Roma senza il papa. La Repubblica romana del 1849 8858110927, 9788858110928

Roma 1849. Incalzato dal ribellismo dei sudditi, papa Pio IX si rifugia a Gaeta e chiede l'intervento armato delle

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Roma senza il papa. La Repubblica romana del 1849
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Storia e Società

Giuseppe Monsagrati

Roma senza il Papa

La Repubblica romana del 1849 Editori Laterza

Storia e Società

Giuseppe Monsagrati

Roma senza il Papa La Repubblica romana del 1849

Editori Laterza

© 2014, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione marzo 2014

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Anno 2014 2015 2016 2017 2018 2019

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-1092-8

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Roma senza il papa La Repubblica romana del 1849

La fuga del papa Roma, 15 novembre 1848, ore 13 circa. Pellegrino Rossi, primo ministro dello Stato pontificio, raggiunge in carrozza il Palazzo della Cancelleria. Deve inaugurare la seduta del Consiglio dei Deputati dello Stato pontificio e ha preparato già dal 1° novembre un discorso programmatico i cui punti fondamentali sono la difesa e il consolidamento delle libertà costituzionali, l’impegno a far rispettare la legge, la ricostituzione dell’esercito e il risanamento finanziario (con ovvia promessa di inasprimenti fiscali)1. Lo accompagna Pietro Righetti, sostituto al Ministero delle Finanze, che vorrebbe fargli strada in mezzo a una folla urlante di guardie civiche e di legionari reduci dalla campagna nel Veneto, ma che a forza di spintoni è costretto a restare indietro. Le espressioni dei volti che circondano Rossi non sono affatto rassicuranti, ma egli, forte della sua cittadinanza francese, non si fa certo impressionare, quantunque nei giorni precedenti abbia ricevuto – almeno così si dirà in seguito2 – più di un avvertimento sui rischi anche personali che corre con la sua politica incapace di qualunque mediazione e pregiudizialmente ostile alla guerra federale3. Agli improperi che gli rivolgono risponde con un gesto come di disprezzo. 1   Il testo del discorso è riprodotto in Le Assemblee del Risorgimento. Atti raccolti e pubblicati per deliberazione della Camera dei deputati, vol. II, Roma, Tipografia della Camera dei deputati, Roma, 1911, pp. 4-9 (citato d’ora in avanti come Atti Roma). Per le linee programmatiche del governo che Rossi era stato chiamato a formare il 16 settembre si veda L.C. Farini, Lo Stato romano dall’anno 1815 all’anno 1850, 4 voll., Le Monnier, Firenze, 1850-1853, vol. II, pp. 326-331. 2   C.A. Vecchi, La Italia. Storia di due anni 1848-1849, S. Franco e Figli, Torino, 18562, vol. I, p. 314; Farini, Lo Stato romano cit., vol. II, pp. 366-367. 3   Sull’atteggiamento dell’ambiente carbonaro romano verso Rossi è da tener presente il giudizio di Michelangelo Pinto, poi inviato in missione a Torino dal governo della Repubblica romana (cfr. F. Guida, Michelangelo Pinto. Un letterato e patriota romano in missione tra Italia e Russia, Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, Roma, 1998, pp. 14-16).

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Varcata la soglia del palazzo, il ministro si trova davanti la scalinata che dovrebbe portarlo alla sala del Consiglio. Ha appena cominciato a salirla che sente un colpo su una spalla: nel momento in cui volge d’istinto la testa per vedere chi l’ha toccato, dal lato opposto spunta una mano armata di pugnale che gli vibra un unico fendente alla carotide. Mentre Rossi crolla a terra in un lago di sangue, i legionari alzano i mantelli per consentire all’attentatore di dileguarsi tra la folla senza essere identificato. Dalle indagini e dal processo che verrà celebrato cinque anni dopo, responsabile materiale dell’omicidio risulterà essere stato Luigi Brunetti, figlio del capopopolo noto col nomignolo di Ciceruacchio (entrambi fucilati nel frattempo dagli austriaci); uno dei mandanti verrà individuato in Pietro Sterbini, uomo di punta della carboneria romana, da qualche tempo vicino agli ambienti federalisti piemontesi4; e d’altronde non mancherà chi indicherà proprio nella politica estera di Rossi, contrario alla guerra federale piemontese, la causa dell’attentato5. Si apre ora per il vicario di Cristo uno scenario di autentico terrore. A rivelare quanto il clima sia surriscaldato sono i cori di giubilo con cui la sera stessa del 15 si festeggia per le strade di Roma l’uccisione del primo ministro. Il giorno dopo una folla minacciosa manifesta davanti al Quirinale. Nel vuoto di ogni potere, fanno impressione i due cannoni puntati sulla residenza papale e mette paura l’uccisione di un prelato raggiunto da un colpo di fucile mentre da una finestra del palazzo osserva i manifestanti in tumulto: quel giorno «le palle – annoterà Farini – arrivano

4   Su Sterbini e sulla sua partecipazione al congresso torinese della Società per la confederazione italiana voluto nel settembre 1848 da V. Gioberti si veda C. Minnocci, Pietro Sterbini e la rivoluzione romana: 1846-1849, La Diana, Marcianise, 1967. 5   Una ricostruzione dettagliata del complotto è quella fornita da R. Giovagnoli, Pellegrino Rossi e la rivoluzione romana su documenti nuovi, Forzani e C., Roma, 1898, pp. 219-279: condotta sugli atti del processo, attribuisce la responsabilità materiale dell’attentato a un gruppo di carbonari romani. Tra i primi a formulare la tesi di una direzione piemontese della cospirazione contro Rossi, B. Del Vecchio, L’assedio di Roma, Tipografia Elvetica, Capolago, 1849. Dedica attenzione alla questione dei mandanti L. Rodelli, La Repubblica romana del 1849, Domus Mazziniana, Pisa, 1955, p. 114, che esclude il coinvolgimento del Piemonte; induce qualche sospetto il fatto che Sterbini, uno degli autori del complotto, fosse, come segnalato nella nota precedente, da poco rientrato da Torino.

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nell’anticamera del Papa»6, e sono la prova tangibile che il tempo dei compromessi è finito. Tuttavia, stando all’accurata ricostruzione di due storici anglosassoni, non si verificano, malgrado il clima sovraeccitato, «saccheggi né si registrano violenze fisiche»7. Comunque, di fronte a tutto ciò Pio IX ha una sola premura: nominare certo un nuovo governo, permettere anche che ne esca ribadita l’intenzione di rispettare il principio della nazionalità italiana, ma subito dopo abbandonare la città ai circoli politici che sobillano, alla stampa che getta olio sul fuoco, ai capi liberali che sono padroni della piazza. Descritto da tutti come un carattere emotivo e facilmente impressionabile, già il 16 novembre Pio IX pensa a come mettersi al sicuro: lo fa in tutta segretezza, confidandosi con qualche diplomatico e con il cardinale Giacomo Antonelli, che dai primi di dicembre ha nominato prosegretario di Stato e che d’ora in poi sarà per lui qualcosa di più di un consigliere assiduo. Nessuno cerca di fargli cambiare idea, e anzi tra i diplomatici si svolge una specie di gara a offrirgli asilo, proponendogli chi Marsiglia chi le Baleari: qualcuno preme perché non si perda tempo, ma certo, nell’incitarlo a lasciare Roma, sia il francese duca d’Harcourt che lo spagnolo Martinez de la Rosa, peraltro in fiera concorrenza tra loro, pensano non solo alla sua sicurezza ma anche al prestigio che, accogliendo il papa, il loro paese riscuoterebbe sia agli occhi dei propri sudditi che di tutto il mondo cattolico. Pio IX non sembra prestarsi a questo gioco che infastidirebbe certamente l’Austria8 e concede la sua piena fiducia a un terzo personaggio, un noto austriacante, il conte Spaur, rappresentante del Regno di Baviera a Roma, la cui moglie, conosciuta come contessa Spaur, è una romana devotissima al papa: si chiama Teresa Giraud, è nipote di un famoso commediografo romano, è vedova di un ben noto archeologo e collezionista inglese, e ha alle spalle un’esistenza un po’ convulsa. Aurelio Saffi, futuro triumviro della Repubblica ro-

  Farini, Lo Stato romano cit., vol. II, p. 379.   G.F.H. e J. Berkeley, Italy in the making, vol. III, January 1st 1848 to November 16th 1848, Cambridge University Press, Cambridge, 1940, p. 441. 8   G. Gabussi, Memorie per servire alla storia della rivoluzione degli Stati Romani dall’elevazione di Pio IX al pontificato sino alla caduta della Repubblica, 3 voll., R. Istituto de’ Sordomuti, Genova, 1851-52, vol. II, p. 249. 6

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mana, la dirà «data, nei suoi primi anni, ai piaceri dei sensi, poi di lasciva divenuta bigotta al cadere dell’età»9: opinione condivisa da altri testimoni, ma biasimata fieramente da Luigi Carlo Farini, un liberale al quale, nonostante i trascorsi settari fieramente antipapali10, non doveva piacere che si dubitasse della «reputazione della santa vita» di Pio IX11. Quanto al marito, che non a caso rappresenta a Roma anche l’Austria dopo la rottura delle relazioni diplomatiche austro-pontificie dell’anno prima12, non mira a possibili vantaggi per la Baviera: gli preme solo che si chiuda un’epoca, l’epoca del papa liberale e dell’incoraggiamento che incautamente egli ha dato alla causa nazionale. Con il passato che le viene attribuito la Spaur non sarà un esempio di moralità, ma nel pianificare tutte le fasi della fuga – il papa preferirà parlare di «partenza»13 – si dimostra all’altezza della situazione. Deve innanzitutto tener conto del lato superstizioso del carattere di Pio IX che prende la decisione finale solo il 21, dopo che da Valence ha ricevuto una pisside appartenuta a Pio VI che in quella città della Francia meridionale era stato tenuto prigioniero nel 179914. Pio IX interpreta l’omaggio come un segnale inviatogli dal cielo (ma forse, superstizioso com’è, ricorda anche che dall’esilio di Valence Pio VI non è tornato vivo). Intanto parecchi cardinali e più di un aristocratico si sono messi in viaggio in cerca di una residenza più sicura; dal canto loro molti deputati del Consiglio istituito in

9   Citato da C. Spellanzon, Storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, vol. V, Dall’armistizio Salasco alla fuga del papa dallo Stato romano e alle agitazioni per la Costituente italiana, Rizzoli, Milano, 1950, p. 966. 10   Ne parla tra i tanti Felice Orsini in una lettera a Giuseppe Galletti del 31 luglio 1850: F. Orsini, Lettere, a cura di A.M. Ghisalberti, Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, Roma, 1936, pp. 93-98. 11   Farini, Lo Stato romano cit., vol. III, p. 34. 12   C. Falconi, Il cardinale Antonelli. Vita e carriera del Richelieu italiano nella Chiesa di Pio IX, Mondadori, Milano, 1983, p. 211. Secondo G. Martina, Pio IX (1846-1850), Università Gregoriana, Roma, 1974, p. 303, Spaur era «una figura del tutto di secondo piano», ma tale definizione non sembra compatibile col ruolo di rappresentante dell’Austria rivestito dal diplomatico bavarese. 13   Il termine, adoperato da Pio IX nella lettera con cui chiedeva al facente funzione di maggiordomo di comunicare al ministro dell’Interno la già attuata decisione di lasciare Roma, fu poi ripreso da Farini, Lo Stato romano cit., vol. III, pp. 3-4. 14   Il particolare è riferito dal bene informato G. Spada, Storia della rivoluzione di Roma e della restaurazione del governo pontificio dal 1 giugno 1846 al 15 luglio 1849, 3 voll., G. Pellas, Firenze, 1870, vol. III, p. 13.

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epoca costituzionale hanno comunicato di rinunziare al mandato. La contessa Spaur ha tre giorni di tempo per i preparativi, che mette a punto con l’aiuto del marito e di un funzionario di Curia, Benedetto Filippani, l’unico forse di cui il papa si fidi ciecamente. Il piano scatta la mattina del 24, alle 6.45, quando la Spaur, accompagnata dal figlio e dal suo istitutore, parte alla volta di Albano, la cittadina dei Castelli scelta come prima tappa del viaggio. Alle 17 dello stesso giorno Pio IX, testimone il francese Harcourt, si spoglia della veste papale, compresi «il camauro e le pantofole di marocchino rosso colle croci ricamate sulle tomaie»15, e indossa un semplice abito talare. Mezz’ora dopo, quando fuori è già buio, Pio IX in preda a una forte agitazione si avvia: attraversa alcune stanze del Quirinale, si blocca davanti a una porta chiusa a chiave che non riesce ad aprire, chiama Filippani perché lo aiuti e finalmente scende nel cortile del palazzo dove trova ad attenderlo una carrozza nella quale s’infila avendo cura di non farsi scorgere da eventuali spettatori. Le stanze del palazzo restano intanto illuminate per dare a intendere che il papa è al lavoro. Nella sala delle udienze Harcourt parla ad alta voce per far credere a chi eventualmente origliasse dall’esterno che il papa lo sta ascoltando. Così nessuno sospetta nulla. Alcuni monsignori, che sanno della partenza, sono convinti che Pio IX sia diretto a Civitavecchia e di lì in Francia. Una volta partita, la carrozza si dirige velocemente verso il Laterano. Arrivati davanti alla chiesa dei Ss. Pietro e Marcellino, all’incrocio tra via Merulana e via Labicana e dunque in prossimità di Porta S. Giovanni, i fuggiaschi sono attesi da un’altra carrozza, a bordo della quale si trova il conte Spaur. Rapido cambio di vettura e, imboccata la via Appia, via a tutta velocità verso il confine meridionale dello Stato. Ad Albano la Spaur, in trepida attesa, viene raggiunta da un messo che l’avverte che il marito l’aspetta poco lontano, ad Ariccia. La donna riparte, nei pressi di Ariccia fa salire il papa e tutti insieme – lei, il marito, il figlio, l’istitutore ed un uomo di scorta – si mettono in viaggio. I sei cavalli della sua carrozza corrono a rotta di collo. Alle prime luci dell’alba del 15   Le memorie della contessa Spaur ossia la fuga di Pio IX da Roma a Gaeta nel novembre 1848, versione dal tedesco, Tipografia Castellazzo e Dagaudenzi, Torino, 1852, p. 15. Il dettaglio è ricavato da [T. Giraud Spaur], Relazione del viaggio di Pio IX P.M. a Gaeta, Galileiana, Firenze, 1851.

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25 novembre sono a Terracina: difficile ritenere che il papa abbia preso sonno, difficile anche che si sia lasciato andare coi suoi compagni di viaggio a quelle battute scherzose e a quei calembours­che rendendolo simpatico ne hanno accresciuto la fama. Più probabile che abbia pensato al crollo del suo progetto, alla gloria prima raggiunta e poi perduta, agli errori politici commessi, e che abbia rivissuto il suo dramma di uomo animato dalle migliori intenzioni, sempre scisso tra le insanabili contraddizioni dei suoi due ruoli, di papa e di re, ma più che mai convinto che il potere temporale sia indispensabile per la conservazione dell’autonomia spirituale. Né può consolarlo la devozione – chissà quanto disinteressata – dimostratagli anche in questa occasione dai rappresentanti dei paesi cattolici, anticipazione del prezzo che lo Stato della Chiesa dovrà pagare in termini di indipendenza. E, quanto al rapporto coi propri sudditi, Pio IX sa che buona parte della sua autorevolezza come sovrano se n’è andata e che, se mai riprenderà il trono, avrà certamente problemi, circondato com’è da cardinali che avevano digerito male le sue innovazioni. La presenza a Gaeta del cardinale Antonelli, che con la scusa di assisterlo e proteggerlo non lo perde di vista e gli impone la sua politica decisamente filoaustriaca, darà corpo a quella condizione di sovrano sotto tutela e in qualche misura anche sotto accusa nella quale lo ha messo il precipitare degli eventi. In queste ore la Costituzione concessa da Pio IX il 14 marzo 1848 è ormai soltanto un ricordo. Da Terracina la carrozza, passato il confine alla Portella, prosegue per Fondi dove deve fermarsi per consentire al cocchiere di «estinguere il fuoco sviluppato alle ruote» per eccesso di velocità16. Qualche contadino crede di riconoscere in questo prete grassoccio una figura nota, ma non gli danno il tempo di accertarsene, e comunque comincia a spargersi la voce che qualcosa di strano sta succedendo. Alle 10 i fuggiaschi sono a Mola di Gaeta, l’odierna Formia: raggiunti poco prima dal cardinale Antonelli, sono da lui condotti all’albergo «Alla Villa di Cicerone» dove il giorno prima è sceso Luigi Mastai, il nipote del papa che, «tutto pieno in viso

16   B. Amante, R. Bianchi, Memorie storiche e statutarie del Ducato, della Contea e dell’episcopato di Fondi in Campania dalle origini fino a’ tempi più recenti, Loescher, Roma, 1903 (rist. anastatica, Gaeta, 1979), p. 236.

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di barba e basette»17, insospettisce la Spaur che non lo conosce. C’è appena il tempo di rifocillarsi che il papa si fa portare penna e calamaio per inviare un indirizzo di saluto a Ferdinando II, re dello Stato del quale è ora ospite non invitato ma desideratissimo, dal momento che con la sua sola presenza rafforza e in qualche modo legittima la svolta reazionaria impressa al Regno meridionale all’indomani della rivolta napoletana del 15 maggio 184818. Il messaggio, che il «Sommo Pontefice romano» invia chiedendo ospitalità «per breve tempo» perché «si è trovato nella circostanza di abbandonare la Capitale de’ suoi dominii per non compromettere la sua dignità e per non dimostrare di approvare col suo silenzio gli enormi eccessi che si sono commessi e si commettono in Roma»19, viene affidato al conte Spaur perché si affretti a recapitarlo di persona al re delle Due Sicilie. Spaur, che vede sventato il pericolo che Pio IX si rifugi in Francia, non chiede di meglio: verso la mezzanotte del 25 è a Napoli, accolto a braccia aperte da Ferdinando II che, in preda a un eccesso di entusiasmo, convoca i familiari e comunica loro che il giorno dopo si parte tutti in nave per Gaeta. A Gaeta si è intanto spostata la comitiva del papa che ha preso alloggio in una locanda. Il pomeriggio del 26 lo informano che Ferdinando II, appena arrivato in città col suo seguito di parenti e aiutanti di campo, lo aspetta nella residenza reale. Quando vi si reca, Pio IX si sente rivolgere l’invito formale a restare a Gaeta: ben lieto di accettarlo, si profonde in una serie di complimenti (altri se ne avranno nei giorni successivi) che sono manna dal cielo per il re bisognoso di rifarsi l’immagine. Nel frattempo a Roma si è sparsa già dalla mattina del 25 la voce che il papa è fuggito20, e il Governo non può che prenderne atto21. Ma ancora il 27 un diarista romano annota che «si sta sempre nell’oscurità sulla direzione presa dal papa»22.   Giraud Spaur, Relazione del viaggio cit., p. 32.   Rivolta sulla quale sono da vedere le giuste considerazioni di R. Moscati, La diplomazia europea e il problema italiano nel 1848, Sansoni, Firenze, 1947, pp. 67-77. 19   Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, pp. 15-16. 20   N. Roncalli, Cronaca di Roma (1844-1870), vol. I, 1844-1848, a cura di M.L. Trebiliani, Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, Roma, 1972, p. 324. 21   Atti Roma, vol. II, p. 54. 22   Il tempo del papa-re. Diario del Principe Don Agostino Chigi dall’anno 1830 al 1855, Edizioni del Borghese, Roma, 1966, p. 262 (citato d’ora in avanti come Diario Chigi). A quanto risulta dallo stesso autore, solo il 29 si ebbe la certezza che 17 18

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A togliere ogni dubbio è il breve che in quello stesso 27 novembre Pio IX indirizza appunto da Gaeta ai suoi «dilettissimi sudditi» (dilettissimi ma descritti dal moderato Roncalli come abbastanza indifferenti rispetto alla novità23): al di là della protesta contro la violenza di cui si ritiene vittima, è questo il primo atto ufficiale con cui il papa fuggitivo, dichiarando nulla ogni decisione governativa presa dal giorno successivo alla morte di Rossi, si preoccupa di «non lasciare acefalo in Roma il governo del nostro Stato» e nomina una Commissione governativa composta da sette membri e presieduta dal cardinale Castracane – tra i pochi rimasti a Roma – incaricandola di prendere in sua vece «la direzione temporanea dei pubblici affari»24: mossa improvvida, questa, perché mentre delegittima completamente il governo costituzionale in carica (cui si chiede contraddittoriamente di provvedere all’ordine pubblico), non ottiene la collaborazione dei commissari designati che ritengono bene di defilarsi vanificando del tutto le intenzioni del papa. Con il rifiuto di ricevere pochi giorni dopo la delegazione di deputati, consiglieri e amministratori inviati da Roma per indurre il papa a tornare sui suoi passi ha inizio un nuovo capitolo della vicenda, un periodo di transizione destinato a durare poco più di due mesi, trascorsi i quali il 9 febbraio 1849 verrà proclamata la Repubblica romana. il papa era a Gaeta «giacché vari nostri romani, come Doria, Borghese ecc. nel loro passaggio per Napoli l’hanno veduto colà». 23   Roncalli, Cronaca cit., vol. II, 1848-1851, a cura di A.F. Tempestoso e M.L. Trebiliani, Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, 1997, p. 29. 24   G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. III, La rivoluzione nazionale (1846-1849), Feltrinelli, Milano, 19755, p. 335.

I Due anni di speranze Il papa «liberale»: attese e aspettative Pio IX, al secolo Giovanni Maria Mastai Ferretti, fu eletto papa la sera del 16 giugno 1846, al termine di un conclave sbrigato rapidamente in due soli giorni1. Veniva da un lungo vescovato esercitato a Spoleto a partire dal 1827, proseguito a Imola dal 1832 e portato avanti per otto anni prima di ottenere, nel 1840, la porpora cardinalizia. Di lui al di fuori della Romagna non si sapeva molto perché, rimasto lontano dalla Curia romana, non aveva avuto troppe opportunità per farsi notare, e questo, nell’Italia del tempo attraversata da tante tensioni, non è detto che fosse un male. Così le poche notizie che si avevano sul nuovo papa dicevano che era di nobile famiglia marchigiana, che era nato a Senigallia – in provincia di Ancona – nel 1792, che aveva retto la diocesi di Imola (e prima ancora quella di Spoleto) cercando di dare impulso alle opere assistenziali, alla devozione popolare e alla crescita culturale del suo clero, e che ciò malgrado nel 1843 era stato con altri due cardinali obiettivo di un fallito tentativo di sequestro per opera di una banda di cospiratori2. Contribuivano a illuminare un po’ di più il suo ritratto e a generare qualche timida aspettativa sul futuro del suo pontificato 1   Sul conclave e sui primi anni del pontificato resta fondamentale Martina, Pio IX cit.; per il periodo precedente la nomina a vescovo di Spoleto, C. Falconi, Il giovane Mastai. Il futuro Pio IX dall’infanzia a Senigallia alla Roma della Restaurazione 1792-1827, Rusconi, Milano, 1981. 2   P. Zama, La rivolta in Romagna fra il 1831 e il 1845, Fratelli Lega, Faenza, 1978, pp. 42-44. Il tentativo di sequestro era stato organizzato dalla banda di Ignazio Ribotti per ottenere la scarcerazione di alcuni detenuti politici.

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l’età relativamente giovane rispetto alla media del Sacro Collegio e la linea di moderatismo che aveva seguito come vescovo. Ma a giocare in suo favore furono soprattutto alcune considerazioni che prescindevano da una conoscenza effettiva della sua personalità e delle sue inclinazioni. In primo luogo, la considerazione che Mastai aveva prevalso sul cardinale Luigi Lambruschini, un ultraconservatore e quasi un doppione del papa defunto; poi il fatto che il suo pontificato veniva dopo quello di Gregorio XVI, che Niccolò Tommaseo aveva bollato già a pochi anni dal suo esordio dicendo che per resistere allo sdegno del suo popolo aveva dovuto sostitui­ re «al triregno l’elmetto di dragone austriaco»3; altri, con efficacia anche maggiore, avevano sentenziato che se anche fosse stato eletto Ignazio di Loyola, sarebbe stato impossibile avere un papato più reazionario di quello precedente. Quello che si chiedeva al nuovo papa era non un capovolgimento della direzione dello Stato ma almeno l’adozione della politica di moderate riforme più volte sollecitata dalle potenze – Austria compresa – e poi vanamente attesa. Da qualche decennio, infatti, le riforme erano diventate per gli osservatori delle potenze la panacea d’ogni male, l’unico mezzo per far funzionare decentemente la macchina statale. In realtà, la difficoltà di attuarle era legata proprio alla doppia natura dello Stato pontificio e alla netta prevalenza nell’amministrazione dell’elemento ecclesiastico su quello laico. Ogni intervento correttivo era visto dagli interessati come un attentato alla stabilità di un organismo la cui saldezza era fatta dipendere solo dal rispetto della tradizione: un giudizio del genere vedeva pienamente d’accordo Tommaso Bernetti, segretario di Stato di Gregorio XVI, e Giacomo Antonelli, il cui peso sul piano temporale sarebbe cresciuto a dismisura proprio con la crisi del 1848-49: era quest’ultimo a sostenere che «parlare di riforma a Roma è tanto ridicolo come il voler pulire una piramide con uno spazzolino da denti»4. Decenni prima una analoga chiusura aveva bloccato il cardinale Ercole Consalvi, il segretario di Stato di Pio VII che nei primi tempi della Restaurazione aveva tentato tra mille ostacoli di combat3   N. Tommaseo, Dell’Italia. Libri cinque (1835), intr. e note di G. Balsamo-Crivelli, 2 voll., Unione tipografico-editrice torinese (Utet), Torino, 1920, vol. I, p. 46. 4   Citato da F. Bartoccini, Roma nell’Ottocento. Il tramonto della “città santa”. Nascita di una capitale, Cappelli, Bologna, 1985, p. 126.

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tere i particolarismi immettendo nella macchina statale il potere di direzione del centralismo. Eppure fu proprio sulla strada delle riforme che parve volersi mettere Pio IX già nei primi giorni del suo pontificato: come era solito avvenire a ogni elezione papale, accordò un’amnistia a detenuti ed esuli politici (ma mise come condizione che chi ne faceva richiesta si impegnasse per iscritto a «fedelmente adempire ogni dovere di buon suddito»5). Trattandosi di reati politici, il numero degli amnistiati fu cospicuo, e il neo-papa fu salutato come un grande benefattore; soprattutto, sembrò in qualche modo riabilitata anche la causa dell’indipendenza e delle concessioni per la quale i rei si erano battuti6. Pio IX parve gradire molto le manifestazioni di giubilo con cui era stato accolto. Presto girò la voce che fosse molto sensibile al plauso dei sudditi: era un papa cui «piaceva piacere», confermerà molti anni dopo un gesuita bene addentro alle cose vaticane, padre Carlo M. Curci7. La vanità personale sicuramente c’era ma non spiegava tutto. Certamente uomo di chiesa, e dei più preoccupati dal diffuso malcontento per il governo del clero, Pio IX concepì subito la speranza che l’approvazione generale per i suoi atti come sovrano temporale e la simpatia per la sua persona potessero favorire una ripresa del sentimento religioso, che in effetti era ciò che gli stava davvero a cuore. Il suo principale obiettivo divenne quindi quello di bloccare il processo di secolarizzazione cui proprio il cattivo rapporto del suo predecessore col paese e in generale col mondo moderno aveva impresso una forte accelerazione. Insomma, in una condizione come la sua non era possibile tenere separate e distinte le due funzioni, quella spirituale e quella temporale: le migliori fortune dell’una avrebbero apportato un beneficio anche all’altra. Prima che come problema di rapporto con uno Stato unitario che al momento era ancora in mente Dei, quella che si sarebbe definita la Questione romana nasceva sul tema del rapporto del papato col mondo che lo circondava, anche con quello cattolico,

  Farini, Lo Stato romano cit., vol. I, p. 158.   L’osservazione, molto calzante, è di C. Rusconi, La Repubblica romana del 1849, Capaccini & Ripamonti, Roma, 1879, pp. 4 sg. 7   Traggo la citazione da G. Leti, La rivoluzione e la Repubblica romana (18481849), Vallardi, Milano, 1913, p. 15, che la riprende da C.M. Curci, La nuova Italia e i vecchi zelanti, Bencini, Firenze, 1881. 5

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dal quale era venuto più di un sintomo di insofferenza verso l’autorità del papa e ciò che si riteneva ne fosse derivato, vale a dire la «chiusura pressoché totale ad ogni tentativo di rinnovamento»8. Così al tempo di Gregorio XVI, per ribadire la centralità di Roma e il primato assoluto del suo vescovo in materia di fede, si erano dovuti assumere provvedimenti di condanna a carico di ricerche dottrinali che avevano puntato il dito contro il prevalere nella Chiesa degli interessi mondani su quelli pastorali; e dopo aver colpito il francese Lamennais, la scure della censura si era abbattuta su personaggi come Rosmini, Tommaseo, Gioberti, Ventura, D’Azeglio, le cui pubblicazioni, tutte più o meno critiche verso gli indirizzi di governo del papato, erano state messe tempestivamente all’Indice. Il successore di Gregorio XVI fece capire sin dall’inizio di voler prendere un’altra strada. Proprio su questo si misura la distanza di Pio IX dai papi che lo avevano preceduto: Pio IX, il Pio IX dei primi mesi di pontificato, pur non essendo un politico vuole fare politica andando incontro alla domanda di cambiamento. Sembrerebbe averne la capacità, perché a differenza di altri cardinali non ha trascurato studi e osservazioni sull’economia, sulla struttura amministrativa dello Stato, sulla sua burocrazia9. Oltre tutto, a differenza di Pio VIII e di Gregorio XVI, si presenta bene anche nell’aspetto, con quell’aria gioviale che farà dire a Giuseppe Gioachino Belli che «je daressi un bacio a pizzichetti»10 (mentre al contempo i reazionari esclamano: «Semo futtuti: / qua torneno a regnà li giacubbini»11). Se si tratta, invece, di capire come egli la pensi, non è raro che ci sia chi gli attribuisce anche letture giobertiane; e però, se anche tali letture c’erano state, ciò non deve far credere a un desiderio del papa di inserirsi nel dibattito sulla nazionalità. Anzi, la priorità da lui accordata al progetto riformatore può essere vista

8   G. Martina S.J., Rinnovamento religioso e atteggiamento verso i non cattolici, in L’Italia tra rivoluzioni e riforme 1831-1846, Atti del LVI Congresso di Storia del Risorgimento italiano, Piacenza, 15-18 ottobre 1992, Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, Roma, 1994, p. 316. 9   G. Maioli, Pio IX da vescovo a pontefice. Lettere al card. Luigi Amat (agosto 1839-luglio 1848), Società tipografica modenese, Modena, 1949. 10  G.G. Belli, Er Papa pacioccone, sonetto n. 2143, in Id., I sonetti, intr. di C. Muscetta, a cura di M.T. Lanza, 4 voll., Feltrinelli, Milano, 1965, vol. IV, p. 2245. 11   Id., L’orloggio, sonetto n. 2141, ivi, p. 2242.

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come un modo per cercare di tener lontana la prospettiva di un coinvolgimento del papato nella spinosa causa dell’indipendenza nazionale. Addirittura, in qualcuno si fece strada il sospetto che, pur attuando una politica che molti definivano liberale, il papa tenesse sempre una porta aperta al soccorso militare austriaco12. In mezzo alle manifestazioni di giubilo e di sostegno sapientemente orchestrate dai circoli politici di Roma e delle principali città dello Stato, si fa intanto strada il timore che l’azione riformatrice del nuovo papa possa fermarsi all’amnistia. Ovviamente il dubbio, alimentato da una certa conoscenza dei meccanismi dell’amministrazione pontificia, è di natura politica e riguarda i rapporti di Pio IX con una Curia dalla quale la morte di Gregorio XVI non ha fatto sparire gli elementi ultra-conservatori che in lui si riconoscevano13, riguarda in prospettiva le sorti stesse del movimento liberale e nazionale che per crescere ha bisogno di una figura di riferimento forte. L’accordo della religione con la libertà può essere un fatto universale ma per realizzarsi ha bisogno di una visione chiara: quello che si teme è che Pio IX, generoso ma inesperto, nella lunga pausa seguita all’amnistia possa essere rimasto impaniato nella vischiosità della struttura ecclesiastica e nella sua secolare tendenza all’immobilismo. Se c’è qualche cardinale che condivide gli impulsi innovativi, molti di più sono coloro che li paventano, anche se in silenzio14: come confiderà uno di essi a un suo collega, Pio IX si fa bello dell’entusiasmo delle folle ma poi siamo noi in provincia a dover fare i conti con l’effervescenza scatenata dalle sue concessioni. Puntare sulle riforme voleva dire porre in primo piano lo sviluppo economico, ma significava anche rispondere alla doman12   «A un ber bisogno / C’è sempre l’arisorta der todesco»: Id., La cechezza der Papa, sonetto n. 2162, ivi, p. 2264; «arisorta» sta per «risorsa». 13   Si veda ciò che il 27 febbraio 1847 scriveva a un amico inglese il duca Michelangelo Caetani, maggiore rappresentante del liberalismo moderato romano e sostenitore del nuovo corso, tentando di dare un’idea delle responsabilità politiche di Pio IX al momento della successione: «La riforma – diceva – era inevitabile; e questa si è quella promessa dal Papa fin dal principio del suo regno, e fin’ora sempre impedita con arti sottilissime e con pretesti infiniti da preti e frati del vecchio Governo, i quali sono tenacissimi a vivere e morire come Gregorio» (lettera a Edward Cheney, in Epistolario del duca Michelangelo Caetani di Sermoneta, vol. I, Lapi, Città di Castello, 1902, p. 27). 14   Martina, Pio IX cit., pp. 109-114.

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da di libertà che partiva soprattutto dai settori della borghesia delle professioni coinvolti in questo embrionale processo di rinnovamento. Appena eletto, Pio IX aveva dato qualche speranza chiamando ad assisterlo una Commissione consultiva con la quale aveva assestato un piccolo colpo alla tradizione di autocrazia in cui si erano mossi i suoi predecessori15. Almeno in questa fase il motivo dell’indipendenza e della lotta contro l’Austria non era quello più sentito. E se lo divenne lo si dovette proprio alle pur caute dinamiche messe in moto da papa Mastai16 e al crescente disappunto con cui l’Austria le accolse. Anche se non va trascurato il parere di chi ha sostenuto che il contributo di Pio IX al Risorgimento fosse solo involontario17, si può dar ragione a Giuseppe Montanelli quando scrive che «senza il “Viva Pio IX” chi sa quando le moltitudini italiane si sarebbero per la prima volta agitate nell’entusiasmo della vita nazionale»18, attivando un decisivo circolo virtuoso tra esaltazione popolare del papa, impulso alle riforme e incoraggiamento alle tesi indipendentiste. Qualcosa di analogo era successo col diritto di associazione e la tolleranza verso l’attività dei circoli, scaturiti non da un provvedimento di legge ma dalle manifestazioni in cui si celebravano le glorie del nuovo papa19. «Il nome di Pio IX – noterà Carlo Cattaneo a cose finite – aveva congiunto in uno la coscienza del fedele e quella del cittadino»20. Così, tra tanti agitatori che avevano già calcato la

15   A. Caracciolo, Da Sisto V a Pio IX, in M. Caravale, A. Caracciolo, Lo Stato pontificio da Martino V a Pio IX, Utet, Torino, 1978, p. 642. 16   «Pio fu primo a inalberare la patria bandiera e Carlo Alberto il seguì», dirà lapidariamente V. Gioberti, Del rinnovamento civile d’Italia, a cura di F. Nicolini, 3 voll., Laterza, Bari, 1911-12, vol. I, p. 42. E Mazzini, rievocando il clima del suo ritorno in Italia nel 1848, «I moderati guidavano dominatori: gli altri seguivano ciechi»: G. Mazzini, Edizione nazionale degli Scritti (d’ora in poi E.N.S.), 106 voll., P. Galeati, Imola, 1906-43, vol. LXXVII, p. 319. 17   L. Salvatorelli, Pio IX e il Risorgimento, in Id., Spiriti e figure del Risorgimento, Le Monnier, Firenze, 1961, pp. 252-257. 18   G. Montanelli, Memorie sull’Italia e specialmente sulla Toscana dal 1814 al 1850, Sansoni, Firenze, 1963, p. 156. 19   Gabussi, Memorie per servire cit., vol. I, pp. 56 sg.; Rodelli, La Repubblica romana cit., p. 109. Ma notazioni del genere si possono ricavare da molte delle fonti contemporanee e dalla successiva storiografia. 20   C. Cattaneo, Archivio triennale delle cose d’Italia. Dall’avvenimento di Pio IX all’abbandono di Venezia, a cura di L. Ambrosoli, in Tutte le opere di Carlo Cattaneo, Mondadori, Milano, 1974, vol. V, t. I, p. 1374 (corsivo di Cattaneo).

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scena italiana, doveva essere proprio un papa a scatenare la tempesta! Nella sorpresa con cui il cancelliere austriaco Metternich accolse gli esordi di Pio IX21 c’era il preannunzio dell’ostilità che presto Vienna avrebbe manifestato verso ogni pur lontana ipotesi di evoluzione in senso costituzionale del sistema pontificio. Ma il vero limite della politica papale stava ora nel suo toccare la facciata senza incidere sulla struttura profonda del sistema: con la consueta efficacia Giuseppe Mazzini irriderà di lì a poco «il papa rigeneratore del mondo» che però «non s’attentava di rigenerare la Curia di Roma...»22. Vedremo presto che in realtà anche Mazzini doveva qualcosa a questa enigmatica figura di pontefice. Il riformismo sul soglio pontificio A sbloccare la situazione quando già il malcontento cominciava a serpeggiare per la stasi seguita all’amnistia fu la concessione della libertà di stampa (15 marzo 1847). Era una riforma molto moderata23, ma fu l’inizio di tutto perché aprì un ciclo di concessioni e di pressioni dal basso destinato a durare tredici mesi, che furono quelli in cui a ogni innovazione da parte del papa (la Consulta di Stato rappresentativa delle province, poi l’istituzione di un Consiglio dei Ministri, beninteso tutti ecclesiastici e per giunta subito messi in guardia contro la tentazione di ritenersi mai qualcosa di simile a un Parlamento, infine la Guardia Civica) corrispondeva un balzo in avanti della capacità d’aggregazione delle forze liberali, esaltate dall’idea che a causa della resistenza opposta a ogni richiesta queste riforme papali fossero state più strappate che spontaneamente accordate24. Nati sul ceppo della vecchia Carboneria, tali gruppi si erano via via venuti affrancando dall’ipoteca settaria. Sotto la spinta di 21   «Un papa liberale è la cosa più inaudita che si potrebbe pensare!»: questa l’esclamazione di Metternich al cospetto del nuovo pontefice (la citazione in F. Herre, Radetzky, Rizzoli, Milano, 1982, p. 178). 22   G. Mazzini, Ai giovani. Ricordi, in E.N.S., vol. XXXVIII, p. 275 (lo scritto fu edito per la prima volta in forma di opuscolo a Lugano nel novembre 1848). 23   Su questa riforma si veda G. Monsagrati, Una moderata libertà di stampa (moderata), in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 1, 1997, pp. 147-199. 24   Rusconi, La Repubblica romana cit., p. 27.

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personaggi come il piemontese Massimo d’Azeglio, il pesarese Terenzio Mamiani, il bolognese Marco Minghetti, i toscani Ridolfi, Lambruschini e Vieusseux si era affermata una linea moderata in sintonia con la «congiura alla luce del sole» auspicata a suo tempo da Massimo d’Azeglio25 con la speranza che si ponesse fine a una annosa tradizione italiana che peraltro proprio sotto Pio IX si sarebbe riproposta con la fantomatica cospirazione sanfedista del 15 luglio 184726. Il dato notevole del 1847 sta proprio nei canali di comunicazione che grazie a Pio IX si aprono fra i liberali di tutta Italia e nelle reti che in tal modo si attivano: ognuno di questi liberali guarda alla condizione del proprio Stato e alla possibilità di ottenere concessioni dal proprio sovrano, ma allo stesso tempo non può fare a meno di tenere d’occhio quanto avviene a Roma, troppo forte essendo il carisma del papa riformatore e l’esempio che da lui può venire. Al di là delle intenzioni dello stesso Pio IX, gli italiani cominciano davvero a percepirsi come nazione anche se sono ben lontani dall’esserlo. D’altra parte era partita appunto da questi ambienti permeati delle tesi di Gioberti la polemica contro i presunti oppositori di Pio IX in seno alla Curia, contro i gesuiti indicati come l’anima nera della reazione, contro gli ex gregoriani rappresentati come la quinta colonna dell’Austria27. Furono soprattutto i moderati a gestire le iniziative che, forzando le intenzioni del papa, dovevano piegare il suo riformismo a strumento di lotta politica da porre al servizio della causa dell’indipendenza. Avere dalla propria parte il papa voleva dire poter contare sull’adesione dei cattolici a un progetto di indipendenza nazionale che in passato li aveva visti indifferenti o contrari; ma voleva anche dire portare la questione italiana all’attenzione di un pubblico assai più vasto. Tuttavia era prevedibile che la durissima polemica antigesuitica condotta in prima persona da Gioberti28 finisse per determinare qualche ripensamento in Pio IX, rendendogli alla lunga impossibile un vero avvicinamento al 25   G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. II, Dalla Restaurazione alla rivoluzione nazionale (1815-1846), Feltrinelli, Milano, 19779, p. 403. 26   Id., Storia dell’Italia moderna, vol. III, La rivoluzione nazionale cit., pp. 4748. 27   Farini, Lo Stato romano cit., vol. I, pp. 274-279. 28   Soprattutto con i cinque volumi del Gesuita moderno, apparsi a Losanna e a Torino tra il 1846 e il 1848.

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fronte liberal-moderato: insieme con la crescente avversione per l’Austria era questo l’elemento che davvero impediva alla politica papale di collimare col liberalismo. Pio IX fu il primo a esser sorpreso dall’interesse con cui fuori d’Italia erano attese e seguite le sue decisioni e dal consenso che esse riscuotevano ovunque, perfino tra i protestanti, perfino tra i musulmani. Con lui Roma sembrava tornata agli antichi splendori, affollata com’era di turisti, pellegrini, inviati stranieri, tutti curiosi di vedere con i propri occhi questo personaggio così diverso dall’immagine di pontefice cristallizzatasi negli ultimi trent’anni. Manifestazioni si svolgevano ovunque, in Europa e perfino negli Stati Uniti29, a conforto e sostegno di una linea politica dalla quale ormai non solo i cattolici ma un po’ tutti si attendevano grandi novità. Dal Sud America il massone Garibaldi fece sapere al papa attraverso la nunziatura di Rio de Janeiro che metteva se stesso e i suoi legionari a sua disposizione per rispondere agli oltraggi che l’Austria col suo atteggiamento molto aggressivo non cessava di riservare alla politica papale30. A Londra il «Times», mentre elogiava le parole di apprezzamento per Pio IX pronunziate ai Comuni da Robert Peel, auspicava che l’Inghilterra, decidendosi una buona volta a mandare un proprio rappresentante stabile a Roma, si desse da fare per tutelare l’indipendenza del papato dalle tradizionali influenze austriache e francesi31. Lo stesso Mazzini si risolse l’8 settembre 1847 a scrivere una lettera aperta a Pio IX per esortarlo ad «esser credente»: credente nella religione della patria, intendeva dire, ossia in una fede diversa da quella religiosa ma a essa non antitetica, la fede nella nazione e nella necessità di avvalersi della propria forza morale per unificarla: «Vi faremo sorgere intorno una Nazione al

29  H.R. Marraro, American opinion on the unification of Italy: 1846-1861, Columbia University Press, New York, 1932. 30   Si veda la lettera di Garibaldi all’internunzio apostolico a Rio de Janeiro, Gaetano Bedini, in G. Garibaldi, Epistolario, vol. I, a cura di G. Fonterossi, S. Candido, E. Morelli, Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, Roma, 1973, pp. 245-247. La lettera, scritta da Montevideo il 12 ottobre 1847, era firmata anche da Francesco Anzani. 31   L’articolo del «Times» fu tradotto in italiano e pubblicato in un opuscoletto intitolato Estratto del giornale inglese «Il Times» del martedì 23 marzo 1847: un esemplare molto raro è conservato nella Biblioteca di Storia moderna e contemporanea di Roma con la segnatura 22.11.f.10.24.

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cui sviluppo libero, popolare, Voi, vivendo, presiederete»32. Il senso della frase stava tutta in quel «vivendo», che, significando qualcosa come «finché vivrete», equivaleva al «Viva Pio IX solo»33 che da qualche tempo echeggiava nei cortei cittadini. Mazzini non si pentirà mai di avere scritto la lettera a Pio IX. Se ne dovrà però giustificare con coloro che, come era già accaduto con la lettera da lui indirizzata nel 1831 a Carlo Alberto, la dissero provocata o da un cedimento ideologico o da un cinico machiavellismo. Se cedimento vi fu, fu di breve durata; quanto al machiavellismo, a spingere Mazzini a vivere quello che poco dopo avrebbe definito «un momento di espansione e di illusione giovanile»34 era stato semmai qualcosa di opposto, una forma di ingenuità sorprendente in uno come lui che pochi mesi prima si era detto convinto di non credere «che da principe, da re o da papa possa venire oggi, né mai, salute all’Italia»35. Una spiegazione a tale lapsus di lucidità, del resto comune a molti, la si può trovare nell’importanza che proprio in funzione della formazione di una vera identità nazionale Mazzini aveva preso ad attribuire al ruolo e alla centralità di Roma36: Pio IX aveva quanto meno il merito di riportare al proscenio una città con cui da anni Mazzini non aveva più collegamenti, dal momento che processi, condanne, carceri ed esili lo avevano privato di quei pochi elementi di valore che era riuscito a farvi crescere. Pio IX restituiva alla capitale del cattolicesimo il posto che le spettava nella considerazione del mondo. Per Mazzini ciò contava molto. Per quanto possa apparire paradossale, era stato dunque proprio Pio IX a rilanciare tra gli italiani il mito di Roma come asse di una possibile costruzione unitaria. Se ne parlava, peraltro, già

  G. Mazzini, A Pio IX, pontefice massimo, in E.N.S., vol. XXXVI, pp. 225-

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233.

33   Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. III, La rivoluzione nazionale cit., p. 39. 34   G. Mazzini a G. Lamberti, 8 settembre 1847, in E.N.S., vol. XXXII, p. 304. In un articolo di commento alla lettera a Pio IX, Giuseppe Montanelli rimprovererà a Mazzini di essersi rivolto al papa «quasi da potenza a potenza». Si veda l’introduzione in E.N.S., vol. XXXVI, p. xlviii. 35   B. King, Mazzini, trad. di M. Pezzè Pascolato, G. Barbèra, Firenze, 1926, p. 117, che cita dalla lettera diretta da Mazzini a destinatario ignoto il 27 aprile 1847. 36   Centralità sottolineata in pagine dense di pathos da Rusconi, La Repubblica romana cit., pp. 81-84, dove però il merito della novità viene attribuito al regime repubblicano.

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da decenni, nei progetti imperiali di Napoleone Bonaparte e nei sogni dei letterati stranieri (è del 1807 quel passo della Corinne in cui Madame de Staël auspica, contro «la divisione degli stati» e il tradizionale particolarismo della Penisola, l’esistenza di «un centro di luce e di potenza per resistere ai pregiudizi che la divorano»37). Si era in cerca di un baricentro per la nazione futura, ma c’era, insormontabile all’apparenza, l’ostacolo del papato temporale. E forse anche per questo in passato Mazzini non aveva mai, nei suoi scritti e anche nella cospirazione, prestato particolare attenzione a questa città di cui gli era ben nota la funzione simbolica di retroguardia esercitata come capitale del «peggiore» tra i regimi della Penisola38, con una Corte infetta e immorale e un ceto dirigente composto da soli ecclesiastici: se a partire dal 1848 poté intravedere le potenzialità di quel mito e far poggiare su di esso il suo culto di Roma come fondatrice della nazione («l’Italia – dirà tra breve – aspetta la sua vita da Roma»39) lo dovette proprio a quel grande ispiratore che si era rivelato papa Mastai40. La Terza Roma di Mazzini prenderà lo slancio dal rinnovamento del regime pontificio che Pio IX, senza portarlo a termine, aveva cercato di imporre allo Stato della Chiesa. Le liberalizzazioni promosse dal papa, in parte come trascinatore, in parte perché trascinato, aprirono spazi di agibilità politica mai prima messi a disposizione dal potere pontificio. I primi ad approfittarne, proprio perché attivi a Roma e nelle province, furono i moderati, con in testa coloro nei quali il liberalismo, pur esacerbando l’antico pregiudizio verso il metodo rivoluzionario, aveva assunto tonalità più combattive41. Cominciarono a riunirsi

  Madame de Staël, Corinna o l’Italia, Edizioni Casini, Firenze, 1967, p. 177.   G. Mazzini, Italia. Austria e il papa (1845), in E.N.S., vol. XXXI, p. 318. 39   Discorso del 10 marzo 1849 all’Assemblea Costituente romana, in E.N.S., vol. XLI, p. 22. Un altro celebre passaggio di questo stesso discorso è quello in cui Mazzini dichiara: «Parmi che qui in Roma, non sia concesso l’essere moralmente mediocri». 40   F. Bartolini, Rivali d’Italia. Roma e Milano dal Settecento a oggi, Laterza, Roma-Bari, 2006, pp. 74-78; G. Monsagrati, In principio fu Roma, in Mazzini. Vita, avventure e pensiero di un italiano europeo, a cura di G. Monsagrati e A. Villari, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, 2012, pp. 87-103. 41   Particolarmente importanti, per ricostruire le fasi, i protagonisti e i collegamenti di quest’epoca, risultano essere M. Minghetti, Miei ricordi, voll. I-II, L. Roux e C., Torino, 1888-1889, e L.C. Farini, Epistolario, a cura di L. Rava, voll. I-III, Zanichelli, Bologna, 1911-1914. 37

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nei circoli, fioriti un po’ dovunque sull’esempio di forme di associazionismo riprese dall’esperienza francese; e la stampa, incurante delle proibizioni, si trasformò da innocuo bollettino delle notizie in megafono di richieste sempre più pressanti, formulate in assemblee in cui a prendere l’iniziativa erano gli elementi più spregiudicati. Si attuò così, nelle Legazioni come nelle Marche, nei piccoli centri come a Roma, un intenso lavoro di politicizzazione che, se non raggiunse la masse, estese certamente a più ampie fasce sociali l’ambito in precedenza molto ristretto dei fruitori, allargando al contempo la gamma dei temi di cui occuparsi42. Un aiuto a che ciò si verificasse lo fornì l’Austria, sempre più nervosa e ormai quasi risoluta a spingere la situazione alle estreme conseguenze, in modo che le si offrisse il pretesto per lo sbrigativo intervento armato con il quale spesso in passato aveva affrontato le emergenze italiane. Del resto, il cancelliere Metternich non aveva tardato a correggere i suoi cauti apprezzamenti iniziali per Pio IX con una profonda disistima delle sue capacità di governo. Ai suoi occhi, dunque, il papa riformatore era scaduto al rango di un «buon prete», troppo debole per non restare intrappolato nelle strategie patriottiche, e del quale era facile prevedere che «se le cose seguono il loro corso naturale Pio IX si farà cacciare da Roma»43. Giusta profezia, cui sfuggiva però che in Italia il clima era cambiato, come erano cambiati anche le dimensioni delle emergenze e il grado di coinvolgimento dell’intero paese. Avvenne così che, su tutte le altre aspettative, nella seconda metà del 1847 finisse per avere il sopravvento quella dell’indipendenza; così, un tema che riguardava essenzialmente il Piemonte da un lato e il Lombardo-Veneto dall’altro entrò di forza nell’agenda di tutti i governi della Penisola. Ce n’era abbastanza perché le potenze interessate al mantenimento della pace cominciassero a preoccuparsi. In prima linea erano l’Inghilterra e la Francia che, ben disposte verso un ordinato svolgimento del programma delle riforme, temevano però di ve-

42   S. La Salvia, Nuove forme della politica: l’opera dei circoli, in «Rassegna storica del Risorgimento», n.s. per il 150° anniversario della Repubblica romana del 1849, LXXXVI, 1999, pp. 227-266. 43   La citazione, tratta dal tomo VII dei Mémoires di Metternich dove è datata 7 ottobre 1847, è in G. de Berthier de Sauvigny, Metternich et son temps, Hachette, Paris, 1959, p. 181 (traduzione nostra).

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dere la dirigenza pontificia costretta a passi falsi dai quali sarebbe stato difficile retrocedere; soprattutto studiavano di raffreddare la temperatura – particolarmente alta nelle Romagne – consigliando nuovi interventi tampone, suggerendo una maggiore efficienza amministrativa, auspicando l’ingresso dei laici al governo. Sarà bene aver presente questo intreccio di convenienze strategiche, appesantito per di più da altri fattori di natura prevalentemente sociale, quando si tratterà di spiegare l’isolamento internazionale della Repubblica romana, causa non ultima della sua caduta. Dall’altra parte, un centro di potere vischioso quanto retrogrado, forte di una presenza nei gangli vitali dello Stato e soprattutto nella Curia, opponeva allo spirito innovatore una sorda resistenza che nemmeno Pio IX riusciva a vincere. Non sapendosi spiegare l’origine e la natura di tanta inerzia, il popolo fantasticava di tentativi di colpo di Stato a opera dei gregoriani (come la cosiddetta «Congiura di Roma» che si disse fosse stata sventata il 15 luglio 184744), di oscure trame gesuitiche, di un brulicare di spie, agenti stranieri e provocatori in serrato collegamento con l’Austria. I provvedimenti presi da Pio IX in relazione a tali trame, sostituendo alcuni responsabili dell’ordine pubblico e facendo arrestare qualche nostalgico del papato gregoriano, non ottennero altro effetto che quello di confermare che la reazione era sempre in agguato, una sensazione più che avvalorata da ciò che intanto avveniva intorno: in Svizzera, dove i cantoni cattolici tentavano la secessione da quelli protestanti; a Milano, con la polizia austriaca pronta a reprimere qualunque manifestazione sapesse di patriottismo; nel Regno meridionale, dove la ribellione dei calabresi e dei siciliani al centralismo napoletano era domata con l’invio delle truppe e con i bombardamenti, il che procurava a Ferdinando II in tutta Europa il poco onorevole nomignolo di «Re bomba». Nello stesso Stato pontificio la prova di forza offerta dagli austriaci con l’occupazione di Ferrara (dove si sarebbero dovuti limitare a presidiare la sola cittadella), venendo due giorni dopo la fantomatica congiura gregoriana, parve il completamento di un disegno controrivoluzionario concepito da tempo45. E furono in molti a 44   Farini, Lo Stato romano cit., vol. I, pp. 202-207; Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. III, La rivoluzione nazionale cit., pp. 47-49. 45   Farini, Lo Stato romano cit., vol. I, pp. 205-208.

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pensare che anche Pio IX stesse orientandosi sempre di più verso una soluzione del genere. L’abbandono della causa nazionale Quando a Parigi nel febbraio del 1848 scoppiò la rivoluzione che in soli tre giorni avrebbe spazzato via la monarchia orleanista e insediato al suo posto la seconda repubblica, in Italia era iniziata già da qualche settimana la stagione delle rivolte e delle costituzioni monarchiche. La prima l’aveva inaugurata Palermo con l’insurrezione antiborbonica del 12 gennaio; della seconda – la stagione costituzionale – si era reso interprete proprio Ferdinando II delle Due Sicilie, concedendo la Carta con la stessa superficialità con cui sapeva che all’occorrenza se ne sarebbe potuto sbarazzare. Il fatto è che per i sovrani assoluti, che regnavano col favore della Chiesa e col sostegno dell’aristocrazia, era molto difficile rinunziare di colpo al loro potere in favore di Parlamenti in cui la Camera dei deputati sarebbe stata a prevalente rappresentanza borghese e laica; né il senato vitalizio costituiva una garanzia sicura contro possibili lesioni del principio monarchico. Ad esempio Carlo Alberto di Sardegna si decise ad accordare lo Statuto solo dopo lunghi tormenti interiori e dopo essersi assicurato una presenza forte in ciascuno dei tre poteri dello Stato46. Quanto poi al rapporto privilegiato con la Roma papale, solido baluardo del potere dei sovrani, ne è una prova tangibile il fatto che tutte le Costituzioni del 1848 proclamassero nel cattolicesimo la religione dello Stato. Arrivando buon ultimo, Pio IX promulgò il 14 marzo 1848 uno Statuto il cui testo era stato preparato da soli ecclesiastici e che, mentre stabiliva dei punti fermi in fatto di diritti e libertà, escludendo tuttavia i non cattolici dal godimento degli stessi, istituiva in pratica non due ma tre Camere: faceva infatti del Sacro collegio cardinalizio un Senato «inseparabile» dal pontefice47, e gli affiancava un Alto Consiglio, i cui membri erano nominati a 46   P. Colombo, Con lealtà di re e con affetto di padre: Torino, 4 marzo 1848: la concessione dello Statuto albertino, Il Mulino, Bologna, 2003. 47   Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. III, La rivoluzione nazionale cit., p. 144.

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vita dal papa, e un Consiglio dei deputati eletto su base censitaria. In più, alle due Camere «alte» era riservata la trattazione degli affari cosiddetti «misti» (quelli, cioè, in cui l’aspetto teologico si confondeva con il secolare). Come se ciò non bastasse ad assicurare sufficientemente la paralisi del nuovo sistema, erano fissati vari impedimenti contro un’attività legislativa che eventualmente fosse «contraria ai canoni o discipline della Chiesa». Come garanzia finale, sulle leggi era previsto il diritto di veto del pontefice o di uno qualunque dei due Consigli maggiori. Ne risultava «un ordinamento statutario quanto mai ibrido»48 che, non diversamente dalle altre Costituzioni quarantottesche, mirava più a parare i colpi di una possibile rivoluzione che a redistribuire il potere su basi più ampie che in passato. «La Costituzione anche a Roma, e consentita dai Cardinali! Come si negherà la Provvidenza?», commentò soddisfatto Giuseppe Montanelli, cattolico toscano, parlando dell’ultima concessione papale49: pochi mesi ancora, e si accorgerà che il cielo non sempre ama mischiarsi con le cose della politica, e se lo fa non sempre va a segno. Tuttavia i romani accolsero lo Statuto del 14 marzo con un entusiasmo ben più sentito di quello con cui nell’ottobre del 1847 era stato accolto il motu proprio papale che richiamava in vita il Comune come principale cinghia di trasmissione tra la cittadinanza e il sovrano 50. Il fatto, poi, che dalla folla osannante si levassero grida di Morte ai tedeschi! Morte agli austriaci!51 sanciva ancora una volta la doppia natura del piononismo, riformatore in origine ma inevitabilmente trascinato a diventare il mito patriottico per eccellenza. Se per alcuni il riformismo era un fine in sé, erano ormai maggioranza coloro che ne collegavano la difesa e gli ulteriori sviluppi alla liberazione della Penisola dalla presenza straniera, ed era sempre più attiva la borghesia che fino ad allora aveva fornito

48   F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 86. 49   Lettera a Gino Capponi, 19 febbraio 1848, in Lettere di Gino Capponi e di altri a lui, a cura di A. Carraresi, Le Monnier, Firenze, 1899, vol. II, p. 77. 50   Diario Chigi, p. 225; M. Bocci, Il Municipio di Roma tra riforma e rivoluzione (1847-1851), Istituto di Studi romani, Roma, 1995, pp. 15-22. 51  A. de Liedekerke de Beaufort, Rapporti delle cose di Roma (1848-1849), a cura di A.M. Ghisalberti, Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, Roma, 1949, p. 22.

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la base sociale alla spinta verso il rinnovamento52. Maturò così il progetto di una lega militare tra gli Stati italiani, ma era basato su un equivoco di fondo: la guerra, puntando alla liberazione del Lombardo-Veneto e all’annessione di tali regioni al Piemonte, non solo sarebbe tornata a vantaggio di uno solo tra gli Stati partecipanti ma, se vittoriosa, avrebbe alterato a favore del solo Piemonte il sapiente equilibrio interno creato a Vienna nel 1815; per di più, togliendo di mezzo l’Austria, avrebbe privato i più piccoli e i più deboli tra gli Stati italiani dell’unico, valido mezzo di difesa militare posto a salvaguardia della loro sopravvivenza. Nonostante questa grave remora di fondo, la guerra federale, intrapresa dal Piemonte nel marzo 1848 tra mille incertezze e ripensamenti, appagò indubbiamente l’attesa ormai diffusa tra i patrioti di un possibile scontro finale con l’Austria (tanto più dopo che anche a Vienna si erano alzate le barricate e Metternich era stato licenziato), ma suonò come nuovo e più grave campanello d’allarme per tutti coloro – governi e sovrani – che vi erano stati sospinti del tutto contro voglia. Tornare indietro non era possibile, andare avanti non era auspicabile: di qui il procedere esitante e contraddittorio dei corpi militari – in parte di formazione volontaria ma sempre a sostegno di truppe regolari – approntati in tutta fretta a Napoli come a Roma come a Firenze53. Segno inequivocabile dell’imbarazzo generale era, a Roma, il rapido succedersi di governi incapaci di fronteggiare una situazione sempre più confusa. Pio IX, che il 10 febbraio aveva invocato la benedizione divina sull’Italia aprendo il varco a interpretazioni che trascuravano il senso religioso delle sue parole per enfatizzarne invece i contenuti nazionalistici, cominciò a capire, ora che era costretto a uscire dall’equivoco, quanto cara gli costasse la popolarità dei mesi precedenti. L’allocuzione papale del 29 aprile 1848 segnò la definitiva rottura di Pio IX con il movimento nazionale al quale solo un 52   D. Demarco, Una rivoluzione sociale. La Repubblica romana del 1849, M. Fiorentino, Napoli, 1944, pp. 15-24. 53   Per una storia complessiva di queste campagne militari si vedano, tra i lavori dei contemporanei, C. Pisacane, Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-1849, Pavesi, Genova, 1851, e, nella storiografia più recente, P. Pieri, Storia militare del Risorgimento, Einaudi, Torino, 1962. Dell’opera di Pisacane utilizzeremo più oltre l’edizione curata da S. Sechi, Fulvio Rossi, Napoli, 1969.

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mese prima aveva garantito l’appoggio dell’esercito pontificio. Ritirando le proprie truppe dalla guerra federale il papato perdeva l’immagine di superiore guida morale che per quasi due anni ne aveva accresciuto il prestigio agli occhi delle folle. Per attenuare l’impressione negativa suscitata dalla sua svolta, e per conservare almeno in parte un suo ruolo in un tornante storico di cui percepiva tutta l’importanza, Pio IX inviò subito una missione a Vienna per chiedere all’imperatore di ritirare volontariamente le sue truppe dall’Italia54. Come era prevedibile, il suo fu un tentativo assolutamente improduttivo. A questo punto non il rapporto col resto d’Italia ma la stessa attività di governo, la stessa tenuta dello Stato entravano in crisi: «Nessuna possibilità di intesa era più possibile nel triangolo sovrano-ministeri-piazza, e cominciò a bloccarsi ogni forma di attività legislativa e governativa, mentre cresceva paurosamente la crisi economica e finanziaria, mancavano cibo, lavoro, denaro»55. Ciò che avvenne dopo, fino all’assassinio di Pellegrino Rossi e alla successiva fuga di Pio IX a Gaeta, non servì ad altro che a dimostrare che quasi più nulla restava di quel papa riformatore e liberale. Tra quanti allora e dopo s’interrogarono sul suo dramma cercando di trovare una spiegazione a una ascesa così folgorante e a una caduta ancor più rapida, la risposta più convincente la fornì Carlo Cattaneo con una delle sue frasi più lapidarie: «Pio IX fu fatto da altri; e si disfece da sé. Pio IX era una favola imaginata per insegnare al popolo una verità. Pio IX era una poesia»56. Al contatto con la dura realtà del ’48 la favola e la poesia si erano come dissolte, ed era rimasto un vuoto che attendeva solo di essere colmato. 54   F. Gentili, La relazione dell’ambasceria di mons. Morichini a Vienna nel 1848 e sua genesi, in «Rassegna contemporanea», 10 agosto, 1914, pp. 440-460. 55   Bartoccini, Roma nell’Ottocento cit., p. 34. 56   Cattaneo, Archivio triennale cit., vol. I, p. 1463.

II Roma senza il papa La fine del tentativo liberale I mesi successivi all’allocuzione del 29 aprile furono caratterizzati da una stasi quasi completa. Già il cardinale Gizzi, dimettendosi nel luglio 1847 da segretario di Stato, aveva previsto che, con un papa come Pio IX, chiunque avesse guidato la Segreteria di Stato avrebbe avuto grossi problemi a governare1. In regime costituzionale le cose si complicarono ulteriormente perché proprio la maggiore autonomia di cui in teoria avrebbe dovuto godere l’esecutivo rese più evidente lo stallo nel quale vennero a trovarsi i vari governi succedutisi a Roma nella primavera-estate del 1848. E certo l’andamento negativo della guerra al Nord, cui il corpo di spedizione partito da Roma a fine marzo partecipò malgrado il divieto del papa, non contribuì a rendere più fluida la situazione. Né valse a molto la chiamata al governo di alcuni esponenti del laicato perché il problema della partecipazione o meno delle armi papali allo sforzo bellico comune costituiva un inevitabile fattore di dissidio dalla componente ecclesiastica. Dietro questa situazione di grande confusione si intravedeva non l’alleanza tra i sovrani italiani (non diversa era la posizione delle truppe napoletane) ma lo scollamento provocato dall’allineamento al principio di nazionalità imposto dalle forze liberali. A Roma, in particolare, i laici avevano fatto della nazionalità una bandiera, mentre gli ecclesiastici, soprattutto se di rango, se ne ritraevano inorriditi come davanti alle porte degli inferi. E sic1

  Farini, Lo Stato romano cit., vol. I, pp. 199-200; Martina, Pio IX cit., p. 143.

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come ogni schieramento aveva la forza per condizionare l’altro, si andava avanti, o meglio si restava bloccati, tra un’ambiguità e l’altra, tra un equivoco e l’altro; e anche quando sembrava che si stesse per arrivare a un accordo, c’era sempre tempo per un arretramento: come avvenne col governo Mamiani al potere dal 4 maggio 1848, fermato da Pio IX per essersi espresso – come del resto anche l’Alto Consiglio – a favore di una prosecuzione della partecipazione pontificia alla guerra nazionale2. In sostanza, come rilevava Michelangelo Caetani, uno dei pochi aristocratici romani di orientamento liberale, il nuovo regime non era messo in condizione di sprigionare tutte le sue potenzialità a causa di un deficit generalizzato di cultura costituzionale: La guerra di Lombardia – scriveva Caetani ai suoi amici inglesi – diviene una scusa di agitazioni e di spese infinite, e i perturbatori a nome della nazionalità si permettono i maggiori eccessi colle parole, colle opere, e, più che tutto, colla sfrenata licenza della stampa ripiena d’ingiurie personali e bugie. Il vero spirito costituzionale non è inteso da alcuno: immaginando i più che costituzione significhi abolizione di autorità legale3.

La conseguenza era che a Roma i governi avevano tutti vita breve, impossibilitati com’erano a muoversi con qualche margine di autonomia. Di crisi in crisi, e mentre gli austriaci si affacciavano sempre più spesso e con aria più torva che mai alla frontiera nord dello Stato fino a giungere in prossimità di Bologna, si arrivò finalmente il 16 settembre a formare un nuovo Governo: come sempre da quando era iniziato il regime costituzionale, lo presiedeva un cardinale (in questo caso il cardinale Giovanni Soglia Ceroni, segretario di Stato) ma l’uomo forte era un laico, Pellegrino Rossi, giurista dal passato molto lungo – suo il testo del Proclama di Rimini del 1815 – e dalle molteplici cittadinanze. Nato a Carrara nel 1787, dopo la sconfitta di Gioacchino Murat si era rifugiato in Svizzera per approdare in2   A. Brancati, G. Benelli, Terenzio Mamiani della Rovere cattolico liberale e il risorgimento federalista, Il lavoro editoriale, Pesaro, 2004, p. 204. In realtà Mamiani era ministro dell’Interno; alla presidenza si erano succeduti due cardinali, Orioli e Soglia Ceroni. 3  Lettera del 26 luglio 1848 a Enrico e Edward Cheney, in M. Caetani di Sermoneta, Epistolario cit., p. 38.

