Senza verso. Un’estate a Roma

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Emanuele Trevi

Senza verso Un’estate a Roma

Editori Laterza

© 2004, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2004

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nell’ottobre 2004 Poligrafico Dehoniano - Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa CL 20-7461-3 ISBN 88-420-7461-6

Per Arianna Daria Luisa Nilo

Indice

Senza verso. Un’estate a Roma

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Materiali

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Ringraziamenti

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«Colpi d’occhio»

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Senza verso Un’estate a Roma

Nella foresta presto o tardi tutti si trovano a muoversi in cerchio. Un giorno il piede si imprime nella propria merda. Questo, dicono gli Indiani, è il primo passo sulla via della saggezza Thomas Pynchon

Di scale che portano in basso – strette e larghe, famose e sconosciute, puzzolenti di muffa o di fogna, illuminate o buie, pubbliche o private, molto vecchie o molto nuove – in città ce ne sono così tante che nessuno ha mai nemmeno tentato di contarle. Come bocche di una sterminata, oscura, subdolamente tiepida balena: e per ognuno di noi, c’è sicuramente anche un Geppetto, lì in fondo alla sua scala, che aspetta il bambino perduto, mentre l’ultimo moccolo di candela si spegne, inesorabilmente – o se è per questo, è già spento da secoli. Pretesti apparenti per una scala, capaci di nascondere il puro, lineare, disinteressato, compulsivo amore per il basso, il cunicolo, la viscera, ammantandolo di qualche finalità pratica, di qualche ragion d’essere, come si dice, se ne trovano sempre. In fondo alle scale ci sono cripte, catacombe, corridoi, grotte naturali e artificiali, sistemi di fognatura, cisterne, ossari, necropoli, templi pagani e chiese cristiane, parcheggi, letti di fiumi carsici, linee della metropolitana, prigioni, passaggi segreti. Altre cose che, al momento di farne l’elenco, fatalmente sfuggono alla memoria – e saranno anche, ovviamente, le più importanti... (Il fatto, incontestabile, che queste scale servano in genere 5

anche a risalire in superficie, sembra puramente accidentale, una funzione del tutto secondaria, una qualità parassitaria, un corollario).

Varrebbe la pena di parlarne almeno per un po’, tirando fuori esempi opportuni e sagge considerazioni, di queste ambigue e forse in buona parte immaginarie virtù curative, e particolarmente ansiolitiche, dello scendere in basso, dell’inoltrarsi sotto il manto, giù nell’ombra umida della pietra, nell’informe. Di sicuro, c’è conforto nell’informe. Ma è un conforto difficile anche solo da pensare. Pensata, l’informità aggredisce il pensiero, aggroviglia ulteriormente la matassa, già di per sé abbastanza ingovernabile, della lingua. Semmai, tutti conoscono il prepotente movimento in direzione contraria, la fobia dei luoghi chiusi e sotterranei, e il senso di soffocamento mortale che ne deriva: fino al momento della risalita, se e quando la risalita è ancora possibile. Ma è la storia di ogni paura: che è sempre un bozzolo, la scorza di qualcosa d’altro. Al centro della paura, dunque, come l’occhio del ciclone o il calice del fiore, è fin troppo facile intuire un benessere, una forma efficace di felicità. Custodita, difesa, nutrita dalla paura che la circonda e la avvolge. Così almeno ragionavo tra me e me, se questo si può definire “ragionare” quando, all’inizio dell’estate del 2003, me7

morabile per il clima asfissiante, il peggior clima dal 1765, diceva il «Messaggero», quotidiano romano degnissimo di fede in questi paragoni storici, sempre più spesso uscivo da casa, una casa minuscola e orribile, oltre che progressivamente, inesorabilmente lurida, dalle parti del Colosseo, e camminando per poche decine di metri entravo a San Clemente passando dalla porta laterale. Il 1765 e il 2003 rimbalzavano da un angolo all’altro della mente, mentre la mia pelle avvolta in una pellicola uniforme di sudore accoglieva con un brivido di piacere il fresco della chiesa. Anche nel 1765, qualche passante sarà sicuramente entrato qui per scampare alla vampa della canicola che infuocava il tracciato di via Labicana: sempre lo stesso, perché la forma e la direzione delle strade non hanno mai bisogno di cambiare, affiancato dai muri delle vigne e da qualche sparsa cascina. Pur rimanendo dentro il tracciato delle mura antiche, questa zona di Roma era decisamente un pezzo di campagna, come si può vedere in tutte le vecchie mappe, poco raccomandabile soprattutto d’estate, a causa delle zanzare. Daisy Miller, una delle più famose eroine di Henry James, muore di malaria perché, assieme a un suo cinico e spregevole corteggiatore romano, passa una sola sera ad ammirare il chiaro di luna all’interno del Colosseo. Lei è americana, ricca e di buon carattere, cresciuta nel solito clima salubre e spensierato, in un posto tipo il Maryland, e in pochi giorni la sua vita si consuma, percossa senza scampo da un chiaro di luna. Attraversando in diagonale l’antico pavimento della chiesa non degnavo di uno sguardo né il mosaico dell’abside, con l’albero della vita e i cervi che si abbeverano ai piedi del crocifisso, né gli affreschi con le storie di santa Caterina d’Alessandria, salvata dall’angelo la prima volta che era finita nei guai, e decapitata la seconda, perché mai nulla, nel bene e nel 8

male, si ripete identico. Non ero lì, io, per rinfrancare o corroborare il mio rudimentale senso estetico. Né le esecuzioni capitali né gli alberi della vita mi hanno mai troppo commosso. Io cercavo direttamente la salvezza, una salvezza abbastanza facile, tutto sommato, da raggiungere: il rifugio di un particolare rumore – un rumore per il quale, sembra strano anche a me, avevo sviluppato una specie di dipendenza psicologica. Devo anche aggiungere che la dipendenza, psicologica o meno, è qualcosa che, in generale, mi viene facile, diciamo una mia vecchia specialità. Aperta la porta a vetri della sagrestia, percorrevo la stanza, dominata da un gigantesco contenitore in legno per cartoline, un oggetto di per sé normale reso grottesco dalla sua mole, fino al bancone in fondo, anche questo di legno scuro, dove trovavo sempre due donne giovani, dall’aspetto allegro e cordiale, in strano contrasto con la loro funzione di addette alla biglietteria, e, per così dire, di guardiane dei sotterranei. Non ero mai sicuro, dirigendomi verso il bancone e tirando fuori i soldi per il biglietto, che le due donne in effetti fossero sempre le stesse. Poteva anche darsi che una fosse la stessa dell’altra volta, e un’altra no: non riuscivo mai a memorizzarle, conservandone una pur vaga immagine che mi permettesse di riconoscerle al momento di entrare nella sagrestia. Per quanto ne sapevo io, i turni di permanenza di queste donne, due o trenta che fossero, dietro il bancone potevano essere conformi a qualche segreta dottrina, calendario astrale, linguaggio cifrato che non ero in grado di intendere. In qualche modo, queste donne gentili, e dotate di grandi seni, questo lo ricordo perfettamente, seni così grandi da suggerire immediatamente un’idea di maternità, partecipavano dell’informe sotterraneo, ormai letteralmente a portata di mano, oltre una seconda porta a vetri che conduceva all’inizio di una scala. L’obolo per scende9

re giù, tre euro, non era affatto simbolico, bisogna dire: però, a ben pensarci, con un solo biglietto si aveva il diritto di imboccare ben due scale verso il basso – la prima dal livello della sagrestia alla basilica sotterranea, sopra la quale, una volta interrata, nell’undicesimo secolo si cominciò a costruire la chiesa attuale; e la seconda, molto più antica, dalla chiesa sotterranea fino ai locali del tempio di Mitra, il misterioso dio venuto dalla Persia, il cui culto era molto diffuso tra gli ufficiali e le truppe dell’esercito romano. Non sfruttavo il mio biglietto, in pratica, che per esercitare il diritto, implicito, di scendere giù: al primo, e poi al secondo livello. Ogni tanto, durante il percorso, già invaso dal benessere dei sotterranei, mi fermavo a osservare qualche particolare degli affreschi sbiaditi di stile bizantino, frammenti di pittura che emergono di tanto in tanto dalle pareti spoglie della vecchia basilica interrata: Cristo che scende nel Limbo a liberare le anime dei Giusti, o la storia di sant’Alessio vissuto diciassette anni in povertà, non riconosciuto da nessuno della famiglia, nel sottoscala della casa di suo padre, che lo aveva ospitato per carità credendolo un mendicante sconosciuto. Tanto era derelitta la vita di questo santo a casa sua in incognito, che a volte i servi gli buttavano in testa, dall’alto delle scale, la sciacquatura dei piatti. Tra questi affreschi, ce n’è uno in cui san Clemente gioca un brutto tiro ai suoi persecutori, che pensano di averlo catturato con corde e pali e invece, vittime di un’illusione, trascinano al posto del santo un pesante pezzo di colonna. Questa condizione di affatturati, di persone che insomma scambiano un pezzo di marmo per un uomo in carne e ossa, coinvolge sia il nobile Sisinnio, il nemico di Clemente, sia i suoi due servitori, incaricati di disfarsi del santo, o meglio di ciò che loro ritengono essere il santo. In maniera nemmeno tanto sottile, la scenetta comica nasconde un nu10

cleo, un sentimento tragico: suggerisce, attraverso gli effetti grotteschi dell’incantesimo, la dolorosa verità secondo cui tutta la vita dei peccatori e dunque in qualche modo tutta la vita senza ulteriori specificazioni, è un’illusione, un prendere fischi per fiaschi, un inutile e stolido affannarsi intorno a pesi morti ed eccessivamente ingombranti. Ma non sta nella sua opinabile, ma tutto sommato convincente, verità morale l’interesse di questo affresco così sbiadito che di solito, al suo posto, se ne riproduce una copia dell’Ottocento, fatta ai tempi dei primi scavi. La relativa celebrità dell’affresco, anzi di questa particolare scena dell’affresco, è dovuta alle parole, ordini e imprecazioni, che Sisinnio rivolge alla coppia dei suoi servi, di nome Gosmar e Albertel, parole che appaiono sospese nell’aria, in bizzarre linee di lettere maiuscole perpendicolari che ricordano le parole crociate. Questi fumetti di Sisinnio rappresentano una forma antichissima di dialetto italiano, tra le più antiche che esistano e forse la più antica che, oltre a documentare qualcosa, come scambi e possessi di terre e di case, abbia anche intenzioni di espressività e rappresentazione umana, sia insomma collegabile al concetto di “letteratura”. E questa letteratura, nella quale ancora il latino e il dialetto convivono, come in una generazione lunga e incerta, un andirivieni più che una genealogia, questa lingua bastarda e contaminata di emozioni e paure esplode con un insulto: FILI DELE PUTE, dice Sisinnio ai suoi servi, tirate figli di puttana; è una maniera normale di rivolgersi a dei servi da parte di un padrone antico, e se è per questo anche moderno, e non esprime particolare crudeltà d’animo; quei due, Gosmar e Albertel, immortalati dalla pittura, con la loro aria da Stanlio e Ollio, o meglio da Franco e Ciccio, hanno tutta l’aria dei figli di puttana, dei fili dele pute. E non se la prenderanno certo, da qui all’eternità, se il padrone gli ricorda 11

quello che, a tutti gli effetti, sono. Lo stesso si può dire di un terzo servo che si affanna dall’altra parte della colonna, un tipo chiamato Carvoncelle, e come altro si potrebbe chiamare, al quale si rivolge (a giudicare dalla posizione) Albertel, incitandolo a fare leva da dietro con un palo. Ovviamente non vengono a capo del sortilegio e così il pittore li ha consegnati all’eternità, inchiodandoli al loro fallimento, che io, come ho già detto, in quei giorni dell’estate del 2003, ero molto incline a interpretare come un simbolo, una trasparente rappresentazione dell’umano fallimento di ogni progetto, aspettativa, filosofia, impresa umana. Perché tutto quello che riesce a suscitare il nostro interesse addormentato, nel momento stesso in cui ci risveglia e scuote la nostra attenzione, non sta facendo in realtà che rimandarci un’immagine, eloquente e deformata, di noi stessi. Noi non riusciamo mai a pensare veramente qualcosa d’altro da noi stessi, io credo. Clemente, il vincitore, osserva quella scena di demenza, quei tre uomini affaccendati intorno a una pietra scambiata per un uomo, e ha tutta l’aria di godersela; il suo fumetto è in latino in caratteri maiuscoli, è una sentenza irrevocabile, senza distinzione tra padrone e servi sciocchi – PER LA DUREZZA DEL VOSTRO CUORE VI SIETE MERITATI DI TRASCINARE I SASSI

Ma se è vero che ogni incantesimo del tipo di quello escogitato da Clemente per sbarazzarsi dei suoi nemici, ogni sbandamento della percezione, ogni scambio erroneo dell’animato e dell’inanimato dovrebbe rappresentare una storia sommamente interessante e commovente per tutti noi, poveri servi sciocchi e vaneggianti, patetici Gosmari e Albertelli e Carvoncelli agli ordini di padroni non meno vaneggianti, raramente ho perso molto tempo davanti all’affresco. Già gratificato dal clima insano, da cantina abbandonata, della basilica sotterranea, ero impaziente di affrontare la seconda scala. Giù nel Mitreo, sede di antichi e in buona parte incomprensibili riti misterici, i benefici della discesa si manifestavano in maniera molto più radicale. Il flusso dei turisti, in quelle giornate asfissianti, seguiva ritmi del tutto imponderabili. A volte i locali sotterranei erano deserti, tanto da permettermi di ascoltare l’eco dei miei passi, un’eco molto particolare e non gradevolissima, simile a un fruscio come di ali di pipistrello; a volte invece gruppi di spagnoli, francesi, americani, giapponesi, tutti di aspetto mite e sudato, uniformemente bovino, irrompevano sulle scale al seguito di una guida, spesso armata di una bandierina. Queste guide, uomini e donne, avevano tutta l’aria di quelle divinità che nelle religioni antiche si incaricano 13

di condurre le anime dei morti, una per una o a gruppi, verso gli spazi opachi e indistinti, pieni di rimpianto per la vita e la luce del sole, dell’aldilà. Per me, comunque, la presenza o l’assenza di altre persone non cambiava nulla. Il rumore di cui andavo in cerca era sottile e tortuoso, e si lasciava cogliere solo al termine di un atto di reale concentrazione. Non c’era silenzio e non c’era chiasso in grado di esaltarlo o di nasconderlo. Si trattava di percorrere un ultimo cunicolo dei locali consacrati al culto di Mitra, relativamente stretto, chiuso in fondo da una grata di ferro. Quell’angolo di sotterraneo non interessava nessun visitatore, la grata era fissata da un pesante lucchetto, oltre non si vedeva nulla. Poggiavo la fronte alle sbarre, fredde come durante una notte d’inverno, e fissavo lo sguardo in quell’oscurità proibita. Il rumore più evidente, quello immediatamente percepibile, era regolare, ronzante, artificiale. Un’autoclave, o un generatore elettrico. Ma anche quel rumore, invece di essere l’ultima tappa, il termine della discesa, era a sua volta una specie di involucro, nascondeva al suo interno un altro suono, come una vena di metallo nella roccia o un verme nell’intestino, un suono meno regolare, ma più acuto, poliedrico, dinamico. Sì, era il suono dell’acqua che scorre, di una fonte o di un fiume sotterraneo. I monaci irlandesi che scavarono fino qui in basso, mettendo a repentaglio la vita e la ragione per non parlare della loro fede, avevano trovato allagati tutti i locali del Mitreo, e una tacca sul muro, ai piedi della scala, indica il livello dell’acqua al momento della scoperta. Per farla defluire, è stato necessario scavare una lunghissima galleria, fino a una fogna romana dalle parti del Colosseo, così profonda da garantire il dislivello. Ascoltato per qualche minuto il rumore di quell’acqua sotterranea, iniziavo a risalire su, verso la luce e il calore infernale della città – il dorso della balena.

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Il sole salì nel mezzo del cielo e cominciò a vibrare come una mosca, spossata dal caldo Isaak Babel’

Per la durezza del vostro cuore vi siete meritati di trascinare i sassi... Dopo un paio di giorni piovosi, alla fine di maggio, gli ultimi giorni di pioggia per mesi e mesi, nella casa lercia scomoda e buia e in tutto il vecchio, tristissimo, immenso condominio anni Venti a pochi passi dal Colosseo, abitato per lo più da indiani e cingalesi, è iniziata l’invasione degli scarafaggi. Il calore e l’umidità ormai avevano preso ad aumentare senza tregua, giorno dopo giorno e notte dopo notte, senza che mai intervenisse un ostacolo, un fattore di equilibrio – nemmeno il minimo colpo di vento dalla parte del mare. Il caldo contenuto nell’umidità dell’aria non sferza, non aggredisce, piuttosto contamina, si insinua, abolisce la frontiera tra interno ed esterno. Come l’atmosfera insopportabile, anche noi siamo pieni d’acqua, si può dire in un certo senso che siamo fatti, come lei, d’acqua – e altrettanto insopportabili a noi stessi. Sognavo spesso, in quel periodo, di ricevere per posta un dattiloscritto, non molto lungo, al massimo una trentina di pagine. Su quella iniziale si leggeva questo titolo: Nel regno psichico 17

in caratteri rosso fuoco. Con imbarazzo, per non dire con violento disprezzo di me stesso, mi rendevo conto, così proseguiva infallibilmente il sogno, che l’autore del dattiloscritto, dell’opera intitolata Nel regno psichico, ero io. Così come ero io, comprendevo con vergogna e ulteriore rammarico, che mi ero spedito quell’opera per posta. Una volta, non so se sfogliando quelle pagine o perché, avendole scritte io, le ricordavo bene, fin troppo bene, ho sognato anche le prime parole, l’incipit di Nel regno psichico: «Al meglio, non c’è mai fine». Quando gli scarafaggi hanno invaso il lavello della cucina, ho capito che era arrivato il momento di cambiare casa. Superato un certo punto critico, i luoghi ci suscitano uno schifo irreversibile, irrimediabile, sicuramente lo stesso che noi ispiriamo a loro. Bisogna levare le tende, imporsi un colpo di reni. Per prima cosa, ho raccolto i piatti e i bicchieri ammassati da settimane nel lavello, e li ho direttamente ficcati in un sacco della spazzatura, assieme a una trentina di scarafaggi. Quel gesto ha dato solennemente inizio al nuovo trasloco. Sentivo le zampette degli scarafaggi agitarsi contro la plastica del sacco. Ho pensato che loro, con il loro proverbiale buon carattere, sarebbero stati felici lo stesso, in quel nuovo mondo, forse anche di più. L’esistenza si era fatta complessa in ogni minimo dettaglio, come a volte accade: ai limiti dell’ingovernabilità. Conosco bene, fin dalla primissima infanzia, questo sentimento di ingovernabilità dell’esistenza, che credo comune a molti miei simili e soprattutto a molti miei concittadini, sentimento esaltato fino al parossismo da condizioni climatiche sfavorevoli come quelle dell’estate del 2003 a Roma. Avevo ammassato 18

tutta la mia roba vicino alla porta, chiusa in zaini, scatole di cartone del supermercato e sacchi di plastica. Non riuscivo a lavorare per più di un’ora di seguito. Mi stendevo sul letto cercando di leggere Ubik di Philip K. Dick, libro di cui non ho mai ben capito la trama, ma pervaso da una tristezza polverosa, quasi insostenibile, e rapidamente mi addormentavo. Mi svegliavo alle ore più diverse e ricominciavo da dove avevo interrotto. Meditavo sull’ubik, il prodotto universale. Non era il primo trasloco di quel faticoso periodo della mia vita. Avevo deciso di andare a vivere a casa di un mio amico, a poche centinaia di metri da quella topaia infernale, ma dall’altra parte di via Merulana, vicino piazza Dante. Come ritornare sulla sponda di un fiume più conosciuta, e più rassicurante. Non mi decidevo però a caricare le mie cose in macchina e andarmene una volta per sempre. Pensavo spesso alla forza della depressione, e mi veniva in mente una goccia di un liquido nero, un liquido straordinariamente concentrato, vischioso, un olio o un’essenza nerissimi, una sola goccia capace di intorbidare tutto un lago di acqua pura, cristallina. Mi ero iscritto a un corso di Tai Chi, in quel periodo. L’idea era quella di dedicarmi a un qualunque tipo di attività regolare, che impegnasse il corpo e lo spirito distraendoli dalle loro cattivissime abitudini. La palestra, lunga e stretta, non era dotata di aria condizionata, cosa in cui avevo sperato moltissimo, ma in compenso aveva un’intera parete ricoperta da una specchiera, e spesso, durante le lezioni, mi mettevo a guardare l’immagine riflessa di me stesso che tentavo di eseguire le prime mosse di una sequenza lunghissima, la cosiddetta forma del Tai Chi. Non dimenticherò mai quell’immagine di assoluta, irrevocabile, sovrana demenza che offrivo a me stesso riflettendomi nella specchiera, per non parlare dei 19

