 737-740), sia in quella finale (Pascoli 1951, pp. 352-395). In quest’ultima, naturalmente soprattutto nella sezione conclusiva (vv. 433-444 del testo latino), intitolata nella traduzione (vv. 651-669) A Roma eterna. Per es. i vv. 434-37 post longa oblivia rerum/ et casus tantos surgentesque undique flammas,/ tu supra cineres formidatasque ruinas/ altior exsistens omni de morte triumphas rinviano al motivo rutiliano (I 121-140) dell’ordo renascendi costituito dal saper risorgere sulle proprie rovine, riemergendo, una volta ‘sommersa’, con slancio ancora maggiore (la stessa clausola del v. 434 discende secondo me da un altro verso rutiliano dell’‘inno’, Rut. I 53: obruerint citius scelerata oblivia solem). I vv. 438 s. tu populis iuris per te consortibus offers/ mirandam te nunc in primo flore iuventae rinviano a Rutilio I 65 s. dumque offers victis propriis consortia iuris etc. e all’esortazione a rifiorire che Rutilio rivolge a Roma in I 115 ss. Ringrazio Patrizia Paradisi per il suo contributo nell’avviarmi lungo queste piste del Pascoli latino. 39 Nello stesso Pascoli è da vedere anche, di poco posteriore a quello in Romam, l’Hymnus in Taurinos (siamo nell’autunno del 1911), dove per es. il cenno agli acquedotti dei vv. 328-329 (necnon cernebant longo velut agmine celsum/ montem scandentes procul ire gigantas aquatum) richiama le lodi rutiliane degli acquedotti di Roma nell’inno, vv. I 97-100 (specialmente il secondo distico: hos potius dicas crevisse in sidera montes:/ tale Giganteum Graecia laudat opus?), cosa che non sfugge a Marino Barchiesi nelle sue relative note di commento (Pascoli 1951: il poemetto, con traduzione dello stesso Pascoli, è alle pp. 396-437; le note di Barchiesi sono alle pp. 679-80). Segnalo come notevole la lirica A Roma di Tozzi (in Le poesie, a cura di Glauco Tozzi, V volume dell’edizione Vallecchi delle «Opere di Federigo Tozzi», Firenze 1981, pp. 7-9), che non appare però in relazione con Rutilio. 37 38

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Nello stesso autunno del 1911 in cui Pascoli, dopo il suo inno a Roma, elaborava quello in Taurinos, un altro poeta, il ligure Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, si cimentava con una traduzione artistica da Rutilio. Si trattò di un omaggio offerto «Al Conte Carlo Sforza, ministro d’Italia, come segno d’augurio, sebben tardo, non meno affettuoso, per le sue nozze»: con il titolo Il ritorno di Rutilio Namaziano, Ceccardo rese in endecasillabi sciolti i passi relativi a Populonia e alle saline della villa di Albino (I 399-416 e 429-486), nonché quasi tutto quanto resta per tradizione umanistica del II libro (II 11-68)40. È interessante notare come, nonostante l’occasione – che prevedeva come destinatario un ministro, e proprio nel cinquantenario dell’Unità d’Italia» –, il poeta non soffermò la propria attenzione sul celebre ‘inno’, ma su momenti meno frequentati del poemetto. È vero che il secondo libro rutiliano introduce, a pendant con l’inno a Roma del primo, le cosiddette lodi appunto dell’Italia (II 11-40); ma agiscono nel taglio della scelta soprattutto ragioni private – che ci riconducono, in trasparenza, a un’altra fonte della fortuna rutiliana: l’amore per luoghi che anche Rutilio si sia trovato a cantare. Nella fattispecie, agisce qui in maniera rilevante la circostanza che quanto abbiamo di Rutilio sfumi sulla menzione di Luni (II 61-68). Nato a Genova e trasferitosi presto in provincia di La Spezia, Ceccardo ricorda spesso Luni nei suoi versi41, e non si andrà lontani dal vero ipotizzando che proprio l’afPochi rapporti diretti con Rutilio sembrerebbe avere anche il lungo inno A Roma nell’Elettra di D’Annunzio. 40 La data in calce ai testi registra appunto «S. Andrea Pelago, l’autunno del 1911». Le traduzioni furono «comprese nel volume postumo “Sillabe e ombre” edito nel 1925 con prefazione di P. Baratono, in cui è raccolta tutta la produzione del C. dal 1910 al 1919» (Frassinetti 1980b, p. 295: con puntuale esame della traduzione e dei suoi occasionali fraintentimenti, in considerazione anche delle edizioni seguite dal poeta); si possono ora leggere alle pp. 387-393 dell’integrale delle poesie curata da Bruno Cicchetti ed Eligio Imarisio per la Sagep Editrice di Genova (1982). 41 Vd. per es. Roccatagliata Ceccardi 1982, p. 255 (il sonetto Luni); pp. 105 ss. (Frammenti del “Poema della casa”, Val di Luni); 119 s. (Sonetti Boni, Il ricordo lontano); 208 ss. (in Frammento classico «le prime/ origini di Luni»); 251 (In morte di mio fratello); 394 ss. (in Per Ilaria Guinigi, signora di Ortonovo). Al di fuori delle occorrenze di Luni, interessante, per atmosfere vagamente rutiliane, la poesia Una sera d’inverno alla finestra (p. 186); cfr. anche Piccolo porto in Liguria (pp. 244 ss.).

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fezione per il teatro dei suoi anni giovanili sia stata la radice estrema del suo interesse per Rutilio Namaziano42. Più di recente si lascia registrare la ‘traduzione’ che di parte dell’inno a Roma ha preparato Ezra Pound. Fedele a un proprio sbrigativo modo di procedere, che poggia peraltro su una conoscenza non molto profonda del latino, Pound taglia, riadatta, rielabora, reinterpreta (quando non travisa) il testo di partenza molto liberamente43. 42 Santini 1995, nota 13: «nato a Genova nel 1871 da Lazzaro Roccatagliata e da Giovanna Ceccardi, nobildonna di Ortonovo (provincia di La Spezia), Ceccardo manterrà sempre vivo anche tramite l’adozione del secondo cognome il ricordo del ramo materno, già coonestato da discendenti ben più illustri di quello paterno. Il mito di Luni (nell’antichità Luna […]), antica città portuale alla foce sinistra del fiume Magra, che segna il confine tra Liguria e Etruria, da un lato trae consistenza proprio da questo dato biografico profondamente sentito dal Ceccardi, mentre si avvale dall’altro di notizie storiche delle fonti classiche (Strabone, Plinio), che fanno di Luni un centro fiorente per la produzione di marmo, utilizzato anche nella Roma augustea, cfr. H. Philipp, s.v. “Luna”, in RE, XIII,2, Stuttgart 1927, 1804; anche il motivo della decadenza successiva, evocato anche da Dante Par. 16, 73 che fa di Luni un prototipo di città disfatta avrà avuto modo di colpire l’immaginativo gusto per la decadenza del Ceccardi». Lo studio di Carlo Santini – che ringrazio calorosamente per avermi segnalato il caso di Ceccardo lettore di Rutilio – discute la precedente bibliografia (specialmente la monografia di Rita Baldassari, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1984), e focalizza lo stretto rapporto intercorrente in Ceccardi fra idea dell’antichità e poetica del frammento, sottolineando conseguentemente – quanto a Rutilio – l’omogeneità di questa concezione con la scelta di tradurre solo parte di un poema già in sé frammentario (vd. in particolare p. 99). Di Ceccardo è infine interessante il caso di un minimo diario di viaggio, che si dispone in generico parallelo con il gesto letterario di Rutilio: alludo alle Lettere di crociera, edite da San Marco dei Giustiniani a cura di Paolo Zoboli (Genova, 1996; per ulteriori spunti ceccardiani cfr. ivi, p. 61). 43 Vd. Pound 1970, p. 409 (la traduzione è del 1963): «ROMA, Rutilius Claudius Namantianus [sic] (flourished 416 A. D.): Again and again I kiss thy gates at departing/ And against our will leave thy holy door-stone,/ Praying in tears and with praises/ Such words as can pierce our tears.// Hear us, Queen, fairest in all the earth, roma,/ Taking post twixt the sky’s poles,/ Nurse of men! Mother of gods,/ Do thou hear us./ Ever we hymn thee and will, while the Fates can have power./ No guest can forget thee./ It were worse crime than [sic] forgetting the sun/ If we ceased holding thy honor in heart,/ Thou impartial as sunlight to the splash of all outer sea-bords./ All that Apollo over-rides in his quadriga/ Hast thou combined into equity:/ Many strange folk in one fatherland,/ To their good, not seeking to dominate;/ Gavest law to the conquered as consorts;/ Made city what had been world.// They say that Venus was thy mother, that is by Aeneas,/ Mars for father hadst’ou through Romulus,/ Making mild armed strenght, she in conquest:/ One god in two natures;/ Joy out of strife by sparing/ O’ercamest the sources of terror/ In love with all that remains». Pound rielabora Rut. I 43-72; per limitarmi solo alle più vistose distanze dall’originale, oltre alla

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Per ‘sdrammatizzare’ questo côté che – prescindendo da Roccatagliata Ceccardi – tende a precipitare in una fruizione magniloquente e retorica della memoria rutiliana, posso forse permettermi di menzionare brevemente un episodio di brillante reinvenzione giocosa della tradizione. Fra le more di gravosi impegni d’alta dirigenza in seno alla Pirelli, un top manager di formazione fanaticamente classicistica elabora le gesta poetiche di un poeta latino di nome Flavio Augusto Musandro. Si tratta di un epico operante «presso il Seveso dalle belle correnti» e dedito a istoriare in tonanti esametri (che nascono direttamente corredati delle rispettive note di commento) miti e imprese della squadra di calcio dell’Inter. Ho avuto la ventura di giungere in possesso dei primi due grandi carmi, all’epoca ancora inediti, di Musandro. Nella prefazione al primo, intitolato De bello derbyco, si legge (Fontana 2004b, p. 14): l’immediato predecessore letterario di Musandro è il tardo poeta latino Rutilio Namaziano, estremo cantore della grandezza della civiltà classica. Chiusa la millenaria parentesi della poesia e dell’apologetica cristiane, Musandro si riallaccia all’antica tradizione imperiale, di cui distingue nettamente la palingenesi nelle incandescenti vicende del campionato di calcio. Tutta la poetica del Nostro si può riassumere in una proposizione semplice, che ha per il Vate valore assoluto d’assioma: l’Inter è l’unica legittima erede e continuatrice dell’Impero Romano.

L’idolatrato modello dei versi latini in cui Musandro immortala, oltre agli assi sportivi e alle esagitate bande di tifosi, personaggi del calibro dei presidenti rivali Moratti e Berlusconi, risulta poi essere non tanto Rutilio quanto Claudiano; ma, a mantenere nitido l’aggancio con Rutilio, il secondo di questi caratteristica storpiatura del nome (cfr. nota 93 e contesto), segnalo: omissione del v. 50; v. 51: fraintendimento di sinent dum fata; v. 52: Pound legge e traduce hospes per sospes; i vv. 55-56 vengono ‘condensati’; v. 58 Pound prende eque per aeque e stravolge il significato, quindi omette senza alcuna segnalazione i vv. 59-62; viene frainteso, o reso molto liberamente, il v. 70; viene reso assai liberamente e non senza fraintendimenti l’ultimo distico (71-72). Un cordiale ringraziamento ad Andrea Rodighiero, per avermi segnalato questa pagina di Pound. Fra le più recenti traduzioni poetiche di Rutilio in italiano segnalo quelle di alcuni brani da parte di Giancarlo Pontiggia in Pontiggia 1993 e Pontiggia 2006. Elegante anche la traduzione di Lucia Pasetti, per i soli versi I 49-114 (Pasetti 2008).

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poemi, e in parte seguito del De bello derbyco, è un de reditu: il De reditu Ronaldi44. b) Viaggio e malinconia: Normanno e Pierluigi Cappello Su diverse lunghezze d’onda, del poemetto di Rutilio suscita eco l’impianto odeporico. È l’idea stessa del viaggio che sempre inclina a colorarsi di simboli, e tanto più in un caso come questo, in cui alla dislocazione si sovrappongono complesse stratificazioni malinconiche: il congedo da un centro di affetti, che per ragioni ‘esterne’ di collocazione cronologica, modula in congedo da un mondo, addirittura da una stagione fra le più cospicue della nostra storia: l’intera ‘Antichità’. 44 Autore di questi carmi è Flavio Fontana. I 453 versi del De reditu Ronaldi, vincitore della medaglia d’argento al Certamen Vaticanum xxxxvi (2003), sono stati pubblicati, senza l’autocommento, su «Latinitas» (Fontana 2004a); ma ha visto la luce a fine 2004 la pubblicazione di un volume contenente i due poemetti presso l’editore Francesco Rossi di Marina di Carrara (Fontana 2004b). Di recente, Fontana-Musandro ha elaborato anche un De primo consulatu Hadriani, consacrato ai trionfi dell’Inter sulla Juventus, che ha poi vinto la medaglia d’oro al xlix Certamen Vaticanum del 2006; lo stesso trionfo ha conseguito, in occasione dell’edizione 2008 del Certamen, l’ultima fatica di Musandro, il De vindicatione Proserpinae, continuazione ideale del De raptu Proserpinae claudianeo, dedicata, in un fastoso intreccio fra glorie speleologiche e personaggi e vicende del mito, alle imprese della Commissione Grotte Boegan di Trieste (anche qui permane un po’ di Rutilio: il poemetto doveva in effetti intitolarsi in un primo tempo De reditu Proserpinae). Ambedue quest’ultime aureolate composizioni sono tuttora inedite. In tema di contiguità fra l’antichità classica e le glorie calcistiche non posso qui fare a meno di segnalare pressoché l’intera produzione, in versi e in prosa, dello scrittore romano Fernando Acitelli: vd. ora qui oltre, paragrafo 6 d, e particolarmente nota 94 e contesto. Presso Limina di Arezzo è recente una sorta di album di ricordi-figurine, sempre legato al calcio, che tocca vertici di struggente lirismo: Il tempo si marca a uomo, 2004. Vi si scoprono amore per «una manciata di versi ritrovati di un poeta minore» (p. 37), combinato con «la passione sfrenata per tutti coloro che contano una sola presenza nella massima divisione» (p. 55), e ancor di più per i dimenticati (p. 55): «che lezione di calcio quel sabato pomeriggio, grazie a quel perdigiorno, con quel giocatore, Cappello, divenuto subito un universo da esplorare, una biografia da allestire cui avrei dunque dedicato del tempo, cioè, in sintesi, larghe pause dall’idea della morte». Calciatori minori come poeti minori, dunque (cfr. del resto pp. 93 s.). E ancora questo frammento di tempo ritrovato che, nonostante la sua pertinenza del tutto esteriore e casuale, non posso qui esimermi dal registrare (pp. 9 s.): «“Vuoi vedere che papà, stasera mi compra tutto il completo?!...” pensava tra sé il bambino, in un’attesa quietamente felice. Ma purtroppo quella sera il papà si sarebbe esibito soltanto nell’acquisto degli scarpini mentre per il completo avrebbe dovuto attendere l’arrivo della tredicesima. Ma che acquisto, comunque, quella sera! Che scarpini! Sulla scatola di cartone grezzo una scritta in bianco così illuminava: Scarpini Rutilius, donano maggior slancio e più velocità».

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Individuo in questo paragrafo due casi poetici in cui Rutilio suona come simbolo di ‘viaggio’, e questo ‘viaggio’ a sua volta si dilata in ricchezza di armonici: due componimenti, rispettivamente, di Normanno e di Pierluigi Cappello. «Normanno» è il nome d’arte di Luigi Romano45. Sembra muovere da una piccola occasione quotidiana la sua personale identificazione con Rutilio in una complessa poesia della raccolta Poeta in Ninive46. Vi prende corpo un miTraggo alcune notizie dal profilo bio-bibliografico pubblicato sul secondo risguardo della raccolta Poeta in Ninive, pubblicata presso Book di Castel Maggiore nel 1999 (che ne ricorda fra l’altro anche l’attività nel campo della pittura e della grafica): «Normanno (Luigi Romano), di famiglia siciliana, è nato a Roma. A Roma ha studiato Filosofia e musica (pianoforte, organo, armonia e contrappunto) negli anni Cinquanta. Ha pubblicato in riviste negli anni successivi recensioni di opere di Thorstein Veblen, W.J.H. Sprott, J. Revers, A. Hauser, D. Riesman, H. Read, e altri. Agli inizi degli anni Sessanta ha svolto intensa attività editoriale presso una nota casa editrice romana. […] Ha pubblicato le seguenti opere di poesia: Syntagma (1963), Il miracolo intenso della casa (1971), O il capriccio o il fato (1973), Liminaria (1983), Replicare alla Sfinge (1994), Mentre uomini e astri tornano in ciclo (1995), …urgenti per la fine alchimia (1998), …ellenica è la Ragione: Cinicamente… (1998). […] Dal 1974 vive nella campagna a sud di Roma, presso Cori». A Poeta in Ninive ha fatto seguito nel 2000, per Fermenti Editore, un decimo libro di versi (Due poemetti, contenente Confessione fisiologica di Albrecht Dürer, 1983-88, e Quando Pierre Clastres decise di non più vivere, 1986-97); recentemente privilegia la scrittura teatrale. A un mio invio, con cui prendevo contatto con lui sottoponendogli queste pagine, Normanno ha risposto con una lunga lettera-dichiarazione d’intenti (Normanno 2004), di cui vivamente lo ringrazio, e cui attingo alcune precisazioni. Si tenga presente che la posizione di Normanno circa l’incompiutezza del poema discende dal manuale di letteratura latina di Ettore Paratore, anteriore alla scoperta dei nuovi frammenti, e così da Normanno stesso citato (2004, p. 6): «Paratore propende per una composizione del De reditu a viaggio concluso e poi interrotta per cause non precisabili». 46 Normanno 1999, pp. 111-112. Cfr. Normanno 2004, pp. 2-3: «In tutta la mia produzione edita e moltissima inedita tanti personaggi sono continuamente chiamati in causa: come pacifici dialoganti, come importuni interferenti. Ora sono velenosamente apostrofati, ora vengono opportunisticamente chiamati in soccorso, ecc. Evocati in vari contesti […], vengono spesso impostati forzosamente su situazioni ‘attuali’, calati con indisponente anastrofe in trame esistenziali inrapportabili con quelle nelle quali essi hanno guadagnato aura immortalizzante […]; spesso le loro qualità e facoltà autentiche vengono riassunte con piglio volgarizzatore e come omologate al clima della contingenza immediata quasi li si voglia convincere che hanno una precisa responsabilità in quanto è accaduto nel mondo a seguito del loro inopportuno esibizionismo politico o letterario o artistico. […] Rara, tuttavia, la ricorrenza di una modalità, come quella da Lei rilevata, della immedesimazione del poeta con il personaggio evocato. Immedesimazione-gemellarità, dunque? Il poeta, nato ‘Gemelli’ intende assumere atteggiamento e comportamento non infrequenti nelle coppie gemel45

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nuscolo mimo scolastico. Ne è protagonista una scolaresca che dapprima assimila da maestri e manuali giudizi preconfezionati47, e che poi nuovamente incontriamo, sicura di sé, lungo una strada ben pavimentata, sebbene ragioni d’igiene esigano droghe depuranti nelle fontanelle, e altrove si distendano le

lari, ed enuncia il proprio ‘distinguo’ tanto nei confronti di Rutilio autore del carmen quanto nei confronti dell’autore di quella Carmen la cui bocciatura fa da tessera d’ingresso al recinto in cui si confezionano equivoche poetiche e precettistiche. […] Rutilio, pur gratificato di autorevolezza nel proprio tempo, non conclude il proprio carmen, Normanno pur nel disappunto in cui lo segrega la scarsa considerazione che l’ufficialità letteraria del suo tempo fa della sua ‘Carmen’, settantacinquenne vitale e dinamico (programma suoi viaggi ciclistici e ascende in solitudine montagne) e in capo a più di cinquanta anni di impegno scrittorio n o n i n t e n d e ‘lasciarsi morire’ di crepacuore o per delusione delle aspettative gratificanti o per suicidio, come un Bizet, ma, semmai, è ben determinato a reagire riproponendo imperterrito quel suo concetto/precetto di propositività che il poeta, oggi, deve introiettare ancor prima di metter mano alla penna». Per una interessante coincidenza, Normanno ha scritto anche due Elegie di viandante verso le Gallie. Si tratta di due poesie del 1999, risalenti però a esperienze di viaggio più antiche, e rimaste inedite fino a Normanno 2005 (dove figurano alle pp. 90-94, con nota a p. 127, e con una dedica di cui ringrazio di cuore). In una sua lettera del 26 agosto 2004, Normanno, fra gioco e serietà, precisa: «il pieno diritto delle due elegie a intervenire nel certamen rutiliano risulta dall’esame delle date: 1989, data di inizio delle mie varie percorrenze della strada delle Gallie, 1995 data della redazione della poesia del ‘contentum’, 1999 data della redazione delle due elegie: il 1995 taglia in due perfette metà il decennio 1989-1999. Come non arguire che Rutilio abbia alitato sia expliciter che subliminalmente in tutto quell’arco di tempo?». 47 Normanno 2004, p. 5 (a correzione di una mia erronea interpretazione nella prima stesura di questi appunti): «Con il termine “comarca” non intendevo alludere a una persona ma a una comitiva, alla ragazzaglia di “allievi imberbi e flaccidi” che, con sicumera, dopo compulsati “ipocriti manuali, nelle scuole”, “decreta l’insuccesso clamoroso/ di una Carmen” dichiarando tutte le insulse motivazioni del giudizio sanzionatore che sono elencate nella seconda strofa […]. Sono essi, i volgari saputelli, i membri della “comarca”; e certamente articolano nel loro giudizio spezzoni e frammenti di un avventato maestro o maestra… Ho derivato il termine ‘comarca’, che mi è sempre apparso intriso di picaresca verve, dai frequenti impieghi che ne sentivo fare da mio padre, di borghese famiglia palermitana ma pervenuto a metà della carriera a porre per sempre piede nella capitale. Qualche esempio: “Vinni iddu cu tutta ‘a so’ cumarca a fare ciantona…”, “…unn’eppi paci sinu a cchi ‘un sinni iu ‘a cumarca!...” Nel Nuovissimo dizionario siciliano-italiano di Edoardo Nicotra-D’Urso […] ho trovato il termine “cumacca” s.f. definito come “compagnia di gente che si raduni, per consultarsi sul modo di far danno ad altri. Combriccola”. La dizione-variante (la r al posto del rafforzamento della c) che ricordo nettamente intonata da mio padre ho sempre considerato senza titubanza come ombreggiatura ‘panormita’ di un termine peraltro diffuso nel dialetto isolano; avvertivo che conferiva ai contesti, nei quali era tramata da mio padre, un forte senso spregiativo».

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moderne rovine di «borgate fetide, in suburbi/ e in colonie di consistenza squallida»48. Lungo queste moderne risultanze del declino ‘viaggia’ un nuovo Rutilio. Abbiamo dunque una Carmen e un carmen: due casi di marginalità. Nel primo, l’insuccesso di un’opera destinata poi a cospicue fortune provoca il suicidio dell’autore; la frustrazione dell’autore di fronte al fallimento della sua opera non è, per il «coro illuministico» degli studiosi – immaginati in marsina, quasi in toga e tocco, «con mano grassoccia» – bastevole giustificazione dell’atto estremo. ‘Illuministicamente’ lo si spiegherà meglio con le sue depressioni, fissazioni, asocialità, frugando nella psiche dell’autore, censurandone abitudini, gusti erotici e alimentari. Di quel dramma, il pubblico non porterebbe alcuna colpa49. Il secondo caso di marginalità – quello di Rutilio – si perpetua nell’emarginazione di oggi e si riflette nel caso del poeta che lo assume a pietra di paragone. Mentre intorno – e specie nelle aule che ospitano i riti della formazione sotto la guida di superficiali maestri – imperversa un chiacchiericcio pseudoculturale, costruito su sovrastrutture terminologiche intonate all’ingannevole futilità dei tempi, il nuovo Rutilio, dal «volto anonimo» ma forte di «eletta struggente melodia», affronta nella dura realtà il suo iter-calvario, che si articola come un «coriaceo sopravvivere». Il contesto è il moderno degrado urbano, versione aggiornata delle antiche rovine. Contro il rumore di fondo e l’inamena desolazione circostante, il poeta non è questa volta un aristocratico, manca di antenati nobili, ed è flagellato per bene dal fisco e dall’età50. E non importa se, 48 Normanno 2004, p. 5: «Saranno in gruppo – c’è da crederlo – maestri e scolari, a identico livello di pretenziosità tassativa, a trascorrere imperturbabili dinanzi al mortificato ambiente». 49 Normanno 2004, 3: «Del suicidio, o comunque della catastrofe annichilente del Bizet misconosciuto, il pubblico, la “comarca” […] resti pur convinto di non aver colpa: […] codifichi pure i propri giudizi su psiche e grovigli precordiali e frenologici del poeta e del musico!... Esso, il pubblico, – conferma invece a questo punto il poeta – ha colpa nel misfatto, ma è incapace di rendersene conto finché non giunge – o meglio non sarà costretto – a chiedersi “…in che elettrica sintassi/ occorre ricomporre la lingua comune/ perché i radiosi princìpi abbaglino tutti” (Ninive, pag. 76)». 50 Se questo è, come inclinerei a ritenere, il senso di «anagrafe»: a giudicare dai calcoli operabili sulla base della prefazione di Perilli – che dice l’autore settanten-

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oltre agli avi, mancano anche gli esegeti, e le parole rischiano dunque di cadere in un vuoto. A contare è, in sé, il tenore del canto. Questo nuovo Rutilio Namaziano impegnato in un viaggio di resistenza leva ugualmente la sua «eletta struggente melodia», che riproduce con nitore i contorni della realtà in cui egli peregrina: per questa ragione il suo argomento risulta «plastico» (si guardi all’istantanea dei colombi in questa stessa poesia)51; ma simultaneamente carica la trasposizione di

ne nel 1999 – e dell’indicazione vista a nota 46 («settantacinquenne» nel 2004) alla data della poesia rutiliana, nel 1995, Normanno dovrebbe aver avuto circa 66 anni. Un vocabolo chiave mi pare comunque «saccheggiato», che allinea «fisco e anagrafe» all’azione dei barbari che mosse il viaggio di Rutilio. Vd. in ogni caso Normanno 2004, pp. 3-4: «Immedesimazione e ‘distinguo’ meglio si chiariranno inquisendo: “Qual è la mèta del viaggio di questo altro Rutilio? Quale la nostalgia impulsiva di questo altro Rutilio?” […] La mèta del viaggio è quella di un universale esistenziale e terrestre paesaggio-Eden estetico culturale, nel quale sia nuovamente concesso di fruire di naturale gaudenza; paesaggio che le scelte dissennate operate nel corso ‘civile’ […], inteso come perseguimento ottuso di rettilinea conseguenzialità […] han deformato in ‘miraggio’, utopia!... La nostalgia impulsiva è quella di una ancestralità remota, caratterizzabile, poniamo, più con i rinvenimenti fatti da qualche Lévy-Bruhl nei meandri dell’“Anima primitiva” che non con i suggerimenti forniti da tante poetiche, prammatiche, precettistiche, galatei, diplomatiche convenzioni!... Penso che acquisti precisa significatività proprio in quella mia predilezione di zone limitrofe di lande e di epoche a cui ho fatto cenno prima la occasionale circuitazione di un Rutilio». 51 Normanno 2004, pp. 4-5: «Il reditus di Rutilio è sospeso […] tra nostalgia di un certo passato storico e compiacimento di una grandeur romana ancora residua o restaurabile. Nella ideologia di Normanno il reditus (organato in una concezione antropologica di storia come descensus da Eden a catastrofe), immerso nell’acqua di coltura di un’improbabile palingenesi […], è imposto/proposto da nostalgie di atavismi e di ancestralità; ma la nostalgia è a sua volta innescata da contemptus, ampiamente motivato, del presente: non di una Roma fulgente, ma di una “Neapoli” che “…mortifica/ la stessa vitalità pullulante e incoercibile…”, e allora “… che meraviglia/ se va in deriva la chiatta putrescente?” (Ninive, p. 59) […] La Roma che Rutilio lascia partendo, pur saccheggiata e profanata da Alarico, conserva ancora, per il poeta latino, tanta ricchezza, depositi speranzosi di ripristino dell’antico splendore che ormai sono inimmaginabili nella ‘Città di vita’ percepita da Normanno. Rutilio può ancora nutrire lirismo agiografico, enfasi epigonica, Normanno ha letto e digerito Anders con qualche decennio di anticipo sulla ecologia di moda e ne ha tratto stimolo a intendere come unica superstite tolleranza di espressione poetica, nell’età liminare, quella che in qualsiasi modo richiami il Genere alle responsabilità che si è accollate nel descensus, sia nel corso della storia che nel presente. […] Né questa differenza significa sdegnoso rifiuto del titolo di nostalgico. Anche lui, Normanno, guarda a un ‘indietro’. Ci sono individui che ci nascono nostalgici». E ancora Normanno 2004, p. 6: «Il trittico dei personaggi appare ora variegato da connotazioni indubbie e non più miscelabili: Bizet morente prematuramente e incompreso, Rutilio non concludente il poema e, forse, il viaggio […; cfr. sopra, nota 45, alla fine], Normanno determinato – per quanto

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lirismo: una modalità che Normanno sembra ravvisare come tipica del Rutilio antico. Anzi arriverei a sostenere che il punto di partenza sia l’idea che nel De reditu suo tutto sia rappresentato al contempo plasticamente e anche liricamente (per questo l’espressione passa a insediarsi nella sede esposta e riepilogativa del titolo). Da qui scaturirebbe in Normanno, a mio vedere, un’analogia, anche se alla lontana, con i propri casi: con l’assetto cioè del proprio dettato, e della propria avventura esistenziale di ‘navigante’ in condizioni difficili che trova conforto nel canto. Ciò che precede sembra la cristallizzazione della sua avversione al sapere scolastico e alla garrula futilità delle nuove metodologie; ‘contentum’ che viene proposto in forma di quadretto mimico-satirico («plastico»), venato di lirismo. Ecco dunque il testo: Del suo contentum plastico ma lirico Ipocriti manuali, nelle scuole, rassicurano allievi imberbi e flaccidi: «Se un pubblico, sì, volubile, ma pure ben responsabile in un complesso storico che ha lasciato dei segni di prestanza in tanto spazio del potere umano decreta l’insuccesso clamoroso di una “Carmen”, possiamo dar legittimo l’estremo disappunto e il dispiacere, ma persino mortale, del suo autore?»

negletto e trascurato dal “coro illuministico, dal chiacchiericcio pseudoculturale” […] – scilicet “vessato da fisco e anagrafe” – , determinato a insistere nella disamina e denuncia dello stato delle cose, a contestare, volitivamente determinato a rinfacciare il mal fatto nel corso della devianza, a portare a compimento viaggio e poema». Nella mia prima stesura di questi appunti, scrivevo «Contentum secondo me non può valere qui che “contenuto”, da contineo (mi chiedo se non possa però aver pensato al participio di contendo e averlo dunque inteso come “condizione di tensione/ intensità” o simili)». Normanno 2004, p. 6 continua: «Detta la cosa con tal tono, torneranno certamente utili ambedue le interpretazioni che Lei suggerisce del contentum: da contineo l’avevo impostato dapprincipio, ma troppe delle espressioni che ho impiegato in queste pagine invogliano a carpirne anche l’altra derivazione da contendo». In ogni caso (Normanno 2004, p. 6): «è evidente la predilezione che, nel contentum, il Nostro [scil. Normanno stesso] nutre per il ‘plastico’ rispetto al ‘lirico’; si tratta di una precisa opzione letteraria, poetica e ideologica».

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«Oh no; – replica il coro illuministico rassettando le pieghe della marsina sul corpo ben flessibile, con mano grassoccia – sonderemmo, semmai, nei gorghi umidi, nei recessi stantii della sua infanzia precocemente selettiva, dentro i gusti eletti da lui nel cibo e senso, nelle predilezioni cromatiche e acustiche in cui si segregava asocialmente. Analizziamo dunque i suoi chili e tic!» Poi la comarca esonda lungo vie ben selciate nel tratto tra scuola e casa e ben discetta sui prestigiosi accumuli che il lessico tecnologico consente ai praticanti scrupolosi e assidui, mentre da chiocciolanti fontanine sgorgano acque drogate per igiene e il piumaggio iridato dei colombi si scrolla in umiltà cerimoniose sopra muffite briciole di pane. Intanto in borgate fetide, in suburbi e in colonie di consistenza squallida, trascorre con volto anonimo ma eletta struggente melodia un altro Rutilio Namaziano ben saccheggiato da fisco e anagrafe; sguarnito di ascendenti e di esegeti, svanisce in cronologica nebulosa mentre la quota del coriaceo sopravvivere si libra oltre le fragili impalcature del suo contentum plastico ma lirico… (Cori, 16 ottobre 1995)

Volgiamoci ora alle liriche del poeta friulano Pierluigi Cappello52. Pubblicata nel 1998, la sua raccolta La misura dell’erba 52 Nato a Gemona nel 1967, Cappello vive a Tricesimo, in provincia di Udine. In friulano ha pubblicato presso Boetti di Mondovì Il me donzel («Il me giovinetto»), 1999, poi reinserito nella più ampia (e splendida) raccolta uscita presso Campanotto Amôrs («Amori», Udine, 1999); in lingua italiana ha pubblicato Le nebbie (Udine, Campanotto 1994); La misura dell’erba, Poesie (Milano, Ignazio Maria Gallino 1998, 20002: Namaziano vi figura a p. 19); Dentro Gerico (Cappello 2002); Dittico, Poesie in italiano e friulano 1999-2003, presentazione di Giovanni Tesio, Dogliani, Liboà Editore 2004 (Premio Montale 2004). Infine la raccolta riepilogativa

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ha raggiunto – evento straordinario per una silloge poetica nell’Italia di oggi – una seconda edizione nel 2000. La poesia su Rutilio Namaziano trova posto in una prima sezione, intitolata Il settimo cielo, dedicata a poesie che hanno a che vedere con la lettura, la scrittura, il viaggio letterario. Una sorta di trittico si apre con la lirica «Abbiamo letto millenni quaerendo/ invenietis» e si sviluppa in due acrostici, non evidenziati da maiuscole o grassetti, proprio perché sia compito del lettore quaerere molto fino ad invenire. I due componimenti recano tuttavia a titolo la scritta poi disposta in acrostico, che in ambo i casi è un nome di poeta. Si susseguono così Namaziano e Umberto Saba. Stasi contro mobilità è un’antitesi che segna nel profondo della viva carne e del più vivo dolore la condizione esistenziale – ed insieme la poesia – di Pierluigi Cappello, vittima a sedici anni di un gravissimo incidente di moto53. In questa circostanza, Cappello si rivolge al motivo del viaggio profilandovi un’allegoria della mobilità dello spirito lungo il campo dell’esperienza, in particolare per come viene rielaborata nell’arte. Per il suo ‘studio’ su questi risvolti della dislocazione, suscettibili di coloriture metafisiche in veste di proiezioni a quanto ci attende nell’aldilà, viaggio oltre il viaggio, Cappello sceglie a suoi campioni Rutilio Namaziano cioè un poeta che ‘parte’ e vorrebbe restare (p. 19), e Umberto Saba, che invece è un poeta che ‘resta’, con nostalgia e quasi ansia del partire (p. 20): Assetto di volo (Milano, Crocetti 2006: Namaziano è a p. 25) e il volumetto Il dio del mare. Prose e interventi 1998-2006, Biella, Lineadaria 2008. Per una scelta di sue poesie, dialettali e in lingua, vd. Cappello 2001 e – con ampio saggio di presentazione – De Simone 2002. Vd. infine De Simone 2004a e 2004b. 53 Per rimanere a La misura dell’erba, si confronti con Namaziano quest’altra poesia, intitolata Al sole (p. 35): «Com’è franco e come sta aperto il sole/ sulle virgole di queste lucertole/ e come come loro ora mi attardo/ pulito e netto come un minerale/ a fare breccia di me stesso e muro/ o piolo dopo piolo a scavalcare/ il luogo dove, t’assicuro, si alzano/ le nuvole degli alberi turgenti/ e un’ape e la corolla e al sole il rame/ che vi gioca e sospinto dentro il sole/ io uomo vivo, un organismo dove/ un dio precipitò tutta la terra/ la terra allontanò tutto quel dio;/ sei qui non parti non ritorni attendi/ di partire, pierluigi, odi tornare/ e più che ritorni più che partenze/ queste attese caninamente al sole/ lo sapevi anche tu, che sono amare». In Dentro Gerico si vedano ora testi come Gerico (Cappello 2002 p. 17), Queste siepi (pp. 21 s.), D’estate (p. 23), Il punto (p. 35), Condòmini (p. 37), Ipermercato, mezzogiorno (p. 41), Casa di riposo, primo piano (p. 43). In Dittico, fra le altre, la drammatica poesia Assetto di volo (pp. 54-55).

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Non le barche, le scapole dei servi amare al peso del trasloco, o l’alba marina di Roma; lui magister alzò su di sé lo sguardo, divenne zona viva tra il suo respiro e l’altro il filo e la sostanza del poeta; allora non fu partenza il congedo: nero, in mezzo, lo scalpito del mare oltre l’indice teso del pontile.

Umberto Saba

Uno soltanto tu mi sei poeta marino, che con l’iride d’azzurro brevi ansietà d’imbarco mi riveli e aria e onda spuma di mare e scoglio respirano nei versi come te; tu ne tremi, poeta, e quanto il mare o l’ansito delle navi a vapore sbioccate là sui fogli dove il cielo altro non è che estrema ed incessabile brama d’Odisseo che eri, torni in me: alto com’è dei culmini ti levi.

Al tempo di Rutilio Namaziano, un addio come il suo non era semplice «partenza», con implicito ritorno, o almeno facoltà di non difficile ritorno, e in ogni caso di contatti mediatici; bensì espulsione, «congedo» definitivo, irremeabile. L’indice teso del pontile che lo allontana gli addita il largo, l’iter, il distacco. Rutilio è figura di uno strappo, della lacerazione che interviene – irriducibile, irrecuperabile – a separarci da quanto ci è più caro. In questo congedo senza ritorno (che ha riflessi drammatici nella singola esperienza personale di Pierluigi Cappello), «Namaziano» è il poeta e funzionario (l’ex magister officiorum trova qui il suo titolo abbreviato e virato a segnacolo di diverso magistero), che posa il proprio sguardo su se stesso, sulla propria esperienza e sul proprio dolore, e così facendo lievita a «cosa viva» fra la propria persona («il suo respiro») e ciò che n’è al di fuori («l’altro»: sintesi di tutto il mondo esterno, comprensivo di quella specie di io sdoppiato

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che è necessario per costituirsi a oggetto di lirica). E proprio in questo diviene poeta («il filo e la sostanza del poeta»: dove filo e sostanza sono una sorta di endiadi) e finisce per consegnare la sua vicenda ai posteri come un simbolo. Contemporaneamente, questo Rutilio in qualche modo introduce a un’altra idea che domina il mondo poetico di Pierluigi Cappello: quella della difficoltà (anche su un piano più generale, prescindendo dalla sventura che ha patito) di rapportarsi sensualmente con il mondo. Il Prometeo incatenato al suo male si riduce quasi a solo sguardo, disperando di poterne valicare un giorno i limiti di sostanziale passività. Nell’attesa, precipitano stilemi di osservazione, e, più ancora – con una deriva quasi serenatrice – di contemplazione del mondo, nel suo articolarsi a una certa distanza, di là da una finestra o dalle volute di una sigaretta fumata all’aperto: cieli, azzurro, nuvole, ed il verde incanto della flora, per come, al di qua di una siepe, è addomesticato dal giardino54. Di conseguenza, ecco il gesto apparentemente enigmatico con cui Rutilio alza su se stesso lo sguardo. Così facendo egli crea, fra il proprio respiro e tutto ciò che è «altro», un campo poetico carico di significati: Rutilio ne è oggetto e cantore insieme, istituendosi quintessenza di poesia e di poeta nel contempo. Questo gesto così intenso e decisivo altro non è che una replica, mascherata, del gesto con cui quotidianamente il poeta che lo mette in scena quale personaggio lotta per sottrarsi al dolore della realtà, e piegarne l’asprezza a musica, movimento e vita55. 54 Per queste invarianti vd. soprattutto Dentro Gerico (Cappello 2002: per esempio alcuni fra gli stessi testi citati a nota precedente), con la fine e penetrante nota di Giovanni Tesio (sua l’osservazione sulla «preminenza (assoluta) degli occhi»: vd. p. 9). Cfr. anche la presentazione dei testi di Cappello 2001. 55 Per questo il curatore di Cappello 2001, in epigrafe alla nota di presentazione, instaura con lui una sorta di tenzone, accostando all’acrostico NAMAZIANO il nuovo acrostico RUTILIO. In esso il poeta tardolatino che, proprio in forza di quell’aver levato lo sguardo su di sé, è divenuto una sorta di assetto dell’anima, funge a sua volta da indice teso; e addita un poeta-Prometeo incatenato a una sua isola, cui unico viaggio resta la pratica della poesia: «Rutilio (non un libro, ma un assetto,/ un’anima) guida a un poeta, un Prometeo/ tenace, confinato oltre il pontile,/ incatenato a un’isola,/ là dove resta solo spazio praticabile/ il viaggio in cui oggi è isolato Rutilio,/ ora più intenso ancora e decisivo». Aggiungo qui che in un libro d’arte (del Corona-Rechn 2002) mi sono imbattuto in una poesia di Annarosa del Corona intitolata De reditu: sebbene non vi siano evidenti richiami a Rutilio, il titolo stesso potrebbe essere allusivo nei suoi riguardi, anche in considerazione del fatto che l’autrice (come si apprende a p. 29) è

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Alla diafana immagine di Rutilio come «il filo e la sostanza del poeta» è suggestivo giustapporre un’altra frase che lo riguarda: vi si legge «Nel distacco ogni cosa o persona diviene essenza e io diffido delle essenze». È questa una voce che commenta da vicino e ‘dal di fuori’ il nostro poeta-essenza, alle prese con il suo congedo: la voce che – per opera di Maria Clelia Cardona (1997, p. 115) – tesse intorno all’avventura rutiliana un lungo racconto su cui presto ci soffermeremo. c) Iter e tristitia: il Rutilius Namatianus di Mauro Pisini Ma, prima di volgerci al paragrafo della prosa, dobbiamo registrare un caso in cui Rutilio è tornato, con grande intensità, protagonista di versi latini: si tratta del poemetto Rutilius Namatianus, scritto da uno dei più fecondi e interessanti poeti neolatini di oggi, Mauro Pisini, e pubblicato nella sua recente raccolta Meteora (Stelle brevi), accompagnato – come gli altri componimenti che gli fanno da corona – da una traduzione italiana di Chiara Savini56. L’intero libro ha nel Rutilius il suo omphalós: il disegno della silloge prevede infatti due serie di Carmina collaticia – «perché si tratta di poesie prese in prestito da altri libri e raccolte, per nata a Livorno e risiede a Grosseto. Salvo buon fine e per completezza trascrivo qui il testo (p. 24, dove ne figura anche una traduzione tedesca): «De reditu Vieni, andiamo;/ tu che sei il mio compimento/ sollevami da questo assillo;/ lasciamo che la ruota giri./ Che la trappola non c’intrichi.// Io perpetuo un canto/ che alla vita accompagno,/ un canto debole/ che qualche volta si spegne.// È riverbero, è miraggio,/ madre certa è la malinconia;/ da lontano mi si nega/ il giorno che declina./ Mi si nega il ritorno;/ tormentati il sonno, il respiro, il sogno./ Andiamo, cercando un riparo». 56 Pisini 2008, pp. 62-67. Riporto la nota biobiliografica posta a fine volume (p. 127): «Mauro Pisini (1962) insegna Letteratura Latina Liturgica presso il Pontificio Istituto di Musica Sacra a Roma. È stato più volte premiato nei concorsi nazionali e internazionali di poesia latina, in particolare nel Certamen Capitolinum, Certamen Catullianum, Certamen Vaticanum. Ha pubblicato, in italiano, i libri di versi La confidenza illuminante (1987), La ferita in largo (1991) e le raccolte Nel delta delle vene (1991), Nero (1993), Il quartiere dei profumi (1998), Cronache di un mese oscuro (1999), Il dolore può essere accusato (2005). In latino, Murmura noctis (1993) e la raccolta Album (2006). Sue poesie, italiane e latine, sono apparse, dal 1980 ad oggi, nelle riviste “Arx”, “Atelier”, “Erba d’Arno”, “Latinitas”, “Mas”, “Nuovi Argomenti”, “Parallelo ’38”, “Pietraserena”, “Semicerchio”, “Storie”, “Titus”, “Vox Latina” e altre». Sulla sua poesia vd. Paradisi-Traina 2007 (cfr. tuttavia la nota asteriscata di p. 159, secondo cui la stesura del lavoro si deve poi tutta alla Paradisi), particolarmente pp. 146-50: cfr. Mario Geymonat in Pisini 2008, p. 5.

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lo più inedite»57 –, che incorniciano un Fulcrum, esso stesso costruito in maniera concentrica, e cioè in modo che il Rutilius Namatianus (definito dall’autore un poema grave) sia preceduto e seguito da due poemata levia (Tonsor e Periculum, riguardanti rispettivamente una ‘seduta’ dal barbiere e le ansie e soddisfazioni in occasione di un esame). E non si tratta di una centralità solo architettonica, bensì più profondamente strutturale. Pisini dispone di una incisiva evocatività di immagini, concentrate in arroccamenti complessi e densi, che impegnano la mente in un processo di lento avvicinamento al fulgore della trovata pittorica58. A questa peculiarità alterna, e talora intreccia, dolenti meditazioni di una sensibilità acuta e sovente ferita, che inclinano a consolidare una costante malinconia. E molti di questi atteggiamenti tematici e tonali, sviluppati dai Carmina collaticia, ritornano e quasi celebrano i loro fasti nei motivi e nelle atmosfere del poemetto centrale, che se ne determina come una sorta di precipitato monumentale 59. E in effetti cos’è avvenuto nel Rutilius? Una dolorosa esperienza personale ha spontaneamente identificato nella vicenda dell’antico poeta un archetipo su cui misurarsi. Così, cantare la remota sofferenza di Rutilio ha significato ridurre ‘alla raCosì Pisini stesso nelle note di p. 126. Si vedano per esempio le immagini relative ai pini in Ruralia (Cose della terra: pp. 102 ss.), alle querce e al vischio in Ianuarius (Gennaio: pp. 108 ss.), alle piante e ai gabbiani nella marina di Sabulum (Sabbia: pp. 94 s.; cfr. l’appunto di Scapecchi in Pisini 2008, p. 51, secondo cui nella poesia di Pisini «Il mare […] è sempre presente nel suo maestoso infinito»). 59 A rievocare in sintesi le linee portanti della silloge valgono bene alcune parole dagli Appunti che Nicola Scapecchi ha distribuito lungo il libro, in calce alle tre sezioni: «Si può, […] a buon diritto, pensare a una poetica che procede per continue sottrazioni, compiute, ogni volta, sulla propria complessa interiorità, ricca di ombra labirintica e ipnotica (tormenti e tradimenti generati da promesse non mantenute, che conducono a speranze indistinte e diffidenza, dove si annida la paura, cioè la consapevolezza di una morte sempre alle porte…), ma sempre capace di regalare la verità e bellezza della vita nei versi in cui “L’uomo tenace”, baciato da un’ape, si sveglia» (p. 50); «una poesia densa di paesaggio, dettagli, in un rapido succedersi di volti, riflessioni intense e scoperte amare, orizzonti e speranze deluse e, soprattutto, elementi naturali che in modo sempre più incalzante, scandiscono il passo dei versi e rappresentano il segno escatologico, epifanico, direi, di un’esistenza destinata, altrimenti, all’estinzione […] lasciando sempre irrisolta l’immagine e l’emozione ultima, in una nudità caratterizzata dalla timidezza di chi si sente impotente ma, tuttavia, non ha rinunciato al tentativo di esporre le proprie “parole ai flutti”» (p. 124). 57 58

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gione’ – una ragione poetica – il proprio nodo esistenziale60.

Lo rileva anche Nicola Scapecchi negli Appunti pubblicati in Pisini 2008, pp. 90 s. Ma in più, al lettore interessato a raccogliere le infinite modalità del riverbero degli Antichi (e del nostro Rutilio in particolare) nell’animo di uomini oggi, sono in grado di offrire una diretta testimonianza dell’autore, che mi aveva a suo tempo anticipato il testo del poemetto, accompagnandolo con uno scritto intitolato Come una presentazione…, poi non ripreso in Pisini 2008. Eccolo: «Non io avrei da dire sul perché di questo poemetto, quanto gli eventi che aderirono al mio destino tra il 1999 e il 2002. Parlo di dolori, sconfitte, amori persi (almeno, come li ho sentiti io), non tanto per ripetere cose scontate e comuni, quanto perché, essendo, con la fatica, gli attributi più fedeli della vita quotidiana, variano troppo da persona a persona, per essere spiegati, o riconosciuti, senza sciupare questo aspetto del sentire individuale. Perciò, è giusto che il silenzio si prenda ciò che conta. E proprio un silenzio strano, improvviso che attutiva ogni rumore, mi prese, un pomeriggio di fine novembre 2000, non ancora buio, su un autobus della linea 44, a Roma, sul Ponte Sublicio. Assisteva, lontana, una luce rossa, molto sporca, di quelle che, dopo tanta pioggia, escono a ovest e si riflettono sul Tevere, che in quel momento mi sembrò un lungo sentiero di fango, con troppe piante storte, cresciute su detriti di anni. A un fumo sporco, a una città ineffabile, ma già tetra, alle cinque di pomeriggio, mentre tornavano lemuri di secoli, come fossero storni sui lecci di Termini, si univa quella feritoia rossa, quel lumino da morto, nel mese dei morti, ma aperto come un occhio, per parlarmi del viaggio che, in solitudine, stavo facendo dentro di me e dentro quell’autobus, dopo un amore precipitato che, per fortuna, era stato anche accecante e, soprattutto, inevitabile. Quella storia, quel giorno, dopo essersi trascinata per anni tra Arezzo e Roma, finiva lì, finito il ponte, sotto l’Aventino, mentre l’autista frenava di scatto e la reazione dei passeggeri fu brutale. Mi lasciavo sul collo (e sono ancora lì) ripetuti tentativi di vita normale, casa, lavoro, famiglia (o qualcosa che le somigliasse), dissolta la storia – come si dice – più importante della vita, mentre tornavano prepotenti tutte le precarietà, le maledizioni, le angosce da cui avevo cercato, fino allora, di ripararmi e che, invece… Tra il buio che cominciava e quello che avevo dentro, vidi Rutilio Namaziano, il suo silenzio di esule volontario, la sua fuga inevitabile. Abbandonava tutto, come me, a cominciare da Roma, così carnale e intima a chiunque sappia nuotare nel suo magma. Inevitabili le lunghe, assidue coltellate, specie nel lavoro, anche se ancora molto doveva accadere e la via che, allora, cominciava a essere in salita, in seguito, sarebbe diventata impraticabile. Così, benché avessi esaurito le forze, in questa assenza di energia, mi identificavo con Rutilio e cercavo di capirlo dentro, nell’atto di lasciare, una a una, le cose più care, volevo sentire, e che si sentisse, la ferita viva dell’istante in cui il dolore dell’addio lo aveva preso e, ora, prendeva me. Addio a tutti e da tutto. Volevo che facesse male. Volevo (e glielo stavo già facendo dire nei primi esametri) che dicesse addio a se stesso e subisse l’insistenza del tormento. Perciò, ho scritto, o creduto di scrivere, la morte di Rutilio. Questi versi dovevano essere un’ossessione e ripetere, come un urlo, il suo, il mio non piegarmi di fronte all’ingiustizia che fa dire addio per forza, proprio quando e perché uno non vuole. Quell’uomo solo, molto solo, ero io. Così, ho cominciato a vederlo nei quartieri di Roma, in mezzo a un’umanità impaurita e fiacca, Rutilio che cammina per strada, rientra a casa, prepara poche cose e lascia una comunione

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Lo studio del dolore, che nei Carmina collaticia si articola in prima persona, assume qui il taglio narrativo e descrittivo della terza, isolando, in ciò che si narra di Rutilio, ciò che si potrebbe analiticamente individuare in ogni creatura ferita. Il passo diviene quello dell’epos (il metro non è il distico rutiliano, bensì l’esametro), e Rutilio, che si rassegna al suo destino e, per quanto amaro gli appaia, lo accetta sulle proprie spalle, assume le sembianze di un privato eroe61. Da notare, collateralmente, che, sebbene Pisini abbia già in passato dedicato a singoli scrittori latini altri poemetti che avrebbero potuto essere ripresi in questa silloge62, qui Rutilio campeggia solitario, quasi l’autore abbia voluto evitare di diminuire la portata di simbolo e di autoidentificazione di cui investe la sua figura. Troppo lungo sarebbe riportare l’intero carme. Lo ripercorreremo velocemente. Il poemetto si divide in cinque sezioni, che una volta di più rivelano il gusto di Pisini per la costruzione armonica e simmetrica, in quanto la prima, la terza e la quinta constano di 50 esametri, la seconda e la quarta di 25. Sono cinque frammenti di diversa disperazione. Il primo (Soliimpossibile con le persone amate, per andare incontro a un’altra sorte. Poemetto della perdita, perdita assoluta, perché perdere Roma, significava perdere Dio. Anche ora che quelle crudeltà si sono attenuate, per una pulsione cromosomica inarrestabile, resto in viaggio con lui, cioè, con il suo essere, nel mio immaginario, sempre in partenza, testimone di luoghi che possediamo per poco e che, a un tratto, si ribaltano in metafore dello slittamento verso piani temporali lontani, sempre lontani da qui con, in più, il bisogno di essere io stesso un transito continuo, verso mete precarie, inventate volta per volta». 61 Vd. Scapecchi in Pisini 2008, p. 91: «Parole potenti, infine, che la lingua latina regala con orgoglio, quelle che raccolgono il senso di una missione, che è un destino, cui, nostro malgrado, siamo chiamati: “... quia nil valet esse, perire,/ at secum tolerare necem, dum vita superstes/ amittit sensus” [sono i vv. 25 ss. della sezione Iter, citati e tradotti più oltre nel testo]. È facile dimenticare a quali responsabilità, a volte, la vita chiama, doveri verso noi stessi e le nostre origini, ma, soprattutto, verso gli altri e, in altri casi, crisi di coscienza terribili, o il distacco, l’allontanamento che genera cicatrici insensibili. La fuga ci rende più forti, anche solo per un istante. La sottomissione ha un destino che riconosciamo inevitabile, ci rende eroi». 62 Vd. per esempio Vergilius, in «Certamen Capitolinum XXXXV», series altera VIII, Romae, Curante Instituto Romanis Studiis Provehendis, 1994, pp. 9-18; Lucretius, in «Accademia Latinitatis Fovendae – Commentarii», series altera VII-VIII, Romae, in aedibus «Herder», 1998, pp. 329-336; Catullus, in Certamen Francisco Moggio Dicatum, Scripta praemio cohonestata, supplemento al n. 2/2000 della rivista «Il Cristallo. Rassegna di varia umanità», Bolzano, Centro di Cultura dell’Alto Adige e Assessorato alla Cultura, 2000, pp. 13-15.

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tudo/ Il deserto) presenta Rutilio che vagabonda per Roma in preda a raffiche di sconcerto; si rispecchia qui subito nei primi versi (1-10, pp. 62 s.) la situazione personale che ha ispirato il poemetto63:

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Quidquid secum agitat, nervis male celat, amaris blanditiis captus, scrutatur aperta, silenter discedit: nil visa queunt dare protinus illi et nunc, pacis inops, alio se vertere temptat, umbram se esse putat, vivum non corpus habere, sed languentis onus, quod lassis cruribus haeret, dum solus maerensque simul, sine meta, in erema urbe vagatur, eum nullum solatur aroma pinorum, florum, gravis est, sese abdicat, odit quod mentem vacuam sensim seducat. Qualsiasi cosa pensa, non riesce a nasconderla, ma, vinto da seduzioni amare, scruta gli spazi aperti, da cui si allontana in silenzio: ciò che vede non può dargli nulla e ora, senza più pace, cerca di volgersi altrove, crede di essere un’ombra, di non avere un corpo vivo, ma il peso di uno che invecchia e avvolge le sue gambe [stanche, mentre, solo e triste, vaga senza meta nella città deserta, e non lo consola il profumo dei pini, o dei fiori, ma è serio, abdica a sé stesso, odia ciò che, poco a poco, potrebbe sedurre la sua mente vuota.

Lungo le vie, Rutilio si affaccia alle taverne, non vi scorge i compagni, gli amici: eos mors abstulit, mors ibi regnat («la morte li ha portati via tutti, qui regna solo la morte»). Poco a poco la sera si anima di passanti, di personaggi inquietanti, che non sanno restituire vita ai luoghi, ma se mai ne incrementano la dimensione lugubre. Vates, mox, temporis expers,/ tristitiam movet 63 Vd. sopra, a nota 60. Riporto qui sempre anche la traduzione di Chiara Savini. Appunto, di passaggio, che – indipendentemente dall’occasione reale che, come si è visto, sta dietro questi specifici versi – la ‘passeggiata di Rutilio’ per Roma è un elemento che ricorre anche in altre riscritture rutiliane: vd. per es. Cardona 1997, pp. 108 ss. («Oggi Rutilio ha voluto che lo accompagnassi nella sua ultima passeggiata nel cuore della città») e Acitelli 2005, pp. 202 ss. (di cui ampie citazioni più oltre, al § 6 d) .

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assiduam (33 s.: «Il poeta, che a un tratto si sente mancare il tempo, pensa continuamente la sua tristezza»). Il secondo movimento – il primo dei due più brevi intermezzi – s’intitola Domus (La casa): nel suo marasma interiore, Rutilio giunge alla propria abitazione. Il viaggio cui si accinge ha frattanto assunto il contorno di una fuga, che lo intimorisce64. Il senso di desolazione coinvolge anche gli spazi più intimi e cari, dove perdura – non si sa se più consolatorio o disperante – un alone delle passate gioie con gli amici; un passo, questo, in cui Pisini recupera, alla lontana, il cenno del De reditu suo all’illusione di avvertire dal lido gli applausi del circo e le note voci di persone a lui care (vv. 13-18, pp. 66 s.)65:

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Is, gratus amicis, credit enim sentire umeros, dare brachia collo comiter, amplexus fraternos stringere, visa haec cito praetereunt, non sunt, tantummodo captat voces, singultus, ita mortua corpora et ora corde recenset […] Lui, grato agli amici, crede di sentirne le figure, di gettare loro gioiosamente le [braccia al collo, di stringere abbracci fraterni, ma queste visioni si dissolvono rapidamente, perché non esistono, invece, sente [solo

64 Vd. a pp. 66 s. i vv. 4 s. di Domus: inde, fugam veritus, quaedam sibi cara pererrat/ mente repens memori («perciò, spaventato dalla fuga, ripensa, improvvisamente, a ricordi/ cari»); per il viaggio come fuga cfr. anche a pp. 74 s. i vv. 2 s. della sezione Iter: angor/ noctis adit profugum («l’angoscia/ lo assale perché sta fuggendo»), e le affermazioni di Pisini citate a nota 60 («la sua fuga inevitabile») e di Scapecchi cit. a nota 61 («La fuga ci rende più forti, anche solo per un istante»). 65 Vd. Rut. I 201 ss. (con Fo 1994, pp. 75-78; Fo 2002a, pp. 172-175; ora anche Privitera 2000b e Wolff 2007, pp. 64-66). Il passo è da Pisini ricordato anche in un breve cenno della successiva sezione Profectio (La partenza), pp. 68 s., vv. 18 ss. at, si mox audit stadii vaga murmura, rhythmos,/ vita iterum redit, erumpit, nam gaudia quanta/ e ludis cepit!, vult haec sospendere. Tum cor/ per breve tempus ei remorandi spem movet, imis/ urbem agitat lacrimis, urbem cupit ore tenere,/ tamquam munus, an est?: «ma, a un tratto, se ode le grida dello stadio, i suoi cori,/ la vita gli viene di nuovo incontro, erompe con forza (quante gioie, infatti,/ ebbe dai giochi!) e tutte queste cose le vorrebbe fermare in quell’istante./ Allora, per un attimo, il cuore suscita in lui la speranza di restare, pensa/ alla sua città con disperazione profonda, desidera tenerla con sé,/ come un dono e, forse, non è proprio questo?».

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voci e singhiozzi, mentre ripercorre con il cuore quei corpi, quei volti morti […]

Lo stesso alone di morte che aveva pervaso la città nel primo ‘stacco’, ora satura le stanze della casa: immediatamente, nel giro dello stesso verso 18 su cui abbiamo fermato la citazione, Rutilio preferisce non indugiare oltre e (v. 20) lentus proficiscitur («inizia a partire lentamente») in un nero notturno di novembre, carico di pioggia incombente. E del resto lo stesso Pisini ha rivelato di aver letto questa partenza di Rutilio, nel suo complesso, in chiave appunto di morte66.

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Ad portum sine luce viam, velut inscius, urget nec putat esse quod est, donis nam lucis amoenis nox caret et fidicen tenebris se credit, at intus se insidias pavitat dum, pulchris proditus annis, res memorat quas quondam habuit, cum viveret urbe aeterna, fortasse, velit misera omnia in umbris mergere iam mentis […] Quasi senza rendersene conto, si affretta al porto per una [strada buia, né crede a ciò che vede, la notte, infatti, è priva dei dolci doni della luce e il poeta si affida alle tenebre, anche se, [dentro di sé, teme di ingannarsi, tradito da anni che furono felici, anzi, ripensa le cose che ebbe un tempo, quando viveva nella [città eterna e forse, ora, vorrebbe immergere tutte le sue sofferenze nelle ombre della mente […]

Con questi versi si avvia la terza e centrale sezione Profectio (La partenza, pp. 68 s.), che conduce Rutilio verso il porto, nel cupo e pungente buio della notte che incrementa la simbologia – e l’espresso desiderio – di morte. Eppure, in questo sfaldarsi del suo universo, Rutilio trova un ultimo guizzo di calore, che tiene, nello sconsolato poemetto, il posto che nel De reditu suo ha il cosiddetto inno a Roma. Tutto è naturalmente, qui, più in sordina, in linea con il gusto per i paesaggi evocativi e Vd. la prosa citata a nota 60: «Perciò, ho scritto, o creduto di scrivere, la morte di Rutilio».

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mesti che, come abbiamo visto, caratterizza tutta la raccolta in cui il poemetto su Rutilio si inserisce (vv. 39-50): 40

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Tamen hic laetatur adesse, inter macerias, vultum sine tempore rerum quae numquam pereunt, sed in urbis corpore vibrant, ut scintilla poli, vel caerula nempe cicatrix saeclorum, quae viva manet nec cessat amare quod meminisse potest. Tiberis iam visitat undas pigra seges segnisque larorum turba, quietus motus aquae lambit calamorum stamina, ripas humectat, pontes superat, trahit obvia: flumen, trans lecti spatium, modo nuda repercutit arva et modo, per nebulas, anatum sinuamina, versus lentum sectatur, platanorum vescitur umbris. Tuttavia, si rallegra di essere ancora qui, volto senza tempo delle presenze che non muoiono mai, ma vibrano nel corpo della città, come una scintilla di dio, o meglio, la grigia cicatrice dei secoli, che rimane viva e non cessa di amare ciò che può ricordare. Già torna sulle onde del Tevere, pigra messe, la lenta schiera dei gabbiani, il calmo movimento dell’acqua lambisce gli stami delle canne, bagna le sponde, supera i ponti, trascina ciò che incontra: il fiume, oltre lo spazio del suo letto, ora percuote i campi nudi ora, tra le nebbie, le sinuosità e il verso delle anatre, mentre si mangia le ombre dei platani.

Il ‘secondo intermezzo’ s’intitola al Maeror (La tristezza). Rutilio è alla nave, durante le ultime ore della notte, preso fra la nostalgia per ciò che lascia e la contemplazione della condizione che lo attende: quia, in annos nempe futuros,/ nil, nisi maeror erit et fallax exsulis aevum (pp. 72 s., vv. 24 s.: «perché, negli anni a venire,/ per lui non ci sarà più niente, se non la tristezza e il tempo ingannevole dell’esule»). Infine: Iter (Il viaggio). In quelle ultime ombre della notte di novembre, Rutilio salpa. Il suo compito ora sarà, per così dire, gestire stoicamente la morte nella vita (pp. 74 ss., vv. 19-29): 20

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Nox ita fit spatium quod pulsus cordis adumbrat, aut praedatur eos, post sidera plurima, et illum, quem modo mordet edax, modo flabris vulnerat udis,

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nutrit prodigiis, ut vis extrema stuporis, adversis potior, sit simplex forma diei, atque suas putet ipse vices mala dona cometae, non vitae pretium, quia nil valet esse, perire, at secum tolerare necem, dum vita superstes amittit sensus: ita, ob haec, se deflet in imis mentis nunc latebris, ubi, chorda immota, resistit ictibus en fati, se tantum culpat.

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Così, la notte si fa spazio che offre riparo ai battiti del cuore, o, dopo aver visto tante stelle, li fa suoi e l’uomo che, ora, morde vorace, ora ferisce con l’umidità [dell’aria, nutre anche di prodigi, perché la forza estrema dello stupore, più grande delle avversità, sia la forma semplice del giorno, e lui creda il suo destino il dono funesto di una cometa, non il prezzo da pagare alla vita, poiché a niente vale vivere, [morire, conta, invece, sopportare la morte con quello che si è, finché [la vita che rimane non ha più senso: perciò, si chiude in pianto nei luoghi più [profondi della mente ora che, corda immobile, resiste ai colpi del fato e incolpa solo sé stesso.

Il suo animo disperato cerca consolazione nel paesaggio: quel paesaggio marino trapunto di gabbiani che è una costante anche degli altri carmi di Mauro Pisini. E la sua nave si allontana come dissolvendo verso un’immensa vastità di spazi che richiama l’ultimo viaggio dell’anima di Virgilio nel capolavoro di Hermann Broch, a naufragare e disperdersi, r i t o r n a n d o nella natura67.

Alludo all’ultima parte di Der Tod des Vergil (1958: trad. it. La morte di Virgilio, Milano, Feltrinelli 1962, più volte ristampata), intitolata Etere - Il ritorno. Questi gli ultimi versi del poemetto di Pisini, al sorgere dell’aurora sull’Iter (pp. 76 s., vv. 4750): Sic gravis umbra fugit quo totus cessat horizon/ in caelum vere immensum, se perdit, at esse/ cogitur id vates quod nuda in carne recondit/ et, fractus, patitur: mare tantum sibilat, errat …; «Così il peso dell’ombra fugge dove l’intero orizzonte entra / in un cielo veramente immenso, e lì, si dà la fine, mentre lui, il poeta, / è costretto ad essere ciò che nasconde nella nuda carne / e, sfinito, subisce: solo il mare sibila, si perde…».

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6. Rutilio nella narrativa Rutilio ha conosciuto una sua certa piccola fortuna anche nella recente narrativa italiana. Incontriamo in questo settore il primissimo esito della seduzione esercitata dalla sua storia sul giovane studente universitario Claudio Bondì, vale a dire un suo racconto del 1980; e, in seconda battuta, il racconto lungo di Maria Clelia Cardona che, nel 1997, dà nome alla raccolta di prove narrative L’altra metà del dèmone. Più di recente, la vicenda di Rutilio si legge in trasparenza nel romanzo di Maurizio Bettini Le coccinelle di Redùn; e assume una certa rilevanza nel romanzo di Paola Mastrocola Una barca nel bosco. Infine sono dedicati a Rutilio un racconto di Fernando Acitelli e un romanzo, ancora in fieri, di Folco Giusti. E siccome «giova dividere un libro a capitoli, perché “intervalla viae fessis praestare videtur – qui notat inscriptus milia crebra lapis” (Rutilius Namatianus)»68, tratterò la ricca materia in adeguata ripartizione. a) Il racconto di Bondì-Ricci (1980) Più di vent’anni prima di poter trasformare in pellicola la propria ‘impressione di Rutilio’, Claudio Bondì aveva già carezzato, insieme a Alessandro Ricci, l’idea di trarre dal De reditu un racconto ‘visivo’. Un capitolo rutiliano si trova così inserito nel volume di Bondì e Ricci La storia a misura d’uomo. Vita quotidiana nell’Italia antica, pubblicato dalla Eri di Torino nel 1980, con introduzione di Giulio Cattaneo. Non appena avemmo la ventura di conoscerci, Bondì mi inviò gentilmente una delle ultime copie in suo possesso di quell’ormai ‘antico’ volume, accompagnandola con queste parole che ne spiegano la genesi e già introducono qualche diffeÈ una delle Note azzurre di Carlo Dossi (1964, p. 47: numero 910), e cita il proemio del II libro (vv. 7-8). Purtroppo, delle note di lettura di Dossi, questa è l’unica rutiliana che sia stata pubblicata da Isella nella sua edizione; le altre, in quanto «pure trascrizioni» dal De reditu (Dossi 1964, p. xxiv) non sono state riportate; si apprende dal Registro delle note omesse (p. 1074) che si trovano nel manoscritto ai numeri 905-909, ma chi desiderasse conoscere quali altri passi rutiliani abbiano tanto colpito Dossi da indurlo alla trascrizione dovrà fare ricorso direttamente all’«archivio privato dello scrittore, presso i suoi eredi (Dosso Cardina, Como, cartelle I e I bis)» (p. xxiv).

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renza fra quel primo progetto e l’attuale film (cito da una sua lettera del 29 gennaio 2003): […] Come ho detto per telefono covavo da molti anni l’idea di fare un film su Rutilio Namaziano. Vedrai, nel libretto che allego, che una prima stesura risale ad una puntata televisiva di una serie, “Vita quotidiana di…”, che ho diretto per Rai uno. Il viaggio di Rutilio non fu poi prodotto (mentre gli altri racconti sì) poiché sforava il budget che la Rai aveva messo a disposizione. Ma l’idea piacque e così la storia trovò posto tra le altre. Il film che ho appena finito, “De reditu-Il ritorno”, ha raccolto alcune riflessioni di quella primissima ipotesi scritta con Alessandro Ricci mentre molte altre se ne sono aggiunte più recentemente. Un film, inutile dirlo, non è un libro, tantomeno un saggio. Quindi il personaggio interpretato da Elia Schilton soltanto a tratti è l’ombra di quel nostro antichissimo poeta. Spero tuttavia di essere riuscito a far passare un mondo antico credibile, la storia di un uomo che si interroga, sconfitto, ma non vinto, da eventi che non riesce a comprendere. […]

Le quattro puntate ‘narrate’ nel libro sono dunque nell’ordine: Publio Ostorio, gladiatore a Pompei (pp. 17-51); Claudio Rutilio Namaziano poeta, un viaggio per mare nel 415 dopo Cristo (pp. 5381); Aimone di Challant, feudatario del castello di Fénis (pp. 83-117); Veronica Franco «honorata cortigiana» a Venezia (pp. 119-151). Quanto al vero e proprio racconto rutiliano, che rappresenta un’idea di film poi non giunta a realizzazione, rispetto alla sceneggiatura dell’attuale De reditu-Il ritorno esibisce un’impostazione piuttosto differente. In questa prima occasione, Bondì e Ricci tendono a mantenersi piuttosto fedeli al tracciato del diario di Rutilio; la collocazione cronologica segue la tesi di Italo Lana, secondo il quale il viaggio avrebbe avuto luogo nel 415 (con partenza il 18 novembre). Ecco una breve sintesi di come si articola: Le fasi iniziali dell’ipotesi di sceneggiatura propongono un viaggio in carrozza fino alle porte di Ostia (p. 56), l’ingresso in un thermopolium; una conversazione con Rufio Volusiano e Palladio su temi d’attualità (i barbari, il viaggio di Rutilio: pp. 55-58), il sopraggiungere del capo della ciurma di marinai (p. 58). Questi prospetta, come nel poema, un’attesa di almeno quindici giorni, che viene infatti rispettata. «Verosimilmente quei giorni li passò visitando i dintorni» (p. 60).

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Uno stacco tipografico segna il passaggio al momento della partenza. Palladio, il fedele, affezionato nipote di Rutilio, gli tiene compagnia fino al momento del prendere il mare. Già nel thermopolium era emersa questa sua natura. Per lui s’inventa un sogno beneaugurante nei riguardi dello zio: una gara di quadrighe nel circo, durante la quale aurighi Geti dominavano la corsa, ma all’ultimo un auriga Gallo, racconta Palladio, «li rimontò tutti e li superò ad uno ad uno, vincendo la palma» (p. 58). Nel racconto, il mattino della partenza intreccia filamenti desunti dall’Octavius di Minucio Felice (in particolare la celeberrima scena dei ragazzini che fanno saltare i sassi sull’acqua) e momenti del De reditu suo: notizie su Palladio e suo padre, cenni a ciò che Rutilio chiama ordo renascendi: la capacità, da parte di Roma, di risorgere dalle proprie sconfitte più forte di prima. Gli esempi addotti da Rutilio sono in parte quelli del De reditu suo: Brenno e Annibale, forse preziose tessere di una conversazione – fattuale o letteraria – fra Rutilio e Rufio Volusiano alle soglie di quel lontano addio69. E soprattutto la rêverie su Roma vista o immaginata da Portus, con i suoi colli, la luce del cielo, gli applausi teatrali e le voci di amici… 18 novembre del 415 – Partenza. Interessante nel racconto (pp. 61 s.) uno spunto che permarrà nel film: «Possiamo immaginare che l’equipaggio della cimba fosse un po’ la sintesi di quel momento storico. Forse alcuni uomini non erano neppure dei marinai di professione, ma gente costretta dalle circostanze a quel lavoro, per vivere in qualche modo. Perciò sul piccolo legno dovevano coabitare uomini di nazionalità, religione, lingua, origine sociale diverse. Così venivano a trovarsi fianco a fianco un pagano e un cristiano, un vandalo e un egizio, un fedele di Serapide e un ebreo, un povero dalla nascita, un ricco decaduto, uno schiavo». Rutilio officia un breve rito di passaggio: «guardò per un momento dalla parte del sole, dalla parte di Roma; versò la sua piccola ampolla di vetro nell’acqua, vide il liquido colorato mischiarsi all’onda che si ritraeva, disse mentalmente poche parole di augurio, poi gettò a terra la boccetta, rompendola. Infine si avviò a passo lento verso la banchina». Del primo giorno di viaggio si richiama la conclusiva visita alle Terme del Toro. Vi spira un senso di decadenza (p. 63): «I bagni, costruiti da Traiano, probabilmente si presentarono ai loro occhi con i segni della rovina. Le mura cadenti, alcune piscine

69 Ho spiegato il perché di questa mia impressione in Fo 2002a, pp. 184 s. (cfr. più oltre, nota 125).

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interrate, e le fontane dell’acqua calda che non funzionavano tutte». Siamo in linea con la nota visione di Rutilio poeta delle rovine. 19 novembre – Rutilio e i suoi giungono a Porto Ercole e vanno a dormire nei pressi delle rovine di un accampamento: «dobbiamo pensare che si trattasse proprio di una delle guarnigioni ai confini del Lazio sopraffatta e devastata dalla marea barbarica». Raggiungono a questo scopo l’umile casa di un pescatore, già nota in precedenza al pilota. Fuoco notturno. Rutilio estrae una capsa e con un calamo e un vasetto d’inchiostro prende appunti su un foglio di papiro: il Mignone, Gravisca, Cosa devastata dai topi. Poi si svolge la cena. Rutilio, conversando con il pescatore, riflette sul fascino delle cose prossime alla corruzione (p. 65). 20 novembre – Si passa l’Argentario, cenni all’isola del Giglio; attendamento di fortuna alla foce d’Ombrone; ma l’episodio non desta particolare interesse negli autori (p. 66). 21 novembre – Il quarto giorno porta a Falesia (nel racconto «Faleria»; «Falesia» invece nel film), con il racconto della festa di Osiride; alla fine della cerimonia Rutilio e i suoi vengono avvicinati dal conductor giudeo e viene quindi riportata parte della traduzione del passo rutiliano che aggredisce la gente giudaica. 22 novembre – La tappa di Populonia non ispira gli autori, che la liquidano in due righe (p. 69), per passare al 23 novembre – Superate Corsica e Capraia, i naviganti riparano nel porto di Vada per l’insorgere di una tempesta. Poco distante da lì è la villa di Cecina Decio Acinazio Albino: Rutilio vi incontra anche Vittorino di Tolosa. Viene sacrificata la visita alle saline. Si parla invece della prefettura conseguita da Rufio: notizia che Rutilio rivela di aver appreso a Populonia. Poi Vittorino parla dei briganti e del fuoco che accendono tutti i giorni alla stessa ora, l’ora sesta. 24 novembre – Gli autori immaginano che, diretta al Porto Pisano, la cymba abbia fatto scalo alla Gorgona «per rifornirsi d’acqua». È chiaro l’intento di condurre all’incontro con il giovane aristocratico che vi si è fatto monaco (pp. 71-74). Terminato il quale, Rutilio torna alla cymba e raggiunge Villa Triturrita nei pressi del porto Pisano. Va a visitare Protadio «ma nulla ha lasciato scritto su quell’incontro» (p. 74) e, nel foro di Pisa, la statua del padre Lacanio (in quest’ordine). 25 novembre – Non si può ripartire per il maltempo. C’è allora la caccia di Triturrita. La sera, dopo cena, ha luogo una conversazione con il pilota, una sorta di doppione di quanto avvenuto a Porto Ercole: riguarda l’uso dell’intelligenza per venire a ca-

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po di situazioni critiche. Ma questa volta il contadino che li ha aiutati per la battuta di caccia non è inerte come il pescatore di Porto Ercole. Si rivolge invece all’«eccellentissimo» e gli dice di volergli mostrare qualcosa. È a questo punto che, nel racconto, entra in scena la figura – del tutto immaginaria, rispetto al testo rutiliano – di un cavaliere pazzo, ovvero un uomo armato a cavallo che aspetta il nemico. «Aspetta i barbari. Per sterminarli, dice lui. Crede di avere un esercito di legionari ai suoi ordini. È pazzo. Ha cominciato a diventarlo tanti anni fa, dopo la battaglia di Adrianopoli. Ma quello che lo ha ridotto così è stato il passaggio dei Geti. Qui nessuno ci fa più caso. Io stesso, che sono stato centurione sotto di lui, all’alba di tutti i giorni gli dico che il volo degli uccelli è propizio per la battaglia. Poi lo aiuto a indossare le armi e lo porto lassù» (p. 78). Primi di dicembre – Rutilio e i suoi ripartono, e arrivano al porto di Luna. Sotto gli occhi di Rutilio, rimasto a prendere appunti poetici sulla sua cymba, si consuma un delitto: due uomini ne inseguono un terzo, lo raggiungono, lo abbattono (muore a volto in giù nell’acqua), prendono ciò che volevano, fuggono. Rutilio continua a scrivere: sono gli ultimi versi conservati dalla tradizione anteriormente alla scoperta dei frammenti (p. 80).