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fine in Francia e di qui, ottenuta la cittadinanza francese, arrivare a Roma come ambasciatore di Luigi Filippo presso lo Stato della Chiesa. Chiamandolo al potere, Pio IX faceva il gioco di sempre: bilanciare l’influenza austriaca, affidata come al solito alle armi, con quella francese, più incline alle finezze della politica ma non meno attenta al tornaconto strategico. Ministro degli Interni, di Polizia e delle Finanze (quest’ultima carica era ad interim), Rossi aveva in mano tutte le leve per rialzare le sorti dello Stato nei suoi punti più critici: le finanze disastrate e la legalità continuamente minacciata dalle turbolenze delle fazioni estreme. Per l’uno e l’altro obiettivo sarebbe stato tuttavia irrinunciabile il disimpegno totale dalla guerra, un passo che avrebbe certamente indispettito il Piemonte, ma che un uomo della tempra di Rossi, «non amato per l’alterezza del suo carattere e da tutti i partiti temuto per la potentissima sua dottrina»4, non avrebbe avuto problemi a compiere parallelamente allo sforzo di risanamento della situazione economica. Questa era la situazione alla vigilia della riapertura della sessione legislativa, fissata per il 15 novembre e regolarmente svolta, pur dopo l’attentato a Rossi, in un clima allucinante senza che il presidente della seduta facesse minimamente menzione del gravissimo fatto di sangue avvenuto pochi minuti prima. Nell’insieme, al di là del sentimento di orrore espresso da coloro che erano politicamente più vicini alla vittima, colpisce la freddezza con cui fu accolta la notizia, quasi che da più parti ci si compiacesse del fatto che era stato tolto di mezzo l’unico uomo capace di impedire che la crisi del potere temporale arrivasse alle estreme conseguenze. La sera dell’attentato si ebbero perfino – organizzati in un’area confusamente liberal-democratica – cortei di manifestanti che scorrazzarono per il Corso inneggiando al tirannicidio e cantando: «Benedetta quella mano che il tiranno pugnalò»5. Morto Rossi, l’esperimento di governo liberale e a partecipazione laica nello Stato della Chiesa si poteva dire concluso. Restava una sola strada, quella dello scontro tra le due tendenze prevalenti: la reazione e il ribellismo cittadino.   Vecchi, La Italia cit., vol. I, p. 313.   I contemporanei ne furono molto colpiti: per una testimonianza si veda Liedekerke de Beaufort, Rapporti delle cose di Roma cit., p. 117. Si veda anche Farini, Lo Stato romano cit., vol. III, pp. 373-374. 4 5

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Più tardi la propaganda francese avrebbe messo in circolazione una verità di comodo, e cioè che a volere tale esito, organizzando perfino l’attentato, erano stati i mazziniani. Che questa ipotesi sia priva di qualunque fondamento lo dimostra il fatto che Mazzini in quel momento era tutto preso dallo sforzo di rivitalizzare la lotta armata nel Nord Italia. Roma gli cascò addosso a sorpresa e senza che vi avesse inviato nessuno dei suoi maggiori collaboratori, nessuno che potesse prendere la direzione di un moto che per riuscire avrebbe avuto comunque bisogno della partecipazione dei cospiratori romani6. Spiccava tra costoro la figura di un capopopolo, Angelo Brunetti, un commerciante di vini meglio noto col nomignolo di Ciceruacchio. Era stato lui che nel biennio precedente, promuovendo e fomentando il mito del papa liberale, aveva interpretato non tanto una ideologia quanto una aspirazione: l’aspirazione della borghesia romana a contare di più, ossia a cercare di limitare la natura teocratica dello Stato. In questo lo avevano seguito sia la plebe cittadina, entusiasta dei suoi banchetti politici dove il vino scorreva a fiumi, sia altri elementi della borghesia, maturati politicamente con l’espansione del giornalismo, intrisi di spirito municipalista e attestati in prevalenza sul versante del federalismo giobertiano. Al di là di questo Brunetti e il gruppo che a lui faceva capo non sarebbero stati in grado di spingersi: non ne avevano né i mezzi per così dire intellettuali né la volontà. La diplomazia in azione La fuga di Pio IX diede il colpo di grazia alla strategia di quanti fino ad allora avevano fatto politica a Roma confidando nel benestare del papa. Chiaramente, si andava verso una radicalizzazione dello scontro, e gli ultimi a potersi augurare una svolta del genere 6   Si veda la breve ricostruzione che A. Saffi offrirà nel 1857 a un pubblico di operai inglesi: «Il conte di Montalembert e i suoi colleghi calunniatori vanno ripetendo la vecchia storia che la Repubblica Romana sorse dal sangue del Ministro di Pio IX. Il vero è che nessuna idea di realizzare una Repubblica si era per anco affacciata all’immaginazione di alcun uomo negli Stati Romani» (A. Saffi, Ricordi e scritti, pubblicati per cura del Municipio di Forlì, vol. IV, 1849-1857, Barbèra, Firenze, 1899, pp. 426-427. Charles Forbes René de Montalembert era uno dei massimi esponenti del cattolicesimo liberale in Francia).

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erano proprio i riformatori moderati che ora si vedevano messi completamente fuori gioco. «Non è stato il popolo ma il papa a fare la rivoluzione»7, avrebbe poi scritto uno dei liberali più avanzati, né si vede come gli si possa dar torto. D’altra parte è pur vero che la Chiesa a sua volta, contrariamente alle intenzioni del papato riformatore, finiva per pagare lo scotto del coinvolgimento nella causa della nazionalità, che essa non aveva voluto servire fino in fondo e che già aveva creato seri problemi ad alcune delle sue strutture portanti (i gesuiti, ad esempio, cui lo stesso Pio IX, al culmine della polemica di cui li aveva fatti oggetto Gioberti, aveva chiesto di lasciare lo Stato pontificio). Ma fu soprattutto il potere temporale a veder messa sempre più in discussione la pretesa di continuare a reggere, nell’Europa di metà Ottocento, un’organizzazione complessa quale quella di uno Stato tenendo lontano dal potere il laicato. Almeno era questa l’opinione dei democratici italiani cui il possesso di una forte sensibilità religiosa non impediva di sviluppare riflessioni come la seguente: Grandissima parte de’ mali romani e italiani, venne dall’imbarazzo che ai Papi davano le cure del principato. Quando il Papa potrà tornare ai suoi santi uffici di sacerdote e più non sarà distratto da mondani pensieri, la religione rifulgerà del suo primo splendore, i popoli credenti saluteranno il Vaticano come sede vera del Vangelo di Cristo e il Campidoglio come oracolo di nuova sapienza civile, come porto di salute a tutte le genti italiane8.

A parlare così era Goffredo Mameli, da poeta convertitosi quasi completamente in giornalista. Le sue parole non furono prese nemmeno in considerazione, né potevano esserlo. Può apparire paradossale ma, come si diceva pocanzi, fu proprio l’intransigenza opposta a ogni ipotesi di trattativa da Pio IX e dalla sua ristretta corte insediata a Gaeta (e sostenuta a oltranza dalla diplomazia raccoltasi attorno al papa) a indirizzare la situazione dello Stato verso il processo di maturazione democratica che avrebbe aperto 7   C.L. Bonaparte, Discours, allocutions et opinions dans le Conseil des Députés et l’Assemblée constituante de Rome, Leide, 1857, p. 503 (traduzione nostra). 8   G. Mameli, Noi italiani vogliam essere nazione, in Id., Fratelli d’Italia. Pagine politiche, a cura di D. Bidussa, Feltrinelli, Milano, 2010, p. 64. L’articolo apparve nel giornale romano «La Pallade» dell’11 gennaio 1849.

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la via all’avvento del regime repubblicano9. Certo, se i sostenitori della causa papale speravano che dimostrando la massima fermezza si potessero indurre i romani e gli altri sudditi pontifici a sollevarsi per pretendere il ritorno del sovrano, la delusione fu grande perché nella Capitale tutti rimasero tranquilli. Dunque, non restava altro che spingere la crisi alle estreme conseguenze e confidare nelle armi straniere, unico mezzo disponibile non solo per restituire al papa il suo trono ma anche per garantire che alla prima occasione non gli fosse sottratto di nuovo. Rifiutare udienza alle deputazioni romane, respingere tutte le richieste di aiuto o mediazione e intanto attivare i canali per l’intervento straniero – che è quanto cominciò a fare il cardinale Antonelli, nominato prosegretario di Stato il 6 dicembre 1848 – significava rompere ogni rapporto con la città ribelle e tagliare alla radice ogni possibilità di mediazione. Al contempo, mentre si accantonavano le ipotesi di trasferire all’estero il papato avanzate da Francia, Spagna e perfino da un quotidiano di New York (se nel passato della Chiesa c’era stata una cattività avignonese – questo l’argomento – perché escludere una cattività newyorkese?10), già dal 4 dicembre si inviavano appelli ai sovrani cattolici per chiedere il loro appoggio, trovando un orecchio attento nella Spagna, nell’Austria, nella Francia, oltre che, naturalmente, in quel Borbone di cui Pio IX era ospite dal 25 novembre (e che, sussurrava malignamente qualcuno, «mentre a Gaeta fa la parte del devoto, a Napoli si fa beffe del papa»11). Un appello in latino fu indirizzato da Pio IX anche alla regina Vittoria: difficile dire cosa si aspettasse di ottenere; quel che sembra certo è che la regina rispondesse di no con una lettera al papa che – grazie a un tratto di regale bon ton – si apriva con le parole «Most excellent Sir»12, ovvero come se fosse indirizzata a un qualunque borghese. In verità, mai come

  Farini, Lo Stato romano cit., vol. III, pp. 37-38.   Marraro, American Opinion cit., p. 58. 11   Così il ministro degli Esteri sardo al conte Enrico Martini a Gaeta, 11 febbraio 1849, in La diplomazia del Regno di Sardegna durante la prima guerra d’indipendenza, vol. II, Relazioni con lo Stato pontificio (marzo 1848-luglio 1849), a cura di C. Baudi di Vesme, Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, Torino, 1951, p. 44 (traduzione nostra). 12   G. Massari, Diario dalle cento voci (1858-1860), a cura di E. Morelli, Cappelli, Bologna, 1959, p. 55. 9

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ora Mastai agiva da papa, invocando su di sé il favore della Provvidenza e lasciando ad Antonelli il compito di provvedere alla restaurazione con i mezzi della politica13: che era poi un segnale di come Pio IX fosse stato in qualche misura esautorato e costretto a pagare gli errori commessi in passato. Relativamente a questa lunga trattativa, conclusasi con la messa a disposizione da parte delle monarchie cattoliche di quattro diversi corpi di spedizione, bisogna dire che, quantunque poco tagliati per il governo della cosa pubblica, i pochi collaboratori di fiducia di Pio IX, cioè a dire il cardinale Antonelli e i nunzi accreditati presso le corti straniere, furono di un’abilità eccezionale nell’aggirare tutti gli ostacoli, mettere d’accordo potenze che d’accordo quasi mai erano andate e ottenere così l’impiego di quattro eserciti in funzione normalizzatrice. E ciò a prescindere dall’incapacità di suscitare quei conati controrivoluzionari di stampo sanfedistico che, dimostrando «essere il governo papale nel desiderio dei più»14, avrebbero risolto il problema alla radice e senza l’intervento straniero. In primo luogo fu necessario superare la tradizionale, reciproca diffidenza e rivalità tra Francia e Austria: Antonelli e il nunzio a Parigi Fornari ci riuscirono giocando appunto sulla rivalità che divideva da sempre le due potenze, e cioè usando lo spauracchio del pressoché sicuro intervento unilaterale dell’Austria per convincere la Francia a darsi da fare se non voleva perdere prestigio e influenza15. Parallelamente a questo obiettivo e anzi prima ancora se ne dovette perseguire un altro: fare in modo che Parigi non insistesse a volere un trasferimento di Pio IX in Francia, cosa che avrebbe dato molto fastidio a Vienna; e anche su questo punto gli uomini di Pio IX si servirono dei ritardi delle potenze per prendere tempo, sostenendo che finché nessuno si decideva a buttar giù la Repubblica, era bene che il papa restasse a Gaeta per poter seguire da vicino l’evolver13   Tale l’interpretazione di Martina, Pio IX cit., pp. 318, 323; un interessante confronto dei caratteri dei due personaggi ivi, p. 309. 14   F. Torre, Memorie storiche sull’intervento francese in Roma, Savojardo e Bocco, Torino, 1857, p. 148. 15   Si veda il dispaccio di R. Fornari, nunzio a Parigi, in data 8 gennaio 1849, in Le relazioni diplomatiche fra lo Stato pontificio e la Francia. III serie (1848-1860), vol. I, 4 gennaio 1848-18 febbraio 1849, a cura di M. Fatica, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, Roma, 1971, pp. 474-476.

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si della situazione ed eventualmente organizzare in proprio una controffensiva. Ma il vero capolavoro lo si realizzò – ora e più ancora dopo la caduta della Repubblica – per far sì che nessuna delle potenze alleate ponesse particolari condizioni o pretendesse di ingerirsi nel rapporto tra il papa e i suoi sudditi: in poche parole, che nessuno pretendesse la conservazione degli ordinamenti costituzionali da parte di un sovrano ormai persuaso che appunto da quella concessione avesse avuto inizio la sua rovina. Furono soprattutto spagnoli e austriaci a imporre la linea della totale non ingerenza nelle vicende interne dello Stato pontificio sostenendo la tesi che non fosse lecito a nessuno limitare la libertà della massima autorità del mondo cattolico. In verità Pio IX avrebbe preferito che fossero loro a farsi carico dell’intervento militare per non dover subire imposizioni da parte della Francia, che per tener fede al proprio profilo di nazione-guida dei popoli in lotta era prevedibile si impuntasse a volere imporre il ritorno al regime costituzionale; invece, ragioni di prestigio e peso politico dei cattolici transalpini, oltre che la tradizionale rivalità con l’Austria, fecero sì che il regime repubblicano da poco insediatosi oltralpe facesse della propria partecipazione al piano di restaurazione papale la conditio sine qua non per una rapida soluzione della crisi. D’altra parte anche Vienna aveva in quel momento interesse a evitare il contraccolpo che una propria iniziativa non concordata avrebbe avuto sullo spirito pubblico francese, con una prevedibile alterazione degli equilibri interni a favore della Sinistra. Molto meglio coinvolgere la Francia in un’impresa che avrebbe fatalmente appannato, e parecchio, la sua immagine di tutore e garante delle nazionalità oppresse. Se ne sarebbe giovato il quadro europeo ancora esposto a qualche turbolenza16. Restò da stabilire se si potesse mettere in atto un’operazione congiunta. Si preferì alla fine che ogni potenza si muovesse da sola, previa attribuzione a ciascuna di esse di una propria zona di guerra, che per la Francia fu naturalmente rappresentata da Roma e dalla regione circostante. La linea della moderazione, che 16   Per una disamina di tutte queste opzioni (e delle incertezze che esse provocarono nella politica francese) si rinvia a N. Jolicoeur, Étre alliées sans le montrer: l’Autriche, la France et la restauration du pouvoir temporel du pape, in «Rassegna storica del Risorgimento», XCVIII, 2011, pp. 515-532.

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fino a qualche mese prima aveva avuto proprio in Pio IX il più convinto dei sostenitori, aveva ormai in Curia pochissimi seguaci, e si faceva sempre più flebile la voce di quei consiglieri papali che un tempo l’avevano patrocinata. I conti non si facevano più con i sudditi dello Stato della Chiesa: come farà notare nell’Assemblea romana il deputato ferrarese Lizabe-Ruffoni, a Parigi un periodico tra i più seguiti dal pubblico moderato d’oltralpe aveva sostenuto che «la causa pontificale non appartiene solamente agli Stati romani; appartiene a tutto quanto il mondo cattolico». Facile trarne la conseguenza che «se nella diplomazia europea fosse ammesso questo fatale, questo iniquo principio, voi, cittadini degli Stati Romani, cadreste nel più terribile e nel più deplorabile vassallaggio»17. Involontaria Cassandra, Lizabe-Ruffoni disegnava già prima dell’inizio dell’offensiva delle potenze quello che sarebbe stato l’esito della restaurazione papale. Coerentemente con tale impostazione, destinata a sfociare di lì a qualche mese, e precisamente il 18 febbraio 1849, in una richiesta ufficiale di intervento militare contro la neonata Repubblica18, da Gaeta prima ci si rifiutò di ricevere la delegazione che il Consiglio dei deputati vi aveva inviato da Roma per chiedere al papa di tornare nella città di cui era vescovo; quindi partì la dichiarazione di nullità della Giunta suprema di Stato istituita l’11 dicembre dal Consiglio dei deputati per assicurare al paese l’esercizio del potere esecutivo – in nome del sovrano – dopo che i ministri del governo in carica avevano comunicato al papa le loro dimissioni (tale giunta era composta da tre membri, ossia dalle massime autorità municipali di Roma, Bologna e Ancona). Non si riconosceva, dunque, nessuna autorità a organismi che non fossero emanazione diretta del pontefice, ma nello stesso tempo si doveva constatare che la Commissione istituita dal papa con motu proprio del 27 novembre non era assolutamente in grado di riportare lo Stato sotto la sovranità del papa19, dal momento che il primo a ritenerla insufficiente era proprio il cardinale Castracane   Discorso del 17 aprile 1849, in Atti Roma, vol. IV, pp. 204-205.   La nota alle potenze estere in Farini, Lo Stato romano cit., vol. III, pp. 252253, e in Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, pp. 237-238. 19  Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. III, La rivoluzione nazionale cit., pp. 335-339. 17 18

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chiamato a presiederla (ragion per cui gli toccarono i rimbrotti della Segreteria di Stato20). Si era dunque in una fase in cui il no papale a ogni trattativa – ed era un no certamente caldeggiato dal cardinale Antonelli – mentre a Roma lasciava comunque in piedi un Governo per quanto parzialmente esautorato, non poteva avere altro esito che una rottura completa. Comunque, mentre a Roma perdevano quota i moderati, si faceva più forte la pressione di chi puntava a una radicalizzazione dello scontro. Il 13 dicembre i Circoli politici romagnoli riuniti a Forlì chiesero la convocazione della Costituente per opera di un Governo provvisorio espresso dal Consiglio dei deputati. Fu appunto da questa importante assemblea che, su iniziativa di Aurelio Saffi, uscì la richiesta di un’assemblea generale dello Stato eletta a suffragio universale: «salvi i diritti della nazione unita in assemblea costituente italiana», come ebbe cura di puntualizzare il documento approvato al termine della riunione21. Ne furono esaltati quanti tra i ribelli si erano dati da fare per arrivare a controllare pienamente la situazione, ma non è detto che a Gaeta non ci si compiacesse della piega che si avviavano a prendere gli eventi. Certo è che ormai la strada verso la Costituente era l’unica che si potesse praticare, anche perché si erano pronunziati in suo favore i circoli di altre province (Ancona, Spoleto, Foligno, Perugia22). Si trattava, dirà il progetto di legge che il 26 dicembre per iniziativa del Governo ne proponeva la convocazione, di «dare un regolare, compiuto e stabile ordinamento alla cosa pubblica»23, e per farlo c’era un unico modo: restituire il potere al popolo. Fu solo dopo il lungo braccio di ferro tra papato e rappresentanza parlamentare che nella Capitale cominciarono ad affluire da ogni parte d’Italia elementi di provata esperienza rivoluzionaria: li conduceva a Roma la sconfitta della guerra federale e dell’insurrezione lombarda, li animava l’aspirazione a non considerare la fase rivoluzionaria esaurita dall’iniziativa regia e dallo slogan (L’Italia farà da sé) che l’aveva caratterizzata. Preoccupatissimo, Terenzio Martina, Pio IX cit., pp. 320-321.   Leti, La rivoluzione cit., p. 91. 22   Sottolinea il ruolo delle città nella promozione dell’associazionismo La Salvia, Nuove forme della politica cit., pp. 234-237. 23   Atti Roma, vol. III, p. 280. 20  21

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Mamiani, ministro dell’Interno di orientamento giobertiano, il 21 dicembre propose un provvedimento che permetteva al Governo, in un lasso di tempo di due mesi, di espellere dalla città i non romani, ma non se ne fece nulla24. Ascrivibili in genere all’area democratica, i nuovi arrivati non erano tutti mazziniani né credevano tutti nell’unità; talvolta – e più ancora nei mesi successivi – erano dichiaratamente monarchici. E però accorrevano in massa non per sovrapporsi alla popolazione romana o per toglierle il merito della sua rivoluzione ma per fare di Roma, assieme a Venezia assediata dagli austriaci, alla Toscana pure insorta, alla Sicilia separatasi da Napoli, un punto di convergenza per quanti non volessero rassegnarsi alla sconfitta. I problemi nascevano quando si trattava di decidere quale messaggio far partire da Roma. Il dilemma era: guardare solo allo Stato romano o pensare in grande? Non era una differenza di poco conto, perché alla visione unitaria di Mazzini si contrapponeva l’eterna sirena del municipalismo: non era un caso che proprio su indicazione di Mamiani il Consiglio di Stato aveva preparato sul finire del 1848 un progetto di legge che regolava l’ordinamento municipale esaltandone la funzione rispetto al potere centrale (e tale progetto sarà alla base del decreto che il 31 gennaio 1849 introdurrà «l’eleggibilità delle rappresentanze municipali»25). Per i moderati il municipio era il luogo privilegiato del riformismo amministrativo. Ma non era solo su questo che puntavano i patrioti. Infiammati dagli eroismi dei mesi precedenti, esaltati dai canti dei poeti, imbaldanziti dal valore delle formazioni volontarie, Mazzini e i suoi credevano in una autonoma capacità dei popoli di liberarsi dai tiranni interni ed esterni e speravano di potere essere l’avanguardia e insieme il catalizzatore di un riscatto collettivo che le difficoltà attraversate nell’ultimo anno dall’impero austriaco facevano ritenere imminente. Nutriti di cultura francese e talvolta reduci da un lungo esilio in terra di Francia, confidavano anche in un possibile soccorso da parte della Repubblica instaurata qualche mese prima a Parigi. Ma la vera spinta all’azione veniva loro dal fatto di essere a Roma e di calcare il piede su quelle che ormai consideravano le rovine del

  Farini, Lo Stato romano cit., vol. III, p. 78.   Bocci, Il Municipio di Roma, cit., p. 88.

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potere temporale, un potere che dopo l’abdicazione volontaria del papa, per il carattere non ereditario della monarchia papale, non poteva entrare in un normale meccanismo di successione. Lo ammetterà perfino il moderato Mamiani nella prima seduta della Costituente: venuto meno il papa, al suo posto non poteva esserci che Cola di Rienzo26. Cola di Rienzo era il potere al popolo, e Roma era il centro senza il quale nessuna unità poteva esistere: centro politico, centro di affermazione della sovranità popolare, ma anche centro di una nuova libertà religiosa, con gli stessi caratteri di universalità del papato ma senza il suo dogmatismo. La nuova Italia doveva cominciare da lì. A Roma per la Repubblica Garibaldi fu tra i primi ad arrivare, il 12 dicembre27, accompagnato da un altro capo militare, il bolognese Angelo Masina. Veniva da Livorno dove aveva atteso invano con la sua colonna di legionari di essere arruolato dal Governo toscano. «Noi serviremo l’Italia in Roma», scrisse a un amico il 14 dicembre28. Fu esaudito, perché l’esecutivo reclutò lui e i suoi 400 uomini impegnandosi a provvederli di scarpe e vestiario. Al seguito di Garibaldi giunse Goffredo Mameli, genovese, fervente mazziniano; e poi i milanesi Enrico Cernuschi e Pietro Maestri, federalisti; e il feltrino De Boni, giornalista di valore allora assai vicino a Mazzini, a Roma già dal 2 dicembre; e il friulano Dall’Ongaro, poeta, e il napoletano Pisacane, mazziniano anche lui, almeno per ora, e apprezzato teorico dell’arte militare come poi lo sarà del socialismo; quindi il forlivese Saffi, e il bolognese Rusconi, e tante altre figure minori provenienti dalle Legazioni e dall’Italia centrale. Chi ancora non si faceva vedere era Mazzini, trattenuto al Nord dalla speranza di rinfocolare la resistenza armata agli austriaci ma addirittura sarcastico nel fustigare per lettera, il 5 dicembre, «le solite evirate vocine d’Arcadi parlamentarii» che a Roma, anziché parlargli   Rodelli, La Repubblica romana cit., p. 141.   Roncalli, Cronaca cit., vol. II, p. 46. 28   Lettera a G.B. Bottero, in Garibaldi, Epistolario cit., vol. II, 1848-1849, a cura di L. Sandri, p. 51. 26 27

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di «un popolo ridesto all’antica grandezza», si gingillavano nelle lungaggini costituzionali29. Così dicendo non intendeva certo svalutare il ruolo dell’Assemblea, visto che, esule da più di dieci anni in Inghilterra, si era rinsaldata in lui la coscienza del valore della democrazia rappresentativa30. Avvertiva però il timore che questa generazione di rivoluzionari, una volta che si fosse raccolta a Roma, si accontentasse di costruirvi la sua isola di repubblicanesimo. Di fronte alla possibilità di lanciare da Roma l’unità repubblicana della Penisola Mazzini non ammetteva programmi minimi. Nell’insieme la provincia, soprattutto quella delle Legazioni, selezionava un personale qualitativamente di gran lunga superiore alle figure un po’ sbiadite e anche discretamente ambigue presenti da tempo sul posto, i vari Sterbini, Montecchi, Agostini, Muzzarelli, Pantaleoni, alcuni dei quali a lungo avevano sperato di riportare il papa a Roma ma che presto furono indotti ad aggregarsi ai «forestieri» subendone in qualche misura l’autorevolezza. Se ne staccava per elevatezza d’ingegno e per onestà intellettuale l’avvocato concistoriale Carlo Armellini, che secondo Pio IX era solo «un miserabile avvocato romano, padre e fratello di due gesuiti»31 ma che con la sua lunga vita costituiva uno dei pochi anelli di collegamento con la precedente esperienza repubblicana a Roma, quella del 1798-99: così, proprio per sottolineare la continuità con quella rivoluzione, figlia in gran parte della Francia, Armellini sarà chiamato a rappresentare l’elemento locale nel primo esecutivo e poi nel Triumvirato mazziniano. Per il resto, si avvertiva l’effetto della segregazione forzata della città e dei suoi abitanti da una cultura politica europea, quale quella che molti mazziniani avevano avuto occasione di formarsi nel loro girovagare di esilio in esilio. In proposito appare molto significativa la testimonianza di Filippo De Boni all’inizio del suo soggiorno nella Capitale:

  Lettera a Michele Accursi, in E.N.S., vol. XXXVII, p. 185.   Sottolinea opportunamente l’impatto avuto su Mazzini durante i primi anni del soggiorno a Londra dalle concezioni rappresentative S. Mastellone nella introduzione a G. Mazzini, Pensieri sulla democrazia in Europa, Feltrinelli, Milano, 2005, in part. p. 41; cfr. inoltre G. Monsagrati, Qualche considerazione sul pensiero di Mazzini e sulla sua politica a Roma nel 1849, in La Repubblica romana del 1849: la storia il teatro la letteratura, a cura di B. Alfonzetti e M. Tatti, Bulzoni, Roma, 2013, pp. 19-34, in part. pp. 28-30. 31   Martina, Pio IX cit., p. 324. 29 30

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I Romani vogliono e non vogliono; qui tutto esiste, salvo una piccola cosa, il senso comune. Camminano tutti senza concetto; la rivoluzione fu fatta senza programma; il popolo male condotto; ignoranza profonda; grande tesoro di forze e di cuore, che potrebbe fruttar trionfo a chi vi mettesse dentro la mano32.

Posti a fianco di uomini di tal fatta, i democratici romani si resero conto che non si poteva più fare politica «alla Ciceruacchio», con tutto il rispetto dovuto a un uomo che comunque aveva creato dal nulla la rivoluzione romana e che però, con la fuga del papa, aveva perso colui che per due anni era stato, seppure non sempre di buona voglia, il suo interlocutore privilegiato. Per cui la questione – a lungo dibattuta un tempo dalla storiografia – se ci fosse una reale compattezza tra ceto politico locale e quadri venuti da fuori33, è una questione abbastanza mal posta perché si mettono in relazione valori non omogenei, e si dimentica che il meglio della non numerosissima classe politica romana era di matrice moderata e/o stava al governo del Comune34. Se anche vi fu qualche frizione iniziale e se da qualche giornale partirono parole di insofferenza per i nuovi venuti, le tentazioni municipaliste furono presto superate nell’ambito di un’Assemblea Costituente – quale quella creata con le elezioni del 21 gennaio 1849 – che riuniva in sé i migliori cervelli dello Stato (con l’aggiunta di alcuni elementi di spicco venuti da fuori). Tuttavia, le comparazioni lasciano spesso il tempo che trovano, e forse vale di più come metro di giudizio la riflessione che farà un anno dopo uno dei protagonisti di questa stagione: Presa individualmente, l’assemblea era inferiore alla Camera costituzionale spirata in dicembre. Presa in complesso, vi era di tanto superiore quanto fu superiore il suo tragico fine al prosastico discioglimento di quella. Nell’una erano certo più cognizioni o, come suol dirsi ora, più uomini tecnici; nell’altra era più ardire, e nell’ardire (nell’anno di grazia 1849) era posto tutto il senno politico35. 32   Lettera del 2 dicembre 1848, a destinatario ignoto, in R. Corrado, Filippo De Boni, i circoli popolari e la legazione di lui a Berna, in Studi e documenti su Goffredo Mameli e la Repubblica romana (1849), P. Galeati, Imola, 1927, p. 56. 33   Se ne parla in Caracciolo, Lo Stato pontificio cit., p. 660. 34   Analizza bene questa dialettica e le articolazioni che produsse all’interno dello stesso organismo municipale Bocci, Il Municipio di Roma cit., pp. 86-96. 35  Rusconi, La Repubblica romana cit., p. 29.

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Faceva premio, su qualunque virtù, il coraggio dettato dalle circostanze. E infatti si capì subito, sin dalle prime sedute, che la rappresentanza popolare eletta a suffragio universale, composta di uomini forse inesperti della prassi parlamentare ma all’oscuro delle malizie tipiche delle Camere di lungo corso, avevano nel bene comune il solo ispiratore delle loro scelte. Ora, se l’elemento ex pontificio fosse stato veramente scontento del primato di questo ceto politico fatto in gran parte di homines novi, se insomma fosse mancato quello che una studiosa ha chiamato il «grado di fusione» con la realtà cittadina36 e si fosse determinata una contrapposizione reale tra le due componenti delle forze rivoluzionarie, un uomo come Sterbini, che secondo uno stretto collaboratore di Mazzini «faceva il gallo quando il tempo era buono, e poi la troia, come molt’altri, quand’era cattivo»37, non avrebbe avuto difficoltà a sobillare la plebe contro gli «estranei». Una cosa del genere non fu nemmeno tentata se non – come vedremo più oltre – in qualche momento particolarmente critico, e peraltro senza successo. Certamente, i romani all’inizio guardarono con più di un dubbio e senza eccessivo entusiasmo alla novità di un governo che rompeva bruscamente con il papato38, e forse è vero che un popolo così orgoglioso della propria storia e delle proprie tradizioni faticò a riconoscersi nella novità di un sistema che lo privava della sua autorevolissima guida (che oltre tutto costituiva per Roma, come notava un diplomatico statunitense, il suo «principale fattore di prosperità»39), e lo collocava fuori della dimensione uni  Bartoccini, Roma nell’Ottocento cit., p. 35.   Così Giuseppe Lamberti, già segretario della Congrega centrale di Francia della Giovine Italia, in Protocollo della Giovine Italia (Congrega Centrale di Francia), vol. IV, 1846, P. Galeati, Imola, 1919, p. 39. 38   In questo gli osservatori stranieri erano abbastanza espliciti. Valga per tutti il giudizio di un capitano mercantile inglese, A. Cooper Key, che l’11 febbraio 1849 parlava appunto dello scetticismo della «Roman populace», rimasta passiva malgrado i molti tentativi di coinvolgerla in manifestazioni di giubilo, cortei, ecc.: Correspondence respecting the Affairs of Italy 1849. Presented to both Houses of Parliament by command o f H.M., 1849, London [1849], p. 124. 39   N. Niles, incaricato d’affari degli Stati Uniti presso il Regno sardo, a J. Buchanan, segretario di Stato, 22 febbraio 1849, in L’unificazione italiana vista dai diplomatici statunitensi, a cura di H.R. Marraro, vol. II, Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, Roma, 1964, p. 79. In questo dispaccio il diplomatico si schierava decisamente a favore del papato, attribuendo l’origine della crisi romana all’attività irresponsabile dei circoli; riteneva quindi probabile che nessun governo in Europa, «and perhaps not even in America», avrebbe riconosciuto la Repubblica. 36 37

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versale conferita alla città dal fatto di ospitare la sede del papato. Gli restava comunque, e non era meno universale, il retaggio storico della Roma antica. D’altra parte, descritto da un milanese che lo scopriva proprio ora come il «migliore del mondo» per le sue innate «abitudini democratiche» e per la sua governabilità40, il popolo romano s’avvide presto che appunto perciò era tornato sotto gli occhi del mondo con un profilo assai più dinamico. Bastò che si prospettasse l’affronto dell’assedio dei francesi perché alla fine anche qualche papalino moderato si stringesse ai difensori della città: in nome dell’onore di Roma, più che dell’Italia, ma era pur sempre una Roma senza il papa e sempre più decisamente contro. Peraltro la presenza di una personalità come Garibaldi, pur visto in principio con qualche preoccupazione per i legionari che si portava dietro e che non sempre erano stinchi di santo, sembrava fatta apposta per calamitare consensi e simpatie di gente sanguigna come quella che abitava al rione Monti o a Trastevere. Si eleggono i rappresentanti del popolo Alla lunga il conflitto con Gaeta non poteva risolversi che con l’emanazione – da parte della Suprema Giunta di Stato e del Governo costituiti in Commissione provvisoria di Governo – del decreto del 29 dicembre che fissava al 21 gennaio la convocazione dei collegi incaricati di eleggere l’Assemblea Costituente dalla quale sarebbe dovuto nascere il nuovo assetto dello Stato romano in assenza del papa-re. A dirla così, può sembrare che tutti fossero d’accordo per rimettere ad un’assemblea elettiva quale era la Costituente la decisione sul futuro dello Stato. In realtà la strada per raggiungere tale traguardo – con cui si concretizzava una vecchia idea di Mazzini ripresa e poi rilanciata da Giuseppe Montanelli – fu piena di insidie perché secondo i moderati, se proprio si doveva fare un passo del genere, era preferibile il modello di assemblea rappresentativa su base federale proposto quasi contemporaneamente a Torino da Vincenzo Gioberti in un congresso al quale,

40   E. Cernuschi a C. Cattaneo, 12 febbraio 1849, in C. Cattaneo, Epistolario, a cura di R. Caddeo, G. Barbèra, Firenze, 1949, vol. I, p. 473.

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come abbiamo già accennato, per lo Stato romano avevano partecipato tra gli altri Mamiani, Sterbini e Carlo Luciano Bonaparte41: che era un modello che non metteva in discussione l’esistenza dei singoli Stati e la loro sovranità ma li legava in una confederazione che avrebbe avuto come presupposto irrinunciabile l’accordo pieno tra i sovrani e i rispettivi popoli. Si sarebbero così conciliati «gli altrui diritti in un col rispetto necessario inevitabilmente per la unità cattolica, senza della quale sarebbe sogno il parlare dell’unità politica»42. Si aveva timore della democrazia, e per esorcizzarne il fantasma c’era anche chi prospettava semplicemente la creazione di una Lega tra gli Stati italiani, fingendo di ignorare che, con la svolta autoritaria di Ferdinando II e con i ripensamenti di Pio IX, era venuta meno quella omogeneità di stampo liberale di cui a inizio ’48 si era almeno avuta una parvenza. D’altra parte, per i democratici e soprattutto per i mazziniani la Costituente romana aveva un senso se lungi dall’essere fine a se stessa costituiva un passaggio intermedio e possibilmente assai rapido verso una Costituente italiana, da convocare una volta che tutto il paese fosse insorto. Caratterizzarla come italiana serviva a Mazzini per neutralizzare l’insidia del federalismo e per indicare in un assetto unitario l’unico traguardo possibile. L’Unità, rassicurava Mazzini rilanciando «L’Italia del Popolo», il quotidiano che aveva fondato l’anno prima a Milano, non sarebbe stata «simbolo, come in Francia, d’oppressione amministrativa» né avrebbe soffocato «nelle spire d’un funesto concentramento l’elemento eterno della Italiana vitalità, il Municipio», ma avrebbe attivato un circui­ to virtuoso tra «il collettivo e l’individuale, il Nazionale e il locale, l’associazione e la libertà»43: Roma, nella sua visione, avrebbe dato un potente impulso politico alla vitalità delle province, risolvendo così il delicato problema del rapporto tra il centro e la periferia. Ancora una volta, un’importanza fondamentale era assegnata al superamento di quella che i mazziniani consideravano l’insidia 41   A. Anzilotti, Gioberti, Vallecchi, Firenze, 1931, pp. 273-274; Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. III, La rivoluzione nazionale cit., pp. 365-366. 42   Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, p. 172. 43   E.N.S., vol. XXXIX, p. 95 (corsivo nell’originale). Il giornale uscì il 2 aprile ma il programma da cui abbiamo tratto il passaggio riportato sopra era stato pubblicato come volantino il 25 marzo: L. Ravenna, Il giornalismo mazziniano. Note ed appunti, Le Monnier, Firenze, 1939, pp. 89-92.

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permanente del federalismo. Lo ricordava Mameli in un articolo pubblicato il 4 gennaio 1849 in un giornale romano e intitolato «Le due Costituenti»: Noi – diceva – riconosciamo quant’altri la necessità della Costituente romana. Però il problema che ora massimamente importa di sciogliere ci pare sia quello di coordinare le due Costituenti l’una coll’altra, anzi di renderle una cosa sola, facendo della prima il nucleo della seconda44.

Di «nucleo iniziatore» aveva appunto parlato Mazzini45, a parere del quale era urgente che la Costituente fosse proclamata dal popolo in rivolta, come a Roma, e non da un governo, ovvero da un sovrano, che avrebbe significato aprire la porta al federalismo. Era importante – Mazzini lo segnalava proprio a Mameli – che dalla Costituente venisse creata una repubblica, perché, con l’Austria pronta ad aggredire, la Francia, anche in base all’art. V della sua Costituzione che la impegnava a rispettare le nazionalità straniere e a non impiegare le sue forze contro la libertà di nessun popolo46, non avrebbe tollerato l’attacco a un’altra repubblica. Di qui, anche, i suoi approcci epistolari con Gerolamo Bonaparte, cugino del presidente francese, per trovare in lui un alleato, un informatore e il possibile suggeritore a Parigi della scelta di una via politica in luogo di quella militare47. Mazzini tuttavia guardava anche più lontano, mosso com’era dal desiderio che a Roma non si insediasse un regime locale, sia pure sotto bandiera repubblicana. Era in lui la certezza che proclamare la Repubblica a Roma dovesse rappresentare un passaggio, non un traguardo. Recepita dal coordinamento dei Circoli democratici attivissimi a Roma e nelle altre città dello Stato, l’ipotesi formulata dal mazziniano Mameli (ma non solo da lui) sfociò in una richiesta alla Giunta di governo ancora in carica di assegnare ai futuri rappre  Mameli, Fratelli d’Italia cit., p. 62.   Lettera a M. Accursi, 5 dicembre 1848, Scritti, vol. XXXVIII, p. 188.   Il testo della Costituzione francese del 1848 è consultabile in rete all’indirizzo http://www.dircost.unito.it/cs/docs/francia186.htm. 47   Le lettere di Mazzini a Gerolamo Bonaparte in E.N.S., vol. XXXVII, pp. 215-217, 235-236, 245, 317-318. In effetti Gerolamo Bonaparte avrebbe preso pubblicamente posizione contro la spedizione. 44 45 46

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sentanti del popolo un doppio mandato, in modo da attivare un meccanismo per il quale dei duecento deputati previsti dal decreto di convocazione della Costituente romana i primi cento sarebbero entrati anche nella Costituente italiana. Era lo scotto da pagare ai mazziniani, ma era anche la logica conseguenza di una loro innegabile egemonia politica che in quel momento pesava molto ma che nell’Italia del futuro era destinata a restare isolata proprio perché era decisamente la più avanzata: troppo, per un paese diviso ma tenuto sotto controllo da quell’insieme omogeneo di privilegi e incrostazioni di casta sopravvissuti perfino alla fine del feudalesimo. Per capire quanto avanti si stesse spingendo la classe politica repubblicana bastava dare una scorsa al testo del decreto emanato dalla Giunta di Stato il 29 dicembre, un giorno dopo lo scioglimento del Parlamento: «Il suffragio sarà diretto e universale», diceva l’art. 7, concedendo l’elettorato attivo a tutti i cittadini maschi di almeno 21 anni e stabilendo per quello passivo un limite minimo di 25 anni (altro requisito, ma stavolta in senso limitativo, era quello che prevedeva per l’elettorato passivo la cittadinanza romana e la residenza nello Stato da almeno un anno). A questa novità, veramente rivoluzionaria per l’Europa del tempo, un’altra se ne aggiungeva con l’art. 12 che riconosceva a ogni rappresentante del popolo «un’indennità di scudi due per giorno per tutta la durata della sessione»48: con il che, è evidente, si intendeva mettere tutti i deputati, anche i non abbienti, in condizione non di arricchirsi ma di svolgere bene il proprio lavoro. Vero è che il preambolo che introduceva il decreto lasciava ancora un piccolo spazio per un eventuale ulteriore tentativo di conciliazione col papato, evidentemente per volere tener conto di qualche pressione esercitata in tal senso dai moderati49. Ma il motu proprio con cui Pio IX il 1° gennaio fulminò da Gaeta la scomunica «contro chiunque ardisce rendersi colpevole di qualsivoglia attentato contro la temporale Sovranità dei Sommi Romani Pontefici» stava a dimostrare che per

48   Vedi il testo del decreto in Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. III, La rivoluzione nazionale cit., pp. 346-347. Stando al cronista Roncalli, il testo del decreto «fu letto con avidità e sembra che abbia incontrato l’approvazione di molti»: Roncalli, Cronaca cit., vol. II, p. 61. Da notare che all’atto della firma del decreto si era dissociato dai colleghi della Giunta il senatore Corsini. 49   Farini, Lo Stato romano cit., vol. III, pp. 107-109.

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la Chiesa la misura era colma, non potendosi più tollerare lo stato di anarchia in cui erano precipitati i suoi territori. Per la forma, c’era ancora la speranza che le pecorelle smarrite tornassero all’ovile (la metafora è dello stesso Pio IX), ma nella sostanza si faceva piovere sui ribelli la minaccia del castigo «delle leggi sì divine come umane»50. Era un altro passo avanti verso l’intervento armato. Al sempre più probabile ricorso alle armi stava intanto lavorando il cardinale Antonelli. A Gaeta si era ormai convinti che al papa sarebbe andato bene qualunque aiuto, anche quello dei turchi51. In realtà, il prosegretario di Stato, assiduamente in contatto con l’inviato spagnolo e con quello francese, non si dimostrava per niente disponibile verso l’ipotesi, prospettata dal governo piemontese (al potere c’era ora Gioberti), di provvedere con le proprie truppe alla restaurazione papale in modo da scongiurare l’eventualità di un intervento straniero: offerta subito respinta al mittente, giudicato poco affidabile per aver mantenuto in vita, anche dopo la sconfitta in guerra, lo Statuto elargito da Carlo Alberto nel marzo del 184852. Qualche timida opposizione al progetto della Costituente veniva dai consigli comunali di nomina papale, e da quello di Bologna in particolare che, protestando contro il decreto, portò avanti un larvato tentativo di secessione subito bloccato dall’azione dei Circoli cittadini53. Semplice azione di disturbo era invece quella esercitata attraverso defezioni di impiegati e diserzioni di militari, gli uni e gli altri fedeli al cessato regime; la conseguenza, almeno per quanto riguarda le truppe, fu che le sostituzioni degli ufficiali comandanti avvennero su scelta dei subordinati54. Una ventata di democrazia cominciò dunque a soffiare anche sull’esercito. Dal momento che nello Stato della Chiesa non esisteva una anagrafe comunale, le liste delle candidature furono allestite «sulla base dei registri parrocchiali»55, e le elezioni si tennero, come pre-

  Ivi, pp. 118-122.   Liedekerke de Beaufort, Rapporti delle cose di Roma cit., p. 152. 52   G. Quazza, La Questione romana nel 1848-49. Da fonti inedite, Società tipografica modenese, Modena, 1947, pp. 71-86. 53   Spellanzon, Storia del Risorgimento cit., vol. V, p. 1017. 54   Roncalli, Cronaca cit., vol. II, pp. 67 e 78. 55   Martina, Pio IX cit., p. 327. Torre, Memorie storiche sull’intervento francese cit., pp. 162-163, attesta il rifiuto di alcuni parroci di mettere a disposizione i libri battesimali per la compilazione delle liste. 50 51

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visto, il 21-22 gennaio. Come si è già detto, le donne non furono chiamate a votare. Godettero però di una certa considerazione se è vero che, in vista della scelta delle candidature, qualche comitato ebbe cura di invitare un certo numero di signore al Teatro Apollo, onde – diceva l’invito – «assistere colla vostra rispettabile famiglia, ad un’assemblea politica così grave»56. Era un tratto di attenzione che mai era stato usato nei confronti della popolazione femminile e che implicava quanto meno considerazione per l’ascendente che le donne potevano esercitare su compagni e mariti mandandoli a votare, tant’è che da Gaeta partì tempestivamente una scomunica diretta non più verso i rivoluzionari ma appunto verso queste signore considerate troppo solerti57. A proposito, poi, di riunioni pre-elettorali, va ricordato che nelle settimane precedenti se ne erano organizzate parecchie per selezionare i candidati a partire da apposite liste fornite dalle Commissioni elettorali (il che non vuol dire che fossero tutti repubblicani, non essendo l’unanimismo né perseguito né tanto meno raggiunto, mentre era generalmente repubblicano quel minimo di istruzione elettorale che si ritenne di dover dare agli elettori mediante la diffusione di appositi «catechismi» che in forma dialogica spiegavano i vantaggi e il tasso di democrazia del nuovo sistema). Per sottolineare l’importanza dell’evento e favorire al tempo stesso la politicizzazione delle masse chiarendo bene il meccanismo della doppia Costituente a chi non ne aveva mai avuta nemmeno una si indissero riunioni pubbliche, spettacoli teatrali, incontri di formazione58; a Roma si fecero perfino le «primarie», nel senso che il 6 gennaio si creò un comitato incaricato di sondare gli umori del popolo in merito alle preferenze e il 15 si indicarono i nomi di alcuni candidati per l’Assemblea: lo Spada ne riporta 12, molti dei quali furono poi effettivamente eletti59. Nel laboratorio che era diventata Roma si inventavano dal nulla forme di democrazia e, nel presupposto di una maggiore politicizzazione, si faceva appello alla partecipazione più ampia possibile alla vita pubblica.

56   A. Balleydier, Storia della rivoluzione di Roma: quadro religioso, politico e militare degli anni 1846, 1847, 1848, 1849 e 1850 in Italia, Stabilimento tipografico Perrotti, Napoli, 1852, p. 204. 57   Roncalli, Cronaca cit., vol. II, p. 81. 58   Ivi, p. 73 (alla data del 13 gennaio). 59   Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, p. 104.

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Le operazioni di voto non fecero registrare incidenti: sui circa 750.000 aventi diritto si calcola in modo abbastanza approssimativo che «complessivamente furono oltre duecentomila e forse duecentocinquantamila coloro che si recarono alle urne»60. Considerata da un lato la scomunica fulminata dal papa ai votanti e più o meno pubblicizzata dai parroci, dall’altro la ridotta maturità civica di una popolazione che per la prima volta era chiamata ad utilizzare lo strumento del voto (peraltro in un’Europa che aveva pochissimi precedenti in fatto di suffragio universale, e quasi sempre soltanto su scala ridotta), non risultò essere una percentuale di poco conto, anche considerando il fatto che a esprimerla furono soprattutto le maggiori città dello Stato. Centosettantanove furono gli eletti all’Assemblea del primo turno: si arrivò a duecento con le elezioni suppletive di febbraio e marzo. Eletto il 18 febbraio a Ferrara e a Roma, ossia alcuni giorni dopo che l’Assemblea gli aveva concesso la cittadinanza all’unanimità, Mazzini optò per la Capitale61. Trattandosi di un momento molto significativo, sia i contemporanei sia gli storici hanno dato grande rilievo alle modalità con cui le elezioni ebbero luogo, al comportamento dell’elettorato (nel quale non erano mancati alcuni appartenenti al clero62), ai vari tentativi di influenzarne l’esito messi in atto dai papalini da un lato, dai liberali di vario colore dall’altro. Così, i reazionari parlarono di brogli e di irregolarità (e irregolarità certo vi furono se poterono essere eletti cittadini di altri Stati come Garibaldi, Mazzini, Cernuschi malgrado l’art. 8 del decreto del 29 dicembre lo escludesse esplicitamente; inoltre l’inviato veneto a Roma, un cattolico, segnalava alcune infrazioni e rilevava come la non nominatività delle schede consentisse la sostituzione del votante, mentre Roncalli afferma che nei seggi erano distribuite schede preventivamente compilate con l’indicazione del nome dei candi-

60   Spellanzon, Storia del Risorgimento cit., vol. VII; E. Di Nolfo, Storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, parte II, Il 1849, Governo democratico e restaurazione in Toscana, la Repubblica romana, la reazione nel Regno delle Due Sicilie, Rizzoli, Milano, 1960, p. 252; Demarco, Una rivoluzione sociale cit., pp. 69-70. 61   M. Cossu, L’Assemblea costituente romana del 1849, Tipografia cooperativa sociale, Roma, 1923, p. 78; Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, p. 326. 62   Ivi, p. 111; F. Rizzi, La coccarda e le campane. Comunità rurali e Repubblica romana nel Lazio (1848-1849), Franco Angeli, Milano, 1988, pp. 86-87.

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dati63); i democratici a loro volta citarono i numerosi espedienti – compreso quello delle apparizioni delle madonne addolorate64 – tentati da preti e vescovi per tenere gli elettori lontani dai seggi. E se il papalino Giuseppe Spada tra tante altre accuse insinua che, «qualunque fosse stata la scelta fatta dagli elettori nel novero dei nomi designati, era sempre assicurata quella degli uomini che volevansi»65, dall’altra parte il democratico Giuseppe Gabussi, eletto a Civitavecchia, ebbe a scrivere: Troppo lungo sarebbe ricordar qui tutti i maneggi adoprati da Gaeta per eccitare sommosse e resistenze al Governo; e le antiche profezie scavate da ciarlatani; e i minacciosi cartelli; e le imposture rinnovellate di immagini che aprivano gli occhi o piangevano o scolorivano; e i vaticini di sibille improvvisate, e tante altre frodi onde i preti ebbero sempre dovizia66.

Quanto agli storici, raramente c’è stato tra loro chi abbia ripreso i motivi polemici agitati dalla pubblicistica ultraconservatrice del tempo; in genere, pur riconoscendo le molte incertezze della improvvisata macchina elettorale e le pressioni di ogni tipo esercitate sugli aventi diritto, si sono sottolineati come dati positivi la manifestazione, da parte di un gran numero di abitanti, di una volontà di presenza attiva nella vita dello Stato, la partecipazione al voto di vari esponenti del clero, la «ricchezza e molteplicità delle componenti politiche, ideologiche e culturali»67 che furono poste al servizio della futura Repubblica, l’assenza di «violenze e soperchierie»68. Più discutibile la posizione di chi, esaminando il comportamento elettorale di alcuni centri della provincia di Roma, ne ha ricavato un’impressione di scarso entusiasmo popolare; ma in verità il campione prescelto appare in questo caso troppo limitato e frammentario, i dati raccolti sembrano contraddittori e la documentazione utilizzata poco convincente e anche par63   Di Nolfo, Il 1849 cit., pp. 253-255; Roncalli, Cronaca cit., vol. II, p. 77; Farini, Lo Stato romano cit., vol. III. 64   Torre, Memorie storiche sull’intervento francese cit., pp. 166-167. 65   Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, p. 109. 66   Gabussi, Memorie per servire cit., vol. II, p. 359. 67   S. Soldani, Il lungo Quarantotto degli italiani, in Storia della società italiana, vol. XV, Il movimento nazionale e il 1848, Nicola Teti, Milano, 1986, p. 310. 68   Cossu, L’Assemblea cit., p. 27.

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ziale69. D’altronde, perché non credere a Mazzini quando scrive che dopo il primo scontro coi francesi 263 municipi mandarono indirizzi di solidarietà e sostegno all’Assemblea?70 Resta il fatto che durante i cinque mesi di vita della Repubblica, Roma e lo Stato di cui essa era la capitale non furono la Vandea e che, al contrario, come è attestato da più fonti, operarono come vere e proprie scuole di sociabilità politica. E se alcuni campioni del legittimismo transalpino decisero, a cose finite, di dedicare molte ricostruzioni critiche agli eventi del ’49 romano non lo fecero solo perché la Francia vi aveva svolto una parte importante o per avversione al Risorgimento: lo fecero soprattutto perché avevano nel mirino i princìpi del 1789 che avevano visto rifiorire in parte sulle rive del Tevere. Su tale base uno di essi, il Balleydier, avrebbe riproposto l’origine divina del potere monarchico, contestato il principio dell’eguaglianza di tutti i cittadini, condannato lo stesso metodo delle riforme raccomandato dalle potenze e rilanciato da Pio IX subito dopo l’elezione al trono pontificio71. Numerose sono peraltro le testimonianze – non tutte di parte – di coloro che, in riferimento ai giorni delle elezioni, parlano del clima festoso, delle luminarie, dello sparo di fuochi con cui furono accolti i risultati del voto popolare, o del successo di pubblico che premiò la rappresentazione più volte replicata della Battaglia di Legnano di Giuseppe Verdi72: festa e politica si intrecciavano

69   Rizzi, La coccarda cit., i cui dati sono però da prendere con le molle, come quando sostiene che a Roma i votanti furono 2214 (p. 92), per poi portarli a 2221 (p. 115); al confronto i 1700 votanti di Castelnuovo di Porto (p. 107), sembrano decisamente troppi. Una dettagliata analisi del comportamento elettorale fuori della Capitale è quella offerta da M. Severini, La Repubblica romana del 1849, Marsilio, Venezia, 2011, pp. 63-99. 70   Mazzini, Ai signori Tocqueville e Falloux, ministri di Francia, in E.N.S., vol. XXXIX, p. 142. Moltissimi tra questi indirizzi furono consegnati alla presidenza dell’Assemblea, letti pubblicamente e messi a verbale: Atti Roma, vol. IV, pp. 454455, 459, 474-475, 489. 71   Balleydier, Storia della rivoluzione di Roma cit., pp. 162-163. 72   Diario Chigi, p. 275; Roncalli, Cronaca cit., vol. II, pp. 80, 83. L’opera era andata in scena in prima assoluta al Teatro Argentina il 27 gennaio; qualche giorno prima uguale successo aveva riscosso un’altra opera verdiana, L’Attila: cfr. M. Fuller, «These sad but glorious days». Dispatches from Europe, 1846-1850, a cura di L.J. Reynolds e S. Belasco Smith, Yale University Press, New Haven (Conn.)-London, 1991, p. 180 (trad. it. a cura di R. Mamoli Zorzi: Un’americana a Roma, 1847-1849, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1986).

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componendo insieme un percorso di politicizzazione al quale il popolo era chiamato a prender parte per sentirsi depositario di un potere mai avuto prima. Col tempo le risposte non mancarono: alla Repubblica ci si abituò e affezionò poco alla volta perché, a differenza di quella del 1798-99, la si vide uscita dal proprio seno e non la si ricevette dall’esterno. Certo, si può capire la timidezza iniziale e magari anche la diffidenza verso un regime che, oltre a capovolgere da cima a fondo la prassi amministrativa di quello che l’aveva preceduto, non offriva con la sua classe politica emergente punti di riferimento stabili e conosciuti, sanciva l’eguaglianza di tutti i cittadini, prometteva l’eliminazione di ogni privilegio, di ogni rendita di posizione, piccola o grande che fosse (e in una città con una Corte, seppure ecclesiastica, incrostazioni di questo genere ce ne sono sempre state), metteva temporaneamente a rischio il fattore economico che soprattutto a Roma poggiava molto sull’afflusso di pellegrini e turisti. D’altronde il progressivo abbandono della scena urbana da parte di aristocratici, ecclesiastici e viaggiatori stranieri aveva come effetto di far risaltare maggiormente l’adesione alla Repubblica da parte di coloro che erano rimasti: non erano la maggioranza, e forse non lo sarebbero mai diventati, probabilmente alcuni di loro speravano ancora in un ritorno indolore del papa, ma che insistessero a proclamarsi fanatici sostenitori del potere temporale è davvero arduo affermarlo. Di certo non lo erano i rappresentanti che avevano appena inviato all’Assemblea Costituente e che si fecero conoscere già votando il Decreto fondamentale: voto pubblico, il loro, con ciascuno di essi pronto a prendersi la propria responsabilità alzando la mano per il sì o per il no.

III Roma repubblicana La Repubblica del 9 febbraio L’inaugurazione dei lavori dell’Assemblea Costituente romana ebbe luogo nella sala grande del Palazzo della Cancelleria – là dove era stato ucciso Pellegrino Rossi – lunedì 5 febbraio 1849. In precedenza i deputati, cinti di fascia tricolore, si erano ritrovati in Campidoglio, erano passati alla vicina basilica dell’Aracoeli a sentir messa, confermando per l’ennesima volta che si accingevano a far politica e non ad attaccare la religione; quindi, scortati da varie formazioni militari e in un grande sventolio di bandiere, avevano sfilato per il Corso tra due ali di folla festosa. Passando poi per il Pantheon, erano arrivati fino alla Cancelleria: 140 in tutto, tra gli assenti 11 dimissionari. Prima di mettere i deputati a sedere sui loro scranni sarà il caso di dare un’occhiata alla composizione dell’Assemblea. Tra le varie zone dello Stato la più rappresentata, proporzionalmente alla sua densità abitativa, era quella delle Legazioni (corrispondenti in parte all’attuale Emilia-Romagna) con 65 deputati; le Marche ne elessero 50, il Lazio 32, l’Umbria 25; 7 erano originari di altri Stati italiani (tra questi Garibaldi, Mazzini, Cernuschi, Saliceti, ma di essi solo due furono eletti al primo turno; per gli altri bisognò attendere le suppletive di febbraio). I più votati risultarono essere Francesco Sturbinetti a Roma, seguito da Armellini, Sterbini, Muzzarelli e, per ultimo, Carlo L. Bonaparte; Aurelio Saffi a Forlì (seguito da Felice Orsini); Carlo Rusconi a Bologna; Mamiani a Pesaro-Urbino; Candido Augusto Vecchi ad Ascoli; Pompeo di Campello a Spoleto. Nell’insieme il profilo della Co-

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stituente appariva politicamente abbastanza vario, perché, oltre ai democratici romani e ai repubblicani unitari che formavano la maggioranza, accoglieva anche non pochi esponenti del moderatismo, forti soprattutto a Bologna dove in passato aveva lasciato tracce profonde l’influenza di Gioberti. Da loro, orientati in genere a simpatizzare col Piemonte, verrà la maggiore resistenza alla proclamazione della Repubblica1. Se esaminata da un punto di vista sociale, l’Assemblea, coi suoi 67 possidenti e con diversi esponenti delle professioni liberali, rivelava la prevalenza di una borghesia progressista («borghesia terriera e borghesia commerciale e intellettuale»2), la stessa che per anni aveva inutilmente invocato le riforme e la modernizzazione e che aveva maturato, insieme con una forte avversione per i privilegi nobiliari, una certa sensibilità verso le condizioni del popolo. A dettarla, tale sensibilità, non era solo la necessità di alzare preventivamente un argine contro possibili rivoluzioni sociali ma anche quella specifica vocazione umanitaria che nell’Italia della prima metà dell’Ottocento, sulla spinta del pietismo, aveva avuto una notevole diffusione. Attirare a sé la plebe, sottrarla a tentazioni eversive, trasformarla in popolo, furono questi alcuni tra gli imperativi più sentiti dalla classe dirigente romana: se ne ha più di una traccia nella stampa romana dell’epoca e, in particolare, in quell’invito a «popolarizzare la Repubblica» rivolto all’opinione pubblica da Alessandro Gavazzi, un frate barnabita schieratosi sin dall’inizio con i rivoluzionari3. Infine non mancavano i nobili, 27 in tutto. Ma oltre a essere fortemente diminuiti rispetto al Consiglio dei Deputati di Pio IX – lì erano il 25%, qui si aggiravano sul 13% – non va dimenticato che molti di essi erano da tempo attestati su posizioni liberali avanzate (è il caso di Carlo L. Bonaparte, principe di Canino nonché cugino del futuro imperatore) e che qualcuno (Luigi Pianciani e Saffi, ad esempio) si era spinto fino ad abbracciare l’ideologia mazziniana4. 1   Tocca questo punto con dovizia di argomenti Gabussi, Memorie per servire cit., vol. II, pp. 345-352. 2   Demarco, Una rivoluzione sociale cit., p. 71. 3   Citato da F. Fonzi, I giornali romani del 1849, in «Archivio della Società romana di Storia patria», LXVII, 1949, p. 110. 4   Tutti questi dati in Cossu, L’assemblea cit., p. 57; ma si veda anche Demarco, Una rivoluzione sociale cit., pp. 71-74.

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In omaggio a una certa continuità della tradizione repubblicana a Roma, il discorso di apertura toccò a Carlo Armellini, ministro dell’Interno del governo provvisorio, del quale abbiamo già ricordato la partecipazione alla Repubblica giacobina di fine Settecento. La letteratura filopapale lo avrebbe poi raffigurato come uno spregevole traditore dei giuramenti prestati al papato nella sua qualità di avvocato concistoriale. In verità, Armellini era il classico uomo d’ordine la cui dissimulazione, se c’era stata, più che da debolezza di carattere era stata causata dalle condizioni di passività e di conformismo cui il regime papale aveva costretto i suoi sudditi5. Tuttavia, nell’atmosfera solenne della prima seduta assembleare, il suo fu un discorso certamente gonfio di accenti retorici, ma pienamente consapevole dell’importanza storica del momento e di ciò che poteva significare per tutti i popoli questo passaggio alla democrazia: per cui, dopo aver rimesso alla Costituente i poteri del Governo provvisorio, dopo aver rifatto la storia dei tre mesi precedenti e ripercorso l’operato del ministero di cui aveva fatto parte, Armellini concluse con un appello ispirato al motivo delle tre Rome: «Dall’una parte vi stanno le rovine dell’Italia dei Cesari, dall’altra le rovine dell’Italia dei Papi»6: compito dei deputati era innalzare su quelle rovine l’Italia del popolo. L’etichetta ideologica di questo concetto era talmente riconoscibile che vi fu chi sospettò che al discorso avesse messo mano qualche seguace di Mazzini7. Subito dopo prese la parola Garibaldi. A mandarlo alla Costituente era stata la città di Macerata, con poco più di 2000 voti, tredicesimo su sedici eletti in quel collegio. L’uomo era noto, oltre che per le sue gesta in America Latina e nella guerra del 1848, per la stringatezza del suo stile oratorio, per una notevole irruenza e per la diffidenza verso chi era abituato a sovraccaricare di parole qualunque ragionamento. Il fatto di aver già sperimentato la vita parlamentare come deputato della Camera piemontese non aveva reso più prolissa la sua eloquenza; semmai la circostanza eccezionale in cui era venuto a trovarsi le conferiva maggiore irruenza. 5   Su di lui M. Severini, Armellini il moderato, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma, 1995. 6   Atti Roma, vol. III, p. 22. 7   Farini, Lo Stato romano cit., vol. III, p. 197.

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Disse dunque in breve che andavano evitati tutti i formalismi, e propose che ci si sbrigasse a proclamare la Repubblica (e qui il verbale registrerà «qualche piccolo segno di disapprovazione»8). Per lui il modello al quale rifarsi non andava cercato molto lontano, ed era quello classico, il più familiare ai «discendenti degli antichi romani». Sterbini lo bloccò immediatamente, obiettando che prima andavano adempiute alcune formalità quali la designazione delle cariche parlamentari, la verifica degli eletti e la loro assegnazione alle sezioni9. Naturalmente aveva ragione, e infatti si procedette immediatamente alla formazione delle sezioni. E però, malgrado gli inviti alla prudenza rivolti all’Assemblea dall’ex ministro Mamiani e dal bolognese Audinot, i rappresentanti del popolo fecero propria l’indicazione di Garibaldi. Giocò a favore della Repubblica il fatto che in realtà non ci fossero alternative: tra il ritorno del regime papale e il rischio di un’avventura carica di incognite ma esaltante si preferì rischiare. Forse in quell’Assemblea la cultura repubblicana non era molto matura, ma in ognuno dei deputati era forte il senso della dignità e vivo il ricordo di un passato di passiva sottomissione al ceto ecclesiastico che si voleva a tutti i costi cancellare. La giornata decisiva fu quella dell’8 febbraio. L’ultimo scoglio da superare fu l’opposizione che Mamiani fece alla proposta di un deputato di dichiarare decaduto il dominio temporale del papa. In materia di eloquenza Mamiani non apparteneva certo alla scuola di Garibaldi: si dilungò dunque in un intervento in cui, oltre a elogiare il Piemonte monarchico davanti a un Parlamento repubblicano, chiese di rinviare alla Costituente italiana la questione della decadenza del potere temporale. Con tutto il rispetto dovuto all’uomo di cultura, l’Assemblea non tenne gran conto delle sue parole. Superati tutti gli adempimenti procedurali, si pose dunque ai voti la proposta di decreto fondamentale presentata da un deputato bolognese, Quirico Filopanti. Costui, esponente di punta del Circolo democratico della sua città, si chiamava in realtà Giuseppe Barilli e aveva adottato lo pseudonimo di Filopanti per esprimere con un ellenismo l’amore per il prossimo cui   Atti Roma, vol. III, p. 23.   Ibid.

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ispirava tutti i suoi atti. Al momento di mettere su carta i principi su cui si sarebbe dovuto reggere il nuovo Stato romano aveva però attinto a una sapienza giuridica sorprendente in un uomo di scienza quale era lui: concetti chiari, i suoi, svolti con assoluta secchezza e senza nessuna retorica (anche perché l’Assemblea gli bocciò l’unico articolo che dava voce alle sue idee filantropiche e che, sconfinando in una forma di statalismo alla francese allora assai impopolare, assegnava alla Repubblica il compito di provvedere «in modo tutto speciale al miglioramento morale e materiale» di tutte le classi sociali10). Il testo da lui proposto, così come fu approvato, si componeva di 4 articoli, i seguenti: Art. 1 – Il Papato è decaduto di fatto e di diritto dal governo temporale dello Stato Romano. Art. 2 – Il Pontefice Romano avrà tutte le guarentigie necessarie per l’indipendenza nell’esercizio della sua potestà spirituale. Art. 3 – La forma di governo dello Stato Romano sarà la democrazia pura, e prenderà il glorioso nome di Repubblica Romana. Art. 4 – La Repubblica Romana avrà col resto d’Italia le relazioni che esige la nazionalità comune.

Il voto avvenne prima sui singoli articoli, e il più votato risultò essere il primo che ebbe 137 sì e 5 no. Leggermente più contrastata fu l’approvazione degli altri articoli: in pratica, mentre si ebbero pochi dubbi sulla fine del potere temporale, qualche riserva in più fu manifestata contro le «guarentigie» al papa per l’esercizio della propria autorità spirituale (si tenga presente che il termine «guarentigie» sarà lo stesso adoperato nel 1871 per indicare la legge destinata a regolare – dopo la caduta del potere temporale – i rapporti del Regno d’Italia con la Santa Sede) e contro la forma repubblicana dello Stato. Si venne poi alla votazione complessiva: la seduta, iniziata nel primo pomeriggio dell’8, si era protratta a lungo proprio per non soffocare la discussione. Quando il presidente lesse il risultato – 120 sì, 10 no e 12 astensioni – la giornata del 9 febbraio era iniziata da un’ora. La nascita della Repubblica avvenne dunque a notte fonda, e da quel momento i quattro articoli del Decre10

  Era l’art. 4: ivi, p. 61.

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to costituirono, mentre ci si metteva all’opera per preparare la Costituzione, il vincolo ideale per l’attività legislativa dell’Assemblea Costituente e per il rapporto del governo repubblicano con la popolazione dello Stato. Dei dieci che votarono contro, nove lasciarono in pratica i lavori dell’Assemblea; uno, Rodolfo Audinot, bolognese e uomo di assoluto valore, diede un no motivato presentando una sua controproposta di decreto che, riservando la scelta della forma di governo alla Costituente italiana, aveva il difetto di lasciare le cose immutate. Messo in minoranza, Audinot non abbandonò l’aula e spesso intervenne nelle discussioni con atteggiamento molto collaborativo. Il problema di Roma gli stava davvero a cuore se, a distanza di dodici anni, fu lui che con una interpellanza concordata offrì a Cavour l’occasione per pronunziare davanti al neonato Parlamento italiano il celebre discorso con cui Roma veniva designata futura capitale del Regno d’Italia11. Come si vede, malgrado qualche autore ancora lo sostenga12, non fu Mazzini, che in quel momento si trovava in Toscana, a proclamare la Repubblica romana. Lo storico evento ebbe luogo senza clamori e, soprattutto, senza appropriazioni o attribuzioni ideologiche di tipo personale, anche se non va ignorato il peso esercitato da chi, come lui, aveva lavorato per anni al futuro repubblicano dell’Italia. Roma, senza tradizioni di monarchia (quella papale era del tutto atipica), era la sola città in cui, caduto il papato, la repubblica potesse nascere come se fosse la cosa più naturale del mondo. Non per niente, la stampa locale nei suoi editoriali del giorno dopo volle richiamare – come aveva già fatto Garibaldi – un precedente illustre, che non era quello giacobino di fine Settecento ma quello della Roma antica. Era, questo del legame col passato («Risorge Roma e la sua gloria, il popolo romano e la sua vita»13), un tasto sul quale il giornalismo romano non mazziniano batteva da tempo perché lusingava l’orgoglio cittadino e perché ridimensionava ogni eventuale disegno unitario14: 11   Di lui e della sua presenza a Roma nel 1849 traccerà un profilo molto affettuoso Saffi, Ricordi e scritti cit., vol. IV, pp. 456-458. 12   S. Romano, I giudizi della storia, Rizzoli, Milano, 2006, p. 145. 13   «L’Epoca», 10 febbraio, 1849. 14   «Il Contemporaneo», 10 febbraio, 1849, editoriale intitolato Roma è Repubblica. Si ricordi che il foglio esprimeva il punto di vista di Sterbini ed era redatto da Cesare Agostini.