sentimenti che quell’umiliante spettacolo suscitava negli altri allievi e negli istruttori, due tipi per niente loquaci e incoraggianti, che per vedermi non avevano nemmeno bisogno dello specchio, mentre me ne stavo con una gamba alzata e ripiegata a novanta gradi cercando nel frattempo di ruotare il calcagno rimasto a terra ed eseguire complicati movimenti rotatori del busto e delle braccia. Quello che intravedevo nello specchio, era un essere umano letteralmente inchiodato, e per sempre, alla sua goffaggine e disarmonia corporea, indizio certo di goffaggine e disarmonia interiori altrettanto croniche e irrimediabili. Ecco dove mi aveva condotto, con la sua implacabile, confuciana saggezza, la Via del Tai Chi. A piedi nudi, con dei pantaloni di iuta sformati e una maglietta nera, ero uno spaventapasseri agitato al vento della nullità. Mai avevo capito così chiaramente chi ero, da dove venivo, dove andavo. Mai, del resto, me ne era fregato così poco. Dovevo assoggettarmi a quell’umiliazione senza opporre resistenza. È necessario, per eseguire i movimenti anche più semplici e rudimentali del Tai Chi, memorizzare una serie di gesti da eseguire in successione: torsioni, piegamenti, allineamenti, gesti di offesa e difesa che mimano, con straziante lentezza, un combattimento, o qualcosa del genere. Anche senza saperne nulla, è facile capire a prima vista che un uomo abile nel Tai Chi è un uomo realizzato, capace di abitare il mondo facendo del bene a se stesso e agli altri, di accordare l’alto e il basso nell’armonia dei suoi movimenti. Quanto a me, mi era così difficile eseguire anche le primissime mosse, chiamiamole così, della forma che fatalmente mi capitava di dimenticare la successione. Questa amnesia rappresentava il vertice della demenza. Non volevo arrendermi e ricominciare da capo, ma non sapevo come continuare: andavo in stallo. La demenza dinamica si trasformava in demenza statica, e 20

me ne stavo in perfetto equilibrio, come una statua sgomenta, sul picco roccioso del mio totale fallimento umano: corporeo e spirituale. Con un piede a terra e l’altro sollevato, eseguivo qualche timido, deforme tentativo, come per stimolare il soccorso improvviso della memoria. Puntavo un piede a terra, mettevo le mani dietro la schiena, rialzavo il piede, mi accovacciavo con le mani protese in avanti... ma non accadeva niente, alla fine dovevo arrendermi e, ostentando indifferenza, mi rimettevo nella posizione di partenza, l’unica della quale ero davvero padrone, consistendo unicamente nello stare in piedi con le braccia lungo i fianchi. Una dose anche maggiore di disperata indifferenza ho dovuto ostentare di fronte al mio pubblico esterrefatto quando per ben due volte, tentando di eseguire qualche mossa, nello sforzo di copiarla dal mio vicino, sono caduto con il culo per terra, fatto rarissimo se non unico, credo, negli annali del Tai Chi. Guardandomi allo specchio in quei momenti, mi suscitavo una pena immensa e sincera, mischiata a una voglia di ridere che dovevo trattenere a fatica o nascondere fingendo un attacco di tosse, per non raddoppiare l’umiliazione. Non esiste situazione più umiliante, in fin dei conti, di quella di chi ride di se stesso mentre i presenti tacciono, impassibili e imbarazzati. A volte gli istruttori mi invitavano a eseguire i movimenti assieme al resto della classe. Dopo una trentina di secondi, a forza di guardare gli altri nell’inutile tentativo di imitarli, avevo già perso il ritmo, e il divario tra me e loro aumentava poi in maniera vertiginosa fino al momento inevitabile della catastrofe: che puntualmente si verificava quando l’intera classe, all’unisono, percorsa l’intera lunghezza della palestra, si girava e iniziava a procedere nella direzione opposta, cioè contro di me, ancora impantanato in qualche movimento sbagliato o già in stallo amnesico, e a quel punto, oltre a confermare la 21

mia incapacità personale, ero anche un evidente disturbo per gli altri, che dovevano pensare ad evitarmi proseguendo nella loro marcia. Per una frazione di tempo breve ma non abbastanza, me li vedevo tutti contro, un esercito compatto, consapevole, armonioso, che con lentezza, ma senza indecisioni, mi respingeva indietro, mi sbarrava la via del Tai Chi, sanzionava la mia espulsione dalla sfera del possibile. Mi affrettavo a raggiungere il bordo della palestra, sconfitto, borbottando parole insensate di scusa a tutti quelli che mi capitava di intralciare. Nello spogliatoio, nessuno mi rivolgeva la parola. Non era una mia impressione.

Per la durezza del vostro cuore vi siete meritati di trascinare i sassi Trascinare i sassi... Alla fine, ce l’ho fatta a staccarmi da quell’immondezzaio. Dall’altra parte di via Merulana, del grande fiume, l’umore è migliorato immediatamente. Era il 2 giugno del 2003. Avevo molto tempo libero, cosa che purtroppo non mi è mai mancata, e potevo starmene sul grande letto della mia nuova stanza. A San Clemente ho continuato ad andare ogni giorno, più o meno. Molto al di sotto del manto stradale, il fiume frusciava alla sua maniera. Una lingua, la lingua del fiume sotterraneo, fatta di acqua gelida e rocce e cavità e dislivelli. Ma una lingua fetale, ecco che cos’era, una lingua sospesa al livello primario dell’articolazione, quando ancora, propriamente, parlare di “lingua” significa parlare del muscolo umido che si muove nella bocca, e crea la prodigiosa varietà delle consonanti sfiorando appena il palato e la chiostra dei denti con la sua punta, leggera e infallibile come quella di una bacchetta magica. La casa del mio amico era enorme, e quasi completamente priva di mobili. Molte finestre davano su via Galilei, stret23

ta dalla mole del grande palazzo delle Poste, che con la sua lunga cancellata di ferro nero e i lampioni di stile vecchiotto agli angoli sembra un pezzo di Parigi trapiantato a Roma. Questo mio amico, come mi sono accorto molto presto, raramente era in casa, e solo dopo cena. Le stesse abitudini della sua ragazza, un tipo molto sveglio, grandi occhi luminosi e capelli biondi tagliati all’altezza delle spalle, così esile e silenziosa che tra noi la chiamavamo l’Antilope. Questa quasi perpetua assenza di altre persone nella casa vuota mi lasciava molto tempo per ambientarmi, come in un Grande Fratello solipsistico, nel quale io ero l’ultimo ospite rimasto, e nello stesso tempo il pubblico a casa, il regista, e forse anche un concorrente già eliminato, ma sottomesso a un sortilegio, che vaga nella casa invisibile a tutti gli altri e senza più, a sua volta, riuscire a vedere nessuno... Passeggiavo nudo per le grandi stanze semivuote, tra una doccia e l’altra, mentre cercavo di ottenere un po’ di fresco dalle finestre aperte. Pochi anni fa il mio amico, il padrone di casa, ha scritto un libro intitolato Sesso estremo, firmato con uno pseudonimo anglosassone preceduto dal titolo di “Reverendo”. Un guru del sesso, insomma, ma autoironico e, come si vede leggendo il libro, d’animo nobile e contrario ad ogni forma di raggiro, violenza non pattuita, ipocrisia. Composto, se ben ricordo, nel giro di tre o quattro notti, questo libretto, dotato di un rozzissimo e per nulla attraente apparato di foto in bianco e nero, è una vera opera d’arte, non esiterei a definirlo un passo avanti nella storia della prosa artistica italiana. Con quello stile, che gli antichi definivano attico per contrapporlo, con la sua levigatezza ed elegante sobrietà, al più fiorito e inventivo asiano, il libro descrive, dedicando a ognuna un breve capitolo, molte pratiche sessuali per qualche motivo considerate, appunto, estreme: il pissing, per esempio, o il fist fucking. Ave24

vo ritrovato in giro per casa una copia del libro, e lo rileggevo qua e là. Mi colpiva il fatto che tante volte è un linguaggio di tipo freddo, senza troppi pareri personali e troppi aggettivi, quello che più trasmette un prezioso senso di intimità e calorosa appartenenza al genere umano. Mentre il linguaggio pieno di aggettivi, emozioni, sentimenti nella stragrande maggioranza dei casi è solo una maschera sovrapposta, così pensavo, a una sostanziale indifferenza interiore, a un definitivo tedio di sé e degli altri che si cerca di occultare a forza di parole. Non a caso, come scrittore, io ho sempre avuto una certa inclinazione per questo secondo tipo di stile, mentre, personalmente, ho sempre ammirato il primo. «Il pissing» scriveva il Reverendo a pagina 109 di Sesso estremo «viene spesso praticato come bagno finale dopo il rapporto sessuale, quando il senso complessivo di rilassamento che si prova fa desiderare la minzione. In chi lo pratica consapevolmente, in coppia, ha un significato primordiale e animale molto profondo, perché l’amante viene marchiato come per segnare chimicamente un territorio, e dunque un’appartenenza».

E dunque un’appartenenza. Quel posto, l’immensa casa vuota e silenziosa del Reverendo e dell’Antilope, mi aveva decisamente rassicurato, così come gli immediati dintorni, l’area tra piazza Dante e San Giovanni, divisa a metà dall’ultimo tratto di viale Manzoni, fino all’incontro con via Merulana che più che a un incrocio stradale fa pensare alla confluenza di due grandi e lenti fiumi asiatici. Per quanto illusoria e addirittura, in molti casi, pericolosa, la sensazione di essere ritornati a casa produce infallibilmente una specie particolare e inconfondibile di benessere. In fondo, a pensarci bene, la cosa più strana delle avventure di Ulisse non è né l’ira assurda degli dèi che lo svia per vent’anni né il ciclope né le sirene né i compagni trasformati in maiali, ma il fatto, sottolineato da Omero, che non era il tipo di scrittore che sottolinea qualcosa invano, il fatto che alla fine, dopo tutto il tempo passato a rimpiangere la patria perduta, quando ci arriva dorme come un sasso. La storia diventa davvero ambigua. Perché se Ulisse dorme, si potrebbe dire proprio sul più bello, nessuno potrà veramente convincerci che il suo ritorno non sia stato un sogno. Raccontando di qualcuno che si addormenta, noi non abbiamo parole ca26

paci di accertare senza dubbi il suo risveglio, esattamente così come, dalla prima volta che ci siamo addormentati, iniziando a sognare, nulla e nessuno mai ci potrà assicurare della fine del sogno. Addormentato su una barca alla deriva, l’eroe, allora, ha sognato di toccare le sponde di Itaca, mentre la corrente lo portava via, sempre più lontano, talmente lontano che il sonno si è trasformato naturalmente, silenziosamente nella morte, o almeno non è stato più necessario distinguere rigorosamente l’uno dall’altra. Lì, a casa, è tornata solo un’immagine di sé, una figura d’aria che indugia sulla soglia, pronta a dissolversi, a sparire nel suo stesso tremito, senza lasciare traccia. Tutto verosimile: eppure, anche se non si ritorna mai da nessuna parte, il sentimento generato da un’illusione è perfettamente uguale a quello generato da un fatto reale: tale e quale, in pratica. Quella di cui godevo in quei giorni afosi, camminando sui larghi marciapiedi di viale Manzoni e di via Merulana al riparo del fogliame dei platani, era indubbiamente una felicità partorita da un’illusione: l’illusione, appunto, dell’esistenza di un angolo del mondo, di un piccolo numero di strade e incroci capaci di suggerirmi la sensazione, razionalmente insana, che esistesse per me, come per chiunque altro, un luogo capace di farmi sentire a casa, qualunque disastro fosse in corso o mi pendesse sulla testa. Steso sul grande letto della mia nuova stanza, che dal primo giorno aveva la persiana di plastica rotta, e dunque era immersa in una perpetua, uterina penombra densa di fumo, avevo scritto una poesia, ispirata dall’acquisto di un telefonino nuovo, di colore rosso, che in effetti, devo confessare, osservavo a lungo, intensamente, non tanto nella speranza che squillasse, ma che si producesse un bizzarro evento sul display, un rapido rito digitale al quale, in mancanza di meglio 27

(e di peggio) attribuivo un grandissimo significato: come se i progettatori di quel telefonino avessero pensato proprio a me nel concepire quella specie di segnale di speranza – così lo interpretavo. Questa poesia si intitola La volpe nel display Sul display del mio telefonino nuovo, passa ogni tanto una volpe, procedendo da sinistra a destra. Ha gli occhi grandi e la lunga coda fluttuante. Deve essere uno di quei meccanismi chiamati “salvaschermo”, o una semplice decorazione, un vezzo elettronico. La volpe comunque cammina tranquilla, e non si accorge di una tagliola che si chiude sulla coda. L’incidente si verifica a metà del percorso, proprio al centro dello schermo. Ma non è una tragedia. La bestia si volta indietro, caccia un urlo di dolore, strattona la coda ed è di nuovo libera. Riprende a camminare sorridendo, fino a sparire sul lato destro. Ci sarà pure un piccolo programma che regola queste apparizioni, le scandisce a intervalli regolari o comunque dotati di una logica che non afferro. A volte non vedo la volpe per giorni, altre volte mi appare di continuo. Certe notti la aspetto sdraiato sul letto, 28

mentre i minuti se ne vanno silenziosi. Non ho meglio da fare, mi dico, che aspettare questa volpe, questa nuova amica. C’è una storia, nel suo apparire, che mi sembra ricca di promesse, di consolazione. La guardo che procede inconsapevole verso la tagliola, poi mentre soffre, e infine mentre si divincola e procede, di nuovo libera. È possibile, mi dico, scampare dalle trappole, dimenticare il male, andare oltre. Una storia è una storia. Vale per quel tanto o poco di identificazione che concede. Se ce la fa la volpe, ce la posso fare anch’io. Se sopporta il dolore e non stramazza, vuol dire che il dolore è sopportabile, non stramazzerò. Io rendo grazie alla volpe sorridente, alla tagliola, alla notte che avanza mentre avanzo in lei.

Gradi di iniziazione al culto di Mitra (in ordine gerarchico progressivo): il corvo il ninfo il soldato il leone il persiano l’eliodromo il padre Porfirio, nell’Antro delle Ninfe, spiega perché gli «antichi», come li chiama lui, consacravano opportunamente al Cosmo spazi come antri e caverne, facendo così della Terra il simbolo della materia stessa di cui il Cosmo è costituito. Tanto che molti identificavano con la Terra il concetto stesso di “materia”... D’altra parte, prosegue Porfirio, gli antri rappresentavano per gli antichi il Cosmo che si forma dalla materia. Questi luoghi sotterranei, o comunque sottratti alla luce del sole, «sono di formazione spontanea e connaturali alla terra, circondati da un blocco uniforme di roccia, che internamente è cava e all’esterno si perde nella infinita illimitatezza della terra». 30

Delle viscere di Roma, esiste una vera e propria scienza. Come tutte le scienze, anche questa comporta la presenza di padri fondatori, geniali seguaci, martiri, maniaci di varia condizione e fortuna. Le opere capitali di questa scienza sono: Roma sotterranea di Antonio Bosio (1575-1629) pubblicata postuma nel 1632 a cura di Giovanni Severani, che aggiunse ai tre originali un intero libro di osservazioni erudite (altre edizioni accresciute e rifatte nel 1651 e nel 1753); Roma sotterranea cristiana di Giovanni Battista De Rossi (1822-1894) in quattro volumi più tre di atlanti, 1864-1867 e 1877-1898 – opera proseguita da De Rossi fino alla morte nel glorioso «Bullettino di Archeologia Cristiana». I tre volumi di atlanti rappresentano il «meglio di ciò che l’arte cromolitografica potesse allora dare», dice il Dizionario Bompiani delle opere e dei personaggi che tra l’opera del Bosio e quella del De Rossi fa spazio anche a un romanzaccio filo-carbonaro, Rome souterraine di un certo Charles Didier, francese di origine svizzera, pubblicato nel 1827. Ma ci sono anche i Sotterranei del Vaticano, Caves du Vatican nell’originale, il capolavoro di André Gide, che conosce31

va pochissimo Roma ma in fin dei conti ha catturato in questo romanzo lo spirito della città nel modo più plausibile, profondo, penetrante tra tutti quelli che ci hanno provato. Singolare destino di Roma, questo, che meno la si conosce direttamente e a fondo, meglio la si interpreta, mentre chi vive qui, nella stragrande maggioranza dei casi, non coglie mai nulla davvero, e si limita a ripetere le stesse cazzate generiche per tutta la vita. Del resto, per scrivere La principessa Brambilla, che contiene la descrizione più efficace e spiritata di piazza Navona mai composta, a Hoffmann, rimasto in Germania tutta la vita, era bastato sfogliare una serie di stampe di Jacques Callot sul Carnevale. I sotterranei di Gide sono solo una frottola, una parola magica – caves – che fa da perno a una truffa geniale. Questi sotterranei puramente verbali, insomma, questo sottosuolo-menzogna, dove dovrebbe essere rinchiuso il papa mentre un suo sosia regna all’insaputa di tutti i cattolici, sono un romanzo che viene immaginato all’interno di un romanzo, un romanzo al quadrato, una forma pressoché perfetta e intangibile di inesistenza.

Per la durezza Del vostro cuore Vi siete meritati Di trascinare i sassi (come una specie di haiku) Passato il caldo, contati i morti, verificati i danni, gli esperti del clima hanno iniziato a studiare le cause, e le prime avvisaglie sottovalutate, della spietata canicola del 2003. Fin dalla primavera, per esempio, si era registrata una strana anomalia nella posizione dell’equatore meteorologico, altrimenti detto zona di convergenza intertropicale. Questo equatore, collocato da una parte o dall’altra di quello geografico a seconda dei cambiamenti del clima, consiste in una cintura di immense nubi, alta fino a dieci chilometri, che circonda il pianeta. Dava da pensare, nella primavera del 2003, la sua posizione eccessivamente settentrionale. Ma c’è di più: fin da aprile, i rilevatori avevano segnalato un’eccezionale anomalia nella temperatura di superficie dell’oceano Atlantico, più bassa di due-tre gradi in un’area molto ampia, dalle acque al largo di Terranova alle coste dell’Irlanda. Questa anomalia, 33

destinata a durare fino a luglio, e dissipata del tutto solo a ottobre, era particolarmente accentuata tra l’Europa del Nord e la Groenlandia, così come su un asse che partiva dalla Spagna proseguendo verso sud-ovest. Osservando le cartine di comparazione, si capisce a colpo d’occhio che la canicola del 2003 è stata di violenza ed estensione incomparabilmente maggiori delle due precedenti canicole del 1976, e del 1994. La mattina mi alzavo verso le dieci nella stanza in penombra che iniziava ad arroventarsi. Ero madido di sudore e prima di farmi una doccia e mettermi a lavorare uscivo per una passeggiata cercando di tenermi sempre all’ombra dei palazzi e degli eventuali alberi. Prima di uscire mi bagnavo la testa, e i capelli si asciugavano a velocità così impressionante che a volte mi chiedevo se mi ero ricordato di bagnarli o no. Il calore del sole era già fastidioso alle otto secondo Antonio, il mio amico edicolante, che di fatti relativi al tempo, al freddo e al caldo e al tiepido e all’umido, se ne intende. L’edicola di Antonio, sotto l’ultimo platano a sinistra risalendo in cima a via Merulana fino a piazza San Giovanni, a pochi metri dall’obelisco di Thutmosis III, il più alto e antico obelisco di Roma, mi ha fatto sempre pensare, per la sua posizione, a una specie di garitta per sentinelle di una porta medievale, o una biglietteria all’ingresso di chissà quale spettacolo. Tra clienti, gente assiepata al passaggio pedonale dell’incrocio, e gente prigioniera degli abitacoli nella fila ininterrotta di macchine che scorre in doppio senso su e giù per via Merulana, il numero di volti umani visto da Antonio giorno dopo giorno è decisamente incalcolabile. Mi sono sempre chiesto se per ognuno degli infiniti frammenti in cui si scompone ogni angolo, ogni aspetto della realtà ci sia uno spazio, anche minimo e sepolto, di memoria, oppure se, a un certo punto, 34

come si fa con le caselle della posta elettronica, bisogna svuotare un po’ di materiale per farne entrare dell’altro. Mi ha sempre affascinato l’incredibile numero di giornali, cassette, volumi di enciclopedie, inserti patinati, cartine geografiche, numeri arretrati di riviste e dispense che Antonio, preceduto negli anni da suo padre, è riuscito ad accumulare nel piccolo spazio interno dell’edicola. Tanto più, che questo non è un caos immobile, composto di strati successivi depositati l’uno sull’altro, perché tutto è controllato, sostituito a precise scadenze, e mandato in resa quando non viene venduto. Il lavoro dell’edicolante, penso spesso quando mi fermo da Antonio e osservo i suoi gesti, consiste non solo nel vendere giornali e riviste e cose simili a chi passa lì davanti, ma anche, e simultaneamente, nell’evitare di essere investito e letteralmente sommerso come da una frana dalla carta di ogni colore e formato che ogni mattina si riversa sull’edicola. Antonio dice sempre che bisogna starci con la testa, e c’è da credergli. Spesso le edicole vivono all’ombra degli alberi, alberi urbani possenti e generosi di ombra, anche se corrosi da invisibili e spietate malattie. L’amicizia tra l’edicolante e l’albero è segreta e tenace, e come molti sentimenti fondamentali della vita, poco comprensibile da chi non la sperimenta, non essendo nato né edicolante né albero. Nel caso particolare dell’edicola di Antonio, si può addirittura dire che questa e il suo albero sono cresciuti assieme, come abbiamo scoperto facendo ingrandire il particolare di una vecchia fotografia degli anni Venti scattata all’angolo tra via Merulana e piazza San Giovanni. Esattamente sul punto dove poggia l’edicola attuale, si vede il minuscolo chiosco dei giornali di Violante Paladini fu Serafino, madre o zia, Antonio non ricorda bene, di sua nonna, Giuseppina Petrolati in 35