Abbiamo a che fare con una strana elaborazione che si colloca a mezzo fra il racconto autonomo e la serie di dialoghi e appunti in vista di qualcos’altro – evidentemente la trascrizione filmica –, non senza espresse citazioni, tradotte, in corpo minore, direttamente dal testo di Rutilio, e addirittura note a pié di pagina. Volendo brevemente caratterizzare questo primo embrione del futuro film De reditu-Il ritorno, metterei innanzitutto in evidenza come debbano aver fatto immediatamente presa su Bondì, al tempo del suo interessamento per Rutilio, alcune circostanze di taglio per così dire ‘romantico’ che spesso colpiscono i lettori del De reditu suo: l’atmosfera di decadenza, che coinvolge le cose come le strutture amministrative e le impalcature religiose e ideologiche, la poesia delle rovine, della disgregazione, tanto concreta quanto metaforica. È un approccio a Rutilio per il quale – onde evitare confusioni con altre etichette già in auge nella storia della letteratura – mi permetterei di coniare il termine di «decadimentismo». Basti pensare, fra le tante occorrenze, alla conversazione fra Rutilio

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e il pescatore di Porto Ercole sul fascino delle cose che si stanno per disgregare (p. 65)70. Un secondo tratto interessante per chi studi globalmente queste risultanze è il fatto che, in regime di fedelà al poemetto rutiliano, manchi pressoché interamente, in questo primo progetto, l’elemento femminile. Incontriamo appena qualche ‘comparsa’ durante la festa di Osiride, e la moglie del pescatore a Porto Ercole (occasione per qualche pesante volgarità da parte dei marinai). Avremo occasione di tornare sul punto. In terzo luogo va sottolineato il senso d’isolamento e di emarginazione, sul piano sia personale sia politico. Chiudendo la visita alle Terme del Toro, il racconto aggiunge un tratto che difficilmente sarebbe potuto entrare in una realizzazione cinematografica, e cioè la congettura (p. 63) «forse quella sera furono i soli bagnanti». Questa presunzione di solitudine, di sperdutezza di Rutilio e i suoi contro l’inverno incipiente, si risolve quasi in un tratto di compartecipazione degli autori alla storia del Rutilio reale, in un guardare le cose con il suo stesso occhio che (su un piano poetico) valorizza le assenze, con il suo gusto per disseminare silenzio attorno ai pochi tratti che contano. Possiamo anticiparlo: nel film questa solitudine sarà da un lato parzialmente attenuata dall’emergere di una figura nuova di amico, Minervio; dall’altro ingrandita in una prospettiva politica che farà di Rutilio uno degli ‘ultimi’ sensibili e operativi rappresentanti di una casta ideologicamente e politicamente egemone71. E ancora: siamo sul piano dell’immaginazione, naturalmente, ma è già per esempio interessante notare, al momento di scrivere dell’equipaggio, l’ipotizzata presenza del ricco decaduto, personaggio che Bondì-Ricci 2003 elaborerà variamente (la sua vicenda è ancora viva nel film, ma così ridotta da non essere quasi còlta da chi non abbia seguito l’evoluzione della sceneggiatura attraverso le sue varie fasi). È questa una tipologia umana che nel poemetto di Rutilio compare in piena evidenza – sebbene con differenti coordinate (i distici rutiliani difendono l’onore di Vittorino e Protadio dalla plausibile eventualità che il loro depauperamento, conseguito alle invasioni, possa intaccare la loro reputazione). A proposito di immigrati profondamente danneggiati dalle invasioni, è interessante come Bondì e Ricci trascurino qui (p. 74) quel personaggio di Protadio che tanto rilievo prenderà poi nel film. 71 Indipendentemente da Bondì e Ricci, ravvisa nel crisma di solitudine uno dei tratti essenziali non solo del poema di Rutilio, ma della tarda antichità in generale, il regista teatrale che nel 1993 metterà in scena il De reditu suo, Francesco Tarsi: vd. più oltre (dal programma di sala della II edizione, 1995: «È strano davvero come questo periodo del tardo impero ci tramandi una testimonianza quasi eroica 70

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Significativo un particolare. In una battuta appena abbozzata, tesa a profilare forse una certa sprovveduta ingenuità più che un calcolato e ambizioso progetto, Rutilio si rivolge ad Albino con le parole «Vogliamo organizzare un colpo di stato?» (p. 70). Ma il Rutilio di questo racconto non ha alcuna visione politica al di fuori di un generico conservatorismo nostalgico. Addirittura – cosa che ‘alla luce del poi’ suonerà addirittura clamorosa – viene rimproverato dagli autori per non averla. Le righe finali sono infatti un commento di taglio critico e quasi moralistico nei riguardi di Rutilio stesso (p. 81, corsivi miei): Per tutta la vita, ma specialmente negli ultimi anni e in questo suo viaggio, Rutilio, che era solo marginalmente un poeta e un intellettuale, ma in fondo un alto funzionario del potere, si era visto intorno i tragici segni della fine irreparabile del suo mondo. Incapace di trovare una soluzione politica, o più semplicemente privata, si rifugia nel facile, forse inevitabile ripiego di prendersela con i veri o presunti avversari: i Goti, i cristiani, gli ebrei, i rivali politici, i ministri e i generali barbari al servizio dell’imperatore. Tutti in qualche modo colpevoli. […] Chiude gli occhi nel sogno di una cultura perduta e sommersa e si culla con le lodi della dea Roma, che splende sulla città devastata, auspicio di una sicura restaurazione dell’antica potenza imperiale. Ma poi fugge, come gli altri, abbandonando ogni impegno politico, né più né meno dei tanti suoi amici. In più col cuore pieno di rancore nei confronti di tutti. E fugge verso il suo «privato», verso la sua terra d’origine dove intende certamente passare il resto della vita, chiuso in una delle sue ville.

b) Il racconto di Maria Clelia Cardona (1997) Nel 1997 la scrittice romana Maria Clelia Cardona pubblica presso Marsilio un libro contenente tre racconti di argomento storico e collocazione cronologica in età imperiale, l’ultimo dei quali, eponimo dell’intera raccolta, riguarda Rutilio Namaziano e s’intitola L’altra metà del dèmone72. della solitudine: sì la solitudine del mondo pagano ormai abbandonato e vuoto; ma anche quella dei personaggi emergenti del mondo cristiano, i quali alla ricerca del nuovo frequentavano i territori più remoti»). 72 Sul risguardo di questa raccolta di racconti, edita da Marsilio nel 1997, si legge: «Maria Clelia Cardona vive e lavora a Roma. È presente in numerose riviste e antologie con racconti, poesie, saggi di estetica e di critica letteraria. Ha pubblicato due romanzi, Il viso in ombra (1985) e La ricerca del Graal (1991) e un libro di

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Si tratta di un racconto lungo (65 pagine) che ‘rivive’ in modo romanzato l’avventura del viaggio di Rutilio. La voce narrante è quella di una sua schiavetta nata in casa – però di «antenati greci» (p. 96) – di nome Fusca, che Rutilio ha cresciuto nell’esercizio delle lettere e quasi come propria ‘segretaria’. Quando Fusca ha raggiunto i quattordici anni, Rutilio le ha proposto un’alternativa: lavorare al suo fianco (misteriosamente imponendole però una sorta di voto di castità), oppure sposare un colono e condurre una vita ‘normale’. Lei ha scelto la prima opzione.73 poesie, Il vino del congedo (1994). È anche autrice di un’antologia di poesia, Antico mare perduto (1991), di una Storia della villeggiatura (1994) e di una traduzione dei Carmina Burana (1995). È condirettrice della rivista letteraria “malavoglia”». In seguito ha pubblicato, sempre presso Marsilio, un’altra opera di narrativa, Il cappello nero (2000), e, per Empirìa, la raccolta di poesie Da un millennio all’altro (2004). Guardando a L’altra metà del dèmone più in dettaglio: il primo racconto, Il fumo e la polvere (pp. 7-91), riguarda Frontone e soprattutto Lucio Vero e Marco Aurelio (una parte di rilievo vi svolge anche Luciano); il titolo si richiama all’opera frontoniana (Laudes fumi et pulveris), ma attraverso una lettera di Vero a Marco (pp. 46 s.). Il secondo s’intitola Le libellule azzurre ed è di fantasia; ha per protagonista un certo Massiliano e si svolge ai primi tempi del cristianesimo (pp. 70-91). Il terzo ed eponimo racconto L’altra metà del dèmone, riguardante Rutilio Namaziano, è alle pp. 93-160: il titolo deriva dal fatto che Rutilio e Marcia sono ‘accomunati’ da un amuleto: ecco cosa succede al momento in cui prendono congedo l’uno dall’altro (p. 116): «si sono entrambi sfilati dal collo l’amuleto che portano fin dagli inizi della loro unione e se lo sono scambiato. Il movimento è stato veloce, ma io ho potuto finalmente vedere quei ciondoli segreti: due metà di uno stesso volto di dèmone, intagliato in una pietra trasparente di colore rosso cupo». Quando durante il viaggio Fusca (al risveglio in Porto Ercole) vede che Rutilio ha ricevuto (dal Fenicio, a Terme del Toro) l’altra metà del dèmone, capisce che Marcia è stata uccisa. La notizia raggiunge ufficialmente i viaggiatori a Populonia (p. 139): «domina Marcia è stata uccisa e la villa sull’Esquilino data alle fiamme. Qualcuno l’ha strangolata e poi ha appiccato il fuoco». 73 Ogni tanto Rutilio amoreggia con lei «lasciando però intatta la mia verginità» (p. 97). Fra le cose meno accettabili rientra tutta l’amministrazione dei racconti di sfera erotico-sessuale: sia la narrazione di Fusca circa la propria esperienza amorosa con il ‘barbaro’ che in qualche modo le fa forza, sia le basse e ignobili insistenze sugli abusi cui sarebbe stato incline il povero protagonista. Duole trovarsi costretti a registrare connivenze con quel pansessualismo di paccottiglia che ha afflitto e affligge tuttora spesso le patrie lettere, da che una nuova emancipata stagione le avrebbe ‘liberate’, e si esprime qui in travisamenti e forzature – come il caso clamoroso di radix stultitiae a p. 138 – e in tutto un controcanto di piccola e meschina sensualità (es.: pp. 129, 138, 143). Non tutto è permesso, ai narratori di finzione, anche ai più modernamente disinibiti. Tanto più quando si convocano sulla scena personaggi realmente vissuti, e che tanto fecero – nella propria autonoma testimonianza letteraria – per mantenersi avvolti di riserbo e di decoro. Il rispetto per i propri personaggi dovrebbe rientrare nel decalogo deontologico dello scrittore – come insegnano anche, naturalmente per moto contrario, gli

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Al momento del viaggio Fusca ha vent’anni. Nutre aspirazioni letterarie in proprio, vanta capacità di scrittura poetica, ha raccolto i propri versi in una silloge segreta intitolata Avernalia (in linea con il suo essere «fosca»). Addirittura scrive meglio di Rutilio, il quale anzi le affida la limatura degli appunti che prende per il De reditu suo. Rutilio infatti non sa comporre un gran che bene, i suoi versi zoppicano, e per farli stare in piedi ha bisogno di Fusca (coadiuvata più tardi dallo schiavetto Fulgenzio)74. Da notare nella scelta onomastica relativa alla schiavetta una sorta di contrapposizione con il rutilante splendore di Rutilio, che però per quasi tutto il racconto è presentato come una figura ambigua e prevalentemente torbida, sebbene alla fine conosca un riscatto75. Rutilio invece ha quarantacinque anni e (p. 99) «un bel viso asciutto inciso da rughe verticali lungo le guance. Ha barba e capelli folti e rossi che testimoniano la sua origine gallica». Inoltre (p. 102): Rutilio si presenta agli altri come un uomo faceto, signorile, elegante. Ma io so che i suoi occhi ormai scivolano sulle cose senza fermarvisi, so che ha già detto addio a tutto e a tutti. Gli occhi di Rutilio sono nerissimi, non si distingue l’iride dalla pupilla, e fanno contrasto con il pelo rosso, e con il viso lentigginoso e scavato da maschera adusta intagliata nel legno.

Un suo profilo ‘interiore’ viene tracciato nel corso della sua ultima passeggiata per Roma prima della partenza (p. 111): Poi ha continuato la passeggiata con la sua andatura elegante – è un uomo alto e magro, i capelli rossi un po’ ingrigiti gli ondeggiano intorno al viso scavato. Ma ho avvertito in lui una cupezza infausta, amara, come un rancore covato. Sono abituata ai suoi mutamenti di umore: egli è visitato da molti e diversi dèmoni: pratica il bene e il male, alterna la gentilezza alla furia rabbiosa, le facezie alle ingiurie, il distacco signorile a un’ossessività insistente e mor-

inaccettabili Virgilio e Mecenate del romanzo di Sebastiano Vassalli Un infinito numero (Torino 1999; cfr. Fo 2002b, pp. 229 ss.). 74 Vd. per es. p. 112: «sento che i versi che Rutilio mi detta, e dei quali io correggo la metrica zoppicante, sono falsi. Vero è il suo odio, che non riesco a decifrare». 75 Il contrasto è ancora più netto con il nome – Fulgenzio – dell’altro schiavetto che li accompagna; discutibili giochi di parole in merito a pp. 132 e 133.

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bosa. Siamo tutti così quando ci abbandonano gli dèi e insieme a essi anche gli insegnamenti dei saggi e dei filosofi antichi.

La Cardona sembrerebbe voler muovere da un ‘ritratto paradossale’ – per sfruttare la nota formula di Antonio La Penna –, tramato di luci e ombre con prevalenza di queste ultime, per poi snudare sotto finale, in un colpo di scena, una statura alta e nobile, e tuttavia soffocarne l’alone con il sancirne (abbastanza apoditticamente) il fallimento. Ma ecco come si volgono i fatti nella riscrittura della Cardona: L’azione inizia (p. 98) il giorno stesso in cui Rutilio prende la decisione di partire. Le ragioni sono ‘ufficialmente’ le stesse del poema autentico: tornare in Gallia a restaurarvi i poderi saccheggiati dai barbari. La moglie di Rutilio, una giovane e seducente africana di fede cristiana il cui nome è Marcia, non si unirà al viaggio; peraltro, ha una relazione adulterina con Palladio, il giovane nipote di Rutilio. Abbiamo a che fare con una sorta di doppio De reditu suo: da un lato la schiavetta Fusca annota ciò che avviene (ed è in sostanza quanto abbiamo sotto gli occhi e stiamo leggendo), dall’altro isola alcuni momenti e li mette in versi per conto di Rutilio, cosa che andrà a costituire il De reditu suo ‘che ci è pervenuto’. In altre parole avremmo sotto gli occhi una narrazione che si propone essa stessa come un De reditu suo parallelo e alternativo. Rutilio saluta gli amici aristocratici in un banchetto d’addio nella sua villa sull’Esquilino, durante il quale recita l’inno a Roma. Si fanno preparativi per la partenza. Prendendo congedo, Rutilio e Marcia si scambiano come pegno due amuleti complementari, raffiguranti le due metà di un dèmone. Un uomo di fiducia di nome Filita provvede a caricare i bagagli sulla flottiglia. Rutilio e Fusca fanno un’ultima passeggiata per Roma, durante la quale Rutilio ha un abboccamento con un misterioso fenicio (p. 110). Prende congedo dalla madre Galla Rufa. Poi il giorno dopo si parte, accompagnati dagli amici alla porta di Roma. Rutilio bacia le soglie della città eterna. Raggiunge il litorale e si ferma per una settimana nella villa di un amico, tale Valerio Vulpio. Lì hanno luogo ancora incontri e ultime conversazioni con gli amici più cari: il nipote Palladio, Rufio Volusiano. Fusca intanto si aggira nei dintorni; scopre un villaggio di barbari; ci ritorna due giorni dopo, ma nella boscaglia del litorale si fa male a una caviglia. Interviene in soccorso un giovane con cui ha in seguito un incontro erotico. Infine si salpa; con Rutilio e Fusca viaggia anche un nuovo giovane e vivace schiavetto di nome Fulgenzio.

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I tappa – Prime località viste dal mare, sosta a Centocelle, visita alle Terme del Toro, dove Rutilio è raggiunto dal Fenicio. II tappa – Si giunge a Porto Ercole. La mattina successiva Fusca scopre che Rutilio è in possesso di entrambe le metà dell’amuleto che aveva condiviso, a titolo di pegno, con Marcia. III tappa – Navigazione attorno all’Argentario fino alla sosta a Foce d’Ombrone. IV tappa – I naviganti passano davanti all’Elba e arrivano a Falesia: lite con l’albergatore giudeo. V tappa – A Populonia; accanto alla felice notizia relativa al conseguimento della prefettura urbana da parte di Rufio Volusiano, ne arrivano altre terribili: Marcia è stata uccisa nel corso di un’aggressione alla casa di Rutilio sull’Esquilino, a quanto pare a scopo di saccheggio, degenerata poi in un devastante incendio. VI tappa – Sotto la minaccia di un temporale, e passando con cautela attraverso le secche, i viaggiatori approdano a Vada e sono ospitati nella villa di Albino. Il giorno dopo perdura il maltempo: visita alle saline; arrivo di Vittorino. VII tappa – Si salpa; sosta alla Gorgona; fra i monaci c’è a sorpresa Palladio. A coloro che indagavano sull’aggressione alla casa di Rutilio, Palladio ha confessato che, appena partito lo zio, in seguito a una lite fra amanti, ha ucciso Marcia e ha dato fuoco alla casa. Come reo confesso, ha chiesto di espiare ritirandosi a vita religiosa nella comunità monastica sulla Gorgona. Si riprende la navigazione, dirigendo verso il Porto Pisano. Qui un tribuno di nome Nupiano porta Rutilio e i suoi a Villa Triturrita. Misteriosi conciliaboli. In uno spettacolo di pantomimo ispirato agli Uccelli di Aristofane, Fulgenzio fa il verso ai conciliaboli stessi. Il giorno dopo Rutilio raggiunge Pisa, dove incontra Protadio e altri amici. Subentra il maltempo. Rutilio e Nupiano vanno a caccia vicino a Triturrita. Una sera giungono Protadio e il fenicio. Conversando con loro, Rutilio se la prende con i danni procurati a Roma dalla politica dell’ormai defunto da anni Stilicone. VIII tappa – I viaggiatori giungono a Luna. Improvvisamente Rutilio congeda tutti. «Dopo lo sbarco a Luna Rutilio è scomparso, né si sono avute più notizie di lui. Qualcuno dice di averlo visto in un giorno di burrasca avviarsi da solo su una barca verso l’alto mare fra le scogliere aguzze e assassine di quei luoghi» (p. 156). Conclusione e rivelazioni. Fusca e Fulgenzio si ritirano a vivere presso Vittorino, cui lei ha «consegnato le carte di Rutilio e il poema incompiuto». Più avanti nel tempo, Vittorino le spiega cosa sia in realtà accaduto (pp. 156 s.):

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«Pensi sempre a Rutilio?» mi ha chiesto. «Non devi addolorarti troppo per lui: Rutilio ha inseguito un suo sogno, nobile e vano: essere un nuovo Enea, far rinascere in Gallia l’antico Stato di Roma. Non c’era altro epilogo possibile per lui: non si era lasciato vie d’uscita, aveva venduto tutti i suoi beni, quel sogno era divenuto il suo stesso destino, il suo dèmone, il suo mito. Non era solo, però: il suo non è stato il vagheggiamento solitario di un esaltato lettore di Virgilio. Dopo la sconfitta e la morte dell’usurpatore Giovino, che gran parte dei patrizi in Gallia avevano appoggiato vedendo in lui un restauratore dell’antico ordine di cose, molti non si sono rassegnati e hanno pensato a qualcun altro. Rutilio sembrava l’uomo adatto per il suo ingegno, le sue virtù politiche, il rifiuto di qualunque compromesso con i barbari e l’attaccamento ai vecchi dèi. Si faceva conto anche sulle milizie di Esuperanzio, il padre di Palladio che, una volta domati i contadini ribelli in Alvernia, avrebbe potuto rivolgere le sue forze contro i Goti. Molti progetti, ma niente di veramente concluso. E a questo punto Marcia viene a sapere. Si accorge delle riunioni nella villa sull’Esquilino, ascolta di nascosto ciò che si dice. Ne parla con Palladio. Forse gli propone di denunciare Rutilio, o di convincerlo a desistere. Oppure semplicemente si mostra con lui al corrente delle intenzioni dei congiurati e dei loro nomi. Ma Palladio preferisce stare dalla parte dello zio, di cui è anche erede, e gli racconta tutto. Lasciare Marcia a Roma appare subito troppo rischioso. Marcia è cristiana e racconta i suoi più intimi segreti alla comunità dei fedeli perché così prescrive quella religione. Quando lei decide di non partire la sua uccisione è stabilita di comune accordo. Ne era al corrente anche la vecchia domina Galla, che avrebbe dovuto proteggere Palladio, dichiarando di averlo avuto ospite nella sua villa tiburtina la notte dell’assassinio. Ma Palladio non voleva uccidere Marcia con le proprie mani e quindi Rutilio prese accordi con un sicario fenicio». Durante la notte dell’omicidio, il fenicio la uccide, Palladio ha il compito di appiccare un incendio circoscritto alla camera da letto, ma maldestramente non riesce a contenerne il dilagare e viene anche visto da uno dei servi, che poi rivela la cosa. Arrestato e benevolmente interrogato da amici di Rutilio, Palladio si finge convertito e viene autorizzato all’espiazione nella comunità monastica alla Gorgona. Il fenicio raggiunge Rutilio alle Terme del Toro, lo aggiorna e concordano la liberazione di Palladio. Ma – per proseguire il racconto con le parole di Vittorino (p. 159) –: «A Pisa molti congiurati

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si sono tirati indietro e gli altri hanno deciso di rinunciare». Ecco allora Rutilio abbandonare, e cercare la morte. Quanto ai superstiti: Palladio continua a spacciarsi per cristiano e fa fortuna alla corte di Ravenna. Fulgenzio si unisce a una compagnia di mimi. Fusca partorisce il figlio concepito dal barbaro incontrato nei boschi prima della partenza, cui dà nome Dionisio. Vittorino la fa sua sposa e, rimasti pagani, si avviano a un’idillica, agreste vita insieme.

I tratti fondamentali di questa scrittura risultano dunque: a) l’inserzione di figure femminili, che assumono una rilevanza di primo piano; b) la prospettiva di ‘decadenza’ con cui è sostanzialmente letto e interpretato il mondo in cui si muove Rutilio; c) il rilievo di una trama politica, che si concretizza nel progetto di sovversione teso nientemeno che a sostituire Rutilio, come ‘restauratore’ di un colto impero aristocratico pagano, all’inetto imperatore cristiano Onorio. Il primo elemento a entrare in scena è proprio il nuovo protagonismo femminile, sia per la focalizzazione del racconto in Fusca, sia perché inizialmente l’attenzione si concentra sui problemi d’incomprensione fra Rutilio e sua moglie Marcia (cui si aggiungono i collaterali rilievi sul comportamento erotico di Rutilio con i suoi schiavi). A questa caratteristica non è secondo me del tutto estranea la circostanza che il racconto sia intrecciato da una mano di donna. Nella mia edizione rutiliana, che la Cardona mostra di conoscere, avevo avuto occasione di ricordare (per es. a p. viii) una circostanza familiare agli studiosi di Rutilio: e cioè come egli – fra varie altre omissioni – non abbia incluso nel suo poema alcun personaggio femminile. La Cardona sembra voler quasi rovesciare polemicamente questo dato di fatto, portando in proscenio Fusca come narratrice e poeta a maggior titolo di Rutilio, e assegnando un ruolo di rilievo alle figure della moglie Marcia e perfino della madre di Rutilio, Galla Rufa (sentiamo nominare anche una sorella, che però non compare)76. A proposito di Galla, forse per la scelta onomastica la Cardona si è ispiratata a Galla Placidia o ancor più semplicemente alla provenienza geografica dei protagonisti: curiosamente, tuttavia, si chiama Naevia Galla la moglie di Claudio Postumo Dardano, il peggior nemico di Rutilio, come si evince dalla lapide CIL XII 1594 (=Dessau 1279), riportata anche in Lana 1961, pp. 61 s. (cfr. Fo 2004). A proposito di Italo Lana, il cui libro è stato a lungo e continua ad essere una delle monografie di principale riferimento per gli studi rutiliani, richiamo come anche

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Al di là di questa eventuale ‘contingente’ reazione a un tratto specificamente rutiliano, la mia impressione è che questo racconto si collochi nettamente – e non senza una punta di militanza – in una linea portante dei recenti romanzi che hanno per oggetto personaggi antichi: la valorizzazione delle figure femminili, di coloro che, in un suo saggio su alcune ‘grandi donne’ dell’antichità, Armanda Guiducci raggruppa sotto l’etichetta-titolo di «perdute nella storia»77. Si pensi – per limitarsi ai casi più eclatanti – alla concubina di Agostino in Pierre Villemain e in Jostein Gaarder; alla moglie di Sinesio di Cirene su cui Stefan Andres, assegnandole il nome di Prisca, focalizza il suo romanzo La tentazione di Sinesio; al successo di Ipazia come figura simbolo, specialmente con Il libro di Ipazia di Mario Luzi; e ancora alla fortuna del drammatico personaggio di Galla Placidia e al rilievo stesso che – pur nella loro posizione collaterale – assumono le figure femminili nel Giuliano di Gore Vidal78. Il secondo elemento – quello per cui più sopra, ad altro proposito, facevo ricorso alla neoconiazione ‘decadimentismo’ – è così rilevato, non solo nel racconto rutiliano, ma in tutto l’insieme narrativo che lo ingloba, che la quarta di copertina esibisce ad insegna la frase (tratta dal racconto Il fumo e la polvere, p. 29) «…ma l’impero era un grande corpo sazio e malinconico e da quella sazietà e malinconia non si salvava nessuno». Un concetto peraltro ribadito con insistenza nelle pagine che qui più ci riguardano, per esempio nelle parole di Vittorino (p. 145): «“L’impero di Roma è un malato incurabile” ha risposto Vittorino. “Si può solo sperare che muoia presto, senza alper lui l’incontro con Rutilio sembri essersi articolato su particolari sintonie ‘immediate’ (p. 11): «questa ricerca su Rutilio Namaziano ha un’origine abbastanza lontana nel tempo: la lettura delle pagine, dense, succose, illuminanti, da Augusto Rostagni dedicate al periodo della rinascita pagana nel IV secolo d.C. nella sua Storia della Letteratura latina, vo. II, Torino, 1952, pp. 654 sgg. (2a ediz., 1955, pp. 666 sgg.) […] suscitò in chi scrive un interesse vivissimo per un mondo culturale dalle vicende altamente appassionanti […]». 77 Vd., oltre a Guiducci 1989, Cantarella 1981. 78 Vd. rispettivamente Villemain 1957, Gaarder 1998, Andres 1993, Luzi 1993, Vidal 2003; per Galla Placidia vd. per es. Consorti 1995. Una certa rilevanza assume anche la figura della moglie di Stilicone Serena nel già ricordato romanzo della Haasse. Il tutto è oggetto di particolare studio da parte di Filomena Giannotti nella sua già ricordata tesi di dottorato dedicata a questi drammaturghi, poeti e ‘narratori d’antico’ alle prese con rilevanti figure di età romanobarbarica (Giannotti 2006; vd. ora anche Giannotti 2009 passim).

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tre sofferenze. Nasceranno nuovi Stati, che noi non vedremo. Qualcosa di noi sopravviverà in essi. Ora è tempo che tutto rovini. È il tempo del fuoco e delle ceneri”». La presente è un’età di ferro79, la classe dirigente è ormai fiacca e smidollata, partecipe di una generalizzata e irrimediabile senescenza80. Non mancano la desolazione, il degrado del paesaggio, le rovine: Rutilio le ha addirittura contemplate nel loro ‘farsi’, avendo avuto la singolare opportunità di assistere, ben nascosto dalla sua villa occultata nel verde, al saccheggio dei Visigoti di Alarico81. I culti giacciono in abbandono, e queCirca le lodi del ferro all’Elba, si legge (p. 136): «Ma io ho pensato invece che ferrigna è l’età nostra, irta di armi, spietata ed estrema, tanto da fare sperare che chiuda come un catenaccio rugginoso il ciclo dei secoli e che dopo tanta asprezza si possa intravvedere l’aurato albeggiare di un’età più serena». 80 Fin dalla prima pagina (p. 95): «un eterno rimuginare sui tempi trascorsi, come ha fatto fino ad ora Rutilio». Anche l’incontro con Rufio Volusiano è segnato da questo tono (pp. 120 s.): «Ascoltando i discorsi di Rutilio e Volusio ho sentito ancora la stanchezza e la vecchiaia delle parole – anche loro già vecchi, in declino, legati a un mondo senescente, incapaci di ancorarsi a un’idea nuova da cui potrebbe nascere un nuovo ordine di cose» e via dicendo. Di una certa efficacia – sebbene alquanto delegittimata dalla focalizzazione in Fusca – la descrizione del banchetto di addio, fra Simmachi e Nicomachi: (pp. 103-104): «Ma io sento la stanchezza dei nomi. C’era molto silenzio, come un ristagno di vapori palustri, intorno alle ghirlande di fiori che cingevano le teste dei commensali: occhi incavati, nobili nasi affilati, pance obese. Capelli radi, un parlare levigato come l’argento antico delle patere. Un’urbanità sommessa, con qualche bagliore di facezia, come i calici blu accesi intorno agli orli da una danza di amorini dorati. Pochi giovani, esili ed esangui come gigli, fatui e svaporati come le esalazioni di muschio e ambra che si levavano dal bruciatore di bronzo. […] Il banchetto è stato, come si poteva prevedere, decoroso e malinconico. I commensali giacevano semisdraiati sui letti triclinari, tristi e con gli occhi assorti come le statue sui coperchi dei sarcofaghi. La partenza di Rutilio è sentita come una sconfitta anche dai suoi avversari e rivali: sono rimasti in pochi a sperare in una rinascita dell’antico potere di Roma. Il mondo è ormai nelle mani dei barbari e dei cristiani». 81 È questo un tratto che, sebbene alla lontana, allinea intenzionalmente (vd. oltre) i casi di Rutilio con quelli di Enea. La Cardona immagina che i familiari di Rutilio si siano rifugiati al tempo della calata di Alarico in una villa in Sabina, forse di Galla (vd. p. 104: Rutilio invece «è rimasto e dall’alto di questo colle ha visto gli incendi, il fumo, i massacri. Lo immagino seduto tra i suoi preziosi papiri, i volumi, le pergamene, ben deciso a bruciare con la sua biblioteca. Ma la villa è nascosta dagli alberi e lontana dalla strada ed è stata risparmiata»). Cfr. p. 99: «spesso si ferma a guardare le rovine che i Goti di Alarico hanno lasciato dietro di loro durante il terribile saccheggio di qualche anno fa: templi diroccati e anneriti dagli incendi, colonne spezzate, statue cadute dal loro piedistallo. Tutto è rimasto com’era, nessuno si è dato la pena di ricostruire» (vd. anche p. 101). Lo stesso ‘inno a Roma’ è letto come compianto funebre: durante il banchetto Rutilio, davanti a un pesce alato che rappresenta il suo viaggio (p. 102) si alza e declama l’inno, composto con l’aiuto di Prisca. Poi ecco il commento in chiave di 79

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sto rivela le responsabilità che, della presente decadenza, il cristianesimo condivide con i barbari82. L’unico spunto relativamente nuovo è in una certa tendenza a collocare il tema su sfondi più vasti, con un po’ di malinconico patetismo; scrive Fusca (p. 126): Temo sia questa la legge dell’universo, perché ciò che ci divide è sempre più forte di ciò che ci tiene uniti. Penso che uno stesso principio imponga al grande impero di Roma di sbriciolarsi come un vecchio mosaico, a Rutilio di abbandonare Roma, a me di distaccarmi da Rutilio e anche da me stessa, a noi di prendere il mare come rottami alla deriva.

A questa prospettiva non riesce a fare da correttivo – e direi che non intende neppure proporsi pienamente per tale – il terzo e cruciale aspetto del racconto, e cioè quello dell’intrigo decadenza (p. 107): «L’inno prosegue con parole di lode e di memoria: simulacri di vita, come i fiori che si offrono ai defunti. Tutti hanno sentito risuonare in quei versi di addio gli accenti dell’elogio funebre. Questa città e il suo impero sono apparsi come distaccati da terra, aleggianti in forma di nebulosa tra le costellazioni e il tremulo pallore degli dèi celesti. Non è con le lodi funebri che si comincia veramente a morire?». Lo stesso paesaggio lungo cui si muovono i protagonisti è incolto e rispecchia così quella sorta di incuria degli uomini per le loro cose, quel ‘lasciar decadere’ che si respira come atmosfera di fondo di tutta l’opera. Per es. la desolazione del litorale «Ville diroccate, alberi stramazzati al suolo» (p. 118). Infine: a Populonia, nel pomeriggio, Rutilio chiama Fusca per dettarle i famosi versi del monitorio solenne sulle rovine (cfr. Fo 2003, pp. 267-69 e l’ultimo paragrafo di Fo 2004); l’originalità sta nel fatto che li detta non già riflettendo a circostanze generali e universali, ma in calce alla morte della moglie Marcia di cui è stato appena messo al corrente. 82 Durante l’ultima passeggiata in Roma (p. 108): «Ho notato che Rutilio sembra non voler vedere i segni del declino di questa città: la parte del Foro che volge a settentrione, incendiata dai Goti di Alarico, giace nel più completo abbandono […] Non una parola dei cristiani, nel suo inno a Roma. Eppure le loro basiliche si ergono intorno alla città, presidî trionfanti di forze incognite, che con un lungo assedio ai nostri templi e palazzi ne hanno soffocata e uccisa lentamente la vita. I nostri templi sono ora semivuoti e le folle accorrono nei grandi spazi erbosi che si estendono intorno a questi nuovi luoghi di culto. Un tempo i cristiani vivevano sottoterra, accanto ai cadaveri. Erano un popolo lucifugo e latebroso» (dove si noti l’aggettivo lucifugus preso di peso dalla definizione rutiliana dei monaci, I 440). E ancora (p. 109) i rilievi sulla fuga dalle città nelle ville e la decadenza della conoscenza del latino, le giustificazioni (agostiniane: cfr. Fo 2002a, p. 180) del sacco come «voluto dal loro dio per punire questa città corrotta». A p. 104 Fusca aggiunge: «Io che sono sempre vissuta in mezzo alle parole, sento la forza che si sprigiona dai loro linguaggi. C’è violenza nei misteri cristiani e mistero nella violenza dei barbari».

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politico, della cospirazione mirante a sostituire Rutilio (e il suo mondo) ad Onorio (e il suo mondo) sul soglio imperiale. La radice di questa idea si coglie agevolmente in Rutilio stesso e precisamente nella famosa tirata contro i Lèpidi nel resoconto della tappa di Porto Ercole (I 293-312), letta dalla Cardona come uno sfogo essenzialmente diretto contro Claudio Postumo Dàrdano, repressore della congiura di aristocratici galloromani che aveva messo capo all’usurpazione di Giovino83. La scrittrice è su questo punto assai esplicita (p. 133): Mentre aspettavamo, seduti in un’osteria non lontana dal mare, che una vecchia ostessa istupidita ci preparasse da mangiare, egli ha cominciato a dettarci non so quali rancorose facezie sulla famiglia dei Lepidi. Rutilio odia uno di essi, prefetto del pretorio per la Gallia, che riuscì qualche anno fa a sconfiggere l’usurpatore Giovino, insorto contro l’imperatore Onorio. Lo odia perché durante la repressione egli ha fatto giustiziare molti membri dell’aristocrazia gallica che erano stati sostenitori di Giovino e ha donato ai barbari i loro possedimenti. Fra di essi c’era anche un consanguineo di Rutilio e quindi molti beni della sua famiglia sono andati perduti. Fra l’altro questo discendente dei Lepidi, oltre a essere amico dei barbari è anche cristiano: ce n’è di avanzo per renderlo odioso a Rutilio.

Ma l’aspetto più originale dell’impostazione della Cardona è che all’idea dell’intrigo politico si associa un singolare spunto di natura letteraria. Nella mia edizione rutiliana sottolineavo come secondo me Rutilio rispecchiasse la propria esperienza sulla ‘figura esistenziale’ di Ovidio esule, cosa che lo mantiene in una sfera di sentimenti innanzitutto privati, di nostalgia, che solo secondariamente si dilatano a orizzonti pubblici e generali84. Nell’intenzione di correggere il profilo di Rutilio da quello di un ‘esule’ a quello di un ‘restauratore’, la Cardona avvia il suo personaggio alla ricerca di una intenzionale identificazione alternativa: quella con l’Enea di Virgilio. E, più che sull’enunProbabile fonte della Cardona è Lana 1961, pp. 60 ss. (cfr. Fo 1994, pp. 87-90, e Fo 2004). 84 Vd. già Fo 1989, pp. 49 ss. e Fo 1994, pp. xii s. (cfr. sopra, note 3 e 6). 83

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ciazione di concreti progetti operativi, è proprio su questa insistita (quanto chimerica) identificazione con Enea che finisce per poggiare quasi integralmente il profilo di un Rutilio rifondatore del mondo romano-pagano, la sua identità di Giuliano l’Apostata in minore. Gli indizi di un simile impianto si affacciano nella narrazione con progressiva e crescente evidenza, trovando pieno nitore proprio nelle frasi finali di Vittorino85. È chiaro che il vero Rutilio non avrebbe mai potuto pensare 85 La prima epifania di rilievo è a p. 105 nel banchetto di addio: «Durante la cena un citarista ha recitato alcuni passi dell’Eneide scelti da Rutilio: non a caso, quelli in cui Enea lascia Troia ormai conquistata e distrutta dagli Achei per intraprendere il viaggio verso una nuova patria. Mentre cantava nel silenzio commosso dei presenti “diversa exilia et desertas quaerere terras/ auguriis agimur divom” e poi “incerti quo fata ferant”, ho visto gli occhi di Rutilio accendersi di un fuoco di lacrime vivide e disperate. Quali significati avrà dato al suo viaggio?». Al momento di arrivare verso il litorale, la Cardona sfrutta il discorso rutiliano sul doppio braccio del Tevere per reintrodurre il tema eneadico. Fusca commenta (pp. 117 s.): «Comincio a pensare che Rutilio si senta un nuovo Enea, in fuga dalla sua città caduta in mano ai nemici. Come se un grande ciclo si fosse concluso e questa partenza debba segnare l’inizio di una nuova età della storia. Una nave risalì il Tevere a sinistra e un’altra lo ridiscende ora – a distanza di un millennio e mezzo – a destra, diretta verso una terra destinata, perché tutto ricominci sotto migliori auspici». V’è qualche oscillazione fra le identificazioni «nuovo Enea» e «nuovo Virgilio»; quest’ultima, peraltro, solleva un problema di cui si fa consapevole enunciatrice Fusca (p. 132): «è ben strano che pur sentendosi un nuovo Virgilio abbia escluso l’esametro». A Pisa, davanti alla statua di Lacanio (p. 152), «Rutilio recita: “Tua me, genitor tua tristis imago/ saepius occurrens haec limina tendere adegit;/ stant sale Tyrrheno classes”. Tutti riconoscono le parole che Enea rivolge al padre Anchise nell’Averno. Sono stupefatta: dove vuole arrivare Rutilio con questa recita? E se fosse qualcosa di diverso dal vaneggiamento di un letterato esaltato, vanitoso e malinconico?». Improvvisamente, dopo alcuni colloqui con Palladio – liberato dalla Gorgona ad opera del fenicio – Rutilio decide che tutto è perduto. Di conseguenza (p. 154): «Poi si è rivolto a me e a Fulgenzio e ci ha detto: “Voglio distruggere il mio poema. La speranza che mi aveva spinto a comporlo si è vanificata. Non ci sarà una nuova Eneide. Il destino ci è contrario. Enea è stato guidato dalla Sibilla, ma ora la voce della profetessa non c’è più. Il fuoco ha divorato le parole della sua antica sapienza e nel fuoco getterete dopo lo sbarco anche queste inutili carte”» (si noti l’allineamento con la celebre disposizione testamentaria attribuita a Virgilio, secondo cui l’Eneide, incompiuta, avrebbe dovuto essere distrutta). Le parole finali di Vittorino (p. 159: «A Pisa molti congiurati […] non ce l’ha fatta a diventare mito?»), sono già riportate sopra a chiusa della sintesi del romanzo. In quell’occasione il personaggio di Fusca commenta (p. 159): «Rutilio dunque ha cercato la morte quando ha capito che non ci sarebbe stata una nuova Eneide e che Roma non sarebbe rinata, come egli sperava, nel territorio dei suoi antenati». È interessante constatare che di recente, nella critica rutiliana, si è insistito proprio su un intenzionale allineamento che Rutilio avrebbe operato fra le proprie vicende e quelle di Enea: vd. Soler 1998, Soler

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di profilarsi come nuovo Enea e meno che mai come nuovo Virgilio (per lo meno, con questo strumento poetico). Ma non abbiamo a che fare con un manuale, bensì con un racconto. E la romantica invenzione frutta un particolare interessante. Mi sembra infatti evidente che l’origine africana della sposa assegnata a Rutilio, Marcia, discenda dall’intento di stringere ancora di più la rete delle connessioni eneadiche, allineando la fanciulla – virgilianamente vittima innocente di architetture storiche più grandi di lei – all’africana Didone. Durante la sosta alla foce dell’Ombrone, il ‘notturno’ offre il destro a una divagazione romantica; Rutilio cammina lungo la spiaggia riandando col pensiero alla moglie Marcia, che sa defunta (p. 135, con citazione di Aen. VI 465): Ho visto Rutilio aggirarsi con gli occhi persi e acquosi di lacrime tra quelle piante sacre a Venere. L’ho udito mormorare un verso di Virgilio, «Siste gradum teque aspectu ne subtrahe nostro», rivolgendosi verso un guizzare di ombre proiettate dai fuochi nella piccola selva. Ho riconosciuto le parole che Enea rivolge a Didone, vedendola tra le ombre degli Inferi.

Guardando a questo microromanzo nel suo complesso, a parte occasionali cadute su cui non intendo qui insistere, la prosa della Cardona è decorosa, qua e là si apre a spunti felici, e non manca di passi ben scritti e osservazioni ben formulate. Ma mi appellerei a quanto, sui diversi livelli di piacevolezza in una lettura, scrive Wystan Hugh Auden (1999, p. 17), secondo cui bisognerebbe distinguere «tra il piacere estetico e i piaceri dell’apprendere e del sognare a occhi aperti». L’ultimo dei tre si può qui dire attivo, mentre quello dell’apprendere si affaccia solo embrionalmente in forma di curiosità su come si sia fantasticato in calce a dati monchi ed elusivi di una vicenda realmente accaduta. A restare un po’ sacrificato mi sembra proprio il piacere estetico, in un dettato piano e piuttosto minimale, che raramente coinvolge e commuove. Fra i momenti migliori, due congedi: quello di Rutilio da Galla («ha abbracciato la madre e ha tenuto strette fra le sue le mani di lei, simili a infere mappe di vene bluette e macule palustri»: p. 114); e 2005a, passim (cfr., nelle note a questa edizione, quanto appuntato in calce ai vv. I 168-170, 311 s., 332), e Li Causi 2007.

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quello di Fusca da Roma, allorché la voce narrante prova in prima persona il dolore del distacco, tanto più profondo in quanto, per la condizione servile, esso è frutto di una ineluttabile imposizione (p. 111 s.): «Ma io, io che sono nata qui, non rivedrò mai più questi pini che amo, il volo dei gabbiani sul Tevere, le orchidee selvatiche che raccoglievo in primavera». c) Due romanzi: Maurizio Bettini e Paola Mastrocola (2004) Rutilio torna ad affacciarsi in due romanzi usciti a poca distanza l’uno dall’altro nel gennaio e nel febbraio 2004. Inizio brevemente dal secondo, pubblicato da Einaudi: si tratta della fiaba politica, soavemente antiberlusconiana, di Maurizio Bettini Le coccinelle di Redùn. In un immaginario paese dell’Europa nord-orientale si assiste alla ‘resistibile ascesa’ di un parvenu dal ghigno bonario che, insediato in un palazzo governativo che viene suggestivamente chiamato «la Recora», si avvia a divenire un piccolo despota86. Il protagonista, Jan Pedrewcky, intraprende con pochi amici un pericoloso viaggio, motivato – oltre che dall’insofferenza davanti allo spettacolo di volgarità esibito dalle prodezze di Lui – dalla speranza di riuscire a entrare in possesso di documenti che ne provano le passate malefatte, grazie ai quali conta di poterne compromettere la carriera politica. Una sottile tramatura di paralleli rutiliani si lascia intravvedere, come lontana evocazione di un impianto, e agisce solo a livello di impalpabili atmosfere87. Nel comune quadro di un viaggio (sebbene questo Bettini 2004, p. 42 («Recora» è naturalmente l’anagramma di «Arcore», sede della villa di Silvio Berlusconi): «All’inizio Lui si era presentato come un ricco borghese del nord. Un commerciante facoltoso, o almeno così dicevano i cittadini, che però non commerciava esplicitamente in nulla. Di sicuro possedeva un grande senso degli affari, visto che aveva preso dimora in uno dei palazzi più belli della Città, la Recora, comprandolo per pochi spiccioli da una famiglia decaduta. Dopo di che si era messo a frequentare i salotti dei borghesi, incantandoli non solo con i Suoi soldi, ma anche con i Suoi modi. Birrai, merciai, burocrati e proprietari non avevano mai incontrato una persona così piena di spirito. Aveva una storiella buffa per ogni circostanza – si diceva che una volta avesse fatto ridere perfino la testa di un funerale – e la sua stretta di mano, larga e robusta, ispirava un immediato ottimismo». 87 Lo stesso autore mi ha tuttavia confermato di averlo avuto presente. Bettini, com’è noto, è peraltro un filologo classico. Come prosatore ha pubblicato diversi racconti e, prima di questo e sempre da Einaudi, il notevole romanzo In fondo al cuore, eccellenza (2001). 86

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avvenga per vie di terra), Jan Pedrewcky è infatti, come Rutilio, un aristocratico; affronta la sua ‘missione’ con una piccola e più o meno fidata compagnia, nella quale tuttavia, come in Rutilio, non figurano presenze femminili. Uno dei compagni e lontano parente del protagonista, Streben, è un poeta (pp. 22 ss.). Un altro, Stephan Gerauch, è «dottore in teologia e filologia classica, laureato presso l’università di Göttingen» (p. 29), e lo cogliamo mentre (p. 80) «seduto su una tomba», «prende appunti in un grande brogliaccio. Probabilmente tiene un diario del viaggio». Il clima è saturo di atmosfere di decadenza, né mancano le rovine di un paesino in riva al mare88. Il viaggio, che conosce dunque anche un orizzonte politico affine a quello profilato per Rutilio dalle recenti rivisitazioni del suo poemetto (Cardona 1997, Bondì-Ricci 2003), sembra fallire, e Jan sta per togliersi la vita, quando improvvisamente si apre uno spiraglio. Jan rinuncia al suicidio, rilancia la lotta. Più ‘direttamente’ presente è Rutilio nel romanzo di Paola Mastrocola pubblicato da Guanda nel gennaio 2004, intitolato Una barca nel bosco89. La vicenda si svolge per gran parte in ambiente scolastico: Gaspare Torrente, un ragazzo assai dotato per gli studi di lettere e appassionato in particolare di latino, figlio di un modesto pescatore, accompagnato dalla madre lascia l’isoletta siciliana di cui è originario per andare a frequentare il liceo a Torino. Non gli viene però concesso di frequentare un liceo classico e approda a uno scientifico. I suoi stessi successi contribuiscono a farne un emarginato fra i compagni. Conformemente ai parametri di una scuola sempre più lassista e preoccupata di formulette pedagogiche esteriori, il protago88 Bettini 2004, p. 186: «Continuando ad avanzare incontrano un gruppo di case, completamente diroccate. I pali dei tetti sporgono di traverso fra le macerie e la piccola chiesa, che sorgeva al centro del villaggio, è invasa dai rampicanti. “Sant’Evaldo”, dice Gerauch, mostrando a Jan un quadratino sulla mappa. È l’unico villaggio della zona di Rigost, gli abitanti devono averlo abbandonato da almeno vent’anni. Non ci sono tracce né di incendio né di colpi di cannone, forse le ha cancellate la pioggia. Il mare è davanti a loro, una tavola grigia o brillante, a seconda della posizione che assumono le nuvole in cielo». 89 Sul risguardo di copertina: «Paola Mastrocola è nata nel 1956 a Torino dove tuttora risiede. Insegna in un liceo scientifico. Presso Guanda sono usciti La gallina volante (premio Italo Calvino per l’inedito 1999, Premio Selezione Campiello 2000, Premio Rapallo-Carige per la Donna Scrittrice 2001) e Palline di pane (finalista al Premio Strega 2001)». Sempre presso Guanda è ora uscito il suo La scuola raccontata al mio cane (2004).

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nista si studia progressivamente di ‘abbassare il rendimento’ per meglio adeguarsi al poco che sanno i compagni e al poco che richiedono i professori. Le scelte universitarie, operate nel quadro della vigente riforma (il cosiddetto ‘tre più due’) coroneranno il processo di frustrazione e appiattimento della sua vocazione. In una società che va verso l’omologazione ‘in basso’, questo personaggio si presenta come vocato alla marginalità, come «una barca nel bosco»90. I compagni lo chiamano beffardamente «l’extraterrestre». Riesce a stringere l’unica vera amicizia della vita con un altro escluso – con cui dapprima non vuole legare, per non ratificare la propria emarginazione ‘raddoppiandola’ –, di nome Furio, detto dai compagni «Furio l’avulso». Prima dei soprannomi, i loro stessi nomi appaiono configurarli come ‘out’: outsider, anche, ma pur sempre out 91. Furio ha la passione di confezionare pelouches e soprattutto di scegliere loro gli occhi giusti; Gaspare vorrebbe fare il latinista.92 Rutilio entra in scena allorché il protagonista, che L’espressione, che dà il titolo al romanzo, ricorre alle pp. 55 e 68. Tuttavia alla fine sarà barca nel bosco anche la vecchia barca da pesca del padre del protagonista, che questi ‘installa’ in quella sorta di bosco che è divenuta la sua casa (p. 257). 91 Sono entrambi nomi palesemente fuori moda (nella scelta del nome «Furio» ho il sospetto che abbia agito anche la natura macchiettistica di un omonimo personaggio del comico Carlo Verdone). «Torrente» è cognome a suo luogo in un bosco (inoltre, il ragazzo è uno dei ‘vegnù giò con la piena’ di cui scrive una famosa canzone di Enzo Jannacci che può forse aver giocato un ruolo nella coniazione). 92 Mastrocola 2004, p. 156: «Lui nella vita vorrebbe fare quello che mette gli occhi ai pelucchi, più che il peluccaio. Mi sembra bello che lui abbia questa idea nella vita, dico l’idea di fare il trovatore d’occhi. […] Gli confesso che anch’io ho un sogno: voglio fare il latinista. Lui mi guarda serio e ordina altre due mente. Alla fine mi dice: va bene. Me lo stampo in testa quel suo “va bene”, perché penso che non è una risposta e non è una domanda, non è niente, ma… va magnificamente bene». Più oltre, sta per piombare nella vita di Gaspare la tanto attesa Corinne, francesina portata dal vento degli scambi culturali, cui Gaspare, per rendersi interessante, ha raccontato via mail un sacco di frottole, fra cui quella di chiamarsi Felix. Allora Furio regala all’amico un talismano (p. 164): «Non mi dice altro, ma mi regala un occhio: è una pallina di vetro verde-azzurra con al centro una macchia bluastra. Mi dice che è spaiato, perché di biglie così con la macchia dentro non ne ha trovate mai altre, e quindi è come l’occhio di Dio, solitario e vagante. È vero, sembra proprio una pupilla che ci guarda. Me lo regala perché mi porti fortuna. E poi parliamo a lungo dei nostri progetti: lui dei suoi pelucchi e io del mio latino. Decidiamo che un giorno costruiremo insieme una nostra impresa: una fabbrica di pupazzi che parlano latino, ad esempio, e io sono molto 90

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si è iscritto a quello che è forse il corso di studi più in linea con l’esteriore superficialità della società occidentale di oggi, Scienze della Comunicazione, va a parlare con «una specie di assistente» che «sulla targhetta della sua stanza ha scritto: dottor grigori counsellor» (p. 188): Il dottor Grigori è un giovane che sembra vecchio, con pochi capelli radi e la pancia […] Gli spiego che vorrei approfondire, che io quelle cose che si fanno a lezione le so già e che vorrei fare una tesi sul latino di Rutilio Namaziano, io. Mi guarda storto e spiritato. Mi chiede: e chi è? Gli spiego chi è Rutilio Namaziano. Mi dice che siamo a Scienze della Comunicazione. Gli dico: lo so, per questo sono venuto da Lei, per avere qualche consiglio…

Il Grigori gli spiega che prima deve abbandonare il vecchio ordinamento, optare per la Laurea Breve, quindi fare la Specialistica, quindi una serie di Master, «“Dopodiché può finalmente dedicarsi a quello che vuole, ad esempio a quel suo Pumilio…” “Rutilio. Rutilio Namaziano” gli ripeto. “Appunto” mi dice. “Quel che vuole Lei, ha capito?”». Si scontrano qui due opposti punti di vista: per Torrente, Rutilio simboleggia ciò che si vorrebbe fare nella vita, per il suo interlocutore è una delle tante indifferenti cose del mondo, secondarie rispetto alle autentiche priorità e come sommerse nel rumore di fondo. Per maggiore sottolineatura, il suo nome viene storpiato – come accade non di rado anche nell’esistenza comune –, in questo caso nella deformazione Pumilio93. Ma occuparsi di contento di questo, però gli chiedo: “E a chi può interessare una cosa così?” “Non lo so, Felix” mi risponde, “è importante?” Stabiliamo che non è importante e ci giuriamo eterna fedeltà». 93 Mi si porge qui l’occasione di ricordare un passo del Pasticciaccio di Gadda: il testamento olografo di Giuliana Balducci lascia (Gadda 1988-93, vol. II, p. 102) «una discreta somma, quarantottomila, al cugino dottor Giuliano Valdarena di Romolo e Matilde Rabitti, nato eccetera. Item: l’anello con brillante “lasciatomi dal nonno, cavaliere ufficiale Rutilio Valdarena, a titolo di sacro deposito: e la catena d’oro da orologio con ciondolo in pietra dura” (sic: nec aliter) “appartenuta al medesimo”». Più oltre, Ingravallo, nell’interrogarlo, ricapitola il legato con Giuliano Valdarena, ed osserva fra l’altro (p. 113): «“pecché ’o nonno viecchio Romilio, dice il signor Balducci, comme se schiamava? Romilio? dico bene? Ah, Rutilio? ’o nonno Rutilio vuleva che rimanessero ai nepoti, al sangue suo… in famiglia, capisco, capisco, e cioè a voi, che ne site ’o campione. Ma com’è che li abbiamo trovati a casa vostra? […]”». Anche qui «Rutilio» viene storpiato; e

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Rutilio resta per il protagonista il vecchio, irrinunciabile sogno di «coltivarsi» una «felicità mentale» (e il verbo per lui non è indifferente, dato che la via d’uscita alle sue frustrazioni si aprirà proprio in questa direzione: felicità mentale in forma di coltivazione di alberi e piante). Poco più oltre, il capitolo Rutilio e il consiglio di Svitiglio inizia così (pp. 194-195): Voglio fare la tesi su Rutilio Namaziano. Sono anni che mi coltivo questa felicità mentale. Da quando ho trovato il suo librino bianco sottile sul banco dei libri usati di via Po. Sulla copertina c’erano dei versi scritti in nero, grande. In mezzo in alto il titolo: IL RITORNO. Enorme. Non saprò mai se sono stati il titolo, i versi, o cosa. Ho cominciato a leggermelo in tram, perché quel giorno ero in tram. E non ho più smesso. Ho perso anche la fermata giusta, ma questo non importa. Rutilio Namaziano ha scritto un poema pazzesco. Solo che non lo conosce quasi nessuno. È un poema sul ritorno, ecco perché s’intitola De reditu. Lui è un provinciale, è nato in un paesino da niente della Gallia Narbonese, poi è andato a Roma, la grande immensa Roma, e gli sembrava di vivere in un sogno. Ma sono arrivati i barbari che gli hanno distrutto la casa e tutti i suoi averi lassù nel suo paesino della Gallia Narbonese. A quel punto lui doveva tornare. Doveva. Per vedere un po’ cosa fare di tutte quelle macerie. Insomma, raccogliere i pezzi, curare la proprietà; non è che uno se ne possa sbattere delle proprietà. Lui, certo, avrebbe preferito restarsene a Roma. Troppo bello vivere a Roma. Ma non poteva, doveva occuparsene, no, delle sue cose? Era il

curiosamente, la storpiatura ha a che fare con Roma: «Romilio». Difficile stabilire se – considerato anche il particolare rapporto che il Pasticciaccio intrattiene con le antichità romane (cfr. Fo 2002b, p. 235; e più in generale per Virgilio e i classici in Gadda, Narducci 2003) – Gadda avesse in mente Rutilio Namaziano e il suo celebre ‘inno a Roma’ (fra l’altro praticato dal, da lui esecrato, Carducci). Nel volume di Bibliografia e indici dell’edizione diretta da Dante Isella per «I libri della spiga» Garzanti, Rutilio Namaziano non figura lemmatizzato; né risulta dal catalogo Cortellessa-Patrizi 2001 (edito da Bulzoni) che il De reditu rientrasse fra i libri da lui posseduti. Per solito, capita con maggiore frequenza che le storpiature vadano a carico di Namatianus (cfr. per esempio Pound, a nota 43, e ancora nota 123). Nel sito internet di un recente programma radiofonico cui ho partecipato, il nome è divenuto «Rutilio Ramazziano» (cosa che ha finito per richiamarmi alla mente i giochi scherzosamente distorsivi di Fabio Troncarelli nella sua prefazione al ricordato – a nota 33 – Otto febbraio, p. xi: «…permettendo di leggere l’allusione al rutilare della testa e perfino quella alla località di Manziana (“nnà a Manziana” è in dialetto romano un modo per dire “andare a quel paese”, essendo Manziana una piccola località fuor de porta ove solitamente nulla accade)»).

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suo passato, la sua vita. Allora un bel giorno parte. Ma non così, normale, per le strade. No, lui prende una barca e se lo fa per mare il viaggio. Costeggia tutta l’Italia, piano, con calma, fermandosi dove gli pare. E vede tutto lo sfacelo dell’Italia distrutta dai barbari, un mondo finito, un Impero che non c’è più… Mi sono sempre chiesto perché questa scelta di tornare via mare. Non mi basta che le strade fossero interrotte. Mi sono risposto che forse dal mare si vedono le cose con una certa distanza; ad esempio lo sfacelo lo reggi meglio se lo guardi da lontano: lui, cioè lo sfacelo, è lì sulla terraferma, e tu invece no, tu sei sull’acqua che ti porta… È diverso. Puoi sempre pensare che non ti riguarda, il mondo non ti ha preso, tu sei da un’altra parte e quindi buonanotte. Io la voglio fare su di lui la tesi, fosse l’ultima cosa che faccio.

Da notare che, al di là del loro rilievo anche oggettivo, ‘avulso’, queste parole si iscrivono bene nella mentalità del personaggio e, osservate dal suo ‘punto di vista’, rivelano ulteriori risvolti sentimentali di questa particolare chiamata. Anche Torrente, figlio di un umile pescatore siciliano, è un provinciale «nato in un paesino da niente», immigrato nella grande città, in questo caso una capitale industriale in cui viveva una zia (la famiglia materna è piemontese: così, per lui si tratta anche di una sorta di nostos). Cresciuto nell’isoletta paterna, ama il mare e ne conosce il fascino e i segreti; e anche in forza di questo il personaggio può elaborare la sua teoria ‘irenista’ circa l’opzione di Rutilio per il mare. Infine una delle sue pulsioni sarebbe quella verso il ritorno al paradiso d’infanzia, all’isola in cui è cresciuto. Rutilio funziona per lui come uno specchio. Nel seguito della trama avviene che un professore, venuto casualmente a supplire un collega nella commissione d’esame di Storia delle Comunicazioni Antiche, noti le qualità di Torrente, gli rivolga qualche apprezzamento, gli raccomandi di tornare a farsi vivo. Il giovane «extraterrestre» individua in lui il docente che può fare al caso suo. Tuttavia il professor Batticolla appartiene a un’altra facoltà, e neppure direttamente letteraria: Giurisprudenza. Torrente cerca vanamente di farsi ricevere e di ottenere la sospirata tesi su Rutilio (p. 195). Infine un ‘anziano’ collaboratore di quella cattedra, tale Svitiglio, s’impietosisce di lui. È solo grazie al suo consiglio che il ragazzo riesce a ‘catturare’ quel minimo di attenzione di cui ha bisogno: gli viene rivelato infatti che l’unico modo di parlare

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davvero a Batticolla è ‘appostarsi’ e fare, come per caso, un viaggio in ascensore con lui. Torrente riesce in questa singolare impresa ed espone convulsamente i suoi progetti al professore, ottenendone un fatidico «Va bene» (pp. 197 s.). Cambia Facoltà e, con gioia della famiglia, si iscrive a Giurisprudenza (p. 199): A me di fare lo scienziato della comunicazione non me ne importava niente. […] Anche di diventare avvocato non me ne importa niente, veramente. Io voglio solo occuparmi di Rutilio Namaziano, perciò se la via è il Diritto Romano, anzi, Diritto Tardoromano, ben venga Giurisprudenza… Ma questo non lo dico in casa.

La tesi procede con difficoltà. Ancora una volta Svitiglio gli apre gli occhi e gli spiega i suoi errori (p. 201): «ci ho messo troppe idee, troppa originalità, cosa volevo, strafare? Mi spiega che bisogna essere più umili in una tesi, citare quelli più vecchi di noi con tanto di data e luogo di edizione e basta. Al massimo ogni tanto dire che la cosa anche a noi sembra così, che il tale o il tal altro, secondo il nostro modesto parere, hanno proprio ragione». Una volta di più viene ‘normalizzato’ secondo il principio ‘citare e ridire’ (p. 201): e allora la tesi giunge in porto. Ne pubblica addirittura un estratto su L’eco di Pietra Ligure (non per ragioni di geografia rutiliana: ma perché è a Pietra Ligure che Batticolla va in vacanza: pp. 203 s.). Purtroppo fra le due dimensioni, passione e disillusione, anche nel caso di Rutilio sarà la seconda a prevalere. L’aver assecondato quell’amore porterà una volta di più il protagonista su un binario morto. Sopraffatto da maneggi di corridoio, Torrente finisce per abbandonare tutto e aprire un bar. Un giorno vi si affaccerà l’antico amico Furio l’avulso, di ritorno dall’America; nel colloquio a distanza di anni, Torrente conosce perfino parole di stizza retrospettiva nei riguardi di Rutilio (p. 212): Volevo fare la tesi su Rutilio Namaziano. Ricordi quel provinciale cretino che si fa il viaggio di ritorno tutto in barca? Non poteva andarci per le strade come fanno tutti? No, lui in barca. E io più cretino di lui che l’ho scelto. L’ho scelto per la tesi, capisci? Tutti che lavorano su Internet, l’inglese, le aziende, il Nasdaq, la statistica, l’epidemiologia, le biotecnologie… E io su cosa mi laureo? Su Rutilio Namaziano.

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Si noti, da parte di una professoressa che, con evidenza, vive lo scacco di una scuola massmediatica e superficiale, la battuta indirettamente sarcastica sull’Eden scolastico-berlusconiano all’insegna delle tre I (internet, inglese, impresa). Collateralmente, dunque, e per implicazioni – come fu caro a Rutilio – il nostro poeta si trova schierato sull’altro piatto della bilancia; in realtà installato nel polo del ‘bene’ che la superficialità del chiacchericcio alla moda, trasformata in Imperativi Pedagogici, contrasta e intende cassare. Una cultura, peraltro, organica ad aspetti deteriori della società cui intende formare (p. 215): «Vedo che Furio è sempre più irrequieto. Lo so che cosa pensa: si chiede come ho fatto da questa storia ad arrivare al bar. Si chiede perché mi è saltato di aprire un bar. Qual è la strada nella vita che mi ha traghettato da Rutilio Namaziano a un bar. Semplice» – e gli spiega come un gioco di raccomandazioni a favore di un esponente della upper class l’abbia tagliato fuori da un buon posto di avvocato in uno studio importante (pp. 218 s.). «Passerà anche l’ora dell’aperitivo. Passa tutto, al mondo» (p. 211). Quando, sfumati i sogni dei pelouches «che parlano latino» (p. 164), e poi quelli rutiliani e di giurisprudenza, Torrente, abbandonata la nuova attività, si rifugia infine nel suo mondo fatto di un’amorosa coltivazione di alberi e piante, si trova a riflettere (p. 232): «Nulla importa davvero. A noi sono state date cose piccole cui badare, qualche foglia che ingialla, un rametto spezzato. In queste minuzie ci siamo beatamente perduti. E ci siamo resi, così, imprendibili». Nonostante non venga esplicitamente asserito, di queste «piccole cose cui badare» ha fatto, e con ogni probabilità continua a fare parte anche Rutilio. d) Un racconto di Fernando Acitelli (2005) Proprio al momento di congedare per le stampe il mio recente contributo sulla fortuna di Rutilio (Fo 2005a), ricevevo dallo scrittore romano Fernando Acitelli, che ho avuto modo di ricordare di passaggio alla nota 44, una ‘fantasia’ narrativa sul poeta intitolata Nella vita di Rutilio Namaziano. Grazie alla generosa disponibilità dei curatori degli Atti di quella prima giornata del Centro di Studi sulla Fortuna dell’Antico di Sestri Levante, ho potuto proporla ai lettori in appendice al mio

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studio, quale primizia di una futura fortuna di Rutilio, che mi auguro ancora ricca e feconda. Acitelli è autore sia di versi che di prose, e in tutta la sua produzione hanno grande spicco alcuni temi guida: intrecciata ai motivi afferenti al gioco del calcio, e a quelli relativi alla memoria come operazione che «salva» le vite dei cari dalle ferite inferte dal Tempo, spicca in rilievo di primissimo piano la presenza dell’Antichità94. All’antichità, Acitelli si disseta; e al cadere del sole percepisce la riconoscenza che silenziosamente gli esprimono gli Imperatori95. Ma anche il più ignoto degli uomini di un tempo è per lo meno sullo stesso piano di quei grandi. Il nome di un antico sepolto in un’urna (Aurelianus) è una «poesia di una sola parola»96. Come si spiega questa strana fenomenologia? È l’ansia dell’esistere in questo oggi aspro e aggressivo a richiedere una medicazione, un ancoramento che procuri sicurezza. Gli imperatori si curavano con la crudeltà97; Acitelli con la nostalgia. Le Mura Aureliane divengono fortilizio della sua vita, Elenco qui di seguito alcune fra le principali opere di Acitelli. Raccolte poetiche: Gli amplessi di Saint-Just, Pescara, Edizioni Tracce 1994; Pregî della prospettiva (1989/1994), Cittadella (PD), Nuove Amadeus Edizioni 1996; La solitudine dell’ala destra, Storia poetica del calcio mondiale, Torino, Einaudi 1998; Il bacio dei coniugi Arnolfini, Milano, ETS 2001; Blu di Seneca (Acitelli 2006); Hogarth, Milano, ES 2008. Prose: Francesco Totti. Il tribuno di Porta Latina, Arezzo, Limina Edizioni 2002 (racconti che, partendo dalla figura del centravanti della Roma, spaziano su vari altri aspetti dell’esistenza contemporanea, poeticamente letta); Il tempo si marca a uomo, Arezzo, Limina Edizioni 2004 (racconti: cfr. sopra, nota 44); I vecchi esultano la sera, Roma, Avagliano Editore 2007. Molte le collaborazioni giornalistiche, sovente a taglio specificamente sportivo (a lungo su «L’Unità», e poi «Il Messaggero» e «La Gazzetta dello Sport»), ma non solo; da vedere, per esempio, su «L’Indipendente» i due articoli Drusilla, piccola mia (martedì 22 giugno 2005, p. 1) e Quintili Vare, legiones redde (domenica 26 giugno 2005, p. 5). Un’ampia ricognizione e un’abbondante schedatura offre la tesi di laurea in Letteratura latina discussa presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Siena il 14 giugno 2005 da Sandra Di Mario, intitolata La presenza dei classici nella produzione di Fernando Acitelli, impreziosita dalla presenza in appendice di una versione più ampia della raccolta – allora integralmente inedita – Blu di Seneca (pp. 155-288), nonché da un’assai interessante e significativa intervista con il poeta (pp. 289-302). 95 Vd. la poesia L’acqua frizzante degli ipogei: «[…] A ogni fontana/ mi chino di stile/ e mi sazio per l’antichità/ che riposa.// Un grazie dagli imperatori/ mi raggiunge quando, stracco, verso/ casa m’avvio,/ volgendo gli occhi al sole/ che smonta al Colosseo» (Acitelli 2006, p. 30). 96 Vd. Poesia di una sola parola, in Acitelli 2006, p. 27. 97 Vd. Prove da anfiteatro: «Giunti in alto, gli imperatori/ per paura della vita la uccidevano/ negli altri» (Acitelli 2006, p. 83). 94

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baluardo in mattoni di quel «niente che da sempre/ fortifica il mio animo in cammino/ e che inerme mi dichiarò alla vita»98. La fuga nell’antico è un’esenzione dalle lesioni del presente, e può generare delicati momenti di sospensione oraziana, come la garbata scena d’osteria che sembra una miniatura a margine di certe Odi 99. È al contempo anche un’esperienza del dolore che fu: perché il dolore è per Acitelli una delle sostanze prime del mondo che, come tale, esige attenzione e religioso rispetto. La mente del poeta è un colombario, in cui le genti antiche sono sepolte ma vengono al contempo ‘salvate’, come antichi parenti da custodire100. Per esprimermi con quella nobile prova narrativa che reca lo splendido titolo Il tempo si marca a uomo, «l’emozione per la vita altrui» si traduce in «un universo da esplorare, una biografia da allestire», su cui investire tempo, «cioè, in sintesi, larghe pause dall’idea della morte»101. Il gesto – o piuttosto la missione – del «salvare», che corre da una vicenda esistenziale al più umile oggetto che vi si sia affacciato, è per Acitelli un’ossessione102. Perché tutto patisce Vd. rispettivamente L’inchiostro che distende esistenze e Andature classiche (Acitelli 2006, pp. 28 e 31). 99 Vd. Esenzione esistenziale e, per il cenno a Orazio, Le Tuscolane (Acitelli 2006, p. 59; cfr. per esempio l’ode oraziana conclusiva del primo libro oraziano, Persicos odi). 100 Vd. Ricognizioni liriche (Colombario in versi) e La Fonte di Mercurio (I legionari si dissetano in attesa del trionfo) (Acitelli 2006, pp. 45 e 60). 101 Acitelli 2004, pp. 156 e 55 (citato sopra, a nota 44). 102 Vd. Il mio amico salva uno strigile (Acitelli 2006, p. 63). Cfr. anche il ricordato (a nota 94) articolo-raccontino di Acitelli, Quintili Vare, legiones redde, occasionato dall’ignoranza del suo assicuratore circa Via Quintilio Varo a Roma, e più ancora circa il personaggio che le dà il nome. Vi si legge fra l’altro: «Il problema su Quintilio Varo del mio giovane assicuratore mi solleva dentro l’angoscia sul modo in cui dovrebbero essere custodite e tramandate le esistenze. Ci dovremmo occupare anche degli anonimi e già una piccola salvezza sarebbe ascoltare microbiografie su tutti, da Voltaire al custode del mio palazzo, da Churchill al carburatorista, da nostra madre a un malato di Cechov». E poco sopra: «queste mie riflessioni hanno una spiegazione ma non vogliono esaltare il dato culturale. Ciò che mi turba in questa vicenda […] è che se si mostra attenzione soltanto per l’oggi, per quello che si vede e si controlla, non si ha tempo da dedicare al ricordo, non del dato culturale, storico, filosofico, geografico e altro, ma degli affetti. Il passato per costoro è dissolto e non v’è spazio per un pensiero da dedicare ad un nonno, magari ad uno zio morto giovane, ad una ingiustizia remota nella quale un nostro affetto uscì malconcio. Ma forse in una situazione del genere sono tali miei pensieri ad ‘andatura cosmica’ a dover essere tenuti a bada». 98

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l’insulto del tempo, anche colonne e marmi103. Nell’esercizio del suo osservare e porre «al sicuro»104, il poeta si fa dunque un custode del «creato nel creato»; e così si colloca solennemente accanto a un altro protagonista di una nobile e sentimentale rêverie di custodia, quella di Adrasto, guardiano della Colonna di Marco Aurelio, in uno splendido libro di Maria Teresa Giuffrè105. In questa prospettiva, il raccontino Nella vita di Rutilio Namaziano è una fra le varie operazioni di «salvazione» che, sui margini dell’esistenza, premono per essere celebrate. Di Rutilio, non vi si ripete quanto è già storicamente noto; ma si elabora una sorta di fuga nell’interiorità, che soprattutto aggetta sul conflitto fra paganesimo e cristianesimo. In tutta la produzione di Acitelli, sul culto ‘pagano’ per l’impero romano e le sue categorie (anche religiose) si è «adagiato» il cristianesimo. Il poeta-pellegrino «scompensato d’antico» è un instancabile visitatore, oltre che di ruderi, di chiese e chiesuole106. E anche su Rutilio, simbolo di pervicace tradizionalismo pagano in tutta la letteratura critica e nella manualistica, ‘si adagia’ la nuova religione. Il giovane aristocratico viene ritratto da Acitelli nel suo bighellonare per il Foro (ibam forte via Sacra…), molti anni prima di quel viaggio per il quale è rimasto consegnato alla letteratura («era il 4 di giugno del 392»; p. 201): Un individuo giovane, alto, con un elegante modo di porgersi – i suoi occhi accarezzavano le cose, l’avambraccio destro che sosteneva una parte della tunica, proprio come avveniva con la toga dei senatori – passeggiava quel mattino dinanzi alla Curia. Che fosse in riflessioni lo si vedeva dal modo in cui spostava lo sguardo

Vd. la poesia Patologie imperiali (Acitelli 2006, p. 61). Vd. Acitelli 2005, p. 204, riportato a testo poco oltre. 105 Vd. la poesia Se lirico sfioro un metronotte in Acitelli 2006, p. 108. Il libro di Maria Teresa Giuffrè cui mi riferisco è La veglia di Adrasto, Pordenone, Edizioni dello Zibaldone (Studio Tesi) 1986; da vedere in merito il capitolo su Marco Aurelio in Giannotti 2006. 106 Vd. le poesie Il Cristianesimo s’adagia sull’Impero, L’urlo delle navate (Il ricamo d’una conversione), I secoli scalzano una madre (Acitelli 2006, pp. 95, 97, 38); l’espressione «scompensato d’antico» discende dalla poesia Drusilla, piccola mia (Acitelli 2006, p. 77). Per il motivo delle visite a chiese vd. anche in particolare le raccolte Pregî della prospettiva e Il bacio dei coniugi Arnolfini. 103 104

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da terra adagiandolo poi sulle rappresentazioni e sulle cose: lo scenario della vita lo incantava. Ogni tanto, pure, egli s’arrestava e lo sguardo finiva allora nel cielo come nel desiderio d’ottenere conferma a quanto interiormente aveva collegato. […] Capelli ed occhi nel colore parevano baciarsi. La chioma era di quel castano che comprende anche sfumature di colore più chiaro; sotto il sole di quel mattino quella capigliatura si mostrava in dorature ondulate. La fronte era stretta, folte le sopracciglia, e ben proteggevano i grandi occhi nei quali si poteva leggere bontà e disincanto: prove d’amicizia, dunque, e sentimento della transitorietà. Pure, vi si avvistava quella passione per le opere e, quotidianamente, per le azioni nitide, quelle che lasciano scappare di bocca, e non soltanto all’amico, frasi d’uno stupore favorevole. Il naso era diritto ed esso risultava una ulteriore precisione nell’armonia del volto: in chi si confina nel tormento della riflessione, una offesa parrebbe un’asimmetria, una imperfezione ossea di arcata, di setto, di zigomo; e ancora, delle gibbosità sulla pelle. Una barba biondiccia, compatta, che arrivava a lambire gli zigomi, definiva compiutamente quel profilo da moneta sul retro della quale non sarebbe risultato un eccesso vedere incise le parole providentia deorum. Era alto quel ventenne che passeggiava dinanzi alla Curia, alto e di passo composto, come avviene spontaneamente a colui che s’avverte nitido nelle misure, consapevole d’aver avuto il favore degli dèi. Aveva nome Rutilio Namaziano quel giovane che passeggiava inquieto dinanzi alla Curia. Egli proveniva dalla Gallia Narbonese e, nell’Urbe, aveva dimora all’Esquilino, a poca distanza dagli Orti di Mecenate.

In parte per aver appreso che è proprio il cristianesimo la religione cara al fido servitore Lelio, Rutilio prende a interessarvisi, e ad avvertire come problematica la sovrapposizione all’antico tessuto della civiltà da lui venerata (p. 203): A colui che avesse avuto come privilegio discendere nell’animo di quel giovane, ebbene, nitida sarebbe apparsa in quel mattino una cruda rappresentazione: chi tra pagani e cristiani poteva affermare d’essere dalla parte del giusto? Ecco l’essenza del controllato smarrimento di Rutilio Namaziano, lì, al Foro, quel mattino, il 4 giugno del 392. A momenti egli cedeva al fascino di quella salvezza così a portata di mano, ma quando con lo sguardo raggiungeva le intensità degli archi di trionfo, riconosceva che il suo equilibrio spirituale gli

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proveniva dalla quotidiana ricognizione sugli dèi. E poi erano stati proprio gli dèi a proteggere Roma e ad innalzarla sul mondo. Eppure l’inazione dei cristiani stupiva favorevolmente Rutilio Namaziano: quel loro donarsi totalmente agli altri, quel riunirsi in case per il culto o anche nelle chiese, quel lieve sorriso che altro non era se non l’esatta rappresentazione della certa salvezza, quel rappresentare con le loro azioni un grande mosaico, tutto questo provocava speranza (è la parola giusta? Rutilio avvertiva fastidio a pronunciarla) nell’animo del giovane.

Come Acitelli, questo suo Rutilio è un ‘conservatore’: un uomo proiettato all’ascolto commosso di ciò che è presente e alla salvazione di ciò che è passato. Lo si nota, per esempio, nell’attività di piccolo collezionista di reliquie che accomuna i due scrittori. In questo, Acitelli presta a Rutilio un frammento delle minime avventure esistenziali da lui stesso esperite con i suoi amici (p. 204): Uomini, azioni, profili, oggetti. Tutto questo si dispiegava nella mente di Rutilio Namaziano come un lungo racconto. Collezionava dolore oltre che monete, corniole e cammei. Il servo Lelio gli aveva insegnato in quali punti del Tevere porsi per recuperare monete del passato; d’estate, quando il livello del fiume calava e le sponde si facevano sabbiose, era facile con un setaccio, di quelli usati per filtrare la farina, recuperare qualcosa, molto dei secoli passati. Ed era stato proprio Lelio ad accompagnarlo su quell’isolotto che ad un certo punto interrompeva il lento discendere del Tevere. S’erano disposti proprio sulle sponde sabbiose e avevano atteso… il fiume soleva restituire quanto doveva essere salvato. Era forse scritto da qualche parte che degli uomini avrebbero dovuto dedicarsi ad un’opera simile. Ma se per le due monete del tempo di Nerone avevano dovuto attendere un paio d’ore, loro grande gioia era stata all’inizio scovare, tra la sabbia e quei distinti granuli di brecciolino, una decina di corniole, incise di Marte, Diana, Zeus. Con gli anni le monete e le corniole recuperate erano divenute molto numerose e Rutilio Namaziano le aveva adagiate su vassoi che aveva avuto cura di rivestire con pezzi di stoffa pregiata, una volta d’orlo impeccabile, tratti da sue vecchie tuniche. Di notte, se adagiava quei vassoi su un tavolo nel vasto atrio della sua casa, un brivido intenso lo coglieva con tutta quella storia di Roma riassunta in monete e corniole. Nelle notti di luna, quando nessuna nuvola offuscava l’immenso buio del cielo, il luccichio

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delle monete e la discrezione opaca delle corniole, i cui simboli erano al sicuro, altro non era se non una lunga sequenza di vite e di speranze.

Così, l’attenzione alle cose frutta qualche visita del giovane aristocratico alle tombe dei martiri, e addirittura qualche verso che ne registra le emozioni; sebbene poi il conservatore tradizionalista finisca per avvertire quelle creazioni poetiche come una novità troppo pericolosa (pp. 203 s.): Molte mattine egli le aveva ‘sprecate’ proprio inoltrandosi verso quei luoghi fuori le mura dove sapeva le tombe dei martiri. S’era però sempre tenuto a distanza e soltanto in un’occasione era disceso nel gelo della terra ad odorare l’umido e il trapasso, rimanendo stupito per i versi composti sul marmo accanto alle tombe dei martiri. Dopo tali visite, nella quiete della sua dimora, aveva pure composto dei versi, ma subito aveva avvertito nell’animo come un senso di colpa per quanto scritto: quei versi ponevano in risalto una quotidiana devozione e la serenità di sguardo dei cristiani, all’uscita dai tituli, dalle tombe dei martiri. Aveva dapprima gioito per il nitore di quella composizione ma poi, sollevando lo sguardo, s’era subito alzato ed era finito nel peristilio, e poi fuori, a vedere Roma. Il tramonto lo aveva reso melanconico e lui s’era ripromesso che da quel momento in avanti non sarebbe stato più indulgente con i cristiani e, per di più, non ne avrebbe più scritto. Era una minaccia per Roma quella devozione ostinata dei cristiani e l’Urbe sicuramente aveva bisogno d’altro per mantenere il dominio sul mondo.

Tuttavia, ancora il conflitto di religioni (e – come si direbbe oggi – di civiltà107) non sembra drammatico. Manca ancora qualche tempo al radicalizzarsi dello scontro fra aristocratici ‘pagani’ di Roma e truppe imperiali del cristiano Teodosio, 107 Fortunatamente ci pensa almeno la ‘satira politica’ a stigmatizzare il tritume delle formule (e dei loro contenuti) che ci affliggono lungo i giorni; così non posso trattenermi dal sottrarre all’usa e getta dei quotidiani una vignetta a firma Ellekappa, apparsa su «La Repubblica» del 21 novembre 2003 (a proposito degli attentati di Alkaeda a Istambul). Due personaggi conversano: «È praticamente un miracolo» «Siamo arrivati a uno scontro tra due civiltà senza averne neanche una».

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per come culminerà nella sconfitta dei primi alla battaglia del Frigido, il 6 settembre 394. Così Rutilio, come altri passanti, si può godere il bel sole di una città splendente e pacifica, ‘specchiandosi’ in una moneta di Gallieno, senza prevedere (forse) che in futuro il suo viso «da imperatore» desterà escursioni narrative e cinematografiche (pp. 206 s.): Quel mattino del 4 giugno del 392 Rutilio Namaziano rifletteva su tutte queste cose e quando il suo animo volle concedergli una tregua da tutti questi pensieri, egli, al pari di Proculo, Narsete e Rufo provò per la vita un sentimento di bene come mai gli era capitato di avvertire. Nella mano destra stringeva una moneta effigiata con l’imperatore Gallieno. L’aveva acquistata dal siriano Trasillo una notte. Ogni tanto fissava quel profilo e sorridendo si sussurrava: «Ma il mio viso è identico al suo. Un viso proprio da imperatore…».

e) Il ‘ritorno’ del figlio: verso un nuovo racconto rutiliano A volte l’inseguimento fra la vita e i libri si fa serrato: e in quest’ultimo paragrafo dedicato alla prosa desidero delibarne brevemente la poesia, anche a costo di rischiare una deriva troppo spiccata nel diario personale. Mettiamo che sia l’estate del 1998 e che, invitati alle nozze di Luigi Drago, segretario del Liceo Democrito, stiamo entrando nella chiesa di Sant’Aurea a Ostia Antica. D’improvviso ci troviamo di fronte a un frammento di lapide, che reca incise le lettere iniziali di alcuni versi di un carme. Impossibile non commuoversi scoprendo che si tratta «di un frammento della lastra marmorea sulla quale Anicio Auchenio Basso fece incidere nei primi lustri del sec. V un’iscrizione metrica in onore di S. Monica, madre di S. Agostino»108. Quel frammento di pietra fu accanto al corpo di Monica – se pure 108 Cito da Casamassa 1955, p. 271. L’articolo (che ho letto in un volume pervenuto alla Biblioteca della Facoltà di Lettere di Siena fra quelli donati da Ranuccio Bianchi Bandinelli) esordisce: «Sono lieto di comunicare a questa Pontificia Accademia, anche a nome del compianto collega Calza, la recente scoperta…». Guido Calza fu il direttore degli scavi di Ostia Antica, e al suo fianco lavorò l’archeologa Raissa Gourevich Calza (1897-1979), i cui libri pure sono ora alla Biblioteca della nostra Facoltà di Lettere, insigniti di un ex libris disegnato da De Chirico (di cui fu moglie fino al 1930).