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tanto che il 19 febbraio un altro foglio locale, «La Pallade», non esitava a ricordare ai suoi lettori «che la Romana famiglia agita una causa totalmente domestica, che non si tratta della grande questione italiana, perciocché Roma sola non ha l’orgoglio di voler imporre a tutta Italia»15. Parallelo a questa affermazione era l’invito «a non intromettersi nelle nostre interne faccende» che lo stesso giornale rivolgeva agli agitatori piovuti a Roma dagli altri Stati italiani16. Emergeva così l’antica contrapposizione dialettica tra municipalisti e unitari, e un simile motivo avrebbe caratterizzato in modo latente tutta la breve vita della Repubblica, fino all’esplosione finale del 30 giugno. Strano a dirsi, «La Pallade» era lo stesso giornale che ospitava gli articoli dell’unitario Mameli. Ma torniamo alla storica proclamazione del 9 febbraio. Al mattino la gente di Roma e quella giunta in città dalle altre province festeggiarono l’avvenimento sfilando in corteo fino al Palazzo della Cancelleria. Il giorno dopo qualche giornale («L’Epoca» del 10 febbraio) sottolineò come anche la plebe si fosse mescolata ai manifestanti. Non ci furono particolari eccessi, solo un’orgia di coccarde tricolori, di divise militari e grandi sventolii di bandiere: i colori sgargianti della scena contavano molto per convincere gli indifferenti e il popolino a entrare a farne parte. A Farini questo coinvolgimento delle masse parve una «danza sull’abisso della servitù»17, un giudizio, il suo, che sembra troppo dettato da un’ostilità preconcetta verso la forma repubblicana. Quel che è sicuro è che all’inizio, soprattutto nelle province, il rapporto tra nuova classe dirigente e popolazione stentò a decollare. Probabilmente il legame psicologico con il passato era troppo forte per poterselo scrollare di dosso da un giorno all’altro. Come sempre si fa, e come anche noi abbiamo spesso visto fare alla caduta di un regime molto inviso, per prima cosa l’Assemblea deliberò che si togliessero gli stemmi pontifici dagli edifici pubblici non adibiti al culto18. Ma questo non bastava e anzi poteva addirittura provocare qualche reazione nostalgica. L’evento andava metabolizzato: una popolazione naturalmente scettica doveva   Fonzi, I giornali romani del 1849 cit., p. 113.   C. Barbieri, I giornali romani nel 1849, Edizioni Idis, Roma, s.d., p. 21. 17   Farini, Lo Stato romano cit., vol. III, p. 208. 18   Vecchi, La Italia cit., vol. II, p. 39. 15 16

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essere convinta con gli atti concreti più che con i proclami, le feste, le frasi roboanti. Fu evidente, comunque, che non era stato necessario preparare la svolta e che tutto era avvenuto nel modo più fluido. «La repubblica – dirà poi Rusconi, uno dei maggiori rappresentanti del nuovo gruppo dirigente – emerse spontanea, fu conseguenza di una necessità, fu il fatto più logico della rivoluzione italiana»19: tant’è che il consenso venne anche da deputati non dichiaratamente repubblicani che lo stesso Rusconi calcolerà in un terzo del totale. A sorprendere era semmai il fatto che alla testa della rivoluzione venisse a trovarsi una città come Roma che da sempre era considerata refrattaria a ogni possibile sovversione. Per la verità c’era stato un precedente, quello della Repubblica romana del 1798-99, ma tra gli uomini del ’49 non furono in molti a rievocarlo, e i più parvero averlo rimosso dalla memoria; quanto agli storici, hanno sempre faticato a trovare qualche aggancio anche solo ideale con l’esperienza di cinquant’anni prima20 sbocciata all’ombra del giacobinismo d’oltralpe. Per la proclamazione ufficiale della Repubblica, fissata al mezzogiorno del 9 febbraio, si tornò sul Campidoglio. La folla, che la notte aveva seguito i lavori dell’Assemblea fino alla conclusione per poi dare il via ai primi festeggiamenti, col passar delle ore si era fatta più fitta: l’annunzio ufficiale le fu dato dal presidente dell’Assemblea, il bolognese Giuseppe Galletti. Il resto della città apprese la novità attraverso il suono delle campane e le salve dei cannoni di Castel Sant’Angelo che – ricorderà un pittore olandese – «sembrarono sparare tutti insieme, quando, dall’alto della scalinata capitolina, risuonò la novella che Roma, la città ecclesiastica per eccellenza, era diventata una Repubblica»21.

  Rusconi, La Repubblica romana cit., p. 75.   Ci ha provato M. Formica, La Repubblica romana del 1798 e quella del 1849: un confronto, in «Rassegna storica del Risorgimento», n.s. per il 150° anniversario della Repubblica romana del 1849, LXXXVI, 1999, pp. 189-204. Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, p. 752, è del parere che nella Roma del 1849 non si videro «giammai le sciocchezze che si videro sotto la repubblica del 1798»: si riferisce all’esteriore imitazione del modello francese che caratterizzò la scena romana di fine Settecento. 21   J.P. Koelman, Memorie romane, a cura di M.L. Trebiliani, Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, Roma, 1963, vol. I, p. 197. 19 20

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La controffensiva del papato Quando la notizia della proclamazione della Repubblica arrivò a Gaeta, Pio IX non poté fare altro che lanciare la sua protesta, l’ennesima, all’intero corpo diplomatico. Il decreto del 9 febbraio vi era qualificato come un esempio di ingratitudine, empietà e stoltezza, ma non parve molto saggia la caparbietà con cui il papa continuava ad attribuire alla «stessa ardita fazione, nemica funesta dell’umana società»22 una presa di potere quale quella repubblicana che certamente non si era verificata contro il volere della popolazione e che anzi era stata convalidata con le procedure proprie delle democrazie liberali. Fatto sta che a partire da quella protesta, gli eventi presero a succedersi con un ritmo ben più veloce di quello dei mesi precedenti. Quasi per effetto di una regia invisibile ma non sprovveduta, si mise infatti in moto un processo di graduale destabilizzazione della intera Penisola e si determinò nel giro di poche settimane una situazione di crisi che risparmiò soltanto la Lombardia, ossia la regione che un anno prima era stata la più irrequieta ma che poi era tornata sotto il ferreo controllo dell’Austria. Tra il 7 e l’8 febbraio Leopoldo II, granduca di Toscana e parente dell’imperatore austriaco, pur di non piegarsi alla Costituente del suo Stato pensò bene di lasciare il granducato dopo che per una settimana aveva recitato la poco dignitosa commedia di una indisposizione che l’aveva costretto a spostarsi da Firenze a Siena, città nota per un clima decisamente più propenso alla reazione: fuggito alla chetichella, scelse come luogo di rifugio quella Gaeta che con lui diventava una sorta di refugium peccatorum dei sovrani pentiti di essersi fatti ammaliare dalle sirene del liberalismo. Secondo l’inviato sardo a Gaeta, Pio IX e Antonelli non nascosero la loro soddisfazione per questo arrivo23. Incoraggiato da così autorevoli presenze, il 13 marzo Ferdinando II attuava lo scioglimento del Parlamento napoletano senza impegnarsi a riconvocarlo; intanto il 19 febbraio a Torino il presidente del Consiglio Gioberti, visto respinto il proprio progetto di intervento militare in Toscana già   Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, p. 224.   Dispaccio di E. Martini, 12 febbraio 1849, in La diplomazia del Regno di Sardegna cit., vol. II, p. 421. 22 23

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concordato con il granduca, presentava a Carlo Alberto le proprie dimissioni. In tutto questo vorticare di colpi di scena solo apparentemente non collegati tra loro, quello più importante per il futuro della Repubblica romana lo provocò il cardinale Antonelli il 18 febbraio indirizzando al corpo diplomatico presente a Gaeta una nota con la quale, riassunta la storia di due anni di pontificato e dell’esilio papale che li aveva coronati, affermava il pieno diritto del papa a tornare sul suo trono. Ma questo, faceva notare Antonelli, non era più nelle sue possibilità. Pertanto, poiché l’Austria, la Francia, la Spagna e il Regno delle Due Sicilie si trovano per la loro posizione geografica in posizione di potere sollecitamente accorrere colle loro armi a ristabilire nei dominj della Santa Sede l’ordine manomesso da un’orda di settarj; così il Santo Padre fidando nel religioso interesse di queste Potenze figlie della Chiesa, dimanda con piena fiducia il loro intervento armato per liberare principalmente lo Stato della Chiesa da quella fazione di tristi, che con ogni sorta di scelleraggini vi esercita il più atroce dispotismo24.

Oggi questo linguaggio potrà suonare leggermente enfatico, e anche un po’ esaltato, perché a parlarlo era una istituzione che solo un anno prima aveva ritirato le truppe inviate a combattere gli austriaci con la buona ragione che i soldati del papa non potevano esser messi nella condizione di dover far fuoco e forse uccidere altri soldati cattolici: un’ipotesi, codesta, che nel 1849, pur destinata a riproporsi ai danni di coloro che fino a poche settimane prima erano stati i sudditi del papa, Gaeta non prendeva nemmeno in considerazione. Il fatto è, però, che Antonelli usava il linguaggio che le potenze volevano ascoltare: «La causa è dell’ordine e del cattolicismo», diceva ancora la nota; e l’ordine premeva senza dubbio a tutta l’Europa che contava, forse anche più delle sorti del cattolicesimo: tant’è che l’Austria non ebbe bisogno di nessuna nota per comandare ai propri uomini, quello stesso 18 febbraio, di passare il Po ed entrare a Ferrara, dando così inizio all’invasione dello Stato pontificio e non perdendo d’occhio la Toscana (forse non è senza significato il fatto che il 4 febbraio fosse arrivato a Gaeta Moritz   Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, p. 238.

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Esterhazy, inviato straordinario austriaco «chargé d’une mission spéciale»25, che era probabilmente quella di rassicurare Pio IX sulla disponibilità dell’Austria a dare il via a una delle specialità dell’Impero: la neutralizzazione manu militari dei focolai di insurrezione). Quasi contemporaneamente la Francia cominciava ad ammassare truppe a Tolone per tenerle pronte a partire, via mare, alla volta di Civitavecchia: Luigi Napoleone aveva infatti superato le perplessità sull’utilità di un intervento armato che quando non era ancora presidente aveva esternato in una lettera aperta a un giornale francese dicendosi in ansia per la pace europea26. Con il candore tipico di certi militari, fu il generale Lamoricière, già eroe dell’occupazione dell’Algeria, a dire alla fine che il vero obiettivo di una eventuale spedizione doveva essere quello di salvare «la libertà e l’influenza della Francia in Italia»27. Che Francia e Austria, ciascuna con una sua particolare motivazione, fossero decise a far valere la loro forza militare contro i ribelli dello Stato pontificio non era dunque dubbio. Il problema stava semmai nel coordinare l’azione congiunta di due superpotenze da sempre ai ferri corti. Febbraio divenne dunque il momento delle consultazioni convulse, della febbrile preparazione di uno scenario che vedeva la politica europea impegnata a soffocare questa fastidiosa coda del ’48. Col chiaro intento di inserirsi in un concerto cui non mancava il contributo della Russia, orientata anch’essa verso la repressione pura e semplice, perfino il Piemonte governato da Gioberti mise rapidamente a punto, malgrado la grave crisi indotta dall’andamento del conflitto con l’Austria, una strategia di intervento militare che aveva il doppio scopo di evitare l’ennesimo arrivo di eserciti stranieri nella Penisola e di portare all’esterno le difficoltà di una situazione che all’interno, nel Regno sardo, vedeva le forze politiche divise da una spaccatura insanabile. Forse non era estranea a questo piano anche la speranza di accreditarsi come una piccola potenza regionale, a scapito degli altri Stati italiani, e di rimediare qualche compenso. Ma la voce del governo di Torino era troppo debole e allo stesso tempo troppo interessata per essere presa in considerazione.   Liedekerke de Beaufort, Rapporti delle cose di Roma cit., p. 153.   P. Moderni, I Romani del 1848-49, Società tipografico-editrice nazionale, Roma, 1911, pp. 185-186. 27   Ivi, p. 204. 25 26

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Il disegno di Mazzini Giuseppe Mazzini sbarca a Livorno alle prime luci dell’8 febbraio 1849. Due giorni prima si è imbarcato a Marsiglia, dove si è fermato per circa un mese ad aspettare che la situazione a Roma si chiarisca. Convocata la Costituente romana, è l’esito delle elezioni a dargli la certezza che non manchi molto perché si proclami la Repubblica. Stando ai suoi piani, il passo successivo dovrebbe essere rappresentato dall’unificazione di Roma e Toscana, dalla convocazione della Costituente italiana, e, in parallelo, dalla ripresa della guerra all’Austria. Stavolta sarebbe guerra nazionale davvero, e non più guerra dinastica, come quella del Piemonte dell’anno prima, finalizzata a un ingrandimento del Regno sabaudo. Mazzini sa bene, però, che se dovesse puntare soltanto sullo spirito guerriero degli italiani, per giunta indebolito dai disastri del ’48, il suo disegno non avrebbe molte probabilità di realizzarsi. Il futuro come lo vede lui è chiaro, e per questo ha passato un mese a Marsiglia nel tentativo di tastare il polso della politica francese: se a Roma prende corpo la Repubblica, di sicuro l’Austria interviene, tanto più se dalla Toscana fugge il granduca («fuga che, per noi, sarebbe la nostra salute»28). A quel punto è impossibile che la Francia stia a guardare. È questa la sua grande illusione: che nel momento in cui il principio repubblicano si afferma a Roma anche Parigi sia obbligata a schierarsi. Come scrive a Mameli il 19 gennaio, la Costituente e poi la Repubblica a Roma costringeranno la Francia a «venir dalla nostra. Comunque esista ora in Francia poco più che il nome di repubblica, la Repubblica Francese non può operar contro un’altra repubblica né lasciare ch’altri violi apertamente l’indipendenza d’una repubblica legalmente costituita»29. Conviene ricordare questo convincimento – basato, come si è già detto, su un’interpretazione estensiva dell’art. V della Costituzione della II Repubblica e sui buoni rapporti personali di Mazzini con i repubblicani transalpini – perché condizionerà a lungo il suo atteggiamento nei confronti della spedizione francese. Se ne avvertiranno i primi effetti già il 30 aprile, al momento del primo

  Ivi, p. 278.   E.N.S., vol. XXXVII, p. 279.

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scontro con le truppe del generale Oudinot, comandante del corpo di spedizione francese. Per ora, comunque, la cose sembrano procedere proprio come ha previsto Mazzini: a Roma le elezioni vanno nel senso desiderato; Leopoldo II lascia di corsa la Toscana, ed è Mazzini stesso che dal balcone del suo albergo livornese comunica la notizia al popolo festante che lo acclama; dall’osservatorio di Livorno, città quanto mai inquieta e perciò stesso poco in sintonia col resto del Granducato, sembra che non ci debbano essere difficoltà a ottenere che la Toscana, e magari anche Venezia e la Sicilia, ossia tutte le altre parti d’Italia ancora insorte, si uniscano a Roma e mandino i loro rappresentanti alla Costituente italiana. Mazzini ne è tanto sicuro che comincia a darsi da fare per organizzare alcuni corpi armati, anche in previsione di un attacco delle truppe romane al Regno meridionale, che con la Sicilia insorta da una parte e le armate repubblicane dall’altra non avrebbe più scampo. Andrà incontro a una grossa delusione quando capirà, tra non molto, che la Toscana non si governa dalla rumorosa Livorno ma dalla più discreta Firenze e che il Triumvirato lì al potere, in cui è gran parte il romanziere Francesco Domenico Guerrazzi, per vari motivi – tra i quali indubbiamente il municipalismo, che ha in quella regione la sua patria – non prevede di legarsi a Roma. In nessun modo. In nome di Dio e del popolo Intanto a Roma l’Assemblea e il governo, consapevoli delle aspettative determinate nell’opinione pubblica, non avevano atteso il 9 febbraio per mettersi al lavoro e varare una serie di provvedimenti con cui introdurre importanti e significative novità nell’ordinamento dello Stato. Si consideri, peraltro, che già col governo entrato in carica dopo l’omicidio Rossi si era avviata in economia una politica di eliminazione dei vincoli fidecommissari mirata a liberalizzare la circolazione dei beni immobili30. Come si vedrà, la Repubblica si attenne in parte a tale linea. Rispetto

30   Demarco, Una rivoluzione sociale cit., pp. 29-33, che esamina anche le critiche mosse al provvedimento da C.L. Bonaparte.

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alle prime decisioni simboliche, quali quella presa il 30 gennaio dal prefetto di polizia con l’ordine di rimuovere gli stemmi pontifici da tutti gli edifici pubblici, escluse le chiese, i luoghi pii e le residenze diplomatiche, o l’altra, di poco successiva, di scegliere come bandiera della Repubblica il tricolore «coll’aquila romana sull’asta»31, o l’altra ancora che imponeva un discutibile giuramento di fedeltà ai dipendenti pubblici, ben altro impatto ebbero le misure introdotte subito dopo il 9 febbraio. Per prima cosa il 10 si procedette alla formazione di un Comitato esecutivo composto di tre membri, due romani – Carlo Armellini e Mattia Montecchi – e un napoletano, il giurista Aurelio Saliceti (in realtà era della provincia di Teramo, ma aveva insegnato per molti anni a Napoli, dove nel ’48 era stato per breve tempo anche ministro di Grazia e Giustizia32). Erano elementi di valore ma non di grandissima personalità, e ciò si riverberò nell’attività del Comitato di cui facevano parte. Con autorevolezza si è affermato che questo primo esecutivo «aveva contraria la sinistra perché non era rivoluzionario e la destra perché dimostrava che non era possibile percorrere le vecchie strade»33. Va però specificato che il Comitato lavorò discretamente sulla situazione interna del paese che conosceva bene, mentre è vero che trascurò quasi del tutto la politica estera e incontrò molte difficoltà nell’affrontare la spinosa questione dell’organizzazione militare dello Stato. Il 12 febbraio l’Assemblea decretò che tutte le leggi fossero promulgate «in nome di Dio e del Popolo»34, e non c’è bisogno di precisare a quale pensiero ci si ispirasse; il 13 furono bloccate tutte le alienazioni di beni ecclesiastici mobili e immobili concluse dopo il 24 novembre 1848. Il 15 l’esecutivo nominò il nuovo Governo, nelle persone di monsignor Carlo Emanuele Muzzarelli, presidente del Consiglio e ministro dell’Istruzione; Aurelio Saffi, ministro dell’In31   Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, p. 217. In alcune versioni il tricolore romano recava la scritta trasversale «Dio e Popolo». 32   Su di lui avremo modo di tornare. Luigi Settembrini lo ricorderà «uomo di fiera e terribile natura, dissimile dalla floscia indole napoletana, breve nelle parole e nei fatti, chiaro nei giudizi, pertinace nelle opinioni» (L. Settembrini, Cronaca degli avvenimenti di Napoli nel 1848, in Id., Opuscoli politici editi e inediti (1847-1851), a cura di M. Themelly, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1969, p. 191). 33   E. Morelli, I verbali del Comitato Esecutivo della Repubblica romana, in «Archivio della Società romana di Storia patria», LXVII, 1949, p. 30. 34   Atti Roma, vol. III, p. 148.

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terno; Giovita Lazzarini, ministro di Grazia e Giustizia; Carlo Rusconi, agli Esteri; Ignazio Guiccioli, alle Finanze; Pietro Sterbini, al Commercio e ai Lavori Pubblici, Pompeo di Campello, alla Guerra e Marina. Tranne Sterbini, ciociaro, e Campello, umbro, erano tutti originari delle province settentrionali dello Stato, con ciò confermando il peso avuto dalle Legazioni e dalla Romagna nella formazione del nuovo regime; in due – Muzzarelli e Guiccioli – avevano fatto parte dell’Alto Consiglio di Pio IX, mentre il solo Campello era stato membro del Consiglio dei Deputati. Molti di essi, infine, si erano fatti conoscere attraverso i circoli o collaborando ai giornali, e ciò conferma che stampa e associazionismo erano stati i motori della rivoluzione. Ora tutti insieme esposero un programma forse troppo ambizioso ma ricco di prospettive d’innovazione, basato com’era sulla riforma dello Stato, il rilancio dell’istruzione pubblica, il risanamento finanziario, la riforma dei codici e quella amministrativa, una legge municipale di forte decentramento (con le elezioni comunali fissate al 9 marzo), la piena libertà dei culti. E tuttavia si ribadì ogni possibile garanzia al pontefice per l’esercizio del potere spirituale, secondo un principio di separatismo che contrastava con l’idea mazziniana – per la verità abbastanza vaga – di una Roma del Popolo capace di esprimere da sé sotto forma di religione civile una propria forza spirituale che si facesse interprete della legge di Dio. Quando si trovò di fronte alla realtà di una Repubblica laica impostata su basi diverse da quelle da lui auspicate, Mazzini dovette metter da parte l’ipotesi cui teneva di più, quella, cioè, di un Concilio che attuasse una riforma religiosa sulla quale erigere la «Chiesa universale dell’Umanità»35 e che, assieme alla Costituente, fungesse da pietra angolare della nazione. Questo per rispondere a coloro che già allora ma ancor più in seguito lo accuseranno di aver voluto sempre imporre a tutti il proprio punto di vista36. 35  I. Bonomi, Mazzini triumviro della Repubblica romana, Einaudi, Torino, 1940, p. 71. 36   Anche di recente qualche biografo, banalizzando il tema, gli ha attribuito «un’indisponibilità a riconoscere che “il mondo” potesse avere ragione». Si veda G. Belardelli, Mazzini, Il Mulino, Bologna, 2010, p. 59, in part. p. 152, dove l’accusa generica di «contrarietà ai partiti» da parte di Mazzini non tiene minimamente conto del fatto che era stato proprio Mazzini a fondare con la Giovine Italia quello che si considera generalmente il primo partito della storia italiana, cui altri ne seguiranno prima e dopo l’Unità.

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Una misura importante fu quella con cui l’Assemblea autorizzò la Banca Romana a stampare carta moneta per 1.300.000 scudi, di cui 900.000 per le urgenze dello Stato e 400.000 come sostegno alle attività commerciali di Bologna e di Ancona, tradizionale polmone economico dello Stato che lo stallo dei mesi precedenti aveva fortemente penalizzato (e siccome non tutto andava a gonfie vele, la mancata erogazione di quest’ultimo stanziamento indusse alle dimissioni il ministro Guiccioli, subito imitato dal collega di Guerra e Marina). In verità, a preoccupare di più era appunto la situazione finanziaria: la Repubblica aveva ereditato un deficit altissimo, pari a 5.000.000 di scudi, il che rendeva problematico attuare le previste riforme e gli investimenti necessari, non ultimo quello riguardante il settore militare in favore del quale l’Assemblea si affrettò il 24 febbraio ad autorizzare l’assegnazione di un fondo per l’acquisto di 15.000 fucili. Ma in questo campo i provvedimenti più significativi e più coraggiosi furono la legge sull’incameramento dei beni ecclesiastici (21 febbraio)37, con l’intesa che sarebbe stato il Governo a provvedere alle spese per il culto, e la legge sul prestito forzoso (27 febbraio) da imporre a famiglie ricche, imprese commerciali, possidenti, in una misura che per i redditi superiori ai 12.000 scudi annui poteva arrivare fino ai due terzi e che fu resa pagabile in tre rate, la prima delle quali con scadenza al 31 marzo: poca cosa, per la verità, rispetto a una condizione delle finanze pubbliche destinata a peggiorare col passare del tempo e inutilmente contrastata con misure quali i prestiti forzosi (oltre quello già ricordato, un altro per 30.000 scudi fu decretato a carico della Santa Casa di Loreto), l’emissione di buoni del tesoro garantita dai beni nazionali, la circolazione di una moneta che, avendo un valore assai ridotto rispetto a quello nominale, fu detta «erosa» e, come è comprensibile, riscosse scarsissimo gradimento da parte dei consumatori38. Di investitori esteri, in questa situazione, neanche l’ombra.   Ne sottolinea l’importanza Demarco, Una rivoluzione sociale cit., pp. 107-

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114.

  Di Nolfo, Il 1849 cit., p. 535. La discussione e l’approvazione di tutti questi provvedimenti si possono seguire attraverso la consultazione del volume III delle Assemblee cit. Su tutta la materia dei rapporti tra la Repubblica e la Chiesa si rinvia a D. Arru, La legislazione della Repubblica romana del 1849 in materia ecclesiastica, Giuffrè, Milano, 2012, in part., per la questione dei beni ecclesiastici, pp. 63-73. 38

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Si cercò inoltre di marcare con chiarezza la distanza delle istituzioni repubblicane da quelle papali, come era lecito aspettarsi da un regime che era nato all’insegna della libertà: così che, dopo l’abolizione del Tribunale del Sant’Uffizio (più noto come Santa Inquisizione), approvata sin dal 12 febbraio con un occhio attento all’opinione pubblica anglosassone che ne aveva fatto un banco di prova della credibilità liberale della Repubblica, e dopo la parallela chiusura di tutti i tribunali eccezionali, arrivarono anche l’eliminazione di ogni tipo di censura sulla stampa e la soppressione del controllo delle diocesi sull’istruzione pubblica d’ogni ordine e grado. Fu in questi campi, e in quello dei lavori pubblici, assegnato per breve tempo a Sterbini e da lui rilanciato per dar sollievo ai numerosi disoccupati, che i Romani poterono apprezzare i cambiamenti più evidenti. Se ne giovò molto il giornalismo che visse cinque mesi di quasi totale libertà assistendo alla nascita e spesso alla rapida fine di fogli di ogni colore e orientamento. A proposito della stampa, ecco come più tardi un memorialista straniero rievocò il clima di quel periodo: La stampa aveva scosso il giogo dell’Inquisizione; si era liberi di pubblicare e di credere quello che si voleva e al Costituzionale di Roma, che stampava delle sciocchezze cosiddette religiose, nulla e nessuno impediva di farlo: lo stesso diritto però, permetteva agli altri giornali di riportare al loro giusto valore i suoi troppo fantastici articoli. Un nuovo giornale eccelleva fra tutti per lo spirito satirico e l’umorismo con i quali minava quelle assurde dichiarazioni, parodiando le calunnie che il Costituzionale, con incomprensibile fanatismo, si ostinava a pubblicare contro tutto ciò che non fosse cattolico. Il “Punch” romano si chiamava Don Pirlone ed ogni settimana forniva ai lettori i suoi spiritosi disegni o caricature eseguiti dai migliori artisti, che, secondo il caso, o ci facevano ridere di cuore o ci inducevano a meditare seriamente39.

Stimolare la verve satirica dei Romani funzionava sempre, come da tradizione. Molto meno apprezzati erano invece quei provvedimenti che dessero l’impressione di voler profanare le sedi religiose, perché col sacro non si scherzava: lo si capì quando si vide il popolo ribellarsi contro il sequestro delle campane decretato a   Koelman, Memorie romane cit., vol. I, p. 208.

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carico di tutte le chiese escluse le basiliche e le chiese «nazionali» (dei tedeschi, dei francesi, dei portoghesi ecc.); e lo stesso avverrà quando per le presunte esigenze della difesa si cominceranno ad asportare i confessionali e altri arredi sacri, tanto da costringere il governo in entrambi i casi a imbarazzate marce indietro. Era una questione di devozione popolare, senz’altro; ma c’entrava qualcosa anche l’innato gusto estetico di una popolazione orgogliosa dei propri monumenti e istintivamente consapevole di cosa essi significassero per l’identità collettiva. Quando i governanti romani ne presero coscienza, prima, in tempo di pace, mostrarono particolare sollecitudine verso le esigenze lavorative degli artisti e decisero, ad esempio, di decorare il Pincio con i busti di uomini che si erano resi illustri per patriottismo o per cultura40, in modo da «realizzare l’ideale elegiaco-giacobino d’una comunità cittadina che nei giorni di festa si educasse ai sensi d’uno schietto amor di patria»41; poi, con l’inizio dei bombardamenti francesi, si resero conto che la tutela del patrimonio artistico cittadino poteva sensibilizzare l’opinione pubblica straniera sulle sorti della Repubblica molto di più di quanto fossero in grado di fare gli appelli e i documenti politici del Triumvirato o dell’Assemblea. Infine, vale la pena di accennare all’istituto delle «petizioni» che l’Assemblea varò, «con una nota di originalità»42, affidandone la delega sin dal 12 febbraio a un’apposita Commissione composta da nove deputati. Si intendeva offrire così ai cittadini la possibilità di sottoporre direttamente all’Assemblea problemi, bisogni, reclami, domande di lavoro, torti presunti o reali: cosa che avvenne regolarmente per tutta la durata della Repubblica, e perfino negli ultimi giorni dell’assedio, quando l’aula era impegnata nella discussione della Costituzione. Era un modo per far sentire ai cittadini quanto le nuove istituzioni fossero distanti da quelle 40   Si veda sull’argomento in genere G. Monsagrati, L’arte in guerra. Monumenti e politica a Roma al tempo dell’assedio del 1849, a cura di M. Caffiero, in «Roma moderna e contemporanea», n.u. 1-3, IX, 2001, pp. 217-262. 41   B. Tobia, Riti e simboli di due capitali (1846-1921), in Storia di Roma dall’antichità a oggi. Roma capitale, a cura di V. Vidotto, Laterza, Roma-Bari, 2002, pp. 371-372. 42   M. Ferri, La Costituente romana nel 1849, in «Rassegna storica del Risorgimento», LXXXVI, 1999, n.s. per il 150° anniversario della Repubblica romana del 1849, p. 172.

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del papato, notoriamente irraggiungibili dai comuni mortali, e fu preso molto sul serio dai membri della Commissione incaricati di portare le petizioni in Assemblea: una volta che ne fosse stata riscontrata la fondatezza, si prendeva in tempi rapidi una decisione nel merito. Che le petizioni rispondessero a un’esigenza assai sentita lo si vide dalla frequenza e dal numero delle segnalazioni presentate all’Assemblea: in genere si può dire che le ispirasse una certa fiducia nell’efficienza e nella correttezza del nuovo regime. Benché da parte dei Costituenti e dell’esecutivo si facesse il possibile per dare un contenuto concreto al concetto di democrazia, non mancarono, sin dall’inizio, episodi sporadici di dissenso che in alcune zone specifiche – nell’Ascolano e nell’Anconetano, ad esempio, o nella zona di Orvieto – furono il preannunzio di forme di opposizione più risolute e meglio organizzate ma mai veramente incisive; allo stesso modo, per converso, furono segnalati casi isolati di violenza contro ecclesiastici dei quali si diceva che nascondessero armi o che agissero da collegamento con l’esterno. Se ne riparlerà più avanti, ma in proposito pensiamo possa valere, almeno per questo primo scorcio di vita repubblicana, l’opinione di chi ha ricordato quanto «osservarono con stupore gli stessi sostenitori del papa rimasti a Roma», e cioè che «gli organi dello Stato, amministrativi e giudiziari, mantennero senza gravi resistenze autorità e ordine anche mentre si accingevano a trasformarsi secondo i nuovi principi»43. Coloro che non erano d’accordo (presumibilmente non pochissimi) scelsero la strada della resistenza passiva (o dell’espatrio) e lasciarono che la storia seguisse il suo corso. In mezzo, stava una larga fascia di popolazione, inizialmente passiva nell’attesa di sviluppi più significativi. Non tutti percepirono subito i vantaggi offerti dal nuovo regime. Anzi, con la fuga da Roma di nobili, alto clero e ricchi possidenti, «una caterva di famigliari e di servi»44 si trovò improvvisamente senza lavoro, con inevitabili contraccolpi sulla tranquillità sociale. Ciò malgrado, ecco come uno storico papalino racconta uno dei riti in cui la plebe era solita scatenarsi impossessandosi della città: «Il   Caracciolo, Lo Stato pontificio cit., p. 663.   «Il Contemporaneo», 24 gennaio, 1849 (citato da Bartoccini, Roma nell’Ottocento cit., p. 278). 43 44

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carnevale ch’ebbe luogo in Roma durante la repubblica, se non fu dei più brillanti per numero di gente, fu brillante abbastanza per la gaiezza che vi prevalse e per l’ordine che vi si mantenne. Una gran parte però del mezzo ceto e quasi tutta l’aristocrazia s’astennero dal prendervi parte»45. Dell’aristocrazia si è già detto. Quanto al ceto medio, la rivoluzione era stata in gran parte opera sua. A Roma Ciceruacchio, grande trascinatore di folle a sostegno del papa riformatore (per poi manifestargli contro nelle lunghe pause tra una riforma e l’altra), era un commerciante di vini. Alla borghesia mercantile appartenevano anche il Natale Del Grande caduto nella difesa di Vicenza e il Bartolomeo Galletti che comanderà una delle unità di combattimento della Repubblica. Dietro di loro, tutto uno stuolo di «appaltatori, monopolisti, industriali, commercianti, usurai, amministratori di case magnatizie, fattori, caporali, nuovi proprietari, grandi affittuari, mercanti di campagna, rigattieri, bottegai, osti. Gente semplice ma bramosa di elevarsi...»46. Altri grossi spezzoni di borghesia comprendevano fittavoli, avvocati, medici, professori, impiegati pubblici, artisti, la cui condizione era un po’ quella del terzo stato descritto da Sieyès: erano tutto, non contavano nulla e aspiravano a «essere qualche cosa»47; sotto di loro il popolo delle attività manifatturiere, della produzione agricola, dell’artigianato. Chi sicuramente apprezzò l’instaurazione della Repubblica nel suo reale valore fu la Comunità israelitica – allora si chiamava Università – che il 17 aprile 1848 aveva salutato con enorme soddisfazione il provvedimento con il quale Pio IX aveva decretato l’abbattimento delle porte del ghetto. Erano poi seguite altre piccole innovazioni con cui il papa aveva mostrato di volere effettivamente rimuovere annosi pregiudizi e soprusi48, ma in definitiva la Comunità era rimasta delusa dal permanere di antiche interdizioni, limitative della libertà e del pieno godimento dei diritti. Il governo repubblicano, al contrario, considerò gli ebrei cittadini   Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, p. 260.   Demarco, Una rivoluzione sociale cit., p. 15.   G. Salvemini, La Rivoluzione francese (1788-1792), a cura di F. Venturi, Feltrinelli, Milano, 1962, p. 86. 48   Come la predica forzata e l’umiliante omaggio alle autorità capitoline accompagnato da relativa tassa: vedi A. Milano, Il ghetto di Roma. Illustrazioni storiche, Staderini, Roma, 1964, pp. 119-120, 195, 322, dove si precisa che la tassa restò. 45 46 47

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come tutti gli altri: il che volle dire che se finalmente si aprirono anche ai membri della Comunità gli arruolamenti nella Guardia Civica, e fu questa una novità molto gradita, con molto minore entusiasmo furono accolti il prestito forzoso e, al tempo dell’assedio, le continue richieste di forniture di vestiario per le truppe repubblicane. Le forniture comunque vennero garantite, mentre è lecito qualche dubbio sul fatto che fossero puntualmente pagate. Dagli ebrei la Repubblica ottenne anche una partecipazione più attiva: nella Costituente ne figuraroro tre di provenienza esterna, mentre erano romani i tre consiglieri ebrei eletti nelle liste comunali. Qualcuno imbracciò anche il fucile, e due persero la vita combattendo al Vascello49. A completare il quadro, il clero (nella sola Roma, a metà Ottocento, su una popolazione complessiva di 170.000 abitanti la componente maschile ammontava a circa 3500 tra regolari e secolari; con le suore si arrivava quasi a 5000), e la plebe, che nella Capitale si concentrava soprattutto nei rioni Monti, Trastevere, Regola e Campo Marzio, elemento essenziale di una realtà cittadina che faceva un tutt’uno con le cerimonie religiose attirando folle di turisti amanti del colore locale50. Su quei volti, nella fierezza dei loro comportamenti, i forestieri speravano di cogliere qualche ricordo della Roma classica. 49   Id., Storia degli ebrei in Italia, con una nota di A. Cavaglion, Einaudi, Torino, 1992, p. 363. 50   Per un accurato riepilogo dei dati statistici disponibili sulla composizione sociale della Capitale si veda Bartoccini, Roma nell’Ottocento cit., pp. 258-269.

IV Fondare la nazione da Roma Triumvirato vs Assemblea? Mazzini arriva a Roma la sera del 5 marzo, all’inizio di un mese che quanto a colpi di scena si rivelerà non meno ricco del precedente. Lo stato d’animo con cui entra in città non è dei migliori: avrebbe voluto portare con sé la notizia della prossima fusione con la Toscana quale primo nucleo della futura Repubblica italiana, e invece a Firenze ha avuto la conferma di una sensazione che lo tormenta da tempo, e che nasce dalla convinzione che «chi tiene indietro l’Unità è la stolida ambizione di tre o quattro città»1: di Venezia, orgogliosa del proprio passato municipale; della Toscana e di Firenze soprattutto che, avendo un’identità molto forte, teme a ragione di essere schiacciata da Roma come città d’arte; della Sicilia, sempre vogliosa di affermare la sua secolare coscienza di nazione. Si rifugia pensieroso in albergo – l’Hotel Cesàri, vicino piazza di Pietra – ma la sera del 6 deve rispondere alle acclamazioni della folla accorsa sotto le sue finestre. Del suo giro in Toscana non può mettere in risalto i grandi risultati politici da tutti attesi. Allora se la cava con un’esortazione a credere nel «principio repubblicano proclamato in Roma»2, solida garanzia di vittoria finale. Il giorno dopo entra in Assemblea mentre la seduta è in svolgimento. Riceve l’accoglienza che si riserva a un nume tutelare, al portatore di un ethos, di un’ideologia e di una costanza che 1  Lettera a Giuseppe Lamberti, 30 novembre 1848, in E.N.S., vol. XXXVIII, p. 100. 2   Ivi, vol. XLI, p. 4.

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hanno prodotto la politica da cui venticinque giorni prima è nata la Repubblica, l’unico politico italiano che abbia un peso indiscusso anche all’estero. Da qualche giorno ha dato alle stampe un articolo contenente un suo possibile programma di governo. Le idee sono quelle di sempre: Dio e Popolo, la legge del progresso, l’associazione come mezzo per realizzarla, il governo affidato ai migliori e soprattutto – rivolto a italiani e stranieri – un monito: «il rosso che scintilla sui nostri petti è simbolo di sacrificio, non di minaccia»3. E però, interrogato in Assemblea sugli ultimi sviluppi, Mazzini deve ammettere di trovarsi di fronte a qualcosa d’incompiuto: la soluzione che fino a poco tempo prima era sembrata a portata di mano, con Roma e la Toscana protese nello sforzo di creare un nucleo di repubblica aggregando a sé la Sicilia e Venezia, per i motivi appena accennati è chiaramente impraticabile. In più negli stessi giorni c’è in atto una piccola crisi ministeriale, con i ministri delle Finanze e dei Lavori Pubblici costretti a dimettersi per i rilievi dell’Assemblea sull’inefficacia della loro politica. Si prospetta così la prima impasse della Repubblica, provocata dalla difficoltà di rendere immediatamente produttivi i provvedimenti presi per migliorare la situazione finanziaria del paese. La condizione delle forze armate non è molto migliore, con i vari corpi poco organizzati, male armati e sparpagliati a difendere la superficie di uno Stato minacciato da più parti. Basta però la personalità di Mazzini per dare una svolta di concretezza alla vita delle istituzioni. Si tratta di una concretezza imposta dalle novità delle settimane successive al suo arrivo e a quel suo discorso del 10 marzo ai Costituenti in cui ha proposto come unico, vero obiettivo quello di «fondar la Nazione»4, sconsigliando per il momento di redigere il testo della Costituzione (è sempre forte in lui il timore di una riduzione dell’esperimento romano a una dimensione regionale). Considerate le complicazioni che si succedono a tamburo battente, con la ripresa della guerra del Piemonte contro l’Austria, l’immediata sconfitta delle truppe sabaude e l’avvio della repressione militare austriaca in tutta l’Italia centrosettentrionale (presto toccherà alla Toscana essere invasa), Mazzini 3   Ivi, vol. XXXIX, p. 83 (da un articolo di Mazzini per il giornale «La Costituente Italiana» del 15 febbraio 1849). 4   E.N.S., vol. XLI, p. 19.

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si mostra all’altezza della situazione. Non può fare miracoli né fa in tempo a soccorrere militarmente il Piemonte, sconfitto in un batter d’occhio a causa dell’incapacità (e forse anche di qualcosa di più dell’incapacità) dei suoi generali; così non riesce a trasformare la guerra del Regno subalpino in guerra nazionale, ma è in grado di far vedere come l’esecutivo non se ne stia inerte ad attendere la prevedibile reazione a favore del papa. Soprattutto, malgrado si dica di lui che non è un grande oratore, ha il potere di trasmettere a chi lo ascolta la sua stessa fede nella vittoria finale. Si è già detto della sua attenzione alla precaria collocazione internazionale della Repubblica. Da lì discendono altri problemi, altrettanto seri. Onde porvi rimedio, Mazzini prima suggerisce di creare una Commissione di Guerra che si occupi di una più razionale organizzazione dell’esercito5; quindi chiede che, tenuto conto dell’emergenza, si renda più forte e spedito il lavoro dell’esecutivo con la creazione di un organismo ristretto. L’Assemblea lo ascolta e il 29 marzo scioglie per decreto il precedente Comitato esecutivo e crea un Triumvirato dotato di «poteri illimitati per la guerra della indipendenza»6, ma – precisa – «senza che l’assemblea stessa sospenda il suo mandato». Gli viene accordato. Ma si badi bene: è l’Assemblea che, rinunziando in parte alle proprie prerogative, d’altronde non fissate ancora in una carta costituzionale, autorizza l’istituzione del Triumvirato. Dunque non si dà luogo a nessuna forzatura, ma si traduce in atto quello che sin dal 1831 era il pensiero di Mazzini in materia di insurrezione e che, conosciuto da allora, non gli aveva impedito di essere votato: «Lo stadio dell’insurrezione – si legge infatti nell’Istruzione generale per gli affratellati nella Giovine Italia risalente appunto al 1831 – cioè tutto il periodo che si stenderà dall’iniziativa alla liberazione di tutto il territorio italiano continentale, dev’esser governato da un’autorità provvisoria, dittatoriale, concentrata in un piccol numero d’uomini. Libero il territorio, tutti i poteri devono sparire davanti al Concilio nazionale, unica sorgente d’autorità nello Stato»7. Impossibile ogni confusione col concetto di dittatura giacobina propagandato all’epoca   G. Mazzini, Ricordi, in E.N.S., vol. LIX, p. 202.   E.N.S., vol. XLI, p. 321. 7   Ivi, vol. II, p. 53 (corsivo nostro). L’espressione «Concilio nazionale» era qui sinonimo di Costituente. 5

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da Filippo Buonarroti8; discutibile anche parlare di «dittatura sui generis»9, perché dittatori o si è o non si è, e per esserlo bisogna chiudere il Parlamento o farsene uno del tutto personale. Per Mazzini l’Assemblea resta sovrana. Lo si vede bene il 14 aprile, quando il Triumvirato propone di abolire l’appalto dell’annona e di fissare la tassa sul sale «a un baiocco la libbra»; qui interviene il principe di Canino secondo il quale sarebbe meglio detassare completamente il commercio del sale, al che Mazzini replica che il Triumvirato è contrario ma che il provvedimento «può essere oggetto d’una discussione dell’Assemblea», alla quale, al termine del suo intervento, chiede «non un voto di fiducia, ma una parola d’incoraggiamento che provi al popolo l’unità fra l’operato del Triumvirato e le ispirazioni dell’Assemblea stessa». Le sue parole, dicono i verbali, sono accolte con «applausi vivi e prolungati da ogni parte della sala e delle gallerie»10. Paradossalmente, si verifica semmai il caso che possa essere l’Assemblea a scavalcare involontariamente i triumviri. Lo fa notare il cattaneano Cernuschi, futuro dissidente antimazziniano, quando il 24 aprile osserva che, in virtù dei poteri illimitati concessi al Triumvirato, non possono essere i deputati a nominare i funzionari pubblici in quanto elementi che dovranno godere della fiducia del nuovo esecutivo11. Correttamente, Cernuschi crede nella collaborazione e non nella contrapposizione tra le due istituzioni: così, quando si tratta di stilare una protesta contro

8   Nel 1833 la rivista mazziniana «La Giovine Italia» accolse e pubblicò un articolo di Buonarroti: Del governo d’un popolo in rivolta per conseguire la libertà. Nella parte finale Buonarroti affermava che «l’esito felice della rivolta dipende forse dall’essere il potere supremo affidato ad un sol uomo dabbene». A queste parole Mazzini, in veste di direttore della rivista, appose una nota il cui esordio era: «Noi consentiamo in tutte le idee che l’articolo esprime, tranne in quest’una...»: seguiva una lunga spiegazione del perché del rifiuto, motivato in ben cinque punti. Si vedano il testo di Buonarroti e la nota di Mazzini nell’antologia di Scrittori politici dell’Ottocento, t. I, Giuseppe Mazzini e i democratici, a cura di F. Della Peruta, Riccardo Ricciardi, Milano-Napoli, 1969, pp. 199-200. Per un commento assai critico su Mazzini triumviro si veda Farini, Lo stato romano cit., vol. III, p. 313. 9   Severini, La Repubblica romana cit., p. 49. Per una riflessione analitica sul tema si vedano C. Vetter, Mazzini e la dittatura risorgimentale, in «Il Risorgimento», XLVI, 1994, pp. 1-45, e Id., Dittatura e rivoluzione nel Risorgimento italiano, Università degli Studi, Trieste, 2003. 10   Atti Roma, vol. IV, pp. 163-164. 11   Ivi, p. 295.

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l’arrivo dei francesi, lo fa d’accordo coi triumviri12, i quali, per parte loro, non entrano mai nelle discussioni limitando la loro presenza in aula a funzioni puramente informative. D’altronde Mazzini sa bene che la sua forza politica rispetto ai molti nemici della Repubblica sta nell’aver dietro di sé l’Assemblea, non nel dirigerla e tanto meno nel sovrapporvisi. Persino su una scelta importante come quella di resistere all’intervento francese Mazzini, ricorda Saffi, «si ritenne dall’intervenire alla seduta [dell’Assemblea] per non esercitare influenza sopra una decisione che doveva essere “espressione collettiva e spontanea” del Paese e de’ suoi rappresentanti»13. Così, anche chi ha espresso la convinzione che Mazzini impose all’Assemblea «un’ingerenza sempre minore negli affari di governo» ha precisato che egli poté farlo perché «salì al potere in un momento di crisi»14, quando, cioè, l’operatività dell’esecutivo era vista come garanzia di efficienza. Del Triumvirato del 29 marzo sono chiamati a far parte lo stesso Mazzini, destinato da subito a un ruolo di primus inter pares, il forlivese Aurelio Saffi e il romano Carlo Armellini. Tra i primi atti del nuovo esecutivo, quello di dimezzarsi «per riguardo alle tristi fortune del paese» l’assegno mensile portandolo da 300 a 150 scudi. Non si trattò di un provvedimento demagogico, perché non ricevette nessuna pubblicità, non provocò nessun commento tra i contemporanei e ne parlò soltanto Saffi quando la Repubblica era ormai caduta da alcuni mesi15. Quanto alla linea seguita dal Triumvirato nelle sue prime scelte, appare evidente che a orientarle è la previsione di una congiuntura in cui le decisioni debbano esser prese tempestivamente e senza estenuanti discussioni, anche a scapito del potere legislativo e delle sue attribuzioni, che tuttavia ci si guarda bene dall’annullare. Sarebbe come privare la Repubblica dell’istituzione che la distingue da quasi tutte le monarchie. La «concentrazione dei poteri» nel Triumvirato sembra all’Assemblea misura utile in vista di un prevedibile, veloce logora  Ivi, pp. 326, 329-330.   Saffi, Ricordi e scritti cit., vol. III, 1846-1849, G. Barbèra, Firenze, 1898, p.

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273.

  Morelli, I verbali del Comitato esecutivo cit., p. 30.   La testimonianza di Saffi in una lettera al direttore della torinese Concordia pubblicata nel numero dell’11 ottobre 1849. 14 15

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mento della situazione internazionale a favore della reazione. La sconfitta piemontese prelude appunto a questo, se una vecchia volpe come l’ex cancelliere austriaco Metternich dall’Inghilterra può osservare compiaciuto che dopo la fulminea vittoria delle truppe di Radetzky «il grido di “Austria for ever!” risuona sulle bocche di tutti i benpensanti inglesi, mentre i malintenzionati si nascondono»16. In verità, ancor prima della nomina a triumviro Mazzini, riprendendo una petizione dei circoli romani ispirata a posizioni già emerse in Assemblea, aveva suggerito a più riprese una temporanea sospensione dei lavori legislativi e una disseminazione dei rappresentanti del popolo nei rispettivi collegi onde esercitarvi un lavoro di pedagogia repubblicana. Ma su questo l’Assemblea, per quanto sicura della necessità di un «concentramento di energia» in un organismo ristretto17, non lo segue, probabilmente perché non vuole lasciare al solo esecutivo la decisione se partecipare o no all’imminente ripresa del conflitto tra Austria e Regno sardo. Precauzione inutile: quando a Roma ha luogo la svolta del 29 marzo, la guerra al Nord, cui lo stesso Mazzini vorrebbe in nome dell’indipendenza far partecipare le armi repubblicane, è già finita con la sconfitta del Piemonte e l’abdicazione di Carlo Alberto. Piuttosto è da considerare l’impronta politica che con l’istituzione del Triumvirato si dà alla vita della Repubblica. I triumviri ne parlano alla cittadinanza con un appello-programma diffuso il 5 aprile: per ciò che riguarda la direzione di marcia del nuovo esecutivo i passaggi importanti sono quelli relativi all’amministrazione (con promessa di «moralità nella scelta degli impiegati; capacità, accertata dovunque si può per concorso, messa a capo d’ogni ufficio»), alla politica finanziaria (controllo severo della spesa, guerra agli sprechi) e alla politica sociale, annunziata con una dichiarazione di intenti che vale la pena di riprodurre: Non guerra di classi, non ostilità alle ricchezze acquistate, non violazioni improvvide o ingiuste di proprietà; ma tendenza continua 16   C.L.W. von Metternich, Mémoires, documents et écrits divers publiés par son fils R. de Metternich, vol. VIII, IIIe part, La période de repos (1848-1859), Plon, Paris, 1884, p. 223 (traduzione nostra). 17   Atti Roma, vol. III, p. 856.

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al miglioramento materiale dei meno favoriti dalla fortuna, e volontà ferma di ristabilire il credito dello Stato, e freno a qualunque egoismo colpevole di monopolio...18

Come si vede, una chiara riproposizione dell’interclassismo mazziniano, cioè di quella concezione, rafforzata dal soggiorno in Inghilterra, secondo la quale la classe, tendendo a dividere, è antitetica alla nazione, che invece punterebbe a unire. È, questa di Mazzini, una rassicurazione avente come scopo quello di far sapere ai governi stranieri che da Roma non partirà nessun pericolo di contagio eversivo, nessuna parola d’ordine di marca comunista; contemporaneamente, si informano le restanti parti d’Italia sull’indirizzo non localistico ma decisamente unitario della Repubblica. Ma ciò che più colpisce di questo documento è il linguaggio, questo sì inedito, che se da un lato rivela nei tre firmatari tutta la consapevolezza del prestigio e del peso storico del principio repubblicano, forte di una legittimazione che nessun altro potere pubblico ha mai avuto, dall’altro evidenzia anche il senso di responsabilità con cui ci si accinge al tentativo di dare al territorio dell’ex Stato pontificio ordinamenti che anziché esaurirsi in se stessi costituiscano la base per l’affermazione del principio di nazionalità. «Roma – ricorderà a distanza di qualche anno un Felice Orsini comunque molto critico ex post verso Mazzini – era il solo punto in cui il concetto nazionale della libertà e della unità ampiamente si svolgesse»19. C’è poi un messaggio di presa più immediata ed è rivolto direttamente alla popolazione. È il messaggio, molto atteso, delle riforme che i triumviri attuano nei primi giorni del loro mandato, subito dopo aver provveduto – com’era nei loro poteri – a nominare un nuovo governo (con Carlo Rusconi agli Esteri e Giacomo Manzoni alle Finanze). Vediamone alcune: 3 aprile, decreto di sequestro dell’edificio che ospita il Tribunale del S. Uffizio e suddivisione dei suoi locali in appartamenti da affittare a poco prezzo a famiglie bisognose; 10 aprile, decreto che dispone l’assegnazione al Ministero degli Interni dell’Ufficio centrale di Statistica (perché «senza i dati statistici non si può mettere mano a riforme che   E.N.S., vol. XLI, pp. 90-91.   F. Orsini, Memorie politiche, Rizzoli, Milano, 1962, p. 84.

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riescano stabilmente utili»20); 10 aprile, decreto che accorda sette giorni di tempo per il pagamento della prima rata del prestito forzoso; 12 aprile, decreto che autorizza la polizia a procedere contro i colpevoli di «incettamento e aggiotaggio»21; 15 aprile, decreto che abolisce l’appalto del sale e riduce la tassa relativa; 15 aprile, decreto che stabilisce la ripartizione dei beni rustici già appartenenti alle corporazioni ecclesiastiche in lotti da assegnare in enfiteusi libera e perpetua a famiglie di coltivatori. E così via, fino a quel decreto del 27 aprile che, attribuendo a ogni famiglia composta di almeno tre persone una quantità di terra agricola pari a circa 20.000 metri quadrati, avvia un inizio di riforma agraria inteso a procurare alla Repubblica anche il consenso delle campagne22. Infine, si cercò pure, nel breve tempo a disposizione e con una situazione finanziaria tutt’altro che florida, di provvedere ai bisogni dell’esercito, alla circolazione monetaria, al sostegno ai commerci. Si voleva così fare intendere che la vita amministrativa del paese aveva completamente voltato pagina e veniva ora gestita secondo criteri di equità e giustizia prima del tutto trascurati. Ma in primo piano restava pur sempre il problema militare. Naturalmente c’è chi vorrebbe di più, soprattutto a beneficio della popolazione: un deputato, il folignate Cesare Agostini, che presto ritroveremo come relatore del primo progetto di Costituzione, il 26 aprile sottopone a Saffi una sua idea che mira a dividere le rendite dei canonici di S. Pietro tra gli abitanti di Trastevere e di Monti, ossia tra coloro che una lunga tradizione ha accreditato della qualifica di più coraggiosi tra tutti i romani, e di utilizzare allo stesso scopo i molti «fabbricati di monache, e frati» presenti in zona Gianicolo23. Sono misure che il Triumvirato eviterà di prendere in considerazione, probabilmente per non esasperare gli ambienti cattolici cittadini. Però che qualcuno le proponga sta forse a dimostrare che per ottenere da parte del popolo minuto una più intensa collaborazione in vista di una possibile resistenza bisognava garan  E.N.S., vol. XLI, pp. 102-103.   Ivi, p. 168. 22   Su queste riforme si vedano le considerazioni del ministro degli Esteri Rusconi, La Repubblica romana cit., pp. 90-91. 23   Museo centrale del Risorgimento di Roma (d’ora in poi M.C.R.R.), busta 255/15/2. 20 21

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tire qualche incentivo materiale. Non a caso, alla data del 29 aprile un americano, William W. Story, registrava nel suo diario l’atteggiamento indolente di alcuni lavoranti adibiti alla costruzione delle barricate. E commentava che di quel passo avrebbero impiegato tre giorni a fare quello che a Berlino si faceva in un’ora24. Del resto era da tempo immemorabile che sulla scarsa inclinazione dei romani al lavoro giravano voci niente affatto lusinghiere (e forse anche un po’ maligne) che col tempo erano diventate una verità incontrovertibile. Si avvicinava una buona occasione per farne almeno parzialmente giustizia. La minaccia della guerra Nel frattempo la fulminea vittoria austriaca in Piemonte (23 marzo), seguita immediatamente da una insurrezione scoppiata a Genova per sottrarre la città alla dominazione sabauda e subito repressa dall’esercito regio con un brutale intervento militare (45 aprile), rende ancora più urgente la riforma dei corpi militari repubblicani. Sta infatti per scattare un automatismo tipico della politica europea verso l’Italia: un allargamento anche temporaneo della presenza dell’Austria nella Penisola non può non dar luogo a una immediata risposta della Francia nello stesso senso; ed è chiaro che, come da tradizione, la tensione si scaricherà su Roma, sulla città che Napoleone il Grande aveva proclamato seconda dell’Impero, dopo Parigi, e di cui suo nipote, Napoleone il Piccolo come lo chiamerà Victor Hugo, considera i destini inestricabilmente legati a quelli della sua Francia, sebbene non ancora imperiale. Come aveva già fatto presente il generale Lamoricière, l’assoluta necessità di evitare che Roma cada sotto il controllo dell’Austria diventerà presto per la Francia una delle motivazioni che agli occhi del mondo e degli stessi romani avrebbero dovuto giustificare l’invio di un corpo di spedizione25; ma quando le elezioni politi24   H. James, William Wetmore Story and his friends: from letters, diaries and recollections, 2 voll., Houghton, Mifflin & C., Boston (Mass.), 1903, vol. I, pp. 152-153. 25   Da ultimo affronta l’argomento del complesso rapporto tra Francia e Austria Jolicoeur, Étre alliées sans le montrer cit., pp. 515-532.

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che francesi del 13 maggio segneranno una chiara avanzata del partito dell’ordine e un ridimensionamento della Sinistra repubblicana verrà in primo piano con maggiore evidenza l’obiettivo di colpire direttamente il movimento rivoluzionario italiano e il punto di forza che si era procurato affermandosi a Roma26. Che a Parigi, nella Sinistra – in quella repubblicana, come tra i socialisti – si fosse manifestata qualche simpatia per le novità romane soprattutto nel loro contenuto antipapale, costituiva per la classe di governo un motivo in più per non perdere di vista la situazione del territorio papale. In effetti, in quel momento all’opposizione democratica pareva che Roma e Parigi fossero unite da un unico destino. Così «Le Peuple», il giornale di Proudhon, auspicava che, se non si voleva essere accusati «all’estero come all’interno, di tradire la Repubblica francese», si provvedesse a riconoscere subito la Repubblica romana27. Conscia dell’approssimarsi del pericolo, la Commissione di Guerra – e in essa Carlo Pisacane che ne è «l’anima e la testa pensante»28 – non perde tempo e due settimane dopo essersi insediata presenta il primo rapporto: vi si propone di concentrare le forze armate, per un totale di 17.000 uomini, in due campi, uno a Bologna, l’altro a Terni; di portare l’esercito a 45-50.000 uomini integrando le truppe ex pontificie oltre che con le forze volontarie con l’istituzione della leva obbligatoria; inoltre, stessa divisa per tutti, uguale salario a parità di grado29, fatto salvo un inquadramento particolare per la Legione Garibaldi che, composta di circa un migliaio di volontari, era stata inviata nel Reatino a proteggere il confine col Regno delle Due Sicilie, provocando qualche insofferenza nelle popolazioni della zona sottoposte a continue requi-

26   Si vedano su questa fase le relazioni presentate al Colloque internationale de Tours, 25-26 mai 2009, su Constitutions, républiques, mémoires. 1849 entre Rome et la France, sous la direction de L. Reverso, L’Harmattan, Paris, 2011, in part. il saggio di K. Fiorentino, Le destin de deux “républiques soeurs”: parallèle historique et constitutionnel entre les République française et romaine, pp. 97-108. 27   F. Venturi, L’Italia fuori d’Italia, in Storia d’Italia, Einaudi, Torino, 1973, vol. III, p. 1346. 28   Mazzini, Ricordi cit., p. 202. 29   C. Pisacane, Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49, in C. Pisacane, G. La Masa, La guerra del 1848-49 in Italia, a cura di S. Sechi, Fulvio Rossi, Napoli, 1969, pp. 248-249.

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sizioni e contribuzioni in denaro30. Poi prende il via un’affannosa corsa alla ricerca di forniture d’armi. In tempi normali ogni paese (Francia, Inghilterra e Belgio in testa) fa il possibile perché alle proprie industrie vadano le commesse più sostanziose; con una rivoluzione di mezzo la musica cambia, nascono mille ostacoli e la libertà dei commerci tante volte invocata e sbandierata viene messa da parte. Accade così che tutti i canali di rifornimento verso Roma vengano chiusi: quel poco che si riuscirà a comprare a caro prezzo verrà intercettato e sequestrato dai francesi. Ci sono poi i problemi che toccano direttamente per un verso il livello politico della gestione delle truppe (i ministri della Guerra, per intenderci, Pompeo di Campello e Alessandro Calandrelli, entrambi dimissionari, l’ultimo dei quali sostituito da Giuseppe Avezzana, gradito a Garibaldi); per l’altro, la struttura molto composita delle milizie repubblicane nelle quali era conflui­ta buona parte dei regolari ex pontifici. Definirle esercito sarebbe usare un eufemismo. Pisacane nella sua veste di Commissario di guerra sarà presto costretto a raccomandare all’indocile Garibaldi una maggiore disciplina dei suoi uomini31. Il fatto è che nella Legione erano affluiti da qualche tempo gli elementi più riottosi e più difficili da inquadrare negli altri corpi, e non di rado anche i più violenti. Garibaldi aveva pensato di poterne comunque cavar qualcosa32, ma certo il loro comportamento aveva un costo nel rapporto non facile con lo Stato Maggiore, che tentava di imporre anche a lui il rispetto dei ruoli incappando talvolta nella «soverchia suscettibilità»33 di questo «cittadino generale» che la vita sudamericana aveva abituato a muoversi sempre con ampia autonomia. Era una situazione indubbiamente delicata, che metteva a confronto due opposte concezioni dell’esercizio delle armi: la 30   «Andate lenti nelle vostre requisizioni; non oltrepassate il bisogno reale. Non inimicate, non atterrite le popolazioni»: così Mazzini a F. Daverio, 25 aprile 1849, in Scritti, vol. XL, p. 63. 31   Ad esempio con la lettera direttagli il 7 aprile 1849: C. Pisacane, Epistolario, a cura di A. Romano, Società Anonima Dante Alighieri, Milano-Genova-RomaNapoli, 1937, p. 70. 32   Lettera a Mazzini del 7 giugno 1849, in Garibaldi, Epistolario cit., vol. II, p. 175. 33   Pisacane a Garibaldi, 8 aprile 1849, in Pisacane, Epistolario cit., p. 71.

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concezione pisacaniana, molto professionale e attenta alla disciplina perché fondata sugli studi in accademia, e la garibaldina, incline a considerare la guerra un’arte che si apprende sul campo e quindi spesso prevenuto verso i militari di carriera. Da questa reciproca delegittimazione scaturiranno tante incomprensioni: da parte di Pisacane, qualche impuntatura gerarchica, e, da parte di Garibaldi, gesti di insofferenza e continue proteste per lo stato di abbandono in cui è convinto che venga lasciata la sua Legione, sempre più numerosa e più bisognosa di vestiario e di materiale bellico. Con espressioni assai forti, il 1° aprile Garibaldi rinnoverà una richiesta già presentata altre volte: di essere lasciato libero di andare al Nord «per operare nei Ducati, nella Liguria, Lombardia ecc., con facoltà illimitate; ed in combinazione colle forze toscane, liguri, piemontesi che operino contro i tedeschi»34. Probabilmente capiva anche lui che un’ipotesi del genere non aveva senso: se la prospettava era solo per ottenere maggiore considerazione e forse anche il comando delle forze repubblicane. Consapevole dell’ascendente che Garibaldi, per il momento solo colonnello, esercita sui suoi uomini e in genere sui romani, Mazzini gli metterà a fianco come intermediari alcuni suoi elementi di fiducia – Francesco Daverio, ad esempio, e Goffredo Mameli – per poi constatare che nessuno di essi era rimasto insensibile al fascino dell’eroe dei due mondi. Più complicato soddisfare le sue continue richieste di forniture, dal momento che una sorta di boicottaggio internazionale blocca gli ordinativi provenienti da Roma (e un carico di 10.000 fucili verrà fermato in parte a Civitavecchia, in parte a Marsiglia dai francesi35, sicché – dirà poi un combattente – si dovranno affrontare le moderne carabine di fabbricazione svizzera in dotazione ai francesi con pesantissimi «fuciloni a pietra», poco maneggevoli e dalla portata molto ridotta36). Anche per questo Mazzini non riuscirà mai a placare il senso di frustrazione che Garibaldi avverte sin da quando si è messo al servizio della Repubblica e che gli fa mandare giù di mala voglia anche il controllo amministrativo del Ministero della Guerra sui   Garibaldi ai triumviri, in Garibaldi, Epistolario cit., vol. II, p. 122.   Moderni, I Romani cit., p. 220. 36   G. Catoni, Un artigiano all’assedio del Vascello, in Studi in onore di Leopoldo Sandri, Ministero per i Beni culturali e ambientali, Roma, 1983, p. 268. 34 35

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conti della Legione37. In breve tempo tutto ciò sfocerà in un vero e proprio dissidio tecnico-tattico oltre che politico. La conferenza di Gaeta Il mese di marzo si chiuse con l’approvazione da parte dell’Assemblea nazionale francese di un ordine del giorno che, in vista della necessità di portare il Piemonte sconfitto fuori della crisi evitando al contempo un aumento della presenza austriaca nella Penisola, autorizzava l’esecutivo ad affiancare alle trattative diplomatiche «l’occupazione parziale e temporanea di un punto qualsiasi dell’Italia»38: una formulazione strana, vista la sua reticenza a dichiarare che in realtà quel punto, come ormai tutti sapevano, doveva essere Roma. Del resto, era stata proprio la rotta di Novara a dare un impulso decisivo all’intervento militare, concepito dall’Assemblea non come un’operazione di soccorso al potere temporale del papa ma come un intervento a difesa della libertà della Penisola. Che potesse diventare anche una forma di collaborazione con l’Austria, o quanto meno, come ebbe a dire un inviato francese a Vienna, «un sostegno morale alle idee che essa rappresenta»39, l’Assemblea lo capì a crisi finita. Abbiamo su questo punto la testimonianza autorevole di Victor Hugo: sarà lui, infatti, a raccontare nel discorso del 15 ottobre 1849 che il generale Lamoricière nella decisiva seduta del 31 marzo aveva messo l’aula di fronte all’urgenza di fermare l’Austria ormai padrona dell’Italia e pronta dunque a marciare su Roma. Interrotto dal presidente del Consiglio Barrot secondo il quale bisognava andare a Roma per difendervi la libertà e l’umanità, Lamoricière aveva replicato che, se non si poteva salvare la Repubblica, bisognava almeno preservare la libertà40. Era stato dunque con questo intendimento 37   Garibaldi al Ministero della Guerra, 20 marzo 1849, in Id., Epistolario cit., p. 108. 38   Così si leggeva in un ordine del giorno presentato il 31 marzo dal governo francese e approvato dall’Assemblea legislativa: Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. III, La rivoluzione nazionale cit., p. 441. 39   Citato da Jolicoeur, Être alliées sans le montrer cit., p. 526. 40   V. Hugo, L’expédition de Rome, in Id., Avant l’exil 1841-1851, Nelson, Paris, s.d., pp. 258-259.

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e non per restaurare il potere temporale del papa che l’Assemblea aveva votato la spedizione di Roma. Sul piano formale, il tema dell’ordine da ristabilire non era messo sul tappeto, ma certo aveva grande rilievo nei negoziati che intanto si stavano portando avanti con Vienna per fissare le modalità dell’intervento e le rispettive sfere di competenza territoriale. Il clima in cui il 1° aprile si aprì a Gaeta una conferenza internazionale (con partecipazione degli inviati di Francia, Austria, Spagna e Due Sicilie) convocata per definire una volta per tutte il da farsi41 era certamente meno confuso e pessimistico di un mese prima. La sconfitta del Piemonte rendeva ormai ineludibile l’adozione di una politica di restaurazione che oltre a riportare Pio IX sul trono salvaguardasse i rispettivi interessi strategici di Austria e Francia in perenne competizione per l’egemonia sulla Penisola. Il rialzo della borsa verificatosi in quei giorni di fine marzo a Parigi lasciava pochi dubbi su chi, tra il papato e i ribelli, raccoglieva in quel momento i più ampi consensi della finanza francese42. Parallelamente alla conferenza di Gaeta che, presieduta dal cardinale Antonelli, si protrasse per 12 sedute senza che fosse possibile raggiungere una vera intesa operativa, la Francia di Lui­ gi Napoleone, una volta imboccata la via dell’ambiguità, portò avanti attraverso i suoi inviati ufficiosi un tentativo di operare direttamente su Roma. A riprova delle contraddizioni in cui era ormai avvolta la politica di Parigi, incerta tra la ragion di stato e il mantenersi fedele alla tradizione liberale, il tentativo prese due direzioni, espressioni di due politiche opposte: da un lato la diplomazia di Luigi Napoleone cercò di ottenere in cambio del proprio sostegno alla restaurazione papale una ripresa del costituzionalismo quarantottesco, facendo sì che Pio IX seguisse l’esempio del granduca di Toscana il quale nell’atto di riprendere il trono aveva promesso di conservare lo Statuto (promessa poi non mantenuta); dall’altro tentò di giocare la carta della reazione che rovesciasse la Repubblica dall’interno o quanto meno aprisse la via a un intervento dall’esterno (e probabilmente vanno qui individuate le cause di un’improvvisa recrudescenza dei fenomeni reazionari ad 41   A. Capograssi, La conferenza di Gaeta del 1849 e Rosmini, Stabilimento tipografico L. Proja, Roma, 1941. 42   Venturi, L’Italia fuori d’Italia cit., p. 1350.

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Ancona, dove si ebbero molti omicidi, e nelle campagne di Ascoli, colpite da un ritorno di fiamma del brigantaggio spalleggiato – come poi si scoprirà – da un cardinale tra i più risoluti nell’odio per il liberalismo, il De Angelis, arcivescovo di Fermo43). Ma fu un fallimento su tutti i fronti perché il cardinale Antonelli e Pio IX respinsero ogni ipotesi di compromesso, e a Roma l’opzione moderata aveva ormai perso la credibilità che aveva avuto fino al ’48. D’altra parte il Triumvirato seppe tenere sotto controllo le sporadiche manifestazioni di sanfedismo prodottesi in periferia, e a distinguersi in questa attività di repressione fu soprattutto il capitano Felice Orsini, il futuro attentatore di Napoleone III, che, nominato commissario, dando prova di grande energia riportò l’ordine ad Ancona, bloccò la sedizione nell’Ascolano, e domò un inizio di insurrezione a Offida44. Non sempre, invece, si riuscì a frenare circoscritti episodi di violenza verificatisi qua e là ai danni di esponenti del clero ritenuti a torto o a ragione coinvolti in cospirazioni contro il regime repubblicano. Ancona, la Romagna, Bologna furono teatro di gravi fatti di sangue, aggressioni, vendette, talvolta ai danni di persone che Mazzini stesso definiva «innocenti, se non d’ogni opinione, d’ogni fatto o mena contro la Repubblica». Che ci risulti, è questo l’unico documento giunto sino a noi in cui Mazzini affronta il problema in tutta la sua gravità. Ha la coscienza pulita, sa di aver proclamato a gola spiegata che «la Repubblica non è assassinio» ma sa pure che – ad Ancona, ad esempio – si sono avute alcune eliminazioni pianificate; in qualche misura comprende anche che «molti degli uomini promotori o esecutori di quegli omicidi credevano compiere un’opera politica ed utile alla repubblica»45, che è un’ammissione piuttosto grave. Si era in presenza dei tipici gesti di sopraffazione che son soliti avvenire nei periodi in cui il territorio da sorvegliare è vasto e tutte le forze disponibili sono impiegate nella difesa dello Stato. Gli eccidi compiuti per ordine 43   G. Leti, Fermo e il cardinale Filippo De Angelis: pagine di storia politica, Società editrice Dante Alighieri, Roma, 1902; Severini, La Repubblica romana del 1849 cit., pp. 75-78. 44   In proposito vedi A.M. Ghisalberti, Felice Orsini e la Repubblica romana, in Studi e documenti su Goffredo Mameli cit., pp. 157-241. 45   Lettera del 20 giugno 1849 a Livio Zambeccari, in E.N.S., vol. XL, p. 151.