Arnaudi, madre a sua volta di Pietro, padre di Antonio. Questa stirpe regale di edicolanti ha sempre lavorato qui, all’ombra dell’albero e in vista dell’obelisco. Nella vecchia fotografia, scattata d’inverno come si capisce dai rami completamente spogli, il platano ha un fusto ancora esile. Una serie di foto successive, sempre allo stesso angolo, documenta la crescita parallela del platano e dell’edicola fino ai giorni nostri, ma è la prima in ordine di tempo che ha suscitato immediatamente in me un’emozione violenta e inspiegabile, forse dovuta alla presenza del carro a cavalli avviato per la discesa di via Merulana, forse alla figura di una vecchia, sicuramente una mendicante, vestita di nero e accovacciata a fianco del portone del palazzo, seminascosta dal tronco del giovane platano, un’immagine di desolazione irrimediabile per nulla attenuata dalla sua antichità. Proprio in quel punto esatto, la notte di Pasqua del 2003, quando ancora non avevo mai visto la vecchia foto di Antonio, mentre cercavo riparo sotto il cornicione del palazzo da uno scroscio di pioggia improvviso, ho fatto amicizia con una barbona, che avevo involontariamente svegliato al momento di ripararmi, una donna dai modi molto distinti, alla quale ho regalato una banconota da cinque euro e un pacchetto di sigarette, e che mi ha raccontato una storia molto interessante, una storia d’amore piena di crisi e riconciliazioni con un altro barbone, un barbone sardo, fatto che la costringeva a frequenti spostamenti in nave, a quanto pare esistono metodi con i quali si può viaggiare anche da barboni su certe navi, per esempio nella stiva dei traghetti, tra le macchine e le ruote dei camion, eravamo stati almeno un paio d’ore a parlare e la pioggia continuava a cadere fitta e sottile, la barbona continuava a offrirmi le sigarette che le avevo regalato e a un certo punto sono anche riuscito a confezionare uno spinello umido e storto, che le ha da36

to un tono languido accendendo ulteriori riflessi nei suoi occhi bellissimi. Ecco, a un certo punto avevo capito, fissando ancora una volta gli occhi di quella donna, che la loro bellezza non era l’eccezione in un volto devastato da rughe, gonfiori, sporcizia, ma si estendeva a tutti i lineamenti – Rosa insomma, questo era il suo nome, era stata bellissima, e questa scoperta aveva aggiunto un particolare e nuovo sconforto nello sconforto di quella sera di Pasqua, ragione per cui appena Rosa si era addormentata, mi ero affrettato a incamminarmi verso casa sotto la pioggia, non prima di averle estratto dalle falangi una cicca ancora accesa. Quando Antonio, qualche mese dopo questo incontro, mi ha fatto vedere il particolare ingrandito della vecchia foto, fissando la barbona dietro il tronco dell’albero ho provato una vertigine, il rintocco arcano di una coincidenza per me non meno decifrabile dei geroglifici dell’obelisco di Thutmosis III.

Tornando dall’edicola di Antonio, spesso invece di rifare via Merulana decidevo di scendere verso casa percorrendo il lato in ombra di via Boiardo, decisione che mi costringeva a imboccare a destra via Aleardi, cosa che fa sempre impressione perché, dopo appena qualche passo in questa stradina corta, dal traffico e dal rumore di via Merulana si piomba in un’atmosfera di silenzio ovattato, come a volte le strade hanno, o sembra verosimile che abbiano, nei sogni. E via Aleardi, fin dalle prime volte che ci arrivavo nel 1989, accompagnando Pietro a casa al termine di una passeggiata, per salutarlo oppure salire su con lui a continuare qualche discorso iniziato camminando, sembra in effetti quasi costruita ad arte, da uno scenografo in vena di ambienti angosciosi, per suggerire un clima e un ambiente lievemente, ma inesorabilmente, estraneo alla realtà circostante. Il merito, o la colpa se si preferisce, di questa sensazione va attribuito in pari misura, secondo me, al lungo muro di mattoni scuri, coronato da cocci di bottiglia e nell’ultimo tratto addirittura da filo spinato, che si stende lungo un lato della via, dominata dalla mole brunastra del Pontificio Ateneo Antoniano, di fronte ai normalissimi portoni umbertini dell’altro, e all’immagine, davvero incon38

grua, che chiude la prospettiva della via all’incrocio con via Boiardo: la facciata di un villino antico, straordinariamente candida e ornata di medaglioni e varie altre decorazioni in marmo e a stucco, tra le quali un’aquila che sorregge il leggero balcone centrale, simbolo della famiglia dei marchesi Giustiniani, i primi proprietari dell’edificio, costruito all’inizio del Seicento. Come è facile immaginare, e come si può vedere facilmente in qualunque vecchia mappa di Roma, prima che il marchese Giustiniani facesse costruire la villa e il famoso giardino che la circondava, era un pezzo di aperta campagna, vigne e orti delimitati da alti muri con qualche rovina romana o medievale immancabilmente piantata in mezzo a quella pace rustica come il monolite di 2001 Odissea nello spazio. Nella grande pianta prospettica di Roma di Antonio Tempesta, nel 1593, non si vede in tutta l’area, delimitata da un alto muro, che una grossa torre militare quadrata dall’aspetto già diroccato. La bellezza dei particolari della pianta del Tempesta è tale che, quando si inizia a scrutarla, sembra proprio di venire risucchiati al suo interno. In particolare quella torre scura, piantata in mezzo a uno spazio per me così familiare, anche se sotto tutt’altro aspetto, riesce a catturare la mia attenzione per un tempo lunghissimo – a volte ricopro mentalmente l’immagine sovrapponendole tutte le costruzioni che ci sono oggi al posto di quel pezzo di campagna, i palazzi e i cortili di via Merulana e di via Boiardo e le strade aperte dove prima c’erano sentieri e fratte, e allora mi viene in mente che quella torre non è mai stata abbattuta, ma si annida ancora lì, nel segreto dell’aspetto familiare delle cose, come una spina dorsale invisibile, ma che sostiene tutto il resto, e quando le cose come le conosciamo inizieranno, prima o poi, ad andare in polvere e frantumi, e il vento spazzerà le macerie dei crolli, il vecchio bastione, fermo nella distruzio39

ne generale, tornerà alla luce, ostinato e reticente come lo si vede nella carta del Tempesta. Verso la metà del Seicento, sia i giardini che la villa dei Giustiniani erano terminati. La facciata principale della villa era rivolta verso via Merulana, dove si apriva un bel portale, ornato da due cariatidi, che oggi è stato spostato a poche centinaia di metri da qui, sul Celio, all’ingresso del parco di Villa Celimontana. I Giustiniani risiedevano poco in quel casino di campagna, tutto sommato scomodo, ma il marchese Vincenzo era uno di quegli aristocratici affetti dalla mania delle anticaglie, e aveva ornato il giardino, studiando le prospettive più pittoresche, di statue romane, preziosi sepolcri scolpiti, cippi di colonne. Oggi quasi tutte le tracce di questa passione sono scomparse e il villino, circondato da ogni lato dai palazzi scuri e anonimi di via Boiardo, ha tutta l’aria di un animale preso in gabbia, ridotto con la sua gentilezza mediterranea a sostenere un ruolo che non gli si addice. Ma la psicologia dei palazzi, e i suoi segreti moventi, mi sfuggono totalmente.

perché la carta svolazza, allora nemmeno io posso riposare, e svolazzo a brandelli sulla strada Ingeborg Bachmann

A Pietro piaceva la strana prospettiva di via Aleardi, dove abitava ancora quando l’ho conosciuto. Ci arrivavamo, di solito, dopo una lunga passeggiata su e giù per via Merulana. Non so perché, all’inizio della nostra amicizia ci davamo sempre appuntamento all’altro capo della lunga strada, dalle parti di Santa Maria Maggiore. Una volta mi ha detto che Stendhal, nelle Passeggiate romane, considerava il tragitto rettilineo lungo via Merulana, da San Giovanni a Santa Maria Maggiore, l’ideale per una breve galoppata. Mentre procedevamo sul marciapiede affollato, paralleli alle file delle macchine, mi era improvvisamente balzata in mente l’immagine della strada di campagna, in terra battuta rossiccia, che doveva essere via Merulana ai tempi in cui Stendhal ci galoppava, molto probabilmente smarrito nel pensiero perpetuo dei suoi amori, che lo facevano soffrire sempre alla stessa maniera, non importa che fossero reali o velleitari o, addirittura, inventati. Già allora la strada doveva essere fiancheggiata dai grossi platani di oggi, o da alberi simili, forse filari di pioppi. Mi ricordo bene della prima telefonata che mi ha fatto Pietro, per me legata alle immagini del crollo del muro di Berlino che scorrevano senza tregua in tutti i telegiornali. In quel tar43

do pomeriggio d’autunno del 1989, non potevo ancora sapere, però, quanti sforzi di concentrazione, decisioni riguardo al momento opportuno, ripensamenti improvvisi, e infiniti altri minimi disturbi psicologici gli sarà certamente costata quella telefonata. Come del resto ogni cosa che Pietro, incapacissimo a vivere tra tutti gli esseri viventi, facesse o semplicemente pensasse di fare. Dopo averlo frequentato e amato per un lungo periodo della mia vita, sono giunto alla conclusione che ogni azione, per Pietro, si materializzava solo al termine di un lungo ed elaboratissimo circuito fobico, ossessivo, nevrotico – non saprei nemmeno come definirlo. Ovviamente, come scrittore, apparteneva alla famiglia nevrotica dei cesellatori mai contenti, dei kamikaze della variante, ma la cosa impressionante di Pietro, come avrei scoperto conoscendolo da subito abbastanza a fondo, era il fatto che tutto, nella vita, poneva crudeli tranelli alla sua irresoluzione e al suo senso di incapacità. I sentieri dritti, come per magia, gli si biforcavano sotto i piedi mentre procedeva. Per me, mi ha detto un giorno durante i mesi della malattia, quando ogni tanto tirava buffamente le somme, lavarmi i capelli o imbucare una lettera è stato difficile come scrivere la migliore delle mie poesie. Anche decidere il luogo del nostro primo appuntamento fu una specie di affare di stato. Pietro mi aveva proposto la colonna davanti alla facciata di Santa Maria Maggiore, ma poi aveva richiamato (dopo una nuova tempesta di scrupoli) per stabilire che ci saremmo visti sulla destra del basamento, guardando la chiesa. Nel 1989, Pietro aveva quarantun anni e io venticinque. Quando mi aveva chiamato, già lo conoscevo di vista, ci eravamo stretti la mano da qualche parte, forse in una galleria d’arte dove si facevano le presentazioni dei libri in quel periodo, la Nuova Pesa, vicino a piazza del Popolo, o ai tavolini di un piccolo bar a via dei Coronari, dove di sera, in quei tempi 44

ancora pre-telefoninici, si incontravano persone simpatiche, tutte a loro modo un po’ sciroccate, un gruppetto di artisti e scrittori tra i quali Pietro godeva di una certa fama, umana e letteraria, che si potrebbe anche definire un “successo”, se è vero che si può essere famosi anche all’interno di una comunità di non più di venti-trenta persone. La sua impresa più eroica, a quei tempi, era una traduzione in latino del Cimitero marino di Paul Valéry, intitolata Sepulcra maris, e pubblicata su una rivista che si chiamava «Dismisura». Gliela aveva pubblicata, non sapendo evidentemente a che cosa andava incontro, Raffaele Manica, uno dei suoi primi estimatori, se non il primo in assoluto, che aveva dovuto spendere notti intere con Pietro parlando di possibili variazioni pensate all’ultimo minuto, e soprattutto di refusi, i quali letteralmente lo piombavano nel più cupo dolore e che avevano, secondo lui, il potere di infilarsi di soppiatto in qualunque tipo di scritto, sfidando ogni forma di attenzione anche maniacale. Pietro rileggeva sempre tutto quello che scriveva all’incontrario, procedendo controcorrente come un’anguilla o un salmone, fino alla polla della prima parola. Ma non bastava nemmeno questo. Il motivo per cui Pietro mi aveva cercato, quella prima volta, è che aveva tradotto, o rifatto, come amava dire lui, una decina di sonetti di Shakespeare, e voleva farmeli leggere. Aveva approfittato di qualche giorno di vacanza (per campare, insegnava italiano e storia in un istituto tecnico) e si era messo a lavorare su quei sonetti, che sapeva praticamente a memoria, al Circeo, dove aveva una casa di famiglia. L’amicizia segue regole dell’attrazione misteriose e fatali come quelle dell’eros. Evidentemente, gli ero stato simpatico in una delle distratte conversazioni fatte in precedenza, oppure qualche amico comune gli aveva parlato di me e delle mie poesie, che leggevo e distribuivo fotocopiate in giro. 45

Non mi ci sono volute più di due o tre passeggiate, che spesso dirottavano da via Merulana verso le strade signorili e straordinariamente tranquille e prive di negozi di Colle Oppio, per capire che razza di pasticcio inesplicabile, di perpetua tempesta di disdette e contrattempi, scrupoli e pulsioni ossessive, fosse l’esistenza di Pietro. Nello stesso tempo, non era difficile accorgersi di quanta mitezza d’animo, di quanta delicatezza di sentimenti, di quanto interno candore, di quanta idiozia da autentico principe Mysˇkin, tra tanti finti Mysˇkin, fosse arricchito, e nello stesso tempo afflitto, il carattere del mio nuovo amico. Durante la decina scarsa d’anni in cui l’ho conosciuto, non ho mai sorpreso nei suoi occhi, drammaticamente evidenziati e rimpiccioliti dietro le lenti spesse dei grandi occhiali da miope, un solo lampo di volgarità, invidia, rancore verso quel mondo in cui gli era così difficile tirare avanti. Pochi giorni dopo la sua morte, nella primavera del 1999, ho letto su un giornale un necrologio che lo paragonava a un personaggio di Charlie Chaplin. E in effetti, che Pietro sembrasse uscito da un vecchio film comico, era un’idea assolutamente comune tra tutti i suoi amici. Ma non aveva niente del Charlie Chaplin; semmai, lui era un vero Buster Keaton, un essere capace di conservare il suo sguardo serio e assorto, più da mammifero di piccola taglia che da uomo, mentre tutte le cose, intorno a lui, sembravano congiurare alla catastrofe. Un altro aspetto notevole del carattere di Pietro, che molto naturalmente si sovrapponeva alla sua mite comicità, o comica mitezza, era la totale estraneità alla maggior parte delle cose che accadevano nel mondo e alle informazioni che queste cose, nel loro accadere, producevano. L’autenticità di questo non sapere nulla, però, era provato dal fatto che esso, lungi dall’essere ostentato, come fanno molti artisti e intel46

lettuali contemporanei, gli creava una reale sofferenza e un reale, energico senso di colpa. Mi aveva subito confessato che, per quanto riguardava le cose che succedevano a Berlino in quelle ultime settimane del 1989, l’impegno ai rifacimenti dei sonetti di Shakespeare gli aveva letteralmente impedito di farsi un’idea in proposito. Lui al massimo poteva dirmi che aveva una naturale simpatia per le distruzioni di muri sorvegliati da militari e per le rivolte in genere, ma prima o poi con tranquillità avrei dovuto spiegargli per bene tutta la faccenda. Prima o poi? La faccenda? Pietro non era certo la persona che ispirava lunghe conversazioni sull’attualità. A un certo punto, credo che tutti i suoi amici lo abbiano più o meno esentato da questo pedaggio, anche perché, quando l’argomento era dei suoi, Pietro era un conversatore straordinario, pieno di affetto ma anche di svolte sorprendenti del pensiero e ragionamenti insieme buffi e profondi. A Pietro piaceva parlare essenzialmente di poesia, d’amore e di ragazze, delle innumerevoli traversie della sua vita quotidiana. Ce n’era da riempire ore e ore e lui, una volta presa confidenza con la persona, si rivelava infallibilmente un vero artista del telefono. Verso gli ultimi anni, e soprattutto nei mesi della malattia, il telefono ha rappresentato per Pietro un’isola di felicità psicologica, una forma perfezionata e gratificante di relazione con il prossimo. Come molti che l’hanno conosciuto, anch’io se penso a lui d’istinto lo immagino con la cornetta in mano, e i suoi lineamenti sfumano presto nella dolcezza sempre un po’ roca della voce. Anche di macchine, per esempio, parlava moltissimo. La macchina era uno degli strumenti principali con cui Pietro, ogni giorno, affrontava un’altra tappa del lungo sentiero nella giungla della vita. La Y 10 gli strappava una reale ammirazione, e considerava i suoi inventori dei disinteressati benefattori 47

dell’umanità. Nel variegato repertorio delle sue lamentazioni, d’altra parte, l’Epica del Parcheggio costituiva un capitolo praticamente inesauribile. La situazione si aggravò molto dopo lo sciagurato trasloco da via Aleardi in una strada buia e ripida all’estremo nord della città, dalle parti della Cassia, un posto che a Roma è conosciuto come Villaggio dei Cronisti, anche se magari non ci abita più nessun cronista. La nuova strada era in ripida discesa, e quando Pietro trovava parcheggio solo in cima, la mattina dopo era costretto a portare i bambini in braccio fino alla macchina. Mentre Pietro parlava, esultante o disperato, di come aveva parcheggiato la macchina, faceva intravedere improvvisamente all’ascoltatore il regno invisibile nel quale viveva come un bambino delle fiabe prigioniero di un sortilegio: un regno nel quale ogni desiderio, ogni decisione, ogni piccolo gesto erano sottoposti all’interferenza di un esercito di divinità generalmente ostili e dispettose. Mi ricordo di una volta che doveva spedire una lettera a un famoso studioso di letteratura tedesca, ai tempi in cui aveva tradotto le poesie di Georg Trakl. Mi piacerebbe proprio essermi appuntato da qualche parte tutto il racconto di quella terribile impresa come me l’aveva fatto Pietro. Mai avevo capito quanto un gesto semplice come quello di imbucare una lettera, in realtà, a scomporlo in ogni minimo dettaglio, era irto di trappole e difficoltà imprevedibili, pronte a trasformarsi in ostacoli insormontabili. Tutti noi, per sopravvivere, siamo costretti a comportarci un po’ come i personaggi dei cartoni animati, che camminano sul vuoto fin tanto che non se ne accorgono. Pietro era sempre in questa pericolosa condizione di consapevolezza, come Willy Coyote che guarda in giù, capisce di non avere più la terra sotto i piedi, e inizia a precipitare nel solito canyon. Nel suo studio, a casa, c’era una specie di carta da parati 48

con un grande bosco, forse di betulle, a grandezza naturale. Mi faceva un po’ pensare al finto bosco in soffitta dell’Anatra selvatica di Ibsen. Del mondo Pietro aveva visto pochissimo, credo che non sia mai uscito dall’Italia, e anche da Roma, a parte il Circeo e una casa della famiglia dei suoceri da qualche parte in Abruzzo, si è sempre mosso raramente. Da bambino, d’estate, andava dallo zio a Mazzarò, vicino Taormina, un luogo ancora incontaminato che gli è sempre rimasto nel cuore. Come se lo spazio del mondo, per lui, si fosse ridotto a un numero limitatissimo di percorsi obbligati, un sistema di gallerie scavate con fatica dentro un terreno compatto, impenetrabile, quasi totalmente inconoscibile.