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non fu, in qualche momento, il coperchio stesso della sua sepoltura109. E mettiamo che sia l’estate del 1945, e voi siate ragazzini che giocano in un cortile accanto alla chiesa, e decidono di scavare una buca per costruire un loro piccolo marchingegno: sarete voi a scoprire quel frammento. Mettiamo infine che uno studioso di Rutilio, che ha avuto modo di parlarne fra le rovine del porto di Fiumicino e addirittura di rivivere parte di quel viaggio, riceva un giorno qualsiasi, come potrebbe essere, che so, il 23 novembre del 2006, una telefonata presso il suo Dipartimento da parte di un ingegnere di Ostia Antica che si muove con passione sulle tracce passate dei luoghi in cui vive. Ebbene, quel giorno, il ricercatore apprenderà che proprio il signore alla cornetta, proprio l’ingegner Luigi Fanelli, è uno dei «due ragazzi appartenenti all’Associazione giovanile della parrocchia» che «si divertivano a scavare una fossa con il proposito di piantarvi un palo di cemento armato, che doveva servire al gioco del passo volante»110. Ma lo studioso potrebbe non stupirsi, ricordando come da piccolo, a sua volta, e ancora del tutto ignaro dell’agguato rutiliano che l’avrebbe atteso nel futuro, spesso giocasse nel giardino di un condominio adiacente a quello in cui viveva, vale a dire sotto il balcone, e con i figli, di un professore universitario di latino: Italo Lana, il cui Rutilio Namaziano ha lungamente Vd. Casamassa 1955, p. 273, secondo cui la scoperta «è senza dubbio di singolare importanza […] perché ci conserva una vera e autentica reliquia, cioè un frammento del sepolcro di S. Monica, a cui da qualche indizio sembra che la lastra marmorea appartenesse già quando vi fu inciso l’epitaffio. In tal caso proprio su quella lastra di marmo, prima d’imbarcarsi ad Ostia per ritornare in Africa nel 388, Agostino, in atteggiamento di dolore e di preghiera, chinò l’alta fronte che Dio mirò da presso». Sempre a proposito di libri e di vita: la citazione finale è desunta dalla poesia di Carducci La Chiesa di Polenta (vv. 25 s., con riferimento a Dante); cercandola in Rime e ritmi, di cui è il numero xxii, ho fatto ricorso a un libro già appartenuto al grande italianista Mario Fubini, anch’esso confluito fra quelli della Biblioteca di Facoltà (Giosue Carducci, Rime e ritmi, testimonianze, interpretazione, commento di Manara Valgimigli e Giambattista Salinari, Bologna, Zanichelli 1964, p. 174); fra le pagine 172 (aperta dai versi 3 s. «Forse Francesca temprò qui li ardenti/ occhi al sorriso?») e 173 (aperta dai vv. 13 s. «Ombra d’un fiore è la beltà, su cui/ bianca farfalla poesia volteggia») erano stati riposti e conservati – e dovrebbero ancora esservi – alcuni capelli biondi. 110 Cito ancora da Casamassa 1955, p. 271 (un articolo in qualche modo ‘su di lui’, di cui Fanelli non conosceva, fino a quel giorno, l’esistenza). 109

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dominato la bibliografia sul nostro autore, ed è tuttora un importante punto di riferimento (cfr. nota 76). Tutto questo per dire che appare quasi nell’ordine naturale delle cose se adesso, nella nuova città in cui vive, questo professore ha conosciuto un collega che, in quanto cresciuto nell’isola di Capraia – ricordata di sfuggita da Rutilio –, si è imbattuto nell’antico poeta e se n’è innamorato: tanto che ora (in una delle case su cui si affaccia quella dello studioso) sta elaborando un suo vecchio progetto di romanzo, dedicato a Rutilio e alla sua famiglia. Nel momento in cui scrivo queste pagine – l’autunno del 2008 –, e in cui forse lui starà accudendo alle sue dall’altro lato di Via del Rialto, il collega è arrivato al terzo capitolo, e prudentemente non sa se riuscirà a venire a capo della sua opera (in caso negativo, essa resterà, come il De reditu, un frammento). Noi approfittiamo del curioso complesso di favorevoli circostanze per ottenerne qui un’anticipazione – una speranza per quegli appassionati del caso, che sempre contano su una nuova scoperta, o almeno su una nuova invenzione. L’autore ce l’ha gentilmente consentito, e lo ringrazio. Abbiamo dunque a che fare con un professore universitario di zoologia dell’Università di Siena, Folco Giusti, che, in quanto innamorato dell’isola in cui è cresciuto, si è già sperimentato in pagine creative che riguardano la sua Capraia111. Una Premessa racconta come sia germogliata l’idea di rivolgersi a Rutilio. Si comincia con una campagna di scavi, e col ritrovamento di un corpo, il corpo di un uomo d’armi d’inizio V secolo: Nel 1983, la Soprintendenza Archeologica per la Toscana avviava una campagna di scavo nell’isola di Capraia. Oggetto della ricerca, l’area attorno alla antica chiesa di Santa Maria Assunta, situata nella piana alluvionale che si sviluppa alla foce del Vado del Porto e che occupa il margine interno dell’omonima baia, la più grande e più riparata dell’isola, da sempre servita come approdo e, quindi, come porto-rifugio. Risultava che, durante antichi lavori di scasso per l’impianto di vigneti, fossero stati qui rinvenuti il busto di una statua marmorea di Venere bagnante e vari frammenti di bassorilievi, sempre in marmo (oggi di proprietà delle famiglie capraiesi Mojoli e Dussol), attestanti l’esistenza in loco dei resti di una villa maritima

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romana, databile all’età augustea. Tutto lasciava presagire che il complesso fosse stato riutilizzato in epoca successiva (IV-V sec. d.C.) dalle prime comunità cristiane anacoretiche, da quei monaci e sancti servi Dei di cui parlano varie fonti antiche (Orosio, VII, 36,5, 417-418 d.C.; Claudio Rutilio Namaziano, I, 439-442, 415 o 417 d.C.), insediatisi sull’isola già forse a partire dal III sec. d. C., vuoi per sfuggire alle persecuzioni, vuoi per allontanarsi dalla vita mondana delle città romane. La villa e i suoi annessi più volte rimaneggiati nel tempo e, quindi, diruti, sarebbero stati in parte sepolti da materiali di riporto, in parte riutilizzati per la costruzione (XII sec.) delle fondamenta e delle mura perimetrali dell’attuale edificio religioso. Gli scavi hanno confermato l’ipotesi, come è documentato da una nota a stampa della Soprintendenza Archeologica della Toscana (Ducci-Ciampoltrini: 1991). Sul lato orientale della chiesa è stata accertata la presenza di un’area cimiteriale in uso dall’età tardo-antica fino all’età moderna. Qui, tra le altre cose, è stata scoperta una sepoltura maschile ad inumazione, ben conservata, povera, contenente cioè solo uno scheletro con le parti inferiori inserite in un’anfora appositamente tagliata, databile al V sec., e con le parti superiori protette da lastre di pietra. La scoperta, pur suscitando notevoli attese, non è servita a molto: esauriti i finanziamenti, gli scavi sono stati sospesi e tutto è tornato nell’oscurità, risepolto sotto metri di terra. Un tesoro della storia dell’isola, un altro gioiello per arricchirne le attrattive, abbandonato all’incuria della natura e del tempo, abbandonato all’oblio. C’è voluto il caso per sfogliare un’altra pagina di questa storia: nel 1988, durante occasionali lavori per l’interramento di cavi telefonici, sotto il piano della strada che scorre davanti alla chiesa, è venuta alla luce, poco distante dalla prima sepoltura, un’altra tomba ad inumazione, contenente non solo lo scheletro, ma anche un insolito corredo di oggetti: una fibbia per cintura, un’altra più piccola fibbia, una spatha e un coltello. Le due fibbie si sono rivelate pregevoli, in bronzo dorato, decorate con almandini abilmente incastonati. Il coltello in ferro, con lama a un solo taglio, lunga 11,5 cm, mostrava, saldati alle incrostazioni rugginose, i resti di un fodero ligneo. La spatha anch’essa in ferro, lunga in tutto 87 cm, presentava una lama a doppio taglio, lunga 76 cm, larga circa 5 cm. Anche in questo caso, resti lignei attestavano l’esistenza, in origine, di un fodero sprovvisto di salvapunta, ma decorato sull’imboccatura con una lamina di bronzo argentato, decorata a sbalzo.

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L’affioramento di questa antica presenza, ricoverata alla bell’emeglio in un museo di fortuna112, inizia a suscitare rêveries: Poi – ci crederete? – un sogno, mediato, credo, dalle mie insistite fantasticherie: il ritorno all’isola di un sodale di Rutilio, addirittura di un figlio, del quale immaginavo anche il nome: Rufio Rutilio Probo. Un ritorno occasionale o, forse, voluto, da collegare ai ricordi giovanili di questi, quando con il padre aveva abbandonato Roma per ritornare via mare nella patria Gallia Narbonense e, navigando lungo costa, era passato davanti a Capraia? Solo passati, Rutilio e il figlio, restandone lontani, o approdati in Capraia, come ipotizza Alberto Riparbelli nel suo “Aegilon” (Firenze, 1973: 33-34)? […] Nulla si dice nel poema di Rutilio di un figlio, né tanto meno di uno sbarco in Capraia e di un incontro con i tanto disprezzati monaci, ma... ciò non basta a togliere ogni realtà a questi ipotetici fatti […]. Un ritorno all’isola voluto, dicevo, oppure occasionale, conseguente ad un’impresa che avrebbe condotto questo figlio per quei mari?

E l’idea s’incrocia infine con la notizia della vittoria navale riportata sotto l’imperatore Avito in acque corse, e dunque non così lontano dalla Capraia, da una flotta romana guidata da Ricimero su una flottiglia di incursori vandali, nel 456: Si comprenderà la mia nuova folgorazione: quasi impossibile da credere, ma tutto veniva a quadrare con i miei sogni, con le mie precedenti, autonome fantasie. È così che ho deciso di trascrivere anche il resto di quelle fantasie, l’intero insieme che si era via via sviluppato nella mia mente dopo l’incontro con quelle ossa e con quelle preziose armi, fosse mai che anch’esse riproducessero la vera storia di Rufio Rutilio Probo,

Cito ancora dalla Premessa: «Per un po’, dopo il recupero, scheletro e corredo sono stati messi al sicuro nel piccolo museo semi-personale, allestito nella cantina della sua casa al porto dall’Arch. Angelo Boccanera, ispettore onorario per la Capraia della Soprintendenza Archeologica della Toscana. Lì li ho visti, il giorno stesso del mio arrivo in Capraia per le ferie estive di quello stesso anno. Non potevo rimandare nemmeno di un’ora, tanta la curiosità di verificare di persona quanto, nel mio esilio senese, mi era stato anticipato per telefono dagli amici di Capraia. Un’impressione fortissima, quasi una folgorazione, davanti a quelle povere ossa, davanti al mistero di quelle armi in una semplice tomba sotto il sagrato della chiesina dell’Assunta».

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il figlio di Claudio Rutilio Namaziano, tornato una seconda volta a Capraia per restarvi per sempre. Ed è così che, pur nel mio piccolo, ho voluto anche rendere onore a Rutilio, un personaggio nel quale, non appena letto il suo poema, mi sono istintivamente immedesimato e che ho preso ad amare.

Si sviluppa così un’ampia narrazione su Rutilio e suo figlio, Rufio Rutilio Probo, che ha i suoi momenti centrali nel primo passaggio all’isola113, con un’ampia discussione fra Rutilio e i monaci ivi insediati, e nel «ritorno» – il destino è destino – del figlio di Rutilio a Capraia: titolo, a oggi, L’isola dell’ultimo ritorno. Come specimen del racconto offro qui l’incipit, che mentalmente si colloca là dove il De reditu suo doveva terminare, cioè all’approdo in patria: L’acqua si era fatta torbida e gialla, pregna di limo sospeso: la foce dell’Atax in piena doveva essere vicina, finalmente. Borea soffiava violento, ma sotto costa non sollevava onde e la navigazione a vele prudentemente ammainate procedeva comunque veloce con i soli remi. Erano davvero stremati, con le ossa gelate, dopo un intero giorno e l’intera notte trascorsi in mare, a distanza di sicurezza dalla costa e da eventuali scogli sommersi e banchi di sabbia affioranti. Rutilio stava ritto sul ponte, con un’aria indifferente, ma si teneva stretto al corpo un mantello, il più pesante che era riuscito a scovare nelle casse sottocoperta. Doveva dimostrare, lui per primo, che si poteva resistere. Ma, ogni poco, guardava con fare deciso i vogatori, quasi volesse impedire che anche solo pensassero di arrendersi al gelo che bloccava loro le mani e le braccia scoperte. Rufio stava dietro di lui, inginocchiato a riparo del bordo, infa-

È al momento il secondo capitolo, intitolato A Capraria, così introdotto nel finale del primo (intitolato A Narbona): «Dovendo onorare una promessa fatta a Rufio Volusiano, aveva lasciato due navi in attesa nella rada di Populonia agli ordini di Vernio e, con la sua, si era fatto portare da Galbulo all’isola Capraria. Qui avrebbe dovuto cercare un giovane patrizio da poco convertito al Cristianesimo, nipote dello stesso Rufio Volusiano, che risultava vi si fosse ritirato a vivere da cenobita e, nel caso l’avesse trovato, avrebbe dovuto tentare di convincerlo a tornare dai suoi a Roma. L’incontro con i monaci aveva, in parte, risolto il problema – quel giovane si era unito alla comunità di Gorgon – ma… ne aveva creato un altro». Protagonisti del dialogo filosofico-teologico con Rutilio e suo figlio sono i monaci Tommaso e Bonoso (l’abate della comunità).

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gottato in una spessa coperta di lana grezza, con la faccia arrossata, gli occhi costretti a lacrimare dal vento. Tremava – a Roma, un freddo così non l’aveva mai provato nemmeno nel più pieno dell’inverno – ma non riusciva a volgere lo sguardo da terra. Una costa così selvaggia non l’aveva mai incontrata prima, durante tutto quel lungo viaggio. E lì, o almeno lì vicino, il ragazzo sapeva che avrebbe dovuto vivere forse per l’intero resto della sua vita. Un promontorio boscato copriva la vista verso ponente e, quindi, Narbona non si vedeva. Ma la città e il suo porto dovevano essere vicini, forse proprio là dietro. Rutilio ne era sicuro: aveva riconosciuto segni caratteristici dei luoghi: una catena di basse colline regolarmente ondulate, coperte di olivi, seguita alle spalle da un’altra più lontana, più alta catena a ridosso di imponenti montagne con le cime innevate. E il promontorio che continuava a mare in una sequela di scogli, l’ultimo dei quali a mo’ di piramide mozza: barriera formidabile, disastroso inciampo per navi in balia dei soffi potenti dell’Africo. Li aveva ben visti quei monti, quegli scogli, molti anni prima, quando a bordo di una oneraria aveva lasciato Narbona per raggiungere il padre Lacanio a Roma. Un viaggio che coronava un sogno, ma che costava l’infinito dolore di lasciare, forse per sempre, la casa dove era cresciuto, dove sua madre era morta. L’infinito dolore di lasciare i compagni, l’anziana nutrice che l’aveva allevato, i maestri che l’avevano preparato alla vita che il padre aveva progettato per lui. È così che, accanto al timoniere, fino all’ultimo era rimasto sul castello di poppa a guardare la città allontanarsi e svanire, così la costa e i suoi anfratti. Immagini da portarsi dietro, da ricordare per sempre, nell’incertezza della vita in un mondo che si aspettava, anche nei luoghi, tutto diverso. Altrettanto dolore l’accompagnava ora, ma per ragioni inverse. La sua casa di un tempo non era, ora, la più amata: questa era rimasta a Roma, questa sì abbandonata per sempre.

7. Parentesi fra le quinte: Rutilio in palcoscenico Nel 1983 Josif Brodskij scrive Per compiacere un’ombra, uno dei suoi saggi più belli, in cui racconta come si sia imbattuto in Wystan Auden e ripercorre le ragioni di quella elezione che glielo ha fatto identificare come modello. Trattando di Auden, a un certo momento osserva (Brodskij 1987a, p. 114): Nello scrivere queste note mi accorgo che la prima persona singolare drizza la sua odiosa testa con preoccupante frequenza.

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Ma un uomo è ciò che legge; in altri termini, scoprendo questo pronome, scopro anche le tracce lasciate da Auden più che da chiunque altro: l’aberrazione rispecchia semplicemente la misura delle letture che ho dedicato a questo poeta. […] Si è modificati da ciò che si ama, talvolta fino al punto di perdere tutta la propria identità. Non voglio dire che questo sia successo anche a me; cerco soltanto di dire che questi «io» e «me», tanto imbarazzanti per altri versi, sono a loro volta forme di un discorso indiretto che ha per tema Auden.

È in questo spirito che mi accingo a dire qualcosa di un’avventura di Rutilio che mi ha visto anche in parte coinvolto: nell’intervallo di tempo fra il racconto-sceneggiatura di Bondì e Ricci (1980) e il microromanzo della Cardona (1997), Rutilio aveva avuto modo di esercitare il suo fascino in un altro settore, quello del teatro. Una volta di più, la semplice ‘scoperta’ dei suoi versi aveva sollecitato una ri-elaborazione, un tentativo di restituirli a vita evidente, immediata: scopi cui la letteratura ‘rappresentata’ può fare fronte, ovviamente, con diversa incisività rispetto alla lettura personale. Nel 1990, a Grosseto, l’Associazione di Cultura Classica promuoveva con il marchio «Sodales et Fideles» la pubblicazione di una piccola edizione di Rutilio tradotta e annotata da Aldo Mazzolai (1990), destinata soprattutto a una circolazione ‘locale’. Ed era grazie a questa edizione che Francesco Tarsi, un regista grossetano particolarmente sensibile ai tesori della letteratura classica, veniva a conoscenza di Rutilio e della sua vicenda. Accattivato anche dal ricorrere, in quei versi, delle familiari località della Maremma, decise allora di curarne, con la propria compagnia Telème Teatro, una trascrizione scenica, fondata proprio sulla traduzione di Mazzolai. Lo spettacolo, intitolato Il ritorno, presentava brevi inserzioni di testi di Orazio, Ovidio, Giovenale e S. Agostino, e fu messo in scena ‘in anteprima’ nel maggio 1993 in quello splendido e suggestivo scenario che è l’Anfiteatro romano degli Scavi di Roselle. Coronato da successo, vi tornò nel luglio (con prima il giorno 3, alle 19) e fu quindi replicato a Porto Ercole il 16 luglio (alle 21,30)114. Alcuni segmenti dello spettacolo furono poi inseriti anche nel successivo spettacolo-recital di Virginio Gazzolo intitolato Le stanze della seduzione, Scavi di Roselle dall’8 al 21 agosto 1993.

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Fu nella piazza di quest’ultimo luogo rutiliano che ebbi personalmente occasione di assistervi. E la trasposizione non mancava di fascino. Bastava una vela rossa corredata di cordami a mutare la raccolta Piazza Santa Barbara nello spazio onirico della piccola flottiglia di Rutilio. La voce del poeta veniva rilevata a turno da più attori, a seconda delle occasioni, e commentata dalla partitura gestuale di sobri interventi di danza. Riporto qui di seguito la locandina di questa prima versione: PRIMA EDIZIONE Telème Teatro, in collaborazione con l’Associazione Italiana di Cultura Classica di Grosseto e il patrocinio di: Comune di Grosseto, Regione Toscana, Soprintendenza Archeologica, Ministero Turismo e Spettacolo Il ritorno di Claudio Rutilio Namaziano (con testi di Giovenale, S. Agostino, Orazio, Ovidio) Riduzione e regia di Francesco Tarsi, sulla base della traduzione di Aldo Mazzolai Interpreti: Marco Belocchi [il ‘principale’ Rutilio Namaziano], Michele Fabbri, Tiziana Foresti, Lodovico Miari Danzatori: Francesca Sebastiani, Franco Crolli Coreografie: Angela Scrilli Scene: Nadia Nesi Musiche: Giuliano Matozzi (percussioni) Anteprima: Scavi di Roselle, nel maggio 1993; prima: 3 luglio 1993, ore 19; fra le repliche: piazza S. Barbara di Porto Ercole, 16 luglio 1993, 21,30.

I positivi riscontri di pubblico e di critica fecero sì che Tarsi progettasse una seconda edizione dello spettacolo, valendosi in questo caso della mia traduzione einaudiana e di una mia collaborazione per alcuni suggerimenti su una rosa di testi ‘omogenei’ con cui arricchire lo spaccato di tarda antichità che l’adattamento scenico avrebbe potuto offrire115. L’esecuzione Vd. anche il volumetto di Sonia Fornari (1995, pp. 19 s.; e la relativa mia prefazione). In precedenza, per il progetto, poi sfumato, di un’opera lirica in cui mi aveva coinvolto un musicista romano avevo preparato un libretto, intitolato La

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quasi ‘in forma di concerto’ del diario rutiliano risultava così qua e là ‘intercettata’ da un controcanto che apriva su tratti da Rutilio intenzionalmente occultati, o rispondeva – come nel caso dei giudei o dei monaci – a sue specifiche aggressioni. In questa forma il testo debuttò alla «Sapienza» di Roma, nell’Aula del Museo dei Gessi della Facoltà di Lettere, il 21 febbraio 1995, e fu poi nuovamente rappresentato, fra le altre occasioni, all’Università di Siena nel quadro dell’attività didattica del corso di Letteratura Latina. Questa la sua ‘locandina’: SECONDA EDIZIONE Telème Teatro, Stagione teatrale 1994-95, in collaborazione con Dipartimento di Filologia Greca e Latina Università degli Studi «La Sapienza» di Roma, Laboratorio Teatrale U.O. del centro interdipartimentale di antropologia del mondo antico, Università degli studi di Siena; Associazione Italiana di Cultura Classica di Grosseto, con il patrocinio del Comune di Grosseto. Il ritorno di Claudio Rutilio Namaziano nella versione di Alessandro Fo con testi di Flavio Giuseppe, Ammiano Marcellino, San Girolamo, Sant’Agostino, Massimiano, Gabriele D’Annunzio, Valerio Magrelli, scelti da Alessandro Fo e Francesco Tarsi Interpreti: Giorgio Tausani (Rutilio Namaziano), Lorena Benatti, Giuseppe Marini, Patrizia Valentini, con l’amichevole partecipazione di Virginio Gazzolo (voce fuori campo), Elementi di scena e costumi di Nadia Nesi Musiche: Cesare Bindi, Gustav Mahler, Canto Gregoriano Fonica e luci: Fiorenzo Tarsi Segreteria: Nicoletta Grazzini Regia: Francesco Tarsi. Università degli Studi di Roma «La Sapienza» – Facoltà di Lettere Aula del Museo dei Gessi 21 febbraio 1995 – ore 17

riva, che adattava in tre quadri ‘momenti’ tardolatini variamente riconducibili al litorale di Ostia: la passeggiata filosofica di cui nell’Octavius di Minucio Felice, il caso di Rutilio e l’episodio della cosiddetta ‘estasi di Ostia’ delle Confessiones di S. Agostino.

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Per attenuare l’imbarazzo di dover parlare di un lavoro che mi vide parte in causa, mi limiterò a trascrivere qui di seguito qualche tratto del programma di sala. La breve prosa firmata dal regista Francesco Tarsi vi ripercorreva la traccia di una passione e il senso dell’operazione teatrale, in un serrato confronto fra l’epoca di transizione in cui visse Rutilio e certi disagi di noi moderni, valorizzando, degli uomini tardoantichi, un’immagine di quasi titanica solitudine: L’idea della ‘messa in scena’ di un testo di poesia per me è sempre legata a qualche forte emozione, a un ricordo persistente, a nostalgie o intense visioni presenti o futuribili. Così è successo per “Il Ritorno” di Claudio Rutilio Namaziano, ultimo poeta pagano, aristocratico invitto, che nel 417 d.C. crede ancora in una Roma invincibile ed eterna. Il suo poema, fra la primavera e l’estate del 1993, è stato recitato a più voci, risonanti in luoghi non lontani dal suo passaggio: Anfiteatro romano di Roselle e Porto Ercole. Oggi è difficile trovare sintonie con le voci della classicità; io ci ho provato con gli occhi rivolti al mare e, rovesciando la prospettiva, ho contemplato intatti edifici e geometriche città, strade ordinate e teatri ancora risonanti di applausi. Era quella la Roma che Rutilio portava nel suo cuore e nel suo animo di autentico ‘romano’ della Gallia. Attraverso il sagace lavoro del traduttore, Aldo Mazzolai, cercai di trasmettere, al pubblico, in quei primi eventi, le mie emozioni. […] Nacque […] il proposito di un secondo viaggio sulla nave di Rutilio […]. Così riprese il viaggio e accanto a Rutilio comparvero altri autori che, seguendo la sua nave, promisero di condurci in plaghe ancora sconosciute del mare grande e profondo della poesia. È strano davvero come questo periodo del tardo impero romano ci tramandi una testimonianza quasi eroica della solitudine: sì la solitudine del mondo pagano ormai abbandonato e vuoto; ma anche quella dei personaggi emergenti del mondo cristiano, i quali alla ricerca del nuovo frequentavano i territori più remoti. Nella nuova messa in scena […] ho voluto rappresentare per nuovi spettatori un quadro particolarmente luminoso di quell’epoca, per mostrare loro come il nostro presente ritrovi in quel passato la propria immagine. Ed è forse proprio nella poesia lo specchio più fedele della realtà umana; è forse proprio nella poesia l’unico possibile riscatto di questa nostra umanità, minacciata dalla disperazione e dal nulla. E l’immagine ricca di contrasti che Rutilio ci trasmette è tipica

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di un momento di passaggio, in cui, allora come oggi, elementi realmente innovativi si confondono e si confrontano con quelli vecchi che tentano l’ultima resistenza. Da questo deriva anche la difficoltà di molti di noi a vivere senza principi e senza obiettivi certi. E proprio in questo invece Rutilio Namaziano non segue la maggioranza degli uomini, perché la sua fede nell’eternità di Roma e nella sua magnanimità rende il suo animo forte e temperato a tutte le avversità, che noi sappiamo vincenti e definitive contro chi, come lui, con coerenza e dignità vi si oppone.

Può forse rispondere a eventuali curiosità qualche breve ragguaglio sulle modalità con cui avevamo accostato il viaggio rutiliano agli altri testi antichi e moderni (per come, ancora, questa volta per mia mano, veniva appuntato nel pieghevole distribuito agli spettatori): […] Sarà per via della cornice costituita dal viaggio, un frammento d’esperienza che sempre si presta a sollevarsi a simbolo. O per la delicata e sobria considerazione rutiliana degli inconcussi spettacoli della natura: marine, albe, tramonti. Saranno forse le eco universali che da un osservatorio tanto lontano ci giungono: ragioni di affetto, leggi di vita e di morte per gli uomini come per le città ed i regni. O saranno tutti insieme questi raggi che, come in un suo cielo corrucciato, filtrano da una nube di polvere e lontane rovine, ma il diario di Rutilio riesce ancora ad imporsi a un’attenzione sensibile. E addirittura reclama oggi uno spazio teatrale, perché ciò ch’è stato una volta sia vivo per sempre. A questa urgenza, che poco notata premeva dai distici rutiliani, ha dato risposta Francesco Tarsi, con lo spettacolo Il Ritorno che ha tratto dal De reditu suo nell’estate del ’93. […] Forte del successo meritato da quella prima esperienza, Tarsi ha voluto tornare sul viaggio rutiliano, modificarne la riduzione drammaturgica e arricchirlo di un’ulteriore dimensione: il riscontro di altre voci parallele della letteratura tardolatina, utili a costruire una sorta di controcanto rispetto alle posizioni ferme, talora risentite, messe in campo dall’autore con tutta la convinzione che era sua e degli amici della sua cerchia. Ecco ad esempio le varie idealizzazioni rutiliane di aristocratici, volte ad esprimere un’immagine di smaltata compattezza da cui nulla trapeli degli aspetti più bassi della vita – la vita di quel ceto, ma per lui collimava con la vita tout court: si trattava, per usare una frase dell’oratore Simmaco [epist. I 52,1], della «parte migliore del genere umano». Il nuovo Ritorno di Tarsi contrappone loro

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la viva testimonianza di Ammiano Marcellino, che invece proprio di quegli aspetti più bassi fece personale esperienza verso la fine del IV secolo, e li immortalò in due celebri digressioni delle sue Storie. L’assenza in Rutilio di personaggi femminili e di qualsiasi attenzione all’amore è ‘compensata’ con un inserto dalle Elegie di Massimiano, che nel VI secolo si pose a osservare l’eros da una posizione doppiamente marginale: quella di un uomo anziano, che avverte forte il nuovo monito alla castità. Quando Rutilio leva la voce contro i monaci, trova qui a rispondergli una coeva testimonianza di San Girolamo, che ricorda la sua trascorsa vita nel deserto con una terminologia carceraria che si allinea in pieno – sebbene con altre valenze – a quella del De reditu suo. E allorché la leva contro i Giudei, lo spettacolo di Tarsi trova modo di opporgli una voce del campo avverso, recuperandola più indietro, da un’operetta apologetica (il Contro Apione) che Giuseppe Flavio scrisse nel I secolo d.C. Le nostalgie consumate da Rutilio sulla spiaggia di Ostia trovano la loro eco naturale nell’estasi metafisica che, pochi anni prima che il poeta salpi, accomuna Sant’Agostino e sua madre Monica su quella stessa spiaggia, litorale propizio ai cristalli della letteratura. Lo avesse concesso il tempo, la fantasia avrebbe potuto aprire qui un varco alle passeggiate dell’erudito Aulo Gellio, al dialogo apologetico Octavius in cui Minucio Felice narra una delle più lontane conversioni di un pagano, giù giù fino al Viaggetto di uno fra i nostri migliori poeti di oggi, Valerio Magrelli, e all’episodio del film Caro Diario in cui forse Nanni Moretti da quel breve racconto dell’amico poeta ha preso uno spunto116.

116 In quest’ultimo caso, l’idea originaria era appunto quella di aprire a questo punto una parentesi in cui si proiettasse la sequenza di Caro Diario in cui Nanni Moretti, lungo il litorale, raggiunge in Vespa il povero monumento a Pier Paolo Pasolini sul luogo dove questi fu ucciso, con parallela e sovrapposta recitazione del passo della breve prosa di Magrelli pubblicata dalle Edizioni L’Obliquo (Il viaggetto, Brescia, 1991) che riferisce proprio di un’analoga peregrinazione fino a quel monumento. Difficoltà pratiche di varia natura costrinsero ad accantonare il progetto. Vd. in particolare questo passo di Magrelli (pp. 15 s.): «Sul piccolo deserto che da Ostia arriva alla fiumara soffia il vento delle steppe ungheresi. L’ipocrita intestazione decisa dal Comune dice Parco Pasolini, ma se questo è un parco, il Tevere è potabile. Proseguendo lungo la costa, si arriva al monumento del poeta. La sua collocazione è raccapricciante. Solo un regista visionario avrebbe potuto concepire una simile scelta. Sul luogo della morte, tra una porta di calcio e un mondezzaio, sta una composizione in pietra tanto sgualcita e informe da sembrare una di quelle gomme americane messe sotto i braccioli dei cinematografi. Alta sì e no un metro e mezzo, è un portachiavi, più che una scultura. Rispetto all’efferato omicidio che si svolse qui sopra, rispetto al sangue, rispetto

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Nel compatto sistema della poesia, nessun punto è mai troppo distante da un altro punto qualsiasi preso a caso sull’immediata superficie dei giorni. A confermarlo vengono due stralci dall’Alcyone di Gabriele D’Annunzio, quando Rutilio sosta a Porto Ercole, e quando il suo diario sfuma dinnanzi all’“Alpe di Luni/ sublime”. […] Chi avrebbe mai immaginato, in un’epoca tanto distratta, che un testo così appartato come il De reditu suo, monumento ridotto a un mutilo torso dall’erosione del tempo, avrebbe potuto scendere in scena con tanta ricchezza di eco. Lo sciabordio del mare increspato, così sommesso e mite, è tornato a coprire per un breve momento le onde ‘sonore’ impastate dall’oblio di una verità tuttora importante: che prendere la parola è un gesto non banale. E con la grazia di una scelta di pace, di silenzioso raccoglimento, questo Ritorno al passato lascia che si sfilino dalle maglie dei secoli pochi timbri essenziali. La compostezza, il rigore, il rilievo – per una volta – della parola pura, sul palco di un discorso-spettacolo.

Ma i progetti di Francesco Tarsi sul poemetto ancora non si sono esauriti; e, nell’attesa di una nuova edizione del suo spettacolo, nell’estate del 2008 ne ha proposto una rappresentazione ‘in forma di concerto’ fra le rovine di Cosa117. Di taglio ancora differente, un’ulteriore piccola ‘serata rutiliana’ sollecitata dal prof. Enrico Zanini, archeologo dell’Università di Siena e in particolare studioso e appassionato di Rutilio: da tempo nello staff direttivo degli scavi a Populonia, ha successivamente intrapreso nuovi scavi in una località che ha qualche chance di rientrare nell’orbita del viaggio ruai colpi ciechi, che c’entra questo ninnolo? Quale nesso lo unisce alla morte di un uomo? Forse nemmeno quello strofinaccio di bronzo buttato sul Lungotevere per commemorare l’assassinio di Matteotti arriva a un tale grado di insensatezza. A parte ciò, l’indifferenza e la sporcizia che circondano il punto dell’uccisione restano oltraggiose. Qui, veramente Ostia finisce per convalidare la falsa etimologia del suo nome: non bocca, ma vittima, “hostiam”». 117 Il Ritorno di Rutilio Namaziano, nella versione di Alessandro Fo, con testi di Aldo Mazzolai, Sant’Agostino, Gabriele D’Annunzio, Massimiano, interpreti Marco Belocchi, Giacomo Rosselli, Alessia Oteri, Elisabetta Ventura, regia di Francesco Tarsi, dal 17 al 24 agosto 2008 alle ore 18 Antica Città di Cosa-Ansedonia (Orbetello); Ass. Culturale Polis 2001, Telème Teatro, Comune di Orbetello. Un’ulteriore esecuzione di questa sorta di oratorio si è avuta alla grande tomba monumentale Etrusca Ildebranda di Sovana il 23 agosto 2008, alle 21.

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tiliano, il sito del Vignale (nel comune di Piombino)118. Organizzando il convegno senese Late Antique Archaeology 2004: Technology in Transition – AD 300-650 (Collegio Santa Chiara, 4-5 giugno 2004), Zanini ha pensato di offrire agli intervenuti una performance che coniugasse la voce tardoantica di Rutilio con l’esposizione di opere d’arte contemporanea in mostra, in quel periodo, al Palazzo delle Papesse, allora Centro Arte Contemporanea di Siena. La sera del 4 giugno, il viaggio di Rutilio è tornato così a snodarsi lungo il Centro Arte Contemporanea, combinandosi, ora in italiano ora in latino, alle situazioni artistiche di volta in volta configurate dalle sale in cui era in corso la mostra Zero 1958-1968 tra Germania e Italia119. Il direttore delle ‘Papesse’ Marco Pierini faceva da guida, mentre al giovane studioso Paolo Grazzi e a me era affidata la lettura dei testi, secondo la partitura d’interazione fra le due lontane forme d’arte che avevo in precedenza concordato con Zanini, la sua collaboratrice Elisabetta Giorgi, e Marco Pierini stesso120. Nella sua referenzialità, il titolo della serata sottolineava una Vd. Patera-Zanini 2003, particolarmente a p. 301 l’ipotesi formulata da Luisa Dallai, secondo cui la mansio ricostruibile per questo sito potrebbe essere addirittura la famosa statio amoena di Rutilio a Falesia (Rut. I 371 ss.). 119 La mostra – 29 maggio-19 settembre 2004 – del ‘Gruppo ZERO’ e dintorni (il cui catalogo, a cura di Marco Meneguzzo e Stephan von Wiese è edito da Silvana Editoriale per il Palazzo delle Papesse di Siena: Zero 2004), si è inaugurata con un singolare sky event in Piazza del Campo: il pomeriggio del 29 maggio, Otto Piene vi ha gonfiato e fatto volare, coadiuvato da un nutrito staff di giovani volontari, un colossale cavallo rosso gonfiato ad elio (RRED HHORSE, vd. Zero 2004, 155). 120 Questa la combinazione fra i testi e le opere d’arte (i rinvii sono al catalogo ricordato alla nota precedente): Prima tappa – Jean Tinguely, La spirale, 1965: lettura delle ragioni della partenza (Rut. I 1-12, 19-34, 35-45; in traduzione italiana). Seconda tappa – Günther Uecker, New York dancer I, 1965 (Zero 2004, pp. 166 e 147); lettura, in latino e italiano, della tappa di Populonia (I 399-412). Terza tappa – Opere varie di Grazia Varisco (1962 e 1963), Alberto Biasi (19621965) e Nanda Vigo (1962): catalogo Zero 2004, pp. 125-128); lettura, in italiano, di parte della tappa di Falesia 371-386. Quarta tappa – Heinz Mack, Die Gläserne Kette, 2002 (Zero 2004, pp. 152-153): ingresso nel tratto di Volterra e problema di evitare le secche (I 453-465, in italiano); poi Günther Uecker, Fünf Lichtscheiben-Kosmische Vision (Zero 2004, pp. 116117): lettura in italiano della visita alle saline (I 475-490). Quinta tappa – Lichtkubus (cfr. Lichtraum, 1962-2004 di Otto Piene: Zero 2004, pp. 120-122): una stanza in cui le pareti, traforate, fanno trapelare punti di luce che evocano un cielo stellato. In italiano, lettura dell’attesa in Portus (I 183-204). Sesta tappa – Gianni Colombo, Spazio elastico, 1967 (Zero 2004, p. 150). Una stanza buia con gabbia di fili bianchi, il tutto illuminato a ultravioletti, per cui i cubi di 118

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volta di più il peculiare destino di questo poeta minore, nella sua (direbbe Marzio Pieri) insistenza a non inesistere: Ritorno tra i contemporanei. Di un’ulteriore rivisitazione del De reditu su un palcoscenico scolastico, con il corredo di ‘interpretazioni’ scritte da parte dei protagonisti, ci occuperemo più avanti (al § 9), dopo essere passati per le sale cinematografiche. 8. Dalla letteratura al cinema: Rutilio sul grande schermo Nel già ricordato saggio del 1983 Per compiacere un’ombra, Brodskij narra come il suo incontro con Auden maturasse già quand’egli viveva ancora in Russia, grazie a certe antologie dotate delle fotografie dei singoli autori: «e queste fotografie accendevano l’immaginazione non meno dei versi stessi. Per ore e ore me ne stavo a studiare un minuscolo riquadro in bianco e nero con la fisionomia di questo o quel poeta, cercando di figurarmi che tipo di persona poteva essere, cercando di dargli vita, di scoprire un rapporto tra la faccia e i versi afferrati a metà o per un terzo» (Brodskij 1987a, pp. 115 s.). Brodskij narra così il ‘primo impatto’ con il volto di Auden, e un secondo, nell’inverno del ’68 o del ’69, su di un’antologia donatagli da Nadežda Jakovlevna Mandel’štam (p. 119): «ciò che mi fissava dalla pagina era l’equivalente facciale di un distico, di una verità che è meglio conoscere a memoria». Ne prende corpo una divagazione meditativa sul volto dei poeti, di cui è bello qui tenere un certo conto (cito da p. 122):

fili bianchi hanno suggestive parvenze spettrali; lettura in italiano dell’attendamento di fortuna alla foce dell’Ombrone (I 337-348). Settima tappa – Sull’incredibile altana del palazzo, con splendido panorama su tutta Siena e la campagna circostante: Günther Uecker, Verheissungen-Verletzungen, 2004. Si trattava di una enorme tela bianca a mo’ di vela di nave che tagliava in due l’altana, in senso verticale rispetto a come vi si accede (cioè, chi entrasse si trovava il ‘verso’ del velario a correre quale parete alla sua sinistra), realizzata apposta per la mostra senese (bozzetto in Zero 2004, p. 157). Sul ‘recto’, il telone è stato dipinto con parole tratte dagli affreschi del palazzo comunale (Allegoria del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti). Lettura in latino e in italiano di alcuni passi dell’‘inno a Roma’ (I 46-66, 93-98, 111-114, 149-164).

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Strane cose, le facce dei poeti. In teoria, l’aspetto di uno scrittore non dovrebbe avere la minima importanza per i suoi lettori: il leggere non è un’attività narcisistica, e nemmeno lo scrivere; ma nel momento in cui si conosce e si apprezza una quantità sufficiente di versi di un certo autore, comincia la curiosità e ci s’interroga sulla sua apparenza fisica. Tutto questo, presumibilmente, ha a che fare col sospetto che amare un’opera d’arte significhi riconoscere la verità, o la misura di verità, che l’arte esprime. Insicuri per natura, vogliamo vedere l’artista (che identifichiamo con la sua opera) in modo che la prossima volta ci sia possibile sapere che faccia ha realmente la verità. Soltanto gli scrittori dell’antichità sfuggono a questa indagine, ed è per questo, in parte, che sono riguardati come classici; e le loro generiche fisionomie di marmo che costellano le nicchie delle biblioteche sono in diretta relazione col valore assoluto, archetipo, della loro opera. Ma quando leggi …To visit The grave of a friend, to make an ugly scene, To count the loves one has grown out of, Is not nice, but to chirp like a tearless bird, As though no one dies in particular

And gossip were never true, unthinkable…



[ …Visitare la tomba di un amico, far scenate, conteggiare gli amori superati, non è bello, ma cinguettare come un uccello senza lacrime, quasi che non morisse mai nessuno di preciso



e non fossero mai vere le chiacchiere, impensabile…]

cominci a sentire che dietro questi versi non sta un autore di carne e ossa, biondo, bruno, pallido, olivastro, rugoso o glabro, bensì la vita stessa: ed ecco la cosa che ti piacerebbe incontrare; la cosa con cui ti piacerebbe stabilire una prossimità umana. Dietro questo desiderio non c’è vanità, ma una certa fisica umana che spinge una minuscola particella verso una grossa calamita, anche se alla fine ti può succedere di far eco alle parole di Auden: «Ho conosciuto tre grandi poeti, tutti e tre gran figli di puttana». Io: «Chi?». Lui: «Yeats, Frost, Bert Brecht». (Be’, per Brecht aveva torto: Brecht non era un grande poeta).

Alla luce di queste considerazioni si comprendono ancora meglio le poetiche proiezioni verso le fisionomie di Orazio,

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Ovidio, Properzio e Virgilio che si leggono nella Lettera a Orazio – «Ah, che cosa non darei per sapere che faccia avevate voi quattro! Per dare un volto alla lirica, e magari anche all’epica» –, con il venosino somigliante «probabilmente a Eugenio Montale o al Charlie Chaplin degli anni di Un re a New York» e Virgilio «interpretato da Anthony Perkins»121. Questi enunciati che collegano i volti alle verità e trattano la «fisica umana» della «grossa calamita» e delle «minuscole particelle» conoscono, nella Lettera a Orazio, un importante corollario (Brodskij 1999, p. 61): […] tu sai benissimo che già in passato ti ho scritto, per così dire. Sì, perché tutto quello che io ho scritto è, a rigore, indirizzato a te: a te personalmente e a tutti gli altri del tuo gruppo. Perché quando si scrivono versi, l’uditorio più immediato non sono i propri contemporanei – o i posteri, figuriamoci – bensì i prede-

Brodskij 1999, pp. 53-55: «Ah, che cosa non darei per sapere che faccia avevate voi quattro! Per dare un volto alla lirica, e magari anche all’epica. Mi accontenterei di un mosaico, anche se preferirei un affresco. In mancanza di meglio ripiegherei sui marmi, che però hanno il difetto di essere troppo generici – col marmo tutti diventano biondi – e troppo opinabili. Per un certo verso tu sei quello che mi dà meno da pensare, cioè sei il più facile da immaginare. Già, perché se è vero ciò che Svetonio ci dice del tuo aspetto fisico – ci sarà pure qualcosa di vero nel suo racconto! – e se eri piccolo e corpulento, allora somigliavi probabilmente a Eugenio Montale o al Charlie Chaplin degli anni di Un re a New York. Quello al quale non riesco assolutamente a dare una faccia è Ovidio. Perfino con Properzio è più facile: smunto, malaticcio, ossessionato da una testa di capelli rossi altrettanto smunta e malaticcia, è un tipo immaginabile. Un incrocio, diciamo, tra William Powell e Zbigniew Cybulski. Ma non Ovidio, anche se campò più a lungo di tutti voi. Più a lungo, sì, ma non – ahimè – in paesi dove qualcuno scolpiva ritratti. O componeva mosaici. O pensava agli affreschi. E se qualcosa del genere fu mai fatto prima che il tuo amato Augusto lo sbattesse fuori da Roma, non c’è dubbio che venne distrutto. Tanto per non offendere le nobili sensibilità. […] No, non sono mai riuscito a evocare la faccia di Nasone. A volte lo vedo interpretato da James Mason – con un occhio bruno grondante di dolore e diffidenza; altre volte, però, è lo sguardo grigio, invernale, di Paul Newman. Ma Nasone, del resto, era un tipo proteiforme, con Giano al posto d’onore, senza dubbio, a presiedere i suoi lari. Andavate d’accordo, voi due, o la differenza di età era troppo forte? Ventidue anni, dopo tutto. Tu devi averlo conosciuto, tramite Mecenate, se non altro. Oppure lo giudicavi troppo frivolo e già vedevi quello che doveva succedergli? C’era cattivo sangue tra te e lui? Lui magari ti avrà giudicato un tipo ligio al potere fino al ridicolo, uno strano self-made man passato nelle file dei conservatori. E lui era per te un punk, un bellimbusto privilegiato fin dalla nascita, eccetera eccetera. Ben diverso da te e da Virgilio – interpretato da Anthony Perkins – che eravate figli della classe operaia, tutti e due, con solo cinque anni di differenza». 121

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cessori. Quelli che ci hanno dato una lingua, quelli che ci hanno dato certe forme.

Si scrive, dunque, e – più generalmente – si crea, per compiacere ombre di predecessori, per farsi apprezzare innanzitutto da loro nel momento stesso in cui ci si inscrive nella loro linea e si offre un tributo alla loro grandezza. Alle particelle attratte dalla calamita-Rutilio, Claudio Bondì122 offre con il suo film De reditu-Il ritorno una precisa immagi122 Nato a Roma il 1° marzo 1944, Claudio Bondì si è laureato in lettere alla «Sapienza» di Roma nel 1969, con una tesi sulla musica nel cinema di Fellini, ed in seguito è stato docente di Letteratura Italiana e Storia presso il Liceo artistico di Roma. Dal 1971 al 1974 è aiuto regista di Roberto Rossellini e collaboratore ai dialoghi in film per la televisione fra cui Agostino d’Ippona; quindi co-sceneggiatore, con Alessandro Ricci, di Paolo di Tarso di Vittorio De Seta. È autore e regista di varie serie tv, docente in seminari e masters sul cinema in varie università italiane e straniere. Fra le sue pubblicazioni, oltre al già ricordato Bondì-Ricci 1980, il romanzo Il richiamo, Roma, Ellemme editore 1987; il saggio sui celebri caffè letterari italiani L’Italia dei caffè, Roma, Lucarini 1988 e Strix - Medichesse, streghe e fattucchiere nell’Italia del Rinascimento, Roma, Lucarini 1989; il raccontosaggio sul manicomio femminile di Torino nel 1931 Torino, via Giulio 22, Torino, Nuova Eri 1991; la raccolta di versi La baia immaginata, Roma, Editoriale Lido 1996; il libro di memorie registiche e personali La balena di Rossellini. Autobiografia tra memoria e speranza, Milano, Guerini e Associati 2005; il romanzo Gli ultimi tre giorni, Empoli, Ibiskos Ulivieri 2009. Questi i suoi principali film, documentari e commercials: 1992 sceneggiatura e regia de Il richiamo, tratto dal suo romanzo omonimo, film con Ivano Marescotti, Silvia Cohen, Lorenza Indovina, Marco Beretta, REIAC film (premi: Pellicola d’argento per la regia e Ovidio d’argento per il miglior attore protagonista a Sulmona Cinema, 1992. Targa ANICA 1996 ‘Cinema & Società’ per la «migliore opera prima e miglior attore protagonista a Ivano Marescotti» nella rassegna ANEC 1996 – «Da qualche parte in Italia»); 2000 sceneggiatura e regia di L’educazione di Giulio con Roberto Accornero, Alessandro Pelizzon, Francesca Vettori, Tatiana Lepore, Giorgia Porchetti, Piero Ferrero, Bruno Gambarotta, produzione Veradia Film, Roma, distribuzione Orango film Roma (Premi: Miglior Film al 10° festival di Pescara, Special Recognition Award al festival di Los Angeles). Inoltre: Tre momenti nel Sud, documentario di durata 1 h e 10’ su Puglia, Basilicata e Calabria tra mondo agricolo e industrializzazione (sceneggiatura e regia). Rossellini/Pascal, documentario da 30’ girato sul set del Blaise Pascal di Roberto Rossellini, con Pierre Arditi, RR, produzione Orizzonte 2000/CSC (sceneggiatura e regia). Dramma e trance a Bali, due ore sul teatro Ramayana balinese, produzione Reiac film/Istituto del Teatro/RAI DUE. Musikstadt, documentario su Parma e la musica di Verdi con Susanna Marcomeni per ZDF, dur. 45’ (sceneggiatura e regia). Nella città il villaggio, documentario sul quartiere ebraico di Roma con Cesare Polacco, Fiorenzo Fiorentini, Antonello Trombadori, durata 1h (sceneggiatura e regia). Porte interne, teatro terapia con il prof. Ferruccio Di Cori, Lino Capolicchio, Carlo Massarini produzione Palomar, dur. 1h 30’ (regia). Franco Ferrarotti, la società e l’utopia, 1h,15’, produzione SIARES sas: l’esperienza di Ferrarotti negli anni 40/50 a Torino ed Ivrea (regia). Roma

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ne di quel volto-verità: le fattezze del protagonista, Elia Schilton. Ma sono convinto che Bondì abbia voluto innanzitutto per se stesso dare corpo – un corpo di luce – ad un sogno: quello di «stabilire una prossimità umana», di natura immediatamente visiva, con il suo autore e il mondo degli affetti e delle idee che vi si raccorda. Così come sono convinto che l’abbia fatto anche con la pietas di chi intenda compiacere un’ombra: rivolgendosi a Rutilio fra i suoi primi destinatari. Lo si coglie bene, a mio giudizio, dalla delicatezza, dal rispetto, dall’amore per la propria materia che assumono evidenza ‘tangibile’ in questa pellicola, l’episodio forse più rilevante della non poi così povera fortuna di Rutilio. Lo stesso Bondì, peraltro, lo riconosce implicitamente nel corso di una intervista rilasciata a Franco Montini (Bondì-Montini 2003): Il mio film […] nasce dal diario di viaggio di Claudio Rutilio Namaziano […] Io mi sono imbattuto in De reditu molti anni fa durante la preparazione per l’esame di letteratura latina all’università e me ne sono innamorato. Così, praticamente da quando sono diventato regista, ho sempre pensato di trasformarlo in un film prima o poi. Perché non c’è riuscito prima? La risposta è semplice: De reditu è un film complicato, perché in costume, elemento che spaventa moltissimo i produttori italiani, e soprattutto perché ambientato prevalentemente in mare […]. Che cosa l’ha più intrigata della storia? La sua straordinaria modernità; può sembrare paradossale, ma la vicenda mi pare attualissima. Rutilio vive in un momento di passaggio, di grande trasformazione epocale, esattamente come accade oggi. Il suo viaggio si svolge pochi anni dopo il sacco di Roma ad opera dei Goti di Alarico. Si trattò di un evento traumatico ed impensabile, qualcosa come il dramma delle Twin Towers, ovvero un attacco diretto al cuore del potere planetario123.

nei Giubilei, 40’, produzione CEM/Ministero degli Esteri/Facoltà di Architettura: la storia di Roma nei grandi Giubilei dal 1300 ad oggi (regia). Per i premi e il successo del film De reditu-Il ritorno vd. oltre, nota 128. Vd. ora anche Bondì 2008, che in queste pagine non ho potuto mettere a frutto. 123 Vd. sopra, § 3, punto h3]. Cfr. anche Filmagenda 2004: «Viene oggi spontaneo stabilire un’analogia tra la presa di Roma da parte dei Goti di Alarico nel 410 d.C. (che fece ritenere a S. Agostino imminente la fine del mondo) e la “presa” e la distruzione delle Twin Towers l’11 settembre del 2001 da parte dei terroristi

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Così, la mattina del 10 aprile del 2003, al Filmstudio di Via degli Orti d’Alibert in Roma, ha potuto aver luogo la prima proiezione, destinata ai tecnici e alla troupe, di questo film a lungo vagheggiato e, girato dal 21 settembre 2002 per sette settimane consecutive124, infine giunto a compimento. Eccone la scheda informativa: DE REDITU – IL RITORNO Regia: Claudio Bondì. Cast e distribuzione: Rutilio: Elia Mario Schilton; Minervio: Rodolfo Corsato; Pilota: Romuald Andrzej Klos, Protadio: Roberto Herlitzka; Rufio Volusiano: Marco Beretta; Vittorino: Roberto Accornero; Nimis: Caterina Deregibus; Sacerdotessa di Iside: Xjlda Lapardhaja; Sereno: Paolo Lorimer; Furio Veriniano: Giuliano Oppes; Massimiano (aristocratico decaduto, rematore): Alessandro Pess; Lupo: Pier Francesco Poggi; Palladio: Alessandro Sestieri; Prefetto del Pretorio: Claudio Spadaro; Albino: Giovanni Visentin; Lampadio: Adriano Wajskol. Altri ruoli minori: Sovrintendente: Manuel Colao; Schiava di Albino: Valentina Colosimo; Moglie di Sereno: Simona Corigliano; Lanista: Giampaolo D’Amico; Centurione: Nicodemo Jacovino; Presidente dei Giochi: Roberto Musolino; Eremita alla Capraia: Dario Natale; Licia (moglie

suicidi-omicidi di Osama Bin Laden & company, novelli barbari (ironia della sorte: poco prima Francis Fukujama aveva parlato di fine della storia visto che ormai gli USA avevano definitivamente trionfato e unificato il mondo...). […] Ad ogni modo il senso di morte incombente su di noi dopo la spaventosa tragedia costata la vita a tanti innocenti (come innocenti sono i morti di fame nel mondo) ha sicuramente ispirato il film di Claudio Bondì, un regista fuori classe, che ha dato nel 2000 ottima prova di sé con L’educazione di Giulio». Sul senso di morte cfr. ancora note 140 e 145. Il parallelo fra il sacco di Roma e la distruzione delle Twin Towers si riscontra anche nell’introduzione di Pier Angelo Carozzi (Crepuscoli chiaroveggenti, pp. 5-18: pp. 5 s.) alla riproposizione per Edizioni Medusa degli studi (1938-1975) di Henri-Irénée Marrou Saggi sulla decadenza. Trasformazione e continuità dell’Antico, Milano 2002. (Collateralmente aggiungo che, per la precisione, anche il testo stampato da Montini, nella prima delle risposte riportate, storpia ‘canonicamente’ – cfr. nota 93 – il cognomen di Rutilio in «Namanziano»). 124 Lo precisa Claudio Bondì in una sua lettera per posta elettronica (una «elettrina», come ama definirla) del 22/23 aprile 2003, con cui mi forniva alcuni chiarimenti in margine alle prime osservazioni che avevo potuto proporgli per esser stato gentilmente invitato alla proiezione del 10 aprile (=Bondì 2003). Fra l’altro – a proposito del fatto che le didascalie, pur mantenendo, come già in BondìRicci 1980, quale anno del viaggio il 415, anticipano rispetto alla datazione di Lana l’itinerario al mese di ottobre – vi si specifica: «Le date del viaggio […] le ho scelte per far corrispondere di più la ‘luce’ reale della ripresa con lo svolgersi del viaggio. Ho infatti girato il film dal 21/9/02 per sette settimane consecutive».

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di Albino) Emanuela Pacotto; Legato: Giovanni Turco; ai remi: Vittorio Lagani, Mauro Montesano, Luigi Montesano, Vincenzo Oppido, Antonio Palmieri, Carmine Palmieri, Michele Romano; stuntmen: Marco Tosi, Marco Concezi, Pierre Filippetto, Fabrizio Mosca, Carlo Sebastiani, Roberto Sgarbi. Sceneggiatura: Claudio Bondì e Alessandro Ricci. Fotografia: Marco Onorato. Montaggio: Roberto Schiavone. Scenografia: Marina Pinzuti. Costumi: Stefania Svizzeretto. Musica: Lamberto Macchi. Produttore: Alessandro Verdecchi. Produzione: Misami Film, con il contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Distributore: ORANGO FILM DISTRIBUZIONE. Vendite estere: VERDECCHIFILM. Paese: Italia. Anno: 2003. Durata: 100’; Status: Pronto (Venerdì 21 Marzo 2003). Uscito nelle sale in Italia: gennaio 2004.

Ma prima di occuparsi direttamente del film di Bondì, occorrerà fare un passo indietro. Come si sarà notato dal suo profilo (nota 122), dal 1971 al 1974 Bondì fu aiuto regista di Roberto Rossellini e collaborò ai dialoghi di alcuni film per la televisione fra cui Agostino d’Ippona, del 1971. E proprio l’Agostino segna un ulteriore episodio della fortuna di Rutilio, poco evidente – il poeta non è infatti esplicitamente chiamato in causa –, ma ugualmente significativo. Vi assume ampio spazio una scena di conversazioni, nel calidarium di un edificio termale di Ippona, fra aristocratici cristiani (di cui uno ha nome Massimo) e pagani. Di questi ultimi, uno ha nome Milesio e l’altro è Volusiano, cioè quel Rufio Antonio Agrypnio Volusiano che fu fra i migliori amici di Rutilio e che, dopo il sacco del 410, con le sue argomentazioni anticristiane, finì per occasionare la redazione del De civitate Dei da parte di Agostino125. La scena è immaginata poco dopo il sacco del 410, e – anSu di lui e sulle particolari modalità con cui Rutilio lo convoca nel poemetto, ricordando prima come ne venga accompagnato fino alle navi (I 165-178), quindi come egli abbia conseguito la prefettura urbana, notizia così gradita da spingere quasi Rutilio a tornare a Roma (I 415-428), vd. ora Fo 2004. Quanto al tema, di cui più oltre nel testo, dei passati pericoli affrontati da Roma, comune – ma con differenti curvature – ad Agostino De civitate Dei III 17, 2 ss. e Rutilio De reditu I 125 ss., vd. Fo 2002a, pp. 184-185 (mi sembra verosimile che il motivo rientrasse, insieme alla più generale querelle fra cristiani e pagani per come si era concretizzata nella polemica fra Volusiano e Agostino, nelle conversazioni fra Volusiano e Rutilio poco prima che questi salpasse; cfr. anche qui, al contesto di nota 69). Lo spunto viene ripreso anche in Bondì-Ricci 2003, e dunque figura in De reditu-Il ritorno. Cfr. anche note 33 e 139.

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che se Rutilio naturalmente è ancora lontano dallo scrivere (il trauma visigotico è appena intervenuto) – Milesio, senza ovviamente rivelare la fonte, introduce nel dibattito la citazione di alcuni versi rielaborati dall’‘inno a Roma’ (I 49, 67, 53 ss.): «ricordate? Ascolta o regina, splendida gemma del mondo che ti appartiene, Venere e Marte sono gli autori della tua stirpe invincibile. Regnerai attraverso i secoli finché il cielo reggerà gli astri. E gli astri non sono ancora caduti». Gli subentra subito Volusiano: «Roma è più forte di ogni forza. Ha assorbito i barbari e li ha fatti romani, vincerà anche i cristiani. Roma è la forza, il potere, il diritto. Come potrebbe esistere il mondo senza Roma?». Nella risposta, Massimo, il cristiano, recupera argomenti di Agostino che a loro volta sono notoriamente in relazione con argomentazioni di Rutilio, cui giunsero forse proprio tramite Volusiano (vd. nota 125): «Dimenticate che quando Roma era tutta vostra, tutta pagana, ha passato pericoli ben più grandi: Porsenna, Pirro, Annibale; ma allora Roma era virtuosa e ha saputo riscattarsi. Adesso dov’è la sua virtù?». Su queste parole si chiude la sequenza, seguita a breve distanza dall’arrivo in Ippona di alcuni profughi romani, sopravvissuti al sacco. Tornando al film De reditu-Il ritorno di Claudio Bondì, il suo rapporto con il poemetto di Rutilio è piuttosto libero: ma, pur romanzandone in maniera cospicua le vicissitudini, il film vi si conserva sostanzialmente fedele quanto a impianto generale (si tratta di un road-movie, un film ‘odeporico’, che conduce Rutilio da Roma fino a Luni: cioè precisamente fino là dove s’interrompe il troncone principale della nostra tradizione manoscritta). E soprattutto fedele quanto a impasto poetico. Vanno subito rilevate la delicata accuratezza nelle ricostruzioni d’ambiente – valga come esempio quella con cui si è proceduto alla riproduzione della cymba126 –, e il notevole livello delBondì-Montini 2003: «Il film segue fedelmente il diario o si prende qualche licenza? Dapprima scrivendo la sceneggiatura insieme a Alessandro Ricci, successivamente durante le riprese, ho cercato di attenermi il più possibile al testo originario e alla verosimiglianza storica. Proprio per questo l’imbarcazione utilizzata nel film è la fedele riproduzione di una cymba d’epoca, ovvero una barca di otto-dieci metri a remi e a vela che consentiva una navigazione di piccolo cabotaggio a poche centinaia di metri dalla costa». Progettata da Cesare Micocci, la cymba è stata realizzata nel cantiere navale Tecnologia Nautica di Tramonti (Salerno). In origine la sceneggiatura prevedeva due cymbae, di cui una, con gran parte del suo equipaggio, sarebbe dovuta affondare nel corso della tempesta fra l’isola di Capraia e

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l’interpretazione da parte di tutti gli attori. In particolare l’interpretazione che del protagonista offre Elia Mario Schilton – dal volto nobile e espressivo – risulta a mio parere persuasiva, specialmente in alcune difficili battute ideologiche della prima parte. Il suo Rutilio ha lo spessore, il rigore e la dignità che sono richiesti: senza mai alcuna ostentazione, e con supplemento invece di silenziosa malinconia, di carattere chiuso, riflessivo. Ma si distinguono anche, nella generale eccellenza, il Minervio di Rodolfo Corsato, il bizzarro pilota di Romuald Klos, gli ambigui Albino e Lampadio di Giovanni Visentin e Adriano Wajskol, e il solenne Protadio di Roberto Herlitzka127. Il film peraltro ha conosciuto un apprezzabile successo di pubblico e di critica128; e segnalo che, grazie soprattutto a la costa di Vada (è a partire dalla redazione Quarta che si passa a una sola). Sempre a proposito di fedeltà e rispetto, Bondì precisa (2003): «Aggiungo che una primissima versione non prevedeva l’inseguimento da parte del centurione del Pretorio, l’episodio di Lupo né i catafratti di Ravenna. Sono stati aggiunti nella versione definitiva poiché Verdecchi avvertiva troppa lentezza nella sola descrizione del viaggio e degli episodi raccontati. Aveva ragione? Forse sì da un punto di vista più drammaturgico e no da quello più ‘poetico-filologico’, chissà». 127 Vd. ancora l’intervista Bondì-Montini 2003: «Come ha scelto il cast? Proprio perché l’uso del linguaggio è assai particolare, la mimica era molto importante per comunicare emozioni e così ho scelto un cast di derivazione prettamente teatrale. Nel ruolo del protagonista c’è Elia Schilton, un volto dai tratti antichi, ma capace di diventare fanciullesco quando sorride. Accanto a lui ci sono Rodolfo Corsato, Romuald Klos e in un piccolo ma intensissimo ruolo Roberto Herlitzka». Per la distribuzione completa, vd. la scheda sopra riportata. Da vedere le dichiarazioni di Bondì-Aliano 2004 circa la cymba su cui Rutilio intraprende il viaggio: «ho sempre pensato che la barca fosse un personaggio del film al pari degli attori. Si tratta di una cymba del V secolo. Mi sono battuto con la produzione perché non avesse marchingegni moderni che la muovessero, è stata una ricostruzione fedelissima […]. Il museo navale di Fiumicino conserva una cymba, così poi abbiamo studiato l’iconografia: di libri, di siti internet, di reperti che si trovano nei musei. Abbiamo progettato una barca che potesse realmente navigare, tenendo conto dell’equipaggio e del carico. […] Il peso e la profondità della chiglia sono gli unici aspetti che abbiamo modificato: il primo perché la barca viene manovrata da attori e non da esperti naviganti, il secondo per ragioni di sicurezza». Mi permetto di aggiungere – sapendo d’accordo lo stesso Bondì – che sfiora questo ruolo di «personaggio» anche la sobria ma efficacissima colonna sonora di Lamberto Macchi, sussidio di fondamentale importanza alla rievocazione di quell’atmosfera che Bondì si era proposta. 128 De reditu-Il ritorno ha vinto il Premio Festival del Cinema Indipendente (IV edizione, Foggia, 29 novembre-5 dicembre 2004) «per la ricostruzione storica e la messa in scena»; un premio speciale per la ricostruzione d’ambiente ha ricevuto anche al Festival Internazionale di Ischia. Sono ormai assai numerose le proiezioni speciali organizzate a scopo anche didattico da facoltà e istituti scolastici o di cultura. La pellicola è stata anche invitata alla XIV edizione del Festival di Philadelphia, dove

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un’iniziativa dell’Università di Siena, è stato prodotto anche un documentario di backstage sulle riprese del film129. A partire dal racconto-abbozzo di sceneggiatura del 1980, che ne costituisce quasi la ‘preistoria’, l’opera ha conosciuto una lunga gestazione. Grazie alla cortesia del regista, ho potuto leggerne e studiarne le varie stesure rimaste nei suoi archivi personali130. In una fase iniziale il film avrebbe dovuto mantenersi assai stretto alla forma che la storia aveva assunto nel racconto. E addirittura Bondì – come a suo tempo Fellini allorché preparava è stata proiettata sotto il titolo inglese The voyage home nella sezione World Focus il 14 aprile 2005 al cinema Ritz East Theatre 2 di Philadelphia, accolta con notevole interesse e apprezzamento (tanto da sollecitare una replica il 18 aprile); quindi al cinema Roxy di Philadelphia dal 6 al 10 maggio 2005, e all’Italian Film Festival di Toronto (che si svolse dall’8 al 15 giugno 2005). In una sua «elettrina» del giugno 2005, il regista mi informa che il film è stato invitato anche al festival di Bosa Marina (Alghero) dal 16 al 23 agosto 2005 e prosegue: «Aggiungo se ti interessa che De reditu - Il ritorno è stato sinora venduto agli spagnoli, tedeschi, bulgari, giapponesi e, incredibile a dirsi, due settimane or sono, ad un distributore di Shangai! Naviga, Rutilio, per mari inaspettati. Mi chiedo, capirà qualcosa l’eventuale spettatore cinese capitato nel cinema? Mi piacerebbe vedere i sottotitoli in cinese». 129 Il backstage, girato dalla figlia del regista Chiara (Bondì 2004), è promosso e finanziato dal Centro Antropologia e Mondo Antico, dal centro Comunicazione e Marketing del Rettorato e dal Dipartimento di Studi Classici dell’Università di Siena: lo si può dunque reperire presso la Biblioteca del Centro A.M.A. e presso la Mediateca della Facoltà di Lettere di Siena. In esso, Bondì ripercorre la storia e le intenzioni del film, alternando questa intervista alle riprese – a suo tempo effettuate da Chiara Bondì durante la lavorazione – relative al ‘farsi’ di alcuni episodi (fra cui quello del legato, quello dei monaci, il naufragio, la scena erotica nella villa di Albino), e alle interviste di Chiara Bondì ad alcuni dei protagonisti (oltre agli attori, il direttore della fotografia Marco Onorato e l’autrice di scene e costumi Stefania Svizzeretto). Per le eco di stampa vd. per esempio le seguenti recensioni: anonimo, «Il Tirreno» 15 I 2004; M. Anselmi, «Il Riformista», 22 I 2004; F. Ferzetti, «Il Messaggero», 4 II 2004; Gian Luigi Rondi, «Il Tempo» (Roma), 6 II 2004; L.T., «La Stampa», 8 II 2004; F. Miracco, «Il Riformista», 16 III 2004; anonimo, «Rinascita» 4 IV 2004; R. Silvestri, «Alias (Il Manifesto)» 10 IV 2004; F. Melelli, «L’Indipendente», 20 IV 2004; cfr. B. Gravagnuolo, «L’Unità», 3 IV 2004 (sulla citazione del film da parte di Mario Tronti all’assemblea annuale del Centro per la Riforma dello Stato). Inoltre, su siti internet, D. Sesti, in www.filmup.com/dereditu.htm (nello stesso sito, una impressionante serie di ammirati giudizi di spettatori, con media di voto 9 su 10: www.filmup.com/opinioni/op.php?uid=2454; e, molto penetrante e ben fatta, quella della redazione di Filmagenda il 2 luglio 2004, con la scherzosa firma latina Paulus (http://www.filmagenda.it/film/scheda_film.php?id=4590). Per riscontri su riviste specializzate di filologia classica vd. Radif 2005 e Onorato 2007 (si tratta di un omonimo del direttore della fotografia del film); inoltre cfr. Cotta Ramosino-Dognini 2004, pp. 157 e 214. 130 Dopo quella sorta di ‘preistoria’ del film che è il racconto (Bondì-Ricci 1980), si sono susseguite varie stesure della sceneggiatura (le ricapitolo, con relative sigle da me usate nel prosieguo, in Bibliografia, alla voce Bondì-Ricci 2003).

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il suo Fellini Satyricon – progettava di girare direttamente in latino131. Tuttavia la produzione pose il veto al latino e parallelamente chiese agli autori di arricchire la vicenda con alcuni elementi che, in una prospettiva commerciale, potessero rendere il film più avvincente. È in questa fase che prende corpo l’idea di sviluppare un côté politico e colorarlo di tratti ‘avventurosi’. Parallelamente, gli autori prendono a percorrere anche la strada di una maggiore presenza dell’elemento femminile, lavorando a colmare con una storia sentimentale – e con qualche traccia discreta di eros – i vuoti lasciati dal silenzio di Rutilio sulle proprie vicende personali. Si sarà subito còlto come, automaticamente, la privata avventura di Rutilio venga così a svilupparsi nelle stesse direzioni del racconto della Cardona, di cui tuttavia Bondì e Ricci non erano al corrente: e cioè, per essenzializzare, intrigo politico e nuova presenza dell’elemento femminile. A ciò si aggiunga che, come avveniva già fin dal racconto di Bondì-Ricci 1980, anche il film osserva nitidamente l’universo rutiliano attraverso il prisma dell’idea di decadenza. Da questo punto di vista è anche meditazione su questi uomini ‘terminali’, sulle aristocrazie di allora e il ventaglio delle loro possibili risposte agli 131 Vd. Bondì-Montini 2003: «Questo realismo è stato cercato anche dal punto di vista linguistico? Personalmente mi sarebbe piaciuto girare il film in latino, ma quando l’ho detto al mio produttore Alessandro Verdecchi mi ha preso per matto. Col senno di poi penso che non si trattasse di una scelta folle: mi risulta che Mel Gibson stia girando in questo stesso periodo The Passion, film che racconta gli ultimi giorni di vita di Gesù, in due lingue morte: latino e aramaico. Alla fine il mio protagonista parla l’italiano, ma con sonorità arcaiche, si sente che si tratta di una lingua antica, ridondante. Altri personaggi si esprimono invece con sonorità misteriose». Quest’ultima osservazione vale sia per il pilota, che viene immaginato come Trace, sia per alcuni dei rematori «che si immaginano slavi, parlano una lingua inventata ed incomprensibile». Inoltre la schiava africana Nimis e la sacerdotessa di Iside si avvalgono di una parlata rispettivamente eritrea e albanese. Del resto se, nella convenzione, il latino è rappresentato dall’italiano, anche le altre lingue possono trovare un loro equivalente moderno; rimane lo scarto ‘normale’ vs ‘straniero’, ed era intenzione di Bondì rievocare anche, per questa via, la natura multietnica della società tardoromana. A questo ambito di osservazioni va ricondotta la parlata toscaneggiante di Lupo, il capo dei banditi della costa maremmana (Bondì 2003: «ci risulta che già nella lingua etrusca ci fosse un segno di C aspirata, ma serviva anche – non so se con successo – a sottolineare il cambiamento ‘geografico’»). Quanto a Fellini: i dialoghi latini del film di Fellini sono ora reperibili nel prezioso volumetto dell’editore Cappelli Fellini Satyricon, a cura di Dario Zanelli (Fellini 1969, pp. 279 ss.).

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eventi che ne sconvolsero il mondo. A questo proposito andrà aggiunto che, rispetto al racconto della Cardona, risulta più insistito il tema del conflitto ideologico e religioso fra pagani e cristiani. Il film risulta così la trascrizione per immagini dell’avventura di un singolo, con collaterale osservatorio delle coeve aristocrazie senatorie; ma, indirizzandosi tramite Rutilio e qualche altro personaggio ‘minore’ su cui torneremo, a coordinate di carattere più generale, partecipa di un’operazione universalizzante che è propria della poesia: e a mio giudizio ne consegue i profitti in più di un’occasione. Ma è tempo di offrire per lo meno una breve sintesi di come vi sia trattata la materia: Rutilio torna nelle Gallie sia per restaurare i suoi possedimenti sia per darvi corso a un progetto di sovversione inteso a spodestare, con l’aiuto degli amici aristocratici, Onorio e la sua corte cristiana. L’azione inizia in Roma, nella villa di Rutilio, il 2 ottobre 415. Insieme al nipote Palladio e al fido amico Rufio Volusiano – estraneo e contrario a quella che Rutilio chiamerà l’«impresa», ma disposto a proteggerlo – raggiunge Ostia. Vi incontra il pilota della ciurma ‘multietnica’ che condurrà la cymba; offre all’equipaggio l’ingresso a uno spettacolo notturno di gladiatori132. Qualche giorno dopo (il 4 ottobre) Rutilio salpa. Palladio lo tradisce e lo ‘vende’ al Prefetto del Pretorio, che invia sulle sue tracce Furio Veriniano con tre Germani per ucciderlo. A sua volta, Rutilio è protetto da un amico, Minervio, che cavalcando lungo costa segue il suo itinerario proprio per stornare simili pericoli, e che lo mette al corrente dell’inseguimento. Rutilio fa tappa a Centocelle. Escursione alle terme del Toro: piscine d’acqua termale costituiscono un breve ristoro. I viaggiatori prendono sonno accampati alla meglio133.

Vd. Bondì 2003: «Il munus notturno vuole rispettare l’editto di Onorio che nel 404 aveva vietato i giochi gladiatori. Abbiamo allora pensato che si continuasse a combattere illegalmente in arene improvvisate». Il tema dei gladiatori è peraltro caro a Bondì-Ricci, che lo avevano già trattato in uno dei racconti-sceneggiatura di Bondì-Ricci 1980. Il nome del gladiatore Astacius discende dal mosaico dei gladiatori (fine III-inizi IV secolo) della Galleria Borghese di Roma. 133 Fino alla stesura Nona inclusa, la scena era più ampia e dava qualche particolare in più sul mondo circostante: un gruppo di prostitute cercava l’aborto; un fido liberto – di nome Piro – che aveva difeso il suo padrone da un attacco di banditi cercava invano di rimettersi. Bondì 2003: «Terme del Toro. Scena presente nella sceneggiatura e purtroppo da me tagliata con molto dispiacere perché le acque 132

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Il 5 ottobre ripartono da Centumcellae e arrivano a Portus Herculis; cena fra le rovine di un accampamento con un veterano dell’esercito, un legato sopravvissuto alle scorribande dei Visigoti134. All’alba dell’8 ottobre 415, un po’ a nord rispetto alla foce dell’Ombrone, mentre Minervio riposa a bordo della cymba con Rutilio e gli altri, il drappello degli inseguitori pretoriani di Rutilio viene intercettato e massacrato da un certo Lupo, che comanda una scalcinata e banditesca milizia privata al servizio di un alto aristocratico di nome Vettio Agorio Lampadio. Frugando fra le cose di Veriniano, Lupo trova il documento che condanna a morte Rutilio (lo consegnerà poi a Lampadio). Raggiunge la costa di fronte a cui è ancorata un po’ al largo la cymba e mostra la testa mozzata di Veriniano a Rutilio e i suoi, che fuggono spaventati135. I naviganti raggiungono Falesia (10 ottobre), dove assistono a una processione osirica officiata da una bellissima sacerdotessa che la notte si offrirà a Rutilio come compagna di amori136. Da

termali del “Bullicame” situate nei pressi di Viterbo non consentivano l’ingresso dei nostri automezzi tecnici né si poteva pensare – dato il nostro budget – ad una ricostruzione in teatro. L’incontro con Minervio avveniva dentro la piscina in mezzo ad altri bagnanti». 134 A conclusione della scena, i viaggiatori chiedono al legato come abbia fatto a salvarsi dalle devastazioni dei Goti che hanno imperversato in quella zona; il legato accenna con lo sguardo alle proprie condizioni di vita fra le rovine circostanti e risponde: «Perché, mi sono salvato?» La battuta ha tutta l’aria di discendere da una sententia dei Tristia di Ovidio (I 1, 19), che si trova anche sfruttata come epigrafe ad una sezione della recente raccolta di Fabio Scotto L’intoccabile (Firenze, Passigli 2004): vivere me dices, salvum tamen esse negabis. 135 La presenza di banditi era già profilata in Bondì-Ricci 1980, p. 70 (e nella correlata versione Primissima: scena 22, pp. 56-57: è attribuito a loro quel «grande fuoco dell’ora sesta» che persisterà fino alla versione definitiva del film). Vd. Bondì 2003 già citato a nota 126; per l’accento toscano di Lupo vd. nota 131. Nella stesura Prima, nel rotolo di pergamena che il capo dei banditi (il futuro Lupo) sequestra agli uccisi c’è una lista di nomi dei congiurati (dalla Seconda in poi è invece un documento di condanna); Lupo tuttavia non lo porta ancora al suo protettore (il futuro Lampadio, che però in Prima ha ancora il significativo, ma spiazzante, nome di uno dei principali intellettuali della ‘fronda’ pagana di fine IV secolo, Vettio Agorio Pretestato, morto alla fine del 384), e dunque il gruppo degli aristocratici di Vada è provvisoriamente meno traditore di quanto non risulterà da Seconda in poi. 136 Bondì sopprime qui l’invettiva di Rutilio contro i Giudei, occasionata dalla scortesia del gestore della locanda di Falesia (I 371 ss.). Si limita in altro contesto a far allineare Giudei a Cristiani (per es. alla Capraia: il marinaio giudeo si unisce agli altri nell’attacco agli eremiti cristiani e Minervio commenta «Sì, che si scannino tra di loro!»: Undicesima, scena 64, e Film). Anche in questo procede per brevi cenni, altro atteggiamento in linea con la poetica rutiliana. Cfr. Bondì 2003: «Ho evaso la descrizione dell’avidità del giudeo “tutto un piagnisteo” proprietario della locanda perché pur sapendo che l’antigiudaismo romano è cosa ben diversa

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lì puntano sulla Capraia (11 ottobre), dove il pilota ha voluto ripiegare per evitare attacchi dalla costa. Si verificano uno scontro con i monaci che cercano di scacciare gli intrusi, e un diverbio fra Rutilio e uno di loro. Navigando verso Vada con il maltempo, la cymba incorre in un mezzo naufragio. Presta soccorso Albino (12 ottobre), nella cui villa Rutilio incontra vari aristocratici, fra cui Vittorino e Lampadio, che rifiutano di aderire al suo progetto (13 ottobre). Lampadio anzi invia Lupo ad avvertire il Prefetto del Pretorio del fallimento di Veriniano. Per farsi in qualche modo perdonare, Albino invia una sua bella schiava a passare la notte con Rutilio. Allontanandosi deluso dal loro comportamento, il 16 ottobre Rutilio si reca in visita per via di terra a Protadio, nei pressi di Pisa. Fra confidenze personali che investono le proprie vicende coniugali, i due conversano anche dell’«impresa». Protadio, pur disilluso, fornisce a Rutilio appoggio economico. Quanto a sé ha tuttavia deciso di togliersi la vita, e Rutilio assiste impotente allo stoico suicidio dell’amico. Alla fine di ottobre, mentre la cymba riaggiustata è in rada a Luni, un drappello di cavalieri catafratti di Ravenna raggiunge il cospiratore. Un marinaio che pesca (è il nobile decaduto Massimiano), viene abbattuto da un’avanguardia dei cavalieri. Sulla cymba Rutilio, che non ha veduto, dice a Minervio: «Sembra già passato un secolo, amico… E siamo sì e no alla metà del viaggio». Minervio, che vede sopraggiungere sempre più prossimo e ormai inevitabile l’intero squadrone a cavallo, risponde: «Di questo, o di quell’altro?». Rutilio dapprima non comprende, poi scorge anche lui il sopraggiungere, rallentato, cadenzato, delle scintillanti maglie di corazze. Sul suo sguardo, appena incrinato dalla stessa malinconica ma severa rassegnazione ch’era stata di Protadio, il film trova compimento (cfr. nota 152).

dall’antisemitismo temevo proprio una – come ben dici – “distorsione”. E siccome io sono ebreo – anche se non praticante – tuttavia questa possibilità avrebbe ‘risuonato’ dentro di me in modo ambiguo». Da notare che nella sceneggiatura per la serie Vita quotidiana di… (vd. Bondì-Ricci 2003, al lemma Primissima) – una stesura molto fedele al racconto del De reditu suo – la tirata antigiudaica ancora figurava, sebbene mitigata, in una battuta della voce fuori campo di Rutilio (alla scena 21, p. 51). Fino alla stesura Nona inclusa, Falesia non figurava (come neanche Populonia: la cui assenza rimarrà definitiva), e l’itinerario passava da Foce d’Ombrone all’Elba (dove si svolgeva la scena della festa isiaca: VI 57) e quindi alla Capraia, per ritornare sulla costa a Vada con il naufragio. Di conseguenza la presenza di schiavi incatenati, forzati alla lavorazione del ferro, si lascia inquadrare ora con meno nitore.

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Dicevo dunque di tre linee strutturali portanti: la prospettiva di decadenza, il complotto politico, l’inserzione di figure femminili. Partendo da quest’ultimo àmbito, è interessante seguirne la parabola evolutiva nella sceneggiatura. Fin dai materiali più antichi si registra l’ingresso di una venatura erotica che si traduce in un paio di incontri del protagonista con partners occasionali: la prima è la sacerdotessa che celebra i misteri di Osiride a Falesia, la seconda una schiava offertagli come compagna di una notte dall’amico Albino. Resiste a lungo nelle varie stesure, per poi ridursi nel film a poche considerazioni fuori campo della voce del protagonista, una forma di rimpianto filosofico, quasi una sorta di senso di colpa, da parte di Rutilio, per aver ceduto – nel caso della sacerdotessa – alle tentazioni delle passioni. Parallelamente si snodano le private vicende matrimoniali del poeta. Nella stesura Seconda assumono spiccato rilievo le compagne dei vari personaggi137. È in essa che apprendiamo come Rutilio sia stato abbandonato dalla sua Sabina, donna bellissima e straordinaria, e come il viaggio sia anche un tentativo di fuga da questi nodi sentimentali. Ma nella versione definitiva del film queste vicende coniugali (che nelle varie stesure venivano rievocate anche attraverso tormentati sogni del protagonista) saranno invece ridotte ad una sola minima allusione, nel colloquio con l’amico Protadio, marito a sua volta di una giovane ed enigmatica Giulia. Le altre due linee portanti – notazioni di decadenza e pro137 Oltre al caso di Sabina, moglie di Rutilio (su cui oltre nel testo), nella sosta alla villa di Albino hanno piccoli ruoli le matrone: la moglie di Albino stesso, Licia, che interroga Rutilio sull’assenza di sua moglie Sabina (stesura Seconda, scena 65); e la moglie di Gennadio (personaggio che nelle stesure successive diverrà Sereno) che, intromettendosi nei discorsi politici degli uomini, fa sì che Rutilio colga con maggiore evidenza l’aspetto economicamente ‘interessato’ delle riserve e delle prudenze degli amici aristocratici nei riguardi di quella che viene indicata come «l’impresa» (scena 71). Compare in Seconda per la prima volta anche il personaggio della moglie di Protadio: è solo una giovane ombra, un profilo ‘metafisico’, danzante e distante; è cristiana. Si aggiunga che, dalle scene iniziali, appare evidente come Rutilio abbia intrattenuto una relazione con la schiava Nimis, che rimarrà a Roma. Nella stanza di Ostia o Portus in cui ha preso alloggio Rutilio, appare suggestivo il piccolo affresco di tema erotico al muro: insegue una dimensione sensuale che con garbo viene sovrapposta alle trame dell’intrigo e del viaggio.