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del comandante del corpo dei finanzieri, Callimaco Zambianchi, restarono in buona parte impuniti; e però a cose finite non avrà torto Mazzini a rivendicare con fierezza, di fronte ai governanti francesi, la corretta applicazione della legge da parte di un governo repubblicano forte assai più del «consenso dei cittadini» che delle durezze del codice penale. E riusciva qui molto efficace sul piano retorico la tecnica di rigettare sulla recente storia francese i crimini che un’opinione pubblica disinformata sovente attribuiva alla rivoluzione romana: Noi non avevamo per mantenerci, bisogno d’imporre lo stato d’assedio alla capitale, di sciogliere Guardie nazionali, di riempir le prigioni, di cacciarvi, misti agli altri, i rappresentanti del popolo, di condannare a deportazione centinaia d’uomini di lavoro, di recingerci, a comprimer gli altri, di cannoni e soldati46.

Mazzini qui prendeva di mira la repressione del 23-26 giugno 1848 a Parigi; ma la sua rievocazione poteva più ancora essere letta come una prefigurazione involontaria e comunque riduttiva dei massacri che avrebbero accompagnato il colpo di stato messo in atto da Luigi Napoleone il 2 dicembre 1851. La violenza a Roma Al nome di Callimaco Zambianchi, forlivese, e ai suoi finanzieri, è certamente legato l’episodio più oscuro e, diciamolo pure, più odioso, di tutta la storia della Repubblica romana. In realtà più che di un singolo episodio si trattò di una serie di fatti che, preceduti da alcuni abusi commessi a Terracina dalla Colonna Zambianchi e documentati già nel mese di gennaio47, si verificarono a Roma o in provincia nell’eccitazione della vittoria del 30 aprile o nei giorni immediatamente successivi. La profonda delusione provocata dall’atteggiamento aggressivo di una potenza come la Francia, da   Mazzini, Ai signori Tocqueville e Falloux cit., p. 147.   Archivio di Stato di Roma (d’ora in avanti A.S.R.), Repubblica romana, busta 37, fasc. 83; va detto che la colonna Zambianchi fu richiamata da Terracina solo a metà marzo: Ghisalberti, Felice Orsini e la Repubblica romana cit., pp. 165-170. 46 47

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cui molti avevano sperato che potesse farsi garante dell’esperimento romano, non basta assolutamente a giustificare l’efferatezza di tali fatti criminosi che gettano un’ombra non solo sui capi militari ai cui ordini si muovevano gli uomini di Zambianchi ma anche sul livello politico più alto, cui doveva comunque esser fatta risalire la responsabilità dei loro atti. Il primo a cadere sotto i colpi dei finanzieri, che quel giorno erano stati schierati a Monte Mario, fu il domenicano Vincenzo Sghirla, fermato in quei paraggi la sera stessa del 30, sorpreso in abiti civili e trovato in possesso – ci informa Roncalli, autore della Cronaca da noi più volte citata – di «un pugnaletto, due pistole, un bastone animato, due borze, una piena di monete d’oro e l’altra d’argento»48: tutto materiale che senza dubbio poteva far pensare a un complotto, e certo fu questa la prima ipotesi che venne in mente a Zambianchi, il quale però, invece di consegnare il domenicano alla giustizia, lo interrogò e, ottenuto con le buone o con le cattive qualche nome, lo fece fucilare sul posto. Stessa sorte toccò, tra il 30 aprile e il 4 maggio, a un’altra decina di ecclesiastici, tutti arrestati dalla stessa banda, condotti nei sotterranei del convento di S. Calisto, torturati e infine trucidati49. Seppelliti nel cortile del convento, i corpi furono trovati pochi giorni dopo l’ingresso dei francesi in Roma. Si dovette probabilmente a tale ritardo il fatto che sotto il regime repubblicano i colpevoli non furono né processati né puniti. Ci pensò poi il restaurato potere papale a mettere le mani su tre di essi e a condannarli a morte: l’esecuzione mediante ghigliottina fu compiuta nelle prime ore del mattino del 24 gennaio 1854, in una piazza di Roma, piazza dei Cerchi, già sperimentata per questo genere di rappresentazioni. Come annotò quel giorno stesso l’autore di un diario, i tre condannati erano «morti nella più ostinata impenitenza, unita ad una insolente sfrontatezza»50: avevano cioè gridato Viva la Repubblica! Che fossero repubblicani è certo (anche se non è dato conoscere i reali contenuti di questa appartenenza ideologica); è pure assodato che Zambianchi, dopo essere stato con Garibaldi in Sud America, gli era rimasto legato da un rapporto di amicizia militaresca cementato dall’anticlericalismo, al punto che lo ritroveremo con lui al   Roncalli, Cronaca cit., vol. II, p. 115.   Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, p. 450.   Diario Chigi, p. 351.

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tempo della spedizione dei Mille; che Mazzini non fosse informato sulle inclinazioni terroristiche del forlivese che si diceva educato nel culto di Robespierre è del tutto improbabile, dopo che il Comitato esecutivo, quindi prima della creazione del Triumvirato, aveva dovuto inviare Felice Orsini a Terracina, dove era distaccato Zambianchi, per mettere fine ai disordini che i suoi uomini vi avevano provocato51. Se anche è vero, come ricorda Saffi52, che era stato il Governo provvisorio e non la Repubblica a metterlo alla testa dei finanzieri, il suo legame con Garibaldi era sufficiente a qualificarlo come personaggio fanaticamente devoto alla causa. In più ci sono altri elementi di qualche peso: Zambianchi era molto amico di Angelo Bezzi, uno scultore romano che a fine 1848 era stato nominato ispettore di polizia e che, conosciuto Mazzini al suo arrivo a Roma53, era diventato e sarebbe rimasto anche nel successivo esilio londinese un po’ il factotum e un po’ la guardia del corpo del triumviro (e quando, il 30 giugno, Sterbini ritirerà fuori in pubblico la proposta di una dittatura Garibaldi in aperta contrapposizione a Mazzini, sarà proprio Bezzi a fargli cambiare idea a suon di manrovesci54). Naturalmente tutto ciò, se anche fosse suffragato da prove più sicure, non può portarci a concludere che sia Bezzi che Zambianchi agissero agli ordini di Mazzini, cosa che è senz’altro da escludere. Certamente questi non era all’oscuro delle operazioni di polizia che avevano in Bezzi un protagonista forse   In proposito si veda Orsini, Lettere cit., pp. 56-59, 117-121.   Saffi, Ricordi e scritti cit., vol. III, p. 324. Soggiunge il triumviro, nel tentativo di assegnare al concittadino una diversa collocazione politica, che Zambianchi, «reduce da poco da Parigi, vi si era imbevuto delle memorie e delle teoriche degli uomini del Terrore» (ibid.). Un’altra testimonianza di Saffi in una lettera a G. Beghelli del 25 luglio 1873 (Id., Ricordi e scritti cit., vol. XI, 1872-1886, G. Barbèra, Firenze, 1903, pp. 40-43). 53   Roncalli, Cronaca cit., vol. II, pp. 62-63, data al dicembre 1848 l’appartenenza di entrambi «a una setta segreta sanguinaria». Secondo questa stessa fonte Bezzi era stato «segretario ed intimo di Ciceruacchio»: ivi, pp. 49 e 72. Sulla sua figura di fedelissimo di Mazzini (anche in relazione allo scontro con Sterbini) getta molta luce Roland Sarti nel suo recente volume Dear Kate. Lettere inedite di Giuseppe Mazzini a Katherine Hill, Angelo Bezzi e altri italiani a Londra (1841-1871), a cura di R. Sarti e N. Mayper, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2011, pp. 42-45 e passim. 54   Gabussi, Memorie per servire cit., vol. III, p. 471; Roncalli, Cronaca cit., vol. II, p. 180; Koelman, Memorie romane cit., vol. II, pp. 413-414 (secondo il quale Sterbini proponeva se stesso e non Garibaldi come dittatore); J. Ridley, Garibaldi, Mondadori, Milano, 1975, pp. 353-354. 51

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un po’ paranoico e che, pur finalizzate alla difesa delle istituzioni, talvolta per un eccesso di zelo potevano assumere modalità anche criminose55. Altro discorso dovrebbe essere fatto per i massacri di cui si rese responsabile Zambianchi con la baldanza di chi si sente protetto da qualche imprecisata forma di immunità. Non credo che Mazzini ne fosse informato nel momento in cui gli eccidi ebbero luogo o immediatamente dopo: secondo Saffi, «non se n’ebbe sentore che a mezzo maggio [...] E, senza metter tempo in mezzo [...] fu dato ordine improvviso che i Doganieri sgombrassero il Convento e marciassero al campo: con che furono potute salvare parecchie vittime superstiti»56. Fa tuttavia una certa impressione constatare che il 20 giugno Mazzini si rivolgeva confidenzialmente appunto a Zambianchi – del quale, ripetiamo, non erano ancora noti i fatti di S. Callisto – chiedendogli che gli mettesse a disposizione venti dei suoi finanzieri per costituire una banda da impiegare in una manovra di disturbo contro i francesi57; e nell’occasione gli dava del tu, abitudine che non gli veniva naturale con chiunque. Bastano vicende come queste o gli episodi di quasi quotidiana criminalità comune registrati da Roncalli a infangare il volto della Repubblica? Non diremmo. Anche allora la rivoluzione non era un pranzo di gala, come qualcuno dirà un secolo dopo. D’altra parte sono molte le fonti che testimoniano il clima di relativa sicurezza e di rispetto delle leggi in cui si svolse la vita della Repubblica in una città come Roma, tradizionalmente segnata da un tasso fisso di violenza urbana. Stando a una interessante «Nota dei delitti denunciati al Tribunale Criminale di Roma dal 15 maggio a tutto il 12 giugno 1849 compilata d’ordine del Ministero di Grazia e Giustizia»58, nel periodo preso in esame s’erano avuti 8 omicidi, 1 infanticidio, 173 casi con feriti (di cui 143 senza pericolo), 38 contusioni, 13 fratture, 54 fra furti semplici e qualificati, 3 truffe, 1 incendio, 18 ingiurie, 3 cospirazioni, 5 evasioni, più pochi altri reati minori: a parte il numero degli omicidi, non sembrano dati molto   Si veda l’episodio raccontato da Roncalli, Cronaca cit., vol. II, p. 106.   Saffi, Ricordi e scritti cit., vol. XI, p. 41.   E.N.S., vol. XLIII, p. 158. 58   A.S.R., busta 96, fasc. 262. Verso la fine di aprile la Belgiojoso notava che «anco i delitti ordinari sì frequenti sotto il passato regime, sono diminuiti in modo strano»: lettera a P. Pirondi, s.d., in A. Malvezzi, La principessa Cristina di Belgiojoso, vol. III, Pensiero ed azione 1843-1871, F.lli Treves, Milano, 1937, p. 250. 55

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allarmanti per una città in quelle condizioni. Per inciso, un decreto triumvirale dell’11 maggio aveva stabilito che omicidi, ferimenti e furti fossero giudicati in base alle norme del Codice militare59. D’altronde, se c’era chi commetteva reati, c’era anche chi li denunziava. Il 26 giugno Luigi Masi, comandante della II Brigata della I Divisione, indirizzava a Francesco Sturbinetti una nota per lamentare il continuo taglio a Villa Borghese di «grossi alberi che nulla hanno che fare con la difesa» e che invece rivelavano a suo dire l’esistenza di una speculazione sul legname; e già che c’era segnalava pure che era stato abbattuto un acquedotto «solo per rubarne del piombo»60. A sua volta Sturbinetti girava la notizia al Triumvirato ipotizzando una presunta responsabilità del Ministero della Difesa o della Commissione delle Barricate. Chiaro che giunti a pochi giorni dalla resa si infittivano i risentimenti e si assisteva a un graduale sfarinamento della solidarietà tra le stesse istituzioni della Repubblica. Ma non è su questo che, a nostro parere, va misurata sul piano morale la portata innovativa dell’esperienza romana. Sarà un illustre storico francese, Charles Pouthas, a sostenere che in Mazzini c’è un senso troppo grande della libertà perché egli ricorra a persecuzioni o perché privi i suoi avversari della libertà d’azione e di quella personale. Di conseguenza, oltre a fronteggiare di continuo trame e cospirazioni deve vedersela con un’amministrazione che ne paralizza l’attività. Con tutto ciò, se si eccettuano alcuni isolati atti di violenza e gli otto giorni di terrore a Roma nel mese di maggio, riesce a mantenere l’ordine 61.

Civitavecchia, 24 aprile: sbarcano i francesi Alla fine l’intervento dei quattro Stati cattolici fu deciso per forza d’inerzia e perché a cercare di trovare un accordo su come il papato temporale avrebbe governato il paese una volta che ne fos59   E.N.S., vol. XL, pp. 284-286. Non è da escludere che tale misura fosse presa proprio per mettere un freno alla violenza manifestatasi con i fatti di cui si era reso protagonista Zambianchi. 60   M.C.R.R., busta 542/16/15. 61   Ch. Pouthas, Le pontificat de Pie IX, Les cours de Sorbonne, Paris, 1968, p. 44 (traduzione nostra).

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se tornato in possesso, non si sarebbe mai venuti a capo di nulla. A Vienna si fece sentire la mancanza di un Metternich; ma a Parigi il fatto di poter disporre di statisti che si chiamavano Adolphe Thiers o Drouyn de Lhuys o Odilon Barrot non impedì che si toccassero vertici di goffaggine e doppiezza mai prima raggiunti: a cominciare da Luigi Napoleone, che da presidente della Repubblica sollecita quella spedizione a Roma che prima dell’elezione aveva disapprovato62. Ma l’esempio più vistoso di questa imperizia (o malafede?) lo si ebbe con le istruzioni che Drouyn de Lhuys, ministro degli Esteri, fece pervenire a metà aprile al d’Harcourt, inviato di Francia a Gaeta, cui diceva di annunziare ad Antonelli la partenza della spedizione: ciò fatto, proseguiva l’uomo di Stato, «il cardinale capirà che per venire in condizione di trarne profitto, il Papa dovrebbe farsi sollecito a pubblicare un Manifesto, che garantendo al popolo istituzioni liberali conformi ai suoi voti e alla necessità dei tempi, possa rendere impossibile qualunque resistenza»63. Dunque l’illusione che il papa, ottenuto il soccorso richiesto, potesse concedere quel regime di libertà per il quale si era ben guardato dall’impegnarsi quando tale soccorso non era stato ancora concesso, era dura a morire; ma che la si coltivasse ancora può solo significare che tra Parigi e Gaeta era in atto un gioco delle parti il cui unico scopo era quello di tenere buona l’Assemblea legislativa francese e in particolare la Sinistra, allora molto forte, facendo credere che obiettivo dell’intervento fosse quello di concludere una mediazione tra il papa e la sua popolazione, nel rispetto del voto che essa aveva democraticamente espresso. L’impressione che ne ebbe la popolazione romana può essere attestata, meglio che da ogni altra testimonianza, dal successo che in quei giorni riportò al Teatro Valle la rappresentazione del Tartufo di Molière64. Un aspetto più difficile da prendere in considerazione sul piano storico ma che all’epoca suscitò più di un risentimento fu rappresentato da quell’atteggiamento di spocchiosa sufficienza con cui i francesi erano abituati da tempo a considerare le cose italiane e coloro che le gestivano. In verità, era da una quindicina d’anni che 62   Con una lettera aperta a un giornale francese: Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. III, La rivoluzione nazionale cit., pp. 438-439. 63   Farini, Lo Stato romano cit., vol. III, p. 363 (corsivo nostro). 64   Fuller, «These sad but glorious days» cit., p. 279.

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Mazzini, sul problema dell’iniziativa, richiamava la Sinistra francese a non considerarsi la sola depositaria della scienza della rivoluzione. Tanto più doveva infastidirlo nel 1849 il senso di malcelata superiorità e quasi di fastidio con cui a Parigi si affrontava ora il problema italiano e ci si accingeva a mettere fine alle intemperanze di questi immaturi popoli del Sud, tanto propensi a mettersi nei guai quanto bisognosi dell’aiuto altrui per uscirne. La fondatezza di questa sua impressione trova una conferma nelle parole con cui un francese dello schieramento liberal-conservatore, Charles de Rémusat, punterà nelle sue memorie il dito contro la superficialità di un simile approccio. A suo parere si era fatto nel 1849 il solito errore dei partiti di governo: disprezzare il partito avverso. Di conseguenza Le parole “repubblica” e “Triumvirato” allora in uso a Roma facevano [a Parigi] l’effetto di una puerile parodia destinata a durare poco. Si sottovalutava l’intensità dei sentimenti d’opposizione provocati dal governo papale. Nessuno aveva mai capito quanto fosse serio il movimento in Italia, e si pensava che gli insorti di Roma, pentiti di quanto avevano osato, si sarebbero precipitati a rifugiarsi all’ombra della bandiera francese, accogliendo come liberatori chi fosse accorso a salvarli dall’offensiva austriaca [...] Gli stessi triumviri, con i loro ridicoli titoli, non erano gli ultimi venuti. La resistenza della città fu energica e tenace, tanto che al mio arrivo dieci anni dopo Roma ne era ancora orgogliosa. Attribuiva il merito della difesa ai ceti inferiori, e in particolare ai Trasteverini che, dicevano, non meritano affatto la reputazione di cui godono solitamente i romani di oggi65.

In realtà, un francese disposto a confrontarsi senza pregiudizi con la classe dirigente romana c’era stato. Si chiamava Ferdinand de Lesseps. Vedremo presto quale fosse l’esito della sua missione a Roma. Per ora, servendoci della testimonianza di Rémusat, possiamo anticipare che di ritorno a Parigi con la sua convenzione bell’e firmata fu costretto a subire la denigrazione delle fonti governative che lo dicevano uscito di senno per aver preso troppo sul serio il suo incarico66. 65   Ch. de Rémusat, Mémoires de ma vie, t. IV, Les dernières années de la monarchie, la révolution de 1848, la seconde République (1841-1851), a cura di Ch. Pouthas, Plon, Paris, 1962, p. 397 (traduzione nostra). 66   Ivi, p. 411.

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Il 16 aprile l’Assemblea di Parigi votò un’ulteriore copertura finanziaria (1.200.000 franchi) per la spedizione, il cui comando fu affidato al generale Nicholas-Charles-Victor Oudinot, un lorenese che, in quanto figlio di un militare napoleonico promosso maresciallo di Francia dopo la vittoria a Wagram, avrebbe dovuto avere il mestiere delle armi nel sangue, se solo la virtù scendesse «per li rami»: cosa che con lui, come si vedrà, non era avvenuta. A Gaeta il prosegretario di Stato Antonelli avrebbe preferito che i francesi si fermassero lì, a tenere sotto controllo il litorale tirrenico, lasciando Roma ai più condiscendenti spagnoli; ma abbiamo già visto per quale motivo ciò era inaccettabile dal governo di Lui­ gi Napoleone che a questo punto ruppe ogni indugio allo scopo – si disse ufficialmente – «di prevenire o impedire un intervento austriaco sul territorio della Repubblica»67. Fu allestita una squadra di undici navi da guerra che, caricati 7000 uomini68, salpò da Tolone il 22 aprile e due giorni dopo era di fronte a Civitavecchia. Giunto in prossimità del porto, Oudinot, per non apparire troppo minaccioso, volle che a entrare fosse una sola nave, il cui comandante, Henri Espivent, aiutante di campo di Oudinot, era latore di un messaggio alle autorità cittadine che tuttavia lo respinsero; Espivent allora ne preparò un secondo in cui si diceva che la Francia non intendeva imporre una forma di governo che non fosse voluta dai romani69. Qui, come in altri indirizzi e proclami che seguirono, tutti rivolti alle popolazioni romane e non a un governo che, come teneva a precisare Oudinot, la Francia non aveva mai riconosciuto70, i francesi furono prodighi di belle parole, di frasi sonore e di promesse che sapevano di non poter mantenere, del tipo «rispettare il voto delle popolazioni romane», «venire da amici al solo scopo di conservare alla Francia la sua legittima influenza», «mai imporre alle popolazioni un governo che esse non desiderassero»71. Giocavano su una tradizione di democrazia, la loro, che già in passato   Così riferì Mazzini all’Assemblea il 24 aprile: Atti Roma, vol. IV, p. 304.   Frétigné, Giuseppe Mazzini cit., p. 313. Pisacane, Epistolario cit., p. 79, parla di 8000 uomini. 69   Farini, Lo Stato romano cit., vol. III, p. 373; Atti Roma, vol. IV, p. 331. 70   Farini, Lo Stato romano cit., vol. III, p. 376. 71   Così il proclama di Oudinot, in Pisacane, Guerra combattuta cit., p. 253. 67 68

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era servita a sostenere una politica imperiale; e ricorrevano a forti dosi di retorica, un’arma che quando è in mano ai rappresentanti di una potenza nasconde sempre un esercizio di illusionismo. Ritenere che coloro che ne sono i destinatari possano cascarci implica comunque una buona dose di disistima o, quanto meno, un imperdonabile senso di superiorità nei loro confronti. Tuttavia, non è che a Roma si fosse così sprovveduti da non prendere in considerazione la possibilità di un assalto. Sin dal 7 aprile un deputato, Cesare Agostini, avvertiva il triumviro Saffi che da Civitavecchia gli erano giunte notizie di «un movimento strano di vapori francesi» e del «passaggio di alcuni diplomatici» che avevano dato al suo informatore la «certezza che l’intervento è deciso». Con la sua comunicazione Agostini faceva però molto di più, in quanto da un lato chiedeva a Saffi di inviare truppe della Repubblica a Civitavecchia per sostenerne la resistenza, dall’altro consigliava di sostituire Michele Mannucci, un giornalista promosso da pochi giorni al ruolo di preside della cittadina laziale, con un uomo che più di lui avesse il «coraggio di morire per la difesa della patria»72. Tale suggerimento era però destinato a restare inascoltato, con le conseguenze che presto si sarebbero viste. D’altra parte è pur vero che il Triumvirato, forte del sostegno che sperava di ricevere dalla Sinistra transalpina e dai repubblicani di Ledru-Rollin, penava molto a capire quali fossero le vere linee guida della politica francese e come si potesse riuscire a stanare il governo di Parigi dall’ambiguità con cui si era mosso fino ad allora. Probabilmente fu appunto la sensazione di essere presi in giro da un succedersi di dichiarazioni, ognuna delle quali in un altalenare di minacce e di blandizie modificava la precedente, a motivare le reazioni sdegnate del Triumvirato e dell’Assemblea romana. Oltre tutto, dava molto fastidio la strana pretesa – da parte francese – di non indirizzare i propri documenti ufficiali al governo romano: come se, non avendolo riconosciuto, esso non esistesse. Invece un governo a Roma c’era, e non solo si sentiva ma in effetti era espressione della sovranità popolare consultata con lo strumento più democratico di cui si potesse disporre: il 72   M.C.R.R., busta 255/15/1. Mannucci, proseguiva Agostini, è un «onest’uomo e buon cittadino; sapete però che il coraggio di morire non si comanda».

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suffragio universale. Da Luigi Napoleone, al quale Mazzini rinfaccerà presto il suo passato di cospiratore e le lotte intraprese in gioventù contro il potere papale73, non era mai venuto un segno di attenzione per l’esperimento repubblicano in atto a Roma. Era anche questo che rendeva stonate le parole del messaggio che Oudinot indirizzò a Mannucci (Oudinot gli si rivolse chiamandolo «Monsieur le Gouverneur»74), al quale chiedeva una buona accoglienza per le proprie truppe rassicurandolo sulla utilità della loro missione: che, diceva, era quella di metter fine alle sofferenze delle popolazioni romane e favorire l’insediamento di un regime lontano sia dall’anarchia repubblicana sia dagli abusi dell’amministrazione papale. Tanta generosità, manifestata con l’esibizione di undici navi da guerra, non poteva non colpire l’impressionabile preside che nei giorni precedenti era stato più volte ammonito da Mazzini a resistere se aggredito. Da Roma, appena appresa la notizia dell’arrivo a Civitavecchia delle navi francesi75, per potenziare le possibilità di difesa del piccolo porto si era fatto partire in fretta e furia un corpo di 400 bersaglieri agli ordini di Pietro Pietramellara (più noto come Mellara o Melara), un ex ufficiale piemontese che aveva lasciato l’esercito sardo dopo l’affiliazione alla Giovine Italia. Non molto energico, Mannucci76, dietro pressione della municipalità civitavecchiese che temeva un bombardamento navale, autorizzò 73   G. Mazzini, A Luigi Napoleone presidente della Repubblica francese (1850), in E.N.S., vol. XLIII, pp. 319-336. 74   M. Mannucci, Il mio governo in Civitavecchia e l’intervento francese. Con note e documenti inediti, Tipografia L. Arnaldi, Torino, 1850 (rist. anastatica a cura dell’Associazione Traiano 2000, Civitavecchia, 1999), p. 122. 75   Cosa che, secondo Saffi, si verificò alle 17.30 del 24 aprile (Saffi, Ricordi e scritti cit., vol. III, p. 270). 76   Abbiamo già ricordato i rilievi che faceva con largo anticipo a suo carico il deputato Agostini. Anche più duro Saffi, secondo il quale «se il tenere la terra era impossibile, il combattere era dovere» (Ricordi e scritti cit., vol. III, p. 277). Pertanto ci sembra poco persuasiva la difesa d’ufficio che di Mannucci fa Severini, La Repubblica romana del 1849 cit., pp. 65-66, il quale ritiene valida la spiegazione che il preside di Civitavecchia diede del proprio operato adducendo a propria scusante il fatto di essere «mancato fisicamente e mentalmente» al momento dello sbarco dei francesi, che non sembra la più incisiva delle giustificazioni. Severini sostiene inoltre che «già il 27 aprile» la Costituente assolse Mannucci e lo confermò nell’incarico: in realtà il 27 aprile l’Assemblea nominò una commissione incaricata di ascoltare da Mannucci la propria versione dei fatti: Atti Roma, vol. IV, p. 377.

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dopo qualche esitazione lo sbarco. Non ci fu nessuna resistenza, e questo permise a Oudinot di sostenere che gli abitanti della cittadina laziale lo avevano accolto con modi amichevoli. Erano le 11 di mattina del 25 aprile 1849. In un messaggio a Oudinot, Mannucci aveva appena affermato che gli ripugnava «il credere che la Francia repubblicana voglia abbattere colla forza i diritti d’una Repubblica, che è nata sotto i medesimi auspicii della sua»77. A mandare Mazzini su tutte le furie fu proprio lo sfruttamento della fiducia nella fratellanza repubblicana cui ricorse Oudinot per far credere che i popoli dello Stato romano accettavano l’intervento francese78. Ci sono miti capaci di resistere a ogni svelamento: quello della Francia repubblicana, che nel preambolo della Costituzione del 1848 recava scritto l’impegno solenne a rispettare «le nazionalità estere» e a non adoperare «mai le sue forze contro la libertà d’alcun popolo», ancora una volta doveva sottomettersi alle ragioni tutt’altro che ideali della real-politik. Curiosamente, nella storiografia francese, solo recentemente c’è stato chi ha puntato l’indice contro i silenzi di intere generazioni di studiosi chiamando in causa l’eterno bonapartismo di buona parte della cultura e della politica transalpina79.   Mannucci, Il mio governo in Civitavecchia cit., p. 135.   Il 26 aprile Mazzini espone all’Assemblea una ricostruzione di quanto accaduto dopo lo sbarco dei francesi e deplora il comportamento di Mannucci (Atti Roma, vol. IV, pp. 353-357). 79   L’osservazione è di P. Mouzet, Constitutionnalisme et révolution autour de 1849, in Constitutions, républiques. Mémoires cit., pp. 75-95. 77 78

V L’inizio delle ostilità «Gli italiani non si battono» Solo all’apparenza simile alla Francia del primo Napoleone, la Francia del 1849, non potendo contare sulla stessa qualità di comando, ricorreva con frequenza a qualche machiavellismo. Appena sbarcati, i suoi uomini alzarono un albero della libertà, evocatore di antichi ricordi giacobini, e vi intrecciarono i due tricolori, ma non ci volle molto per capire che si trattava soltanto di una messa in scena. In verità, era una messa in scena che speculava sull’ambiguità della politica francese, orientata secondo i piani conservatori di Luigi Napoleone ma ancora condizionata da una certa forza parlamentare della Sinistra che rispecchiava il suo radicamento negli strati inferiori della società. Lo stesso Mazzini, pur consapevole di avere contro tutti i governi europei1, il 30 marzo, il giorno dopo la nomina a triumviro, aveva chiesto al principe Gerolamo Napoleone Bonaparte, cugino di Luigi Napoleone che sapeva contrario alla spedizione, di dirgli quali fossero le reali intenzioni del governo di Parigi2. Quindici anni dopo Mazzini ammetterà di avere coltivato in quei mesi una speranza: provocare, con la resistenza romana, «un mutamento nelle cose di Francia», e in tal modo offrire «un’opportunità ai membri della Montagna, ai nostri amici nell’Assemblea, d’iniziare la resistenza a Luigi Napoleone»3. Il proposito era

  Lo aveva confidato a un’amica inglese già il 18 marzo: E.N.S., vol. XL, p. 31.   Ivi, p. 47.   Ivi, vol. LXXVII, p. 347.

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obiettivamente un po’ troppo ambizioso perché sopravvalutava la volontà e le capacità combattive dell’opposizione transalpina e si fondava su una previsione errata del risultato delle imminenti elezioni politiche in Francia, fissate per il 13 maggio. D’altro canto, più realisticamente lo stesso Mazzini, sentendo avvicinarsi la tempesta, aveva lasciato intravedere nel suo rapporto del 24 aprile la disponibilità a un atteggiamento più conciliante, affermando che presto la Costituente, coerentemente con l’articolo 2 del decreto fondamentale, avrebbe definito «le guarentigie che possono assicurare al Pontefice il libero esercizio della sua autorità spirituale»4. E solo di essa. Perché, se c’era qualche potenza che riteneva indispensabile al papa una porzione di territorio per l’esercizio della sua autorità spirituale, ebbene, osservava Mazzini con inconsueta ruvidezza, questa potenza sarebbe «libera di dargli quel potere ma in casa sua» e senza esigere dai romani «che si tornasse addietro sopra una decisione fatta regolarmente»5. Mentre da Roma fioccavano le proteste del Triumvirato, dell’Assemblea, del municipio romano e del circolo popolare di Civitavecchia, mentre alcuni cittadini francesi residenti in Roma, raccolti in un comitato presieduto da Gabriel Laviron6, chiedevano a Oudinot di desistere da ogni forma di aggressione (e trovavano un’eco nella stampa rivoluzionaria d’oltralpe dove compariva un appello alla diserzione7), i francesi non facevano in tempo a sbarcare che già prendevano prigioniero senza incontrare resistenza l’intero battaglione Mellara, lo disarmavano e mettevano la città portuale in stato d’assedio. Trattamento non molto diverso era riservato al battaglione dei bersaglieri lombardi – circa 500 – che, comandati dal milanese Luciano Manara, erano appena giunti in porto: Oudinot ne consentiva lo sbarco per poi catturarli e liberarli solo dopo aver loro imposto un impegno formale a non   Atti Roma, vol. IV, p. 305.   Discorso del 26 aprile, ivi, p. 355. 6   Capitano della Guardia nazionale, e fino a qualche mese prima perseguitato in Francia per le sue posizioni estremiste, Laviron si era rifugiato a Roma. Qui, come testimonia il russo Herzen, si era presentato a Mazzini dicendogli: «Se vi occorre un ingegnere, un artigliere, un soldato, io sono francese, mi vergogno per la Francia, e andrò a battermi contro i miei compatrioti» (A. Herzen, Passato e pensieri, trad. e intr. di C. Coïsson, Mondadori, Milano, 1970, p. 122). 7   Venturi, L’Italia fuori d’Italia cit., p. 1357. 4 5

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combattere prima del 5 maggio, che era la scadenza entro la quale era sicuro che sarebbe entrato in Roma8. Era in lui una certezza che da tempo proprio i francesi avevano diffuso in tutta Europa, la certezza che «les italiens ne se battent pas», come aveva di recente ripetuto anche un personaggio relativamente ben disposto come il socialista Proudhon parlando di una «Italia troppo poco bellicosa»9. Mantenendo l’impegno di non combattere, Manara e i suoi, entrati in Roma il 29, gli avrebbero dimostrato che quanto meno sapevano mantenere la parola data (ma dal rapporto del ministro della Guerra romano risulta che, «ove il bisogno esigesse», Manara non avrebbe mancato di entrare in battaglia10). Quella frase – gli italiani non si battono – ripetuta più volte dagli stranieri, costituì per tutti coloro che erano accorsi a Roma, e per Garibaldi soprattutto, una di quelle provocazioni di cui ogni proposta politica ha bisogno per raccogliere simpatie e avere qualche probabilità di risultare vincente. Per la dirigenza romana non fu certamente il solo strumento propagandistico, perché l’apparato simbolico della Repubblica romana ne produsse molti altri, a opera di persone che come Mazzini, Mameli e in genere i repubblicani erano dei veri esperti di comunicazione. La bandiera tricolore recante spesso la scritta «Dio e Popolo», la stessa proclamazione delle leggi e dei decreti che si apriva con la formula «In nome di Dio e del Popolo», l’aquila e il fascio romano richiamati in vita nell’iconografia ufficiale come simboli di forza, lo stile classicheggiante dei proclami della Commissione delle Barricate enfatizzavano concetti che si imprimevano con forza nell’immaginario della popolazione, anche di quella meno politicizzata, facendo leva su emozioni e sentimenti sempre più diffusi: l’onore, l’orgoglio della propria origine, la difesa delle memorie avite, l’odio per i Galli invasori. La novità che così si produceva era quella di una crescente partecipazione della gente alla vita della città già a partire dal rito del voto: ovviamente non tutti, ma molti cominciavano a sentirsi 8   Oudinot nel salutare Manara si volle togliere la soddisfazione di chiedergli cosa c’entrassero i lombardi con gli affari di Roma. Manara gli rispose domandandogli se era «di Parigi, di Lione o di Bordeaux»: G. Capasso, Dandolo, Morosini, Manara e il primo battaglione dei bersaglieri lombardi nel 1848-49, L.F. Cogliati, Milano, 1914, p. 195. L’autore non ci dice se Oudinot avesse compreso il senso della battuta. 9   Ivi, p. 1355. 10  Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, p. 440.

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parte dei processi decisionali attraverso i quali si concretizzavano il progetto repubblicano e l’aspirazione a fondare la nazione. Garibaldi: una risorsa e un problema Nella Capitale, pur tra tanti dubbi sul che fare, ci si era già cominciati ad attrezzare per la difesa, che era comunque impresa ardua, viste le magre finanze della Repubblica e l’ampiezza del territorio da difendere contro quattro possibili invasori. Il Triumvirato aveva allertato per tempo la Commissione di guerra che aveva dislocato le forze disponibili privilegiando come fulcro difensivo dello Stato, secondo quanto proposto da Pisacane, la zona di Terni, in modo da opporsi alla temuta avanzata austriaca: così il 14 aprile si era spedito a Bologna una divisione comandata da Luigi Mezzacapo11; il 24 erano state prese misure per affidare a Livio Zambeccari la città di Ancona con ordine di resistere a tutti i costi12; lo stesso giorno Pisacane, in qualità di sostituto di Giuseppe Avezzana, ministro della Guerra, aveva inviato a Garibaldi, che stazionava ad Anagni, l’ordine di convergere su Roma in vista di un eventuale attacco francese13; il 25 ancora Pisacane aveva comunicato a Mazzini tutte le disposizioni prese, inclusa quella di «fortificare il Gianicolo e le vicinanze di Roma»14. Il problema vero era a monte, e nasceva dalla cronica penuria di armi e dalla scarsissima affidabilità di quelle disponibili. Si suppliva con l’entusiasmo dei volontari che ormai affluivano quotidianamente, anche dall’estero; si poteva anche contare sullo spirito combattivo delle popolazioni, forse meno fredde che all’inizio, ma restava il fatto che Enrico Dandolo, appena entrato in Roma, non poteva che segnalare «grande prodigalità di coccarde e nastri, di sciarpe e di bandiere; fucili inadatti e diversi e pugnali e pistole di tutte le fogge»15. Non c’era nemmeno una totale omogeneità ideologica, ma questo era un punto a favore, almeno sotto il profilo del pluralismo: Dandolo,   Comunicazione al preside di Bologna, Pisacane, Epistolario cit., pp. 74-75.   Lettera al colonnello L. Zambeccari, ivi, pp. 77-78.   Lettera al generale Garibaldi, ivi, pp. 76-77. 14   Ivi, p. 78. 15   E. Dandolo, I volontari ed i bersaglieri lombardi. Annotazioni storiche, Tipografia Ferrero e Franco, Torino, 1849 (citato in Malvezzi, La principessa Cristina di Belgiojoso cit., p. 243). 11 12 13

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Manara, la stessa Belgiojoso erano monarchici, ai garibaldini che incontrandoli gridavano Viva la Repubblica rispondevano con un Viva l’Italia!16. Appunto Manara preciserà di avere a cuore l’onore dell’Italia e non una Repubblica guidata da personaggi come Mazzini e Cernuschi17; verso Mazzini anche la Belgiojoso avrà, nella sua corrispondenza privata, parole molto sprezzanti dettate da un senso di superiorità assolutamente ingiustificato così sul piano politico come su quello morale, e ancor meno su quello intellettuale18. A cose finite affiorerà tra le pieghe della memorialistica un’altra questione che conviene qui anticipare e che riguarda da un lato alcuni conflitti di personalità che non giovarono alla causa repubblicana, dall’altro le scelte strategiche adottate dal Triumvirato, accolte talvolta con qualche borbottio che dopo la caduta si tramuterà in una critica esplicita a Mazzini. Al centro di entrambe le questioni si stagliano per autorevolezza, a parte Garibaldi di cui vedremo più avanti i motivi di dissenso, le figure di Carlo Pisacane, ex ufficiale borbonico formatosi alla Nunziatella e non ancora approdato nel ’49 alle concezioni socialiste della maturità, e di Felice Orsini, il futuro attentatore di Luigi Napoleone. Molto stimato professionalmente da Mazzini, che rievocherà l’impressione di aver visto in lui «l’ufficiale nato per la guerra d’insurrezione»19, Pisacane concepiva la guerra come una scienza, e su questo era prevedibile che si scontrasse con Garibaldi, un autodidatta specializzatosi soprattutto in azioni di guerriglia ma non del tutto digiuno di cognizioni militari e soprattutto forte del prestigio guadagnato durante gli anni dell’esilio in America Latina. Con una punta di boria accademica Pisacane, che pure nel 1846 aveva firmato la proposta dei commilitoni di offrire una sciabola a Garibaldi in riconoscimento delle sue imprese20, dirà di lui che era «prode, prodissimo, ma non capisce niente di milizie»21. Ma quando Garibaldi   Malvezzi, La principessa Cristina di Belgiojoso cit., p. 244.   Lettera non datata ad A. Fava, in Capasso, Dandolo, Morosini, Manara cit., p. 205. 18   Lettera a P. Pirondi, s.d., in Malvezzi, La principessa Cristina di Belgiojoso cit., p. 250. 19   Mazzini, Ricordi cit., p. 205. 20   Si veda su di lui la nota introduttiva di F. Della Peruta a Giuseppe Mazzini e i democratici cit., p. 1058. 21   Citato da A. Romano, Carlo Pisacane e la Repubblica romana, in «Rassegna storica del Risorgimento», XXI, 1934, p. 477. 16 17

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si dimetterà perché innervosito dai troppi ordini che ne limitavano l’autonomia, Pisacane dovrà in qualche modo scusarsi con lui, ben rendendosi conto di quanto fosse importante il suo carisma ai fini della mobilitazione delle masse22. Perdere Garibaldi voleva dire rinunziare al contributo di una personalità abbastanza ispida, ma che era l’unica capace di motivare i soldati e destare entusiasmo in quasi tutti gli strati della popolazione. Quanto al motivo strategico, altro capo d’accusa contro Mazzini, sarà questo l’unico punto su cui Pisacane e Garibaldi si troveranno d’accordo, entrambi convinti che sarebbe stato opportuno, in alternativa alla linea di trattativa con la Francia caldeggiata dal triumviro, ricacciare i francesi a mare e portare la rivoluzione nel Sud. Il fatto è che di una autentica vocazione unitaria del Sud Mazzini non si fidava23, e non aveva tutti i torti, anche se non gli sfuggiva l’importanza strategica del Regno meridionale24. Inoltre, ritenere o anche solo immaginare che la Francia dopo la prima sconfitta potesse ritirarsi era da folli più che da grandi strateghi25: i francesi tenevano anch’essi all’onor militare, e mai avrebbero accettato di essere respinti da un esercito che consideravano poco più di un’accozzaglia di sbandati. In aggiunta a tutto ciò, Pisacane individuerà un altro errore strategico compiuto da Mazzini nel non avere affrontato i francesi fuori di Roma26.

  Lettera dell’8 aprile 1849, Pisacane, Epistolario cit., p. 71.   Romano, Carlo Pisacane cit., p. 482. 24   Lettera non datata ma risalente probabilmente al 1853, in E.N.S., vol. VI, Appendice, pp. 603-607. 25   Si vedano le considerazioni che Saffi esponeva nel 1873 in una lettera a M. Quadrio: «Lo sbaraglio invocato non toglieva al Bonaparte di mandare, la seconda volta, quanta gente bastasse a spegnere la Repubblica Romana: toglieva bensì, provocando la Francia, un potente argomento e il pubblico consenso alla protesta de’ migliori, nell’Assemblea di Parigi, contro il carattere ostile della spedizione» (Ricordi e scritti cit., vol. III, p. 296). 26   Di questa idea di Pisacane, affacciata per la prima volta in una lettera a Oudinot pubblicata in opuscolo nell’estate del 1849, e cioè ad assedio finito (vedi Pisacane, Epistolario cit., pp. 87-97), e poi ripresa nel suo studio del 1851 sulla Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49, non v’è traccia nella sua corrispondenza del tempo col Triumvirato o col ministro. Nessun accenno in proposito nemmeno nel ricordo che Mazzini dedicherà a Pisacane dopo la sua scomparsa a Sapri nel 1857, anzi solo l’affermazione perentoria che nelle scelte strategiche decisive «da lui solo ebbi approvazione ed appoggio»: Mazzini, Ricordi cit., p. 206. 22 23

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Militarmente – questo il suo ragionamento – la difesa di Roma era una risoluzione riprovevole, essendo una città di estesissima cinta, e quasi aperta sulla sponda sinistra del Tevere. Politicamente, poi, determinava la perdita irreparabile della Repubblica, riducendo la sua esistenza a questione di tempo. Le truppe romane avrebbero dovuto sortire, e per la strada di Viterbo prendere una posizione di fianco rispetto alla linea d’operazione del nemico che marciava su Roma; in tal modo esse avrebbero conservato l’iniziativa, potendo accettare battaglia, oppure ritirarsi sul Tevere superiore, loro base naturale, verso cui movevano di già sette battaglioni dall’Ascolano, in virtù dell’ordine ricevuto di concentrarsi a Terni27.

Sotto il profilo della strategia militare può essere che Pisacane avesse ragione. Egli ignorava però – e Nello Rosselli, suo biografo, lo avrebbe sottolineato28 – che la difesa di Roma rivestiva agli occhi di molti di coloro che vi prendevano parte un significato simbolico unitario che nessuna battaglia campale, peraltro di esito incertissimo e – se anche vittorioso – non risolutivo, avrebbe mai potuto avere. Non solo per Mazzini ma anche per gli altri capi repubblicani fare di Roma il luogo da cui sarebbe partito il riscatto del paese voleva dire lanciare al mondo un segnale di forza e di volontà di cambiamento, quale che potesse essere l’esito dell’impresa: un segnale che proprio il mito di Roma avrebbe reso universale, in modo da accendere una speranza in tanti altri popoli oppressi. Altrimenti non si capirebbe come mai potessero ritrovarsi a dare la vita per la stessa causa uomini e donne dai più diversi orientamenti ideologici e dalle più varie provenienze geografiche, compresi gli stranieri e, tra questi, non pochi francesi antibonapartisti. La battaglia del Gianicolo Era Mazzini che, anche quando non se ne condividevano le idee, li teneva insieme moralmente, il che non vuol dire che anche i monarchici come Dandolo e Manara o i federalisti come Cernuschi o gli esponenti di un’ala politico-militare più estrema   Pisacane, Guerra combattuta cit., p. 254.   N. Rosselli, Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano, Lerici, Milano, 1958, p. 101. 27 28

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(tale il Daverio capo di Stato Maggiore della Legione garibaldina) si riconoscessero – totalmente o anche solo parzialmente – in lui e nella sua ideologia: vuol dire che Mazzini era il solo che, dopo il crollo dei miti quarantotteschi, fosse ancora in grado di offrire una prospettiva credibile a quanti avessero saputo vincere il pregiudizio che da sempre circondava il suo nome. Era, la sua, una prospettiva dalla quale, per la prima volta nella storia dell’Italia moderna, si erano in qualche modo fatte trascinare anche le donne, con in testa la principessa Cristina di Belgiojoso, politicamente abbastanza ondivaga, e però convinta a prendere su di sé la responsabilità del servizio di ambulanze militari che il Triumvirato aveva istituito il 28 aprile per garantire l’assistenza ai feriti. Si trattava in pratica di un corpo di infermiere – il primo della storia, anticipando di qualche anno quello dell’inglese Florence Nightingale – nel quale erano entrate alcune figure esemplari del patriottismo femminile italiano dell’Ottocento: Enrichetta Di Lorenzo, compagna di Pisacane, Giulia Modena, moglie del celebre attore Gustavo, la romana Anna de Cadilhac, moglie del colonnello Bartolomeo Galletti, l’americana Margaret Fuller che a Roma aveva sposato Angelo Ossoli, più qualche ecclesiastico e tante altre donne del popolo, non escluse alcune prostitute e qualunque altra donna si fosse detta disposta ad accettare un lavoro che per le condizioni penose in cui era svolto richiedeva dedizione, sensibilità e spirito di sacrificio29. Dipendevano da una Commissione sanitaria composta da medici, alcuni dei quali si erano formati sotto il passato regime: per questo la Belgiojoso ne diffidava, unendo alle molte lagnanze sulle condizioni penose del lavoro suo e delle colleghe qualche rilievo poco generoso sull’affidabilità di questi medici30, qualcuno dei quali col ritorno del papato avrebbe invece subito persecuzioni e perdita di cattedre31. 29   Malvezzi, La principessa Cristina di Belgiojoso cit., pp. 251-281. Si veda anche R. De Longis, Tra sfera pubblica e difesa dell’onore. Donne nella Roma del 1849, in «Roma moderna e contemporanea», n.u. 1-3, IX, 2001, pp. 271-277. 30   La Belgiojoso ce l’aveva in particolare con i medici del Comitato di Sanità che in una lettera ad Agostino Bertani del 17 dicembre 1849 definirà «tutto pretino e codino»: Malvezzi, La principessa Cristina di Belgiojoso cit., p. 262. 31   Sospesi in via precauzionale, alcuni medici dovettero aspettare il novembre 1849 per essere riabilitati: Roncalli, Cronaca cit., vol. II, p. 301. Sul caso del dott. Paolo Baroni «escluso dalla clinica chirurgica e di anatomia a Roma» si veda J.

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Preparato da brevi scaramucce con le prime avanguardie del corpo francese proveniente dalla via Aurelia (lungo la quale qualcuno aveva fatto disporre cartelloni e scritte murarie che riportavano il ricordato art. 5 della Costituzione francese), l’assalto vero e proprio avvenne a un’ora insolita: il mezzogiorno del 30 aprile, a conferma del fatto che Oudinot, benché gli inviati del Triumvirato lo avessero informato del contrario, era convinto che le porte della città gli si sarebbero spalancate davanti senza che fosse necessario sparare nemmeno un colpo. Forse sperava che a lui e ai suoi ufficiali venisse offerto anche il pranzo. Sicuramente non era questa l’intenzione degli 8500 uomini variamente inquadrati che, assaliti da 8000 dei suoi, si apprestavano a vender cara la pelle. È Pisacane che, dopo averci fornito le cifre che abbiamo appena riportato, offrirà poi la migliore descrizione dei luoghi del combattimento: Roma è divisa dal Tevere in due parti disugualissime: quella che resta sulla sponda destra del fiume è quasi considerata come staccata dalla città, e prende il nome di Trastevere. Dall’alto Tevere (rapporto alla città) le mura di cinta partono dal forte S. Angelo, che si appoggia sulla sponda destra del fiume, circondano la porzione di Trastevere che si avanza assai sporgente nella campagna e comprende l’immensa mole del Vaticano. Quindi la cinta piega ad angolo retto, corona il Gianicolo e rincontra il fiume. Tutta questa città contiene ventuno irregolari bastioni uniti da irregolari cortine, senza opere esterne, mancanti di fossati e prive di masse covrenti. Percorrendo ora questa medesima cinta dalla sinistra, volgendo le spalle a Roma, avremo accanto al Tevere porta Portese, quindi il terreno sale; e numerando i bastioni da questo sito, si avrà il punto più elevato al bastione 7. Poi il terreno scende verso il bastione 8 a sinistra di porta S. Pancrazio: posizione dominante per Roma, bassa rispetto ai bastioni che la fiancheggiano. Da questa porta la cinta continua con una leggiera inclinazione sino a porta Cavalleggieri, ovvero sino al rientrante sopra nominato. Seguendo la direzione della cinta, essa press’a poco taglierebbe per mezzo la piazza S. Pietro, e incontrerebbe un’altra porta detta porta Angelica [...] Il nemico, venendo da Civitavecchia, si presentava per conseguenza sulla sponda destra del Tevere. Il solo punto pel quale avrebbe poWhite Mario, Agostino Bertani e i suoi tempi, a cura di P.L. Bagatin e I. Biagianti, Edizioni Antilia, Treviso, 2006, p. 118.

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tuto passare il fiume era ponte Milvio, ma tale operazione lo avrebbe obbligato all’occupazione di monte Mario ed a un lungo giro. Ciò nonostante il ponte fu minato32.

Ripartite in quattro brigate, di cui una di cavalleria, le truppe repubblicane furono in gran parte schierate dal ministro Avezzana e dalla Commissione militare a difesa dei bastioni che avendo al centro il Gianicolo dominavano da un lato Trastevere fino a Porta Portese, dall’altro il Vaticano fino a Castel S. Angelo. A Garibaldi, che comandava la prima brigata, toccò il tratto compreso tra Porta Portese e Porta S. Pancrazio, mentre la seconda brigata, agli ordini del colonnello Luigi Masi, si trovò a operare a ridosso del Vaticano; intanto la terza brigata (colonnello Savini) perlustrava il Tevere nel tratto cittadino e la quarta (colonnello Galletti) era tenuta di riserva alla Chiesa Nuova. La zona di Monte Mario fu invece affidata ai 200 finanzieri di Callimaco Zambianchi33, il losco figuro ricordato pocanzi. I difensori di Roma potevano contare su due punti di forza: la posizione più elevata e meglio protetta rispetto a chi attaccava e un certo fattore sorpresa. Per meglio dire, la posizione era favorevole fino a quando Oudinot non si fosse impadronito di quella vasta porzione di terreno esterna alla cinta muraria e comprendente alcune ville (Villa Corsini soprattutto, la Valentini, la Giraud, meglio nota come il Vascello per la forma che ricordava quella di una nave, parte di Villa Pamphili) che Garibaldi aveva fatto occupare dai suoi avamposti: di lì puntare il fuoco sui bastioni e sulla città sottostante avrebbe presentato per i francesi assai meno problemi. Ma lasciamo ancora la parola a Pisacane che, tra i contemporanei, è a nostro parere colui che, anche per la sua posizione nella Commissione militare, descrive meglio il clima che si respirava a Roma nell’imminenza dell’attacco: Sin dalla sera del 29 le truppe a Roma erano al loro posto di combattimento, ed il grido di “Viva la Repubblica!” partiva clamoroso 32   Pisacane, Guerra combattuta cit., p. 255; si veda anche R. Ivaldi, Le mura di Roma, Newton Compton, Roma, 2005, pp. 233-235 e 575-608. 33   Si veda l’ordine di Garibaldi a Zambianchi, in data 29 aprile, in Garibaldi, Epistolario cit., vol. II, pp. 149-150.

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dalle file. La città era illuminata e presentava un aspetto marziale e festoso... La mattina del 30, verso il mezzogiorno, Oudinot spiegò la sua truppa in ordine di attacco [...] Appena fu segnalata l’ostile disposizione del nemico, immediatamente sventolò la bandiera rossa sulla Mole Adriana, il tamburo chiamò la guardia nazionale alle armi, che accorse numerosa nei posti assegnatile nell’interno della città; e gli artiglieri diedero di piglio alle micce che fumicavano accanto ai loro pezzi. Giunti i difensori del papa a giusta portata, furono salutati dalla mitraglia repubblicana...34

L’olandese Koelman aggiunge un dettaglio interessante sui militari che erano stati schierati in vari punti della città e sul lavoro di sostegno psicologico offerto loro dai deputati: «I rappresentanti popolari, che facevano il giro, chiedevano loro, in presenza del pubblico, se fossero disposti a difendere con le armi l’attuale stato di cose. Gli uomini rispondevano con formidabili “Evviva!”, alzando i chepì, o berrette della polizia, sulla punta delle baionette»35. Quanto all’Assemblea, è comprensibile che vi serpeggiasse un certo nervosismo. La seduta del 29 durò pochissimo, e fu sospesa dopo un breve dibattito sulla necessità di mettere in calendario la discussione del progetto di Costituzione. Il giorno dopo i lavori ripresero, in una atmosfera molto concitata, proprio mentre arrivava in aula l’eco delle prime fucilate: in città la popolazione si era sparpagliata tra le gradinate di Trinità dei Monti e il Pincio, luoghi leggermente elevati dai quali era possibile allungare lo sguardo fin sulle pendici del Gianicolo e sulla cinta muraria che coronava il colle. Naturalmente il Triumvirato era in continuo contatto con i capi militari, ma la prima decisione che prese fu quella di invitare i rappresentanti del popolo a spostare la sede delle discussioni al Quirinale, in modo che l’identità di vedute tra i due poteri, l’esecutivo e il legislativo, balzasse sotto gli occhi di tutti, cancellando ogni dubbio sulla compattezza e sull’unità di intenti del governo repubblicano36. L’attacco al Gianicolo fu una scelta su cui Oudinot fu costretto a ripiegare quando, afferrata finalmente l’idea dell’inevitabilità di   Pisacane, Guerra combattuta cit., p. 258.   Koelman, Memorie romane cit., vol. II, p. 284.   Atti Roma, vol. IV, pp. 388-393.

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una prova di forza, capì che il proposito di entrare in Roma da Porta Angelica era stato frustrato da un errore dei suoi genieri che avevano consigliato di far passare i soldati attraverso un varco, la Porta Pertusa, che era stata murata molti anni prima. Quindi il primo scontro i francesi lo ebbero con la brigata Masi e con le batterie piazzate a ridosso dei bastioni di S. Pietro che bloccarono anche l’accesso da Porta Cavalleggeri (fu in questo contesto che sui bastioni di Santa Marta fu ferito il primo ufficiale romano, il ventenne Paolo Narducci, morto poi il 2 maggio). Così, mentre un altro reparto tentava inutilmente di scalare le mura dei cosiddetti giardini del papa37, il fronte d’attacco si spostò verso il Gianicolo, ossia verso il punto che per essere rialzato rispetto alla direzione di marcia dei francesi costituiva certamente il varco più difficile; è vero che Oudinot, sfondando quella posizione, avrebbe poi potuto bombardare tutta Roma dall’alto e avere facilmente ragione di ogni resistenza, ma arrivarci avrebbe richiesto tempo e un gran dispendio di vite umane. Comunque l’ottimismo con cui il corpo di spedizione si era mosso da Civitavecchia era già svanito. Anche Mazzini, per parte sua, aveva sentito venir meno una sua segreta speranza quando aveva capito che non solo i francesi erano decisi ad attaccare («Non è strano che il primo nemico con cui dobbiamo combattere sia la Francia?», aveva fatto notare a un’amica inglese38), ma che avrebbero accuratamente evitato il tema tattico a lui più caro: quello dei combattimenti strada per strada. Consapevole della superiorità delle truppe nemiche, bene addestrate e dotate di armi infinitamente più efficaci (impossibile dunque ipotizzare una battaglia in campo aperto), avrebbe voluto affrontarle in città con scontri alla spicciolata in modo da potere impiegare la Guardia Nazionale, adibita alla tutela dell’ordine pubblico, e contare sull’aiuto di parte della popolazione. Sperava, cioè, in una riproposizione della guerriglia urbana sperimentata con successo l’anno prima a Milano. Per questo il 29 aprile aveva creato una Commissione delle Barricate composta da Vincenzo 37   La notizia si ricava da un rapporto di provenienza repubblicana sul combattimento del 30 aprile, ora in A.S.R., busta 89, fasc. 219, dove si dice che i francesi avevano tentato tre direttrici d’assalto: una da Villa Pamphili, una su Porta Cavalleggeri e la terza, appunto, sulle mura del Vaticano. 38   Lettera del 28 aprile a Emilie Hawkes, in E.N.S., vol. XL, p. 70.

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Cattabeni, da Vincenzo Caldesi e da Enrico Cernuschi: collaudato organizzatore, quest’ultimo, delle Cinque giornate milanesi, e ora a Roma non solo nelle vesti di deputato ma anche nel ruolo di sprone. In effetti coi suoi fantasiosi proclami conditi da un inconfondibile spirito guascone Cernuschi saprà stimolare la volontà di resistenza dei cittadini e di quella massa, socialmente molto eterogenea, di volontari reduci da esperienze di guerra talvolta burrascose. Mentre il primo assalto francese veniva respinto, una seconda colonna si mosse in direzione dell’acquedotto dell’Acqua Paola, in zona Villa Pamphili, dove fu affrontata da qualche centinaio di volontari – tra cui molti studenti del Battaglione universitario romano e vari artisti – che furono respinti. Garibaldi lanciò allora all’attacco la sua Legione e quando capì che non ce l’avrebbe fatta chiamò a sé parte della riserva che agli ordini del colonnello Bartolomeo Galletti era rimasta in città. Fu Garibaldi stesso che a cavallo, il poncho bianco svolazzante, guidò una carica talmente violenta da scompigliare le linee nemiche, inseguirle per campagne e vigneti, catturare circa 350 prigionieri39. Alle 17 la vittoria era sua. Beffardo, un proclama della Commissione delle Barricate annunziava il 1° maggio che «l’ingresso dei Francesi in Roma cominciò ieri; entrarono per Porta S. Pancrazio in qualità di prigionieri»40. I riferimenti a Brenno, frequenti nei documenti e nei quotidiani di questi giorni, miravano a far capire che il 30 aprile era stata scritta una nuova pagina nel grande libro della storia romana. Era stata una battaglia vera, fatta di scontri all’arma bianca e di furiosi corpo a corpo in cui l’impeto patriottico dei difensori aveva finito per avere la meglio sul migliore addestramento degli assalitori, di cui peraltro si sosteneva che parecchi non fossero convinti della bontà della causa per la quale mettevano in gioco la vita41. Caduta definitivamente la speranza che il corpo di spedizione francese fosse stato inviato a proteggere la Repubblica e non a distruggerla42, la città cominciò a fare i conti col pericolo che la   G. Sacerdote, La vita di Giuseppe Garibaldi, Rizzoli, Milano, 1933, pp. 420-

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421.

  Balleydier, Storia della rivoluzione di Roma cit., p. 283.   Fuller, «These sad but glorious days» cit., p. 275; James, William Wetmore Story cit., p. 154. 42   A dire il vero, secondo Pisacane la stessa rinunzia a completare la vittoria rigettando i francesi in mare fu dovuta alla «inevitabile ma condannevole speranza 40 41

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guerra raggiungesse anche i civili. Un buon argomento per prendere coscienza di quanto la situazione fosse seria fu rappresentato dal molto sangue sparso: sulla base di calcoli approssimativi, storici e memorialisti hanno sempre attribuito ai francesi 300 morti, 150 feriti e 365 prigionieri, agli italiani 200 tra morti e feriti; ma è interessante e credibile quello che a Gaeta l’olandese Liedekerke diceva di aver appreso direttamente da un diplomatico francese, Rayneval, al quale da Civitavecchia era arrivato un rapporto del commissario civile presso la spedizione che parlava di più di 1000 tra morti, feriti e prigionieri43. Tale cifra trova una conferma nella nota di un ufficiale transalpino secondo il quale ai circa 250 morti andavano sommati 600 feriti e 160 prigionieri44. Uno shock terribile per chi aveva ipotizzato un’entrata trionfale in città. Pur contenendo il numero delle vittime, anche i romani dovettero rassegnarsi a una contabilità abbastanza pesante. Lo stesso Garibaldi, che pianse la morte del maggiore Alessandro Montaldi che lo seguiva dai tempi del Sud America45, riportò una ferita all’addome che non ebbe gravi conseguenze ma che lo tormentò per i due mesi successivi. Alla moglie Anita (che diversamente da quanto in genere si crede lo avrebbe raggiunto da Nizza solo negli ultimi giorni della difesa) raccontò in una lettera l’esito della giornata e sdrammatizzò l’incidente occorsogli con una battuta: «che brutto! Se morivo per la pancia»46. Quel giorno molti dei suoi (i vari Medici, Masina, Mameli, Daverio, Bixio, lo stesso Ugo Bassi caduto prigioniero) si erano messi in luce per valore personale e qualità di comando, ma avevano anche capito che difficilmente sarebbero sopravvissuti a un altro scontro del genere. Non avevano però interessi personali in ballo, bastava l’ideale in cui credevano per far loro accettare anche la più tragica delle prospettive. che si nutriva in Roma, di veder ben presto i francesi da nemici cambiarsi in alleati» (Pisacane, Guerra combattuta cit., p. 259). 43   Liedekerke de Beaufort, Rapporti delle cose di Roma cit., p. 179. 44   A. Lanconelli, L’assedio di Roma e la fine della Repubblica, in «Rivista storica del Lazio», VII, 10, 1999, p. 173. In appendice a questo articolo l’elenco dei caduti per la difesa della Repubblica, qui calcolati in 942: si tratta probabilmente di una cifra che pecca per difetto. 45   G. Garibaldi, Memorie autobiografiche, presentazione di G. Spadolini, Giunti, Firenze, 1982, p. 227. 46   Lettera del 1° maggio 1849, in Garibaldi, Epistolario cit., p. 152.

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La differenza coi francesi stava appunto in questo: che mentre gli italiani combattevano e morivano per un obiettivo che due anni di guerra e la lunga preparazione avevano reso irrinunciabile perché riguardava direttamente la loro libertà, i francesi combattevano e morivano per un papa non da tutti amato, senza sapere che assieme alla libertà della Repubblica romana stavano cominciando ad affossare anche quella del loro paese. Intanto, a Gaeta Pio IX, che esattamente un anno prima aveva ritirato i suoi reparti dalla guerra contro l’Austria dicendo di abbracciare «tutte le genti, popoli e nazioni con pari studio di paterno amore»47, si accorgeva che nella vita, anche in quella di un papa, ci sono momenti in cui il «paterno amore» non può essere rivolto su tutti indistintamente. I frutti amari della vittoria Malgrado la vittoria, la battaglia del 30 aprile lasciò dietro di sé tanto entusiasmo ma anche uno strascico velenoso di polemiche. Ne uscì approfondito il dissenso fino allora strisciante tra Garibaldi, che inseguì i francesi fino a Castel di Guido con la chiara intenzione di ributtarli a mare, e Mazzini che, fermo nel convincimento di avere come interlocutore la Francia nazione e non il suo presidente, gli ordinò di sospendere le operazioni perché riteneva che mostrarsi generosi col nemico fosse più utile che infliggergli un’umiliazione; tanto più che anche i napoletani avevano dato inizio all’invasione, e difendersi contemporaneamente da tre eserciti, per non contare gli spagnoli, sarebbe stato troppo per le deboli forze della Repubblica. La Francia nazione non era né Luigi Napoleone né il suo governo né Oudinot: era la «Repubblica sorella», erano i suoi cittadini presenti in Roma che Mazzini con un atto ufficiale aveva posto il 28 aprile sotto la protezione della Repubblica48, erano i suoi soldati rimasti prigionieri o feriti, era la tradizione libertaria che aveva sancito la fine dell’ancien régime, era anche quella 47   Così l’allocuzione papale del 29 aprile 1848: Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. III, La rivoluzione nazionale cit., p. 219. 48   Fiorentino, Le destin cit., p. 101.

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parte di stampa parigina che in nome della fratellanza dei popoli criticava gli scopi della spedizione49. Mazzini ordinò dunque che i feriti fossero curati negli ospedali romani e che i prigionieri fossero restituiti senza chiedere nulla in cambio: ingenuamente pensava che, rientrati nei loro ranghi, potessero farsi ambasciatori di solidarietà repubblicana. In effetti, qualche dubbio serpeggiò per un momento tra le file nemiche: casi di diserzione e d’insubordinazione s’erano già verificati, altri se ne ebbero dopo il 30 aprile, cui si aggiunsero quelli dei francesi residenti in Roma che per antibonapartismo collaboravano con le forze della Repubblica. Fu tenendo conto di costoro che Oudinot fu costretto a diramare una nota per minacciare di portare davanti a un consiglio di guerra (con rischio di pena di morte) i compatrioti che fossero stati catturati mentre combattevano contro le truppe francesi50. Ma quella di Oudinot era una macchina bellica ben collaudata e non risentì più di tanto di questi piccoli contrattempi. Quasi a dimostrare di aver raccolto il messaggio conciliante di Mazzini, il 7 maggio (per una coincidenza, lo stesso giorno in cui il Triumvirato decideva la consegna dei prigionieri51) l’Assemblea francese approvava per iniziativa della Sinistra una mozione che sollecitava l’esecutivo a far sì che la spedizione non fosse «sviata dallo scopo che le era stato assegnato»52. Si intendeva che «lo scopo» fosse quello di rispettare il voto dei romani conservando una certa influenza sull’area, ma non lo si specificava per timore di apparire, alla vigilia delle elezioni politiche del 13 maggio, troppo antipatriottici, come se la sconfitta avesse indotto a un cedimento inaccettabile per la grandeur della Francia. Comunque, quando l’Assemblea chiese e ottenne che si inviasse a Roma una missione diplomatica per meglio valutare la situazione e avviare un negoziato, parve improvvisamente che si potesse imboccare la via della trattativa auspicata da Mazzini: anche perché della missione fu incaricato Ferdinand de Lesseps, un giovane diplomatico noto per   Balleydier, Storia della rivoluzione di Roma cit., pp. 292-293.   A.-C. Ignace, Fraternité des peuples et lutte fratricide: la participation des volontaires français à la défense de la République romaine (1849), in Constitutions, Républiques, Mémoires cit., pp. 272-273. 51   Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, p. 464. 52   Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. III, La rivoluzione nazionale cit., p. 447. 49 50

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una sua peculiare vocazione umanitaria che lo manteneva molto distante dalle ambizioni di Luigi Napoleone. Nello stesso tempo, la vittoria sui francesi ebbe l’effetto di galvanizzare una popolazione rimasta in precedenza abbastanza fredda e dubbiosa. Dire che essa si riconobbe improvvisamente in un indirizzo politico che aveva alla sua radice il Dio e Popolo del grande visionario Mazzini53 sarebbe dire troppo, prima di tutto perché già sotto Pio IX si era sviluppata una certa autoconsapevolezza favorita dal proliferare dei circoli e dalla libertà di stampa, e poi perché oltre due mesi di governo repubblicano avevano cominciato a radicare nelle teste della gente l’idea che quello che si metteva in discussione non era la religione o il primato spirituale del papa ma il malgoverno ecclesiastico e una gerarchia parassitaria, da tempo immemorabile bersagli l’una e l’altro del malvolere popolare. In questo, sia prima che dopo l’istituzione del Triumvirato si era stati abbastanza avveduti: con la collaborazione di alcuni esponenti del clero regolare e secolare che avevano accettato l’esperimento repubblicano si erano mantenute le cerimonie religiose, si era festeggiata la Pasqua, si era tenuta sempre distinta la polemica contro l’amministrazione pontificia da ciò che il papato e il culto rappresentavano per i fedeli del mondo cattolico. In più, come si è visto, anche le rappresentazioni teatrali e operistiche e la poesia dialettale avevano contribuito validamente a stimolare, insieme con la fierezza, anche il senso della crescita civile, che voleva dire capacità di badare a se stessi senza bisogno di nessuna tutela. Le donne della Repubblica Il 30 aprile ebbe dunque l’effetto di conferire maggiore efficacia agli appelli del Triumvirato alla popolazione. La celebrazione della vittoria non riguardava solo i militari, ma chiamava in causa tutta la città con l’evidente proposito di stimolarne ulteriormente l’orgoglio. La cosa non sfuggì alla sensibilità di uno storico papali53   Così lo descrive W.W. Story che gli fa visita il 5 maggio e lo trova sciupato e logoro ma anche con una capacità pratica che l’americano attribuisce alla permanenza in Inghilterra: James, William Wetmore Story cit., vol. I, pp. 156-157.