André Gide definiva I sotterranei del Vaticano una «farsa». L’argomento di questa farsa era: il potere dell’invisibile, anzi dell’inesistente che si spaccia per invisibile. Gli stessi eventi reali che si producono nel corso della storia sono interpretati come conseguenze a catena di una menzogna, di un’originaria mancanza di essere. “Roma”, chiaramente, qui vale per “mondo”. Eppure, nessun posto del mondo si presta al gioco, effettivamente, come questo. Ogni tanto, sui giornali, riaffiora la notizia di un raffinato aristocratico russo, direttore d’orchestra e amico dei più grandi musicisti del suo tempo, che in realtà, dal suo elegante e spazioso appartamento nei pressi di piazza Venezia, avrebbe comandato le Brigate Rosse. Oppure: un uomo si presenta al pronto soccorso del Policlinico in preda a un attacco d’ansia, e per errore gli viene amputato un braccio. C’è un punto critico, un limbo mentale in cui le storie, e le persone e i fatti che le compongono, non sono più né semplicemente veri, né semplicemente falsi. È bastato un attimo di distrazione: non abbiamo letto, per una sola mattina, «Il Messaggero» poggiato sul tavolino o sul ripiano del frigo dei gelati 50

al bar. Ci è sfuggita una premessa essenziale della storia, o una sua conseguenza altrettanto essenziale. O ancora qualunque cosa a metà strada tra la premessa e la conseguenza. Sappiamo tutto ma oltre quel tutto è annidato un ulteriore particolare, che sicuramente ci sfugge, una smentita ufficiale pubblicata in corpo piccolo su una pagina interna, oppure la forma perfetta, il cristallo definitivo di una diceria che circolava ancora incompleta... Mancano i riscontri, le verifiche, l’accordo armonioso delle versioni. Dico tutto questo perché mi accorgo che anche Pietro, mentre ne scrivo, e per quello che ne scrivo, sembra possedere uno scarso grado di “probabilità” – anche ai miei occhi, che pure l’hanno conosciuto di persona. Mi ricordo che una volta, dopo che avevo pubblicato su «Nuovi Argomenti» un ricordo di Pietro scritto pochi giorni dopo la sua morte, ho ricevuto una telefonata di Adriano Sofri (doveva essere nel periodo in cui era libero). Gli era piaciuto quel pezzo, ma pensava che mi fossi inventato tutto, bibliografia compresa, facendo una specie di nuovo Pierre Menard di Borges. Il complimento mi aveva lusingato lo stesso, anche perché io non sarei mai in grado di inventare un personaggio minimamente interessante come le persone reali che ho conosciuto. Ma questo equivoco la dice pur sempre lunga su Pietro, il mitissimo e spaventato Pietro, che considerava sommamente improbabile, lui per primo, la sua esistenza. Mi viene in mente un fatto che non avevo considerato, e al quale non so dare nessuna spiegazione – semplicemente perché non ne ha. Ma è proprio questa assenza di spiegazioni che mi incoraggia a scriverne. Nel vecchio condominio di via Aleardi viveva, oltre a Pietro, un’altra persona che conoscevo già da qualche tempo. Quanto stimavo Pietro, tanto disprezzavo quel russo di bassa statura, calvo a parte due scopettoni unti intorno al51

le orecchie, i denti storti e giallastri, vestito sempre con un osceno completino del colore di quello dei controllori sull’autobus, con tanto di svolazzanti zampe d’elefante. Mi aveva scovato mentre facevo il servizio civile, in un centro di ricerche chiamato Archivio Disarmo, e non mi aveva più mollato fin dal primo giorno. Questo ente pubblico era specializzato nella raccolta di notizie sugli eserciti, gli armamenti, le guerre di tutto il mondo. Quella canaglia russa aveva capito che per me era una situazione dalla quale, per quattro ore di mattina o di pomeriggio, non potevo sfuggire, e se ne approfittava. Il fatto è che aveva diritto come tutti gli altri a frequentare la biblioteca e l’archivio dei ritagli di giornale, e quindi si piazzava lì, anche se palesemente non aveva nulla da fare. Con gli altri obiettori, lo chiamavamo Ivan il Terribile, all’inizio, e poi, più volentieri, Ivan il Coglione. Aveva sempre pronto, nel taschino della giacca, un biglietto da visita nel quale si definiva ingegnere e poi qualcosa come consulente scientifico presso l’ambasciata sovietica di Roma. Per salvaguardare le apparenze, certe volte ci chiedeva delle fotocopie, da libri e cartelle di ritagli scelti evidentemente a caso. Ma il suo scopo era un altro: rompere il cazzo a noi che lavoravamo lì. Tenacemente, e mellifluamente. Con l’aria di uno che credeva di saperci fare, qualunque cosa avesse in mente di fare. Quest’ultimo era l’aspetto più patetico. Faceva domande di tutti i tipi: hai la ragazza, quanto ti danno qui, sei comunista, sei anarchista, in che quartiere abiti. Ti offriva una sigaretta, e mentre la prendevi, ti lasciava in mano il pacchetto pieno, ammiccando con quello che nella sua mente derelitta doveva essere un sorrisetto di complicità, ma agli occhi degli altri risultava una smorfia da imbecille veramente pietosa. Di sigarette, ne prometteva stecche intere. E bottiglie di vodka, caviale. Se senti qualcosa poi la racconti a me, ripeteva instan52

cabilmente. Ma che dobbiamo sentire, gli rispondevamo noi, che cerchi. La mancanza di rispetto non lo turbava affatto. Perché aveva la sensazione, il mentecatto, di scivolare all’interno di qualche forma di complicità virile. E si rafforzava nell’assurda convinzione di saperci fare, con il suo lavoro. Qualunque fosse, questo lavoro. Di sicuro ingegnere ero più io di lui. Lui cercava informazioni, da fornire a qualcuno che a sua volta... Orecchiava, tentava di corrompere. Tra tutti gli obiettori, aveva individuato in me un possibile punto debole, una gola profonda. E mentre restavamo soli in corridoio, all’orario di chiusura, appoggiati agli enormi classificatori di alluminio grigio, sotto la luce giallastra del neon, io cercavo di spiegargli che lì, in quell’archivio frequentato da innocui studenti e militanti pacifisti non c’era proprio nulla da orecchiare, di interessante per lui. E anche che a me, quell’attività di orecchiare e ammiccare e carpire mezze informazioni da trasformare in chissà cosa, faceva assolutamente schifo. Erano gli ultimi mesi del mondo di Yalta, dei Due Imperi. Io odiavo quella gente: i loro capi mafiosi, e le minuscole pedine come Ivan il Coglione, che in realtà si chiamava Igor, ricordo solo questo. Ma lui, era così stupido, goffo, incapace, che alla fine, in capo a qualche settimana, mi stava simpatico. Quel tipo di irragionevole simpatia che è tanto più forte quanto più non contiene nemmeno una dose minima di stima per l’altro. E così, affluirono nel mio zainetto stecche di Camel, confezioni di caviale, scatole di deliziosi molluschi affumicati – pagate da chissà chi e a che scopo. Mi chiedevo se stavo commettendo qualche specie di reato connesso allo spionaggio, o roba del genere. Meditavo di chiedergli se, tante volte, aveva dell’oppio da parte. Per tutte queste ragioni avevo saputo dove abitava. Due stanzette puzzolenti al pianoterra del condominio di via Aleardi. Nel secchio della spazzatura avevo notato una bel53

la pila delle fotocopie assurde che ci chiedeva all’archivio per giustificare la sua presenza lì. Igor spesso mi riaccompagnava a casa dal lavoro, con una macchina targata Corpo Diplomatico. Io mi facevo lasciare sempre allo stesso punto, non volevo che vedesse il mio portone, ma era una precauzione del tutto inutile. Igor mi raccontava un mare di bugie sulla sua vita e soprattutto sul numero di donne che si era scopato a Mosca, durante l’università. Accompagnava questi gesti con serie di movimenti intesi a mimare pompini e galoppate in varie posizioni, e gli si scoprivano gli avambracci sottili cosparsi di una peluria marroncina. Solo una volta, parlando di un suo fratello maggiore morto in Afghanistan, la sua voce si è effettivamente incrinata, e girandomi ho visto quei suoi occhi tondi e sporgenti inumiditi dalla commozione. Ma era il tipo da piangere sulle sue stesse balle, soprattutto se era sbronzo. Secondo me, se non era stato rimosso dall’incarico e rimandato a spalare terra in patria, si doveva solo allo stato di irrimediabile putrescenza di tutto il sistema sovietico. Magari i suoi superiori se l’erano già data a gambe. O invece non era così coglione come il suo soprannome dava a intendere. Ma se se ne stava a parlare con me, che non sapevo nemmeno il nome del ministro degli esteri, nel traffico di via Nomentana, mentre tutto il suo mondo di merda gli crollava intorno, un James Bond del Caucaso non sarà stato di certo. Che cazzo stai facendo della tua vita, gli ho detto un giorno che mi aveva urtato i nervi, cosa vuoi, cosa cerchi. Lui mi ha accarezzato la coscia, arrivato al semaforo dove di solito scendevo dalla macchina. Poi ha cominciato a stringermi con più desiderio, risalendo verso l’inguine. Io gli ho scostato la mano e gli ho chiesto dove erano finite tutte quelle femmine dell’università, di cui mi aveva parlato tante volte. Volevo essere beffardo perché mi aveva preso in contropiede, mi sentivo umiliato. Lui era 54

imbarazzatissimo per la sua eccitazione, e a un certo punto si è asciugato addirittura le perle di sudore sulla sua fronte da primate con un lembo dell’orrida cravatta regimental. Ricordo di aver immaginato, come in un lampo, lo spogliatoio di un liceo o di una caserma in qualche posto sperduto dell’immensa Russia, e quell’idiota, un po’ più giovane, che subiva qualche umiliazione atroce dai compagni più vecchi. E subito dopo lui stesso che, passato un anno o due, con qualche strumento di tortura in mano (un asciugamano appallottolato, uno scopino da cesso...), restituiva il favore, ormai ammesso nel branco, a qualcuno arrivato dopo. Noi siamo fratelli, mi ha detto, con un tono di voce che mi ha stupito ancora prima delle parole. Un tono serio, ancestrale, tolstojano. Io cerco dei fratelli. Mi sono messo a ridere, aprendo la portiera, e l’ho salutato con il solito vaffanculo che lui credeva cameratesco. Dopo qualche tempo, mi hanno congedato, è finita l’Unione Sovietica, e Ivan il Coglione è sparito nel nulla. Adesso Ivan e Pietro, il muro di Berlino e quello di via Aleardi si sono organizzati un posto tutto per loro nel disordine dei ricordi, una specie di regione autonoma a statuto speciale, tra le tantissime altre di cui si compone la memoria. Spettri, garze sempre più sottili, fino a diventare invisibili, che il tempo sovrappone sull’aspetto delle cose. Ogni mattina, da qualche anno, all’angolo di via Aleardi e via Boiardo, di fronte alla porticina di una mensa di carità, si snoda una fila di poveracci, in prevalenza balcanici e asiatici, già ubriachi alle nove, tanto che a volte qualcuno di loro stramazza e i compagni lo sostengono per farlo rimanere nella fila. Ruttano, scoreggiano, cantano vecchie canzoni, si prendono in giro e molestano i passanti. Non gliene frega più niente di quello che uno può pensare di loro. 55

Il grande poeta sconosciuto e la spia fallita hanno condiviso per qualche tempo gli stessi spazi, la stessa soglia di casa. Probabilmente, i loro sguardi si saranno incrociati, e arrivando insieme al portone, per uscire o entrare, si saranno scambiati qualche saluto automatico. Nelle città accade sempre questo, che destini avversi e caratteri inconciliabili vivono gomito a gomito, mentre ciò che è straordinariamente simile, le anime gemelle e le tessere perfettamente combacianti del mosaico, non si incontrano mai, o quasi. Questa simmetria è propriamente la pace delle città, il loro rumore sordo, un particolare tipo di promessa o di minaccia, dipende dai punti di vista, rinnovata ogni sera.

Il corso di Tai Chi era finito; oppure, non avevo più avuto il coraggio di presentarmi alle ultime lezioni. I giorni e le notti parevano liquefarsi uno addosso all’altro, come una scatola di cioccolatini dimenticata in macchina. A proposito di macchine, il caldo una notte ha fatto impazzire l’allarme della mia. Per favore, faccia qualcosa, c’era scritto su un biglietto trovato sul parabrezza – parole che, anche in circostanze meno complicate delle mie, era facile interpretare in qualche sinistro significato generale. Per favore, faccia qualcosa. Prima di andare a cercare un elettrauto, ho ripiegato il biglietto per conservarlo nel portafoglio. Una certa notte uguale alle altre, mentre i corpi di tutta la città restituivano all’umidità circostante più liquidi di quanti ne assorbissero, giugno è diventato luglio. Sul «Messaggero» le notizie allarmanti si moltiplicavano, come per generazione spontanea. Segnali, obliqui avvertimenti, extrasistole del caso. In un qualche ufficio postale, si era aperto per sbaglio un pacco, che conteneva migliaia di piccoli grilli provenienti da un remoto paese sudamericano. Questi grilli si erano dispersi per i vasti ambienti dell’ufficio, e si erano anche spinti, non so se per disperazione o per un supremo soprassalto di iro57

nia, ad aggredire gli impiegati, provocando su braccia e polpacci piccole piaghe ed escoriazioni. Questa partita di grilli amazzonici era stata ordinata da un allevatore romano di iguane. L’articolo si concludeva con una prospettiva angosciante: se non fosse arrivata presto un’altra partita di quei piccoli grilli, i fieri rettili si sarebbero lasciati morire di fame, come eretici medievali in cerca della libertà dalla prigione diabolica del mondo. Di queste iguane a digiuno, nei giorni successivi, non si è fatta più parola nel giornale. Più in generale molte storie, una volta suscitato spavento o altre forme di disagio, sembravano accontentarsi così, tiravano il sasso e nascondevano la mano, si rifiutavano di piegarsi alle necessità di un qualunque finale, allegro o triste, assurdo o edificante che fosse. Come un grillo tropicale di piccola taglia negli spazi immensi e incomprensibili di un ufficio postale europeo, io saltellavo dubitosamente lungo il tempo della mia vita. Spesso di notte mi spostavo nel salotto della grande casa, quasi completamente privo di mobili, dove faceva un po’ più di fresco che nella stanza dall’aria irrespirabile. Guardavo la tv, repliche di telefilm o porcherie del genere, finché ero troppo stanco e accaldato anche per questo, e allora me ne stavo al buio dando lunghe sorsate a una bottiglia d’acqua minerale (come raccomandato in quei giorni da tutte le autorità mediche del paese), fumando, guardando fuori dalle finestre spalancate la mole del grande palazzo che incombeva sull’altro lato di via Galileo. A volte, sentivo i rumori dei miei amici, il Reverendo e l’Antilope, che facevano l’amore, provocando un cigolare della rete del letto ritmico e crescente. Questo rumore non mi faceva tristezza, come certe volte può capitare in albergo – tutt’altro. In qualche maniera, il suo suono si confondeva, mentre la mente si scavava la sua nicchia nel sonno, a 58

quello del fiume sotterraneo nelle profondità di San Clemente. I folletti, i buoni folletti dei fiumi sotterranei e delle reti dei letti, mi squittivano in quella loro lingua, un attimo appena prima che perdessi la coscienza, i loro preziosi ammonimenti e consigli – tanto più preziosi quanto meno riuscivo a decifrarli. L’amicizia è stata sicuramente la risorsa più importante della mia vita. Anche quello che è rimasto dell’amore, una volta spremuto, insomma il suo olio, per così dire, si è rivelato della stessa sostanza dell’amicizia. Quando me ne ero andato da casa, iniziando una serie di inutili e penosi spostamenti in ricoveri sinistri e transitori, tra le poche cose che mi ero portato con me c’erano i libri di Pietro: la raccolta delle poesie, Altre visioni, con il particolare di un’acquaforte di Morandi (le fronde di un grande pioppo) incorniciato nella copertina verde, che gli piaceva tanto, i libretti rossi con le traduzioni di Callimaco e Trakl, quello grigio di Arnaut Daniel, l’edizione a tiratura limitata delle prose con due incisioni di un artista contemporaneo... Tutta l’opera di Pietro si può tenere comodamente in una mano, peserà poco più di un etto, avevo pensato cercando i libri e mettendoli da parte in uno zaino. Non so nemmeno se intendevo rileggerli, o se in quel momento, dopo aver baciato, letteralmente, gli stipiti di tutte le porte, e imboccate una volta per tutte le scale, volevo avere con me una specie di talismano, o qualche altra scempiaggine del genere. Pietro scriveva con una calligrafia così minuta e aggrovigliata, simile ai denti di un seghetto molto consumato, che mi è sempre stato impossibile decifrare le sue dediche, lunghe da occupare tutto il frontespizio e sicuramente piene di affetto, gratitudine, attestati di eterna fedeltà. Pur rimanendo sigillata nella sua incomprensibilità, forse anzi addirittura in ragione di questa incomprensibilità, la sua 59

scrittura era sempre piena di questi sentimenti, che percorrevano come una corrente i fili sottilissimi delle consonanti e delle vocali. Conservo ancora intere lettere di Pietro di cui non sono nemmeno stato capace di decifrare una sola frase, come se fossero scritte in una lingua inventata – una lingua i cui segni non esprimono per forza dei significati, e il gesto stesso di scrivere, riempiendo di righe lo spazio bianco di un foglio, è sufficiente a esprimere tutto l’affetto che si vuole esprimere, come una carezza o una stretta di mano.

Com’è prevedibile, tutte le strade che si diramano da piazza Dante hanno il nome di qualche importante poeta o scrittore italiano e lo stesso vale per l’intera zona di Colle Oppio e dall’altra parte di via Merulana fino a San Giovanni. Via Aleardi porta a via Boiardo, e da qui si può arrivare a via Tasso percorrendo un’altra stradina appartata e silenziosa, via Berni, che parte dal fianco destro del candido villino rinascimentale. Percorrendo le poche decine di metri di via Berni si nota subito, all’angolo su via Tasso, la mole di una palazzina giallastra. Era stato un altro principe romano, Francesco Ruspoli, a far costruire, alla fine degli anni Trenta del Novecento questo brutto edificio di stile vagamente razionalista come se ne trovano, ugualmente anonimi, in tutta Roma, e se è per questo in tutto il mondo, sull’area corrispondente agli attuali numeri civici 145-155 di via Tasso. A differenza del suo predecessore rinascimentale, questo nuovo principe non cercava certo, dopo più di tre secoli, un elegante ritrovo in piena campagna, da ornare con antiche sculture. Si trattava di una normale speculazione edilizia, attività mai disdegnata dai moderni e dagli antichi principi romani. Suddivisa in appartamenti, la palazzina avrebbe presto fornito al principe un 61

buon reddito di affitti. Se non che, l’intero edificio cadde in mano al peggior inquilino immaginabile: vale a dire l’ambasciata tedesca, nascosta, a poche decine di metri da lì, dagli alti muri e dal parco di Villa Wolkonsky, dove la principessa Zenaide Wolkonskaja visse romanticamente dal 1829 al 1862, quando finalmente la morte la liberò dal ricordo dell’infelice amore per Alessandro I di Russia. I tedeschi installarono nella nuova palazzina di via Tasso l’Ufficio Culturale, e gli uffici dell’addetto militare e di quello di polizia. Quest’ultimo addetto, Herbert Kappler, era un ufficiale delle SS, funzionario della Polizia di Sicurezza, SIPO. Durante i nove mesi dell’occupazione nazista di Roma, dall’11 settembre 1943 al 4 giugno dell’anno dopo, tutta la palazzina di via Tasso venne adibita a quartier generale della SIPO, con annesso carcere. I tedeschi gestivano anche due bracci del carcere di Regina Coeli, a Trastevere, dove certo la vita non era facile. Ma in confronto, chi finiva in una delle celle semibuie di via Tasso, poteva pensare a Regina Coeli come a un paradiso. Era l’ala destra dell’edificio, al numero 145, quella adibita a carcere, dal secondo al quinto piano. Al loro ingresso i detenuti, privati di tutto, si vedevano consegnare una coperta militare, una gavetta per il rancio e un cucchiaio di legno. Le celle erano ricavate dai locali degli appartamenti, comprese le cucine e i bagni e gli sgabuzzini utilizzati per l’isolamento, fatto che rende questa prigione veramente strana, priva com’è della razionalità e dei larghi spazi di passaggio dell’architettura carceraria. L’atmosfera intima di quei vecchi appartamenti romani, tutti simili con le loro mattonelle di graniglia, doveva risultare ancora più terrificante ai detenuti, proprio perché il familiare e il mostruoso si fondevano indistricabilmente rendendo così, immagino, ancora più difficile la resistenza interiore e il ricorso a pensieri di consolazione. 62