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getti politicamente eversivi di Rutilio – s’intrecciano in modo inestricabile. Il motivo della decadenza appare molto rilevato fin dalla prima stesura della sceneggiatura. A livello di immagini vi si esprimeva anche come violenza e assenza di ordine. Una scena in seguito soppressa (la scena 6 della stesura Prima) prevedeva il pestaggio di un vecchio da parte di due giovani a Ostia e in pieno giorno, senza che nessuno intervenisse; una didascalia spiegava: «è l’ordine apparente che segue il crollo di uno stato, la fine della legge». A Protadio, poi, veniva assegnata questa battuta (scena 69 della stesura Prima): «Noi siamo troppo tristi, troppo stanchi. La gente ha bisogno d’altro»138. In tema di declino e rovine, torna utile riallacciarsi a quelli che sono stati in generale gli orientamenti di Bondì nel procedere alle ricostruzioni di ambiente. Ecco in merito alcune sue esplicite dichiarazioni (Bondì-Montini 2003): ho cercato […] il massimo di verosimiglianza: anche per questo, contrariamente al solito, non abbiamo ricostruito in studio ville, porti e templi, ma, seguendo l’esempio di Rossellini, siamo andati alla ricerca di reperti archeologici dove ambientare le scene. Il film è stato girato fra Lazio, […] e Calabria scegliendo località poco conosciute. Del resto ciò che appare agli occhi del mio protagonista sono città ormai malridotte ed inospitali, villaggi sempre più abbandonati, ville patrizie che tendono già a trasformarsi in fortini, che preannunciano l’economia chiusa del medioevo e anticipano la struttura signorile.

Questa scelta fa sì che il regista si attenga a una sostanziale povertà di referti, anche laddove – come per il porto di Centocelle – il taglio ekphrastico-epidittico di Rutilio avrebbe favorito ricostruzioni più sontuose. Ne deriva che l’opzione estetica per il disadorno, per l’idea del superstite alle invasioni, mentre si sposa con le istanze economiche di un film privo di sovvenzioni hollywoodiane, va ad accentuare il clima di sgombero, di ultime cose e solitudine, sotteso a tutta la ‘poetica’ del film. E mi sembra rilevante, in questa direzione, che nel tessuto delle Nel Film diverrà (cfr. Undicesima, scena 87) «dico che le nostre idee sono vecchie e impazzite. Anche se non c’è niente, a volte, più generoso della vecchiaia e della pazzia». (Sul tema della pazzia cfr. nota 141).

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immagini ricorrano come un Leitmotiv roghi, fuochi, colonne di fumo: quasi a insistere, anche sul piano simbolico, sul senso di dissoluzione che governa tutto il contesto del viaggio, per quanto esso intenda proporsi come forma di militanza, come impresa che generosamente (velleitariamente) cerca di contrastare dissipazione e fumo. Nel ritratto di un’epoca di decadenza, o – come preferiremmo – di trasformazione, largo spazio assume la contrapposizione di confessioni che è anche contrapposizione di stili di vita. Resiste fino alla Nona versione della sceneggiatura una scena significativamente collocata sotto finale, a Luni, in cui Rutilio e Minervio assistono agli scontri fra un corteo di pagani, impegnato in una processione in onore della Luna, e un gruppo di cristiani – scontri subito dopo imitati per gioco da un gruppo di ragazzini (scena 74 della stesura Prima, corrispondente a 93 della Nona, dove si trova cassata con un frego a biro blu). Sebbene l’episodio sia stato poi soppresso, man mano che si procede verso il definitivo assetto del film il motivo anticristiano tende comunque ad assumere progressivo rilievo. Esso trova, naturalmente, il momento apicale nel contrasto ‘diretto’ fra Rutilio e un monaco della Capraia, suggestivamente impaginato in modo tale che il monaco, nella sua ieratica postura, sia collocato in alto rispetto a Rutilio; e questi non solo risulti in posizione inferiore, ma, con un incremento di marginalità, sia ripreso proprio a ridosso del limite estremo della scogliera, battuta da un mare agitato. E, soprattutto, il subentrare della nuova religione viene iscritto da Rutilio – portavoce di un mondo – fra le principali cause di declino, e dunque fra le prime ragioni del suo personale tentativo di restaurazione139. 139 Si pensi, nel film definitivo, al colloquio di Rutilio con Rufio Volusiano e Palladio lungo il percorso da Roma a Ostia, e alle esplicite dichiarazioni della voce fuori campo che recupera e sviluppa in senso politicamente ostile all’establishment alcuni tratti del poemetto: Scena 38 della Undicesima (il fuori campo – in cui confluiscono i versi sulle aggressioni passate, Rut. I 125 ss., di cui sopra, nota 125 – recupera il famoso verso del fecisti patriam, I 63): «RUTILIO V.F.C. (7): Molte volte sembrò che tutto fosse finito. Brenno, Pirro, Annibale, i Germani, i Parti, i Persiani. Ogni volta sembrava la fine, ma ogni volta Roma si è risollevata ed ha vinto dando a genti diverse un’unica patria. Anche i Goti dovranno pentirsi di quanto hanno fatto. Ma adesso il nemico, quello vero, l’abbiamo nelle case, nelle città, nel palazzo imperiale». Nella ricordata scena del dibattito interiore dopo l’avventura con la sacerdotessa di Iside, figurava, nella stesura Seconda (scena 56), una battuta di Rutilio ancora più esplicita: «Io invece la penso all’opposto: si vive

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In questo senso il Rutilio di Claudio Bondì partecipa di una dimensione ‘giulianea’ che si riflette in un suo esplicito richiamo alla passata azione dell’‘Apostata’ – nonché, su altri piani, in un altrettanto radicato desiderio, da parte del regista, di conferire veste cinematografica alla suggestiva vicenda di questo imperatore140. qui ed ora, per poco, in attesa del nulla. La penso come chi, prima di me, più di noi, ha cercato di riempire questa breve luce, colmare il vuoto con qualcosa di meglio. Ecco quello per cui io, noi, dobbiamo lottare e resistere senza farci sopraffare e ingannare da chi vuole umiliarci: è per questo che ai cristiani, per assurdo che possa sembrare, preferisco i Goti. Questi sono una malattia accidentale che si può debellare, con quelli invece è questione di vita o di morte. Se si vuole Roma salva è questo il problema che va risolto» (l’espressione «breve luce» dipende qui probabilmente dai noti versi di Catullo c. 5, 5 s. nobis cum semel occidit brevis lux/ nox est perpetua una dormienda). 140 Fino a Nona inclusa (scena 36), il personaggio del veterano incontrato durante la sosta a Porto Ercole ricorda di aver militato sotto Giuliano (dunque più di cinquant’anni prima) e poi nella battaglia di Adrianopoli (378 d.C.). Nel Film il legato militare rimasto mutilato sarà più giovane, e di questo passato non si farà più menzione. Lo spunto configurava una sorta di allineamento fra l’«impresa» di Rutilio e la tentata restaurazione di Giuliano. Allineamento che poi è lo stesso Rutilio a esplicitare in una battuta del ‘meeting da Albino’ (lo cito dalla stesura Seconda, scena 72, ma resta fino a Film): «RUTILIO – “È dai tempi dell’imperatore Giuliano che stiamo aspettando. È ora di dire basta e muoverci”». Cfr. anche, più oltre, nota 143. Da notare che nell’ultima raccolta di poesie di Alessandro Ricci, I cavalli del nemico, uscita postuma per Il Labirinto di Roma (Ricci 2004), ampio spazio assume proprio il tema di Giuliano e della sua morte, cui sono consacrate le sei dense liriche dell’ultima sezione (intitolata Morti parallele, 95-116). Alcune parole del veterano del film trovano riscontro nel prosimetro conclusivo (pp. 115 s.): «Ammiano Marcellino […] cercava di ricordare le volte in cui Giuliano gli aveva detto di sentirsi morire, quando citava sorridendo un’epigrafe funeraria sull’Appia o chissà dove: “Sono morto mille volte, ma così mai”». Mi spiega Claudio Bondì in una «elettrina» del 21 settembre 2004 che lui e Ricci si imbatterono in questa frase leggendo la raccolta Iscrizioni funerarie, sortilegi e pronostici di Roma antica, a cura di Lidia Storoni Mazzolani, introduzione di Guido Ceronetti, edita nei «Millenni» Einaudi (Torino, 1973), e ora ristampata nella «BUR» Rizzoli (1991; 20004), «una sorta di Spoon River del mondo antico. Si trattava dell’epigrafe scolpita sulla tomba di un attore che noi trovammo straordinaria. Dopo il preambolo sulla persona, alla fine recitava “sulla scena sono morto più di mille volte, ma così mai”. […] Ce la siamo portata appresso per anni prima di utilizzarla nella sceneggiatura. Infatti una prima versione del monologo del legato riportava (cito a memoria) “In battaglia sono morto più di mille volte, ma così mai”. Poi è sopravvissuta soltanto la seconda parte della frase, perché pensammo che fosse di difficile comprensione nella sua interezza». L’epigrafe in questione è l’epitafio di Leburna magister mimariorum, vissuto circa cento anni, rinvenuta in realtà a Pest, in Ungheria; è la numero CXXVIII, a pp. 258-259 dell’edizione BUR (=CIL III 3980 e ILS 5228), e vi si legge appunto la frase aliquoties mortuus sum, sed sic nunquam. Peraltro anche altre battute rilevanti del film trovano uno stretto parallelo fra i versi di Ricci 2004: per quella di Rutilio sulle anime difettose

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La dialettica fra incombente declino e conseguenti opzioni esistenziali si riflette nel ventaglio dei personaggi, che tendono a raggrupparsi per insiemi omogenei e ad assumere, singolarmente e per gruppi, statura di simboli. Da un lato il gruppo dei ‘nemici’: i monaci e il potere costituito per come si esprime tramite il suo braccio armato (il Prefetto del Pretorio, Furio Veriniano e i suoi Germani, i catafratti di Ravenna). Dall’altro, come dice il personaggio di Rutilio, le «anime difettose», il gruppo dei malfidi, gli pseudo-amici e i traditori, piccoli opportunisti compromessi con l’establishment per ragioni d’interesse o potere personale (e complementare ‘non-compromissione’ con la resistenza di chi opera in nome di ideali in cui anch’essi – per tradizione, ceto e cultura – si dovrebbero riconoscere): Palladio, Lampadio, e gli stessi Albino, Vittorino, Sereno. All’‘opposizione’ stanno Rutilio e i suoi veri amici – Protadio e quel Minervio che è come una loro sintesi e un emblema di fedeltà –, inermi ed ingenui come si compete agli idealisti. Lo stesso Rutilio è troppo incrinato da tormenti interiori, sensibilità alle cose e rispetto della vita (come rivela il suo coprirsi il volto in occasione dei notturni giochi di gladiatori ad Ostia), è, in altre parole, troppo conforme all’abito del poeta che riveste nel De reditu suo, per risultare un leader davvero credibile per una cospirazione politico-militare. Gli fanno corona un dolente Minervio, espressione paradigmatica della fedeltà e dell’amicizia che, con il tradimento di Palladio, a Rutilio sono venute meno nella stessa cerchia degli affetti familiari; e, ancora, vessilli minori di dedizione e coraggio, come il veterano incontrato a Porto Ercole o, più emblematico ancora, il vecchio pazzo che Protadio addita a Rutilio come ‘figura’ estrema della stessa residuale militanza cui egli si sta consacrando141. E soprattutto gli si affianca, appunto, Protadio, autentico personaggio-chiave di questa stesura per immagini della vicenda rutiliana. cfr. Ricci 2004, pp. 65 e 69; per quella di Protadio sulla bellezza delle colline che si accinge a congedare con il suicidio cfr. Ricci 2004, pp. 48 s. (con la citazione di Hemingway a p. 120). Cfr. anche, più oltre, le note 142, 144 e 146. 141 Trova qui un suo specifico precipitato un motivo piuttosto rilevato nel film; vengono indicati come pazzi sia il legato mutilato sopravvissuto ai Goti fra le rovine di Porto Ercole, sia Rutilio stesso; per la «pazzia» delle idee di questi aristocratici ‘oppositori’ in generale, cfr. sopra, nota 138.

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Il personaggio ‘minore’ del diario rutiliano diviene qui una sorta di comprimario, forse, accanto a Rutilio (nostro isòtopo), la figura più importante del film. Impersona il vecchio saggio pagano e sembrerebbe soprattutto modellato su Seneca142. A interpretarlo interviene un’efficacissima ‘partecipazione straordinaria’ di Roberto Herlitzka. Protadio registra l’eclissi del mondo in cui è cresciuto e in cui si è identificato e dispera ormai in una inversione di tendenza. Ha vissuto lo shock del passaggio dei barbari e della presa di Roma, ha vissuto il declino degli antichi dèi a vantaggio dei nuovi e della nuova aristocrazia che li sostiene. In proposito sintetizza il punto di vista dell’intero film nella nostalgica, poetizzante sententia «un solo dio per la ragione, molti dèi per l’immaginazione»143. In più di un’occasione (in particolare durante un dibattito sul film a Portoferraio), Bondì ha insistito sulla sua intenzione di creare in Protadio un personaggio austero e «prosciugato»: lo stesso volto sofferto e rugoso di Herlitzka vuole significare come non gli sia rimasta più vitalità, e il tutto troverebbe un riscontro anche nel mercato saraceno, spoglio, disadorno, da quadro ‘metafisico’ di De Chirico, che il regista ha scelto per rappresentare la sua casa. L’allineamento di Protadio con Seneca è evocato dalle modalità e dai connotati teorici della sua morte (vd. note 143 e 144). L’episodio ha un riscontro nel suicidio del patrizio nel Fellini Satyricon, che a sua volta si proponeva come «indiretto omaggio a Petronio, che si svenò e morì conversando con gli amici» (Fellini 1969, a foto 66). Ma in comparazione con il suicidio dell’aristocratico felliniano, quello di Protadio conosce forse una maggiore drammaticità, perché decisione personale libera, non coatta da una situazione politica di oppressione. È soprattutto in questo personaggio che si identificava il co-sceneggiatore di Bondì, Alessandro Ricci. Dopo aver corteggiato a lungo nella sua vita l’idea del suicidio (lo testimoniano anche le sue poesie: per es. Ricci 1985, pp. 11 e 12-16; Ricci 2004, pp. 27, 49 – a proposito del suicidio del poeta Beppe Salvia –, 65 s.; cfr. note 140, 144 e 146), minato da una grave malattia, avrebbe desiderato riuscire a praticare il gesto del suo personaggio. Racconta chi gli fu vicino – oltre a Bondì, il poeta romano Fabio Cirìachi – che la scena di Protadio era la sola che Ricci mostrasse agli amici quando lo andavano a trovare a casa, proprio per quella sua nobile libertà. Alessandro Ricci si è spento nella notte fra il 27 e il 28 marzo del 2004. 143 La sentenza è stata ispirata a Claudio Bondì da una frase di Hegel incontrata nella splendida introduzione di Riccardo Di Giuseppe (che definirei «un elleno») alla sua assai interessante edizione, tradotta e annotata per Adelphi, di quella sorta di «apologia filosofica della religione antica» (p. 13) e insieme di protrettico ad iniziarsi al paganesimo che è il trattato di Salustio («maestro, collaboratore stretto e successore designato di Giuliano l’Apostata») Sugli Dèi e il mondo (Milano 2000). A p. 13, la nota 2 (appesa alla prima delle due frasi che ho appena citato) suona come segue: «“Monoteismo della ragione … politeismo dell’immaginazione … questo è ciò di cui abbiamo bisogno”: Hegel, Ältestes Systemprogramm des deutschen Idealismus, verso, rr. 14-19 (13 Jamme-Schneider)» (dove l’abbreviazione rinvia a Chr. Jamme-H. Schneider, curatori, Mythologie der Vernunft. Hegels «ältestes Systemprogramm des deutschen Idealismus», Frankfurt a.M., 1984). La stesura Settima 142

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Alla disfatta del suo universo, Protadio ha deciso di contrapporre la lucida scelta dell’autoannientamento: convergono su questa sua intenzione l’eroismo titanico del saggio stoico così come si coglie nel De providentia e qualche lineamento di celebri exitus illustrium virorum – come la descrizione del suicidio di Trasea Peto e dello stesso Seneca negli Annales di Tacito144. Si tratta di una mossa ‘forte’ che rischia la spettacolarizzazione ad effetto. Ma non vi cade, perché la svolta narrativa di

(scena 89; da notare che, subito prima, a interruzione della scena del suicidio, è stata aggiunta a penna rossa una scena 88/A, poi caduta, in cui compariva la moglie di Rutilio Sabina, interrogata alla Corte di Ravenna) si ferma alla battuta precedente («Non fa così male… Che cosa debbo dire? Forse dovrei dire qualcosa di importante…»). Nell’Ottava (scena 89) si trova l’aggiunta a matita (fra quadre inserisco parole poi cassate a gomma) «Da qualche giorno, Rutilio, mi gira per la testa un pensiero: [bisognerebbe avere il] monoteismo della ragione e [il] politeismo dell’immaginazione… Questo è ciò di cui avremmo bisogno. Ti basta?». In Nona (scena 89), la battuta è stata portata a testo e stampata; un intervento a penna blu la corregge nella forma quasi definitiva (Herlitzka, nel Film, la reciterà senza la congiunzione): «da qualche tempo, Rutilio, mi gira per la testa un pensiero: un solo dio per la ragione e molti dei per l’immaginazione… Questo è ciò di cui avremmo bisogno. Ti basta?». 144 Per la tradizione degli exitus, vd. il classico Ronconi 1950. Come nel resoconto di Tacito (Annales XV 61-64) avviene per Seneca (il cui caso si esempla su quello di Socrate, che nel Fedone platonico, con lo scopo di risparmiare un compito gravoso a chi si prenderà cura del suo cadavere, prende un bagno prima di bere la cicuta: 115a), il suicida s’immerge in una vasca d’acqua. Come il Seneca di Tacito, Protadio illustra a Rutilio le disposizioni testamentarie (che peraltro si legano all’impresa dell’amico). Sempre per una tradizione che (non si sa quanto favorevolmente per Seneca) si riallaccia al Socrate di Platone, nel passo tacitiano figura la menzione della cicuta; così anche Protadio ha questa battuta: «Basta Costanza, la vasca è piena. Portami invece un telo per coprirla, il mio amico non ama l’acqua che si arrossa. Avessi saputo che c’eri tu, Rutilio, mi sarei fatto preparare qualche cicuta…, non lo sapevo, scusami,… preferisci uscire?». Inoltre, come di fatto avviene per il Trasea Peto di Tacito (Annales XVI 33-35), Protadio si pone il problema delle ultime parole, della sentenza conclusiva e apicale di una vita (cfr. note 142 e 143). Protadio a un certo punto dice «non fa male, non fa male»: questa battuta sembra discendere dal famoso “Paete, non dolet” con cui Arria Maggiore invitò al suicidio il consorte Cecina Peto nelle circostanze narrate da Plinio il Giovane in ep. III 16 (particolarmente § 6). Il principio teorico cui si riallaccia il suicidio di Protadio è quello enunciato nel De providentia di Seneca: patet exitus. Il trattato senecano si dilunga sul magnanimo spettacolo offerto al dio dalla virtù messa alla prova, che osa sottrarsi ai mali con l’autosacrificio: e naturalmente viene addotto ad esempio il caso del ‘Socrate romano’ (Ronconi 1950, pp. 211 ss.), Catone Uticense (2, 8-12). Ma addirittura si conclude con la prosopopea del Dio stesso che viene ad annunciare come la sua Provvidenza abbia disposto il suicidio quale estrema risorsa per gli uomini che si trovino in difficoltà (6, 3-9). Abbiamo a che fare con una sorta di victrix causa deis placuit sed victa Catoni (Lucano I 128): sed victa Protadio; sed victa Rutilio.

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pura invenzione matura con piena coerenza in seno all’assetto della vicenda. Il ‘progetto’ di Protadio è un’altra delle possibili ‘risposte’ ai tempi: accanto alla rutiliana opzione per la militanza, è forse, se non la più dignitosa, certo quella ‘esteticamente’ più in linea con la magnanimità dei padri, con gli archetipi della tradizione aristocratica romana. La scena del suicidio è rigorosa, garbata, assai ben recitata da Herlitzka. Protadio s’immerge in un’ampia vasca rotonda che fa poi coprire con un ampio telo bianco; ne spicca solo il volto; un coltello d’oro era già stato in precedenza collocato sul fondo, e Protadio ve lo trova. Libera la fida servitrice Costanza; dispone un piccolo dono in denaro per l’amico Rutilio, dà gli ultimi ragguagli. Mentre Rutilio e l’anziana servitrice assistono in lacrime, sobriamente e come discorrendo del più e del meno, Protadio si taglia le vene. In sintesi, la morte di Protadio è la morte di un mondo: il suo suicidio è l’abbandono scacchistico da parte dell’intero universo rutiliano, il suicidio per disincantata consapevolezza della sconfitta, simbolo quasi eroico di sofferta e umana risposta ad ogni ‘decadenza’ che ci voglia subalterni. L’‘impresa’ politica assegnata a Rutilio è votata forse a sconfitta, ma allineata all’austera e vibrata ribellione di questa figura carismatica; si eleva anch’essa a simbolo di resistenza: un rito, una ‘missione’, in cui vale comunque, di per sé, la pena di impegnarsi, per quanto disperata, e per quanto incerto possa esserne l’esito145. In un intervento al collegio Universitario Don Nicola Mazza di Padova (Il viaggio e la libertà: recenti riletture di Rutilio Namaziano fra letteratura e cinema, 7 giugno 2004) ho cercato di indicare nella morte di Protadio l’apice di un filone tematico della ‘libertà’ che percorre l’intero film: la «mezza libertà» rimasta ai nobili pagani, di cui Rutilio parla all’inizio e in particolare il problema della libertà di culto; la libertà rifiutata dagli schiavi di Rutilio, per il non saper che farsene, e quella che gli umili sacrificano in forme di colonato e in cambio di una protezione da parte dei potenti, di cui si parla nel ‘meeting’ alla villa di Albino; la libertà del viaggio per mare e quella che si embrica con l’altro tema-guida (vd. nota 141) della pazzia. La fine recensione di Filmagenda 2004 la inquadra invece in un’altra, corretta, prospettiva: «Alla base del film c’è in effetti a mio avviso una pulsione di Thanatos». A Rutilio, «la morte […] la recano catafratti lugubri cavalieri inseguitori, che già sanno di medioevo. E durante l’avventurosa navigazione di piccolissimo cabotaggio con frequenti sbarchi a terra, da Ostia a Luni, i trionfi della morte sono molti, controbilanciati tuttavia talvolta, nella figura di misteriose sacerdotesse o bellissime schiave, da un Eros generoso con il sensibile ed orgoglioso Rutilio. La morte lo accompagna, e gli si annunzia in pieno quando egli assiste al suicidio stoico dell’amico Protadio (magistralmente interpretato da

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E a sottolineare come sceneggiatori e regista sposino affettivamente questo universo, la fine di Protadio è seguita ‘in soggettiva’. Il dissolversi della vita è seguito cioè dal punto di vista del morente: l’immagine di Rutilio in pianto, su cui si chiude l’esistenza di Protadio, appare via via più sfuocata man mano che il sangue defluisce, fino alla dissolvenza. Con Protadio si può dire muoia anche lo spettatore partecipe: siamo noi – sembra implicare il regista – a scomparire in quell’universo, almeno nella nostra dimensione di «uomini antichi», di spiriti magni, di anime non difettose. La stessa battuta finale di Protadio è in linea con una simile prospettiva; con la sua morte una stagione esistenziale – ma anche l’epoca in cui si è iscritta – vanno a rubricarsi nel passato: «è già ieri, Rutilio… Comincia l’appena stato». Il seguito del film porta a compimento il filo ‘concreto’ della trama, benché la sua sostanza ideologica abbia già raggiunto la chiusa in questa dissolvenza in soggettiva. E naturalmente nelle esequie che, con il canonico levarsi del fumo, immediatamente la seguono e sigillano146. Se fosse legittimo trasferire dal terreno della poesia a quello cinematografico i concetti della celebre prosa di Saba Cosa resta da fare oggi ai poeti?, parlerei a proposito di questo film di cinematografia «onesta». Infinitamente lontana dalle presunzioni Roberto Herlitzka). […] Egli sa che il suo mondo sta per sprofondare nel misterioso Nulla che inghiotte gli uomini e la loro storia, ma continua stoicamente la sua folle impresa, fino alla fine, fino a quando i cavalieri incaricati di eseguire la sentenza lo raggiungono. Con Rutilio muore il mondo dell’antica Roma». 146 Per la battuta riportata a testo (Undicesima, scena 89, e Film) cfr. Ricci 1985, p. 38 «ed è già ieri, dilaga/ l’appena stato» (cfr. p. 44 «e non ho il cuore e l’intelligenza/ dell’appena prima, dell’appena dopo/ che forse contengono l’anima/ di ciascuno»). Sulle contiguità fra l’ultima raccolta di Ricci, I cavalli del nemico, e la sceneggiatura di De reditu-Il ritorno cfr. sopra, nota 140. Le esequie di Protadio convocano nuovamente in scena il fumo, tema iconografico molto rilevato nel film, come anche quello del vento, che ‘batte’ le nostre vite. Parallelamente, il fumo, e soprattutto il vento, sono ossessivamente presenti anche nel Fellini Satyricon. Resiste fino alla stesura Nona questo icastico particolare (scena 92): «Con un colpo della lunga spada un soldato germano spacca fra le dita il vaso di coccio. L’urna, in pezzi, cade nella vasca. Le anguille si azzuffano per inghiottire le ceneri di Protadio, come se quello fosse il solito pasto della giornata. Il centurione si gira imprecando, e con un colpo di tallone spinge via il cavallo tra i rami spezzati del boschetto, scomparendo, con i suoi, alla vista. Costanza con il volto tra le mani si siede sul bordo della vasca»). Ma racconta il regista che non ci fu verso di indurre le anguille a prendere alcuna sorta di cibo.

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del kolossal quanto da deteriori stampi di peplum o di fiction, la lezione rosselliniana di Bondì non accampa sullo schermo un’antichità fastosa e reboante, né superficiale o tristemente banalizzata. Precipita invece il ‘miracolo’ che la finzione sul grande schermo riesca a venire incontro con naturalezza e poesia al desiderio di ritornare in possesso di bellezze naufragate nei secoli. E non importa se qualche particolare può apparire non interamente rifinito; né se, rispetto al poemetto, vengono a mancare nel film alcune scene che, in forza della loro suggestione, il lettore si sarebbe magari aspettato. Giocano in questo anche fattori di budget, repentini imprevisti, ragioni pratiche di varia natura: «Un film – scrive Claudio Bondì – è spesso il risultato di continui compromessi»147. È interessante soffermarsi a considerare come avvenga il recupero di alcuni passaggi del testo rutiliano. In generale, Bondì e Ricci evitano le tipiche insidie in cui cadono alcune riscritture (anche di autori famosi148) che intendono riproporci questi antichi personaggi riappropriandosi dei loro testi: l’in147 È una frase dell’«elettrina» del 23 aprile 2003; nella quale, inoltre, Bondì così rispondeva ad alcuni rilievi circa la relativa attendibilità storica di alcuni dettagli d’ambiente e di oggettistica: «2) La casa di Rutilio a Roma – in realtà il futuro museo della civiltà contadina nei pressi di Crotone – una villa baronale in mezzo alla campagna, è stata una scelta dettata dalla necessità di accorpare in un luogo geografico ristretto tutta una serie di interni (nello stesso edificio ho girato le scene della stanza del Pretorio, nel seminterrato la morte di Protadio, la stanza di Rutilio in casa di Albino). So bene delle discrepanze che hai notato, causate dalla necessità di girare senza che la scenografia fosse finita. Purtroppo gli interni sono anche dei “cover set”, si debbono usare cioè se la pioggia impedisce di girare nella giornata gli esterni previsti. E così è accaduto. In realtà la ripresa della casa di Rutilio – avvenuta il secondo giorno di lavorazione – era prevista circa due settimane dopo. La scenografia era incompiuta e purtroppo si vede. […] 4) Papiro, carta, pergamena ecc. Ahimè, si usa quello che si trova. Rancati che è il più grande magazzino di trovarobato cinematografico non aveva altro che si potesse distruggere». A proposito dell’assenza di alcune scene che il lettore di Rutilio si sarebbe aspettate (come la caccia a Triturrita, descritta in Rut. I 615-644, che era contemplata fin dalla Primissima: scena 27, pp. 69 ss.), Bondì dichiara: «11) In sceneggiatura era presente la scena della caccia al cinghiale nel latifondo di Albino. Poi le solite difficoltà economiche avevano mutato la caccia in uno spettacolino teatrale che Albino offre al suo ospite. Insomma sentivo la necessità di una pausa. Purtroppo entrambe sono state tagliate per i soliti problemi di tempo e denaro». Sulla scena delle Terme del Toro vd. sopra, nota 133; circa l’assenza della tappa di Populonia, nota 136. 148 Penso, per fare un esempio, ad alcune pagine del pur celebre e celebrato Mario l’Epicureo di Walter Pater, interamente costruite tramite una ricucitura di fonti dell’epoca (Apuleio, Marco Aurelio, Frontone).

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clinazione cioè a sfruttare schegge autentiche come ‘puntelli’, come pilastri cui appoggiare le trame della reinvenzione. Una soluzione che, anziché incrementare l’effetto verità, finisce per esaltare l’impressione di posticcio, di mal rappezzato a tavolino, di palese centonarismo. Nemmeno là dove l’occasione di un ‘ripescaggio’ sarebbe particolarmente favorevole, come nel diverbio fra Rutilio e il monaco, gli autori si lasciano accattivare da questa soluzione. Le uniche concessioni al testo ‘autentico’ – sobrie e limitate – si verificano in una circostanza particolare: l’intervento di brevi snodi della «voce fuori campo» di Rutilio che commenta, come se ne scrivesse, momenti della propria vicenda. E anche in questo caso – a partire dalla stesura Seconda – gli autori non temono di intervenire sul testo, di ricucirne brevi segmenti in ordine allo scopo contingente, e addirittura di interpolare ‘in stile’ passaggi che il vero Rutilio non ha mai scritto e che tuttavia non suonano falsi, ma rivelano apprezzabile mimetismo tonale e contenutistico. Come per esempio il piccolo brano cui già più sopra rinviavo, con cui Rutilio, in fuga dopo aver appreso dell’inseguimento dei pretoriani, riflette sulla propria condizione (Settima, scena 49): RUTILIO V.F.C. (7) E così sono stato tradito. Qualcuno a Roma è stato splendidamente falso, ed io splendidamente ingenuo. Ancora una volta ho avuto a che fare con anime difettose. E una di queste è la mia149.

Su questa battuta cfr. anche nota 140. Un altro caso significativo ricorre per esempio in stesura Seconda, scena 62, forse il più notevole inserto di versi rutiliani ‘riscritti’, in questa circostanza nel tipico stile dello psogos rutiliano; con varianti – oltre alla riduzione da due a una cymba, precisamente dei tagli che indico con parentesi quadra nel corpo della citazione da Seconda –, la ‘tirata’ sopravvive fino a Undicesima (scena 67), e Film: «SCENA 62. IN MARE IN ALLONTANAMENTO DALL’ISOLA (Capraia) EST. G. Le cimbe si sono mosse. Il mare lì è appena increspato e il cielo sereno. In cima all’isola si vedono, sempre più rimpicciolite, le figure dei monaci. La mdp inquadra alternativamente loro e Rutilio che li guarda. Ambiente. V.F.C di RUTILIO “Mi chiedo se quelle anime basse che se ne stanno lassù soltanto per fuggire dalla vita sappiano che i loro sacerdoti ormai la vita sanno godersela più di noi. [Sono forse straccioni i vescovi?] È uno straccione il loro imperatore più smoderato di un re persiano? Sono imparziali i loro giudici? Quei pazzi lassù verrebbero condannati come la caterva dei loro eretici che si combattono tra loro con il ferro e con le parole per ragioni futili[: il Figlio è uguale al Padre, o è meno di lui? Il sangue e la carne del loro dio sono veri o finti nei loro riti?] Forse per noi c’è un’ultima speranza: che si annientino

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Ma, come si compete a un’opera cinematografica, la poesia del De reditu suo è qui resa, più che sul piano d’intreccio e dialoghi, a livello di immagini. Caratteristica di questa trascrizione filmica è che le immagini riescono a restituire quella poesia delle cose – lo spazio della nave, le manovre, i piccoli momenti come l’accampamento improvvisato sulla spiaggia, coi fuochi della sera e le tende ‘inventate’ coi remi e le vele, nel respiro dei paesaggi naturali – la cui flagranza costituisce il più delicato segreto del poemetto. Penso a quando la cymba prende per la prima volta il mare staccandosi dalle banchine di Portus, in un cangiare di verdi trasparenze, più opache là dove se ne disegni l’ombra. O al montaggio parallelo fra la navigazione di Rutilio e l’itinerario di Minervio lungo costa, con meravigliosi frammenti di natura. O ancora alla cura che, nella cerimonia osirica di Falesia, il regista presta ai riflessi nell’acqua: un atteggiamento iconografico che recupera in altro contesto la stessa attenzione che vi dedica Rutilio, quando descrive il rispecchiarsi delle cime dei pini sulla superficie delle onde150. tra di loro”». Va notato che sembrebbe soppresso il dato rutiliano (alla Gorgona, I 511 ss.: dove Rutilio esaltava la drammaticità del caso fasciandone la notizia di reticenza) dell’appartenenza del monaco a una cerchia di affetti o addirittura parentele. Rutilio apostrofa il monaco incontrato come «cristiano» in genere, non come se lo conoscesse. Un incontro fra Rutilio e l’aristocratico ‘transfuga’ era previsto in Bondì-Ricci 2003 Primissima (la versione del 1978: scena 25); è tema fondamentale anche del romanzo rutiliano cui sta lavorando Folco Giusti (vd. punto 6 e: qui il personaggio ha nome Marco Marcello ed è nipote di Rufio Volusiano). Ricordo che in Cardona 1997 l’aristocratico innominato che si è fatto monaco alla Gorgona ha nome Razzio ed è il fratello di Vittorino (altro caso, quest’ultimo, di personaggio ‘minore’ nel diario rutiliano, che passa in primo piano nella riscrittura; alla Capraia invece si è rifugiato Palladio dopo il suo misfatto). Cfr. anche oltre, nota 169 e contesto. 150 Rut. I 283 s. (al passaggio davanti a Graviscae): sed nemorosa viret densis vicinia lucis/ pineaque extremis fluctuat umbra fretis. È presente ancora in stesura Undicesima (scena 28) un passaggio, poi soppresso nel Film, in cui questi versi rutiliani venivano recuperati come «voce fuori campo». La registrazione dei boschetti di pini lungo costa richiama alla mente quella sorta di De reditu di un poeta giapponese che è il Tosa nikki (Diario di Tosa) di Ki no Tsurayuki (2004, pp. 77 s.), in cui ricorrono anche – indipendentemente, per i parallelismi delle vite – molti altri tratti che appartengono al viaggio e al diario di Rutilio. Il risguardo della traduzione curata da Simona Vignali per la collana «Cina e altri Orienti/Tascabili» dell’editrice Cafoscarina in Venezia lo presenta così: «a Ki no Tsurayuki (ca. 872-945) poeta di waka del periodo Heian e compilatore nel 905 dell’antologia poetica Kokinshu-, voluta dall’imperatore Go Daigo, si deve in particolare la stesura della prefazione in giapponese, il Kanajo, nella quale sancisce ufficialmente i canoni estetici della poesia giapponese. Inviato in seguito nell’isola di Shikoku con la

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Di nuovo è proprio sul piano delle immagini – e dunque dello specifico filmico, della risorsa prima del nuovo mezzo in cui è calato l’iter – che si riscontra la più profonda fedeltà del regista a Rutilio. Fedeltà che si estende a un’ulteriore dimensione artistica. In tutta la pellicola, benché si segua la trama del viaggio (con la sovrapposizione dell’‘intrigo’ a proporne un ulteriore ipotetico senso) a prevalere sono i vuoti, i silenzi, le omissioni, le mancanze – con gli spazi d’integrazione affidati allo spettatore. Domina nel film la nuda eloquenza dei fatti, dei volti, dei paesaggi. Tutto ciò determina un tono che – quasi il film fosse girato ‘in versi’ – innegabilmente va ad allinearsi con le proprietà generali dello strumento poetico e in particolare (con naturalezza) alla specifica condizione del De reditu rutiliano. Perché anche Rutilio lavora a «colorare di reticenza le enunciazioni più elementari»151. Il poeta è qui raggiunto addirittura carica di governatore della provincia di Tosa, vi rimane per cinque anni. Durante il viaggio di ritorno a Kyo-to, nel 935, compilerà questo Diario di Tosa fingendosi donna per potersi esprimere in giapponese e non in cinese, la lingua dei burocrati e degli intellettuali. Grazie a tale artificio letterario, la sua voce narrante si libera delle rigide convenzioni letterarie del X secolo, ed esprime – con tratti originali – profondità, liricità di sentimenti e varietà di immagini. Il Diario di Tosa diverrà il precursore del filone noto come nikki bungaku (letteratura diaristica) che annovera i più bei nomi di scrittrici e poetesse dell’epoca». Devo la segnalazione al collega matematico, appassionato di letteratura, Paolo Pagli. E mi piace ricordare che a un recente incontro rutiliano i primi tre intervenuti furono lui, e i professori Donato Donati, un chimico che si era apprestato per proprio piacere a tradurre il De reditu suo, e Folco Giusti, lo zoologo di cui sopra, al § 6 e. 151 Con un minimo adattamento (evidenziato dal corsivo), recupero a testo una frase che Brodskij utilizza per Kavafis, nel saggio che gli dedica nel 1975 (Il canto del Pendolo; tradotto in italiano per Adelphi nella raccolta anch’essa intitolata Il canto del pendolo: Brodskij 1987, p. 283): «L’uomo è ciò che legge, e tanto più un poeta. Sotto questo aspetto Kavafis è una biblioteca del mondo greco, romano e bizantino (Michele Psello soprattutto). In particolare, è un compendio di documenti e iscrizioni relativi all’interrelazione greco-romana durante gli ultimi tre secoli a.C. e i primi quattro secoli d.C. Le cadenze neutre del primo periodo e il pathos intensamente formale del secondo sono le radici da cui affiora il particolare registro stilistico di Kavafis, questo incrocio tra una cronaca e un epitaffio. Questa formula – sia essa applicata alle “poesie storiche” o a temi propriamente lirici – crea un singolare effetto di autenticità, salvando le estasi e le fantasticherie del poeta da ogni verbosità, colorando di reticenza le enunciazioni più elementari. Sotto la penna di Kavafis cliché e convenzioni sentimentali diventano – quasi come accade per i suoi aggettivi ‘poveri’ – una maschera». Sulla tecnica delle implicazioni in Rutilio ho preso qualche appunto nell’introduzione alla mia edizioncina einaudiana (Fo 1994, p. xv).

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nei suoi ‘armonici’: Rutilio infatti lascia spesso che sia la fantasia dei lettori a integrare ciò che egli non si sofferma a descrivere dettagliatamente. Uno studio delle singole fasi della sceneggiatura mostra come questo effetto di reticenza sia in parte intenzionale e – anche laddove preterintenzionale – sia comunque ottenuto ‘per forza di levare’ rispetto a precedenti situazioni più analiticamente descritte. Ma, pressoché sempre, il ‘levare’ è stato fruttuoso ed ha segnato un progresso, una maturazione di situazioni e personaggi, una loro essenzializzazione che contribuisce a stilizzarli negli spazi del simbolo, a precipitarli in emblemi. A questa tecnica che privilegia i sottintesi e le immagini cariche di implicazioni, si lascia ricondurre anche la sequenza finale del film152. La scena si è venuta precisando fino all’attuale nitore gradualmente, attraverso una rosa di soluzioni. In una prima versione, né Minervio né Rutilio si avvedono del sopraggiungere dei cavalieri di Ravenna e del loro uccidere il giovane rematore della cymba (l’aristocratico decaduto); Minervio si va anzi appisolando e Rutilio, che è sceso sulla spiaggia, gioca con un bastoncino e infine lo spezza. È su questo gesto – naturalmente simbolico di quanto sta per accadere – che Minervio schiude gli occhi e Rutilio dice «siamo sì e no alla metà del viaggio, amico, e sembra passato un secolo…», per accorgersi poi subito dopo del sopraggiungere degli armati (Prima, scena 87). Da Sesta, fermo restando il contesto, con la vicenda del bastoncino, Minervio si accorge degli eventi un po’ prima di Rutilio, e fa qui il suo ingresso la risposta che poi rimarrà fino a Film «Di questo o di quell’altro?» (Sesta, scena 99; qui Rutilio si gira e, visti gli armati, risponde «E chi lo sa?», battuta soppressa in Decima e in Film). Nella stesura Quinta è conservato su fogli volanti un appunto manoscritto a matita, di mano di Alessandro Ricci, che propone un finale ancora diverso, di cui non fu tenuto conto. Questa la successione di eventi: «SCENA 97 (ex 96 f. 111) PORTO DI LUNI. EST. ALBA […] Mentre Rutilio scrive, Minervio, che gli è vicino, gli chiede: MINERVIO “Stai cancellando dall’elenco anche i traditori di Luni?” RUTILIO “L’elenco non è finito, Minervio, è ancora lungo…” Mentre R. dice queste parole, Minervio si accorge di ciò che accade in lontananza: qui Scena 97 p. 112» (Ricci allude alla scena in cui il patrizio decaduto, che in questa redazione ha ancora il nome di Theòn, viene inseguito e ucciso dai cavalieri di Ravenna). Poi l’appunto prosegue «SCENA 98 mia ALBA IN CRESCENDO. MINERVIO “Non è lungo, Rutilio, è corto. Guarda laggiù…” Rutilio, sempre da seduto, vede quello che c’è da vedere, depone con attenzione stilo e tavolette sul fondo della barca, e lentamente si alza: RUTILIO “Cercano solo me. Tu scappa, va’ via.” MINERVIO (mentre sfodera la spada) “Per chi mi hai preso, Rutilio?... Sarà difficile, ma almeno uno lo voglio ammazzare… Nella barca, se vuoi, c’è un gladio anche per te…” Rutilio si piega a prendere la spada nella barca e, con un sorriso al suo compagno, mentre la impugna: RUTILIO “Ma sì. Dovranno pure piacermi, una volta tanto, le lame di coltello.” Vediamo i cavalli dei ravennati scalpitare sul suolo. Poi fermarsi. Rutilio e Minervio sono

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Nell’Ipazia di Mario Luzi, il personaggio di Sinesio, nel momento in cui, già ansiosamente consapevole, sta per apprendere la notizia dell’uccisione di Ipazia, si rivolge alla figura di Jone, che gliela reca, con queste parole: Aspetta, aspetta un poco prima di dirmelo. La carità di donna che ti ha condotto qui t’ingiunga di tacere ancora un istante. Dall’ignoranza alla certezza c’è un attimo intermedio di [prescienza in cui è ancora possibile alla mente di negare l’accaduto. Lascia trascorrere tutto intero quel breve tempo153.

ben piantati nella sabbia, le armi strette nelle mani. RUTILIO “Sembra passato un secolo, amico, e siamo sì e no alla metà del viaggio…” MINERVIO “Di questo o di quell’altro?” RUTILIO “E chi lo sa?” La mdp inquadra, da dietro, le zampe posteriori del cavallo dell’ufficiale di RV che si slanciano all’attacco, sollevando sbuffi di sabbia. E così fanno gli altri tre. La mdp inquadra, in lontananza, Rutilio e Minervio fermi, l’uno di fianco all’altro, ad aspettare la fine. C’è molta luce. Fermo immagine su di loro». Nella Primissima, cioè la versione per la serie Vita quotidiana di…, si prevedeva quanto segue: Rutilio, sulla cymba ancorata nel porto di Luni, scrive quelli che sono ora gli ultimi versi conservati dalla tradizione diretta, mentre alle sue spalle, senza che lui se ne accorga, sulla spiaggia si consuma un delitto (due uomini ne inseguono un terzo, lo bastonano a morte e lo derubano, poi fuggono: scena 33, pp. 84 ss.); quindi (scena 34) «siamo nel medesimo posto della 33; non ci sono più né la cymba, né Rutilio, bensì la vita normale di quella località, oggi. Davanti a noi un esperto, uno storico della letteratura latina». A questo «esperto» è assegnato il compito di chiarire come qui si concluda la cronaca del viaggio da parte di Rutilio, e di dare alcune interpretazioni della sua avventura. 153 Luzi 1993, p. 47. Su questo tema, in un registro parallelo, va segnalata anche la splendida (fra splendide) poesia di Thomas Hardy Outside the Casement (A Reminiscence of the War)/ Fuori della finestra (Un ricordo di guerra) (cito dalle ottanta liriche tradotte con testo a fronte da Maria Stella nella sua monografia uscita nella collana «Il testo ritrovato» dell’editore Franco Angeli: Hardy 1992, pp. 224-225): «Seduti nella stanza/ tessevamo le lodi di lei,/ là fuori nell’ombra del portico;/ non poteva sentire/ cosa dicevamo,/ ma sorrideva, perché il senso non era nascosto.// Poi arrivò/ quel messaggio,/ denso di cattive sorti per lei là fuori,/ cara per noi quel giorno/ oltre ogni dire,/ e che avremmo voluto schermare da ogni soffio d’affanni.// E il dilemma premeva/ come piombo su ogni petto,/ dovevamo celarle la notizia, o chiamare per dirgliela?/ Troppo intensa era la scelta/ per il nostro sentire,/ mentre riflettevamo e guardavamo lei, a noi tanto cara.// Sì, mancava il coraggio,/ di fronte a ciò che ci assaliva;/ per quanto tempo, pur sapendo cosa presto doveva accadere,/ potevamo fingere/ di non saper niente,/ e fermare il colpo che sbiancava e stordiva?// E così, prima/ che per sempre/ gioia la lasciasse, ci esercitammo a ingannare/ la sua innocenza/ quando di tanto in tanto/ si affacciava a guardar dentro, e ci sorrideva ancora un sorriso».

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In quell’attimo in cui Rutilio alza gli occhi e coglie il suo imminente destino sembrano affollarsi, dietro il cristallo dell’imperturbata espressione di Elia Schilton, analoghe percezioni. A «quel breve tempo», l’inquadratura conclusiva del film appone, per così dire, un punto coronato: e ne fa un momento che, mentre scivola fuori dalla nostra osservazione, ‘trascorrerà tutto intero’ per sempre. 9. A scuola con Rutilio a) Didattica come spettacolo Un episodio singolare della fortuna di Rutilio nell’ambito dello spettacolo costituisce la riduzione scenica allestita dal Centro Teatrale “C. Rinaldini” per la sperimentazione sul teatro dell’antichità classica, costituitosi da ormai circa vent’anni presso il Liceo Ginnasio di Stato “C. Rinaldini” di Ancona. Nell’arco dell’Anno Scolastico 2004/2005, Adriana Stecconi, l’animatrice di questo Centro Teatrale che recluta attori e registi fra gli studenti154, ha deciso di impostare un lavoro che trascrivesse per la scena l’avventura di Rutilio155, e, procedendo a un libero adattamento del testo sulla base della mia traduzione, ha via via recepito a livello di copione il contributo dei Adriana Stecconi è responsabile dello spettacolo dal vivo di varie associazioni nazionali, fra cui spiccano l’Agiscuola e l’Associazione Teatro Giovani, e affermata operatrice nell’ambito del «Teatreducazione», cioè di quel nuovo approccio all’educazione al bello tramite lo spettacolo, inteso a superare il vecchio concetto di «recita scolastica». 155 Ancora una volta (cfr. l’inizio dei paragrafi 3 e 4) la polarizzazione sul diario ‘privato’ di Rutilio discende, ancor prima che da valutazioni di taglio letterario, da un’adesione olistica e immediata, occasionata da profonde ragioni affettive. Il poemetto di Rutilio, di casa in famiglia per ragioni legate alla passione per la navigazione nutrita dal marito di Adriana Stecconi, il noto avvocato anconetano Riccardo Stecconi, alla improvvisa scomparsa di quest’ultimo diveniva una sorta di itinerario orientato in direzione del suo ricordo. Cfr. la nota firmata da Valentina Rosati sul programma di sala: «Grazie a chi ci ha dato l’idea: anche se non c’è più, vogliamo dedicargli il nostro lavoro, le finezze per pochi esperti marinai, che lui sicuramente avrebbe apprezzato e l’emozione di ricordarlo ancora come l’uomo straordinario che era». L’opuscolo Rutilio, Sensazioni (vd. paragrafo 9 b) si apre con due appunti poetici di Adriana Stecconi, il primo dei quali suona: «Segni che hai lasciato, il tuo amore per Rutilio,/ l’anello che è arrivato il giorno del trigesimo,/ le tracce di poesia segnate nei tuoi libri/ che non sapevo tu mi preparassi». 154

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ragazzi coinvolti della gestazione dello spettacolo. Ora, dal momento che il 2004 è stato anche l’anno dell’uscita del film De reditu-Il ritorno, l’intera compagnia ha potuto – non senza qualche complicazione organizzativa – assistere a una proiezione della pellicola di Claudio Bondì, e questo non è rimasto senza conseguenze sulla stesura dello spettacolo. Infatti, e soprattutto per insistenza dei ragazzi, alla trama dell’autentico testo rutiliano hanno cominciato a sovrapporsi e intersecarsi tratti e battute della sceneggiatura di Alessandro Ricci e Claudio Bondì, così che il risultato finale del laboratorio (anche di ricreazione letteraria) ha registrato una del tutto inedita fusione di tratti pertinenti al poemetto di Rutilio e tratti appartenenti a un episodio saliente di quell’altro suo viaggio che è la deriva della ‘fortuna’, con le nuove, libere e arbitrarie piste dischiuse dalle riscritture. In particolare, affiora nel copione di questa rielaborazione Minervio, un amico di Rutilio appartenente al film, ma non al poemetto. La figura di Protadio è esemplata non solo sul ritratto che ne stila Rutilio, ma anche e soprattutto su come viene rielaborata da Bondì e Ricci, con varie battute attinte all’episodio del suicidio stoico di cui il Protadio del film diviene protagonista. Cospicui debiti presenta inoltre questo adattamento con alcune delle scene salienti del film, come l’incontro fra Rutilio e un monaco, la processione osirica, la tempesta con susseguente naufragio, l’accoglimento di Rutilio nella villa dell’amico Albino e la discussione che impegna Rutilio con alcuni amici aristocratici restii ad aderire ai suoi progetti di restaurazione pagana. Va tuttavia in proposito specificato che, in regime di maggior fedeltà a Rutilio, lo spettacolo del Rinaldini non recepisce pressoché nulla dell’impianto politico e avventuroso cui la riscrittura di Bondì e Ricci è stata in qualche modo forzata da esigenze di cassetta chiamate in causa dalla produzione156. Lo spettacolo è andato in scena, per la brillante regia della ventenne ex-allieva del Laboratorio Valentina Rosati, il 7 e il 12 giugno 2005 ad Ancona, in due contesti molto differenti fra loro. La ‘prima’ ha avuto luogo nell’Aula Magna d’Ateneo della Università Politecnica delle Marche (in località Monte Dago),

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In proposito vd. sopra, al contesto delle note 130 e 131.

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un ampio elegante auditorium più simile a una sala da concerti che a un teatro, caratterizzato tuttavia da un’ampia ‘orchestra’ la cui moquette color beige presentava il segnalato vantaggio di simulare con un certo realismo una morbida distesa di sabbia. La replica del 12 giugno si è svolta invece in uno spazio aperto estremamente suggestivo, affacciato sul mare, situato nel Parco del Cardeto in prossimità del vecchio faro, e – alle ore 20 – in concomitanza con un lungo e fastoso tramonto, suscettibile di un immediato allineamento simbolico con le condizioni in cui si svolge il viaggio di Rutilio. Questa la ‘locandina’ dello spettacolo: CLAUDIO RUTILIO NAMAZIANO DE REDITU SUO Libero adattamento di Adriana Stecconi Regia, collaborazione al testo e creazione dei cori di Valentina Rosati Con il contributo dei ragazzi, divisi in gruppi di lavoro: testuale e musicale Personaggi e interpreti: Rutilio: Matteo Magistrelli Minervio, l’amico di Rutilio: Riccardo Balestra Capo marinaio (e giudeo): Francesco Ferrotti Protadio (e marinaio): Diego Messale Marinaio (e nobile amico): Pietro Migliori Marinaio (e nobile amico): Giacomo Gnemmi Ninfa (e capo coro): Eleonora Pinat Ninfa (e il matto): Petra Valentini Altre ninfe e coro: Laura Amati Federica Cantarini Claudia Caruso Desirée Domenici Anna Faragona Eleonora Giuliodori Federica Greco Giovanna Grilli Elisa Marinozzi Laura Miseria Chiara Petrocchi Vivalda Poggiali

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Giulia Pignocchi Olimpia Postacchini Suonatori: Giovanna Capponi (anche voce recitante in latino) Jennifer Mba (anche sacerdotessa di Osiris) Jenny de Sisto Marco Tittarelli (anche voce di marinaio) Gabriele Serpente (anche voce di marinaio) Federico Capezza (anche voce recitante) Hanno collaborato i docenti Rosaria Bellagamba, Rosanna Paci, Lucilla Niccolini e Giacomo Piva

Personalmente, dopo essere stato gentilmente invitato alle prove (aprile 2005) e aver dunque potuto seguire lo spettacolo nel suo farsi, ho potuto assistere alla rappresentazione del 7 giugno – occasione cui si riconducono anche le riprese dello spettacolo, disponibili in dvd157 –, mentre di quella del 12 ho potuto farmi un’idea indirettamente, grazie soprattutto ad alcune foto messemi a disposizione dal mio collega di Storia Romana Stefano Conti, che ha potuto seguirla nella sua città in quell’occasione. La sera della ‘prima’, mentre il pubblico affluiva, molti dei ragazzi, sparpagliati qua e là nella sala, recitavano piccole scene, assorti ciascuno nella loro occupazione. I marinai arrotolavano cime o provvedevano ad altri aspetti organizzativi in vista del viaggio. Rutilio si trovava già seduto al centro della scena, con aperto fra le mani un codice cui rimaneva intento con ferma concentrazione. Il suo amico Minervio si aggirava distratto per la scena. L’estrema semplicità dei costumi, dovuta a ovvie ragioni di budget, si risolveva in un geometrico principio d’ordine, utile a segnalare con immediatezza la distribuzione dei ruoli nella piccola folla di partecipanti: in grigio i marinai; in nero i musicanti (già schierati fin da prima dell’inizio ai loro posti) e Rutilio (dotato di un lineare ma elegante mantello); in bianco 157 Una copia del dvd Claudio Rutilio Namaziano, De reditu suo, a cura di Adriana Stecconi, regia di Valentina Rosati, è disponibile anche presso la Mediateca della Biblioteca della Facoltà di Lettere dell’Università di Siena.

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un collegio di seducenti creature femminili che il programma di sala segnalava – lo si è visto – come ninfe. Quest’ultime giocavano qua e là con bianchi sassi che poi, scendendo nell’‘orchestra’ al momento di dare inizio allo spettacolo, avrebbero disposto in cerchio sulla sabbia-moquette, isolandovi uno spazio al cui interno – come sulla loro piccola nave – prendevano posto accanto a Rutilio il suo equipaggio e Minervio. Fuori da questo navale ‘cerchio magico’, distribuite ai due lati, le ninfe avrebbero d’ora in poi animato un’efficace partitura gestuale intesa ad animare il resoconto di Rutilio con gli adeguati apporti di una scenografia ‘in potenza’. Ed oltre a ciò, sempre al coro delle ninfe sarebbe stata affidata larga parte della narrazione, ora segmentata in battute sulla dislocazione, ora affidata a momenti corali di relazione sul viaggio o di commento di suoi tratti salienti. Di particolare suggestività i passaggi in cui, illuminate da luci azzurre e impegnate in oscillazioni di escursione ora contenuta ora più mossa, le ninfe erano chiamate a rappresentare le onde: verso la fine, questa loro ‘ondulazione’ conosceva una pagina di concitata agitazione, con picchi sulle punte e rilevanti spostamenti laterali, efficacissimo affresco di una tempesta. Alle spalle di questo schieramento, su una pedana rialzata, era collocata la nera siepe degli strumentisti, altro nodale punto di forza dello spettacolo. Nella scommessa di ridurre per la scena un testo in sé oggettivamente esile e tendenzialmente refrattario a un’agevole teatralizzazione, i ragazzi del laboratorio hanno sapientemente ricavato, in direzione delle evocazioni d’atmosfera, uno spazio assolutamente protagonistico per la colonna sonora, interamente di loro invenzione. Con un forse inconsapevole allineamento ai ritmi della voga, il ruolo principale veniva giocato dalle percussioni. Ma il loro punteggiare di pulsazioni le tappe rutiliane, pigre e talora intercettate da accidenti esterni (maltempo, imprevisti), si arricchiva di sonorità eccentriche e straniate determinate dal largo impiego di inconsueti strumenti etnici quali il – rutiliano fin dal nome – bastone della pioggia, o il corno nepalese, l’ubu e il sitar; e soprattutto il digiridu dalle eco cupe e profonde (cui dava voce Gabriele Serpente), strumento particolarmente deputato a ‘musicare’ gli spazi del nudo e crudo spostarsi fra una tappa e l’altra – divenuti bianchi sulla pagina. Talora, segmenti del testo latino venivano ‘montati’ in can-

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tilene e escursioni vocali, cui aderiva il coro delle ninfe, di indubbia efficacia e suggestione: così, proprio all’inizio, la scelta del mare, sottolineata dalla vocalizzazione electum pelagus (ricavata da I 37), e, all’altezza delle saline di Albino, iuncta fluenta (I 489). In altri casi, essi venivano semplicemente declamati da Giovanna Capponi sullo sfondo di una colonna sonora da lei per larga parte sapientemente gestita. In qualche caso, dalle ‘seconde file’ costituite dalla schiera dei musicanti, muoveva alla ribalta una sorta di travolgente flutto di pathos che ‘spazzava’ davanti a sé personaggi e coro, trascinando tutti a una plastica, coinvolgente esecuzione d’insieme. Vanno in tal senso ricordati soprattutto due momenti: la gestione del cosiddetto ‘inno a Roma’, che riusciva nella difficile impresa di trasfigurare un brano non privo di rischiosi lenocinii retorici a episodio vivace e animato da un’incalzante spinta interiore; e la spiazzante situazione casualmente occasionata dalla descrizione dell’ingresso nel porto di Civitavecchia. Questo il testo di Rutilio, con il corredo della mia traduzione (I 237 ss.): Ad Centumcellas forti defleximus Austro; tranquilla puppes in statione sedent. Molibus aequoreum concluditur amphitheatrum, 240 angustosque aditus insula facta tegit; attollit geminas turres bifidoque meatu faucibus artatis pandit utrumque latus. Piegammo su Centocelle con un forte Austro, le navi oziano tranquillamente in rada. Con moli è chiuso l’anfiteatro d’acqua 240 e un’isola artificiale ripara gli angusti accessi: slancia torri gemelle, e lungo i due passaggi allarga, a stringerne le bocche, entrambi i lati.

Ebbene, all’entrare in campo di quelle geminae turres che segnavano l’imboccatura del porto, tutta la compagnia registrava un improvviso sobbalzo e in particolare le ragazze del coro, come uscendo dalla loro parte di ninfe tardoantiche, o colte da un subitaneo afflato profetico, sostenute dall’impennata della colonna sonora si slanciavano in proscenio a gridare sgomente quel segmento verbale caricatosi intanto di tale risonanza: «Torri gemelle! Torri gemelle!». Un lampo subito rincalzato dal celebre monitorio solenne elaborato da Rutilio per le ro-

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vine di Populonia: «non indignamoci che i corpi mortali si disgreghino:/ ecco che possono anche le città morire»158. Nella sua sostanza, lo spettacolo costituiva dunque una esecuzione in forma di concerto del poemetto di Rutilio, intersecata da battute e situazioni desunte dal film di Bondì, e arricchita dagli arabeschi della partitura gestuale delle ninfe e dalle coinvolgenti suggestioni dell’impeccabile colonna sonora. Al centro, Rutilio talora usciva dal silenzio con lampi di diario, talora si trovava semplicemente impegnato in una sua scrittura virtuale, operata con una rossa penna d’oca direttamente nell’aria. Il poeta vi archiviava – perché potesse tornare fino a noi – ciò che le ninfe, quasi sua immediata fonte di ispirazione, declamavano in coro. Con il provvisorio arricchimento di un mantello rosso, la divisa nera o grigia di un figurante si mutava nell’elegante senatorio panneggio di uno dei tanti amici di Rutilio, quegli aristocratici di rango senatorio che costellano il suo regesto, e che qui, come in Bondì, trovano il loro principale precipitato nelle già ricordate figure di Minervio e Protadio. Da non sottovalutare la presenza scenica degli interpreti, che correva dalla prestanza fisica del comparto maschile alla sottile e fascinosa avvenenza equamente distribuita fra il coro delle ninfe e le distanti, eteree suonatrici. Una vera sfilata di queste bellezze, guidata dalle esotiche fattezze di Jennifer Mba, risultava la festosa scena della cerimonia osirica, in cui la coreografia conosceva un incremento di gioia grazie all’improvviso sfoggio di veli colorati. Per il finale, la riduzione affidava a Rutilio una battuta ispirata a una frase di Nietzsche159: «devi imparare quella prudenza del pensiero che ci rende capaci di navigare a vista tra gli Rut. I 409-414 (con la mia traduzione): Agnosci nequeunt aevi monumenta prioris/ grandia consumpsit moenia tempus edax;/ sola manent interceptis vestigia muris/ ruderibus latis tecta sepulta iacent./ Non indignemur mortalia corpora solvi:/ cernimus exemplis oppida posse mori. «Non si possono più riconoscere i monumenti dell’epoca trascorsa,/ immensi spalti ha consunto il tempo vorace./ Restano solo tracce fra crolli e rovine di muri,/ giacciono tetti sepolti in vasti ruderi./ Non indignamoci che i corpi mortali si disgreghino:/ ecco che possono anche le città morire». Su Rutilio a Populonia rinvio a Fo 2003, Fo 2004 e a Squillante 2005, pp. 192 s. Vd. anche più oltre, al contesto delle note 170 e 171. 159 Mi precisa Adriana Stecconi che la fonte dello spunto fu per lei la pagina culturale del quotidiano «La Repubblica» del giorno 15 novembre 2004, nella quale 158

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scogli del mare delle precarietà, nella traversata del divenire, nella transizione da una cultura ad un’altra». Ma, soprattutto, intorno a lui ninfe e marinai scendevano nel riposo, nell’archiviazione lungo il tempo, ripetendo fra sé ciascuno una sua battuta, un frammento del poemetto, quasi già si trattasse di un frammento di sogno. b) «Rutilio, Sensazioni»: fra didattica e creatività Il pomeriggio del giorno del debutto, il 7 giugno 2005, per favorire un’ulteriore penetrazione nelle singole parti, gli organizzatori dello spettacolo del Centro Rinaldini hanno chiesto a attori e musicisti di elaborare qualche riflessione scritta su alcune delle battute – per lo più quelle da ciascuno pronunciate – o comunque sul proprio ruolo nello spettacolo. Ne è germogliato un ulteriore laboratorio, di taglio spiccatamente creativo, che ha sviluppato in peculiari diffrazioni narrative la singolare esperienza di contatto con il non così frequentato poemetto rutiliano. A fine giugno 2005, il giovane professore Giacomo Piva ha raccolto queste fantasie in un opuscoletto intitolato Rutilio, Sensazioni e riprodotto ‘in proprio’ dal Centro Teatrale Rinaldini, che merita una particolare attenzione, sia per la qualità degli interventi, sia sotto il profilo metodologico. Una rapida carrellata su queste giovanili ‘prove d’attore’ non può infatti che risultare illuminante su quale fecondità di sviluppi offrano simili operazioni di ‘riappropriazione’ di un testo classico quando siano condotte con sensibilità e finezza (cioè, in una parola, con amore). Il fatto poi che il De reditu suo sia un testo relativamente marginale nel corrente raggio d’azione dei programmi scolastici, mentre illumina ulteriormente la ricchezza delle potenzialità su cui insistevo, può forse essersi rovesciato per i ragazzi in un incremento del desiderio di scoprire, di allargare – non solo nello studio, ma soprattutto nella ricreazione fantastica – il proprio orizzonte di esperienze e conoscenze. Il piccolo quaderno presenta ventisei interventi dei protagonisti, incorniciati da una pagina preliminare contenente due brevi poesie di Adriana Stecconi in veste di dedica e di Umberto Galimberti scriveva sul volume di Franco Volpi, Il nichilismo (Roma-Bari, Laterza, 1996).

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‘epigrafe’160, e da una nota conclusiva del curatore Giacomo Piva, che ricapitola il senso e il valore del minuscolo quanto prezioso referto (p. 28): Frutto di un’improvvisazione, le pagine che precedono sono ritmate dal rifluire di parole e sensazioni del mare. Bufere e timori, partenze e desideri, bonacce e tepori, approdi e dolcezza: uno sciabordio che non sorprende il lettore – il poemetto che lo suscita è pur sempre un personalissimo diario di bordo – lo accompagna invece nei lidi ora in tempesta ora assolati dei cuori pescosi di queste ragazze e ragazzi. Chi vi getti le reti di una lettura viva, le issa impigliate di memorie e di sapienza e tra nodi immaginifici ritrova le angosce gentili di una stagione intatta e quelle feroci, abissali, della storia, male insaziato. […] Un turbinio di amori e di coscienza dà vita a questo spettacolo e a questo diario e tutti i suoi artefici l’hanno offerto al mio saccheggio. A tutti, grazie per questo dono.

Alcune rêveries non hanno firma, è come se fiorissero da una situazione contingente dello spettacolo, immedesimandosi in un ‘Rutilio totale’ che resta l’unica voce abilitata a registrare quanto avvenga161. Altrove la firma è direttamente quella del personaggio («la ninfa Stige», p. 15; «Il Matto», p. 26), o accade che giovane attore e personaggio vi convivano, come nel caso di «Riccardo Balestra (Minervio)»162, o di «Laura (ninfa alseide)». Quest’ultimo si riallaccia alla ricordata ‘coincidenza’ fra le torri gemelle di Civitavecchia e le Twin Towers; eccolo nella sua interezza (p. 17; cfr. al contesto di nota 158): Vd. sopra, nota 155. È il caso delle prime due (pp. 2 e 3, entrambe anonime), l’una in calce all’attesa a Portus e poi alle primissime fasi del viaggio, l’altra alla cerimonia isiaca che lo spettacolo mutua in parte dal film di Bondì. 162 Questi, a p. 25, sovrappone a quello del suo viaggio in palcoscenico il ricordo di un viaggio in nave verso Atene. Eccone qualche riga: «[…] giunsi al piano superiore della nave, ma non bastava. Raggiunsi il piano superiore e quello superiore ancora fino a giungere all’ultimo. Afferrai il parapetto della nave e mi spinsi per vedere tutte le persone che con lacrime involontarie salutavano i propri compagni. Io, solo, non salutavo. Scrutavo. Volevo liberarmi di tutte le preoccupazioni, ma la curiosità di ciò che mi sarebbe accaduto durante il viaggio era troppa. Ero felice. Ero triste. Ero solo. Ero con tutti. Ero solo tra me e me, ma eravamo tanti nell’intera nave. Ero triste di lasciare, chissà per quanto tempo, la mia scuola, i miei amici. Ma ero felice. Volevo conoscere. “Rutilio, Rutilio, saluta i tuoi cari amici, un viaggio è sempre un perdersi, forse ci ritroveremo”». 160 161

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Ricordo ancora, vedo ancora, rabbrividisco ancora… Come una valanga scende minacciosa giù da una montagna e reca negli abitanti del paese sottostante timore, lasciando impressi nella mente scheletri di case quasi prive di fondamenta, così una valanga di macerie precipitava su Manhattan portandosi via le Torri Gemelle. Stanze incendiate, un grandissimo fumo che si innalzava fino al cielo e soprattutto un numero indescrivibile di morti. I bambini fuggivano in preda al panico guidati da conoscenti, famigliari e addirittura sconosciuti; troppi non riuscivano nemmeno a tentare la fuga, erano quasi immobilizzati e così rimanevano intrappolati nella strada e nelle loro stesse case cercando di allungare la mano insanguinata per uscirne fuori e respirare. I pompieri, in pochissimo tempo, dovevano affrontare un compito difficile: spegnere le fiamme nei due grattacieli dai quali parecchi lavoratori si gettavano non potendo sopportare di morire arsi vivi. Purtroppo i soccorsi non erano sufficienti e questa sciagura sconvolge ancora le nostre menti. Vedere quella città ridotta in tal modo era struggente: mi trovavo a casa di una mia amica mentre la televisione riportava immagini e storie così dolorose e tristi che chiunque avrebbe voluto chiudersi in una stanza e urlare, urlare e urlare ancora, sempre di più. Io urlavo dentro, nel mio animo, e ammetto che ancora oggi provo tale sensazione quando, durante lo spettacolo De reditu suo, pronuncio due parole che ne valgono un miliardo e forse più: torri gemelle. Avverto il rimbombo delle onde che colpiscono gli scogli, alimentate dal vento che soffia continuamente, vedo la barca che procede mentre il mare la inonda e il cielo che la sovrasta coperto di nubi grigie. Dunque, come nell’attacco dell’Undici Settembre, non avendo più la forza di vedere il disastro, distolsi lo sguardo, così ora nella rappresentazione teatrale non posso fare altro che coprirmi gli occhi con le mani.

Per lo più, a un frammento di Rutilio si raccorda una propria esperienza di viaggio163. Si può andare dalla vacanza 163 Nel caso di Chiara Petrocchi (p. 4) è perfino difficile distinguere se il suo viaggio al Giglio sia una proiezione rutiliana o un’esperienza personale; il suo scritto si chiude con le parole «il teatro mi ha insegnato molto, soprattutto autocontrollo, disciplina, cose che prima mi mancavano». Anche Giulia Pignocchi (p. 14) ‘rivive’ un rutiliano approdo al Giglio, e chiude con un poscritto: «Esperienza teatrale unica nel suo genere, bella e coinvolgente. L’opera De reditu suo di Rutilio Namaziano, molto particolare e difficile da rappresentare, mi ha incuriosita sin

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strappata a un titubante consenso dei genitori164, al viaggio di famiglia che porta Gabriele Serpente «da Roma a Lisbona, attraverso l’Europa» (p. 11), fino al naufragio sfiorato in una traversata a vela da Pietro Migliori165. Fiammeggia in questa rosa di testi il doppio viaggio di esilio narrato da Eleonora Pinat (p. 6):

dall’inizio. Sono felicissima di aver partecipato a questo spettacolo, per me ha significato un’importante esperienza di vita». Parallelamente Eleonora Giuliodori (p. 8) sembra sposare esperienze personali alla sua empatica e poetizzante riscrittura di giorni di navigazione rutiliani. 164 Claudia Caruso (p. 7, con il pensiero al passaggio di Rutilio davanti a Cere, e poi alle sue soste poco a nord della foce dell’Ombrone e a Falesia): «Siamo il solito gruppo di amici da quasi cinque anni e nessuna lite è mai riuscita a dividerci ed ora eccoci qua come una grande famiglia. C’è voluto molto tempo per convincere i miei a farmi partire ma l’importante è che ora siamo tutti in viaggio verso qualcosa di nuovo, di strano… indimenticabile. Siamo molto giovani e l’organizzazione non è mai stata il nostro forte… Abbiamo desiderato questo viaggio con tutti noi stessi e più che una vacanza, è una fuga, fuga da tutto quello che ci circonda. Arriviamo con non poche difficoltà, quando ad un punto ecco i confini di Cere. Stanchi e stremati, ci andiamo ad accampare, terminando così la prima giornata. La mattina dopo ci aspetta un giro in barca, quando poi, sbarcati, ci dirigiamo ad una villa e vaghiamo in un boschetto, / ammiriamo gli stagni dallo specchio racchiuso in un modo delizioso. Il cielo è meraviglioso e una leggera brezza accarezza dolcemente i nostri abiti. Ci sentiamo grandi – seppure la nostra età dica il contrario – felici. Tracciamo un campo notturno sulla spiaggia di Falesia, la sabbia è fresca e sottile, il sole sta tramontando, tutti i miei pensieri e problemi sono improvvisamente spariti. Ci sono solo io». 165 Ne riporto qualche riga (da p. 24, con il pensiero a Rutilio I 323 s.: mutantur totiens vario spiramina flexu:/ quae modo profuerant vela, repente nocent): «[…] Il quinto giorno, seppure il sole inondasse le fiorenti isole croate, un forte maestrale soffiava impetuoso da Nord-Ovest. Leo, il padre di Michele, ci chiede aiuto nell’affrontare questa calamità. Le vele erano rigonfie al vento che le giostrava a suo piacimento; di colpo le vele, or ora di aiuto, ritornavano a danno e stava diventando pericoloso attraversare lo stretto di Snicek. Cambiamo spesso la rotta per evitare le forti folate e per farci sospingere dai venti in modo sicuro. Il tangone e la gomena impazzivano e ad un certo punto, spaventato dalla critica situazione, Michele afferra la cima maestra bloccando la vela che, non sopportando l’inaudita violenza del vento, inizia a far inclinare la barca verso destra; ogni membro della ciurma scivola a terra, con la barca che è ormai perpendicolare orizzontalmente al mare. Il momento è tragico e rischiamo di capottarci e affondare una barca da 100.000 dollari. Il viso di Leo diventa rosso ed inizia a bestemmiare pieno d’ira contro il figlio, urlando di mollare la cima. Michele obbedisce stordito, non credendo che fosse lui il colpevole dell’eccessiva inclinazione. La barca si stabilizza e noi tiriamo un sospiro di sollievo. Con molta fatica passiamo il punto critico e ci andiamo a riposare in una baia. Nel momento di riposo Betty urla: “Guardate in acqua!”. Noi tutti ci affacciamo frettolosamente e… c’era una mucca morta in acqua con centinaia di pesci che banchettavano con le sue carni rosse….».

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È una fuga, non una partenza. È un esodo. È il rinunciare a tutto ciò che si aveva, a tutto ciò che si conosceva. Ci eravamo ormai affezionati a quella vita, a quella città, a quel paese dell’Est europeo, a quella Romania che non era, però, mai stata la nostra patria. E proprio ora che cominciavamo a sentire nostra la lingua, l’atmosfera, quei colori così diversi dai nostri, gli odori, la storia ci strappa via da una terra amata e come allora il cuore si frantuma. Le dita non vogliono lasciare la maniglia della porta. È già il secondo addio. E la vita nel dopoguerra non è certo quella che ci aspettavamo. Era Pola, la nostra vita e il nostro amore. In una settimana la nostra gioventù era stata rubata e calpestata. Erano entrati in casa nostra, al primo albeggiare. Rumori per le scale, voci dietro la porta e uno schianto. Sono entrati, i frantumi di legno, ovunque addosso a loro. Ci hanno scaraventati giù dai letti e ci hanno fatto uscire in strada in camicia da notte. Mia madre ha i capelli sciolti che le arrivano al sedere; non li avevo mai visti, di solito è così precisa e ordinata, anche ora cerca di ricomporsi ma è inutile. Siamo già in fila diretti verso un destino del quale sapevamo solo che… E ritorno al presente, ad un secondo addio. Dopo quel giorno di marzo c’era stato solo un viaggio, lungo, estenuante e poi Bucarest. E adesso abbandoniamo anche lei. La meta ci è ignota, ci sono nell’aria voci che parlano di Italia, di Slovenia e il cuore è incerto, palpita, ancora una volta. E accanto a me, una mamma incita la bambina: «Vieni amore, andiamo, andiamo» e poi tra sé «verso un destino del quale sai solo che….». La voce si perde ed è solo silenzio.

Talora la divagazione è maggiormente polarizzata su un preciso aspetto dello spettacolo. È il caso dell’intervento di uno degli strumentisti, Jenny de Sisto (p. 16): Non ho frasi, non ho parole, ho solo suoni. Sono un suono, mi propago nell’aria come un filo di fumo, arrivo alle orecchie, percorro le membra dalla testa fino al cervello. Mi fermo, ed ecco la sinapsi e così vengo interpretato in modo differente da ciascuno. Ora sono suono del teatro, inizio, arrivo con soffice soffio al pubblico. M’innalzo sempre più, gli attori guardano a Roma e il suono ora è solenne. Abbasso il tono e nelle viscere si diffonde la sensualità delle sacerdotesse; ora la tempesta, ed ecco l’impeto frenetico interrotto da un silenzio lacerante. Piano piano calano le voci, bisbigli nell’aria e poi un solo gracidio; è il reco-reco, suono del principio e della fine.

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Risultano particolarmente interessanti i casi in cui la fantasia si esercita nei dintorni di tratti del testo rutiliano. Talora si tratta di brevi appunti su di una battuta166. È curioso osservare come in un paio di circostanze il segmento rutiliano sia recuperato all’interno di un racconto che riguarda invece luoghi e persone delle Marche; «Rutilio» vi permane allora come nome di un nuovo individuo167 o di un cavallo esperto in ritorni168.

È il caso di Francesco Ferrotti, che, muovendo da Rutilio I 205, immagina un viaggio ‘rutiliano’, ma verso la Spagna e passando per le coste sarde (p. 13). Laurina Miseria (p. 19) descrive delicatamente le immagini che le affiorano in mente quando recita i versi rutiliani relativi al porto di Pisa (I 537 ss.): «Sono le prime ore del mattino, c’è nell’aria odore di salsedine, il porto è deserto. Si propagano nel cielo le prime luci dell’alba, l’aurora tinge di rosso le nuvole che velano il cielo. L’acqua del mare è limpida e calma, e l’ondeggiare è dolce come il moto di una culla che addormenta un bambino. I pesciolini si muovono in gruppo veloci e scattanti. Lunghe alghe […]». Può avvenire che il ricamo si eserciti su una battuta non di Rutilio, ma del copione, provenga essa dal processo di adattamento scenico, o dal film di Bondì. Come nel caso di Diego Messale (p. 5): «“Dobbiamo prendere le piccole per grandi cose.” Questa frase è dedicata […] a chi ha vissuto e vive in tempi difficili, a chi ha visto la fine di una civiltà, quando avere un tetto sulla testa è un raro privilegio, quando aggrapparsi a quello che è rimasto fa crescere la speranza, quando un altro giorno di vita è un dono inconcepibile. Questa frase è dedicata a chi la ha scritta, a Rutilio, un romano quasi sconosciuto e soffocato dal passare dei secoli, ma che mi ha coinvolto in una delle mie passioni più grandi, la recitazione». Marco Tittarelli (p. 21) prende spunto dai topi di Cosa (Rut. I 285 ss.) per rievocare un paio di sue avventure con roditori. 167 Olimpia Postacchini (p. 23, con il pensiero a Rut. I 250, nec mora difficilis milibus ire tribus): «Lungo la strada per Offagna, c’è una casa diroccata. Quella era la casa di Rutilio, che alla fine degli anni sessanta accoglieva i viandanti con fave e formaggio. Ogni qualvolta i suoi ospiti guardavano fuori dalla piccola finestra che dava su un campo di grano, lui con un lieve sorriso diceva: “lì c’è il Tedesco!”. E così, davanti al focolare iniziava la storia. Rutilio raccontava che durante gli ultimi anni della Seconda Guerra mondiale, era nel fienile a sfaccendare come tutti i giorni quando, sulla soglia, una figura nera urlando parole incomprensibili gli punta il fucile addosso; il contadino in un solo momento pensò: “Rutilio, bisogna partire”, ma non fu lui a dipartire, bensì il Tedesco, inforcato in un solo atto dal fiero contadino. Riprendendo fiato, uscì all’aperto e decise di seppellire il corpo, se lo caricò sulle spalle pensando: non sarà faticoso inoltrarsi tre miglia. Fatta la buca, ricoperto il corpo, tornò alla sua casa». 168 Petra Valentini (p. 27, con il pensiero a Rut. I 618, sparserunt radios nubila rupta vagos): «Una storia vera. 1917: a Castelvecchio, piccolo paese dell’urbinate, una romita casa osserva dall’alto di una collina le bombe esplodere. Le mura tremano alle grida della povera gente che si strugge per un figlio ormai perduto. I vetri tremano al soffio del vento e la pioggia li schiaffeggia. Le nubi rotte spargono raggi erranti… Io, nuda contadina, giaccio su un po’ di paglia sorreggendo mia figlia, piccola avida cucciola, che si avvicina vogliosa al mio seno. Attendo. Una ruga sottile riga precoce il mio volto. Attendo. Le mani callose sfiorano le sue guance. 166

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Talora siamo invece di fronte a vere e proprie immedesimazioni in personaggi interni al De reditu suo o ad esso in qualche modo contigui; con Rutilio stesso (e il suo viaggio) nella pagina di Federica Cantarini (p. 10): Un viaggio. Il fondo legnoso della barca taglia le onde e le apre come un sipario bianco. In fondo, proprio di un sipario si tratta, perché una volta varcata la soglia della superficie, si schiude ai nostri occhi un mondo nero e profondo e il lento pulsare del suo popolo silenzioso. Ma il nostro è un viaggio che scivola veloce sulla superficie e ci porta verso terre straniere. Un viaggio, specialmente se definitivo, comporta il lasciarsi alle spalle volti noti e voci amiche e il ritrovarsi in luoghi mai visti o ormai dimenticati. E così, un po’ sperduto ma proteso al nuovo, ti imbatti in posti, rumori, colori diversi da ogni altro. Durante il viaggio, abbiamo visitato molte isole. Ci siamo accampati costruendo piccole tende con i remi della barca. E mentre riposavo sotto questo tetto improvvisato, sentivo su di me gli occhi vivi del mare poiché, non essendoci altre terre intorno, quelli del mare sono i soli occhi che spiano un’isola. Questo viaggio, così come la realizzazione di questo spettacolo, è ormai giunto al termine. È stata un’esperienza bella, emozionante, nuova. Ma davvero, la cosa che più mi è rimasta è la magia di un viaggio che vive attraverso di noi, sebbene solo ragazzi, attori inesperti.

Attendo. Le tempie pulsano dolorosamente… Attendo mio marito, partito due giorni fa in cerca di cibo. È terminato tutto, qui: le vacche sono morte, i maiali sono morti, le galline sono morte, i conigli sono morti, i loro corpi disgregati. “Non c’è più niente”. Sono preoccupata, tormentata… Sisto non è ancora tornato e ciò che mi angoscia, se possibile, ancor più è il suo scarso senso dell’orientamento. Perché non torna? Perché non ritorna? L’ultimo disperato barlume di speranza, il suo cavallo. È un animale bello e austero; il pelo bianco emana un’inebriante luce e i suoi occhi rispecchiano il mare: lo chiamano Rutilio. È usanza a Castelvecchio dare questo nome al proprio stallone, quando sia in grado di ritrovare da solo la strada di casa. Il sonno mi avvolge… la bambina ha chiuso anch’ella gli occhi… la fame ci sta divorando e la sete squarcia la nostre labbra… ho tanta voglia di una perella, frutto tipico di questa stagione: in bocca è dolcemente agro. Mi sono svegliata, “Gesù, perché non mi fai neanche dormire?”… mi chiamano, “Chi sei?” domando, “Sono io stupida, Sisto”. Scoppio in calde lacrime, Giuseppa piange, ma io credo che pianga di felicità. È in groppa a Rutilio che, ne sono certa, lo ha riportato a casa. Sisto però è troppo orgoglioso per affermare che è stata una semplice creatura a condurlo da me. Quando gli chiedo il motivo del suo ritardo, mi dice di essersi imbattuto in soldati nemici, ma io non gli credo…».