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no che, da alto funzionario del Banco Torlonia, non solo assistette agli avvenimenti che poi avrebbe descritto ma in qualche modo ne fu anche protagonista perché coinvolto indirettamente nella politica finanziaria della Repubblica. Giuseppe Spada – questo il suo nome – da un lato avrebbe basato la sua Storia della rivoluzione di Roma su un’idea forte, sostenendo con convinzione che quanto era avvenuto a Roma dopo l’uccisione di Pellegrino Rossi era stato opera di una moltitudine di facinorosi e sovversivi estranei all’ambiente romano (e includeva negli estranei anche coloro che erano originari delle altre province dello Stato); dall’altro, però, non avrebbe nascosto una realtà da lui percepita con chiarezza: la realtà del mutato clima politico del paese. Perciò come fonte ci pare tra le più degne di fede, perché nel raccontare la rivoluzione romana Spada dimostra di volere andare oltre la mera cronaca degli avvenimenti, anche se la traduce in una tesi insostenibile (quella del carattere esogeno della rivoluzione54) e spesso si fa prendere la mano da uno spirito conservatore un po’ gretto, che ricorda quello del Cacciaguida dantesco e in questa chiave condanna anche il blando riformismo di Pio IX: «La stampa e i liberi parlari di tre anni – scrive – se pur non avevano reso Roma repubblicana interamente, avevano affievolito per lo meno il rispetto e la confidenza ne’ preti, contro i quali erasi votato il sacco delle accuse e delle calunnie»; e più oltre rintraccia nella memoria collettiva, ossia in qualcosa di profondo, l’origine di una inedita e più spregiudicata predisposizione di spirito: «Le parole di Roma, di repubblica, di Romani conquistatori del mondo, gli esempi degli Scipioni, dei Bruti, dei Camilli, de’ Catoni, l’eloquenza di Cicerone, il valore di Cesare e di Pompeo erano per le bocche di tutti, e ne incendevan le menti»55. A pescare nella storia romana ce n’era per tutti, inclusi i francesi: non era scelto a caso il riferimento che un proclama del Triumvirato proponeva il 2 maggio: Romani! I vostri padri ridotti a ben altre estremità che noi non siamo, si ritrassero nel Campidoglio, respinsero i ripetuti assalti dei Galli, e li costrinsero a fuggire. Il generale Oudinot, grazie al cielo, non 54   Tesi contestata con dovizia di argomenti da Mazzini: si veda la sua lettera Ai signori Tocqueville e Falloux cit., pp. 135-142. 55   Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, p. 435 (i corsivi sono nel testo).

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è più terribile di Brenno, e Roma non è pur anche ridotta a difendersi nel breve giro del Campidoglio56.

I triumviri del resto sfondavano una porta aperta: già alla fine del secolo precedente, al tempo della Repubblica giacobina, si era visto quanto sentito fosse a Roma, soprattutto tra le masse popolari, il disprezzo per gli invasori d’oltralpe, raffigurati nelle satire del tempo come debosciati, ladri, dissacratori volterriani. Che a Roma dopo il 30 aprile si respirasse un’aria diversa dovettero constatarlo testimoni di vario orientamento. In prima fila, alcuni diplomatici inizialmente niente affatto teneri verso il regime repubblicano: così, mentre il console del Württemberg Kolb – colui che il 28 aprile aveva spiegato quanto ormai fosse diffuso in città il disprezzo per Pio IX57 – e il console olandese Magrini erano costretti a sottolineare come il valore dei difensori avesse scosso a Trastevere «la massa popolare la quale fino ad allora aveva assistito del tutto apatica»58, l’inviato degli Stati Uniti Cass doveva ammettere di non avere in precedenza compreso «quanto profondamente l’animo e il cuore dei Romani fossero coinvolti nella causa, e quanto unito fosse l’intero paese nella determinazione di resistere all’aggressione straniera»59. Per parte sua, il plenipotenziario olandese a Gaeta, Liedekerke, pur restando molto critico verso gli uomini di governo repubblicani, deplorava la sufficienza con la quale i francesi avevano affrontato lo scontro, convinti che bastassero «quattro soldati e un caporale [...] per ridurre questa gente alla ragione!»60. Al di là del giudizio su come era stato condotto l’attacco, era comune l’impressione che l’atteggiamento del popolino romano fosse mutato: se mai Pio IX tornerà in questa sua capitale «desolata e sconvolta», diceva ancora Magrini, non pensi di potervi trovare il popolo d’una volta61. Ora la città vuole 56   Ivi, p. 479. Su Spada si veda P. Maraldi, Giuseppe Spada storico della rivoluzione romana, Ateneo, Roma, 1953. 57   Moscati, La diplomazia europea cit., p. 149. 58   Ivi, p. 145. 59   Dispaccio del 23 maggio 1849, in United States Ministers to the Papal States. Instructions and Despatches 1848-1868, a cura di L.F. Stock, Catholic University Press, Washington D.C., 1933, p. 40 (traduzione nostra). 60   Liedekerke de Beaufort, Rapporti delle cose di Roma cit., p. 179 (traduzione nostra). 61   Ivi, p. 185 (la frase di Magrini è riportata in nota al dispaccio del 20 maggio).

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la Repubblica sul serio, gli faceva eco tra i bersaglieri lombardi il giovane tenente Morosini62. Era come se la base sociale, generazionale e di genere, del consenso prestato alla Repubblica si fosse improvvisamente allargata. A cominciare dalla partecipazione femminile: sempre l’americano Cass segnalava la presenza di donne e ragazzi intenti a riparare i danni prodotti sulle mura dalle cannonate francesi63; due settimane dopo, mentre sottolineava la «perfetta unanimità della popolazione», raccontava pure come molte donne avessero fatto spontaneamente dono alla Repubblica dei loro gioielli64. Non meno notevole qualche gesto di solidarietà di cui si rendevano protagonisti gli stranieri che ancora non avevano lasciato la città, come l’acqua di colonia offerta dal poeta inglese Arthur H. Clough­per medicare i feriti65 o i 250 dollari raccolti con una colletta spontanea tra i cittadini americani66. D’altronde Cass non era il solo a rilevare le dimensioni insolite raggiunte dal sentimento di appartenenza politica in coincidenza con la vittoriosa giornata del 30 aprile; lo farà Spada, scrivendo di una vasta adesione di giovani e giovanissimi e sottolineando appunto il ruolo delle donne che «sentivansi fatte eroine; sicché per improvviso sbalzo la gelide divenner tiepide, le tiepide calde, e le già riscaldate ardenti»67; ma lo aveva già testimoniato Magrini, cui erano giunti dettagli su «alcune donne» che «dall’alto dei bastioni facevano fuoco sugli assalitori»68. Era una realtà di cui non si poteva non tener conto, tanto che con un comunicato del 6 maggio i responsabili della Commissione delle Barricate, mentre invita-

62   Lettera alla madre, 1 maggio 1849, in Capasso, Dandolo, Morosini, Manara cit., p. 204. 63   Dispaccio dell’8 maggio, in United States Ministers cit., p. 37. 64   Dispaccio del 23 maggio, ivi, pp. 39-41. 65   Margaret Fuller lo ringraziava con una lettera non datata, in The Letters of Margaret Fuller, vol. V, 1848-1849, a cura di R.N. Hudspeth, Cornell University Press, Ithaca (N.Y.)-London, 1988, p. 235. 66   Fuller, «These sad but glorious days» cit., p. 282. Sul tema altri particolari in G. Monsagrati, Gli intellettuali americani e la rivoluzione romana del 1848-49, in Gli americani e la Repubblica romana del 1849, a cura di S. Antonelli, D. Fiorentino e G. Monsagrati, Gangemi, Roma, 2000, pp. 21-52, in part. pp. 38-40. 67   Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, p. 447. 68   Liedekerke de Beaufort, Rapporti delle cose di Roma cit., p. 179 (traduzione nostra).

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vano i cittadini a tenersi pronti per una eventuale invasione, in chiusura rivolgevano uno specifico appello alle «donne romane» invitandole a far provvista di «sassi micidiali, pietre inesorabili» (lo stile, molto riconoscibile, è certamente di Cernuschi) e rafforzando l’invito con una nota («Voi siete il premio promesso agli abbietti contaminatori»69) che faceva leva sull’ancestrale richiamo alla necessità di difendere la purezza del sangue e lo utilizzava come «uno dei motivi per sollecitare l’orgoglio dei combattenti»70. Qui la nota inedita era rappresentata da una presenza diretta delle donne nei combattimenti, che era qualcosa di ben diverso dall’impegno nell’assistenza sanitaria: il carattere pugnace della moglie di Garibaldi aveva fatto scuola. Quelle di Roma avevano questo di particolare: che invocavano la Madonna perché le proteggesse dalle bombe71. Bandiere rosse Un’altra novità riguardava l’apparizione sulla scena romana di un tipo diverso di militante, se così lo si può chiamare. Accanto ai patrioti accorsi al richiamo di Garibaldi o della Repubblica, affluirono a Roma, soprattutto dopo il 30 aprile, avventurieri d’ogni risma pronti ad approfittare delle molte occasioni offerte da una città sotto assedio e con gran parte delle sue forze impegnate in compiti di carattere militare. Tra di essi non mancavano elementi per i quali nessuna distruzione o devastazione sarebbe stata peggiore del ritorno del papa e degli esponenti dei ceti dominanti, aristocratici in testa, tanto che ci fu chi pensò che forme di violenza un po’ cieca contro le residenze abbandonate fossero commesse «per odio verso i proprietari antichi e moderni dei fabbricati»72. Di qui quella sensazione di una piega anarcoide rilevabile in qualche settore della vita cittadina su cui lavorò molto la propaganda antirepubblicana, non solo quella attiva da sempre nel mondo di lingua tedesca ma anche quella del «Times» e della «Quarterly   Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, p. 469.   De Longis, Tra sfera pubblica e difesa dell’onore cit., p. 273. 71   Fuller, «These sad but glorious days» cit., p. 299. 72   Citato da Monsagrati, L’arte in guerra cit., p. 233. 69 70

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Review», entrambi pubblicati a Londra, la seconda ispirata da Metternich73, che diedero grande risalto a saccheggi, attacchi alla proprietà privata, violenze vere o presunte, senza preoccuparsi di distinguere troppo ciò che era deciso dal Triumvirato in funzione di un miglioramento delle misure difensive (sequestro di carrozze cardinalizie, fusione di campane per farne bocche da fuoco, abbattimento di ville e casolari che potevano offrire un riparo agli assalitori, taglio di alberi secolari nelle ville patrizie74) da ciò che era espressione di vere e proprie attività criminali (furti di opere d’arte, vandalismi, distruzione dei confessionali delle chiese, profanazione di edifici sacri, in ultimo anche sfogo rabbioso per la frustrazione della sconfitta). Non che la moralità pubblica dei repubblicani fosse sempre al di sopra d’ogni sospetto. Però è anche vero che le istituzioni della Repubblica, finché furono in grado di operare, non mostrarono mai nessuna tolleranza verso le illegalità denunziate, da chiunque fossero commesse: chi le guidava sapeva bene che il destino della Repubblica dipendeva anche dall’immagine che essa dava di sé all’esterno. Ne fece esperienza Garibaldi che quando arruolò nelle sue file alcuni tra i delinquenti che Orsini aveva arrestato ad Ancona si prese da Mazzini una bella lavata di capo: «Voi non sapete il male che fate a noi e alla repubblica, volendo ritenere quei d’Ancona con voi. È il colpo più forte che possa in questo momento darsi al governo»75. Ma se la polemica papalina speculò su tali fenomeni allo scopo di enfatizzare lo stato di eversione degli ex territori pontifici, è innegabile che nella Roma del 1849 un sostrato in cui la violenza sociale incrociò questo principio di rivoluzione nazionale ci fu, e rappresentò un lieve punto di svolta rispetto alla tradizione rivoluzionaria borghese del 1831-48: l’apparizione della bandiera rossa76 ne fu il sintomo più vistoso, forse anche travisato77 ma tanto   Metternich, Mémoirs cit., vol. VIII, p. 214.   Su quest’ultimo dettaglio si veda il dispaccio del 14 maggio, in Liedekerke de Beaufort, Rapporti delle cose di Roma cit., p. 182. 75   Lettera del 26 giugno 1849, in E.N.S., pp. 165-166. 76   Roncalli, Cronaca cit., vol. II, p. 98, segnala al 1° aprile grida di «Viva la Repubblica rossa». 77   Questa l’interpretazione della Fuller, «These sad but glorious days» cit., p. 279, secondo la quale le bandiere rosse erano usate per segnalare ai conducenti di carri le strade su cui era possibile passare perché prive di barricate. 73

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esaltato dalla stampa rivoluzionaria di Parigi78, quanto condannato dalla pubblicistica reazionaria allora e poi79, tanto che a qualcuno venne in mente di etichettare parte di questa umanità poco o punto politicizzata come «schiuma del cattivo socialismo»80. Fu un fenomeno appariscente ma non certo intriso di spirito patriottico sul tipo di quello che aveva animato e animerà ancora i difensori della città. Piuttosto, la presenza tra i difensori di tanti stranieri calava lo spirito della difesa nella dimensione di un internazionalismo ante litteram: quale altro senso dare, infatti, a quella pagina delle Memorie in cui Koelman descrive i volontari che cantano uno dopo l’altro gli inni nazionali inglese, francese, tedesco, polacco e olandese?81 In qualche modo, la distanza rispetto alla Francia si era ridotta: opportunamente è stato notato che da Parigi i settori più radicali della democrazia francese scorsero nelle vicende romane del 1849 «un grande movimento di massa. Non furono le grandi personalità ad attirare maggiormente la loro attenzione [...] La volontà di lotta parve loro incarnarsi in tutta la popolazione romana, e magari in quella bandiera rossa che questa aveva innalzato»82 e che, come simbolo di una precisa determinazione a lottare esibita dai ceti subalterni, si era già imposta con una valenza universale. Da questo a dire che a Roma nel 1849 si affermava il socialismo ce ne corre: a parte Pisacane, che infatti indicherà nella mancanza di un «concetto direttivo»83 della costruzione di uno Stato sociale la causa prima del fallimento, e a parte, in misura minore, Felice Orsini, nessun elemento del gruppo dirigente repubblicano – lo si è visto a proposito di Mazzini – poteva dirsi interessato a progetti di livellamento, e molti anzi si dichiaravano ed erano sinceri   Venturi, L’Italia fuori d’Italia cit., p. 1357.   Il rosso è richiamato nel titolo in una delle opere più critiche verso la Repubblica: C.-V.-P. d’Arlincourt, L’Italie rouge ou Histoire des révolutions de Rome, Naples, Palermo..., Allouard et Kappelin, Paris, 1850. Come Balleydier, anche d’Arlincourt andava in cerca di parallelismi tra la situazione romana e l’89 francese, il terrore giacobino, le persecuzioni dei religiosi: si veda, ad esempio, «l’ignobile berretto rosso» di p. 221 e l’evocazione dei sanculotti. 80   F. de Lesseps, La mia missione a Roma maggio 1849. Memoria presentata al Consiglio di Stato, G. Chiantore, Pinerolo, 1849, p. 13 (corsivo nell’originale). 81   Koelman, Memorie romane cit., vol. II, pp. 320-321. 82   Venturi, L’Italia fuori d’Italia cit., p. 1357. 83   Romano, Carlo Pisacane cit., p. 469. 78 79

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fautori del liberalismo e delle concezioni economiche a esso connesse. Certamente molti dei rappresentanti del popolo dimostrarono di possedere una forte sensibilità (non solo strumentale) alle condizioni delle masse, ma se la Repubblica ebbe una sua politica sociale, a ispirarla fu un senso di giustizia e non il desiderio di scatenare la lotta di classe. La stessa rivoluzione che aveva preceduto la nascita della Repubblica aveva carattere borghese assai più che egualitario e arrivò con qualche ritardo rispetto ad altri paesi d’Europa: sicché ci sembra nel giusto chi ha sostenuto che «nel campo sociale la repubblica si adeguava all’Europa, non la precedeva»84. Le opinioni si polarizzavano, in modo da non risultare più conciliabili. Su un altro fronte, quello della Francia moderata, cattolica e conservatrice, l’esperienza romana era da catalogarsi tra le forme di banditismo sociale puro e semplice; e Mazzini ne era il genio malefico. Era fatale che su di lui si scaricassero tutte le polemiche e le tensioni del tempo, con una durezza che alla lunga lo avrebbe logorato ben al di là delle sue capacità di sopportazione. Come assorbire tutta questa pressione in una condizione di solitudine morale quale era quella in cui da tempo viveva il triumviro? Una valvola di sfogo risultò essere quella, molto simpatica, ricordata dal suo collega Saffi. La musica era un vecchio amore di Mazzini che da giovane, oltre a interessarsene sul piano teorico, aveva imparato a pizzicare la chitarra eseguendo brani classici con una tecnica che a dire di molti non era affatto rudimentale. Durante l’esilio in Svizzera ne aveva fatto l’accompagnamento dei suoi stati d’animo più malinconici. A Roma questo hobby lo aiutò a scaricare la tensione accumulata giorno dopo giorno. Sentiamo Saffi: «Mazzini amava, sapendosi solo e non ascoltato – talora fra giorno, più spesso a tarda notte – cantare sottovoce, accompagnandosi colla chitarra; e avea tal voce che, modulata dal canto, scendeva al core. Mi rammento l’impressione che faceva sentirlo cantare di tal guisa a Roma, in qualche momento di ristoro nella sua camera privata al Palazzo della Consulta»85. Era uno di quei momenti di abbandono di cui nemmeno un rivoluzionario di professione può fare a meno.

  Di Nolfo, Il 1849 cit., p. 564.   Saffi, Ricordi e scritti cit., vol. IV, p. 57.

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Il pentimento del Belli Le bandiere rosse non fanno impressione solo all’estero: se è vero che mettono spavento perfino a chi osserva gli eventi romani dagli Stati Uniti (il cui rappresentante a Torino aveva – senza citare alcuna fonte – dato notizia al suo segretario di Stato della «più che spregevole marmaglia di canaglie e banditi che riempiono le strade di Roma»86), qualche effetto devono averlo pure sugli imperturbabili Quiriti, quanto meno su qualcuno di essi. In questa Roma presa a cannonate lo sbigottimento per l’ennesimo oltraggio per mano di un esercito straniero può tradursi in partecipazione e sostegno ai combattenti, ma in alcuni può anche determinare un rifiuto se non, addirittura, una forma di nostalgia per i giorni tranquilli vissuti sotto la protezione della tiara. Si tratta in genere di aristocratici, di austriacanti dei tempi di Gregorio XVI, di cattolici tradizionalisti (i cosiddetti «codini»), di uomini d’ordine, e anche di chi in buona fede ha creduto nel primo Pio IX ed è convinto che se tornasse potrebbe anche riprendere il cammino di un blando ma ordinato riformismo. C’è, tra questi, un vecchio signore – ha quasi sessant’anni – che costituisce un po’ un caso a sé: Giuseppe Gioachino Belli. Ne abbiamo già parlato come di uno dei massimi fustigatori, sotto Gregorio XVI, del malcostume ecclesiastico. Coi suoi versi in vernacolo ha dato voce per una decina d’anni al malcontento della plebe cittadina e al suo disprezzo per la corruzione della casta sacerdotale al potere da secoli. Poi, intorno al 1838, la morte della moglie, le disagiate condizioni economiche e le preoccupazioni per la salute del figlio inaridiscono la sua vena, fluita fino allora copiosa per far conoscere alla cerchia degli amici e degli ammiratori i sentimenti più genuini della popolazione romana, la sua fede, i suoi costumi. Come se non bastasse, arriva anche il colera: spaventato, Belli lascia per testamento una disposizione che impone agli eredi la distruzione dei suoi 2279 Sonetti. Alla morte che sente vicina Belli non vuol far trovare quel materiale passibile di scomunica, ma non se la sente di distruggerlo di persona87. 86   Niles a Buchanan, 22 febbraio 1849, in L’unificazione italiana cit., vol. II, p. 78 (traduzione nostra). 87   M. Teodonio, Vita di Belli, Laterza, Roma-Bari, 1993, in part. pp. 284-286.

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Nel 1846 il mito del papa liberale sembra travolgere anche lui. Improvvisamente gli torna la voglia di poetare e di dedicare alcuni sonetti a Pio IX, e i suoi sono versi di grande ammirazione: cosa del tutto comprensibile se si pensa che un altro letterato, Pietro Giordani, ateo convinto, e perfino qualche neo-ghibellino rendono omaggio a questo «miracolo di papa» che riceve consensi anche dai protestanti, dagli ortodossi, dai musulmani88. Non arderà molto il fuoco riattizzato di Belli; ma quelli che scrive nei primi anni del papato di Pio IX sono tra i componimenti più spontanei e più belli tra i tanti che nel primo biennio di regno vengono dedicati al papa. Sopraggiunge quindi la lunga crisi del 1848: lo sbocco repubblicano non è fatto per tranquillizzare il poe­ta, anche perché egli pensa che prima o poi tocchi anche al figlio di dovere entrare nella Guardia Civica. Al di là di questi timori contingenti s’intravede però un pessimismo cosmico che mette tutto in discussione. Belli odia la Repubblica, disprezza quanti la rappresentano, non accetta che si debba vivere sotto uomini di governo affermatisi – dice lui – con il pugnale89; e negli stessi giorni in cui Lesseps sta trattando col Triumvirato decide ancora che i Sonetti vadano al rogo. Poco dopo la fine della Repubblica prenderà a circolarne uno, «Al Signor Giuseppe Mazzini», che è una vera invettiva contro l’ex triumviro. A lungo se ne attribuirà la paternità a Belli; la critica successiva stabilirà invece con qualche margine di dubbio che a comporlo era stato «quasi certamente» Francesco Spada: non Belli, dunque, ma in ogni caso uno del suo giro, a lui legato da un’amicizia a tutta prova90. Forse Belli era il primo a dolersi della sua stanchezza. Fatto sta che dopo il ritorno del papa la sua poesia non ha più nulla da dire, e la sua stessa vita si annoda in una attività di censore di testi teatrali e melodrammatici da cui si ripromette la salvezza dell’anima91. Aveva visto nella Repubblica lo spettro del giacobinismo 88   Su di lui, e sulla reazione provocatagli dall’elezione di Pio IX, si veda Dizionario biografico degli Italiani, vol. LV, s.v. Giordani, Pietro, a cura di G. Monsagrati, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, 2001. 89   G.G. Belli, Lettere Giornali Zibaldone, a cura di G. Orioli, Einaudi, Torino, 1962, p. 562. 90   Teodonio, Vita di Belli cit., p. 288. 91   I suoi giudizi come consulente della censura si possono leggere ora in Belli, Lettere Giornali Zibaldone cit., pp. 399-417.

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e del comunismo livellatore92. Per difendersene si getta anima e corpo nella produzione di versi sacri, si fa campione di ortodossia, si profonde in omaggi al papa restaurato. Ma ciò che appare più significativo è che egli riprende l’attività culturale nell’ambito delle due accademie, l’Arcadia e la Tiberina, che sono i due templi della classicità, i cenacoli in cui si custodisce gelosamente il meglio dell’identità cittadina93: a riprova del fatto che da lui come da altri cultori della tradizione romana, la Repubblica, con la varietà geografica delle sue componenti e con le sue aspirazioni nazionali, era stata vista come una minaccia per il patrimonio tramandato nel corso dei secoli. Religione e classicità identificavano Roma agli occhi del mondo; la nazione per Belli e per quelli come lui, era l’incognita in cui tale carattere si sarebbe perso, sostituito da una mescolanza indefinibile di dialetti, usanze, radici. Una sensazione analoga avrebbero provato i suoi eredi spirituali di fronte all’irruzione, il 20 settembre 1870, dei bersaglieri del generale Cadorna. Lui, Belli, se n’era andato sette anni prima. Roma si diverte Un’ultima osservazione sullo spirito pubblico a cavallo del 30 aprile. La partecipazione popolare alla difesa non si espresse solo nella chiave dello sdegno e di un disprezzo d’antica data per il mondo francese (secondo il popolano di Belli la Francia è «sta maledetta / che vò atterrà la riliggion cristiana»94 ma è anche il paese che esporta in molta parte d’Europa lo spirito della sovversione). Preparato da due anni di relativa libertà, il sostegno popolare alle nuove istituzioni toccò anche altre corde. Se è vero, come aveva sostenuto Rousseau, che il patriottismo «si adatta bene con lo spirito giocoso»95, fin quasi alla vigilia della capitolazione il sentimento 92   Ivi, p. 596, dove, alla nota 2, il curatore del volume ricorda che «tra la plebaglia sudicia e feroce [di fine ’48] il Belli notò i primi agitatori comunisti, contro i quali scaglierà i suoi strali acuminati nel componimento poetico Il Comunismo». 93   Teodonio, Vita di Belli cit., pp. 322-323. 94   Belli, Li guai de li paesi, sonetto n. 1063, in Id., I sonetti cit., vol. II, p. 1126. 95   M. Viroli, Per amore della patria. Patriottismo e nazionalismo nella storia, Laterza, Roma-Bari, 1995, p. 88.

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dominante a Roma è quello – tra lo scettico, il disincantato e il ridanciano – che è da sempre connaturato con lo spirito cittadino, portato per sua natura a sdrammatizzare qualunque circostanza. Lo aveva già notato l’americana Fuller quando, prima dell’inizio dell’assedio, aveva osservato che i romani cercavano e trovavano in ogni situazione, il lato più comico, anche quando andavano alla guerra, «né per questo combattevano con meno valore»96. È vero: i romani si divertivano anche quando ci sarebbe stato di che essere preoccupati, e divertendosi si sbizzarrivano nell’irrisione feroce: il 3 giugno, alla ripresa dei combattimenti, contro i francesi che attaccano si leverà il canto della Marsigliese, sottratto ai legittimi proprietari da chi si riteneva più degno interprete della tradizione rivoluzionaria97. Un mese dopo gli uomini di Oudinot, i discendenti dei Galli, entrando a Roma vengono accolti da cori di chicchirichì, ed è questa l’ultima beffa verso i vincitori, l’ultima di un mese che in città ha continuato a veder pubblicato il foglio satirico «Don Pirlone» nel quale Luigi Napoleone, come già i generali austriaci nei giornali lombardi del ’48, è raffigurato in sembianze di somaro98. Per sopportare i disagi e i pericoli dell’assedio occorre un sostegno morale forte: perciò – e lo si vedrà a giugno – quando non è partecipazione diretta ai combattimenti o ai lavori delle barricate, quella romana è presenza corale sul Pincio, sull’Aventino e a ridosso del Gianicolo, e prende quasi le forme del moderno tifo, con quel «daglie Calandrelli daglie»99 gridato insistentemente al concittadino che con una artiglieria non certo d’avanguardia riesce comunque a tenere a bada il nemico; e uno sberleffo al pericolo sono pure le bombe inesplose che i monelli raccolgono e consegnano alla Commissione delle Barricate in cambio di qualche baiocco, o il buontempone che, recuperata una granata nemica e trovatala più leggera delle 36 libbre dichiarate, vorrebbe rispedirla a Oudinot protestando. Anche in questo le donne hanno qualcosa da dire: hanno imparato a fare cartucce e ne producono a getto continuo; poi vanno negli ospedali a dare una mano e si presentano con gli abiti della festa: c’è dell’ostentazione in questo   Fuller, «These sad but glorious days» cit., p. 249.   Koelman, Memorie romane cit., vol. II, pp. 348-349. 98   Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, p. 584. 99   Koelman, Memorie romane cit., vol. II, p. 418. 96 97

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– osserva uno storico – ma c’è anche il desiderio di far capire al nemico che la guerra non le spaventa100. Tutti sanno che la morte è dietro l’angolo, come d’altronde è sempre stato. Forse è per questo che spesso nelle manifestazioni o agli spettacoli ci si abbraccia e bacia anche tra sconosciuti, magari piangendo101. Certo è che per esorcizzare la paura della morte ogni mezzo è buono: la «luminaria» della sera del 30 aprile, o quella del Corpus Domini che stupisce i pochi stranieri rimasti, o le bande musicali che suonano ogni volta che un corpo militare entra in città. Commenta la Fuller: «Nessuno si potrebbe immaginare che in Roma ci sia qualche difficoltà»102. Non è la sola a dirlo, tanto che il 28 giugno, con i francesi pronti a invadere, il cronista Roncalli annota: «La città si mantiene tranquilla. Ciascuno attende alle faccende sue. Il Corso è animatissimo, le botteghe tutte aperte»103. Il 29 giugno l’effetto prodotto sulla cupola di S. Pietro dai fuochi accesi per festeggiare il patrono della città al cospetto di una folla festante104 si mescola con quello delle bombe lanciate da Monte Mario su S. Pancrazio e coi lampi del temporale che d’improvviso si abbatte su Roma105. La vita continua. Né può essere diversamente visto che, come si sentiva spesso ripetere, a Roma tutto era già successo, e dunque era difficile che uno scenario così ricco di storia potesse mai essere turbato da qualche novità. In questo sforzo di contenere la disperazione dell’imminente sconfitta e di trasmettere, al contrario, ottimismo, a costo magari di sconfinare nella spavalderia, anche Mazzini e i suoi colleghi triumviri facevano la loro parte. «La difesa procede benissimo», annunziava Mazzini alla madre a conclusione dell’assalto del 3 giugno106; e il 21 giugno, con i francesi quasi in città: «Questa notte, tra mezzanotte e un’ora, pioggia di bombe: il popolo rispo  Moderni, I Romani cit., pp. 344-345.   C. Sorba, Il 1848 e la melodrammatizzazione della politica, in Storia d’Italia. Annali 22. Il Risorgimento, a cura di A.M. Banti e P. Ginsborg, Einaudi, Torino, 2007, pp. 501-502. 102   Margaret Fuller a Emelyn Story, s.d. [giugno 1849], in The Letters cit., vol. V, p. 235. 103   Roncalli, Cronaca cit., vol. II, p. 185. 104   Si veda la lunga descrizione di Koelman, Memorie romane cit., vol. II, pp. 429-435. 105   Diario Chigi, p. 297; Roncalli, Cronaca cit., vol. II, pp. 186-187. 106   E.N.S., vol. XL, p. 131. 100 101

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se dormendo»; e specificava che una bomba francese era servita ai soldati della Repubblica «per accendere le pipe»107. Non gli era da meno Garibaldi che il 14 giugno gli scriveva da Porta S. Pancrazio: «Il morale dei nostri militi è stupendo: la guerra, le tempeste di palle, bombe etc. sono per loro un giuoco»108. Non è che non volessero accettare l’idea che l’occupazione era imminente; sapevano però che erano in ballo diversi fattori. Non ultimi, oltre quelli già detti, l’esempio che la difesa di Roma avrebbe consegnato all’Italia e la necessità di compiere fino all’ultimo il proprio dovere. 107 108

  Atti Roma, vol. IV, p. 897.   Garibaldi, Epistolario cit., vol. II, p. 179.

VI I giorni della tregua La grande illusione Stabilita di comune accordo la sospensione delle ostilità, il mese di maggio fu impiegato nel tentativo di negoziare una soluzione non armata del conflitto, che però intanto proseguiva sulla frontiera meridionale o, per esser più precisi, nella zona dei Castelli. Qui operava il corpo di spedizione napoletano – un totale di 15.000 uomini – che, varcata la frontiera il 28 aprile, si era spinto fino ad Albano: troppo a ridosso di Roma perché Oudinot potesse tollerare un loro attacco alla città che avrebbe dato un risalto anche maggiore alla sconfitta francese del 30 aprile. D’altronde sin dall’inizio si era stabilito che di Roma si sarebbero occupati i francesi. Ciò nonostante, il Triumvirato non poteva assistere passivamente alla violazione dei confini dello Stato. Contro gli austriaci che scendevano dal Nord c’era ben poco da fare: il 17 maggio Bologna, bombardata e poi preda di violenze e conflitti interni, decideva la resa. Presto tutto il territorio delle Legazioni veniva occupato; poi toccava all’Umbria e alle Marche dove gli imperiali, non particolarmente famosi per le loro buone maniere1, dilagavano fino a ottenere il 19 giugno, dopo una resistenza accanita di un mese, la capitolazione di Ancona. Era dunque verso il Sud che il Triumvirato decideva di operare con maggiore risolutezza. Alla minaccia borbonica si rispose una prima volta inviando Garibaldi con la sua legione e con quella di Manara ad affrontare e a mettere in fuga dopo un’ora di fuoco i napoletani spintisi fino a Palestrina. Era il 9 maggio, e la   Farini, Lo Stato romano cit., vol. IV, pp. 123-124.

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tregua coi francesi, benché non ancora concordata formalmente, serviva a entrambi gli schieramenti per rafforzare il rispettivo dispositivo bellico; se ne avvantaggiarono soprattutto i francesi che fecero affluire altre divisioni e un parco d’assedio tra i più moderni e attrezzati. Tre giorni dopo Garibaldi rientrava festeggiatissimo in città, con un bottino di tre cannoni sottratti ai napoletani2, «due dei quali rotti», avrà cura di precisare il Nizzardo3. Con l’arrivo di Lesseps il 15 maggio e con l’inizio ufficiale dei negoziati si aprì un periodo di tregua approfittando del quale il Triumvirato, oltre a misure di carattere militare, poté prenderne altre, volte da un lato a legare sempre più la popolazione alle istituzioni, dall’altro a ripristinare la legalità che nel clima di esaltazione collettiva per la vittoria del 30 aprile era stata ripetutamente violata. Così, si affrontò il fenomeno delle requisizioni illegali e dei sequestri arbitrari istituendo un’apposita commissione, si intervenne, talvolta troppo tardi, sui reati contro la proprietà, si abolirono le tasse per il conseguimento dei titoli accademici, si ridusse il dazio su alcuni generi di consumo, si fece il possibile per alleviare la penuria dei generi alimentari e calmierarne il prezzo, si creò un’altra commissione per il risarcimento dei danni alle proprietà causati dai combattimenti. Inoltre non va sottovalutato un aspetto psicologico della trattativa coi francesi che per il solo fatto di essere iniziata rinfocolò in molti romani più di una illusione sulla disponibilità del governo di Luigi Napoleone a proteggere la Repubblica invece che a distruggerla. A corroborare queste speranze si faceva osservare che il diplomatico francese era giunto a Roma accompagnato da Michele Accursi4, un vecchio carbonaro poi passato al mazzinianesimo e ora deputato della Costituente romana, e si diceva che, considerate le aderenze di Accursi con la Sinistra francese, questo era un segnale che la politica romana della Francia stava per prendere una piega più favorevole alla Repubblica. Si ignorava il fatto che sin dai tempi della rivoluzione del 1831 Accursi era diventato un doppiogiochista che passava   Koelman, Memorie romane cit., vol. II, p. 298.   Lettera del 9 maggio 1849 a G. Avezzana, ministro della Guerra, in Lodovico Frapolli. Lettere garibaldine, a cura di L. Polo Friz, in «Il Risorgimento», LIX, 2007, p. 78. 4   Roncalli, Cronaca cit., vol. II, p. 135. 2 3

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regolarmente alla polizia pontificia informazioni sui movimenti di Mazzini e sulle sue attività5. Infine, un contributo alla commedia degli inganni lo diede lo stesso Lesseps, che appena giunto a Roma fu sentito pronunziare in pubblico espressioni tipo «generosità della Francia, benevolenza, intesa cordiale, simpatia per le nazionalità»6 che riproponevano il volto più accattivante della Grande Nation, il volto della protettrice dei popoli in lotta. Quando la tregua fu formalmente sancita, il Triumvirato giudicò giunto il momento per vedersela più risolutamente di quanto avesse fatto qualche giorno prima coi napoletani penetrati nel territorio della Repubblica. Stando a Pisacane, che nell’esercito borbonico aveva militato fino a due anni prima, erano circa 16.000; in realtà, da una richiesta di razioni di viveri presentata dal capo di Stato maggiore napoletano al gonfaloniere di Velletri, risulta che probabilmente non superavano le 12.000 unità7. Li guidava Ferdinando II in persona, che in tal modo sottolineava ulteriormente la devozione personale al papa. Roma rispose inviando un vero e proprio esercito di 11.000 unità divise in tre brigate che, affidato al generale Pietro Roselli, un romano da poco nominato comandante in capo, aveva in Garibaldi, promosso generale di divisione, il sostenitore di una strategia offensiva molto battagliera perché fondata sull’idea che, una volta avuta la meglio sul nemico, si potesse portare la rivoluzione in tutto il Napoletano. Il problema stava sempre nella psicologia del Nizzardo, ombroso e restio a farsi guidare, e qualche volta, come in questo caso, anche irruento, al punto di scombussolare i piani dello Stato maggiore; lo sostenevano, però, la totale dedizione dei suoi legionari e il rispetto delle altre truppe, e lo incoraggiava l’attitudine poco combattiva del contingente napoletano, ai cui capi i francesi avevano detto chiaramente che avrebbero fatto bene a girare alla larga da Roma. A Velletri, il 19 maggio, Garibaldi con la sua avanguardia attaccò un esercito che si stava già ritirando di propria iniziativa, ma qualcosa dovette andar male: ci fu un contrattacco, la cavalleria repubblicana si sbandò, lo stesso Garibaldi fu travol5   Su di lui G. Parma, Michele Accursi. Spia o doppiogiochista mazziniano?, Effelle Editori, Cento, 2007. 6   Koelman, Memorie romane cit., vol. II, p. 314. 7   A.S.R., busta 89, fasc. 219.

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to e cadde da cavallo assieme ad Aguyar, l’attendente di colore che lo aveva seguito fin dal Sud America8. Li salvarono i ragazzi di una compagnia della Legione italiana che, assalendo il nemico col furore e l’incoscienza dei loro quindici anni, permisero loro di rialzarsi. Intanto, coi napoletani in ritirata, le forze della Repubblica occupavano Velletri quasi senza colpo ferire: «l’esercito Italiano entra vittorioso in Velletri», era lo squillo di trionfo con cui Garibaldi il giorno dopo annunziava alla moglie l’occupazione della cittadina laziale9. Subito dopo l’uomo di Nizza ottenne un distaccamento per inseguire il nemico oltre confine, che è quello che fece portandosi con 6000 uomini fino a occupare Arce, nel Frusinate (allora in territorio napoletano), ma dovette anche registrare il rifiuto di seguirlo da parte dei 2000 uomini della brigata Galletti. Segno che l’indisciplina serpeggiante tra i volontari aveva cominciato a contagiare anche i regolari. La missione Lesseps Il giorno dopo il suo arrivo a Roma Lesseps si mise subito al lavoro. Per prima cosa convinse Oudinot e i suoi generali riluttanti a concordare col Triumvirato una tregua di venti giorni; poi aprì le trattative con la Repubblica che la Francia non aveva mai voluto riconoscere, il che lo obbligò a far sì che tutto si svolgesse su un piano informale. Come gli aveva imposto il suo governo, doveva evitare a tutti i costi di considerare quello romano «un governo regolare»10 e cercare invece di accreditare la spedizione francese come strumento per difendere la popolazione romana dagli austriaci. Per sentirsi meno condizionato dall’esecutivo romano, Lesseps pretese che il negoziato fosse portato avanti non dai triumviri ma da tre rappresentanti dell’Assemblea Costituente, poi designati nelle persone di due moderati, Sturbinetti

8   Sulla battaglia di Velletri si veda Sacerdote, La vita di Giuseppe Garibaldi cit., pp. 426-430; Ridley, Garibaldi cit., pp. 338-339; A. Scirocco, Garibaldi. Battaglie, amori, ideali di un cittadino del mondo, Laterza, Roma-Bari, 2004, pp. 159-160. 9   Garibaldi, Epistolario cit., vol. II, p. 158. 10   Lesseps, La mia missione cit., p. 20; Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, p. 499.

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e Audinot, e di un democratico, Agostini. Ricevette però in via ufficiosa alcune lettere di Mazzini che ci tenne molto a spiegargli la correttezza e la lealtà democratica di tutti i passi compiuti dalla Repubblica, attestati a suo dire da un consenso popolare che, se era stato abbastanza contenuto nelle elezioni politiche, era però stato pieno nelle successive elezioni municipali. E siccome «dappertutto e sempre l’elemento municipale rappresenta l’elemento conservatore dello Stato», quel largo afflusso di votanti non poteva che essere interpretato come un «atto di spontanea adesione alla forma proclamata», ossia alla Repubblica11. Con i tre negoziatori designati dall’Assembea Lesseps stese un primo schema di convenzione che l’Assemblea romana il 19 maggio respinse affidando al Triumvirato la prosecuzione delle trattative12. Intanto si cominciavano a conoscere gli esiti delle elezioni francesi, polarizzati su una destra moderata largamente maggioritaria e su una sinistra socialista-repubblicana che, benché sconfitta, pareva, specialmente a Parigi, abbastanza agguerrita da tenere in vita le speranze di Mazzini in una sorta di alleanza antibonapartista, ma era anche sufficientemente minacciosa per far temere come il peggiore dei pericoli – e non solo in Francia – che in Europa, tra Parigi e Roma, si creasse un inedito fronte rosso. Per Luigi Napoleone domare la resistenza romana voleva dire anche privare i suoi oppositori più radicali di un motivo di agitazione e proselitismo: stando così le cose, la missione Lesseps, se intesa come missione di pace volta a far sopravvivere la Repubblica, era già fallita in partenza. Tuttavia a Roma si continuava a sperare. L’illusione collettiva, e l’idealismo che la nutriva, erano diventati la base di una politica. Si andò avanti così per giorni, fra proposte francesi e rifiuti dell’Assemblea, fino a quando, dopo che il 29 maggio era stata bocciata un’altra bozza di accordo presentata da Lesseps sotto forma di ultimatum, da una lunga trattativa con Mazzini scaturì a sorpresa il 31 maggio una convenzione che le parti firmarono quello stesso giorno in una sala del Quirinale. Senza nessuna cessione di sovranità – ma anche senza mai nominare la Repubblica romana – vi si fissava il 11   Lettera del 17 maggio, ivi, p. 97 (l’originale francese in E.N.S., vol. XLIII, pp. 7-8). 12   Atti Roma, vol. IV, p. 561. La fiducia dell’Assemblea nell’operato dei triumviri fu pienamente confermata nella seduta del 28 maggio: ivi, p. 627.

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principio dell’appoggio francese ai popoli dello Stato romano, con la garanzia che nel territorio occupato dalle truppe di Luigi Napoleone non potesse entrare nessun esercito straniero. In pratica si riconosceva lo smembramento dello Stato repubblicano dando per perse le regioni prese dagli austriaci ma si assicurava la sopravvivenza di quella parte di territorio controllata dal corpo di spedizione francese e non si parlava di riportare il papa a Roma. Approvato dall’Assemblea, il testo della convenzione fu sottoscritto dai triumviri e da Lesseps alle otto di sera del 31 maggio13. Toccava ora al governo francese ratificare l’atto. In proposito la convenzione prevedeva (art. 5) che in caso di mancata ratifica gli effetti dell’accordo non terminassero prima di 15 giorni che se ne fosse dato l’annuncio ufficiale: il che fa pensare a una premonizione negativa, da parte di Lesseps, dovuta alla paura di essere stato troppo generoso coi romani, ben più di quanto a Parigi ci si aspettasse da lui. Il diplomatico francese non dovette attendere molto per sincerarsene. Prevalse però in lui la sensazione di essere stato preso in giro, e non dai romani ma dai suoi connazionali: da un lato da Luigi Napoleone e dal suo governo, dall’altro da Oudinot e dall’apparato militare francese che mai avevano creduto nell’opportunità di un’intesa diplomatica e che avevano utilizzato la pausa dei combattimenti solo per ricevere rinforzi e studiare meglio il terreno, tant’è che a fine maggio, con la tregua ancora in vigore, avevano iniziato una manovra di accerchiamento occupando Monte Mario. Di conseguenza, quando ebbe sotto gli occhi il testo della convenzione, Oudinot non perse tempo e per prima cosa indirizzò all’Assemblea romana un comunicato in cui dichiarava che in nome dell’onore della Francia non avrebbe mai sottoscritto l’accordo intervenuto col Triumvirato; al contempo dichiarò Lesseps sollevato dal suo mandato14. Che da Parigi arrivasse già il 1° giugno un dispaccio che annunziava a Lesseps un identico provvedimento da parte del governo è la prova di come tutto fosse stato già concordato in precedenza: tanto più che il 28 maggio, prima della fine della trattativa, Oudinot aveva ricevuto ordine 13   Del testo dell’accordo, sottoscritto dai triumviri e da Lesseps come «ministro della Repubblica francese in missione», fu data lettura all’Assemblea nella seduta del 1° giugno: ivi, pp. 653-654. 14   Ivi, pp. 660-661.

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tassativo di entrare in Roma prima possibile (e la cosa trova conferma nei Souvenirs di Tocqueville il quale scrive che l’ordine di attacco era stato dato al corpo di spedizione tre giorni prima della sua chiamata al governo, avvenuta il 2 giugno15). Il povero Lesseps non poté che prenderne atto e ripartire per il suo paese, portando con sé un ricordo di Mazzini per nulla corrispondente all’impressione negativa che ne aveva avuto all’arrivo. Colui che al primo approccio gli era apparso l’estremista fanatico della vulgata conservatrice, ora era diventato un uomo leale, coraggioso, onesto e soprattutto capace di moderazione. Lesseps non si limitò a pensarlo ma lo scrisse nella memoria che presentò al Consiglio di Stato concludendo il giudizio su Mazzini con una frase che suonava elogio per l’ex triumviro ma esprimeva allo stesso tempo rimpianto per l’occasione perduta dalla Francia: «oggidì ch’egli [Mazzini] è caduto dal potere e che senza dubbio cerca un rifugio in paese straniero, debbo rendere omaggio alla nobiltà dei suoi sentimenti, alla convinzione dei suoi principî, alla sua alta capacità, alla sua integrità e al suo coraggio»16. Alla fin fine Mazzini risultava tra i pochi che ancor prima del Marx delle Lotte di classe in Francia avevano visto chiaro nel disegno reazionario di Luigi Napoleone e nella strada che egli avrebbe fatto imboccare alla Francia. Era stato Mazzini che il 10 maggio, in un proclama ai romani, aveva affermato che Oudinot aveva fretta di sbrigare la pratica romana perché «se la nostra Repubblica sta viva, non potranno uccidere la Repubblica francese»17. Vicinissimo a lui, Gustavo Modena aveva espresso lo stesso concetto già il 2 maggio con una frase molto efficace anche se un po’ teatrale: «Qui, qui a Roma, si vibra il primo colpo mortale alla libertà francese!»18. E Cernuschi, come sempre molto acuto, non era stato da meno19. Non per niente Victor Hugo, raccordando le due esperienze, 15   Il passo dei Souvenirs di Tocqueville è citato da Mouzet, Constitutionnalisme et révolutions cit., p. 81. 16   Lesseps, La mia missione cit., p. 36. 17   E.N.S., vol. XLI, p. 273. Analogo convincimento in un proclama ai soldati francesi dello stesso giorno: ivi, p. 275. 18   Lettera a H. Paulet, in G. Modena, Epistolario, a cura di T. Grandi, Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, Roma, 1955, p. 106. 19   «Io credo – disse in Assemblea il 16 maggio – che Oudinot avesse la missione

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quella del 1849 e quella del 1851, definirà il colpo di Stato di Luigi Napoleone «una spedizione di Roma all’interno»20. A Parigi, quando Lesseps vi ebbe fatto ritorno, non si fecero scrupolo di metterlo sotto accusa, e anche questa è una pagina politicamente significativa della storia della spedizione francese a Roma e della spirale di contraddizioni in cui Luigi Napoleone si era infilato volendo dare a intendere di tenere insieme due elementi che nell’Europa di quegli anni non erano compatibili: la tradizione libertaria e laica da un lato, la politica di potenza sostenuta dalla Chiesa dall’altro. Non a tutti è noto che, al ritorno in patria, Lesseps fu deferito al Consiglio di Stato per render conto del modo con cui aveva svolto la sua missione, dell’eccesso di benevolenza che aveva usato verso i governanti romani e verso Mazzini in particolare, dei margini di discrezionalità troppo ampi con cui, andando oltre le istruzioni ricevute, aveva condotto i negoziati. Ebbe la carriera diplomatica troncata, ma se non altro, nell’audizione in cui poté esporre le proprie ragioni, si tolse la soddisfazione di far presente come l’indirizzo repressivo adottato nei confronti dell’esperimento romano fosse del tutto in contrasto con il voto dell’Assemblea nazionale che «obbligava il ministero a non far distruggere la Repubblica romana». Alla fine dalle sue parole venne fuori che il comportamento più corretto e più trasparente era stato proprio quello con cui il Triumvirato si era sforzato di mettere in atto la volontà del popolo dal quale aveva ricevuto i poteri: perché, affermava risolutamente Lesseps, «tutti sono d’accordo in Roma nel respingere l’amministrazione ecclesiastica»21. Per quello che poteva valere come risarcimento morale, Mazzini dovette leggere con gratitudine l’autodifesa di Lesseps; e quando a Losanna se ne pubblicò la traduzione in italiano volle premettervi alcune pagine introduttive per scagliarsi ancora una volta contro la doppiezza francese e in genere contro di venire in Italia a cercare un papa per fare un imperatore»: Atti Roma, vol. IV, p. 547. 20   V. Hugo, Histoire d’un Crime. Déposition d’un témoin, 2 voll., Calmann Lévy, Paris, 1877-1878, vol. I, p. 111 (traduzione nostra). Come è noto, il colpo di Stato di Luigi Napoleone ebbe luogo il 2 dicembre 1851, pochi mesi prima della scadenza del suo mandato presidenziale. 21   Risposta di F. de Lesseps al Ministero e al Consiglio di Stato, Tipografia del Vulcano, Firenze, 1849, p. 22.

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quell’atteggiamento da grande potenza ammiccante opportunisticamente alla rivoluzione che egli aveva preso a denunziare sin dalla metà degli anni Trenta: né governi né popoli – questa la sua conclusione – possono oggimai più riporre ombra di fiducia nella parola della Francia qual è, nei voti delle sue assemblee, nelle dichiarazioni de’ suoi ministri, negli accordi stretti da’ suoi incaricati plenipotenziari22.

Naturalmente non tutti in Europa la pensavano allo stesso modo. Basta leggere la testimonianza di una delle teste più lucide allora in circolazione, l’ex cancelliere austriaco Metternich che, in viaggio in Inghilterra, notava come perfino lì, in quella terra secolarmente ostile alla Francia, «l’idolo del giorno è Luigi Napoleone. C’è già chi lo trova bello»23: che è un interessante spunto interpretativo sull’origine e la consistenza del fascino che il potere conferisce anche a coloro con i quali la natura non è stata particolarmente generosa. Luigi Napoleone era certamente tra questi. L’ira di Garibaldi Sotto l’urgere della ripresa del conflitto con la Francia, l’incisività riformatrice della classe dirigente repubblicana e della sua leadership si veniva spegnendo un po’ alla volta, non più indirizzata com’era ad attuare la politica dei profondi cambiamenti strutturali intrapresa all’inizio ma sminuzzata in una serie di atti coi quali provvedere alle mille emergenze del momento, alle difficoltà della circolazione monetaria, alle necessità dell’armamento, ai lavori della difesa. Soprattutto, nel dubbio che la mediazione avesse uno sbocco positivo, si puntava a ingrossare le file dei volontari con nuovi arrivi in buona parte di stranieri, tra i quali spiccavano alcune centinaia di uomini della Legione polacca, fondata l’anno prima dal grande poeta Adam Mickiewicz e ora comandata dal colonnel  Ivi, p. viii. Questa introduzione di Mazzini non risulta presente in E.N.S.   Metternich, Mémoirs cit., vol. VIII, p. 220 (traduzione nostra).

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lo Milbitz24. Un’altra legione era stata organizzata addirittura in Francia nell’aprile del 1849 per iniziativa dell’inviato romano Ludovico Frapolli: contava circa 450 volontari ma fu disciolta d’autorità prima dell’imbarco; un centinaio di essi riuscì comunque a raggiungere Roma dove trovarono a organizzarli in una legione straniera un altro francese, il già menzionato Laviron, che alla ripresa dei combattimenti sarebbe caduto il 25 giugno indossando – sembra – la camicia rossa25. Per inciso, sarà il caso di notare come la storiografia d’oltralpe abbia a lungo considerato questa ridotta presenza di connazionali a fianco dei repubblicani romani alla stregua di un vero e proprio tradimento: solo di recente alcuni studi hanno inteso far luce sulle motivazioni affatto ignobili di tali scelte e hanno rivalutato in particolare la figura di Laviron, pittore e architetto oltre che soldato26. Ad ogni modo, la partecipazione di gente proveniente da ogni parte d’Europa dovette sembrare a Mazzini la realizzazione di quella utopia dell’alleanza dei popoli contro l’alleanza dei re da cui nel 1834 era nata la Giovine Europa e che poi era passata sotto forma di solidarietà internazionale nel patrimonio ideale della variegata Sinistra europea. Tuttavia tale spirito di solidarietà non fu sufficiente a modificare l’esito del conflitto, né, venuta meno la speranza di una sinergia con la Sinistra francese, mai avrebbe potuto riuscirci27. L’enfasi che sempre più si poneva a Roma sulle esigenze della difesa e sull’importanza dei corpi armati conferiva un peso ulteriore all’elemento militare. In questo ambito il personaggio di maggior prestigio restava Garibaldi, comandante della prima divisione dell’esercito repubblicano. Tutti, a cominciare da Pisacane, ne apprezzavano il valore e ne riconoscevano l’ascendente che aveva sui volontari e, più in generale, sullo spirito pubblico, 24  Cfr. L. Kociemski, La Legione polacca di Mickiewicz nel 1848 in Italia, La Rondine, Roma, 1949. 25   Ignace, Fraternité des peuples cit., pp. 261-278. A Laviron dedica ampio spazio Koelman, Memorie romane cit., vol. II, pp. 330-354. 26   S. Aprile, Un épisode occulté: la résistance française au siège de Rome, juin 1849, in La République romaine de 1849 et la France, textes réunis par L. Reverso, L’Harmattan, Paris, 2008, pp. 77-90. 27   Sulla partecipazione alla difesa di Roma di volontari e osservatori d’ogni provenienza si veda anche il recente, ottimo contributo di B. Diddi, S. Sofri, Roma 1849. Gli stranieri nei giorni della Repubblica, Sellerio, Palermo, 2011.

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mentre più di un dubbio – lo abbiamo visto – circolava sulla sua attitudine al comando, sulle sue reali capacità tattiche, su certe iniziative prese d’impulso e per il solo gusto – come egli stesso suggeriva al colonnello Masina – «di poter introdurre tutto il ferro della mia baionetta nel petto di un tedesco»28. Era un dubbio che attraversava un ampio schieramento, da destra a sinistra, favorito nel caso di Garibaldi da una certa congenita irrequietezza e dal bisogno di muoversi con tutta l’autonomia possibile. Lo avevamo lasciato ad Arce, primo ed unico avamposto repubblicano nel Regno meridionale. Ne fu richiamato dai triumviri quando, nella certezza del raggiunto accordo coi francesi, si pensava di poterlo spedire a nord per tentare di fermare gli austriaci nelle Romagne. Dallo stato d’animo sovraeccitato in cui si trovava al termine della breve campagna contro i napoletani affiorava ora il Garibaldi che un paio di mesi prima si era presentato ai triumviri come un guerriero invincibile («io in cento combattimenti non conto una sola sconfitta»29) e che alla moglie Anita chiedeva di persuadere le «donne Italiane» a negarsi ai loro amanti «codardi» e restii a imbracciare il fucile30. Sin dall’inizio aveva chiesto l’attribuzione di «facoltà illimitate» alla sua persona e l’autorizzazione a proclamare la leva di massa 31; avanzò la stessa richiesta scrivendone il 1° giugno personalmente a Mazzini32, mentre si preparava a quella campagna nelle Romagne che non avrebbe mai avuto luogo. Costretto a restare a Roma in vista dell’assedio, eccolo pronto a far valere la sua riconosciuta importanza presentando allo stesso Mazzini, un giorno prima della ripresa dei combattimenti, una sorta di ultimatum, forse leggermente frettoloso e certamente intempestivo: «Giacché mi chiedete ciò ch’io voglio, ve lo dirò: qui io non posso esistere, per il bene della Repubblica, che in due modi: o dittatore illimitatissimo, o milite semplice, ed invariabilmente. Scegliete»33. Non fu né l’uno né l’altro, e nemmeno il comandante in capo. Chiaramente, si era proposto come dittatore   Lettera del 29 maggio 1849, in Garibaldi, Epistolario cit., vol. II, p. 167.   Lettera ai triumviri del 1° aprile 1849, ivi, p. 122. 30   Lettera del 22 aprile 1849, ivi, p. 147. 31   Lettera ai triumviri del 1° aprile, ivi, p. 122. 32  Ivi, p. 169. 33   Lettera del 2 giugno, ivi, p. 172. 28 29

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militare chiedendo i pieni poteri («come in certi casi della mia vita avevo chiesto il timone d’una barca che la tempesta spingesse contro i frangenti»34) in vista delle prossime operazioni che voleva organizzare secondo una strategia di attacco che non dovesse passare il vaglio del comandante dell’esercito, il generale Pietro Roselli, e della Commissione di Guerra. Ma se si fosse piegata a un aut aut del genere la Repubblica avrebbe tradito gli stessi presupposti di democrazia su cui era stata fondata e avrebbe spostato l’origine del potere dal voto popolare alla milizia. A uscirne penalizzato sarebbe stato non solo Mazzini ma tutta l’Assemblea35. In un certo senso il mese di maggio era stato il mese delle speranze. Giugno cominciò in tutt’altro clima. A preoccupare un Mazzini sconsolatissimo era il fatto che i personalismi e le ripicche venissero fuori nell’imminenza della fine della tregua che, chiusa la parentesi Lesseps, Oudinot aveva convenuto fosse fissata all’alba di lunedì 4 giugno. E invece, giocando su un’interpretazione di comodo delle modalità concordate nell’armistizio e col favore di una certa superficialità da parte dei comandanti romani nel predisporre un’adeguata sorveglianza dei bastioni del Gianicolo, l’assedio francese ebbe inizio con un assalto a sorpresa quando il 3 giugno era iniziato da poche ore.   Garibaldi, Memorie cit., p. 234.   Trevelyan, Garibaldi’s defence of the Roman Republic, Longmans, Green and Co., London, 1907, p. 164. 34

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VII Presagi di capitolazione 3 giugno. I francesi assaltano Quello del 3 giugno 1849 fu il secondo grande combattimento difensivo della breve vita della Repubblica romana del 1849, e durò dalle 3 di notte alle 17 dello stesso giorno. Si fronteggiarono due grossi eserciti: il romano, che secondo calcoli francesi contava circa 22.000 uomini – di cui 6000 volontari – raccolti in due divisioni, la prima delle quali guidata da Garibaldi; e il francese, articolato su tre divisioni, su un battaglione del Genio comandato dal generale Vaillant, e sull’artiglieria, per un totale di circa 20.000 uomini cui nei giorni successivi se ne sarebbero aggiunti altri 10.0001. Era stato proprio il Vaillant che, entrato in Roma di nascosto qualche giorno prima, aveva deciso coi suoi collaboratori che l’attacco avrebbe fatto perno su Porta S. Pancrazio e sui bastioni 6 e 72: in tal modo si trascuravano forse più facili accessi ma si evitava il rischio di restare invischiati in una guerra di barricate dall’esito tutt’altro che scontato. Le rispettive strategie erano state delineate già dalla battaglia del 30 aprile, che aveva dimostrato come ai romani che aspettavano l’attacco asserragliati dietro le mura non si potesse opporre un’avanzata metro per metro su un terreno scosceso come quello prospiciente il Gianicolo che avrebbe esposto gli assalitori a un fuoco distruttivo. Dunque la soluzione migliore consisteva nell’impadronirsi di quei fabbricati esterni alle mura che posti su rialzi del terreno avrebbero   Pisacane, Guerra combattuta cit., p. 277.   Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, pp. 585-587.

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consentito di cannoneggiare le difese nemiche mentre intanto le truppe d’assalto scavavano trincee parallele che le avrebbero portate sempre più vicine ai bastioni. Per rendere un’idea della zona sulla quale si concentrarono gli attacchi dei francesi, ci serviremo stavolta dei ricordi di Agostino Bertani, il medico lombardo accorso a Roma per prestarvi la propria opera nei giorni in cui più accaniti fervevano i combattimenti. Scrivendone molti anni dopo la biografia, Jessie White Mario ricordava di aver visto nella casa genovese di Bertani «una serie di fotografie di rovine romane» del ’49 recanti in calce alcune didascalie scritte a mano. Risultava, da quelle immagini illustrate anche dai nomi dei caduti più noti, che in previsione degli attacchi francesi i difensori di Roma avevano stabilito tre linee di resistenza nel tratto compreso tra Porta Cavalleggeri e Porta Portese: la prima linea, esterna a Porta S. Pancrazio e alle mura di Urbano VIII, aveva come avamposti la Villa Corsini, meglio nota come il Casino dei Quattro Venti, la Villa Valentini e la Villa Giraud o del Vascello; la seconda, interna alle mura, era organizzata intorno alla Villa Savorelli, dove Garibaldi, rientrato a Roma il 31 maggio, aveva fissato il proprio quartier generale, e comprendeva il Casino Barberini e Villa Spada; la terza linea di difesa arretrava fino alla chiesa di S. Pietro in Montorio che aveva sotto di sé le estreme propaggini di Trastevere3. Bellissime ville, la Corsini e la Giraud, che torreggiando maestose chiudevano l’orizzonte occidentale a chi guardava Villa Pamphili da Porta S. Pancrazio; e fondamentali sotto il profilo strategico, perché dal loro possesso poteva dipendere la riuscita delle operazioni militari. Fu per attuare con maggiori probabilità di successo il suo piano d’attacco che Oudinot anticipò l’inizio delle ostilità alla notte tra il 2 e il 3 giugno: i romani gridarono al tradimento e alla violazione della parola data, il generale francese rispose che si era impegnato ad attaccare «la piazza» a partire dal 4 giugno ma non i luoghi esterni a essa, intendendo per piazza la città entro le mura. Fatto sta che, fidandosi di tale impegno, da parte dei difensori 3   White Mario, Agostino Bertani cit., pp. 94-95. Le fotografie possedute da Bertani erano certamente quelle scattate dal fotografo Stefano Lecchi, sul quale si veda il volume Stefano Lecchi. Un fotografo e la Repubblica romana del 1849, a cura di M.P. Critelli, Retablo, Roma, 2001.

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non fu predisposto nessun serio dispositivo di allarme, si tennero gli uomini accampati in città e ci si limitò a piazzare a difesa di Villa Pamphili i 400 bersaglieri del battaglione Pietramellara: i quali, colti di sorpresa, non poterono che arrendersi e assistere impotenti all’occupazione di Villa Corsini che 200 di loro prima di esser presi prigionieri avevano cercato di fortificare. Da questo momento in poi l’idea che era stata alla base del concetto stesso di difesa – respingere gli assalti prendendo d’infilata il nemico – dovette essere capovolta radicalmente: restare al riparo delle mura non aveva più senso, bisognava fare il possibile per riprendere quella postazione che non ci si era curati di munire per tempo con un adeguato dispiegamento di forze. E qui fallirono tutti, e tutti ebbero le loro colpe: il generale in capo Roselli, Garibaldi, la Commissione di Guerra e per essa Pisacane che su queste responsabilità sorvola, lo stesso Triumvirato che aveva un bell’incitare «Su, Romani! Alle mura, alle porte, alle barricate!»4 quando ormai la frittata era fatta. Fuori delle mura, Villa Corsini costituiva il punto più delicato: impadronirsene avrebbe significato per gli assedianti proteggere col fuoco indirizzato sulle batterie romane le truppe che avanzavano verso Porta S. Pancrazio. Fu un vantaggio che i francesi, ossia coloro che meno ne avevano bisogno, seppero sfruttare in pieno. Le artiglierie che a maggio avevano fatto arrivare dalla Francia erano, per i tempi, le più potenti di cui fosse possibile disporre; quanto ai romani, i loro cannoni oltre a essere pochi avevano una gittata assai più corta. Si capisce che fecero festa quando al Vascello scovarono «una spingarda vecchia più della bisnonna del padre Anchise»; ma al primo colpo questo rudere per poco non ammazzò colui che l’aveva adoperata5. Quando a Roma fu dato l’allarme, Garibaldi, sofferente per la ferita del 30 aprile, stava dormendo in una modesta abitazione di via delle Carrozze6. Siccome, per un’altra scelta molto discutibile, tutte le truppe erano accasermate in città, Garibaldi si precipitò a radunare in piazza S. Pietro le due brigate di cui si componeva la sua divisione (le comandavano il generale Galletti e il colonnello   E.N.S., vol. XLIII, p. 162.   Z. Goppelli, La Compagnia Medici e la difesa del Vascello. Ricordo per il 20 settembre 1895, U. Delbello, Montegiorgio, 1895, pp. 314-315. 6   Trevelyan, Garibaldi’s Defence cit., p. 169. 4 5

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Marochetti, altro reduce dal Sud America) e a guidarle sul Gianicolo. Nell’arrivarvi si rese subito conto che la perdita di Villa Corsini rischiava di risultare decisiva ma capì anche che riconquistarla avrebbe comportato un prezzo altissimo. In un certo senso era questa la situazione che prediligeva perché richiedeva un coraggio e un’abnegazione totali, fattori che da sempre considerava punti di eccellenza degli uomini affidati al suo comando. Più in basso rispetto a Villa Corsini e a mezza strada da Porta S. Pancrazio c’era la Villa del Vascello che Galletti era riuscito a presidiare in attesa di rinforzi. Di qui partirono i contrattacchi che Garibaldi lanciò a più riprese nel tentativo, alla fine rivelatosi vano, di togliere ai francesi Villa Corsini; e si andò avanti per tutta la giornata, con la villa presa, perduta, ripresa e perduta ancora, per ben tre volte, e con gli uomini, in prevalenza giovani, che con i cavalli lanciati in una carica furibonda su per la grande scalinata della villa bruciavano in pochi minuti le loro esistenze, quasi che bastasse un lavacro di sangue per cancellare secoli di umiliazione collettiva. In effetti, in quell’Europa delle potenze non c’era altro modo per dimostrare a tanti altri italiani e all’opinione pubblica internazionale che l’espressione geografica Italia, designando una nazione futura ma antica, aspirava ad avere la stessa dignità civile, politica e morale delle consorelle europee. Scene da un massacro Tra i primi a cadere ci fu Francesco Daverio, un mazziniano lombardo che Garibaldi aveva promosso a capo del suo Stato maggiore; subito dopo, probabilmente nella mattinata, fu il tenente Goffredo Mameli a essere raggiunto da un proiettile alla tibia sinistra, e non è escluso che si trattasse di fuoco amico; poi fu ferito Angelo Masina, comandante dei lancieri, che dopo essersi fatto curare volle tornare a combattere fino a quando non fu abbattuto; quindi restò ferito il genovese Nino Bixio, e poi, con l’arrivo dei 400 bersaglieri di Luciano Manara, toccò al ventiduenne Enrico Dandolo cadere sotto la gragnuola di colpi con cui gli uomini di Oudinot battevano lo spazio antistante Villa Corsini: Emilio Morosini, che gli stava accanto e che lo soccorse dopo che una pallottola di stutzen lo aveva colpito sul lato destro del petto uscendo

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dalla schiena, avrebbe poi raccontato che erano andati avanti sotto il fuoco francese senza tirare un colpo7. Se fosse bastata l’audacia a far conseguire la vittoria, quella sera i romani avrebbero acceso le luminarie come avevano fatto il 30 aprile. Come sempre, Garibaldi era il primo a esporsi, convinto che il suo esempio avrebbe dato slancio anche ai più timorosi; e fu lui in persona a guidare una seconda carica, e una seconda volta, dopo avercela fatta, i suoi furono ricacciati indietro con altre gravissime perdite. Il problema stava proprio qui: mandare allo sbaraglio piccoli gruppi d’assalto invece di raccoglierli in forti unità di combattimento che fossero in grado di impegnare il nemico in una vera e propria battaglia era molto eroico ma poco razionale perché facilitava il compito degli assedianti. Nel furore dello scontro, quando «i fucili non servivano più a nulla, e i soldati non combattevano più che colle armi bianche»8, si finiva il più delle volte per affrontarsi corpo a corpo, perché questo era il tipo di combattimento preferito da Garibaldi che lo chiamava «a ferro freddo» e lo considerava decisivo per l’esito delle battaglie9. Naturalmente per chiunque vi si impegnasse era difficile uscirne vivo. Dall’una parte e dall’altra furono in molti a cadere. Così si sacrificò Masina, che a cavallo era salito fin quasi al primo piano di Villa Corsini e quando fu soccorso da un volontario greco aveva ancora un piede nella staffa10; così rimase ferito Emilio Dandolo, accorso a cercare il fratello Enrico del quale nessuno aveva voluto dirgli la fine prematura, e morirono i maggiori Ramorino e Peralta: che erano perdite gravi in sé ma ancor più nell’effetto che avevano sui soldati affidati al loro comando, perché ogni volta che muore un ufficiale muoiono un po’ anche i suoi sottoposti. Fu così che il bilancio delle vittime del 3 giugno s’appesantì paurosamente per la perdita di tanti volontari sconosciuti, come mai era avvenuto in una battaglia risorgimentale e in così breve spazio di tempo e di terra. Nei ricordi di chi visse l’epopea romana, il 3 giugno lasciò   Capasso, Dandolo, Morosini, Manara cit., pp. 232-233.   Rusconi, La Repubblica romana cit., p. 131. 9   «Pochi colpi e subito alla bajonetta», prescriveva Garibaldi a Emilio Dandolo: Capasso, Dandolo, Morosini, Manara cit., p. 227. 10   N. Costa, Quel che vidi e quel che intesi, a cura di G. Guerrazzi Costa, Treves, Milano, 1927, p. 64. 7 8

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una traccia indelebile. Antonio Ciabattini, un falegname aretino inquadrato nella Legione Medici, quasi quarant’anni dopo consegnerà a un quaderno di memorie l’immagine che più lo aveva colpito mentre risaliva il pendio verso il Vascello: il fotogramma, quasi, di una «lunga lista rossa, come un tappeto rosso che dalla porta S. Pancrazio giungeva fino alla porta dell’ambulanza [sistemata a S. Pietro in Montorio], della larghezza di circa un metro e ottanta centimetri. Questo tappeto era il sangue che colava dalle barelle che trasportavano i morti e i feriti della pugna avvenuta dalle 2 antimeridiane del 3 giugno»11. Decisamente da film dell’orrore il racconto di Nino Costa, giovane pittore romano che poi si affermerà come vedutista particolarmente apprezzato dai collezionisti inglesi: sia pure a distanza di anni la sua testimonianza rende con efficacia il clima di quel giorno al Casino dei Quattro Venti che, come si è detto, era la denominazione popolare di Villa Corsini: Il pianterreno del casino dei Quattro Venti era pieno di morti fatti a pezzi per gli accaniti successivi assalti, avendo i Francesi di quei miseri corpi fatto barricate; ed i nostri cannoni aveano travolto e fracassato i cadaveri, i pezzi dei quali emergevano tra il sangue ed i calcinacci. Uno ve ne era, tra tanti morti, al quale una palla di cannone avea svuotato il petto ed il ventre ed incastonato gli intestini sul muro; ed i calcinacci pioventi dal soffitto ne aveano riempito il ventre12.