Di solito il prigioniero soffre perché, portato via di casa, ne sente la mancanza, anela a quel bene perduto così diverso da tutto ciò che vede intorno a lui. Ma che dire di un prigioniero che si risveglia in una casa che si è trasformata in prigione? Non gli verrà forse, in questo modo, scompigliato l’ordine simbolico fin dalle radici, disorientando e infine vanificando ogni immaginazione vitale di fuga, di altrove? È facile speculare sulle finezze architettoniche e scenotecniche dei tedeschi; fatto sta, che i soldati delle SS murarono quelle stanze dall’interno, dopo aver bloccato all’esterno le serrande delle finestre. Oggi che queste stanze sono i locali del Museo storico della Liberazione di Roma, gran parte di quest’opera muraria consistente di rozzi mattoni rossicci è stata rimossa, ma ne rimangono delle parti a scopo dimostrativo, come per esempio in una cella nell’appartamento del terzo piano, che a giudicare dalla presenza di un lavello doveva essere stata una cucina, cella dove era stato rinchiuso un certo Montezemolo, un ufficiale passato alla Resistenza e fucilato alle Fosse Ardeatine dopo aver subìto, in questa stanza o in qualche locale attiguo, sevizie fisiche e mortificazioni psicologiche che sono sempre le stesse, in fin dei conti, in tutte le guerre degli uomini, a parte qualche secondario particolare tecnico. Così come possiede dei cappellani, degli ingegneri, dei cuochi, dei medici, ogni esercito in guerra, necessariamente, conta tra le sue file anche un certo numero di torturatori, ufficiali e soldati della truppa, perché così sono le guerre, la tortura è un’arma troppo preziosa per cederne i vantaggi al nemico, preziosa perché, quando praticata, può far ottenere informazioni importanti, certamente, ma anche, e soprattutto, perché la sua minaccia, l’ombra incombente della sua possibilità, fiacca il morale del nemico, aumenta le sue possibilità di errore, finisce per tagliargli le gambe. 63

La finestra di questa cella, di questa cucina trasformata in cella, di questa cella trasformata in sala di museo, che adesso riceve regolarmente la sua luce, affaccia sulla parte posteriore della palazzina di via Tasso, dove c’è un piccolo cortile ombreggiato da alberi d’alto fusto e delimitato da un muro di strana forma semicircolare nel quale si apre una porticina, che immette nel chiostro, sempre silenzioso, costruito sul retro dell’altra casa, cioè del villino antico all’altro angolo di via Berni, che oggi è la sede della Delegazione dei Francescani in Terrasanta. Ai tempi dell’occupazione tedesca, tra i due edifici costruiti in tempi così distanti da due principi romani, e posti per così dire schiena a schiena a una distanza di una trentina scarsa di metri, c’era solo il resto di un giardino in stato di abbandono o coltivato ad orto. Incorniciati sul muro della cella, tra altri documenti, ci sono alcuni brandelli della divisa di Montezemolo, pochi pezzi di stoffa lurida e con qualche bottone casualmente rimasto attaccato, in compagnia del cordino che servì a legare i polsi del prigioniero, al momento del trasferimento in camion alle Fosse Ardeatine. È una cordicella bianca annodata, come ne esistono a miliardi sul fondo di tutti i cassetti e i ripostigli del mondo, un oggetto dall’aspetto del tutto inoffensivo, quasi inadeguato, nella sua insignificanza, al ruolo di strumento di morte che senza colpa – se è immaginabile una colpa o una relativa innocenza degli oggetti – gli è stato imposto.

Durante le ore più calde del giorno, se avevo la forza necessaria a staccarmi dal letto e dai miei pensieri, che spesso assumevano l’aspetto di paranoie ritmiche e regolarmente cadenzate per interi pomeriggi, me ne stavo spesso alla Biblioteca Nazionale, dove il tempo scorreva silenzioso e l’aria condizionata filava a gonfie vele fino alle sette di sera. L’unico problema era attraversare lo spazio desertico, accecante e infuocato, tra il parcheggio e l’edificio della biblioteca. Più di una volta, procedendo in uno stato di assoluto torpore, mi sono imbattuto in un capannello di persone che soccorreva qualcuno che non ce l’aveva fatta, crollando semisvenuto anche a pochi passi dalle porte a vetro automatiche dell’entrata. Molta gente, come me, andava lì solo per godersi il fresco, sfogliare distrattamente qualcuno dei libri in esposizione, schiacciare un pisolino nella posizione più dignitosa possibile. Dopo qualche giorno, mi era venuto in mente di fare delle ricerche, sia sul dio Mitra che sui sotterranei di San Clemente. Sfogliavo i due grossi volumi della massima autorità in materia, l’opera di François Cumont, professore all’università di Leida e massimo esperto di astrologia e scienze oc65

culte antiche, intitolata Textes et monuments figurés relatifs aux mystères de Mithra, pubblicata a Parigi tra il 1896 e il 1899. Mi aveva incuriosito, leggendo l’indice topografico alla fine dell’opera, stampata in carta pesante e piena di centinaia di illustrazioni, il numero di bassorilievi e iscrizioni che erano venuti fuori, nel corso del tempo, proprio nella zona che va da piazza Dante a piazza San Giovanni. Una concentrazione di immagini veramente sbalorditiva di questo dio persiano sempre coperto dal suo berretto frigio, sia che emerga dalla Pietra Genitrice, perché il dio fu partorito da una roccia, sia che uccida il Toro. È questa la scena fondamentale dell’arte ispirata a Mitra, l’uccisione del Toro Primordiale, e la si vede anche sulla facciata di Villa Massimo, tra i tanti bassorilievi antichi murati lì dal primo proprietario, come anche al centro del Mitreo di San Clemente, su una faccia di un cippo quadrangolare, forse un altare, dove sono rappresentati, sugli altri lati, anche gli immancabili compagni del dio, Cautes e Cautopates, il primo con la sua torcia in alto, a simboleggiare il levarsi del sole, mentre il secondo tiene bassa la sua, significando il ritirarsi della luce. Appena abbozzata, sul quarto lato di questo cippo si vede la sagoma ondulata di un serpente. Tutti i libri sacri della religione di Mitra, in pratica, sono andati perduti, ragione per cui nulla di certo se ne può dire, ma in compenso, di storie su questo dio ne conosciamo ancora parecchie, compresa quella, davvero strana, del Toro, tanto strana da far sospettare che in realtà, invece che una storia, si tratta di due storie trasformate in una, difficile dire se per malizia o per ingenuità, e senza che sia possibile stabilire il punto esatto in cui la prima storia, di soppiatto, si trasforma nella seconda. Così come li racconta il professor Cumont dell’università di Leida, i fatti comunque sono questi: 66

Mitra, dopo essere stato partorito dalla sua roccia, scorge da lontano e cattura il Toro, non un toro qualunque, ma il Toro Primordiale; il dio si carica il Toro sulle spalle afferrandolo per le zampe posteriori, e lo trascina verso la sua caverna. Questa scena, molto rappresentata sui bassorilievi, era detta il transito di Mitra, e i sacerdoti ne facevano l’immagine allegorica delle fatiche della vita umana; a questo punto della storia, si produce un evento del tutto inaspettato: il Toro fugge dalla caverna; vedendo il Toro in fuga, interviene il Sole, eterno alleato di Mitra, se non addirittura un altro aspetto della sua identità, che manda al dio un corvo messaggero con l’ordine di uccidere l’animale; la storia della cattura del Toro, dunque, si è trasformata nella storia della caccia e dell’uccisione del Toro. Di per sé, tale trasformazione è inquietante. Allude a necessità, a desideri che cambiano. A una crisi, a un’eclisse del significato che determina un nuovo orientamento dell’azione. Mitra, ricevuto il messaggio dal corvo, obbedisce al Sole, e con l’aiuto di un suo cane cattura e uccide il Toro (sia il cane che il corvo sono scolpiti, assieme al Toro, su innumerevoli altari e bassorilievi); all’uccisione del Toro fa seguito un prodigio, o meglio una serie di prodigi: dal corpo della vittima moribonda nascono tutte le piante e le erbe salutari, dal suo midollo spinale nasce il grano, dal suo sangue la vigna; lo spirito maligno, a questo punto, combatte la nuova vita che si è appena generata, mettendo in campo i suoi soldati: lo scorpione, il serpente, la formica, che tentano inutilmente di divorare i genitali del Toro morto e di bere il suo sangue; 67

sconfitti gli animali dello spirito maligno, interviene anche la Luna, che assieme al Sole ha partecipato ai fatti dall’alto dei cieli, e che adesso raccoglie e purifica lo sperma del Toro, dal quale nascono tutte le specie di animali utili; infine l’anima del Toro, protetta dal cane che appena prima gli aveva dato una caccia mortale, sale in cielo, dove viene divinizzata e diventa la protettrice delle greggi e delle mandrie.

Con Fabrizio, un altro mio amico che abita all’incrocio tra via Boiardo e via Berni, un pomeriggio di fine luglio discutiamo su una cartolina che riproduce una veduta di Gaspare Vanvitelli della piazza del Laterano. In primo piano c’è l’obelisco di Thutmosis III e in fondo, all’incirca dove oggi finisce via Tasso, si vede l’edificio della Scala Santa. Andiamo a trovare Antonio per fargli vedere come era l’angolo della sua edicola nel Settecento, quando di fronte al Laterano non c’era l’imponente palazzo di oggi, ma come si vede sul lato sinistro del quadro di Vanvitelli, una serie di casupole rustiche di non più di due piani. A giudicare dalla prospettiva, l’artista deve aver lavorato sicuramente sfruttando la veduta di una finestra dell’ospedale che delimita la piazza, forse dall’ultima a destra del secondo piano. A parte il terreno irregolare ed erboso, e il maggiore senso di ampiezza che deriva dalla parte di via Merulana, ancora priva di palazzi, la piazza è proprio come oggi. Antonio ci legge una lettera del Comune, Ufficio Tutela Botteghe Storiche, appena ricevuta. La Commissione per la Tutela delle Botteghe Storiche, dopo aver ampiamente dibattuto, così dice la lettera raccomandata, rifiuta l’attribuzione 69

della qualifica di “negozio storico” all’edicola di Antonio, pur riconoscendo alle edicole la funzione sociale di divulgazione dell’informazione e seppure in presenza di una storicità di esercizio. Questa sottile distinzione fa onore alla Commissione, ne rivela un insospettabile talento filosofico. All’essere storico non basta la storicità, afferma quel comunicato ufficiale, quella raccomandata del Comune: e non ha tutti i torti. La storicità è il liquido amniotico, la crisalide dell’essere storico. Noi continuiamo a invecchiare, giorno dopo giorno, e intorno a noi le cose continuano a modificarsi in modo impercettibile (angoli di strade, tronchi d’albero, vetrine di negozi, fermate dell’autobus, marciapiedi, insegne, cartelli) bevendo il latte della storicità. Abbiamo finito con il fare a meno del nostro significato, del nostro momento storico. Anche se un giorno una lettera raccomandata di qualche Commissione, terrena o celeste, arrivasse per informarci del contrario, del nostro essere storico, molto probabilmente, non sapremmo più che farcene.

A parte qualche scolaresca, il carcere di via Tasso, oggi Museo storico della Liberazione di Roma, è decisamente un posto poco frequentato. Si salgono le scale come in un normale condominio, con il passo di chi va dal commercialista o dal dentista, e durante l’orario di apertura si finisce direttamente dal pianerottolo alle case-prigioni del secondo e del terzo piano. In queste vecchie case borghesi romane, non manca mai lo sgabuzzino, che serviva da cella di contenzione ed era inoltre un’ideale stanza della tortura. Dopo l’interrogatorio, però, questa è la procedura più sensata e vantaggiosa da che mondo è mondo, i detenuti seviziati venivano riportati nelle loro celle, perché la tortura, lungi dall’esaurire la sua utilità, per così dire, in se stessa, ha anche questo vantaggio sempre apprezzato dagli aguzzini: che un prigioniero torturato serve anche a terrorizzare i suoi compagni di sventura e di cella. Il fascino, la particolare forza magnetica che emana ancora oggi, intatta, questa palazzina giallastra: una radianza, il perpetuarsi identico nel tempo di una vibrazione. È il conflitto delle dimensioni, l’imprevedibile destinazione degli spazi a creare uno sconcerto che lascia a bocca aperta. Le rampe decorose. I tinelli, i corridoi, i servizi. La soffocante, 71

centripeta, insulare borghesità dell’appartamento familiare romano anni Trenta. Vita «canarinizzata», come la chiamava Gadda. I lavandini irrimediabilmente anneriti. L’intimità dei suoni: catarro e flatulenze nella pace grigiastra del primo mattino. Tubature lente, gorgoglianti, abitate da spiriti in pena, demoni meschini dell’abitudine. Cicorietta, aglio, baccalà, trippa. Lampadine dal voltaggio così tenue, sperse in mezzo ai lampadari, che la luce delle stanze, a guardarla da fuori nelle sere d’inverno, pare calda e ambrata, ed è solo debole. Rumore di ciabatte. I rami d’ulivo della domenica delle palme a rinsecchire sulla testata del letto, con il suo materasso molle incavato al centro. Vasi da notte d’alluminio bianco, bordati di blu intorno all’orlo. Guglielmo Petroni, scrittore e partigiano lucchese catturato a Roma nel maggio del 1944, la mattina del tentato sciopero generale, ricorda così, a pochi mesi dalla sua improbabile e insperata liberazione, l’ingresso a via Tasso: Erano le scale di un moderno appartamento nel quale erano state ricavate le prigioni, scale comuni, pulite e ricoperte di marmo verde; salendo, l’aspetto usuale e familiare del luogo anziché confortare dava la prima sensazione di sgomento, pareva di salire in una di quelle tante case d’affitto nelle quali sta l’amico, dove spesso si è invitati a cena; ma al primo pianerottolo c’era un soldato con un bastone in mano e una enorme rivoltella al fianco; mi fece cenno di continuare, e così, di ripiano in ripiano, arrivai alla quinta rampa dove un altro soldato dalle spalle enormi mi aspettava con le chiavi in mano... Questi angeli del pianerottolo, questi impassibili bruti armati di clava e pistola, non sembrano possedere più consistenza di un cartone animato. Per la gente della mia età, è molto facile che, leggendo queste righe, il percorso dalla parola all’immagine vada a finire dritto alle Sturmtruppen di Bonvi. Ma anche Petroni nella sua memoria, già terminata nel 1945 e inti72

tolata Il mondo è una prigione, è scrittore talmente arguto ed efficace da affrontare la materia nell’unica maniera possibile, cioè spargendo tra le parole un lieve sale comico, un sottile retrogusto di paure ataviche, Pinocchio portato via dai carabinieri col pennacchio, e di desideri altrettanto atavici, Pulcinella che assesta un bel colpo di bastone sulla testa del milite: colpendo di spalle, com’è giusto che sia e come è apprezzato dai bambini e da tutti gli amanti delle marionette. Ma questi tedescacci ottusi e crudeli, con le loro spalle enormi, sono comunque a guardia di una soglia, e una soglia è sempre più potente e ricca di significato dei suoi eventuali guardiani. I quali, coi loro brutti ceffi, stanno sul limitare di un’altra esperienza dello spazio, ne sorvegliano l’accesso. È questo incrocio e corto circuito di dimensioni che crea lo sgomento del prigioniero-scrittore, perché la prigione che si spalanca sul pianerottolo è pur sempre una prigione, e la sua infinità piranesiana, la vertiginosa dismisura dei suoi spazi, non si calcola a metri quadrati, viene anzi potenziata, letteralmente fatta esplodere, proprio dalla ristrettezza di prospettive, dall’eterna domenica pomeriggio architettonica del decoroso appartamento familiare del decoroso condominio. Protetta e contenuta da tutti i segni della finitezza, l’infinità carceraria di via Tasso cresce nel buio, indisturbata come un tumore. Ovviamente, anche i carcerieri hanno fatto la loro parte. Un talento da autentici registi sembra essere stato dispiegato nei particolari dell’illuminazione – Prigione senza luce in effetti si intitola anche il capitolo del memoriale di Petroni dedicato all’ingresso in via Tasso. All’oscurità delle celle, con le finestre murate, si oppone la luce dei brevi corridoi degli appartamenti, luce di lampadina nuda, di gusto decisamente espressionista, verrebbe da dire, se la cosa avesse un senso. A Petroni fa l’effetto di un’«attrezzatura industriale», qualcosa di simile «agli scom73

partimenti di una ghiacciaia», e come al solito la sua capacità di osservare e rendere in sintesi l’idea è perfetta. La luce industriale: immutabile, imbevuta di mestizia e paura, indifferente al ciclo dei giorni, nemica del crescere e dello scemare. Dopo giorni di permanenza nell’ombra delle celle, quelle lampadine dovevano accecare i prigionieri, mortificando la loro, già debolissima, facoltà di orientamento. Ma dopo la vista, è la volta dell’olfatto – del più potente e veritiero dei sensi. Il «tanfo tiepido» che gli sale alle narici mentre procede, scortato dal guardiano, verso la cella non fa pensare a Petroni di trovarsi in una prigione come le altre. Semmai, aggiunge, pareva il tipico odore delle stalle dove sono molte gabbie per i conigli. L’odore dell’infinito. Conigli, moltissimi conigli.

L’altro giorno, avevo già scritto una cinquantina di pagine, viene a trovarmi a casa una ragazza bellissima, molto giovane, una di quelle bellezze inesorabili ma anche delicate che avrebbe sicuramente fatto innamorare Pietro al primo sguardo: e per sempre, perdutamente, senza speranza. Che era la sua maniera abituale di innamorarsi. Di tutte le sfide e di tutti i tranelli della vita, forse l’eros ha sconfitto Pietro con maggiore violenza, contribuendo a chiuderlo sempre di più dentro i suoi spazi angusti. Flavia, questa ragazza che è venuta a trovarmi, si è laureata in letteratura italiana con una tesi sulla poesia di Pietro. Ovviamente, non sapeva che stavo scrivendo, in queste settimane, dei ricordi di Pietro. Ma anch’io sono sbalordito perché pensavo proprio che, al di fuori di una cerchia molto ristretta di persone, fosse almeno improbabile che qualcuno si andasse ancora a leggere le cose di Pietro, tra libri ormai introvabili e vecchie annate di oscure riviste letterarie. Nell’unica antologia di poesia italiana recente in cui è stata inserita una sua poesia, un refuso ha deformato il suo cognome. Non potendo più difendersi dai suoi eterni nemici, gli invadenti e astuti refusi, questi si sono presa la peggiore delle rivincite, intaccando il nome, il midollo stesso 75

dell’essere e della memoria di sé tra gli altri. Figuriamoci poi questa ragazza incantevole, dai lineamenti così perfetti, che studia le poesie di Pietro, fruga nelle biblioteche, bussa alla porta di vecchi amici. Sembra un’allegoria, più che un fatto reale. Un sottile scherzo di Pietro dall’aldilà, mi viene da pensare a un certo punto. La tesi di laurea fra l’altro è ottima e si capisce ben presto che Flavia, delle difficoltà e delle finezze della poesia di Pietro, ne sa molto più di me. Le regalo un piccolo ricordo, un cartoncino di invito a una serata in suo onore organizzata dai suoi amici al Teatro Argentina, qualche anno fa. La mattina dopo, mi sono alzato e ancora intorpidito ho iniziato a scrivere una poesia, una poesia su Pietro da inserire magari in queste pagine. Ho appuntato i primi versi sul retro di un foglio della tesi di laurea di Flavia, che mi ero portato a letto la notte prima e adesso giaceva sparpagliata in vari mucchietti tra le lenzuola disfatte e il pavimento. Che animale fantastico è la lucciola, incarna la leggerezza della luce la rende evidente col suo esistere breve e idiota e testardo... Era un giorno particolare, quell’otto giugno del 2004. Per qualche ora, dalle sette di mattina all’ora di pranzo, il passaggio di Venere tra la Terra e il Sole ha provocato una minuscola eclissi, Raramente questo transito, che oscura una trentesima parte della superficie del Sole, è stato osservato nel corso della storia umana, e solo a partire dal 1631, quando fu previsto dall’infallibile Keplero. Il tempo si compone di un’infinità di misure, forse sono addirittura le misure a custodire la sua sostanza, la sua essenza più intima, eppure qua76

si tutte le misure sono al di fuori della nostra portata, eccedono l’esperienza, non hanno nessun significato concreto per noi. Il transito di Venere si verifica solo quattro volte in duecentoquarantré anni. Un transito è seguito da un altro dopo otto anni, poi bisogna aspettarne centocinque, poi ancora otto, poi centoventuno. È la regola. La maggior parte del tempo è fatta di queste scansioni inospitali e imperscrutabili. Cosa facciamo noi in otto, poi in centocinque, ancora in otto e infine in centoventun anni? Che cosa diventiamo, che cosa siamo, proiettandoci anche solo per gioco su questo ritmo?