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Curiosamente, Matteo Magistrelli, cioè proprio il ragazzo che impersona Rutilio, non si sofferma su eventuali meditazioni del protagonista, ma va ad immedesimarsi nelle vicende di quell’altro giovane aristocratico cui Rutilio allude di passaggio davanti alla Gorgona (I 517 ss.), che ha abbandonato tutto per farvisi monaco169. Giovanna Grilli, invece, con il pensiero alla luna di I 433 s. (sic dubitanda solet gracili vanescere cornu/ defessisque oculis luna reperta latet), si cala in un personaggio rutiliano di oggi (p. 18): Istanbul, nel tardo pomeriggio una signora camminava verso casa per una stradina quasi deserta. Era uscita per comprare una bottiglia di vino bianco per la sua cena solitaria e rilassante. Camminando guardava con sguardo distaccato e indifferente il mondo ormai decaduto, non era più giovane e si era stancata di cercare di comprenderlo, ma non lo disprezzava. Continuava a camminare nella sua solitudine attraverso l’aria afosa e profumata di spezie e fiori. Girato l’angolo notò un libro stropicciato per terra, lo raccolse e vide che era scritto in latino con la traduzione in italiano. Era così tanto che non le capitava di leggere qualcosa nella sua lingua, quindi decise di tenerselo. Arrivata nel suo appartamento, aprì il vino, lo versò in un bicchiere e si sedette a leggere incuriosita dal volumetto trovato. Dopo aver iniziato non riuscì a smettere di leggere finché non lo ebbe finito. Il libro parlava del

Questo il suo scritto (p. 21): «Aveva tutto, tutto quello che voleva. La luce entrava nella sua ampia casa e un raggio che sfuggiva alla cattura delle sottili tende di seta s’insinuava nella stanza e lambiva i suoi occhi ancora chiusi, svegliandolo. Trascorreva le giornate negli ozi, all’ombra degli alberi che si era fatto portare dall’Oriente e la brezza sfiorava il suo volto e alleviava la calura quando il sole era alto nel cielo limpido. A volte per ovviare alla monotonia, si immergeva nella gente del villaggio compiacendosi della sua diversità nel sentire i discorsi dei popolani. Un giorno, spinto dalla curiosità, volle approfondire un rumore udito nel mercato. Un pensiero strano, che non aveva mai sentito e che ancora non condivideva. Lo scherzo passò all’interesse e l’interesse all’adesione. Colto forse da un sentimento di saturazione del bello, la filosofia cristiana lo aveva invaso. Era arrivato a rinnegare tutto quello che finora lo aveva circondato. Preferì un’abitazione scarna e isolata alla sua villa che dava sul mare, da discendente di una nobile famiglia si professava ora figlio di Dio. Il villaggio non capiva, lo tacciava di follia. Lui continuava, aveva ormai abbandonato lo sfarzo di un tempo e si opprimeva con una violenza mai vista, inaudita. Neanche gli dei vendicativi sarebbero riusciti a fare tanto. Il degrado che inizialmente aveva colpito solo il corpo, ora assaliva con ferocia anche l’anima e la corrodeva come un tarlo consuma assiduamente il tronco di un faggio ormai secco». Per questo personaggio cfr. sopra, nota 149.

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viaggio di un uomo che va via da Roma ormai decaduta e distrutta. Roma…la sua città; erano ormai dieci anni che non ci tornava. Teneva ancora il volumetto tra le mani, lo risfogliava e notò proprio sull’ultima pagina una frase scritta a matita: Così talvolta in un dubbio, l’arco sottile della luna dilegua/ per chi lo guarda e si sforza, e lo trova, e lo perde. La frase la lasciò interdetta, poi vide che l’orologio segnava le due di notte, leggendo aveva perso la cognizione del tempo. Non aveva sonno e uscì sul terrazzo per respirare un po’ d’aria fresca. Il cielo era nero e la luna si stagliava con cattiveria tra le nuvole. Una sottile nostalgia si insinuò in lei. Poi la luna fu coperta da una nuvola e nel buio lei decise. «Rutilio, almeno io, torno a casa.»

Un unico ragazzo, Federico Capezza – uno dei musicisti –, ha pensato di rendere versi con versi e ha redatto un non irrilevante appunto poetico (p. 9): Il dolce suono della risacca culla la mia testa intorpidita stringo l’umore salino tra le labbra bruciate dal sole queste onde le stesse di Rutilio che portano alla Gorgona, a Pisa, a Gravisca, ora portano il mio corpo esausto tra i flutti come un relitto che non finisce mai di naufragare.

Fra i più interessanti figurano gli scritti in calce al monitorio solenne sul disgregarsi di uomini e città170. La colta e sensibile Giovanna Capponi intitola direttamente Non indignemur mortalia corpora solvi una pagina che ritengo meriti di essere riportata nella sua interezza (p. 13): «Fra un quarto d’ora andiamo al lebbrosario, chi vuole entra, altrimenti resta in macchina». Il vocione di Jago risuonò nelle mie orecchie. Ero troppo confusa per rendermi conto di ciò che mi aspettava, distolsi l’occhio dal mirino della macchina fotogra-

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Vd. sopra, nota 158 e contesto.

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fica, puntata come un fucile d’arte verso una donna elegante che completava meticolosa le sue abluzioni nel fiume Gange, lasciandomi scappare, senza rendermene conto, un’ottima immagine. Mi voltai perplessa verso Jago: «Un lebbrosario?» Lui annuì tranquillo. Ero inquieta. Le persone mi passavano accanto, con i lunghi drappi colorati ed eleganti, le immaginavo vestite di bende e stracci allungare le mani mugolando, dietro le luride sbarre. Non sapevo cosa mi aspettava. Meglio restare in macchina? O forse no, d’altra parte… è un’esperienza… non vado… Vado. Oltrepassammo il cancello arrugginito del lebbrosario, portando in dono, da bravi ospiti, un casco di banane comprato per via. All’ingresso del cortile c’era una piccola edicola con la statua della sanguinaria dea Kalì, moglie del grande Shiva, il Distruttore. Tutt’attorno delle persone serie stavano ritte a guardarci. Chi era troppo malato per stare in piedi, stava seduto per terra; alcuni ci salutavano con un lieve sorriso e le mani giunte, rispondevamo sommessamente «Namaste». Non ci toccavano, non ci tiravano per i vestiti come avevo immaginato, erano pacati, rassegnati; qualcuno non aveva più i piedi, le piaghe sulle mani, il logorarsi dei connotati faceva sembrare il loro viso piatto, privo di lineamenti. La punta del naso sembrava essere caduta o che gli fosse stata rubata, come quando si fa finta di rubare il naso ai bambini. Nel frattempo Jago e Greta avevano cominciato a scattare foto e a fare riprese con ritmo febbrile; io la macchina fotografica l’avevo portata… no, non posso, non ho il coraggio di usarla con loro… la riportai nella jeep. Mio padre: «Giò, non stai fotografando?» «No, non me la sento.» «Mai perdere l’occasione di fare delle foto! Dov’è la macchina?» «Nella jeep.» Uscì di fretta per andare a prenderla e si mise a fotografare ottenendo tutta la mia disapprovazione. Io mi sedetti semplicemente sulle scale dell’edicola, ad osservare. Ad un tratto entrò un vecchio senza piedi che guidava un carretto sbilenco e cigolante, unico mezzo di locomozione: una specie di sedia a rotelle comunitaria. C’erano anche dei bambini, ancora integri nel corpo, con delle verniciature rosse sui polsi e sulle caviglie. Ai lati del cortile vi erano delle cellette (sulle sbarre almeno non mi ero sbagliata) e da una di quelle uscì una donna trascinandosi con delle mezze stampelle tanto dignitosamente da farmi paura. Si sedette per terra; indossava un paio di occhiali scuri e aveva un’espressione serena. La malattia le aveva mangiato completamente le dita delle mani, restavano solo i piccoli palmi, come i bambini con i guanti da neve; con questi prese la sua banana, la sbucciò e la mangiò, tenendola con i moncherini. Trattenendo a stento le lacrime guardai rabbiosa la dea Kalì alle

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mie spalle, con troppe braccia e troppe mani per stare in un lebbrosario, dove i corpi ancora vivi si disgregano, come erosi dal vento, come rovine di uomini, relitti. Mio padre a testa bassa mi porse la macchina fotografica: piangeva.

È anonimo invece il testo che (a p. 22) reca a titolo – in traduzione – l’intero segmento rutiliano sulla disgregazione di corpi e città: Come possono le città morire? Non hanno spirito né corpo, non provano emozioni, sono blocchi di pietra e cemento. Eppure muoiono. E non solo il tempo le distrugge, anche la rabbia, la violenza, l’indifferenza, la tristezza, la dimenticanza, l’egoismo, la rassegnazione. E i corpi mortali si disgregano… Solamente la morte e il tempo li distruggono? No. Anche la rabbia, la violenza, l’indifferenza, la tristezza, la dimenticanza, l’egoismo, la rassegnazione. Ma quale differenza le divide? Hanno forse anche le città un’anima? Soffrono anch’esse il dolore della devastazione? Mi sembra impossibile. Eppure Rutilio dice proprio questo: le città muoiono come moriamo noi. I muri si sgretolano sotto l’azione del tempo vorace e della distruzione. Adesso non restano che brandelli di pietra e tetti sepolti… E scopro che ha ragione. Tutto intorno a me sembra lentamente disfarsi, la luce del sole si dissolve lentamente e arriva la notte del mondo. Torri cadono… bombe esplodono… ultimi respiri. L’unica speranza sembra andarsene, ma è così duro lasciare la patria terra e la dolce sicurezza del focolare. Ma è così… ormai è ora… bisogna affrettarsi… bisogna andare. Senza nessuna sicurezza, senza nessuna certezza tranne una: ora so che anche le città possono morire. Se prima queste parole mi sembravano oscure e forse senza senso, adesso quando le sento mi vengono i brividi… e le lacrime per la grande verità che racchiudono. […]171

Prendendo congedo da questo vivace e fantasioso laboratorio che si offre come fecondo specimen di un possibile, ricco itinerario di commisurazione con un testo antico, riporto due brevi testimonianze del complesso lavoro svolto da questi raPer la conclusione di questa bella pagina rinvio alla chiusa del paragrafo, poco più sotto nel testo.

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gazzi sotto la premurosa regia delle loro guide scolastiche o teatrali. Il primo è il poscritto di Petra Valentini: P.S.: quest’ultimo anno, il mio quindicesimo anno di vita, è stato uno dei più intensi e piacevoli della mia, seppur breve, esistenza. Non è facile affrontare un testo come il De reditu suo alla mia età. Verso sera quando solitamente mi corico e affronto le mie letture, con Il ritorno inizialmente era difficoltoso non farsi trasportare dal dolce sonno. Sono abbastanza testarda, quanto serve per continuare nel mio intento, […] l’ho terminato e mi sono sentita serena. Tra la scuola, gli allenamenti e impegni vari era un piacere, una pace interiore veleggiare con la fantasia. È stata un’esperienza, non lo nego, faticosa: mettere in scena Il ritorno era una sfida. Il ringraziamento ovvio è a chi ha tradotto il poemetto e a chi ce lo ha fatto scoprire. Esperienza unica e meravigliosa, come il mare.

Il secondo è il finale dell’‘anonimo de ruinis’ (p. 22): Ammetto che non è stato facile per me, alle prime armi, fidarmi delle pagine di questo copione, ma era necessario buttarmi a capofitto senza timore per assaporare nel modo giusto una nuova esperienza che mi si offriva. Non rimpiango nulla perché è stata perfetta. Adesso mi sento unita agli altri da un sottile filo. Il filo di un segreto che è la storia di Rutilio. Che ormai è un po’ la nostra storia. Insieme abbiamo ripercorso con la mente e con i gesti le sue tappe e i suoi sentimenti e certamente non ci saremmo ben riusciti senza la presenza di tutti. Chi non ha mai sentito lo spumoso gorgoglio del mare… un rumore universale… eppure mentre cercavamo di riprodurlo durante le prove era diverso… era come se le onde del mare diventassero nostre. Non so, non riesco a spiegarlo, non è facile descriverlo a parole; ma era bellissimo. Ed era bellissimo poter cambiare identità continuamente, diventare una ninfa, e poi acqua, e poi belva selvaggia… e accompagnare Rutilio nel suo viaggio. E mentre il nostro protagonista rimane rigido nei suoi valori e nella sua morale e sembra che gli eventi accaduti durante il viaggio non l’abbiano né turbato né fatto pensare, io ora mi sento ricchissima. Esco fuori da questo anno meraviglioso con tre bauli di frasi, pensieri, sguardi, sorrisi, pianti, urla, abbracci, sassi, teli, cime, vele, mare, fantasia, amore, bottiglie d’acqua che volano, strumenti etnici, magia.

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Non ci si stancherebbe di ripeterlo: «Adesso mi sento unita agli altri da un sottile filo. Il filo di un segreto che è la storia di Rutilio. Che ormai è un po’ la nostra storia». 10. I luoghi e le impronte: dagli schermi al mare, per una rievocazione del viaggio eppure la sua forma piovosa è ancora il Genio [di quel luogo, immutabile, sì, anche se il luogo non la conosce più, né più [l’ha vista da quel giorno. Th. Hardy Non riempì che un minuto. Ma vi fu mai, prima d’allora o dopo, tempo di tale qualità nella storia di quella collina? Th. Hardy

Leggendo splendide poesie di Thomas Hardy si avverte forte il senso dell’impronta che noi esseri umani lasciamo nei paesaggi, e reciprocamente i paesaggi in noi172. Penso in particolare a liriche come La figura nel paesaggio173 o quest’altra intermittenza del cuore174:

A Castel Boterel

Mentre mi avvio all’incrocio di strada e sentiero, e la pioggia inzuppa la vettura,

Cito da Hardy 1992. Oltre alle poesie chiamate in causa subito sotto, cfr. anche The Shadow on the Stone/ L’ombra sulla pietra, pp. 200-201, e The Voice of Things / La voce delle cose, pp. 156-157. 173 The Figure in the Scene, «da un vecchio appunto» (Hardy 1992, pp. 178-179): «Le piacque farsi avanti e sedere/ là dove l’erta rocciosa era verde,/ mentre io mi facevo un po’ indietro, sì da poter/ disegnare la scena con lei in mezzo al paesaggio;/ finché non rabbuiò e piovve;/ ma io continuai, nonostante l’umido gocciare/ che cadeva e macchiava/ il mio disegno, lasciando tuttavia come curiosi quesiti/ le macchie nella grana.// E così la disegnai, là da sola,/ seduta in mezzo al velo/ d’umidità, incappucciata, solo i contorni esterni tracciati,/ rigata dalle gocce di pioggia./ – Presto passò il nostro soggiorno;/ eppure la sua forma piovosa è ancora il Genio di quel luogo,/ immutabile, sì,/ anche se il luogo non la conosce più, né più l’ha vista/ da quel giorno». 174 At Castle Boterel, del marzo 1913: Hardy 1992, pp. 140-141. 172

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mi volgo indietro a guardare lo stradino svanire, e vedo ancora distintamente, sull’erta che adesso umida scintilla, me stesso e una giovane forma di donna sorpresi dalla notte nell’asciutto tempo di Marzo. Saliamo per la strada affianco al calesse. Ne siamo appena scesi per alleviare il carico al cavallino gagliardo che sospirando aveva rallentato. Cosa facessimo mentre salivamo, e di che si parlasse, non importa poi molto, né a che cosa portasse – qualcosa da cui la vita non si farà ostacolare senza buone ragioni finché speranza non muore, e sentimento svanisce. Non riempì che un minuto. Ma vi fu mai, prima d’allora o dopo, tempo di tale qualità nella storia di quella collina? Non per un uomo, anche se poi venne salita, a passi rapidi o dolenti, da mille altri. Rocce primordiali formano il ripido bordo della strada, e molto, prime ed ultime, hanno fissato di ciò che è transitorio nel lungo ordine della Terra; ma quanto in loro conio e colore è registrato è – che noi due vi passammo. E per me tuttora, anche se il rigore inflessibile del Tempo, con meccanica incuria, ha sottratto alla vista la sostanza, una figura di fantasma resta sull’erta, come in quella notte che vi smontammo. Guardo e la vedo lì, rimpiccolire, rimpiccolire, mi volgo ancora a guardarla in mezzo alla pioggia per l’ultima volta; perché affonda veloce la mia sabbia, e mai più traverserò il territorio di quell’antico amore.

Del resto le nostre impronte s’incidono a fondo nei medesimi oggetti che abbiamo adoperato, e «io non so cosa accada ad altri» – registra Hardy –, ma quanto a me «vedo le mani delle generazioni/ che possedettero ogni lucido oggetto di famiglia/ giocherellare su sporgenze ed intagli»; e, dopo aver ripercorso le dita che rimettono a posto un quadrante di orologio, quelle che danzano su una vecchia viola, e un volto ac-

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ceso presso un accendino, conclude «su, su. Meglio alzarsi ed agire,/ il mondo non sa che farsene oggi di uno/ che vede le cose così – senza scopi da perseguire!/ Non dovrebbe andare avanti in questo stare,/ ma via affondare»175. Tali le verità svelate da un poeta di spettri e ombre, attento ai simulacra e alle voci svanite fino all’ossessione, all’autodispersione nel loro flusso, sì che alla fine, dopo aver tanto e tanto sensibilmente osservato, si chiuse nella lirica del silenzio176. Parallelamente, un maestro del cinema come Wim Wenders guarda ai luoghi da un punto di vista diverso, isolandone una sorta di profilo individuo che prescinde da coloro che vi siano passati e se mai è esso stesso a lasciare, nei singoli che vi trascorrono, una specifica impronta di quella sua identità: traccia di volta in volta diversa, a seconda dei fattori di reazione che la contingenza predispone in ogni persona. Non a caso, per esporre questa sua idea, Wenders si serve dello strumento reticente e evocativo dei versi, disposti a commento di fotografie da lui stesso scattate177: […] Credo fermamente nella forza creativa dei paesaggi nell’ambito di una storia. Ci sono paesaggi, siano essi città, luoghi deserti, paesaggi montani, o tratti costieri, che addirittura reclamano a gran voce una storia. Essi evocano le «loro storie», sì, se le creano. I paesaggi possono essere veramente personaggi e le persone che vi compaiono semplici comparse.

Vd. Old Forniture/ Vecchi arredi: Hardy 1992, pp. 184-185. Vd. rispettivamente, in Hardy 1992, The pedigree/ L’albero genealogico (pp. 164167), Afterwards/ Dopo (pp. 206-207) e He Resolves to Say No More/ Decide di non dire più nulla (pp. 254-255). 177 Cito dalla Introduzione in versi, dello stesso Wenders e intitolata «To shoot pictures», al bellissimo volume fotografico, interpunto da commenti in versi, meritoriamente pubblicato dalle Edizioni Socrates di Roma (=Wenders 1993, p. 25). 175 176

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A partire da questi presupposti può non essere assurdo tentare una rêverie alla Bachelard, che cerchi di ri-tessere come i luoghi che presero parte da protagonisti alla minima avventura di viaggio di Rutilio si siano riverberati in altre voci (l’impronta che i luoghi lasciarono nei poeti), affidando al «vigile sentimento della nostalgia»178 e alle potenzialità onirico-letterarie di ciascuno il parallelo tentativo di ricostruire mentalmente le impronte che invece quei luoghi ancora possano conservare (secondo il teorema onirico di Hardy) dell’antico passaggio di Rutilio. Perché un tessuto poetico modifica la realtà: mai più un ‘oggetto’ che sia passato nei versi – nell’arte, in genere – sarà come prima. Così le tappe dell’itinerario rutiliano, o anche solo le località avvistate lungo costa dal mare e menzionate di passaggio possono divenire e talora veramente divengono altrettanti ripetitori del suo passaggio, delle sue parole, della sua poesia. Penso per esempio alle liriche di Miro Gabriele sulle città antiche, in particolare al ciclo Le rose di Portus, o alla lirica che Mario Graziano Parri dedica, con epigrafe rutiliana, alla foce dell’Ombrone. Ma si tratta di una prospettiva virtualmente inesauribile, per la cui delibazione occorrerà rinviare ad altro studio179. Credo abbia invece un certo suo interesse segnalare come, di recente, l’esistenza di un film dedicato a Rutilio, e di una imbarcazione (quella ricostruita ai fini del film) simile a quelle che Rutilio dovette usare per il suo viaggio, abbia invitato un funzionario della Regione Toscana – Francesco Gravina – a trasferire nuovamente l’avventura di Rutilio dagli schermi cinematografici alle coste marine, progettando una rievocazione di quell’antica «rotta mediterranea»180. Così dal poemetto-diario di bordo, tramite il film, l’avventura rutiliana è ritornata a ‘scorrere’ in una parte almeno di quelli che furono un tempo i suoi luoghi. Con un impegno organizzativo non da poco, ha preso forma un ‘nuovo viaggio’ Torno a rubare la bella espressione a Bettini 1987, p. 163. Vd. rispettivamente Gabriele 2001 (particolarmente p. 28) e Parri 2001, p. 32; a questo tema si dedica ora, sotto la guida del collega di Padova Gianluigi Baldo, la fine collaboratrice di questa edizione, Sara Pozzato. 180 Tale rievocazione ha potuto aver luogo, infatti, grazie all’inserimento nel più vasto ambito del progetto europeo «ANSER – Anciennes Routes Maritimes Méditerranéennes» da Gravina stesso coordinato. 178 179

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di quella cymba, a piccole tappe, lungo le coste toscane, con momenti di intrattenimento colto e di spettacolo ambientati nelle stazioni dell’antico viaggio o in approdi limitrofi, disposti lungo il suo tracciato o inscritti nella sua ‘scia’: Rutilio Namaziano e il suo diario di viaggio. De reditu suo: sulle tracce di un’antica rotta tirrenica. In questa circostanza, la cymba procedeva, sui lunghi tratti, al traino di una barca d’appoggio (l’Aurora polare dell’esperto marinaio pisano Riccardo Migliaccio). Per i tratti brevi, gli ingressi e le uscite dai porti, procedeva invece a remi, forte di equipaggi di vari circoli di canottieri della regione Toscana. Al loro fianco un timoniere, ‘ruolo’ talvolta rivestito dal figurante incaricato di rivestire i panni di Rutilio stesso. Figurante che, in occasione di ciascun attracco, avrebbe avuto a sua volta anche il compito di presentare Rutilio(-se stesso), la sua vicenda, il De reditu suo, l’iniziativa che ora ne ricuciva le vicende, e il film a lui dedicato. Infatti, in ciascuna delle dieci principali stazioni, dopo una presentazione dell’iniziativa direttamente all’atto dell’ingresso in porto, ha avuto luogo una proiezione gratuita del film De reditu-Il ritorno, alla presenza del regista Claudio Bondì, il quale ha poi condotto insieme a me il dibattito. E, per quanto mi renda conto che lo sconfinamento in questo territorio compromesso con l’esposizione spettacolare e con il turismo culturale possa indurre i più rigorosi interpreti della professione di studioso a qualche sorriso di perplessità, è con piacere e gratitudine che riconosco di avere avuto la singolare opportunità di essere proprio io – maturato quasi a ‘rappresentante di commercio’ della ditta De reditu – a impersonare quel figurante e rivestire quei simbolici panni rutiliani181. Condotta quasi interamente in Toscana, l’iniziativa ha tuttavia conosciuto una ‘tappa prologo’ nel luogo in cui l’intera prospettiva che si apre a ridosso del viaggio ebbe il suo punto di fuga. Il 26 giugno del 2004 la cymba già utilizzata per il film era posata nel prato che oggi ricopre gli antichi fondali del Porto di Claudio, da cui Rutilio salpò. Nel quadro di appositi itinerari guidati predisposti dalla Soprintendenza per i beni 181 In senso figurato, intendo; solo in occasione della tappa da Cecina alle spiagge bianche di Vada – dove si era attesi da figuranti a cavallo e, addirittura, in panni di divinità marine – l’intero equipaggio della cymba vestì improvvisati costumi.

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archeologici di Ostia, gruppi di visitatori dell’area archeologica del porto di Traiano, via via informati dei contorni dell’iniziativa, venivano invitati a rivivere le sensazioni dell’antico poeta, di cui poi la sera sarebbe stata riproposta, nel suggestivo contesto del cosiddetto Portico di Claudio, l’interpretazione cinematografica di Claudio Bondì. Ed è difficile richiamare adeguatamente, in una breve cronaca di quei giorni, lo spiazzamento onirico, la combinazione di concretezza materiale, effettivo aggancio storico e irreale alone poetico sollevata dall’incongrua ma così motivata presenza di quella cymba su quel prato-ex fondale. A partire invece dal 27 di giugno e fino al 5 luglio 2004, la cymba, armata e rimessa in mare nel nuovo porto di Marina di Grosseto, ha toccato varie tappe della costa ‘rutiliana’, per chiudere l’avventura, risalito l’Arno, in quella città di Pisa su cui Rutilio ferma il primo libro del De reditu suo182. Il singolare progetto, inserito nel programma delle manifePer un rapido riepilogo della storia edilizia di Portus e relativa bibliografia vd. Fo 2002a, pp. 164 ss. Questo il dettaglio della manifestazione: 27 giugno – ore 17: nel porto di Marina di Grosseto viene messa in mare la cymba; ore 21: proiezione del film De reditu-Il ritorno all’Arena Vittoria di Marina di Grosseto e dibattito. 28 giugno – ore 15: partenza da Marina di Grosseto per il porto di Castiglione della Pescaia; ore 21,30: proiezione del Film De reditu-Il ritorno su un molo del porto, con presentazione e dibattito. 29 giugno – ore 10: partenza da Castiglione della Pescaia, tappa intermedia a Punta Ala; ore 18: arrivo al Porticciolo di Piombino-Salivoli e intrattenimento con il pubblico; ore 21: proiezione del film De reditu-Il ritorno in Piazza Cittadella, con presentazione e dibattito. 30 giugno – ore 9: partenza da Piombino-Salivoli; ore 13: sosta a Bagnaia (isola d’Elba); ore 17: arrivo al porto di Portoferraio. Intrattenimento con il pubblico; ore 21: proiezione del film De reditu-Il ritorno al Centro dell’AUGER, con presentazione e dibattito. 1 luglio – ore 9,30: partenza da Portoferraio; ore 13,30: sosta nel porticciolo di Baratti. Intrattenimento con il pubblico; ore 17: arrivo al porticciolo di San Vincenzo. Intrattenimento con il pubblico; ore 21: proiezione del film De reditu-Il ritorno all’Arena cinematografica estiva (Via Confalonieri), con presentazione e dibattito. 2 luglio – ore 15,00: partenza da San Vincenzo; ore 17,30: arrivo al porto di Marina di Cecina e intrattenimento con il pubblico; ore 18,30: aperitivo di benvenuto al Parco archeologico di San Vincenzino; ore 20,00: Villa La Cinquantina: visita del Museo e cena romana; ore 22,00: proiezione del film De reditu-Il ritorno, con presentazione e dibattito. 3 luglio – ore 15: partenza da Marina di Cecina; ore 18: arrivo alla spiaggia di Vada. Accoglienza di Rutilio da parte di Cecina Decio Acinazio Albino e dei suoi; preparazione del bivacco e del fuoco per la cena. Ore 20: degustazione sulla

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stazioni estive «Le notti dell’archeologia», e inteso a valorizzare da un inedito punto di vista il ricco patrimonio archeologico della costa toscana, ha segnalato una volta di più la grande capacità propositiva di questo poeta ‘in ombra’, rilevando nella vicenda quanto si voglia privata di Rutilio i margini di dilatazione simbolica, l’ancora inesausta forza di ri-creazione, di illuminazione del vivo potenziale del ‘classico’. Nessuna iniziativa meglio di questa (con l’eco di stampa e i riscontri di pubblico che l’hanno circondata) segnala con maggiore immediatezza come il ‘passato’ di un antico – il passato in cui visse questa concreta persona, che si è in qualche modo sottratta all’oblio con i suoi versi; ma anche il suo passato, il passato del suo mondo – possa farsi di continuo generatore di presente. Così come il cospicuo interesse che ha destato, nel suo rinnovato peregrinare, denuncia come la modesta imbarcazione di Rutilio sia fatta sì, nella concretezza della sua ricostruzione, di corde e fasciame, ma soprattutto di pasta di sogni. Appellandomi dunque alle non-filologiche disposizioni del diritto onirico, e destreggiandomi fra le secche della costrizione a parlare di sé, vorrei non tralasciare qui qualche considerazione personale, legata all’insolita occasione di poter ‘rivivere’, seppure in maniera così irrituale e ineluttabilmente (teatralmente) diversa, qualche tratto dell’esperienza di uno scrittore prediletto183. Pur nella cornice delle comodità e del divertispiaggia; ore 21: proiezione del film De reditu-Il ritorno sulla spiaggia bianca di Vada, con presentazione e dibattito. 4 luglio – ore 14,30: partenza dal porto Mediceo di Rosignano; ore 16,30 circa: sosta a Quercianella; ore 18,30: arrivo al Porto Mediceo di Livorno. Intrattenimento con il pubblico; ore 21: proiezione del film De reditu-Il ritorno alla Villa Mimbelli, con presentazione e dibattito. 5 luglio – ore 9: partenza da Livorno; ore 13: sosta a Marina di Pisa; ore 18: risalito l’Arno, arrivo in Pisa allo Scalo dei Renaioli e intrattenimento con il pubblico; ore 21: proiezione del film De reditu-Il ritorno al Giardino Scotto, con presentazione e dibattito. Di alcune fasi della manifestazione esiste una documentazione video, girata, per la Regione Toscana, da Adamo Antonacci. Il 5 e 6 agosto 2004 ho avuto infine la fortuna di poter ricondurre la cymba, insieme al suo costruttore Cesare Micocci, da Bocca d’Arno al porto di Rosignano, dove è rimasta in attesa di una definitiva collocazione (probabilmente un’acquisizione da parte della Regione Toscana). 183 Sono stato inizialmente sollecitato a stilare questi appunti dagli amici della rivista «Dioniso» (Fo 2005b), e ringrazio in particolare Giusto Picone e Gianni Guastella sia per il loro invito sia per la liberalità con cui hanno consentito che, fra altre cose, tornassi sul punto in un piccolo intervento di taglio soprattutto

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mento, qualche pallida suggestione, utile forse anche allo studioso che voglia meglio compenetrarsi nelle problematiche di quanto sta osservando, penso di averla guadagnata. Riguarda soprattutto quella sfera così intangibile ai metodi filologici che abbraccia i rapporti fra il ‘committente’ del viaggio e i ‘suoi uomini’; gli attimi di convergenza – specie nell’ilarità e nelle pause di distensione –, e quelli in cui si acuisce invece la divergenza dei piani di osservazione. E ancora la natura cangiante della vita sul mare (il più spavaldo dei marinai che può di colpo rivelare in una circostanza minimamente rischiosa fragilità insospettate), anche in funzione dei fattori imponderabili – le condizioni del mare e del tempo. O la delicatezza dei rapporti fra viaggio, tempo a disposizione e scrittura (solo pause forzate, o altrimenti ritagli ricavati in acrobazia, si rendono davvero disponibili a quella sorvegliata decantazione che richiede un ‘diario’ non banale). E ancora l’incidenza dell’imprevisto nel farsi dei giorni in quanto insiemi di dislocazione geografica, fattore tempo e rete di interazioni: rutilianamente, gli incontri più o meno a sopresa con amici e colleghi che gravitano su certe località; e, all’approdo nel porto di Livorno – la sua città, in cui lo incontrai l’ultima volta il 19 settembre 1991 –, l’apprendere casualmente, da una sua ex-allieva, della scomparsa di uno fra gli studiosi rutiliani più competenti, oltre che uomo di modi squisiti: Aldo Bartalucci. Una postilla esterna, infine, alla manifestazione in sé e per sé, quasi un ‘dietro le quinte’. Dopo che il pubblico dello Scalo dei Renaioli a Pisa l’ha vista allontanarsi malinconicamente al traino di un battello fluviale, la cymba ha riposato qualche tempo nel cantiere «San Ranieri Boat», lungo l’Arno. Laggiù il 6 agosto del 2004 siamo andati a recuperarla, il Rutilio in seconda che appunta queste note, e il progettista dell’imbarcazione e già colonnello dell’aeronautica Cesare Micocci. Dopo che il ‘padre’ ha ispezionato con amore la sua creatura, ne ha registrato alcuni ingranaggi, ha preso atto di qualche piccolo danno fatalmente intervenuto con l’uso e la foga talora sconsiderata di qualche equipaggio avventizio, svuotata dell’acqua che vi era stata versata perché il legno di pino non si didattico, ora rifuso in questo studio, richiestomi da Giuseppe Contessa, cui pure esprimo tutta la mia gratitudine (Fo 2005c).

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asciugasse troppo, la barca veniva nuovamente messa a fiume. E quindi, al traino di un gozzo, ricondotta da Bocca d’Arno al nuovo porto turistico di Rosignano, dove, come ricordavo, è rimasta in attesa di una definitiva collocazione (vd. nota 182). Alternandoci al timone e al racconto delle rispettive avventure – Micocci, che avrebbe dovuto essere nella manifestazione il timoniere, non aveva potuto poi raggiungerci per il protrarsi di una traversata atlantica in cui era impegnato –, vedemmo nuovamente ‘riavvolgersi’ verso sud la costa rutiliana, con le sue (per me inesauste) suggestioni. Guidare la cymba – rimasta incredibilmente, contro ogni ‘regola’ e credenza nautica, senza un nome – fino al suo ancoraggio fra natanti di tutt’altra morfologia significava (per me, ma anche, con diverse coordinate, per Cesare Micocci) mettere gradualmente a riposo un’avventura che non cessa di ammaliare, nell’attesa di nuove imprevedibili occasioni, lungo chissà quali ‘trasformazioni’ nel teatro dei giorni. 11. Allontanandosi (Qualche appunto conclusivo) Avevo anticipato che sarei tornato su alcune osservazioni di Mario Luzi. In un breve scritto dal significativo titolo Fu così che, Luzi racconta come si sia un giorno imbattuto in Sinesio di Cirene e nella figura di Ipazia, e come gradualmente una prima curiosità sia maturata in lui fino a mettere capo al Libro di Ipazia, un lavoro teatrale articolato in due ‘atti unici’, il primo intitolato Ipazia (1969) e incentrato sulla maestra neoplatonica trucidata in Alessandria nel 415, il secondo intitolato Il messaggero (1976) e incentrato sulla figura di Sinesio, anziano vescovo di Cirene, in attesa di un enigmatico ambasciatore inviatogli dai berberi. Non c’è spazio qui per toccare l’interessantissima opera di Luzi e alcuni suoi momenti che pure sarebbero di altissimo significato in questo nostro contesto, come il Prologo, l’Epilogo e il monologo iniziale di Il messaggero184. Ma alcune delRinvio per essi ai rilievi che si riscontrano nel capitolo su Sinesio di Giannotti 2006. In estrema sintesi: i due citati brani poetici (presentati in corsivo) sono esterni al testo, ma ‘da fuori’ vi guardano dentro, e trasfigurano in versi ciò di cui si scrive in Fu così che (Luzi 1993, pp. 97 ss.). Nel monologo iniziale di Il messaggero Sinesio riflette sulla possibilità che potranno avere i posteri di cogliere davvero

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le riflessioni marginali di Fu così che sono importanti e arrivano addirittura – come spero di provare immediatamente – a aggettare sul cuore della scelta di vita operata dagli uomini di lettere, da noi letterati che abbiamo amato e amiamo uomini antichi. La «fisica umana» di calamite e particelle evocata da Brodskij veste qui le forme dell’astrofisica (pp. 100-101): «Sì, ma perché Ipazia, perché Sinesio? Il mistero di quel richiamo non ha una parte secondaria nella motivazione del mio lavoro […] Ci sono anche nel firmamento della memoria umana i buchi neri, le stelle invisibili dalla prodigiosa forza di attrazione?». Ed è bello osservare come, secondo il più caratteristico assetto intellettuale e poetico di Luzi, subito l’astrofisica sconfini a sua volta nella metafisica: Mi interrogo anche sulla potenza dei nomi. Nomi numinosi che lasciano passare una quantità di vita che oltrepassa le persone che li incarnarono e li fecero ricordare? Nomi-mantra che emettono messaggi ed avvisi, nomi nei quali è compresa una forza di significazione che attende il suo momento per manifestarsi? Dietro di essi s’aprono gorghi di incandescenza o di vuoto e la mente viaggia in un universo dai confini incerti bordeggiando un arcipelago brulicante di grumi che non si sa più se sono relitti di esperienze perdute o embrioni di esperienze da fare. Uno slancio finale mi proietta la accecante onnipresenza del tutto: ed è l’unica conclusione che sia capace di mettere a tacere il perché: perché Ipazia, perché Sinesio185.

Al di qua della deriva nella divina luce – noi classicisti (neoplatonici o agostiniani) diremmo forse ‘nell’estasi’ –, al di qua la ‘loro’ (di Sinesio, di Ipazia, degli altri contemporanei) vita di personaggi; e sui margini, più o meno arbitrari, della loro integrazione. Nel tentativo – per rubare un paio di versi al Prologo – di «parlottare per interposte larve/ di un male nostro confessabile in altri». Fra i molti episodi di riscritture riguardanti la vicenda di Sinesio e Ipazia (vd. Giannotti 2006, parte V cap. II e parte VI cap. I), spicca quella recente del primo romanzo del Tryptique des Temps Perdus dello scrittore canadese Jean Marcel (pseudonimo di Jean-Marcel Paquette), Hypatie ou La fin des dieux, Montréal, Lémeac éditeur 1989: vd. Giannotti 2009 (cap. III, § II). 185 Come ricordavo alla nota precedente, il motivo del fascino dei nomi e in sostanza tutto il plesso tematico che ho qui brevemente enunciato, fino a quella sorta di soglia metafisica («fino alla forse accecante onnipresenza che annunciano») ricorrono, poeticamente trasfigurati, nel Prologo all’intero Libro d’Ipazia – poesia per la quale Luzi rivela, in Fu così che, di individuare un possibile titolo nella parola Rovello.

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di questa «accecante onnipresenza del tutto», campeggia il rilievo sulla «potenza dei nomi». È una osservazione che si nutre di memorie interamente ‘contingenti’, e direi anzi letterarie, se – di fronte a simili rilievi – la mente corre subito alle due complementari sezioni della Recherche intitolate Nomi di paesi: il Nome (in La strada di Swann) e Nomi di paesi: il Paese (in All’ombra delle fanciulle in fiore). Quei nomi, con parole di Proust, che accrescono «le gioie arbitrarie della fantasia»; in ognuno dei quali «avevo accumulato dei sogni», così che essi «ora calamitavano i miei desideri». Sogni, ognuno dei quali «mi appariva come un ignoto, essenzialmente diverso dagli altri, di cui l’anima mia aveva sete e che avrebbe avuto giovamento a conoscere»: perché (Proust 1981, p. 414) «anche da una visuale puramente realistica, i paesi che noi desideriamo tengono in ogni istante assai più posto nella nostra esistenza vera dei paesi dove abitiamo in realtà»186. Questa fascinazione dei nomi, nella Da Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, vol. I, trad. di Natalia Ginzburg, per «I Millenni» Einaudi, Torino 1981: La strada di Swann, Nomi di paese: il Nome, p. 411 (corsivi miei): «Ma, se i nomi assorbirono per sempre l’immagine ch’io avevo di quelle città, ciò avvenne solo trasformandola, sottomettendo la sua riapparizione in me alle loro proprie leggi; essi ebbero così l’effetto di farla più bella, ma anche più diversa da quel che le città di Normandia e Toscana potessero essere nella realtà, e di rendere più grave la delusione futura dei miei viaggi, accrescendo in me le gioie arbitrarie della fantasia. Esaltarono l’idea ch’io mi facevo di certi luoghi della terra, rendendoli più particolari, e di conseguenza più reali. Io non mi raffiguravo allora le città, i paesaggi, i monumenti, come quadri più o meno piacevoli ritagliati qua e là in una stessa materia; ma ognuno di essi mi appariva come un ignoto, essenzialmente diverso dagli altri, di cui l’anima mia aveva sete e che avrebbe avuto giovamento a conoscere. A qual segno essi acquistarono qualcosa di ancor più individuale, col venir designati con dei nomi, dei nomi che non erano che per loro, dei nomi come ne hanno le persone! Le parole ci offrono delle cose una piccola immagine chiara e usuale come le immagini che si tengono appese alle pareti delle aule scolastiche per dare ai bambini un esempio di quel che sia un banco da lavoro, un uccello, un formicaio: cose concepite come simili a tutte quelle della stessa specie. Ma i nomi offrono delle persone, – e delle città che ci avvezzano a credere individuali, uniche come persone, – un’immagine confusa che trae da loro, dalla loro sonorità risplendente od oscura, il colore di cui è dipinta uniformemente come uno di quei cartelloni, azzurri per intero o rossi per intero, nei quali, per i limiti del procedimento usato o per un capriccio del decoratore, sono azzurri o rossi non soltanto il cielo e il mare, ma le barche, la chiesa, i passanti»; p. 413: «certo, quello a cui aspirava la mia fantasia e che i miei sensi non percepivano che in modo incompleto e senza un godimento attuale, io l’avevo racchiuso nel rifugio dei nomi; certo poiché vi avevo accumulato dei sogni, essi ora calamitavano i miei desideri; ma i nomi non sono molto vasti; era molto se potevo farvi entrare due o tre delle “curiosità” principali della città, ed esse vi si giustapponevano senza intermediari». Un buon esempio poetico del ‘teorema’ enunciato da Proust a p. 414 (qui appena citato nel testo)

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sua intersezione con la fisica delle calamite, è rilevata una volta di più dal medesimo Brodskij in una sua memorabile pagina sulle risonanze e le intermittenze del cuore suscitate dal nome «Marco Aurelio» ora che, pronunciato da un taxista nel traffico sotto il Campidoglio, ridestava le maestose sillabazioni, imperiali e latine, della sua adolescenza scolastica187: «Marco Aurelio» ripetei a me stesso, e fu come se duemila anni stessero crollando, dissolvendosi sulle mie labbra grazie alla forma italiana, così familiare, del nome dell’imperatore. Che ha sempre avuto per me una forza epica, imperiale in effetti, risuonando come un annuncio tonante, scandito da una cesura, sulle labbra del maggiordomo della storia in persona: Marcus! – cesura – Aurelius! Il Romano! Imperatore! Marcus! Aurelius! Così lo avevo conosciuto alle scuole superiori, dove il maggiordomo era la nostra tarchiata Sara Isaakovna, una signora sui cinquant’anni dall’aria molto ebrea e molto rassegnata, che insegnava storia. Eppure, con tutta la sua rassegnazione, quando si trattava di pronunciare i nomi degli imperatori romani si raddrizzava, assumendo un atteggiamento solenne, e praticamente cominciava a gridare nell’aula, molto al di sopra delle nostre teste, verso lo stucco slabbrato della parete su cui faceva bella mostra il ritratto di Stalin: Caius Julius Caesar! Caesar Octavianus Augustus! Caesar Tiberius! Caesar Flavius Vespasianus! L’imperatore romano Antoninus Pius! E poi – Marcus Aurelius! Era come se i nomi fossero più grandi di lei […]. A un ragazzo sono queste le cose che piacciono: parole strane, suoni strani […]. A dodici anni si può non cogliere l’intrigo, ma un suono strano suggerisce una realtà alternativa. «Marcus Aurelius» aveva un tale effetto su di me, e quella realtà si rivelò alquanto vasta: superiore, in effetti, a quella dell’imperatore stesso.

Chiudiamo così su Brodskij la trafila di ‘teoremi’ poetici che abbiamo visto di volta in volta affacciarsi: il ‘teorema Pasternàk’ sulla Tradizione che ci viene incontro con i suoi volti; il ‘teorema Auden’ sugli imaginary friends dei letterati; il ‘teoè la lirica Stazione di Mestre alle pp. 173 s. dell’autoantologia di Ernesto Calzavara Ombre sui veri. Poesie in lingua e in dialetto trevigiano (1946-1987), Milano, Garzanti 1990 (ristampata, con il corredo di un CD di letture di Marco Paolini, nel 2001). 187 Cito dal meraviglioso saggio del 1994 Omaggio a Marco Aurelio, in Brodskij 2003 (pp. 215-247), p. 219. Su di esso vd. Giannotti 2006 (parte I, cap. 1, § 4), pp. 37 ss.

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rema Eliot’ sul rilievo dei poeti minori. E quello ‘di Borges’ sulla loro prossimità all’oblio, con il corollario sulla loro ‘reinventabilità’, che a sua volta sfuma nelle «larghe pause dall’idea della morte» teorizzate da Fernando Acitelli (vd. nota 44). E ancora i teoremi di Thomas Hardy e Wim Wenders sulla stretta intercorrelazione fra uomini e luoghi, il ‘teorema Proust-LuziBrodskij’ sul fascino dei nomi, e gli stessi ‘teoremi Brodskij’ sul desiderio di cogliere visivamente i volti-verità dei predecessori e l’avere proprio in questi predecessori il primo destinatario di ciò che si scrive. Ma al di là dei teoremi di queste ‘geometrie oniriche’, al là di queste fantasie e di questi devoti desideri di studiosi e di poeti, resta un appunto di Luzi in calce al proprio Libro di Ipazia che coglie veramente, credo, nel modo più giusto, centrato e definitivo, il cuore non solo di questa ‘fenomenologia elettiva’ orientata a figure singole, ma più in generale di tutta la nostra sete di studiosi – di esseri umani – di innestarci nel passato e sondarlo con nostre ricerche. Scrive dunque Mario Luzi188: «era una cosa accaduta, ma immessa nella e v e n t u a l i t à c o n t i n u a del mondo e per me non era finita con il suo essere accaduta». Siena, 8 febbraio 2009 12. Postilla: i «palinsesti rutiliani» di Sergio Paglieri Questo volume era stato da poco affidato all’editore per la composizione, quando veniva pubblicato un nuovo singolare capitolo della fortuna di Rutilio: il libro Palinsesti rutiliani di Sergio Paglieri (Genova, Type, febbraio 2009). L’autore, nato a Felizzano (Alessandria) nel 1933, ha una formazione archeologica: si è laureato in Lettere classiche all’Università di Genova con una tesi sulle navi antiche poi 188 Corsivi e spazieggiati miei. Il passo completo è (Luzi 1993, p. 100): «Parlandone a Palermo, nel corso di una conversazione che è stata trascritta, ritengo di aver trovato le parole giuste a definire concettualmente quello strano rapporto. Leggo infatti: (la storia di Ipazia e i suoi contorni) “era una cosa accaduta, ma immessa nella eventualità continua del mondo e per me non era finita con il suo essere accaduta”».

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parzialmente pubblicata su «Studi Etruschi»189, e, dopo aver seguito un corso di scavo stratigrafico presso l’Istituto Internazionale di Studi Liguri di Bordighera, con interventi nelle zone archeologiche di Genova, Ventimiglia e Albenga, è stato chiamato a dirigere la prima campagna di scavi sul sito della città etrusco-romana di Vulci. Si è dedicato a questo compito di ricerca nella città e nella necropoli dal 1956 al 1962, sotto la supervisione dei soprintendenti Renato Bartoccini e Mario Moretti e ha avviato la realizzazione dell’Antiquarium del Castello dell’Abadia e del piccolo museo di Ischia di Castro. Nel 1962, Paglieri è ritornato a Genova, dove risiedeva dal 1945, ed è stato assunto come giornalista dal quotidiano locale «Il Secolo XIX», in cui ha lavorato per quasi trent’anni, ricoprendo i ruoli di redattore, critico d’arte, caposervizio, inviato speciale, capocronista e capo redattore. Continuava intanto a dedicarsi alla stesura di biografie di artisti e a interventi su problemi di storia antica della Liguria. Una volta in pensione (1990), si è dedicato a scritti autobiografici190, e ha potuto intensificare i suoi studi191. Già nel 1986 si era occupato del De reditu suo di Rutilio, in un articolo che sosteneva la tesi piuttosto ardita, e a mio parere difficilmente condivisibile, che il poeta, al v. 3 del frammento A, citasse Dertona (l’odierna Tortona), che avrebbe visitato con una puntata nell’entroterra, probabilmente durante la sosta a Genova192. Il suo ‘ritorno al Ritorno’ prende il corpo di un’operazione singolare: Paglieri sostiene di aver studiato la minuscola pergamena contenente i ‘nuovi frammenti’, esplorandola con tutti i possibili mezzi ottici accessibili a un ricercatore privato: ingrandimenti fotografici, esami a luce diretta e retroilluminazione, osservazione con lenti di varia potenza e, soprattutto, fotocopie a luce laser. Furono queste ultime riproduzioni a consentire un grande aumento di dimensione delle immagini, senza gravi

189 Vd. Sergio Paglieri, Origine e diffusione delle navi etrusco-italiche, in «Studi Etruschi» 28, 1960, pp. 209-231. 190 Vd. Guerrieri di polvere. Sei anni fra gli etruschi, Genova, Type 1992; A casa dei Conni, Genova, Type 2001. 191 Vd. per esempio Sulle piste degli antichi, Genova, Type 2001, «raccolta di analisi, di osservazioni, d’ipotesi, dedicate in prevalenza al tema delle strade e dei viaggi degli antichi» (p. 5). 192 Vd. Paglieri 1986, pp. 85-98, particolarmente pp. 95-98.

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perdite di nitidezza e con un costo accettabile. Si poté passare dagli originari dodici centimetri e mezzo della pergamena a una lunghezza di circa un metro e settanta centimetri193.

Alla luce di queste indagini, quel fazzoletto di pergamena avrebbe rivelato un’incredibile serie di palinsesti, che parte da 71 minute di lettere di Rutilio, per spaziare lungo successivi interventi di un amanuense Tarcisius (1222), di un Augustinus, di un tale Vercercus, di un Costanzo Epenterio che sarebbe stato frate a Bobbio intorno al 1300, i quali tutti variamente rielaborano – con un lontano ancoramento nelle minute rutiliane – le vicende occorse all’antico poeta dal momento in cui si interrompe il De reditu al suo arrivo in patria: in seguito a un naufragio presso Segesta Tigulliorum – Sestri Levante –, Rutilio avrebbe trascorso l’inverno a Moneglia, «che ospita l’accampamento di Dertona» (p. 31), per ripartirne nella primavera successiva. Frate Costanzo, addirittura, «ricostruisce una specie di giornale di bordo sfruttando le lettere scritte da Rutilio da ogni scalo della nave»194. Di tutti questi interventi, Paglieri presenta il testo latino e la traduzione italiana. Non solo, ma riproduce, in una serie di disegni, singoli brani dei testi, per come li vede scritti nei singoli strati della rete di palinsesti. E, quanto alle minute di Rutilio, offre (alle pp. 32-33) una sorta di ‘pianta’ di come si trovino distribuite in quei pochi centimetri. Una di esse, la 18 (pp. 42 ss.), presenta una composizione in distici elegiaci sul vento di Moneglia (De vento Moniliae), che sarebbe l’autentico testo da cui poi discendono i nostri frammenti: di fatto ci troviamo di fronte a una ‘integrazione acrobatica’ dei nostri frammenti A e B, letti in immediata sequenza. In poche righe di prefazione al libro, Paglieri specifica195: È un racconto intrigante, probabilmente ma non sicuramente vero. Si può accogliere come un insperato lampo di luce su misteri

Vd. Paglieri 2009, p. 11. In Ferrari 1973, p. 13, si trova una misurazione leggermente diversa: «mm. 92 x 55». 194 Paglieri 2009, p. 113. Alle pp. 114 ss. viene presentato questo diario di bordo, mentre alle pp. 119 ss. viene offerto uno specimen delle falsificazioni poetiche di Costanzo, il quale si sarebbe proposto di completare – «con scarsi risultati poetici» – il De reditu, che a parere del monaco doveva essere originariamente in tre libri (Paglieri 2009, p. 15). 195 Paglieri 2009, p. 7. 193

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millenari, oppure leggere come uno strano romanzo in forma di saggio. Curiosità e incredulità si scontreranno ad armi pari: qualcuno si accingerà a una verifica con ingrandimenti fotografici e lenti potentissime, qualcun altro non concederà il minimo credito a quanto qui si riferisce. Spero di fare in tempo ad assistere alla soluzione dell’enigma.

Ragioni linguistiche, prosodico-metriche, filologiche, codicologiche e paleografiche assediano da ogni parte la ricostruzione di Paglieri; ma l’autore la difende (o gioca a difenderla) con tenace convinzione, come una vicenda vera, comunque raccontata196. Un’autentica microstoria concentrata, e stratificata, sul minuscolo supporto di quel frustolo di pergamena che costituisce, per gli studiosi di Rutilio, un prezioso reperto, fomite di inesauribili rêveries. Termino questo veloce aggiornamento in extremis con una breve «elettrina» che Claudio Bondì mi ha inviato (il 20 marzo 2009), dopo che lo avevo prontamente informato del nuovo libro di Paglieri. Mi sembra si presti a ‘chiudere’ provvisoriamente, con qualche nota di simpatia e buonumore, il racconto (parziale, naturalmente) di un’avventura che evidentemente non vuole ‘chiudersi’: Carissimo, bello il convegno, e fantastica o fantasiosa la ricostruzione dei frammenti da quello che posso capire. Certo che Rutilio ha un grande forza evocativa, e ogni tanto qualcuno cade nella ragna. Se da qualche paradiso ci vede chissà come si diverte! […] Una spigolatura: giorni fa mi telefona Alessandro Verdecchi – il produttore del film, ricordi? –, quello che mi aveva detto che volevo rovinarlo pensando di girare il film in latino. Beh, mi ha detto che ha fatto uno sbaglio incredibile! Perché è l’unico suo film che ancora gli chiedono, e ne ha prodotti trenta. È inseguito – dice – da persone che cercano il dvd (un ammiraglio ne ha acquistate

Mi permetto di citare qualche sua riga da alcune lettere di un carteggio personale con lui: «La scoperta dei frammenti rutiliani mi diede ulteriore slancio verso la ricerca negli angoli ancora ignoti del passato. Ho speso una fortuna in fotocopie e ingrandimenti fotografici, ne sono felicissimo e mi ritengo un ricercatore fortunato. Non ho mai scritto testi di fantasia e non ho certo iniziato con Rutilio» (Genova, 10 marzo 2009); «Per semplificare: secondo me la storia è vera, comunque raccontata: si vede male quello che c’è dietro, ma quello che c’è dietro è reale» (Genova, 6 aprile 2009).

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ottanta copie), e poi a Berlino uno spettatore che assisteva all’anteprima di un film coprodotto da Verdecchi, quando ha visto nei titoli di coda il suo nome lo ha cercato in sala correndo ad abbracciarlo perché aveva visto a Roma De reditu, che considerava – bontà sua – un capolavoro. Insomma era talmente eccitato che mi ha chiesto di fare un altro film sul mondo antico con lui. Ti farò sapere il seguito della telenovela, se ci sarà…

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BIBLIOGRAFIA

Nella bibliografia che segue ho separato gli studi scientifici (§ I) dalle opere di creazione artistica, letteraria o cinematografica (cui ho affiancato gli interventi giornalistici, ora di recensione a quelle opere stesse, ora genericamente relativi a Rutilio o ad altri aspetti dell’antichità: § II). Per quanto riguarda la letteratura scientifica, non ho inteso stilare una bibliografia completa degli studi su Rutilio; ma, oltre, naturalmente, ai titoli di cui mi sono avvalso per problemi rutiliani o comunque correlati, ho rubricato solo una scelta degli studi più antichi e divenuti ormai storico punto di riferimento, e ho lasciato uno spazio relativamente maggiore alle voci della ricerca più recente, di modo che il lettore potesse qui disporre anche di uno strumento utile all’aggiornamento. A. F. I. Bibliografia scientifica. Amiotti 1994 Gabriella Amiotti, La migrazione verso le isole «territorio dell’anima», in AA. VV., Emigrazione e immigrazione nel mondo antico, a cura di Marta Sordi, Milano, Vita e Pensiero 1994, pp. 271-282. Andrén 1994 Rutilius Claudius Namatianus, De reditu suo. Hemfärden, Latinsk text med metrisk översaättning, introduktion och kommentar av Arvid Andrén, Jonsered, Åström 1994 (traduzione svedese con testo latino a fronte e note).

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Ascione-Insolera 1971 Coste d’Italia. Dal Tevere a Ventimiglia, piano del libro, coordinamento, redazione di Errico Ascione e Italo Insolera, opera promossa dall’Eni, Milano, Arti Grafiche Ricordi 1971. Bartalucci 1965 Aldo Bartalucci, Note rutiliane, in «Studi classici e orientali» 14, 1965, pp. 30-39. 1968 Aldo Bartalucci, [recensione a Castorina 1967], in «Atene e Roma» n. s. 13, fasc. 1, 1968, pp. 90-97. 1980 Aldo Bartalucci, [recensione a Doblhofer 1972 e 1977], in «Sileno» 516, 1979-80, pp. 403-416. Bartalucci e altri 1975 Il nuovo Rutilio Namaziano, interventi di Aldo Bartalucci, Emanuele Castorina, Enzo Cecchini, Italo Lana, Vincenzo Tandoi, in «Maia» n.s. 27, fasc. I, gennaio-marzo 1975, pp. 3-26. Bedini 1992 Elena Bedini, Una sepoltura tardo-antica dal Porto di Capraia Isola, in «Archeologia medievale. Cultura materiale, insediamenti, territorio» 19, 1992, pp. 369-377. Benvenuti 2005 Da Populonia a Massa Marittima: i 1500 anni di una diocesi, Atti del Convegno di Studi (Massa Marittima, 16-18 maggio 2003), a cura di Anna Benvenuti, Firenze, Mandragora 2005. Bettini 1987 Maurizio Bettini, Properzio dopo duemila anni (Considerazioni probabilmente eretiche), in «Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici» 18, 1987, pp. 149-163. 1991 Maurizio Bettini, Strane avventure di Rutilio Namaziano e di un suo traduttore livornese, in «Comune Notizie», rivista del comune di Livorno, n° 1, dicembre 1991, p. 21. 2004 vd. § II di questa bibliografia. Billanovich 1994 Maria Pia Billanovich, A proposito di Costantina e dei suoi «versus» in onore di S. Agnese, in «Italia medioevale e umanistica» 37, 1994, pp. 1-12. 1996 Maria Pia Billanovich, Il carme di Costantina: romano o pavese? E i frammenti attribuiti a Rutilio Namaziano, in «Italia medioevale e umanistica» 39, 1996, pp. 1-26. Bonaiuto-Carrera-Wentkowska 2006 Marco Bonaiuto, Francesco Carrera, Anna Wentkowska, Capraia Isola (LI). La struttura ipogea in località Piscina, in

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«Notiziario della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana», 2/2006, Firenze, All’Insegna del Giglio 2007, pp. 245-246. Brocca 1999

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Nicoletta Brocca, A proposito di Rutilio Namaziano, de red. 115-16, in «Filologia antica e moderna» 9, n. 17, 1999, pp. 7-11. Nicoletta Brocca, A che genere appartiene il de reditu di Rutilio Namaziano?, in AA. VV., Forme letterarie della produzione latina di IV-V secolo. Con uno sguardo su Bisanzio, a cura di Franca Ela Consolino, Roma, Herder 2003, pp. 231-255. Nicoletta Brocca, Memoria poetica e attualità politica nel panegirico per Avito di Sidonio Apollinare, in Incontri triestini di filologia classica 3, 2003-2004, a cura di Lucio Cristante e Andrea Tessier, Trieste, Ed. Università di Trieste 2004, pp. 279-295. Nicoletta Brocca, Il proditor Stilicho e la distruzione dei Libri Sibillini, in AA. VV., Nuovo e antico nella cultura greco-latina di IV-VI secolo, a cura di Isabella Gualandri, Fabrizio Conca, Raffaele Passerella, Milano, Cisalpino Istituto Editoriale Universitario 2005, pp. 137-184. Dariusz Brodka, Die Romideologie in der römischen Literatur der Spätantike, Frankfurt-am-Main, Lang 1998 (su Rutilio pp. 119-126).

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Stephane Ratti, Le De reditu suo de Rutilius Namatianus: un hymne païen à la vie, in «Vita Latina» 173, décembre 2005, pp. 75-86. Stephane Ratti, Rutilius Namatianus, Aelius Aristides et les chrétiens, «Antiquité tardive»14, 2006 (Économie et religion dans l’Antiquité tardive), pp. 235-244.

Reiss 2003

Martina Reiss, Rutilius Claudius Namatianus, Laudes Romae, als Ergänzung zu Vergils Aeneis, in «Die Alten Sprachen im Unterricht» 50 (4), 2003, pp. 18-54. Riparbelli 1973 Alberto Riparbelli, Aegilon. Storia dell’Isola di Capraia dalle origini ai giorni nostri, Firenze, senza casa editrice (Tipografia Pratese) 1973. Roberts 1988 Michael Roberts, The treatment of narrative in Late Antique Literatur, Ammianus Marcellinus (16. 10), Rutilius Namatianus and Paulinus of Pella, in «Philologus» 132, 1988, pp. 181195. 2001 Michael Roberts, Rome personified, Rome epitomized: representations of Rome in the poetry of the early fifth century, in «American Journal of Philology» 122 (4), 2001, pp. 533-565. Roda 1993 Sergio Roda, Nobiltà burocratica, aristocrazia senatoria, nobiltà provinciali, in Storia di Roma Einaudi, a cura di Andrea Carandini, Lellia Cracco Ruggini e Andrea Giardina, vol. III/1, Torino, Einaudi 1993, pp. 643-674. 1994 Sergio Roda, L’aristocrazia senatoria occidentale al tempo di Attila: l’ideologia oltre la crisi dell’impero, in Gruppo Archeologico Aquileiese, Attila flagellum Dei?, Atti del Convegno Internazionale di studi storici sulla figura di Attila e sulla discesa degli Unni in Italia nel 452 d. C., a cura di Silvia Blason Scarel, Roma, L’Erma di Bretschneider 1994, pp. 131-151, particolarmente 139-145. 1996 La parte migliore del genere umano: aristocrazie, potere e ideologia nell’occidente tardoantico, a cura di Sergio Roda, Torino, Scriptorium 1996. Ronconi 1950 Alessandro Ronconi, Exitus illustrium virorum, «Studi Italiani di Filologia Classica», XVII, 1940, fasc. 1, ristampato in Alessandro Ronconi, Da Lucrezio a Tacito, Messina-Firenze, D’Anna 1950, pp. 209-239 (da cui cito).

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Santini 1995

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Carlo Santini, Mito classico e intertestualità nei Sonetti e Poemi di C. Roccatagliata Ceccardi, «International Journal of the Classical Tradition», II.1, summer 1995, pp. 97-106.

Scarpi 1992

Paolo Scarpi, La fuga e il ritorno. Storia e mitologia del viaggio, Venezia, Marsilio 1992. Scheda ANSER 2004 Scheda di autori vari (Silvia Ducci, Marinella Pasquinucci, Stefano Genovesi, Giovanni Roncaglia, Simonetta Menchelli, Paolo Sangriso, Giulia Picchi), intitolata Il porto sepolto: Portus Pisanus, con notizie sugli scavi, cartine e immagini a colori, pubblicata nel 2004 dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana e dal Dipartimento di Scienze Storiche del Mondo Antico dell’Università di Pisa per il Progetto ANSER-Antiche rotte del Mediterraneo (coordinatore: Francesco Gravina) della Regione Toscana (6 pp.). Scrinari 1979 Le navi del Porto di Claudio, a cura di Valnea Santa Maria Scrinari, Roma, Tipografia Centenari 1979. Silenzi 1998 Maurizio Silenzi, Il Porto di Roma. Storia e ricostruzione urbanistica del progetto architettonico, sociale e politico dell’imperatore Claudio per la realizzazione del Portus Romae, Roma, Newton & Compton, 1998. Sodi 2005 Stefano Sodi, Le origini del monachesimo insulare nell’Arcipelago Toscano, in Benvenuti 2005, pp. 97-109. Soler 1998 Joëlle Soler, Le Retour en Gaule de Rutilius Namatianus: un itinéraire à travers les textes, in Miroirs de textes. Récit de voyage et intertextualité, études réunies et présentées par Sophie Linon-Chipon, Véronique Magri-Mourgues et Sarga Moussa, Nice et Paris, Presses Universitaires de Nice, Publications de la Faculté des lettres et Centre de recherche sur la littérature des voyages (Sorbonne) 1998, pp. 19-32. 2004 Joëlle Soler, Le sauvage dans le De reditu de Rutilius Namatianus: un nonlieu, in AA. VV., Les espaces du sauvage dans le monde antique, Approches et définitions, Colloque de Besançon, 4 et 5 mai 2000, a cura di Marie-Claude Charpentier, Besançon, Presses Universitarires de Franche-Comté, 2004, pp. 223-234. 2005a Joëlle Soler, Écritures de voyage: héritages et inventions dans la

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littérature latine tardive, Paris, Institut d’Études Augustiniennes 2005. 2005b Joëlle Soler, Religion et récit de voyage. Le Peristephanon de Prudence et le De reditu suo de Rutilius Namatianus, in «Revue d’études augustiniennes et patristiques» 51, 2005, pp. 297-326. 2006 Joëlle Soler, Le poème de Rutilius Namatianus et la tradition du récit de voyage antique: à propos du ‘genre’ du De reditu suo, in «Vita Latina» 174, juin 2006, pp. 104-113. Squillante 2005 Marisa Squillante, Il viaggio, la memoria, il ritorno. Rutilio Namaziano e le trasformazioni del tema odeporico, «Storie e testi», collana diretta da Claudio Moreschini, Napoli, D’Auria 2005. Squillante-Polara 2004 Marisa Squillante - Giovanni Polara, Le voci di Virgilio e Orazio nel De reditu di Rutilio Namaziano, in AA. VV., Societas studiorum, Per Salvatore D’Elia, a cura di Ugo Criscuolo, Napoli, Pubblicazioni del Dipartimento di Filologia Classica ‘Francesco Arnaldi’ dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, 2004, pp. 423-437. Stampacchia 1989 Giulia Stampacchia, Problemi sociali nel De reditu suo di Rutilio Namaziano, in «Index» 17, 1989, pp. 243-254. Stein-Palanque 1968 Ernst Stein, Histoire du Bas-Empire, tome I, De l’état Romain à l’état Byzantin (284-476), édition française par Jean-Rémi Palanque, Amsterdam, Hakkert 1968 (rist. dell’ed. ParisBruges 1959; ed. originale Wien, Seidel & Sohn 1928). Testaguzza 1970 Otello Testaguzza, Portus. Illustrazione dei porti di Claudio e di Traiano e della città di Porto a Fiumicino, edizione curata da R. Peliti, Roma, Julia Editrice 1970. Tissol 2002 Garth Tissol, Ovid and the Exilic Journey of Rutilius Namatianus, in «Arethusa» 35, 2002, pp. 435-461. Trinch 1895 vd. § II di questa bibliografia. Vecce 1988 Carlo Vecce, Jacopo Sannazaro in Francia. Scoperte di codici all’inizio del XVI secolo, Padova, Antenore 1988.

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Verbaal 2006 W. Verbaal, A Man and his Gods. Religion in the De reditu suo of Rutilius Claudius Namatianus, in «Wiener Studien» 119, 2006, pp. 157-171. Vessereau 1904 Jules Vessereau, Claudius Rutilius Namatianus, édition critique accompagnée d’une traduction française et d’un index, et suivie d’une étude historique et littéraire sur l’oeuvre et l’auteur, Paris, A. Fontemoing Editeur 1904. Vessereau-Préchac 1961 Jules Vessereau - François Préchac, Rutilius Namatianus, Sur son retour, texte établi et traduit par J.V. et F.P., Paris, Les Belles Lettres, 1933, 19612. Wolff 2005 Étienne Wolff, Quelques aspects du De reditu suo de Rutilius Namatianus, in «Vita Latina» 173, décembre 2005, pp. 6674. 2006a Étienne Wolff, Rutilius Namatianus, De reditu suo I, in AA. VV., Sylves latines 2006, Neuilly, Éditions Atlande 2006, pp. 197-255. 2006b Étienne Wolff, Retour sur quelques problèmes du De reditu suo de Rutilius Namatianus, in «Revue des Études latines» 84, 2006, pp. 258-273. 2006c Étienne Wolff, Aviénus et la poésie didactique, in AA. VV., Musa docta. Recherches sur la poésie scientifique dans l’Antiquité, Saint-Étienne, Publications de l’Université 2006, pp. 363376. 2007 Rutilius Namatianus, Sur son retour, Nouvelle édition, texte établi et traduit par Étienne Wolff, avec la collaboration de Serge Lancel et de Joëlle Soler, Paris, Les Belles Lettres 2007. Zarini 1999 Vincent Zarini, Histoire, panégyrique et poésie: trois éloges de Rome l’éternelle autour de l’an 400 (Ammien Marcellin, Claudien, Rutilius Namatianus), in «Ktema» 24, 1999, pp. 167-179. Zehnacker 2005 Hubert Zehnacker, Géographie plinienne et littérature de voyage dans le De reditu suo de Rutilius Namatianus, in AA. VV., Antiquité tardive et humanisme. De Tertullien à Beatus Rhenanus, mélanges offerts à François Heim à l’occasion de son 70e anniversaire, éd. par Y. Lehmann, G. Freyburger, J. Hirstein, Turnhout, Brepols 2005, pp. 295-309.

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II. Opere creative e interventi giornalistici in margine a Rutilio o ad altri aspetti dell’antichità Accattino 1992 Adriano Accattino, Mistero in casa Einaudi, «Harta» a. III n. 18, dicembre 1992, p. 9. 1993 Adriano Accattino, Il ritorno del sogno [recensione alla prima edizione di Fo 1994], «Harta» a. IV n. 21, settembre 1993, p. 9. Acitelli 2004 Fernando Acitelli, Il tempo si marca a uomo [racconti], Arezzo, Limina 2004. 2005 Fernando Acitelli, Nella vita di Rutilio Namaziano: vd. § I di questa bibliografia, sotto Fo 2005a. 2006 Fernando Acitelli, Blu di Seneca [poesie], prefazione di Alessandro Fo, Firenze, Polistampa 2006. Andres 1993 Stephan Andres, La tentazione di Sinesio (Die Versuchung des Synesios, romanzo, 1971), traduzione italiana di Umberto Gandini, Casale Monferrato, Piemme 1993. Auden 1999 Wystan Hugh Auden, La mano del tintore [saggi, 1962], traduzione italiana, Milano, Adelphi 1999. Bettini 2004 Maurizio Bettini, Le coccinelle di Redùn [romanzo], Torino, Einaudi 2004. Bianchi Bandinelli 1976 Ranuccio Bianchi Bandinelli, Dal diario di un borghese e altri scritti, Milano, Editori Riuniti 1976 (da cui cito; Il Saggiatore 19621). Bondì 2003 Precisazioni di Claudio Bondì sul suo film De reditu-Il ritorno, inviatemi per posta elettronica (tramite una «elettrina», come al regista piace dire) il 23 aprile 2003. 2004 Chiara Bondì, De reditu (dietro le quinte), backstage del film di Claudio Bondì De reditu-Il ritorno, Roma, CEM-Cinema e Media, 2004 (reperibile presso il Centro Antropologia e Mondo Antico e presso la mediateca della Facoltà di Lettere dell’Università di Siena). 2008 «De reditu-Il ritorno» (storia della versione in prosa e immagini di un poemetto del V secolo d.C.), in «AAM-TAC: Arts and Artifacts in Movie – Technology, Aesthetics, Communication,

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bibliografia ii

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An International Journal» (Pisa-Roma, Fabrizio Serra Editore), 5, 2008 [ma 2009], pp. 113-134. Bondì-Aliano 2004 Federica Aliano, Incontro con Claudio Bondì, sul sito internet www.35mm.it, 2004. Bondì-Montini 2003 Franco Montini, Via dall’impero che crolla. Un film in costume per l’autore de ‘Il richiamo’, dal diario di Rutilio del V secolo d. C. – Claudio Bondì, «Il ritorno-De reditu», reportage-intervista con il regista Claudio Bondì, in «Vivilcinema», bimestrale d’informazione cinematografica della Federazione Italiana dei Cinema d’Essai, Anno III, nuova serie n. 2, marzo-aprile 2003, p. 12 (con due fotografie). Bondì-Ricci 1980 Claudio Bondì-Alessandro Ricci, La storia a misura d’uomo. Vita quotidiana nell’Italia antica, Torino, ERI 1980 (contiene alle pp. 53-81 il racconto Claudio Rutilio Namaziano poeta, un viaggio per mare nel 415 dopo Cristo). 2003 Claudio Bondì-Alessandro Ricci, sceneggiatura per il film De reditu-Il ritorno, pronto nel marzo 2003, uscito nelle sale nel gennaio 2004. Elenco qui di seguito, con le sigle di cui ho fatto uso, le stesure che mi sono state gentilmente messe a disposizione da Claudio Bondì e dalla Verdecchi Film (ora conservate presso la Biblioteca della Facoltà di Lettere di Siena): Primissima = «una primissima versione» di cui mi scrive Bondì in una e-mail del 23 aprile 2003; in un primo tempo non disponibile, e solo di recente rintracciata nell’archivio privato di Bondì, è la sceneggiatura preparata nel 1978 da Bondì e Ricci per la serie televisiva Vita quotidiana di…(la rispettiva puntata non fu poi girata per ragioni di budget; cfr. Bondì-Ricci 1980). Prima = senza data, se non quella del copyright: giugno 2000 (ricevuta come file per posta elettronica da Claudio Bondì). Seconda = senza data, se non quella del copyright: ottobre 2000 (ricevuta come file per posta elettronica da Claudio Bondì; sul frontespizio è tuttavia dichiarata «3/A versione»). Terza = senza data, se non quella del copyright: gennaio 2002 (ricevuta come file per posta elettronica da Claudio Bondì; sul frontespizio è dichiarata «3/A versione»). Quarta = datata 14 febbraio 2002 (ricevuta come file

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per posta elettronica da Claudio Bondì; sul frontespizio è dichiarata «4° versione»). Quinta = datata 4 marzo 2002 (ricevuta in stampata rilegata da Claudio Bondì; con appunti manoscritti a matita; sul frontespizio è dichiarata «5° versione»). Sesta = datata 27 marzo 2002 (ricevuta come file per posta elettronica da Claudio Bondì; sul frontespizio è dichiarata «6/a versione»). Settima = datata 2 maggio 2002 (ricevuta in stampata rilegata da Claudio Bondì; con interventi manoscritti; sul frontespizio è dichiarata «7/A VERSIONE»). Ottava = datata 3 giugno 2002 (ricevuta in stampata rilegata da Claudio Bondì; con interventi manoscritti; sul frontespizio è dichiarata «8/a versione»). Nona = datata 24 settembre (ricevuta in stampata da Claudio Bondì; la data è segnata manoscritta, sulla prima pagina, in alto a sinistra: 24/09; evidentemente l’anno è 2002). Decima = datata 29 Novembre 2002 (ricevuta in stampata dalla Verdecchi Film; in frontespizio si presenta come «II/a revisione sul girato». Sembrerebbe pertanto mancare nei materiali da me ricevuti una corrispettiva «I/a revisione sul girato»; a meno che Decima non sia la prima, e Undicesima l’autentica «seconda» revisione sul girato). Undicesima = datata 3 dicembre 2003 (ricevuta in stampata rilegata da Claudio Bondì; con alcuni interventi manoscritti; si presenta anch’essa come «II/a revisione sul girato», ma la data ‘stampata’ «29 Novembre 2002» è corretta a mano nella data 3/XII 2003; in frontespizio-copertina reca appuntata a mano la durata totale del film: «TOT. 1’36”»). Busta = busta in plastica isolata che contiene battute destinate alla voce fuori campo di Rutilio. Film = Quanto effettivamente ricavabile dal vero e proprio film, che ho potuto studiare in una registrazione VHS gentilmente messami a disposizione dalla Verdecchi Film. *A posteriori = Secondo Bondì, 23 aprile 2003, ci sarebbe ancora una stesura A posteriori ricavata dal Film concluso, di cui però sarebbe esistita solo una copia, che non mi è stata per ora messa a disposizione. Borges 1985 Jorge Luis Borges, Tutte le opere, a cura di Domenico Porzio, due volumi dei «Meridiani», Milano, Mondadori 1985 (cito, per il I dalla XVI edizione, 2003; per il II dalla XII edizione, 2003).

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Jorge Louis Borges, L’invenzione della poesia. Le lezioni americane, a cura di Calin-Andrei Mihailescu, traduzione italiana, Milano, Mondadori 2001 (edizione originale Harvard 2000).

Brodskij 1987a Iosif Brodskij, Fuga da Bisanzio, traduzione di Gilberto Forti, Milano, Adelphi 1987 (prima parte di una traduzione italiana di Less Than One, Selected Essays, New York, Farrar, Straus and Giroux 1986; cfr. 1987b). 1987b Iosif Brodskij, Il canto del pendolo, traduzione di Gilberto Forti, Milano, Adelphi 1987 (seconda parte di una traduzione italiana – che prende titolo dall’ultimo saggio – di Less Than One, Selected Essays, New York, Farrar, Straus and Giroux 1986; cfr. 1987a). 1996 Intervista con Josif Brodskij di Sven Birkerts (1988), traduzione italiana di Lilla Maione, introduzione di Paolo Mattei, Roma, Minimum Fax 1996. 1999 Iosif Brodskij, Dolore e ragione, traduzione di Gilberto Forti, Milano, Adelphi 1999 (20032, da cui cito; prima parte dell’edizione italiana della raccolta di saggi vari, usciti precedentemente in varie occasioni, e riuniti da Brodskij poco prima della sua morte sotto il titolo On Grief and Reason, New York, Farrar, Straus and Giroux 1995; vd. Brodskij 2003). 2003 Iosif Brodskij, Profilo di Clio, a cura di Arturo Cattaneo, Milano, Adelphi 2003 (seconda parte dell’edizione italiana di On Grief and Reason, New York, Farrar, Straus and Giroux 1995; vd. Brodskij 1999). Campus 2003 Giovanni Campus, Mediterranee, «La Biblioteca di Babele» Collana di letteratura sarda plurilingue diretta da Nicola Tanda, 22, Sassari, EDES Editrice (Editrice Democratica Sarda) 2003. Cappello 1998 Pierluigi Cappello, La misura dell’erba, Poesie, Milano, Ignazio Maria Gallino Editore 1998, 20002. 2001 Pierluigi Cappello, L’isola disorientata, poesie, con una fotografia, e una nota biografica di Anna De Simone, presentazione di Alessandro Fo, in «Caffè Michelangiolo», rivista di discussione fondata e diretta da Mario Graziano Parri (Firenze, Polistampa), anno V n. 3, settembre-dicembre 2001, p. 34. 2002 Pierluigi Cappello, Dentro Gerico [poesie], presentazione di Giovanni Tesio, tavola di Sergio Toppi, Meduno, Circolo Culturale 2002.

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2006

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Pierluigi Cappello, Assetto di volo. Poesie 1992-2005, a cura di Anna De Simone e Giovanni Tesio, Milano, Crocetti 2006.

Cardona 1997 Maria Clelia Cardona, L’altra metà del dèmone [racconti], Venezia, Marsilio 1997. Cipollini 1993 Marco Cipollini, Il ritorno [= recensione alla prima edizione di Fo 1994], in «Erba d’Arno» n. 52, 1993, pp. 101-102. Consorti 1995 Michela Consorti, L’ultima imperatrice [romanzo], Ancona, Transeuropa 1995. del Corona-Rechn 2002 Umano, segno e canto, testi di Annarosa del Corona, disegni di Günther Rechn, Grosseto, Dianum 2002 [libro d’arte, con testi poetici]. Di Francesco 1993 Tommaso Di Francesco, In viaggio con Rutilio Namaziano tra barbari e città moribonde [recensione alla prima edizione di Fo 1994], «il manifesto-la talpa libri», venerdì 19 febbraio 1993, p. 4. Dossi 1964 Carlo Dossi, Note azzurre, a cura di Dante Isella, Milano, Adelphi 1964, 19882 (da cui cito). Eliot 1999 Thomas Stearn Eliot, nel volume II di Opere 1939-1962, a cura di Roberto Sanesi, Milano, Bompiani 1999. Fellini 1969 Fellini Satyricon, di Federico Fellini, a cura di Dario Zanelli, Bologna, Cappelli 1969. Filmagenda 2004 Recensione al film di C. Bondì De reditu-Il ritorno, a firma Paulus - Redazione Filmagenda, all’indirizzo internet http: //www.filmagenda.it/film/scheda_film.php?id=4590. Fontana 2004a Flavius Fontana, De reditu Ronaldi, in «Latinitas», fascicolo II del 2004, pp. 134-145. 2004b [Flavio Fontana], Flavi Augusti Musandri Carmen de bello derbyco e De reditu Ronaldi, prefazione di Milly Moratti, introduzione, traduzione e note di Patrizio Bellavittis, testo latino a fronte, Marina di Carrara, Francesco Rossi Editore 2004.

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Gaarder 1998 Jostein Gaarder, Vita brevis. Lettera di Floria Emilia ad Aurelio Agostino, romanzo (1996), traduzione italiana di Roberto Bacci, Milano, Longanesi 1998 (rist. Teadue 2000). Gabriele 2001 Miro Gabriele, Le città antiche, in «Caffè Michelangiolo» anno VI n. 2, maggio-agosto 2001, pp. 24-28. Gadda 1988-93 Carlo Emilio Gadda, Opere, edizione diretta da Dante Isella, 5 volumi (sette tomi), Milano, «La Spiga» Garzanti 198819931 (con aggiornamenti nelle successive edizioni). Giusti 2003 Folco Giusti, Un’isola da amare, Capraia: storie di uomini e di animali [racconti], con vedute disegnate da Cinzia Giusti Di Massa e tavole zoologiche di Rossella Faleni, Roma, Le opere e i giorni 2003. Haasse 1993 Hella S. Haasse, Profumo di mandorle amare [romanzo], traduzione italiana di Cristina Hess, Milano, Rizzoli 1993, rist. 1996 (edizione originale 1966, con il titolo Een nieuwer testament). Hardy 1992 Maria Stella, Momenti di visione. Identità poetica e forme della poesia in Thomas Hardy: ottanta liriche con testo a fronte, collana «Il testo ritrovato» 5, Milano, Franco Angeli 1992. Huysmans 1989 Joris-Karl Huysmans, Controcorrente (A rebours) [romanzo, 1884], traduzione italiana di Giampiero Posani, Torino, Einaudi 1989. Ki no Tsurayuki 2004 Ki no Tsurayuki, Tosa nikki (Diario di Tosa), traduzione curata da Simona Vignali, Venezia, Libreria Editrice Cafoscarina 2004. Luzi 1993 Mario Luzi, Libro di Ipazia [scrittura drammatica articolata in Prologo, Ipazia, Il messaggero, Epilogo: 1969-1976], in Teatro, postfazione di Giancarlo Quiriconi, Milano, Garzanti 1993, pp. 5-96, con lo scritto di M. Luzi Fu così che, pp. 97-101. Manfredi 2002 Valerio Massimo Manfredi, L’ultima legione [romanzo], Milano, Mondadori 2002.

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bibliografia ii

Celestino Marzo, Le scarpe di Emma [poesie], a cura di Claudio Vela, con un ‘pesce d’oro’ di Alessandro Fo, CremonaLucca, LIM-Una Cosa Rara 2000.