Agì su tutti un misto di rabbia e patriottismo: «Vorrei – scriverà una settimana dopo Manara – ad uno ad uno potervi raccontare i fatti memorabili di quella giornata, in cui, giovinetti già con due o tre ferite nel corpo, vollero combattere ancora e morire gridando, viva la repubblica!; altri vedere rassegnati cadere il fratello, l’amico, e spingersi ancor più arditi contro il fuoco nemico»13: dove c’è la prova di come le contrapposizioni ideologiche, per quanto sentite, potessero in determinate circostanze esser messe a tacere e non fosse più percepito quell’impatto divisivo che si è talvolta voluto attribuire alla predicazione mazziniana. A voler considerare il risultato avendo come solo parametro   Catoni, Un artigiano cit., p. 267.   Costa, Quel che vidi e quel che intesi cit., p. 66. 13   Lettera dell’11 giugno 1849, in Lettere di Luciano Manara a Fanny Bonacina Spini, a cura di F. Ercole, Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, Roma, 1939, p. 262. 11 12

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quello del successo, la giornata del 3 giugno si risolse in una vera carneficina e, per i romani, in un ormai fatale arretramento della linea di difesa. Qualcuno giudicò il sangue sparso quel giorno del tutto sprecato. In realtà, furono proprio i tanti caduti tra le file dei garibaldini a rimuovere definitivamente le aspirazioni nazionali dal terreno dell’utopia e a rafforzare in tutti gli italiani, nessuno escluso, la coscienza di un diritto tante volte negato. Fu per questo che nelle Confessioni di un italiano Ippolito Nievo volle fare della fine di questa vicenda, affidata al racconto di Giulio Altoviti, il suggello di sessant’anni di lotte patriottiche e l’auspicio che il mancato riscatto di Roma potesse essere garanzia di un futuro riscatto nazionale. Né fu un caso che a simboleggiare tale aspirazione assurgesse quel Garibaldi che i corrispondenti di guerra inglesi, i pittori e infine un volontario svizzero che gli combatteva a fianco, Gustav von Hoffstetter, avrebbero raffigurato nell’atto di dirigere a cavallo gli assalti senza curarsi minimamente del fuoco nemico14. Negli anni che seguirono molto di ciò che era avvenuto al tempo della Repubblica fu rimosso dalla memoria collettiva; non fu così per le prove di valore fornite il 3 giugno, in parte deideologizzate e ascritte a un sentimento di rivalsa privo di particolari connotazioni politiche ma motivato principalmente da un più forte senso del patriottismo. Il giorno dopo in Assemblea Costituente cominciarono ad arrivare le cifre dei caduti. Secondo un primo rapporto, 336 feriti erano stati ricoverati nei vari ospedali romani, cui date le circostanze se ne era dovuto aggiungere un altro di fortuna presso il Quirinale, mentre i morti erano calcolati in «una decina»15; il 5 giugno la statistica fu corretta e incluse i caduti del 4 giugno: 40 feriti e 40 morti, per un ammontare di oltre 400 vittime «che però, secondo quanto annunziavano i commissari addetti, non rappresentava la cifra esatta delle nostre perdite in queste tre giornate»16. Dati più precisi non vennero mai resi noti forse perché nessuno mai li conobbe. Si può tuttavia prestar fede a Gabussi quando scrive che «i Romani ebbero 19 ufficiali uccisi, 32 feriti e circa 500 sol14   L. Riall, Garibaldi. L’invenzione di un eroe, Laterza, Roma-Bari, 2007, pp. 91-98. 15   Atti Roma, vol. IV, p. 682. 16   Ivi, pp. 692-693.

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dati fra morti e feriti»17. Ma l’effetto più grave di combattimenti così accaniti lo si era avuto con l’occupazione da parte francese dei punti strategici che si è detto: «I nostri si sono portati come tanti eroi – scriveva Mazzini alla madre –. I Francesi non hanno potuto entrare. Ma torneranno ad assalire»18. Per la prima volta si avvertiva da parte sua una nota acuta di pessimismo, quanto meno sotto il profilo militare. Non ci sarebbe voluto infatti un grande stratega per capire che, una volta presa Villa Corsini, i francesi avrebbero potuto proteggere le truppe nel loro avvicinamento ai bastioni: che è appunto quello che avvenne all’indomani del 3 giugno, quando dall’alto dei muri di cinta, dove l’artiglieria di Ludovico Calandrelli faceva del suo meglio per rallentare l’avanzata nemica, si poterono scorgere i soldati di Oudinot che scavavano trincee al riparo delle quali rendere più precisi i loro tiri, per poi spostare in avanti la postazione con l’apertura di un’altra trincea, parallela alla prima. Con questo sistema, accompagnato da un bombardamento insistente, Oudinot avrebbe prima o poi preso la città entrandovi da una breccia, senza dovere affrontare la guerra di barricate in cui Mazzini sperava di poterlo trascinare. Le polemiche del giorno dopo In effetti il colpo era stato sentito e già si percepivano segni di nervosismo. Tra l’altro, a esser preso di mira fu il giornalismo, colpevole secondo alcuni, nella persona di Francesco Dall’Ongaro, direttore dell’ufficiale «Monitore Romano», di non aver riferito con toni adeguatamente celebrativi le imprese dei difensori: il deputato Agostini ne chiese ed ottenne la rimozione dall’incarico19. Quindi, man mano che i francesi progredivano nelle opere d’assedio, si cominciò a temere che ogni fuoco acceso su un punto alto di Roma, ogni bandiera sventolante e ogni razzo luminoso 17   Gabussi, Memorie per servire cit., vol. III, p. 433. Liedekerke de Beaufort, Rapporti delle cose di Roma cit., p. 192, azzarda per i romani la cifra di 800 tra morti e feriti. 18   Lettera del 3 giugno 1849, in E.N.S., vol. XL, p. 132. 19   Atti Roma, vol. IV, pp. 683-685.

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celassero un segnale convenuto col nemico20 per poi magari scoprire, come accadde con la casa dei principi Piombino, che «non essendovi più società né altri mezzi con cui passare piacevolmente la sera, spesse volte accade che qualcuno della famiglia prende un lume e va all’Osservatorio per respirare un po’ d’aria fresca»21. In generale, però, si reagì con una certa compostezza e ci si strinse intorno alle istituzioni, le quali ostentarono il compiacimento di chi scopre di avere il popolo dalla propria parte. In tal senso il Triumvirato ricevette da molte autorità provinciali segni concreti di solidarietà e di incitamento a resistere. Il malcontento, se c’era, così come l’opposizione, non poteva manifestarsi apertamente, ma se ne trova traccia nelle lettere di protesta indirizzate ai Triumviri per deplorare le requisizioni illegali o il trasferimento di monache e frati dai rispettivi conventi adibiti temporaneamente a luoghi di accoglienza per le truppe (i soldati di Garibaldi, ad esempio, erano accampati nel convento di piazza S. Silvestro; le salesiane sfrattate dall’Umiltà passarono a Santa Susanna22). Sicuramente fece abbastanza scalpore a Roma la manifestazione popolare contro l’asporto dei confessionali dalle chiese e la loro distruzione, tanto che il Triumvirato fu costretto a intervenire per ordinare la riconsegna di quelli non ancora utilizzati sulle barricate23. A rassicurare tutti sulla tenuta psicologica della popolazione anche dopo l’inizio dei bombardamenti – i più esposti erano i residenti a Trastevere – c’era la mirabile capacità dei romani di farsi scivolare addosso anche le situazioni più gravi, allentando con una battuta l’inevitabile tensione cui erano sottoposti, tanto da destare lo stupore dei pochi osservatori stranieri rimasti in città, come il pittore olandese Koelman, o lo chargé d’affaires americano Cass. Non meno sorpresi erano gli stessi difensori della Repubblica: si legga ciò che scriveva a Garibaldi il tenente Gaetano Valeri: «Questi popolani trasteverini fra i quali mi trovo giorno e notte, si sono abituati al tuonar del cannone per modo che riprendono i loro lavori e le loro abitudini. Dimostrano grande patriottismo,   A.S.R., busta 96, fasc. 266, nota del Commissariato Monti in data 17 giugno.   Ivi, busta 97, fasc. 268, nota del Commissariato Colonna in data 19 giugno. 22   Roncalli, Cronaca cit., vol. II, p. 160. 23   Proclama del 20 maggio, in E.N.S., vol. XLIII, pp. 29-31. 20 21

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e si dichiarano pronti a ogni sacrificio per sostenerci»24. Talvolta anche al sacrificio della vita, se è vero ciò che scriverà ammirato il pur ostile Farini parlando di «ben sette mila Romani in armi, oltre quelli che nella milizia regolare o fra le legioni de’ volontarii combattevano»25. E proprio «Ai Transteverini» era rivolto il seguente proclama di Garibaldi del 19 giugno («Dal Quartier Generale di Porta S. Pancrazio») che vale la pena di riprodurre per intero in quanto, per quel che ci risulta, inedito: Gl’Italiani quando combattono vincono; [...] E noi vinceremo!!! Perché come gli antichi abitatori del Gianicolo siamo disposti a pugnare. Dei Transteverini, qui? [...] non ne abbiamo bisogno; i Transteverini si manterranno all’imboccatura delle strade, per pugnalarmi qualora abbandonassi i miei compagni, o farne altrettanto di questi, allorché da vili m’abbandonassero. Dunque noi vinceremo e dopo la vittoria bacieremo i maschi romani sembianti dei nostri fratelli di Transtevere colla coscienza d’aver fatto il nostro dovere26.

Poi, con la Repubblica già caduta, un’aspra polemica sarebbe scoppiata contro la conduzione dell’assistenza sanitaria e in particolare contro la moralità delle infermiere, cui la pubblicistica reazionaria raccolta attorno agli ambienti della «Civiltà Cattolica» avrebbe rivolto pesanti allusioni sul tipo di assistenza prestata ai degenti27. Forse con le loro insinuazioni a posteriori i padri gesuiti ricambiavano il fatto che molti appartenenti al clero regolare, approfittando del decreto triumvirale del 27 aprile che li autorizzava a secolarizzarsi, si erano messi a disposizione delle ambulanze28. Sul tema delle «infermierine» che «s’avvolgeano snellette e leggere intorno ai letti in grembialino 24   A.S.R., busta 96, fasc. 265. Ma il 15 giugno il commissario del Rione Monti comunica che molti trasteverini, abbandonato il loro rione, hanno cercato rifugio nel suo: ivi, busta 96, fasc. 266. 25   Farini, Lo Stato romano cit., vol. IV, pp. 176-177. 26   A.S.R., busta 97, fasc. 268. 27   Balleydier, Storia della rivoluzione di Roma cit., pp. 281-282. È opportuno ricordare che la «Civiltà Cattolica» iniziò le pubblicazioni nel 1850. 28   A.S.R., busta 96, fasc. 261: si tratta di una comunicazione al Ministero dell’Interno e al Triumvirato, e vi si dice che appena saputo del decreto «intieri conventi parvero pronti a sciogliersi»; non così per i conventi femminili dai quali venne un rifiuto in massa.

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di seta a ventaglio; colle maniche riboccate assai sopra il gomito, coi capi ben acconci, per non aver sembiante di suore, con certi risolini in bocca, con certe parolette dolcinate» avrebbe poi esercitato la sua penna velenosa il gesuita Antonio Bresciani, al cui occhio stranamente esperto non sarebbero sfuggite le caratteristiche più seducenti dell’abbigliamento e del modo di fare delle volontarie addette alla sanità29. E però una risposta indiretta gli era stata già data non da un repubblicano, non da un rivoluzionario, ma da Giuseppe Spada, papalino fervente anche lui ma abbastanza scrupoloso da ricordare che «varie signore anche spettabili per condizione sociale» guidate da Cristina di Belgiojoso si erano distinte per spirito umanitario, e che «l’opera buona che praticarono, rifulge di luce sì vivida, da far sparire le ombre, e la carità cristiana c’insegna a non pensar male»30. A Spada non era ignoto che in quegli ospedali le sofferenze erano reali: appunto una di queste infermiere, l’americana Fuller, che era anche giornalista, ebbe a scrivere che già all’indomani del 30 aprile aveva dovuto assistere «alle terribili agonie dei moribondi e di coloro che dovevano subire amputazioni» e aveva sentito i pianti disperati di chi, venendo dalla Lombardia, invocava inutilmente l’ultimo conforto dei parenti lontani31. Ed era solo l’inizio, un nulla al paragone di ciò che avverrà a giugno quando, alla ripresa dei combattimenti, gli ospedali si riempiranno di moribondi cui si potrà soltanto lenire con qualche gesto pietoso il dolore della fine. Sono le cose che la Belgiojoso ricorderà a Pio IX nella lettera che gli indirizzerà nel gennaio del 1850 per riportargli alla memoria la «donna di perversi costumi» che aveva pietosamente pulito le ferite di Cristo sulla croce32. Roma sotto assedio A partire dal 3 giugno l’Assemblea Costituente prese a sedere in permanenza, decisione che era stata già ventilata nell’imminenza 29  A. Bresciani, La Repubblica Romana, Muggiani e C., Milano, 1882, vol. I, p. 103. 30   Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, p. 591. 31   Fuller, «These sad but glorious days» cit., p. 280. 32   L. Incisa, A. Trivulzio, Cristina di Belgioioso la principessa romantica, Rusconi, Milano, 1984, p. 348.

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del 30 aprile33. Era il modo con cui essa stava vicina ai combattenti e all’esecutivo: dei primi si elogiava il valore, del secondo si sosteneva l’operato con una intensa attività legislativa che, come si vedrà più avanti, dal 10 giugno si concentrò sull’esame del progetto di Costituzione. Il Triumvirato, a sua volta, parve raddoppiare gli sforzi, quasi a voler recuperare il tempo perduto nella trattativa con Lesseps. Sembrerà strano, ma fu solo in questi giorni che cominciarono sul serio i lavori per la fortificazione dei bastioni, nel tentativo di tenere più lontana possibile la linea del fuoco nemico e di prepararsi comunque a una difesa all’arma bianca; e fu giocoforza concentrarsi sulla zona compresa tra Porta S. Pancrazio e Porta Portese in cui i francesi, pur operando qualche diversivo su Ponte Milvio o sull’Aventino, avevano chiaramente individuato il punto chiave della difesa e l’obiettivo più importante. Con i soldati impegnati in combattimento o in turni di guardia molto pesanti fu però difficile trovare chi riparasse i bastioni o le mura o li rendesse più sicuri approntando nuove batterie o anche chi rimediasse al taglio della fornitura dell’Acqua Paola operato dai francesi il 10 giugno34. Il giorno prima lo stesso Mazzini aveva chiesto all’Assemblea di trovare un modo per «infervorare la popolazione all’intento»35. Ma, dopo i tanti morti del 3 giugno, non era affatto facile persuadere i civili a esporsi in prima linea, nemmeno offrendo paghe doppie rispetto a quelle previste per i normali lavori di sterro. A un certo punto intervenne la Commissione delle Barricate che il 13 giugno sollecitò l’invio di 150 operai, ma il 14 dovette constatare che, malgrado i compensi offerti, se ne erano presentati pochissimi36. Allora il 15 il ministro della Guerra Avezzana chiese che gli fossero assegnati 150 condannati ai lavori forzati rinchiusi in Castel S. Angelo: consegnati a Garibaldi, la sera dello stesso giorno il comandante in capo Roselli lamentava che solo 38 di essi avevano fatto ritorno al luogo di pena37. «Aumentate le offerte. Spingeteli alle mura», supplicava Mazzini il 19 giugno chiedendo   Atti Roma, vol. IV, pp. 380-385.   A.S.R., busta 96, fasc. 261. 35   E.N.S., vol. XLIII, p. 127, in part., pp. 120-121. 36  A.S.R., busta 96, fasc. 262. 37   Ivi, busta 96, fasc. 264. 33 34

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operai al Comune38. Ma in pratica il problema restò irrisolto, fu causa di qualche dissapore, come quello insorto tra Garibaldi e il colonnello Luigi Amadei, ufficiale del Genio, che il Nizzardo fece arrestare arbitrariamente ritenendolo colpevole di insubordinazione per non aver fatto eseguire i lavori commissionatigli39, e arrivò perfino in Assemblea dove ci fu chi propose che i deputati dessero il buon esempio andando «processionalmente»40 sui bastioni a fare un po’ di movimento terra. Non occorse nessuna processione per far sì che la proposta non fosse nemmeno messa ai voti. Prendeva, dunque, a comparire qualche sintomo di sfiducia o di scollamento dalle istituzioni. «Moltissimi – annotava il 5 giugno un diarista – cominciano a desiderare che i Francesi entrino presto, anche ostilmente»41. Per iniettare nuova fiducia nella gente dei rioni il Triumvirato prese qualche decisione gradita al popolo e a parziale sollievo delle sue condizioni di vita, ad esempio procedendo a requisizioni di oggetti di valore di proprietà di cardinali e prelati illustri, oppure bloccando la vendita dei pegni di poco valore42, ovvero assegnando a coloro che avevano cominciato ad abbandonare Trastevere per timore dei bombardamenti un alloggio nelle dimore patrizie più illustri: Palazzo Doria, con esclusione della Galleria, Palazzo Altieri, Palazzo Borghese in piazza Capranica, nonché le residenze dei cardinali Antonelli, Ugolini e Bernetti43. Farini ironizzerà molto sulle popolane che «si pavoneggiavano fra gli addobbi e le ricche suppellettili delle invidiate principesse»44: la verità è che misure come queste avevano un che di controproducente perché rimettevano in circolo i sospetti di comunismo e di volontà punitiva verso la grande proprietà privata che da tempo venivano lanciati contro la dirigenza repubblicana.   Lettera a F. Sturbinetii, in E.N.S., vol. XL, pp. 147-149.   Garibaldi, Epistolario, vol. II, pp. 177-179. 40  Atti Roma, vol. IV, p. 775. 41   M. Severini, Diario di un repubblicano. Luigi Filippo Polidori e l’assedio francese alla Repubblica Romana del 1849, Affinità elettive, Ancona, 2002, p. 171. 42   Ordinanza del 5 giugno 1849, in E.N.S., vol. XLIII, p. 107. La disposizione riguardava oggetti il cui valore non superava i 30 scudi, che comunque era una cifra molto alta, equivalente a 150 lire. 43   Proclama alle Romane del 5 giugno 1849, ivi, pp. 108-109. 44   Farini, Lo Stato romano cit., vol. IV, p. 177. Si tenga conto che già il decreto del 29 aprile aveva stabilito una misura del genere per carceri, ospedali e abitazioni, ma aveva colpito solo le case dei religiosi: E.N.S., vol. XLI, pp. 207-208. 38 39

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Sul piano finanziario la situazione era anche più grave: la moneta erosa (ossia in rame, dunque di valore inferiore a quella in argento) faceva fatica a circolare, e bisognò a più riprese procedere a emissione di buoni del tesoro (il 6 giugno buoni da 10 baiocchi per 100.000 scudi; il 16 giugno per quattro milioni «da garantirsi coi beni nazionali»45). Forse fu per dare un’idea più aperta del regime che si tollerò che alcuni giornali («La Pallade», la «Speranza dell’Epoca», il «Contemporaneo», il «Don Pirlone»), bloccati in precedenza in virtù di un decreto del 28 aprile che consentiva solo la pubblicazione dell’ufficiale «Monitore Romano», riprendessero a uscire46. Però, tra queste e altre misure del genere, alla fin fine un ruolo di capitale importanza lo aveva il vino: Garibaldi ne faceva incetta per omaggiarne generosamente i suoi uomini, mentre i francesi cercavano di procurarselo con ogni mezzo ben sapendo anch’essi come una buona dose di alcol avesse l’effetto di spingere i soldati a combattere senza essere eccessivamente frenati dall’istinto di conservazione47. Infatti i combattimenti continuavano, in uno stillicidio quotidiano di inesorabili avanzate francesi e di tentativi di rabbioso contrattacco dei romani. Distaccamenti nemici entravano in azione su vari punti dell’ampio perimetro costituito dalle mura o dal Tevere, e non sempre si riusciva a neutralizzare la loro azione di disturbo mirata soprattutto ad allargare il fronte d’attacco e a fiaccare il morale della popolazione. Chi proprio non poteva accettare la sconfitta era Garibaldi che faceva della guerra una questione quasi personale e che, dal suo quartier generale a Villa Savorelli, progettava da giorni un attacco diretto alle postazioni nemiche, convinto, al di là di ogni ragionevole dubbio e del pessimismo di Mazzini, che avrebbe potuto farcela. In realtà, erano stati proprio Pisacane e Mazzini a proporre a Garibaldi di uscire con cinque brigate e portarsi con una serie di manovre a ridosso di Villa Pamphili per sfidare in campo aperto i francesi. Fu questa l’ultima puntata del conflitto che opponeva da tempo il generale nizzardo alla Commissione di Guerra: Garibaldi, infatti, respinse il piano dello Stato Maggiore e al tempo stesso chiese e ottenne di   Ivi, vol. XLIII, pp. 140-141.   A.S.R., busta 96, fasc. 265. L’autorizzazione per la pubblicazione manteneva comunque in vita la censura preventiva. 47   Ivi, busta 96, fasc. 262. 45 46

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potere effettuare una sortita notturna contando di sfruttare così il fattore sorpresa48. Ci provò infatti la notte tra il 10 e l’11 giugno, dopo che era riuscito a farsi dare il comando di 8000 uomini cui, perché si potessero riconoscere al buio, aveva fatto indossare una lunga camicia bianca (in quella che passò alla storia come la «notte dell’incamiciata»). Finì che usciti da Roma passando per Porta Cavalleggeri i reparti si confusero e a un certo punto si trovarono a fronteggiarsi col rischio di spararsi addosso l’un l’altro49. Per prudenza Garibaldi preferì rinunciare e riportare tutto il contingente in città, ma nessuno gli tolse mai dalla testa l’idea che nel corpo a corpo i suoi uomini potessero avere la meglio sui francesi. Faceva parte della sua personalità e del suo stile di comando galvanizzare se stesso e i suoi legionari col mito dell’invincibilità, e in quei giorni di disperazione ciò appariva oltremodo necessario. Per cui, come era già successo il 3 giugno, poteva anche modificare nei propri bollettini di guerra la conclusione della battaglia e dire di essere rimasto padrone del campo50. Gaeta al contrattacco Intanto a Gaeta si venivano definendo con maggior chiarezza le linee politico-diplomatiche mediante le quali arrivare prima possibile a una restaurazione del papato temporale. In prima linea, a reggere le redini della politica pontificia, c’era il cardinale Giacomo Antonelli che proprio la crisi dello Stato papale aveva portato alla ribalta conferendo un peso indiscutibile alla sua intransigenza. Abilissimo a muoversi tra le varie correnti del Sacro Collegio, Antonelli aveva dalla sua i gesuiti che, condividendone in pieno l’idea di una difesa a oltranza della sovranità temporale del papa, tendevano a isolare Pio IX da qualunque influenza potesse convincerlo a riprendere il cammino delle riforme. Proprio in riferimento a tale conflitto, combattuto in modo sor48   Gabussi, Memorie per servire cit., vol. III, p. 437, dove si esprime sorpresa per la remissività della Commissione di Guerra. 49   G. Beghelli, La Repubblica romana del 1849, Società cooperativo-tipografica, Lodi, 1874, vol. II, pp. 327-328. 50   Ridley, Garibaldi cit., pp. 349-350.

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do ed evitando ogni forma di pubblicità, la vicenda del ristabilimento dell’autorità temporale del papa può essere raccontata dalla prospettiva di Antonio Rosmini, il teologo roveretano da tempo attestato su posizioni di cattolicesimo liberale molto aperte ad un raccordo ideale tra religione e democrazia. Si era per questo reso molto sospetto alla Curia, e lo stesso Pio IX, pur conservando per lui un certo rispetto e continuando a consultarlo sui passi da prendere (non erano passati molti mesi da quando Pio IX «gli aveva manifestato la sua intenzione di promuoverlo cardinale e di nominarlo segretario di Stato»51), nell’atmosfera illiberale di Gaeta non poteva fare a meno di vedere la credibilità di Rosmini compromessa da chi lo metteva in cattiva luce arrivando ad attribuirgli simpatie per il comunismo52, una concezione politica e una ideologia che il teologo aveva dichiaratamente combattuto. Di lui dava fastidio la capacità di immaginare una Chiesa fondata su basi totalmente nuove: si pensi, tanto per fare un esempio, che un anno prima Rosmini si era detto contrario a quell’articolo dello Statuto albertino che affermava essere il cattolicesimo religione di Stato. Come se non bastasse, si era spinto a salutare con favore l’affermazione della nazionalità italiana auspicando che essa potesse costituirsi «in armonia e non in conflitto con la Chiesa»53. Aveva in mente un progetto di confederazione italiana che dopo la sconfitta della guerra federale aveva certamente perso plausibilità; ma ancora all’inizio del 1849, e cioè ben dopo la fuga del papa da Roma, sua prima preoccupazione era che non si lacerasse quel legame tra il sovrano e il suo popolo che le riforme del cosiddetto biennio liberale avevano reso possibile e che l’evoluzione negativa del ’48 aveva messo a repentaglio: perciò riteneva indispensabile che la crisi aperta dall’attentato a Pellegrino Rossi si chiudesse con il ritorno del papa a Roma – se necessario grazie anche all’intervento francese – e che al contempo si garantisse la continuità degli ordinamenti costituzionali concessi con lo Statuto pontificio del 14 marzo 1848. Fu con la speranza di influire sugli orientamenti di Pio IX che Rosmini, convocato dai collaboratori del papa, si era affrettato a 51   Enciclopedia dei Papi, vol. III, s.v. Pio IX, a cura di G. Martina, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, 2000, p. 563. 52   Capograssi, La conferenza di Gaeta cit., p. 43. 53   Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale cit., p. 83.

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portarsi anche lui a Gaeta il 26 novembre, il giorno stesso in cui vi giungevano Ferdinando II e l’ambasciatore francese d’Harcourt. Con quest’ultimo Rosmini si abboccò un paio di volte appunto per tentare di ottenere il sostegno della Francia alla sua ipotesi di conciliazione col Parlamento romano. Non era alieno dal considerare con favore un temporaneo spostamento del papa nella Francia meridionale, se non altro per sottrarlo agli influssi negativi dell’ambiente napoletano. Dovette ben presto avvedersi che l’ascendente esercitato su Pio IX dal cardinale Antonelli e dalla parte più retriva della Curia, con il sostegno della diplomazia austriaca e dei Borbone ispano-napoletani, andava in direzione del tutto opposta a quella da lui sperata. Le incertezze della politica francese fecero il resto. D’altronde, è innegabile che quello di Rosmini fosse un gioco molto pericoloso: non essendo investito di nessun ruolo formale, tutte le sue iniziative erano di carattere personale, il che facilitava il compito di chi aveva interesse a metterlo in cattiva luce e a sabotare tutti i suoi sforzi di pacificazione tra il potere papale e il movimento in atto a Roma. Si veda la fine che fece il manifesto che preparò appena giunto a Gaeta, manifesto «che prometteva il ritorno del papa in Roma e il mantenimento integro dello Statuto»54: fu Antonelli in persona che si prese la briga di bloccarne la pubblicazione. Secondo Giacomo Martina, gesuita nonché maggiore biografo di Pio IX, recentemente scomparso, Antonelli era «ansioso di eliminare un avversario intellettualmente superiore»55 onde sgombrare la strada da ogni eventualità di un ammorbidimento da parte del papa. Ma assieme ad Antonelli lavorava dietro le quinte tutta una camarilla di corte che da tempo intercettava le lettere di Rosmini al papa e lo metteva in cattiva luce. Esisteva un espediente più subdolo per screditarlo definitivamente, e consisteva nel colpire i suoi scritti, già in passato oggetto di parecchie critiche che solo l’autorevolezza del roveretano aveva messo a tacere. A essere prese di mira erano in particolare due opere: Delle cinque piaghe della Santa Chiesa e La Costituzione secondo la giustizia sociale. Entrambe edite nel 1848, la prima si muoveva sul terreno   Capograssi, La conferenza di Gaeta cit., p. 43.   Martina, Pio IX cit., p. 72.

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storico-ecclesiologico proponendo tra l’altro l’elezione dei vescovi da parte dei fedeli e del clero e l’uso a fini di carità dei beni ecclesiastici (ed erano chiaramente proposte rivoluzionarie56), la seconda toccava l’ambito normativo. All’una e all’altra si riferiva Pio IX nella lettera che scrisse a Rosmini a metà aprile 1849 invitandolo a «correggere o a ritrattare» le sue tesi e avvertendolo che il cardinale Angelo Mai era stato incaricato di un esame preliminare per decidere se della questione dovesse occuparsi la Congregazione dell’Indice. Subito dopo essere stato a Gaeta, il 22 gennaio Rosmini si era spostato a Napoli per seguire da vicino la pubblicazione della sua ultima fatica, le Operette spirituali. Non passò molto tempo che al monito del papa si aggiunsero altri segnali allarmanti quali l’assidua sorveglianza della polizia napoletana sui suoi spostamenti e l’isolamento in cui lo lasciava il clero partenopeo, talmente infastidito dalla sua presenza da indurlo più tardi a sottolineare la «agghiacciata freddezza» con cui era stato trattato57. Nel frattempo a Gaeta «i suoi avversari approfittarono della sua assenza per insinuare sospetti nell’animo impressionabile del Pontefice, intercettarono la corrispondenza dell’abate, sollecitarono un esame ufficiale delle opere incriminate»58. Con tali premesse non sorprende che l’esame delle Cinque piaghe e della Costituzione si concludesse il 30 maggio 1849 con la condanna unanime emessa dalla Congregazione dell’Indice e approvata il successivo 6 giugno da Pio IX (condannati nella stessa seduta anche Vincenzo Gioberti per il Gesuita moderno e Gioacchino Ventura per il Discorso sui morti di Vienna59). Fu comunque una decisione senza appello. Stando a quanto sostenuto dallo stesso Rosmini, inizialmente Pio IX non si era mostrato in linea di principio ostile al contenuto delle due opere. Poi, però, ne approvò la condanna con un più che probabile tormento interiore e, forse, con la sensazione che l’ira sfogata dagli   Candeloro, Il movimento cattolico cit., pp. 33-40.   Martina, Pio IX cit., p. 76.   Ibid. 59   In proposito si veda anche R. Aubert, Il pontificato di Pio IX (1846-1878), Editrice Saie, Torino, 1976, vol. I, pp. 64-65. L’Autore ricorda che il cardinale Angelo Mai preferì dimettersi da prefetto dell’Indice «piuttosto che firmare la condanna di Rosmini e Ventura». 56 57 58

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ambienti più reazionari della Curia contro il teologo fosse in realtà indirizzata sui primi due anni della sua attività di governo. Certo è che, ricevendo in udienza Rosmini la sera stessa del suo ritorno a Gaeta (9 giugno), Pio IX evitò di menzionare la sanzione da lui data tre giorni prima alla condanna del 30 maggio e anzi si sforzò di apparire disposto ad ascoltare le ragioni del suo interlocutore che uscì dal colloquio abbastanza tranquillizzato. E invece due giorni dopo riprendevano le persecuzioni della polizia napoletana che non risparmiava a Rosmini nemmeno l’umiliazione di una espulsione dal Regno meridionale rientrata successivamente grazie a un intervento dello stesso Pio IX. Alla fine l’abate lasciò Gaeta e si rifugiò ad Albano, non lontano da Roma. Qui venne a conoscenza solo il 28 agosto della punizione inflittagli: vi si sottomise immediatamente chiedendo «solo che il suo nome non venisse pubblicato nel decreto di condanna, dato che le Cinque piaghe erano uscite anonime. La sua preghiera non venne ascoltata»60. Si videro presto le implicazioni di questo episodio nel quale le ragioni di una intransigente difesa del potere papale complessivamente inteso (ossia non del solo potere temporale) si intrecciavano con il semplice desiderio della vendetta personale verso un elemento di disturbo quale in quel momento era Rosmini. Emarginando la corrente conciliatorista, i falchi – come li definiremmo oggi – da un lato eliminavano ogni pur cauta forma di opposizione interna, dall’altro aprivano in seno al laicato e allo stesso clero cattolico una lacerazione che non si sarebbe più rimarginata e che negli anni avvenire avrebbe indotto molti fedeli a ritenersi svincolati, nelle materie temporali, dalle indicazioni pontificie. Deve far riflettere il fatto, niente affatto casuale, che le disavventure di Rosmini avessero luogo negli stessi giorni in cui a Roma si tentava l’estrema difesa della Repubblica: di fronte alla democrazia repubblicana allora in atto, appariva ancora più stridente, perché ispirato ai vecchi metodi, l’atteggiamento di chi riteneva che si desse prova di sapere ben governare tappando la bocca a chi proponeva soluzioni alternative alla pura e semplice repressione. Condannati fino ad allora da pochi esponenti di un liberalismo moderato e laico, il dispotismo ecclesiastico e la petizione di prin  Martina, Pio IX cit., p. 375.

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cipio antimoderna cui esso si ispirava cominciarono ad apparire sotto una diversa luce anche agli occhi di chi li aveva fino ad allora quanto meno giustificati: troppo scontato era infatti il confronto fra la dignità con cui a Roma cadeva la Repubblica e lo spirito di rivalsa con cui quelli di Gaeta riservavano un livoroso trattamento a Rosmini. Basti pensare che Stresa, dove il roveretano andò a finire i suoi giorni (e non è infondato il sospetto che la condanna inflitta ai suoi scritti glieli accorciasse), divenne il luogo di raccolta di vari esponenti del cattolicesimo liberale che, a cominciare da Manzoni e Tommaseo, ritenevano ormai indispensabile mettere meglio a fuoco il ruolo della religione nell’epoca delle nazionalità. È impensabile che in quelle conversazioni si parlasse solo di metafisica e di libertà morale, come lascerebbe intendere la lettura delle Stresiane, i dialoghi tra Rosmini, Manzoni e Gustavo di Cavour che Ruggiero Bonghi, avendovi preso parte, avrebbe di lì a poco ricostruito con qualche libertà61. Evidentemente quanto era capitato a Rosmini doveva avere avuto qualche effetto su un mondo cattolico che anche in un recente passato si era dimostrato sensibilissimo ai valori della libertà, e non solo di quella spirituale. Indirettamente, viene anche da questa crisi epocale la conferma di quanto sia stata errata la scelta di buona parte della storiografia successiva di derubricare gli avvenimenti romani, e la Repubblica che ne rappresentò il culmine, a uno dei tanti episodi insurrezionali di quel periodo. L’imbarazzo della diplomazia francese Con Oudinot che giorno dopo giorno spostava un po’ più avanti il raggio di operazione delle proprie divisioni, piazzava nuove batterie, portava gli avamposti sempre più a ridosso delle mura, la sopravvivenza della Repubblica non era più affidata ai suoi difensori, per quanto indiscutibile fosse il loro valore, ma a circostanze esterne che non rientravano più nella sfera di esclusiva competenza dei governanti romani. Mazzini restava persuaso che 61   Le Stresiane. Dialoghi tra Antonio Rosmini e Alessandro Manzoni raccolti a Stresa da Ruggiero Bonghi, a cura di P. Prini, Camunia, Brescia, 1985.

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proprio la vicenda romana avrebbe fatto esplodere le contraddizioni della politica di Luigi Napoleone inducendo l’Assemblea francese a rivendicare i valori della Costituzione: su questo non solo si illudeva ma non rifletteva che proprio il pericolo di una destabilizzazione della Francia e del contagio europeo che ne sarebbe potuto derivare avrebbe spinto anche l’Inghilterra a desiderare un rapido ritorno all’ordine. In tale direzione andavano anche gli equilibri interni del nuovo governo di Parigi in cui spiccavano un ultrà come il ministro dell’Istruzione Falloux e un liberale stanco come il ministro degli Esteri Tocqueville, che Mazzini si affrettò a bollare come un «onest’uomo, ma traviato dalle abitudini della Scuola Dottrinaria»62. Solo a cose finite e dopo l’uscita dal governo, Tocqueville confesserà che la sensazione che più l’aveva accompagnato durante il suo incarico era stata quella dell’imminenza del colpo di Stato: ogni sera, dirà, mi addormentavo come ministro con la paura che al risveglio potessi trovarmi in catene63. Si parlò molto, in quei giorni di maggio, di una possibile iniziativa rivoluzionaria della Sinistra repubblicana in Francia: Mazzini ci contava molto64 e si fidava oltre ogni dire della base operaia dell’opposizione – la cosiddetta Montagna – che sulla politica romana aveva più volte dato battaglia al Governo e a Luigi Napoleo­ ne. In ciò si era distinto soprattutto il suo maggiore alleato nella Sinistra francese, quell’Alexandre Ledru-Rollin costretto anche lui di lì a poco a un lungo esilio londinese. Dopo avere inutilmente richiesto la messa in stato d’accusa di Luigi Napoleone, LedruRollin organizzò per il 13 giugno una grande adunata di operai e popolani chiamati a sfilare per i boulevards di Parigi. In precedenza – ad esempio nel 1848 – manifestazioni come queste, appoggiate da reparti della Guardia Nazionale e infoltite gradualmente dall’accorrere delle masse popolari, erano sfociate in vere e proprie rivoluzioni, ed era appunto quello che sperava Mazzini, che cioè si 62   Comunicazione del Triumvirato al presidente dell’Assemblea Costituente romana in data 8 giugno 1849, in E.N.S., vol. XLIII, pp. 124-125. 63   Hugo, Histoire d’un Crime cit., vol. I, p. 105. 64   «Più tardi Mazzini stesso mi raccontò più volte di non aver potuto supporre che la Repubblica francese potesse mettersi contro quella romana. Fu una di quelle delusioni della rivoluzione del ’48 che tutti i rivoluzionari a quel tempo dovettero provare»: lo racconta Malwida von Meysenbug in Malwida, a cura di G. Zavatti, Simonelli, Milano, 2003, p. 163.

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rovesciasse il Governo che aveva voluto la spedizione. Invece la situazione fu tenuta facilmente sotto controllo dalle forze dell’ordine e dunque la saldatura tra resistenza romana e protesta parigina non si realizzò; al posto della speranza nutrita a Roma prese corpo il pessimismo di chi nella Costituente aveva lanciato l’allarme contro la svolta reazionaria che, distruggendo la Repubblica romana, Luigi Napoleone si accingeva a mettere in atto. Peraltro, proprio il fallimento del corteo parigino, facilmente disperso a rue de la Paix dalla cavalleria di Luigi Napoleone, dava a quel governo la sensazione di non aver più ostacoli davanti a sé. Anzi, stando a quel che ne scriverà Farini, bastò la sola minaccia di una nuova rivoluzione in Francia per dare ulteriore impulso alla reazione, di modo che «diventò per l’Europa una impresa di conservazione sociale e civile il ristauro del governo dei chierici»65. Ne approfittò subito Tocqueville, che l’11 giugno aveva fatto partire da Tolone un suo uomo di fiducia, Francisque de Corcelle, allo scopo di mettere pressione su Oudinot e fare in modo che si giungesse rapidamente alla presa della città, possibilmente senza danneggiarne troppo i monumenti che la rendevano unica e la facevano amare da tutti i visitatori, cattolici, protestanti, ortodossi o atei che fossero. Temeva Tocqueville che l’opinione pubblica europea – soprattutto quella inglese che contava parecchio –, perdurando la resistenza, finisse per tramutare in simpatia la diffidenza inizialmente nutrita verso l’esperienza repubblicana. Bisognava sbrigarsi e allo stesso tempo non dare troppo nell’occhio, perché – spiegava Tocqueville – «il protrarsi dell’assedio crea commozione e sconforto nell’opinione pubblica, tanto che la stessa maggioranza non sembra molto sicura del nostro diritto»66: che era quello che con le sue orecchie sensibilissime percepiva Mazzini quando, coi francesi ormai quasi in città, affermava che «la difesa di Roma ha commossa l’Europa, ha messo e mantiene sull’orlo di una rivoluzione la Francia, ha mutato radicalmente l’opinione in Inghilterra»67. Il guaio è che l’opinione ormai non contava più nulla, e l’ultima parola potevano   Farini, Lo Stato romano cit., vol. IV, p. 182.   A. de Tocqueville, Oeuvres complètes, t. XV, Correspondance d’Aléxis de Tocqueville et de Francisque de Corcelle, a cura di P. Gibert, Gallimard, Paris, 1983, vol. I, p. 255 (lettera del 15 giugno, traduzione nostra). 67   Lettera del 28 giugno a George Sand, in E.N.S., vol. XL, p. 173. 65 66

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pronunziarla solo le armi; tanto meno c’era poi spazio per agire in modo persuasivo sul governo papale, sul quale ad esempio faceva invano pressione Cesare Balbo, inviato a Gaeta dal primo ministro sardo Massimo d’Azeglio, per esprimere l’auspicio di un ripristino degli ordinamenti costituzionali68. A sua volta Tocqueville, nello sforzo di tener comunque fede al proprio passato, aveva provato a convincere l’austriaco Hübner a condurre un’azione comune a favore di una restaurazione fatta anche di riforme, ma quando aveva parlato di Costituzione si era trovato davanti un muro assolutamente invalicabile69. Ben più sbrigativo del proprio ministro si rivelerà Corcelle, un diplomatico di 47 anni che come tanti si era ormai lasciato alle spalle i sentimenti ultraliberali nutriti in gioventù. La posizione in cui lo troviamo nel 1849, convinto sostenitore della restaurazione papale, è la stessa che qualche anno dopo gli farà versare una «vera doccia di lacrime cattoliche»70 in un libro di ricordi personali sul ’48 europeo, l’anno in cui era stato a Roma per una missione messa su in fretta e furia per tentare di indurre Pio IX a rifugiarsi a Marsiglia invece che a Gaeta. Col nuovo incarico di inviato straordinario assegnatogli il 5 giugno, a Corcelle venivano attribuiti pieni poteri: ciò vuol dire che, in quanto collaboratore diretto del ministro, era accreditato di un ambito di intervento superiore sia a quello degli altri diplomatici francesi (Harcourt e Rayneval) pure presenti a Gaeta, sia a quello dello stesso Oudinot. Come e più ancora di Tocqueville, Corcelle si era persuaso che Oudinot fosse un incapace e andasse dunque incalzato a sferrare l’assalto finale senza badare a possibili conseguenze negative sul piano dell’immagine; secondo lui, «l’unico modo per non bombardare troppo e risparmiare i monumenti è bombardare finché ce n’è bisogno»71. Non la pensava allo stesso modo il suo ministro, il quale temeva che l’Europa difficilmente sarebbe rimasta indifferente di fronte alla distruzione di un patri68   Farini, Lo Stato romano cit., vol. IV, pp. 194-197; Quazza, La questione romana cit., pp. 121-125. 69   Tocqueville, Correspondance cit., vol. I, pp. 250, 256. 70   Venturi, L’Italia fuori d’Italia cit., p. 1360. Su Corcelle e sulla sua missione romana rinvio a Monsagrati, L’arte in guerra cit., pp. 238-243. 71   Tocqueville, Correspondance cit., vol. I, p. 261 (lettera di Corcelle a Tocqueville del 16 giugno 1849, traduzione nostra).

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monio culturale dal quale discendeva in buona parte la sua civiltà. Meno ancora, poi, era sensibile all’altra motivazione con cui Corcelle insisteva perché si facesse presto, e cioè che si dovesse dare soddisfazione ai militari coinvolti nella spedizione: «Qui ci si comincia a burlare di noi», scriveva infatti Corcelle72, dando voce all’insofferenza di ufficiali e truppe. Per Tocqueville valevano, semmai, altre considerazioni: ad esempio, che con una certa lentezza nelle operazioni si potesse maggiormente influire sulla volontà di Pio IX inducendolo a non rinunciare al riformismo moderato del primo biennio di regno. Quella che si augurava non era una restaurazione pura e semplice ma «una restaurazione liberale»73 che avrebbe salvato il papato e il buon nome della Francia. Intorno a questa divergenza avrebbe ruotato tutta la corrispondenza scambiata nel giugno 1849 tra Roma e Parigi, con Corcelle che implorava qualcosa di più efficace del colpo di cannone sparato ogni quarto d’ora dalle artiglierie di Oudinot, e con Tocqueville che insisteva che «Roma non è una città come le altre»74, paventava perfino l’eventualità disastrosa di un saccheggio per mano delle proprie truppe («Siate sicuro che il sacco di Roma provocherà un grido di dolore e di sdegno in tutta l’Europa civilizzata»75), e spiegava che ogni ragione di fretta era venuta meno dopo che gli assediati avevano perso, col fallimento dell’insurrezione del 13 giugno, l’unico serio appoggio internazionale sul quale potessero fare affidamento: quello della Sinistra francese. La città dell’arte in pericolo Fallite infatti tutte le altre possibilità, veniva ora al pettine il vero punto debole della Repubblica romana sotto l’azione congiunta delle potenze cattoliche: l’assenza di una politica estera, il non potersi avvalere di nessuna alleanza, di nessuna mediazione che non fosse in qualche modo interessata. Dagli altri Stati italiani, con Venezia e la Toscana impegnate anch’esse a tentare di sopravvivere   Ibid.   Ivi, p. 277 (Tocqueville a Corcelle, 20 giugno 1849, traduzione nostra). 74   Ivi, p. 285 (Tocqueville a Corcelle, 24 giugno 1849, traduzione nostra). 75   Ibid. 72 73

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alla controffensiva austriaca e con la Sicilia ormai stretta nella morsa della repressione borbonica, si era ottenuto qualche indirizzo di solidarietà ma niente di più; e tutte le missioni spedite dal Triumvirato nelle principali capitali europee a cercare un sostegno anche solo morale avevano fatto un buco nell’acqua incontrando ostilità o freddezza, come era successo al ministro degli Esteri Rusconi che, recatosi di persona a Londra, si era sentito suggerire dal ministro degli Esteri Palmerston la via della resa come unica possibilità di salvaguardare le libertà costituzionali ottenute nel 184876 (e a Parigi non era andata meglio, visto che il contatto preso da Rusconi con il moderato Alessandro Bixio, deputato all’Assemblea e fratello del Nino che intanto combatteva sul Gianicolo, aveva reso più difficile il dialogo con la sinistra repubblicana77). D’altronde, coerente con l’indirizzo di politica estera che nel 1847 l’aveva portato ad appoggiare con una propria missione diplomatica la politica del papa riformatore, il governo inglese era risoluto a conservare nell’asse Roma-Vienna il vero fattore di stabilità nello scacchiere sudoccidentale dell’Europa. Qualunque cambiamento fosse intervenuto nell’equilibrio interno dell’Italia avrebbe comportato agli occhi di Londra più rischi che vantaggi78. Stando così le cose, i margini per una soluzione negoziata della crisi romana si assottigliavano sempre di più. Lo capì perfettamente Oudinot che il 12 giugno, alle cinque della sera, sentendosi le mani più libere indirizzò al presidente della Costituente romana un appello bilingue che era in sostanza un ultimatum. All’Assemblea il generale francese offriva una sola possibilità: decretare la resa onde evitare di costringerlo a «impiegare immediatamente tutti i mezzi d’azione, che la Francia ha posti nelle mie mani». Una minaccia del tutto analoga era contenuta nel proclama che il generale francese rivolgeva in pari data «Agli abitanti di Roma»79. Per renderla più persuasiva Oudinot applicò il «metodo Corcelle» ordinando che il bombardamento si infittisse e cominciasse a raggiungere obiettivi più interni alla città, compresi gli ospedali, le chiese, e quello stesso   Rusconi, La Repubblica romana cit., pp. 134-152.   Ivi, p. 145. 78   P. Silva, La Monarchia di luglio e l’Italia, F.lli Bocca, Torino, 1917, pp. 375376. 79   Atti Roma, vol. IV, pp. 779-781. 76 77

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simbolo del potere civile che da secoli era il Campidoglio. La zona più esposta era quella di Trastevere (dove la chiesa di S. Maria fu particolarmente danneggiata dai bombardamenti del 15 giugno80), ma il cannone francese, che dal 3 giugno prese a sparare come se fosse regolato da un metronomo, non sempre distingueva bene i propri obiettivi. Così il 14 giugno il principe Chigi annotava che qualche bomba era arrivata «sino a piazza di Pietra»81 (ossia, per chi non ha molta confidenza con la pianta di Roma, a pochi metri da Montecitorio), e il 17 Margaret Fuller piangeva byronianamente su «Rome, my Rome, every day more and more desecrated!»82. Peggio ancora, a sentire le cronache del tempo, sarebbe andata nei giorni seguenti, una volta superato il fastidio rappresentato dalla protesta dei consoli stranieri83: non era infatti il solo Mazzini a scrivere il 28 giugno che «Oudinot non rispetta neppure gli Ospedali e ieri quattro bombe caddero su quello di Santo Spirito, ferendo talune fra le orfane»84. Qualcosa di molto simile si riscontra nelle annotazioni coeve di Roncalli, Polidori, Margaret Fuller e anche del principe Chigi che, d’ordine di un commissario rionale, dovette dare ospitalità ad alcune famiglie di Trastevere sloggiate per prudenza dalle loro abitazioni85. Quando, con la fine dei combattimenti, si intraprese un più preciso censimento dei danni arrecati agli edifici cittadini, a quelli monumentali come a quelli d’uso abitativo, ci si avvide che la sbrigatività di Corcelle aveva finito per prevalere sulla cautela di Tocqueville. Ma già a un controllo effettuato mentre gli attacchi erano in corso risultarono colpiti vari affreschi, tra i quali l’Aurora di Guido Reni nel Palazzo Rospigliosi, gli affreschi del Domenichino nella chiesa di S. Carlo ai Catinari, quelli del Pinturicchio a S. Cosimato, il tempio della Fortuna Virile alla Bocca della Verità. Per non parlare di S. Pietro in Montorio, che ospitava una batteria repubblicana capace di infliggere molte perdite al nemico e si trovava troppo a ridosso del Gianicolo per non essere devastata   Fuller, «These sad but glorious days» cit., p. 300.   Diario Chigi, p. 295.   Margaret Fuller a Elizabeth Hoar, 17 giugno 1849, in The Letters cit., vol. V, p. 241. 83   Roncalli, Cronaca cit., vol. II, p. 181. 84   Lettera a destinatario non identificato, in E.N.S., vol. XL, p. 179. 85   Diario Chigi, p. 297. 80 81 82

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all’interno e per non avere il tetto e il campanile semidistrutti86. Ci sarà allora un palleggio delle responsabilità, ma certo è difficile ritenere che gli assediati sparassero sui palazzi romani. Vero è, peraltro, che per impedire ai francesi di avanzare senza esporsi gli assediati non esitarono ad abbattere alberi secolari e piccole case di campagna, e sarà Cernuschi ad attribuirsene la responsabilità: «Per salvarla questa capitale d’Italia noi ardemmo e atterrammo le Ville e le Delizie suburbane»87: tutto sommato, e considerato l’autentico odio che nel 1848 aveva nutrito per i «signori» di Milano, non sembra che fosse molto dispiaciuto di ciò che ora era toccato ai «signori» di Roma. En passant, noteremo che anche per lui, milanese puro sangue e federalista, Roma era ormai, in una prospettiva unitaria, la «capitale d’Italia». Di fronte al massiccio spiegamento di forze e mezzi bellici attuato dagli assedianti il Triumvirato era pressoché impotente: lo era dal punto di vista militare, perché la difesa era ormai diventata una guerra di mera resistenza, combattuta con tutto il valore possibile, con qualche sporadico contrattacco e anche sapendo di avere dalla propria parte la popolazione, ma con risultati sempre più modesti; ma lo era anche dal punto di vista politico perché la volontà di non cedere alla violenza doveva fronteggiare le crepe che cominciavano a vedersi nel muro della compattezza repubblicana. Una delle ultime iniziative sul terreno di una possibile trattativa la prese appunto Cernuschi. È curiosa la storia di questo repubblicano ventottenne, cresciuto a Milano nutrendosi di Romagnosi e Cattaneo da un lato, del mito della Francia rivoluzionaria dall’altro: non è precisamente un mazziniano, ancor meno lo sarà negli anni dell’esilio a Parigi, eppure non c’è un gesto, non una frase di questi suoi mesi romani fino al 30 giugno che non sia di lealtà e di dedizione alla Repubblica o che possa essere interpretato come di opposizione al Triumvirato88. L’iniziativa cui accennavamo poc’anzi è quella che la notte tra   Monsagrati, L’arte in guerra cit., pp. 243-250.   Difesa di Enrico Cernuschi rappresentante del popolo romano avanti il consiglio di guerra francese in Roma 1850, Tipografia Elvetica, Capolago, 1850. 88   Non la pensa così Beghelli, La Repubblica romana del 1849 cit., vol. II, p. 372, che attribuisce a Cernuschi, in opposizione a Mazzini, una posizione favorevole alla dittatura. 86 87

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l’11 e il 12 giugno porta Cernuschi al quartier generale francese. La sollecitazione gli è venuta da un francese di origine italiana, un certo Adolphe Sala, a lui noto sin dal ’48 a Milano. Costui, dicendosi angosciato dalla terribile lotta fratricida che si svolge sotto i suoi occhi, si è rivolto a un giornalista francese d’area repubblicana, Lombard, corrispondente da Roma del «National», per essere messo in contatto con qualche esponente della classe politica romana e fare così un ultimo tentativo di mediazione89. Mazzini, a cui Sala ha comunicato per lettera il suo proposito, cancella subito l’ipotesi di un cedimento rovesciando sulla politica della Francia la responsabilità di un’aggressione ingiustificata alla quale Roma probabilmente dovrà soccombere ma con la consapevolezza «che ci sono sconfitte che onorano e vittorie che sporcano»90. Cernuschi non è da meno: come riferirà ai colleghi deputati nella seduta del 14 giugno, quando arriva al campo francese e avvia con Sala una conversazione informale (intanto Oudinot dorme) capisce immediatamente che quello che gli si propone – aspettare l’apertura della prima breccia per concludere una convenzione – è una sorta di untuosa messa in scena volta a salvare in qualche modo la faccia a entrambi i contendenti91. Nella sua replica l’indignazione si mescola al disprezzo: «Io risposi che a Roma si fanno delle tragedie, non si fanno delle commedie, e che noi eravamo disposti a fare tutto quello che abbiamo giurato di fare, e che se non possiamo salvare l’Italia, vogliamo salvare la memoria d’Italia. L’Italia non finisce con un vaudeville»92: parole, le sue, che suonavano come un de profundis ma in cui c’era tutta la maturità di una rivoluzione, tutto il senso di quanto era avvenuto nei tre mesi precedenti, dei tanti caduti, dei sacrifici compiuti dalla popolazione, dell’esempio offerto all’intero paese. E però di un’altra sua frase, pure rivolta a Sala con tono molto perentorio   Monsagrati, Federalismo e Unità cit., pp. 124-127.   Mazzini a Sala, s.d., in E.N.S., Appendice, vol. IV, pp. 76-77. 91   Che questa potesse essere la conclusione di tutta la vicenda romana lo aveva dato per probabile l’olandese Liedekerke de Beaufort informando il proprio ministro il 14 maggio. Come altri diplomatici riteneva che la capitolazione fosse già decisa e che, una volta sparati i pochi colpi di cannone necessari «pour satisfaire aux convenances militaires réciproques», si sarebbe stilata una convenzione: Liedekerke de Beaufort, Rapporti delle cose di Roma cit., p. 183. 92   Atti Roma, vol. IV, p. 803. 89 90

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(«Non parlate di capitolazioni, perché queste le lasciamo a Carlo Alberto»), Cernuschi avrà presto a pentirsi. In effetti, con l’approssimarsi della non più evitabile capitolazione (e la notizia della resa di Ancona agli austriaci, il 19 giugno, fu vissuta come un preavviso), comune a molti era il desiderio di ricorrere a qualunque mezzo pur di ritardarla, malgrado la condizione di estrema spossatezza in cui dopo mesi di marce e due settimane di combattimenti si trovavano le truppe93. Si studiavano piani alternativi, si cominciava a parlare di portare l’esercito fuori della città per sfidare Oudinot in campo aperto. Oppure, una volta compreso che non sarebbe stato semplice snidare i francesi dalle postazioni che avevano conquistato e che li avevano messi in condizioni di superiorità, si proponevano soluzioni ingegnose che, se messe in atto, avrebbero comunque ritardato l’occupazione. Si è detto in precedenza della chiusura dell’Acqua Paola operata dagli stessi francesi: a qualcuno venne in mente che, addentrandosi nelle condotte sotterranee, si sarebbe potuti giungere fin sotto il Casino dei Quattro Venti per farlo saltare in aria con tutti i suoi occupanti. Si trovò anche l’artigiano disposto a tentare l’impresa. Avvenne però che i francesi, o perché messi in guardia dai loro informatori o perché insospettiti dai movimenti attorno all’acquedotto, si affrettarono a riaprire la circolazione idrica facendo fallire il progetto94. D’altronde il ricorso alle mine era già stato in passato (ad esempio nel 1826, nella città greca di Missolungi assalita dai turchi) l’extrema ratio delle città assediate, una specie di soluzione finale attuata in chiave di cupio dissolvi per evitare di lasciare campo libero al nemico. Proprio negli ultimi giorni della difesa prese a circolare per Roma la voce che Mazzini aveva deciso di far saltare in aria la «madre» di tutte le basiliche romane, e si diede per certo che qualcuno aveva visto trasportare «carri di polvere per le mine»95 in direzione di S. Pietro. L’invenzione, ché di questo 93   Koelman, Memorie romane cit., vol. II, p. 408. Il 31 maggio, tre giorni prima di morire, Enrico Dandolo scriveva a Emilia Morosini: «Dal nostro sbarco, il 26 aprile, abbiamo dormito due sole notti in caserma». Si veda Capasso, Dandolo, Morosini, Manara cit., p. 222. 94   Beghelli, La Repubblica romana del 1849 cit., vol. II, p. 325. 95   L. Pompili Olivieri, Il Senato romano nelle sette epoche di svariato governo da Romolo fino a noi, Tipografica Editrice Romana, Roma, 1886, vol. III, p. 128.

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si trattava, era troppo ghiotta perché non ci si lavorasse sopra: quindici anni dopo, Francesco Domenico Guerrazzi, prolifico autore di romanzi nonché nel ’49 dittatore della Toscana contrario – come si ricorderà – all’unione con Roma, nel suo Assedio di Roma metterà in scena un dialogo tra il generale Roselli e Mazzini: al comandante in capo dell’Esercito che gli chiedeva se prima di abbandonare Roma non fosse il caso di «mandar all’aria le moschee» utilizzando le mille libbre di polvere che a suo dire la Commissione delle Barricate aveva collocato nelle colonne dell’altare maggiore della basilica, il triumviro avrebbe risposto picche96. Per la verità, la diceria raggiunse anche Margaret Fuller che, pur ritenendo da tempo Mazzini «molto al di sopra degli altri quanto a statura morale»97, se ne allarmò parecchio, fin quando non la tranquillizzò il triumviro in persona: «Potete credere per un solo momento a una tale assurdità che S. Pietro sia minato, mentre io sono qui? Mi sono forse dimostrato un vandalo o un uomo del ’93?»98. Certo, se Mazzini richiamava alla memoria il ’93, l’anno del terrore della Rivoluzione francese, qualcosa nel clima della città doveva esser cambiato intaccando non il senso della legalità, e nemmeno la convinzione comune ai repubblicani romani di essere nel giusto, quanto piuttosto l’unità d’intenti che era stata la vera forza di quella classe dirigente, quale che fosse l’orientamento dei singoli. Era l’effetto dell’imminente caduta a far sì che ognuno cercasse un colpo di coda: così Sterbini rilanciava l’ipotesi di una dittatura Garibaldi ma, come abbiamo già ricordato, ne era dissuaso da Bezzi; Garibaldi, a sua volta, proponeva una nuova sortita per impegnare in battaglia parte delle truppe francesi distogliendole dall’assedio, e stavolta era il generale Roselli a bloccarlo ancora una volta. Alla fine la sola iniziativa di una certa efficacia si rivelò essere quella dei consoli stranieri a Roma. Riferendosi alle voci su S. Pietro minata, Mazzini aveva spiegato alla Fuller che potevano   Beghelli, La Repubblica romana del 1849 cit., vol. II, pp. 400-401.   Margaret Fuller a Marcus Spring, 23 novembre 1848, in The Letters cit., vol. V, p. 152 (traduzione nostra). 98   Lettera del 20 giugno 1849, in E.N.S., vol. VI, Appendice, p. 540 (traduzione nostra). 96

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«essere di qualche utilità»99: intendeva dire che l’idea che fosse in pericolo il tempio più rappresentativo del cattolicesimo avrebbe richiamato maggiormente l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale su quanto stava accadendo a Roma. Forse non fu per questo che si mossero gli agenti del corpo consolare, ma è comunque significativo che lo stillicidio quotidiano dei bombardamenti li spingesse in blocco a dirigere, su sollecitazione del municipio romano, una nota allarmata al generale Oudinot: vi si manifestavano «le più energiche rimostranze» contro i ripetuti bombardamenti che – si diceva – mettevano a rischio, indiscriminatamente, non solo «le vite e le proprietà degli abitanti neutri e pacifici, ma quelle eziandio delle donne e de’ fanciulli innocenti», molti dei quali avevano già perso la vita. Il loro era, dunque, un intervento umanitario che non sfiorava nemmeno lontanamente la questione politica, non menzionava i diritti del papa e metteva l’accento sui danni già inflitti «a capi d’opera di belle arti che non potranno giammai essere rimpiazzati», per chiedere che si sospendessero i bombardamenti e si risparmiasse la «Città monumentale, che è considerata come sotto la protezione morale di tutti i paesi civili del mondo»100. Che la prima firma sotto l’appello fosse quella del console inglese John Freeborn e che l’accompagnassero i nomi di due noti filorepubblicani come gli americani Brown e Freeman, non dovette fare una buona impressione a Oudinot, che però non poté ignorare che in calce al documento figurassero anche sicuri sostenitori della causa papale come il console prussiano, quello portoghese, quelli dei Paesi Bassi e del Württemberg. Quale effetto potesse avere la protesta, al di là di un certo clamore, lo si capisce dalla data che recava in calce e che era quella del 24 giugno, sei giorni prima della resa finale. E comunque non mancò la risposta di Oudinot, e fu molto esplicita, perché affermava che finché il governo della Repubblica romana non avesse fatto atto di sottomissione e la città non si fosse arresa i bombardamenti sarebbero andati avanti a oltranza101.   Ivi, p. 540.   Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, pp. 646-647. 101   Ivi, pp. 650-651. 99

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VIII La Repubblica si arrende Il cerchio si stringe Così, tra una delusione e l’altra, tra uno sforzo di tappare i molti buchi della difesa e il lento farsi avanti degli assedianti, lo spirito resistenziale della cittadinanza si veniva sfilacciando in una serie di atteggiamenti che avevano molto di fatalistico. Come ebbe a scrivere Mazzini, «quaranta giorni di lavoro hanno esaurito la vitalità operosa del popolo»1, e lui, il triumviro, era il primo a risentirne, sfiancato da un lavoro che non gli lasciava nemmeno il tempo di dormire, e che, a dire di Margaret Fuller, lo aveva invecchiato di venti anni in pochi giorni2. Non era solo lo spirito pubblico a tenerlo sveglio: c’erano soprattutto, e sempre più vistosi, i conflitti tra i comandi militari, l’irrequietezza di certi settori dell’Assemblea (i cui umori erano più difficili da interpretare, ma abbiamo già segnalato le manovre di Sterbini), una pesantissima situazione finanziaria, i dubbi crescenti dell’amministrazione comunale che a sua volta rifletteva gli scetticismi aleggianti sui rioni cittadini, dove non c’era solo da pensare a come difendersi dalle bombe francesi ma bisognava fare i conti con la rarefazione dei generi alimentari e il conseguente rincaro di quelli ancora disponibili sul mercato3. Non si produssero vere situazioni drammatiche – sul   Lettera a Luciano Manara del 22 giugno 1849, in E.N.S., vol. XL, p. 157.   Lettera a William H. Channing, [fine luglio 1849], in The Letters cit., vol. V, p. 247. 3   «Provisions are growing very dear», scriveva la Fuller nella sua corrispondenza da Roma del 21 giugno: Fuller, «These sad but glorious days» cit., p. 290. Nino Costa testimonia una realtà diversa («per tutte le settimane che durò l’assedio si ebber viveri a buon mercato»), ma il suo è il punto di vista di uno che apparteneva a una famiglia benestante: Costa, Quel che vidi e quel che intesi cit., p. 56. 1 2

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tipo di quelle che si avranno a Venezia assediata dagli austriaci – ma, coi francesi che avevano bloccato il normale circuito dei rifornimenti dalle campagne circostanti, qualche disagio si verificò, e qui si rivelò provvidenziale la struttura di Roma cui i numerosi orti urbani garantivano una relativa autosufficienza. Ovviamente, era interesse degli assedianti fiaccare il morale della popolazione. Il 13 giugno Oudinot rivolse un appello agli abitanti di Roma minacciando l’intensificarsi dei bombardamenti: «Se persistete a respingerci – ammoniva – a voi soli incomberà la responsabilità d’irreparabili disastri»4. Generale tutto d’un pezzo, Oudinot non ebbe problemi a mantenere la sua promessa; oltre tutto, si avvicinavano i primi caldi e già si diceva che molti soldati del corpo di spedizione, evidentemente poco abituati al clima estivo di Roma, avessero cominciato a pagare il loro tributo alle febbri malariche che ogni anno, di questi tempi, colpivano la città5. A questo punto, sgombrato il terreno da qualunque preoccupazione di ingerenze esterne, anche Oudinot parve sentire sempre più sul collo il fiato di Luigi Napoleone. Così, a partire dal 13 giugno, la pioggia di bombe e di granate si fece più fitta e soprattutto meno selettiva in fatto di obiettivi da colpire: da Trastevere il fuoco si spostò fino a raggiungere il centro, e questo gettò comprensibilmente nel panico la gente che non sapeva più dove rifugiarsi. La stessa sala dell’Assemblea Costituente al Palazzo della Cancelleria ebbe il tetto forato da una palla e dovette trasferirsi in Campidoglio6, col risultato che qualche giorno dopo toccò alla sede del Municipio romano esser preso di mira7. Il 13 giugno il fuoco diretto dai francesi contro Porta S. Pancrazio risultò fatale anche a Colomba Antonietti, una ventitreenne di Bastia Umbra che per non abbandonare il marito Luigi Porzi, ufficiale della Legione lombarda, si era travestita da uomo ed era entrata nel corpo dei bersaglieri. Reduce con lui dalla campagna di Lombardia dell’anno prima, aveva continuato a servire sotto la Repubblica, e col marito aveva combattuto sia a Velletri che il 3   Roncalli, Cronaca cit., vol. II, p. 169.   Vi accenna la Fuller nelle sue corrispondenze del 21 giugno e del 6 luglio: Fuller, «These sad but glorious days» cit., pp. 299, 302. 6   Roncalli, Cronaca cit., vol. II, p. 171. 7   Ivi, pp. 175, 177. 4 5

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giugno. Fatalmente, anche grazie al ricordo breve ma commosso che ne avrebbe lasciato Garibaldi8, Colomba sarebbe diventata uno dei simboli della vasta ma quasi sempre anonima adesione delle donne al regime repubblicano. Qualcosa del genere sarebbe avvenuta anche con i monelli romani, quelli che raccoglievano le bombe inesplose per consegnarle per un modesto compenso alla Commissione Cernuschi: sarebbero stati mitizzati in un personaggio, Righetto, in realtà un simbolo, di cui ancora oggi si conserva a Roma una memoria certo più solida della documentazione che ne attesterebbe la reale esistenza. Reale era tuttavia il fenomeno dei ragazzi combattenti. Abbiamo già accennato ai ragazzi di Velletri, ricorderemo anche che tra i soldati catturati dai francesi il 30 aprile c’era stato il quattordicenne vicentino Domenico Cariolato: quando se lo vide davanti, malconcio e coi vestiti laceri, Oudinot non seppe trattenere una risata. E lui, di rimando: «io vi faccio ridere, ma voi mi fate ribrezzo»9. Un bel caratterino. Cariolato ne avrebbe dato ulteriore prova seguendo Garibaldi in tutte le campagne dal 1859 al 1866. Episodi di valore a parte, per il Triumvirato era ormai quasi impossibile controbattere la più risoluta offensiva francese con iniezioni di fiducia nella Repubblica e nei suoi difensori: la processione del Corpus Domini che aveva cercato di organizzare il 7 giugno per infondere nel popolo il senso rassicurante di una continuità della tradizione dovette svolgersi per ovvia precauzione nel chiuso delle chiese e andò quasi deserta10. Per qualche giorno si provò a mettere in giro la notizia di forti dissensi emersi nel governo francese11, ma si trattava di un wishful thinking più che di una certezza. Infatti la cosa non ebbe seguito. Intanto aumentava il numero dei caduti tra i civili. Quasi a voler dare l’idea di una morsa sempre più stretta, a Terracina e a Fiumicino facevano capolino gli spagnoli in cerca di una loro visibilità: indossavano divise sgargianti osservando le quali il rappresentante olandese a Gaeta si chiedeva ironicamente se l’indebitata Spagna non avreb  Sacerdote, La vita di Giuseppe Garibaldi cit., p. 447.   Si veda il profilo di Cariolato tracciato da A. Arzano per il Dizionario del Risorgimento nazionale, a cura di M. Rosi, vol. II, Vallardi, Milano, 1930, p. 558. 10   Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. II, pp. 627-628; Diario Chigi, p. 294. 11   Roncalli, Cronaca cit., vol. II, pp. 170 e 172. 8 9

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be impiegato meglio i fondi della spedizione pagando i propri creditori12; in più, divoravano tutto quello in cui si imbattevano, peggio delle cavallette13. Da sud riprendevano ad avanzare anche i reparti borbonici: non avrebbero dato nessun contributo all’ultimo assalto a Roma, ma intercettavano viveri, tagliavano comunicazioni, tormentavano il contado. La mossa decisiva fu quella del 21-22 giugno. Dal 3 al 21 i francesi avevano rafforzato le loro posizioni, occupato altri luoghi a ridosso della città (Monte Mario, Ponte Milvio, vanamente difeso dalla Legione universitaria e dai 200 polacchi del maggiore Milbitz, Porta del Popolo), e avevano neutralizzato alcune batterie nemiche o impedito che altre ne fossero impiantate. Soprattutto, un giorno dopo l’altro, avevano spostato più a ridosso dei bastioni 6 e 7, sulla sinistra di Porta S. Pancrazio, le loro trincee. I difensori avevano fatto il possibile, e con grave spargimento di sangue, per rallentare l’avanzata: dal Vascello la Legione di Giacomo Medici aveva mantenuto vivo il fuoco della fucileria, mentre i cannoni di S. Pietro in Montorio, di Testaccio e dell’Aventino e le sortite di Garibaldi contendevano al nemico ogni palmo di terreno. Nella notte tra il 21 e il 22 i francesi aprirono una breccia nei bastioni 6 e 7, all’altezza di Villa Sciarra, impossessandosi del tratto di mura che tuttora li collega. Avvantaggiandosi di una ridotta sorveglianza, provvidero subito a rafforzare la posizione appena conquistata. Altri progressi furono fatti nei giorni successivi malgrado l’accanita resistenza dei romani. Ma ogni sforzo di tener duro era una tela di Penelope destinata a essere disfatta subito dopo la faticosa tessitura. Fu dunque la conquista del Gianicolo che, come era prevedibile, rendendo Oudinot ormai padrone della piazza e facendo della resa una questione di giorni se non di ore, pose il Triumvirato e l’Assemblea di fronte alla necessità di una scelta: come e dove proseguire le ostilità senza potere o volere impegnare in nessun modo quegli abitanti cui si era rivolto invano il generale francese? «Non che non sentissero la lor prossima fine – scriverà di loro Giuseppe Spada –. Sentivanla, ma non diederlo a divedere, né commisero atti di viltà o scoramento, fin che non furono   Liedekerke de Beaufort, Rapporti delle cose di Roma cit., p. 194.   Così, letteralmente, la Fuller in una lettera da Rieti a Lewis Cass Jr., datata 19 luglio 1849: The Letters cit., vol. V, p. 245. 12 13

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sopraffatti dalle armi straniere»14. Elargito da un papalino, l’apprezzamento, traboccante di orgoglio cittadino, non era tuttavia povero di significato. Roma si apprestava a cadere, e lo faceva con dignità, da quella città maestosa che era, e quasi che fosse consapevole che quattrocinque mesi di repubblica non erano stati solo un fatto interno e nemmeno avevano riguardato la sola Italia ma erano stati vissuti dall’opinione pubblica dei paesi più lontani come un passaggio epocale di enorme importanza che avrebbe dato i suoi frutti anche a distanza di anni. Calava il sipario su una realtà che, oltre tutto, aveva messo in evidenza come mai in passato un rapporto di quasi piena sintonia tra la popolazione e i suoi governanti. Aveva dunque ben ragione l’Assemblea il 25 giugno a indirizzare «Ai Romani» un proclama di ringraziamento per il comportamento avuto nell’ultimo mese: «D’ora innanzi – si diceva tra l’altro – non potranno più calunniarvi gli altri popoli; e non potranno dire che Roma non conserva più dell’antico, fuorché i monumenti e le rovine; voi risponderete additando con altera fierezza le nuove rovine fatte dalle bombe francesi, additerete i colli che vi circondano, e i baluardi di S. Pietro»15. Certo, qui e più innanzi, la retorica sovrabbondava, ma il deputato che provò a farlo notare e a chiedere che ci si astenesse dall’approvare il documento dovette rassegnarsi a restare isolato. In un certo senso era giusto che fosse così, perché il lato tragico della difesa toccava tutti senza distinzione di ceto, sesso, rango, funzione: toccava le donne di Trastevere uccise dalle bombe (Gerolamo Induno ne raffigurerà dal vero una di grande forza espressiva) e gli undici soldati, tre dei quali appartenenti al battaglione Manara, rimasti sepolti sotto le rovine del Vascello16, colpiva le cameriere dei signori (una del duca di Caserta e una di Michelangelo Caetani, entrambe vittime di un’esplosione nelle rispettive dimore padronali17), e non risparmiava il moro   Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, p. 637.   Atti Roma, vol. IV, p. 934. 16   White Mario, Agostino Bertani cit., p. 98. 17   Roncalli, Cronaca cit., vol. II, p. 182; Alcuni ricordi di Michelangelo Caetani duca di Sermoneta raccolti dalla sua vedova (1804-1862) e pubblicati pel suo centenario, a cura di G. Monsagrati, L’Erma di Bretschneider, Roma, 2005, p. 188. 14 15

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Andrea Aguyar, fedelissima ordinanza di Garibaldi sin dagli anni del Sud America, raggiunto da una scheggia di granata nei pressi di S. Maria in Trastevere nelle prime ore del 30 giugno. Garibaldi gli dedicherà espressioni di grande affetto18, mentre Nino Costa ricorderà ammirato una sua impresa: aver «preso al lazo e strangolato tre francesi»19. Tra tutti questi ricordi suscita ancora impressione l’immagine che lasciò di lui Beghelli dopo averlo visto che agonizzava: «L’avevano gettato nudo in una cameruccia presso la sacrestia. Entrando, mi mise spavento. Misurava con la lunghezza del suo corpo tutto quanto lo spazio. Le membra parevano di bronzo, sì pel colore che per la forza: pareva un Antinoo. Giaceva a braccia aperte e aveva la testa divisa»20. Evidentemente morire a Roma per la Repubblica ingigantiva, e non solo fisicamente: anche il cadavere di Manara, trasportato nella stessa sacrestia, sarebbe stato raffigurato dal pittore Eleuterio Pagliano in modo da conferire una austera possanza alla sua struttura corporea. A leggere l’allucinato diario tenuto dal dottor Agostino Bertani, giunto a Roma da pochi giorni e subito inviato a operare alla Trinità dei Pellegrini, all’Annunziata e nell’ospedale di fortuna allestito nel Quirinale, si ha tutta la misura di quanta sofferenza accompagnasse gli atti di eroismo e di come, per mancanza di medicinali e attrezzature, fosse limitata la capacità di sottrarre i feriti anche lievi alla morte: «Non v’era alcun utensile di infermeria, non uno schizzetto, non un orcello, non lavatoi, non tela cerata, non spilli, non nastri, non stecche tagliate appositamente per frattura, non assi da sottoporre ai letti dei fratturati»; e poco più oltre: «Il servizio per i morti mancava assolutamente: si depositavano in una cappella poco sotto il livello del pianterreno, dove lasciavano abbandonate le lenzuola sudice e i panni dei morti, sicché era un puzzo orribile»21. Né c’era da sperare che le bombe risparmiassero almeno i luoghi di cura: Una sala dei feriti fu squarciata da enorme palla di cannone. Sprofondava il pavimento, traendo seco la soffitta; e in mezzo al fragore,   Sacerdote, La vita di Giuseppe Garibaldi cit., p. 458.   Costa, Quel che vidi e quel che intesi cit., p. 76. 20   Beghelli, La Repubblica romana del 1849 cit., vol. II, p. 362. 21   White Mario, Agostino Bertani cit., p. 101. 18

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alla ruina, al polverio, vidi ben quaranta feriti ad un tratto agitarsi carponi, seminudi, immemori delle recise membra, strappandosi per cieco e forsennato istinto, come impacci, le bende, dirompendo le fratture poco dianzi composte; e vidi dalle riaperte ferite sprizzare con impeto il sangue, in pochi istanti poi cadere tutti esausti e succedere in breve il rantolo dei morenti e il tremendo silenzio della morte22.