Un’altra coincidenza capitata quando ho iniziato a scrivere su Pietro è stata la lettura casuale di un famoso saggio di Hannah Arendt dedicato al suo amico Walter Benjamin. Ci ho trovato una filastrocca che Benjamin aveva imparato da piccolo e che in qualche modo si è trasformata nell’oroscopo, nella profezia irrimediabile della sua vita. In cantina voglio andare, il mio vino voglio bere; un omino con la gobba ahimè compare e si beve il mio bicchiere. In cucina voglio andare, a scaldare il mio brodino; un omino con la gobba ahimè compare e mi rompe il pentolino. La malasorte di cui parla Hannah Arendt, che descrive il suo amico afflitto per tutta la vita dai tiri mancini dell’omino gobbo, non è necessariamente tragica. Il tipo di sfiga di cui qui si parla esercita un’azione costante e leggera. Anche quando 78

produce un fatto dall’esito tragico, come nel caso della morte di Benjamin al confine tra Francia e Spagna, dove era arrivato nell’unico giorno in cui non sarebbe dovuto arrivare, la vittima dell’omino gobbo si presenta sulla scena del destino con l’aria inconfondibile e i vestiti troppo larghi di chi è abituato a chiudere le chiavi nel baule della macchina, perdere documenti, rompere gli occhiali, insomma vivere assediato da ogni specie di possibilità di errore. Quando le circostanze storiche e personali volgono al tragico, questi individui ovviamente subiscono la tragedia come tutti gli altri – ma nello stesso tempo, come chi, se così si può dire, entra nella camera a gas inciampando sul gradino della porta, e suscitando un supplemento di pena, infinitesimale ma decisivo, nei suoi stessi compagni di sventura, perché l’omino gobbo, come il più fedele degli angeli custodi, non lo molla neppure lì. Una volta che l’omino gobbo ha gettato lo sguardo su una persona, ha scritto infatti Benjamin con conoscenza di causa, questa non riesce a stare attenta. Né a se stessa né all’omino. Si ritrova turbata davanti ai cocci. Il fatto più incredibile è che Pietro, molto più di Walter Benjamin, era poi anche in grado, mentre rimaneva turbato davanti ai cocci, di mandare avanti la baracca, come qualunque persona normale. Aveva un lavoro, una casa, una macchina, la mitica Y 10, due figli che adorava. Anche l’infelicità del suo matrimonio, sempre più profonda con il passare del tempo, in fondo è un fatto comune, e rimediabile per la maggior parte dell’umanità. Pietro era insomma una persona indubbiamente dotata di spina dorsale, non uno di quei deliziosi e inutili soccombenti che si incontrano dappertutto e di cui Roma, vai a sapere perché, è sempre stata particolarmente piena. Anche il tipo di cose che scriveva, quell’alta orologeria metrica unita al gusto spasmodico del cesello verbale, 79

presuppone e testimonia una certa dose di carattere. Fisicamente, era snello e con le braccia forti, come chi ha fatto molto sport da ragazzo. E infatti aveva vinto molte medaglie in gare di atletica, come ho letto nella tesi di laurea di Flavia. Nemmeno la prospettiva della malattia grave e della morte imminente l’hanno piegato, l’hanno distolto dalle cose che credeva essenziali. Eppure, Pietro era un essere radicalmente senza pace: dalla mattina alla sera. Dava l’idea di un criceto miope incapace di scendere dalla sua ruota di plastica. Un sabato pomeriggio d’estate, che eravamo arrivati fino in fondo a via Veneto e ci eravamo seduti a un tavolino, mi ha detto proprio questo, con parole esatte, immagina una situazione di spavento, qualcosa che fa sobbalzare come un cane che ringhia all’angolo di una strada, poi ci si ricompone, si acquista sicurezza... e invece no, questa sensazione momentanea si prolunga, invade tutto il tempo della tua vita, tanto che a volte magari non ci fai più caso, sei tranquillo, come dire... nell’unico posto dove alla fine ti è concesso stare tranquillo, cioè nel bel mezzo della tua angoscia...

Era stato Pietro, una volta, a dirmi che dentro Villa Massimo, lì a pochi metri dalla porta di casa sua, c’erano delle stanze affrescate da pittori tedeschi, all’inizio dell’Ottocento, quando l’edificio, già antico a quei tempi e ancora immerso nella campagna, ma ormai per poco tempo, apparteneva non più ai Giustiniani che l’avevano fatto costruire, ma ai Massimo, che l’avrebbero ceduto poi ai Lancellotti dai quali nel 1947 è passato alla Delegazione dei Francescani in Terra Santa. Mi ricordo bene la volta che eravamo passati di fronte all’ingresso sempre taciturno del villino, con i suoi bassorilievi antichi e la sua aquila sotto il balcone, e mi aveva parlato di quelle tre stanze con gli affreschi ispirati alla Divina commedia, all’Orlando furioso e alla Gerusalemme liberata. Non mi aveva fatto venire nessuna voglia di visitare quelle stanze (il convento riceve i visitatori a certi orari) che immaginavo imbrattate di pacchiana pittura dell’Ottocento, torri e cavalli e foreste e spade sguainate e stendardi al vento, ma spesso mi sono ricordato di Pietro che me ne parlava passando varie volte al giorno davanti al villino, quando anch’io sono andato a vivere lì vicino, proprio a due passi da quello che era stato il palazzo del mio amico. Ma solo quando ho iniziato ad abitare in questa nuova casa, in via 81

Berni, affacciandomi dal terrazzo per capire bene una volta per tutte dove ero andato a vivere, ho scoperto un fatto che mi ha colpito molto, e forse è la lontana origine del desiderio di scrivere queste pagine su Pietro e su quest’angolo del mondo così ristretto e privo di fascino, almeno a prima vista. Solo guardando dall’altro lato di via Berni dall’altezza del mio nuovo terrazzo, infatti, ho scoperto che due luoghi che legavo automaticamente al pensiero di Pietro, come fa la memoria che fornisce sempre qualche specie di “fondale” al ricordo di una persona, cioè il villino antico con gli affreschi di via Boiardo e il carcere nazista di via Tasso, erano letteralmente contigui l’uno all’altro, tanto che si sarebbero potuti definire, affacciati a oriente e a occidente del piccolo chiostro, non più due luoghi, ma i due limiti, come le due ali dello stesso luogo. La scoperta mi aveva fatto rimanere a bocca aperta perché di entrambi gli edifici, quello su via Boiardo e quello su via Tasso, strade che corrono perfettamente parallele e in lieve discesa verso viale Manzoni, ho sempre conservato una memoria approssimativa, ma abbastanza esatta. Ma me li immaginavo, grazie a quella distorsione delle prospettive e delle posizioni così tipica delle città e quasi patologica a Roma, assolutamente distanti e separati fra loro. Dal terrazzo si notavano altre cose interessanti, come un finto castello, con tanto di torrione merlato, all’angolo di via Tasso opposto a quello del carcere, un edificio di allucinante rozzezza, simile ai giochi fatti con il Lego, che ospita un asilo gestito da monache. Ma tornavo sempre a guardare, di fronte a me, il chiostro ricco di alberi e la parte posteriore dei due edifici, le stanze degli affreschi e le stanze delle torture vicine la distanza di un tiro di pallone. Quando ho bussato al campanello del convento, un giovedì mattina all’inizio di agosto, il portoncino di ferro si è 82

aperto con un ronzio amplificato dal silenzio circostante, e mi sono trovato di fronte, a pochi passi da me, due frati giovani, che si godevano l’ombra all’inizio del porticato del chiostro. Avevano l’aria di sopportare pazientemente il caldo terribile con il loro saio che sicuramente non gli era di grande conforto. Erano molto stupiti che qualcuno avesse interrotto la pace assoluta di quella mattina, venendo a visitare gli affreschi, ma non avevano nulla in contrario, anzi, erano gentili e vagamente divertiti. Uno dei due si era alzato per cercare un grosso mazzo di chiavi, lunghe e corte, e mentre armeggiava alla ricerca di quella giusta, con un forte accento tedesco si era quasi scusato – io non zono il frate portinaio, mi aveva detto. Alla fine, la porta si era aperta facendoci entrare direttamente in una delle tre sale affrescate dai pittori tedeschi, appartenenti a una comunità che chiamavano dei Nazareni, nome dovuto allo stile di vita povero, mistico, caritatevole di questi pittori del nord, che vestivano con lunghi mantelli neri e amavano la pittura sacra italiana del Quattrocento e del Rinascimento, Beato Angelico e Raffaello, Mantegna e Masaccio. Bisogna aggiungere che, se questo nome collettivo di Nazareni gli era stato dato, come sembra, dalla gente di Roma (che certo, allora come sempre, non riuscendo nemmeno a concepire la pronuncia di una zeta solitaria, avranno detto Nazzareni, Nazzzareni forse rende più l’idea), allora sicuramente ci sarà stato un intento canzonatorio più o meno lieve, perché raramente la gente di Roma si prende la briga di affibbiare un qualunque soprannome a qualcuno se non per deriderlo, bonariamente umiliarlo, sottoporlo alle leggi dell’universale maldicenza. Erano spiriti inquieti, ardenti, capaci di entusiasmo e di disperazione, i Nazareni, e vivevano a Roma come dentro a una sorgente, il luogo di purificazione dove la loro arte avrebbe conseguito il timbro e la durata esatta di ogni co83

lore e di ogni linea. La stanza dove eravamo entrati, quella al centro, era dedicata all’Orlando furioso e Julius Schnorr von Carolsfeld ci aveva messo cinque anni interi, dal 1822 al 1827, per riempire le pareti e il soffitto di pittura. Questo giovane pittore aveva un grande gusto per gli alberi, per gli affusolati alberi mediterranei, aranci limoni e magnolie, ed è nel folto di un bosco che ha dipinto la scena migliore, Angelica e Medoro che scrivono i loro nomi su un tronco – questo, racconta Ariosto, era uno dei piaceri più grandi dei due amanti, ovunque una corteccia d’albero offrisse spazio sufficiente loro ci ficcavano qualunque strumento adatto, «spillo o coltel» dice il poeta, felici di incidere la traccia della loro felicità, nel momento stesso in cui la vivevano, così come altri, in altre situazioni, hanno provato lo stesso impulso a tracciare i segni del loro dolore e della loro disperazione. A destra c’è la stanza dedicata alla Gerusalemme liberata e a sinistra quella di Dante. Le pareti di quest’ultima stanza sono state dipinte da Joseph Anton Koch, l’artista più importante del gruppo, a partire dal 1824. Gli animali affascinavano questo pittore, come si capisce al volo vedendo la sua opera e soprattutto la sezione dedicata all’Inferno, più degli uomini stessi – non importa se animali reali come le tre fiere che circondano Dante smarrito nella selva o immaginari come i rettili dagli strani colori che aggrediscono i dannati in primo piano, ladri condannati a perpetue metamorfosi, o ancora Gerione, sulla cui groppa cavalcano nel vuoto Dante e Virgilio, immaginato con un collo lunghissimo e il volto impassibile da sfinge. Ma la cosa più sorprendente di questi affreschi, che non si possono certo definire bellissimi, è la minuziosa variazione coloristica che il pittore tedesco ha eseguito di scena in scena per rendere l’idea del trascorrere della luce lungo l’arco di una giornata, dall’aurora al crepusco84

lo. Guardando da destra verso sinistra, percepiamo questo affievolirsi della luce, un’immagine del tempo percorribile in entrambe le direzioni, dalla luce del mattino all’ombra della sera o viceversa, i colori di un giorno senza nuvole, un lungo giorno estivo, catturato per sempre sulla parete dipinta. Le tre stanze affrescate, al piano terra, affacciano sul lato interno della villa, dove i frati francescani, nel 1947, hanno iniziato a costruire il loro chiostro, ricchissimo di piante e dominato, in fondo, da una grande statua di un imperatore romano: il marchese Giustiniani che l’ha portata fino a qui, sedotto da una vanità genealogica oltre che dal suo amore per le anticaglie, pensava che si trattasse del ritratto di Giustiniano, il suo più celebre omonimo. Attraversando il chiostro in linea retta, procedendo in parallelo con via Berni in direzione di via Tasso, ci si rende subito conto di quanto la palazzina giallastra dell’ex carcere tedesco incomba, con la sua mole e la sua altezza decisamente maggiori di quelle dell’antico villino, sulla pace del giardino, dal quale spesso, soprattutto durante l’autunno, ho sentito levarsi il suono di un rastrello impiegato per ripulire i vialetti di ghiaia dalle foglie cadute e rinsecchite. Alla portineria del convento vendono una cartolina della statua dell’imperatore romano la cui inquadratura, del tutto inconsapevolmente, ha catturato almeno tre finestre al secondo piano della prigione. Si spalancano proprio dietro la testa fiera e ricciuta dell’imperatore, per nulla imbarazzato dalla sua nudità ma con l’espressione vagamente imbronciata, come quella di un adolescente timido in mezzo a una festa di sconosciuti. Molto spesso, scrutando questa cartolina, le finestre spalancate mi fanno pensare alle bocche di esseri automatici come golem e robot, anche se nel caso di queste della prigione nazista l’idea che ho subito associato alla bocca è quella di un suo85

no emesso ma soffocato alle radici, un urlo muto come quelli che tentiamo di produrre per uscire dagli incubi. L’imperatore ragazzino non sente nulla di quell’invocazione strozzata, assorto com’è nel più insidioso e magnetico degli specchi di Narciso, quello offerto dalla propria stessa malinconia. Molti uccelli vivono tra i rami degli alberi del chiostro, passeri e tordi che all’apparire della luce, anche durante le più gelide aurore di gennaio, intonano i loro richiami, né allegri né tristi, mentre tutto è ancora immerso nel silenzio. E ci sono anche i merli, forse lontani discendenti di quella famiglia spiata da Petroni da un’inferriata del cesso della prigione (privo di porta, per maggiore umiliazione dei prigionieri), che avevano fatto il nido su un abete a ridosso del palazzo, albero che continua ancora oggi a crescere indisturbato e fare da casa a decine di uccelli. «Mentre gli altri si lavavano i denti o facevano i loro bisogni dietro le mie spalle», ricorda Petroni, «io mi fermavo con le mani sull’inferriata a guardare i due piccoli implumi col becco aperto», sfidando fino all’ultimo lo sbirro tedesco che, armato di bastone, incalzava al grido di Schnell! Schnell!!! Ma ne valeva la pena, a quanto pare, perché il prigioniero, dopo questa visione dei due piccoli merli, tornava nel buio della cella «col respiro più largo», come se avesse inalato qualcosa capace di introdurre un po’ di luce dentro di lui.

I ritmi sono rapporti fra quello che credi e quello che credevi prima David Foster Wallace

Una volta, qualche tempo dopo le grandi distruzioni del terremoto in Umbria del 1997, sono stato invitato a una specie di visita guidata sui ponteggi della basilica di san Francesco ad Assisi, per vedere da vicino gli affreschi del soffitto appena restaurati. Le impalcature saranno state alte una settantina di metri, e all’ultimo livello quasi si toccavano con la testa le volte del soffitto. Ero intruppato in un’insopportabile compagnia di politici, assessori, professori di storia dell’arte. Ma valeva davvero la pena arrampicarsi fino a lassù. Ci si trovava, letteralmente, faccia a faccia con gli angeli: giovani e impassibili, lo sguardo rivolto davanti a sé, come paralizzati dalla coscienza della loro bellezza. Tanti secoli prima, su dei ponteggi di legno molto simili a quelli su cui camminavamo, avevano lavorato i pittori, per mesi e mesi. Tutti quanti, maestri e ragazzi di bottega, ognuno a seconda delle sue capacità ma con una specie di filosofia comune, avevano dedicato un’estrema cura ai particolari: le variazioni dell’incarnato, l’umidità delle labbra, i boccoli dei capelli... Come se quelle pitture non fossero state destinate, per sempre, a essere guardate dal pavimento della grande chiesa, a decine di metri di distanza, da dove nessuno di quei particolari avrebbe mai po89

tuto essere né notato, né apprezzato. Eppure, trovandomi grazie a un’imprevedibile serie di circostanze faccia a faccia con quegli angeli e quei santi, devo dire che la follia di quegli artisti, nel momento stesso in cui si scopriva per tale, si faceva anche ammirare, senza resistenze, come una forma superiore di benessere mentale e indipendenza interiore. Mi sembrava di intuire il ragionamento, o almeno il sentimento di quegli artisti, come se fosse rimasto sospeso nell’aria per tanti secoli: chi se ne frega di chi vedrà come lo faccio, nemmeno io, del resto, lo vedrò, non è questo il punto, il punto è farlo. Al massimo, durante il periodo di convivenza sulle impalcature, la perfezione del lavoro sarebbe stata riconosciuta dallo sguardo di qualche compagno di pazzia: a patto che non fosse troppo assorbito da ciò che stava facendo lui, o magari offuscato dall’invidia, o sbronzo... La condizione di un poeta contemporaneo è perfettamente identica a quella di un pittore del Duecento arrampicato sulle sue tavole. Le due esistenze si assomigliano talmente, e sono talmente irreali, che una può essere interpretata come l’allegoria dell’altra. Anche del lavoro di Pietro, che gli ha letteralmente consumato le energie vitali, da terra non si vede nulla. Non solo non si vede nulla dell’opera, ma nessuno può nemmeno sospettare che lassù, nell’indistinto di quell’altezza inospitale, si siano svolte tutte le catastrofi che l’opera esigeva. O che Pietro credeva che l’opera esigesse: il risultato è identico in entrambi i casi. Solo l’omino gobbo sa sempre, con sicurezza, su quale remota impalcatura si nasconde un tipo come Pietro. Come trascorre, in effetti, una vita? Con la sua tendenza all’astrazione e alla selezione, proprio il genere di scrittura che dovrebbe renderne conto con più attenzione e competenza, la 90

biografia, finisce sempre per censurare la caratteristica essenziale della maggior parte delle vite, che è la loro scoraggiante e uniforme mancanza di eventi. Mentre il mondo andava e veniva all’altezza del pavimento, gli anni del mio amico trascorrevano sulla sua immaginaria impalcatura in un’impresa ostinata, complessa, laboriosa, di cui solo pochi intimi venivano tenuti al corrente nel corso di lunghe telefonate serali. Non è da pensare che questi amici, a loro volta, fossero così tecnicamente informati sulle finezze più tortuose del ritmo poetico e sulle rarità della metrica antica di cui Pietro parlava con tanto calore – ma proprio per questo, direi, era un piacere starlo a sentire. Ad ogni modo, dopo aver pubblicato nel 1991 il suo primo libro di poesie, Altre visioni, quello con il particolare del pioppo di Morandi in copertina, Pietro, senza scendere nemmeno un giorno, per sgranchirsi le gambe, decise di tentare altre strade. Nonostante tutti i suoi classici latini e greci, era un artista assolutamente moderno, un vero figlio del Novecento, nato proprio in mezzo al suo secolo: cercare forme nuove, superare dei limiti, estrarre quanto più possibile midollo dalla scorza erano parti integranti, mai nemmeno messe in discussione, del suo dna artistico. Proprio in quel periodo, Pietro inoltre si è innamorato perdutamente di una ragazza più giovane, e questo fatto, di natura non tecnica, si è confuso però indistricabilmente con la ricerca di una nuova maniera di scrivere. Al livello del pavimento, le cose andavano di male in peggio. C’è stato un periodo, prima della malattia, in cui sua moglie aveva progettato e, se ricordo bene, iniziato a costruire un muro per dividerlo da lei e i figli. Pietro soffriva e faticava, continuava a occuparsi dei bambini e ad andare ogni giorno a Frascati ad insegnare nel suo liceo, ritagliando ogni momento buono per rimettersi all’o91