Montini vd. Bondì-Montini. Musandro (Flavio Augusto) vd. Fontana. Normanno 1999 Normanno (Luigi Romano), Poeta in Ninive (Poesie 19821997), prefazione di Plinio Perilli, Castel Maggiore (Bologna), Book Editore 1999. 2004 Normanno (Luigi Romano), ampia lettera ‘di poetica’ in calce ai miei appunti sulla sua poesia rutiliana, datata Cori, Fonte Mandarina, 10 agosto 2004. 2005 Normanno (Luigi Romano), Da Alchera alla City (Poesie 1973-2004), Castel Maggiore (Bologna), Book Editore 2005. Paglieri 2009 Sergio Paglieri, Palinsesti rutiliani, Genova, Type 2009. Parri 2001 Mario Graziano Parri, Stella di guardia. Poesie, Firenze, Polistampa 2001. Pascoli 1951 Iohannis Pascoli, Carmina recognoscenda curavit Maria soror/ Giovanni Pascoli, Poesie latine, a cura di Manara Valgimigli, nell’edizione Mondadori di «Tutte le opere di Giovanni Pascoli», Milano 19511 (cito da 19542). 1971 Giovanni Pascoli, Poesie, nell’edizione Mondadori di «Tutte le opere di Giovanni Pascoli», Milano 1971. Pisini 2008 Mauro Pisini, Meteora (Stelle brevi) [poesie], prefazione di Mario Geymonat, appunti di Nicola Scapecchi, con la collaborazione di Chiara Savini, Roma, Sandro Teti Editore 2008 (alle pp. 62 ss. il poemetto Rutilius Namatianus, in latino, con traduzione a fronte di Chiara Savini). Piva 2005 AA. VV., Rutilio, Sensazioni, Note a margine dell’allestimento dal De reditu suo del Centro Teatrale Rinaldini, [opuscoletto preparato in proprio da insegnanti e ragazzi del Rinaldini, a cura di Giacomo Piva], Ancona, giugno 2005.

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Ponti 1995 Pound 1970

bibliografia ii

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Antonio Carlo Ponti, I Merli d’Albornoz, [poesie] Perugia, Guerra Edizioni 1995. The Translations of Ezra Pound, with an Introduction by H. Kenner, London-Boston, 19531, an enlarged edition published in 1970, reissued in 1984, Faber & Faber (ed. da cui cito).

Proust 1981

Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, vol. I, trad. di Natalia Ginzburg, Torino, Einaudi 1981. Ricci vd. anche Bondì-Ricci 1980 e Bondì-Ricci 2003. 1985 Alessandro Ricci, Le segnalazioni mediante i fuochi [poesie], con disegni di Tullio Zicari, Abano Terme, Piovan Editore 1985. 1989 Alessandro Ricci, Indagini sul crollo [poesie], prefazione di Roberto Pazzi, Spinea-Venezia, Edizioni del Leone 1989. 2004 Alessandro Ricci, I cavalli del nemico [poesie (postumo)], Roma, Il Labirinto 2004. Roccatagliata Ceccardi 1982 Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Tutte le poesie, a cura di Bruno Cicchetti ed Eligio Imarisio, Genova, SAGEP 1982. Ronchey 1993 Alberto Ronchey, Dobbiamo salvare l’Italia dei tesori, «La Repubblica», mercoledì 26 maggio 1993, pp. 1 e 36-37. Tabucchi 1993 Antonio Tabucchi, Tangentopoli, i nuovi barbari. Il Palazzo crolla, l’Italia resiste, elzeviro, in «Visâo» (Portogallo) e per l’Italia «Il Corriere della Sera», giovedì 8 aprile 1993, p. 31. Trinch 1895 Arturo Trinch, Dal poema «Itinerarium de reditu suo» di C. Rutilio Namaziano, Livorno, 1895. Vidal 2003 Gore Vidal, Giuliano [romanzo], traduzione italiana di Chiara Vatteroni, Roma, Fazi 2003 (edizione originale 1962). Villemain 1957 Confessions de Numida, l’Innommée de saint Augustin présentées et commentées par Pierre Villemain et précedées d’une lettre de Henri-Irénée Marrou [romanzo], Paris, Édition de Paris 1957. Wenders 1993 Wim Wenders, Una volta, con una intervista di Leonetta

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bibliografia ii

Bentivoglio, prefazione di Daniele Del Giudice, Roma, Edizioni Socrates 1993 (19944, da cui cito). Zero 2004

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Zero 1958-1968 tra Germania e Italia, catalogo della mostra (Siena, Palazzo delle Papesse Centro Arte Contemporanea, 29 maggio-19 settembre 2004), a cura di Marco Meneguzzo e Stephan von Wiese, Siena, Silvana Editoriale 2004.

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CLAUDII RUTILII NAMATIANI De reditu suo*

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Il testo qui adottato è quello criticamente stabilito da Alessandro Fo (Fo 1994)

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CLAUDIO RUTILIO NAMAZIANO Il ritorno traduzione di Andrea Rodighiero

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Liber Primus

*** velocem potius reditum mirabere, lector, tam cito Romuleis posse carere bonis. Quid longum toto Romam venerantibus aevo? Nil umquam longum est, quod sine fine placet. 5 O quantum et quotiens possum numerare beatos, nasci felici qui meruere solo, qui Romanorum procerum generosa propago ingenitum cumulant urbis honore decus! Semina virtutum demissa et tradita caelo 10 non potuere aliis dignius esse locis. Felices etiam, qui proxima munera primis sortiti Latias obtinuere domos! Religiosa patet peregrinae Curia laudi nec putat externos, quos decet esse suos; 15 ordinis imperio collegarumque fruuntur et partem genii, quem venerantur, habent, quale per aetherios mundani verticis axes concilium summi credimus esse dei. At mea dilectis fortuna revellitur oris 20 indigenamque suum Gallica rura vocant.

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LIBRO PRIMO

*** … ti stupirai piuttosto, lettore, del fatto che io torni così [presto: che possa così in fretta rinunciare a Roma e ai suoi [beni. Cosa vuol dire “lungo”, per chi venera Roma tutta la vita? Niente è mai lungo, di ciò che piace sempre, senza fine. 5 Oh quanto, e quante volte posso valutare beato chi ha meritato di nascere su questo suolo felice, e, generosa stirpe dei nobili Romani, aggiunge la gloria della discendenza all’onore di vivere nell’Urbe. I semi delle virtù, consegnati e trasmessi giù dal cielo, 10 non avrebbero altrove più degnamente dimorato. E felice anche chi ebbe in sorte un dono quasi pari al [precedente: ha ottenuto di vivere nel Lazio! La venerabile Curia si apre al merito dei forestieri, e non ritiene estraneo colui che ha dignità di [appartenervi: 15 egli gode dei poteri dell’ordine e dei suoi colleghi, ed è partecipe del Genio che qui venerano, come tra i poli celesti del mondo noi crediamo che operi il consiglio di un dio supremo. Ma la mia sorte è strappata via dall’amato paese, 20 e i campi della Gallia, dove nacqui, mi richiamano.

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Illa quidem longis nimium deformia bellis, sed quam grata minus, tam miseranda magis. Securos levius crimen contemnere cives: privatam repetunt publica damna fidem. 25 Praesentes lacrimas tectis debemus avitis, prodest admonitus saepe dolore labor, nec fas ulterius longas nescire ruinas, quas mora suspensae multiplicavit opis. Iam tempus laceris post saeva incendia fundis 30 vel pastorales aedificare casas. Ipsi quin etiam fontes si mittere vocem ipsaque si possent arbuta nostra loqui, cessantem iustis poterant urgere querelis et desideriis addere vela meis. 35

Iamiam laxatis carae complexibus urbis vincimur, et serum vix toleramus iter. Electum pelagus, quoniam terrena viarum plana madent fluviis, cautibus alta rigent: postquam Tuscus ager postquamque Aurelius agger 40 perpessus Geticas ense vel igne manus non silvas domibus, non flumina ponte coercet, incerto satius credere vela mari. Crebra relinquendis infigimus oscula portis, inviti superant limina sacra pedes. 45 Oramus veniam lacrimis et laude litamus, in quantum fletus currere verba sinit: «Exaudi, regina tui pulcherrima mundi, inter sidereos, Roma, recepta polos! Exaudi, genitrix hominum genitrixque deorum;

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È vero, sono stati sfigurati da guerre lunghe, ma quanto meno attraggono, tanto più sono da [commiserare. È una più lieve colpa non curarsi dei cittadini al sicuro: i danni pubblici reclamano l’impegno di ogni [singolo. 25 Laggiù presenti, dobbiamo le nostre lacrime alle antiche [dimore; giova una fatica che sia spronata spesso dal dolore, e non è lecito ignorare ancora queste vaste rovine, che l’indugio di un esitante aiuto ha moltiplicato. Ormai è tempo, dopo i violenti incendi nei poderi [straziati, 30 di ricostruire: anche solo capanne da pastori. Se le sorgenti stesse potessero, anzi, dire una parola, e sapessero parlare i nostri arbusti, mi incalzerebbero con giuste lamentele mentre sto inerte, e aggiungerebbero ai miei desideri le vele. 35

Siamo ormai vinti, sciolto l’abbraccio della città che ci è [cara, e a stento ci adattiamo al viaggio che avevamo [rimandato. Si è scelto il mare: le vie di terra in pianura sono allagate dai fiumi, le alture rese aspre dalle rocce. Dopo che la campagna etrusca e la via Aurelia 40 hanno a lungo patito fuoco e spada delle bande dei [Goti, non trattengono più la boscaglia con locande, né i fiumi [con i ponti; meglio offrire le vele al mare incerto. Imprimiamo alle porte che dobbiamo lasciare molti baci, e controvoglia il piede varca la soglia sacra. 45 Domandiamo perdono tra le lacrime e offriamo sacrifici [di lode, per quel tanto che il pianto lascia scorrere le parole: «Dammi ascolto, regina bellissima del mondo che ti [appartiene, accolta tra gli astri, Roma, dei poli celesti! Dammi ascolto, madre degli uomini e madre degli dèi;

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50 non procul a caelo per tua templa sumus. Te canimus semperque, sinent dum fata, canemus: sospes nemo potest immemor esse tui. Obruerint citius scelerata oblivia solem quam tuus ex nostro corde recedat honos: 55 nam solis radiis aequalia munera tendis, qua circumfusus fluctuat Oceanus. Volvitur ipse tibi, qui continet omnia, Phoebus eque tuis ortos in tua condit equos: te non flammigeris Libye tardavit harenis, 60 non armata suo reppulit Ursa gelu; quantum vitalis natura tetendit in axes, tantum virtuti pervia terra tuae. Fecisti patriam diversis gentibus unam, profuit iniustis te dominante capi; 65 dumque offers victis proprii consortia iuris, urbem fecisti, quod prius orbis erat. Auctores generis Venerem Martemque fatemur, Aeneadum matrem Romulidumque patrem. Mitigat armatas victrix clementia vires, 70 convenit in mores nomen utrumque tuos. Hinc tibi certandi bona parcendique voluptas: quos timuit superat, quos superavit amat. Inventrix oleae colitur vinique repertor et qui primus humo pressit aratra puer; 75 aras Paeoniam meruit medicina per artem, fretus et Alcides nobilitate deus: tu quoque, legiferis mundum complexa triumphis foedere communi vivere cuncta facis, te, dea, te celebrat Romanus ubique recessus 80 pacificoque gerit libera colla iugo.

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50 attraverso i tuoi templi noi non siamo lontani dal cielo. Ti celebriamo, e ti celebreremo sempre, finché lo [concedano i fati: nessuno, finché è vivo, può essere dimentico di te. Un oblio sciagurato potrà coprire il sole, prima che la tua gloria svanisca dal mio cuore: 55 perché i favori che spargi sono uguali ai raggi del sole, fin dove scorre Oceano circondandoci. Per te si volge anche Febo stesso, che tutto abbraccia, e in te nasconde i suoi cavalli, da te sorti: non è stata un ostacolo, per te, la Libia con le sue sabbie [infuocate, 60 né l’Orsa armata dei suoi ghiacci ti ha respinto; quanto la vita della natura si è estesa tra i due poli, tanto la terra si apre al tuo valore. Di popoli diversi hai fatto un’unica patria, è stato un bene per chi era senza legge cadere sotto il tuo dominio; 65 e concedendo ai vinti di condividere il tuo diritto, hai trasformato in Urbe quel che prima era orbe. Riconosciamo Venere e Marte come coloro che ti hanno [dato origine: la madre degli Eneadi, il padre dei Romulidi. Vittoriosa la clemenza placa la forza delle armi, 70 e sotto le tue norme e i tuoi costumi si riuniscono [entrambi i nomi. È da qui che ti viene il nobile piacere di combattere e di [saper perdonare: sconfiggere chi si è temuto, amare chi si è sconfitto. Colei che ha scoperto l’olio e l’inventore del vino sono [adorati, e il giovane che, primo, ha premuto l’aratro contro la [terra; 75 la medicina grazie all’arte di Peone è stata degna di altari, e Alcide, forte della sua grandezza, è dio; e anche tu, che abbracci il mondo con i tuoi trionfi che [portano la legge, fai vivere ogni cosa dentro un patto comune: te, o dea, te in ogni dove celebra ogni angolo di suolo, [ormai romano, 80 e muove libero il collo sotto un giogo pacifico.

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Omnia perpetuos quae servant sidera motus nullum viderunt pulchrius imperium. Quid simile Assyriis conectere contigit armis Medi finitimos cum domuere suos? 85 Magni Parthorum reges Macetumque tyranni mutua per varias iura dedere vices. Nec tibi nascenti plures animaeque manusque, sed plus consilii iudiciique fuit: iustis bellorum causis nec pace superba 90 nobilis ad summas gloria venit opes. Quod regnas minus est quam quod regnare mereris; excedis factis grandia facta tuis. Percensere labor densis decora alta trophaeis, ut si quis stellas pernumerare velit, 95 confunduntque vagos delubra micantia visus: ipsos crediderim sic habitare deos. Quid loquar aerio pendentes fornice rivos, qua vix imbriferas tolleret Iris aquas? Hos potius dicas crevisse in sidera montes: 100 tale Giganteum Graecia laudat opus? Intercepta tuis conduntur flumina muris, consumunt totos celsa lavacra lacus, nec minus et propriis celebrantur roscida venis totaque nativo moenia fonte sonant; 105 frigidus aestivas hinc temperat halitus auras innocuamque levat purior unda sitim. Nempe tibi subitus calidarum gurges aquarum rupit Tarpeias hoste premente vias; si foret aeternus, casum fortasse putarem: 110 auxilio fluxit, qui rediturus erat.

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Tutti gli astri, che obbediscono al loro eterno moto, non hanno visto mai un impero più bello. Alle armi assire, forse, capitò di riunirne uno simile, quando i Medi domarono i popoli vicini? 85 I grandi re dei Parti e i tiranni Macedoni alternativamente, gli uni agli altri, imposero le proprie [leggi. E quando tu nascesti non hai avuto più anime, o più [braccia, ma più avvedutezza e senso di giustizia: giuste cause di guerra e una pace senza superbia 90 hanno condotto la tua insigne gloria all’autorità [somma. Ed è meno importante che regni, del fatto che tu meriti [il tuo regno: con le tue imprese superi le imprese più grandiose. Passare in rassegna i monumenti eccelsi ricolmi di trofei è come se si volessero contare le stelle. 95 E i templi scintillanti disorientano gli sguardi che si [perdono: così, oserei credere, sono le stesse dimore degli dèi. E che dire dei rivi sospesi sopra le arcate, in aria, fin dove a stento Iride alzerebbe le sue acque cariche [di pioggia? Verrebbe da dire piuttosto che sono monti, questi, [cresciuti fino agli astri: 100 può la Grecia vantare una simile impresa da Giganti? Catturati si raccolgono chiusi fra le tue pareti i fiumi, sublimi bagni termali consumano i serbatoi di laghi [interi; né le roride mura sono meno ricolme delle tue vene: è tutto un risuonare di sorgenti native, 105 così che un soffio fresco tempera l’aria d’estate, e una più pura fonte allevia la sete resa ormai innocua. Ed è vero che un improvviso gorgo di acque calde spezzò per te la via della rupe Tarpea all’incalzare del [nemico. Fosse stato perenne, potrei anche forse ritenerlo un caso: 110 scorse in tuo aiuto, invece, per poi tornare indietro e [scomparire.

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Quid loquar inclusas inter laquearia silvas, vernula qua vario carmine ludat avis? Vere tuo numquam mulceri desinit annus deliciasque tuas victa tuetur hiems. 115 Erige crinales lauros seniumque sacrati verticis in virides, Roma, recinge comas; aurea turrigero radient diademata cono perpetuosque ignes aureus umbo vomat. Abscondat tristem deleta iniuria casum, 120 contemptus solidet vulnera clausa dolor. Adversis solemne tuis sperare secunda, exemplo caeli ditia damna subis: astrorum flammae renovant occasibus ortus; lunam finiri cernis, ut incipiat. 125 Victoris Brenni non distulit Allia poenam, Samnis servitio foedera saeva luit, post multas Pyrrhum clades superata fugasti, flevit successus Hannibal ipse suos. Quae mergi nequeunt, nixu maiore resurgunt 130 exiliuntque imis altius acta vadis; utque novas vires fax inclinata resumit, clarior ex humili sorte superna petis. Porrige victuras Romana in saecula leges solaque fatales non vereare colos, 135 quamvis sedecies denis et mille peractis annus praeterea iam tibi nonus eat. Quae restant, nullis obnoxia tempora metis, dum stabunt terrae, dum polus astra feret; illud te reparat, quod cetera regna resolvit: 140 ordo renascendi est crescere posse malis.

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Che dire dei boschi racchiusi tra i portici dalle volte a [riquadri, dove con mille canti, lì di casa, giocano gli uccellini? L’anno non smette mai di farsi dolce della tua [primavera, e, sconfitto, l’inverno preserva le tue grazie. 115 Su, solleva gli allori che ti ornano i capelli, e cingi ancora [la bianca vecchiaia del tuo sacro capo, Roma, in verdeggianti [chiome: risplendano gli ori del diadema dalla corona turrita e l’aureo scudo levi una fiamma perpetua. L’affronto cancellato occulti la tristezza della caduta, 120 l’indegno dolore ricomponga, serrandolo, lo sfregio. È consueto per te, nella sventura, sperare nel favore [degli eventi, e alla stregua del cielo vai incontro a danni che ti [rendono più ricca: le fiamme degli astri a ogni loro tramonto rinascono, la luna la vedi morire, perché cresca di nuovo. 125 L’Allia non ha rinviato il castigo di Brenno, che pure [vinceva, il Sannita ha espiato da schiavo i suoi patti spietati; dopo tante sconfitte, già battuta, hai messo Pirro in fuga, e anche Annibale ha pianto i suoi successi. Ciò che non può affondare riaffiora con un impeto [maggiore 130 e balza sospinto dal fondo ancora più in alto; e come una torcia inclinata recupera nuovo vigore, più luminosa, tu, a terra per un misero destino, ora ti [elevi. Estendi le tue leggi che sempre avranno vita nei secoli di [Roma, non avere timore, tu sola, dei fili del destino, 135 benché passati siano mille anni, e sedici volte dieci, e volga già oramai per te alla fine il nono. Il tempo che rimane non sarà sottoposto a nessun termine finché la terra esista e finché il cielo reggerà le stelle; questo ti ridà forza, ciò che dissolve tutti gli altri regni: 140 regola di rinascita è sapere, dal male, ricrescere.

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Ergo age sacrilegae tandem cadat hostia gentis, submittant trepidi perfida colla Getae. Ditia pacatae dent vectigalia terrae, impleat augustos barbara praeda sinus; 145 aeternum tibi Rhenus aret, tibi Nilus inundet altricemque suam fertilis orbis alat, quin et fecundas tibi conferat Africa messes, sole suo dives, sed magis imbre tuo. Interea et Latiis consurgant horrea sulcis 150 pinguiaque Hesperio nectare prela fluant. Ipse triumphali redimitus arundine Thybris Romuleis famulas usibus aptet aquas atque opulenta tibi placidis commercia ripis devehat hinc ruris, subvehat inde maris. 155 Pande, precor, gemino pacatum Castore pontum, temperet aequoream dux Cytherea viam, si non displicui, regerem cum iura Quirini, si colui sanctos consuluique patres. Nam quod nulla meum strinxerunt crimina ferrum, 160 non sit praefecti gloria, sed populi. Sive datur patriis vitam componere terris, sive oculis umquam restituere meis, fortunatus agam votoque beatior omni, semper digneris si meminisse mei». 165 His dictis iter arripimus; comitantur amici. Dicere non possunt lumina sicca «vale». Iamque aliis Romam redeuntibus haeret eunti Rufius, Albini gloria viva patris, qui Volusi antiquo derivat stemmate nomen 170 et reges Rutulos teste Marone refert. Huius facundae commissa palatia linguae;

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Ecco dunque, finalmente cadano come vittime quelle [empie genti: tremando i Goti sottomettano il loro collo infido. Siano ricche le rendite date dalle terre ora in pace, e una barbara preda riempia il tuo nobile seno; 145 in eterno per te tracci il suo corso il Reno, per te straripi [il Nilo, e l’universo nutra fertile la sua nutrice, e anche l’Africa possa per te raccogliere messi feconde, ricca del sole suo, però ancora di più delle tue piogge. Intanto sorgano i granai per i solchi del Lazio 150 e grassi colino i torchi del nettare di Esperia. Che il Tevere stesso, recinto di canne trionfali, pieghi le acque al servizio degli usi di Roma, e copiosi commerci per te tra le rive tranquille conduca giù dalla campagna, e dal mare salendo. 155 Schiudi, ti prego, una distesa calma, placata dai Dioscuri, renda facile e piana la via d’acqua Citerea, mia guida, se non ti spiacqui quando ressi le leggi di Quirino, se onorai i sacri padri e li chiamai a consiglio. Ché se nessun delitto mi ha costretto a impugnare la [spada 160 non vada, questo, a gloria del prefetto, ma del popolo. Se mi sarà concesso di posare infine la vita sulle terre dei [miei padri, o anche venga tu un giorno restituita ai miei occhi, mi stimerò felice, e beato, oltre ogni desiderio, se tu mi degnerai del tuo ricordo eterno». 165 Dopo queste parole ci incamminiamo; mi scortano gli [amici. Non riesce, il mio sguardo, a dire addio senza lacrime. E quando oramai gli altri ripartono per Roma, resta [accanto a me che parto Rufio, la gloria viva di suo padre [Albino, che deriva il suo nome dall’antico blasone di Voluso 170 e riproduce in lui, come attesta Marone, i re dei [Rutuli. Il palazzo si affida all’eloquenza delle sue parole;

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primaevus meruit principis ore loqui. Rexerat ante puer populos pro consule Poenos: aequalis Tyriis terror amorque fuit. 175 Sedula promisit summos imitatio fasces: si fas est meritis fidere, consul erit. Invitum tristis tandem remeare coegi; corpore divisos mens tamen una tenet. Tum demum ad naves gradior, qua fronte bicorni 180 dividuus Tiberis dexteriora secat. Laevus inaccessis fluvius vitatur harenis; hospitis Aeneae gloria sola manet. Et iam nocturnis spatium laxaverat horis Phoebus Chelarum pallidiore polo. 185 Cunctamur tentare salum portuque sedemus nec piget oppositis otia ferre moris, occidua infido dum saevit gurgite Plias dumque procellosi temporis ira cadit. Respectare iuvat vicinam saepius urbem 190 et montes visu deficiente sequi, quaque duces oculi grata regione fruuntur, dum se, quod cupiunt, cernere posse putant. Nec locus ille mihi cognoscitur indice fumo, qui dominas arces et caput orbis habet 195 (quamquam signa levis fumi commendat Homerus, dilecto quotiens surgit in astra solo), sed caeli plaga candidior tractusque serenus signat septenis culmina clara iugis. Illic perpetui soles, atque ipse videtur, 200 quem sibi Roma facit, purior esse dies. Saepius attonitae resonant circensibus aures, nuntiat accensus plena theatra favor; pulsato notae redduntur ab aethere voces, vel quia perveniunt, vel quia fingit amor.

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così giovane merita che la sua lingua parli dalla bocca [del principe. Dapprima, ragazzo ha governato, proconsole, i popoli [Punici: nei Tirii si uguagliavano per lui timore e amore. 175 La sua assidua premura gli ha promesso la carica [suprema: se nel merito è lecito fidare, sarà console. Non voleva, ma infine io, triste, l’ho spinto a tornare; saremo divisi nel corpo, ma un’anima sola ci unisce. Vado soltanto allora alle navi, là dove biforca la fronte, 180 il Tevere, in due corni e taglia i campi più a destra. Si evita il braccio sinistro – le sabbie fanno il fiume [impraticabile –: gli resta soltanto la gloria di avere accolto Enea. E già alle ore notturne aveva ceduto lo spazio, nel più pallido cielo delle Chele, il sole. 185 Esitiamo a tentare il mare, e aspettiamo nel porto; non è spiacevole quest’ozio imposto dal ritardo, mentre le Pleiadi al tramonto infuriano con flutti infidi e mentre cade l’ira del tempo di bufera. È bello voltarsi ancora spesso alla città vicina, 190 e seguire, con lo sguardo che viene meno, la linea [dei monti; dove mi guidano, gli occhi gioiscono dei luoghi cari, credendo di poter distinguere quel che desiderano. Né un indizio di fumo mi fa riconoscere il punto che possiede le rocche sovrane e il principio del mondo 195 (benché Omero decanti le tracce di un fumo sottile, quando si leva agli astri sopra la terra amata), ma una plaga del cielo più lucente, una parte serena, segna chiare le cime ai sette colli. Là il sole splende sempre, e anche il giorno 200 che Roma crea per sé sembra essere più limpido. Più e più volte echeggiano i giochi nelle mie orecchie [incredule, un applauso improvviso mi annuncia che i teatri sono [pieni; vengono restituite voci note dall’aria percossa, che davvero ritornino o che le plasmi amore.

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205 Explorata fides pelagi ter quinque diebus, dum melior lunae fideret aura novae. Tum discessurus studiis urbique remitto Palladium, generis spemque decusque mei. Facundus iuvenis Gallorum nuper ab arvis 210 missus Romani discere iura fori, ille meae secum dulcissima vincula curae filius affectu, stirpe propinquus habet; cuius Aremoricas pater Exuperantius oras nunc postliminium pacis amare docet, 215 leges restituit libertatemque reducit et servos famulis non sinit esse suis. Solvimus aurorae dubio, quo tempore primum agnosci patitur redditus arva color. Progredimur parvis per litora proxima cymbis, 220 quarum perfugio crebra pateret humus; aestivos penetrent oneraria carbasa fluctus, tutior autumnus mobilitate fugae. Alsia praelegitur tellus Pyrgique recedunt, nunc villae grandes, oppida parva prius. 225 Iam Caeretanos demonstrat navita fines: aevo deposuit nomen Agylla vetus. Stringimus * * * et fluctu et tempore Castrum: index semiruti porta vetusta loci. Praesidet exigui formatus imagine saxi 230 qui pastorali cornua fronte gerit. Multa licet priscum nomen deleverit aetas, hoc Inui Castrum fama fuisse putat, seu Pan Tyrrhenis mutavit Maenala silvis, sive sinus patrios incola Faunus init; 235 dum renovat largo mortalia semina fetu, fingitur in Venerem pronior esse deus. Ad Centumcellas forti defleximus Austro; tranquilla puppes in statione sedent.

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205 Per quindici giorni scrutammo la sicurezza del mare, finché un vento migliore fidasse nella luna nuova. Ora sto per partire: rimando alla città e ai suoi studi Palladio, speranza e onore della mia famiglia. Un giovane eloquente, inviato da poco a Roma 210 dalle terre di Gallia, perché apprenda le leggi del foro: porta delle mie cure in sé il dolcissimo vincolo, un figlio, per l’affetto, e per stirpe un congiunto; suo padre Esuperanzio insegna ora alle rive d’Armorica ad amare il ritorno della pace esiliata, 215 restituisce leggi, riporta la libertà, e non permette che dei propri servi si diventi schiavi. Salpiamo nell’incerto dell’aurora, quando di primo [mattino il colore tornato sui campi li lascia intravedere. Avanziamo vicino alla costa su piccole barche 220 cui possa la terra dischiudere ripari frequenti; solchino i mari d’estate le vele di navi da carico, d’autunno è più sicuro disporre di vie di fuga agevoli. Si costeggia la terra d’Alsio mentre Pirgi rimane indietro: adesso grandi ville, una volta piccoli villaggi. 225 Ecco, già il marinaio ci segnala i confini di Cere: col tempo Agilla ha perduto il vecchio nome. Sfioriamo Castro * * * e dal mare e dal tempo, resta un’antica porta a rivelare quel luogo diroccato. Lo presidia la forma in pietra di una piccola statua 230 di chi porta le corna sulla fronte, come dio dei [pastori. Gli anni, molti, hanno dissolto il nome originario, ma fama vuole che questo fosse il Castro d’Inuo, sia che Pan abbia lasciato il Menalo per i boschi tirreni sia che Fauno, vivendo lì, si inoltri nei recessi in cui è [nato. 235 Poiché rinnova il seme dei mortali con nascite frequenti, il dio è raffigurato mentre, pronto, si dispone [all’amore. Abbiamo piegato verso Centocelle per via del forte [Austro; fanno sosta, le navi, in una rada calma.

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Molibus aequoreum concluditur amphitheatrum, 240 angustosque aditus insula facta tegit; attollit geminas turres bifidoque meatu faucibus artatis pandit utrumque latus. Nec posuisse satis laxo navalia portu: ne vaga vel tutas ventilet aura rates, 245 interior medias sinus invitatus in aedes instabilem fixis aera nescit aquis, qualis in Euboicis captiva natatibus unda sustinet alterno brachia lenta sono. Nosse iuvat Tauri dictas de nomine Thermas, 250 nec mora difficilis milibus ire tribus. Non illic gustu latices vitiantur amaro lymphaque fumifico sulphure tincta calet: purus odor mollisque sapor dubitare lavantem cogit, qua melius parte petantur aquae. 255 Credere si dignum famae, flagrantia taurus investigato fonte lavacra dedit, ut solet excussis pugnam praeludere glebis, stipite cum rigido cornua prona terit, sive deus faciem mentitus et arma iuvenci 260 noluit ardentis dona latere soli, qualis Agenorei rapturus gaudia furti per freta virgineum sollicitavit onus. Ardua non solos deceant miracula Graios: auctorem pecudem fons Heliconis habet, 265 elicitas simili credamus origine nymphas,

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L’anfiteatro d’acqua è circoscritto da moli, 240 e un’isola creata apposta copre gli accessi angusti: eleva torri gemelle, e nel doppio passaggio estende, sulle strette imboccature, entrambi i lati. Non basta aver disposto gli arsenali dentro il porto [spazioso: perché la brezza instabile non scuota le barche già al [sicuro 245 una baia più interna ospitata fino in mezzo alle case non conosce il variare del vento grazie alle sue acque [ferme; come nuotando nelle piscine dell’euboica Cuma, dove [l’onda prigioniera sostiene le braccia che si flettono con ritmo alterno. Ci fa piacere visitare le Terme che prendono il nome dal [toro: 250 non porta via tempo, né è pesante camminare per [tre miglia. Le acque lì non sono guastate da un gusto amaro, né la loro linfa si scalda tingendosi di zolfo fumoso: l’odore puro e il suo sapore dolce costringono i bagnanti a non sapere bene in che maniera servirsi meglio di [essa. 255 Se c’è da credere alla fama, questi bagni bollenti ce li ha [dati un toro, quando portò alla luce la sorgente mentre scalciava zolle in aria, come quando si prepara [allo scontro e piegato in avanti si strofina su un tronco robusto le [corna; oppure una divinità, fingendo aspetto e armi di torello, 260 non volle che restassero nascosti i doni di quel suolo [arroventato, quale quel dio che per godersi il furto – la figlia di [Agenore rapita – ne fece sussultare sopra i flutti il peso di fanciulla. Non si confanno solamente ai Greci i prodigi incredibili: la sorgente di Elicona ha un animale ad artefice; 265 le nostre acque crediamole pure sgorgate da un’origine [analoga,

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Musarum latices ungula fodit equi; haec quoque Pieriis spiracula comparat antris carmine Messalae nobilitatus ager, intrantemque capit discedentemque moratur 270 postibus adfixum dulce poema sacris. Hic est qui primo seriem de consule ducit usque ad Publicolas si redeamus avos; hic et praefecti nutu praetoria rexit, sed menti et linguae gloria maior inest; 275 hic docuit, qualem poscat facundia sedem: ut bonus esse velit, quisque disertus erit. Roscida puniceo fulsere crepuscula caelo: pandimus obliquo lintea flexa sinu. Paulisper litus fugimus Munione vadosum, 280 suspecto trepidant ostia parva salo. Inde Graviscarum fastigia rara videmus, quas premit aestivae saepe paludis odor, sed nemorosa viret densis vicinia lucis pineaque extremis fluctuat umbra fretis. 285 Cernimus antiquas nullo custode ruinas et desolatae moenia foeda Cosae. Ridiculam cladis pudet inter seria causam promere, sed risum dissimulare piget: dicuntur cives quondam migrare coacti 290 muribus infestos deseruisse lares; credere maluerim Pygmaeae damna cohortis et coniuratos in sua bella grues! Haud procul hinc petitur signatus ab Hercule portus; vergentem sequitur mollior aura diem.

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la fonte delle Muse fu portata alla luce dallo zoccolo [di un cavallo; e queste stesse fenditure le paragona agli antri delle [Pieridi il territorio reso illustre dal carme di Messalla; cattura chi sta entrando, trattiene chi va via 270 il dolce poema inciso sopra le porte sacre. Egli vanta la sua discendenza dal primo console, se risaliamo indietro fino agli avi, ai Publicola; egli – era prefetto – resse il pretorio con un solo cenno, ma gloria ancor maggiore riposa nel suo ingegno, e [nella lingua; 275 egli ha mostrato quale sede reclami l’arte di parlare [bene: chiunque potrà essere eloquente, solo che voglia esser [probo. La prima luce brillò rugiadosa nel cielo purpureo: tendiamo le vele inclinate in una piega obliqua. Per un tratto evitiamo il fondale basso lungo le foci del [Mignone: 280 anguste imboccature vi agitano onde infide. Quindi avvistiamo i tetti sparpagliati di Gravisca, oppressa spesso, in estate, da odore di palude, ma i dintorni boscosi verdeggiano di fitte foreste e sull’orlo del mare tremola l’ombra dei pini. 285 Scorgiamo le antiche rovine, senza alcuna custodia, e le squallide mura di Cosa abbandonata. Quasi ci si vergogna a rivelare, in mezzo a cose serie, la [ragione ridicola della disfatta, però mi spiace mascherare il [riso: si dice che un tempo i cittadini, costretti ad emigrare, 290 lasciarono le case perché infestate dai topi; meglio credere alle perdite subìte dal contingente [Pigmeo e alle gru confederatesi per muovere loro guerra! Ci dirigiamo, non lontano da lì, al porto che ha il nome [da Ercole, un’aria più lieve tiene dietro al giorno che declina.

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295 Inter castrorum vestigia sermo retexit Sardoam Lepido praecipitante fugam; litore namque Cosae cognatos depulit hostes virtutem Catuli Roma secuta ducis. Ille tamen Lepidus peior, civilibus armis 300 qui gessit sociis impia bella tribus, qui libertatem Mutinensi Marte receptam obruit auxiliis urbe pavente novis. Insidias paci moliri tertius ausus tristibus excepit congrua fata reis. 305 Quartus Caesareo dum vult inrepere regno, incesti poenam solvit adulterii. Nunc quoque… sed melius de nostris fama queretur, iudex posteritas semina dira notet. Nominibus certos credam decurrere mores? 310 Moribus an potius nomina certa dari? Quidquid id est, mirus Latiis annalibus ordo, quod Lepidum totiens reccidit ense malum. Necdum decessis pelago permittimur umbris; natus vicino vertice ventus adest. 315 Tenditur in medias mons Argentarius undas ancipitique iugo caerula curva premit. Transversos colles bis ternis milibus artat, circuitu ponti ter duodena patet, qualis per geminos fluctus Ephyreius Isthmos 320 Ionias bimari litore findit aquas. Vix circumvehimur sparsae dispendia rupis nec sinuosa gravi cura labore caret; mutantur totiens vario spiramina flexu: quae modo profuerant vela, repente nocent.

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295 Tra le rovine di un accampamento il discorso ritorna sull’affrettata fuga di Lepido in Sardegna: dal lido di Cosa respinse nemici dello stesso sangue Roma, sotto il comando del valoroso Catulo. Però ancora peggiore fu quel Lepido che levò le armi 300 in un’empia guerra civile durante il triumvirato, e che la libertà, riconquistata nel conflitto di Modena, oppresse con nuove truppe, nello sgomento di Roma. Osò tendere insidie alla pace, il terzo Lepido, e subì il destino che conviene ai biechi criminali. 305 E poi un quarto, cercando di strisciare sopra il trono dei [Cesari, scontò la pena di un incestuoso adulterio. E ancora oggi… Ma i nostri li deplorerà meglio la fama: saranno i posteri a additare, giudici, questi semi [funesti. Dovrò credere che dai nomi derivino determinati [costumi 310 o ai costumi, piuttosto, si usa dare nomi determinati? Comunque sia, è mirabile, negli annali del Lazio, la [sequela di quante volte un Lepido, un danno con la spada, [ritorna. Ancora le ombre non si sono dissolte, e ci affidiamo al [mare; un vento alzatosi dalla vetta vicina ci accompagna [propizio. 315 In mezzo alle onde si distende il monte Argentario, e con la doppia cima domina baie azzurre. Per due volte tre miglia stringe i suoi colli in larghezza, nel circuito via mare si allarga tre volte dodici, come l’Istmo, tra flutti gemelli, a Corinto 320 fende con una spiaggia bagnata da due mari le acque [ionie. A fatica aggiriamo le rocce frastagliate, per una via [difficile; è un impegno tortuoso che non manca di sforzi [pesanti: cambia il vento ogni volta che si cambia la rotta, le vele, ora di aiuto, all’improvviso nuocciono.

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325 Eminus Igilii silvosa cacumina miror, quam fraudare nefas laudis honore suae: haec proprios nuper tutata est insula saltus sive loci ingenio seu domini genio, gurgite cum modico victricibus obstitit armis 330 tamquam longinquo dissociata mari. Haec multos lacera suscepit ab urbe fugatos, hic fessis posito certa timore salus. Plurima terreno populaverat aequora bello contra naturam classe timendus eques; 335 unum mira fides vario discrimine portum tam prope Romanis, tam procul esse Getis. Tangimus Umbronem; non est ignobile flumen, quod tuto trepidas excipit ore rates: tam facilis pronis semper patet alveus undis, 340 in pontum quotiens saeva procella ruit. Hic ego tranquillae volui succedere ripae, sed nautas avidos longius ire sequor. Sic festinantem ventusque diesque reliquit: nec proferre pedem nec revocare licet. 345 Litorea noctis requiem metamur harena; dat vespertinos myrtea silva focos. Parvula subiectis facimus tentoria remis, transversus subito culmine contus erat. Lux aderat: tonsis progressi stare videmur, 350 sed cursum prorae terra relicta probat. Occurrit Chalybum memorabilis Ilva metallis, qua nihil uberius Norica gleba tulit, non Biturix largo potior strictura camino

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325 Contemplo da lontano le cime boscose del Giglio, che non è lecito spogliare del suo tributo di lode: da non molto quest’isola ha difeso le sue balze (sia stata la condizione del luogo, o il genio del [principe), quando da una modesta distanza ha resistito alle armi [dei vincitori 330 quasi fosse isolata da uno spazio di mare immenso. Essa ha accolto i molti fuggiaschi dalla città straziata: qui per loro, sfiniti, deposta la paura, ci fu salvezza [certa. Molti tratti di costa avevano distrutto con guerre di terra i cavalieri, contro natura temibili per nave; 335 è straordinario a credersi: un solo porto è stato in modo [alterno per i Romani così vicino e per i Goti così lontano. Tocchiamo l’Ombrone, che non è un fiume da poco: con bocca sicura accoglie le navi trepidanti, tanto accessibile si schiude il suo alveo dalle acque [sempre distese, 340 quando sul mare si rovesciano impetuose tempeste. Qui io avrei voluto attraccare, su quella riva tranquilla: ma seguo i marinai smaniosi di andare oltre. Così, mentre avanzo in fretta, il vento e il giorno mi [lasciano, non si può più procedere né arretrare di un passo. 345 Sulla sabbia del lido tracciamo il campo per il riposo [della notte, e un boschetto di mirti offre il fuoco serale. Facciamo delle tende, piccole, posando in piedi i remi, e una pertica messa di traverso come tetto improvvisato. Era tornato il giorno: avanzando coi remi sembra che [stiamo fermi, 350 ma la terra lasciata indietro dà prova del tragitto della [prua. Ci viene incontro l’Elba, famosa per i metalli dei Calibi: non è certo più fertile il terreno del Norico, né è migliore il metallo costretto nelle larghe fornaci dei [Biturigi,

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nec quae Sardonico cespite massa fluit. 355 Plus confert populis ferri fecunda creatrix quam Tartesiaci glarea fulva Tagi. Materies vitiis aurum letale parandis, auri caecus amor ducit in omne nefas, aurea legitimas expugnant munera taedas 360 virgineosque sinus aureus imber emit, auro victa fides munitas decipit urbes, auri flagitiis ambitus ipse furit. At contra ferro squalentia rura coluntur, ferro vivendi prima reperta via est; 365 saecula semideum, ferrati nescia Martis, ferro crudeles sustinuere feras; humanis manibus non sufficit usus inermis, si non sint aliae ferrea tela manus. His mecum pigri solabar taedia venti, 370 dum resonat variis vile celeuma modis. Lassatum cohibet vicina Falesia cursum, quamquam vix medium Phoebus haberet iter; et tum forte hilares per compita rustica pagi mulcebant sacris pectora fessa iocis: 375 illo quippe die tandem revocatus Osiris excitat in fruges germina laeta novas. Egressi villam petimus lucoque vagamur; stagna placent saepto deliciosa vado, ludere lascivos intra vivaria pisces 380 gurgitis inclusi laxior unda sinit. Sed male pensavit requiem stationis amoenae hospite conductor durior Antiphate: namque loci querulus curam Iudaeus agebat, humanis animal dissociale cibis. 385 Vexatos frutices, pulsatas imputat algas damnaque libatae grandia clamat aquae. Reddimus obscenae convicia debita genti,

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né la massa che fluisce dal suolo di Sardegna. 355 Dona di più alle genti questa feconda creatrice di ferro che non la fulva ghiaia del tartesiaco Tago. Oro letale: una materia che dispone al vizio, l’amore cieco dell’oro conduce a ogni misfatto. Favori d’oro espugnano matrimoni legittimi 360 e pioggia d’oro compra seni ancora innocenti. Dall’oro vinta, la fedeltà inganna città fortificate: con le infamie dell’oro è l’ambizione stessa che infuria. Al contrario col ferro si coltivano i campi desolati, nel ferro si è scoperta la prima via di vita. 365 L’età dei semidei, ancora ignara del ferrato Marte, col ferro ha resistito alle belve feroci; alle mani degli uomini non basta un uso inerme, se armi in ferro non siano come altre mani. Tra me con questi pensieri mi consolavo della noia del [vento pigro, 370 mentre varia si ripeteva la misera nenia che serve da [cadenza. La vicina Falesia interrompe, esausti, il nostro viaggio, benché Febo non abbia compiuto metà del suo corso. E proprio allora, per caso, lieti i villaggi ai crocicchi nei [campi addolcivano gli animi stanchi con delle sacre feste. 375 Perché Osiride proprio in quel giorno, alla fine, rinato risveglia in nuove messi i semi fecondi. Sbarcati, puntiamo a una villa e vaghiamo in un piccolo [bosco: gli stagni ci deliziano con i loro recinti attorno [all’acqua. Permette ai pesci lascivi di giocare tra i vivai 380 l’onda ampia dei flutti imprigionati. Ma compensò male la quiete di quella sosta gradevole un gestore che in ospitalità era peggio di Antifate: mandava avanti quel posto un lagnoso giudeo, un essere che si dissocia dal cibo degli uomini. 385 Arbusti fatti a pezzi, ci mette in conto, e alghe maltrattate, proclama un gran danno per avergli sfiorato l’acqua! Lo ripaghiamo con gli insulti dovuti a quella gente [immonda

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quae genitale caput propudiosa metit, radix stultitiae, cui frigida sabbata cordi, 390 sed cor frigidius religione sua; septima quaeque dies turpi damnata veterno tamquam lassati mollis imago dei. Cetera mendacis deliramenta catastae nec pueros omnes credere posse reor. 395 Atque utinam numquam Iudaea subacta fuisset Pompeii bellis imperiisque Titi! Latius excisae pestis contagia serpunt victoresque suos natio victa premit. Adversus surgit Boreas, sed nos quoque remis 400 surgere certamus, cum tegit astra dies. Proxima securum reserat Populonia litus, qua naturalem ducit in arva sinum. Non illic positas extollit in aethera moles lumine nocturno conspicienda Pharos, 405 sed speculam validae rupis sortita vetustas, qua fluctus domitos arduus urget apex, castellum geminos hominum fundavit in usus, praesidium terris indiciumque fretis. Agnosci nequeunt aevi monumenta prioris: 410 grandia consumpsit moenia tempus edax; sola manent interceptis vestigia muris, ruderibus latis tecta sepulta iacent. Non indignemur mortalia corpora solvi: cernimus exemplis oppida posse mori. 415 Laetior hic nostras crebrescit fama per aures, consilium Romam paene redire fuit: hic praefecturam sacrae cognoscimus urbis delatam meritis, dulcis amice, tuis. Optarem verum complecti carmine nomen, 420 sed quosdam refugit regula dura pedes: cognomen versu veheris, carissime Rufi, illo te dudum pagina nostra canit.

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che spudoratamente si recide l’estremità del sesso, radice di stoltezza cui sta a cuore la frigidità del sabato: 390 ma col cuore più freddo della fede in cui crede, e un giorno ogni sette condannato a un abietto torpore come la molle immagine del loro dio spossato. A quegli altri deliri, menzogneri e da banco di schiavi, neanche i bambini, penso, possono credere. 395 Magari la Giudea non fosse stata mai sottomessa dalle armi di Pompeo e dal comando di Tito! Più esteso serpeggia il contagio della peste recisa, e la nazione vinta opprime i vincitori. Si alza Borea contrario, ma anche noi sui remi 400 ci alziamo a gara, mentre copre le stelle il giorno. Vicina, Populonia schiude il suo lido sicuro, dove spinge dentro nei campi il golfo naturale. Qui non leva fino al cielo le sue moli fabbricate Faro, in modo che si veda per la sua luce notturna, 405 ma avuto in sorte l’osservatorio di una salda rupe, gli [antichi dove la cima scoscesa preme i flutti domati hanno eretto una rocca con un impiego duplice, per gli [uomini: difesa dalla parte di terra, segnale dalla parte del mare. Non si possono più riconoscere i monumenti del passato: 410 mura imponenti il tempo vorace ha consunto. Restano solo tracce di pareti interrotte, tetti sepolti giacciono sotto ruderi vasti. Non indigniamoci che i corpi mortali si dissolvano; valgano gli esempi: anche le città muoiono. 415 Qui una notizia più lieta si diffonde e ci arriva [all’orecchio, quasi avevo deciso di ritornare a Roma: la prefettura della città sacra – qui, veniamo a saperlo – è affidata ai tuoi meriti, mio dolce amico. Vorrei poterti stringere nel carme con il tuo nome [intero, 420 ma evita certi piedi la legge dura del metro. Ti riversi col nome di famiglia nel verso, carissimo Rufio: già da prima è con esso che ti canta la nostra pagina.

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Festa dies pridemque meos dignata penates poste coronato vota secunda colat; 425 exornent virides communia gaudia rami, provecta est animae portio magna meae. Sic mihi, sic potius placeat geminata potestas: per quem malueram, rursus honore fruor. Currere curamus velis Aquilone reverso 430 cum primum roseo fulsit Eous equo. Incipit obscuros ostendere Corsica montes nubiferumque caput concolor umbra levat; sic dubitanda solet gracili vanescere cornu defessisque oculis luna reperta latet. 435 Haec ponti brevitas auxit mendacia famae: armentale ferunt quippe natasse pecus, tempore Cyrneas quo primum venit in oras forte secuta vagum femina Corsa bovem. Processu pelagi iam se Capraria tollit; 440 squalet lucifugis insula plena viris. Ipsi se monachos Graio cognomine dicunt, quod soli nullo vivere teste volunt. Munera fortunae metuunt, dum damna verentur: quisquam sponte miser, ne miser esse queat? 445 Quaenam perversi rabies tam stulta cerebri, dum mala formides, nec bona posse pati? Sive suas repetunt factorum ergastula poenas, tristia seu nigro viscera felle tument. Sic nimiae bilis morbum assignavit Homerus

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Un giorno di festa – in altro tempo ha onorato la mia [casa – celebri con corone agli stipiti i desideri realizzati, 425 e verdi rami adornino la nostra gioia comune: si è elevata una parte grande della mia anima. Così, così piuttosto, sia a me gradito un rinnovato [incarico: grazie a chi ho prediletto ne godo di nuovo il [prestigio. Ora che l’Aquilone è caduto, cerchiamo con le vele di [correre, 430 quando brilla la stella del mattino sul roseo cavallo. Comincia a esibire le sue scure montagne la Corsica, e un’ombra di uguale colore leva in alto le cime [nuvolose; a volte così, dubbia, svanisce nel suo arco sottile, e agli [occhi che sforzandosi l’avevano scorta, si nasconde la luna. 435 Questa breve distanza di mare ha amplificato una [leggenda falsa: dicono infatti che un armento l’abbia percorsa a nuoto nel tempo in cui la prima volta giunse sulle spiagge di [Kyrnos, per caso, una donna che inseguiva un bue fuggito, [Corsa. Avanzando sull’acqua, già si staglia la Capraia; 440 l’isola è sudicia, piena di uomini che fuggono la luce. Chiaman se stessi “monaci”, con nome greco: perché soli, vogliono vivere, senza alcun testimone. Dei doni della sorte hanno paura, e ne temono i guasti: c’è qualcuno che sia infelice apposta per poterlo non [essere? 445 Che furore è mai questo, tanto stolido, di un cervello [stravolto, che mentre paventi il male neanche il bene sopporti? O scontano la pena, come dei condannati, delle colpe [commesse o le loro tristi viscere son gonfie di nero fiele. Così a un morboso eccesso di bile attribuì Omero

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450 Bellerophonteis sollicitudinibus: nam iuveni offenso saevi post tela doloris dicitur humanum displicuisse genus. In Volaterranum, vero Vada nomine, tractum ingressus dubii tramitis alta lego. 455 Despectat prorae custos clavumque sequentem dirigit et puppim voce monente regit. Incertas gemina discriminat arbore fauces defixasque offert limes uterque sudes. Illis proceras mos est adnectere lauros, 460 conspicuas ramis et fruticante coma, ut praebente viam densi symplegade limi servet inoffensas semita clara notas. Illic me rapidus consistere Corus adegit, qualis silvarum frangere lustra solet. 465 Vix tuti domibus saevos toleravimus imbres: Albini patuit proxima villa mei; namque meus, quem Roma meo subiunxit honori, per quem iura meae continuata togae. Non exspectatos pensavit laudibus annos, 470 vitae flore puer, sed gravitate senex. Mutua germanos iunxit reverentia mores et favor alternis crevit amicitiis: praetulit ille meas, cum vincere posset, habenas, at decessoris maior amore fuit. 475 Subiectas villae vacat aspectare salinas; namque hoc censetur nomine salsa palus, qua mare terrenis declive canalibus intrat multifidosque lacus parvula fossa rigat. Ast ubi flagrantes admovit Sirius ignes,

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450 le cupezze di Bellerofonte, colme d’ansia: colpito infatti dai dardi di un atroce dolore il giovane, si dice, prese ad avere in sdegno l’umano genere. Entrato nella zona di Volterra – che ha il nome [appropriato di “Vada” –, percorro le acque fonde di un infido canale. 455 Chi ha in custodia la prua guarda in basso e dirige il [timone docile, e guida chi sta a poppa avvisandolo a voce. Due alberi permettono di distinguere le incerte [imboccature, e sui bordi si mostrano dei pali piantati da ambo le [parti. È un costume comune congiungervi alti allori, 460 ben visibili per i rami e la loro folta chioma, perché, dove queste simplegadi di denso limo offrono [una via, chiaro il sentiero conservi intatti i suoi segnali. Là mi costrinse un impetuoso Coro a fermarmi, quale di solito percuote i boschi più selvaggi. 465 A fatica, al riparo di una casa, facemmo fronte [all’acquazzone: non lontana si aprì la villa del mio Albino; è infatti mio: Roma a me lo ha congiunto nell’onore e in lui si trasmette l’autorità della mia toga. Con il valore ha compensato gli anni che gli mancavano, 470 un ragazzo nel fiore della vita, ma anziano per [saggezza. Un mutuo rispetto ha saldato due indoli gemelle e l’affetto è cresciuto nello scambio dell’amicizia: ha preferito, benché potesse vincere, le mie redini alle sue, però è stato più grande per l’amore verso il suo [predecessore. 475 Ho tempo, e osservo le saline in basso rispetto alla villa: con questo nome viene registrata quella salsa palude, dove, in pendenza, il mare entra per i canali di terra e una piccola fossa irriga bacini separati in varie pozze. Ma al tempo in cui Sirio si avvicina con la sua fiamma di [fuoco,

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480 cum pallent herbae, cum sitit omnis ager, tum cataractarum claustris excluditur aequor, ut fixos latices torrida duret humus; concipiunt acrem nativa coagula Phoebum et gravis aestivo crusta calore coit: 485 haud aliter, quam cum glacie riget horridus Hister grandiaque adstricto flumine plaustra vehit. Rimetur solitus naturae expendere causas inque pari dispar fomite quaerat opus: iuncta fluenta gelu conspecto sole liquescunt 490 et rursus liquidae sole gelantur aquae. O quam saepe malis generatur origo bonorum! Tempestas dulcem fecit amara moram: Victorinus enim, nostrae pars maxima mentis, congressu explevit mutua vota suo. 495 Errantem Tuscis considere compulit agris et colere externos capta Tolosa lares. Nec tantum duris nituit sapientia rebus; pectore non alio prosperiora tulit. Conscius Oceanus virtutum, conscia Thyle 500 et quaecumque ferox arva Britannus arat, qua praefectorum vicibus frenata potestas perpetuum magni foenus amoris habet. Extremum pars illa quidem discessit in orbem, sed tamquam medio rector in orbe fuit. 505 Plus palmae est illos inter voluisse placere, inter quos minor est displicuisse pudor. Illustris nuper sacrae comes additus aulae contempsit summos ruris amore gradus. Hunc ego complexus ventorum adversa fefelli, 510 dum videor patriae iam mihi parte frui.

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quando l’erba ingiallisce, quando ogni campo ha [sete, allora grazie a chiuse e sbarramenti il mare resta escluso perché la terra riarsa renda dure le acque stagnanti. Quei grumi spontanei portano in grembo l’ardente Febo, e compatta, per il caldo d’estate, vi si unisce una [crosta: 485 non è diverso da quando irrigidisce in ghiaccio l’Istro [gelido e porta sulle sue acque rapprese grandi carri. Investighi, chi d’abitudine soppesa le leggi di natura, e spieghi opposti effetti in un medesimo principio di [calore: correnti congiunte dal gelo al cospetto del sole si [sciolgono 490 e, di nuovo, acque fluide per il sole congelano. Oh, quanto spesso dal male si genera un inizio di bene! Una tempesta amara rese dolce la sosta: infatti Vittorino, massima parte della mente mia, esaudì raggiungendomi i voti di entrambi. 495 Errabondo, lo ha spinto a fermarsi nelle terre di Tuscia la presa di Tolosa, e a venerare Lari forestieri. Non solamente nelle avversità poté la sua saggezza [brillare: con cuore uguale ha accolto anche sorti migliori. Ben conosce le sue virtù Oceano, ben le conosce Tule, 500 ed ogni campo arato dai fieri Britanni: là, da prefetto vicario, un esercizio moderato del potere gli ha ottenuto per sempre il frutto di un grande [amore. Quella, certo, è una terra discosta, fino all’estremo limite [del mondo, ma l’ha guidata come se fosse al centro del mondo. 505 È una gloria più grande aver voluto piacere a genti fra cui non piacere causa minor vergogna. Da poco ammesso come conte illustre alla sacra corte, ha rinunciato ai gradi più alti per amore dei campi. Lo riabbracciai, e ingannai con lui l’avversità dei venti, 510 mentre già mi pareva di godere di una parte di patria.

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Lutea protulerat sudos Aurora iugales; antemnas tendi litoris aura iubet. Inconcussa vehit tranquillus aplustria flatus; mollia securo vela rudente tremunt. 515 Adsurgit ponti medio circumflua Gorgon inter Pisanum Cyrnaicumque latus. Aversor scopulos, damni monumenta recentis: perditus hic vivo funere civis erat. Noster enim nuper iuvenis maioribus amplis 520 nec censu inferior coniugiove minor impulsus furiis homines terrasque reliquit et turpem latebram credulus exul agit. Infelix putat illuvie caelestia pasci seque premit laesis saevior ipse deis. 525 Num, rogo, deterior Circaeis secta venenis? Tunc mutabantur corpora, nunc animi. Inde Triturritam petimus: sic villa vocatur, quae latet expulsis insula paene fretis; namque manu iunctis procedit in aequora saxis, 530 quique domum posuit, condidit ante solum. Contiguum stupui portum, quem fama frequentat Pisarum emporio divitiisque maris. Mira loci facies: pelago pulsatur aperto inque omnes ventos litora nuda patent. 535 Non ullus tegitur per brachia tuta recessus, Aeolias possit qui prohibere minas, sed procera suo praetexitur alga profundo molliter offensae non nocitura rati; et tamen insanas caedendo interrigat undas 540 nec sinit ex alto grande volumen agi.

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Gialla l’Aurora aveva proteso i suoi tersi cavalli; la brezza che spira sulla spiaggia invita a tendere le [antenne. Senza sbalzi un leggero soffio muove gli ornamenti di [poppa; cedevoli tremano le vele, non sfibrano la gomena. 515 Nel mare si leva circondata dai flutti la Gorgona, tra la costa pisana e quella della Corsica. Volgo lo sguardo via dagli scogli, memoria di una recente [sciagura: perso, qui abitava, salma vivente, un nostro [concittadino. Da poco infatti un giovane di illustri progenitori, 520 non per censo inferiore, o matrimonio, spinto dalla pazzia ha lasciato uomini e terre, e ora frequenta questo laido rifugio, esule credulone. Di sozzura ritiene l’infelice che le cose del cielo si [alimentino, e si opprime da sé, più implacabile di dèi oltraggiati. 525 Ora, mi chiedo, forse è una cricca peggiore dei veleni di [Circe? Là si mutavano i corpi, qui si trasformano gli animi. Da lì ci dirigiamo a Triturrita; così viene chiamata una [villa che si cela, respinti i flutti, su una penisola: si inoltra in mare sopra massi affiancati dalla mano [dell’uomo, 530 e chi vi ha posato la casa prima ha fondato il suolo. Rimasi stupefatto del porto lì vicino, che la fama riempie [di gente perché è emporio di Pisa, e per le ricchezze dal mare. Mirabile è l’aspetto di quel luogo: è battuto dal mare [aperto e il nudo litorale si espone a tutti i venti. 535 Non un solo recesso è protetto da bracci sicuri di moli in modo da frenare le minacce di Eolo, ma lunghe si intrecciano davanti al suo fondale le alghe che dolcemente sfiorandolo non guastano lo scafo, e al contrario tagliano spezzandoli i flutti insidiosi 540 e impediscono che si levino dal largo le onde alte.

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Tempora navigii clarus reparaverat Eurus, sed mihi Protadium visere cura fuit. Quem qui forte velit certis cognoscere signis, Virtutis speciem corde vidente petat; 545 nec magis efficiet similem pictura colorem, quam quae de meritis mixta figura venit: aspicienda procul certo prudentia vultu formaque iustitiae suspicienda micat. Sit fortasse minus, si laudet Gallia civem: 550 testis Roma sui praesulis esse potest. Substituit patriis mediocres Umbria sedes: virtus fortunam fecit utramque parem; mens invicta viri pro magnis parva tuetur, pro parvis animo magna fuere suo. 555 Exiguus regum rectores cespes habebat et Cincinnatos iugera pauca dabant: haec etiam nobis non inferiora feruntur vomere Serrani Fabriciique foco. Puppibus ergo meis fida in statione locatis 560 ipse vehor Pisas, qua solet ire pedes. Praebet equos, offert etiam carpenta tribunus, ex commilitio carus et ipse mihi, officiis regerem cum regia tecta magister armigerasque pii principis excubias. 565 Alpheae veterem contemplor originis urbem, quam cingunt geminis Arnus et Ausur aquis. Conum pyramidis coeuntia flumina ducunt:

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Terso, Euro aveva restituito un tempo buono per [navigare, ma provai il desiderio di fare visita a Protadio. Chi lo voglia conoscere nei suoi tratti certi con lo sguardo del cuore richiami l’immagine della [Virtù; 545 né un dipinto gli renderà un aspetto più somigliante del ritratto che deriva dalla mescolanza dei suoi [meriti: da lungi un’ammirevole saggezza risplende sul volto [sicuro, e brilla, a contemplarlo, il profilo della giustizia. Sarebbe minor cosa, fosse la Gallia a lodare un suo [concittadino: 550 ma può testimoniare Roma del suo prefetto. Al posto dei poderi patrii l’Umbria gli ha offerto umili [sedi: la virtù ha reso uguale le due sorti; l’animo invitto di quest’uomo tiene per grandi le piccole [cose, e piccole sono state nel suo cuore le grandi. 555 Modesti erano i campi dei vincitori di re, pochi iugeri ci davano dei Cincinnati: così anche questo caso non si presenta come inferiore, [per me, all’aratro di Serrano o al fuoco di Fabrizio. Lasciate dunque all’ancora in un punto protetto le mie [navi, 560 mi dirigo alla volta di Pisa lungo la consueta via di [terra. Mi procura i cavalli, e in più offre il bel carro, un tribuno: anche a me la comune milizia lo ha reso caro, quando agli affari interni reggevo da ministro la reale [casa e le guardie del principe pio, le squadre in armi. 565 Contemplo la città antica che trae origine dal fiume [Alfeo, circondata dalle acque gemelle dell’Arno e [dell’Ausur. Confluendo i due fiumi compongono un cono di [piramide:

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intratur modico frons patefacta solo. Sed proprium retinet communi in gurgite nomen 570 et pontum solus scilicet Arnus adit. Ante diu quam Troiugenas fortuna penates Laurentinorum regibus insereret, Elide deductas suscepit Etruria Pisas nominis indicio testificata genus. 575 Hic oblata mihi sancti genitoris imago, Pisani proprio quam posuere foro. Laudibus amissi cogor lacrimare parentis; fluxerunt madidis gaudia maesta genis. Namque pater quondam Tyrrhenis praefuit arvis 580 fascibus et senis credita iura dedit. Narrabat, memini, multos emensus honores Tuscorum regimen plus placuisse sibi: nam neque opum curam, quamvis sit magna, sacrarum nec ius quaesturae grata fuisse magis; 585 ipsam, si fas est, postponere praefecturam pronior in Tuscos non dubitabat amor. Nec fallebatur, tam carus et ipse probatis: aeternas grates mutua cura canit, constantemque sibi pariter mitemque fuisse 590 insinuant natis, qui meminere, senes. Ipsum me gradibus non degenerasse parentis gaudent et duplici sedulitate fovent. Haec eadem, cum Flaminiae regionibus irem, splendoris patrii saepe reperta fides: 595 famam Lachanii veneratur numinis instar inter terrigenas Lydia tota suos. Grata bonis priscos retinet provincia mores dignaque rectores semper habere bonos,

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sul fronte aperto penetra un sottile lembo di terra. Ma nel gorgo comune conserva il proprio nome 570 l’Arno, e come si sa sfocia in mare da solo. Molto prima che la sorte innestasse i Penati di Troia fra i sovrani di Laurento, fu l’Etruria ad accogliere coloni della Pisa nell’Elide, e nel segno del nome se ne attesta l’origine. 575 Qui mi si offrì l’effigie del mio venerato padre, la statua che i Pisani hanno collocato nel loro Foro. Sono indotto al pianto, leggendo le lodi di mio padre [perduto: mestizia e gioia scorsero sulle mie guance madide. Mio padre infatti un tempo ha governato le campagne [Tirrene 580 e amministrato le leggi affidate ai sei fasci. E raccontava, ricordo, dopo aver ricoperto molte cariche, che quella in Tuscia più di tutte gli fu cara: né la custodia, per quanto grande, del tesoro sacro né la questura furono per lui compiti più graditi; 585 e non aveva dubbi a metter dopo, se è lecito, anche la prefettura, nel suo amore così vivo per i [Tusci. Non si ingannava: tanto anch’egli fu amato da quei suoi [prediletti; il reciproco affetto recita in versi eterna gratitudine, e il fatto che era d’animo fermo e al contempo mite 590 lo infondono nei loro figli i vecchi, che si ricordano. E che io stesso nei miei incarichi non sia stato da meno [di mio padre è per loro una gioia, e hanno per me premura [doppia. Percorrendo le zone della via Flaminia spesso ho [ritrovato gli stessi indizi certi dello splendore paterno: 595 alla maniera di un dio venera la fama di Lacanio la Lidia tutta tra i suoi figli nativi. Grata agli uomini onesti, la provincia mantiene i costumi [di un tempo, degna così di avere sempre onesti governanti:

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qualis nunc Decius, Lucilli nobile pignus 600 per Corythi populos arva beata regit. Nec mirum, magni si redditus indole nati felix tam simili posteritate pater. Huius vulnificis satira ludente Camenis nec Turnus potior nec Iuvenalis erit; 605 restituit veterem censoria lima pudorem dumque malos carpit, praecipit esse bonos. Non olim sacri iustissimus arbiter auri circumsistentes reppulit Harpyias? Harpyias, quarum discerpitur unguibus orbis, 610 quae pede glutineo, quod tetigere, trahunt, quae luscum faciunt Argum, quae Lyncea caecum! Inter custodes publica furta volant! Sed non Lucillum Briareia praeda fefellit totque simul manibus restitit una manus. 615 Iamque Triturritam Pisaea ex urbe reversus aptabam nitido pendula vela Noto, cum subitis tectus nimbis insorduit aether; sparserunt radios nubila rupta vagos. Substitimus. Quis enim sub tempestate maligna 620 insanituris audeat ire fretis? Otia vicinis terimus navalia silvis sectandisque iuvat membra movere feris. Instrumenta parat venandi vilicus hospes atque olidum doctas nosse cubile canes. 625 Funditur insidiis et rara fraude plagarum terribilisque cadit fulmine dentis aper, quem Meleagrei vereantur adire lacerti, qui laxet nodos Amphitryoniadae. Tum responsuros persultat bucina colles 630 fitque reportando carmine praeda levis.

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come ora Decio, nobile figlio di Lucillo, 600 governa i campi prosperi tra le genti di Corito. E non c’è da stupirsi, se restituito nell’indole virtuosa di [suo figlio il padre si compiace di una discendenza tanto simile. Le sue satire scherzose con la loro musa tagliente Turno non riuscirà a superare, e nemmeno [Giovenale; 605 con la lima censoria restaurò l’antico pudore: punzecchiando i malvagi insegna a essere onesti. Non ha una volta forse ricacciato, da probissimo arbitro [del sacro oro, le Arpie che facevano cerchio tutto intorno? Le Arpie, dai cui artigli viene fatto a brani il mondo, 610 che trascinano via col loro piede vischioso quel che [sfiorano, che rendono Argo guercio e Linceo cieco! Proprio in mezzo ai custodi la pubblica rapina vola! Ma non sfuggì a Lucillo la razzia degna di un Briareo e a tante mani insieme seppe opporsi la sua, sola. 615 Ormai tornato a Triturrita dalla città di Pisa, disponevo le vele pendenti a un nitido Noto, quando, coperto da nembi improvvisi, si fece fosco il [cielo e le nubi squarciate sparpagliavano vaghi raggi di [sole. Ci fermammo. Chi mai, sotto minaccia di tempesta, 620 ardirebbe affrontare un mare pronto a infuriarsi? Consumiamo l’ozio imposto alle navi nelle selve vicine, ed è piacevole muoversi a caccia di fiere. Ci prepara gli attrezzi il nostro ospite, in villa, e cagne pratiche a riconoscere all’odore le tane. 625 Si getta in trappola e tra le maglie larghe delle reti, e vi cade terribile, un lampo di zanne, un cinghiale che ad affrontarlo avrebbero paura le braccia di [Meleagro, e allenterebbe la stretta del figlio di Anfitrione. Risuona allora il corno in mezzo ai colli che rispondono [in eco, 630 e al ritorno col canto si fa lieve il peso della preda.

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Interea madidis non desinit Africus alis continuos picea nube negare dies. Iam matutinis Hyades occasibus udae, iam latet hiberno conditus imbre Lepus, 635 exiguum radiis, sed magnis fluctibus, astrum, quo madidam nullus navita linquat humum; namque procelloso subiungitur Orioni aestiferumque Canem roscida praeda fugit. Vidimus excitis pontum flavescere harenis 640 atque eructato vertice rura tegi, qualiter Oceanus mediis infunditur agris, destituenda vago cum premit arva salo: sive alio refluus nostro conliditur orbe, sive corusca suis sidera pascit aquis.

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Intanto l’Africo dalle ali madide non smette di sottrarci giorni su giorni con le sue nubi di pece. Già le Iadi bagnate nei loro mattutini tramonti, già si cela la Lepre, nascosta dalle piogge [dell’inverno, 635 costellazione povera di raggi, però dai grandi flutti: nessun uomo di mare lascerebbe con lei la madida [terra; congiunta infatti al burrascoso Orione, fugge, rorida preda, il Cane che porta la calura. Vedemmo il mare farsi giallo per la sabbia agitata 640 e la campagna sommersa dall’acqua vomitata a [montagne, come l’Oceano, quando si riversa in mezzo ai campi, preme sopra i terreni con i suoi flutti instabili per poi [lasciarli: sia che si franga rifluendo sulla nostra terra da un’altra, sia che con le sue acque nutra gli astri splendenti.

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Liber Secundus

Nondum longus erat nec multa volumina passus, iure suo poterat longior esse liber; taedia continuo timuit cessura labori, sumere ne lector iuge paveret opus. 5 Saepe cibis affert serus fastidia finis, gratior est modicis haustibus unda siti; intervalla viae fessis praestare videtur qui notat inscriptus milia crebra lapis: partimur trepidum per opuscula bina ruborem, 10 quem satius fuerat sustinuisse semel.

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Tandem nimbosa maris obsidione solutis Pisano portu contigit alta sequi. Arridet placidum radiis crispantibus aequor et sulcata levi murmurat unda sono. Incipiunt Appennini devexa videri, qua fremit aerio monte repulsa Thetis. Italiam rerum dominam qui cingere visu

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Libro secondo

Non era ancora lungo e neanche arrotolato in molti [giri, e a buon diritto il libro poteva farsi più esteso: temette il tedio a cui può andare incontro uno sforzo [continuo, e che il lettore si spaventasse, a prendere un’opera [ininterrotta. 5 Spesso, col cibo, dà la nausea un pasto lento a finire, e più gradita è l’acqua presa a piccoli sorsi, nella sete; pare offrire una sosta nel cammino a chi è stanco del [viaggio il cippo con la scritta che segnala l’avvicendarsi delle [miglia: dividiamo così in due opuscoletti il trepido rossore 10 che era meglio affrontare, forse, in un unico azzardo.

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Liberati alla fine dall’assedio burrascoso del mare potemmo dal porto di Pisa guadagnare il largo. L’acqua sorride placida increspandosi ai raggi e, solcata, con un suono leggero l’onda mormora. Cominciano a distinguersi i pendii dell’Appennino, dove Tetide freme, respinta da un aereo [promontorio. Chi con lo sguardo voglia circondare l’Italia signora del [mondo

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et totam pariter cernere mente velit, inveniet quernae similem procedere frondi 20 artatam laterum conveniente sinu. Milia per longum decies centena teruntur a Ligurum terris ad freta Sicaniae; in latum variis damnosa amfractibus intrat Tyrrheni rabies Hadriacique salis. 25 Qua tamen est iuncti maris angustissima tellus, triginta et centum milia sola patet. Diversas medius mons obliquatur in undas, qua fert atque refert Phoebus uterque diem; urget Dalmaticos Eoo vertice fluctus 30 caerulaque occiduis frangit Etrusca iugis. Si factum certa mundum ratione fatemur consiliumque dei machina tanta fuit, excubiis Latiis praetexuit Appenninum claustraque montanis vix adeunda viis. 35 Invidiam timuit natura parumque putavit Arctois Alpes opposuisse minis, sicut vallavit multis vitalia membris nec semel inclusit quae pretiosa tulit: iam tum multiplici meruit munimine cingi 40 sollicitosque habuit Roma futura deos. Quo magis est facinus diri Stilichonis acerbum, proditor arcani quod fuit imperii. Romano generi dum nititur esse superstes, crudelis summis miscuit ima furor, 45 dumque timet, quidquid se fecerat ipse timeri, immisit Latiae barbara tela neci. Visceribus nudis armatum condidit hostem illatae cladis liberiore dolo: ipsa satellitibus pellitis Roma patebat 50 et captiva prius quam caperetur erat! Nec tantum Geticis grassatus proditor armis:

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e con la mente contemplarla tutta, la scoprirà distendersi come una foglia di quercia, 20 stretta ai lati da golfi convergenti. Per dieci volte scorrono in lunghezza cento miglia dalla terra dei Liguri ai flutti di Sicania; sui fianchi, in vari anfratti, rovinosa si spinge la furia del Tirreno e del mare Adriatico. 25 Dove però, al congiungersi dei mari, la terra è molto [stretta, si estende solamente per centotrenta miglia. Una catena di monti si alza obliqua tra le onde opposte, fra dove il Sole porta e dove toglie il giorno; con le cime ad oriente preme sui flutti dalmati 30 e spezza le acque azzurre dell’Etruria con i gioghi a [occidente. Se ammettiamo che il mondo fu creato da un disegno [preciso e che una macchina simile era un piano divino, a custodia del Lazio gli ha tessuto davanti l’Appennino, una barriera a stento valicabile per passi di [montagna. 35 Ha temuto l’invidia, la natura, e considerò troppo poco opporre le Alpi a minacce da Nord, così ha fortificato le sue zone vitali con molte membra, né soltanto una volta ha rinserrato ciò che ha creato [di prezioso: già allora meritò di essere cinta da difese molteplici 40 ed ebbe premurosi gli dèi, Roma futura. E per questo è più grave il delitto del turpe Stilicone, perché ha tradito l’arcano dell’impero. Mentre si adoperava a sopravvivere alla stirpe di Roma il suo crudele furore ha messo il mondo sottosopra; 45 poi temendo ciò che aveva compiuto proprio affinché lo [si temesse, introdusse armi barbare a far scempio del Lazio. Nelle sue nude viscere ha nascosto un nemico armato: così l’inganno fu più libero di immettere la strage. Roma stessa si dava alle sue guardie rivestite di pelli: 50 era già prigioniera prima ancora di essere presa! Non solo si è accanito, il traditore, con le armi dei Goti:

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ante Sibyllinae fata cremavit opis. Odimus Althaeam consumpti funere torris, Nisaeum crinem flere putantur aves: 55 at Stilicho aeterni fatalia pignora regni et plenas voluit praecipitare colos. Omnia Tartarei cessent tormenta Neronis, consumat Stygias tristior umbra faces: hic immortalem, mortalem perculit ille, 60 hic mundi matrem, perculit ille suam.

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Sed diverticulo fuimus fortasse loquaces; carmine propositum iam repetamus iter. Advehimur celeri candentia moenia lapsu; nominis est auctor sole corusca soror. Indigenis superat ridentia lilia saxis et levi radiat picta nitore silex; dives marmoribus tellus, quae luce coloris provocat intactas luxuriosa nives. ***

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prima ha appiccato il fuoco ai libri del destino, gli aiuti [della Sibilla. Odiamo Altea per il crimine di aver bruciato il tizzone, si dice che certi uccelli piangano il capello di Niso, 55 ma Stilicone i pegni fatali di un impero eterno volle precipitare, e le conocchie piene. Tutti i tormenti di Nerone cessino, nel Tartaro: una più cupa ombra consumi i fuochi stigi. Quegli colpì una mortale, costui un’immortale: 60 quegli colpì sua madre, costui la madre del mondo.

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Ma nella digressione siamo forse stati troppo loquaci: torniamo ora con i versi al viaggio stabilito. Ci portiamo con rapido corso alle mura bianchissime cui dà il nome la sorella che splende grazie al sole. Con i suoi massi supera i gigli ridenti e la pietra diffonde screziata un delicato nitore. Terra ricca di marmi, che con la luce del suo colore sfida sfarzosa immacolate nevi. ***

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Fragmenta

A ].multus solatia pan[is ]e.s...l.i. t. a.t. a. Ceres ]ae mos est frumenta reponi nub]iferos horrea tuta Notos 5 ]hiberna Ligustica miles m]edium lanea terga suem ]l.o dives propola ministrat v]enditus aere focus ]li pretio promptaria Bacchum 10 f]luit gratus odore cadus ]praesentia Marcellini ni]hil dulcius esse potest p]rotector saepe tribunus ]f.uit nuper honore comes 15 ]l.lo custode fuerunt ]l.i praedo sagatus erat ].itat mercator avarum ]tant monstra minora can[ ]s vitanda calumnia lites 20 ]..u. fragiis

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Frammenti

A Nel primo distico il riferimento a Cerere rievoca il cibo e le messi, ipotesi confermata dalla consuetudine descritta ai due versi seguenti di riporre i frumenta in depositi al riparo dai Noti, piovosi venti del sud. A farne uso, e a custodire il grano, sono forse le truppe che albergano nei quartieri d’inverno, designati con il nome di Ligustica (v. 5) perché dislocati in Liguria, o perché offrivano ricetto ad armati di quella regione. Naturale risulta dunque, per ragioni geografiche, il calembour sul nome di Milano, evocata dal mito di fondazione che ha a protagonista la scrofa lanuta a metà corpo (medium lanea terga suem: v. 6), l’inserto della quale va letto come probabile descrizione di un qualche emblema militare (la scrofa, appunto) che caratterizzava il contingente. Dalle tessere sparse di un quadro d’interno si ricostruiscono i contorni di una locanda: un ricco gestore, acceso il fuoco, serve gli ospiti e trae dalla dispensa vino pregiato (Bacchum), che scorre dall’orcio con gradevole profumo (vv. 7-10). Ma niente è più dolce della presenza di Marcellino: a celebrazione dell’amico, il poeta ricorda che Marcellino ha ricoperto le cariche di protector e di tribunus, e da poco ha l’onore di essere chiamato comes (vv. 11-14). Le genti di qui, sicure sotto la sua tutela, non nutrivano timore alcuno dei predoni vestiti del sagum, un mantello diffuso tra i soldati (vv. 15-16). È probabile che l’autore ai vv. 17-20, fortemente corrotti e di difficile decrittazione, tratteggiasse i vantaggi goduti dai commercianti (mercator: v. 17) e il beneficio prodotto dal buon governo dell’amico nell’amministrazione della giustizia e nelle relazioni pubbliche (calumnia e lites, v. 19).

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B ]u.n.t. in propugnacula rupes ]l m . e.r.i.tum machina toll.i.[t ]s. Tyrias mirari desinat a.r.[ce]s. Amp]hionium saxa secuta melos 5 ]m.eos Neptunia Troia labores ]laudis habet frustra t.r.i.d.e.n.t.e.[ ]e novae consul Constantius ur[bis ].tium consiliumque dedit belli]gerum trabeis thoraca secu[ 10 ]Latii nominis una salus ]invictaque pectora curis ]etit Martia palm . a.[virum ]e. .mo collegae amplectimu[r r]edeat iam geminatus hono[s 15 ]s sortitus hiatum ].ssem grandia g.es.t.a. l.oqu.[i ]eritis verborum l.....referr[e q]uam quod solve.r.e. lingu.a. q.u.[eat ]hostilibus ille recepit

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il ritorno

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B Sono stati innalzati enormi blocchi di roccia a difesa di una città (vv. 1-2): di fronte a tale impresa si cessi dunque di ammirare le rocche di Tebe (Tyrias… arces, v. 3) e i massi che vi si disposero da sé tenendo dietro al suono della lira di Anfione (vv. 3-4); la stessa Troia fortificata da Nettuno, se anche merita lode, vide le sue fatiche rese vane dal tridente del dio (vv. 56). In qualità di console ha rifondato la città – rinnovata dal suo consiglio – Costanzo (vv. 7-8), la sola salvezza del nome romano, sia nella toga consolare che nella corazza da soldato (vv. 9-10): un cuore che agli affanni non si piega ed è avvezzo alle vittorie militari (Martia palma, vv. 11-12). L’abbraccio cui il poeta accenna al v. 13 fa pensare a un metaforico saluto, ma si potrebbe postulare anche l’effettiva apostrofe a un monumento dell’insigne collega: ad essa si accompagnerebbe l’augurio di poter vedere reiterato, per Costanzo, l’onore della carica di console (vv. 13-14). Neanche chi abbia avuto in sorte un’immensa bocca potrebbe celebrare la grandezza delle sue gesta: un’impresa, questa, superiore a qualsiasi umana lingua e che risulterebbe in ogni caso inferiore ai suoi meriti. Dalle mani dei nemici riconquistò… (vv. 15-19).

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Libro primo v. 1. Come segnalato nell’Introduzione (al contesto di nota 5; per l’‘incompiutezza’ cfr. § 4 g), l’inizio appare mutilo (di diversa opinione Squillante 2005, pp. 189-191, che sostiene vi sia qui un attacco in medias res). È la forma comparativa potius a tradire la perdita di un incipit che doveva sostanziarsi di almeno un distico. Numerose e spesso fantasiose le ipotesi tese a recuperare almeno l’ambito delle possibili riflessioni iniziali (vd. Doblhofer 1968 e Fo 1994 ad l.). Come suggerisce Fo 1994, appare verosimile la ricostruzione di Gelsomino 1972: «venuto dalla Gallia, per lungo tempo ho dimorato in Roma, e a Roma volevo restare fino al termine della mia vita. Non ti meravigliare di ciò;…». vv. 5 s. Il modulo retorico del makarismós, con cui si proclama qualcuno felice, permette a Rutilio di sottolineare ancora più apertamente la sua sconfinata ammirazione per l’Urbe, quasi mostrando invidia, egli gallo della regione di Tolosa, nei confronti di chi ha avuto in dono dalla sorte natali romani. Dunque beatus chi ha visto la luce sul suolo di Roma e felix, secondo una sorta di gradatio discendente di felicità (così Doblhofer 1977, p. 21), chi ha potuto almeno viverci. Da notare che il makarismós riprende un distico di Ovidio (Trist. III 12, 25 s.: o quater et quotiens non est numerare, beatum,/ non interdicta cui licet Urbe frui!, «Quattro volte, infinite volte felice chi può godere dell’Urbe perché non gli è proibita!»). Tale richiamo all’elegia d’esilio

avvertenza: con la dicitura «Introduzione» si rinvia al saggio introduttivo di Alessandro Fo (se ne sono sfruttate le stesse abbreviazioni bibliografiche).