Il 30 giugno ebbe luogo l’assalto finale. Per mantenere una parvenza di normalità, la sera prima si era deciso di illuminare, come da tradizione nella festività dei santi Pietro e Paolo, la basilica di S. Pietro e il colonnato del Bernini. Furono anche sparati dei bengala, le cui detonazioni si confusero con quelle dei cannoni e dei mortai francesi che nemmeno per un minuto sospesero il loro lavoro. Stagliandosi contro il buio della notte, il profilo incandescente della cupola e il duplice colonnato illuminato da centinaia di candele facevano un effetto straordinario, come se – dirà un testimone oculare – da lontano si fosse visto «il sole tramontare all’orizzonte»23. Poi scoppiò improvviso un furibondo temporale che si protrasse per buona parte della notte. Lo spettacolo non sfuggì ai cronisti e ai pittori, molti dei quali (i due Induno, Nino Costa, l’olandese Koelman) sin dall’inizio della difesa non avevano esitato a imbracciare anch’essi il fucile. Avevano però continuato a osservare con attenzione la scena, suggestionati da elementi pittorici (le scene di guerra, i caduti, i ruderi vecchi e nuovi, Roma nella luce corrusca dei bombardamenti) non facilmente rinvenibili altrove. Comunque non si erano tirati indietro quando si era trattato di rischiare la pelle, come era accaduto, ad esempio, a Girolamo Induno, milite della Legione Medici, colpito, riferirà il suo stesso comandante24, da più di venti baionettate mentre tentava di difendere il Casino Barberini e ricoverato in condizioni assai gravi al Fatebenefratelli. Il Vascello, di cui già il 25 giugno non esisteva ormai che il primo piano, fu ridotto a un cumulo di macerie non più difendibili ma intorno alle quali Medici e i suoi continuarono a combattere per evitare di scoprire il fianco a Porta S. Pancrazio dando così modo 22   Ivi, p. 102. In una lettera a George Sand del 28 giugno Mazzini accenna a quattro bombe cadute il giorno prima sull’ospedale Santo Spirito: E.N.S., vol. XL, p. 174. 23   Koelman, Memorie romane cit., vol. II, p. 430. 24   Beghelli, La Repubblica romana del 1849 cit., vol. II, pp. 388-389.

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al nemico di arrivare fino a S. Pietro in Montorio e di qui prendere il pieno controllo della città sottostante25. Alle prime ore del 30 giugno, con le artiglierie romane ormai neutralizzate quasi del tutto, gli scontri si snodarono su tutta la linea compresa tra Porta Portese e Porta Cavalleggeri, e vissero i momenti di maggiore intensità all’altezza dei bastioni 7 e 8, dove ora sorge l’Accademia americana26, risolvendosi spesso in un furioso corpo a corpo combattuto da ambo le parti con una tale ferocia che alla fine della giornata gli ospedali romani rigurgitavano di feriti e i cadaveri non si contavano più. Si usò di tutto: fucili, pistole, baionette, pugnali, perfino i sassi, e si andò avanti per otto-nove ore, lottando in mezzo al fango, con le canne dei fucili – dirà un volontario – rese così incandescenti da incendiare le cartucce al momento di caricarle27. E non ci fu stratagemma o trappola cui non si ricorresse pur di sorprendere il nemico: parecchie fonti italiane raccontano che i francesi, e in particolare i còrsi, nell’avvicinarsi urlavano qualcosa in italiano per far sì che i difensori li scambiassero per compagni, ma non c’è motivo per non ritenere che trucchi analoghi fossero usati anche dai romani. In effetti, se anche per molti valeva il bisogno di contraddire l’insultante frase sugli italiani che non si battono, l’aspetto positivo di questa estrema difesa, la vera giustificazione di tanto spargimento di sangue che Spada avrebbe calcolato in oltre 400 morti28, stava nell’esperienza di guerra che garibaldini, legionari, studenti, semplici cittadini venivano accumulando: sicché per Garibaldi e i suoi Roma finirà per costituire il punto di raccordo tra l’America Latina e le imprese del 1859-60. Su un piano all’apparenza solo esteriore, ma in realtà molto simbolico, questa affermazione trova conferma nel fatto che il 28 giugno i garibaldini poterono indossare con grande ritardo le camicie rosse la cui «invenzione» da parte del loro capo risaliva appunto al periodo sudamericano.   Ivi, pp. 390-391.   Una ricostruzione esatta delle fasi finali dell’assedio, condotta in gran parte sulla documentazione francese e sulle mappe del tempo, è quella che si ricava da un opuscoletto messo a punto dall’Associazione A. Cipriani di Roma, a cura di G. Monsagrati, C. Balzarro e C. Benveduti: Difesa di Roma del 1849. I luoghi dei francesi, Associazione A. Cipriani, Roma, 2006. 27   Catoni, Un artigiano cit., p. 270. 28   Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, p. 658. 25 26

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Finalmente, verso mezzogiorno, i difensori chiesero e ottennero una tregua per raccogliere i feriti. Ancora una volta ad animare la resistenza fu un Garibaldi totalmente entrato in una dimensione quasi mistica della guerra: «Noi combattiamo sul Gianicolo – aveva scritto ad Anita qualche giorno prima – e questo popolo è degno della passata grandezza. Qui!... si vive, si muore, si sopportano le amputazioni al grido di “Viva la Repubblica”. Un’ora della nostra vita in Roma vale un secolo di vita!!»29. Il 30 giugno lo si vide correre da un punto all’altro incitando i combattenti e agitando la sua sciabola, miracolosamente illeso in mezzo ai corpi dei caduti. Quando capì che l’incedere dei francesi rischiava di tagliar fuori il Vascello e i suoi difensori, mandò a Medici l’ordine di ritirarsi al di qua delle mura e di occupare Villa Savorelli. Intanto intorno a lui si continuava a morire: tra i primi se n’era andato il varesino Emilio Morosini, diciotto anni appena compiuti, grande amico dei Dandolo e di Luciano Manara30, quest’ultimo raggiunto anche lui da una fucilata che lo passò da parte a parte mentre da una finestra di Villa Spada osservava i movimenti del nemico. Per «chiudere con serietà il quarantotto» La storia di Manara merita una breve nota a margine. Lo abbiamo visto giungere a Roma coi suoi bersaglieri lombardi preceduto dalla fama di ardimentoso protagonista delle Cinque giornate di Milano, la città in cui è nato e dove si è fatto conoscere come esponente di un gruppo detto degli «aristocratici»31. In realtà, la sua, più che di un aristocratico, è la tempra di un combattente nato, di uno che crede nella necessità di organizzare per la lotta contro l’Austria un proprio corpo militare bene addestrato e caratterizzato da una forte disciplina. Prevenuto per forma mentis verso tutte le ideologie rivoluzionarie, e in particolar modo verso l’ideologia mazziniana, Manara aveva avuto invero una sua bandiera politica, 29   Lettera del 21 giugno, in Garibaldi, Epistolario cit., vol. II, p. 181 (il corsivo nell’originale). 30   I dettagli del suo ferimento e della morte in Capasso, Dandolo, Morosini, Manara cit., pp. 256-260. 31   Ivi, p. 198.

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ed era stata quella filopiemontese e carlalbertista, dalla quale si era distaccato poco per volta quando aveva osservato criticamente il modo con cui il re sardo e il suo esercito avevano condotto la guerra del 1848 contro l’Austria. Ciò non vuol dire che si fosse convertito al radicalismo, visto che non risulta che avesse smesso di vedere in Mazzini un fattore di divisione all’interno del patriottismo e in Garibaldi e nei suoi volontari una «massa di briganti»32. Il destino volle che di quella massa di briganti Manara, dopo la morte di Daverio, fosse nominato capo di Stato Maggiore mentre manteneva il comando della prima brigata. Da quel momento Manara assume in tutto e per tutto la personalità dell’ufficiale garibaldino: in più, nonostante abbia anche lui una personalità forte, sa trovare un punto di mediazione tutte le volte che il dissenso di Garibaldi dalle posizioni di Mazzini e di Roselli rischia di esplodere. Capita un giorno che alcuni garibaldini indirizzino delle «insolenze contro la Guardia Nazionale romana» e che il loro comandante, Oreste Regnoli, se ne lamenti col Triumvirato: al fine di evitare una nuova occasione di malcontento verso gli uomini di Garibaldi, Saffi scrive a Manara sollecitandogli «provvedimenti di disciplina e rimedi al pericolo d’intestini dissidj»; Manara, allora, a mo’ di risarcimento morale fa pubblicare nell’ordine del giorno della Divisione la lettera scrittagli da Saffi: oggettivamente non è molto, ma è sufficiente a far ritenere chiuso l’incidente33, segno che il milanese ha saputo guadagnarsi una notevole autorevolezza. Ha solo ventiquattro anni, ma a casa ha lasciato una moglie e tre figli che lo hanno obbligato a maturare anzitempo. Del giovanotto che è stato quando ha rapito la futura moglie per sposarla e che pur sempre è rimasto mantiene comunque certi atteggiamenti risoluti fino alla spavalderia, benché fin dall’inizio sia convinto che «si cadrà, ma da forti»34. Dal 3 al 30 giugno, giorno della sua morte, Manara non conosce un attimo di respiro: da Villa Savorelli, dove Garibaldi ha posto il quartier generale della sua legione, e, a partire dal 21 giugno, da Villa Spada, dove l’avanzata francese l’ha costretto a   Lettera del 4 maggio 1849, in Lettere di Luciano Manara cit., p. 255.   La documentazione relativa a questo episodio, recante la data del 16 giugno, è conservata in M.C.R.R., busta 255/58. 34   Lettera del 1° maggio 1849, in Lettere di Luciano Manara cit., p. 255. 32 33

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spostarsi, organizza le operazioni di difesa e guida personalmente gli assalti furibondi dei garibaldini. Come se non bastasse, deve logorarsi per smussare gli angoli del litigio tra Garibaldi e Roselli. La mancata difesa del mattino del 22 giugno e il conseguente palleggio delle responsabilità sono fonte di accesissime polemiche che rinfocolano l’avversione di Garibaldi per i comandi militari e, col rifiuto da lui opposto all’ordine di contrattaccare nel pomeriggio del 22, lo spingono sull’orlo dell’insubordinazione. Si delinea ora il rischio che la Repubblica non solo cada ma che nel farlo sia sommersa da una valanga di polemiche e recriminazioni, confermando l’eterna litigiosità degli italiani, la loro tendenza ad anteporre gli interessi personali a quelli comuni. Dopo che il 22 giugno anche la seconda linea di difesa viene sfondata Manara si rende conto che è finita, perché la scienza militare è in certi casi una scienza esatta e dunque «si sa matematicamente che una piazza della tal forza dev’essere presa in tanti giorni»35. D’altronde gliene dà la conferma lo stesso Mazzini che la sera del 22 si sfoga con lui per l’ennesimo – ma stavolta giustificato – atto di disobbedienza di Garibaldi e gli scrive: «Considero Roma come caduta»36. Un altro indicatore del prestigio morale del giovane lombardo è appunto questo: che Mazzini, malgrado la distanza ideologica, si rivolge spesso a lui o per avere qualcuno con cui confidarsi o per stabilire tra la Commissione di guerra e la Divisione garibaldina una linea di contatto che non passi per il troppo spigoloso Garibaldi37. Questi è, d’altro canto, il vero animatore della difesa: si pensi che il 25 giugno, quando ormai le speranze sono ridotte al lumicino, è ancora convinto «esser noi oggi più forti di prima» e che «ogni giorno possiamo migliorare lo stato delle nostre fortificazioni»38. Non si capisce da dove ricavi tanto ottimismo, ma crede talmente tanto in ciò che dice da lanciare l’idea di una nuova sortita con 1000 uomini che, attirando parte delle truppe assedianti, alleggerisca la pressione sulle mura di Roma. Quanto a Manara, temporaneamente indisposto, Gari  Lettera del 26 giugno 1849, ivi, p. 264.   E.N.S., vol. XL, p. 157. 37   Lettera del 27 giugno, ivi, p. 169. 38   Lettera ai triumviri, in Garibaldi, Epistolario cit., vol. II, p. 184. 35 36

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baldi chiede che conservi il suo posto di capo di Stato Maggiore della Divisione. Benché Mazzini approvi il piano di Garibaldi, non se ne farà nulla. Quando Manara si riprende dal suo malanno, il suo primo pensiero è quello di tornare al posto di combattimento, il secondo è convincere Garibaldi a riportarsi a Porta S. Pancrazio. A differenza di Garibaldi, Manara non spera più nella vittoria ma sa che l’atto finale della Repubblica deve costituire una testimonianza, deve essere un legato per i posteri. È proprio la consapevolezza dell’ineluttabilità della sconfitta a dettare a Manara, in quelli che saranno gli ultimi giorni della sua vita, i due migliori epitaffi che la Repubblica possa ricevere da un suo figlio, per quanto «adottivo». Il primo lo si legge in una lettera all’amico e concittadino Carlo De Cristoforis (che, esperto anche lui di arte militare, cadrà durante la guerra del ’59): Roma – spiega Manara – sostiene un attacco di ventisei giorni. Il Genio e i cannoni fanno le breccie ma il nemico, dopo, trova i petti dei bravi. Trentamila francesi hanno aperto sei breccie. Da nove giorni occupano un bastione. Si sono sotterrati come sorci nei fossati: non osano mostrarsi. Quando assalgono sono respinti e fuggono. Vinceranno, perché materialmente quaranta grossi pezzi livellati sopra un punto, demoliscono e distruggono. Ma ogni maceria sarà difesa. Ogni rovina che copre i cadaveri dei nostri è salita da altri che muoiono piuttosto che cederla. Roma in questo momento è grande, grande come le sue memorie, come i monumenti che la ornano e che il barbaro sta bombardando39.

Il secondo epitaffio – molto più conciso – lo troviamo in un brano di lettera riportato da Giovanni Visconti Venosta, fratello di Emilio, futuro ministro degli Esteri dell’Italia unita, nei suoi Ricordi di gioventù: «Noi – scrive Manara – dobbiamo morire per chiudere con serietà il quarantotto. Affinché il nostro esempio sia efficace, noi dobbiamo morire!»40. Perché «con serietà»? Mana39   La lettera, datata 29 giugno, è in Capasso, Dandolo, Morosini, Manara cit., p. 251. 40   G. Visconti Venosta, Ricordi di gioventù: cose vedute o sapute 1848-1860, L.F. Cogliati, Milano, 1906, p. 168.

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ra, lo si è visto, non era repubblicano, l’anno prima aveva sperato anche lui nella possibilità di una vittoria piemontese nella guerra contro l’Austria, e quando era arrivato a Roma non aveva nascosto la sua distanza dall’ideologia del regime nato il 9 febbraio. Evidentemente, la serietà cui pensava questo giovane lombardo era quella che nel ’48 era venuta meno nella conduzione monarchica del conflitto, nella mancata difesa di Milano, nel comportamento delle alte gerarchie militari sabaude. Ed era la serietà di cui potevano essere capaci solo coloro che, pur non essendo cresciuti nell’adorazione della dottrina mazziniana, avevano maturato ugualmente, sotto il peso della dominazione austriaca, un forte senso della vita come missione e del dovere come regola di vita. Morte di un poeta Si erano intanto aggravate, nella seconda quindicina di giugno, le condizioni di Goffredo Mameli che, come si ricorderà, il 3 giugno era rimasto ferito alla gamba sinistra durante uno dei primi assalti a Villa Corsini. In un Risorgimento per niente avaro di gambe ferite (quella di Garibaldi in Aspromonte) o amputate (quella di Maroncelli, operata con ritardo perché il direttore dello Spielberg era convinto di dover restituire i detenuti alla libertà nelle stesse condizioni in cui li aveva presi in consegna), la gamba di Mameli spicca per una sua indubbia tragicità: in primo luogo perché Mameli che è nato a Genova il 5 settembre 1827 non arriverà a compiere ventidue anni; e poi perché l’amputazione, decisa quando ormai la cancrena sta già producendo i suoi effetti, non solo non basterà a salvargli la vita ma gli causerà le atroci sofferenze che lo accompagneranno fino alla fine. Si verifica anche con lui quella che uno studioso francese ha definito la «sacralizzazione della figura del poeta come profeta dell’avvenire», ed è di qui che discende l’immagine del «nuovo messia» ovvero di colui che annunzia l’arrivo della rivoluzione41. Mameli fa dunque parte a pieno titolo di questa generazione di 41   Ch. Charle, Gli intellettuali nell’Ottocento. Saggio di storia comparata europea, a cura di R. Pertici, Il Mulino, Bologna, 2002, p. 85.

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ribelli capaci di sentire prima col cuore ciò che poi elaboreranno con la mente e che altri metteranno in opera col braccio: senza però che lui resti in disparte o si sottragga, perché è troppo mazziniano per tenere il pensiero separato dall’azione, la poesia da coloro che ne fruiranno. Poeta vate per eccellenza, quando si mischia al popolo che a fine 1847 sfila per le strade di Genova e di Torino per ottenere il riconoscimento di alcuni diritti e per invocare la guerra all’Austria, ecco che coi suoi versi dona ai manifestanti alcune figure retoriche forti dotate di un enorme potere di mobilitazione. Cresciuto nel culto di Mazzini, ha ispirato i suoi componimenti all’insegnamento patriottico dell’esule, compreso quello del 1847 che in origine era intitolato «Canto degli Italiani» e che, quando viene messo in musica dal maestro Novaro, diventa «Fratelli d’Italia»: perché, come è stato giustamente sottolineato, «essere un rivoluzionario è un modo di esistenza collettiva: si è rivoluzionari con gli uni, i “fratelli”, i “compagni”, il “popolo”, e contro gli altri»42. Retaggio della Rivoluzione francese, il concetto di fraternità era entrato a pieno titolo nel pensiero e nello stile epistolare di Mazzini. A Roma Mameli è arrivato appunto per preparare il terreno al capo del partito, cosa che fa con grande senso della disciplina. Poi, però, l’inizio delle ostilità lo porta a soggiacere al richiamo quasi magnetico che Garibaldi esercita sui giovani che credono di trovare in lui e in lui solo la determinazione e la capacità di condurre vittoriosamente in porto una guerra disperata come quella che sta combattendo l’Italia. Ciò che valorizza Garibaldi agli occhi di Mameli è la insostituibilità del suo ruolo di catalizzatore e organizzatore delle forze volontarie: in pratica un completamento dell’opera di Mazzini, la scoperta di un’area nella quale il suo concittadino non potrà mai entrare. Ciò che invece segnala Mameli agli occhi di Garibaldi è, oltre la sua febbrile volontà di lotta, la dimensione classicheggiante del suo essere un «vate guerriero»43: in altri termini, un intellettuale capace di imbracciare il fucile, la qualità che secondo Garibaldi mancava completamente a Mazzini. 42   B. Baczko, Il rivoluzionario, in L’uomo romantico, a cura di F. Furet, Laterza, Roma-Bari, 1995, p. 278. 43   Garibaldi, Memorie cit., p. 227.

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In riconoscimento delle sue doti, Mameli viene chiamato a far parte dello Stato Maggiore garibaldino, e diventa aiutante del generale, lo segue nella campagna contro i napoletani invasori, assume tramite lui quel furore bellico che a Palestrina lo spinge a uccidere in battaglia un ufficiale napoletano44, ciò che certamente gli fa fare uno scarto deciso rispetto alla sua natura, che taluno ha definito «dolce», quasi femminea, e che gli sarebbe derivata dalla «particolare intensità del rapporto madre/figlio»45. Qui in realtà c’è una storia diversa, una storia che scatena negli uomini e anche nei ragazzi il lato più istintivo e, se vogliamo, violento, del carattere, perché nasce da decenni di frustrazione. Il ’49 romano non conosce dolcezza, nemmeno da parte di coloro che sembravano esserne dotati. Proprio da Palestrina Garibaldi riporterà indietro l’immagine di questo «giovinetto» che lo esortava a non dar tregua ai nemici «mostrando ad un tempo la sagacia d’un capitano e il bollore, lo slancio d’un valoroso soldato»; a sua volta Nino Bixio ricorderà che appunto a Palestrina il furore di Mameli era costato la vita ad un ufficiale borbonico46. La ferita del 3 giugno troncò di colpo tutto questo furore patriottico. Della convalescenza di Mameli si sa quasi tutto: è noto il suo ricovero all’ospedale della Santissima Trinità dei Pellegrini nel rione Regola, è nota la promozione al grado di capitano dello Stato Maggiore generale conferitagli come premio per il suo impegno, è nota l’assistenza prestatagli dalle infermiere organizzate dalla principessa Cristina Trivulzio di Belgiojoso e in particolare da una signora svizzera, Laure Paulet, imparentata con la moglie di Gustavo Modena. Donna molto caritatevole, questa Paulet lo fu anche troppo agli occhi del barnabita Alessandro Gavazzi che, forte dell’amicizia di Garibaldi, si aggirava tra gli ospedali per sorvegliare la moralità del personale femminile. Convinto che accan44   Per una ricostruzione di questa fase della vita di Mameli si veda G. Monsagrati, Mameli: il senso nuovo delle parole antiche, in L’Italia verso l’Unità. Letterati, eroi, patrioti, a cura di B. Alfonzetti, F. Cantù, M. Formica e M. Tatti, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2011, pp. 191-204; ma la bibliografia sul personaggio è molto nutrita. 45   P. Ginsborg, Romanticismo e Risorgimento: l’io, l’amore e la nazione, in Storia d’Italia. Annali 22 cit., p. 58. 46   G. Monsagrati, Gli ultimi giorni di Mameli, Associazione A. Cipriani, Roma, 2012, p. 24.

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to a Mameli accadesse qualcosa di riprovevole, Gavazzi, non certo un modello di sensibilità, fece una scenata alla Paulet rimproverandole un eccesso di disinvoltura nelle attenzioni prestate al degente47. Attingendo alle poche energie che gli restavano, Mameli aggredì verbalmente il frate e lo cacciò in malo modo. Fu, questo, il momento più agitato da lui vissuto durante una convalescenza che fu tutto un lento precipitare verso la fine solo brevemente interrotto da qualche pallida speranza48: inizialmente la speranza di salvargli la gamba; dopo l’amputazione, quella di poterlo almeno mantenere in vita. A Mameli in quei giorni non mancarono né le visite degli amici né le lettere della madre cui rispose con fatica sempre maggiore; ed ebbe sempre qualcuno vicino a confortarlo: la Belgiojoso che per distrarlo si dice gli leggesse le pagine di un romanzo di Dickens, e una donna sposata, Adele Baroffio, di cui si era invaghito da qualche mese e che con l’affetto e le premure cercava vanamente di fermare il decorso mortale della cancrena. Quando poté trovare un attimo di tempo sottraendolo ai doveri stringenti del Triumvirato, andò a trovarlo anche Mazzini che gli annunziò la promozione al grado di capitano di Stato Maggiore. Mameli morì il 6 luglio, tre giorni dopo che i francesi entrando in città avevano decretato la fine della Repubblica romana. La Repubblica si arrende Roma si arrese il 30 giugno, al termine di una serie infinita di piccoli scontri in cui il numero, le armi e la potenza di fuoco dei francesi avevano finito per avere il sopravvento sul coraggio dei repubblicani. Per tanti motivi fu una giornata drammatica, forse – sul piano politico, oltre che su quello militare – la più drammatica da quando la sfida della Repubblica all’Europa aveva avuto inizio. Per la prima volta, infatti, all’interno della classe dirigente repubblicana si manifestò non un dissenso sul tipo di quello che aveva 47   Sull’episodio si vedano la lettera di Mazzini alla Paulet in data 28 giugno, in E.N.S., vol. XL, pp. 177-179, e le note apposte dal curatore; si veda inoltre White Mario, Agostino Bertani cit., pp. 208-210. 48   «Goffredo è salvo; ma credo che non si potrà schivare l’amputazione», aveva scritto Mazzini alla madre il 17 giugno: E.N.S., vol. XL, pp. 142-144.

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opposto Garibaldi alla Commissione di Guerra e che bene o male si era riusciti ad assorbire grazie alla buona volontà di tutti coloro che vi erano rimasti coinvolti. Quella che ebbe luogo il 30 giugno fu invece una vera e propria spaccatura che al termine di un’accesa discussione vide da una parte il Triumvirato isolato, messo in difficoltà e costretto in blocco alle dimissioni, dall’altra l’Assemblea, decisa a votare la fine delle ostilità. Il finale ebbe anche un terzo, importante protagonista: il Municipio, doverosamente coinvolto a tutela degli interessi della popolazione e della città dopo che i francesi, travolta ogni resistenza e superata la barriera delle mura urbaniane, avevano ormai ridotto Roma ai loro piedi. A quel punto confidare in una guerra urbana fatta di barricate e di agguati nei vicoli di Trastevere, come era stato più volte ipotizzato da Mazzini, avrebbe avuto effetti disastrosi sulla cittadinanza, sulla città e sui suoi tesori artistici. L’alternativa pure ipotizzata da Mazzini quando si fu convinto che effettivamente la resistenza in città era diventata impossibile, e cioè uscire da Roma tutti insieme, Assemblea ed esercito, «per far risorgere altrove il moto insurrezionale»49 e affrontare gli austriaci, sul piano pratico non aveva consistenza alcuna, e col resto d’Italia ormai normalizzato era pura utopia, oppure volontà di testimonianza morale estrema. La fine della Repubblica arrivò là dove essa era nata: in Assemblea. Da giorni vi si discutevano e approvavano gli articoli della Costituzione, con una concentrazione e una calma mai messe alla prova da quanto stava avvenendo all’esterno. Il 30 giugno, tuttavia, dopo che la prima parte della mattina se ne era andata con l’approvazione degli ultimi articoli della Carta, non fu più possibile far finta di niente. Approfittando dunque della tregua appena concordata col nemico si decise di fare il punto della situazione o meglio di valutare quali provvedimenti prendere ora che i francesi erano praticamente in città. Ovvero: forse una resistenza strada per strada era ancora praticabile, ma si capì subito che l’orientamento generale dei rappresentanti non andava in questa direzione, troppo forti risultando i timori per l’incolumità della popolazione e la conservazione dei monumenti. Del resto, una precedente riunione dei capi militari convocata da Mazzini aveva   Rodelli, La Repubblica romana cit., p. 255.

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evidenziato posizioni abbastanza divaricate: nessuno aveva parlato di arrendersi, ma la proposta di Mazzini, che era appoggiata da Pisacane e in parte coincideva con quella di Garibaldi era stata messa per soli due voti in minoranza da chi aveva ritenuto migliore opportunità quella di continuare la resistenza. L’Assemblea non fu di questo parere, compresi – dirà poi Mazzini, rimproverandosi di non aver provveduto prima a raccogliere consensi – «i migliori amici ch’io m’avessi» tra i deputati50. Qualcuno, allora e più tardi, si spinse fino ad accusarlo di aver tentato di nascondere la gravità della situazione; altri, come il Gabussi, deputato e poi storico della rivoluzione romana, e come deputato ormai in rotta di collisione coi capi repubblicani, furono ancora più duri nel puntare l’indice contro tutta quanta la politica mazziniana. Quanto a Garibaldi, di fronte all’Assemblea ribadì il suo eterno motivo di recriminazione, facendo notare che «se prima [i Costituenti] avessero pensato a creare un dittatore la patria sarebbe stata salva»51. Come sappiamo, né i triumviri né l’Assemblea avevano mai preso in considerazione una soluzione del genere. Ciò nonostante, d’accordo coi colleghi un Mazzini provatissimo, «invecchiato, smunto e con gli occhi iniettati di sangue»52, decise di consultare l’aula sul suo piano che, come detto, prevedeva l’uscita in massa da Roma dei rappresentanti del popolo e dei capi militari al seguito di un esercito che lo stesso triumviro calcolerà potesse comprendere 13.000 uomini (10.000 regolari più 3000 «popolani»53). Gli rispose prima un generale, Bartolucci, che, accusandolo «di non aver rivelata la vera situazione delle cose»54, si disse contrario a riprendere le ostilità; Roselli, comandante in capo dell’esercito repubblicano55, confermò che la città era ormai indifendibile e che l’esercito era comunque pronto a continuare la lotta una volta lasciata Roma. Poi toccò a Cernuschi, colui che come membro della Commissione delle Barricate   E.N.S., vol. LXXVII, p. 352.   Pisacane, Guerra combattuta cit., p. 287. 52   Così lo descrisse a William H. Channing Margaret Fuller in una lettera di quei giorni: The Letters cit., vol. V, p. 247 (qui, come nella citazione che segue, la traduzione è nostra). 53   Lettera a E. Hawkes, 7 luglio 1849, in E.N.S., vol. XL, p. 189. 54   Rusconi, La Repubblica romana cit., p. 331. 55   Decreto triumvirale del 14 maggio 1849, in E.N.S., vol. XL, pp. 295-296. 50 51

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aveva cercato nelle settimane precedenti di far leva sull’orgoglio cittadino per ottenere che da parte del popolo si desse un forte sostegno allo sforzo dei difensori (firmerà l’ultimo proclama il 3 luglio56): ora, stretto dalle circostanze, ammise piangendo che ogni speranza era perduta e sottopose all’approvazione dei colleghi una bozza di decreto così concepita: «In nome di Dio e del Popolo. L’Assemblea Costituente romana cessa una difesa divenuta impossibile e sta al suo posto»57. Fu una doccia gelata per Mazzini che capì subito che quello era ormai l’orientamento dell’Assemblea e che, visto inutile ogni suo sforzo di ottenere che quanto meno si procrastinasse l’applicazione del decreto, lasciò precipitosamente l’aula. Per un riguardo nei suoi confronti fu deciso di consultare per ultimo Garibaldi che confermò quanto la situazione fosse disperata e come non ci fossero più margini per continuare la difesa, ma aggiunse anche che si apprestava a uscire da Roma e a dirigersi al Nord: soggiunse, «con quel soave sorriso che in lui è abituale»58, che chi se la fosse sentita, avrebbe potuto seguirlo, a patto, però, che avesse piena consapevolezza dei rischi e dei disagi cui si andava incontro; anzi, il quadro che presentò fu così scoraggiante («Voi dormirete a cielo sereno spesso, talvolta sotto la pioggia; camminerete sotto la sferza del sole, non sempre in carrozza; mangerete quel che si potrà...» ecc.59) che nessuno tra i deputati si azzardò a unirsi a lui. L’Assemblea, conosciuto l’esito della riunione dei capi militari, aveva ora tutti gli elementi per decidere. E lo fece approvando a larga maggioranza il testo del decreto nella formulazione di Cernuschi e incaricando i triumviri della sua esecuzione. Equivaleva in pratica a un rompete le righe, e come tale lo intesero i combattenti che sospesero ogni ostilità lasciando da quel momento via libera agli invasori. Ma non era facile per nessuno accettare la fine di un’esperienza nella quale era stata investita tanta passione patriottica. Il caso esemplare è quello di Mazzini che posto di   Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, p. 671.   Una bella narrazione della giornata del 30 giugno in Rodelli, La Repubblica romana cit., pp. 259-265, e in E. Morelli, La seduta del 30 giugno, in Id., G. Mazzini. Saggi e ricerche, Edizioni Ateneo, Roma, 1950, pp. 70-75. 58   Gabussi, Memorie per servire cit., vol. III, p. 468. 59   Sacerdote, La vita di Giuseppe Garibaldi cit., p. 460. 56 57

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fronte al dovere di dare esecuzione al decreto Cernuschi preferì dimettersi assieme agli altri triumviri. Allora fu necessario darsi un nuovo esecutivo: si provvide chiamando in carica un Triumvirato composto da Saliceti, Mariani e Alessandro Calandrelli cui toccò l’ingrato compito dei liquidatori fallimentari. Infine, come per voler dare un ultimo segno di vitalità, l’Assemblea votò, su proposta di Sterbini e Cernuschi, un’altra disposizione palesemente contraddittoria, nominando, in caso di uscita dell’esercito da Roma, una rappresentanza di dodici deputati autorizzati a convocare e rappresentare in qualunque momento l’Assemblea nel suo complesso. Si voleva in tal modo evitare che lo scioglimento della Costituente da parte dei francesi annullasse completamente il voto popolare; quando però si trattò di decidere i nomi dei prescelti, molti – compresi secondo una fonte lo stesso Mazzini e Cernuschi – si tirarono indietro e non se ne fece più nulla60. L’implacabile Gabussi, al quale dobbiamo in gran parte la ricostruzione della drammatica seduta, non esiterà a scagliarsi contro Mazzini condannando la contraddittorietà con cui, lanciata la proposta della delegazione assembleare, quando fu designato a farne parte sarebbe stato il primo a tirarsi indietro61. Non c’è dubbio che il triumviro Mazzini stesse pagando con qualche incertezza finale il lungo logorio di una situazione che un mese prima, al tempo della missione Lesseps, era sembrato potesse avere sbocchi ben più positivi. Attraversato per un momento dalla tentazione di rifiutare il voto della Costituente, Mazzini era e si diceva sicuro che nel popolo ci fossero ancora energie sufficienti per resistere ma non si sa da dove gli venisse questa certezza, dal momento che ormai i bastioni del Gianicolo erano stati sventrati e dai Monti Parioli una postazione d’artiglieria francese aveva cominciato a battere col fuoco una parte della città molto vicina al Corso, a via del Babbuino e a piazza di Spagna62. Forse nemmeno lui credeva davvero a ciò che diceva; e comunque, quando si avvide di essere ormai quasi del tutto isolato, comprese anche che un eventuale colpo di Stato avrebbe lasciato una mac  Rodelli, La Repubblica romana cit., p. 263.   Gabussi, Memorie per servire cit., vol. III, p. 469. 62   Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, pp. 656-657; Koelman, Memorie romane cit., vol. II, p. 439. 60 61

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chia incancellabile sulla sua vita. Scelse allora di uscire di scena nella maniera più dignitosa possibile. Da giorni andava ripetendo che non avrebbe mai posto il proprio nome sotto un atto di capitolazione63: infatti si dimise, e poi, il 3 luglio, volle fosse messa a verbale una formale protesta – firmata da lui solo – in cui, con parole durissime, accusava in sostanza i rappresentanti del popolo di avere tradito «il concetto di Roma»64. Era rimasto al potere per tre mesi e un giorno. Toccò comunque al Municipio, con a capo Francesco Sturbinetti che era anche generale comandante della Guardia Civica, concordare con Oudinot le modalità della consegna di Roma agli invasori, ma non si trovò un accordo e fu dunque il generale francese a stabilire unilateralmente i primi e più urgenti provvedimenti di controllo dell’ordine pubblico, mentre il Comune, impegnandosi a contrastare ogni eventuale atto di violenza contro i francesi, dichiarava di «cedere unicamente alla forza»65. Ancora una volta la città si mostrava compatta nella difesa del proprio onore e della propria fierezza, due caratteri che la breve vicenda repubblicana aveva saputo esaltare: non si prestava a festeggiamenti, non riscopriva d’improvviso la sua anima cattolica, non piegava il capo davanti a chi la invadeva col pretesto di difenderla. In giro c’era semmai molta concitazione, e serpeggiava il timore che qualcuno tra gli sconfitti, approfittando della confusione generale, si lasciasse andare a violenze o saccheggi66. A nessuno sfuggiva che la città ribolliva di disprezzo per le gerarchie ecclesiastiche e di ostilità per i francesi67. Perfino un francofilo acceso come Cernuschi, dopo aver condiviso a lungo con Mazzini la speranza di un accordo, dovette arrendersi all’evidenza e constatare che la Francia si comportava forse da repubblica sorella, come voleva uno dei luoghi comuni più cari ai repubblicani, 63   Lettere a Manara del 22 giugno e a George Sand del 28 giugno, in E.N.S., vol. XL, pp. 159 e 175. 64  Ivi, vol. LXXVII, p. 355. 65  Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, p. 664; V.E. Giuntella, Il Municipio di Roma e le trattative col gen. Oudinot, in «Archivio della Società romana di Storia patria», 1949, pp. 121-137; Rodelli, La Repubblica romana, p. 265. 66   Rende bene il clima di questi ultimi giorni il diario di F.L. Polidori: Severini, Diario di un repubblicano cit., pp. 202-230. 67   Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, p. 657.

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ma da sorella maggiore che giudica l’altra troppo immatura per saper badare da sola a se stessa. Significativa in questo senso e molto efficace la vignetta che si pubblicò a Torino in un giornale satirico: vi era disegnata una lapide sulla quale era incisa la frase «Oudinot / Dalla libertà / Roma / Liberava / 1849»68; ai lati destro e sinistro della lapide due cagnolini con la zampa alzata non lasciavano dubbi di sorta sul tipo di omaggio che rendevano al corpo di spedizione francese e a colui che lo aveva comandato senza ricavarne molta gloria.   La vignetta è riprodotta in Sacerdote, La vita di Giuseppe Garibaldi cit., p.

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IX L’ultimo atto della Repubblica romana La Costituzione La Costituzione della Repubblica romana, unanimemente considerata una delle più democratiche tra tutte quelle prodotte dalla breve stagione rivoluzionaria in Europa1, fu votata e approvata dall’Assemblea Costituente il 1° luglio 1849, un giorno dopo la capitolazione della città. Non essendo destinata a essere mai operativa, si può dire che nascesse postuma, rivolta più alle generazioni successive che ai contemporanei. Sia perché triumviro che per essere contrario a una Costituzione romana, Mazzini non ebbe parte nella stesura della Carta. Una sua più che probabile influenza ideale risaliva a molto prima, quando era cominciata la sua azione di teorico della democrazia risorgimentale. Il 3 luglio, poche ore prima che iniziasse l’ingresso dei francesi, i rappresentanti del popolo si riunirono in Campidoglio per assistere alla solenne proclamazione della Costituzione. Dei suoi contenuti parleremo fra breve. Ma a chi volesse sapere sotto quale tipo di legislazione s’era svolta in precedenza la vita della Repubblica, ricorderemo che la prima cornice di principi era stata fornita dal decreto fondamentale del 9 febbraio, i cui 4 articoli, oltre a dichiarare il pontefice «decaduto di fatto e di diritto dal governo temporale dello Stato Romano» e a fissare per il futuro il criterio della separazione della Chiesa dallo Stato, avevano sancito la nascita di una Repubblica avente come «forma di governo [...] 1   Arru, La legislazione della Repubblica romana cit., p. 235, e i testi citati dall’autore alla nota 247.

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la democrazia pura» (art. 3). Democrazia pura era una formula vaga uscita dalla penna di Quirico Filopanti e sul momento nessuno la mise in discussione; designava in sostanza un tipo di sovranità esercitata dal popolo: direttamente secondo il dettato settecentesco, attraverso propri rappresentanti secondo l’interpretazione che se ne dette a Roma nelle discussioni di metà giugno dove, stando ad alcuni studiosi2 si usò l’espressione «democrazia pura» in contrapposizione alla democrazia mista, ossia, in sostanza, a un regime repubblicano in cui fossero tollerati elementi che potessero richiamare la monarchia o l’aristocrazia. Attaccato alla parola democrazia, l’aggettivo pura era atto a suscitare più confusioni che emozioni. Ciò che qui importa vedere è all’interno di quale quadro normativo si svolse la breve vita delle istituzioni della Repubblica romana. La democrazia vi fu praticata prima ancora di essere proclamata e garantita formalmente: come abbiamo più volte affermato, anche l’istituzione di un Comitato esecutivo prima e del Triumvirato poi non avvenne a scapito dell’Assemblea ma fu sempre subordinata alla sua sovranità verso la quale rimasero responsabili sia i tre membri dell’esecutivo sia i ministri da essi nominati. Non va comunque dimenticato che proprio Mazzini era stato il più risoluto sostenitore della tesi del «concentramento dei poteri» in un gruppo ristretto che fosse responsabile di fronte all’Assemblea: posizione, la sua, che, contestata all’epoca da qualche rappresentante del popolo, sarebbe stata criticata a cento anni di distanza da Luigi Rodelli, uno storico di solito molto benevolo verso la figura del triumviro3. Con gli occhi dell’Europa puntati addosso, una carta dei diritti approvata da un’Assemblea legalmente eletta avrebbe messo a tacere qualunque accusa di sovversione o di anarchia. Per capire quanto questo passaggio stesse a cuore ai Costituenti, si pensi che già il 13 febbraio si era proceduto alla nomina di una commissione di nove membri incaricati di formulare un primo progetto di Costituzione. Tuttavia almeno inizialmente la commissione non procedette con molta rapidità, e dovette subire alcuni avvicenda  Ivi, pp. 37-38.   Rodelli, La Repubblica romana cit., pp. 179-185.

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menti: tra l’altro ne fu membro per breve tempo anche Mazzini, il quale però «pur partecipando a qualche seduta era certamente preso da altre preoccupazioni»4. Relatore e anche principale estensore del progetto fu Cesare Agostini. Lo abbiamo già incontrato come suggeritore inascoltato di strategie antifrancesi. Diremo ora che aveva alle spalle studi di diritto ed esperienze di lavoro nell’amministrazione pontificia: collaboratore del «Contemporaneo», il primo e più vivace quotidiano dell’epoca del Pio IX liberaleggiante, era una creatura di Sterbini che già prima della creazione della Repubblica lo aveva fatto nominare sostituto al Ministero del Commercio5. Non era, dunque, un mazziniano: lo diventerà per breve tempo durante l’esilio londinese, quando Mazzini prima lo soccorse aiutandolo a sbarcare il lunario e poi lo volle come segretario del suo Comitato nazionale italiano. Nel ’49 le posizioni di Agostini erano quelle di un cattolico legato all’ambiente romano e alle sue tradizioni storiche più antiche. Probabilmente subiva in parte anche lui l’influenza delle idee di Mazzini ma non era un suo uomo. Tra i due correva una divergenza di fondo, la stessa che opponeva in genere Mazzini ai romani: Agostini credeva nella Costituzione e si dava da fare per costruirne una, laddove, come si è visto, Mazzini nutriva in proposito un forte scetticismo, sembrandogli sufficiente, in mancanza di una Carta votata da una rappresentanza nazionale, «una dichiarazione di principi; una serie di guarentigie, per la libertà individuale, di coscienza, di associazione, di stampa [...] e un’organizzazione del potere»6. Invece l’Assemblea non ritenne di dovere accogliere questo suo invito e, come si diceva, affidò a una apposita Commissione la stesura di un primo progetto. Il testo che Agostini sottopose il 17 aprile all’Assemblea (in totale 83 articoli), mentre era infarcito di riferimenti alla romanità, non si peritava di proporre alcuni principi totalmente estranei alla cultura mazziniana: tra questi la possibilità di una istituzione obliqua 4   M. Battaglini, Due aspetti poco noti della storia costituzionale della Repubblica romana del 1849: il Tribunato e la normativa sulla responsabilità ministeriale, in «Rassegna storica del Risorgimento», LXXVIII, 1991, p. 439. 5   Su di lui si veda Dizionario biografico degli Italiani, vol. I, s.v. Agostini, Cesare, a cura di V.E. Giuntella, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, 1960. 6   E.N.S., vol. XL, p. 42.

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(art. 37) della dittatura7 (che, come si è visto, era cara a Sterbini e a Garibaldi), e soprattutto, messo in bella evidenza tra gli otto principi fondamentali, il riconoscimento della religione cattolica come religione di Stato. Intendiamoci: quella concepita da Agostini era comunque, pur con tutte le sue confusioni e genericità, una carta di tipo liberal-democratico, perché, sottoposti a «severa censura [...] i guasti prodotti dal passato regime papale»8, faceva scaturire la sovranità dal popolo, prevedeva un parlamento monocamerale eletto a suffragio universale e si basava sulla classica articolazione dei tre poteri, tutti eletti dal popolo. Inoltre affermava il principio di nazionalità, attribuiva la cittadinanza in base allo jus soli e non allo jus sanguinis, garantiva tutti i diritti che caratterizzavano una società liberale, valorizzava le autonomie municipali, proibiva la pena di morte. Dove però il progetto di Agostini rivelava il debito pagato alla cultura classica era nella istituzione del Consolato, come magistratura titolare del potere esecutivo composta di due soli membri, e del Tribunato, come organo di controllo della costituzionalità delle leggi ma anche come «organo di controllo del potere legislativo»9, e in quanto tale superiore anche all’Assemblea: chi ne era investito – in tutto 12 elementi, eletti a suffragio universale – poteva in pratica, di cinque anni in cinque anni, restare in carica a vita, con una pericolosissima torsione autoritaria dei presupposti della democrazia10. In questa latente sete di potere, si sente più la mano di Sterbini che quella di Mazzini. L’Assemblea impiegò qualche giorno per sbarazzarsi di questa rimasticatura della classicità presentata come aspirazione a disegnare una Costituzione che avesse ben evidenti i caratteri dell’italianità. Ciò perché, anche quando il progetto Agostini, dopo essere stato sottoposto al lavoro delle Sezioni, fu superato da un secondo progetto, relatore stavolta Saliceti, non mancarono tra i 7   L’articolo 37 (che con ironia involontaria compare nel Titolo III: Dell’Assemblea) dice infatti che «Se l’Assemblea decretasse la dittatura resterà questa sotto la vigilanza del Tribunato costituito in seduta permanente»: Atti Roma, vol. IV, p. 197. E qui si realizzava il paradosso di un organo autocratico sottoposto eventualmente al controllo di un organo semi-autocratico. 8   Arru, La legislazione della Repubblica romana cit., p. 155. 9   Battaglini, Due aspetti poco noti cit., p. 442. 10   Art. 59: «I tribuni possono essere rieletti di cinque anni in cinque anni indefinitamente»: Atti Roma, vol. IV, p. 199.

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deputati coloro che presentarono emendamenti volti a ottenere il ripristino del Tribunato, e furono in particolare Livio Mariani, lo stesso Agostini e Carlo Luciano Bonaparte. Un solo deputato, il bolognese Filopanti, ai più noto come portatore di grandi «ideali di democrazia sociale»11 nonché come autore degli emendamenti più socialmente avanzati12, insistette sulla proposta della religione cattolica come religione di Stato13. All’elaborazione effettiva del testo costituzionale e alla discussione che ne precedette l’approvazione presero parte uomini delle più varie tendenze: ex cospiratori d’area carbonara o genericamente liberale (Carlo Luciano Bonaparte, Giuseppe Galletti, Aurelio Saliceti), monarchici moderati (Rodolfo Audinot), federalisti di scuola romagnosiana e cattaneana (Enrico Cernuschi) o di orientamento giobertiano (ancora Bonaparte), idealisti di ascendenza incerta (Quirico Filopanti) e talvolta ambigua (Giuseppe Gabussi); per cui di fedelissimi di Mazzini era forse presente il solo Lizabe-Ruffoni. Ma la cosa notevole è che la piattaforma repubblicana proposta da Agostini e rimodulata da Saliceti riuscì a rappresentare un possibile punto d’incontro per tutti coloro che intervennero su questo o su quell’aspetto della Carta. Tutti, infatti, pur quando avanzarono osservazioni nel merito dei singoli punti, si riconobbero nello spirito delle relazioni e nel loro dichiarato proposito di marcare la superiorità della democrazia repubblicana rispetto all’istituto della monarchia, e soprattutto rispetto alla monarchia papale. Agì certamente da sprone a sbrigarsi l’imminenza dell’arrivo dei francesi. Una volta ultimate la presentazione e la lettura del testo costituzionale preparato da Agostini, la procedura che si mise in moto comportava l’invio del progetto alle otto Sezioni incaricate di esaminarlo; ogni sezione nominava un relatore che, concluso l’esame da parte dei componenti la Sezione, sottoponeva alla Commissione nominata a suo tempo (e composta di nove mem  Severini, La Repubblica romana cit., p. 22.   Rodelli, La Repubblica romana cit., pp. 288-291. Né Rodelli né Severini prestano attenzione all’emendamento sul cattolicesimo proposto come religione di Stato. 13   Atti Roma, vol. IV, p. 895. «Il culto è libero», si preoccupava di precisare Filopanti. 11 12

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bri, uno dei quali – Mazzini – si era dimesso all’atto della nomina a triumviro ma non era stato sostituito) eventuali osservazioni ed emendamenti. Svolto il lavoro di analisi e discussione degli emendamenti, la Commissione doveva fare propri quelli che riteneva fondati e quindi portare in Assemblea il progetto nel testo approvato a maggioranza: qui avrebbe dovuto aver luogo l’ultimo esame a opera di tutti i deputati. Per l’approvazione definitiva era stabilito da apposito regolamento14 che fossero necessarie una doppia lettura della Carta costituzionale e una doppia votazione. La relazione Saliceti Naturalmente il lavoro delle Sezioni fu portato avanti con la massima celerità. A giudicare dall’eccellenza del progetto che fu presentato in aula il 10 giugno, cioè meno di due mesi dopo la relazione Agostini, non sembra di poter dire che i commissari fossero molto condizionati da ciò che avveniva tutt’intorno: non lo furono dal punto di vista della preoccupazione personale, lo furono ancor meno sotto il profilo della qualità del contributo che seppero dare alla serena formulazione di una Carta che nella stesura definitiva sarebbe riuscita, secondo un giudizio già ricordato, a portare al più alto livello di democrazia la dottrina costituzionale dell’Ottocento europeo. Dicevamo poc’anzi che 17 furono i membri della Commissione costituente cui spettò il compito di lavorare sul testo di Agostini e proporne eventualmente una stesura riveduta e corretta. Si trattava in gran parte di figure di qualificata competenza nel campo degli studi giuridici, a cominciare dal vecchio Armellini, ma è difficile sostenere che fossero tutti degli esperti di carte costituzionali. Malgrado risulti che i deputati che avevano votato per la Repubblica erano per un quarto avvocati o giuristi15, nella Commissione dei 17 e tra coloro che presero più frequentemente la parola non mancavano i medici (Grillenzoni, Fabretti, Serpie  Approvato il 20 aprile: ivi, vol. IV, p. 260.   M. Severini, Nascita, affermazione e caduta della Repubblica Romana, in La primavera della nazione. La Repubblica romana del 1849, a cura di M. Severini, Affinità elettive, Ancona, 2006, pp. 29-41. 14 15

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ri), gli uomini di scienza (Bonaparte, Filopanti, che furono tra i più assidui nella discussione nonché autori di numerosi emendamenti), i letterati (Antinori, Pennacchi). Come aveva ricordato Cernuschi in uno dei suoi proclami barricadieri, nella scienza della libertà «ognuno è maestro»16. Lo confermarono i Costituenti che cercarono di agire secondo coscienza, forti della volontà di consegnare ai posteri un documento della loro rettitudine morale e del loro rispetto dei diritti del popolo. Certamente conoscevano alcuni modelli, primo fra tutti quello messo in circolo dalla Rivoluzione francese del 1789, esplicitamente richiamato nel II principio fondamentale del testo poi approvato (laddove si dichiara di voler fondare il regime democratico sulla triade «eguaglianza, libertà, fraternità»); ma, mossi dall’ambizione di fare qualcosa che avesse il marchio dell’originalità, i Costituenti evitarono volutamente i furori ideologici del giacobinismo, scansarono le astrattezze antistoriche, non rincorsero nessuna utopia: semplicemente, guardarono avanti, alla società che intendevano far nascere, e così diedero ai cittadini della Repubblica ciò che essi non avevano mai avuto, e che non era solo la libertà o il godimento dei diritti ma anche la responsabilità che ogni libertà comporta. A sottoporre il progetto17 alla valutazione dell’Assemblea fu stavolta Aurelio Saliceti, un abruzzese che nel ’48 a Napoli aveva retto per una settimana il Ministero di Grazia e Giustizia. Giunto a Roma, aveva fatto parte con Armellini e Montecchi del primo comitato esecutivo nominato subito dopo la proclamazione della Repubblica. Il 10 giugno la sua relazione, asciutta, puntuale e ricca di metafore e avveduti riferimenti alla tradizione repubblicana classica, riscosse parecchi applausi. Senza perdersi in preamboli, Saliceti riferì subito quali punti del progetto Agostini erano stati respinti o modificati dalla sua Commissione. Ed erano, quelli introdotti dalla Commissione Saliceti, punti qualificanti perché tra l’altro prevedevano in uno slancio di moralismo la pubblicità delle operazioni elettorali, cancellavano la dittatura («cotesta strana asfissia della libertà sociale»18), eliminavano il Tribunato (perché come potere di vigilanza sull’esecutivo «lo avrebbe impacciato ad   Monsagrati, Federalismo e Unità cit., p. 103-104.   Lo si veda in Atti Roma, vol. IV, pp. 749-758.   Ivi, p. 752.

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ogni passo; avrebbe portata la sua politica nella piazza; lo avrebbe travolto nel fango»19, ragion per cui il controllo su governo e Assemblea sarebbe stato meglio e più correttamente esercitato dal potere giudiziario), conservavano il Consolato. Significativamente, il titolo IV, in cui Agostini aveva definito le competenze del Consolato, nel progetto Saliceti era dedicato al Consolato e al Governo, riproducendo in pratica, con il Consolato portato a tre membri, la divisione tra Triumvirato e Ministero su cui si era retta fino ad allora la Repubblica. Facile prevedere che in sede di discussione sarebbe stato oggetto di critiche e puntualizzazioni. Terminata l’introduzione, Saliceti diede lettura del testo concordato coi colleghi: si componeva di otto principi fondamentali, distinti con numeri romani, e di 71 articoli (dunque 12 in meno del progetto Agostini), di cui quattro relativi alle disposizioni transitorie. Con la soppressione del paragrafo relativo al Tribunato, i titoli erano diventati otto. Successivamente fu decisa la data di inizio della discussione, fissata per il 16 giugno; senonché, a ridosso di tale data, fu prima necessario approvare – onde evitare il rischio di un cedimento del soffitto dell’aula già messo in pericolo dalle bombe francesi – lo spostamento, a partire dal 17 giugno, delle sedute dal Palazzo della Cancelleria a una sala del Campidoglio approntata in fretta e furia. Col risultato che i francesi allungarono immediatamente il tiro e cominciarono a prendere di mira il Campidoglio20 nella speranza di fiaccare finalmente la determinazione dei deputati. L’assemblea discute Con la successiva discussione nel merito, iniziata dopo che il 20 giugno era stata diffusa la lista a stampa degli emendamenti, si andò avanti con qualche intervallo dal 24 giugno al 1° luglio, e quella che fu scritta in una sola settimana fu forse la pagina più puntigliosa ma – entro certi limiti – anche la più appassionante di tutta l’effimera esistenza della Repubblica romana. A prendere la parola non furo  Ivi, p. 750.   Severini, Diario di un repubblicano cit., p. 199.

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no in molti, segno che la materia non era alla portata di tutti; ma coloro che intervennero lo fecero in genere con competenza e spirito di collaborazione, ponderando, pur nella fretta di concludere, ogni singola parola. Senz’altro singolare (per noi almeno, abituati a ben altre maniere) fu inoltre il galateo cui i deputati si attennero nel loro comportamento in aula: stando almeno ai verbali, nessuno prese la parola senza l’autorizzazione del presidente, non ci furono interruzioni né aggressioni verbali, le divergenze di vedute non diedero mai luogo ai battibecchi isterici e alle autentiche volgarità cui ci avrebbe abituato il costume parlamentare di un secolo e mezzo dopo. E sì che un certo nervosismo sarebbe stato giustificato dalle condizioni tutt’altro che ideali in cui l’Assemblea fu costretta a lavorare nei giorni cruciali dell’ultimo assalto francese. A quanto ci risulta, il monito espresso con le parole «se l’Assemblea non si calma, il Presidente crede di dover sospendere la seduta» echeggiò nella sala in una sola occasione, il 26 giugno21. Per completezza d’informazione, diremo che quel giorno la seduta non fu sospesa. Si trattò inoltre di un dibattito condito di molta dottrina ma che a nessuno fornì mai il pretesto per fare sfoggio di pura erudizione, e anzi furono parecchi coloro che, intervenendo, precisarono che non volevano far teorie o tenere «dissertazioni scientifiche», come ebbe a dire l’ascolano Ballanti22. Naturalmente la sezione del testo costituzionale che per essere approvata richiese un più ampio confronto di opinioni sui molti emendamenti presentati fu quella relativa ai principi fondamentali, che esprimevano i valori che si volevano porre alla base della Repubblica, a partire dal primo, che stabiliva che «la sovranità è per diritto eterno nel popolo. Il popolo dello Stato romano è costituito in Repubblica democratica» (con eliminazione dell’aggettivo pura che Ballanti definì giustamente «privo di senso»23 ma che era presente sia nella formulazione del 9 febbraio sia in quelle delle due Commissioni). Il secondo, col riferimento ai valori di libertà eguaglianza e fraternità, toglieva ogni valore ai titoli nobiliari e ai privilegi di nascita o di casta: l’Assemblea lo accettò in pieno. 21  Atti Roma, vol. IV, p. 965. Presiedeva la seduta il rappresentante del popolo Allocatelli. 22   Ivi, p. 882. 23   Ivi, p. 912.

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Qualche non lieve modifica formale subì invece, prima di essere votato, il terzo principio che era di grande significato sul piano sociale, perché, realizzando in concreto il concetto di fraternità dell’articolo precedente e recependo il principio di associazione caro a Mazzini, impegnava la Repubblica a promuovere «il miglioramento delle condizioni morali e materiali di tutti i cittadini». Oggetto di lunga discussione fu qui un emendamento proposto da Filopanti in estensione del III principio fondamentale del 9 febbraio: vi si diceva che spettava alla Repubblica assicurare, «secondo i limiti dei suoi mezzi», la sopravvivenza dei cittadini bisognosi, «procurando il lavoro a quelli che non hanno altro mezzo di procacciarsene, o fornendo sussidi a coloro, che non ne possono avere dalla loro famiglia, e che sono impotenti al lavoro»24. L’appassionata difesa che ne fece Filopanti non bastò a evitarne la bocciatura, specialmente dopo che ci fu chi ebbe fatto notare (Audinot, Ballanti) che l’emendamento riecheggiava troppo il concetto di diritto al lavoro proclamato l’anno prima da Louis Blanc all’atto della creazione della Repubblica francese (e poi inserito in quella Costituzione, nell’art. VIII del Preambolo e 13 del testo). All’unanimità e senza che si desse luogo a cambiamenti fu approvato il quarto punto che sanciva il principio risalente a Mazzini per cui «la Repubblica riguarda tutti i popoli come fratelli; rispetta ogni nazionalità; propugna l’italiana». Sui principi V, VI e VII si sviluppò un confronto talvolta anche aspro, ed è facile capire perché. I primi due riguardavano l’organizzazione territoriale dello Stato, ovvero l’autonomia dei Municipi: tasto delicato, perché toccava l’antico bisogno di indipendenza della periferia dal centro e il convincimento, molto diffuso, che vedeva nelle libertà dei Municipi la base di ogni altra libertà: purché, rilevò Audinot25, non li si riducesse a pure macchine amministrative. L’Assemblea risolse il problema accogliendo quasi in pieno la proposta della Commissione mista e affermando che, a parità di diritti, l’indipendenza dei singoli Comuni era limitata dalle sole «leggi di utilità generale dello Stato» (emendamento Bonaparte26). In Commissione il contenuto di questo articolo era sta  Ivi, p. 921.   Ivi, p. 937.   Ivi, p. 934.

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to temperato da quello successivo in base al quale si diceva essere «l’uniformità il principio regolatore del riparto territoriale della Repubblica». In molti Costituenti il termine «uniformità» ridestò paure di centralizzazione e di mortificazione delle autonomie locali: si preferì dunque (principio VI) sostenere che gli interessi locali dovessero armonizzarsi con l’interesse politico dello Stato, onde evitare di ridurre la Repubblica romana a «una federazione di Municipi», come avvertì Lizabe-Ruffoni, il quale trovò anche il modo per inserire nel suo intervento la profezia del prossimo avvento sulla scena del mondo di una «Costituzione europea» e di una «federazione di nazioni»27. Il principio VII, riprendendo la formulazione di Agostini – non condivisa peraltro dal relatore Saliceti –, era costituito da due incisi: il primo diceva che «la Religione cattolica è la Religione dello Stato», il secondo precisava che «dalla credenza religiosa non dipende l’esercizio dei diritti civili e politici»28. Poiché si trattava di affermare o negare la natura laica dell’ordinamento repubblicano il dibattito fu molto serrato e per una volta anche molto acceso. Basti dire che la discussione durò due giorni e che, iniziata il 26, vide per la prima volta l’Assemblea letteralmente spaccata in due. Mentre la confusione montava e le voci si sovrapponevano, fu risolutiva la proposta Bonaparte di votare separatamente i due incisi. Così l’affermazione riguardante il carattere confessionale dello Stato fu bocciata per pochi voti, e col consenso quasi generale si giunse a stabilire soltanto che «dalla credenza religiosa non dipende l’esercizio dei diritti civili e politici». In un certo senso era questo il principio più «politico» di tutta la Costituzione romana, perché, in un’Italia che negli Statuti monarchici del ’48 aveva uniformemente fissato (con varianti più o meno permissive) la norma della religione cattolica come religione di Stato, la Costituente romana aveva il coraggio di affermare che la Repubblica non aveva bisogno di servirsi della religione, di nessuna religione, come instrumentum regni. D’altronde era vero anche il contrario perché, come avvertì Bonaparte rivolto ai suoi colleghi, «o voi fate la religione serva dello Stato o fate lo Stato   Ivi, p. 938.   Ivi, p. 754.

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servo della religione»29. Audinot, Saliceti, Arduini si schierarono con lui; gli Atti dell’Assemblea registrarono il parere opposto di Gabussi, Agostini, Salvatori. Con molto maggiore rapidità fu votato, senza modificarlo e con la sola opposizione di Bonaparte, l’VIII articolo proposto dalla Commissione mista: vi era fissata una norma, già inserita nel decreto fondamentale del 9 febbraio (art. 2), in forza della quale al capo della Chiesa erano riconosciute «tutte le guarentigie necessarie per l’esercizio del potere spirituale». Di tutto quanto era avvenuto in questa seduta qualcosa trapelò all’esterno, tant’è che un diarista registrò puntualmente il clima di scontro determinatosi intorno ad un altro emendamento, quello con cui Arduini aveva proposto che si dichiarasse la libertà dei culti: messo ai voti, ottenne solo un terzo dei consensi e fu dunque rigettato30. La discussione degli articoli ebbe inizio il 28 giugno. La fine della Repubblica era nell’aria: quel giorno i francesi si impadronirono anche della polveriera di Tivoli e la distrussero in modo da tagliare definitivamente i rifornimenti agli assediati31. Ma, per quanto i Costituenti sentissero ormai alle porte il nemico, la loro fu un’analisi scrupolosa e, in un paio di occasioni, anche abbastanza controversa. Noi non rifaremo tutta la storia di questi tre giorni di dibattito che, proprio per la riconosciuta qualità della Costituzione repubblicana, molti studiosi hanno ripercorso in lungo e in largo sottolineandone la modernità e, talvolta, il nesso non solo ideale con la Costituzione della Repubblica italiana. Diremo solo che il carattere monocamerale della Carta, eliminando il ruolo moderatore del Senato e la doppia lettura delle leggi, la iscriveva di diritto tra quelle più democratiche. I 71 articoli del testo proposto dalla Commissione mista furono portati a 69. Erano divisi in otto Titoli, i più importanti dei quali concernevano i «Diritti e doveri dei cittadini», l’Assemblea e le sue prerogative, il Consolato e il Governo, il Consiglio di Stato, il potere giudiziario, 29   Ivi, p. 971 (identiche le parole di Saliceti). Sul dibattito si vedano comunque: Rodelli, La Repubblica romana cit., pp. 293-301; Arru, La legislazione della Repubblica romana cit., pp. 239-255. 30   Roncalli, Cronaca cit., vol. II, pp. 183-184. 31   Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, p. 655.