pera. Il punto cruciale dell’impresa di Pietro consisteva nel rinunciare al verso – iniziò dunque a scrivere delle brevi prose che avevano tutte le caratteristiche ritmiche, musicali, visionarie delle sue poesie precedenti, tranne la scansione in versi. Le chiamava poesie senza verso e di queste poesie senza verso è composto il suo secondo e ultimo libro, una brevissima raccolta intitolata Vampe del tempo stampata da una galleria d’arte di Roma. Affermare che questa liberazione dal verso, come la chiamava lui quando me ne parlava al telefono, fosse diventata, nel complesso, la cosa più importante della vita di Pietro, potrebbe sembrare un’illazione gratuita, o un’esagerazione. Non si ha il diritto di dire una cosa del genere né sugli altri né su se stessi. Via via che gli anni passavano e le telefonate di Pietro, quel sublime mattacchione, diventavano sempre più un’abitudine dolce e costante della mia vita, mi rendevo conto che questa persona mi stava trasmettendo un vero insegnamento. Soltanto che, come tutti i veri insegnamenti, esso consisteva di una parte visibile, affascinante ma in definitiva trascurabile, e di un elemento profondo, umido, impalpabile che rimaneva fuori dalla portata dei concetti. Certo, c’era stata la poesia. Avevo scritto una specie di introduzione al suo primo libro, è stata in assoluto la prima cosa che ho scritto e pubblicato, credo, e a Pietro, che in generale stravedeva senza oggettività per tutto ciò che facevano gli amici, era piaciuta tantissimo. Me ne ha parlato anche durante una delle ultime telefonate, un paio di settimane prima di morire. Ma insomma: nonostante tutta l’ammirazione, le finezze dell’arte di Pietro io le coglievo tanto quanto un bottegaio di Assisi quelle dei pittori alte sulla sua testa. Sono il tipo che non metterebbe una mano sul fuoco nemmeno su un endecasillabo canonico, e i miei studi di metrica si limitano alle telefonate di Pietro. Proprio alla fine, 92

aveva trovato pane per i suoi denti, da questo punto di vista: un gruppetto di studenti di filologia accaniti, che apprezzavano il suo talento e con i quali se la intendeva a meraviglia su anapesti e cesure e versi sdruccioli. No: per quanto mi riguarda, direi che vado più vicino a questo misterioso insegnamento dicendo che volevo così bene a Pietro, più a lui che a tanta altra gente, perché mi faceva ridere, lui e il suo onnipresente omino gobbo che gli incasinava la vita, mi metteva di buon umore. Ecco, pensavo mentre lo ascoltavo parlare dei suoi guai o di una certa finezza di Teofilo Folengo, Pietro esiste, si può esistere così, senza assomigliare a nessuno, senza azzeccarne una, senza furbizia, sordi all’ossessionante rumore del mondo. L’omino gobbo, quel vecchio figlio di puttana, costringe a fare della propria vita un’utopia concreta. E nella sua estraneità al mondo l’umile Pietro, proprio lui, finiva per rivelare in sé qualcosa di regale. Non c’è niente da insegnare, non si può davvero insegnare altro che se stessi, così come non c’è nient’altro da imparare che la singolarità umana, le innumerevoli e sconcertanti possibilità di forma espresse dalla vita. Temo che anche l’esperienza dell’amore, amour passion di mezza età con tutta la sua violenza e la sua disperazione, e legato a doppio filo, come dicevo, con il lavoro alle poesie senza verso, per quanto riguarda Pietro partecipi dello stesso destino delle vecchie pitture sul soffitto della basilica di Assisi. Dunque non solo amore infelice e non corrisposto, come è addirittura ovvio che sia stato un amore di Pietro, ma, cosa ben più importante, non percepito, o solo parzialmente, dall’amata. Inchiodato all’invisibile perfezione della lontananza: come tutte le parole scritte, come tutti i desideri e tutti i segreti ai quali può rimanere aggrappata un’esistenza. Mi sono 93

reso conto di tutto questo non andando in cerca con la memoria di vecchie confessioni e pettegolezzi, ma semplicemente rileggendo Vampe del tempo, questo straordinario congedo dalla scrittura in versi che è anche un congedo dall’amore e dalla vita, e inoltre un libro, come ho constatato rileggendolo dopo tanto tempo, una notte di inizio agosto del 2003, invaso dagli uccelli come un cielo serale di Van Gogh, uccelli preferibilmente neri come le rondini e i merli, i corvi e le gazze. Segnali dell’eterno ritorno dei cicli della vita, e insieme figure dello spirito, lo spirito ardente e pellegrino, indeciso e colpevole, che della bruna giovane, origine e meta delle parole, trattiene un’immagine, un idolo interiore sempre più lucente, perfetto, indiscutibile – ma non se ne accontenta, non se ne può accontentare, vorrebbe tutto e impara, come sempre dobbiamo imparare nella vita, che il meno del tutto è il niente, niente senza attributi e senza consolazioni. Perché si scrive? E che bisogno c’è di leggere quello che è stato scritto? Non è già abbastanza complicato mangiare, bere, cagare, lavarsi, trovare qualcuno con cui fare l’amore, guardare la tv, parcheggiare la macchina, addormentarsi? Se c’era, poi, una persona che non aveva affatto bisogno di complicazioni e preoccupazioni in più, era proprio Pietro, quest’uomo che aveva diviso il mare della vita in innumerevoli bicchieri d’acqua, tutti in tempesta. Mentre leggevo Vampe del tempo, nudo sul divano della casa del Reverendo, che dormiva abbracciato alla sua Antilope, nell’ora dei sogni veritieri che precede l’alba, in un raro momento di lucidità e concentrazione mentale, uno di quei momenti di cui si può godere all’improvviso durante periodi di settimane o di mesi trascorsi nella più totale confusione e disordine interiori, mentre leggevo le ultime poesie senza verso del mio amico, morto pochi mesi dopo averle stampate in 94

centoventi copie, di cui venti, contrassegnate con numeri romani, fuori commercio e destinate ai conoscenti dell’autore, a questa domanda sul perché si scrive e perché si legge non sapevo proprio formulare una risposta convincente. Le tende del salotto, ripiegate ai lati delle due finestre aperte, erano perfettamente immobili. Di quell’estate, uno dei fenomeni più memorabili è stato proprio l’assenza totale e prolungata di vento, la disperata immobilità dell’aria. I ronzii dei condizionatori, vicini e più lontani, saturavano il silenzio dell’aurora. Quaranta prose, stampate su carta spessa e pregiata. Sull’ultima pagina, il numero 68 e quello che sembra uno scarabocchio a matita, ed è la firma di Pietro. L’istinto oscuro e profondo della traccia, dell’incisione, dell’iscrizione. La felicità che deriva dalla sua soddisfazione: potente e dissimile da tutte le altre felicità. «Quel che sarò è quanto vedo adesso, eppure quello che sono vedrò solo un domani; nebbia nell’anima nuda; terra che qui si spalanca. La calma acqua degli anni ha fatto alghe verdi. Torri di nubi luminose quando pensavo a te».

Quasi di fronte al civico 145 di via Tasso, oggi ingresso del Museo Storico della Liberazione di Roma, si affaccia la finestra della casa di un altro amico, una casa di piccolezza ormai leggendaria, tanto più che M.C., in arte Tommaso Pincio, non ama particolarmente le visite, e vivendo al primo piano può conversare facilmente alla finestra, sporgendosi un poco come il cucù di un orologio artigianale. Lo si può spesso incontrare mentre arranca verso casa in bicicletta su per via Boiardo – sembra sempre sul punto di rimanerci stecchito, e invece ce la fa sempre. Nella sua minuscola casa M.C., in arte Tommaso Pincio, e Bart Simpson sul citofono, a ulteriore confusione dei suoi simili, ha composto un libro molto breve intitolato Lo spazio sfinito, una specie di romanzo i cui protagonisti si chiamano Jack Kerouac e Marilyn Monroe, ma non hanno niente a che vedere con il Kerouac e la Marilyn Monroe di cui tutti sanno, sono semplicemente omonimi. Lo spazio sfinito è ambientato in un mondo parallelo al nostro, e dunque simile e dissimile, vicinissimo e remoto. Questo breve romanzo d’amore mi è sembrato, quando l’ho letto, ben altro che un breve romanzo d’amore. Dietro la malinconica bellezza della trama di questo libro, così pensavo, e ancora 96

penso, si nasconde una sapienza, questo breve libro va letto come un manuale, cioè in definitiva l’unico tipo di libro che può essere utile aver letto, semplicemente perché i casi della vita prima o poi ce lo possono far tornare utile. Tanto più che Lo spazio sfinito si potrebbe definire più esattamente un manuale di sparizione e non c’è nessuno al mondo, credo, che presto o tardi non si trova di fronte al desiderio o alla necessità di sparire. Molti anni prima che Tommaso Pincio componesse questo suo vangelo apocrifo mascherato da favoletta amorosa, questo suo trattato sull’arte della sparizione, scrivevano anche i prigionieri di via Tasso, incidendo con ogni tipo di strumento la calce sui muri, e addirittura disegnando, come nel caso della sagoma ben tracciata di un coniglio preceduto dalle parole ATTENTI A, come in un rebus (questo Coniglio doveva essere il nomignolo di un traditore, magari qualcuno che lavorava nella prigione come interprete dei tedeschi, o come inserviente). A una manciata di metri dalle celle del carcere, nelle stanze affrescate del villino di fronte, Angelica e Medoro continuavano anche loro, indisturbati, a incidere sulle cortecce degli alberi il loro nome di innamorati – usando spille e coltelli... Osservando le fotografie in bianco e nero dei graffiti dei detenuti in un libro della biblioteca, al primo piano del Museo, dove una volta c’erano gli uffici della prigione, è facile notare come le lettere maiuscole che compongono le frasi non sono mai allineate normalmente. Effetto della scrittura al buio, o nella penombra fondissima. La pulsione della scrittura, per chi sa scrivere, occupa un luogo appena meno istintivo delle pulsioni fisiologiche. Fate mangiare a un detenuto il minimo per tenerlo in vita, due pagnotte rafferme da cento grammi e una gavetta di indefinibile broda ogni venti97

quattro ore, fategli fare i suoi bisogni, non picchiatelo per qualche tempo, e quel tizio, se può usare il manico di un cucchiaio, un ciottolo affilato, una scheggia di coccio, tenterà di scrivere qualcosa. Come il tenente Paladini nella cella di segregazione n. 2 del secondo piano riferendosi all’interrogatorio e orgoglioso di non aver parlato – È STATA DURA MA CE L’HO FATTA, incide sul muro, o il prigioniero anonimo che lì vicino ha altri grilli per la testa contusa da pugni e randellate, e scrive ADDIO PICCOLA MIA NON SERBARMI RANCORE UN BACIO, spendendo probabilmente, e non sembra essere stata una cattiva idea, le ultime energie della sua vita in questo romantico lavoro. Molto spesso, ai prigionieri non importa nemmeno esprimere sentimenti e idee personali attraverso il graffito, si direbbe che abbiano preferito l’incisione in sé, limitandosi a pescare qualche verso nel baule dei ricordi scolastici, Italia mia e la bocca sollevò dal fiero pasto, lo stesso collaudato repertorio classico che, più di un secolo prima e a pochi metri di distanza, aveva ispirato i pittori Nazareni. E questi ultimi prigionieri e scrittori al buio, noncuranti del significato delle parole iscritte, spesso appagati abbastanza dal proprio nome, sembrano proprio avere afferrato l’essenziale, il rapporto che la scrittura rende possibile tra il corpo e una superficie, qualunque tipo di superficie, e dunque tra sé e il mondo, fino a quando è possibile stare al mondo.

Era stato Zoroastro in persona, secondo Porfirio, il saggio e coltissimo autore del trattato sull’Antro delle Ninfe, a consacrare per primo una grotta a Mitra, in un luogo non specificato sui monti della Persia. Tutte le cose presenti in questa grotta naturale, immagine del Cosmo di cui Mitra è creatore, erano simboli zodiacali e delle regioni del cielo. Lassù la sede adatta a Mitra, che brandisce il coltello di Marte e cavalca il toro di Venere, è quella mediana degli equinozi. Alla sua destra le regioni settentrionali, dove Cautopates abbassa la fiaccola a causa del freddo vento del nord, e alla sua sinistra quelle meridionali, sulle quali invece Cautes tiene ben alta la sua. Quanto a quello che succedeva all’interno delle grotte sotterranee, gli inorriditi scrittori cristiani non hanno dubbi – cosa aspettarsi dagli iniziati al culto di un dio ladro di buoi? Un polemista descrive un rito, forse puramente immaginario, dove i seguaci alle prime armi, bendati, subiscono ingiurie di ogni tipo, mentre alcuni imitano il gesto di battere le ali come i corvi, altri ruggiscono come leoni, altri ancora, le mani legate con budella di pollo, vengono sospinti dentro buche piene d’acqua mentre un sacerdote, che si definisce «liberatore», si avventa a spada tratta contro le budella... 99

Questo è per te – una volta tanto mi è stato possibile decifrare con un certo margine di sicurezza la scrittura di Pietro, quella notte d’estate, quando mi sono accorto che dal suo libro di poesie senza verso, che mi aveva tanto fatto pensare alla forza esercitata dall’amore nella breve vita del mio amico, forza oscura e probabilmente distruttiva, erano caduti per terra, finendo quasi interamente sotto il divano, due fogli di fotocopie ripiegati in quattro e conservati tra le pagine spesse di Vampe del tempo. Questo è per te, aprile 1992. Sulle pagine ormai ingiallite della fotocopia si leggeva a fatica un testo che, a prima vista, era scritto in una lingua italiana molto antica. Un racconto brevissimo, poche centinaia di parole, preceduto da una rubrica in corsivo: D’una monaca sacrestana che fu combattuta dal vizio della carne, e uscì del monasterio, e rassegnò le chiavi alla Vergine Maria, la quale fece l’uficio della sacrestia quindeci anni per lei. Quelle parole non mi dicevano assolutamente nulla. Ma conoscendo Pietro, la prima cosa che ho pensato, guardando le fotocopie fatte fare evidentemente per me, è stata la sicura fatica che gli sarà costata lo sbrigare questa piccola commissione. Tutto il reticolo, l’oceano degli impedimenti che si di100

stendeva, sconfinato e abissale, tra il pensare una cosa e il farla. Il libro da portarsi dietro; e poi la ricerca di una copisteria, gli spiccioli per pagare, e tutte le solite cose che accadono ad Achille che insegue la tartaruga, l’infinità del contrattempo che si spalanca a ogni passo sotto i piedi già stanchi... Chi era questa monaca? Quando ne avevo parlato con Pietro? E perché, a che proposito? Non ricordavo assolutamente nulla. E nello stesso tempo quelle tre parole, è per te, mi avevano toccato, producendo una vibrazione mentale intensa, risvegliandomi dal sonno e dal torpore della notte in bianco. Come la mattina che avevo trovato il biglietto del vicino di casa esasperato dal mio antifurto rotto – per favore, faccia qualcosa. È per te. Non è che avessi proprio voglia, a quell’ora di notte, di mettermi a leggere la scrittura antica e complicata delle due fotocopie. Era una di quelle leggende, a volte tragiche e a volte a lieto fine, che i predicatori inserivano nelle loro omelie per terrorizzare le menti più semplici o indurre in loro un barlume di speranza nella salvezza della loro anima. Questa qui era tratta da un libro scritto a Firenze nel Trecento, con un titolo che era già tutto un programma, Specchio di vera penitenza. Ma, diceva una nota quasi illeggibile in fondo alla fotocopia, non tutta era farina del sacco del monaco fiorentino, il grande sapiente Iacopo Passavanti, l’autore dello Specchio di vera penitenza. Innumerevoli predicatori avevano diffuso in ogni lingua, di chiesa in chiesa e di quaresima in quaresima, quella leggenda in tutta Europa, forse a partire dall’Olanda, forse dalla Germania, dove in fin dei conti è ambientato il racconto. Nessuna di queste notizie, che decifravo a fatica dalla fotocopia, accendeva in me il più pallido ricordo. Forse Pietro mi aveva raccontato, passeggiando o al telefono, 101

quella storia oppure l’aveva considerata utile per me e mi aveva fatto la fotocopia. La gentilezza di Pietro ancora aleggiava su quei fogli stinti, come un aroma leggerissimo ma tenace. La maggior parte delle cose, dei fatti, dei pensieri vive nella latenza. Senza distinzione tra ciò che è in effetti utile, o dannoso, o indifferente. Ci stanno accanto senza che ne riconosciamo l’esistenza, o ce ne dimentichiamo, equiparando nella stessa uniformità l’accaduto al non accaduto. A volte il caso fa sì che si produca un simulacro di evento, e viviamo per poco nell’illusione che un pezzo di realtà ci venga incontro, si manifesti per noi nel suo significato profondo. Oltre un certo limite di stanchezza, stordimento, malinconia, oltre una certa ora della notte, può capitare. Avevo sentito il desiderio di leggere l’ultimo libro del mio amico, invece di guardare le repliche di Hill street e i video di MTV, e dentro quel libro, scivolato per terra all’improvviso, c’era posta per me. Le parole scritte a penna da Pietro avevano prodotto nella mia mente, quando le avevo guardate raccogliendo i fogli da terra, la vibrazione perentoria della voce che risuona fisicamente nell’aria. La vecchia storia si svolge a Colonia. Una bambina di sette anni viene messa dai genitori in un monastero. Lì vive santamente e saggiamente fino a diventare grande. Ed ecco che un giorno arriva nel convento un prete confessore, un tipo, dice la leggenda, poco savio e meno discreto. La leggenda prosegue di frase in frase, puntando solo all’essenziale, un colpo d’ascia dietro l’altro sul filo del destino di Beatrice. Accade dunque che durante la confessione, il prete inizia a farle delle strane domande. Sei vergine, figlia mia? Oppure hai già peccato carnalmente? 102

Ma padre, lo sapete bene che sono vergine, entrata in questo convento all’età di sette anni... Ragazza mia, anche senza uomo una donna può perdere la verginità... Padre, se non parlate più chiaramente, non vi capisco... E allora questo prete stolto e pazzo, prosegue la leggenda, invece di cambiare discorso entra nei particolari. E in quel momento, a partire da quel momento, come tutti possono facilmente comprendere, la verginità di Beatrice è perduta. Compiuta la confessione e ottenuta l’assoluzione, partito il prete stolto e pazzo dal convento, Beatrice si incammina verso la sua cella. Non è tranquilla. La sua mente è assorta nella rivelazione di quelle cose che non aveva mai immaginato, di quel peccato che si può compiere anche senza uomo. E Beatrice, l’innocente Beatrice messa al riparo dalle tentazioni del mondo fin dall’età di sette anni, non riesce a sottrarsi al fascino di quella nuova possibilità, come di fronte a una porta improvvisamente spalancata sul mondo. In realtà, le parole dell’incauto confessore le hanno rivelato ben peggio: perché questa porta Beatrice ce l’ha tra le gambe – e una volta aperta, è proprio la sua innocenza che le impedisce di richiuderla, o di distogliere lo sguardo. E dunque, nel buio della sua cella, e ancora più nel buio della sua stessa carne, il diavolo ottiene un facilissimo trionfo. Destandosi, scrive il prete fiorentino con una certa efficacia, la infiata concupiscienzia della carne commosse il cuore, accese il desiderio della mente vaga, a volere provare e assapere quello che, in prima, non avea saputo né provato. Lavorando un po’ più di fino, l’ingegnoso narratore avrebbe potuto suggerire che in realtà il confessore indiscreto, quell’informatore di piaceri proibiti e angelo della masturbazione, non fosse altri che il diavolo, da sempre amante dei più ingegnosi travestimenti. Ma anche in questo 103

evitare le finezze inutili la leggenda ha l’efficacia che hanno sempre le parole, quando non ne manca una e insieme non ce n’è una di troppo. Passano i giorni e, ahimè, le notti solitarie, spese ad attraversare avanti e indietro la porta proibita di quel piacere senza uomo appena scoperto. Il quale, rapidamente, viene a noia a Beatrice, che non potendo opporre nessun argomento alla sua debole natura, ormai vuole andare a fondo. Il che significa peccare con un uomo, o, se è per questo, con molti uomini. La decisione è presa: fuggirà dal convento, per vivere mondamente. Ma prima di scappare, Beatrice decide di fare un ultimo saluto: alla Madonna, o meglio, all’immagine della Madonna che era suo compito accudire, giorno e notte, tenendo sempre acceso un lumicino. Per questo è una monaca sacrestana, come dice il titolo. Madonna, io ho svolto con diligenza, fino ad oggi, il mio compito di sacrestana. Ma ora, è accaduto un fatto nuovo, sto affrontando una battaglia di cui non sapevo nulla, anzi, ho già perso questa battaglia, e tu non mi hai aiutato. Dunque adesso ti restituisco le chiavi dell’altare, e mi dichiaro vinta. Con questa scena madre si chiude il primo atto della vita di Beatrice. Ovviamente, nessuno di noi mancherà di essere contento per questa ragazza che, scoperte le gioie della masturbazione, abbandona il cupo convento medievale nel quale era rinchiusa fin dall’infanzia per raggiungere il mondo. In realtà, questo travisamento non è un’esclusiva del cinico lettore moderno; anzi il predicatore, che non era affatto uno sciocco, lo ha perfettamente calcolato. Se parla di sesso, sa di scagliare il classico sasso nello stagno di ognuno. Eppure, una volta ottenuto quello che voleva, cioè un’attenzione per le sue 104

parole tanto più intensa quanto più mischiata a inconfessabili vergogne, esercita il più elementare, e insieme il più difficile, dei poteri della parola – quello di dire una cosa, e pur volendo significare quella cosa, incontestabilmente quella, fare intendere che c’è dell’altro, che c’è sempre dell’altro... Così il racconto, mentre fa brillare al suo centro un fantasma di desiderio e bellezza, affronta argomenti supremi: fughe notturne e restituzioni di chiavi, il dolore delle decisioni e la fragilità della natura, il sapere e il non sapere, i loro rispettivi vantaggi... La leggenda prosegue a velocità sempre più vertiginosa, racchiudendo in poche e scarne parole l’intero contenuto potenziale di un romanzo molto piccante. Ma questo, appunto, non è un romanzo. Basterà dire che Beatrice, dopo essersi lasciata alle spalle il convento, vive per quindici anni da puttana, publica meretrice sulla cui esistenza, se più ricca di gioie o di dolori rispetto agli anni del convento, ognuno potrà farsi l’idea che più desidera.