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del poeta augusteo, unito ad altre numerose riprese (di cui talvolta si renderà conto oltre), invita a leggere in Rutilio un intenzionale allineamento con Ovidio, sia per aspetti di contenuto (viaggio inteso come esilio), sia per aspetti formali (impiego del metro elegiaco). Per la questione dei ‘modelli’ di Rutilio e per quella a lungo dibattuta riguardo al genere del De reditu suo vd. Introduzione, note 3 e 6, e Fo 1994, pp. XII-XIII. vv. 9 s. Rutilio riprende qui una teoria filosofica di origini orientali, filtrata nello stoicismo e fatta propria da Posidonio, allievo di Panezio di Rodi, tra i massimi esponenti della ‘media Stoa’ in Roma (II-I sec. a.C.): prima di raggiungere il corpo assegnatole sulla terra, l’anima, nella sua discesa dal cielo, riceve dei semi destinati poi a germogliare nel corso della sua esistenza terrena (cfr. Cicerone Tusc. III 2, De nat. deor. II 79, De fin. IV 4 e 18, V 18 e 43). E Rutilio è certo non vi sia terreno più adatto di quello romano per la fioritura delle virtù. v. 14. La Curia è il luogo destinato alle sedute del Senato (Curia Iulia), ma con essa, per metonimia, viene indicato anche il consesso senatoriale. vv. 15-18. La Curia, nobile nel concedere i suoi seggi anche ai ‘forestieri’ purché, come Rutilio stesso, ne siano degni, è guidata e custodita dal genius (urbis Romae e anche genius populi Romani), uno dei numerosi spiriti protettori cari ai romani. Nell’esercizio della sua autorità, l’assemblea senatoria è paragonata alla forza unificatrice (concilium, v. 18) del sommo dio che, dalle regioni celesti, regna sull’intero cosmo. La parola concilium inoltre, nella sua chiara evocazione del concilium deorum, il consiglio degli dèi presieduto da Giove – il dio supremo che nella sua azione riassume in sé le singole volontà divine –, arricchisce ulteriormente, tracciando un significativo parallelismo, il quadro del senato romano che Rutilio dipinge. v. 21. Le «lunghe guerre» (longa bella) cui Rutilio allude sono le invasioni barbariche del 406-407 e degli anni 412-414. Vd. in proposito Introduzione (nota 1 e contesto) e il Quadro storico-cronologico in Fo 1994, pp. XIX-XXV. vv. 39 s. Tuscus ager indica il territorio che fu abitato dall’antico popolo dei Tusci, cioè l’Etruria, regione che corrispondeva in parte all’odierna Toscana. Aurelius agger indica invece la via Aurelia che dalla Porta Ianiculensis (oggi Porta di S. Pancrazio), percorrendo il litorale, giungeva a Pisa; prolungata in seguito fino a Genova, in età imperiale raggiunse Arles in Provenza. Sulle sue condizioni, almeno in terra toscana, all’epoca di Rutilio vd. ora Citter 2007, § 4.6. Getae indicava in origine un popolo della Tracia, ma con Geta, Getae, Geti-

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cus gli autori tardolatini e dunque anche Rutilio, si riferiscono più comunemente ai Goti. È probabile che le devastazioni di cui Rutilio segnala qui i rovinosi effetti siano quelle del 412. vv. 43 s. Il distico descrive i gesti topici dell’addio: i baci impressi sul suolo o, come nel caso di Rutilio, sugli stipiti, e la riluttanza dei piedi a varcare la soglia. Già Ovidio aveva celebrato il doloroso rito prima della partenza per la sperduta Tomi. In Trist. I 3, 55 s., si legge infatti: ter limen tetigi, ter sum revocatus, et ipse/ indulgens animo pes mihi tardus erat, «Tre volte sfiorai la soglia, tre volte fui chiamato indietro, e anche il passo stesso, arrendevole al mio animo, indugiava». Quella di Ovidio era certamente la soglia di casa, mentre sono le porte della città quelle che Rutilio si appresta a varcare. Si rafforza l’ipotesi di un intenzionale allineamento di Rutilio con Ovidio (vd. nota ai vv. 5 s.), confortata da una consonanza tanto evidente proprio nell’istante intenso e delicato che precede l’obbligato distacco. vv. 47-164. Nel momento cruciale del commiato Rutilio intona un solenne canto d’addio tutto dedicato all’Urbe. Si tratta di quello che, da sempre, gli studiosi hanno definito ‘Inno a Roma’. Sono i versi più famosi e più indagati del poemetto (per una dettagliata disamina si rimanda a Doblhofer 1977, pp. 38-94 e Lana 1987; cfr. inoltre, fra i molti che hanno trattato questo punto, Brodka 1998, Roberts 2001, Fo 2002a, Corsaro 2002 e vd. anche Introduzione § 4 c), nei quali Rutilio si rivolge alla città con parole di lode, di esortazione al riscatto e di preghiera. Il registro è solenne e sorvegliato, la forma attenta ai modelli propri del genere innodico (anafore, invocazioni dirette, catalogo delle qualità e dei meriti, supplica conclusiva). Dall’impegno formale e stilistico di Rutilio affiora una solida formazione retorica, cifra imprescindibile di un uomo colto e nobile dell’epoca; allo slancio delle invocazioni e della preghiera corrisponde una rispettosa e partecipata adesione al paganesimo (a questo proposito vd. Introduzione § 4 e). Come Fo 1994 suggerisce (ad l.), è ragionevole vedere Roma come prima tappa del reditus. Se, pertanto, ogni tappa successiva del suo viaggio prevederà una più o meno breve digressione descrittiva, l’importanza della città e nel poemetto e, soprattutto, nell’esperienza di Rutilio, pone in giusta proporzione la maestosità e la corposità dell’inno a lei dedicato. vv. 55-62. Nella visione degli antichi la terra era concepita come una superficie circolare piana, intorno alla quale scorreva un fiume perpetuo, chiamato appunto Oceano. Roma è qui fatta coincidere con l’intera terra abitata (l’oikouméne) per cui il sole (Febo) nasce e muore in lei e per lei. La sua grandezza si sviluppa in ogni direzione: da est a ovest (il percorso del sole, v. 58) e da sud a nord, cioè dalla

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Lybia, che rappresenta le zone meridionali, sino alla costellazione dell’Orsa, che simboleggia quelle settentrionali (vv. 59 s.). vv. 63-66. Sono questi i versi più famosi del poemetto: Roma, con il suo diritto tanto evoluto (cfr. 77 ss.), è celebrata nella missione civilizzatrice e unificatrice dell’oikouméne. Si noti la figura della paronomasia Urbem-orbis (v. 66), mantenuta nella traduzione. vv. 67 s. Roma è esaltata anche per le sue ascendenze divine: fondatori della stirpe romana sono infatti Venere che, unendosi al mortale Anchise, generò Enea, e Marte, che con Ilia diede alla luce Romolo e Remo. Rutilio sembra riecheggiare i versi dell’‘Inno a Venere’ che apre il De rerum natura di Lucrezio (così anche ai vv. 71 voluptas e 77 te, dea, te : cfr. Doblhofer 1977, pp. 52 ss.). vv. 69-72. Rutilio riecheggia le celebri parole del personaggio virgiliano Anchise tu regere imperio populos, Romane, memento/ (hae tibi erunt artes), pacisque imponere morem,/ parcere subiectis et debellare superbos, «Tu, Romano, ricorda di governare le genti: sarà questa l’arte tua, imporre leggi di pace, risparmiare chi si sottomette, annientare i superbi» (Virgilio Aen. VI 851-853). vv. 73-76. Sfilano qui alcuni dèi ed eroi benefattori dell’umanità. Minerva introdusse per prima la coltivazione dell’olivo, Bacco quella della vite e Trittolemo, inventore dell’aratro, insegnò agli uomini a coltivare i campi e a beneficiare così dei doni dell’agricoltura. Peone, invece, è il medico guaritore degli dèi (successivamente le sue arti si trasferiranno ad Apollo e Asclepio); con «l’Alcide» si intende Ercole, nipote di Alceo e figlio di Anfitrione (cfr. v. 628). vv. 77 s. A concludere la teoria di dèi e benefattori divinizzati troneggia Roma stessa, degna dello statuto divino per i grandi meriti delineati ai vv. 76-80 (cfr. vv. 61-66). vv. 81-86. Rutilio sembra confermare l’esaudirsi della preghiera che Orazio intonava nel Carmen Saeculare (vv. 9-12): Alme Sol, curru nitido diem qui/ promis et celas aliusque et idem/ nasceris, possis nihil urbe Roma/ visere maius, «Sole fecondo, che col carro ardente/ porti e nascondi il giorno, e nuovo e antico/ rinasci, nulla più grande di Roma/ possa mai tu vedere!» (trad. di Mario Ramous, Milano, Garzanti, 1988). Nessun regno, dunque, pur vasto e potente, ha potuto reggere il confronto con quello romano. Non quello dei Medi (v. 84), popolazione asiatica stanziata lungo il corso del Tigri, né quello dei Parti (v. 85), che occupavano i territori persiani, corrispondenti all’odierno Iran e che sempre furono una dolorosa spina nel fianco dell’impero. Con «tiranni Macedoni» (v. 85) Rutilio intende in primis Alessandro Magno e poi, probabilmente, anche i suoi successori, i Diadochi di Siria che, con altalenanti fortune (varias vices, v. 86),

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fronteggiarono i sovrani Parti, ma per un quadro più esaustivo si vedano le rispettive note in Doblhofer 1977 e in Fo 1994 con relativa bibliografia. vv. 97-100. Senza confronti sono anche le ricchezze architettoniche e le meraviglie naturali di Roma che Rutilio descrive evidenziandone gli splendori per mezzo di una serie di iperboli. Così gli acquedotti («rivi sospesi sopra le arcate», v. 97) si elevano più in alto dell’arcobaleno (Iride con le sue acque pronte a scrosciare sulla terra in piogge) e persino delle montagne che i Giganti posero l’una sull’altra nel tentativo di scalare l’Olimpo. vv. 101 ss. Tra i fiumi, l’Aniene, il rivus Herculaneus, il Curtius e il Caeruleus; tra i laghi, l’Alsietinus, il Sabatinus, il Sublacensis (vd. Castorina 1967, pp. 154 s. e Doblhofer 1977, pp. 65-67). vv. 107-110. Il protagonista dell’episodio che Rutilio evoca è Giano, il dio che mise in fuga i Sabini di Tito Tazio proprio quando erano sul punto di violare il Campidoglio. Giano ne bloccò la marcia facendo sgorgare dalla rupe Tarpea una sorgente di acqua caldissima (Ovidio Fast. I 257 ss., Met. XIV 775 ss. e Macrobio Saturn. I 9, 17-18). Mons Tarpeius era il nome più antico del Campidoglio e con ‘rupe Tarpea’ si continuò a indicare in epoca storica il precipizio meridionale del colle, dal quale venivano gettati assassini e traditori. vv. 111 s. Si tratta di sontuose domus patrizie che, al loro interno, racchiudono giardini tanto grandi da sembrare boschetti attraversati da porticati con soffitti dalle volte a cassettoni (laquearia). vv. 117 s. Roma è dipinta secondo un modello iconografico ricorrente per le personificazioni di città: il diadema dorato che impreziosisce la corona turrita, o muraria, e lo scudo, anch’esso aureus, a simboleggiare l’eternità dell’Urbe. v. 119. Con tristis casus si intende il sacco di Roma del 410 ad opera dei Visigoti. vv. 125 ss. Rutilio sostanzia quanto detto ai vv. 115 ss., richiamando alla memoria alcune fra le più rovinose sconfitte subite da Roma, che tuttavia l’Urbe seppe trasformare in spinta al riscatto: nel 390 (cronologia di Varrone) o 387-6 a.C. (cronologia di Polibio), Brenno, alla guida dei Galli Senoni, scese in Etruria e, dopo aver sbaragliato l’esercito romano presso il fiume Allia (alla confluenza con il Tevere, non lontano da Roma), si diresse alla volta dell’Urbe che saccheggiò e in gran parte distrusse, giungendo addirittura a incendiarne il Campidoglio. Da allora il calendario romano ricordava quel giorno, il dies Alliensis (18 luglio), come «nefasto»; nel 321 a.C. i Sanniti riservarono ai Romani l’umiliante sconfitta delle Forche

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Caudine, obbligandoli alla resa e al disarmo; nel 275 a.C., dopo vari successi nella penisola, Pirro, re dell’Epiro, venne tuttavia fermato a Maleventum (da allora Beneventum); infine Annibale, nonostante la schiacciante vittoria di Canne (216 a.C.), fu in seguito reso del tutto inoffensivo. vv. 135 s. Il distico presenta un esplicito riferimento alla data in cui il ritorno si sarebbe compiuto: Rutilio afferma di aver viaggiato nell’anno 1169 dalla fondazione di Roma. Ricavarne una precisa datazione risulta tuttavia difficile, poiché non sappiamo di preciso su quale èra egli impostasse il calcolo; quella varroniana (fondazione di Roma nell’anno III della sesta olimpiade, cioè nel 753 a.C., il 21 aprile) ci porterebbe al 416, ma, per una complicazione dovuta ad aggiustamenti fra computi per anni olimpici (che correvano dal luglio al giugno successivo) e computi per anni solari, può entrare in gioco anche l’anno 415; quella di Catone e dei Fasti ufficiali (fondazione nel 752) ci porterebbe al 417; quella di Solino (fondazione nel 751) al 418 (su questo e gli altri problematici indizi cronologici vd. Introduzione, nota 4 e Fo 1994 ad l. con relativa bibliografia). v. 137. Il verso richiama la profezia di Giove in Virgilio Aen. I 278 s. (His ego nec metas rerum nec tempora pono;/ imperium sine fine dedi, «A questo popolo limiti d’azione non pongo, né di tempo; gli ho donato un impero senza fine»), come ricorda Soler 2005a, p. 296, nell’ambito della sua teoria (pp. 295-305) secondo cui, con i numerosi riferimenti virgiliani sparsi nel poemetto (vd. in particolare pp. 297-301 e cfr. oltre, note ai vv. 168-170, 311 s., 332), Rutilio intenderebbe allineare il proprio profilo a quello di Enea. vv. 141-154. Questi versi d’esortazione, che danno avvio a una nuova parte dell’‘inno’, augurano a Roma di annientare definitivamente il nemico barbaro (i Goti, sacrilega gens perché profanatori di una città sacra, divina, v. 141) e di conservare in eterno la rinnovata prosperità. v. 145. I due fiumi rappresentano per metonimia le rispettive regioni in cui scorrono. vv. 146-148. L’Africa era notoriamente la maggiore fornitrice di grano dell’impero, ma, secondo Rutilio, doveva la sua fertilità soprattutto alle piogge provenienti da settentrione, cioè da Roma. v. 150. È opinione comune che Rutilio voglia qui alludere al vino (secondo altri egli penserebbe invece all’olio). Con Hesperia, nome che significa «terra dell’Occidente», i Greci solevano indicare la penisola italica. vv. 151-154. Il Tevere, cinto da una corona di canne, come preve-

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de un’iconografia consueta (Virgilio Aen. VIII 31 ss.), è qui innalzato alla sfera divina ed eletto da Rutilio fiume tra i fiumi in virtù del servizio che esso compie per Roma. vv. 155 s. Prende avvio la sezione conclusiva dell’‘inno’, che in questo distico presenta l’accorata preghiera di Rutilio, affinché i cieli concedano acque placide per una navigazione tranquilla. I Dioscuri sono i due fratelli Castore e Polluce, eroi venerati soprattutto come protettori dei marinai (era consuetudine nominarne uno soltanto – come fa qui Rutilio con Castore – riferendosi comunque a entrambi); Citerea è invece appellativo di Venere. L’isola greca di Citera era infatti il più importante centro di culto votato alla dea e, secondo tradizione, Venere nacque dalla spuma del mare proprio in prossimità dell’isola stessa. vv. 157 s. Rutilio, che era stato prefetto urbano poco tempo prima (nel 413 o 414), si augura di aver degnamente svolto i compiti che tale prestigiosa carica prevedeva: l’amministrazione del diritto civile (le «leggi di Quirino», dal nome con cui Romolo veniva indicato dopo l’apoteosi, come divinità) e la facoltà di convocare, in qualità di presidente, l’assemblea dei senatori (i sancti patres; consului significa sia «chiamare a consiglio» che «consultare» e crea un gioco di parole con colui, v. 158). vv. 165 ss. Rutilio riprende ora la narrazione vera e propria del reditus là dove era stata sospesa per dare spazio ai versi dell’‘inno’. A chi si accingeva a partire per un viaggio era consuetudine si accompagnasse un piccolo corteo di conoscenti e congiunti. Nel gruppetto di Rutilio spicca l’amico Rufio Volusiano, che a fatica riuscirà a separarsi dal poeta. vv. 168-170. Coerente alla sensibilità aristocratica del tempo è l’elogio (il primo dei panegirici dedicati agli amici, vd. Introduzione § 4 e) che Rutilio intesse per Rufio, del quale esalta, come tradizione voleva, il naturale trasmettersi nel figlio dei valori e dei pregi che erano appartenuti al padre (Ceionio Rufio Albino, praefectus Urbi fra il 389 e il 391; cfr. vv. 575 ss. e 597 ss.), e del quale riconosce una nobiltà dalle origini addirittura mitiche. L’aristocrazia recente della tarda latinità spesso amava dar lustro al proprio nome facendolo risalire alle più antiche e nobili famiglie della Roma repubblicana oppure attribuendosi antenati eroi o protagonisti del mito (cfr. vv. 271 s.). Il poeta riconduce infatti l’ascendenza dell’amico sino a Voluso, il re dell’antica popolazione italica dei Rutuli che, come suggerisce Rutilio stesso a v. 170, viene nominato da Virgilio (il cui nome completo era Publius Vergilius Maro) in Aen. XI 463 s. Fo 2004, pp. 184-191, sostiene che Rutilio avrebbe ‘cesellato’ nei versi il cognomen

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dell’amico, metricamente non inseribile nel verso dattilico (v. 169: Volusi antiquo), e di recente è tornato sul punto per incidens in una sede non filologica (la nota conclusiva della sua raccolta poetica Vecchi filmati, Lecce, Manni 2006, pp. 147 s., a proposito di una poesia riguardante proprio Rufio Volusiano), esprimendo il dubbio «che il poeta, nel giro della stessa perifrasi con cui designa l’amico, abbia inteso cesellare anche il proprio personale nome, le cui prime due lettere coincidono peraltro con le prime due di Rufius. Infatti […], il verso successivo […] registra un’altra sorprendente carambola di parole, che ormai credo getti radice nell’intento di proseguire il gioco (I 170): et reges Rutulos teste Marone refert. Tanto più che il distico su cui Rutilio chiude la presentazione dell’amico insiste sul motivo già oraziano dell’unica anima in due individui, suonando (I 177-178) invitum tristis tandem remeare coegi/ corpore divisos mens tamen una tenet […]. Sul comune tronco della sillaba Ru-, ecco dunque innestarsi i due distinti rami Rufius Volusianus e – più defilato, come si addice al ‘non protagonista’ – Rutilius (Namatianus)». L’esplicito richiamo alla fonte virgiliana è evidenziato da Soler 2005a, pp. 296 s. (vd. sopra, nota a v. 137). vv. 171-174. Prosegue in questi distici il panegirico dell’amico, qui lodato soprattutto per la particolare ricchezza di un eloquio tanto abile da fare della sua voce la voce del princeps. Rutilio fornisce poi una sorta di curriculum dove si legge che Rufio rivestì nella prima giovinezza (intorno al 411-412) la carica di proconsole in Africa (con Poeni, «punici», «cartaginesi», e Tyrii – da Tiro in Fenicia, terra d’origine del popolo di Annibale – si usava indicare poeticamente la provincia d’Africa). In seguito Rufio fu quaestor sacri palatii (o quaestor principis, vv. 171 s., figura preposta alla redazione di editti e costituzioni imperiali; cfr. oltre, v. 584) e, durante il viaggio di Rutilio, venne nominato praefectus Urbi (vd. oltre, vv. 415 ss.); infine divenne praefectus praetorio Italiae. La datazione della prefettura urbana ricoperta da Rufio potrebbe fornire alcuni appigli se non proprio dirimenti, almeno orientativi riguardo alla dibattuta questione cronologica (cfr. sopra, nota ai vv. 135 s., e Introduzione, nota 4). I riferimenti temporali legati all’attività politica dell’amico di Rutilio non sono tuttavia leggibili in maniera univoca. Lana 1961, sostenitore del 415 come data del viaggio (vd. pp. 11-60 e, ancora, Introduzione, nota 4; cfr. anche oltre, nota ai vv. 633-638), tratta diffusamente il problema (pp. 1226), giungendo a sostenere che Rufio ha ricoperto due volte la carica di praefectus Urbi; la prima – di cui Rutilio viene a conoscenza durante il suo reditus –, nell’autunno di un anno compreso tra il 415 e il 418 (con più probabilità il 415 o il 417; vd. p. 26, nota 68), la seconda nel 421, sulla scorta di un rescritto dell’imperatore Costanzo III (in carica dall’inverno all’autunno del 421), inviato proprio al prefetto

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urbano Rufio. Altra opinione abbraccia invece chi colloca il viaggio nel 417: Rufio avrebbe vestito i panni del praefectus una sola volta, tra il 417 e il 418, e il documento gli sarebbe stato inviato nel 418 da un Costanzo non ancora imperatore; per un quadro riassuntivo vd. Fo 1994 ad l. vv. 179-182. Rutilio si avvia al Portus Augusti (o Romanorum o soltanto Portus), situato a nord della foce del Tevere. Un braccio artificiale detto Fossa Claudia o Traiana (l’odierno canale di Fiumicino) lo collegava al Tevere ed è questo il braccio «a destra» di cui Rutilio scrive. Il «sinistro» è invece il letto originario del fiume, il solo che si presentò alla vista di Enea quando approdò alle coste laziali (Virgilio Aen. VII 29-32). Per una breve sintesi sulla località vd. Fo 2002a, pp. 164-168. Secondo Wolff 2007, ad l., questa menzione dei due bracci del Tevere si pone qui come sfondo e richiama allusivamente la separazione dei due amici, Rutilio e Rufio (dividuus, v. 180, farebbe eco a divisos, v. 178). Il percorso che Rutilio si accinge a intraprendere si pone sulla linea della rotta Roma-Arles (Arelate), una delle principali del mar Mediterraneo. È molto probabile (a tal proposito vd. Mosca 1995, pp. 133-137) che per il suo reditus la piccola flotta di Rutilio si appoggi all’Itinerarium Maritimum, sorta di portolano tràdito in appendice all’Itinerarium Antonini Augusti (inizi III sec. d.C.). vv. 183-188. Le Chelae, branche dello Scorpione, potrebbero qui indicare sia la stessa costellazione dello Scorpione (designante un periodo compreso tra il 19 ottobre e il 17 novembre), sia – com’era consuetudine poetica – quella della Bilancia, ad esse adiacente (in un arco che corre tra il 19 settembre e il 18 ottobre). Non aiuta nella scelta la presenza del tramonto delle Pleiadi (vv. 187 s.), poiché i giorni in cui esso è attestato appartengono a entrambi i periodi (24 e 29 ottobre, 9, 10, 11 o 13 novembre, ma anche 30 settembre). Le Pleiadi, inoltre, erano genericamente associate al cattivo tempo. L’intero riferimento astronomico rimane dunque ambiguo e poco contribuisce al chiarimento della questione cronologica del viaggio (cfr. sopra, nota ai vv. 135 s.). Il «più pallido cielo» di v. 184 sembra indicare poeticamente l’accorciarsi dei giorni. Privitera 2000a sostiene che in questi versi ci sia una strettissima corrispondenza con Virgilio Georg. IV 231 ss., e che a tutto il passo rutiliano sia sottesa una tramatura allusiva alla biografia stessa di Virgilio (vd. in particolare pp. 66-68). vv. 193-196. Rutilio richiama esplicitamente l’Odissea (I 57-59: la ninfa Calipso tiene prigioniero Odisseo e tenta di fargli dimenticare Itaca, perché più non brami di ritornarvi, aujta;r ∆Odusseuv",/ iJevmeno" kai; kapno;n ajpoqrw/vskonta noh'sai/ h|" gaivh", qanevein iJmeivretai, «ma Odisseo, che desidera vedere anche solo il fumo che s’innalza dalla

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sua terra, vuole morire»; cfr. anche X 29 s.). La citazione si impreziosisce inoltre del filtro ovidiano (Pont. I 3, 33 s.: Non dubia est Ithaci prudentia, sed tamen optat/ fumum de patriis posse videre focis, «Nessun dubbio riguardo alla saggezza del re di Itaca; egli desidera tuttavia di poter vedere il fumo dei focolari della sua patria»). Su questo passo vd. ora anche Privitera 2004 e cfr. Squillante 2005, pp. 174 s. vv. 201-204. Ai fini della datazione, i ludi qui menzionati si dimostrano riferimento poco chiaro e pertanto incapace di sciogliere i dubbi; ludi plebei o ludi circensi si sarebbero potuti tenere nel 415 così come nel 417 (le due principali alternative su cui si è soffermata la critica; cfr. sopra, nota a vv. 135 s.). Più probabile è tuttavia l’ipotesi che Rutilio abbia soltanto immaginato le voci e gli applausi, ed evidente rimane lo spunto tratto anche in quest’occasione da Ovidio Trist. III 12, 23 s.: scaena viget studiisque favor distantibus ardet,/ proque tribus resonant terna theatra foris, «Il teatro risplende e gli applausi s’infiammano tra le diverse fazioni, al posto dei tre fori risuonano i tre teatri». Per la ‘letterarietà’ del passo vd. Privitera 2000b. v. 204. Gli ultimi istanti prima dell’effettivo distacco si condensano nell’intensità della parola amor, lettura palindroma di Roma (v. 200). Su questo ‘gioco’ vd. Fo 2002a, pp. 173-175, con precedente bibliografia. vv. 205 s. Anche il richiamo all’attesa della luna nuova è stato considerato un indizio rilevante nel dibattito sulla datazione (cfr. sopra, nota a vv. 135 s., e Introduzione, nota 4); per la sua possibile significatività vd. Lana 1961, pp. 27 ss. e 85 ss., e Cameron 1967 (cfr. nota a vv. 633-638). vv. 207 ss. Da questi versi soltanto si rileva la presenza di Palladio nel gruppetto che accompagnava Rutilio. Il giovane è ritratto dal poeta assieme al padre Esuperanzio, secondo l’inclinazione rutiliana a sottolineare l’alto valore esemplare della coppia genitore-figlio: cfr. i casi di Rufio e suo padre Albino (vv. 168 ss.), ma anche di Rutilio stesso e Lacanio (vv. 591 ss.) e, ancora, Decio e Lucillo (vv. 599 ss.). Per le varie ipotesi sull’identificazione di Palladio ed Esuperanzio, vd. Doblhofer 1977, pp. 113 s., e Fo 1994 (ad l.). Si noti il gioco allusivo che si istituisce fra il nome Palladio e il sostantivo studiis (vv. 207 s.): il destino del giovane è già scritto nel suo nome, essendo Pallade Atena, come è noto, la dea della sapienza. vv. 213-216. L’Armorica (o Aremorica) si estendeva nelle zone costiere della regione nord-occidentale delle Gallie, oggi Bretagna e Normandia. È qui, stando a quanto ci dice Rutilio, che Esuperanzio esercitava un’alta carica militare che gli dava facoltà di reprimere i moti separatisti sfociati attorno al 408, per i quali si ipotizza una

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connessione con sollevazioni di coloni e schiavi contro i proprietari terrieri (cfr. v. 216). vv. 217 ss. La partenza vera e propria del reditus avviene all’alba del 18 novembre 415 o del 29 ottobre del 417 (vd. Introduzione, nota 4). Il percorso della prima giornata di navigazione registra una rotta che va da Portus a Centumcellae e che costeggia i centri di Alsium, Caere, Pyrgi e Castrum Novum («Inui»). Sulle prime località avvistate si veda Introduzione, nota 22. vv. 219-223. È Rutilio stesso a precisare le condizioni e le modalità del viaggio (vd. Introduzione, al contesto di nota 4). Le navi della flottiglia sono cymbae, piccole imbarcazioni dotate di remi e di vele, più adatte alla navigazione fluviale o di cabotaggio, e in quell’occasione vennero preferite alle navi da carico che avrebbero costretto all’attesa dell’estate. Per i Romani l’autumnus (v. 222) aveva principio l’11 agosto e durava sino al 9 novembre. vv. 223 s. Alsium corrisponde all’odierna Palo; Pyrgi, invece, sorgeva accanto all’attuale Santa Severa ed era lo scalo più importante di Caere. L’ordine in cui Rutilio nomina queste località non trova corrispondenza nella loro reale posizione che vede Caere situata più a sud di Pyrgi. Alsium e Pyrgi sono probabilmente accostate perché accomunate da un destino di decadenza (vd. Introduzione § 4 b), mentre Caere viene isolata affinché il poeta possa fornirne con più efficacia un’informazione erudita (vv. 225 s.). A questo proposito vd. Lana 1961, pp. 109 ss., Mosca 1995, pp. 137 ss. e Wolff 2007, nota ad l. vv. 225 s. Apprendiamo da Rutilio che un tempo Caere (Cerveteri) si chiamava Agylla: lo spunto per la precisazione storica è suggerito da Virgilio che cita l’antico nome in Aen. VIII 478-480: Haud procul hinc saxo incolitur fundata vetusto/ urbis Agyllinae sedes, ubi Lydia quondam/ gens, bello praeclara, iugis insedit Etruscis, «Non distante da qui, fondata su un’antica rupe, sorge la città di Agilla, dove la gente lidia, gloriosa nel combattere, si insediò un tempo sui monti etruschi». vv. 227 s. Con Castrum il poeta intende Castrum Novum, vicino all’odierna Santa Marinella, dove oggi si trova Torre Chiaruccia; per il tema delle rovine, tanto caro a Rutilio, si rimanda ancora a Introduzione § 4 b, così come per Castrum e in particolare la lacuna del v. 227 (cfr. nota 22), il cui risarcimento costituisce uno dei punti più dibattuti dai critici del testo rutiliano. vv. 229 s. La statua raffigura Pan, il dio greco dei boschi e dei pascoli, dei pastori e dei cacciatori, che è solitamente rappresentato con corna e zoccoli di capra. A Roma venne identificato con il locale dio Faunus (vd. v. 234).

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vv. 231 ss. Rutilio offre un’altra specificazione di natura storica (cfr. vv. 225 ss.): Castrum Novum sarebbe stato un tempo Castrum Inui. Sulla questione vd. Lana 1961, pp. 113 ss. e Castorina 1967, p. 177, che dimostrano come Rutilio non si sia confuso, poiché l’unico Castrum Inui sarebbe stato quello situato nel Lazio, a sud di Lavinio – secondo quanto è stato spesso ritenuto e come ancora sostiene Mosca 1995, p. 139. Secondo Lana, Rutilio ha fornito in questi versi un’informazione dotta, proprio come aveva appena fatto per Caere (cfr. vv. 225 ss.), specificando che un tempo Castrum si sarebbe chiamato Inui sulla base di un dato reperito nel commento di Servio a Virgilio, Aen. IV 773-775. Scrive Lana (p. 115) che «l’erudizione latina del tempo di Servio, dunque, identificava coscientemente Castrum Novum con Castrum Inui, e non già faceva involontaria confusione fra le due città. L’errata identificazione, per ciò, non è di Rutilio, ma della cultura del suo tempo». A ‘difendere’ il poeta, ma con diverso argomento, è sceso in campo anche Castorina 1967 (pp. 176 s.): ponendo l’attenzione sulla presenza della statua di cui Rutilio riferisce (vv. 229 s.), egli sostiene la necessità di individuare «un rapporto con l’autentico Castrum Inui» e attribuisce la fondazione di Castrum Novum – «ecco perché Novum!» – agli stessi abitanti di Castrum Inui, «i quali vi avrebbero naturalmente portato il loro culto per Inuo». Inuus («fecondatore degli armenti», secondo Livio I 5, 2) è epiteto del dio dei pastori e si riferisce qui sia al Pan greco, individuato dal monte Menalo, in Arcadia, a lui sacro (v. 233), sia al Fauno latino (v. 234). Rutilio arricchisce la rete dei richiami con un ulteriore preziosismo lessicale giocato sul verbo init (v. 234), «entrare», «cominciare», ma anche «congiungersi carnalmente», che introduce, con quest’ultima accezione, il distico successivo (vv. 235 s.). vv. 237 s. L’Austro è un vento che proviene da sud, quindi favorevole a Rutilio che navigava giusto da sud in direzione nord-ovest. Tuttavia qui pare così minaccioso e violento da costringere la piccola flotta alla sosta. Di diversa opinione Lana 1961, pp. 116 s., che legge in forti Austro un valore concessivo («pur con un forte vento del sud») e motiva la sosta con la precisa intenzione di visitare le Terme del Toro (vv. 249-276). vv. 239 ss. Anche Centumcellae (Civitavecchia), la prima tappa del viaggio, è oggetto di digressione storico-descrittiva (vd. Introduzione § 4 f ) . Come suggerisce Doblhofer 1977, p. 126, si ritiene che il porto derivi il suo nome dalla nutrita presenza di navalia (v. 243), sorta di «case per navi», denominate anche cellae. vv. 247 s. Rutilio si sta riferendo alla città campana di Cuma, colonia di Calcide in Eubea (Euboicis natatibus, v. 247: seguiamo qui l’interpretazione di Wolff 2006b, pp. 260 s. e 2007, p. 13, secondo

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cui natatus varrebbe «piscine»), famosa meta di vacanza di quell’aristocrazia romana di cui anche Rutilio faceva parte, e particolarmente amata per le sue terme. Alludendo forse a momenti felici ormai trascorsi (vd. Fo 1994 ad l.), Rutilio conclude il bozzetto relativo a Centocelle e introduce la successiva visita alle Terme del Toro. vv. 249 ss. Aquae Tauri o Thermae Taurinae sono oggi le Terme del Toro di cui restano soltanto rovine. vv. 255-262. Delle Terme Rutilio propone due possibili origini: la prima riconduce all’immagine del toro; la seconda mantiene la figura dell’animale, ma si arricchisce postulando l’intervento di un dio sotto quelle spoglie, e collegandosi al mito di Zeus che, mutatosi appunto in toro, rapisce Europa, figlia di Agenore re di Fenicia, e nuota fino all’isola di Creta portandola sul dorso. vv. 263-266. Il racconto eziologico sulle Terme evoca quello più celebre legato alla fonte Ippocrene (propriamente «la fontana del cavallo») sul monte Elicona in Beozia, sacra alle Muse, che sarebbe scaturita dall’urto dello zoccolo del cavallo Pegaso sul terreno. Della rivalità con la Grecia (vv. 263 s.) ha scritto Wolff 2005, pp. 72 s. v. 267. Le Muse sono dette anche Pieriae o Pierides (donde l’aggettivo Pierius a indicare ciò che le riguarda). L’epiteto deriva dalla regione della Pieria (porzione di territorio macedone, tra la costa sud-occidentale e le pendici dell’Olimpo) considerata patria delle Muse o luogo in cui esse furono oggetto di un culto dalle origini antichissime. Un’altra derivazione riferisce Pierides alle nove figlie del re Pieros, sovrano di Emazia in Macedonia, che aveva dato a ciascuna di esse il nome delle nove Muse. vv. 268-270. A seguito dei versi dedicati alle Muse trova il suo spazio adeguato la figura di Rufio Valerio Messalla, poeta aristocratico della cerchia di Simmaco e amico di Rutilio, che fu praefectus praetorio nel 399-400 (vd. oltre, v. 274). Da quanto apprendiamo, sono suoi i versi incisi sull’entrata delle Terme. vv. 271-276. Secondo consuetudine, Rutilio intesse l’elogio dell’amico celebrandone i nobili natali e, certo esagerando (cfr. v. 170), ne riconduce le origini a quel Valerio Publicola che, dopo il ritiro di L. Tarquino Collatino (osteggiato per la sua appartenenza all’odiata famiglia dei Tarquinii), venne a formare con L. Giunio Bruto la prima coppia di consoli della storia di Roma repubblicana. L’encomio, articolato in tre distici, ciascuno aperto dall’anafora di hic, si conclude con una ripresa della celebre sentenza di Catone (Ad fil. Marc. fr. 14): Orator est, Marce fili, vir bonus dicendi peritus, «L’oratore, Marco, figlio mio, è un uomo probo, esperto nel parlare». L’essere bonus è qualità molto importante per Rutilio (vd. vv. 597 s. e 606), così come

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oggetto d’attenzione è la contrapposizione fra boni e mali (vd. v. 606, il caso dei Lepidi ai vv. 308 e 312 e Introduzione § 4 e). vv. 277 ss. All’alba del secondo giorno di navigazione (19 novembre 415 o 30 ottobre 417) la cymba di Rutilio lascia Centocelle e si dirige verso Porto Ercole, passando innanzi alla Foce del Mignone (Munio), a Gravisca e a Cosa. vv. 281-284. Gravisca corrisponde all’odierno Porto Clementino. Sull’immagine di decadenza che la caratterizza vd. Introduzione § 4 b, in particolare, la nota 22. vv. 285-290. Cosa sorgeva vicino ad Ansedonia, nei pressi di Orbetello. Cosanus era sia il porto poi chiamato Herculis sia il monte in seguito denominato Argentarius (la prima attestazione del toponimo sarà proprio in Rutilio, vd. oltre, vv. 315-318). Anche Cosa appare a Rutilio in tutto il suo stato di desolazione e abbandono, del quale egli – secondo il consueto amore per il dato e la spiegazione eruditi – tenta di fornire una motivazione che in questo caso, tuttavia, già ai suoi occhi appare poco credibile (a questo proposito vd. Introduzione, nota 22, e Privitera 2001). vv. 291 s. La favolosa popolazione africana dei Pigmei (la cui collocazione geografica già per gli antichi restava molto vaga) è citata da Omero in Il. III 1-7 proprio a proposito della sua inimicizia con le gru (fra i latini ne parlano anche Plinio, Giovenale e Claudiano, vd. Fo 1994 e Wolff 2007, note ad ll.). Secondo il mito i Pigmei hanno aspetto grottesco e deforme, sono di bassa statura e molto goffi; non a caso, dunque, il loro nome significherebbe propriamente «alti un pugno, un cubito», cioè meno di mezzo metro. vv. 293 ss. Con la tappa a Portus Herculis o Portus Cosanus (l’odierno Porto Ercole) ha termine la seconda giornata di viaggio. L’Itinerarium Maritimum (vd. nota ai vv. 179-182), definendolo portus e non semplicemente positio, ci informa che esso aveva sostituito quello di Cosa, caduto in declino, ed era diventato importante centro di smistamento delle merci provenienti dall’entroterra (notizie dettagliate si possono leggere in Mosca 1995, pp. 138 e 141). Da questa sosta Rutilio trae spunto per una digressione di tema politico che presto assume i tratti forti dell’invettiva, qui rivolta contro la stirpe dei Lepidi (vd. Introduzione § 4 e) e, in particolare, contro uno (o forse più) di quei suoi appartenenti contemporanei del poeta. Per una disamina più accurata dell’intero psógos si rimanda a Fo 1994 ad l. (con ulteriori indicazioni bibliografiche) e a Fo 2004. vv. 295-298. Il primo Lepido, che fornisce il pretesto per l’intera invettiva, è da identificarsi con M. Emilio Lepido, console nel 78 a.C. Come riepiloga Castorina 1967 (p. 185), «dichiarato nemico pub-

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blico per aver tentato di abolire la costituzione aristocratica di Silla, marciò su Roma, ma fu battuto da Catulo (l’altro console) e da Pompeo. Inseguito e costretto a imbarcarsi precipitosamente (proprio a Porto Ercole) per la Sardegna, in quest’isola finì la vita». vv. 299-302. Il secondo dei Lepidi, figlio del primo, è il triumviro che esercitò la carica assieme ad Antonio e Ottaviano nel 43 a.C. Secondo l’ipotesi di Doblhofer 1977, p. 144, la guerra civile cui allude Rutilio (v. 300) sarebbe soprattutto quella contro i cesaricidi (42 a.C.); il conflitto di Modena, comunque (aprile del 43 a.C.), aveva visto Ottaviano e i consoli Irzio e Pansa battere Antonio e dichiararlo nemico della patria per la sua brama di potere che attentava pericolosamente alla res publica. Fu tuttavia proprio Lepido a riaprire la partita fornendo ad Antonio truppe d’appoggio presso il fiume Argenteo (maggio del 43 a.C.). In seguito, però, Lepido vide presto diminuire l’importanza del proprio ruolo: Antonio e Ottaviano lo costrinsero a farsi da parte e ad accontentarsi della carica di pontifex maximus. Da notare come Rutilio crei con il nome un gioco ossimorico: Lepidus peior (v. 299) è infatti una sorta di contraddizione in termini qualora si pensi al significato proprio dell’aggettivo lepidus: grazioso, amabile, piacevole (vd. anche oltre, vv. 311 s.). vv. 303 s. Il «terzo Lepido» è M. Emilio Lepido, figlio del secondo, e noto per aver ordito nel 31 a.C. una congiura ai danni di Ottaviano, tuttavia prontamente sventata da Mecenate. vv. 305 s. Nel «quarto Lepido» si vuole individuare M. Emilio Lepido marito di Drusilla, sorella di Caligola. Venne accusato di incesto poiché tentò di violare anche le altre due sorelle dell’imperatore, Agrippina e Livilla. vv. 307-310. Il quinto Lepido, molto probabilmente unico reale bersaglio di tutta l’invettiva, è personaggio contemporaneo a Rutilio e viene individuato con una certa sicurezza in Claudio Postumo Dardano (appartenente alla discendenza dei Lepidi, sebbene il nome non lo segnali direttamente: vd. Lana 1961, pp. 71 ss.). Questi rivestì la carica di prefetto del pretorio per le Gallie durante l’usurpazione operata contro Onorio dall’aristocratico gallo Giovino, che si era fatto nominare nuovo imperatore nel 411 a Magonza. Dardano riuscì a trarre dalla sua parte i Visigoti (che appoggiavano il tentativo di Giovino) e giustiziò di persona l’usurpatore (maggio-giugno del 413), dando inizio a una cruenta repressione degli aristocratici Galli che lo avevano sostenuto. Lo sguardo su questi fatti sembra dunque chiarire le motivazioni che tanto hanno reso odioso il quinto Lepido agli occhi di Rutilio e della sua cerchia. Altra ragione di ostilità potrebbe risiedere in posizioni religiose, visto che Dardano si professava di fede cristiana. Rutilio, interrompendo il proprio discorso (aposio-

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pesi), evita di nominarlo esplicitamente, forse per prudenza, forse per dare con l’indeterminatezza un maggiore effetto alle sue parole; così facendo, inoltre, si astiene dal citare un nome che non presenta immediata parentela con la gens Lepida sulla quale l’intero sfogo è articolato. Sul possibile gioco crittografico intessuto da Rutilio, dove Postumus si celerebbe in POSTeritas (v. 308) e Dardanus in DARi (v. 310), si veda Fo 2004, pp. 169-180. Come segnala Wolff 2007, i semina dira (v. 308) si contrappongono marcatamente ai semina virtutum che soltanto sul suolo di Roma trovano le condizioni migliori per germogliare (cfr. vv. 9 s.). vv. 311 s. L’esametro richiama con evidenza il verso virgiliano Quidquid id est, timeo Danaos et dona ferentis, «Qualunque cosa sia, pavento i Greci anche quando portano doni» (Aen. II 49). Cfr. Soler 2005a, p. 299: su questa e simili allusioni (cfr. nota al v. 137), Soler costruisce la sua teoria di una intenzionale identificazione di Rutilio con la figura di Enea (qui i nemici di Troia – i Greci nascosti all’interno del cavallo – sarebbero implicitamente raffrontati con i nemici di Roma, che occultamente lavorano nel suo stesso seno: cfr. anche Wolff 2007, p. 75). Nel successivo pentametro, con lepidum malum, cioè «amabile disgrazia», Rutilio instaura un nuovo gioco di parole (vd. nota ai vv. 299-302 e cfr. vv. 231 ss.), sovrapponendo di proposito l’aggettivo (lepidus) al nome proprio (Lepidus). vv. 313 ss. All’alba del terzo giorno di navigazione (20 novembre 415 o 31 ottobre 417), Rutilio si appresta a doppiare il Monte Argentario seguendo un percorso che, prima di farlo approdare nei pressi della foce dell’Ombrone (nella zona dell’odierna Pineta del Tombolo), gli mostrerà in lontananza i contorni dell’Isola del Giglio. vv. 315-318. Come già anticipato (nota ai vv. 285-290), è proprio Rutilio a impiegare per la prima volta il toponimo moderno del promontorio (Argentarius). Le due cime del monte (ancipiti iugo, v. 316) sono quella a sud, sopra Porto Ercole, e il Monte Telegrafo a nord, sopra Porto Santo Stefano. Rutilio tiene a precisare che il tragitto via terra prevede soltanto sei miglia, mentre quello via mare ben 36. Pare, comunque, che il poeta abbia esagerato la lunghezza del periplo: le miglia sarebbero infatti due dozzine e non tre (vd. Mosca 1995, p. 142, che fornisce ulteriori informazioni operando un sistematico confronto fra il percorso compiuto da Rutilio e quello segnato nell’ Itinerarium Maritimum). vv. 319 s. La forma greca Isthmós è preferita a quella latina Isthmus. Altra scelta raffinata è indicare Corinto con un aggettivo (Ephyreius) che richiama il suo antico nome Éfira (Ephyre) ed è già presente in Virgilio (Georg. II 464). Con Ionias si definiscono anche le acque del mare Egeo.

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vv. 325 ss. Descrivendo l’isola che scorge in lontananza, Rutilio ricorda e sottolinea come essa sia stata generosa nell’accogliere coloro che fuggivano da una Roma ormai devastata e in rovina. Tra le tante disastrose vicissitudini che l’Urbe si trovò a soffrire (la prima discesa di Alarico nel 408, il sacco del 410, la risalita dei Visigoti dal meridione dell’Italia verso la Gallia nel 412), si ritiene che, se non a tutte con sguardo generale, Rutilio si riferisca alla più rovinosa, cioè il sacco della capitale (vd., a tale proposito, quanto precisa Fo 1994 ad l., il quale ipotizza che Rutilio possa essere stato personalmente fra coloro che in quella circostanza si erano rifugiati sull’isola). Vd. anche Wolff 2007, p. 76. v. 328. Questo sembra essere l’unico punto del poemetto in cui si menzioni l’imperatore (vd. Doblhofer 1977, p. 157), figura che tuttavia non viene citata esplicitamente, ma soltanto in riferimento al suo genius (cfr. Doblhofer 1972, p. 30, e 1977, pp. 25 s., riguardo a v. I 16). v. 332. Il verso sembra alludere a Verg. Aen. III 78 s. haec fessos tuto placidissima portu/ accipit, «quest’isola assai quieta accoglie noi, sfiniti, nel suo porto sicuro» e secondo Soler (2005a, pp. 299-300) allineerebbe i Romani, in fuga davanti ai barbari, ai Troiani un tempo in fuga da Troia distrutta; il tutto si inserirebbe nel quadro di un intenzionale parallelismo istituito da Rutilio fra le proprie personali vicende e quelle degli Eneadi (cfr. Wolff 2007, p. 76; vd. nota ai vv. 311-312). vv. 337 ss. In questi versi, considerati tra i più suggestivi e poetici dell’intero poemetto (cfr. Introduzione § 4 f ), alcuni studiosi hanno visto dipinti scenari di pura fantasia; di diversa opinione Fo 1994 (nota ad l., cui si rimanda per un commento più articolato). vv. 349 ss. Ha inizio il quarto giorno di navigazione (21 novembre 415 o 1° novembre 417): dalla foce dell’Ombrone, dove si era attendato di necessità, il piccolo gruppo giungerà a Falesia. Il percorso prevede il passaggio accanto all’Isola d’Elba alla quale Rutilio dedica una dotta digressione in lode del ferro che da essa si estrae, elaborando per contrasto una deprecazione dell’oro, materiale tanto prezioso quanto corruttore (sul confronto, molti i precedenti letterari, tra i quali Virgilio Aen. I 349 e III 56 s., Orazio Carm. III 16, Properzio III 13, 47-60; per maggiore completezza vd. Doblhofer 1977, pp. 165 s.). Spunto ispiratore e ipotesto della sezione è un passo virgiliano (Aen. X 173 s.) Ilva… insula inexhaustis Chalybum generosa metallis, «l’Elba, isola generosa d’inesauribili metalli dei Calibi», che allude alla continua capacità di rigenerazione del ferro da parte dell’Isola man mano che viene estratto.

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vv. 351-354. I Calibi erano una popolazione mitica di celebri fabbri che, secondo gli antichi, abitava le sponde del Mar Nero; il Norico, provincia dell’impero fra il Danubio e le Alpi, corrisponde oggi a Stiria e Carinzia. Infine i Biturigi, popolo della Gallia, abitavano nella regione dell’Aquitania, fra la Loira e la Garonna, territorio ricco di miniere di ferro. vv. 355 s. Rutilio introduce la contrapposizione tra ferro e oro menzionando Tartesso, centro situato alle foci del Guadalquivir e del Tago, fiume, quest’ultimo, famoso per le sue sabbie aurifere. v. 359. Sembra probabile il riferimento al mito di Erifile che, per ottenere la collana di Armonia, tradì il marito Anfiarao e ne provocò la morte. v. 360. L’allusione è al mito di Danae, giovane figlia del re di Argo, rinchiusa dal padre in un sotterraneo del palazzo poiché un oracolo aveva predetto che avrebbe dato alla luce il futuro assassino del proprio avo. La precauzione si rivelò tuttavia inutile perché Danae fu visitata nella sua prigione da Zeus, che riuscì a raggiungerla sotto forma di pioggia d’oro filtrata dal soffitto. vv. 361 s. Secondo i commentatori, Rutilio richiamerebbe qui una figura precisa, quella di Filippo di Macedonia, sovrano che, notoriamente, considerava la corruzione come una tra le più efficaci armi di conquista. vv. 365 s. Il mito delle quattro età (Esiodo Op. 107-201) raffigurava il progressivo decadere dell’umanità di stirpe in stirpe, ciascuna rappresentata da un metallo sempre meno prezioso. L’età dei semidei (o eroi) è la penultima, ma occupa un posto a sé nell’ambito di una sequenza discendente (dall’oro all’argento, dal bronzo al ferro) e, precedendo la misera età del ferro in cui gli uomini aspramente si combattono e vivono in continua angoscia, segna un’interruzione al progressivo deterioramento dell’umanità. Con il v. 366 Rutilio non contraddice né Esiodo né se stesso (v. 365), poiché i semidei conoscevano sì il ferro, ma non come arma per lotte fratricide (propria invece di Marte, dio della guerra, vd. sempre v. 365), bensì come prezioso mezzo di difesa contro le fiere. v. 370. Kéleusma o kéleuma è parola greca che indica la cantilena che ritmava la voga dei rematori. Poteva talvolta arricchirsi dell’accompagnamento di strumenti musicali e anche trasformarsi in un inno rivolto alla divinità che, stando alla maggior parte dei casi attestati, era quella cristiana (vd. Doblhofer 1977, pp. 173 s.). vv. 371 ss. La stanchezza dei rematori rende necessaria una sosta nonostante il carro di Febo Apollo (v. 372), cioè del sole, abbia

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percorso soltanto metà del suo tragitto e sia quindi trascorsa solo la prima parte del giorno. Punto d’approdo è Falesia, poco a nord-est di Piombino, dove ora si situa Porto Vecchio (località un tempo chiamata Falese, o Porto de’ Faliesi o dei Faliegi). I tempi di percorrenza descritti da Rutilio sembrano non trovare riscontro nella realtà. Come precisa Mosca 1995 (p. 144), la distanza compresa tra le foci dell’Ombrone e Falesia è di circa 45 miglia, cioè un tratto di mare più o meno equivalente a quelli sin qui percorsi, tappa dopo tappa. Tale distanza, pertanto, non avrebbe richiesto la sola mezza giornata qui registrata, ma almeno un intero giorno di navigazione. Lana 1961 (pp. 90 e 121-124), sostiene che Rutilio abbia ‘aggiustato’ i dati per poter meglio descrivere la festa campestre in onore di Osiride. vv. 373-376. La festa pagana di cui Rutilio parla celebra la conclusione della seminagione. Il v. 375 sembra alludere al «ritrovamento» (Heuresis) di Osiride (revocatus Osiris) che avveniva nell’ultimo giorno delle celebrazioni isiache. Iside e Osiride, famose e antichissime divinità egiziane, erano venerate anche nel mondo romano e, nel culto, venivano spesso associate. Osiride in particolare era collegato alla fertilità (vd. Wolff 2007, pp. 79 s.). La menzione di queste festività ha fornito altri possibili riferimenti cronologici (vd. Introduzione, nota 4) dato che esse si svolgevano in determinati periodi dell’anno: secondo il calendario di Filocalo duravano dal 28 ottobre al 1° novembre e quest’ultimo giorno era appunto quello del «ritrovamento»; secondo i Menologia rustica, invece, avevano luogo tra il 14 e il 30 novembre. Chi propende per datare il viaggio nel 415 le colloca tra il 14 e il 30 novembre, mentre gli studiosi che optano per il 417 sono dell’idea che Rutilio giunga a Falesia il 1° novembre, proprio in concomitanza con la Heuresis. Un quadro molto dettagliato della questione è tracciato da Lana 1961, pp. 37 ss. e 90 ss., e riassunto in Fo 1994 ad l. vv. 377 ss. Si può supporre che la villa verso cui Rutilio dirige i suoi passi sia una sorta di locanda. Il gestore, egli precisa, è un ebreo più inospitale di Antifate, il sovrano dei Lestrigoni, il selvaggio popolo di cannibali che Ulisse incontrò nel suo vagabondare attraverso il Mediterraneo (Od. X 103 ss., Ovidio Met. XIV 233 ss. e Pont. II 2, 114 e 9, 41). vv. 383 ss. La serena bellezza del paesaggio e la gioiosa immagine della festa pagana trascolorano nei toni cupi dell’invettiva antigiudaica (vd. Introduzione § 4, rispettivamente d ed f ), uno dei passi più studiati del poemetto, soprattutto in riferimento al problema delle credenze religiose di Rutilio (vd. ancora Introduzione, nota 24 e contesto); per un riepilogo della questione vd. Corsaro 1981, pp. 55-67. v. 384. L’allusione è alle diverse abitudini alimentari degli ebrei, cui è fatto divieto di cibarsi delle carni di maiale, tanto apprezzate

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invece dai Romani. Sulla scia dei precedenti commentatori, Fo 1994 ad l. suggerisce qui, da parte di Rutilio, una rilettura di Giovenale XV 96-106 (al v. 20 si menziona anche lo stesso Antifate). vv. 387 s. Il riferimento è alla pratica della circoncisione. vv. 389-392. È il precetto del sabato; sono frigida sabbata (v. 389) perché in quei giorni non si dovevano accendere fuochi all’interno delle case – in osservanza del riposo (cfr. Exod. 35, 3) o del digiuno –; frigidus tuttavia può anche voler dire «fiacco, inerte» (come precisa Castorina 1967, p. 109) oppure «insulso, triviale» (così Doblhofer 1977, pp. 184 s.). Radix stultitiae (v. 389) è per lo più interpretato come un celato attacco al cristianesimo (vd. Doblhofer 1977, p. 183), che sarebbe qui da vedersi come germoglio dell’ebraismo (cfr. Introduzione, nota 24 e contesto). Partendo dalla sottolineatura che radix in senso metaforico non si trova mai usato nella poesia pagana, ma molto nella letteratura cristiana, e dal rilievo della presunta stultitia del cristianesimo in alcuni celebri passi di san Paolo, Guillaumin 2006 affaccia l’ipotesi che con l’espressione radix stultitiae Rutilio possa essersi servito in maniera polemica proprio di un linguaggio di cui poteva aver avuto pratica come lettore, o che potesse aver sentito praticare in ambiente cristiano a lui contemporaneo. vv. 395 s. Rutilio ricorda le conquiste di Gerusalemme ad opera di Pompeo nel 63 a.C. e di Tito nel 70 d.C. v. 398. Il verso che conclude lo sfogo antiebraico è di chiara reminiscenza oraziana (Epist. II 1, 156 Graecia capta ferum victorem cepit, «La Grecia conquistata conquistò il suo selvaggio vincitore»). vv. 399 ss. È l’alba della quinta giornata di viaggio (22 novembre 415 o 2 novembre 417): a causa del vento contrario di Borea (proveniente da nord), la piccola flotta riesce a percorrere soltanto 1012 miglia, giungendo così a Populonia, pochi chilometri a nord di Piombino. Sull’intera tappa vd. Fo 2003. v. 402. Quello che Rutilio menziona è l’attuale Golfo di Baratti. v. 404. Si tratta della piccola isola davanti al porto di Alessandria d’Egitto, dove si innalzava il celeberrimo faro. vv. 409-414. Per questi famosi ed emblematici distici si rimanda qui a Introduzione § 4 b, e relativa nota 22, con bibliografia; cfr. ancora Courcelle 1964, pp. 278 s. vv. 415-418. La notizia che raggiunge Rutilio è il conseguimento della prefettura urbana da parte di Rufio Volusiano. Con la formulazione praefectura sacrae urbis (v. 417), il poeta enfatizza il titolo ufficiale di praefectus Urbi ottenuto dal caro amico di cui già aveva scritto

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sopra (vv. 167 ss.). Per le questioni legate alla datazione della carica e, di conseguenza, del reditus stesso, vd. sopra, nota ai vv. 171-174. vv. 419-422. Il nome completo (verum nomen, v. 419) di Rufio non ha i requisiti metrici per entrare nel dattilo (cfr. la perifrasi per Volusianus a v. 169): Rutilio se ne scusa esplicitamente e, come in precedenza (v. 168), si trova costretto a menzionarlo con il solo cognomen. Cfr. anche Fo 2004. vv. 423-428. Rutilio qui accenna cursoriamente alla propria passata prefettura (cfr. vv. 157-160 e 467 s.), carica che, in virtù del legame così forte che lo stringe all’amico, egli sente di poter rinnovare pur nella lontananza dell’‘esilio’. Come ricorda Fo 1994 ad l., alcune celebri amicizie letterarie possono aver ispirato l’espressione di v. 426, per esempio quella di Orazio con Virgilio (animae dimidium meae: Carm. I 3, 8) o quella di Persio con Cornuto (Sat. V 22). L’espressione ritornerà di poco variata nello stesso Rutilio a proposito di Vittorino (v. 493). vv. 429 ss. Il sesto giorno di navigazione (23 novembre 415 o 2 novembre 417) si apre con i bagliori di Eous (Venere), la stella mattutina. Da Populonia la piccola flotta giungerà a Vada Volaterrana, dove verrà sorpresa da un temporale. Aquilo è lo stesso Boreas (questo il suo nome greco), il vento incontrato a v. 399. Sulla presenza e l’azione di Aquilo si sono registrate diverse interpretazioni che si concentrano soprattutto sul significato di reverti (vd. Fo 1994 ad l.). vv. 431 s. Secondo alcuni studiosi Rutilio non vide effettivamente la Corsica, ma non rinunciò ad evocarne la presenza nel suo poemetto (vd. Mosca 1995, p. 145 e Wolff 2007, p. 86). vv. 435-438. Con la consueta raffinatezza alessandrina (vd. Introduzione, nota 7 e contesto), Rutilio riferisce del possibile áition del nome dell’isola, cui, tuttavia, mostra di non credere: una giovane donna ligure di nome Corsa avrebbe inseguito uno dei suoi buoi, fuggito, traversando a nuoto il braccio di mare; in ricordo di questa leggendaria impresa, il nome dell’isola sarebbe stato quindi mutato da Kýrnos (il toponimo greco, da cui l’aggettivo latino Cyrnaeus, già virgiliano, in Ecl. IX 30) in Corsica. L’episodio poteva essere letto anche nelle Historiae di Sallustio (fr. II 11 Maurenbrecher). vv. 439 ss. Proseguendo nel suo reditus, Rutilio scorge l’Isola della Capraia (situata tra Populonia e Capo Corso; vd. ora Bonaiuto-Carrera-Wentkowska 2006) dove si sono stabiliti alcuni monaci eremiti contro i quali Rutilio lancia un’aspra invettiva. Con il precedente, indirizzato all’oste giudeo (vv. 371-398), e con il successivo, rivolto ad altri monaci presso l’Isola della Gorgona (vv. 511-526), questo attacco costituisce uno dei passi più studiati del poemetto anche in riferi-

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mento al credo religioso del suo autore (vd. Introduzione, al contesto di note 7 e 8, e § 4 d, nota 24). L’ipotesi più condivisa sostiene che Rutilio, fedele alla tradizione pagana, si sia ritagliato tra i versi degli spazi per esprimere la sua avversione nei confronti di bersagli particolari e ben definiti (quell’ebreo, quei monaci), ma anche il personale rifiuto del cristianesimo in generale, che, in quanto religione di Stato da ormai parecchi anni, egli non poteva certo aggredire apertamente. Per un riepilogo della questione si vedano Doblhofer 1972, pp. 27 ss. e Corsaro 1981, pp. 69 ss. e 55 ss. v. 440. Il verbo squalere rimanda espressamente a sudiciume e sporcizia che già altri pagani ritenevano aspetti propri e peculiari del modus vivendi dei monaci. Riprende il concetto espresso dal verbo l’uso del raro aggettivo lucifugi, che ricorda gli scarafaggi di un verso virgiliano (Georg. IV 243). Il concetto sarà poi ripreso da Rutilio nella chiusa della seconda invettiva contro i monaci (vv. 523-526). vv. 449 ss. L’atra bile (melancholía) è una forma di follia (vd. Plinio Nat. hist. XI 193) e ne sarebbe stato affetto il personaggio di Bellerofonte che compare in Il. VI 119 ss., dove tuttavia Omero non parla espressamente di tale morbo, né dell’odio in cui a Bellerofonte venne il genere umano. Il mito racconta che dell’eroe, figlio del re di Corinto Glauco e discendente di Sisifo, si innamorò perdutamente Antea, moglie di Preto, sovrano di Argo; poiché Bellerofonte la rifiutò, la regina lo accusò di averla insidiata. Come punizione Preto, che non lo voleva uccidere di propria mano perché era suo ospite, fece in modo che suo suocero Iobate, re di Lidia, lo sottoponesse a prove insuperabili, dalle quali gli sarebbe stato impossibile uscire vivo. Bellerofonte, tuttavia, riuscì ad avere la meglio in ogni sfida, anche grazie all’aiuto del cavallo alato Pegaso, dono di Poseidone. Verso la fine della sua vita, però, egli si attirò l’inimicizia degli dèi. Forse per tracotanza, forse per un irresistibile desiderio di guardarli da vicino, volle salire sul suo cavallo alato e raggiungerli; ma Pegaso, punto da un insetto mandatogli da Zeus, s’imbizzarrì e lo disarcionò. Bellerofonte precipitò al suolo sulla pianura di Aleia, in Asia Minore, e da allora andò vagando in completa solitudine, rifuggendo da qualsiasi incontro, per quella stessa pianura, «la pianura dell’errante». A partire da Omero (che comunque non dà spiegazione nemmeno dell’odio divino nei confronti del personaggio), Bellerofonte diventò con il suo dolore un vero e proprio exemplum. Rutilio imputa il suo comportamento allo strazio per la morte violenta di due dei suoi tre figli (ne è evidente richiamo alla memoria l’espressione tela doloris, v. 451): Isandro venne infatti ucciso da Ares mentre Laodamia da Artemide. Il terzo figlio, Ippoloco, generò Glauco, personaggio presente nell’Iliade, al quale Omero fa raccontare dell’avo.

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vv. 453 ss. Punto d’arrivo del sesto giorno di viaggio è Vada (propriamente «secche»)Volaterrana. Con la piccola flotta Rutilio si inoltra lungo un percorso opportunamente segnalato fra le secche, ma viene sorpreso dallo scoppio di un temporale che lo costringe a rifugiarsi nella poco distante villa dell’amico Albino, situata nella zona dell’odierna Rosignano-Solvay, nei pressi della foce del Fine. Come si legge in Mosca 1995, p. 146, «il termine Vada è legato alla terminologia marittima costiera. Con esso si indicavano le secche parallele alla costa, assai pericolose per le navi da cabotaggio che rischiavano di arenarsi. Ma talvolta, grazie ad opere di canalizzazione e con la ricerca di passaggi profondi opportunamente segnalati, ad esempio due pali infissi nell’acqua a cui sono legate fronde d’alloro, potevano divenire ottimi luoghi di approdo». Studi recenti (Pasquinucci-Menchelli 2004 e Menchelli-Pasquinucci 2006) evidenziano la vocazione portuale della cittadina costiera, viva e fiorente sino alla metà del VII secolo. All’epoca di Rutilio Vada era nel pieno delle sue attività commerciali. Vd. anche Pasquinucci 2007. v. 461. Il grecismo symplegas («coesione, adesione», un hapax rutiliano) riconduce alle Simplegadi, due piccole isole rocciose poste all’imbocco del Bosforo Tracio, chiamate anche Cianee o Planctae. Secondo il mito esse si urtavano continuamente e sfracellavano le imbarcazioni che intendevano passare in mezzo a loro, impedendo così l’accesso al Ponto, finché, dopo la felice traversata degli Argonauti (vd. Apollonio Rodio Arg. II 317 ss., 549 ss., e IV 860 s.), diventarono immobili. v. 463. Il Coro è il vento di maestrale che spira da nord-ovest. vv. 465 ss. Cecina Decio Aginazio Albino fu per la prima volta praefectus Urbi subito dopo Rutilio (il quale ricorda una volta ancora la prestigiosa carica che egli stesso meritò di rivestire: cfr. vv. 157-160 e 415-428); lo fu nuovamente nel 426 e ricoprì in seguito numerose altre cariche importanti (vd. Doblhofer 1977, pp. 210 s.; Fo 1994 ad l.). Cfr. Introduzione § 4 e. v. 468. Tipica veste di lana bianca, la toga era indumento proprio dell’uomo libero romano. Ai tempi di Rutilio non veniva più portata dall’uomo comune, ma era diventata un preciso segno di distinzione degli alti funzionari imperiali e i senatori avevano l’obbligo di indossarla quando si riunivano in assemblea (della quale il praefectus era presidente). Essa simboleggia qui proprio la carica di praefectus Urbi. vv. 469 ss. È il motivo topico del «giovane saggio come un anziano» che già si è potuto riconoscere nei versi dedicati a Rufio (vv. 171 ss.). Per una lettura più particolareggiata del passo si veda Fo 1994 ad l.

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vv. 475 ss. Rutilio si sofferma sulla descrizione delle saline e sulla loro formazione per cogliere un’occasione di virtuosismo poetico giocato – come suggerisce Doblhofer 1977, p. 214 s. – su una terminologia che sa opporre antiteticamente lo stato liquido (umido con freddo gelido) a quello solido (secco con calore rovente) e illustrare la formazione del sale attingendo, come ha sottolineato Fo 1994 ad l., al lessico tipico dell’accoppiamento (del sole con le acque) e della generazione. v. 479. Sirius è l’astro più importante della costellazione del Cane maggiore (sarà nominata a v. 638 per il suo tramonto invernale). Il suo sorgere si pensava indicasse l’inizio delle calure estive più torride. vv. 485 s. Rutilio riprende qui l’immagine topica del Danubio (­ Hister) gelato e coperto da uno strato di ghiaccio così spesso da poter essere attraversato persino dai carri. Il topos è già presente nell’Ovidio dell’esilio: Trist. III 10, 29 ss. e 33 ss., III 12, 29 s., V 10, 1; Pont. I 2, 79 s., IV 7, 7 ss. vv. 491 ss. Rutilio abbozza un altro dei suoi ritratti di amici (vd. Introduzione § 4 e): si tratta qui di Vittorino, vicarius Britanniarum (vd. oltre, v. 500) prima del 408 e, al tempo del viaggio di Rutilio, divenuto da poco comes illustris (v. 507). Quando la sua città, Tolosa, venne presa da Ataulfo nel 413, Vittorino fu costretto ad abbandonarla e a trasferirsi nelle campagne d’Etruria dove, stando a quanto riferisce Rutilio, scelse di condurre un’esistenza modesta, ispirata ad abitudini semplici e costumi frugali. v. 492. I termini del pentametro sono finemente accostati per contrasto: tempestas dulcem e, in allitterazione, amara moram. Sul distico vd. Introduzione § 4 f, al contesto di nota 27. v. 493. Per descrivere l’amico, Rutilio ricorre a un’espressione di matrice oraziana simile a quella dedicata a Rufio Volusiano (v. 426); lo scenario richiama poi anche un altro preciso passo di Orazio: l’incontro con gli amici durante il viaggio a Brindisi in Sat. I 5, 39 ss. v. 499. Oceano (vd. I 56) e Tule (isola settentrionale non bene identificata nemmeno dagli antichi medesimi) segnano i confini estremi dell’oikouméne (cfr. v. 503). Thyle rappresenta una variazione grafica del più consueto Thule (vd. Bartalucci 1980, p. 414). vv. 500 s. Vittorino, come già anticipato sopra, fu vicarius Britanniarum, cioè sostituto del prefetto del pretorio nella diocesi imperiale della Britannia. vv. 507 s. I Comites illustres erano degli alti funzionari di Corte o dello Stato. Come precisa Castorina 1967 (p. 217), tre erano le classi

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in cui essi si suddividevano: «in actu positi (in carica); vacantes (già segnalati per la nomina); honorarii (a titolo puramente decorativo)». Vittorino, per la sua esistenza ritirata e lontana dalla corte, apparteneva certo alla terza. L’aggettivo sacer (v. 507), già dal I secolo d.C., poteva riferirsi a tutto ciò che avesse attinenza con l’imperatore. v. 510. È soprattutto in base a questo verso che prende corpo l’ipotesi di Tolosa come zona d’origine di Rutilio e territorio in cui si collocavano i suoi possedimenti, meta del reditus (vd. Introduzione, nota 2). vv. 511 ss. La settima giornata di navigazione (24 novembre 415 o 4 novembre 417, nell’ipotesi che la sosta alla villa di Albino sia durata un pomeriggio soltanto) si apre in una mattina molto calma e serena. Rutilio ha già lasciato Vada Volaterrana e si sta dirigendo verso il Porto Pisano, adiacente a Villa Triturrita. Il percorso prevede il passaggio a fianco della Gorgona, isola situata fra la costa pisana e quella della Corsica, ed è in quest’occasione che Rutilio lancia il suo secondo attacco ai monaci (cfr. il primo ai vv. 439-452 e vd. Introduzione, al contesto di note 7 e 8, e § 4 d). Recenti studi (Donati 2001 e 2002) tendono a identificare la Villa di Albino con la villa romana di San Vincenzino a Cecina (diversa l’opinione espressa dallo studioso locale Piero Stiavetti in un apposito volumetto: Vada: alla ricerca della Villa perduta, Livorno, Editasca 2002). vv. 517 ss. L’invettiva è indirizzata contro un bersaglio in particolare, un giovane di nobili natali (del quale però Rutilio non ci svela il nome) che aveva scelto di rinunciare a onori e ricchezze per unirsi alla comunità di monaci eremiti presente appunto in quell’isola. L’appellativo civis con cui Rutilio lo identifica a v. 518 può significare «compatriota» oppure, più in generale, «cittadino» romano libero. Con l’aggettivo noster del verso seguente il poeta specifica inoltre l’appartenenza del giovane alla sua medesima cerchia aristocratica. vv. 521 ss. Immagini e temi presenti nella prima invettiva contro i monaci ricompaiono anche in questa seconda: il v. 521 pare volersi ricollegare al personaggio di Bellerofonte che Rutilio aveva tratteggiato a conclusione del primo attacco (vv. 448-452). Richiamo allo psógos precedente si legge anche al verso successivo (522) dove si ritorna al motivo dei lucifugi viri di v. 440 e dove il tema dell’esilio volontario si pone accanto a quello degli ergastula (v. 447) e dell’autolesionismo (vv. 443-447) che ritorna anche a v. 524. Infine il tema della sporcizia, ripreso incisivamente in conclusione (v. 523; cfr. v. 440 e relativa nota), per il quale Rutilio, ora con particolare esasperazione dei toni, torna – qui come sopra – a ispirarsi a Omero: nell’Odissea (X 135-405) i compagni di Ulisse si tramutarono in porci, ma almeno conservarono l’animo intatto.

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vv. 527 ss. DaVada Volaterrana Rutilio e i suoi giungono alla Villa Triturrita (nei pressi del Portus Pisanus) la cui precisa localizzazione ha lasciato gli studiosi a lungo indecisi (vd. oltre, nota ai vv. 531 ss.). Nella sua puntuale trattazione, Lana 1961 (p. 133) si preoccupa di distinguerla dalla località di Turrida o Turrita (segnata nella Tabula Peutingeriana, nei Geographica di Guido e nella Cosmographia dell’Anonimo Ravennate), poiché quella citata da Rutilio è «una semplice villa […], mentre Turrita doveva […] essere un centro abitato». v. 528. Il verbo latet ha generato difficoltà di interpretazione (talvolta si è tentata la via dell’emendare: iacet Heinsius, latere Keene); per un quadro più completo si rinvia a Doblhofer 1972, p. 127, e Fo 1994 ad. l. vv. 531 ss. Sulla problematica localizzazione del Portus Pisanus vd. Lana 1961, pp. 133 ss., Doblhofer 1977, p. 230, e Marinella Pasquinucci in Mazzanti 1994, pp. 187 ss. Mosca 1995, p. 147, identifica il Portus Pisanus «con la pianura a sud di Pisa, formata da una delle tre diramazioni dell’Arno ricordate da Strabone (V, 2-5). Precisamente era l’ampio bacino che seguiva il corso dell’attuale canale Arnaccio, proveniente da Fornacette […]. Quindi la villa Triturrita è collocata a sud di questo bacino, nell’area della città di Livorno». Vd. ora anche Mosca 2004 (con altra bibliografia), Scheda ANSER 2004 e, per aggiornamenti ulteriori, i recenti contributi di Ducci-PasquinucciMenchelli-Genovesi 2005, Ducci-Pasquinucci-Genovesi 2006, Pasquinucci 2007, Genovesi-Ducci-Pasquinucci 2007 e Ducci 2008. vv. 541 ss. L’Euro è un vento di sud-est, portatore di sereno e propizio alla navigazione verso nord; esso dunque avrebbe permesso una felice ripresa del viaggio, ma Rutilio decide di non approfittarne preferendo dirigersi verso Pisa per far visita all’amico Protadio. Persistono tuttavia numerosi dubbi riguardo a questo incontro, le sue modalità, il luogo in cui sarebbe avvenuto – ammesso che si sia davvero mai verificato (cfr. Fo 1994 ad l.). vv. 543 ss. Protadio era nato a Treviri da un famoso retore di Bordeaux. Fu corrispondente di Simmaco (Epist. IV 17-34 e 56, 57) e visse dividendosi fra i suoi terreni in Gallia, la corte di Milano, e Roma, di cui fu praefectus nel 401. Come di consueto Rutilio ne compone un breve encomio focalizzando il suo ritratto sull’altezza d’animo che l’amico ha saputo dimostrare nelle avversità. Infatti, a causa delle invasioni barbariche, Protadio, come Vittorino (vv. 493 ss.), fu obbligato a lasciare le terre d’origine e vivere modestamente in qualche possedimento dell’Umbria. v. 544. La Virtus è qui intesa come la personificazione (da cui la

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maiuscola) di quella grandezza d’animo che simboleggia e riassume in sé ogni altra virtù. vv. 555-558. A conclusione dell’elogio, Rutilio dispone il ritratto di Protadio a fianco di alcuni dei più grandi esempi di frugalità e modestia della storia romana che con lealtà, coraggio e semplicità di costumi, avevano saputo sottomettere popoli e sovrani (regum rectores, v. 555). Rutilio sembrerebbe riferirsi a tre distinti personaggi. Il primo è L. Quinto Cincinnato che nel 458 a.C., durante il conflitto con gli Equi, fu nominato dittatore mentre stava arando il proprio campicello (cfr. Valerio Massimo IV 4, 5-6). Quanto al soprannome Serranus (v. 558), esso era proprio della gens Atilia; secondo un aneddoto antico, lo sarebbe divenuto perché un suo membro era stato raggiunto da una delegazione del senato che intendeva conferirgli il consolato mentre era intento a seminare (serere): per la derivazione etimologica vd. Plinio Nat. hist. XVIII 20. Solitamente questo Atilio viene identificato con G. Atilio Regolo, console nel 257 a.C. e celebre eroe della prima guerra Punica (vd. Doblhofer 1977, p. 238). A lui sembrerebbe alludere anche Virgilio Aen. VI 844 (cfr. il commento di Ettore Paratore, Milano, Mondadori 1979, ad l.); vd. anche Klebs, s.v. Atilius, Nr. 57-71, Atilius Saranus oder Serranus in RE II, 2094-2095 e Wolff 2007, p. 96. Il terzo personaggio, G. Fabrizio Luscino, console nel 282 e nel 278 a.C., vinse contro Pirro e i Sanniti e fu anch’egli famoso per il rigore e l’incorruttibilità dei costumi. Per le fonti vd. Doblhofer 1977, pp. 237 s. Su questi versi è intervenuta anche Privitera 1999, pp. 114-117, che propone un’identificazione «fra il più famoso Cincinnato e il virgiliano Serrano, altrimenti un perfetto sconosciuto» (p. 116). Gli exempla richiamati dal poeta risulterebbero quindi due (Cincinnato-Serrano e Fabrizio) e non tre, tanti quanti sono i suoi amici, Vittorino e Protadio. Il plurale Cincinnatos (v. 556) non avrebbe un valore enfatico, ma sarebbe un plurale effettivo, da riferirsi precisamente al Protadio di questi distici e a Vittorino, elogiato da Rutilio poco sopra (vv. 493 ss.), due personaggi posti dunque in particolare convergenza e «di fatto tratteggiati con la schiettezza dei prischi eroi quiriti» (p. 115). vv. 559 ss. L’ultimo giorno di viaggio narrato nel libro primo vede Rutilio fare tappa a Pisa. Dalla costa egli vi arrivò forse percorrendo un tratto di via Aurelia (Lana 1961, p. 132, nota 102 e Doblhofer 1977, p. 239; secondo Wolff 2007, nota ad l., Rutilio giunse invece in città attraverso una via secondaria che collegava Pisa al suo porto). Sulla viabilità dell’Etruria nord-occidentale, con riferimenti all’asse costiero che congiunge Portus Pisanus a Pisa, vd. Ceccarelli LemutPasquinucci 1991. vv. 561-564. Il tribunus che procura il mezzo di trasporto è persona

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conosciuta da Rutilio: nello stesso periodo durante il quale Rutilio aveva rivestito la carica di magister officiorum (forse nel 412, ma vd. Introduzione, al contesto di nota 2 e 3), il tribuno aveva prestato servizio nelle scholae palatinae, le guardie del corpo del princeps. vv. 565 s. Pisa fu fondata da coloni provenienti dall’omonima città greca situata in Elide, regione del Peloponneso, dove il fiume Alfeo sfocia nel Mar Ionio dopo essere passato poco a sud del centro abitato e aver attraversato il territorio di Olimpia (cfr. Virgilio Aen. X 179: Alpheae ab origine Pisae). Al momento della visita di Rutilio, l’Ausur (l’odierno Serchio, da Auserculus), in seguito deviato in corso indipendente per scongiurare le inondazioni, confluiva nell’Arno e proprio in tale confluenza si trovava Pisa. vv. 567 s. Abbracciata dai due fiumi, Pisa era dunque protetta da due lati. Fra gli studiosi, l’interpretazione puntuale del distico solleva perplessità: Rutilio parla di un conus pyramidis disegnato dall’incontro dei fiumi: alcuni lo intendono come un semplice triangolo di terra – se osservato dall’alto – sul quale sorgerebbe la città; altri come quella sorta di piramide che nasce dallo scontrarsi dei flutti e sulla cui base s’inserirebbe una striscia di terra che si allarga via via (cfr. Fo 1994 ad l.). vv. 571-574. Rutilio afferma che l’arrivo di coloni greci in Etruria – con la conseguente fondazione di Pisa – è anteriore alla venuta dei Troiani fra i re di Lavinio, «i sovrani di Laurento» di v. 572 (l’allusione guarda soprattutto a Latino, padre di Lavinia, la futura sposa di Enea; cfr. Virgilio Aen. VII 59 ss.), e dunque anche alla nascita dell’Urbe stessa. vv. 575 ss. Con parole di lode commosse e partecipate Rutilio esprime profonda devozione per il padre Lacanio (sul tema della pietas familiare, molto ricorrente all’interno del poemetto, vd. Introduzione § 4 e), probabilmente anche riecheggiando parte dell’iscrizione (forse in versi, stando al verbo canit di v. 588) incisa sulla statua a lui dedicata, e, disponendone una per verso, ricorda le numerose cariche che il genitore ricoprì quand’era in vita, in primis quella di proconsole (vv. 579 s.), che rende ragione della presenza della sua effigie a Pisa. v. 579 s. I sei fasci stanno a indicare il proconsolato; mentre in origine alla carica ne spettavano dodici, in tarda età imperiale essi vennero ridotti della metà. Il fascio di verghe, da cui usciva una scure, simbolo della potestà dominatrice, era una delle più antiche insegne degli alti magistrati romani, portata davanti a loro dai littori, ogni qual volta comparivano in pubblico. vv. 581 ss. Per Tusci vd. sopra, v. 39. Le altre cariche da Rutilio evo-

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cate tramite perifrasi sono: comes sacrarum largitionum (v. 583, sorta di ministro del tesoro), quaestor sacri palatii (v. 584, cfr. sopra, vv. 171 s.), e probabilmente praefectus Urbi (v. 585). vv. 593 ss. La via Flaminia, che collega Roma a Rimini attraversando l’Umbria, venne costruita dal console Gaio Flaminio nel 220-219 a.C. La Lydia era una provincia dell’Asia Minore che, secondo leggenda, era considerata la madre patria degli Etruschi; facendo dunque riferimento alle sue antiche origini, con il toponimo di v. 596 si usava indicare poeticamente tutta l’Etruria. vv. 597 ss. Sempre sullo sfondo dei territori della Lydia (vd. sopra), Rutilio ricorda con ammirazione due boni rectores della provincia, Decio e suo padre Lucillo. La presenza della coppia padre-figlio ritorna con insistenza nei distici di lode del poemetto (vd. sopra, nota ai vv. 168-170), lasciando intendere quanto fosse importante nella mentalità aristocratica del tempo l’ideale di conservazione delle qualità morali da una generazione all’altra. Molti degli amici che Rutilio inserisce nella sua galleria di ritratti vengono posti accanto al proprio genitore; si pensi, ad esempio, a Rufio Volusiano (vv. 167 ss.), a Palladio con Esuperanzio (vv. 207 ss.) e a Rutilio stesso (vv. 575 ss. e 590 ss.). Lucillo, come Lacanio, rivestì la carica di comes sacrarum largitionum (cfr. v. 583), battendosi con forza contro la corruzione. Da Rutilio è lodato anche per la sua attività di poeta satirico, ulteriore strumento di correzione dei costumi. Di Decio sappiamo soltanto dal nostro poeta: era suo coetaneo e, al momento del viaggio, consularis Tusciae et Umbriae (in età imperiale, titolo proprio di alti dignitari dello Stato, i quali, senza essere stati consoli, ottenevano il permesso di portare le insegne consolari). v. 600. Corito (l’odierna Cortona) fu una delle più importanti città etrusche; deve il nome a Corythos, mitico re dei Tuscii suo fondatore. vv. 603 ss. Le Camene erano in origine ninfe profetiche appartenenti alla religione dell’Italia antica, ma vennero in seguito identificate con le Muse greche e sentite pertanto come il loro corrispettivo latino. Turno è poeta satirico di età flavia (seconda metà del I secolo d.C.) la cui produzione è andata interamente perduta; del più celebre Giovenale (50/60-135/140 d.C. circa) Rutilio richiama poco sotto (v. 612) un famoso passo: VI 347 s. sed quis custodiet ipsos/ custodes?, «Ma chi custodirà i custodi stessi?». vv. 608 ss. Le Arpie (letteralmente le «rapitrici») erano mostri alati con il volto di donna e il corpo di uccello, lunghi artigli ed espressione famelica. Gli dèi se ne servivano per punire uomini ed eroi; nelle loro peregrinazioni ebbero modo di incontrarle anche gli

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Argonauti (Apollonio Rodio Arg. II 178 ss., Valerio Flacco Arg. IV 422 ss.) e gli Eneadi (Virgilio Aen. III 223 ss.). In questo passo di Rutilio diventano simbolo dei funzionari del tesoro corrotti. vv. 611 ss. Argo, il panóptes, «colui che tutto vede», «onniveggente», era un mostro dai cento occhi al quale era stato affidato il ruolo di custode di Io, la fanciulla trasformata in giovenca, di cui Zeus si era innamorato. Linceo, eroe della saga degli Argonauti, era famoso per la sua vista acutissima. Briareo era invece un gigante dall’aspetto mostruoso con cento mani. Quanto al v. 612 (su cui cfr. anche sopra, ai vv. 603 ss.), vd. ora anche Wolff 2006b, pp. 43 s. e 2007, p. 100, che propone di intendere volare come «dérober». vv. 615 ss. Da Pisa Rutilio è ritornato a Villa Triturrita (vd. vv. 527 ss.). Sta per riprendere la via del mare, quando una violenta tempesta glielo impedisce. Il numero dei giorni di sosta rimane per noi imprecisato, tuttavia Rutilio informa i suoi lettori di come la noia della sosta forzata venga ingannata con una battuta di caccia nelle immediate vicinanze della Villa. v. 615. Nell’indicare Pisa, Rutilio, confermando il suo stile raffinato, predilige l’aggettivo Pisaeus, proprio della Pisa in Elide, anziché Pisanus, relativo a quella in Italia: è una scelta dotta che gli permette di richiamare le antiche origini della città (vd. vv. 565 ss. e, parallelamente, vv. 435-438, dedicati alla Corsica). v. 616. Noto è un vento che spira da sud e dunque favorevole a Rutilio. v. 618. Secondo Lana 1961, pp. 140 s., questo particolare fenomeno, che in antico era interpretato come presagio di tempesta e che le fonti «riferiscono proprio all’alba», si sarebbe verificato al sorgere del giorno successivo (secondo la sua datazione, il 25 novembre 415). vv. 623 ss. L’attività venatoria era uno dei passatempi più diffusi nell’ambiente aristocratico romano. Il vilicus hospes (v. 623) è con ogni probabilità il gestore della Villa Triturrita dove Rutilio aveva trovato ospitalità (vd. Fo 1994 ad l.). v. 627. Meleagro, eroe greco figlio di Eneo e di Altea, è ricordato come condottiero degli eroi che parteciparono alla caccia del mostruoso cinghiale mandato da Artemide a devastare la regione di Calidone in Etolia. La belva era enorme e solo le forze congiunte di molti valorosi cacciatori avrebbero potuto abbatterla. Alla spedizione infatti presero parte i principali eroi del mondo antico. Ad aver ragione sull’orrendo animale fu Meleagro, che sferrò il colpo decisivo, liberando la regione.