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la forza pubblica, con ciò intendendo anche l’esercito, le modalità di revisione della Costituzione. La sera del 1° luglio la Costituzione fu votata all’unanimità; per promulgarla solennemente dal Campidoglio, i Costituenti attesero la mattina del 3 luglio, sentendosi – dirà 60 anni dopo uno di loro, ultimo superstite dell’Assemblea – come «gli antichi senatori romani, che immobili sui loro scranni aspettavano i Galli invasori»32. Poi il deputato Pennacchi (lo stesso che avrebbe portato a Perugia il testo originale della Costituzione recante la firma autografa di tutti i deputati) ne diede lettura pubblica, mentre su tutte la case intorno sventolavano le bandiere nazionali, Garibaldi con la sua Legione si accingeva a mettersi in marcia verso il Nord e le prime avanguardie francesi cominciavano a liberare le porte d’accesso alla città. Assai suggestiva la descrizione che della scena ci ha lasciato un memorialista che vi assistette mescolato alla folla che gremiva la piazza del Campidoglio: Ben presto sulla grande scalea del palazzo apparvero i membri dell’Assemblea legislativa, tutti con la sciarpa tricolore, preceduti dal presidente, generale Giuseppe Galletti, e quando si furono calmati un poco gli applausi scroscianti che li avevano salutati, vennero letti ad alta voce gli articoli della Costituzione della Repubblica romana. Alla presenza dei Francesi ogni articolo fu salutato da un applauso fragoroso ed a lettura finita si alzò il grido appassionato di “Viva l’Italia libera”, “Abbasso gli stranieri”. Era un grido unanime di tutta la piazza e le case intorno sembravano ripeterne l’eco. Ma non era l’eco soltanto: si erano spalancati di colpo i balconi e gli abitanti, con grida e sventolio di fazzoletti, aumentarono per alcuni istanti la commovente manifestazione della folla; subito dopo la piazza ripiombò in un cupo silenzio33.

Era il silenzio degli sconfitti; e chi aveva combattuto lo era doppiamente, perché era costretto a lasciare precipitosamente la città per non incorrere dopo la restaurazione nei prevedibili rigori della legge pontificia. Intanto, l’ingresso in massa delle truppe francesi il 3 luglio ebbe come conseguenza immediata lo scioglimento con la forza dell’Assemblea Costituente romana che nel   Atti Roma, vol. IV, pp. 1068-1069.   Koelman, Memorie romane cit., vol. II, pp. 462-463.

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piegarsi davanti al nemico consegnava alla storia i suoi ultimi, simbolici atti: un riconoscimento, per la verità abbastanza freddo, tributato al Triumvirato per avere ben meritato della patria34, e una protesta «devant l’Italie, devant la France, devant le monde civilisé»35 contro l’occupazione violenta della sede delle riunioni. Una lezione di democrazia Merito indubbio della Repubblica e della sua Costituzione fu quello di aver messo in evidenza come si potessero interpretare, in modo del tutto antiautoritario, le aspettative e le esigenze di un elettorato chiamato d’improvviso ad attuare, tramite il suffragio universale, uno dei meccanismi fondamentali delle moderne democrazie. La storia di quei cinque-sei mesi è la prova di come una porzione non particolarmente avanzata di società italiana, a lungo considerata – per le condizioni in cui era stata governata – tra le meno civilmente evolute di tutta la Penisola, fosse in grado di tendere la dottrina liberale ben al di là dei limiti che i politologi del tempo di solito le assegnavano, senza per questo produrre intolleranza o fanatismi ma sempre restando entro i confini autoimposti della legalità. Opportunamente Mauro Ferri, presidente emerito della Corte costituzionale italiana, ha ricordato recentemente come a Torino nel 1861 fosse un deputato del neonato Regno d’Italia, il bolognese Rodolfo Audinot, a chiedere in pieno Parlamento monarchico di poter rievocare quei giorni del 1849 mettendone in risalto il profilo patriottico esemplare, ben al di là di tutte le divisioni ideologiche. Sono parole – queste di Audinot – che vale la pena di riportare anche perché servirono al deputato bolognese per introdurre con una interpellanza al governo Cavour il tema della rivendicazione di Roma all’Italia e della sua designazione a capitale futura della neonata nazione: Nel 1849 io vidi in Roma un fascio d’uomini non tutti appartenenti, come le tristi passioni di quel tempo affermarono, alla sola demagogia,   Atti Roma, vol. IV, p. 1075.   Ivi, p. 1083.

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ma fra essi molti uomini devoti ai principii d’ordine, e alcuni devoti alla monarchia [...], combattere da un lato in guerra a morte l’Austria vincitrice, nemica eterna d’Italia; dall’altro combattere un fraterno dolorosissimo duello colla Francia repubblicana. E vidi quel fascio d’uomini lanciarsi scientemente, volontariamente, senza speranza di vittoria, senza conforto di lode e di compianto, lanciarsi, dico, nella voragine di Curzio per mantenere integra la protesta contro lo straniero invasore, protesta che, se non si fosse fatta allora, forse non potremmo sedere oggi qui; lanciarsi nella voragine di Curzio per redimere col sangue il nome italiano, vituperato, contaminato dagli insulti della rea­ zione furente, baccante in Europa36.

Era, questa di Audinot, la presa di coscienza di come le vicende del 1849 avessero fatto di Roma un efficace baricentro identitario dell’Italia che si veniva costruendo con uno sforzo che aveva visto accomunati sulle rive del Tevere uomini e donne di ogni provenienza. E la partecipazione di tanti stranieri alla difesa aveva fatto sì che il discorso aperto, pur se solo temporaneamente, sui bastioni del Gianicolo potesse essere tradotto in altre lingue facendosi interprete delle speranze di libertà di tutti i popoli ancora soggetti a forme di oppressione sia interna che esterna. Ci sia consentita un’ultima, rapida osservazione sulla Costituzione romana. A leggerla oggi, si resta colpiti da due caratteri: l’organicità e l’essenzialità, come se fosse uscita da una sola testa e come se quella testa avesse avuto per unico scopo quello di dare voce alle aspirazioni e ai bisogni di una collettività molto coesa. È stata spesso accostata alla Costituzione francese del 4 novembre 184837, che non a caso compare qua e là nei riferimenti che gli stessi deputati fanno nel corso del dibattito (come, del resto, non mancano accenni ad altre Carte e Statuti ottocenteschi); ma è un accostamento che, fondato sul piano della sostanza, lo è molto meno sul piano della forma, che però, come è noto, in certe circostanze è anch’essa sostanza. Basta confrontare i due testi, facil36   Citato da Ferri, Costituente e Costituzione nella Repubblica romana del 1849, in «Diritto e Società», I, 1989, p. 42. 37   C. Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia. 1848-1948, 2 voll., Laterza, Roma-Bari, 1978, vol. I, p. 30; Ferri, Costituente e Costituzione cit., p. 31; I. Manzi, La Costituzione della Repubblica romana del 1849, Affinità elettive, Ancona, 2003, p. 126.

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mente reperibili nella rete, e balza subito agli occhi la differenza tra l’essenzialità della Costituzione romana e la verbosità di quella francese. Vero è che la Carta francese deve servire a garantire i diritti di una popolazione assai più numerosa e in una condizione territoriale assai più complessa di quella romana: ma 69 articoli contro 116 (tanti sono gli articoli della Carta francese) configurano un divario indubbiamente vistoso. Alla fine, l’impressione è che la lingua della Costituzione francese, dettata da un’evidente ossessione per la clarté cartesiana, sia un po’ come il «latinorum» di Renzo: tante, troppe parole, per non far nascere il sospetto – rivelatosi giustificato alla prova dei fatti, come dimostra il già ricordato oblio dell’art. V – che ci si riservi qualche manipolazione. E, come hanno dimostrato recenti analisi38, questo appare ben chiaro soprattutto quando si parla di relazioni internazionali, laddove bisogna conciliare due esigenze apparentemente inconciliabili: tranquillizzare le monarchie europee sulle intenzioni pacifiche della seconda Repubblica e, allo stesso tempo, strizzare l’occhio alle nazionalità oppresse facendo loro sperare che la Francia non abbia rinunziato al ruolo di liberatrice assegnatole dal primo Napoleone. Garibaldi in marcia Prima ancora che le truppe di Oudinot occupassero Roma ebbe anche inizio la diaspora dei volontari, cui si aggregarono in fretta e furia alcuni romani che per essersi particolarmente esposti avevano buoni motivi per temere le ritorsioni del restaurato potere pontificio. Molti tra i deputati riuscirono a procurarsi, grazie ai buoni uffici dei consoli più liberali, passaporti americani o inglesi, che, date le motivazioni umanitarie, furono concessi senza eccessivi intralci burocratici. Altri si allontanarono alla spicciolata, ma chi fece più scalpore fu ancora una volta Garibaldi che nel frattempo era stato raggiunto dalla moglie Anita, incinta di quattro mesi e arrivata a Roma da Nizza il 26 giugno, in tempo per assistere agli 38   E. Desmons, La politique étrangère des républicains français de la circulaire du 4 mars 1848 à l’article V du préambule de la Constitution du 4 novembre 1848, in La République romaine de 1849 et la France, a cura di L. Reverso, L’Harmattan, Paris, 2008, pp. 109-112.

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ultimi giorni della difesa di Roma e per raccogliere lo scoramento del marito ma anche la sua voglia di non darsi per vinto. Che il progetto di portare la guerra fuori da Roma presentasse una serie infinita di ostacoli e pericoli non bastò a scoraggiarlo. Nel momento in cui questi reduci ostinati della Repubblica si mettevano in marcia diventavano il possibile bersaglio di chiunque volesse colpirli. La caccia era aperta, animata soprattutto dal desiderio di regolare i conti con chi aveva osato sfidare l’ordine internazionale. In questa politica di repressione una parte la faceva anche il Regno sardo il cui ministro degli Interni ordinava il 6 luglio che chiunque avesse combattuto a Roma, e «specialmente Mazzini, Garibaldi, Mameli, Bixio», fossero «respinti dalle frontiere di terre e di mare» e tenuti fuori dai confini dello Stato39. Comunque non era verso il Piemonte che voleva dirigersi Garibaldi. Radunati i suoi legionari in piazza S. Pietro in mezzo a un mare di folla acclamante accorsa a salutarlo, Garibaldi tenne la sua «orazion picciola», forse la più celebre tra quelle da lui pronunziate nel corso della sua lunga carriera: «Io esco da Roma – disse –. Chi vuol continuare la guerra contro lo straniero, venga con me. Io non offro né paga, né quartieri, né provvigioni; io offro fame, sete, marce forzate, battaglie e morte. Chi ha il nome d’Italia non sulle labbra soltanto ma nel cuore, mi segua»40. Era la stessa proposta che, come si è visto, aveva lanciato poco prima ai colleghi dell’Assemblea rivolgendosi loro con il sorriso di chi si sente prossimo a riprendere l’avventuroso stile di vita del guerrigliero che deve obbedire solo al proprio istinto. Lo seguirono in più di 4000, raccolti il pomeriggio del 2 luglio in piazza S. Giovanni da dove si misero in marcia per far credere che puntavano a est; invece ben presto la lunga colonna si diresse a nord. Spiccavano, tra i tanti volontari, alcuni civili, Ciceruacchio coi suoi due figli, e un frate, Ugo Bassi. Anita, che il marito aveva scongiurato di non seguirlo, si era fatta tagliare i capelli, si era vestita da uomo e, benché incinta di qualche mese, era montata a cavallo: «al primo fissarla si scorgeva in lei l’amazzone», dirà più tardi Hoffstetter41, un ufficiale svizzero addetto allo Stato maggiore del marito.   Sacerdote, La vita di Giuseppe Garibaldi cit., p. 518.   Ivi, p. 463. 41   G. von Hoffstetter, Giornale delle cose di Roma nel 1849, Tipografia Elvetica, Capolago, 1851, p. 327, in part. pp. 340-341. 39 40

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Riproposizione di situazioni già vissute e superate in Sud America, il viaggio verso il Nord della Penisola infestato di truppe austriache ormai spadroneggianti in lungo e in largo sarebbe stato l’ultimo di questa coraggiosissima ventottenne brasiliana. E sarebbe anche stato, per il marito, l’inizio doloroso del suo secondo esilio. Le amarezze del triumviro Al contrario di Garibaldi, Mazzini volle che passasse una settimana prima di lasciare Roma: «offrendomi vittima facile a ogni offeso che volesse vendicarsi», scriverà anni dopo in velata polemica con chi lo aveva accusato di aver governato col terrore42. Furono giorni di grande travaglio interiore, spesi con l’illusione di essere ancora in grado di organizzare una lotta di popolo contro l’occupante o di potere raccogliere fuori città ciò che restava dell’esercito repubblicano per tentare un ultimo, disperato, colpo di mano. Dovette però arrendersi alla constatazione che i capi militari si stavano allontanando, che i francesi, dopo aver lanciato alcune colonne sulle tracce di Garibaldi, sorvegliavano tutte le mosse di chi era rimasto per evitare appunto che si riordinassero le file degli sbandati, e infine che la popolazione romana placava la sua ira con gesti spiccioli di rabbiosa violenza contro qualche occupante e qualche prete che troppo platealmente si era azzardato a festeggiare il ritorno del potere temporale. Il 3 luglio, mentre aveva inizio l’occupazione, Mazzini vergò un documento che consegnò ai segretari dell’Assemblea romana. Era un duro atto d’accusa contro l’organo legislativo della Repubblica che, diceva Mazzini, era venuto meno alla missione assegnatagli da chi lo aveva eletto e così facendo aveva tradito «il concetto italiano di Roma»43. Dettata dall’ira accumulata nei giorni che avevano preceduto la capitolazione e dal senso di frustrazione provocato dalla sconfitta, la protesta era ingenerosa e appariva più ispirata alla mistica dell’olocausto che a una pon  E.N.S., vol. LXXVII, p. 355.   Ivi, vol. XLIII, p. 179: il documento recava la firma di Giuseppe Mazzini «Rappresentante del Popolo». 42 43

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derata visione della realtà. Indubbiamente l’ex triumviro sentiva più che mai il peso della solitudine: solitudine soprattutto morale, la sua, dopo che aveva appena avuto la conferma di come fosse poco o punto condiviso il proprio sentire religioso su quello che sarebbe dovuto essere il futuro della nazione. Da buon politico aveva fatto appello a tutta la sua capacità di adattamento sforzandosi di trarre il meglio che si potesse da una situazione piovutagli addosso a sorpresa, ma è innegabile che il regime che aveva visto nascere a Roma e al quale aveva prestato la propria opera di uomo di Stato non collimasse a pieno con il suo ideale. Era del tutto naturale che a Mazzini stesse a cuore una Repubblica pienamente corrispondente alla sua visione; ma era anche naturale che le sue aspettative messianiche non sempre coincidessero con quelle più concrete dei rivoluzionari romani. Diversamente da molti altri, Mazzini si fermò a Roma anche dopo l’entrata dei francesi. Tanto per rispolverare contro di lui la vecchia immagine del terrorista che mandava a morire gli altri standosene al sicuro, si disse che un salvacondotto inglese gli avesse evitato l’arresto44 ma non era vero. Se tardò a partire lo fece, oltre che per il motivo già detto, per osservare le reazioni del popolo romano e per tentare di capire in quale misura avrebbe potuto contare su di lui in futuro. Girò per la città, interrogò amici, sentì le pressioni di chi insisteva perché fuggisse, ma si decise a farlo solo il 16 luglio quando, da clandestino, salì a Civitavecchia su un vapore còrso che lo portò a Marsiglia da dove, passando per Lione, raggiunse Ginevra, deciso a restarvi per qualche mese in modo da studiare la situazione in vista di qualche altro preparativo insurrezionale. L’uomo era fatto così. Un giorno Cattaneo aveva detto di lui che reputava vittorie anche i disastri purché si combattesse. Ora più che mai era vero, come confermava Margaret Fuller45; solo che questa volta Mazzini portava con sé l’idea di Roma. Negli anni avvenire avrebbe fatto il possibile per farne scaturire quegli elementi, quelle forme secolarizzate di religiosità di cui nel ’49 aveva dovuto constatare la mancanza.   Roncalli, Cronaca cit., vol. II, p. 198.   Commentando la sicurezza nella vittoria che Mazzini le aveva manifestato facendole visita l’8 marzo, la Fuller scrisse: «Uomini come Mazzini vincono sempre, vincono anche perdendo». Si veda Marraro, American Opinion cit., p. 64. 44 45

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E tuttavia era un suo fiero avversario politico, il più volte citato Farini, a sospendere per un momento l’acrimonia nei confronti del regime repubblicano e a riconoscere che «gli stranieri, scesi a restaurare il trono dei Papi sulle rovine delle espugnate città e sui cadaveri dei battezzati in Cristo, creano una storia della Repubblica Romana ed instaurano nei cuori delle giovani generazioni una fede che prima era soltanto l’ubbia d’un uomo o d’una setta»46: che era come ammettere che il mito della Repubblica sarebbe durato a lungo e avrebbe dato i suoi frutti dopo la caduta. Certamente aveva smosso qualcosa nell’opinione pubblica inglese, se un Dickens poteva augurarsi un pronto ritorno di Mazzini in Inghilterra («Il mondo non può permettersi di perdere uomini come lui») e un Carlyle pur sempre molto scettico nei suoi confronti ne esaltava senza mezzi termini le qualità morali47. D’altronde, una volta sbollita l’ira di una sconfitta subìta a suo parere troppo passivamente, Mazzini non poteva non prendere atto degli elementi positivi e del «vasto campo di attività» che nell’Italia degli anni Cinquanta gli veniva schiuso da «l’accentuarsi del distacco tra governi e governati, la forza delle opposizioni interne, rinvigorite dall’apporto delle nuove leve popolari, la debolezza intrinseca dei regimi assoluti». Né era un caso che «il movimento clandestino mazziniano» avesse ora messo «a Roma – e più in generale negli Stati romani» radici più salde che altrove48. L’ingresso dei francesi Il corpo di spedizione francese cominciò a entrare in Roma la mattina del 3 luglio, preceduto da alcune pattuglie di cavalleria incaricate di eliminare eventuali sacche di resistenza. Il giorno prima si erano svolti a S. Lorenzo in Lucina i funerali di Manara,   Farini, Lo Stato romano cit., vol. III, p. 379.   Per questi e altri giudizi di intellettuali e politici inglesi si veda D. Mack Smith, Mazzini, Rizzoli, Milano, 2000, p. 109. 48   F. Della Peruta, I democratici e la rivoluzione italiana (Dibattiti ideali e contrasti politici all’indomani del 1848), Feltrinelli, Milano, 1974, pp. 338-339. Si veda anche F. Bartoccini, La «Roma dei Romani», Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, Roma, 1971, pp. 39-42. 46 47

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seguiti da una folla commossa e dai 400 superstiti – compresi alcuni feriti49 – dei 900 che avevano fatto parte della sua legione. A pronunziare l’orazione funebre fu il barnabita Ugo Bassi50, presto vittima del plotone d’esecuzione austriaco. Al loro ingresso i primi soldati di Oudinot non trovarono altri ostacoli che qualche isolato contestatore e alcune bande di ragazzini che urlando chicchirichì ricordavano agli invasori che erano pur sempre i discendenti dei Galli. Ben addestrato a sopportare entro certi limiti anche lo scherno, il grosso del corpo di spedizione, dopo essere passato nei pressi del Vaticano, imboccò la strada che l’avrebbe portato al Corso. In precedenza il generale Oudinot aveva inutilmente cercato di convincere il municipio romano ad accettare di porre Roma «sotto la protezione dell’onore e dei principi della Repubblica francese»51. Non avrebbe potuto usare un linguaggio più sbagliato. Infatti con un ultimo scatto di orgoglio Sturbinetti, senatore di Roma52, si era ben guardato dall’acconsentire e aveva dichiarato di «cedere alla forza» sottoscrivendo al contempo, assieme ai suoi consiglieri, un appello con cui chiedeva alla popolazione di mantenere un contegno dignitoso53. Vista respinta la proposta di intesa preventiva, al generale Oudinot non era restato che sollecitare dai propri soldati la massima compostezza e il rifiuto di ogni provocazione. Pertanto la sfilata delle truppe per le vie di Roma, sotto gli occhi di una folla rassegnata, inizialmente non diede luogo a incidenti di sorta e tutto filò liscio fino all’altezza di piazza Colonna, dove si vide un individuo che agitava un grande tricolore gridando Viva la Repubblica! Era il milanese Cernuschi, l’autore del decreto della capitolazione, che come per liberarsi di un rimorso si concedeva un ultimo gesto di rabbia. Al suo seguito si posero altri giovani che i francesi dispersero con una carica di cavalleria. Fu arrestato il solo Cernuschi54 per il quale iniziò un lungo iter giudiziario che 49   Roncalli, Cronaca cit., vol. II, p. 191; Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, pp. 665-666. 50   Capasso, Dandolo, Morosini, Manara cit., p. 255. 51   Roncalli, Cronaca cit., vol. II, p. 191. 52   Col termine «senatore» veniva allora designato il capo del municipio romano. 53   Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, pp. 663-664. 54   Ivi, pp. 673-675.

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lo tenne in carcere per più di un anno, e cioè fino a quando un doppio grado di giudizio a opera di una giuria francese non lo ebbe assolto da ogni accusa. In realtà, per Cernuschi la detenzione per mano dei francesi fu provvidenziale per un doppio motivo: anzitutto, perché lo sottrasse alla giustizia pontificia, e poi perché, rendendolo popolare presso l’opinione pubblica transalpina, ne fece una piccola icona dell’antibonapartismo e gli aprì la via di un esilio destinato a rivelarsi per lui definitivo ma anche molto fortunato. Imbarcatosi il 1° agosto 1850 a Civitavecchia, pochi giorni dopo Cernuschi sbarcava a Marsiglia, pronto a tuffarsi di lì a poco nella mitica Parigi. Sul momento gli abitanti di Roma non si lasciarono andare ad altre manifestazioni di insofferenza degne di nota verso gli occupanti. Si dovette invece registrare qualche vendetta ai danni di alcuni ecclesiastici e di personalità appartenenti al fronte moderato: fu clamorosa, e fece il giro d’Europa, l’avventura toccata a Diomede Pantaleoni, amico di Terenzio Mamiani, che, assalito da alcuni facinorosi mentre era in compagnia di un abate, si difese sfoderando un bastone animato e riuscì a darsi alla fuga mentre l’abate riceveva una pugnalata al petto55. Episodi del genere a parte, causati probabilmente anche da qualche parola di irrisione lanciata agli sconfitti, Roma apparve quasi deserta e avvolta in un silenzio che era esso stesso una forma di protesta. D’altronde, poiché l’entrata in città era avvenuta intorno alle 6 pomeridiane, si può supporre che col primo calare delle ombre della sera e con l’inizio del coprifuoco il controllo della violenza urbana risultasse semplificato. In verità, i giorni immediatamente successivi al 3 luglio furono di grande malumore collettivo: soprattutto a Trastevere si percepì un’irritabilità diffusa di cui fecero le spese parecchi soldati del corpo d’occupazione incautamente avventuratisi a cercare il colore locale laddove in quei giorni potevano solo trovare qualche pugnalata. Bisogna dire, peraltro, che le autorità d’occupazione, investite provvisoriamente anche della gestione dell’ordine pubblico, non furono affatto contrariate dal fatto che in pochi giorni Roma si svuotasse di coloro che vi avevano portato la rivoluzione: anzi, non lesinarono i passaporti a chi ne faceva richiesta. Un trat  Ivi, pp. 672-673; Roncalli, Cronaca cit., vol. II, p. 193.

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tamento di favore fu anche riservato ai militari del vecchio esercito pontificio che avevano prestato servizio sotto la Repubblica: Oudinot li accettò come truppe alleate56 e affidò la riorganizzazione di un loro corpo a un ufficiale francese. Furono poi i tre cardinali incaricati da Pio IX di riportare lo Stato romano sotto il regime papale a compiere qualche rappresaglia nei confronti degli ufficiali non riconoscendo loro i gradi eventualmente conseguiti dopo il 16 novembre 1848. Lo stillicidio degli atti di ostilità da parte della popolazione si venne lentamente esaurendo nel giro di poche settimane; non durò molto di più qualche boicottaggio contro le merci francesi, suggerito per impotenza più che con la speranza di provocare un vero danno economico alla Francia57. Si pensi che già il 6 luglio l’inviato americano Cass informava il proprio governo che i romani, per quanto indispettiti dal coprifuoco e dal divieto di assembramento loro imposti, «con la meravigliosa versatilità tipica degli italiani» stavano rapidamente riconciliandosi con il nuovo ordine di cose e si mescolavano alle truppe straniere, alcuni per fare amicizia, altri per osservare da vicino le loro divise58. Forse questa affermazione era un po’ precipitosa. In ogni caso, appare meravigliosa la versatilità dello stesso Cass il quale, dopo essersi dato inutilmente da fare per offrire un lasciapassare americano a Mazzini e dopo aver speso parole di grande elogio per il patriottismo della popolazione59, il 14 agosto scriveva che il giorno che si fosse potuto valutare la rivoluzione romana nelle sue vere proporzioni si sarebbe visto che c’era stato in gioco qualcosa di più dell’indipendenza di Roma o del potere del Triumvirato, perché a essere messi a repentaglio erano state «la pace, la libertà, il 56   R. De Cesare, Roma e lo Stato del Papa. Dal ritorno di Pio IX al XX settembre (1850-1870), Newton Compton, Roma, 1975, p. 40. 57   Un contributo a questa iniziativa cercò di darlo dalla Svizzera, dove viveva in esilio, Carlo Cattaneo diramando una «Circolare contro il commercio francese» recante la data del 1° luglio 1849 ma in realtà scritto qualche giorno dopo la caduta della Repubblica: se ne veda il testo in Tutte le opere di Carlo Cattaneo cit., vol. IV, pp. 738-741 e (per notizie sulla sua diffusione) pp. 1002-1003. 58   United States Ministers cit., p. 40. 59   Ad esempio, nel dispaccio del 23 maggio, in cui ammetteva di non aver capito «quanto profondamente il cuore e l’anima dei romani fossero coinvolti nella causa», o in quello del 14 giugno, nel quale diceva di trovare «stupefacente la forza e il carattere dei romani»: ivi, pp. 40, 43.

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progresso e la civilizzazione dell’Europa contro l’esistenza stessa di un governo irresponsabile e dispotico»60. Questo allineamento al punto di vista reazionario avrebbe avuto un seguito nella simpatia successivamente espressa per il restaurato Pio IX e per i suoi primi atti di governo. Vero è che avere in casa i civilissimi francesi non era lo stesso che avere a che fare con la sciocca brutalità degli austriaci61, anche perché non fu raro che qualche manifestazione di solidarietà e comprensione e addirittura qualche esclamazione di Vive la République Romaine!62 venisse proprio da loro, e se ne giovò lo stesso Cernuschi che dovette alla protezione di alcuni ufficiali del corpo d’occupazione il privilegio di non essere consegnato alle autorità pontificie. Non fu certo un momento di particolare autocompiacimento quello in cui i cardinali incaricati di restaurare il papato lessero l’11 luglio su un giornale moderato e certamente ostile al regime repubblicano – era la «Speranza dell’Epoca», il giornale di Mamiani – che «non un solo grido, una sola voce, in questi sette dì, si levò in favore del Governo di Pio IX: che non un solo scritto che l’invocasse apparve neppure nelle mura, che pure sono lorde di tante altre iscrizioni insultanti»63 (vecchia abitudine, quella dei graffitari!). E quando il 19 luglio comparve sui muri dei palazzi romani una lettera di Pio IX «Ai suoi amatissimi sudditi», il cronista che ne dà notizia soggiunge che «fu letta generalmente con disprezzo, lacerata e buttata in vari luoghi»64. A voler raccontare episodi del genere non si finirebbe più: furono tantissimi e, pur rarefacendosi nel tempo, durarono a lungo, almeno fino a quando il fallimento del moto milanese del 6 febbraio 1853 non produsse ripercussioni assai gravi anche nell’organizzazione cospirativa romana65. Ma sbaglierebbe chi volesse assegnare a questa aneddotica cittadina dei primi giorni dell’occupazione   Ivi, p. 52.   Anche se poco mancò scoppiasse un caso diplomatico per l’irruzione fatta da una pattuglia francese nella residenza del console Brown e il successivo arresto di due persone che stavano aspettando la consegna dei salvacondotti: Marraro, American Opinion cit., pp. 79-80. 62   Roncalli, Cronaca cit., vol. II, p. 210. 63   Spada, Storia della rivoluzione cit., vol. III, p. 699. 64   Roncalli, Cronaca cit., vol. II, p. 205. 65   Della Peruta, I democratici cit., pp. 407-411. 60 61

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un’etichetta principalmente politica: in realtà, più che il rimpianto per la Repubblica, a dettarla erano da un lato un’antipatia di vecchia data per i transalpini, dall’altro il disappunto per il ritorno di una classe dirigente formata in gran parte da ecclesiastici di cui non si scopriva certo ora l’inettitudine pressoché congenita a governare una società civile nell’Europa di metà Ottocento. Una restaurazione «reazionaria e imperita» La rioccupazione del territorio graziosamente liberato dalle potenze fu pienamente in linea con lo stile di governo messo in campo dalle autorità pontificie sia prima dell’elezione di Pio IX che nei mesi che avevano preceduto la sua fuga a Gaeta. Bisogna tuttavia riconoscere che c’era del metodo, forse anche un’arte, certamente della tenacia, nella strategia con cui il cardinale Antonelli – in quel momento il vero padrone della situazione – seppe vanificare tutte le pressioni che la Francia per salvarsi la faccia esercitò affinché nel riprendere possesso dei suoi domini Pio IX non dimenticasse gli esercizi di liberalismo cui si era dedicato con notevole fortuna nel 1847 e nei primi mesi del 1848 e ripristinasse gli ordinamenti costituzionali in vigore prima della fuga a Gaeta. Che il papa tornasse a Roma era sicuro; che riprendesse la politica «liberale» dei primi due anni di regno era sempre meno probabile. Un buon conoscitore delle cose di Curia quale era Marco Minghetti lo diceva già il 4 giugno: «Niente sta a cuore del buon Pio IX, in questo losco mondo, quanto il purgarsi della taccia di principe riformatore»66. Ciò malgrado Parigi si diede molto da fare per dare l’impressione di volere orientare di nuovo in senso riformatore le scelte della politica papale, e una volta in Roma le truppe d’occupazione cercarono di conciliarsi le simpatie della popolazione mentre si evitava di usare la mano pesante con la classe dirigente repubblicana. Lo stesso Luigi Napoleone parve voler seguire da vicino con i suoi vari inviati militari e civili l’evolversi della situazione e il 18 agosto affidò a un suo ufficiale d’ordinanza in partenza per l’Italia una lettera in 66   Lettera a G. Pasolini, in Carteggio tra Marco Minghetti e Giuseppe Pasolini, a cura di G. Pasolini, vol. I, 1846-1854, Bocca, Torino, 1924, p. 136.

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cui si diceva assolutamente risoluto a esigere che nel riprendere il proprio trono temporale il papa concedesse un’amnistia generale, secolarizzasse l’amministrazione e governasse il paese sulla base delle norme fissate nel Codice Napoleone67. Era un atto di un certo coraggio, vanificato però dalla distrazione con cui il presidente francese si dimenticò di pretenderne il rispetto. D’altronde, se il cardinale Antonelli il 19 maggio, cioè in un momento di grande bisogno, aveva scritto ai rappresentanti francesi a Gaeta che il papa non avrebbe preso alcun impegno «prima del suo ritorno negli Stati della Chiesa»68, come si poteva pensare di convincerlo a cambiare idea una volta che si era superata la crisi e si era ripreso possesso dello Stato? Parigi capì l’antifona e senza darlo troppo a vedere alleggerì poco per volta i contenuti delle proprie richieste. Così l’inizio vero e proprio della restaurazione, sancito ufficialmente dalla riconsegna della città al potere papale il 15 luglio, fu affidato il 31 luglio a una commissione di tre cardinali, subito battezzata il Triumvirato rosso (evidentemente in riferimento al colore degli abiti piuttosto che al tipo di politica adottato), la cui unica preoccupazione fu quella di annullare punto per punto, legge per legge, riforma per riforma, tutto l’operato del governo repubblicano e anche le concessioni del primo Pio IX, in modo da riportare le lancette dell’orologio al pontificato di Gregorio XVI e all’assolutismo che sotto quel papa aveva celebrato i suoi fasti: con la differenza che ora la sicurezza interna era garantita dal corpo d’occupazione francese con mansioni non solo militari ma inizialmente anche poliziesche, tanto che fu un prefetto di Polizia, François Chapuis, che il 14 luglio trovò un modo tutto personale per ricordare la presa della Bastiglia emanando un decreto che sopprimeva tutti i giornali, compresi quelli filo-papali69. Altra cura della commissione cardinalizia fu quella di «purgare l’aria» eliminando tutte le sacche di repubblicanesimo, presunte o reali, ancora annidate nell’amministrazione, nell’esercito, nella polizia. Purgare l’aria è un’espressione un po’ brutale, ma la si trova 67   G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. IV, Dalla rivoluzione nazionale all’Unità (1849-1860), Feltrinelli, Milano, 1977, p. 32; Caracciolo, Lo Stato pontificio cit., p. 671. 68   Le relazioni diplomatiche fra lo Stato pontificio e la Francia cit., p. 581. 69   Barbieri, I giornali romani del 1849 cit., p. 20.

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spesso nei dispacci del cardinale Antonelli e nei rapporti con cui i nunzi pontifici riferivano sulle conversazioni avute coi ministri degli Esteri degli Stati presso i quali erano accreditati: tutti costoro erano interessati a sapere quando Pio IX si sarebbe deciso a tornare a Roma, in modo che si potesse dire che davvero la crisi era stata superata e che l’Europa non doveva stare più in ansia; e la risposta che veniva loro data era appunto che prima si doveva «purgare l’aria», ossia epurare, arrestare, processare, condannare: creare insomma le condizioni perché la vita del papato riprendesse a scorrere tranquilla70. In verità Pio IX non aveva nessuna fretta di tornare. Addirittura, il 4 settembre 1849, scortato da Ferdinando II, lasciò Gaeta e si spostò ancora più a sud, fino a Portici, dove il re aveva la sua residenza estiva servita da una ferrovia che si era fatta appositamente costruire col denaro pubblico. Con quella compagnia, per il papa non si trattava solo di una maggiore lontananza geografica da Roma ma di calarsi sempre più in un clima politico capace solo di chiusure, in un orizzonte che si restringeva fino a considerare come obiettivi inseparabili la difesa accanita della monarchia assoluta per un verso, del potere temporale e dell’indipendenza della Chiesa per l’altro. Partirono infatti da Portici i due atti con cui Pio IX fissò le linee operative dell’amministrazione dello Stato: il motu proprio del 12 settembre, che riportava nell’ambito di organismi consultivi il margine più ampio dell’influenza che da parte dei sudditi si potesse esercitare sulla vita dello Stato, e l’amnistia del 18 settembre, talmente restrittiva da potersi applicare a pochi soggetti, lasciando fuori «i membri del governo provvisorio, i membri del Triumvirato e del governo della Repubblica; i capi dei corpi militari»71 e tutti quegli amnistiati del 1846 che avessero avuto un qualche ruolo nella rivoluzione romana. Insomma, una proscrizione più che un’amnistia, dirà efficacemente Victor Hugo72. Fu allora un ecclesiastico che, come da noi già ricordato, bollò la restaurazione definendola «reazionaria e imperita»; e appartengono al mondo ecclesiastico gli storici (Aubert, Martina) che 70   De Cesare, Roma e lo Stato del papa cit., pp. 25-31; G. Monsagrati, Una delicata missione di mons. D’Andrea nella Roma del dopo Mazzini, in Ottocento nel Lazio, a cura di R. Lefevre, Palombi Editori, Roma, 1981, pp. 117-130. 71   Farini, Lo Stato romano cit., vol. IV, p. 278. 72   Hugo, Avant l’exil cit., p. 263.

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hanno giudicato con maggiore severità questo ritorno «all’antico sistema di assolutismo puro e semplice», come ebbe a qualificarlo tra i contemporanei uno degli osservatori che più si erano spesi per difendere le ragioni del papa. Considerato dal punto di vista di chi lo scelse, l’orientamento del papato può anche apparire, se non giusto, quanto meno giustificabile; ma a nessuno può sfuggire come esso si iscrivesse in una politica della pura sopravvivenza, in quell’atmosfera da ultima spiaggia, in quella desolante mancanza di ogni capacità progettuale che caratterizzeranno gli ultimi venti anni di vita dello Stato pontificio. Alla fine, tuttavia, il bilancio era amaro per tutti: per Pio IX, che si riprese la sua città e il suo Stato, ma non l’affetto travolgente che i sudditi gli avevano mostrato tra il 1846 e il 1848; per Napoleone III, che da allora considerò la spedizione romana come il più grave strafalcione della sua vita politica73 e il perché lo spiegò a un italiano, Carlo Matteucci, dicendogli che «nel ’49 abbiamo sbagliato: per ottenere il ritorno del papa a Roma siamo stati noi che abbiamo dovuto fare delle concessioni»74. Non immaginava quanto fosse fondata la profezia rivoltagli da Mazzini quando gli aveva detto che un giorno la Francia si sarebbe svegliata e che quel giorno sarebbe toccato a lui andare, «vittima espiatrice di Roma, a morire in esilio»75. Di Mazzini abbiamo detto che portava con sé in esilio il ricordo di un’esperienza esaltante di governo che gli avrebbe procurato nuovi consensi in Inghilterra (in considerazione della lotta condotta contro due personaggi che da quelle parti nessuno amava, il papa, appunto, e Napoleone III), ma gli restava anche la delusione di una grande occasione perduta, che minacciava di essere irripetibile ora che all’orizzonte cominciava a profilarsi l’immagine ben più accattivante del Piemonte monarchico e del suo Statuto moderato che il nuovo re, Vittorio Emanuele II, era riuscito a mantenere in vita pur dopo qualche esitazione iniziale. Infatti bastò un altro smacco – la fallita insurrezione di Milano il 6 73   R. Romeo, Cavour e il suo tempo, vol. III, 1854-1861, Laterza, Roma-Bari, 2011, p. 784. 74   Massari, Diario cit., p. 401. 75   G. Mazzini, A Luigi Napoleone presidente della Repubblica francese (1850), in E.N.S., vol. XLIII, p. 335.

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febbraio 1853 – perché la realtà prendesse un’altra piega rispetto ai progetti di Mazzini. Ma ciò non toglie che quei cinque mesi di governo repubblicano avessero dato vita a qualcosa di meno effimero dei repentini scoppi rivoluzionari del ’48 italiano ed europeo: questo qualcosa era «il mito di Roma che, dopo di allora, non può più essere accantonato da chiunque voglia cimentarsi con il discorso nazionale»76. Il 3 luglio 1849 morì una Repubblica ma nacque una cultura di governo repubblicana destinata sui tempi lunghi a riproporsi come la sola degna di reggere l’Italia. Vista sotto questa luce, la Repubblica rimasta in vita dal 9 febbraio al 3 luglio 1849 può ben a ragione dirsi mazziniana. Pio IX tornò a Roma il 12 aprile 1850, «restaurato ma non libero», come ebbe a definirlo Victor Hugo in un suo famoso discorso all’Assemblea francese77. Era partito da Portici il 4, e Ferdinando II lo aveva accompagnato fino al confine napoletano, nei pressi di Terracina, dove erano giunti il 6 e si erano salutati con un abbraccio, simbolo di un legame ideologico poi immortalato in una serie di medaglie fatte subito coniare a Napoli a perpetua memoria della fortunata collaborazione78. Ancor più lavorò la zecca romana per fondere decorazioni e onorificenze destinate a subissare con attenta gradazione del valore tutti i protagonisti della gloriosa impresa, a cominciare naturalmente dal generale Oudinot, che Corcelle aveva bollato come «colpevole di tutte le castronerie, di quelle possibili e anche delle impossibili»79, ma che nell’iscrizione in latino che compariva sul recto della medaglia elargitagli da Pio IX, oltre a essere chiamato «Oudinotius», veniva ricordato come il «Gallorum exercitui praefectus» che «urbem expugnare coactus / civium et artium / incolumitati consuluit»80. Quanto avesse provveduto alla tutela delle arti lo dicevano, a chi arrivava a Roma   Bartolini, Rivali d’Italia cit., p. 77.   Discorso del 12 ottobre 1849, ora in Hugo, Avant l’exil cit., p. 263.   De Cesare, Roma e lo Stato del Papa cit., pp. 37-38. 79   Corcelle a Tocqueville, 24 luglio 1849, in Correspondance d’Alexis de Tocqueville et de Francisque de Corcelle, t. XV delle Oeuvres complètes di Tocqueville, a cura di P. Gibert, Gallimard, Paris, 1983, p. 334. 80   Pompili Olivieri, Il Senato romano cit., p. 217. 76 77 78

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Roma senza il Papa. La Repubblica romana del 1849

dalla via Aurelia, le rovine di Villa Corsini e del Vascello, Porta S. Pancrazio quasi rasa al suolo, le mura e i bastioni sfondati. Da Terracina, distante da Roma un’ottantina di chilometri, il corteo papale impiegò altri sei giorni per entrare nell’Urbe da Porta S. Giovanni. Nel descrivere le accoglienze riservate al papa dalla popolazione romana Antonelli parlò di «generali acclamazioni», «universale tripudio», «pubblica esultanza»81. Sembra invece che le cose non stessero affatto così e che soltanto lo stormire a festa delle campane delle chiese e la teatralità degli addobbi riuscissero a contrastare la sensazione di freddezza prodotta dal comportamento di coloro che assistevano al passaggio della carrozza papale, via via che essa si addentrava nel cuore della città82. Comunque, quell’affetto spontaneo dei sudditi che gli era mancato nel rimettere piede nella capitale del suo Stato Pio IX lo riconquistò un po’ per volta, e con la sua personalità molto più che con la sua politica. Ma, con il corpo di spedizione francese rimasto a presidiare la città fino alla fine del 1866, era impossibile che tornassero i giorni dell’entusiasmo che avevano segnato i primi due anni di pontificato. Tra l’altro, si dovette anche rinunziare a celebrare il Giubileo del 1850. La città fu ripulita di ogni traccia della passata esperienza repubblicana, e mentre non ci fu nessun atto di pietas verso i ribelli caduti, molto fu fatto per commemorare i morti dell’esercito vincitore, sia con la lapide onoraria fatta apporre nella chiesa di S. Luigi dei Francesi sia con l’arco trionfale disegnato da Andrea Busiri Vici ed eretto tra il 1857 e il 1859 sulle rovine di Villa Corsini. Nel 1854 era stata completamente rifatta Porta S. Pancrazio, inserita nel piccolo edificio che oggi ospita il bel Museo della Repubblica romana e della memoria garibaldina: più gradito, questo, al gusto dei romani che non l’arco del Busiri Vici, ricordo della penultima occupazione straniera della Capitale e di una presenza militare voluta a tutti i costi dalla Santa Sede: con il solo risultato di protrarre di altri vent’anni ma di non poter fermare l’agonia del millenario potere temporale dei papi.

81   Dispaccio a mons. Raffaele Fornari, nunzio pontificio a Parigi, da Roma, 13 aprile 1850, in Le relazioni diplomatiche fra lo Stato pontificio e la Francia cit., pp. 573-574. 82   Aubert, Il pontificato di Pio IX cit., p. 67. Una accurata descrizione del viaggio di ritorno in De Cesare, Roma e lo Stato del Papa cit., pp. 13-24.

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Indici

INDICE DEI NOMI*

Accursi, M., 40n, 45n, 131. Agostini, C., 40, 58n, 81, 97 e n, 98n, 134, 149, 197-200, 202, 205-206. Aguyar, A., 133, 178. Alfonzetti, B., 40n, 187n. Allocatelli, E., 203n. Amadei, L., 154. Amante, B., 8n. Ambrosoli, L., 16n. Antinori, O., 201. Antonelli, G., 5, 8, 12, 33-34, 37, 62, 87-88, 94, 96, 154, 156, 158, 219221, 224. Antonelli, S., 119n. Antonietti, C., 174-175. Anzani, F., 19n. Anzilotti, A., 44n. Aprile, S., 139n. Arduini, C., 206. Arlincourt, C.-V.-P. d’, 122n. Armellini, C., 40, 53, 55, 66, 78, 200201. Arru, D., 68n, 195n, 198n, 206n. Arzano, A., 175n. Aubert, R., 159n, 221, 224n. Audinot, R., 56, 58, 134, 199, 204, 206, 208-209. Avezzana, G., 84, 103, 109, 131n, 153. Azeglio, M. d’, 14, 18, 164. Baczko, B., 186n. Bagatin, P.L., 108n. Balbo, C., 164. Ballanti, P., 203-204.

Balleydier, A., 48n, 51 e n, 112n, 115n, 122n, 151n. Balsamo-Crivelli, G., 12n. Balzarro, C., 180n. Banti, A.M., 128n. Barbieri, C., 59n, 220n. Baroffio, A., 188. Baroni, A., 107n. Barrot, C.-J.-O., 86, 94. Bartoccini, F., 12n, 27n, 42n, 71n, 73n, 214n. Bartolini, F., 21n, 223n. Bartolucci, L., 190. Bassi, U., 113, 211, 215. Battaglini, M., 197n, 198n. Baudi di Vesme, C., 33n. Bedini, G., 19n. Beghelli, G., 91n, 156n, 168n, 170n, 171n, 178 e n, 179n. Belardelli, G., 67n. Belasco Smith, S., 51n. Belgiojoso Trivulzio, C. di, 92n, 104, 107 e n, 152, 187-188. Belli, C., 126n. Belli, G.G., 14 e n, 124, 125 e n, 126 e n. Benelli, G., 29n. Benveduti, C., 180n. Berkeley, G.F.H., 5n. Berkeley, J., 5n. Bernetti, T., 12, 154. Bernini, G.L., 179. Bertani, A., 107n, 143 e n, 178. Berthier de Sauvigny, G. de, 22n. Bezzi, A., 91 e n.

* In corsivo i nomi degli autori contemporanei.

238 Biagianti, I., 108n. Bianchi, R., 8n. Bidussa, D., 32n. Bixio, A., 166. Bixio, N., 113, 145, 166, 187, 211. Blanc, L., 204. Bocci, M., 25n, 38n, 41n. Bonaparte, C.L., principe di Canino e Musignano, 32n, 44, 53-54, 65n, 77, 199, 201, 204-206. Bonaparte, G., 45 e n. Bonaparte, G.N., 100. Bonghi, R., 161. Bonomi, I., 67n. Borbone, dinastia, 158. Borghese, M., 10n. Bottero, G.B., 39n. Brancati, A., 29n. Bresciani, A., 152 e n. Brown, N., 172, 218n. Brunetti, A., detto Ciceruacchio, 4, 31, 41, 72, 91n, 211. Brunetti, L., 4. Buchanan, J., 42n, 124n. Buonarroti, F., 77 e n. Busiri Vici, A., 224. Caddeo, R., 43n. Cadilhac, A. de, 107. Cadorna, R., 126. Caetani di Sermoneta, M., 15, 29 e n, 177. Caffiero, M., 70n. Calandrelli, A., 84, 192. Calandrelli, L., 149. Caldesi, V., 112. Campello, P. di, 53, 67, 84. Candeloro, G., 10n, 18n, 20n, 23n, 24n, 36n, 44n, 46n, 86n, 94n, 114n, 115n, 159n, 220n. Candido, S., 19n. Cantù, F., 187n. Capasso, G., 102n, 104n, 119n, 146n, 170n, 181n, 184n, 215n. Capograssi, A., 87n, 157n, 158n. Capponi, G., 25n. Caracciolo, A., 16n, 41n, 71n, 220n. Caravale, M., 16n. Cariolato, D., 175 e n. Carlo Alberto di Savoia, re di Sardegna, 16n, 20, 24, 47, 62, 79, 170. Carlyle, Th., 214.

Indice dei nomi Carraresi, A., 25n. Cass, L., jr., 118-119, 150, 176n, 217. Castracane degli Antelminelli, C., 10, 36. Catoni, G., 85n, 147n, 180n. Cattabeni, V., 111-112. Cattaneo, C., 16 e n, 27 e n, 43n, 168, 213, 217n. Cavaglion, A., 73n. Cavour, C. Benso di, 58, 208. Cavour, G. di, 161. Cernuschi, E., 39, 43n, 49, 53, 77, 104, 112, 120, 136, 168 e n, 169-170, 190193, 199, 201, 215-216, 218. Channing, W.H., 173n, 190n. Chapuis, F., 220. Charle, C., 185n. Cheney, Edward, 15n. Cheney, Enrico, 29n. Cheney, O., 29n. Chigi, A., 167. Ciabattini, A., 147. Ciceruacchio, vedi Brunetti, A. Clough, A.H., 119. Coïsson, C., 101n. Cola di Rienzo, pseud. di Lorenzo Gabrini, N. di, 39. Colombo, P., 24n. Consalvi, E., 12. Cooper Key, A., 42n. Corcelle, F. de, 163, 164 e n, 165 e n, 167, 223 e n. Corrado, R., 41n. Corsini, T., 46n. Cossu, M., 49n, 50n, 54n. Costa, N., 146n, 147 e n, 173n, 178 e n, 179. Critelli, M.P., 143n. Curci, C.M., 13 e n. Dall’Ongaro, F., 39, 149. Dandolo, Emilio, 103n, 146 e n, 181. Dandolo, Enrico, 103, 106, 145-146, 170n, 181. Daverio, F., 84n, 85, 107, 113, 145, 182. De Angelis, F., 88. De Boni, F., 39-40. De Cesare, R., 217n, 221n, 223n, 224n. De Cristoforis, C., 184. Del Grande, N., 72. Della Peruta, F., 77n, 104n, 214n, 218n. De Longis, R., 107n, 120n.

239

Indice dei nomi Del Vecchio, B., 4n. Demarco, D., 26n, 49n, 54n, 65n, 68n, 72n. Desmons, E., 210n. Dickens, Ch., 188, 214. Diddi, B., 139n. Di Lorenzo, E., 107. Di Nolfo, E., 49n, 50n, 68n, 123n. Domenichino, pseud. di Zampieri, D., 167. Doria Pamphili, F.A., 10n. Drouyn de Lhuys, E., 94. Ercole, F., 147n. Espivent, H., 96. Esterhazy, M., 62-63. Fabretti, A., 200. Falconi, C., 6n, 11n. Falloux, A. de, 162. Farini, L.C., 3n, 4, 5n, 6 e n, 13n, 18n, 21n, 23n, 28n, 30n, 33n, 36n, 38n, 46n, 50n, 55n, 59 e n, 77n, 94n, 96n, 130n, 151 e n, 154 e n, 163 e n, 164n, 214 e n, 221n. Fatica, M., 34n. Fava, A., 104n. Ferdinando II di Borbone, re delle Due Sicilie, 9, 23-24, 44, 61, 132, 158, 221, 223. Ferri, M., 70n, 208, 209n. Filippani, B., 7. Filopanti, Q., pseud. di Barilli, G., 56, 196, 199 e n, 201, 204. Fiorentino, D., 119n. Fiorentino, K., 83n, 114n. Fonterossi, G., 19n. Fonzi, F., 54n, 59n. Formica, M., 60n, 187n. Fornari, R., 34 e n, 224n. Frapolli, L., 139. Freeborn, J., 172. Freeman, J.E., 172. Frétigné, J.-Y., 96n. Fuller Ossoli, M., 51n, 94n, 107, 112n, 119n, 120n, 121n, 127 e n, 128 e n, 152 e n, 167 e n, 171 e n, 173 e n, 174n, 176n, 190n, 213 e n. Furet, F., 186n. Gabussi, G., 5n, 16n, 50 e n, 54n, 91n,

148 e n, 156n, 190, 191n, 192 e n, 199, 206. Galletti, B., 72, 107, 109, 112, 144-145. Galletti, G., 6n, 60, 199, 207. Garibaldi, A., 113, 140, 181, 210. Garibaldi, G., 19 e n, 39 e n, 43, 49, 53, 55-56, 58, 84 e n, 85 e n, 86n, 90, 91 e n, 102, 103 e n, 104-105, 109 e n, 112, 113 e n, 114, 120-121, 129 e n, 130-132, 133 e n, 139, 140 e n, 141n, 142-145, 146 e n, 148, 150-151, 154 e n, 155-156, 171, 175-176, 178, 180, 181 e n, 182, 183 e n, 184-185, 186 e n, 187, 189-191, 198, 207, 210-212. Gavazzi, A., 54, 187-188. Gentili, F., 27n. Ghisalberti, A.M., 6n, 25n, 88n, 89n. Ghisalberti, C., 209n. Gibert, P., 163n, 223n. Ginsborg, P., 128n, 187n. Gioberti, V., 4n, 14, 16n, 18, 32, 43, 47, 54, 61, 63, 159. Giordani, P., 125. Giovagnoli, R., 4n. Giraud Spaur, T., 5, 7 e n, 9 e n. Giuntella, V.E., 193n, 197n. Gizzi, P.T., 28. Goppelli, Z., pseud. di Zolli G., 144n. Grandi, T., 136n. Gregorio XVI (Cappellari, B.A.), papa, 12, 14, 15 e n, 124. Grillenzoni, C., 200. Guerrazzi, F.D., 65, 171. Guerrazzi Costa, G., 146n. Guiccioli, I., 67-68. Guida, F., 3n. Harcourt, B.-H.-M. d’, 5, 7, 94, 158, 164. Hawkes, E., 111n, 190n. Herre, F., 17n. Herzen, A., 101n. Hoar, E., 167n. Hoffstetter, G. von, 148, 211 e n. Hübner, J.A. von, 164. Hudspeth, R.N., 119n. Hugo, V., 82, 86 e n, 136, 137n, 162n, 221 e n, 223 e n. Ignace, A.-C., 115n, 139n. Ignazio di Loyola, 12. Incisa, L., 152n.

240 Induno, G., 177, 179. Ivaldi, R., 109n. James, H., 82n, 112n, 116n. Jolicoeur, N., 35n, 82n, 86n. King, B., 20n. Kociemski, L., 139n. Koelman, J.Ph., 60n, 69n, 91n, 110 e n, 122 e n, 127n, 131n, 132n, 139n, 150, 170n, 179 e n, 192n, 207n. Kolb, K., 118. La Masa, G., 83n. Lamberti, G., 42n, 74n. Lambruschini, L., 12. Lambruschini, R., 18. Lamennais, H.-F.-R. de, 14. Lamoricière, Ch.-L.-L. Juchault de, 63, 82, 86. Lanconelli, A., 113n. Lanza, M.T., 14n. La Salvia, S., 22n, 37n. Laviron, G., 101 e n, 139 e n. Lazzarini, G., 67. Lecchi, S., 143n. Ledru-Rollin, A.-A., 97, 162. Lefevre, R., 221n. Leopoldo II d’Asburgo-Lorena, granduca di Toscana, 61, 65. Lesseps, F. de, 95, 115, 122n, 125, 131132, 133 e n, 134, 135 e n, 136 e n, 137, 141, 153, 192. Leti, G., 13n, 37n, 88n. Liedekerke de Beaufort, A. de, 25n, 30n, 47n, 63n, 113 e n, 118 e n, 119n, 121n, 148n, 169n, 176n. Lizabe-Ruffoni, G., 36, 199, 205. Lombard, giornalista francese, 169. Luigi Filippo d’Orléans, re di Francia, 30. Luigi Napoleone Bonaparte, 63, 87, 89, 94, 96, 98, 100, 104, 114, 116, 127, 131, 134-136, 137 e n, 138, 161-163, 174, 219. Mack Smith, D., 214n. Maestri, P., 39. Magrini, L., 118 e n, 119. Mai, A., 159 e n. Maioli, G., 14n.

Indice dei nomi Malvezzi, A., 92n, 103n, 104n, 107n. Mameli, G., 32 e n, 39, 45 e n, 59, 64, 85, 102, 113, 145, 185-186, 187 e n, 188, 211. Mamiani della Rovere, T., 18, 29 e n, 37-39, 44, 53, 56, 216, 218. Mamoli Zorzi, R., 51n. Manara, L., 101, 102 e n, 104, 106, 130, 145, 147, 173n, 178, 181-184, 193n, 214. Mannucci, M., 97 e n, 98 e n, 99 e n. Manzi, I., 209n. Manzoni, A., 161. Manzoni, G., 80. Maraldi, P., 118n. Mariani, L., 192, 199. Marochetti, G.F., 145. Maroncelli, P., 185. Marraro, H.R., 19n, 33n, 42n, 213n, 218n. Martina, G., 6n, 11n, 14n, 15n, 28n, 34n, 37n, 40n, 47n, 157n, 158 e n, 159n, 160n, 221. Martinez de la Rosa, F., 5. Martini, E., 33n, 61n. Marx, K., 136. Masi, L., 93, 109. Masina, A., 39, 113, 140, 145-146. Massari, G., 33n, 222n. Mastai, L., 8, 12. Mastai Ferretti, G.M., vedi Pio IX. Mastellone, S., 40n. Matteucci, C., 222. Mayper, N., 91n. Mazzini, G., 16n, 17 e n, 19, 20 e n, 21 e n, 31, 38-39, 40 e n, 42-44, 45 e n, 49, 51 e n, 53, 55, 58, 64-65, 67 e n, 74, 75 e n, 76 e n, 77 e n, 78-80, 83n, 84n, 85, 88, 89 e n, 91 e n, 92-93, 95, 96n, 98 e n, 99 e n, 100, 101 e n, 102-103, 104 e n, 105 e n, 106-107, 111, 114-116, 117n, 121-123, 128, 132, 134, 136-137, 138n, 139-141, 149, 153, 155, 161-163, 167, 168n, 169 e n, 170-171, 173, 179n, 182184, 186, 188 e n, 189-193, 195-200, 204, 211, 212 e n, 213 e n, 214, 217, 222 e n, 223. Medici, G., 113, 176, 179, 181. Metternich, R. de, 79n. Metternich-Winneburg, K.W.L. von,

241

Indice dei nomi 17 e n, 22 e n, 26, 79 e n, 94, 121 e n, 138 e n. Mezzacapo, L., 103. Mickiewicz, A., 138. Milano, A., 72n. Milbitz, A., 139. Minghetti, M., 18, 21n, 219. Minnocci, C., 4n. Modena, G., 107, 136 e n, 187. Modena Calame, G., 107. Moderni, P., 63n, 85n, 128n. Molière, pseud. di Poquelin, J.-B., 94. Monsagrati, G., 17n, 21n, 40n, 70n, 119n, 120n, 125n, 164n, 168n, 169n, 177n, 180n, 187n, 201n. Montaldi, A., 113. Montalembert, Ch.F.R. de, 31n. Montanelli, G., 16 e n, 20n, 25, 43. Montecchi, M., 40, 66, 201. Morelli, E., 19n, 33n, 66n, 78n, 191n. Morosini, Emilia, 170n. Morosini, Emilio, 119, 145, 181. Moscati, R., 9n, 118n. Mouzet, P., 99n, 136n. Murat, G., 29. Muscetta, C., 14n. Muzzarelli, C.E., 40, 53, 66-67. Napoleone I Bonaparte, 21, 82, 100, 105n, 210. Napoleone III Bonaparte, 82, 88, 222. Narducci, P., 111. Nicolini, F., 16n. Nievo, I., 148. Nightingale, F., 107. Niles, N., 42n, 124n. Novaro, F.G., 186. Orioli, A.F., 29n. Orioli, G., 125n. Orsini, F., 6n, 53, 80 e n, 88, 91 e n, 104, 121-122. Ossoli, A., 107. Oudinot, N.-Ch.-V., 65, 96 e n, 98-99, 101, 102n, 105n, 108-111, 114-115, 117, 127, 133, 135, 136 e n, 141, 143, 145, 149, 161, 163-166, 169170, 172, 174-176, 193, 210, 215, 217, 223. Pagliano, E., 178.

Palmerston, H.J.T., 166. Pantaleoni, D., 40, 216. Parma, G., 132n. Pasolini, G., 219n. Paulet, H., 136n, 187, 188 e n. Peel, R., 19. Pennacchi, G., 201, 207. Peralta, B., 146. Pertici, R., 185n. Pianciani, L., 54. Pieri, P., 26n. Pietramellara, P., detto anche Mellara, 98. Pinto, M., 3n. Pinturicchio, pseud. di Bette, B. di, 167. Pio VI (Braschi, G.), papa, 6. Pio VII (Chiaramonti, B.N.M.L.), papa, 12. Pio VIII (Castiglioni, F.S.), papa, 14. Pio IX (Mastai Ferretti, G.M.), papa, 5, 6 e n, 7-11, 13-14, 15 e n, 16 e n, 17-19, 20 e n, 21-24, 26-30, 31 e n, 32-36, 40, 44, 46-47, 51, 54, 61, 63, 67, 72, 87-88, 114, 116-118, 124, 125 e n, 152, 156-160, 164-165, 197, 217224. Pirondi, P., 92n, 104n. Pisacane, C., 26n, 39, 83 e n, 84n, 85, 96n, 103 e n, 104, 105 e n, 106 e n, 107-108, 109 e n, 110n, 112n, 113n, 122, 132, 139, 142n, 144, 155, 190 e n. Polidori, L.F., 167, 193n. Polo Friz, L., 131n. Pompili Olivieri, L., 170n, 223n. Porzi, L., 174. Pouthas, Ch., 93 e n, 95n. Prini, P., 161n. Proudhon, P.J., 83, 102. Quadrio, M., 105n. Quazza, G., 47n, 164n. Radetzky, J.J., 79. Ramorino, P., 146. Rava, L., 21n. Ravenna, L., 44n. Rayneval, A.-G. de, 113, 164. Regnoli, O., 182. Rémusat, Ch.-M. de, 95 e n. Reni, G., 167. Reverso, L., 83n, 139n, 210n.

242 Reynolds, L.J., 51n. Riall, L., 148n. Ribotti di Molières, I., 11n. Ridley, J., 91n, 133n, 156n. Ridolfi, C., 18. Righetti, P., 3. Righetto, 175. Rizzi, F., 49n, 51n. Robespierre, M., 91. Rodelli, L., 4n, 16n, 39n, 189n, 191n, 192n, 193n, 196 e n, 199n, 206n. Romagnosi, G.D., 168. Romano, A., 84n, 104n, 105n, 122n. Romano, S., 58n. Romeo, R., 222n. Roncalli, N., 8n, 9n, 10 e n, 39n, 46n, 47n, 48n, 49, 50n, 51n, 90 e n, 91n, 92 e n, 107n, 121n, 128 e n, 131n, 150n, 167 e n, 174n, 175n, 177n, 206n, 213n, 215n, 216n, 218n. Roselli, P., 132, 141, 144, 153, 171, 182183, 190. Rosi, M., 175n. Rosmini Serbati, A., 14, 157-158, 159 e n, 160-161. Rosselli, N., 106 e n. Rossi, P., 3 e n, 4 e n, 10, 27, 29-30, 53, 65, 117, 157. Rousseau, J.-J., 126. Rusconi, C., 13n, 17n, 20n, 39, 41n, 53, 60 e n, 67, 80, 81n, 146n, 166 e n, 190n. Sacerdote, G., 112n, 133n, 175n, 178n, 191n, 194n, 211n. Saffi, A., 5, 31n, 37, 39, 53-54, 58n, 66, 78 e n, 81, 91 e n, 92 e n, 97, 98n, 105n, 123 e n, 182. Sala, A., 169 e n. Saliceti, A., 53, 66, 192, 198-199, 201202, 205-206. Salvatorelli, L., 16n. Salvatori, B., 206. Salvemini, G., 72n. Sand, G., pseud. di Dupin, A.A.L., 163n, 179n, 193n. Sandri, L., 39n. Sarti, R., 91n. Savini, S., 109. Scirocco, A., 133n. Sechi, S., 26n, 83n. Serpieri, E., 200.

Indice dei nomi Settembrini, L., 66n. Severini, M., 51n, 55n, 77n, 88n, 98n, 154n, 193n, 199n, 200n, 202n. Sghirla, V., 90. Sieyès, E.-J., 72. Silva, P., 166n. Sofri, S., 139n. Soglia Ceroni, G., 29 e n. Soldani, S., 50n. Sorba, C., 128n. Spada, F., 125. Spada, G., 6n, 9n, 36n, 44n, 48 e n, 49n, 50 e n, 60n, 61n, 62n, 66n, 72n, 90n, 102n, 115n, 117 e n, 118n, 119 e n, 120n, 127n, 142n, 152 e n, 172n, 175n, 176, 177n, 180 e n, 191n, 192n, 193n, 206n, 215n, 218n. Spadolini, G., 113n. Spaur, K., 5, 6n, 7, 9. Spellanzon, C., 6n, 47n, 49n. Spring, M., 171n. Staël-Holstein, A.-L.-G. de, 21 e n. Sterbini, P., 4 e n, 40, 42, 44, 53, 56, 58n, 67, 69, 91 e n, 173, 197-198. Stock, L.F., 118n. Story, E., 128n. Story, W.W., 82, 116n. Sturbinetti, F., 53, 93, 133, 153n, 193, 215. Tatti, M., 40n, 187n. Tempestoso, A.F., 10n. Teodonio, M., 124n, 125n, 126n. Themelly, M., 66n. Thiers, A., 94. Tobia, B., 70n. Tocqueville, A. de, 136 e n, 162, 163 e n, 164 e n, 165 e n, 167, 223n. Tommaseo, N., 12 e n, 14, 161. Torre, F., 34n, 47n, 50n. Traniello, F., 25n, 157n. Trebiliani, M.L., 9n, 10n, 60n. Trevelyan, G., 141n, 144n. Trivulzio, A., 152n. Ugolini, G., 154. Urbano VIII (Barberini, M.V.), papa, 143. Vaillant, J.-B.-P., 142. Valeri, G., 150.

Indice dei nomi Vecchi, C.A., 3n, 30n, 53, 59n. Ventura, G., 14, 159 e n. Venturi, F., 72n, 83n, 87n, 101n, 122n, 164n. Verdi, G., 51. Vetter, C., 77n. Vidotto, V., 70n. Vieusseux, G.P., 18. Villari, A., 21n. Viroli, M., 126n. Visconti Venosta, E., 184. Visconti Venosta, G., 184 e n.

243 Vittoria, regina d’Inghilterra, 33. Vittorio Emanuele II, re di Sardegna, 222. White Mario, J., 108n, 143 e n, 177n, 178n, 188n. Zama, P., 11n. Zambeccari, L., 88n, 103 e n. Zambianchi, C., 89-90, 91 e n, 92, 93n, 109 e n. Zavatti, G., 162n.

Indice del volume

La fuga del papa I. Due anni di speranze

3 11

Il papa «liberale»: attese e aspettative, p. 11 - Il riformismo sul soglio pontificio, p. 17 - L’abbandono della causa nazionale, p. 24

II.

Roma senza il papa

28

La fine del tentativo liberale, p. 28 - La diplomazia in azione, p. 31 - A Roma per la Repubblica, p. 39 - Si eleggono i rappresentanti del popolo, p. 43

III. Roma repubblicana

53

La Repubblica del 9 febbraio, p. 53 - La controffensiva del papato, p. 61 - Il disegno di Mazzini, p. 64 - In nome di Dio e del popolo, p. 65

IV. Fondare la nazione da Roma

74

Triumvirato vs Assemblea?, p. 74 - La minaccia della guerra, p. 82 - La conferenza di Gaeta, p. 86 - La violenza a Roma, p. 89 - Civitavecchia, 24 aprile: sbarcano i francesi, p. 93

V. L’inizio delle ostilità

100

«Gli italiani non si battono», p. 100 - Garibaldi: una risorsa e un problema, p. 103 - La battaglia del Gianicolo, p. 106 - I frutti amari della vittoria, p. 114 - Le donne della Repubblica, p. 116 - Bandiere rosse, p. 120 - Il pentimento del Belli, p. 124 - Roma si diverte, p. 126

VI. I giorni della tregua La grande illusione, p. 130 - La missione Lesseps, p. 133 - L’ira di Garibaldi, p. 138

130

246

Indice del volume

VII. Presagi di capitolazione

142

3 giugno. I francesi assaltano, p. 142 - Scene da un massacro, p. 145 - Le polemiche del giorno dopo, p. 149 - Roma sotto assedio, p. 152 - Gaeta al contrattacco, p. 156 - L’imbarazzo della diplomazia francese, p. 161 - La città dell’arte in pericolo, p. 165

VIII. La Repubblica si arrende

173

Il cerchio si stringe, p. 173 - Per «chiudere con serietà il quarantotto», p. 181 - Morte di un poeta, p. 185 - La Repubblica si arrende, p. 188

IX. L’ultimo atto della Repubblica romana

195

La Costituzione, p. 195 - La relazione Saliceti, p. 200 - L’assemblea discute, p. 202 - Una lezione di democrazia, p. 208 - Garibaldi in marcia, p. 210 - Le amarezze del triumviro, p. 212 L’ingresso dei francesi, p. 214 - Una restaurazione «reazionaria e imperita», p. 219

Fonti e bibliografia 225 Fonti inedite, p. 225 - Fonti edite, p. 225 - Studi, p. 229

Indice dei nomi 237