In realtà, se uno potesse capire una storia qualunque, e ricavarne un qualunque tipo di utilità, come si ricava il succo dal frutto, nel mondo non ci sarebbero così tante storie e così poche illuminazioni. La quantità di confusione e smarrimento pro capite, al contrario, sembrano aumentare proporzionalmente al numero di racconti che se ne fanno. E dunque anche quel regalo dimenticato di Pietro, quelle due fotocopie stinte sulle quali leggevo la bizzarra storia di Beatrice, monaca e puttana, per quanto interessante, non poteva né dirsi ritrovata “al momento giusto” (perché la vita, di per sé, manca di “momenti giusti” dall’inizio alla fine, e non c’è mai, realmente, nessuna occasione da afferrare al volo), né sarebbe stata in grado, una volta scoperta e meditata, di regalarmi un filo di Arianna, di allentare almeno un poco il giogo dell’umore nero, di rivelarmi una nuova prospettiva. Ma allora, perché si raccontano delle storie? E soprattutto perché, volenti o nolenti, ne andiamo sempre in cerca? Con il passare del tempo mi sono reso conto di un fatto: è il punto di vista della depressione quello che permette di rispondere, in una certa misura, a domande del genere. Ascoltando una storia, l’orecchio depresso, chiamiamolo così, non 106

sarà certo tanto ingenuo e frettoloso da attribuirle quel significato che, come la depressione non smette mai di insegnargli, manca a tutto il resto. Al centro della percezione, allora, non ci sarà più un significato, ma il fatto che quella storia, in ogni modo, è stata trasmessa: raccontata a voce, trascritta, tradotta, riassunta, fotocopiata, eventualmente ritrovata dopo anni di dimenticanza nelle pagine di un libro... Non nel suo significato, insomma, ma nel puro fatto della trasmissione è possibile riconoscere un residuo calore umano, la vibrazione di un’intimità reale che è passata tra due persone, che si sono incontrate e sono state amiche. E così, mi capita di iniziare a pensare che noi non siamo fatti per capire ciò che ci viene raccontato, ma per spingerlo avanti nel corso del tempo, come un fiume in piena spinge avanti i tronchi degli alberi caduti, o come gli scarabei stercorari spingono avanti, senza troppe domande, la loro pallina di merda. E io continuo a spingere la mia. La storia di Beatrice, dopo aver sorvolato sui quindici anni da puttana, riprende nello stesso punto nel quale si era chiuso il primo atto – alla porta, cioè, del convento. L’essenzialità dei mezzi di questa leggenda è stupefacente. Bisognerebbe insegnare proprio questo tipo di cose nelle scuole di scrittura di oggi dove invece, a quanto pare, il farla lunga, l’arte del dire la propria su ogni particolare, l’analisi minuziosa non vengono affatto scoraggiati come dovrebbero essere. Ma le cose vanno così: Beatrice, che in quindici anni ha esaurito probabilmente tutte le curiosità in materia di piacere sessuale svegliate dall’incauto confessore, si ritrova esattamente là da dove era partita. Forse non si era mai allontanata troppo dal convento, Colonia è una grande città ricca di puttane come di monache, di conventi e bordelli. La storia 107

non dice di più del fatto stesso: un dì Beatrice venne alla porta del monasterio. Caso? Destino? Beatrice, avvicinatasi all’entrata, riconosce a prima vista il vecchio portinaio del convento. Ma è sicura di non essere a sua volta riconosciuta da lui, e allora, probabilmente in preda a un’ispirazione repentina, di quelle che non si sospettano nemmeno fino al momento in cui si manifestano, osa chiedere al portinaio notizie di lei stessa. Anche se le parole del portinaio la feriranno, è naturale in lei il desiderio di conoscere la fama che si è lasciata dietro, al momento di sparire, restituendo le chiavi della sacrestia alla Madonna. Hai per caso conosciuto una certa Beatrice, monaca in questo convento, eccetera eccetera? Certo che la conosco. È una cara e saggia monaca. I genitori l’hanno portata qui a sette anni e qui da allora è rimasta, amata da tutti. Non c’è dubbio che il portinaio sta parlando di lei. Possiamo immaginare la pelle d’oca, il brivido gelido di terrore che serpeggia per la spina dorsale di Beatrice, ammorbidendo le gambe fino al punto di farla vacillare. Si aspettava che il portinaio le raccontasse la sua fuga, e le dicerie che ne erano sorte in quei quindici anni da puttana. Quindici: un pezzo di vita, il trascorrere indubitabile di un’epoca intera. E invece, il portinaio del convento, rispondendo alla sua domanda, le ha raccontato un’altra storia, la storia di una monaca vissuta nel suo convento, occupandosi di accudire l’immagine della Madonna, serenamente e felicemente. E questa monaca, la protagonista di questa storia parallela, o alternativa, è lei. E allora, la puttana, chi è? Repentino e inaspettato, l’attacco all’identità che ha appena subìto è di quelli gravi. Non le è possibile, di fronte a questo sdoppiamento di prospettiva, rispondere al portinaio, nemmeno con dei ringra108

ziamenti generici per l’informazione. Beatrice, dice il racconto, gli volta le spalle, probabilmente per nascondere la sua confusione. Aveva pensato di aver imboccato la sua strada, arrivata di fronte a un bivio, giusta o sbagliata che fosse. Aveva inseguito per il mondo, come si insegue un animale nel bosco, le tracce di quel desiderio che le era scoppiato tra le gambe nella sua cella. La sua scelta, così pensava, aveva annullato di colpo tutte le altre possibilità. Così accade nella vita: che un gesto fatto ne elimina migliaia di altri, spazza via il fascio delle alternative. Ora Beatrice capisce che qualcosa è andato storto: di fronte al bivio la sua vita, non sa come, è stata in grado di sdoppiarsi, di percorrere entrambi i sentieri che si divaricavano. Ma allora, la sua vita, dov’era? A destra o a sinistra ? Cosa era finto e cosa era falso? O ancora: come era possibile che fosse tutto vero? Annientata dalla rivelazione, dunque, Beatrice torna sui suoi passi, volta le spalle al portinaio. E si trova faccia a faccia con la Madonna. Che le dice: figlia mia, sono quindici anni che ho fatto la sacrestana, qui al convento, al posto tuo, e con il tuo aspetto – nella figura tua. Le chiavi che mi hai restituito, le troverai sull’altare, dove le hai lasciate la notte che te ne sei andata via. Non c’è nemmeno una persona che sospetta il tuo peccato. Il lumicino sotto la mia immagine è rimasto sempre acceso. Niente lacrime, niente rimproveri, niente punizioni. Una benefica stringatezza delle spiegazioni che sembra comune a tutti i protagonisti della storia. Al momento di scappare, incendiata dal desiderio di sesso, Beatrice aveva accusato la Madonna di non aiutarla affatto nella sua battaglia. Adesso la biforcazione dei sentieri torna a coincidere, un’immagine possibile di sé viene ricomposta grazie al miracolo. La puttana ritorna nel seno della monaca per finire in pace i suoi giorni. 109

Tutto qui: a quanto pare, per meritarsi questa lunga e prodigiosa “copertura” da parte della Madonna, era bastato a Beatrice quel minimo gesto di cortesia, quel saluto con tanto di restituzione delle chiavi appena prima di imboccare, pungolata dal desiderio, le oscure strade del mondo, che iniziavano giusto fuori delle mura del convento. Fino al giorno in cui, tornata proprio lì da dove era partita... era destino che a lei, che aveva messo a repentaglio la sua vita per bisogno di esperienza, per amore dell’esperienza, non venisse risparmiata nemmeno l’ultima, la madre di tutte le esperienze, quel momento di consapevolezza infallibile e vertiginosa in cui quello che abbiamo fatto, e visto, e tentato, e patito, e sperato... ebbene, non è stato che un’illusione. Esiste dunque questa possibilità, quest’ultimo grado della stanchezza che coincide col rivelarsi di una nuova prospettiva, con l’albeggiare di un sapere ulteriore...

Nell’estate del 1998, quando Pietro è stato trasferito al Policlinico di Roma e operato d’urgenza al cervello, in città erano rimasti parecchi suoi amici, e spesso, durante i giorni di convalescenza, andavamo a trovarlo. Le stanghette dei grandi occhiali stavano appoggiate alle bende della fasciatura, come stupite e disorientate di non trovare più le orecchie al solito posto. Il palazzetto dell’Istituto Malattie Neurologiche, che non fa parte dell’area del Policlinico, ma di quella della città universitaria, dalla parte opposta del viale, è un edificio triste e quadrato, privo di qualsiasi comodità. Le sale d’aspetto sono vuote a parte un tavolaccio e qualche sedia di plastica lungo i muri. Dopo l’intervento, Pietro era stato parcheggiato in un corridoio. Si lamentava molto del cibo e del bagno in comune con gli altri degenti del reparto. Così il pomeriggio ci godevamo il fresco di qualche alberello seduti sulle panchine di marmo di fronte all’entrata. Da quello che mi ricordo io, in tutti i nove mesi che separano l’operazione dalla morte, Pietro è sempre stato consapevole della gravità del suo male. Durante le vacanze, quando era a casa dei suoceri in Abruzzo, il tumore si era manifestato con un attacco epilettico seguito dal coma. Dall’ospedale di Chie111

ti lo avevano trasferito a Pescara e da lì era tornato a Roma per essere operato. È un tipo di intervento che serve più che altro a rimuovere gran parte della massa tumorale, per non causare sofferenze. Al coma si era anche sommato un arresto cardiaco, e Pietro era stato tenuto in vita per un soffio. Uno degli ultimi pomeriggi del ricovero ero rimasto solo con lui e improvvisamente, da quei discorsi generici e rassicuranti che si fanno istintivamente con i malati gravi, Pietro è passato alla sua situazione. I particolari gli sfuggivano, ovviamente, ma non la sostanza. La sostanza era che i medici, con l’operazione, gli avevano per così dire regalato una specie di tempo supplementare, una seconda nascita da sfruttare al meglio. Il che voleva dire, per Pietro, carattere troppo umile per concepire qualunque forma di “conversione” o “rivelazione”, continuare a fare le stesse cose, cercando però di portare a termine almeno un paio di lavori ai quali teneva tantissimo. Avrebbe voluto anche ristampare il suo primo libro, Altre visioni, ormai scomparso totalmente dalla circolazione, ammesso che una “circolazione” l’avesse mai avuta. La vita, nel frattempo, dopo l’intervallo di buio e l’arresto cardiaco, gli sembrava dotata di una qualità impalpabile e indefinibile, che lo stupiva e riusciva a momenti, così una volta mi ha detto testualmente, a riempirlo di una felicità del tutto sconosciuta in precedenza. Già ipertrofica, la sua capacità di affetto e comprensione umana si era ulteriormente ingrandita e approfondita: prima di tutto, nei confronti dei due figli, Giulia e Valerio, ancora piccoli tutti e due – sicuramente le persone che più amava in tutto il mondo. Proprio come Kafka nell’estate del 1917, dopo la prima crisi polmonare, anche Pietro a volte, in quei mesi, sembrava capace di tirare il miglior partito possibile da una condizione che gli permetteva di riposarsi, e leggere e scrivere, se non quanto pote112

va, almeno quanto voleva. Già nei giorni del Policlinico, nel camerone affollato dove alla fine l’avevano sistemato, il letto di Pietro si riconosceva a colpo d’occhio per la presenza di una pila di libri sul comodino, tra i quali ricordo una copia rilegata dell’Eneide che gli aveva portato Arnaldo Colasanti, un altro suo amico carissimo, che nel 1991 gli aveva pubblicato Altre visioni. La prima volta che ero riuscito a parlargli al telefono, per andarlo a trovare, mi aveva lasciato a bocca aperta perché, con una voce ancora debolissima, mi aveva chiesto di portargli un libro appena uscito, il primo volume di una biografia di Gadda che voleva leggere. Mi sono affrettato a procurargliela, anche se non sono il tipo che, sapendo di avere pochi mesi davanti a sé, si preoccuperebbe di leggere qualcosa, tantomeno la vita di un altro. Ma è stato in quei giorni che ho capito quanta forza d’animo, ostinazione, indipendenza spirituale avessero sostenuto fino a quel momento l’esistenza, apparentemente così inerme, del mio amico. Anche da questo punto di vista, il paragone con Buster Keaton mi sembra il più azzeccato per Pietro: quell’atteggiamento assorto e testardo che indica la capacità di individuare e abitare il centro di se stessi, di custodire la propria fiamma interna, anche nel mezzo dei peggiori pasticci... Mi faceva venire anche in mente un verso di Marianne Moore, una poetessa che lui amava molto, sull’eroe, colui che nulla vuole di ciò cui ha rinunciato, e non si guarda mai indietro, non rimpiange. Il periodo del coma aveva lasciato in Pietro, più che dei ricordi continuati, una serie di immagini o di pensieri suscitati da immagini che non avevano un preciso ordine cronologico. Come tanti altri che hanno attraversato condizioni simili di sospensione temporanea tra la vita e la morte, anche Pietro si era sentito staccato dal suo corpo, leggero, attratto verso l’alto come un palloncino verso il soffitto. 113

Poi, a un certo punto, era successo qualcosa. La direzione seguita dal suo spirito, che si addentrava in un’oscurità sempre più fitta, si era invertita. Come un nuotatore alla fine dell’immersione, o forse come un feto che decide di uscire verso l’aria e la luce, il movimento si era capovolto. Ed eccolo di nuovo qui, con la testa fasciata e le stanghette degli occhiali che scivolavano sulle bende strette, pronto a ricominciare a scrivere, a risalire al suo posticino remoto e solitario in cima all’impalcatura. Di tutte le cose che si possono avere o non avere, sicuramente alla fine la più preziosa è il carattere, non la passione, come spesso si ripete per inerzia e perché suona bene. La passione, senza il carattere, è la prima ad abbandonare la barca che affonda. Mi colpisce il fatto che questa seconda vita di Pietro è durata (così come aveva previsto il chirurgo, abituato a queste sentenze infallibili) circa nove mesi, il tempo di una gestazione umana. Spesso al telefono, o quando lo andavo a trovare, mi descriveva un senso di progressiva leggerezza, che conosceva bene, perché era lo stesso che aveva provato durante i giorni dell’oscurità, quando anche il cuore aveva perso il ritmo, prima che il suo spirito invertisse la direzione smettendo di inoltrarsi nell’incognito, tornando verso la luce e il calore del mondo. Una volta che eravamo tornati sull’argomento, gli avevo parlato della camera di Swedenborg, un altro luogo intermedio tra la vita e la morte, dove racconta di essere stato un personaggio del Regno di Lars von Trier. L’ora tipica di una telefonata di Pietro era poco prima di cena, quando d’inverno è già buio da un po’. Via via che le giornate si allungavano, quella primavera del 1999, il tempo residuo di Pietro si assottigliava senza tregua. Se ricordo bene, in una prima fase di quella “vita supplementare” il sentimento dell’infinità dei suoi progetti era tornato a pungerlo più dolo114

rosamente che mai. Parlo dell’infinità più difficile e disperante, che è quella del particolare perfettibile, non quella dell’estensione. Poi, negli ultimi mesi, era subentrato, o così mi sembrava, un atteggiamento più distaccato. Se nessuna opera, per definizione, aveva mai diritto a dichiararsi definitivamente “finita”, non era certo la sua che avrebbe fatto eccezione. Già negli anni Ottanta aveva scritto una breve poesia, davvero perfetta nella sua essenzialità musicale, ancora una poesia in versi, per così dire, in cui immaginava di parlare dal limite della vita, pronunciando come un ultimo saluto. È molto difficile che qualcuno trovi in giro i libri di Pietro, e quindi non trovo di meglio da fare che trascriverla. Anche in questa poesia, che ho sempre ricordato a memoria, e che dunque rimarrebbe mia anche se dovessi perdere l’ultima introvabile copia del libro di Pietro in mio possesso, anche in questa poesia ho imparato con il tempo a distinguere, appena sotto il suono delle parole, quel suono che Pietro governava così bene e così faticosamente, un suono interno, un rumore che parte dal fondo di un’oscurità inesprimibile, come se anche le parole scritte su un foglio avessero dentro di sé, come il suolo di San Clemente, abbastanza spazio da ospitare il corso di un fiume segreto e da far risuonare nelle loro cavità interne il sussurro di un’altra lingua, che scorre veloce e sfiorandoci ci inganna e ci deride e ci consola al tempo stesso. Ma ora questa morte possa essere come un nutrimento amaro alla visione di un cielo più terso. Al ricordo, che l’ultimo e più infuocato amore diventa, di una tua carezza 115

da me incompresa. Anche di rimorso, catena dei viventi, è l’amore. Ma già ogni ricordo di te è anche pietra nel mio scrigno, e di una terra indicibile, e di un tempo. Già ogni ricordo migra in questa più grande terra. Era destino che avessimo fatto amicizia al telefono e che al telefono ci salutassimo anche l’ultima volta, io e Pietro. Era già aprile inoltrato e la sua voce sembrava un tessuto prezioso incredibilmente antico, che conserva ancora intatti i suoi ricami ma ormai non ha più consistenza di un velo di polvere. Su un vecchio quaderno sono riuscito a trovare un appunto di quella telefonata, e di lì, da quelle poche parole che nessuno oltre me sarebbe stato mai in grado di decifrare, un giorno di settembre del 2003, un giorno fresco – gli alberi di piazza Dante tornavano a stormire alla prima brezza dell’autunno – quando infine la grande e mortale canicola, che sembrava non dovesse finire mai, aveva raggiunto gli spettri del passato e il mondo ambiguo e incerto dei ricordi, ho cominciato a scrivere queste pagine. Sul quaderno c’era scritto: PIETRO – potrebbe essere l’ultima tel. – chissà. parlato di: una stupidaggine mia disavventura dolore palla destra (divertito racconto dottore dito nel culo ecc) amore per Giulia e il più piccolo vantaggi malattia (leggere) ma scrivere è sempre più sfibrante (ha detto proprio sfibrante ??? parlava basso basso) 116

Materiali

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piero Moretti e Pietro Tripodo, Fazi, Roma 1995 [contiene la traduzione italiana dei Canti del sogno e della morte di Stefan George]. Arnaut Daniel, Canti di scherno e d’amore, trad. it. di Pietro Tripodo, con un saggio di Paolo Canettieri, Fazi, Roma 1997. Vampe del tempo, Il Bulino, Roma 1998 [con due incisioni di Paolo Cotani]. Nel 2004 Tarcisio Tarquini ha curato, introdotto e fatto stampare in cento copie una splendida cartella con otto tavole: Pietro Tripodo, Da Orazio, Carme XI. Traduzione, correzioni e frammenti. È un documento esatto (e in qualche modo straziante) della maniera di lavorare di Pietro, prima scrivendo a mano e poi passando alla macchina da scrivere (in seguito, e con immense difficoltà, anche al computer). La maniera più semplice di trovare e leggere qualche esempio delle poesie senza verso di Pietro è cercare, nel sito www.losciacallo.it, l’indice del primo numero della rivista, dove c’è un’ottima scelta con una nota di Raffaele Manica.

Ringraziamenti

Grazie a Chiara Gamberale per il titolo e per il rifugio indispensabile che mi ha dato mentre scrivevo; a Fabrizio Ruggirello per la veduta di San Giovanni di Vanvitelli e per le fotografie dell’edicola di Antonio e di via Aleardi; a Lanfranco Caminiti che ha pubblicato su «accattone» una prima, minima scheggia; ad Antonio Arnaudi; a Federica Giacomini per le vecchie carte di Roma; a Patrizia Tripodo; a Flavia Giacomozzi; a Marco Vigevani; ad Alberto Castelvecchi ed Elisa Manisco, compagni di vita nella grande canicola del 2003; al gentilissimo e silenzioso custode del Museo Storico della Liberazione di Roma.