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vv. 628 ss. Il patronimico Anfitrionide («figlio di Anfitrione») chiama in scena Ercole, figlio di Alcmena e di Zeus. Per conquistare la donna il dio aveva assunto le sembianze del di lei marito, Anfitrione, che venne così in seguito evocato come una sorta di «padre umano» dell’eroe. Anche Ercole si era trovato a dover combattere contro un tremendo cinghiale: una delle ‘fatiche’ impostegli da Euristeo consistette appunto nel catturare la belva che devastava l’Erimanto, un monte del Peloponneso. vv. 631 ss. Come Rutilio apriva la narrazione del reditus con un’attesa forzata in porto di due settimane (cfr. vv. 179-204), così ora sceglie di chiudere la sua prima parte con un’altra sosta obbligata (di cui invece tace il numero di giorni: vd. nota ai vv. 615 ss., ma anche oltre, ai vv. 633-638), delineando in tal modo per il libro primo un’ordinata struttura a cornice (vd. Doblhofer 1972, p. 34). Fo 1994, ad l., evidenzia come questo scenario di tempesta evochi l’ultima elegia del I libro dei Tristia ovidiani (cfr. Introduzione note 3 e 6). vv. 631-632 Africus, il Libeccio, è un vento che soffia da sud-ovest. Al v. 632 risulta ardita la scelta testuale di Wolff 2007, che opta per la difesa di necare (riportato nei due ms. V ed R), contro il generalmente recepito negare (in B, l’editio princeps: Bologna, 1520) e traduce con «noyer», ovvero «uccidere con l’annegamento, annegare», così richiamando metaforicamente l’azione dell’Africo, vento foriero di piogge (cfr. Wolff 2006b, pp. 263 s.). vv. 633-638. A fermare la piccola flotta è dunque il cattivo tempo che da Rutilio viene associato al tramonto di quattro costellazioni: le Iadi, la Lepre, Orione e il Cane. Secondo Lana 1961, pp. 32-37, la loro menzione costituisce elemento di grande rilevanza nella difficile questione della datazione del viaggio rutiliano (vd. Introduzione, nota 4). Egli infatti sostiene che i giorni della sosta forzata coincidano proprio con quelli del tramonto delle costellazioni: la citazione di Rutilio avrebbe pertanto l’obiettivo di segnalare puntualmente i tempi dell’attesa (dal 24 novembre all’1-2 dicembre) e, sempre secondo Lana, tale riferimento darebbe ulteriore conferma all’ipotesi di datazione (anno 415; cfr. sopra, nota ai vv. 171-174). Così interpretata, la presenza delle costellazioni escluderebbe inoltre l’ipotesi del 417 d.C. (vd. in particolare pp. 36 s.). Chi propende per quest’ultima, legge le indicazioni astrali di Rutilio come elenco generico ed esclusivamente letterario, privo cioè di qualsiasi riferimento oggettivo. vv. 639-642. Su Oceano vd. nota ai vv. 55-62. vv. 643 s. Rutilio intende spiegare la formazione delle maree oceaniche e sceglie di presentare, contrapponendole secondo il modulo sive-sive, due fra le diverse teorie avanzate sull’origine del fenomeno,

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per cui vd. Lucano Phars. I 409 ss. La prima (v. 643) ha destato difficoltà interpretative, dando adito a diverse letture: alcuni ritengono che Rutilio si riferisca alla teoria dell’influsso lunare; altri, invece, sostengono che il poeta alluda a quella del vento spirante dall’altro polo (vd. Fo 1994 ad. l.). La seconda (v. 644) è la teoria in base alla quale le acque di Oceano si ritirerebbero perché «sorbite», quasi a titolo di nutrimento, dal sole e dalle stelle. Libro secondo vv. 1 ss. Come nel proemio al primo, anche in quello al secondo libro Rutilio si rivolge direttamente al lettore, annunciando e giustificando la bipartizione della sua opera (vv. II 1 s. e 9 s.). Il v. 1 descrive i rivolgimenti del rotolo di papiro attorno alla sua asticella; nell’epoca di passaggio da una forma di pubblicazione all’altra, è tuttavia possibile che Rutilio abbia impiegato quella nuova, ovvero il codice di pergamena. Per un’analisi più dettagliata di questi pochi, ma raffinati versi d’apertura vd. Fo 1994 ad l. vv. 7 s. Anche il lettore diviene dunque un viaggiatore nel suo avanzare fra i versi, parola dopo parola; e la stessa lettura diviene un viaggio nel viaggio (vd. oltre, vv. 61 s.). Sul tema, con un particolare riferimento a questa ouverture, ha scritto Soler 2005a, pp. 273-276, secondo la quale Rutilio avrebbe qui tratto ispirazione da un passo di Quintiliano (Inst. IV 5, 22), già segnalato come parallelo da Castorina 1967, p. 237 e Doblhofer 1977, p. 266 (al v. 7). vv. 11 ss. Le burrasche si sono placate e il paesaggio sorride finalmente sereno (vd. Introduzione § 4 f ): Rutilio e la piccola flotta riprendono allora la via del mare ed è questo il loro ottavo giorno di navigazione (inizi di novembre 415 o seconda metà di novembre 417), che li vedrà lasciare il Porto Pisano e giungere a Luna, dove presumibilmente essi faranno tappa, dopo aver percorso all’incirca 40 miglia. Coerente con le raffinatezze e le simmetrie cui ci ha abituato nel corso della sua opera, Rutilio inserisce, in parallelo all’‘inno a Roma’ del libro I (vv. I 47-164), questo passo di descrizione geografica della Penisola (le cosiddette ‘lodi d’Italia’), incorniciato dalle parole «Italia» in apertura (v. II 17) e «Roma» in chiusura (v. II 40). Oltre a Fo 1994 ad l., vd. Fo 2002a, pp. 187 s. v. 16. Thetis si riferisce a Tetide, la ninfa marina madre di Achille, e indica per metonimia il mare. vv. 17 ss. Per la descrizione geografica, completa di misure dettagliate, Rutilio ha attinto a piene mani da Plinio Nat. hist. III 6 (43 ss.). Vd. ora Zehnacker 2005, pp. 295-309.

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v. 22. Con Sicania si intende la Sicilia, dal nome dell’antico popolo dei Sicani che ne abitò la parte occidentale. vv. 27 ss. Si tratta delle Alpi, che si estendono da est a ovest, come Rutilio specifica al verso seguente («fra dove il Sole porta e toglie il giorno», cioè fra oriente e occidente). vv. 31 ss. L’ipotesi che avanza Rutilio si fonda sulla dottrina stoica della Provvidenza divina che governa il mondo (cfr. Cicerone De nat. deor. II 75, Seneca De benef. IV 7, 1) e che il poeta già ha reso propria ai vv. I 17-18. v. 36. L’aggettivo poetico Arctous significa «settentrionale» e deriva da Arctos, cioè l’Orsa, che dà il nome alle due costellazioni boreali, «maggiore» e «minore» (cfr. v. I 60 e nota ad l.). vv. 41 ss. Flavio Stilicone era un generale di origini vandaliche, fidato collaboratore dell’imperatore Teodosio, con il quale si era anche imparentato dopo il matrimonio con sua nipote Serena. In punto di morte (395) Teodosio affidò a Stilicone la tutela del giovanissimo figlio Onorio, che avrebbe dovuto governare sulla parte occidentale dell’impero appena diviso (la parte orientale era stata invece assegnata al fratello Arcadio). Di fatto il generale barbaro regnò su tutto l’Occidente esercitando pieni poteri fino al 408, anno della sua uccisione. Rutilio, che subito lo definisce dirus (aggettivo che aveva attribuito anche ai Lepidi, cfr. I 308; cfr. Virgilio Aen. II 328 s., in riferimento ad Ulisse), gli riserva qui una violenta invettiva, mostrando di condividere l’opinione che del generale avevano maturato molti suoi contemporanei. Di Stilicone erano aspramente criticate la politica volta a cercare un’intesa con i Visigoti di Alarico, la decisione di non annientarli definitivamente quando ne aveva avuto la possibilità dopo la battaglia di Verona (403) e l’erogazione di un’indennità di 4.000 libbre d’oro allo stesso Alarico. Il generale, in realtà, pressato da nuove invasioni nella Gallia da parte di Svevi, Alani e Vandali (407), cercava così di eliminare almeno un ‘problema’ e liberarsi le spalle (Alarico si era stanziato nell’Illirico) per potersi concentrare unicamente sulla Gallia. Tale condotta però aveva insinuato nel senato e presso tutta la corte d’Occidente pesanti sospetti che erano infine sfociati in un’aperta accusa di tradimento. Al generale si imputava inoltre di essersi alleato e aver cospirato con Alarico anche per consolidare ulteriormente i propri poteri e garantire al figlio Eucherio la successione alla carica imperiale. La reazione di Onorio e della corte imperiale non tardò: Stilicone venne ucciso nell’agosto del 408, dopo essere stato attirato con l’inganno nei pressi di Pavia, dove in quel momento si trovava l’imperatore (cfr. Introduzione, nota 1; per Stilicone in particolare, nota 25).

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v. 42. Sull’espressione arcani imperii gli studiosi si dividono e numerose sono le interpretazioni proposte; arcani, infatti, può essere sia aggettivo che sostantivo (ipotesi, quest’ultima, più probabile dato che trova riscontro in alcune espressioni simili in diversi autori, tra i quali Claudiano Get. 100-103). Anche optando per il sostantivo, però, non risulta del tutto chiaro ciò a cui Rutilio intendesse riferirsi concretamente: forse pensava a un preciso luogo situato entro le mura della città o forse, come sostiene Castorina 1967 (p. 243), arcanum è «proprio il cuore dell’impero, cioè Roma». Per una disamina più dettagliata, accompagnata da relativa bibliografia, vd. Fo 1994 ad l. vv. 43-50. Rutilio viene ora specificando, verso dopo verso, le sue accuse contro Stilicone tra le quali la più grave consiste nell’aver permesso ai barbari di insinuarsi all’interno delle sacre mura dell’Urbe, rendendola così vulnerabile ed esposta all’attacco del nemico. I vv. 47-48 richiamano alla memoria la presa di Troia, permessa dall’inganno del famoso cavallo: Stilicone è ritenuto responsabile di un dolus simile a quello architettato da Ulisse. Nel distico successivo (vv. 49-50) Rutilio parla degli stessi soldati barbari – goti in particolare – che, con accento dispregiativo, erano definiti pelliti, poiché si distinguevano da quelli romani indossando pelli o pellicce, nonostante i divieti imperiali impedissero un simile abbigliamento dentro la città di Roma. Questi soldati erano stati reclutati nell’esercito romano da Stilicone che, per colmare gravi deficienze militari, era stato costretto a ricorrere a forze esterne (vd. Fo 1994 ad l.). vv. 51 ss. All’accusa di tradimento mossa a Stilicone, e condivisa da numerosi suoi contemporanei (vd. sopra, nota ai vv. II 41 ss.), Rutilio ne aggiunge una nuova, sua ‘personale’, che dimostra una volta ancora quanto la mentalità del poeta fosse profondamente legata al tradizionalismo pagano: secondo Rutilio, infatti, il generale avrebbe causato la rovina di Roma soprattutto con l’aver ordinato la distruzione dei sacri Libri Sibillini (vd. Brocca 2005, in particolare nota 118 e contesto). Stando alla leggenda, un’anziana donna li aveva offerti in vendita a Tarquinio il Superbo (o Prisco, secondo un’altra versione), che però le aveva riservato parole sprezzanti, forse anche a causa del prezzo altissimo che si era sentito richiedere. Ad uno ad uno, rifiuto dopo rifiuto, la vecchia aveva gettato i libri nel fuoco finché dei nove (o sei) con cui si era presentata ne rimasero soltanto tre, che Tarquinio, intuendone infine il valore, si convinse ad acquistare, peraltro alla medesima cifra della prima offerta. I libri, che contenevano profezie e massime oracolari in lingua greca, vennero riposti con la massima cura nel tempio di Giove Capitolino e affidati a due sacerdoti, i duoviri sacris faciundis, che avevano l’incarico di consultarli e interpretarli solo su ordine del senato. Erano infatti considerati sacri e,

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nella speranza di trovarvi aiuto e consiglio, vi si ricorreva nei momenti più drammatici della storia dell’Urbe. Finirono bruciati durante l’incendio dell’83 a.C., ma vennero prontamente sostituiti con degli altri, ritrovati dopo difficoltose ricerche in Grecia e Asia Minore. Essi assunsero un’importanza via via sempre crescente, tanto che il numero dei sacerdoti preposti alla loro tutela salì a quindici (quindecemviri sacris faciundis). Dal 12 a.C., per ordine di Augusto, vennero collocati nel tempio di Apollo e conservarono anche nei secoli successivi, sino ai tempi di Rutilio, la stessa aura di sacralità. Appare chiaro, dunque, il motivo per cui Rutilio ritenesse tanto grave il gesto di Stilicone che, provocando la loro distruzione, databile fra il 402 e il 408 (Brocca 2005, pp. 160-169, propone il 407), aveva irreversibilmente minato le fondamenta su cui poggiava l’impero. Per un quadro più particolareggiato della vicenda e una sua contestualizzazione nel complesso scenario storico-sociale degli anni fra IV e V secolo, vd. Brocca 2005. In particolare, riguardo ai sacri libri, Brocca 2005 (pp. 153-160) indaga, tra l’altro, sui motivi che avevano portato ad attribuire loro tanta importanza e sulle ragioni della grande attenzione prestata alle profezie (cristiane e pagane) durante la crisi di inizio V secolo. La presunta distruzione dei Libri da parte di Stilicone, atto dunque gravissimo, è paragonata da Nicoletta Brocca alla sottrazione del Palladio, ad opera di Ulisse e Diomede (pp. 152 s.); tale furto sacrilego provocò, assieme all’inganno del cavallo, la caduta di Troia, non più difesa dalla statua che garantiva la tutela degli dèi, funzione che, appunto, svolgevano i Libri nei confronti di Roma. v. 53. Altea è la madre di Meleagro, il giovane eroe che aveva ucciso il temibilissimo cinghiale di Calidone, del quale Rutilio ha già parlato a v. I 627. Nel corso dei numerosi combattimenti causati dalla contesa per l’assegnazione delle spoglie ferine, il giovane aveva provocato la morte di due fratelli della madre. Secondo la variante qui seguita da Rutilio, poco dopo la nascita le Moire predissero ad Altea che il figlio sarebbe morto non appena il tizzone che stava bruciando in quel momento sul fuoco si fosse consumato: Altea subito lo spense e lo conservò in un cofanetto, ma quando Meleagro uccise gli zii materni, per vendetta lo gettò alle fiamme, provocando così, dopo la sua completa consunzione, la morte del figlio. Di lì a poco, disperata, s’impiccò. v. 54. Niso è il mitico re dal cui capello purpureo – che lo rendeva invincibile – dipendeva il destino della città di Megara; la figlia Scilla, per favorire Minosse, del quale si era innamorata dopo averlo visto mentre poneva sotto assedio la città, tradì il padre tagliandogli quel capello in cui risiedeva tutta la sua forza. Minosse conquistò allora Megara, rifiutando però di prendere in sposa Scilla. Mentre

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inseguiva la nave dell’amato che partiva, la ragazza si trasformò in un ciris (molto probabilmente l’airone bianco), invece Niso, che tentava a sua volta di raggiungere la figlia, venne mutato in aquila marina (Ovidio Met. VIII 1 ss.; cfr. l’epillio Ciris contenuto nell’Appendix Vergiliana). vv. 55 s. Riferendosi ai fati filati dalle Parche, Rutilio descrive i Libri Sibillini come simbolo e pegno dell’eternità di Roma. vv. 57 ss. L’imperatore Nerone uccise a tradimento la madre Agrippina e per tale infamia venne posto nel Tartaro, il luogo collocato nel mondo infero (l’Ade), dove erano rinchiusi quanti avevano compiuto i delitti più gravi e anche svariate creature mostruose (come carcere dei dannati appare in Virgilio Aen. VI 542 s. e in Stazio Silv. II 7, 116 ss., che vi relega fra gli altri appunto Nerone). Stygias faces (v. 58) sono le fiamme dello Stige, il fiume infernale che scorreva in sette giri intorno al mondo dei morti. vv. 61 ss. Rutilio ritorna alla narrazione effettiva del viaggio, scusandosi dell’ampia digressione (vv. II 17-60). La località avvistata, dove probabilmente farà tappa nel suo ottavo giorno di navigazione (vd. nota ai vv. II 11 ss.), è Luna (oggi Luni, nelle vicinanze di Sarzana), porto famoso sin dal III sec. a.C. (vd. Ennio Ann. 16 Vahlen², frg. inc. 2 Skutsch) e del quale non restano che poche rovine (cui accenna anche Petrarca Itinerarium 20). Per la storia della città, già famosa per i suoi candidi marmi, si rimanda a Doblhofer 1977, pp. 284-286. vv. 63 s. Il nome della località (forse di origine etrusca, con il significato di «porto»), che oggi sopravvive in quello di un’intera regione, la Lunigiana, viene espresso da Rutilio con una perifrasi di natura astronomica e mitologica (Sole e Luna simboleggiano rispettivamente i fratelli Apollo e Diana). I nuovi frammenti Risale al 1973 la scoperta di Mirella Ferrari che, all’interno di un manoscritto bobbiese conservato nella Biblioteca Nazionale di Torino (F IV 25), riconobbe un frammento del II libro di Rutilio in un ritaglio di pergamena che fungeva da rattoppo. L’operazione di ‘aggiustamento’ viene fatta risalire alla metà del XV secolo, ma la scrittura, una minuta corsiva d’area settentrionale, si data intorno alla fine del VII secolo-prima metà dell’VIII. Nonostante le pessime condizioni del ritaglio e, di conseguenza, la sua difficile comprensione, la quasi totalità degli studiosi è concorde con la Ferrari nell’attribuirlo a Rutilio: presenza del distico, raffinatezza del dettato (almeno per quel che è possibile cogliere) e stilemi tipicamente rutiliani

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sia nell’elogio di un amico (Marcellino, fr. A), sia nella descrizione di un luogo di sosta (quasi certamente Albingaunum, fr. B) sembrano allontanare ogni incertezza (a questo proposito vd. Bartalucci e altri 1975. Di recente ha pensato di poter negare a Rutilio la paternità di questi due frammenti, proponendo un’attribuzione alternativa, Maria Pia Billanovich, per il cui intervento vd. Introduzione, nota 5). Il ritaglio presenta un’esigua quantità di versi, purtroppo tutti in condizioni molto lacunose, il cui stato peggiorò ulteriormente dopo l’asportazione dal manoscritto, peraltro necessaria alla lettura del suo lato B. Il ritrovamento, dunque, si sostanzia oggi di due frammenti, A e B (recto e verso del ritaglio), per i quali sono state avanzate numerose proposte di integrazione e ipotesi di emendamento (vd. Bartalucci e altri 1975, in particolare Tandoi, pp. 3-5, Frassinetti 1980a e Mazzolai 1990). Arduo risulta assegnare loro una precisa posizione nel poemetto non conoscendo la quantità di versi che li separa dall’ultimo pentametro pervenutoci nel resto della tradizione (II 68); ugualmente difficile individuare la distanza fra gli stessi, sebbene i riferimenti geografici e storici (gli hiberna Ligustica, A 5, la ricostruzione delle mura – quasi certamente – di Albingaunum, B 1-6) possano far propendere per una certa contiguità (per Ferrari 1973, p. 27, non più di 10-12 versi). Anche l’ordine stesso dei frammenti ha destato interrogativi e alcuni studiosi (per es. Cecchini 1974 e Lana, in Bartalucci e altri 1975, pp. 11 s.) propendono per un’inversione di lettura (B precederebbe A). In questa edizione si è optato per la successione maggiormente condivisa, A seguito da B. Si fornisce di seguito una essenziale legenda dei segni diacritici impiegati nella restituzione del testo. Innanzitutto i versi sono disposti in modo tale che si possano individuare agevolmente esametri e pentametri; le parentesi quadre delimitano il testo accertato per ciascun verso; i puntini sul rigo sostituiscono una o più lettere che non è stato possibile decrittare; il puntino sottoscritto a una lettera, invece, ne segnala l’incerta lettura. Le parentesi uncinate (< >) contengono gli interventi congetturali dell’editore. In questa sede le proposte integrative sono quelle che si leggono nell’edizione a cura di A. Fo (Fo 1994). Frammento A Stando all’ordine A-B, questa nuova tappa del reditus di Rutilio dovrebbe collocarsi in una località fra Luna e Albingaunum (Albenga). Molte le ipotesi avanzate: Segesta Tigulliorum, Portus Delphini, i Vada Sabatia e Genua (quest’ultima considerata negli Itineraria come tappa intermedia proprio fra Luna e Albingaunum). Lana, che inverte i frammenti, pensa invece ad un centro posto a ovest di Albenga, Ad horrea (oggi La Napoule), al di fuori dei confini liguri (vd. Bartalucci

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e altri 1975, pp. 11 s., e Corsaro 1981, pp. 35 ss., nota 88, che ricapitola la questione). vv. 5 s. Nella menzione di Mediolanum, città che in epoca romana apparteneva alla Liguria, si registra un’occorrenza del gusto – così tipicamente rutiliano – per il gioco etimologico e il piacere dell’informazione erudita (cfr. I 223 ss., 255 ss., 435 ss., 571 ss.). Secondo Lana (in Bartalucci e altri 1975, pp. 11 s.) il contingente militare aveva un legame con la Liguria non tanto in relazione alla zona in cui si stanziava, quanto per la provenienza dei soldati di cui si costituiva. vv. 11 ss. Marcellino, che arricchisce la teoria dei ritratti di amici ad opera di Rutilio, rimane una figura dai contorni sfocati, alla quale risulta impossibile dare un volto preciso. Rutilio ci informa del suo cursus (vv. 13 s.), dal quale si apprende che Marcellino fu protector (guardia del corpo imperiale), tribunus (in epoca tardo imperiale, comandante di unità) e comes (alto funzionario di corte, probabilmente honorarius: cfr. honore, v. 14), come era stato Vittorino: cfr. I 507 e relativa nota, in cui si dà breve ragguaglio sulla categoria dei Comites. Per maggiori dettagli vd. Ferrari 1973, pp. 27 s. Frammento B L’indizio più probante che spinge a individuare in Albingaunum la tappa descritta in questo secondo frammento è l’esistenza di un’epigrafe metrica in distici elegiaci ritrovata ad Albenga (Corpus Inscriptionum Latinarum V/2, p. 895, n. 7781) e conservata oggi nel Palazzo Vescovile della stessa città (per il testo dell’epigrafe e un’analisi dettagliata di tutta la questione vd. Appendice. L’epigrafe di Albenga in Fo 1994, pp. 147-152). I suoi versi, che sembrano trovare ispirazione proprio in quelli di Rutilio (vd. pp. 151 s.), cantano la riedificazione della cinta muraria ad opera di Flavio Costanzo, il futuro Costanzo III, imperatore nel 421. Appare ormai certo che si tratti proprio del medesimo Costanzo di cui Rutilio tesse ai vv. 7-20 del frammento un elogio che sicuramente proseguiva anche oltre quanto ci è dato di poter leggere. vv. 1-6. Innalzate rispettivamente da Anfione e Nettuno con straordinaria velocità, le mitiche mura di Tebe e di Troia erano le più famose dell’antichità (cfr. Stazio Silv. III 1, 115 s.: non Amphioniae steterint velocius arces/ Pergameusve labor, «Non più velocemente si saranno innalzate le rocche di Anfione o l’opera di Pergamo»), ma nell’iperbole di Rutilio non reggono il confronto con quelle ricostruite da Costanzo ad Albingaunum. Il tridente di Nettuno (vv. 5 s.) è immagine mutuata da Virgilio (Aen. II 610-613: Neptunus muros magnoque emota tridenti/ fundamenta quatit totamque a sedibus urbem/

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eruit, «Nettuno, con il suo grande tridente, scuote le mura, smuove le fondamenta e sradica dalle sue basi la città tutta». vv. 7 ss. Flavio Costanzo, generale romano dell’imperatore Onorio – del quale sposò la sorella Galla Placidia nel 417 –, fu console tre volte: nel 414, nel 417 e nel 420. Rutilio gli augura qui di poter rivestire una volta ancora quella stessa carica (vv. 13 s.). L’opinione più condivisa intende il consolato di v. 7 come il secondo (integrando il verso 9 con secu e datando il viaggio nel 417) e ritiene pertanto l’augurio di Rutilio riferito al terzo. Lana (in Bartalucci e altri 1975, pp. 12-16) che, come più volte è stato sottolineato (vd. Introduzione, nota 4), pone il reditus nel 415, vede qui Costanzo console per la prima volta (414) e, conseguentemente, legge in Rutilio un auspicio per un secondo consolato. Della stessa opinione sembra Corsaro 1981, pp. 33-48, che discute ampiamente il problema e rende conto delle congetture alternative proposte per sanare il v. 9 (come per es. secu). In favore di un augurio per il secondo consolato e, quindi, di una datazione più alta del reditus, si è schierata recentemente anche Brocca 2005, pp. 170-184. v. 13. Le effettive ragioni per le quali Rutilio possa definire collega Costanzo rimangono a tutt’oggi abbastanza oscure. Cecchini 1974, p. 401, sostiene che l’appellativo non si debba riferire a Costanzo, bensì al Marcellino di cui si parla nel frammento A.

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indice dei nomi a cura di Anna Dori

In questo indice vengono riportati, oltre ai nomi di scrittori e personaggi storici, anche quelli di personaggi mitologici o puramente letterari e d’invenzione, nonché i nomi geografici, che figurano nel saggio introduttivo, nella traduzione italiana del testo rutiliano e nelle note di commento. Per i nomi e i luoghi del testo latino si rinvia all’Index nominum.

Accattino, Adriano 15 e n, 16 e n Accornero, Roberto 114 n, 116 Achei 80 n Achille 296 Acitelli, Fernando 44 n, 58 n, 63, 89, 90 e n, 91 e n, 92 e n, 94, 171 Ade 14 e n, 300 Adrasto 92 Adrianopoli 67, 128 n Africa 219, 270, 272 Africo 102, 251, 295 Agenore 225, 277 Agilla 223, 275 Agnese, Santa 10 n Agostino d’Ippona 76, 96, 97 n, 103, 104 e n, 105, 108, 109 n, 114 n, 115 n, 117 e n, 118 Agrippina Augusta, Giulia detta Minore, 279, 300 Agylla, vedi Agilla Alani 8 n, 297 Alarico 8 n, 25, 30, 32, 48 n, 77 e n, 78 n, 115 e n, 281, 297 Albenga 11, 23, 36, 172, 301, 302 Albingaunum, vedi Albenga Albino, Cecina Decio Acinazio 27, 41, 66, 69, 73, 116, 117, 119, 120 n, 124, 125 e n, 128 e n, 129, 132 n,

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134 n, 141, 145, 164 n, 219, 239, 287, 289 Albino, Ceionio Rufio 271, 274 Alceo 268 Alcide, vedi Ercole Alcmena 295 Aleia, pianura di 286 Alessandria 31, 33 n, 167, 284 Alessandro Magno 268 Alfeo 245, 292 Aliano, Federica 119 n Alkaeda 95 n Allia 217, 269 Alpi 255, 282, 297 Alsio, vedi Palo Alsium, vedi Palo Altea 257, 294, 299 Alvernia 74 Amati, Laura 142 Ammiano Marcellino 33 n, 105, 108, 128 n Anchise 80 n, 268 Ancona 140, 141 Anders, Günther 48 n Andres, Stefan 76 e n Anfiarao 282 Anfione 261, 302 Anfitrione 249, 268, 295

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Anicio Auchenio Basso 96 Aniene 269 Annibale 65, 118, 127 n, 217, 270, 272 Anonimo Ravennate 290 Ansedonia, vedi Orbetello Anselmi, Michele 120 n Antea 286 Antifate 233, 283, 284 Antignano 35 Antonacci, Adamo 165 n Antonino Pio, Tito Aurelio Fulvo Boionio Arrio, imperatore 170 Antonio, Marco 279 Apollo, vedi Febo Apollonio Rodio 287, 294 Appia, via 128 n Apuleio, Lucio 134 n Aquilone 237 Aquitania 7, 8 n, 382 Arcadia 276 Arcadio, Flavio, imperatore 297 Arcand, Denys 31 Arcore 82 n Ardenza 35 Arditi, Pierre 114 n Arelate, vedi Arles Ares 286 Arezzo 56 n Argentario, monte 66, 73, 229, 278, 280 Argo 249, 294 Argo, città 282, 286 Argonauti 287, 294 Aristofane 73 Arles 266, 273 Armonia 282 Armorica 223, 274 Arnaccio, canale 290 Arno 164, 165 n, 166, 245, 247, 290, 292 Arpie 249, 293 Arria Maggiore 131 n Artemide 286, 294 Asclepio 268 Asia Minore 286, 293, 299 Astacius 122 n Ataulfo 8 n, 288 Atax 101 Atena, vedi Minerva Atene 148 n Atilio Regolo, Gaio 291 Auden, Wystan Hugh 19, 81, 102, 103, 111, 112, 170 Augustinus 173

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Augusto, vedi Ottaviano Augusto Aulo Gellio 108 Aurelia, via 291 Aurora 243 Austro 145, 223, 276 Ausur, vedi Serchio Aventino 56 n Averno 80 n Avito, Marco Mecilio Flavio Eparchio, imperatore 100 Babilonia 32 Bacco 268 Bachelard, Gaston 162 Bagdad 31, 32 Bagnaia 164 n Baldassari, Rita 42 n Balestra, Riccardo 142, 148 Baldo, Gianluigi 162 n Balducci, Giuliana 85 n Baratono, Pierangelo 41 n Baratti, golfo di 164 n, 284 Barchiesi, Marino 40 n Bartalucci, Aldo 7, 10 n, 166, 288, 301, 302, 303 Bartoccini, Renato 172 Batticolla 87, 88 Bégin, Emile-Auguste 35 n Bellagamba, Rosaria 143 Bellerofonte 239, 286, 289 Belocchi, Marco 104, 109 n Benatti, Lorena 105 Beneventum o Maleventum 270 Beozia 277 Beretta, Marco 114 n, 116 Bergeggi 36 Berlino 175 Berlusconi, Silvio 43, 82 n Bettarini, Rosanna 20 n Bettini, Maurizio 35 n, 63, 82 e n, 83 n, 162 n Bianchi Bandinelli, Ranuccio 33, 96 n Biasi, Alberto 110 n Billanovich, Maria Pia 10 n, 301 Bindi, Cesare 105 Bin Laden, Osama 116 n Biturigi 231, 282 Bizet, Georges 46 n, 47 n, 48 n Bobbio 173 Boccanera, Angelo 100 n Bonaiuto, Marco 285 Bondì, Chiara 120 n Bondì, Claudio 7, 20, 29, 30, 32, 63, 64, 67, 68 n, 83, 103, 114 e n, 115 e n,

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116 e n, 117 e n, 118 e n, 119 n, 120 e n, 121 e n, 122 n, 123 n, 124 n, 126, 128 e n, 130 n, 134 e n, 136 n, 141, 146, 148 n, 152 n, 163, 164, 174 Bonoso 101 n Bordeaux 8 n, 290 Borea 101, 235, 284 Borges, Jorge Luis 16 n, 17 e n, 21, 171 Bosforo 287 Brecht, Bertolt 112 Brenno 65, 127 n, 217, 269 Bretagna 274 Briareo 249, 294 Brindisi 10 n, 288 Britanni 241 Britannia 288 Brocca, Nicoletta 10 n, 298, 299, 303 Broch, Hermann 62 e n Brodka, Dariusz 267 Brodskij, Josif 7, 18, 19 e n, 20, 21 n, 102, 111, 113 e n, 137 n, 168, 170 e n, 171 Bucarest 151 Caere, vedi Cere Cagliari 31 n Calabria 114 n, 126 Calcide 276 Calibi 231, 281, 282 Calidone 294, 299 Caligola, Gaio Giulio Cesare Germanico, imperatore 279 Calipso 273 Calza, Guido 96 n Calza, Raissa, vedi Gourevich Calza, Raissa Calzavara, Ernesto 170 n Camene 293 Cameron, Alan 274 Campidoglio 38, 170, 269 Campus, Giovanni 31 e n Cane, costellazione 9 n, 251, 288, 295 Canne 270 Cantarella, Eva 76 n Cantarini, Federica 142, 153 Capezza, Federico 143, 155 Capo Corso 285 Capolicchio, Lino 114 n Cappello, Pierluigi 44, 45, 50 e n, 51 e n, 52, 53 e n Capponi, Giovanna 143, 145, 155

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Capraia 11, 26, 66, 98, 100 e n, 101 e n, 116, 118 n, 123 n, 124 e n, 127, 135 n, 136 n, 237, 285 Caproni, Giorgio 18 Cardona, Maria Clelia 33, 54, 58 n, 63, 69 e n, 71 n, 72, 75 e n, 77 n, 79 e n, 80 n, 81, 83, 103, 121, 122, 136 n Carducci, Giosuè 24, 37 e n, 86 n, 97 n Carinzia 282 Carmen 46 n Carozzi, Pier Angelo 116 n Carrai, Stefano 24 n Carrera, Francesco 285 Cartaginesi 272 Caruso, Claudia 142, 150 n Casamassa, Antonio 96 n, 97 n Castelvecchio 152 n, 153 n Castiglione della Pescaia 164 n Castore, vedi Dioscuri Castorina, Emanuele 269, 276, 278, 284, 288, 296, 298 Castro d’Inuo 23 n, 223, 275, 276 Castrum Inui, vedi Castro d’Inuo Castrum Novum, vedi Castro d’Inuo Catone, Marco Porcio, il Censore 270, 277 Catone, Marco Porcio, l’Uticense 131 n Cattaneo, Giulio 63 Catullo, Gaio Valerio, 14 e n, 128 n Catulo, Quinto Lutazio 229, 279 Cavalli, Patrizia 15 Charlet, Jean-Louis 8 n, 10 n Ceccardi, Giovanna 42 n Ceccarelli Lemut, Maria Luisa 291 Cecchini, Enzo 301, 303 Cecina 163 n, 164 n, 289 Cecina Decio Acinazio Albino, vedi Albino Cecina Peto 131 n Cˇ echov, Anton Pavlovicˇ 91 n Ceionio Rufio Albino, vedi Albino Centocelle 10, 23 n, 27, 73, 122, 123, 126, 145, 148, 223, 275, 276, 277, 278 Centumcellae, vedi Centocelle Cere 150 n, 223, 275, 276 Cerere 259 Ceronetti, Guido 128 n Cerveteri, vedi Cere Cervia 31 n Chelae, vedi Chele

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Chele, costellazione 221, 273 Chaplin, Charlie 113 e n Churchill, Winston 91 n Cianee, vedi Simplegadi Cicchetti, Bruno 41 n Cicerone, Marco Tullio 266, 297 Cincinnato, Lucio Quinto 245, 291 Cipollini, Marco 30 Circe 243 Cirìachi, Fabio 130 n Citera 271 Citerea, vedi Venere Citter, Carlo 24 n, 266 Civitavecchia, vedi Centocelle Claudiano, Claudio 24, 26 n, 33 n, 43, 278, 298 Claudio Cesare Augusto Germanico, Tiberio, imperatore 9 n Claudio Postumo Dardano 75, 79, 279 Cogni, Ferdinando 14 n Cohen, Silvia 114 n Colao, Manuel 116 Colombo, Gianni 110 n Colosimo, Valentina 116 Como 63 n Concezi, Marco 117 Consorti, Michela 76 n Contessa, Giuseppe 166 n Conti, Stefano 143 Contini, Gianfranco 20 n Cori 45 n, 50 Corigliano, Simona 116 Corinne 84 n Corinto 229, 280, 286 Corito 249, 293 Coro 239, 287 Cornuto, Lucio Anneo 285 Corsa 237, 285 Corsaro, Francesco 9 n, 11 n, 267, 283, 286, 302, 303 Corsato, Rodolfo 116, 119 e n Corsica 28, 66, 237, 243, 285, 289, 294 Cortellessa, Andrea 86 n Cortez, Hernán 31 Cortona, vedi Corito Cosa 23 n, 66, 109 e n, 152 n, 227, 229, 278 Cosenza 8 n Costanza 131 n, 132, 133 Costanzo Epenterio 173 e n Costanzo II, Flavio Giulio, imperatore 10 n Costanzo III, Flavio, imperatore 8 n, 9 n, 23, 27, 261, 272, 273, 302, 303

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Costanzo Gallo, Flavio Claudio Giulio 10 n Cotta Ramosino, Laura 120 n Cotta Ramosino, Luisa 120 n Courcelle, Pierre 284 Creta 277 Crino, Giovanni 18 n Crolli, Franco 104 Crotone 134 n Cuma 24 n, 225, 276 Cybulski, Zbigniew 113 n D’Amico, Giampaolo 116 D’Annunzio, Gabriele 41 n, 105, 109 e n Dallai, Luisa 110 Danae 282 Dante Alighieri 42 n, 97 n Danubio 282, 288 De Chirico, Giorgio 96 n, 130 n Decio, Gaio Messio Quinto Traiano 27, 249, 274, 293 Deregibus, Caterina 116 Dertona, vedi Tortona De Seta, Vittorio 114 n De Simone, Anna 51 n De Sisto, Jenny 143, 151 Del Corona, Annarosa 53 n Della Corte, Francesco 9 n Des Esseintes, Jean Floresses 27 Diana 94, 300 Di Pietro, Antonio 30 Di Cori, Ferruccio 114 n Didone 81 Di Francesco, Tommaso 29 Di Giuseppe, Riccardo 130 n Di Mario, Sandra 90 n Diomede 299 Dionisio 75 Dioscuri 26, 219, 271 Doblhofer, Ernst 24 n, 27 n, 265, 267, 268, 269, 274, 276, 279, 281, 282, 284, 286, 287, 288, 290, 291, 295, 296, 300 Dognini, Cristiano 120 n Domenici, Desirée 142 Donati, Donato 137 n Donati, Fulvia 289 Dossi, Carlo 63 n Drago, Luigi 96 Drusilla 279 Ducci, Silvia 99, 290 Dussol 98

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indice dei nomi

Eden 48 n, 89 Efira, vedi Corinto Egeo, mare 280 Elba, Isola d’ 73, 77 n, 124 n, 164 n, 231, 281 Elicona 225, 277 Elide 247, 292, 294 Eliot, Thomas Stearns 21 e n, 171 Ellekappa 95 n Emazia 277 Enea 42 n, 74, 77 n, 79, 80 e n, 81, 221, 268, 270, 273, 280, 291, 292 Eneadi 213, 281, 294 Eneo 294 Ennio, Quinto 300 Eolo 243 Epiro 270 Ercole 213, 227, 268, 295 Erifile 282 Esiodo 282 Esperia 219, 270 Esquilino 70 n, 72, 73, 74, 93 Esuperanzio 27, 74, 223, 274, 293 Etolia 294 Etruria 42 n, 247, 255, 266, 269, 288, 291, 292, 293 Etruschi 293 Eubea 276 Eucherio 297 Eufrate 31 Erimanto 295 Euristeo 295 Euro 245, 290 Europa 277 Europa, continente 82, 150 Fabbri, Michele 104 Fabrizio Luscino, Gaio 245, 291 Faleria, vedi Falesia Falesia 10, 26, 28, 66, 73, 110 n, 123 e n, 124 n, 125, 136, 150 n, 233, 281, 283 Fanelli, Luigi 97 e n Faragona, Anna 142 Faro 235, 284 Fauno 223, 275, 276 Febo 39, 42 n, 213, 233, 241, 267, 268, 282, 299, 300 Felizzano 171 Fellini, Federico 114 n, 120, 121 e n, 130 n, 133 n Fenicia 272, 277 Fenicio 70 n, 72, 73, 74, 80

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Ferrari, Mirella 9 n, 10 n, 173 n, 300, 301, 302 Ferrarotti, Franco 114 n Ferrero, Piero 114 n Ferrotti, Francesco 142, 152 n Ferzetti, Fabio 120 n Fiesole 8 n Filippetto, Pierre 117 Filippo di Macedonia 282 Filita 72 Filocalo 283 Fiorentini, Fiorenzo 114 n Fine 287 Fiumicino 119 n, 273 Flaminia, via 247, 293 Flavio Augusto Musandro, vedi Musandro Flavio Costanzo, vedi Costanzo III Flavio Giuseppe 105, 108 Fo, Alessandro 8 n, 9 n, 10 n, 11 n, 19 n, 24 e n, 27 n, 35 n, 36 n, 38 n, 59 n, 65 n, 71 n, 75 n, 78 n, 79 n, 86 n, 89, 105, 109 n, 117 n, 132 n, 137 n, 146 n, 164 n, 165 n, 166 n, 206, 265, 266, 267, 269, 270, 271, 272 273, 274, 277, 278, 280, 281, 283, 284, 285, 287, 288, 290, 292, 294, 295, 296, 298, 301, 302 Fontana, Flavio, vedi Musandro Forche Caudine 269, 270 Foresti, Tiziana 104 Fornacette 290 Fornari, Sonia 35 n, 37 n, 104 n Fortini, Franco 29 Frassinetti, Paolo 41 n, 301 Frigido 96 Frontone, Marco Cornelio 70 n, 134 n Frost, Robert 112 Fubini, Mario 97 n Fukujama, Francis 116 n Fulgenzio 71 e n, 72, 73, 75, 80 n Furio 84 e n, 88, 89 Furio Veriniano 116, 122, 123, 124, 129 Fusca 70 e n, 71, 72, 73, 75, 77 n, 78 e n, 80 n, 82 Gaarder, Jostein 76 e n Gabriele, Miro 162 e n Gadda, Carlo Emilio 85 n Gaio Flaminio Nepote 293 Galbulo 101 n Galimberti, Umberto 147 n Galla Costanza (o Costantina?) 10 n

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Galla Placidia, Elia 75 n, 76 e n, 303 Galla Rufa 72, 74, 75 e n, 77 n, 81 Gallia 8 e n, 22, 36, 72, 74, 79, 86, 93, 100, 106, 122 (Gallie), 209, 223, 245, 265, 274, 279 (Gallie), 281, 282, 290, 297 Gallieno, Publio Licinio Egnazio, imperatore 96 Galli Senoni 269 Gallo, vedi Costanzo Gallo Gambarotta, Bruno 114 n Gange 156 Garonna 282 Gazzolo, Virginio 103 n, 105 Gellio, vedi Aulo Gellio Gelsomino, Remo 265 Gemona 50 n Gennadio 125 n Genova 11, 36, 41, 42 n, 171, 172, 174 n, 266, 301 Genovesi, Stefano 290 Genua, vedi Genova Gerauch, Stephan 83 e n Germani 127 n, 129 Gerusalemme 284 Gesù 121 n, 153 n Geti 67 Geymonat, Mario 54 n Giannotti, Agostina 11 n Giannotti, Filomena 19 n, 25 n, 33 n, 76 n, 92 n, 167 n, 168 n, 170 n Giano 113 n, 269 Gibson, Mel 121 n Giganti 215, 269 Giglio, Isola del 66, 149 n, 231, 280 Ginzburg, Natalia 169 n Giorgi, Elisabetta 110 Giove 94, 266, 270, 277, 282, 286, 294, 295, 298 Giovenale, Decimo Giunio 103, 104, 249, 278, 284, 293 Giovino, imperatore 74, 79, 279 Girolamo, San 19 e n, 105, 108 Giudea 235 Giudei 26 e n, 105, 108, 123 n Giuffrè, Maria Teresa 92 e n Giulia 125 Giuliano, Flavio Claudio, detto l’Apostata, imperatore 80, 128 e n, 130 n Giulio Cesare, Gaio 170 Giuliodori, Eleonora 142, 150 n Giunio Bruto, Lucio 277 Giuseppa 153 n Giuseppe Flavio, vedi Flavio Giuseppe

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Giusti, Folco 63, 98 e n, 100 n, 101 n, 136 n, 137 n Glauco (due omonimi) 286 Gnemmi, Giacomo 142 Go Daigo 136 n Gorgona 11, 26, 66, 73, 74, 80 n, 101 n, 136 n, 154, 155, 243, 285, 289 Goti, vedi Visigoti Göttingen 83 Gourevich Calza, Raissa 96 n Graecia, vedi Grecia Gravagnuolo, Bruno 120 n Gravina, Francesco 162 e n Gravisca 23 n, 66, 136 n, 155, 227, 278 Graviscae, vedi Gravisca Grazzi, Paolo 110 Grazzini, Nicoletta 105 Greci 225, 270, 280 Grecia 40 n, 215, 277, 284, 299 Greco, Federica 142 Greta 156 Grigori 85 Grilli, Giovanna 142, 154 Grosseto 54 n, 103, 104, 105 Grossi, Proferio 13 n Guadalquivir 282 Guastella, Gianni 165 n Guido da Pisa 290 Guiducci, Armanda 76 e n Guillaumin, Jean-Yves 26 n, 284 Haasse, Hella S. 26 n, 33 n, 76 n Hardy, Thomas 139 n, 159 e n, 160, 161 n, 162, 171 Hauser, Arnold 45 n Hegel, Georg Wilhelm Friedrich 130 n Hemingway, Ernest 129 n Heinsius, Daniel 290 Herlitzka, Roberto 116, 119 e n, 130 e n, 131 n, 132 e n, 133 n Huysmans, Joris-Karl 27 e n Iadi, costellazione 9 n, 251, 295 Ilia 268 Illirico 297 Imarisio, Eligio 41 n Indovina, Lorenzo 114 n Ingravallo, Francesco 85 n Insula Liguriae, vedi Bergeggi Inter 43, 44 n Io 294 Iobate 286 Ionio, mare 292

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indice dei nomi

Ipazia 19, 76, 139, 167, 168 e n, 171 e n Ippocrene 277 Ippoloco 286 Ippona 117, 118 Irak 31 Iride 215, 269 Irzio, Aulo 279 Isaakovna, Sara 170 Isandro 286 Ischia di Castro 172 Isella, Dante 63 n, 86 n Iside 116, 121 n, 127 n, 283 Istanbul 95 n, 154 Itaca 273, 274 Italia 7, 8 n, 11, 14, 30, 36, 38, 40, 41, 51, 87, 110, 114 n, 117, 151, 253, 281, 293, 294, 296 Ivrea 15 n, 114 n Jacovino, Nicodemo 116 Jacquemard-Le Saos, Catherine 11 n Jago 155, 156 Jannacci, Enzo 84 n Jone 139 Kalì 156 Kavafis, Costantinos 15, 137 n Keene, Charles Haines 290 Klebs, Elimar 291 Klos, Romuald Andrzej 116, 119 e n Kyo¯to 137 n Kyrnos, vedi Corsica La Penna, Antonio 72 Lacanio 27, 66, 80 n, 102, 247, 274, 292, 293 Lagani, Vittorio 117 Lampadio, Vettio Agorio 116, 119, 123 e n, 124, 129 Lana, Italo 9 n, 11 n, 64, 75 n, 79 n, 97, 116 n, 267, 272, 274, 275, 276, 279, 283, 290, 291, 294, 295, 301, 302, 303 La Napoule 301 Laodamia 286 Lapardhaja, Xjlda 116 Larbaud, Valery 19 e n Lari 241 La Spezia 41, 42 n Latino 292 Laurento 247, 292 Lauricella, Giuseppe 29 n Lavinia 292

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Lavinio 276, 292 Lazio 66, 126, 209, 219, 229, 255, 276 Lefler, Doug 25 n Lelio 93, 94 Leopardi, Giacomo 24 n Lepidi/Lepido vedi Marco Emilio Lepido Lepore, Tatiana 114 n Lepre, costellazione 9 n, 251, 295 Lesbia 14 Lestrigoni 283 Lévy-Bruhl, Lucien 48 n Li Causi, Pietro 9 n, 81 n Libeccio 295 Liberio 10 n Libia 39, 213, 268 Licia 116, 125 n Lidia 247, 286 Liguria 36, 42, 172, 259, 302 Linceo 249, 294 Lisbona 150 Livilla, Giulia 279 Livio, Tito 276 Livorno 32, 35, 53 n, 165 n, 166, 290 Loira 282 Lorenzetti, Ambrogio 111 n Lorimer, Paolo 116 Lucano, Marco Anneo 131 n, 296 Luciano di Samosata 70 n Lucillo 27, 30, 249, 274, 293 Lucio Vero (Lucio Ceionio Commodo Vero), imperatore 70 n Lucrezio Caro, Tito 268 Luna, vedi Luni Luni 10, 28, 41 e n, 42 n, 67, 73, 109, 118, 124, 127, 132 n, 138 n, 139 n, 296, 300, 301 Lunigiana 300 Lupo 116, 119 n, 121 n, 123 e n, 124 Luzi, Mario 19, 76 e n, 139 e n, 167 e n, 168 e n, 171 e n Macchi, Lamberto 117, 119 n Macedoni 215, 268 Macedonia 277, 282 Mack, Heinz 110 n Macrobio, Ambrogio Teodosio 269 Magistrelli, Matteo 142, 154 Magonza 279 Magra 42 n Magrelli, Valerio 105, 108 e n Mahler, Gustav 105 Malipiero, Gianfrancesco 13 n Mandel’štam, Nadežda Jakovlevna 111

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Manfredi, Valerio Massimo 25 Manhattan 149 Manziana 86 n Marcel, Jean 168 n Marcellino 27, 259, 301, 302, 303 Marcellino, vedi Ammiano Marche 152 Marcheselli, Tiziano 13 n Marcia 70 n, 72, 73, 74, 75, 78 n, 81 Marco Aurelio Antonino Augusto, Cesare, imperatore 19 e n, 31 n, 70 n, 92 e n, 134 n, 170 e n Marco Emilio Lepido (quattro omonimi) 27 e n, 79, 229, 278, 278, 279, 297 Marco Marcello 136 n Marcomeni, Susanna 114 n Maremma 103 Marescotti, Ivano 114 n Marina di Cecina 164 n Marina di Grosseto 164 e n Marina di Pisa 165 n Marini, Giuseppe 105 Marino, Giambattista 13 n Marinozzi, Elisa 142 Marrou, Henri-Irénée 116 n Marte 26, 42 n, 94, 118, 213, 233, 268, 282 Marzo, Celestino 35, 36 n Mason, James 113 n Massarini, Carlo 114 n Massiliano 70 n Massimiano, personaggio 116, 124 Massimiano, poeta 105, 108, 109 n Massimo 117, 118 Mastrocola, Paola 63, 82, 83 e n, 84 n Matozzi, Giuliano 104 Matteotti, Giacomo 109 n Maurenbrecher, Bertold 295 Mazza, Enzo 14 n Mazzanti, Renzo 290 Mazzolai, Aldo 103, 104, 106, 109 n, 301 Mba, Jennifer 143, 146 Mecenate, Gaio Cilnio 71 n, 93, 113 n, 279 Medi 215, 268 Mediolanum, vedi Milano Mediterraneo 273, 283 Megara 299 · Mejerchòl’d, Vsevolod Emil’evic 13 n Meleagro 249, 294, 299 Melelli, Fabio 120 n Menalo 223, 276

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Menchelli, Simonetta 287, 290 Meneguzzo, Marco 110 n Messale, Diego 142, 152 n Messalla, Rufio Valerio 27, 227, 277 Miari, Lodovico 104 Micocci, Cesare 118 n, 165 n, 166, 167 Migliaccio, Riccardo 163 Migliori, Pietro 142, 150 Mignone 66, 227, 278 Milano 259, 290, 302 Milesio 117, 118 Minardi, Gian Paolo 13 n Minerva 268, 274 Minervio 68, 116, 119, 122, 123 e n, 124, 127, 129, 136, 138 n, 139 n, 141, 142, 143, 144, 146, 148 Minosse 299 Minucio Felice, Marco 65, 105 n, 108 Miracco, F. 120 n Miseria, Laura 142, 148, 152 n Modena 229, 279 Moire, vedi Parche Mojoli 98 Momigliano, Arnaldo 25 n, 33 Moneglia 173 Monica, Santa 96, 97 n, 108 Monilia, vedi Moneglia Montale, Eugenio 20 n, 113 e n Montenero 35 Montesano, Luigi 117 Montesano, Mauro 117 Montini, Franco 30, 115 e n, 116 n, 118 n, 119 n, 121 n, 126 Moratti, Massimo 43 Moretti, Mario 172 Moretti, Nanni 108 e n Mosca, Annapaola 273, 275, 276, 278, 280, 283, 285, 287, 290 Mosca, Fabrizio 117 Munio, vedi Mignone Musandro 43, 44 n Muse 227, 277, 293 Musolino, Roberto 116 Naevia Galla 75 n Namaziano, vedi Rutilio Namaziano Narbona 102 Narsete 96 Nasdaq 88 Natale, Dario 116 Neapolis, vedi Noli Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico, imperatore 94, 257, 300 Nesi, Nadia 104, 105

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indice dei nomi

Nettuno 261, 302, 303 Newman, Paul 113 n Niccolini, Lucilla 143 Nicotra-D’Urso, Edoardo 46 n Nietzsche, Friedrich Wilhelm 146 Nilo 219 Nimis 116, 121 n, 125 n Niso 257, 299, 300 Noli 36 e n Norico 231, 282 Normandia 169 n, 274 Normanno 44, 45 e n, 46 n, 47 n, 48 n, 49 e n Noto 249, 294 Nupiano 73 Oceano 28, 39, 213, 241, 251, 267, 288, 295, 296 Odisseo, vedi Ulisse Offagna 152 n Olimpia 292 Olimpo 269, 277 Ombrone 10, 28, 66, 73, 81, 111 n, 123, 124 n, 150 n, 162, 231, 280, 281, 283 Omero 221, 237, 278, 286, 289 Onorato, Marco 117, 120 n Onorio, Flavio, imperatore 8 n, 75, 79, 122 e n, 279, 297, 303 Oppes, Giuliano 116 Oppido, Vincenzo 117 Orazio Flacco, Quinto 10 n, 18, 19 e n, 91 n, 103, 104, 112, 113, 268, 281, 285, 288 Orbetello 109 n, 278 Orco 14 n Orione, costellazione 9 n, 251, 295 Orosio 99 Orsa, costellazione 39, 213, 268, 297 Ortonovo 42 n Osiride 9 n, 11, 26, 66, 68, 125, 143, 233, 283 Osiris, vedi Osiride Ostia 64, 96 e n, 97 e n, 105 n, 108 e n, 109 n, 122, 125 n, 126, 127 n, 129, 132 n, 164 Oteri, Alessia 109 n Ottaviano Augusto, Gaio Giulio Cesare, imperatore 170, 279, 299 Ovidio Nasone, Publio 9 n, 10 n, 19 e n, 79, 103, 104, 113 e n, 123 n, 265, 266, 267, 269, 274, 283, 288, 300

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Paci, Rosanna 143 Pacotto, Emanuela 117 Pagli, Paolo 137 n Paglieri, Sergio 171, 172 e n, 173 e n, 174 Palanque, Jean-Rémi 8 n Palermo 171 n Palladio 27, 64, 65, 72, 73, 74, 75, 80 n, 116, 122, 127 n, 129, 136 n, 223, 274, 293 Palmieri, Antonio 117 Palmieri, Carmine 117 Palmira 32 Palo 23 n, 223, 275 Pan 223, 275, 276 Panezio di Rodi 266 Pansa, Gaio Vibio 279 Paolini, Marco 170 n Paolo, San 284 Paradisi, Patrizia 40 n, 54 n Paratore, Ettore 45 n, 291 Parche 299, 300 Parma 13 e n, 114 Parri, Mario Graziano 162 e n Parti 127 n, 215, 268, 269 Paschoud, François 9 n Pascoli, Giovanni 24, 37, 39, 40 e n, 41 Pasetti, Lucia 43 n Pasolini, Pier Paolo 7, 108 n Pasquinucci, Marinella 287, 290, 291 Pasternàk, Borìs 13 n, 18, 20, 170 Pater, Walter 134 n Patera, Anna 110 n Patrizi, Giorgio 86 n Pavia 297 Pedrewcky, Jan 82, 83, Pegaso 277, 286 Pelizzon, Alessandro 114 n Peloponneso 292, 295 Penati 247 Peone 213, 268 Pergamo 302 Perilli, Plinio 47 n Perkins, Anthony 113 e n Persepoli 32 Persiani 127 n Persio, Aulo Flacco 285 Pess, Alessandro 116 Pest 128 n Petrarca, Francesco 300 Petrocchi, Chiara 142, 149 n Petronio Arbitro 130 n Philipp, Hans 42 n Picone, Giusto 165 n

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Piene, Otto 110 n Pieri, Marzio 13 e n, 14, 111 Pieria 277 Pieridi, vedi Muse Pierini, Marco 110 Pietra Ligure 88 Pigmei 227, 278 Pignocchi, Giulia 143, 149 n Pinat, Eleonora 142, 150 Pineta del Tombolo 280 Pinzuti, Marina 117 Piombino 110, 164 n, 283, 284 Pirgi 223 Piro 122 n Pirro 118, 127 n, 217, 270, 291 Pisa 27, 35, 66, 73, 74, 80 n, 124, 152 n, 155, 164, 165 n, 166, 243, 245, 247, 249, 253, 266, 290, 291, 292, 294 Pisani 247 Pisini, Mauro 54 e n, 55 e n, 56 n, 57 e n, 59 e n, 60, 62 e n Piva, Giacomo 143, 147, 148 Pizarro, Francisco 31 Platone 131 n Pleiadi, costellazione 9 n, 221, 273 Plinio Cecilio Secondo, Gaio, detto ‘il giovane’ 131 n Plinio Cecilio Secondo, Gaio, detto ‘il vecchio’ 42 n, 278, 286, 291, 296 Poggi, Pier Francesco 116 Poggiali, Vivalda 142 Pola 151 Polacco, Cesare 114 n Polibio 269 Pollenza 8 n Polluce, vedi Dioscuri Pompeo 235, 279, 284 Ponti, Antonio Carlo 28 n Pontiggia, Giancarlo 43 n Ponto Eusino 287 Populonia 10, 24 n, 41, 66, 70  n, 73, 78  n, 101 n, 109, 110 n, 124 n, 134 n, 146 e n, 235, 284, 285 Porchetti, Giorgia 114 n Porsenna 118 Porto Clementino 278 Porto di Roma (a Fiumicino) 9 e n, 10, 24, 27, 65, 97, 110 n, 125 n, 136, 148 n, 162, 163, 164 e n, 273, 275 Porto Ercole 10, 23 n, 66, 67, 68, 70 n, 73, 79, 103, 104, 106, 109, 123, 128 n, 129 e n, 227, 278, 279, 280 Portoferraio 32, 130 n, 164 n

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Porto Pisano 10, 28, 34, 35, 66, 73, 289, 290, 296 Porto Santo Stefano 280 Portus Augusti, vedi Porto di Roma Portus Delphini 301 Portus Herculis o Portus Cosanus, vedi Porto Ercole Portus Pisanus, vedi Porto Pisano Posani, Giampiero 27 n Poseidone 286 Posidonio d’Apamea 266 Postacchini, Olimpia 143, 152 n Pozzato, Sara 162 n Pound, Ezra 42 e n, 43 n, 86 n Powell, William 113 n Pretestato, Vettio Agorio 33 n, 123 n Preto 286 Privitera, Tiziana 23 n, 59 n, 273, 274, 278, 291 Proculo 96 Prometeo 53 e n Properzio, Sesto Aurelio 19 e n, 113 e n, 281 Proserpina 44 n Protadio 7, 27, 66, 68 n, 73, 116, 119, 124, 125 e n, 126, 129 e n, 130 e n, 131 e n, 132 e n, 133 e n, 134 n, 141, 142, 146, 245, 290, 291 Proust, Marcel 169 e n, 171 Provenza 7, 8 n, 36, 266 Psello, Michele 137 n Punici 221, 272 Punta Ala 164 n Pyrgi, vedi Santa Severa Quérard, Joseph-Marie 35 n Quercianella 165 n Quintiliano, Marco Fabio 296 Quintilio Varo, Publio 91 n Quirinale 38 Quirino 219, 271 Rabitti, Matilde 85 n Radagaiso 8 n Radif, Lodovica 120 n Ramous, Mario 268 Ratti, Stephane 26 n Ravenna 8 n, 75, 119 n, 124, 129, 131 n, 138 n Razzio 136 n Read, Herbert 45 n Rechn, Günther 53 n Recora 82 e n Reggio Emilia 13 n

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indice dei nomi

Remo 268 Reno 219 Revers, Wilhelm Joseph 45 n Ricci, Alessandro 7, 29, 32, 63, 64, 68 n, 83, 103, 114 n, 116 n, 117 e n, 118 n, 120 n, 121, 122 n, 123 n, 124 n, 128 n, 129 n, 130 n, 133 n, 134, 136 n, 138 n, 141 Ricimero 100 Riesman, David 45 n Rigost 83 n Rimini 293 Riparbelli, Alberto 100 Ripellino, Angelo Maria 13 n Roberts, Michael 267 Roccatagliata, Lazzaro 42 n Roccatagliata Ceccardi, Ceccardo 41 e n, 42 n, 43 Rodighiero, Andrea 43 n Roma 7, 8 e n, 9 n, 10 n, 11, 20, 23, 24, 25, 26, 30, 31 e n, 32, 33 n, 36, 37, 38 e n, 39, 40 e n, 41 e n, 42 e n, 45 n, 48 n, 52, 54 n, 56 n, 57 n, 58 e n, 60, 65, 69 e n, 71, 72, 73, 74, 76, 77 n, 78 e n, 80 n, 82, 86 e n, 90 n, 91 n, 93, 94, 95, 100, 101 n, 102, 105, 106, 107, 111 n, 113 n, 114 n, 115 e n, 116 e  n, 117 n, 118, 120 n, 122 e n, 125 n, 127 n, 128 n, 130, 133 n, 134 n, 135, 145, 150, 151, 155, 175, 209, 211, 213, 217, 219, 221, 223, 229, 235, 239, 245, 255, 265, 266, 267, 268, 269, 270, 271, 273, 274, 275, 277, 279, 280, 281, 290, 292, 293, 296, 298, 299, 300 Romano, Luigi, vedi Normanno Romano, Michele 117 Romani 23, 209, 231, 266, 269, 275, 281, 284 Romania 151 Romolo 42 n, 268, 271 Romolo Augusto, Flavio, detto Romolo Augustolo, imperatore 25 Romulidi 213 Ronchey, Alberto 34 Ronconi, Alessandro 131 n Rondi, Gian Luigi 120 n Rosati, Valentina 140 n, 141, 142, 143 n Roselle 103 e n, 104, 106 Rosignano-Solvay 165 n, 167, 287 Rosselli, Giacomo 109 n Rossellini, Roberto 114 n, 117, 126 Rostagni, Augusto 76 n

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Rufio Valerio Messalla, vedi Messalla Rufio Volusiano (Rufio Antonio Agryp­nio Volusiano) 9 n, 27 e n, 36 n, 64, 65, 66, 72, 73, 77 n, 101 n, 116, 117 e n, 118, 122, 127 n, 136 n, 219, 235, 271, 272, 273, 274, 277, 284, 285, 287, 288, 293 Rufo 96 Rutilio Namaziano, Claudio 7, 8 e n, 9, 10  e n, 11 e n, 12, 13, 14, 16 e n, 19, 20, 21, 22, 23 e n, 24 e n, 25, 26 e n, 27 e n, 28, 29 e n, 30, 32, 33 e n, 34, 35 e n, 36 e n, 38 n, 40 e n, 41 e n, 42 e n, 43 e n, 44 e n, 45, 46 n, 47, 48 e n, 49, 50, 51, 52, 53 e n, 54, 55, 56 n, 57, 58 e n, 59, 60 e n, 61, 63, 64, 65, 66, 67, 68 e n, 69 e n, 70 e n, 71 e n, 72, 73, 74, 75 e n, 76 n, 77 e n, 78 e n, 79, 80 e n, 81, 82, 83, 84, 85 e n, 86 e n, 87, 88, 89, 90, 92, 93, 94, 96, 97, 98, 99, 100, 101 e n, 102, 103, 104, 105 e n, 106, 107, 108, 109 e n, 110 e n, 111, 114, 115, 116 e n, 117 e n, 118, 119 e n, 120 n, 121, 122, 123 e n, 124 e n, 125 e n, 126, 127 e n, 128 e n, 129 e n, 130, 131 n, 132 e n, 133 e n, 134 n, 135 e n, 136 e n, 137 e n, 138 e n, 139 n, 140 e n, 141, 142, 143 e n, 144, 145, 146 e n, 147, 148 e n, 149 e n, 150 n, 152 e n, 153 e n, 154, 155, 157, 158, 159, 162, 163, 164 e n, 165, 166, 171, 172, 173, 174 e n, 265, 266, 267, 268, 269, 270, 271, 272, 273, 274, 275, 276, 277, 278, 279, 280, 281, 282, 283, 284, 285, 286, 287, 288, 289, 290, 291, 292, 293, 294, 295, 296, 297, 298, 299, 300, 301, 302, 303 Rutilio Probo, Rufio 100, 101 Rutuli 219, 271 Saba, Umberto 51, 52, 133 Sabina 125 e n, 131 n Sabina, area geografica 77 n Sabini 269 Salinari, Giambattista 97 n Sallustio Crispo, Gaio 285 Salustio, Saturnino Secondo 130 n Salvia, Beppe 130 n Sannazaro, Jacopo 24 n Sanniti 217, 269, 291 Santa Maria Assunta 98, 100 n

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rutilio namaziano

Santa Marinella 275 Santa Severa 23 n, 275 Sant’Aurea 96 Sant’Evaldo 83 n Santini, Carlo 42 n San Vincenzino 289 San Vincenzo 164 n Sardegna 229, 233, 279 Sarzana 300 Savini, Chiara 54, 58 n Sbarbaro, Camillo 18 Scapecchi, Nicola 55 n, 56 n, 57 n, 59 n Schiavone, Roberto 117 Schilton, Elia Mario 64, 115, 116, 119 e n, 140 Scilla 299 Scotto, Fabio 123 n Scrilli, Angela 104 Sebastiani, Carlo 117 Sebastiani, Francesca 104 Segesta Tigulliorum, vedi Sestri Levante Seneca, Lucio Anneo 130 e n, 131 e n, 297 Serapide 65 Serchio 245, 292 Serena 33 n, 76 n, 297 Sereno 116, 125 n, 129 Serpente, Gabriele 143, 144, 150 Serrano 245, 291 Servio Mario Onorato 276 Sesti, Daniele 120 n Sestieri, Alessandro 116 Sestri Levante 89, 173, 301 Seveso 43 Sforza, Carlo 41 Sgarbi, Roberto 117 Shakespeare, William 13 Shikoku 136 n Shiva 156 Sibilla 80 n, 257 Sicania 255, 297 Sicani 297 Sicilia, vedi Sicania Siena 33 n, 90 n, 96 n, 98, 105, 109, 110 e n, 111 n, 120 e n, 143, 171 Silla, Lucio Cornelio 279 Silvestri, Roberto 120 n Simmaco, Quinto Aurelio 33 n, 107, 277, 290 Simplegadi 239, 287 Sinesio di Cirene 19, 76, 139, 167 e n, 168 e n Siria 268

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Sirio 239 Sisifo 286 Sisto 153 n Skutsch, Otto 300 Slovenia 151 Socrate 131 n Soler, Joëlle 9 n, 11 n, 80 n, 270, 272, 280, 281, 296 Solino, Gaio Giulio 270 Sovana 109 n Spadaro, Claudio 116 Spagna 7, 8 n, 152 n Spagne, vedi Spagna Spagnuolo, Peter 36 n Sprott, Walter John Herbert 45 n Squillante, Marisa 9 n, 10 n, 24 n, 146 n, 265, 274 Stalin 170 Stampacchia, Giulia 24 n Stazio, Publio Papinio 300, 302 Stecconi, Adriana 140 e n, 142, 143 n, 146 n, 147 Stecconi, Riccardo 140 n Stein, Ernst 8 n Stella, Maria 139 n Stiavetti, Piero 289 Stige 300 Stige, ninfa 148 Stilicone, Flavio 8 n, 27 e n, 73, 76 n, 255, 257, 297, 298, 299 Stiria 282 Storoni Mazzolani, Lidia 128 n Strabone 42 n, 290 Streben 83 Svetonio Tranquillo, Gaio 113 n Svevi 8 n, 297 Svitiglio 86, 87, 88 Svizzeretto, Stefania 117, 120 n Tabucchi, Antonio 30 Tacito, Publio Cornelio 131 e n Tago 233, 282 Tandoi, Vincenzo 301 Tarcisius 173 Tarpea, rupe 215, 269 Tarquinio Collatino, Lucio 277 Tarquinio, Lucio detto il Superbo 298 Tarquinio Prisco, Lucio 298 Tarsi, Fiorenzo 105 Tarsi, Francesco 68 n, 103, 104, 105, 106, 107, 108, 109 e n Tartaro 257, 300 Tartesso 282 Tasso, Torquato 13 n

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indice dei nomi

Tausani, Giorgio 105 Tebe 261, 302 Telegrafo, monte 280 Teocrito 17 Teodosio I, Flavio, imperatore 95, 297 Terme del Toro 23 n, 65, 68, 70 n, 73, 74, 122 e n, 134 n, 225, 276, 277 Tescari, Onorato 40 n Tesio, Giovanni 50 n, 53 n Tetide 253, 296 Tevere 56 n, 61, 80 n, 82, 94, 108 n, 219, 221, 269, 270, 273 Tex 13 n Theòn 138 n Thermae Taurinae, vedi Terme del Toro Tiberio Giulio Cesare Augusto, imperatore 170 Tigri 31, 268 Tinguely, Jean 110 n Tirii 221 Tiro 272 Tissol, Garth 9 n Tito (Tito Flavio Vespasiano), imperatore 235, 284 Tito Tazio 269 Tittarelli, Marco 143, 152 n Tolosa 8 n, 66, 241, 265, 288, 289 Tomi 267 Tommaso 101 n Torino 83 e n, 114 n, 300 Torre Chiaruccia 275 Torrente, Gaspare 83, 84 e n, 85, 87, 88, 89 Tortona 172, 173 Tosa 137 n Toscana 162, 163, 165 n, 169 n, 266 Tosi, Marco 117 Tozzi, Federigo 40 n Tozzi, Glauco 40 n Tracia 266 Tramonti 118 n Trasillo 96 Traiano, Marco Ulpio Nerva, imperatore 9 n, 65, 164 Traina, Alfonso 54 n Trasea Peto, Publio Clodio 131 e n Tricesimo 50 n Trieste 44 n Trinch, Arturo 34, 35 n Trittolemo 268 Triturrita, vedi Villa Triturrita Troia 80 n, 247, 261, 280, 281, 298, 299, 302 Troiani 281, 292

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Trombadori, Antonello 114 n Troncarelli, Fabio 86 n Tronti, Mario 120 n Tsurayuki, Ki no 136 n Tule 241, 288 Turco, Giovanni 117 Turno 249, 293 Tuscia 241, 247 Tuscii 247, 266, 293 Uecker, Günther 110 n, 111 n Ulisse 52, 273, 283, 289, 297, 298, 299 Umbria 245, 290, 293 Urbe, vedi Roma Vada 10, 28, 66, 73, 119 n, 123 n, 124 e n, 163 n, 164 n, 165 n, 239, 285, 287, 289, 290 Vada Sabatia, vedi Vado Ligure Vada Volaterrana, vedi Vada Vado del Porto 98 Vado Ligure 36, 301 Vahlen, Johannes 300 Valdarena, Giuliano 85 n Valdarena, Romolo 85 n Valdarena, Rutilio 85 n Valentini, Patrizia 105 Valentini, Petra 142, 152 n, 158 Valerio Massimo 291 Valerio Publicola, Publio 227, 277 Valerio Vulpio 72 Valgimigli, Manara 97 n Vallia, 8 n Vandali 8 n, 36, 297 Varisco, Grazia 110 n Varrone, Marco Terenzio 269, 270 Vassalli, Sebastiano 71 n Vaticano 38 Veblen, Thorstein 45 n Vecce, Carlo 24 n Vela, Claudio 36 n Venere 26, 42 n, 81, 98, 118, 213, 219, 268, 271, 285 Ventimiglia 172 Ventura, Elisabetta 109 n Verbaal, Wim 26 n Vercercus 173 Verdecchi, Alessandro 117, 119 n, 121 n, 174, 175 Verdi, Giuseppe 13 n, 114 n Verdone, Carlo 84 n Verga, Giovanni 13 n Vernio 101 n Verona 8 n, 297

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rutilio namaziano

Vespasiano (Tito Flavio Vespasiano), imperatore 170 Vettori, Francesca 114 n Vidal, Gore 76 e n Vignali, Simona 136 n Vigo, Nanda 110 n Villa Triturrita 10, 28, 66, 73, 134 n, 243, 249, 289, 290, 294 Villemain, Pierre 76 e n Virgilio Marone, Publio 62 e n, 71 n, 74, 79, 80 n, 81, 86 n, 113 e n, 219, 268, 270, 271, 272, 273, 275, 276, 280, 281, 285, 291, 292, 294, 297, 300, 302 Visentin, Giovanni 116, 119 Visigoti 7, 8 n, 9 n, 31, 36, 69, 74, 77 e n, 78 n, 115 e n, 123 e n, 127 n, 128 n, 129 n, 211, 219, 231, 255, 267, 269, 270, 279, 281, 297 Viterbo 123 n Vittorino di Tolosa 8 n, 27, 28, 66, 68 n, 73, 74, 75, 76, 80 e  n, 116, 124, 129, 136 n, 241, 285, 288, 289, 290, 291, 302

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Volpi, Franco 147 n Voltaire 91 n Volterra 110 n, 239 Volusiano, vedi Rufio Volusiano Voluso 219, 271 Vulci 172 Wajskol, Adriano 116, 119 Wenders, Wim 161 e n, 171 Wentkowska, Anna 285 Wiese, Stephan von 110 n Wolff, Étienne 8 n, 9 n, 10 n, 11 n, 24 n, 35 n, 59 n, 273, 275, 276, 277, 278, 280, 281, 283, 285, 291, 294, 295 Yeats, William Butler 112 Zanelli, Dario 121 n Zanini, Enrico 109, 110 e n Zehnacker, Hubert 296 Zeus, vedi Giove Zoboli, Paolo 42 n

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INDEX NOMINUM a cura di Anna Dori

Aeneadae I 68 Aeneas I 182 Aeolius I 636 Africa I 147 Africus I 631 Agenoreus I 261 Agylla I 226 Albinus I 168, 466 Alcides I 76 Allia I 125 Alpes II 36 Alpheus I 565 Alsius I 223 Althaea II 53 Amphionius frg. B, 4 Amphitryoniades I 628 Antiphates I 382 Appenninus II 15, 33 Aquilo I 429 Arctous II 36 Aremoricus I 213 Argentarius I 315 Argus I 611 Arnus I 566, 570 Assyrius I 83 Aurelius I 39 Aurora I 511 Ausur I 566 Bacchus frg. A, 9 Bellerophontheus I 450 Biturix I 353 Boreas I 399

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Brennus I 125 Briareius I 613 Britannus I 500 Caeretanus I 225 Caesareus I 305 Camenae I 603 Canis I 638 Capraria I 439 Castor I 155 Castrum I 227, 232 Catulus I 298 Centumcellae I 237 Ceres frg. A, 2 Chalybes I 351 Chelae I 184 Cincinnatus I 556 Circaeus I 525 Circenses I 201 Constantius frg. B, 7 Corsa I 438 Corsica I 431 Corus I 463 Corythus I 600 Cosa I 286, 297 Curia I 13 Cyrnaeus I 437 Cyrnaicus I 516 Cytherea I 156 Dalmaticus II 29 Decius I 599

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320 Elis I 573 Eous I 430; II 20 Ephyreius I 319 Etruria I 573 Etruscus II, 30 Euboicus I 247 Eurus I 541 Exuperantius I 213 Fabricius I 558 Falesia I 371 Faunus I 234 Flaminia I 493 Furiae I 521 Gallia I 549 Galli I 209 Gallicus I 20 Getae I 142, 336 Geticus I 40; II 51 Giganteus I 100 Gorgon I 515 Graecia I 100 Graius I 263, 441 Graviscae I 281 Hadriacus II, 24 Hannibal I 128 Harpyae I 608, 609 Helicon I 264 Hercules I 293 Hesperius I 150 Hister I 485 Homerus I 195, 449 Hyas I 633 Igilium I 325 Ilva I 351 Inuus I 232 Ionius I 320 Iris I 98 Isthmos I 319 Italia II 17 Iudaea I 395 Iudaeus I 383 Iuvenalis I 604 Lachanius I 595 Lares I 290 Latius I 12, 149, 311; II 33, 46 Laurentini I 572 Lepidus I 296, 299, 312 Lepus I 634 Libye I 59

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rutilio namaziano Ligures II 22 Ligusticus frg. A, 5 Lucillus I 599, 613 Lydia I 596 Lynceus I, 611 Macetae I 85 Maenala I 233 Marcellinus frg. A, 11 Maro I 170 Mars I 67, 301, 365 Martius frg. B, 12 Medi I 84 Meleagreus I 627 Messala I 268 Munio I 279 Musae I 266 Mutinensis I 301 Neptunius frg. B, 5 Nero II 57 Nilus I 145 Nisaeus II 54 Noricus I 352 Notus I 616; frg. A, 4 Oceanus I 56, 499, 641 Orion I 637 Osiris I 375 Paeonius I 75 Palladius I 208 Pan I 233 Parthi I 85 Penates I 423, 571 Phoebus I 57, 184, 372, 483; II 28 Pierius I 276 Pisae I 532, 560, 573 Pisaeus I 615 Pisani I 576 Pisanus I 516; II 12 Plias I 187 Poenus I 173 Pompeius I 396 Populonia I 401 Protadius I 542 Publicola I 272 Pygmaeus I 291 Pyrgi I 223 Pyrrhus I 127 Quirinus I 157 Rhenus I 145

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index nominum

Roma I 3, 116, 167, 200, 298, 416, 467, 550; II 40, 49 Romanus I 7, 79, 133, 210; II 43 Romani I 336 Romuleus I 2, 152 Romulidae I 68 Rufius I 168, 421 Rutulus I 170 Samnis I 126 Sardous I 296 Sardonicus I 354 Serranus I 558 Sibyllinus II 52 Sicania II 22 Sirius I 479 Stilicho II 41, 55 Stygius II 58 Tagus I 356 Tarpeius I 108 Tartareus II 57 Tartesiacus I 356 Thermae Taurinae I 249 Thetis II 16

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Thyle I 499 Tiberis I 151 (Thybris), 180 Titus I 396 Tolosa I 496 Triturrita I 527, 615 Troia frg. B, 5 Troiugena I 571 Turnus I 604 Tusci I 582, 586 Tuscus I 39, 495 Tyrii I 174 Tyrius frg. B, 3 Tyrrhenus I 233, 579; II 24 Umbria I 551 Umbro I 337 Urbs I 8, 35, 189, 207, 302, 331, 417 Ursa I 60 Vada (Volaterrana) I 453 Venus I 67, 236 Victorinus I 493 Volaterranus I 453 Volusus I 169

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